Resp Med 2/2020

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Aprile-Giugno 2020

Diritto e pratica clinica 2 RESPONSABILITÀ MEDICA

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ISSN 2532-7607

RESPONSABILITÀ MEDICA

Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Art. 2236 c.c. e responsabilità da Covid-19, di Mirko Faccioli Contagio da Covid-19 del personale sanitario e responsabilità datoriale, di Fabrizia Santini Contagio da Covid-19: infortuni sul lavoro e tutele assicurative , di Italo Partenza Contrasto a Covid-19 tra farmaci off label e sperimentazione clinica, di Francesca Cerea Violazione delle misure di contenimento del virus da Covid-19, di Giovanni Geremia

Aprile-Giugno 2020 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella

Pacini



INDICE Saggi e pareri Fabrizia Santini, Contagio da Covid-19 del personale sanitario e responsabilità datoriale.........pag. 125 Patrizia Ziviz, Art. 139 c. ass.: accertamento delle lesioni di lieve entità........................................» 135 Francesca Cerea, Strategie per il contrasto a Covid-19 tra farmaci off label e sperimentazione clinica................................................................................................................................................» 139 Italo Partenza, Contagio Covid-19: l’infortunio sul lavoro e le doverose tutele assicurative per i sanitari............................................................................................................................................» 145 Mirko Faccioli, Il ruolo dell’art. 2236 c.c. nella responsabilità sanitaria per danni da Covid-19.» 159 Italo Partenza, Il “cencio nero”.........................................................................................................» 167 Salvatore Aleo, Diritto penale e neuroscienze. Recenti modi di fare diritto...................................» 171 Giovanni Geremia, Covid-19: le contraddizioni del sistema sanzionatorio introdotto per chi viola le misure di contenimento del virus........................................................................................» 189

Dialogo medici-giuristi Roberto Pucella e Germano Bettoncelli, Brevi riflessioni sulla tragica esperienza da Covid-19: la prospettiva del giurista e del medico di medicina generale.......................................»

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Osservatorio medico-legale Giacomo Fassina, Guido Viel, Massimo Montisci, Riflessioni medico-legali sulla responsabilità professionale del medico in formazione specialistica......................................................................»

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Osservatorio normativo e internazionale Fanny Jacquelot, Il controllo di costituzionalità della legge francese di proroga dello stato d’emergenza sanitaria: alla ricerca dei limiti costituzionali perduti............................................» Giorgia Guerra, Profili di responsabilità del produttore di robot chirurgico nell’ordinamento americano..................................................................................................................................»

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Contagio da Covid-19 p del personale sanitario e responsabilità datoriale Fabrizia Santini

Professoressa nell’Università del Piemonte Orientale Sommario: 1. I numeri del contagio del personale sanitario. – 2. L’infezione da Covid-19 come rischio “ubiquitario”. – 2.1. L’obbligo di tutela e sicurezza del lavoro delle Aziende sanitarie nel periodo dell’emergenza. – 2.1.1. Le misure di prevenzione. – 3. Le sanzioni. – 4. Tra malattia ed infortunio, la fattispecie emergenziale.

Abstract: L’art. 29-bis del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, come convertito dalla l. 5 giugno, n. 40 esclude la responsabilità per i casi di contagio da Covid-19 delle aziende sanitarie che abbiano applicato e rispettato le misure precauzionali contenute nei Protocolli stipulati dalle parti sociali. E laddove questo non abbia potuto avvenire, in ragione della situazione di mercato o per le limitate disponibilità economiche, potrà essere invocata la teoria della inesigibilità o della non prevedibilità degli eventi. Neppure il riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro potrà assumere rilievo in sede civile o penale e comunque non è automatico, dovendosi sempre valutare le circostanze e le modalità dell’attività lavorativa per giungere ad una diagnosi di alta probabilità dell’origine lavorativa della infezione. Article 29-bis of Legislative Decree April 8, 2020, n. 23, converted into law june 5, 2020, n. 40 excludes liability for cases of infection by Covid-19 of healthcare companies that have applied and respected the precautionary measures contained in the Protocols stipulated by the trade unions. And where this has not been possible, due to the market situation or the limited financial resources, the bad debt theory or unpredictability of events may be invoked. Not even the recognition of the contagion as an accident at work will be relevant in

civil or criminal matters and in any case it is not automatic, since the circumstances and methods of work must always be assessed in order to reach a diagnosis of high probability of the infection’s work origin.

1. I numeri del contagio del personale sanitario Il numero dei contagi da Covid-19 degli operatori sanitari1 è stato in costante crescita dall’inizio dell’emergenza. L’Istituto Superiore della Sanità nel mese di maggio ha stimato 25.937 casi, per la maggioranza medici ospedalieri, il cui setting di infezione è stato quello dell’ospedale o del 1182. Di questi, sono deceduti 169 medici e 40 infermieri. Si tratta di numeri destinati ancora a crescere, per quanto impossibili da censire con esattezza. Sfugge al conteggio giornaliero il personale sanitario

L’Istituto Superiore di Sanità include tra gli operatori sanitari i medici ospedalieri, i medici di medicina generale/pediatri di libera scelta e altri medici, gli infermieri e ostetrici, gli operatori socio-sanitari, altri professionisti ed il personale amministrativo. 1

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I dati sono consultabili all’indirizzo: www.epicentro.iss.it.

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dimesso dagli ospedali ma soprattutto quello via via entrato in isolamento precauzionale. E mentre si procede con il piano straordinario di assunzioni3 e si discute in ogni Regione4 dei criteri per l’erogazione di un bonus, sul modello francese, per compensare il lavoro in emergenza, non si placano le polemiche legate alla (in)adeguatezza delle misure adottate per tutelare la salute e la sicurezza degli operatori. Le condizioni di lavoro non sono “ottimali”5, financo “pessime”6, hanno lamentato, fin dall’inizio dell’emergenza, ordini professionali e sindacati. Non si tratta solo del fatto che, in forza dell’applicazione dei provvedimenti adottati dal Governo, il personale sanitario è stato obbligato a lavorare nonostante fosse venuto a contatto con persone infette o presentasse sintomi da Covid-19. Vari sindacati, dei medici così come degli infermieri, hanno lamentato lo “sconcertante perdurare della mancanza di dispositivi di protezione individuale (dpi), come le mascherine ffp2, ma anche visiere e camici”; in altre parole, una adeguata protezione del personale chiamato a gestire l’emergenza che consentisse di esercitare il servizio istituzionale senza mettere a repentaglio la propria salute, quella degli altri pazienti e dei colleghi. Le dichiarazioni, ampiamente diffuse dai mezzi di comunicazione, portano con sé la denuncia di una precisa responsabilità per le infezioni contratte in capo alle Aziende sanitarie, datrici di lavoro, divenuta ben presto oggetto di esposti firmati un po’ da tutte le organizzazioni sindacali7 oltreché

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Disposto dal d.l. 9 marzo 2020, n. 14.

Al mese di giugno solo nove Regioni hanno sottoscritto un accordo con i sindacati per l’erogazione del bonus, sebbene con modalità e criteri differenziati: Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte (accordo solo con i sindacati del comparto), Puglia, Toscana, Umbria e Veneto. L’articolazione per Regione del bonus è consultabile all’indirizzo: www.quotidianosanita.it. 4

Cfr. la dichiarazione di Massimiliano Sciretti, Presidente dell’Ordine degli Infermieri del Piemonte. 5

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Cfr. la diffida Nurisng up del 18 marzo 2020, 2.

Così i sindacati dei medici della Sardegna: “Tutti gli operatori sanitari che possano dover venire a contatto con il pubblico devono essere provvisti di DPI proporzionati al 7

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Saggi e pareri

delle diffide presentate dall’Intersindacale della dirigenza medica e sanitaria8 e dal Nursing up. “La mancanza di dispositivi di protezione individuale e il costante trasferimento degli infermieri e degli operatori socio sanitari dai diversi reparti a quelli Covid-19 senza l’adeguata formazione ha prodotto non solo la morte di diversi medici ed operatori sanitari e socio sanitari, ma anche il contagio al Covid-19 di migliaia di operatori sanitari e […] ha provocato forme di contagio tra operatore e paziente e tra operatori nell’ambito dei vari servizi”, lamentano i sindacati9. Da ogni parte è arrivato il richiamo alle “Aziende Sanitarie” a “rispettare le disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2008 e all’art. 2087 c.c. in materia di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, mettendo a disposizione di tutti gli operatori sanitari in servizio i dpi necessari per garantirne la incolumità”.

rischio di contagio. Per quel riguarda le mascherine esse non possono essere di rango inferiore alle FFP2 per le fasce meno a rischio o alle FFP3 per le fasce a maggior rischio. […] Siamo ben consapevoli che le nostre proposte possono non essere allineate alle Indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità. Riteniamo però che le stesse Indicazioni siano eccessivamente minimaliste ed ispirate non a criteri scientifici validati ma piuttosto alla scienza del “di più non possiamo fare” e all’“etica” del “non ho abbastanza mascherine” piuttosto che all’etica della tutela della vita fisica dell’operatore e, conseguentemente del paziente. […] Si ribadisce inoltre l’assoluta necessità di eseguire i test diagnostici a tutto il personale sanitario e ai pazienti in entrata nei presidi ospedalieri e nei Servizi sanitari maggiormente esposti al rischio. Per tutte le ragioni sopraesposte saremo costretti a difendere i diritti dei nostri iscritti in sede civile e penale, in caso di qualsivoglia danno sopraggiunto in conseguenza della mancata adozione delle misure di massima cautela sopraesposte”, consultabile all’indirizzo: www.portale.fnomceo.it. ANAAO ASSOMED, CIMO-FESMED, AAROI-EMAC, FASSID (AIPA-ALIPID-SIMED-SINAFO-SNR), FVM Federazione Veterinari e Medici, CISL Medici, ANPO-ASCOTI-FIALS Medici. 8

Così il Segretario generale Fiasl-Confsal, Giuseppe Carbone, consultabile all’indirizzo: www.lageazzettadelmezzogorno.it, 20 aprile 2020. 9


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Contagio da Covid-19 e responsabilità datoriale

2. L’infezione da Covid-19 come rischio “ubiquitario” Il rischio di contagio da Covid-19 rientra tra i rischi specifici di natura biologica10 dell’attività del personale sanitario, categoria per cui il d.lgs. n. 81/2008 al titolo X prescrive apposite misure di sicurezza. La novità e peculiarità di questo rischio consiste purtuttavia nella sua duplice valenza: “interna” o “endoaziendale” ma anche “esterna” o “esoaziendale”. Ciò significa in altre parole che il rischio di contagio, per il personale sanitario, non è solamente un rischio connaturato alla prestazione, “endoaziendale” o “professionale” o “specifico”, a seconda di come lo si definisce, ma è oggi anche proprio del contesto ambientale. Con il che, il lavoratore viene ad esser esposto allo stesso modo al pericolo di contagio sia nell’esecuzione della prestazione che nello svolgimento delle attività quotidiane al di fuori dei locali aziendali. La promiscua natura del rischio ha ingenerato una produzione normativa composita, di misure di contenimento del virus allo stesso tempo di carattere generale, valevoli per tutta la popolazione e tutti gli ambienti, e specifico, per i lavoratori e nei luoghi di lavoro, sfociata in un framework normativo complesso e di non sempre agevole lettura11 che, stratificandosi, si va a sovrapporre alla disciplina già in vigore in materia di salute e sicurezza del lavoro.

La direttiva 2020/739/Ue del 3 giugno 2020 ha inserito nell’allegato III della direttiva 2000/54/CE, nella tabella relativa ai VIRUS (Ordine «Nidovirales», Famiglia «Coronaviridae», Genere «Betacoronavirus») la voce «Sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus (virus SARS)» e «Sindrome respiratoria medio-orientale da coronavirus (virus MERS)», determinando altresì l’aggiornamento dell’allegato XLVI del d.lgs. n. 81/2008 ove SARS e MERS vengono classificate al gruppo III (un agente che può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori; l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche).

La normativa dell’emergenza, in altre parole, non sostituisce la disciplina ordinaria, vi corre parallela e la integra, chiamando il datore di lavoro in nome dell’emergenza ad adottare una serie di soluzioni organizzative e di dispositivi di protezione al fine di uniformare il livello di rischio interno ai luoghi di lavoro al livello presente all’esterno12. Di qui, il profilarsi di spazi di responsabilità per la mancata o scorretta adozione, a livello organizzativo e strutturale, delle misure preventive atte a scongiurare il rischio della diffusione del virus all’interno del luogo di lavoro e, di conseguenza, per l’infezione e, nei casi più gravi, la morte del sanitario. 2.1. L’obbligo di tutela e sicurezza del lavoro delle Aziende sanitarie nel periodo dell’emergenza Il primo problema emerso, relativo alla vincolatività delle regole cautelari di carattere non legislativo e talora non immediatamente precettivo fino ad oggi emanate per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 (le raccomandazioni contenute nei diversi DPCM e nel Protocollo delle Parti sociali del 14 marzo 2020 e suo addendum per la Sanità, i Servizi Sanitari e Socio Assistenziali del 24 marzo 2020, la cd. normativa emergenziale) può dirsi risolto con il d.l. n. 19/202013, che le ha “tradotte in norme vincolanti”. Per quanto concerne i luoghi di lavoro, tali misure avrebbero purtuttavia potuto essere comunque ricondotte, sul piano della precettività/

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Per una ricostruzione della complessa e opaca sequenza, cfr. Cavino, Covid-19. Una prima lettura dei provvedimenti del Governo, in Federalismi.it, Paper Osservatorio Covid-19, 18 Marzo 2020, 3 ss. 11

La dottrina si è divisa in merito alla necessità o meno di aggiornamento del Documento di valutazione dei rischi in modo da contemplare anche il rischio biologico da Covid-19 per quanto riguarda le aziende non sanitarie. Le realtà aziendali in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici, quali i laboratori di ricerca, o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta, le strutture sanitarie, sono invece tenute ad un aggiornamento del DVR, come confermano l’ordinanza del Presidente della Giunta della Regione Lazio del 6 marzo 2020 e del Presidente della Giunta della Regione Abruzzo del 9 marzo 2020, n. 3. 12

Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in Dir. sic. lav., 2019, 109. 13

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obbligatorietà, all’obbligo di sicurezza datoriale, ed al relativo apparato normativo di tutela14, già con riferimento all’art. 2087 c.c., nella parte in cui dispone che “il datore di lavoro è tenuto ad adottare misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all’esperienza e alla tecnica. Nell’ambito poi delle fonti integrative degli obblighi cui lo stesso d.lgs. n. 81/2008 fa espresso riferimento, nelle norme sulle definizioni, all’art. 2, il legislatore richiama le “buone prassi”15 e le “linee guida”, cui si potrebbe ricondurre il complesso apparato normativo di origine governativa. La diligenza, infine, richiesta al datore di lavoro, dovrebbe in generale indurlo a fare tutto ciò che è opportuno e possibile per adeguare l’organizzazione aziendale e del lavoro al nuovo rischio e ridurre il contagio; ed i diversi Protocolli emergenziali la declinano in una serie di regole di cautela individuate con il contributo di diverse parti. Concludendo, a fronte di un rischio biologico generico che minaccia la salute pubblica, la pubblica autorità lo rileva, ne dà comunicazione, indica le misure per prevenirlo e farle osservare. Ad esse il datore di lavoro si dovrà adeguare non solo per tutelare un interesse pubblico generale da altri valutato, potendo anche le sue azioni riverberare effetti sulla popolazione esterna16, ma soprattut-

Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 413/2020, 10. 14

In questo senso Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, cit., 120. Secondo la definizione datane dall’art. 2, lett. v, d.lgs. n. 81/2008 si intendono per tali “soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro”. 15

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Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, cit., 103.

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Saggi e pareri

to, come si vedrà poco oltre, in ottemperanza al dovere di salvaguardare la salute e sicurezza dei propri dipendenti. 2.1.1. Le misure di prevenzione In ragione del rischio principale determinato dal contagio del virus per via aerea, la misura generale di prevenzione è costituita dal “distanziamento sociale” e, laddove e qualora tale distanziamento non sia possibile, l’adozione di una organizzazione e delle misure igienico sanitarie volte a prevenire o ridurre al minimo il contagio. La mera fornitura dei dpi può essere considerata una misura efficace per la protezione dell’operatore sanitario solo all’interno di un più ampio insieme d’interventi che comprenda controlli amministrativi e procedurali, ambientali, organizzativi e tecnici del contesto assistenziale. Soffermandoci per un attimo sulla questione dei dpi necessari a tutelare la salute degli operatori, non sfugge una forzatura del sistema ordinario di tutela del d.lgs. n. 81/2008 ad opera del legislatore dell’emergenza, finalizzata invero a contemperare le esigenze di salute (soprattutto collettiva piuttosto che individuale, viene fin d’ora da precisare) con le difficoltà di approvvigionamento del mercato. Tutti gli operatori a rischio sono stati protetti ma una protezione integrale, di tipo cautelativo, anche oltre l’effettivo rischio potenziale, per tutti coloro che operano in ospedale è risultata incompatibile con la disponibilità, sul mercato, di materiali a sufficienza17.

17 Sebbene fin dal 2 febbraio 2020, l’European centre for disease prevention and control avesse pubblicato i rapporti tecnici sulla “Prevenzione e controllo delle infezioni per l’assistenza ai pazienti con 2019-nCoV nelle strutture sanitarie” e sul “Fabbisogno di dispositivi di protezione individuale (Dpi) delle strutture sanitarie per l’assistenza ai pazienti con 2019-nCoV sospetti o confermati”, con i quali venivano date indicazioni sulle misure e sulle risorse utili a ridurre il rischio di trasmissione di 2019-nCoV in ambienti sanitari e laboratori nell’Eu/Eea. Gli stessi documenti esortavano le autorità di sanità pubblica “a pianificare forniture sufficienti di Dpi per i loro operatori sanitari e a garantire che vi siano anche in atto le procedure per assicurare la capacità di intervento”.


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Contagio da Covid-19 e responsabilità datoriale

Ci si è trovati innanzi ad una epidemia dislocata in varie aree mondiali, di incerta durata, con difficoltà ad individuare un fabbisogno certo di dpi, ma anche tempi e modalità di approvvigionamento. Rispetto ai diversi dpi necessari, sono divenute oggetto di un vivace dibattitto, fin dall’inizio dell’emergenza, le “mascherine”, cui è stato dedicato un complesso articolato18, che non è andato esente da censure da parte sia del mondo sindacale che scientifico. In particolare, il Protocollo concluso dal Governo e dalle Parti sociali, del 14 marzo 2020 “di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus SARSCoV-2 negli ambienti di lavoro”, indica le misure atte a garantire “adeguati livelli di protezione” dei lavoratori con esplicito riferimento “qualora non sia possibile il rispetto della distanza minima” alla “fornitura di appositi DPI (mascherine e altri dispositivi quali guanti, occhiali, tute, cuffie, camici, ecc…) conformi alle disposizioni delle autorità scientifiche e sanitarie”. Il Protocollo aggiunge poi, “data la situazione di emergenza,

Muoviamo dalla circolare del Ministero della Salute 0005443-22/02/2020, Covid-19. Nuove indicazioni e chiarimenti, secondo cui “Il personale sanitario in contatto con un caso sospetto o confermato di Covid-19 deve indossare DPI adeguati, consistenti in filtranti respiratori FFP2 (utilizzare sempre FFP3 per le procedure che generano aerosol), protezione facciale, camice impermeabile a maniche lunghe, guanti”. A breve distanza purtuttavia, il d.l. 2 marzo 2020, n. 9, ed in particolare dall’art. 34, ultimo co. dispone che “In relazione all’emergenza di cui al presente decreto, in coerenza con le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e in conformità alle attuali evidenze scientifiche, è consentito fare ricorso alle mascherine chirurgiche, quale dispositivo idoneo a proteggere gli operatori sanitari; sono utilizzabili anche mascherine prive del marchio CE previa valutazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità”. La norma radica la pericolosa convinzione secondo cui dovrebbe ritenersi assolto l’obbligo di sicurezza a tutela dei sanitari facendo loro indossare le mascherine – chirurgiche – come dpi. Questa disposizione, sicuramente più attenta alle difficoltà di mercato che alle specificità tecniche del dispositivo, confonde due profili fondamentali: evitare di diffondere il virus (per cui serve la maschera chirurgica – DM o Dispositivo medico) e proteggere l’operatore dal virus (per cui serve la maschera di protezione delle vie respiratorie – DPI di terza categoria). 18

in caso di difficoltà di approvvigionamento e alla sola finalità di evitare le diffusione del virus, potranno essere utilizzate mascherine la cui tipologia corrisponda alle indicazioni dall’autorità sanitaria” (art. 6, lett. b). Affiora nel documento la consapevolezza che le mascherine chirurgiche, che il legislatore invita ad utilizzare, sono funzionali ad evitare la diffusione del virus piuttosto che alla tutela della salute dell’operatore, cui devono essere forniti adeguati dpi. Ma a fronte della perdurante situazione di mercato, interviene il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, che all’art. 34 precisa: “per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all’articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall’articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”. L’effetto della norma è almeno uno: le mascherine chirurgiche vengono elevate per decreto al rango di dpi ed il datore di lavoro che le abbia fornite ha adempiuto, almeno in parte, alla fornitura dei dpi necessari a contenere il rischio biologico19. Questo almeno per quanto concerne i settori diversi dalla Sanità. L’addendum al Protocollo del 14 marzo “Protocollo per la prevenzione e la sicurezza dei lavoratori della Sanità, dei Servizi Socio Sanitari e Socio Assistenziali in ordine all’emergenza sanitaria da Covid-19” del 24 marzo 2020, richiede infatti che vengano forniti dpi “nella quantità adeguata e con rispondenza degli stessi ai requisiti tecnici necessari a tutelare la salute sia dei professionisti ed operatori che dei cittadini”, così intervenendo a correggere l’errore in cui era incorso il d.l. n. 9/2020. Il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, ISS Covid-19, n. 2/2020 del 28 marzo conclusivamente riporta le indicazioni per un utilizzo razionale

In questo senso anche le linee guida “Covid-19 – Chiarimenti sull’uso di mascherine medico-chirurgiche e dispositivi di protezione individuale”, dell’Aidii (Associazione italiana degli igienisti industriali). 19

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delle protezioni per le infezioni da SARS-CoV-2 nelle attività sanitarie e sociosanitarie (assistenza a soggetti affetti da Covid-19). Il rapporto conferma l’obbligo di indossare le mascherine chirurgiche in caso di sintomi e sospetto contagio precisando che, in quanto atte a riparare l’operatore da schizzi e spruzzi “rappresentano una protezione sufficiente nella maggior parte dei casi”, una protezione, da schizzi e spruzzi, non un dpi. Pur nella consapevolezza della situazione di carenza di disponibilità di dpi, a massima tutela della salute degli operatori sanitari esposti a condizioni di rischio aumentato, l’ISS “raccomanda di garantire sempre un adeguato livello di protezione respiratoria per gli operatori sanitari esposti a più elevato rischio professionale”, con ciò richiamando all’uso delle mascherine ffp2 e ffp3. Si potrebbe allora affermare che nei settori diversi dalla Sanità, laddove il rischio biologico è generico, la mascherina serve a garantire la protezione del lavoratore, l’altro rispetto a chi la indossa, per far sì che l’ambiente di lavoro, esposto ad un rischio riflesso di contagio, non sia il luogo di trasmissione del virus. Ed in questo senso sembra andare il secondo Protocollo nazionale siglato il 24 aprile che, in vista della ripresa delle attività, conferma le linee del precedente con la sola precisazione che “è previsto per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni, l’utilizzo di una mascherina chirurgica, come del resto normato dal d.l. 9 (art. 34) in combinato con il d.l. n. 18 (art. 16, c. 1)”. In questo caso infatti il rischio di contagio non è un rischio che nasce nell’organizzazione del datore di lavoro ma “approfitta” dell’organizzazione e del complesso sistema di relazioni personali su cui essa si regge per manifestarsi e diffondersi stante la concentrazione e la contiguità delle persone che vi operano. Il sistema di prevenzione aziendale diviene servente rispetto al soddisfacimento di esigenze che trascendono non solo la tutela del singolo lavoratore ma addirittura il mero ambito aziendale. E proprio per questo motivo forse la definizione delle misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza è divenuta oggetto di un Protocollo di sicurezza anti-contagio condivisa e partecipata da tutti gli attori, per indicare che il “bene comune” in gioco è la salute dei lavoratori e per il loro tramite di Responsabilità Medica 2020, n. 2

Saggi e pareri

tutta la popolazione20. A fronte infatti di un fattore biologico esogeno all’organizzazione produttiva in cui è inserito il lavoratore, l’attività lavorativa non è che una mera occasione non qualificata per la realizzazione dell’evento di danno cui quel rischio è sotteso. Nel settore sanitario, laddove il rischio biologico è invece specifico, significativamente le parti sociali non parlano più di mascherine, ma in termini generali di dpi. La categoria dei dpi viene infatti definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione dei lavoratori dai rischi per la salute e sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte21. L’ambiente di lavoro comporta in questo caso un significativo e qualificato innalzamento dei livelli di esposizione a un certo pericolo che è il rischio specifico di questa attività. In altre parole, l’attività lavorativa, intesa sia come condizioni di lavoro che come mero contesto ambientale in cui viene a svolgersi la prestazione, comporta un innalzamento del livello di esposizione al rischio rispetto a quello “socialmente accettato” nella comunità cui appartiene il lavoratore, da cui il datore di lavoro, nella posizione di controllo che lo caratterizza ai sensi dell’art. 2087 c.c., è tenuto a proteggere i lavoratori. Il datore di lavoro è chiamato, dall’art. 2, lett. n) del d.lgs. n. 81/2008, alla “prevenzione” di tali rischi, da intendersi come il “complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”. Il datore di lavoro sarà dunque tenuto al rispetto delle misure, da un lato, della legislazione emergenziale, dall’altro, della disciplina generale in tema di rischio biologico, ai sensi della quale devono considerarsi dpi quelli che posseggono le caratteristiche definite dell’art. 77, comma 3°, che a sua volta richiama le condizioni di legittimità

20

Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, cit., 107.

Cass., 15 ottobre 2019, n. 26026; Cass., 16 ottobre 2019, n. 26217. 21


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Contagio da Covid-19 e responsabilità datoriale

del d.lgs. n. 475/1992; in sostanza, le sole mascherine ffp2 e ffp3.

3. Le sanzioni La mancata osservanza delle misure indicate dal complesso normativo della legislazione emergenziale è sanzionata amministrativamente ai sensi dell’art. 4 del d.l. n. 19/2020, “salvo che il fatto costituisca reato”22. La normativa dell’emergenza prende in questo caso il sopravvento sulla disciplina complementare del T.U. – secondo l’art. 4, comma 8° “Le disposizioni del presente articolo sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative” – per espressa volontà legislativa. Questo non vale purtuttavia per la fornitura dei dpi, il cui sistema sanzionatorio è e resta prevalentemente di natura penale. La mancata fornitura dei dpi, secondo la disciplina generale, viene sanzionata dall’art. 87, comma 2° lett. d), d.lgs. n. 81/2008, che, per la violazione dell’art. 77, commi 3° e 4°, secondo cui il datore di lavoro deve consegnare ai lavoratori Dpi che siano “adeguati ai rischi da prevenire” e “adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro”, dispone l’arresto o l’ammenda23.

È del tutto inedito che il legislatore da un lato inserisca la clausola di riserva a favore dell’illecito penale (che ha lo scopo di evitare che prevalga l’illecito amministrativo, a norma del criterio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981) e, contestualmente, stabilisca che non si applichino gli illeciti penali che potrebbero in astratto configurarsi. Sul piano del drafting normativo, l’espressione “non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale” appare inusuale ed ambigua: presa alla lettera, sembra voler escludere le sole sanzioni e non anche il reato. In verità, pare che con tale espressione il legislatore abbia voluto assicurarsi di evitare l’applicazione dell’art. 650 c.p. (fattispecie contravvenzionale che fino all’entrata in vigore dell’ultimo decreto-legge sanzionava la violazione delle prescrizioni adottate per il contenimento dell’epidemia) e di impedire l’operatività di qualsivoglia fattispecie incriminatrice che operi un rinvio quoad poenam allo stesso art. 650 c.p. 22

Tali ipotesi di reato sono comunque estinguibili mediante oblazione in sede amministrativa con il pagamento di una somma pari ad un quarto del massimo della ammenda (D. Lgs. 758/94) o dinanzi al Giudice Penale con il pagamento una sanzione pecuniaria pari ad un terzo (art. 162 c.p.), o 23

La mancata dotazione delle mascherine chirurgiche fatica invero trovare una sicura sanzione perché l’art. 87, comma 2° lett d), sanziona la mancata consegna dei dpi che siano conformi, ex art. 76, alle prescrizioni del d.lgs. n. 475/92. E le mascherine chirurgiche non sono conformi. Mentre la violazione della fornitura dei dpi, o delle mascherine chirurgiche laddove le si possa considerare dpi, dovrebbe essere sanzionata ex art. 18 comma 1°, let. d) secondo il disposto dell’art. 55, comma 5°, lett. d). Le ipotesi di cui si discute non esauriscono purtuttavia il complesso sistema sanzionatorio degli inadempimenti agli obblighi datoriali in materia di salute e sicurezza del lavoro. In caso di contagio di un operatore sanitario vi è il rischio per il datore di lavoro di incorrere nella più grave responsabilità penale per i reati di lesioni personali gravi/gravissime (art. 590 c.p.) o di omicidio colposo (589 c.p.), aggravati dalla violazione delle norme antinfortunistiche; il che dischiuderebbe le porte anche all’applicazione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al d.lgs. n. 231/2001, art. 25-septies24. Rischio parso non così remoto, soprattutto a fronte dei primi ricorsi25, da giustificare numerosi emen-

alla metà (art. 162-bis c.p.), del massimo della pena prevista per la singola violazione. Da ricordare inoltre che il sistema di prevenzione delineato dal d.lgs. n. 81/2008, nell’entrare in gioco nel contesto degli obblighi di prevenzione, non trascura di delineare gli obblighi di prevenzione gravanti sul lavoratore. L’art. 20, comma 1°, dispone che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni ed omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore”. Se la violazione di tale previsione non è punibile penalmente ai sensi dell’art. 59, non manca chi ne ravvisa una responsabilità sul piano disciplinare considerando che, in attuazione di specifiche misure di prevenzione poste dalla pubblica autorità, nessuno può eccepirne la non conoscenza. 24

Sulla scorta anche delle azioni intentate, in diverse Regioni d’Italia, da alcuni studi legali che hanno sollecitato le persone risultate positive al virus a fare causa ai medici per le infezioni ospedaliere o per il supposto trattamento errato dei pazienti che poi sono deceduti. Così il Segretario Generale della UIL-FPL: “in questi giorni i medici stanno vivendo sulla 25

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damenti26 alla conversione del d.l. n. 18/2020 con la finalità di escludere non solo la responsabilità degli operatori medici e sanitari per tutto il periodo della emergenza ma, dirigendosi al personale di vertice, anche la responsabilità (variamente declinata, in sede penale, civile, amministrativa e di rivalsa) dei “datori di lavoro”, “dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria”, degli “amministratori” e delle “strutture sanitarie e sociosanitarie”. La richiesta è partita dall’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop), dalla Federazione italiana aziende sanitarie ed ospedaliere (Fiaso) e Federsanità che hanno rivolto un’istanza unitaria del mondo sanitario e delle direzioni strategiche affinché venga stabilito “il punto di equilibrio tra la regola di responsabilità e la necessità di consentire al professionista e alle strutture, pubbliche e private, di affrontare con coraggio, e senza timori, lo stato di emergenza in atto”. Lo “scudo” invocato da più parti non è andato fin da principio esente da critiche. Non si tratta solo del fatto, opposto dai sindacati di categoria, che le strutture sanitarie avrebbero finito per essere deresponsabilizzate nei confronti degli stessi operatori sanitari contagiati o deceduti. La previsione di una presunzione iuris et de iure non avrebbe comunque potuto impedire l’accer-

propria pelle un vero e proprio sciacallaggio, con un aumento sproporzionato delle denunce per malasanità. […] L’aumento così consistente delle denunce ha portato gli stessi medici a chiedere una sorta di moratoria e anche il Consiglio Nazionale forense ha preso le distanze dal comportamento di alcuni avvocati che cercano di lucrare sull’emergenza coronavirus. […] I numeri delle denunce mostrano un vero e proprio sciacallaggio in atto e il dramma di migliaia di persone non deve trasformarsi in un’occasione per facili guadagni da parte di dubbi professionisti. Per questo chiediamo un immediato intervento legislativo per mettere in sicurezza i medici ed i professionisti sanitari italiani ed evitare speculazioni”. Ed Il Consiglio nazionale forense assicura – si legge in una nota del 1° aprile 2020 – alla Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri «l’attenta e forte vigilanza di tutte le istituzioni forensi nell’individuare e sanzionare i comportamenti di quei pochi avvocati che intendono, speculare sul dolore e le difficoltà altrui, nel difficile momento che vive il nostro Paese». Cfr. http://senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/350698. pdf. 26

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Saggi e pareri

tamento della colpa che deve essere svolto necessariamente in concreto, così come l’instaurazione di un procedimento penale. Inoltre, in tema di infezione da Covid-19 negli ambienti lavorativi, uno “scudo” tarato sulla colpa avrebbe finito per indurre a presumere la sussistenza di un nesso di causalità tra contagio e esposizione sul luogo di lavoro, che dovrebbe in senso affatto contrario essere negata, data l’elevata probabilità logica che esista più di una occasione di contagio alternativa. Il legislatore ha dunque optato per un intervento di diverso tenore e nel convertire il d.l. 8 aprile 2020, n. 23, ha aggiunto un art. 29-bis (obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19) secondo cui “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste”. La previsione ad una prima lettura parrebbe scontata e come tale inutile. Non ritocca la teoria della colpa, non incide sulla tipicità dei reati, non modifica assetti di tutela preesistenti. Una analisi più attenta ci consente di rilevare però la reale portata dell’intervento. Con l’art. 29-bis il legislatore cristallizza le regole di cautela contenute nei Protocolli quali parametri ai sensi dei quali dovrà essere valutata una eventuale colpa del datore di lavoro; individuate ad un dato momento storico, esclude una volta per tutte che una futura valutazione della condotta datoriale possa avvenire sulla base di regole acquisite successivamente, con il progredire della conoscenza del virus. Il rispetto di queste stesse prescrizioni, per espressa previsione normativa, realizza poi l’adempimento dell’obbligazione di cui all’art. 2087 c.c., esaurendo i doveri incombenti sui datori di lavoro ed escludendo eventuali responsabilità in


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Contagio da Covid-19 e responsabilità datoriale

capo alle strutture sanitarie in caso di contagio o morte del sanitario. È noto purtuttavia che non tutte le misure previste nei protocolli hanno potuto essere adottate in ambito sanitario. Il problema principale posto dalla pandemia è quello della sproporzione tra le risorse umane e materiali disponibili ed il numero dei pazienti su cui è stato necessario intervenire in un brevissimo periodo di tempo. Se la situazione di mercato non ha consentito un adeguato approvvigionamento di dpi, la scarsità di risorse economiche, d’altro canto, non ha consentito una adeguata risposta anche in termini organizzativi all’emergenza. Ma è proprio in ragione di tali difficoltà oggettive che non si può far altro che escludere la responsabilità penale della dirigenza per i contagi del personale sanitario. Il diritto penale, in questa prospettiva, potrà assestarsi su due diverse teorie: da un lato, l’inesigibilità della condotta, che porta ad escludere la colpa di chi non poteva agire diversamente; dall’altro l’imprevedibilità/inevitabilità in concreto degli eventi. Alla base di entrambe valgono purtuttavia le stesse considerazioni. Dal mese di gennaio al mese di marzo le strutture sanitarie sono state chiamate a gestire una situazione di grave incertezza, nella impossibilità di procurarsi i dpi necessari a causa della scarsità sul mercato e a circoscrivere un rischio pressoché sconosciuto con un incremento costante ed incontrollato di pazienti su cui intervenire. A fronte di una attività indifferibile e necessaria quale è quella sanitaria, in un momento emergenziale per di più, esclusa la possibilità di sospendere l’erogazione del servizio, la domanda cui non è possibile trovare una risposta resta questa: quale altra condotta sarebbe stata possibile?

4. Tra malattia ed infortunio, la fattispecie emergenziale L’art. 42, comma 2° del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, dispone che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL

che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato […] I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa”. Investito dal legislatore del compito di valutare le istanze di lavoratori e famigliari, l’Inail, con la nota anch’essa del 17 marzo 2020, ha confermato i contagi Covid-19 del personale sanitario quali infortuni sul lavoro. La definizione contenuta nel D.P.R. 1124/1965, all’art. 2, qualifica l’infortunio come l’evento “occorso per causa violenta” – che, nei casi Covid-19, deve identificarsi nell’azione lesiva insita nella virulenza dell’agente27 – “in occasione del lavoro dal quale sia derivata la morte del lavoratore, un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale o un’inabilità temporanea assoluta che comporti l’astensione dal lavoro per più di tre giorni”. L’intervento del legislatore dell’emergenza si colloca invero sulla scia di un orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di affezioni morbose che derivino da agente patogeno estrinseco di natura virulenta ma anche delle Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail n. 74 del 23 novembre 1995. La tutela, come chiarito dalla circolare Inail del 3 aprile 2020, n. 13 è indirizzata agli operatori sanitari28 esposti ad un elevato rischio di contagio, ed è celere e certa, non gravando su di essi l’onere probatorio della contrazione della malattia in “occasione lavorativa” grazie all’operatività di una presunzione semplice di riconduzione del contagio al rischio professionale specifico dell’attività.

In questo senso già la Cass., 31.10.1921, poi ex lege dall’art. 2, r.d. 1765/1935. 27

La norma, con il richiamo all’art. 5 del d.lgs. n. 38/2000, esclude dall’ambito soggettivo di tutela i medici e gli infermieri professionali che prestano la propria attività con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. In altre parole, la norma esclude tutti i medici di base e tutti i medici e gli infermieri che l’Inail, ai sensi dell’art. 10 del d.l. 18/2020 è autorizzato ad assumere nonché tutti gli operatori sanitari che hanno risposto all’appello della Protezione civile e dato la disponibilità a prestare la propria opera presso le strutture sanitarie e presso le residenze assistite in condizioni di criticità. 28

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È la giurisprudenza ad aver mutuato dall’art. 2729 c.c. il principio di presunzione semplice d’origine29 in virtù del quale il procedimento presuntivo può essere invocato “sia in merito alla natura infettante di un evento lesivo indicato come occasione di lavoro e fonte del contagio, sia sull’accadimento dell’evento stesso”. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia percepito o non possa essere provato dal sanitario, si può comunque presumere che lo stesso si sia verificato in considerazione delle mansioni e di ogni altro indizio che in tal senso deponga30. Il riconoscimento dell’origine professionale del contagio, si fonda, in conclusione, su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio. Devono dunque essere tenuti distinti i presupposti per l’erogazione dell’indennizzo Inail per contagio da Covid-19 dai presupposti per la responsabilità penale e civile, da accertarsi con i diversi criteri di cui si è trattato nel paragrafo precedente, diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative. Che i due regimi siano affatto coincidenti è ribadito dalla circolare dell’Inail del 20 maggio 2020, n. 22 secondo cui dal riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte dell’Inail non discende automaticamente il riconoscimento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro. Con ciò risolvendo un punto particolarmente controverso generato dall’intervento normativo. L’iscrizione al registro Inail dell’“infortunio” apre infatti, nei casi meno gravi, alla richiesta di risarcimento del danno differenziale, dal momento che il danno patrimoniale non viene mai integralmente coperto dall’Inail, e del danno biologico31.

Saggi e pareri

Mentre, nei casi più gravi, carica il datore di lavoro di una responsabilità penale e, quando è mortale, anche l’Azienda, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. Con il che i primi commentatori hanno ravvisato nell’intervento normativo, alternativamente, l’introduzione di una nuova fattispecie di reato, una estensione dell’ambito di responsabilità penale del datore di lavoro, una forma di responsabilità oggettiva incolpevole, difficilmente superabile, anche qualora il datore di lavoro dimostrasse di aver adottato tutte le misure necessarie ad evitare il contagio. Il criterio della verosimiglianza dell’accadimento dell’evento nel posto di lavoro è stato ritenuto fin da subito eccessivo nel senso di trattare un fatto che comunque è incerto, in primo luogo per la natura ubiquitaria del rischio, quale fondamento di un sistema normativo improntato alla certezza. Sempre la circolare n. 22 si affretta a precisare altresì che la disposizione normativa non determina alcun automatismo, neppure ai fini dell’ammissione a tutela dei casi denunciati da parte dell’Inail. Quest’ultimo dovrà sempre valutare le circostanze e le modalità dell’attività lavorativa da cui sia possibile trarre elementi gravi per giungere ad una diagnosi di alta probabilità, se non di certezza, dell’origine lavorativa della infezione. Le precisazioni fornite dall’Inail, come del resto quella prima lettura dell’art. 29-bis secondo cui la norma avrebbe utilizzato istituti classici della disciplina previdenziale solo apparentemente, in una torsione extra-ordinem di autolegittimazione derivante dallo stato di emergenza, consentono di realizzare una equilibrata convivenza tra le regole di responsabilità delle strutture, pubbliche e private, e la gestione dello stato di tensione generata dal fatto eccezionale. La Corte Costituzionale ha sempre ammesso d’altro canto che a fronte di gravissime emergenze sarebbe anche consentita l’adozione di misure “insolite”, purché temporalmente limitate32.

Cfr. le pronunce di Cass., 25.7.1991, n. 8058 e Cass., 13.3.1992, n. 3090. 29

30

In questo senso la stessa nota Inail del 17 marzo 2020.

In merito alle eventuali conseguenze di “danno biologico” di carattere permanente, indennizzabili una tantum o con rendita, allo stato attuale poco o nulla si conosce circa 31

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i postumi di Covid-19 per cui ogni tipo di valutazione e di identificazione causale andrebbe posticipata. 32

Corte cost., 14.4.1995, n. 127.


i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Art. 139 c. ass.: accertamento p delle lesioni di lieve entità Patrizia Ziviz

Professoressa nell’Università di Trieste

Abstract: La Cassazione – in contrasto con le indicazioni restrittive provenienti dalla Corte costituzionale – conferma l’interpretazione dell’art. 139, comma 2°, c. ass., in materia di accertamento della lesione di lieve entità, volta a non ritenere vincolante un referto di carattere strumentale. The Italian Supreme Court – in contrast with the restrictive indications coming from the Constitutional Court – confirms the interpretation of Article 139, paragraph 2, of the Italian Code of Private Insurance, concerning the assessment of minor injuries, aimed at not considering a diagnostic test as binding.

Nel campo dei sinistri stradali e della responsabilità sanitaria, il risarcimento del danno biologico permanente risulta disciplinato, sotto al profilo della prova, dall’art. 139, comma 2°, c. ass.: norma secondo cui “le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali le cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l’ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”. Sulla questione della prova della lesione di lieve entità si registra un vivace dibattito fin dal primo intervento, sul punto, da parte del legislatore, attraverso l’art. 32 del d.l.

24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni da l. 24 marzo 2012, n. 27. Rammentiamo che quest’ultima disposizione ha previsto: a) l’integrazione – tramite il comma 3-ter – del comma 2° dell’art. 139 c. ass., con la specificazione secondo cui “in ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”; b) la previsione, con l’autonomo comma 3 quater, che “il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’art. 139 è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”. Si tratta di un testo legislativo che è stato fatto oggetto di infinite discussioni, in parte legate alla circostanza che al suo interno sono confluiti due emendamenti originariamente formulati quali previsioni alternative tra loro: di qui la difficoltà di coordinamento e di individuazione della concreta regola da applicare. Le indicazioni normative in materia di prova sono state oggetto di letture ambivalenti – che hanno visto fronteggiarsi i massimi vertici giurisprudenziali. La Cassazione è apparsa propensa a una lettura ampia di quelle norme, ritenute espressive della necessità che il danno biologico sia suscettibile di accertamento medico-legale, esplicando entrambe “(senza differenze sostanziali tra loro) i criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della medicina legale (ossia il visivo-clinico-strumentale non gerarchi-

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camente ordinati tra loro, né unitariamente intesi, ma da utilizzarsi secondo la leges artis)”1. Su una posizione restrittiva si è collocata la Corte costituzionale, orientata a ritenere che il comma 3-ter ponga quale condizione per il ristoro del danno biologico permanente un accertamento diagnostico (della lesione da cui è stato originato) per immagini, mentre il comma 3-quater consenta di procedere a un riscontro visivo per quanto riguarda l’esistenza della lesione fonte di danno biologico temporaneo. I giudici della Consulta hanno espresso tale posizione inizialmente in seno a un obiter2, cui si è allineata una successiva ordinanza3, ove si riconosce la ragionevolezza delle limitazioni poste in materia di accertamento della lesione, ai fini del ristoro del danno biologico permanente, onde impedire che la discrezionalità giudiziale finisca per consentire la tutela risarcitoria a fronte di postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati. Va osservato come i giudici costituzionali ammettano che un pregiudizio alla salute possa essere sottratto alla tutela risarcitoria: non si nega che – anche in assenza di accertamento visivo o strumentale della lesione – un danno effettivamente esista, ma, per evitare il rischio che lo stesso venga enfatizzato se non addirittura simulato dalla vittima del sinistro, si esclude la relativa risarcibilità, onde evitare il ristoro di pregiudizi inesistenti che graverebbero sul bilancio delle assicurazioni. Il fatto è che in questo caso sembra difficile parlare di bilanciamento (argomentazione, questa, utilizzata dai giudici costituzionali nella sentenza n. 235/2014, per giustificare le limitazioni risarcitorie correlate all’applicazione delle tabelle normative): sulle vittime viene fatta pesare non già una compressione del risarcimento, ma una più radicale esclusione della tutela. Una soluzione del genere mal si concilia con i dettami delle Sezioni Unite del novembre 2008: le quali prevedono che, in caso di lesione di diritti inviolabili della persona, il risarcimento deve

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Saggi e pareri

essere sempre riconosciuto, salvo nelle ipotesi di danni bagatellari. Ora, sembra arduo ricollegare una valutazione in termini di futilità del pregiudizio alle modalità di accertamento della lesione che ha dato origine allo stesso. Con la riforma del sistema tabellare normativo introdotta nel 2017 attraverso la legge sulla concorrenza, viene sgomberato il campo dalle contraddizioni emergenti tra commi 3-ter e 3-quater dell’art. 32 della l. n. 27/2012, dal momento che la seconda disposizione è stata del tutto eliminata. Di conseguenza è scomparso qualunque vincolo legislativo in materia di accertamento della lesione di lieve entità per quanto concerne la risarcibilità del danno biologico temporaneo. A sopravvivere è la disposizione relativa al danno biologico permanente, con riguardo al quale il nuovo testo dell’art. 139 c. ass. precisa che il risarcimento appare possibile a fronte di una lesione acclarata – oltre, come stabilito in precedenza, attraverso accertamento clinico strumentale obiettivo – tramite riscontro visivo, in quanto la stessa si presti ad essere verificata (come accade per le cicatrici) senza l’ausilio di strumentazioni di sorta. Rimane, a questo punto, aperta la questione circa la possibilità di fornire un riscontro della lesione tramite criteri medico legali che non siano quelli previsti dal legislatore. La Cassazione appare orientata – in maniera del tutto condivisibile – a confermare una lettura di carattere estensivo della disposizione: i giudici di legittimità ritengono “risarcibile anche il danno i cui postumi non siano ‘visibili’, ovvero non siano suscettibili di accertamenti ‘strumentali’, a condizione che l’esistenza di essi possa affermarsi sulla base di una ineccepibile e scientificamente inappuntabile criteriologia medico legale”4. La Suprema Corte ha rilevato che “un corretto accertamento medico-legale potrebbe pervenire a negare l’esistenza di un danno permanente alla salute (o della sua derivazione causale dal fatto illecito) anche in presenza di esami strumentali dall’esito positivo (come nel caso di una frattura documentata radiologicamente, ma incompatibi-

Cass., 26.9.2016, n. 18773, in Resp. civ. e prev., 2017, 140.

Corte cost., 16.10.2014, n. 235, in Riv. it. med. leg., 2015, 295, con nota di Parziale. 2

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Corte cost., 26.11.2015, n. 242, in Giur. cost., 2015, 2203.

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Cass., 28.2.2019, n. 5820, in Foro it., 2020, I, 345.


Art. 139 c. ass. e lesioni di lieve entità

le con la dinamica dell’infortunio come emersa dall’istruttoria); così come, all’opposto, ben potrebbe pervenire ad ammettere l’esistenza di un danno permanente alla salute anche in assenza di esami strumentali, quando ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 c.c., dell’esistenza del danno e della sua genesi causale”5. La recente ordinanza n. 7753/20206 sottolinea che la disciplina normativa mira a rimarcare l’imprescindibilità di un rigoroso accertamento – a fronte di lesioni di modesta entità, i cui esiti permanenti risultino contenuti entro la soglia del 9% – dell’effettiva sussistenza della lesione e dei relativi postumi, considerata la possibilità che una prova rigorosa possa essere aggirata, in specie per suggestione anamnestica. La Supr. Corte ribadisce, in ogni caso, che il rigore richiesto dal legislatore non può essere inteso “nel senso che la prova della lesione e del postumo debba essere fornita esclusivamente con un referto strumentale”: un vincolo probatorio del genere sarebbe tale da sollevare dubbi di costituzionalità, considerati i limiti che verrebbe a determinare in ordine alla tutela di un diritto fondamentale quale la salute. L’interpretazione da seguire è – pertanto – quella secondo cui la norma richiede “un accertamento rigoroso in rapporto alla singola patologia, tenendo presente che vi possono essere situazioni nelle quali, data la natura della patologia e la modestia della lesione, l’accertamento strumentale risulta, in concreto, l’unico in grado di fornire la prova idonea che la legge sottolinea disciplinando la fattispecie”. Particolare interesse assumono le osservazioni formulate dalla Supr. Corte con riguardo a una recente sentenza della Consulta7, la quale – nell’affrontare la differente questione del danno a cose – ha rilevato che “nell’art. 139 occorre distinguere tra lesioni micropermanenti di incerta accertabilità, il cui danno non patrimoniale non è risarci-

Cass., 28.11.2019, n. 31072, in Dir. e giust., 2019, con nota di Biarella. 5

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bile (come danno assicurato), e lesioni micropermanenti che invece sono ritenute – dal legislatore che ha novellato la disposizione – adeguatamente comprovate e quindi tali da escludere plausibilmente il rischio che siano simulate”. Gli interpreti si sono interrogati quanto al distinguo, introdotto dalla Corte costituzionale, tra lesioni di certa e incerta accertabilità, per chiedersi se dallo stesso discenda la necessità di pervenire a un’interpretazione della norma mirante a ritenere comunque necessaria – per queste ultime – la prova della lesione tramite accertamento strumentale. A tale riguardo, la Cassazione ha rilevato – nella sentenza n. 31072/2019 – che “la distinzione tra danni alla persona di ‘incerta accertabilità e danni alla persona di obiettiva accertabilità non è affatto una prerogativa dei danni alla persona: in universo iure civili, infatti, non esiste alcun danno suscettibile di essere risarcito nonostante la sua ‘incerta accertabilità’. Non esistono, dunque, danni obiettivi e risarcibili e danni non obiettivi e quindi non risarcibili. Un danno alla salute, come qualsiasi altro pregiudizio patrimoniale o non, se non è obiettivamente accertabile non esiste come categoria giuridica, prima ancora che fattuale. Ma l’obiettività dell’accertamento […] non si arresta sulla soglia della mancanza di prove documentali”. Ulteriori precisazioni provengono dall’ordinanza 7753/2020, secondo la quale le conclusioni affermate dalla Corte costituzionale non sono tali da imporre una regola volta a escludere “oltre ogni ragionevole dubbio” l’incertezza con riguardo alla sussistenza della lesione. Posto che – in generale – non appare ammessa la risarcibilità di un pregiudizio ove rimanga incerta la relativa accertabilità, la questione andrà risolta alla luce delle verifiche istruttorie compiute dal giudice secondo la regola generale del “più probabile che non”, ordinariamente applicabile in materia civile. Ancora una volta, quindi, i giudici di legittimità mostrano la propensione a interpretare in termini estensivi la disciplina in materia di accertamento della lesione, anche attraverso la demolizione delle letture restrittive provenienti dalla Consulta.

Cass., 8.4.2020, n. 7753, in Ri.da.re., con nota di Ziviz.

Corte cost., 18.4.2019, n. 98, in Giur. cost., 2019, 1072, con nota di Astone. 7

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Strategie per il contrasto a p Covid-19 tra farmaci off label e sperimentazione clinica Francesca Cerea

Dottoranda di ricerca nell’Università di Bergamo Sommario: 1. Ricorso a protocolli per l’uso off label di medicinali autorizzati: una prima soluzione. – 2. Ricerca, sviluppo e accesso ai farmaci sperimentali. – 3. Contrasto alle carenze e approvvigionamento di farmaci in tempo di Covid-19.

Abstract: L’impiego di farmaci off label, la ricerca e l’accesso a medicinali sottoposti a sperimentazione, la necessità di un iter autorizzativo accelerato per le cure più promettenti e la limitata disponibilità di medicinali dovuta all’improvviso aumento della richiesta, sono solo alcune delle questioni più pressanti portate alla ribalta dal diffondersi della pandemia di Covid-19. Il contributo passa in rassegna le molteplici soluzioni tempestivamente predisposte dall’Agenzia italiana del farmaco e dall’Agenzia europea per i medicinali allo scopo di contenere e contrastare la diffusione del virus, attraverso un ventaglio di strumenti capaci di fronteggiare una situazione epidemica caratterizzata da nuovi bisogni terapeutici e da una rilevante dinamicità. The use of off label medicines, research and access to investigational medicines, the need for an accelerated authorisation process for the most promising treatments and the limited availability of medicines due to the sudden increase in demand are just some of the most pressing issues brought to the fore by the spread of the Covid-19 pandemic. The contribution reviews the multiple solutions promptly prepared by the Italian Medicines Agency and the European Medicines Agency

in order to contain and combat the spread of the virus, through a range of instruments capable of dealing with an epidemic situation characterized by new therapeutic needs and a significant dynamism.

1. Ricorso a protocolli per l’uso off label di medicinali autorizzati: una prima soluzione L’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia di Coronavirus (Covid-19) offre molteplici spunti di riflessione sul piano giuridico, tra cui rientra la questione dell’impiego di farmaci sottoposti a sperimentazione e off label (c.d. impiego fuori etichetta) per la cura di pazienti affetti da SARSCoV-2. In considerazione dell’assenza di trattamenti di provata efficacia, la patologia viene infatti affrontata mediante la c.d. terapia di supporto, vale a dire curando i sintomi attraverso l’impiego di medicinali commercializzati per altre indicazioni che vengono resi disponibili ai pazienti, pur in assenza di indicazione terapeutica specifica per il Co-

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vid-19, sulla base di evidenze scientifiche spesso limitate (c.d. uso off label). In alternativa si fa ricorso a medicinali sottoposti a sperimentazione e dunque non ancora approvati dalle autorità regolatorie, purché le probabilità rischi/benefici appaiano empiricamente favorevoli. Si tratta di vicende nelle quali la somministrazione del farmaco sperimentale costituisce una chance concreta, se non addirittura l’unica, di salvezza. È proprio tale delicata condizione a rendere ammissibile il ricorso a prescrizioni farmacologiche potenzialmente pericolose, essendo il possibile beneficio curativo derivante dall’accesso alla sperimentazione certamente superiore a quello ottenibile attraverso i normali sistemi di trattamento. Quanto all’uso off label di medicinali in commercio in Italia, consentito dalle leggi n. 94/1998 (nota come “legge Di Bella”) e n. 648/1996, l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), nel tentativo di garantire una celere risposta alle esigenze dei pazienti e delle strutture nell’ambito del piano nazionale di gestione dell’emergenza Covid-19, ha ritenuto indispensabile fornire ai clinici elementi utili ad orientare la prescrizione e a definire, per ciascun farmaco utilizzato, un rapporto fra i benefici e i rischi sul singolo paziente1. A ciò si aggiunga che la Commissione Tecnico Scientifica (CTS) di AIFA ha espresso parere favorevole in merito all’inserimento a carico del SSN (in deroga alla legge n. 648/96) dell’uso off label di alcuni medicinali (normalmente utilizzati per la cura della malaria e dell’HIV) per il trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2, pur in presenza di soli dati preliminari di potenziale efficacia, non essendo possibile – in una situazione di necessità e urgenza quale quella attuale – attendere risultati più solidi e dovendosi garantire tempestive azioni per favorire l’accesso precoce alle terapie2.

Saggi e pareri

2. Ricerca, sviluppo e accesso ai farmaci sperimentali La problematica si fa ancor più complessa laddove per fronteggiare l’emergenza si renda necessario fare un “uso compassionevole” del presidio farmacologico ricorrendo a prodotti in fase di sperimentazione, impiego consentito dal d.m. 7.9.2017, abrogativo del d.m. 8.5.2003. È, ad esempio, il caso di “Remdesivir”, molecola sperimentale pensata e testata dall’americana Gilead per combattere il virus Ebola e ora allo studio per il trattamento di Covid-19. Primaria via di accesso al farmaco è rappresentata dagli studi clinici di fase III in corso su “Remdesivir” al di fuori dei quali il medicinale viene offerto ad “uso compassionevole”3. Il processo autorizzativo risulta in questo caso più articolato rispetto all’impiego off label, a fronte del fatto che l’accesso al medicinale sperimentale deve essere approvato dal Comitato Etico a cui afferisce il centro clinico che presenta la richiesta, previa conferma della disponibilità alla fornitura gratuita del medicinale da parte dell’azienda farmaceutica produttrice del presidio farmacologico. Anche su tale fronte l’Agenzia italiana del farmaco, in considerazione di quanto disposto dal decreto legge 17 marzo 2020 n.18 all’art. 17, comma 5° relativo a Disposizioni urgenti in materia di sperimentazione dei medicinali per l’emergenza epidemiologica da Covid (c.d. decreto “Cura Italia”), ha adottato procedure straordinarie e semplificate per la presentazione e l’approvazione delle sperimentazioni e per la definizione delle modalità di adesione agli studi e di acquisizione dei dati4.

V. “AIFA e Gilead annunciano che l’Italia è tra i Paesi che testeranno l’antivirale remdesivir per il trattamento del Covid-19” (12.3.2020) e “Covid-19 – AIFA autorizza programma di uso compassionevole con remdesivir” (11.4.2020), consultabili all’indirizzo: www.aifa.gov.it; v. anche “Emergency Access to Remdesivir Outside of Clinical Trials”, consultabile all’indirizzo: www.gilead.com. 3

Si vedano “Farmaci utilizzabili per il trattamento della malattia Covid-19” e “Schede informative sui farmaci utilizzati per emergenza Covid-19 e relative modalità di prescrizione”, consultabili all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 1

V. “Azioni intraprese per favorire la ricerca e l’accesso ai nuovi farmaci per il trattamento del Covid-19” (17.3.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 2

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Cfr. “Circolare sulle procedure semplificate per gli studi e gli usi compassionevoli per l’emergenza da Covid-19” (6.4.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 4


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Farmaci off label e sperimentazione clinica

Il richiamato art. 17 ha istituito altresì (in deroga al d.m. 7.9.2017) un comitato etico unico nazionale – individuato nel comitato etico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma – con il compito di provvedere alla valutazione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali per uso umano e dei dispositivi medici per pazienti con Covid-19 e di esprimere il parere nazionale, anche sulla base della preventiva valutazione della Commissione Tecnico Scientifica (CTS) dell’AIFA5. Nell’ambito dell’attuale emergenza epidemiologica è stato invero affidato ad AIFA il compito di valutare tutte le sperimentazioni cliniche sui medicinali per pazienti con Covid-19, sperimentazioni che ad oggi ammontano a più di una trentina6. Con particolare riguardo al c.d. “uso compassionevole” la disposizione di cui all’art. 17 si applica unicamente alle richieste che ricadono in un “programma di uso terapeutico”, vale a dire in un protocollo clinico predefinito e identico per tutti i pazienti, presentato dalle aziende farmaceutiche, con applicazione di criteri univoci di inclusione, esclusione e schema di trattamento per specifici farmaci somministrati a più pazienti (secondo il d.m. 7.9.2017). Per i programmi di uso terapeutico il parere del Comitato Etico unico nazionale è formulato in maniera unica con procedura d’urgenza ed è immediatamente applicabile per tutti i centri e tutti i pazienti trattati. Gli altri impieghi di medicinali nel quadro dell’uso compassionevole su base nominale per singoli pazienti all’interno di una singola struttura ospedaliera, in base alle evidenze scientifiche e non nell’ambito di un protocollo clinico predefinito dall’azienda titolare del farmaco (si parla di “uso terapeutico nominale”), restano invece assoggettati alla normativa vigente

e quindi rimangono di competenza dei Comitati Etici locali7. Sempre nell’ottica di una maggiore semplificazione e speditezza del processo di valutazione e autorizzazione del presidio farmacologico, si segnala l’attivazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco, in collaborazione con l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), di una “fast track”, vale a dire un iter più rapido in grado di consentire l’approvazione e l’impiego di nuovi farmaci per combattere Covid-19 nel minor tempo possibile8. “Fast track” di cui possono peraltro godere farmaci che appaiano empiricamente efficaci per combattere Covid-19 e sui quali siano al momento disponibili soltanto dati sulla sicurezza dell’impiego nell’uomo (in deroga ai più severi requisiti stabiliti dal d.m. 7.9.2017). In questo modo l’azienda produttrice del farmaco può sottoporre all’autorità regolatoria competente un dossier registrativo incompleto a patto che la stessa, dopo l’approvazione, presenti i dati clinici mancanti sulla base dell’impiego del farmaco. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’avvio da parte del Comitato per i medicinali per uso umano (CHMP) di EMA della “revisione ciclica” (c.d. rolling review) dei dati sull’uso di “Remdesivir” per il trattamento di Covid-199. La revisione ciclica è invero uno degli strumenti regolatori a disposizione dell’Agenzia per velocizzare l’autorizzazione di un medicinale sperimentale promettente durante un’emergenza sanitaria pubblica. In condizioni di normalità, tutti i dati a sostegno della domanda di autorizzazione all’immissione in commercio devono essere presentati all’inizio della procedura di valutazione. Nel caso di una revisione ciclica

V. “Covid-19: precisazioni su definizioni di uso compassionevole e relative applicazioni del decreto legge 18/2020” (26.3.2020) e “Programmi di uso compassionevole – Covid-19”, consultabili all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 7

V. “Gestione degli studi clinici in Italia in corso di emergenza Covid-19 (coronavirus disease 19)” (7.4.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 5

Cfr. “Sperimentazioni cliniche – Covid-19”, “Covid-19 – Autorizzate tre nuove sperimentazioni cliniche” (27.3.2020) e “Covid-19 - AIFA autorizza lo studio “Solidarity” promosso dall’OMS” (10.4.2020), consultabili all’indirizzo: www.aifa. gov.it. 6

Cfr. “EMA to support development of vaccines and treatments for novel coronavirus disease (Covid-19)” (4.2.2020) e “EMA plan for managing emerging health threats”, consultabili all’indirizzo: www.ema.europa.eu. 8

V. “EMA starts rolling review of remdesivir for Covid-19” (30.4.2020) e “EMA receives application for conditional authorisation of first Covid-19 treatment in the EU” (8.6.2020), consultabili all’indirizzo: www.ema.europa.eu. 9

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invece, i dati sono presentati ai membri del CHMP responsabili della valutazione non appena diventano disponibili. Questa procedura ha consentito ad EMA di valutare il dossier in questione con tempi notevolmente ridotti rispetto all’iter ordinario, garantendo nel contempo il raggiungimento di un solido parere scientifico. In meno di due mesi dall’inizio della prima fase di rolling review (iniziata il 30 aprile 2020) l’Agenzia europea per i medicinali è così giunta a raccomandare alla Commissione Europea di concedere l’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) subordinata a condizioni di “Veklury” (“Remdesivir” prodotto da Gilead)10. L’autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni è uno degli strumenti regolatori dell’UE che facilita l’accesso precoce a farmaci che rispondono a una esigenza medica insoddisfatta anche in situazioni di emergenza, per far fronte a minacce per la salute pubblica come la pandemia in corso. Questo tipo di approvazione consente all’Agenzia di raccomandare l’AIC sulla base di dati non completi rispetto a quanto normalmente previsto, qualora i benefici derivanti dalla disponibilità immediata del farmaco per i pazienti superino i rischi legati alla mancanza di dati completi. Per adattarsi alle sfide e alle specificità senza precedenti dell’attuale crisi sanitaria, l’Agenzia europea per i medicinali ha inoltre completato e pubblicato la composizione e gli obiettivi della sua task force contro la pandemia da Covid-19 (Covid-ETF). Tali sfide sono rappresentate in particolare dalla complessità della malattia, dalla conseguente pletora di potenziali medicinali e dalla necessità di condurre e coordinare studi clinici in modo tempestivo in tutta Europa. La task force ha lo scopo di assistere gli Stati membri e la Commissione Europea nella gestione dei piani di sviluppo e delle procedure di autorizzazione e monitoraggio della sicurezza delle terapie e dei

Saggi e pareri

vaccini destinati al trattamento o alla prevenzione del Covid-19. Lo scopo principale della Covid-ETF è attingere alle competenze della rete europea delle agenzie regolatorie dei medicinali e garantire una risposta rapida e coordinata alla pandemia in corso11.

3. Contrasto alle carenze e approvvigionamento di farmaci in tempo di Covid-19 Oggetto di grande attenzione da parte di AIFA in questa fase di emergenza è infine la questione della limitata disponibilità di alcuni farmaci, a fronte del fatto che garantire la continuità delle forniture di medicinali rispettosi di elevati standard di qualità, sicurezza ed efficacia è una priorità per la salute pubblica. Nel picco della crisi, l’improvviso aumento delle richieste di farmaci normalmente a bassa diffusione, come alcuni antivirali (peraltro all’epoca ancora non valutati rispetto alla terapia Covid-19), ha generato un contraccolpo sulla rete distributiva che ha toccato anche il territorio, dove la reperibilità di alcuni prodotti ha incontrato difficoltà improvvise. Per tale ragione l’Agenzia ha predisposto una rete operativa che ha visto il coinvolgimento, oltre che delle aziende farmaceutiche, dei referenti delle Regioni, con il compito di vigilare per monitorare e raccogliere tempestivamente le esigenze del territorio, permettendo così una efficace capacità di intervento12. È all’interno di questa cornice che si collocano, solo per fornire qualche esempio, i processi di semplificazione emergenziale rispetto a procedure che avrebbero rischiato di rallentare l’afflusso di farmaci essenziali verso la rete di approvvigionamento, la rapida autorizzazione dell’importazione di confezioni

V. “EMA istituisce task force per approccio regolatorio rapido e coordinato sui trattamenti per il Covid-19” (9.4.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it; “Mandate, objectives and rules of procedure of the Covid-19 EMA pandemic Task Force (Covid-ETF)”, consultabile all’indirizzo: www.ema. europa.eu. 11

V. “First Covid-19 treatment recommended for EU authorisation” (25.6.2020), consultabile all’indirizzo: www.ema. europa.eu. Il 3 luglio scorso la Commissione europea ha accolto la richiesta di EMA e Remdesivir è diventato il primo trattamento in possesso di un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. 10

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V. “AIFA e l’approvvigionamento degli ospedali durante la crisi COVID: la collaborazione tra Regioni, Aziende e Agenzia” (22.6.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 12


Farmaci off label e sperimentazione clinica

estere, in sostituzione delle corrispondenti confezioni italiane, per le forniture alle strutture del SSN, cercando di stare al passo con il repentino cambio di fabbisogno13 e, ancora, la creazione di una procedura per le donazioni di farmaci basata sul criterio di ripartizione tra le Regioni in base ai dati forniti dalla Protezione Civile rispetto al numero di pazienti contagiati totali, ospedalizzati, in terapia intensiva e in terapia domiciliare14. Quello del fabbisogno di farmaci non è ovviamente un problema solo italiano, come dimostra l’istituzione di un gruppo direttivo esecutivo dell’Unione europea sulle carenze di medicinali. Il gruppo direttivo è una struttura dedicata, costituita dall’Agenzia europea per i medicinali – con la Commissione Europea e gli Stati membri – per la gestione delle crisi legate a carenze di farmaci, con lo scopo di fornire una direzione strategica per un’azione urgente e coordinata per gestire il rischio di carenze15. La preoccupazione per la fragilità della catena di approvvigionamento di farmaci ha spinto la Commissione Europea ad appoggiare il progetto proposto da Medicine for Europe, l’associazione europea dei produttori di generici e biosimilari, allo scopo di attuare la fornitura incrociata delle materie prime (principi attivi e intermedi), l’individuazione congiunta dei siti dove concentrare la produzione di determinati prodotti e la redistribuzione concordata dell’eventuale surplus o eccesso di offerta. Pratiche che eccezionalmente, grazie al Temporary framework approvato dalla Commissione, non saranno ritenute in contrasto con l’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) in tema di accordi anticoncorrenziali16.

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Un multiforme scenario di strategie e di soluzioni, quello predisposto dall’Agenzia italiana del farmaco e dall’EMA che, grazie anche ad un dato normativo ricco di potenzialità, si dimostra capace di fronteggiare un quadro di emergenza in costante evoluzione e di adattarsi alle sfide e alle specificità senza precedenti dell’attuale crisi sanitaria, sostenendo le attività di regolamentazione e le esigenze di salute pubblica durante la pandemia.

V. “Procedure di importazione autorizzate Emergenza Covid-19” (21.5.2020) e il relativo comunicato di AIFA, consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 13

Cfr. “Donazioni di farmaci per l’emergenza Covid-19 coordinate da AIFA” (18.5.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 14

V. “Come EMA sta affrontando il potenziale impatto della nuova malattia da coronavirus (Covid-19) sulla fornitura di medicinali nell’UE” (9.3.2020), consultabile all’indirizzo: www.aifa.gov.it. 15

V. “Medicines for Europe welcomes European Commission decision to enable secure supply of hospital medicines” 16

(8.4.2020), consultabile all’indirizzo: www.medicinesforeurope.com; v. “Temporary Framework for assessing antitrust issues related to business cooperation in response to situations of urgency stemming from the current Covid-19 outbreak” (8.4.2020), consultabile all’indirizzo: www.ec.europa.eu.

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Contagio Covid-19: l’infortunio p sul lavoro e le doverose tutele assicurative per i sanitari Italo Partenza

Avvocato in Milano Sommario: 1. Premessa. – 2. La tutela previdenziale negli infortuni sul lavoro e nelle malattie professionali ed il rapporto con il responsabile civile. – 3. L’esonero del datore di lavoro nell’infortunistica sul lavoro: un’ipocrita fictio. – 4. Il contagio del personale sanitario. – 5. Datore di lavoro, dipendenti e garanzia R.C.O.

Abstract: L’art. 42 d.l. n. 18/2020 qualifica ai fini INAIL come infortunio il contagio da Covid-19. La disciplina della responsabilità del datore di lavoro ex t.u. n. 1124/1965 e art. 2087 c.c. prevede una sostanziale responsabilità oggettiva del datore di lavoro che meriterebbe essere rivista in un’ottica previdenziale/no fault. Ciò tuttavia deve avvenire su base generale e non per creare discipline speciali in favore di Manager, politici o sanitari e a danno del personale medico ed infermieristico. Non vi sono ragioni giuridiche che giustifichino eventuali scoperture assicurative per il contagio da Covid-19 in ambito di garanzia RCO. Covid-19 infection is considered by art. 42 d.l. n. 18/2020 as an accident as far as INAIL indemnity is concerned. Italian case law provides a strict liability approach in case of employer’s liability. A no fault approach would be probably preferable as long as applicable on a general basis, avoiding special exception for Hospital Managers. There is no way for Insurance Companies to reject empolyers liability coverage in case of Covid-19 infection.

1. Premessa Fra gli innumerevoli problemi creati dalla pandemia da Covid-19 vi è anche quella del complicato rapporto fra personale sanitario dipendente

e struttura sanitaria datrice di lavoro nei casi di contagio. In realtà il tema appare essere una parte di un problema più grande, ovvero quello del rapporto fra lavoratore che abbia contratto il Covid-19 in occasione o a causa della propria attività lavorativa. Vi sono infatti due profili comuni alle fattispecie più generali (lavoratore/datore di lavoro) e più particolari (personale sanitario/struttura datrice di lavoro), ovvero il tema della copertura assicurativa – pubblica e privata – e quello della regolamentazione di eventuali azioni contro l’eventuale responsabile civile. Al fine di tentare una lettura, purtroppo con poche certezze e molti punti interrogativi, sembra utile affrontare preliminarmente la questione su un piano più generale, per poi tentare una analisi della più delicata e particolare fattispecie del rapporto lavorativo all’interno delle strutture sanitarie. Un tema va tuttavia anticipato: il sistema della responsabilità datoriale per infortuni e malattie professionali ha subito molteplici integrazioni e variazioni, tutte orientate verso un approccio da “responsabilità oggettiva” e guardare ad un sistema no fault è sicuramente auspicabile, anche solo per come originariamente previsto dal Legislatore negli anni ’60 ispirandosi alla legislazione anni

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‘30. Le previsioni, però, di eccezioni o esoneri particolari per Covid-19 in favore di datori di lavoro sanitari e/o assicuratori appare a chi scrive una tesi improponibile, anche in termini di opportunità e giustizia sociale. Vediamo di seguito perché.

2. La tutela previdenziale negli infortuni sul lavoro e nelle malattie professionali ed il rapporto con il responsabile civile L’ambito dell’infortunistica sul lavoro costituisce forse uno degli spazi culturali migliori all’interno dei quali riflettere sul rapporto fra responsabilità civile e rischio d’impresa, poiché ad oggi il rischio più alto di determinate attività imprenditoriali grava ancora sui lavoratori e sulla loro salute, senza che tale rischio precluda l’esercizio dell’attività stessa in quanto essa viene invocata come necessaria proprio dal mondo del lavoro, che non può tollerare la chiusura degli impianti industriali. Tale tipologia di rischio fu anche il primo a far sorgere la consapevolezza della necessità di tutelare a livello sociale-assicurativo il lavoratore esposto ad alee non sempre controllabili a causa della inevitabile pericolosità delle macchine utilizzate, purtuttavia connesse inscindibilmente ad attività socialmente necessarie ed utili; si pose quindi la questione di garantire una tutela assicurativa che prescindesse dalle responsabilità1.

L’effettività della tutela dell’ambiente di lavoro e della salute del dipendente ha seguito infatti percorsi articolati che, per diversi aspetti, descrivono lo sviluppo della nostra società a partire dall’inizio del secolo fino ai nostri giorni. Assicurazione e responsabilità civile hanno rappresentato, sin da subito, il settore entro il quale la giovane società industriale cominciò ad interrogarsi verso la metà del secolo XIX sulla idoneità della responsabilità per colpa a risolvere la questione infortunistica, in un mondo nel quale era sempre più frequente l’incidente di lavoro proprio a causa dell’imprevedibile e, talora, incontrollabile utilizzo delle nuove macchine industriali. Emergeva, infatti, quanto necessario allo sviluppo economico fosse l’utilizzo dei nuovi macchinari, e al tempo stesso, quanti problemi sociali essi ponessero in conseguenza della loro inevitabile pericolosità. Il considerevole numero di infortuni a causa dell’intrinseca pericolosità della catena di montaggio pose una serie di problemi di ordine sociale/solidaristico che indussero un’inevitabile riflessione sulla validità del noto brocardo “nessuna responsabilità senza colpa”. 1

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Saggi e pareri

Il t.u. n. 1124/1965 nasce in questo contesto come manifestazione di un equilibrio assicurativo2 fra datore di lavoro (il quale paga i premi dell’assicurazione contro gli infortuni del lavoratore), il la-

Nacque qui una consapevolezza che diverrà un caposaldo delle successive tematiche della responsabilità civile, vale a dire che l’imprenditore che trae vantaggio e profitto dall’attività dell’impresa è libero di esercitarla in ragione dell’utilità sociale della stessa, ma deve anche farsi carico dei maggiori costi e rischi che essa introduce nella società e che gravano sui lavoratori (ancora una volta … cuius commoda eius et incommoda). La responsabilità civile così intesa, come già illustrato, diviene uno strumento per riconsiderare la stessa utilità sociale di un comportamento o di una attività, alla luce del fatto che qualsiasi attività imprenditoriale cessa di essere conveniente quando i suoi costi sociali gravano su chi la pone in essere invece di essere distribuiti fra i consumatori (che dovrebbero, invece, trarne vantaggio) e su chi fornisce il contributo determinante per la realizzazione del prodotto finale. Fra la metà e la fine del secolo XIX inizia a svilupparsi, quindi, una tematica che è oggi di strettissima attualità: l’utilità sociale di un’attività e la necessità di distribuirne il rischio ed il costo fra coloro che ne godono i benefici, evitando che gli stessi gravino, invece, sulle forze della produzione o sulla società in generale. In questa ottica, fu inevitabile il passaggio, anche se non immediato, dall’introduzione di una responsabilità senza colpa, come criterio per individuare e accollare costi sociali all’imprenditore che dall’attività trae profitto, alla creazione di forme di assicurazione obbligatoria che, in qualche modo, attuassero questa necessità di quotazione e distribuzione mutualistica del rischio e del costo. La socializzazione del rischio infortunistico attraverso l’assicurazione obbligatoria è, dunque, il presupposto storico, ad oggi di piena attualità, della normativa sull’infortunistica sul lavoro, nata con la legge n. 80 del 1898 e, attraverso la legislazione fascista (ricordiamo principalmente la l. 29.6.1933, n. 860), giunta, poi, al d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (nel testo citato indifferentemente ora come t.u. n. 1124/1965 ora come d.P.R. n. 1124/1965), successivamente modificato con il d. lgs. n. 38/2000. Occorre tuttavia premettere che quanto più la responsabilità civile si oggettivizza, tanto più l’assicurazione di responsabilità civile perde utilità a vantaggio di una “assicurazione danni”, fondata sull’evento e non sulla responsabilità (l’assicurazione INAIL, infatti, non è un’assicurazione di responsabilità civile, ma un’assicurazione ricollegabile al ramo infortuni). Quando si parla di assicurabilità di un rischio di responsabilità oggettiva, occorrerebbe ricordare infatti che non è l’assicurazione di responsabilità civile lo strumento utilizzabile, in quanto essa non può funzionare senza la leva dell’impegno/sanzione nei confronti dell’assicurato e dunque mal tollera qualunque ipotesi di obblighi di manleva scaturenti per il semplice accadimento di un fatto, a prescindere dalla colpa dell’assicurato. Un’assicurazione danni diversa da quella della responsabilità civile meglio risponde a queste esigenze, ma spesso richiede premi ben maggiori. 2


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Contagio da Covid-19 e infortuni sul lavoro

voratore assicurato e l’assicuratore pubblico, che esercita un regresso verso il datore di lavoro allorché questi abbia commesso un reato perseguibile d’ufficio. Tale equilibrio risulta al giorno d’oggi totalmente alterato. L’impianto del t.u. n. 1124/1965 (ma l’origine della norma risale quantomeno alla l. 29.6.1933, n. 860) prevedeva infatti, sin dall’origine, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile e, dunque, dal risarcimento del danno ad eccezione, tuttavia, del caso in cui: – l’infortunio fosse derivato dalla commissione di un fatto che costituisse reato da parte del datore di lavoro o di suoi incaricati o dipendenti, – il reato commesso fosse perseguibile d’ufficio, – vi fosse stato l’accertamento giudiziale di una responsabilità penale del datore di lavoro secondo quanto disposto dall’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965. Il comma 6° dell’art. 10 prevede, inoltre, che “non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell’indennità liquidata all’infortunato”. Ciò significa che l’obbligo risarcitorio verso il lavoratore è a carico del datore di lavoro soltanto per la parte di danno civilistico rimasto non coperto dall’intervento previdenziale destinato al medesimo titolo3. L’art. 11 vede, poi, il diritto dell’INAIL di rivalersi nel termine di tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza che abbia accertato la responsabilità del datore di lavoro. In questa logica l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro poneva quindi le sue basi su un rapporto trilaterale tra lavoratore, datore di lavoro ed ente previdenziale, così da realizzare “[…] un contemperamento dei reciproci diritti ed interessi: il lavoratore riceve automaticamente le prestazioni, però con precisi limiti qualitativi (franchigia per gli infortuni con diminuzione dell’attitudi-

Tale tipologia di danno prende il nome di “danno differenziale”, voce risarcitoria che nel tempo ha assunto connotazioni e contenuti differenti al variare, come è logico, delle connotazioni e degli ambiti dell’indennizzo e della conseguente rivalsa dell’Assicuratore sociale. 3

ne al lavoro prevista dall’art. 11) e quantitativi (commisurazione della rendita alla capacità di lavoro generica, con esclusione di quella specifica); il datore di lavoro sopporta la maggior parte dell’onere contributivo, ricevendone in cambio l’esonero dalla responsabilità; l’INAIL paga le rendite, agendo in regresso contro i datori di lavoro che siano dalla legge ritenuti responsabili dell’infortunio occorso al lavoratore”4. Ebbene, tale esonero del datore di lavoro (che in tanti ora invocano ma che già esiste da decenni) era, in origine, talmente ampio da avere reso, di fatto, sostanzialmente residuale l’ipotesi di un obbligo risarcitorio del datore di lavoro, limitandolo alle ipotesi di malattie professionali non tabellate e, come tali, non rientranti nella disciplina del t.u. La situazione attuale è, però, profondamente mutata in ragione dell’evoluzione giurisprudenziale di seguito esposta. Tentando una sintesi piuttosto sommaria, si può dire che la modifica dell’intero sistema normativo iniziò, in modo rilevante, con la pronuncia della Corte Costituzionale del 1981 n. 102, che sancì l’illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 11 nella parte in cui non prevedevano comunque la possibilità per l’INAIL di agire in rivalsa nei confronti del datore di lavoro nel caso di assoluzione dello stesso in un giudizio in cui l’assicuratore non fosse stato posto in condizione di partecipare. La Corte Costituzionale poi ebbe modo di ampliare i margini di cognizione del reato “inciden-

Corte cost., 29.10.1999, n. 405, in Giut. civ., 2000, I, 1275. Nella sentenza citata la Corte, per quanto attiene alla delicata questione di un datore di lavoro, tenuto, da un lato, a dover versare i contributi e poi anche a dover rimborsare l’INAIL di quanto pagato in virtù di tale assicurazione, ha comunque precisato che tale principio (cioè quello secondo il quale il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità civile soltanto se il suo comportamento non è penalmente sanzionabile) è perfettamente legittimo: infatti, in caso contrario, non troverebbe alcuna giustificazione l’esonero medesimo, poiché primario è il dovere del datore di garantire l’incolumità del lavoratore e, in caso di responsabilità penale, l’intervento dell’INAIL non ha altra finalità che quella di favorire il lavoratore, secondo lo spirito dell’art. 38 Cost., anticipando le somme che poi dovranno essere restituite dall’effettivo responsabile, perché in detta ipotesi il rischio non è coperto dai contributi versati. 4

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ter tantum” da parte del giudice civile5, sicché, se per un verso è vero che il t.u. n. 1124/1965 prevede l’esonero di responsabilità del datore di lavoro e che, quindi, l’INAIL potrebbe, in astratto agire solo in presenza di una sentenza che abbia accertato la responsabilità penale del datore di lavoro, è vero anche che, in virtù di tale facoltà riconosciuta al giudice civile, l’Istituto può sempre agire civilmente ex artt. 10 e 11 del t.u. e chiedere al giudice civile, nei casi descritti dalla Corte, che, incidenter tantum, rilevi l’eventuale sussistenza degli estremi di un reato, al solo fine di far venir meno l’esonero e, dunque, di vedere accolta la propria richiesta risarcitoria. Tale domanda risarcitoria è di fatto accoglibile “in re ipsa”, dal momento che la sola violazione dell’art. 2087 c.c., pur nell’eventuale rispetto delle norme specificamente previste per la fattispecie, comporta di per sé un’ipotesi di responsabilità civile del datore di lavoro ed integra altresì gli estremi della colpa penale6, per giunta con violazione di norme antinfortunistiche e, dunque, con perseguibilità d’ufficio del reato stesso. Da ciò ne consegue che l’INAIL – per vedere accolte le proprie domande risarcitorie in via di regresso e far così venir meno l’esonero – può far accertare al giudice civile l’esistenza di una colpa ex art. 2087 c.c., svuotando di fatto l’istituto dell’esonero, dal momento che la condizione per farlo sempre venir meno si attua, come si è detto, per effetto stesso della presunzione di colpa civile. A seguito dell’indennizzo erogato l’INAIL, in virtù dell’ampia lettura che la giurisprudenza ha elaborato all’art. 2087 c.c., può agire in via di regresso ex artt. 10 e 11 del t.u. n. 1124/1965 contro il datore di lavoro, facendo sì che l’esonero di responsabilità di quest’ultimo, di fatto, non sia mai applicabile, posto che è astrattamente sempre

Sentenze Corte cost., 11.12.1995, n. 499, in Giust. civ., 1996, I, 657; Corte cost., 30.4.1986, n. 118, in Foro it., 1988, I, 383; Corte cost., 19.6.1981, n. 102, in Dir. lav., 1982, II, 301 e Corte cost., 9.3.1967, n. 22, in DeJure. 5

Il collegamento fra reato e violazione dell’art. 2087 c.c. è ribadito in modo chiaro da Cass., 19.8.1996, n. 7636, in Riv. inf. mal. prof., 1996, II, 85. 6

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possibile far coincidere la sua colpa civile con quella penale. Nell’evoluzione della normativa del t.u., accanto al significativo svuotamento dell’istituto dell’esonero, occorre poi ricordare il profondo intervento della Corte Costituzionale che, con le sentenze n. 81, 356 e 485 del 1991, ha introdotto la risarcibilità del danno biologico in favore del lavoratore, sul presupposto dell’impossibilità per l’INAIL di agire per un titolo di danno non assicurato e, dunque, mai indennizzato7. La soluzione della Corte fu che la copertura indennitaria non atteneva al danno biologico e, pertanto, furono dichiarati costituzionalmente illegittimi gli artt. 10 e 11 nelle parti in cui prevedevano che il lavoratore, o i suoi aventi causa, avessero diritto ad un risarcimento solo se il danno risarcibile, complessivamente considerato, fosse superiore all’indennità percepita (analoga decisione riguardò l’art. 1916 c.c. per le ipotesi di utilizzo da parte dell’INAIL dello strumento codicistico nei confronti dei responsabili civili estranei al rapporto previdenziale8). Con il d. lgs. n. 38/2000 il legislatore intervenne, modificando il contenuto della prestazione assi-

Tali sentenze giunsero come l’inevitabile soluzione di un’incongruenza da anni ormai percepita come intollerabile. Infatti la questione di un’insufficiente tutela riconosciuta dal t.u. nei confronti del lavoratore si era in realtà posta già a metà degli anni ’80, quando comparve nell’elaborazione teorica la figura del danno biologico, posto che appariva assolutamente anacronistico limitare il danno risarcibile dell’infortunato ai suoi soli rilievi patrimoniali. Se per un verso, infatti, veniva indennizzata la perdita della generica capacità di produrre reddito, non trovava riconoscimento quella lesione all’integrità psico-fisica che giurisprudenza e dottrina iniziavano a ritenere un patrimonio meritevole di tutela di grado costituzionale. Fra le numerose disamine del rapporto fra rivalsa ex art. 10 e 11 del t.u. n. 1124/1965 e danno biologico si ricorda Oliva, Bona, Il danno alla persona nella riforma INAIL, in Monateri et al., Il danno alla Persona, 2000, II, 913; Navarretta, Capacità lavorativa generica, danno alla salute e nuovi rapporti fra responsabilità civile e assicurazione sociale, in Resp. civ e prev., 1992, 63; Poletti, Il danno biologico del lavoratore fra tutela previdenziale e responsabilità civile, in Foro it., 1991, I, 3292. 7

Corte cost., 15.2.1991, n. 87, in Foro it., 1991, I, 1664, con nota di Poletti; Corte cost., 18.7.1991, n. 356, ivi, 2347 con nota di De Marzo; Corte cost., 27.12.1991, n. 485, in Giust. civ., 1992, I, 583. 8


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curativo-previdenziale dell’INAIL che, dal 25 luglio del 2000, eroga non più soltanto la rendita per l’inabilità permanente di cui all’art. 66, bensì anche un indennizzo a titolo di danno biologico che, per sua natura, prescinde dalla condizione economica e sociale del lavoratore. Da tale data si modifica nuovamente il contenuto del succitato danno differenziale: il lavoratore mantiene il diritto a percepire solo l’eventuale maggior danno civilistico rispetto a quanto già fatto oggetto di prestazione INAIL (per tali voci, infatti, non solo l’INAIL mantiene il diritto a rivalersi nei confronti del datore di lavoro secondo quanto previsto dagli artt. 10 e 11 t.u., ma proprio in base a detto art. 10 è comunque negato al lavoratore di agire per voci di danno oggetto di prestazione previdenziale)9. La normativa del t.u. n. 1124/1965 non regola soltanto i profili di responsabilità ma, diremmo anzi principalmente, il funzionamento dell’assicurazione pubblica infortuni e malattia: l’analisi – seppur in estrema sintesi – della disciplina della copertura previdenziale delle malattie professionali può essere utile nel comprendere quanto la responsabilità oggettiva si avvicini in realtà ai funzionamenti di una copertura assicurativa ramo danni (ma non di R.C.) nel suo legarsi ai soli principi di causa/effetto. A questo proposito per scrupolo è bene ricordare – anche se può apparire un’ovvietà – che le malattie professionali non soltanto possono e sono oggetto di copertura assicurativa su presupposto del legame causale, con finalità previdenziali ed indennitarie, ma costituiscono anche fonte di responsabilità

9 Marando ricorda come il “danno differenziale” permetta al lavoratore di ottenere dal responsabile dell’infortunio l’eventuale eccedenza di risarcimento civile rispetto alle seguenti voci: indennità per il danno patrimoniale da inabilità temporanea; capitale per il danno biologico permanente dal 6% al 15%, ovvero la rendita per il medesimo danno se di grado superiore (fino al cento per cento); quota di rendita di carattere patrimoniale per l’invalidità dal 16% in poi, integrata nei casi di quote per carichi familiari e dall’assegno per assistenza personale continuativa; danno patrimoniale dei superstiti, ristorato con la rendita e l’assegno funerario; spese mediche di cura e di protesi; rendita dal 33% in poi per l’infortunio domestico. Marando, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, 504.

del datore di lavoro se contratte per sua colpa, secondo i criteri di accertamento della responsabilità definiti dall’art. 2087 c.c. sopra illustrati. Per malattia professionale s’intende una menomazione fisica o psichica dell’individuo dovuta all’azione nociva di fattori patogeni presenti nell’ambiente lavorativo. Se, dunque, l’infortunio sul lavoro è legato all’ambiente lavorativo da un rapporto di mera occasionalità, la malattia professionale implica, invece, un rapporto di necessaria causalità: non basta che si sia verificata nell’esercizio di mansioni lavorative, ma è necessario che a determinarla siano stati agenti legati all’ambiente di lavoro (a titolo meramente esemplificativo: esposizione a sostanze cancerogene, condizioni ambientali non favorevoli etc.). Deve, quindi, potersi dire che esiste un nesso eziologico fra l’essere stato a contatto con agenti patogeni presenti in un determinato contesto lavorativo e l’avere contratto la malattia: essa potrà anche manifestarsi successivamente alla cessazione del lavoro ma deve essere stata contratta durante l’attività lavorativa10. In questo senso, mentre l’infortunio è un evento traumatico esterno, la malattia è, invece, riferita al protrarsi di circostanze ambientali sfavorevoli alla salute fisica e psichica di un soggetto11. Per quel che concerne il quadro normativo di riferimento, non può non considerarsi l’art. 3 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (c.d. t.u. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali)12, secondo cui, testualmente, “l’assicurazione è altresì obbligatoria per le malattie professionali indicate nella tabella allegato n. 413, le quali siano contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa ed in quanto tali

Sul criterio dell’equivalenza causale in ambito di malattia professionale si rimanda a De Matteis, Giubboni, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2005. 10

Avetta, Castelnuovo, La Responsabilità civile nelle malattie professionali e negli infortuni sul lavoro, Milano, 2003. 11

12

G.U. n. 257 del 13 ottobre 1965, suppl. ord.

Ad eccezione di silicosi ed asbestosi che trovano disciplina nella tabella allegato n. 8. 13

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lavorazioni rientrino fra quelle previste nell’art. 1. La tabella predetta può essere modificata o integrata con decreto del presidente della Repubblica su proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, di concerto con il Ministro per la sanità, sentite le organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative. Per le malattie professionali, in quanto nel presente titolo non siano previste disposizioni speciali, si applicano quelle concernenti gli infortuni”. La duplice ratio sottesa a detta normativa è stata, da un lato, garantire una certa tipizzazione delle tecnopatie, salvaguardando, così, un’esigenza di certezza nella tutela del lavoratore (primo capoverso), dall’altro, consentire, comunque, un’evoluzione del dato normativo rispetto ai progressi delle conoscenze mediche ed alle trasformazioni tecnologiche delle diverse realtà produttive (secondo capoverso)14.

Si rinvia più compiutamente in merito alla circolare INAIL 8 giugno 1994 n. 19. Questo sistema presuntivo, dal punto di vista della distribuzione dell’onere probatorio, sicuramente comporta un’agevolazione della posizione del lavoratore, quale, appunto, soggetto debole del rapporto lavorativo (lo stesso, una volta contratta una delle patologie di quelle contemplate alla tabella, è tenuto a fornire una documentazione medica attestante la patologia e a provare che le condizioni lavorative a cui è esposto siano di quelle corrispondenti alla tipologia di malattia riportata, donde, appunto, il rapporto di derivazione causale della prima, rispetto alle seconde). Tuttavia sistema presuntivo e tassatività delle malattie tabellate si è mostrata, nella prassi applicativa del disposto normativo, insufficiente a garantire una piena tutela del lavoratore. Le prime “criticità” della tutela indennitaria del lavoratore emerse nell’applicazione giudiziale hanno riguardato, in particolare, casi di malattie professionali ricomprese nell’elenco di cui all’allegato 4 del d.P.R. n. 1124/1965, ma riconducibili a lavorazioni diverse da quelle indicate in tale tabella. La Corte Costituzionale, inizialmente, frappose resistenze contro le numerose sollecitazioni delle Corti di merito che stigmatizzavano evidenti disparità e diseguaglianze al cospetto dell’art. 3 della Costituzione, ma la Corte Costituzionale, con la sentenza del 18 febbraio 1988, n. 179 dichiarò, in fine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1°, (malattie nell’industria) e dell’art. 211 (malattie nell’agricoltura) del t.u. n. 1124/1965 nella parte in cui non prevedevano l’obbligatorietà dell’assicurazione anche per le malattie non comprese nelle tabelle riguardanti le malattie professionali di industria ed agricoltura o provocate da un agente patogeno o una lavorazione non specificate nelle tabelle medesime, qualora il lavoratore ne avesse provato l’eziologia professionale; con la medesima sentenza venne, inoltre, dichiarata l’incostituzionalità anche dell’art. 134 del t.u. n. 1124/1965 nella parte in cui si richiedeva che l’inabilità o la 14

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In un sistema, dunque, in virtù del quale il datore di lavoro è naturalmente esposto al regresso dell’INAIL per il semplice effetto della potenziale violazione di un precetto generale come quello previsto dall’art. 2087 c.c.15(dal quale consegue la violazione delle norme antinfortunistiche e la astratta configurabilità del fatto come reato, nella fattispecie lesioni od omicidio colposi per violazione di norme prudenziali), si comprende agevolmente come si sia di fatto snaturato l’equilibrio che vedeva il datore di lavoro pagare i premi, l’assicuratore indennizzare il lavoratore e rivalersi

morte si fossero verificate nei limiti temporali specificati nella Tabella. Si apriva, così, la strada del sistema tabellare misto, caratterizzato non dall’abrogazione del sistema tabellare, i cui benefici per il lavoratore rappresentavano una conquista storica della normativa previdenziale, bensì dalla possibilità per il lavoratore stesso di dimostrare l’eziologia lavorativa di una patologia a quel momento non compresa nelle tabelle di legge. Corte Cost., 18.2.1988, n. 179, in Giust. civ., 1988, I, 588 con nota di Morelli, Ancora in tema di incostituzionalità sopravvenuta: la sentenza “monito” come preannuncio di incostituzionalità sopravvenute; in Foro it., 1988, I, 1031 con nota di Rossi, I nuovi rischi per la salute del lavoratore. Tutela previdenziale e tutela preventiva della più recente giurisprudenza; in Mass. Giur. lav., 1988, 16 con nota di Alibrandi, Sistema misto per le tecnopatie dopo la sentenza n. 179/1988 della Corte Costituzionale. L’art. 2087 c.c. prevede che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Occorre evidenziare preliminarmente che tale obbligo è sussidiario rispetto alle prescrizioni delle specifiche e numerose norme antinfortunistiche ed impone all’imprenditore, in caso di infortunio di un suo dipendente, l’onere della prova di avere adottato tutte quelle misure che, in relazione all’ambiente di lavoro e ai suoi rischi tipici, o comunque a esso inerenti, risultino necessarie per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore. Esso quindi contiene un principio generale di cui la legislazione antinfortunistica è diretta applicazione e, al tempo stesso, integra la legislazione medesima, imponendo al datore di lavoro l’obbligo di aggiornare costantemente le proprie conoscenze tecniche al fine di rendere il lavoro più sicuro. Ciò che è chiesto al datore di lavoro, quindi, non è soltanto il rispetto tassativo di tutte le misure imposte dalla legge, e neppure il semplice rispetto delle generiche cautele ispirate alla normale prudenza, bensì l’adozione di tutte quelle misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela della sicurezza in relazione alla specificità dell’ambiente di lavoro e del rischio. 15


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solo in caso di comportamenti macroscopicamente gravi del contraente imprenditore. Da ultimo occorre ricordare il ruolo centrale dell’art. 2087 c.c., che si pone come fonte dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nei confronti dei suoi dipendenti a protezione della loro integrità fisica e psichica, alla quale viene riconosciuta tutela di grado costituzionale. Tale norma ha permesso di superare le inevitabili lacune di una legislazione che, ovviamente, non poteva e mai potrà prevedere e disciplinare ogni ipotesi di rischio che nella quotidianità lavorativa possa prodursi; ha dunque realizzato l’obiettivo di qualunque norma di carattere generale, vale a dire favorire un sistematico adeguamento dell’ordinamento ai cambiamenti della società16.

3. L’esonero del datore di lavoro nell’infortunistica sul lavoro: un’ipocrita fictio La Magistratura ha dunque, passo dopo passo, smantellato un esemplare sistema no fault, quale avrebbe potuto essere il t.u. n. 1124/1965, cioè un sistema nel quale il maggior rischio introdotto nella società da parte del datore di lavoro avrebbe potuto essere conteggiato e misurato attraverso il premio INAIL, lasciando alle sole ipotesi delittuose l’esercizio di un regresso giustificato dall’essere

“In tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., posto che, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, il vizio strutturale del macchinario, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, da parte del datore di lavoro, dell’assolvimento dei suddetti obblighi di protezione specifici” (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto imprevedibile l’infortunio del lavoratore, operaio esperto, in ragione del recente intervento di manutenzione del macchinario – trapano a colonna – e della presenza sullo stesso della marchiatura di conformità CE, circostanze rilevate dagli ispettori della Asl) Cass., 9.6.2017, n. 14468, in Dir. e giust., 2017, con nota di Leverone. 16

il reato da infortunistica sul lavoro in sé ingiustificabile. Nel tempo, il reato ha cessato di essere l’eccezione non assicurabile, ma è divenuto l’ineliminabile imputazione secondo criteri che a chi scrive sembrano persino contrari al principio costituzionale di tassatività della norma previsto dall’art. 25 della nostra Costituzione e, pur tuttavia, totalmente ignorati. Oggi non è agevole rinvenire di fatto un’ipotesi realistica in cui l’esonero di responsabilità possa operare17: sicuramente non esiste per quanto attiene alle componenti del danno non patrimoniale non esplicitamente rientrate nelle previsioni del decreto legge n. 38/2000, ma neppure per quanto attiene alla rivalsa INAIL nei confronti del datore di lavoro se l’orientamento del giudice di legittimità è quello di ritenere che la violazione di una qualsiasi norma antinfortunistica comporti responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. e, conseguentemente, anche una responsabilità penale per un reato perseguibile d’ufficio proprio in ragione della violazione di quelle generali cautele antinfortunistiche che l’articolo in questione intende prevedere. Per quanto attiene al rapporto fra comportamento colposo del lavoratore e responsabilità dell’imprenditore, la giurisprudenza ha individuato alcuni punti di riferimento da tenere presente nella valutazione dei fatti accaduti che risulta opportuno ricordare. La Suprema Corte a riguardo ha da tempo affermato che la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dalla condotta imprudente del lavoratore, se non nei casi in cui quest’ultima presenti i caratteri dell’abnormità ed imprevedibilità. Il principio appare dunque così sintetizzabile: la colpa del lavoratore può concorrere con quella dell’imprenditore ed il conseguente obbligo risarcitorio dello stesso può vedersi ridotto proprio in virtù dell’imprudenza (o di altro eventuale profilo di colpa) dell’infortunato, ma l’esonero di re-

Si vedano le considerazioni a suo tempo svolte da Pantè, Ultimi confini dell’esonero di responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio del dipendente, in Resp. civ. e prev., 1991, 916. 17

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sponsabilità del datore di lavoro esiste solo se il comportamento imprudente del lavoratore è tale (abnorme ed imprevedibile) da escludere addirittura il nesso di causa fra condotta del titolare dell’azienda (o suo preposto) ed infortunio18. Ciò significa che, se esiste un mero rapporto di causa-effetto fra condotta del datore di lavoro ed infortunio, di fatto nella prassi a ben poco giova il tentativo di dimostrare un’assenza di responsabilità dell’imprenditore che abbia adottato tutte le misure del caso: infatti l’accertamento di colpevolezza prescinde dall’osservanza di tutte le specifiche norme (e sono davvero moltissime) sul presupposto che l’art. 2087 c.c. è norma di chiusura dell’ordinamento e, dunque, lo si ripete, il datore di lavoro non solo deve rispettarle tutte, ma deve anche astenersi da quei comportamenti colposi che, secondo la migliore scienza del momento, possano essere (anzi, siano stati, visto che trattasi di accertamento a fatto compiuto e, dunque, secondo il criterio della “prognosi postuma”) una minaccia per l’integrità psico-fisica del lavoratore. La giurisprudenza di legittimità è, tuttavia, costante nel ritenere che l’art. 2087 c.c. non integri un’ipotesi di responsabilità oggettiva19, risultando necessario che l’evento sia riferibile alla colpa del datore di lavoro, ma la realtà appare diversa. Infatti, esclusi il caso in cui, come detto, il compor-

Cass., 29.5.1997, n. 4782, in Giust. civ., 1997, I, 3084; Cass., 8.4.2002, n. 5024, in Mass. Giust. civ., 2002, 608; Cass., 25.6.2006, n. 12445, in Foro it., 2006, I, 2738. Il medesimo principio è stato ripreso di recente laddove si è affermato che “In tema di infortuni sul lavoro e di cosiddetto rischio elettivo, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute dal datore di lavoro. Spetta a quest’ultimo, poi, l’onere di provare di aver adempiuto l’obbligo di sicurezza in materia di lavoro, compreso quello formativo e quello informativo, ossia dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie a impedire l’evento dannoso e di aver vigilato circa l’effettivo uso delle misure di sicurezza. A ribadire tali principi in materia di sicurezza sul lavoro è la Cassazione pronunciandosi su un ricorso contro il decreto con cui il giudice delegato al fallimento aveva rifiutato il credito vantato da un dipendente a seguito di un infortunio sul lavoro”, Cass., 13.1.2017, n. 798, con nota di De Matteis, consultabile all’indirizzo: www.ilgiuslavorista.it 18

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Cass., 27.6.1998, n. 6388, in Mass. Giust. civ., 1998, 1413.

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tamento del lavoratore si sia posto come causa del tutto estranea al rischio lavorativo, e dunque la responsabilità sia esclusa non per assenza di colpa ma per mancanza del nesso di causa, non si ravvisano ipotesi concrete, per l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 2087 c.c., di infortuni causati dal datore di lavoro cui non sia imputabile un qualche comportamento colposo. La tutela legislativa mira, inoltre, a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non soltanto dai rischi derivanti da accidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire da sue stesse avventatezze, negligenze e disattenzioni, purché, come si è detto, normalmente connesse all’attività lavorativa20. Ricordiamo, su questo aspetto, la recente pronuncia della Suprema Corte “[…] Questa Corte ha ripetutamente chiarito che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (v., fra le tante, Cass., 21 maggio 2002 n. 7454; 27 febbraio 2004 n. 4075; 17 aprile 2004 n. 7328; 14 marzo 2006 n. 5493)”21.

4. Il contagio del personale sanitario In questo generale contesto si pone il tema della tutela previdenziale e delle eventuali azioni di re-

Cass., 6.11.2006, n. 41951, in Guida al dir., 2007, 65 (S.M.); Sulla base delle previsioni dell’art. 2087 c.c. è stata dichiarata la responsabilità del datore di lavoro in caso di lesioni subite dai dipendenti per aggressioni di terzi, quando la tipologia del lavoro renda possibile o frequente la fattispecie dannosa (Es. rapine nelle banche), per la mancata vigilanza sull’eventuale manomissione dei macchinari da parte dei dipendenti, per gli infortuni occorsi in ragione della cattiva organizzazione del lavoro. 20

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Cass., 11.1.2007, n. 399, in Mass. Giust. civ., 2007, 1.


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gresso/rivalsa dell’INAIL nei confronti del responsabile civile, nonché il tema assicurativo privato, ovvero quello della garanzia RCO. L’art. 42, comma 2°, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 sancisce che “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”. Dalla lettura di tale articolo sembrerebbero potersi trarre alcune conclusioni: (i) La prima è abbastanza ovvia: avere contratto il Coronavirus in occasione di lavoro dà diritto al lavoratore di percepire la prestazione indennitaria; (ii) L’aver contratto il Coronavirus costituisce per l’INAIL un infortunio sul lavoro, ma sotto un profilo del calcolo del premio tali eventi infortunistici non vengono calcolati; (iii) Gli eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa. Proprio relativamente a quest’ultima frase – invero non felicissima sotto il profilo della chiarezza – sono già state sviluppate due ipotesi interpretative. La prima in chiave no fault vedrebbe l’INAIL farsi carico – previo pagamento dei relativi premi da parte del datore di lavoro – del particolarissimo rischio Covid-19, ma con rinuncia a rivalersi nei confronti del datore di lavoro sulla scorta di una vera e propria mutualizzazione del rischio; la seconda vede invece l’applicazione dei consueti parametri all’ipotesi “infortunio da Covid-19”. Come visto, tuttavia, la teoria innovativa altro non fa che richiamare quanto già previsto negli anni

’60 e poi smantellato: come si è già visto, il tema della rinuncia alla rivalsa nei confronti del datore di lavoro sul presupposto del suo esonero di responsabilità per qualsiasi infortunio patito dai dipendenti, salvo il caso della sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, è già da molto tempo presente nel nostro ordinamento e da altrettanto tempo svuotato di ogni significato. Da qui due conseguenze sembrano appalesarsi. La prima è che per il Coronavirus valgono le regole generali di qualsiasi patologia contratta dal lavoratore in occasione del lavoro secondo modalità violente ed esterne22. La seconda comporta che l’INAIL potrà agire in regresso nei confronti del datore di lavoro ogni qual volta sia in grado civilisticamente di dimostrare un nesso causale fra accertate violazioni di norme antinfortunistiche o comunque delle cautele ex art. 2087 c.c., che in concreto e con giudizio ex post avrebbero potuto evitare il contagio. Allorché poi l’INAIL intenda agire nei confronti di un soggetto diverso da quello con il quale ha in essere il rapporto previdenziale (cioè il terzo responsabile che non sia datore di lavoro), dovrà utilizzare la più generale azione di rivalsa concessa agli assicuratori dall’art. 1916 c.c., dovendo tuttavia scontare la ben più complessa prova della responsabilità e del nesso di causa, governata dall’art. 2043 c.c. In una situazione così profondamente e rapidamente in evoluzione è davvero difficile ipotizzare o contestare responsabilità a carico di un datore di lavoro che abbia adottato e che faccia rispettare le poche linee guida (mascherine, termoscanner, distanziamento sociale, igiene…) di provenienza governativa ed ancora più difficile appare ricondurre l’eventuale contagio al lavoro in sé, sia pure in termini di “occasione”. Sembra potersi ipotizzare come credibile un regresso dell’INAIL (e ovviamente un’azione civilistica per danno differenziale del lavoratore o dei suoi eredi) nel caso in cui lo stabilimento sia di-

Sulla natura “tralatizia ed indefettibile” della caratteristica violenta ed esterna dell’infortunio si veda Rossetti, Il Diritto delle Assicurazioni, Padova, II, 587. 22

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ventato un focolaio epidemico, mentre la natura pandemica della malattia sembrerebbe legittimare l’obiezione che la stessa possa essere stata contratta in qualsiasi altro posto ed in qualsiasi altra occasione. Proprio su questo punto vi è tuttavia una profonda differenza fra la categoria più generale del rapporto lavoratore-datore di lavoro e quella più particolare personale sanitario-struttura clinica. Se infatti vi sono forti dubbi sulla possibilità di riferire causalmente il contagio all’aver lavorato in un cantiere o in una fabbrica, il ragionamento muta radicalmente allorché si valuti il caso (purtroppo assai diffuso) di malattie contratte dal personale sanitario nell’esercizio delle proprie funzioni. Il buon senso, prima ancora che si formi una specifica giurisprudenza sul punto, induce a ritenere che in termini di più probabile che non (se si vuole adottare un criterio proprio della responsabilità civile contrattuale) sia maggiore la probabilità che il contagio possa essere avvenuto in occasione ed in ragione del proprio lavoro, ove l’esposizione al rischio è stata infinitamente superiore a quello della vita quotidiana. Il tema da affrontare, quindi, all’interno del contesto normativo e giurisprudenziale appena esaminato sarà quello della sicurezza sul lavoro ex art. 2087 c.c., garantita dalla struttura datoriale al personale medico ed infermieristico. I tentativi di escludere responsabilità per contagi che hanno anche portato alla morte tanti sanitari appaiono discutibili sotto molteplici punti di vista. In primis perché un esonero di responsabilità è già previsto dalla legge e introdurne uno nuovo per il Covid-19 non avrebbe senso; poi parrebbe quantomeno strano (forse anche in contrasto con i principi costituzionali) che tale esonero di fatto non operi quasi mai da un punto di vista civilistico per qualsiasi datore di lavoro, tranne che per le strutture sanitarie nei confronti di quei medici e di quegli infermieri dei quali ogni giorno abbiam sentito tesser le lodi. Da ultimo sia consentito rilevare che vi sono molti infortuni sul lavoro che sono quantomeno in parte addebitabili ad una certa assuefazione al rischio da parte del lavoratore e si è visto come tale aspetto non venga tenuto in nessuna consiResponsabilità Medica 2020, n. 2

Saggi e pareri

derazione da parte della giurisprudenza allorché chiamata a valutare la responsabilità per omesso controllo del datore di lavoro. Ebbene, nel caso del personale sanitario non vi è stata assuefazione al rischio. Vi è stata abnegazione e – in tanti casi – un’abnegazione degna del miglior impegno civile, allo stato delle informazioni in possesso della collettività forse non proprio paragonabile a chi doveva presiedere, nei rispettivi ruoli, alla fornitura e alla messa a disposizione dei necessari presidi di prevenzione e sicurezza. Su questo punto non sia l’esonero, né qualsivoglia richiamo a sistemi no fault, a negare ciò che la legge prevede.

5. Datore di lavoro, dipendenti e garanzia R.C.O. La clausola con la quale le compagnie di assicurazione garantiscono la responsabilità del datore di lavoro a seguito di infortuni subiti dai dipendenti si definisce nella prassi garanzia R.C.O. (Responsabilità civile operai) e si divide, sostanzialmente in due parti23: • una prima, quella classica, volta a tenere indenne l’assicurato dall’azione di regresso dell’INAIL ai sensi degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124/1965 per le prestazioni erogate a lavo-

In taluni casi la medesima garanzia è articolata in un numero maggiore di punti ma sostanzialmente volti a coprire le medesime fattispecie. La ragione di questa divisione è tutta nella rivoluzione provocata dalle sentenze della Corte costituzionale (Corte cost., 15.2.1991, n. 87, cit.; Corte cost., 18.7.1991, n. 356, cit.; Corte cost., 27.12.1991, n. 485, cit.) che nel 1991 sottrassero all’INAIL la possibilità di agire in regresso e surroga nei confronti del datore di lavoro relativamente al danno biologico sofferto dal lavoratore, in quanto tale voce di danno non era oggetto di assicurazione sociale e, dunque, non poteva essere oggetto di azioni di recupero, spettanti, invece, al solo lavoratore danneggiato. Tale mutamento di indirizzo e di approccio, che fino ad allora aveva governato l’assicurazione R.C.O., comportò la necessità (previo pagamento di un premio aggiuntivo) di aggiungere alla prima parte della clausola una seconda che prevedesse la copertura delle richieste del lavoratore per il cosiddetto danno complementare, vale a dire per quelle poste di danno non più comprese nella disciplina del Testo Unico dopo l’intervento della Corte costituzionale. 23


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ratori da lui dipendenti ed assicurati ai sensi del citato d.P.R. (già citato come Testo Unico), • l’altra sempre finalizzata a manlevare l’assicurato, ma per le richieste di risarcimento avanzate ai sensi del codice civile e per danni non rientranti nella disciplina del Testo Unico, cagionati ai lavoratori per morte o lesioni personali dalle quali sia derivata un’invalidità permanente non superiore al …% (da calcolare secondo i criteri utilizzati dall’INAIL ex art. 13, comma 2°, d. lgs. n. 38/2000). Tali coperture vengono sottoscritte dal datore di lavoro per essere tenuto indenne, in caso di infortunio sul lavoro (e anche in caso di malattia professionale qualora sia stata sottoscritta estensione anche alle malattie professionali), sia dal regresso dell’INAIL che dall’azione risarcitoria del lavoratore e/o dei suoi familiari a titolo di danno risarcitorio non coperto dall’INAIL e sul quale, quindi, l’INAIL non ha diritto di regresso). A riguardo, vi sono due “voces” che si stanno diffondendo fra convegni ed immancabili social network e che riguardano, in particolare, la possibilità per l’assicuratore R.C.O. di negare l’eventuale manleva per il regresso INAIL o per le richieste di danno differenziale che dovessero pervenire dal prestatore d’opera sanitario per contagio da Covid-19. La negazione della copertura assicurativa verrebbe ora dalla natura non infortunistica della pandemia, con conseguente operatività della garanzia solo nei limitatissimi casi in cui la struttura sanitaria abbia contratto una garanzia R.C.O. con estensione alle malattie professionali, ora dall’essersi verificato un aggravamento del rischio ritenuto non sostenibile. Ammesso che tali riflessioni pervengano effettivamente da qualche assicuratore del mercato, non vi è dubbio alcuno che esse non siano in alcun modo sostenibili. Per quanto attiene alla operatività della garanzia R.C.O. nel caso di contagio da Covid-19, la risposta è piuttosto semplice: dal momento che la garanzia prestata dagli assicuratori fa riferimento per relationem alla rivalsa INAIL, il tema risulta del tutto ozioso poiché ogni volta che l’INAIL eserciterà il regresso, l’assicuratore sarà obbligato a

tenere indenne l’assicurato perché questo ha previsto in polizza. Qualora il regresso non abbia fondamento nel merito, l’assicurazione sarà comunque operante in quanto la difesa dell’assicurato costituisce una delle modalità attraverso le quali l’assicuratore di responsabilità civile si è obbligato a tenerlo indenne. Ciò chiarito, appare invero questione vana discutere se il contagio da Covid-19 sia infortunio o malattia professionale, ciò perché: – non vi è dubbio che il Legislatore, con l’art. 42 d.l. n. 18/2020, ha indicato il contagio da Covid-19 come infortunio. – L’infezione microbica o batterica è sempre stata considerata un infortunio, avendo il contagio natura violenta ed esterna, caratteristica questa ripresa dal t.u. n. 1124/1965. – Ed ancora, se da una parte è indiscutibile che l’inserimento di determinate patologie nell’ambito infortunistico e non nelle malattie professionali trovi la sua ragione nel fatto che un tempo fossero indennizzabili solo quelle “tabellate”, con la conseguenza che oramai tale categorizzazione non avrebbe più ragione di essere, dall’altra è altrettanto vero che una patologia da amianto o una ipoacusia risultano del tutto diverse dal contagio da Covid-19 o da una epatite contratta da un biologo che inavvertitamente si punga il dito con una siringa infetta in occasione di una analisi di materiale contaminato. – Infine, se è vero che la definizione di legge del contagio da Covid-19 come infortunio non ha rilevanza per le polizze infortuni private – con la conseguenza che sarà necessaria una verifica di ciascuna di queste garanzie per stabilire se la prestazione assicurativa sia o meno garantita24 – è fuori dubbio che allorché l’INAIL eserciti il regresso contro il datore di lavoro per una prestazione indennitaria erogata a seguito di contagio Covid-19, di esso dovrà occuparsi l’assicuratore R.C.O. anche qualora non abbia

Hazan, Codrino, Polizza infortuni e Covid-19, spunti di riflessione, in Insurance Daily, 10.4.2020. 24

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esteso la propria garanzia alle malattie professionali. Ciò perché la prestazione dell’INAIL è ex lege in virtù di un infortunio e, quindi, tale punto non è sindacabile dall’assicuratore che nella sua garanzia abbia fatto rimando al testo di legge. Sotto il profilo dell’aggravamento si può osservare quanto segue. L’art. 1898 c.c. recita testualmente: “Il contraente ha l’obbligo di dare immediato avviso all’assicuratore dei mutamenti che aggravano il rischio in modo tale che, se il nuovo stato di cose fosse esistito e fosse stato conosciuto dall’assicuratore al momento della conclusione del contratto, l’assicuratore non avrebbe consentito l’assicurazione o l’avrebbe consentita per un premio più elevato. L’assicuratore può recedere dal contratto, dandone comunicazione per iscritto all’assicurato entro un mese dal giorno in cui ha ricevuto l’avviso o ha avuto in altro modo conoscenza dell’aggravamento del rischio. Il recesso dell’assicuratore ha effetto immediato se l’aggravamento è tale che l’assicuratore non avrebbe consentito l’assicurazione; ha effetto dopo quindici giorni, se l’aggravamento del rischio è tale che per l’assicurazione sarebbe stato richiesto un premio maggiore. Spettano all’assicuratore i premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui è comunicata la dichiarazione di recesso. Se il sinistro si verifica prima che siano trascorsi i termini per la comunicazione e per l’efficacia del recesso, l’assicuratore non risponde qualora l’aggravamento del rischio sia tale che egli non avrebbe consentito l’assicurazione se il nuovo stato di cose fosse esistito al momento del contratto; altrimenti, la somma dovuta è ridotta, tenuto conto del rapporto tra il premio stabilito nel contratto e quello che sarebbe stato fissato se il maggiore rischio fosse esistito al tempo del contratto stesso”. La semplice lettura dell’articolo consente di smentire qualsiasi ipotesi che sia stata ventilata (ci si domanda invero se qualcuno abbia mai potuto argomentare a riguardo) circa la possibilità per un assicuratore di sottrarsi al rischio Covid-19, invocando l’aggravamento del rischio.

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Saggi e pareri

A riguardo, basti rilevare che l’ipotesi prevista dal legislatore (non ci si dimentichi che l’assicurazione è un contratto aleatorio) riguarda mutamenti che aggravino il rischio in modo tale che “[…] se il nuovo stato di cose fosse esistito e fosse stato conosciuto dall’assicuratore al momento della conclusione del contratto, l’assicuratore non avrebbe consentito l’assicurazione o l’avrebbe consentita per un premio più elevato”. In questi casi l’assicuratore può recedere dal contratto entro un mese dal giorno in cui ha ricevuto l’avviso o ha avuto in altro modo conoscenza dell’aggravamento del rischio. Ebbene, dal momento che la pandemia risulta evento piuttosto noto (pare che il termine pandemia derivi dall’essere tale patologia alquanto diffusa, così come risulta che diversi media anche internazionali se ne siano occupati), appare alquanto singolare pensare che gli assicuratori non ne siano a conoscenza. Se dunque il mondo assicurativo può legittimamente ritenersi a conoscenza dell’esistenza della pandemia – come è ragionevole affermare – sembra a chi scrive che sia trascorso più di un mese da quando il Covid-19 ha iniziato ad occupare i nostri giorni, sicché di quale aggravamento ex art. 1898 c.c. si vuol parlare? E del resto, non sussistono neppure argomenti per ipotizzare che un singolo assicurato possa aver avuto cognizione dell’aggravamento del rischio prima dell’assicuratore, per cui discutere oltre è cosa vana. Alla luce di tali considerazioni, sembra a chi scrive che non vi siano ragioni per sottrarre la vicenda Covid-19 alla usuale e consolidata disciplina della responsabilità datoriale da infortuni sul lavoro e che allo stesso modo non vi siano ragioni che consentano arretramenti o fughe del mondo assicurativo, che risulterebbero giuridicamente non giustificate oltre che socialmente poco comprensibili. Certamente vi è un problema di svuotamento dell’esonero del datore di lavoro, ma tale svuotamento preesiste al Covid-19 e si fonda sostanzialmente sulla possibilità per l’INAIL e per il lavoratore di richiedere in sede civile l’accertamento incidenter tantum dell’esistenza del fatto reato.


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Se davvero si volesse accedere – e non soltanto in ambito infortunistico sul lavoro – ad un sistema no fault, si dovrebbe tornare alle originarie disposizioni di legge, ove il regresso contro l’assicurato era consentito soltanto allorché il comportamento dello stesso avesse indebitamente alterato il rischio, violando la legge penale. Se invece ci si sposta – come oramai usualmente accade25 – verso la responsabilità oggettiva, ci si dirige in una direzione opposta, ovvero da un sistema previdenziale con pochi processi colpevolizzanti ad uno di responsabilità oggettiva, ove la colpa esiste quasi a prescindere. Se questo è il sistema e se davvero si volesse adottare un criterio no fault (chi scrive pensa che questo non sia affatto nelle previsioni, purtroppo), allora deve avvenire per tutti e non soltanto per proteggere eventuali responsabilità manageriali sanitarie a danno delle vittime, che in questa fattispecie sono anche quelle a cui è dovuta la gratitudine del Paese.

Nucci, Partenza, La responsabilità civile delle imprese e la crisi dell’assicurazione di RC, Milano, 2018. 25

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Il ruolo dell’art. 2236 c.c. nella p responsabilità sanitaria per danni da Covid-19 Mirko Faccioli

Professore nell’Università di Verona Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’art. 2236 c.c. nella responsabilità medica. – 3. L’art. 2236 c.c. nell’epidemia da Covid-19: la responsabilità del personale sanitario. – 4. L’art. 2236 c.c. nell’epidemia da Covid-19: la responsabilità della struttura. – 5. Riflessioni conclusive: verso una disciplina speciale della materia?

Abstract: Il contributo analizza i possibili spazi applicativi della limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, prevista dall’art. 2236 c.c. per il professionista chiamato ad affrontare «problemi tecnici di speciale difficoltà», nell’ambito della responsabilità medica per danni subiti da pazienti affetti da Covid-19. Fa da sfondo a questa indagine l’interrogativo circa l’opportunità di introdurre in via legislativa un’apposita normativa speciale della materia. The paper examines the possible application of the limitation of liability exclusively to cases of willful misconduct or gross negligence, as provided by art. 2236 of the Italian Civil Code, with regard to the professional dealing with “particularly difficult technical problems”, in the context of medical liability for damages suffered by patients suffering from Covid-19. In the background of this investigation lies the question concerning the opportunity to introduce special legislation on the matter.

1. Introduzione Di principio, le ipotesi di responsabilità civile astrattamente ipotizzabili nella cura dei malati di

Covid-19 non differiscono da quelle nelle quali possono generalmente incorrere i medici impegnati a contrastare una qualsiasi patologia infettiva: un errore diagnostico, configurabile per non avere correttamente e tempestivamente individuato il virus sulla base del quadro clinico del paziente; un errore terapeutico, relativo quindi all’esecuzione dei trattamenti finalizzati a guarire il malato; un errore o un’omissione attinenti al contenimento del virus, vale a dire all’adozione delle misure precauzionali (isolamento del paziente, sanificazione ambientale, disinfezione degli strumenti medici riutilizzabili, utilizzo di camici, mascherine e occhiali protettivi, ecc.) atte ad evitare che lo stesso si diffonda contagiando altre persone. L’emergenza epidemica che si è presentata in questi mesi impone però di confrontarsi con diversi elementi di criticità: il virus SARS-CoV-2 e la patologia Covid-19 sono tanto facili a diffondersi quanto (ancora) poco conosciuti dalla scienza medica; l’enorme e improvvisa quantità di malati affetti dal morbo si è rivelata molto superiore rispetto alla disponibilità delle risorse necessarie ad affrontarlo, dai c.d. d.p.i. (dispositivi di protezione individuale) agli apparecchi di ventilazione forzata ai posti di terapia intensiva; per affrontare tale emergenza si è dovuto fare massiccio ricorso,

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in supporto di infettivologi e rianimatori-intensivisti, a medici appartenenti ad altre specializzazioni, che si sono così trovati ad operare al di fuori degli ambiti di propria competenza e per giunta senza copertura assicurativa. Tale drammatico quadro, a tutti ben noto, ha pertanto suscitato in molti degli addetti ai lavori la preoccupazione che ne possa conseguire un’eccessiva e ingiustificata esposizione giudiziaria per il personale sanitario1, tanto che in vista della conversione in legge del provvedimento erano state presentate diverse proposte di emendamento al decreto “Cura Italia” (d.l. 17 marzo 2020, n. 18) che miravano a scongiurare tale rischio tramite l’introduzione di norme dirette ad escludere o quantomeno limitare la responsabilità medica per eventi avversi alla salute dei pazienti occasionati dal Covid-192. Con il successivo ritiro di tali emendamenti la questione è rimasta in sospeso, sicché occorre confrontarsi con la diversa opinione di quanti ritengono che l’ordinamento sia già attrezzato per evitare simili eccessi e che un’eventuale disciplina della materia, non potendo che avere un valore ricognitivo del diritto vigente, potrebbe al più giustificarsi solamente sul piano dell’opportunità politica3.

Com’è facile immaginare, questa è la posizione – del tutto comprensibilmente – assunta dalle associazioni di categoria dei medici e degli altri operatori della salute. 1

Li ha esaminati Capecchi, Coronavirus e responsabilità sanitaria: quali prospettive di riforma, consultabile all’indirizzo: www.rivistaresponsabilitamedica.it. 2

Del Prato, Il post Covid-19 e la responsabilità dei medici, consultabile all’indirizzo: www.formiche.net; Scoditti, Un’ipotesi di inserimento di norme sulla responsabilità civile sanitaria nella legislazione COVID-19, consultabile all’indirizzo: www.questionegiustizia.it, 10 aprile 2020; Bellisario, Covid-19 e (alcune) risposte immunitarie del diritto privato, consultabile all’indirizzo: www.giustiziacivile.com, approfondimento del 27 aprile 2020, 5 s.; Facci, Covid 19, medicina delle catastrofi e responsabilità sanitaria, consultabile all’indirizzo: www.giustiziacivile.com, approfondimento del 6 maggio 2020, 12; nello stesso senso, v. pure il documento dell’associazione Civilisti Italiani dal titolo Una riflessione ed una proposta per la migliore tutela dei soggetti pregiudicati dagli effetti della pandemia, consultabile all’indirizzo: www. juscivile.it. Appare più articolata la posizione di Ponzanelli, La responsabilità sanitaria e i possibili contenziosi da Covid, consultabile all’indirizzo: www.giustiziacivile.com, articolo

Saggi e pareri

Nella disamina di tale questione è doveroso porre l’attenzione sulla possibilità di applicare ai casi considerati l’art. 2236 c.c., il quale prevede una limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave per il prestatore d’opera professionale che si sia trovato ad affrontare «problemi tecnici di speciale difficoltà» nell’esecuzione della prestazione4.

2. L’art. 2236 c.c. nella responsabilità medica Vale la pena osservare che, al contrario di quanto si potrebbe a prima vista pensare, la norma testé richiamata non contempla alcun trattamento di favore per il professionista rispetto alle regole generali, in quanto, imponendo di valutare la colpa alla luce della particolare difficoltà della prestazione, e cioè delle circostanze del caso concreto, costituisce una esemplificazione della generica ed elastica nozione della diligenza professionale contenuta nell’art. 1176, comma 2°, c.c. Ciononostante la norma non appare inutile ed è sorretta da una condivisibile ratio, illustrata nel n. 917 della Relazione al codice, che consiste nell’obiettivo di conciliare «due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiustificate rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista» stesso. Proprio alla luce del suo fondamento l’art. 2236 c.c. è generalmente considerato applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale, inquadra-

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del 19 maggio 2020, 8 ss., il quale ritiene che nei casi di colpa del personale sanitario eventuali eccessi di esposizione giudiziaria dovrebbero essere evitati grazie alla previsione dell’art. 2236 c.c., mentre sarebbe opportuno introdurre un’apposita disciplina che sostituisca alla logica risarcitoria della responsabilità civile un sistema di carattere indennitario (sul punto v. pure infra, nella parte finale del par. 5) per le ipotesi di responsabilità organizzativa delle strutture sanitarie (sulla quale v. infra, par. 4). Per una più ampia analisi della norma rispetto a quanto si avrà modo di dire in questo contributo si rinvia a Faccioli, L’art. 2236 c.c. e l’onere della prova, in Le responsabilità nei servizi sanitari, diretto da Franzoni, Bologna, 2011, 61 ss. 4


Art. 2236 c.c. e responsabilità per danni da Covid-19

mento della responsabilità del medico che come noto oggi costituisce la “regola” in virtù dell’art. 7, comma 3°, della c.d. Legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017). Secondo una consolidata impostazione, la condotta esigibile dal medico quale soggetto esercente una professione protetta va, infatti, sempre valutata alla stregua delle norme di cui agli artt. 1176, comma 2° e 2236 c.c., queste ultime designando un modello di comportamento che, essendo ricollegato all’appartenenza a un determinato status professionale, non è destinato a cambiare in ragione del fatto che egli svolga o meno il proprio operato in virtù della stipulazione di un contratto d’opera intellettuale con il paziente5. Sul piano della fattispecie, invece, la norma in esame è da sempre fatta oggetto di un’interpretazione particolarmente restrittiva da parte della giurisprudenza: da un lato, la sua portata applicativa viene limitata all’aspetto della perizia del medico, lasciando fuori dal suo ambito di riferimento i profili della diligenza e della prudenza6; dall’altro lato, i nostri giudici ritengono che il caso affidato al medico possa veramente considerarsi di particolare difficoltà solo quando esso richie-

Fra i tanti v., anche per ulteriori citazioni in tal senso, Fio- Marchetti, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 2006, 173; De Matteis, Colpa medica e inadempimento delle strutture sanitarie, in Contr. e impr., 2015, 561. Questa impostazione è coerente, del resto, con il più generale principio dell’unitarietà della colpa civile, che risolvendosi in una valutazione del comportamento concretamente tenuto dal soggetto agente alla luce di un parametro oggettivo costituito da un modello di condotta richiesto dall’ordinamento al fine di evitare la lesione di interessi altrui, nell’area aquiliana non può che essere ricostruita, stante la mancanza di specifiche disposizioni sul punto, secondo gli stessi criteri dettati dalla legge nell’ambito della responsabilità per inadempimento: Bianca, Diritto civile. 5. La responsabilità, 2a ed., Milano, 2002, 577 ss. 5

ri

V., ex multis, Cass., 12.3.2013, n. 6093. Detta interpretazione è stata fatta propria anche da Corte Cost., 28.11.1973, n. 166, nella quale è stato, per la precisione, affermato che l’art. 2236 c.c. «non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di formale severità». 6

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da un impegno intellettuale e una preparazione professionale superiori a quelli del professionista medio, il che dovrebbe intendersi accadere, precisamente, soltanto quando il caso stesso si presenti come eccezionale e straordinario, per non essere ancora stato adeguatamente studiato nella scienza e sperimentato nella pratica, ovvero per essere oggetto di dibattiti scientifici con sperimentazione di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi o incompatibili7. Questi orientamenti giurisprudenziali vengono per lo più criticati dalla dottrina8, che da più parti, e non a torto, li ha accusati di essere eccessivamente rigorosi e di comportare l’«azzeramento»9 e la «sterilizzazio-

Con puntuali interventi la Suprema Corte ha, inoltre, ulteriormente precisato: che la difficoltà dell’intervento non si identifica con l’aleatorietà, perché anche l’effetto di una prestazione terapeutica di facilissima esecuzione, come un’iniezione o la somministrazione di un farmaco, può in talune ipotesi apparire del tutto aleatorio (Cass., 21.6.2004, n. 11488); che anche quando ci si trovi di fronte ad un intervento chirurgico che presenta il carattere della speciale difficoltà, la limitazione di responsabilità prevista dall’art. 2236 c.c. non si estende alla fase post-operatoria, nella quale il medico risponde, anche per colpa lieve, dell’inadempimento del dovere di vigilare attentamente sul paziente e adottare tutte le precauzioni e i rimedi conosciuti dalla scienza e dalla pratica medico-specialistica al fine di evitare che insorgano complicazioni (Cass., 28.9.2009, n. 20790); infine, che il requisito della speciale difficoltà della prestazione non è integrato dall’incompletezza o dalla reticenza delle informazioni fornite dal paziente circa le proprie condizioni di salute, laddove queste ultime siano accertabili attraverso la corretta esecuzione della prestazione curativa (Cass., 12.9.2013, n. 20904). 7

Ma per una posizione restrittiva in linea con la giurisprudenza v. Ugas, Art. 2236 – Responsabilità del prestatore d’opera, in Dell’impresa e del lavoro. Artt. 2188-2246. Norme collegate, a cura di Cagnasso e Vallebona, in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, Torino, 2014, 889 ss., secondo cui la norma dovrebbe trovare spazio solamente in «casi limitati» e «caratterizzati sia dalla incertezza del conseguimento del risultato sia soprattutto dalla incertezza della prestazione richiesta per raggiungerlo», che per l’appunto si avrebbero «qualora il debitore assuma un impegno rispetto al quale non esiste né un percorso causale definito scientificamente, né, tanto meno, regole scientifiche ed operazioni tramite le quali intraprenderlo e seguirlo» e, pertanto, «manchi una regola di condotta o essa sia del tutto confusa o incerta». 8

Foglia, Il prisma della prestazione medica e l’“azzeramento” dell’art. 2236 cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 372 ss. 9

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ne»10 della norma di cui si discute; e nei tempi più recenti questi rilievi hanno forse iniziato ad essere considerati nelle aule di giustizia, posto che la magistratura pare avere avviato un processo di riscoperta del significato e delle potenzialità applicative dell’art. 2236 c.c. richiamando quello che è stato definito lo «spirito riequilibratore» delle sorti delle controversie in ambito sanitario introdotto nel sistema dall’avvento della Legge Gelli-Bianco11.

3. L’art. 2236 c.c. nell’epidemia da Covid-19: la responsabilità del personale sanitario Ad ogni modo, anche a volere interpretare la norma nella maniera più restrittiva e rigorosa possibile pare davvero difficile negare che gli operatori sanitari impegnati nella cura dei pazienti affetti da Covid-19 debbano beneficiare dell’applicazione dell’art. 2236 c.c. Depongono in tal senso, innanzitutto, la novità della patologia e la limitatezza delle conoscenze scientifiche disponibili sul morbo12. Allo stato at-

Granelli, La medicina difensiva in Italia, in Resp. civ. e prev., 2016, 32. 10

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Cfr. Trib. Roma, 1.2.2018; Trib. Napoli, 26.11.2018.

Del Prato, op. cit.; Bellisario, op. cit., 6; Pisu, Diritto alla salute e responsabilità medica alla prova del CoViD-19, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, Special Issue 1/2020, 412. Per una diversa opinione v., però, Scoditti, op. cit., secondo cui «la pandemia […] non incide sulla perizia, implicando problemi tecnici di speciale difficoltà, ma sulle comuni regole di diligenza e prudenza, da seguire per la conservazione della possibilità di adempiere la prestazione professionale. Il problema posto dalla pandemia è quello della sproporzione tra le risorse umane e materiali disponibili e il numero dei pazienti su cui è necessario intervenire. […] L’intervento sanitario imposto dalla pandemia segue procedure vincolate, le quali possono acquistare anche il carattere della routinarietà per il tipo di patologia da trattare». Per analoghi rilievi, v. pure Facci, op. cit., 11, il quale afferma che «i problemi tecnici di speciale difficoltà – la cui esistenza costituisce il presupposto per l’applicazione dell’art. 2236 c.c. – si riferiscono comunque ad un contesto di “normalità” che non pare cogliere in pieno la straordinaria emergenza della situazione provocata dal Covid 19, allorché le prestazioni siano rese all’interno di presidi sanitari in cui le regole di buona organizzazione sono state sconvolte dalla necessità di far fronte ad un’urgenza catastrofale, con risorse e mezzi 12

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Saggi e pareri

tuale infatti ancora non vi sono farmaci testati di certa efficacia contro il virus, né sono state sviluppate linee guida terapeutiche condivise e consolidate nella comunità scientifica o buone pratiche clinico-assistenziali (se non quelle relative alla terapia di supporto, come ad esempio l’assistenza intensivistica nei casi più gravi), sicché appare anche piuttosto improbabile che al medico possa essere rimproverato il fatto di non essersi attenuto, come dispone l’art. 5 della Legge Gelli-Bianco, alle «raccomandazioni previste dalle linee guida» accreditate dalle istituzioni con le modalità disposte nella medesima legge e, in loro mancanza, alle «buone pratiche clinico-assistenziali». È verosimile che tutto ciò sia destinato a valere, in particolare, nei casi in cui al medico venga contestato un errore nell’esecuzione di trattamenti terapeutici su malati di Covid-19. A conclusioni almeno parzialmente diverse si potrebbe forse giungere, invece, con riguardo a due diversi ambiti. Il primo è quello dell’errore e del ritardo diagnostico, in quanto va considerato che, seppure con tutte le peculiarità da valutare caso per caso, a partire dalla mutevolezza dei tempi di incubazione del virus, l’infezione da SARS-CoV-2 può essere riconosciuta da sintomi sufficientemente noti – benché poco specifici – ed è accertabile con metodologie di ricerca del morbo di principio affidabili. Un altro settore nel quale potrebbero aprirsi maggiori spazi per un’affermazione di responsabilità del personale sanitario è, poi, quello relativo alla mancata adozione degli accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all’interno dell’ospedale, posto che la concreta adozione di tali misure di prevenzione appare di per sé connotata da un quoziente di complessità e di aleatorietà sensibilmente inferiore rispetto a quello che caratterizza la somministrazione della terapia ai pazienti affetti dal morbo: ne è riprova il fatto che, in tema di infezioni nosocomiali, la giurisprudenza ha più vol-

limitati rispetto alla gravità della situazione. Per questa ragione, appare più pertinente con lo scenario de quo il richiamo alla clausola generale di impossibilità della prestazione di cui all’art. 1218 c.c.».


Art. 2236 c.c. e responsabilità per danni da Covid-19

te negato l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. facendo leva, per l’appunto, sul carattere del tutto ordinario di operazioni quali la sterilizzazione della sala operatoria, la disinfezione degli ambienti ospedalieri, la pulizia degli strumenti clinici, e simili13. Va peraltro rilevato che anche nelle ipotesi sopra considerate la situazione di emergenza in cui il personale sanitario si è spesso trovato ad operare nella cura dei pazienti affetti da Covid-19 potrebbe portare al concretizzarsi, quantomeno nella grande maggioranza dei casi, di quella speciale difficoltà della prestazione che costituisce il requisito per l’applicazione dell’art. 2236 c.c.14: in effetti è corretto ritenere che nella valutazione di tale presupposto, dovendosi adottare non una prospettiva astratta e potenziale bensì una visuale che tenga conto delle effettive problematicità che il medico si è concretamente trovato a fronteggiare, si possano e si debbano senz’altro tenere in considerazione le criticità del contesto organizzativo e strutturale nelle quali è stata eseguita la prestazione sanitaria dannosa15. Tutto questo comunque non significa che la situazione emergenziale innescata dall’epidemia si presti a costituire un paravento dietro il quale possano essere nascoste le responsabilità conseguenti ad episodi di vera e propria malpractice, che rimane sempre astrattamente ipotizzabile an-

V., per esempio, Trib. Casale di Monferrato, 6.7.1966; App. Torino, 12.1.1968, n. 35; Cass., 18.10.2005, n. 20136. In senso conforme sul punto v., in dottrina, Ronchi, La responsabilità civile della struttura e del medico per le infezioni nosocomiali – II parte, in Resp. civ. e prev., 2007, 1810 ss. 13

Bellisario, op. cit., 6; Ponzanelli, op. cit., 9; Hazan-Zorzit, Corona Virus e Responsabilità (medica e sociale), consultabile all’indirizzo: www.ridare.it, Focus del 10 marzo 2020. Con riguardo ai casi di danno da contagio va poi aggiunto che la pronuncia di una sentenza di condanna nei confronti di uno o più operatori sanitari potrebbe facilmente incontrare l’ostacolo, già abbondantemente sperimentato nelle controversie in materia di infezioni nosocomiali, rappresentato dall’impossibilità di identificare con precisione il singolo soggetto (o i singoli soggetti) cui ascrivere il comportamento che ha effettivamente causato l’evento avverso (sono i c.d. danni anonimi): con ogni probabilità, in queste ipotesi il mirino del giudice finirà per spostarsi sulla responsabilità “organizzativa” della struttura sanitaria, argomento che costituisce l’oggetto del par. successivo.

14

15

Cfr., tra le altre, Cass., 28.9.2009, n. 20790.

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che in simili contesti. Al contrario, come giurisprudenza e dottrina hanno ripetutamente avuto occasione di affermare, il medico chiamato ad operare in un contesto di criticità deve comunque fare tutto quanto rientra nelle sue possibilità per cercare di sopperire alle sfavorevoli circostanze in cui deve essere eseguito il trattamento e adottare, nei limiti in cui ciò sia tecnicamente possibile, quelle misure e quegli accorgimenti che siano in grado di porvi (totalmente o anche solo parzialmente) rimedio16: qualora si riscontri che non ha ottemperato a tale obbligo, quindi, anche un operatore sanitario impegnato nel contrasto al Covid-19 ne dovrà rispondere come un qualsiasi altro professionista.

4. L’art. 2236 c.c. nell’epidemia da Covid-19: la responsabilità della struttura Le potenzialità applicative dell’art. 2236 c.c. vengono invece meno quando dalla responsabilità individuale del personale medico si trascorre alla responsabilità della struttura sanitaria. Com’è noto, da tempo si riconosce che sulle strutture sanitarie incombe, oltre e anche a prescindere dalla responsabilità indiretta per la malpractice del personale medico che opera al loro interno, un’autonoma e diretta responsabilità derivante dall’inadempimento degli obblighi organizzativi, insorgenti dal contratto di spedalità concluso con i pazienti, che impegnano ogni nosocomio a fare in modo che le cure vengano prestate in un contesto strutturale di livello adeguato rispetto alle circostanze del caso concreto, quali la tipologia e le dimensioni dell’ente, il suo bacino d’utenza, le caratteristiche dei servizi prestati dagli ospedali affini, lo stato di avanzamento dell’evoluzione scientifica e tecnologica del momento storico, e così via, senza ovviamente dimenticare il fattore costituito dall’ineludibile limitatezza delle risorse

Sul punto v., amplius, Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie, Pisa, 2018, 135 ss.; Id., L’incidenza delle carenze strutturali e organizzative dell’ente sanitario sui doveri e sulle responsabilità individuali del medico, in Resp. civ. e prev., 2016, 1851 ss. 16

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finanziarie delle quali è dato disporre. Essendo l’adempimento di tali doveri caratterizzato da connotati di governabilità e di controllabilità da parte del debitore che ne suggeriscono l’accostamento alla categoria delle obbligazioni di risultato, la responsabilità per “difetto di organizzazione” che consegue alla loro inosservanza viene dalla parte maggioritaria della dottrina ricostruita impiegando, in luogo della regola della colpa utilizzata per valutare la responsabilità individuale del medico, un più rigido parametro di natura oggettiva17, come tale incompatibile con il criterio soggettivo sul quale è imperniato l’art. 2236 c.c., che addossa all’ospedale il rischio dell’inadempimento derivante da tutte le anomalie che si possano verificare nell’ambito del proprio apparato organizzativo fino al limite dell’impossibilità sopravvenuta non imputabile18. Tutto questo peraltro non significa che le strutture sanitarie corrano il rischio di essere travolte da una illimitata responsabilità civile per eventi avversi occasionati dal Covid-19 e ricollegati al concetto di deficit organizzativo. Al contrario, la configurabilità di una responsabilità siffatta parrebbe dover essere tendenzialmente esclusa con riguardo a danni derivanti dall’attività di diagnosi e di erogazione delle terapie ai pazienti affetti dal morbo. Il livello del substrato organizzativo concretamente e legittimamente esigibile dagli ospedali è, come già detto, inevitabilmente condizionato dalla limitatezza delle risorse finanziarie che gli stessi hanno a disposizione nonché dall’obbligo di impiegare tali risorse secondo criteri di appropriatezza, razionalità ed efficienza: così stando le cose, appare alquanto improbabile l’eventualità che una qualche struttura sanitaria possa essere reputata responsabile di non essere sufficiente-

In questo senso si sono espresse, di recente, anche Cass., 11.11.2019, n. 28987 e Cass., 6.7.2020, n. 13869. 17

Sul punto v., anche per ulteriori riferimenti di dottrina in tal senso, Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione, cit., spec. 81 ss., cui adde, nella dottrina successiva, Scognamiglio, La responsabilità sanitaria nel nuovo “diritto vigente”: problemi e prospettive, in Risarcimento del danno e assicurazione nella nuova disciplina della responsabilità sanitaria (l. 8 marzo 2017, n. 24), a cura di Faccioli e Troiano, Napoli, 2019, 29 ss. 18

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Saggi e pareri

mente attrezzata per fare fronte ad un evento straordinario qual è l’epidemia in atto e di non essere stata in grado di prendersi cura di tutte le persone colpite dal virus giunte alle sue porte nelle quantità, nelle tempistiche e nelle condizioni che ben conosciamo19. Maggiori spazi per un’affermazione di responsabilità delle strutture parrebbero invece aprirsi qualora si discuta della mancata o scorretta adozione, a livello organizzativo, degli accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus. Prendendo nuovamente spunto dalle controversie in tema di infezioni nosocomiali sembra potersi difatti affermare che il compimento di attività quali l’isolamento dei malati, la sanificazione ambientale, la disinfezione degli strumenti, l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, e così via, può – e pertanto deve – essere garantito dall’ente sanitario attraverso un’adeguata opera di pianificazione e concreta implementazione. Ma d’altro canto va evidenziato che l’utilizzo di un criterio d’imputazione di tipo oggettivo nella valutazione della responsabilità in discorso, se correttamente inteso, non dovrebbe restringere eccessivamente la possibilità di andare esente da responsabilità per la struttura, questa essendo sempre ammessa a dimostrare, in alternativa al fatto che l’inadempimento è stato determinato da un impedimento oggettivamente imprevedibile ed inevitabile, l’esatto adempimento dell’obbligazione avente per oggetto la predisposizione delle misure precauzionali

È più possibilista sul punto Ponzanelli, op. cit., 10 s., secondo cui la responsabilità in discorso potrebbe effettivamente essere affermata «attraverso la verifica della prevedibilità del rischio che ha determinato la situazione di emergenza sanitaria. […] Quindi, dovrebbe essere svolta una indagine approfondita per verificare se nel gennaio 2020, quando si è sviluppato per la prima volta in Cina il Covid-19, poteva o meno essere prevista tale eccezionale e straordinaria situazione, che solo potrebbe giustificare l’imposizione di una regola di responsabilità oggettiva. […] A meno di non ritenere applicabile in queste situazioni la norma sullo stato di necessità, che potrebbe essere applicata anche in territorio contrattuale: si escluderebbe in tal modo l’applicazione delle regole di responsabilità civile, residuando unicamente una indennità». Riflette sulla possibilità di fare ricorso all’art. 2045 c.c. anche Pisu, op. cit., 410 s. 19


Art. 2236 c.c. e responsabilità per danni da Covid-19

atte ad evitare la diffusione del virus20: e nella perimetrazione della prestazione da questo punto di vista dovuta dall’ente nosocomiale, ovverosia nell’individuazione di quali e quante misure l’ospedale fosse concretamente tenuto a mettere in campo, si potrà e si dovrà evidentemente tenere conto delle limitazioni e delle difficoltà ricollegate alla situazione emergenziale in atto. Sempre nell’ambito della responsabilità per deficienze strutturali e organizzative è ipotizzabile che vengano poi formulate anche pretese risarcitorie da parte di pazienti “comuni”, ovverosia non affetti da Covid-19, che lamentino di non essere stati adeguatamente e/o tempestivamente curati da un determinato ente nosocomiale in conseguenza della necessità di concentrare tutte le proprie risorse nel trattamento dei soggetti colpiti dal virus. Qualora dovessero concretizzarsi, tali fattispecie richiederanno valutazioni particolarmente delicate, perché pure a fronte della straordinarietà e dell’eccezionalità dell’emergenza epidemica appare davvero difficile accettare che possa andare esente da responsabilità una struttura sanitaria che assiste solamente una determinata categoria di malati, trascurando tutti gli altri21.

5. Riflessioni conclusive: verso una disciplina speciale della materia? Alla luce delle riflessioni fin qui svolte pare potersi affermare che nell’attuale quadro normativo della responsabilità civile sanitaria non mancano strumenti idonei a tenere nella giusta considerazione le peculiarità dell’emergenza epidemica da Covid-19 e condurre le controversie in materia verso una definizione appropriata ed equidistante dagli interessi delle parti coinvolte. Se si concorda con tale conclusione, l’introduzione di una disciplina ad hoc per tali fattispecie potrebbe allora apparire non necessaria, e forse anche non opportuna

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quando si considera che la responsabilità civile medica è ancora in fase di assestamento dopo le profonde innovazioni apportate dalla Legge Gelli-Bianco (e, ancor prima, dall’art. 3 della c.d. Legge Balduzzi del 2012) nonché dalla l. n. 219/2017 in tema di consenso informato22. A tale riguardo – e sempre in un’ottica propensa a non sottoporre la materia a ulteriori “scossoni” – va altresì evidenziato che le soluzioni implementate, in via legislativa o pretoria, in questo pur specifico settore hanno non di rado avuto ricadute di ben più ampia portata su profili generali dell’obbligazione e della responsabilità civile, quali, per esempio, la distinzione obbligazioni di mezzi/obbligazioni di risultato, la concezione del nesso causale e la teoria del c.d. contatto sociale23. Se tutto questo è vero sul piano della speculazione teorica, non si può negare che ragioni di opportunità politica potrebbero nondimeno giustificare l’introduzione di un’apposita disciplina della responsabilità per danni da Covid-19 al fine di contenere il volume dei giudizi destinati a radicarsi in materia: la drammatica situazione in atto si va infatti ad innestare in un panorama (non solo) nazionale già da tempo caratterizzato da una notevole espansione del contenzioso in ambito sanitario e dal connesso fenomeno della c.d. medicina difensiva; la presentazione di azioni risarcitorie per danni subiti dai pazienti colpiti dall’epidemia sarà sicuramente incentivata dalla crisi economica scatenata dal lockdown imposto dalle autorità e del resto viene già incoraggiata da alcuni studi

Come sottolinea Ponzanelli, op. cit., 6, l’emergenza epidemica è esplosa proprio quando stava entrando nel vivo il dibattito sul restatement giurisprudenziale in materia di responsabilità sanitaria operato dalle note pronunce della Suprema Corte di “San Martino 2019” (Cass., 11 novembre 2019, nn. 28985-28994, tutte pubblicate e commentate in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, a cura di Pardolesi, Fascicolo speciale n. 1/2020 della rivista Il foro italiano). 22

Cfr., tra gli altri, Faccioli, La legge Gelli-Bianco fra normativa speciale della medical malpractice e disciplina generale dell’obbligazione e della responsabilità civile, in Risarcimento del danno e assicurazione, cit., 1 ss.; Benedetti, Verso una “medicalizzazione” della responsabilità contrattuale? Esercizi di discutibile riscrittura dell’art. 1218 c.c., consultabile all’indirizzo: www.giustiziacivile.com. 23

Cfr., anche per indicazioni di giurisprudenza conforme, Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione, cit., 128; per analoghe conclusioni, seppure ricostruendo in termini colposi il criterio di imputazione della responsabilità della struttura, v. pure Hazan-Zorzit, op. cit. 20

21

Ponzanelli, op. cit., 13.

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legali, talvolta offrendo consulenza gratuita o altri incentivi; e purtroppo anche l’estrema difficoltà di mantenere un contatto con gli operatori sanitari per essere informati dell’andamento delle cure può esacerbare gli animi dei familiari dei pazienti affetti dal virus ed eventualmente spingerli, nel non infrequente caso di decesso del malato, ad innescare un giudizio civile (e/o penale) per avere quelle spiegazioni che non sono state loro fornite in precedenza. Una prima opzione per regolare la materia potrebbe allora essere l’introduzione di una disciplina che vada ad esplicitare nel diritto positivo, rafforzandone il valore, i risultati ai quali condurrebbe l’applicazione della normativa attualmente vigente: in questa direzione sostanzialmente si muoveva la gran parte delle proposte di emendamento al decreto “Cura Italia” presentate in occasione dell’esame del provvedimento al Senato e successivamente ritirate, le quali, sostanzialmente ispirandosi alla logica dell’art. 2236 c.c., ruotavano attorno alla delimitazione della responsabilità civile per eventi avversi causati dall’epidemia ai casi di dolo e colpa grave e alla necessità di valutare la gravità della colpa considerando le peculiarità, dettagliatamente elencate, della situazione emergenziale in atto. In alternativa si potrebbe però anche pensare a soluzioni più incisive ed innovative, eventualmente anche in combinazione tra loro, quali: a) la predisposizione di una disciplina che, sulla falsariga di quanto prevede la l. n. 117/1988 in tema di responsabilità civile dei magistrati, escluda la responsabilità diretta del personale medico per danni da Covid-19 ed attribuisca al danneggiato la facoltà di agire per il risarcimento nei soli confronti dell’Amministrazione sanitaria, lasciando a quest’ultima la possibilità di rivalersi sul sanitario nei casi di dolo o colpa grave24; b) la previsione di un indennizzo (eventualmente erogato da un apposito istituendo Fondo) a beneficio dei pazienti irreversibilmente lesi dal Covid-19, o dei loro familiari in caso di morte del malato, sul modello della l. n. 210/1992 in tema di danni da vaccina-

Saggi e pareri

zioni obbligatorie, emotrasfusioni e somministrazione di emoderivati25.

Si soffermano sul punto, in particolare, Facci, op. cit., 12 ss.; Pisu, op. cit., 405 s., 413. 25

24

Così, tra gli altri, Bellisario, op. cit., 6.

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a p

Il “cencio nero” Italo Partenza

Avvocato in Milano

Abstract: L’emergenza Covid-19 e talune speculazioni sul versante delle richieste risarcitorie ha introdotto il tema di una legislazione speciale che esoneri le strutture sanitarie da qualsiasi responsabilità per errori commessi in questo periodo. Chi scrive non crede alle leggi speciali ma semmai avverte la necessità di una tutela dei traumi psicologici dei lavoratori sanitari, vera potenziale fonte di conflitti e di una sempre maggiore consapevolezza del ruolo dell’avvocatura nel perseguire la giustizia attraverso competenza ed umanità. Covid-19 emergency and speculations regarding claims for compensation introduced the theme of special legislation providing no liability for any hospital or doctor for injuries or death suffered by patients during this period. The author does not believe in special laws but feels the need both to take charge of the psychological traumas of health workers as a real potential source of conflict and to improve the awareness of lawyer’s role in pursuing justice through competence and humanity.

Lo scambio di comunicazioni fra il Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri e la Presidente del Consiglio Nazionale Forense, nonché la norma che l’Onorevole Marcucci intenderebbe inserire in uno dei decreti di prossima emanazione per emendare la Legge Gelli con una sorta di generica esimente

di responsabilità per i fatti da Covid-19, sono la triste manifestazione di un bisogno che probabilmente in molti avremmo preferito non si manifestasse. Il tutto nasce dalla segnalazione del Presidente di FNOMCeO al Consiglio Nazionale Forense, con la quale si richiedeva una presa di posizione dell’Ordine Nazionale degli Avvocati nei riguardi di deprecabili episodi, per come riferiti, di vero e proprio sciacallaggio, consistente nel tentativo di accaparramento clienti, lucrando sul dolore delle vittime della tremenda patologia che ha colpito il nostro mondo. La risposta è pervenuta in maniera chiara e netta e di ciò il FNOMCeO ha dato pubblicamente atto, ringraziando la presidenza del CNF per la vicinanza dimostrata1. La triste speculazione in atto ha altresì mosso taluni a richiedere con forza un emendamento alla Legge Gelli, volto ad escludere la responsabilità di strutture sanitarie e professionisti in relazione agli eventi dannosi che abbiano trovato causa nel Covid-19, salvo i casi di dolo o colpa grave. La modifica dell’art. 7 della Legge Gelli definisce a tali fini come colpa grave quella “[…] consistente nella palese ed ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali

Il tenore delle reciproche comunicazioni è rilevabile dal sito FNOMCeO, consultabile all’indirizzo: www.portale. fnomceo.it. 1

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eventualmente predisposti per fronteggiare la situazione in essere”. Precisa inoltre l’emendamento che “la valutazione della gravità della colpa è operata tenuto conto altresì della situazione organizzativa e logistica della struttura, in relazione alla eccezionalità del contesto emergenziale, al numero dei pazienti su cui è necessario intervenire e alla gravità delle loro condizioni, alla disponibilità di attrezzature e di personale, nonché a livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore sanitario”. Analoghi criteri vengono utilizzati per l’individuazione della colpa grave anche a fini penali2.

Si riporta integralmente il testo dell’emendamento, il cui primo firmatario è l’Onorevole Marcucci “Art. 1 (em. 1.0.4 – testo 2) – Marcucci, Stefano, Mirabelli, Collina, Boldrini, Bini, Biti, Ferrari, Manca, Parrini, Rossomando, Pittella, Assuntela Messina – Dopo l’articolo aggiungere il seguente: Art.1 bis (Disposizioni in materia di responsabilità per eventi dannosi che abbiano trovato causa nella situazione di emergenza da Covid-19) 1. In ragione della eccezionalità dell’emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del Covid-19, in relazione agli eventi dannosi che in essa abbiano trovato causa, la responsabilità civile delle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche o private, e degli esercenti le professioni sanitarie, di cui all’art. 7 della Legge 8 marzo 2017 n. 24, è limitata ai casi in cui l’evento dannoso risulta riconducibile a condotte poste in essere con dolo o colpa grave. 2. Ai fini del comma 1, si considera consistente nella palese ed ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali eventualmente predisposti per fronteggiare la situazione in essere. La valutazione della gravità della colpa è operata tenuto conto altresì della situazione organizzativa e logistica della struttura, in relazione alla eccezionalità del contesto emergenziale, al numero dei pazienti su cui è necessario intervenire e alla gravità delle loro condizioni, alla disponibilità di attrezzature e di personale, nonché a livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore sanitario. 3. Per gli eventi indicati nell’art. 590-sexies del codice penale che si siano verificati durante l’emergenza epidemiologica di cui al comma 1 o che in essa abbiano trovato causa, la punibilità è limitata ai soli casi di colpa grave. La colpa si considera grave laddove consista nella palese ed ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali eventualmente predisposti per fronteggiare la situazione in essere, tenuto conto di quanto stabilito nell’ultimo periodo del comma 2”. Circa la formulazione del testo vale la pena attendere che divenga definitivo prima di soffermarsi a considerazioni varie. 2

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Saggi e pareri

Parafrasando il celebre detto di un drammaturgo tedesco, verrebbe da dire “beato il popolo e l’ordinamento che non han bisogno di norme eccezionali”. Chi scrive valuta positivamente il proficuo, opportuno e probabilmente anche scontato dialogo fra gli Ordini e comprende la necessità contingente di un emendamento ad hoc a modifica dell’art. 7 della Legge Gelli. Purtuttavia ci si domanda come sia possibile che taluni appartenenti all’Ordine Forense – forse spinti dal bisogno o da una mal compresa interpretazione del proprio ruolo – possano impunemente mettere così tanto in cattiva luce la dignità ed il ruolo dell’Avvocatura italiana che continua, pur con mille difficoltà, a prestare i propri essenziali servizi per l’amministrazione della Giustizia e per la tutela dei diritti, anche in questo periodo. E tale è stato il timore di parte del mondo sanitario da richiedere un intervento legislativo – che inevitabilmente porta con sé non poche genericità – che non avrebbe dovuto essere necessario, in quanto non si vede come si possa accusare alcuno dei sanitari coinvolti in questa drammatica vicenda di scelte o comportamenti rispetto ai quali né il mondo scientifico internazionale, né i governanti di tutto il mondo hanno ad oggi individuato chiare linee guida comportamentali ed operative. Non parrebbe essere di dubbio alcuno che i principi generali del diritto e l’equilibrio dei Giudicanti condurrebbero comunque ai medesimi risultati che l’emendamento in questione persegue. Vi è tuttavia un problema di costi e di tensioni ai quali il mondo sanitario non merita di essere esposto per difendersi da accuse strampalate ed indecenti. Eppure i conflitti che paiono covare sotto la cenere non si esauriscono nei deplorevoli tentativi di coloro che lucrano sul dolore e che stonano con quella toga che onora non certo la persona, ma il ruolo, come ricordava Carnelutti. Si addensano infatti forti nubi sul riconoscimento – che chi scrive ritiene doveroso – della tutela indennitaria dell’Inail per tutti i sanitari che abbiano sofferto di Covid-19 e per i loro eredi in caso di loro morte, così come aleggiano preoccupazioni e ritrosie di un mondo assicurativo che appare spaventato ogni qual volta un’alea si realizza in


Covid-19 ed esonero delle strutture sanitarie

modo diverso da quanto immaginato. Peraltro, il prospettato emendamento, all’art. 7 della Legge Gelli, parrebbe non avere affatto riscosso consensi3 in quel mondo medico che invece ha visto in questo tentativo un modo per occultare responsabilità del Management sanitario per aver lasciato i professionisti della salute combattere a mani nude e senza protezioni la guerra con il virus. Non è certo questa la sede per allestire processi, ma certo compaiono evidenti sintomi di un disagio collettivo fatto di rabbia repressa, paura, senso di abbandono e di mancato riconoscimento, che rischia di cancellare nel prossimo futuro quei meravigliosi slanci di umanità, professionalità e solidarietà che ognuno di noi ha potuto sperimentare o sentir raccontare. Esiste tuttavia anche in momenti bui come quello che stiamo vivendo la possibilità di migliorare i nostri comportamenti ed attuare scelte coraggiose e lungimiranti che vadano oltre proclamazioni di eroi di cui i medici non sanno che farsene. In questo senso vorrei ricordare che l’art. 2087 del codice civile impone – come norma di chiusura – la tutela della salute del lavoratore in qualsiasi modo si renda necessaria ed in questa ottica l’angoscia, le tensioni, i traumi ed il conseguente eventuale PTSD del personale sanitario non possono non trovare tutela.

Come rilevabile sempre all’indirizzo www.portale. fnomceo.it, l’OMCeO di Cosenza ha manifestato un forte dissenso verso questa scelta legislativa, afferma fra l’altro che “Gli emendamenti, con sfumature differenti in base al proponente, sostengono tutti lo stesso concetto: le condotte dei datori di lavoro non determinano responsabilità penale, civile ed erariale. I proponenti sono esponenti delle forze di governo e di opposizione. Dunque, nessuna colpa se i DPI non sono arrivati, se i tamponi non sono stati fatti, se respiratori e caschi non sono sufficienti, se la gravità dell’epidemia è stata sottostimata, se l’organizzazione è stata incapace, incerta, lenta e lacunosa. Nessuno potrà indagare: noi medici siamo definiti eroi, che devono lavorare con abnegazione e spirito di servizio, e tanto basta. Si piangono i pazienti, ma non si potrà verificare se i sanitari sono stati messi nella condizione di curarli con tutti gli strumenti possibili. E se sono stati tutelati o mandati ad ammalarsi nell’esercizio delle loro funzioni. Questi emendamenti sono crudeli, sprezzanti e offensivi per una categoria che sta combattendo e lavorando a mani nude. Sono inaccettabili in uno stato di diritto”. 3

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Al di là di normazioni di emergenza o di provvedimenti disciplinari degli Ordini nei confronti delle immancabili pecore nere, è tempo di guardare in modo strutturato e alla necessità di prendersi cura del trauma arrecato al personale sanitario ed a tutti noi da questa orrenda malattia. Questo trauma, se non professionalmente trattato, aumenterà rabbia e patologie, che a loro volta saranno fonte di nuovi conflitti e nuovi costi. Chi scrive da tempo ha sostenuto la necessità della gestione del trauma psichico come forma primaria di tutela della salute e di prevenzione dei conflitti. A tale necessità si spera il mondo assicurativo saprà dare una competente e lungimirante risposta, poiché il primo modo per deflazionare i conflitti non viene da inefficaci e stantii tentativi di mediazione, ma da una professionale gestione degli stati d’animo delle vittime del trauma, che consenta non soltanto di curare il trauma stesso, ma anche di sanare ferite su cui nessuno dovrebbe gettare sale. Ed allora, ripensando a questi emendamenti improvvisati, al grido di dolore dell’Ordine dei Medici, alla pronta e nobilissima risposta dell’Ordine degli Avvocati, ai rimedi che potremmo organizzare, ripenso al mio cencio nero ed alle parole di Calamandrei, padre del nostro codice di procedura civile, che ricordava che: “l’Avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità. Per questo amiamo la toga, per questo vorremmo che, quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero al quale siamo affezionati… perché sappiamo che esso ha servito a riasciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia”.

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Diritto penale e neuroscienze. p Recenti modi di fare diritto* Salvatore Aleo

Professore nell’Università degli Studi di Catania Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il primo caso. – 3. Il secondo caso. – 4. Il terzo caso. – 5. Il quarto caso. – 6. Il quinto caso. – 7. Ultima notizia.

Abstract: I progressi nel campo delle neuroscienze e delle neuroimmagini hanno, in linea di principio, grande importanza per il diritto penale, ma possono diventare in concreto fuorvianti e controproducenti, secondo l’uso che se ne fa. Da un canto, le immagini mentali del movimento e della volontà confermano l’idea che il dolo sia un evento interno al soggetto, come tale oggetto di accertamento, anche se in concreto il soggetto che agisce non è certo collegato a un apparecchio di tomografia; mentre la colpa è nozione oggettiva relativa alla violazione di una norma cautelare, oggetto quindi di argomentazione. D’altro canto, gravi perplessità suscitano alcune pronunce giudiziali in cui è stato utilizzato il ricorso a nuove tecniche (indagini genetiche, neuro-imaging, esame delle tracce mnestiche della vittima o dell’imputato) sia per argomentare o corroborare il giudizio di parziale incapacità d’intendere e di volere che per supportare la prova dei fatti accaduti. Progress in the field of neuroscience and neuroimaging has, in principle, great importance for penal system, but can actually become misleading and counterproductive, according to the use that is made of it. On the one hand, the mental images of movement and will confirm the idea that wilful misconduct is an event internal to the subject, that may be assessed, even if in concrete terms the subject who acts is certainly not connected to a tomography device; negligence, instead, is an objective notion relating to the violation of a precautionary provision, therefore subject to argumentation. On the other

hand, serious doubts arouse some judicial decisions in which the new techniques (such as genetic investigations, neuro-imaging, examination of the memory traces of the victim or the defendant) have been used both to argue or corroborate the judgment of partial insanity and to support the evidence of the events.

1. Introduzione I progressi nel campo delle neuroscienze e delle neuroimmagini hanno grande importanza per il diritto penale, per lo meno in linea di principio, ma, come vedremo, possono essere in concreto fuorvianti, controproducenti, secondo l’uso che se ne fa. Il fatto che con la tomografia cerebrale si possono osservare direttamente nell’uomo le «intenzioni motrici», così «territori corticali (e sotto-corticali) distinti [che] sono attivati alla vista di una mano in movimento: l’immagine mentale del movimento della propria mano, la preparazione a questo movimento e la sua esecuzione»1, mi sembra confermi la mia opinione di

Questo saggio costituisce uno sviluppo del progetto di ricerca, di cui l’Autore è responsabile scientifico, intitolato “Responsabilità, neuroscienze, processi di predeterminazione sociale”, finanziato dall’Università di Catania nell’ambito *

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sempre che il dolo sia un evento psichico, un evento interno al soggetto (che avviene dentro il soggetto): come tale, oggetto di ‘accertamento’; su un piano quindi affatto distinto dalla colpa, costituita dalla oggettiva contrarietà della condotta a una regola cautelare, oggetto quindi, piuttosto, di “argomentazione”. L’idea che culpa lata proxima dolo est sta, a sua volta, su un piano di analisi ancora diverso, che sembra ultroneo rispetto agli argomenti affrontati in questa sede. Va rilevato piuttosto che anche l’atto volontario di realizzazione della condotta che sarà giudicata colposa è registrabile con la tomografia: ma questo è ancora un altro problema. La precedente acquisizione, appunto importante, secondo me, in linea di principio, per quanto evidentemente complessa e problematica, potrebbe essere tuttavia assolutamente inutile, se guardata dal punto di vista più concreto del processo e dell’accertamento, per la semplice ragione che l’individuo che agisce, nel momento in cui agisce, non è collegato a un apparecchio di tomografia. Negli anni più recenti le indagini neuroscientifiche hanno ottenuto significativi risultati, concreti, invero eterogenei, in diversi processi penali celebrati nel nostro Paese. Mi soffermerò, sia pure brevemente, su tutti i casi da me conosciuti, riconducibili al senso più ristretto in cui sono usate le due parole chiave delle neuroscienze e delle neuroimmagini. Per diverse ragioni, la narrazione-ricostruzione di queste vicende giudiziarie è più interessante (fra persone con le scuole alte) di qualsiasi possibile commento. Nessuno me ne potrà volere perché fedelmente riproduco i testi come li ho disponibili, compresi gli errori e le sviste che contengono. Considero questi casi abbastanza sintomatici, sotto diversi profili, sostanziali e anche formali, delle condizioni generali della giustizia e della cultura in questa nostra terra in questa nostra epoca.

del Piano per la Ricerca 2020-2022. 1 Changeux e Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, 1988, trad. it., Milano, 1999, 92.

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I giudici aderiscono acriticamente a posizioni di cui non riescono a controllare la validità, ovviamente non avendone la competenza; posizioni la cui rilevanza, eventualmente e diversamente condivisa, dovrebbe essere affermata, piuttosto, in sede legislativa. Un’altra osservazione preliminare, di carattere assolutamente generale, è che i progressi nella descrizione fisica e rappresentazione grafica dei fenomeni cerebrali (chimici ed elettrici) non sono adatti, come tali, a contraddire o indebolire l’idea fondamentale che l’individuo scelga i suoi comportamenti, e quindi la nozione più essenziale della responsabilità. Chi mi conosce sa che sono molto critico nei confronti dell’approccio penalistico tradizionale, che ritengo utile ed essenziale l’approccio psicologico e terapeutico, che sono onorato e felice di insegnare in un corso magistrale di psicologia. Ho raccontato in un libro di come in carcere abbia visto tanti svitati e soprattutto poveracci2. Credo però che la strada non possa essere quella di dichiarare (entro l’assetto penalistico tradizionale e l’apparato giudiziario dato) non responsabili, o parzialmente incapaci d’intendere e di volere, soggetti pericolosi autori di crimini anche efferati. È sbagliato che le neuroscienze diano questo contributo alla questione complicata della responsabilità e della giustizia penale. Credo che bisogna fare, tutti insieme, uno sforzo per cambiare mentalità penalistica, per ridefinire il senso stesso e le nozioni della responsabilità: cui sicuramente le scienze psicologiche e neurologiche potrebbero dare contributi peculiari.

2. Il primo caso Il primo caso, abbastanza noto, è una sentenza della Corte d’assise d’appello di Trieste, pronunciata in camera di consiglio per il rito abbreviato il 18 settembre 2009, di parziale riforma della sentenza del g.u.p. presso il Tribunale di Udine del 10.6.2008.

2

Aleo, Dal carcere. Autoriflessione sulla pena, Pisa, 2016.


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L’imputato, un algerino trentasettenne (del 1969), giunto in Italia nel 1993, ha sempre lavorato, nel 2004 ha seguito un corso per saldatore ed è stato assunto da una ditta con cui ha lavorato sempre fino alla commissione del reato. Nel 2005 (agosto) e poi nuovamente nel 2006 (giugno-settembre) ha avuto rapporti col centro di salute mentale di Udine, perché ritenuto affetto da vissuti deliranti, lamentava di vivere delle allucinazioni auditive, e gli fu prescritta una terapia di farmaci neurolettici, che aveva però interrotto. Il pomeriggio del 10.3.2007, alle 17.45 circa, l’imputato si è imbattuto davanti alla stazione ferroviaria di Udine in un gruppetto di giovani sudamericani, minorenni, con cui ha avuto una lite. Ha pestato un piede a uno dei giovani, che lo ha guardato risentito, e allora lui lo ha insultato e schiaffeggiato. È stato poi inseguito e colpito, con un calcio alla schiena, con cinghiate al volto, che gli hanno procurato una perdita di sangue. L’imputato si è lavato il volto sporco di sangue nei bagni della stazione ferroviaria, poi è tornato nel centro islamico dove abitava, ha messo a lavare la maglietta e i jeans che indossava precedentemente, ha indossato altri jeans e una felpa con cappuccio, nonché il giubbotto già precedentemente indossato; è andato in un negozio e ha acquistato un coltello da cucina lungo 30 cm di cui 16 cm di lama; è tornato sul luogo della lite, dove, verso le 19.05, ha individuato uno dei giovani sudamericani, lo ha seguito e colpito da tergo, impugnando il coltello come fosse un pugnale, con un colpo violento all’altezza della regione posteriore della spalla sinistra, due colpi nella regione anteriore del collo, recidendo la trachea e lacerando la carotide, due colpi in regione sternale, fratturando lo sterno e lacerando il ventricolo destro. Dopo l’omicidio l’imputato ha fatto ritorno al centro islamico e si è cambiato la felpa con una maglietta bianca; poi è stato accompagnato da un amico al pronto soccorso, dove un medico gli ha riscontrato escoriazioni al torace e contusioni al volto e gli agenti di servizio, notando la presenza di tracce di sangue raggrumato sul giaccone, lo hanno invitato in questura. Nel frattempo era stato rinvenuto il cadavere e le riprese delle telecamere davanti alla stazione mostravano la lite avvenuta.

Dopo l’iniziale reticenza, l’imputato ammetteva i fatti e li ricostruiva esattamente; poi, si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere. In primo grado l’imputato è stato condannato a nove anni e due mesi di reclusione. Esclusa la premeditazione («rientrando l’acquisto del coltello successivo al litigio – unico elemento dal quale se ne potrebbe desumere il ricorrere – espressione di una normale attività preparatoria tipica di qualsiasi azione umana. In particolare, non vi sarebbero stati “spazi oggettivi per un ripensamento” essendo trascorso, fra il litigio con i cittadini sud-americani ed il delitto, meno di un’ora e mezza»3). Esclusi i motivi futili («dal momento che nessun motivo è, di per sé, proporzionato all’omicidio e che l’aver ucciso “per vendicarsi della violenta aggressione del gruppo sia stato un motivo certamente non condivisibile ma non futile”»). L’imputato è stato ritenuto parzialmente incapace d’intendere e di volere. Gli sono state concesse le attenuanti generiche «per l’incensuratezza e la fattiva collaborazione serbata all’inizio delle indagini». Inoltre la riduzione di pena per il rito (abbreviato). («Sia la riduzione per le concesse attenuanti generiche che quella ex art. 89 c.p. [seminfermità mentale] non sono state operate nel massimo la prima “perché all’incensuratezza ed alla collaborazione iniziale si contrapponeva la particolare ferocia della condotta”, la seconda ritenendo non incidente in grado massimo la ritenuta parziale incapacità»). Appello proposto dal solo imputato. Il giudice d’appello ha ritenuto che «la patologia psichiatrica dalla quale [l’imputato] era affetto, implementata dallo straniamento dovuto all’essersi trovato alla necessità di coniugare il rispetto della propria fede islamica integralista con il modello comportamentale occidentale abbia determinato un importante deficit nella sua capacità d’intendere e di volere ancorché non tale da obnubilare del tutto la sua capacità di comprendere il disvalore della propria azione né di esercitare, sotto il profilo volitivo, un controllo sui propri impulsi anche

È la rappresentazione nella sentenza della Corte d’assise d’appello della decisione del giudice di primo grado. 3

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tenuto conto dei tempi intercorsi con quella che era ritenuta la causa scatenante. Si tratta di tempi che avrebbero anche in persona di ridotta capacità intellettiva consentito di rimeditarne il risultato». Il tempo intercorso è così ritenuto argomento significativo della ridotta capacità d’intendere e di volere. «I periti concordano sostanzialmente con la diagnosi formulata dal dott. […], perito nel processo di primo grado che riscontrò nel [l’imputato] un “Disturbo psicotico di tipo delirante (diagnosi principale), in soggetto con disturbo della personalità con tratti impulsivi-asociali e con capacità cognitivo-intellettive collocabili ai limiti inferiori della norma”». «Sottolineano, d’altra parte, come la vita [dell’imputato] sia stata fortemente influenzata, oltre che dalle radicate tradizioni culturali della famiglia d’origine, anche da regole comportamentali connesse alla fede islamica professata (f. 23-24 e 42 della perizia) che avrebbero reso più problematico il suo inserimento in un contesto sociale profondamente diverso quale quello della provincia italiana». «Non si può dimenticare che la causa scatenante è costituita sostanzialmente dal fatto che [l’imputato], solito truccarsi gli occhi con il kajal – apparentemente per motivi religiosi, – incontrato nei pressi della stazione ferroviaria, sarebbe stato apostrofato dai sud-americani con il termine “frocio” nel corso del primo diverbio, accusa ritenuta particolarmente sanguinosa nel contesto sociale e religioso dal quale proviene». «Il percorso personale psichiatrico dell’imputato come ricostruito sostanzialmente senza che i vari psichiatri succedutisi nel corso del processo abbiano diversamente fra loro “pesato” i vari eventi è così ricostruito prendendo le mosse dal 15.7.2005 quando l’imputato prende per la prima volta contatto con il Centro di Salute Mentale di Udine Nord ad esso indirizzato dal proprio medico di base». «In quella circostanza rappresenterà per la prima volta di sentire delle voci sin dal 2003 e che, in particolare, nel bar da lui frequentato al mattino, due sconosciuti gli avrebbero messo una medicina nel caffè “che gli fa gonfiare la testa ed il corpo

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della perizia e che lo fanno diventare pazzo” (ff. 19 e 21)». «Il 19.6.2006 si sarebbe nuovamente rivolto al Centro di Salute Mentale sostanzialmente lamentando sempre gli stessi sintomi e dove gli sarebbe stata prescritta una terapia farmacologica da lui interrotta però qualche mese prima del marzo 2007» [quando si svolsero i fatti di causa]. Il testo è riprodotto in modo fedele, dal pdf del provvedimento originale. «Le diagnosi svolte dai periti (diagnosi descrittiva, diagnosi di sede, diagnosi di natura – f. 29) si sono dimostrate particolarmente accurate ed immuni da illogicità sul piano procedimentale o di argomentazioni antinomiche. Esse restituiscono un quadro coerente e credibile della condizione mentale dell’imputato concludendo per la sua parziale incapacità d’intendere e di volere, conclusione che questa Corte condivide». In appello la difesa dell’imputato si è avvalsa pure di un’indagine genetica. «Particolarmente significative sono risultate le indagini genetiche effettuate dai periti alla “ricerca di polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali fra i quali in particolare per quello che interessa nel caso di specie l’esposizione ad eventi stressanti ed a reagire agli stessi con comportamenti di tipo impulsivo” (f. 39)». «Tale indagine, del tutto innovativa rispetto al livello di approfondimento corrente degli accertamenti giudiziari avrebbe consentito di accertare che l’imputato “risulta possedere, per ciascuno dei polimorfismi esaminati, almeno uno se non tutti e due gli alleli che, in base a numerosi studi internazionali riportati sinora in letteratura, sono stati riscontrati conferire significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo (socialmente inaccettabile). In particolare, l’essere portatore dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L) potrebbe rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente. È opportuno sottolineare che tale “vulnerabilità genetica” risulta avere un peso ancor più significativo nel caso in cui l’individuo sia cresciuto in un contesto familiare e sociale non positivo e sia stato, specialmente nelle prime decadi della vita,


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esposto a fattori ambientali sfavorevoli, psicologicamente traumatici o negativi” (40)». La Corte d’assise d’appello ha così ritenuto di applicare nel massimo la riduzione della pena per la seminfermità: «Proprio l’importanza del deficit riscontrato dai periti con queste nuovissime risultanze frutto dell’indagine genetica portano a ritenere che la riduzione possa essere effettivamente operata nella misura massima di un terzo». Non altrettanto per le attenuanti generiche, in considerazione dell’efferatezza della condotta. «L’imputato, senza attingere – né lo si potrebbe in assenza di appello del P.M. – a considerazioni in tema di premeditazione, ha avuto uno spazio di tempo non trascurabile per riflettere, pur tenuto conto dei limiti in ordine alla sua capacità, sull’azione che andava a compiere». Abbiamo visto che il lasso di tempo intercorso è anche argomento della parziale incapacità dell’imputato. «E trattasi di azione che, come già s’è detto, non troverebbe non giustificazione ma neppure comprensione nella società da cui l’imputato proviene». «Infine v’è da considerare che [l’imputato], risiedendo e lavorando da abbastanza tempo in Italia, ha sicuramente avuto la possibilità di rapportarsi almeno in parte alla “scala di valori” adottata dalla nostra società e, conseguentemente, a ciò che è accettato, con maggiore o minore facilità, nel vivere quotidiano, a ciò che è ritenuto, in maggiore o minore misura, offensivo, alle correnti reazioni quando si sia vittime di tale tipo di comportamenti». Pena finale 8 anni e 2 mesi di reclusione, senza misura di sicurezza. Alcune brevi considerazioni. La prima considerazione, penalistica, forse un po’ banale, ma relativa ad alcune singolari osservazioni contenute nella sentenza, è che nel Paese di provenienza dell’imputato è ancora prevista la pena di morte – che assai verosimilmente gli sarebbe stata applicata –, con una recente moratoria sulle esecuzioni4.

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V. l’indirizzo: www.africarivista.it.

L’aggressività è stata oggetto di numerosissimi studi che ne hanno posto in evidenza diverse componenti: primarie, di reazioni alle frustrazioni, ambientali, sociali. Da un canto, sembra ragionevole che alcuni soggetti siano più predisposti di altri. Per esempio, ritengo, gli ipertesi in confronto agli ipotesi. Mio nonno e mio padre erano ipertesi e irascibili, sono rimasti vittime di ictus e io sono iperteso e … impulsivo. D’altro canto, l’aggressività non è solo quella dannosa e perfino omicida, perché può essere e viene espressa nello sport, nell’arte, nel sesso, direi pure nella (ostinazione alla) ricerca scientifica. Nella cultura cavalleresca era espressa nel duello. Infine, chi sa di essere aggressivo (diciamo più facilmente reattivo) ha il compito, il maggior onere, di controllarsi, quando viene o si sente provocato. Non lo si può ritenere meno responsabile, quando non lo faccia. Imboccata la strada del giustificazionismo, non residua spazio per il giudizio di responsabilità: tout comprendre, c’est tout pardonner5. Che è una logica pure possibile, ma va adottata in generale. Preliminarmente, condivisa, per essere adottata nelle aule del tribunale. Mi sembrano in generale essenziali le analisi delle componenti sociali della nevrosi e dell’aggressività, anche come reazione a uno stato ritenuto d’inferiorità6, nonché l’analisi della componente di

La frase, così, è di Tolstoj, Guerra e pace, 1865-69, trad. it., Torino, 1942, 1968, vol. I, 118: «Bisogna mettersi al posto degli altri. Tout comprendre c’est tout pardonner». Ma troviamo prima nel romanzo di Madame de Staël, Corinne ou l’Italie, 1807, libro XVIII, cap. V, Paris, 1931, 409: «On a tort cependant de craindre la supériorité de l’esprit et de l’âme: elle est très morale, cette supériorité; car tout comprendre rend très indulgent, et sentir profondément inspire une grande bonté». Che è il senso della generalizzazione cui io faccio riferimento. 5

Adler, Il temperamento nervoso. Principi di psicologia individuale comparata e applicazioni alla psicoterapia, 1912, trad. it., Roma, 1950. Mi permetto di ricordare l’analisi di Dollard et al., Frustrazione e aggressività, 1939, 1957, trad. it., Firenze, 1967, la cui «ipotesi fondamentale» è che «l’aggressività sia sempre la conseguenza di una frustrazione» (ivi, 39); gli studi di Lorenz, L’anello di Re Salomone, 1949, 1983, trad. it., Milano, 1967, 1989, 2000, L’aggressività, 1963, trad. it., il Saggiatore, Milano, 1969, 2008; l’analisi di Fromm, Anatomia della distruttività umana, 1973, trad. it., Milano, 1975, 1983. 6

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apprendimento della manifestazione aggressiva7, che costituiscono ovviamente presupposti per la gestione e il controllo della medesima. Le ricerche sul cervello mostrano l’enorme complessità dello sviluppo cerebrale in confronto a quella cromosomica, che assicura l’anatomia del sistema nervoso ma non sembra possa essere utile a spiegarne il funzionamento8. Mi meraviglia che il giudice aderisca apoditticamente alla teoria del cromosoma dell’aggressività, senza porsi il problema della controllabilità empirica e validità di tale impostazione, nonché della enorme necessaria multiformità della relativa analisi: che comunque non mi pare adatta e rilevante per diminuire la responsabilità penale, in linea di principio e più di quanto non dica, nel caso di specie, la ritenuta seminfermità mentale.

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Scott, L’aggressività, 1958, trad. it., Firenze, 1974.

Changeux, L’uomo neuronale, 1983, trad. it., Milano, 1983, 1993. Ivi, 316-317: «Il paradosso di un aumento di complessità cerebrale a riserva di geni costante trova infine un inizio di spiegazione». «[…] L’interazione con l’ambiente contribuisce ormai allo spiegamento di un’organizzazione neurale sempre più complessa a dispetto di una ristretta evoluzione del patrimonio genetico. Questa strutturazione selettiva dell’encefalo da parte dell’ambiente si rinnova a ogni generazione. Essa si compie in tempi eccezionalmente brevi in relazione ai tempi geologici durante i quali il genoma si evolve. L’epigenesi per stabilizzazione selettiva economizza tempo. Il darwinismo delle sinapsi sostituisce il darwinismo dei geni». (…) «Uno dei disvalori della divergenza evolutiva che porta all’Homo sapiens è, ovviamente, l’allargamento delle capacità di adattamento dell’encefalo al suo ambiente, accompagnato da un manifesto accrescimento delle prestazioni nel generare oggetti mentali e nel ricombinarli. Il pensiero si sviluppa, la comunicazione tra individui si arricchisce. Il legame sociale s’intensifica e, durante il periodo successivo alla nascita, segna il cervello di ciascun soggetto di un’impronta originale e largamente indelebile. Alla “differenza” dei geni si sovrappone una variabilità individuale – epigenetica – dell’organizzazione dei neuroni e delle loro sinapsi. La “singolarità” dei neuroni conferma l’eterogeneità dei geni e caratterizza ciascun encefalo umano con gli aspetti propri dell’ambiente particolare nel quale esso si è sviluppato». Cfr. Edelman, Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, 1987, trad. it., Torino, 1995. Changeux è un grande neurobiologo francese, presidente del comitato nazionale di bioetica. Edelman, che lo cita come riferimento importante, è stato premio Nobel per la medicina nel 1972 e direttore del Neurosciences Institute a La Jolla in California. Di Edelman v. poi Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza, 2004, Torino, 2004. 8

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Il modello proposto mi pare semplicistico e meccanicistico. Mi permetto di riprodurre per il lettore una pagina redazionale della rivista on line MIND Mente e cervello del 22 giugno 20189, segnalatami da un amico psichiatra, in cui si dà conto di una importante ricerca. Una base genetica comune per alcuni disturbi mentali Una ricerca che ha coinvolto quasi un milione di persone ha dimostrato che alcuni disturbi mentali considerati ben distinti – come l’ADHD e la schizofrenia, o il disturbo ossessivo-compulsivo e la sindrome di Tourette – condividono molti dei geni che predispongono alla loro insorgenza. Ora bisognerà comprendere in che modo i fattori ambientali possono influire sullo sviluppo di un disturbo invece che di un altro. Alcuni disturbi psichiatrici hanno una base genetica parzialmente condivisa, che è particolarmente marcata per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), disturbo bipolare, depressione maggiore e schizofrenia. A stabilirlo è una ricerca condotta dal Brain Consortium – una collaborazione internazionale che coinvolge diverse centinaia di centri, coordinata da Verneri Anttila e Benjamin M. Neal della Harvard Medical School a Boston e da Aiden Corvin del Trinity College a Dublino – che ha richiesto l’analisi e il confronto dei dati genetici e clinici relativi a 265.218 pazienti e 784.643 controlli. Lo studio, che ha controllato la condivisione di geni in 25 patologie neuropsichiatriche ed è di gran lunga il più vasto e approfondito di questo tipo, è pubblicato su “Science”. I ricercatori hanno rilevato una forte condivisione di geni anche fra anoressia nervosa e disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), che ha numerosi geni in comune anche con la sindrome di Tourette. Inaspettatamente, è stato rilevato che un numero significativo di fattori genetici che predispongono

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V. l’indirizzo: www.lescienze.it.


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ad alcuni disturbi psichiatrici (anoressia, autismo, disturbo bipolare e DOC) sono gli stessi che, secondo precedenti studi, favoriscono l’espressione di capacità cognitive particolarmente brillanti durante l’infanzia, un brillante curriculum scolastico e buoni risultati all’università. Altrettanto sorprendente, osservano i ricercatori, è poi la scoperta di una significativa correlazione tra i fattori che predispongono alla coronaropatia e all’ictus ischemico e quelli che favoriscono la depressione maggiore. Per quanto riguarda le basi genetiche della predisposizione a disturbi più strettamente neurologici (come il Parkinson, l’Alzheimer, l’epilessia e la sclerosi multipla), la ricerca ha mostrato che queste sono invece molto più differenziati tra loro, con la sola eccezione dell’emicrania, che è risultata chiaramente correlata con ADHD, depressione maggiore e sindrome di Tourette. I ricercatori sottolineano che la scoperta indica che le attuali classificazioni dei disturbi mentali non sono adeguate a cogliere con precisione la natura ereditaria di molti processi biomolecolari che possono contribuire al loro sviluppo. A questo punto, ha osservato Pat Levitt, uno degli autori, «servono studi che determinino i fattori che influenzano il modo in cui il rischio genetico condiviso da diversi disturbi psichiatrici può portare all’alterazione di differenti funzioni cerebrali. È possibile che ciò sia legato ai contributi ambientali differenti che intervengono durante lo sviluppo». Le ricerche condotte sulle api e sulle formiche10 mostrano in modo estremamente affascinante grandi livelli di organizzazione che dipendono dai comportamenti di queste, i quali hanno fondamenti genetici essenziali ma sono pure scarsamente generalizzabili perché oggetto di alternative, meccanismi decisionali, caso per caso, secondo criteri di opportunità, convenienza, adattamento, altrui-

Raignier, Le formiche. Vita e costumi, 1952, trad. it., Milano, 1960, 2007; Hölldobler e Wilson, Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica, 1994, trad. it., Milano, 1997; Hölldobler e Wilson, Il superorganismo. Bellezza, eleganza e stranezza delle società degli insetti, 2009, trad. it., Milano, 2011. 10

smo e cooperazione11. Negare, o indebolire, questo per gli uomini significa fare arretrare la civiltà. La pena costituisce una controspinta e unicamente da ciò (da questa possibile efficacia) dipende la nozione di imputabilità. Ma se quell’approccio fosse scientificamente corretto, andrebbe riscritto, per ciò solo, l’intero sistema del diritto penale e della responsabilità. Non possono essere i singoli giudizi dei singoli giudici a definirlo. I giudici non possono stravolgere un’impalcatura concettuale millenaria assorbendo acriticamente, per difetto di competenza, posizioni come quelle in oggetto. Il quadro cromosomico, se ha una rilevanza determinante di tipo meccanicistico, da contraddire ed escludere la responsabilità, dovrebbe averla in generale e sotto tanti aspetti, che pure non conosciamo, diversi da quelli così considerati.

3. Il secondo caso Il secondo caso è una sentenza del g.u.p. presso il Tribunale di Como, 20 maggio 2011 n. 536. L’imputata, in diverse occasioni, per ragioni economiche: ha sottratto ingenti capitali alla società di famiglia cercando di far ricadere sulla sorella le colpe del dissesto finanziario; ha utilizzato vari artifici (telefonate, lettere e mail a nome di un avvocato inesistente) per scongiurare l’acquisto di una casa che i genitori volevano regalare alla sorella; ha denunciato (13 luglio 2009) la sorella per truffa e appropriazione indebita (il che ha fatto scattare le indagini dei Carabinieri); ha inventato due lettere, fatte pervenire ai genitori

Hölldobler e Wilson, Formiche, cit., 37: «Durante gli anni Sessanta e Settanta lo studio scientifico delle formiche accelerò, sulla scia della rivoluzione generale che stava avvenendo in biologia. In pochissimo tempo gli entomologi scoprirono che i membri della colonia comunicano per la maggior parte del tempo tramite la percezione gustativa e olfattiva di sostanze chimiche secrete da particolari ghiandole situate in tutto il corpo. Essi concepirono l’idea che l’altruismo si evolve per selezione di parentela, il vantaggio darwiniano ottenuto tramite la cura altruistica di fratelli e sorelle che condividono gli stessi geni altruisti e che così li trasmettono alle generazioni future. Inoltre, gli entomologi dimostrarono che gli elaborati sistemi di caste (regine, soldati, operaie: il carattere distintivo delle società delle formiche) sono determinati dal cibo e da altri fattori ambientali, non dai geni». 11

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e al fratello, in cui la sorella si autoaccusava; in effetti, precedentemente, ha sequestrato (7 maggio 2009) e ucciso la sorella (seconda settimana di maggio 2009), bruciandone il corpo, dopo averle somministrato benzodiazepine e promazina in quantità tale da indurla in uno stato confusionale e di incapacità reattiva; ha procurato incapacità di intendere e di volere del padre (11.9.2009), mediante somministrazione di sostanze medicinali contenenti bromazen; ha cercato di far esplodere l’autovettura su cui erano saliti i genitori, dando fuoco a uno straccio messo al posto del tappo del serbatoio di benzina (7.10.2009) e lo stesso giorno ha cercato di strangolare la madre con una cintura in pelle. Grazie a un’intercettazione ambientale i carabinieri sono arrivati appena in tempo nella casa e hanno trovato la signora «riversa a terra, in stato cianotico e parzialmente cosciente “… e con indosso un grembiule in fiamme che le stava ustionando il corpo, segnatamente nella regione inguinale…” (vedi il verbale di arresto del 7.10.2009)». «E lo stesso giorno, durante l’ascolto della conversazione 2040 i militari impegnati nella sala di ascolto del Tribunale verso le ore 12.52 avevano modo di percepire in diretta un rumore di passi, le grida lancinanti di dolore della signora […] che chiedeva disperatamente aiuto ed, immediatamente dopo, rantoli, conati di vomito ed un rumore di cassetti che venivano aperti con veemenza: intervenuti immediatamente presso l’abitazione della famiglia […] si avvedevano di quanto, poi, sarà relazionato con dovizia di particolari nel verbale di arresto […]». «L’esatta dinamica dell’accaduto è stata poi ricostruita attraverso la viva voce della povera mamma dell’imputata che è riuscita a raccontare tutto ai Carabinieri, quando ancora era ricoverata all’ospedale S. Anna di Como (con riferimento alle condizioni cliniche della vittima si valuti la relazione di visita medico legale del Dott. […] del 13.10.2009 che da atto di una ustione di secondo grado profonda a livello inguinale, coscia destra e mano destra, lesione iperemica cervicale di nnd…”)». L’imputata, allorché aveva bruciato il cadavere della sorella, «conclusa la sua operazione criminale, si allontanava dall’abitazione di Cirimido, rivolgendosi alla vicina che il pomeriggio del giorno precedente aveva chiesto l’intervento del 118, nel Responsabilità Medica 2020, n. 2

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timore che costei potesse avere sentito puzza di bruciato od avvistato il fumo, le diceva testualmente: “mi raccomando, non chiamate i vigili se vedete il fumo perché sto bruciando della carta vecchia”». Una consulenza di parte aveva ritenuto l’imputata totalmente incapace di intendere e di volere. Una perizia d’ufficio successivamente disposta dal giudice delle indagini preliminari in sede di incidente probatorio aveva ritenuto la persona pienamente capace di intendere e di volere. I difensori dell’imputata hanno così ottenuto l’autorizzazione a compiere ulteriori accertamenti psichiatrici. Nuovi esperti hanno compiuto nuove indagini, fra cui quelle di «imaging cerebrale» e di «genetica molecolare»: «e, per ciò stesso, in grado di ridurre la variabilità diagnostica e di offrire risposte meno discrezionali rispetto a quelle ottenibili col solo metodo di indagine tradizionale clinico» (così la sentenza). L’imputata è stata sottoposta ad esame con le tecniche IAT e TARA, destinate a studiare la sua memoria autobiografica, da cui è emerso «un quadro psichiatrico caratterizzato dalla menzogna patologica, a spiegazione del fatto che l’imputata mente spesso, anche inutilmente e crede nella verità delle sue fantasie (i consulenti rilevano che l’anamnesi della paziente dimostra che ella tende ad inventare bugie per destare ammirazione o comunque interesse negli altri)». In secondo luogo, è stato disposto «un esame della struttura cerebrale ad alta risoluzione (con tecnica Voxel-Based-Morphometry) al fine di analizzare la morfologia dei lobi frontali deputati, tra le altre cose, al controllo del comportamento e all’inibizione degli impulsi, al giudizio critico, al senso morale, alla discriminazione tra bene e male». Nooooooooo! Un mio amico direbbe e forse scriverebbe Naaaaaaaaa! «Le misurazioni morfologiche in tal modo ottenute, visto e considerato che non esistono valori di riferimento assoluti, sono state confrontate con quelle relative ad un gruppo di controllo di persone “sane” equiparabili per età e sesso ritenuto statisticamente significativo, ed è emerso che la perizianda presenta delle differenze nella morfologia e nel volume delle strutture cerebrali prese in esame: in particolare sono emerse “…


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alterazioni nella densità della sostanza grigia, in alcune zone del cervello, in particolare nel cingolo anteriore…”, un’area del cervello che ha la funzione di inibire il comportamento automatico e sostituirlo con un altro comportamento e che è coinvolto anche nei processi che regolano la menzogna, oltre che nei processi di suggestionabilità ed autosuggestionabilità e nella regolazione delle azioni aggressive». Intanto, io mi chiedo come saranno i miei lobi frontali… Mio padre ebbe l’ictus nel mentre era considerato un grande avvocato e gli esami mostrarono che aveva le anse del cervello molto più larghe del normale, aveva poca materia grigia, rinsecchita. Ancora, si legge nella sentenza: «In aggiunta alle indagini morfologico-cerebrali, sono stati, infine disposti accertamenti genetici per verificare se la periziando presentasse gli alleli che, secondo la letteratura scientifica internazionale, sono significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento: all’esito di tali analisi è emerso che possiede tre alleli sfavorevoli, ovvero alleli che conferiscono un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo». «Così ricomposto il quadro di sintesi delle emergenze psichiatriche, non resta che rilevare come solo le conclusioni tecnico scientifiche dei consulenti della difesa a cui si è fatto ampio riferimento, oltre ad apparire il frutto di accertamenti più rigorosi e completi, rivelino piena aderenza alle emergenze processuali sì da consentire anch’esse di concludere che […] ha commesso i reati di cui oggi si discute senza conservare la piena capacità di controllo dei suoi atti, ovvero senza conservare la piena capacità di indirizzarli, di percepirne il disvalore e di autodeterminarsi liberamente». «Una volta ottenuto l’ausilio della scienza psichiatrica che individua i requisiti bio-psicologici di una eventuale anomalia mentale, resta al giudice il compito di valutare la rilevanza giuridica dei dati forniti dalla scienza ai fini della rimproverabilità dei fatti commessi al suo autore, sulla base del complesso delle risultanze processuali e della valutazione logica e coordinata di tutte le emergenze».

«Sia le emergenze psichiatriche, completate dalle risultanze dell’imaging cerebrale e di genetica molecolare, che quelle processuali consentono di rilevare gravi segni di disfunzionalità psichica, eterogenei ma convergenti nell’indicare un nesso causale tra i disturbi dell’imputata ed i suoi comportamenti illeciti». Insomma, non manca niente per giudicare la seminfermità. Mancano, mi verrebbe da dire, considerazioni sociologiche, sui fattori ambientali sfavorevoli, come quelle precedenti sulle condizioni dello straniero. Forse, ma non so se ho capito bene, questa imputata ha uno o addirittura due alleli sfavorevoli in più, rispetto all’imputato del caso precedente. Consulenti della difesa sono stati i medesimi del caso precedente, che qui hanno utilizzato tecniche anche diverse: imaging cerebrale e test mnestici, espressioni invero di competenze affatto diverse. La diminuente del vizio parziale di mente è stata ritenuta equivalente alle circostanze aggravanti, non sono state concesse le attenuanti generiche per l’estrema gravità dei fatti, l’intensità del dolo e la progressione delle condotte illecite, la pena di anni trenta di reclusione è stata ridotta a venti in ragione del rito prescelto ed è stata disposta inoltre l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura e custodia per la durata non inferiore ad anni tre.

4. Il terzo caso Il terzo caso è una sentenza del g.u.p. presso il Tribunale di Cremona 19.7.2011 n. 109, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato nei confronti di un commercialista, nello studio del quale aveva fatto uno stage una studentessa minorenne, che sosteneva di essere stata da lui accarezzata, mentre stava lavorando al computer, fino ad alzarle «la maglietta da dietro cercando di introdurre le dita all’interno dei pantaloni». La ragazza, sconvolta e piangente, si era confidata subito con la compagna di banco, poi con i genitori e infine aveva confermato il racconto a una professoressa. Dopo la denuncia, presentata dal dirigente scolastico e da due insegnanti, alla polizia la ragazza aveva reso dichiarazioni assai particolareggiate su quanto avvenuto nello studio Responsabilità Medica 2020, n. 2


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del commercialista. Tralasciamo i dettagli della vicenda, non senza avere osservato che complessivamente la ragazza appare persona di qualità e credibile. All’udienza del 20.1.2011 «Il Pubblico Ministero chiedeva la condanna [dell’imputato] alla pena di due anni di reclusione, ravvisata l’ipotesi di minor gravità degli abusi di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis c.p., e i difensori chiedevano invece l’assoluzione dell’imputato con la formula il fatto non sussiste, quantomeno ai sensi dell’art. 530 secondo comma c.p.p. e, in subordine la riqualificazione dell’episodio in reato tentato». «La delicatezza del caso […] portava alla decisione [del giudice] di procedere […] ad una perizia quale indagine integrativa». «La perizia veniva affidata al prof. […], professore ordinario di […] e direttore della Scuola di Specializzazione in […], nonché autore di numerose pubblicazioni in tema di rapporti tra le neuroscienze e l’esperienza giudiziaria». Il perito nominato dal giudice è uno dei due protagonisti di entrambe le consulenze dei due casi precedenti e ha avuto ragione ancora una volta. Questa perizia è stata predisposta e condotta, questa volta, sulla vittima. «La perizia, depositata dal prof. […] il 16.5.2011, si è articolata in un colloquio con [la ragazza] e suo padre alla presenza del consulente di parte, nella somministrazione alla persona offesa dei classici test psico-diagnostici è cioè il Millon Clinical Multiaxial Inventory III e il MMPI-A e nell’effettuazione al computer dei blocchi di prove che compongono i test I.A.T. e T.A.R.A e sono finalizzati a far emergere la memoria autobiografica di chi vi è sottoposto in relazione ad una determinata situazione». Scrive il giudice che «L’aspetto più nuovo e significativo che ha caratterizzato la perizia è stato […] l’integrazione dei tradizionali test psico-diagnostici con gli strumenti offerti dalle moderne neuroscienze cognitive e cioè l’Implicit Association Test (I.A.T.) e il T.A.R.A. che sono diretti a verificare nel soggetto la traccia mnestica di un vento autobiografico significativo». «Tali metodologie si basano su una valutazione del contenuto della memoria fondata sui tempi di reazione in risposta a frasi che descrivono l’evento autobiografico oggetto della verifica». Responsabilità Medica 2020, n. 2

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«La decisione di applicare tale metodologia, recente ma già sperimentata in alcuni processi anche in Italia [il caso del Tribunale di Como sopra rappresentato], si è fondata anche su una serie di pre-condizioni indicative di una possibile utilizzazione ottimale della metodologia stessa». «Infatti il procedimento riguarda un episodio singolo e circoscritto, la persona offesa si è dichiarata subito e senza esitazioni disponibile a sottoporsi al test, età e formazione culturale della persona offesa lo rendevano applicabile senza difficoltà alcuna e, da ultimo, lo scenario del fatto narrato avrebbe coinciso con quello che sarebbe stato utilizzato durante le prove: infatti la ragazza, nella veste di perizianda, si sarebbe di nuovo trovata dinanzi ad un computer come nello studio del commercialista». «Deve subito essere sottolineato, al fine di evitare ogni equivoco, che tali metodologie nulla hanno a che vedere con gli antiquati tentativi di verificare la “sincerità” di un soggetto tramite lie detectors o poligrafi, strumenti che pretenderebbero di fondare la valutazione su grossolani sintomi psico-fisici del periziando». «Lo I.A.T. e il T.A.R.A. sono procedure che, sulla base dei tempi di reazione, arrivano a verificare l’esistenza all’interno del soggetto di una informazione, in pratica di un ricordo e di quello specifico ricordo esistente come tale nella sua mente». «Dalla rapidità e accuratezza della risposta si ricava quale sia il ricordo “naturale” che si è impresso». «Il ricordo “naturale”, definito “compatibile”, ha tempi di reazione rapidi mentre un allungamento dei tempi di reazione e un aumento degli errori rifletteranno il fatto che il soggetto ha dovuto superare un conflitto cognitivo cioè dare una risposta che non è consona al suo ricordo». Il test I.A.T. (Implicit Association Test) è stato sviluppato (v. avanti) per studiare la forza dei legami associativi presenti in memoria, ed è fondato sui tempi delle risposte date a coppie di domande di tipo positivo-negativo. È stato usato per indagare sul pregiudizio e in genere nell’ambito della psicologia sociale, ma anche all’interno della psicologia clinica, per lo studio delle fobie, degli atteggiamenti verso il cibo ecc. La tecnica è nata e


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viene utilizzata per individuare propensioni razziste e discriminatorie nella popolazione. L’applicabilità all’ambito forense potrebbe così riguardare la selezione della giuria12. Secondo una rappresentazione che in un saggio mi è parsa molto chiara13, «Lo IAT viene somministrato attraverso il computer. Consiste in una serie di prove di categorizzazione: in ciascuna di queste prove, sul monitor compare uno stimolo e al partecipante viene chiesto di classificarlo, il più velocemente ed accuratamente possibile. Gli stimoli sono generalmente parole o immagini e appartengono a quattro diverse categorie: due di queste categorie rappresentano dei concetti, ad esempio persone “bianche” e “nere”, oppure “donne” e “uomini”; mentre le altre due rappresentano due attributi opposti bipolari, ad esempio “positivo” e “negativo”, oppure “estroverso” e “introverso”. Ogni volta che uno stimolo appare sul monitor, il rispondente lo deve ricondurre alla categoria di riferimento. Un aspetto fondamentale dello IAT consiste nel fatto che il partecipante ha a disposizione due soli tasti di risposta e perciò a ciascuno dei tasti sono associate due categorie di risposta». «La logica sottostante allo IAT è la seguente: se nella rappresentazione cognitiva di una persona esiste una forte associazione tra un concetto ed un attributo, ovvero tra due concetti, il compito nel quale questi sono associati nella risposta sarà di esecuzione più facile, rispetto al compito in cui essi richiedono risposte diverse». «Questo fenomeno è definito come “effetto compatibilità”: quando due concetti sono associati tra loro nella memoria del soggetto e condividono la medesima risposta motoria, per esempio per rispondere viene usato lo stesso tasto, i tempi di reazione sono molto rapidi. Al contrario, se due concetti non associati condividono la medesima risposta motoria, i tempi di reazione diventano più lenti». «Nell’autobiographical IAT invece di in-

Gennari, La macchina della verità si è fermata a Salerno… fortunatamente, in Diritto penale contemporaneo, 12/2018, 10. 12

Algeri, Accertamenti neuroscientifici, infermità mentale e credibilità delle dichiarazioni, in Riv. It. Med. Leg., 4/2013, 1920. 13

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dagare il livello di associazione fra concetti, cioè l’associazione a livello di memoria semantica, si valuta l’esistenza di una determinata traccia di memoria autobiografica». Mi permetto di aggiungere che tra due immagini genericamente “culturali” il soggetto sottoposto al test può essere in qualche misura indipendente, credibile, nella risposta. Mentre invece qualsiasi soggetto sottoposto a domande interessanti la sua propria condizione processuale (Autobiographical I.A.T.) può benissimo, e si rende facilmente conto della possibilità di, manipolare il test, rispondendo più prontamente, più velocemente, alle domande a lui favorevoli, e (un po’) più lentamente alle domande a lui sfavorevoli. Il test sembra ben più manipolabile, e meno credibile, in confronto agli stessi vecchi poligrafi e lie detectors, che non hanno mai avuto ingresso nel nostro processo. Problema distinto è quello che non possono essere utilizzati strumenti e metodologie che possano ledere la libertà morale del soggetto. Ciononostante, il giudice di Cremona attribuisce piena credibilità a tale test: «Indubbiamente i tests I.A.T. e T.A.R.A. non provano di per sé la verità storica di un fatto ma hanno il compito più limitato di far emergere, grazie ad una metodologia scientifica e controllabile e non in base ad apprezzamenti soggettivi, quale sia il “ricordo” cioè la “verità” propria di un soggetto in merito ad un determinato fatto». (…) «Per altro verso i difensori [dell’imputato] hanno molto insistito sul fatto che nel test Millon Clinical Multiaxial Inventory III cui la ragazza è stata sottoposta è emersa una elevazione significativa nella scala che compone il profilo “istrionico” ed anche il MMPI-A test fornisce punteggi nella “scala della menzogna” superiori, sebbene di poco, alla norma». «Secondo i difensori tali risultati potrebbero essere indice di una volontà e capacità della [ragazza] di manipolazione della realtà che può essersi spinta sino ad inventare le “attenzioni” ricevute [dall’imputato]». Questo sinceramente non mi pare. «L’argomento è stato approfondito anche nel corso dell’audizione del prof. [il perito] e gli esiti di tali due tests devono comunque essere integrati Responsabilità Medica 2020, n. 2


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con quelli del Big Five Questionnaire e con l’inquadramento e la percezione complessiva della personalità della [ragazza] che sono stati possibili nelle numerose udienze cui ha presenziato». «L’esito del Big Five Questionnaire indica una tendenza a fornire una immagine di sè migliore di quella reale e a presentare una “falsificazione” in senso positivo della propria personalità con la tendenza a negare, anche in modo abbastanza ingenuo, i propri difetti personali (p. 1 della perizia)». «Ad avviso di questo Giudice devono essere letti nel medesimo senso i risultati del Millon e del MMPI-A nel senso cioè che la ragazza, come molti adolescenti, possa essere in grado ed anche portata a mentire ma solo nella misura in cui a tale comportamento possa portare ad una migliore accettazione ed approvazione all’esterno, la ponga in una luce più favorevole, la renda cioè più “adeguata” al suo ambiente». L’imputato è stato condannato a un anno di reclusione, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, con l’interdizione perpetua da qualunque incarico in scuole nonché in uffici e strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori, e a 25.000 euro di risarcimento dei danni morali e materiali subiti dalla persona offesa.

5. Il quarto caso Il quarto caso è una sentenza del g.u.p. presso il Tribunale di Venezia, 24 gennaio 2013 n. 296, pronunciata nei confronti di un imputato di pedofilia affetto da un tumore alla base cranica, per cui ha pure subito un intervento chirurgico. Pediatra vicentino sessantaquattrenne, consulente di una scuola elementare, è stato arrestato in flagranza, a seguito di esposti presentati da genitori, sospettato per diversi episodi, ripreso da una telecamera installata dagli investigatori, mentre compiva atti sessuali su una bambina di tre anni. Dopo l’arresto, il medico ha confessato altri episodi, dichiarando di aver agito sotto un impulso incontrollabile e per lui inspiegabile. Faceva risalire a circa un anno e mezzo prima dell’arresto la nascita di questo interesse sessuale per i minori. La difesa

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ha cercato di ottenere l’incapacità d’intendere e di volere14. Come si legge in sentenza15, «La consulenza prodotta dalla difesa ha individuato una correlazione tra il cordoma del clivus [tumore alla base cranica] e il maturato orientamento pedofilo [dell’imputato]; la pedofilia acquisita, associata ad altri deficit cognitivi avrebbe inciso sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, impedendo a quest’ultimo il controllo degli impulsi». «La perizia disposta dal giudice è giunta a conclusioni opposte escludendo che da quel tumore possano farsi discendere eventuali conseguenze sull’orientamento sessuale dell’imputato e sull’imputabilità del predetto». Si legge ancora che «Nel corso delle operazioni di consulenza, [l’imputato] è stato altresì sottoposto all’esame del ricordo autobiografico (IAT). Si tratta di uno strumento che è stato sviluppato da Tony Greenwald e dai suoi collaboratori (Greenwald, McGhee e Schwartz, 1998) per studiare la forza dei legami associativi tra concetti rappresentati in memoria. Lo IAT viene somministrato attraverso il computer. Consiste in una serie di prove di categorizzazione: in ciascuna di queste prove al centro del monitor compare uno stimolo e al partecipante viene chiesto di classificarlo il più velocemente ed accuratamente possibile. Nelle indagini giudiziarie le classificazioni possibili sono due: la “versione dell’accusa” e la “versione della difesa”. Il soggetto deve rispondere alle varie domande toccando un tasto. Le domande vengono ripetute, e il soggetto risponde prima toccando il tasto con la destra, poi con la sinistra. Si misurano in entrambi i casi i tempi delle risposte. A [l’imputato] sono state poste le domande: “Da sempre provo sentimento sessuale verso i piccoli”, e “Da un anno sento il desiderio sessuale verso i minori”. Il risultato (calcolato mediante procedura algoritmica) è stato pari a 0,15; tale valore indicherebbe che la traccia mnestica che si trova

V. Gennari, La macchina cit., 6-7, nonché Oliviero, De rerum neuroscientiarum natura. Dai laboratori di genetica alle aule di tribunale, Milano, 2018, 66. 14

Stralci delle motivazioni in Riv. It. Med. Leg., 4/2013, 1905 ss. 15


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nel cervello del [l’imputato] è rappresentata dalle frasi associate alla categoria “recente” (es. “Da un anno sento il desiderio sessuale verso i minori”). Gli esiti dello IAT confermerebbero quindi la ricostruzione dedotta dal predetto il quale in sede di interrogatorio avanti al GIP ha riferito che da circa un anno nutriva delle attenzioni sessuali verso le bambine». «I CCTT di parte prospettano di poter spiegare l’attuale caso di pedofilia fornendo una spiegazione su base neurologica del caso». (…) «Secondo i consulenti diversi studi dimostrerebbero l’associazione tra la corteccia orbifrontale e le funzioni esecutive che controllano il comportamento. In particolare, un danno delle regioni orbifrontali sarebbe associato a disturbi del controllo esecutivo quali: impulsività, infantilismo, disinibizione e comportamenti sociali inappropriati». (…) «Affermano i consulenti che il tumore ha provocato effetti compressivi sulle regioni sovrastanti e circostanti, effetti compressivi a cui devono ritenersi causalmente riconducibili alcuni deficit cognitivi (deficit in senso morale, deficit di percezione del rischio) evidenziati dai test e i disturbi comportamentali maturati dal [l’imputato] (quali l’orientamento pedofilo e l’hobby ossessivo per la fotografia)». «Sostengono i consulenti che l’orientamento pedofilo del [l’imputato] risale a circa un anno, un anno e mezzo prima dell’arresto come affermato dall’imputato in sede di interrogatorio); l’epoca indicata sarebbe coerente con i tempi di evoluzione del cordoma, un tumore a lenta crescita che produce i propri effetti dopo aver raggiunto una massa critica». «Sul punto la versione dedotta dall’imputato circa la comparsa dell’interesse sessuale verso le bambine troverebbe conferma negli esiti dello I.A.T.». I consulenti, i medesimi consulenti dei casi precedentemente esaminati in questa sede, questa volta hanno somministrato il test (sulle associazioni presenti in memoria) all’imputato. Questa volta il giudice non si è convinto, e l’imputato è stato ritenuto capace d’intendere e di volere all’epoca dei fatti e responsabile dei reati ascritti.

«I risultati dello A-Iat non possono ritenersi pienamente affidabili. Sono stati espressi dei dubbi circa l’utilizzabilità di tale procedura che secondo alcuni non è altro che un “lie detector” ossia una prova della verità e pertanto dovrebbe ritenersi non utilizzabile ai sensi dell’art. 188 c.p.p.. [16] La disposizione in esame vieta l’utilizzo di metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione e ad alterare il ricordo; sostenitori dello A-IAT in ambito giudiziario [?] affermano che tale procedura non altera bensì contribuisce a rilevare il ricordo e non sarebbe pertanto in contrasto con il divieto dell’art. 188 c.p.p.. [Questo giudice mette un altro punto, di chiusura, dopo il punto dell’abbreviazione, per sicurezza. Li mantengo, fedelmente, malgrado la ribellione del mio correttore automatico] Va però rilevato che lo A-Iat ha avuto fino ad oggi limitata applicazione in ambito giudiziario (è stato di recente utilizzato in un procedimento avanti al GUP di Cremona definito con sentenza in data 19/17/11 [sic], prodotta in copia dalla difesa [il nostro terzo caso]); trattasi di una metodologia di carattere sperimentale i cui risultati non possono essere ritenuti indiscussi. In particolare non può escludersi che il ricorso, soprattutto se riferito, come nel caso in esame, a situazioni complesse, e protrattesi nel tempo possa essere frutto di suggestioni o auto convincimenti». «Non può ritenersi provato l’assunto secondo cui [l’imputato] dopo l’intervento chirurgico aveva risolto l’interesse sessuale verso i minori (il che confermerebbe la dedotta correlazione tra il tumore e il mutato orientamento sessuale). Come evidenziato dal prof. […] all’udienza del 21/11/12, alla data dei colloqui, [l’imputato] era ormai da lungo tempo provato dalla malattia, dal lungo periodo di custodia cautelare, dalla pendenza dell’indagine che si protraeva da diversi mesi per fatti gravi e da cui era derivata una notevole esposizione mediatica. Appare verosimile che in una situazione così complessa e articolata [l’imputato],

Art. 188 c.p.p., Libertà morale della persona nell’assunzione della prova. – 1. Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. 16

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più che aver risolto il problema della pedofilia, possa aver accantonato le problematiche inerenti alla sfera sessuale».

6. Il quinto caso Il quinto caso riguarda prima la Corte d’appello di Catanzaro e poi la Corte d’appello di Salerno. Un condannato per concorso in omicidio, maturato in un contesto criminale, ha chiesto la revisione del processo, avanzando rinnovati dubbi sull’attendibilità della testimone chiave e supportando la richiesta con un rivoluzionario test cui egli stesso si sarebbe già sottoposto: l’A-IAT, somministrato dal medesimo esperto di tutti quanti i casi che stiamo considerando. In questo caso il test servirebbe a dimostrare che l’imputato condannato non reca traccia mnestica dell’episodio delittuoso. La Corte d’appello di Catanzaro, 9.1.2012, ha dichiarato inammissibile il giudizio di revisione, osservando che «non è dato desumere alcun elemento concreto dal quale potere ricavare sia la scientificità che la novità […] del metodo di analisi utilizzato […]; manca in definitiva una sufficiente indicazione circa il grado di consenso che il sistema descritto nell’istanza di revisione riscuote nell’ambito della comunità scientifica e il livello di condivisione raggiunto dallo stesso»17. La Corte di Cassazione, V sezione penale, 22 gennaio 2013 n. 1425518, ha annullato la sentenza, ritenendo che «del tutto generica è la critica che, con la sentenza impugnata, i giudici portano alle nuove metodologie IAT e TARA, utilizzate per scandagliare le tracce mnemoniche che un episodio così grave avrebbe dovuto lasciare nella psiche del [l’imputato condannato]. La corte catanzarese parla genericamente di scarsa affidabilità dei metodi utilizzati, ma si tratta di una valutazione che non compete al giudice della revisione nella fase deliberativa della ammissibilità della richiesta»; motivando così che «il giudicante ha addossato al consulente tecnico l’onere di certificare la

Riporto dalla sentenza della Cassazione di cui subito appresso. 17

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Consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it.

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validità delle nuove tecniche d’indagine psicologica, cui lo stesso ha fatto ricorso, quasi che non fosse, viceversa, compito, innanzitutto del giudice (documentarsi e) pronunziarsi sulla correttezza dei nuovi criteri metodologici sottoposti alla sua attenzione (in relazione alle tecniche IAT e TARA, esiste ormai letteratura, anche in ambito giuridico)». «Va al proposito ricordato che la richiesta di revisione è certamente ammissibile, se prospetta una perizia nuova per (valida) metodologia e conclusioni difformi da quelle precedentemente raggiunte». Fra l’altro, scrive la Corte che «La corte di appello di Catanzaro […] ha ritenuto non sufficienti i nuovi elementi addotti, sia perché oggettivamente non certi, sia perché il professor [lo stesso consulente di tutti i casi precedentemente esaminati in questa sede] aveva condotto i suoi accertamenti sulla base della lettura degli atti processuali e non a seguito di un nuovo esame della [testimone]. In sintesi, la corte catanzarese ha ritenuto che i nuovi elementi allegati dalla difesa del [l’imputato] non avessero, già prima facie, quella efficacia risolutiva, necessaria per instaurare il giudizio di revisione». È a questo punto, nella redazione di questo lavoro, che ho cercato «IAT test» su Google. È apparsa subito una traduzione da Wikipedia inglese, sotto la voce Implicit-association test, che «Il test di associazione implicita è una valutazione controversa nel campo della psicologia sociale intesa a rilevare la forza dell’associazione subconscia di una persona tra rappresentazioni mentali di oggetti nella memoria». Nella stessa prima pagina è presente la voce del sito del Dipartimento di psicologia generale dell’Università di […] che promuove l’iscrizione ai «Corsi CARS - Corsi Avanzati per la Ricerca Scientifica», segnatamente al corso «IAT e tecniche implicite», nel cui programma sono essenziali «L’Implicit Association Test (IAT) e l’autobiographical Implicit Association Test (aIAT): implementazione del paradigma sperimentale tramite il software e prime applicazioni nell’ambito della psicologia sociale e cognitiva» (in cui ritengo che si parlerà, a sua volta, anche delle vicende giudiziarie di cui ci stiamo occupando). Se poi nella stringa di Google si aggiunge «TARA» (così) si ha la sorpresa di essere accolti in un sito


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Autobiographical IAT, sulla validazione della testimonianza19, direttamente dal prof. [l’esperto di tutti i casi esaminati in questa sede], con fotografia bracciaconserte velatamente sorridente, descrizione delle competenze, il click per essere contattati e il link di un’intervista al medesimo sul famoso caso di Trieste, che «ha attirato l’attenzione del mondo giuridico a livello internazionale»; la registrazione su YouTube di un servizio di Tg2 Dossier dove [il professore] spiega la tecnica messa a punto all’Università di […] per evidenziare «le parti del cervello mentre producono la menzogna» e «le altre zone che servono per produrre una menzogna credibile, veritiera, che possa essere creduta». Addirittura! Andiamo verso la fine. Così la Corte di Cassazione ha rinviato la vicenda, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Salerno. Si può dire inopinatamente? Nella sentenza della Corte d’appello di Salerno 10.2.2017 n. 2575 si legge: «La richiesta di revisione si basava, però, anche su un’altra asserita “prova nuova”, avendo il prof. […], consulente tecnico della difesa, sottoposto lo stesso imputato [di concorso in omicidio] […] a due prove basate su test predisposti in base alle metodiche c.d. (dal loro acronimo) I.A.T. e T.A.R.A., ovvero Autobiographical Implicit Association test e Timed antagonistic response alethiometer, volte a indagare la memoria autobiografica del condannato e ad analizzare l’eventuale traccia del fatto di sangue, se presente nella memoria del medesimo in quanto effettivo autore del delitto». «Dalla applicazione di tali modalità di apprezzamento delle dichiarazioni rese dall’imputato (sostanzialmente dal tempo delle sue risposte!?) [anche quel giudice tradisce emozione], discendeva che questi – secondo il prof. [consulente della difesa] – dovesse essere ritenuto sincero quando si era professato innocente rispetto alle accuse mossegli». «La Corte di Catanzaro – adita per la revisione – aveva respinto le richieste sostenendo che le nuo-

https://sites.google.com/site/validazionedellatestimonianza/. 19

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ve modalità di indagine proposte dalla difesa fossero prive di elementi di effettiva novità e quindi, come tali, inidonee a sovvertire il quadro probatorio, ma, secondo la Corte regolatrice, investita del successivo ricorso, non aveva supportato tale convinzione con preliminari accertamenti tecnico-scientifici». «La suprema Corte, nell’accogliere il ricorso della difesa avverso la decisione della Corte catanzarese, ha ritenuto pertanto necessario che questo giudice di rinvio disponesse i necessari approfondimenti finalizzati a verificare la scientificità delle metodologie proposte». Riporto altri passaggi della sentenza: «In sede di conclusioni il professor […] ha affermato che lo I.A.T. avrebbe dimostrato come sia presente nel cervello [dell’imputato condannato] un’associazione molto forte fra il concetto di vero e la categoria difesa, rappresentata da frasi che descrivono la versione fornita dallo stesso esaminato (ad es.: ho solo rinvenuto il corpo di […]). Viceversa le frasi che rappresentano l’ipotesi relativa alla categoria accusa, rappresentata da frasi che contrastano con la versione dell’esaminato (ad esempio ho visto […] sperare a […]) sono fortemente associate con la categoria falso». «Ciò – sempre a giudizio del [consulente] – consentendo di escludere, nel cervello di […], la presenza di una traccia mnestica legata all’evento associato alla categoria accusa, dimostrerebbe che lo stesso fatto sia stato veritiero quando ha affermato di non aver assistito all’omicidio di […]». La Corte d’appello ha nominato un perito che ha spiegato la metodologia I.A.T. «Il perito ha spiegato che la metodologia I.A.T. fu presentata per la prima volta nel 1988 da Grenwald, Mcghee, Sherry e Schwartz come strumento per rilevare “associazioni automatiche” che gli individui realizzano, e si basa sull’idea che atteggiamenti comportamenti vengano dettati soprattutto dalla “memoria implicita” cioè da quelle cognizioni tacite, inconsapevoli presenti in modo significativo in ogni persona». «Secondo il Gladwell, autore di Blink, the Power of Thinking without Thinking, del 2005, così può riassumersi, in estrema sintesi la funzione del test in oggetto: “misurare l’atteggiamento di una persona ad un livello inconscio o le associazioni imResponsabilità Medica 2020, n. 2


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mediate e automatiche che si verificano prima che una persona abbia tempo per pensare». «Questa metodologia, basata sulla rilevazione dei tempi di risposta a quesiti semplici (verbali o con immagini) permetterebbe di aggirare quei processi messi in campo da ogni persona di fronte a domande critiche per il senso di sé e/o per l’immagine di sé proposta agli altri». «Lo I.A.T. – come accertato dalla approfondita e competente analisi del perito che ne ha ben descritto la potenziale utilità in campi diversi dalla sfera del processo – è stato utilizzato per la misurazione di stereotipi e pregiudizi; per l’indagine dell’autostima o di altri costrutti di personalità; per valutare gli atteggiamenti impliciti verso prodotti di consumo e candidati politici». «Esso, pertanto, può essere considerato come uno strumento utilizzato in psicologia sociale per una varietà di indagini». «A sua volta il T.A.R.A. si basa sull’assunto che la verità sia di più veloce accesso per l’individuo rispetto alla bugia. Esso è, dunque, simile al precedente test I.A.T. e viene concretamente somministrato richiedendo agli intervistati di classificare una serie di affermazioni contrastanti come vere o false premendo uno dei due tasti corrispondenti il più velocemente possibile». «A differenza dello I.A.T., con il T.A.R.A. non vengono proposte associazioni tra oggetti (concetti, animali, immagini, nomi, fiori, etc.) e valutazioni, ma scelte tra affermazioni e tra il vero e il falso». «Detto ancora in altre parole, con il T.A.R.A. l’esaminatore chiede all’esaminato di classificare le frasi proposte secondo la veridicità delle stesse, ovvero attraverso le due categorie logiche del vero e falso». (…) «Il professor […], nel corso del suo esame – dopo aver significativamente precisato, su apposita domanda della Corte, di essere, al momento, l’unico titolare in Italia di una cattedra di Neuropsicologia forense nonché primo, e forse unico, propugnatore delle citate metodiche in ambito processuale – ha sostenuto che sulla I.A.T. e T.A.R.A. da lui propugnate vi sono moltissime pubblicazioni su riviste scientifiche e, che, pertanto, sarebbero soddisfatti i criteri sulla validazione della prova

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Saggi e pareri

scientifica enunciata dalla suprema Corte di cassazione». «Ma qui – ripetesi – non si tratta di valutare la scientificità delle dette metodiche nell’indagare una propensione al consumo od una preferenza politica, quanto l’utilizzo delle stesse per verificare se un imputato dica o meno il vero se viene interrogato (pur con determinate peculiari modalità) sul suo rapporto, o meno, con il delitto». «E bisogna inevitabilmente prendere atto che non risultano massimate – con l’unica eccezione proprio della sentenza di annullamento con rinvio a questa Corte nella odierna regiudicanda – pronunce della suprema Corte che si sono espresse, seppure nella forma deliberativa propria della decisione di annullamento con rinvio, sulle nuove metodologie/prove di cui stiamo parlando». «Sulla base delle considerazioni che precedono non si può allora non condividersi la conclusione rassegnata dal dott. […], secondo cui: “Le metodologie a.I.A.T. e T.A.R.A. utilizzate dal consulente tecnico di parte difensiva al fine di indagare la memoria autobiografica del condannato e di analizzare l’eventuale traccia del fatto di sangue se presente nella memoria dello stesso, non possono essere considerate, allo stato attuale, metodologicamente corrette (ai fini di ciò che si propongono di indagare), né sono state validate (cioè riconosciute valide allo scopo) dalla comunità scientifica internazionale, e tali, pertanto, da garantire valide acquisizioni di conoscenza sul piano giuridico processuale”». (…) «Questo giudice, alla luce delle considerazioni che precedono, si è convinto, pertanto, della assoluta impossibilità di pronunziarsi positivamente sulla – per usare le testuali parole della Suprema Corte nella decisione di rinvio [nella quale invece sono minuscole «corte di appello di Catanzaro», «corte catanzarese» e «corte di appello di Salerno»] – “correttezza dei nuovi criteri metodologici”, nella specie I.A.T. (rectius a.I.A.T.) [!] e T.A.R.A., “sottoposti alla sua attenzione”». «Ritiene conclusivamente questa Corte che: 1) dopo aver esaminato e valutato negativamente le nuove metodologie scientifiche (c.d. a.I.A.T. e T.A.R.A.) addotte dalla difesa per valutare la verità o meno delle risposte fornite dal condannato,


Diritto penale e neuroscienze

e, conseguentemente, la apprezzabilità di questo metodo sul piano probatorio, ed aver 2) esaminato ed apprezzato negativamente il novum processuale prospettato dalla difesa (relazione di un consulente tecnico d’ufficio in una causa per il riconoscimento dell’invalidità civile ed alcune certificazioni sanitarie relative al periodo scolastico) circa la capacità a rendere testimonianza di una teste processuale, nonché, infine, aver 3) inserito tali evenienze nel contesto delle prove già raccolte nel precedente giudizio allo scopo di stabilire se esse sono idonee a determinare una decisione diversa rispetto a quella di condanna già intervenuta, non possa che pervenirsi alla determinazione di respingere il ricorso per revisione, così come proposto».

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espletare alcun rilievo circa il giudizio di imputabilità dell’imputato, atteso che detta patologia non era stata aliunde osservata, ma era anzi stata smentita dagli elementi che erano stati esposti nell’elaborato peritale».

7. Ultima notizia Intanto la Corte di Cassazione, prima sezione penale, 2.10.2012 n. 43021, ha rigettato un ricorso avverso la sentenza della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria del 24.4.2011 che confermava una condanna all’ergastolo pronunciata dalla Corte d’assise della stessa città in data 10.8.2009 per triplice omicidio premeditato e per motivi abietti e futili, con fucile caricato a pallettoni, in danno del fratello, della cognata e della nipote di quattro anni. La Corte d’assise d’appello [ancora tentativo in appello] aveva fra l’altro ritenuto non acquisibile una consulenza tecnica di parte del «prof [il medesimo consulente di tutte le vicende esaminate in questa sede]», con cui la difesa avrebbe voluto non «veicolare nel processo una nuova perizia» ma «stimolare un nuovo accertamento psichiatrico alla luce di nuovi apporti scientifici». In particolare, da un canto, «Non veniva ritenuto che le neuroscienze potessero spiegare le ricadute del trauma subito dall’imputato in età adolescenziale nella sua capacità di intendere e di volere, atteso che il perito [del giudice di primo grado] ne aveva escluso ogni riflesso significativo (al di là di una sinusite frontale). […]». D’altro canto, «L’indagine generica di tipo esplorativo richiesta dalla difesa per individuare la presenza di geni o l’esistenza di traccia organica obiettivamente osservabile, compatibile con una patologia elidente la capacità dell’imputato, non veniva ritenuta in grado di Responsabilità Medica 2020, n. 2



i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Covid-19: le contraddizioni del p sistema sanzionatorio introdotto per chi viola le misure di contenimento del virus Giovanni Geremia Avvocato in Milano

Sommario: 1. I divieti introdotti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. – 2. Le sanzioni per la violazione del divieto di spostamento prima del d.l. 25 marzo 2020, n. 19. – 3. Le sanzioni per la violazione del divieto di spostamento dopo il d.l. 25 marzo 2020, n. 19. – 4. I problemi di successione delle leggi penali nel tempo: la disciplina sanzionatoria delle violazioni al divieto di spostamento commesse prima del 26 marzo 2020. – 5. Le false autodichiarazioni. – 6. I delitti contro la salute. – 7. Conclusioni.

Abstract: Pene che spaziano dalla sanzione amministrativa all’ergastolo. Procure della Repubblica e Governo che “litigano” sulle ipotesi di reato applicabili ai trasgressori. Reati che, a distanza di un mese dalla loro introduzione, vengono abrogati. Benvenuti nel diritto penale dell’emergenza in materia di Covid-19! Penalties ranging from administrative sanctions to life sentences. Prosecutors’ offices “quarrelling” over which alleged offense to charge transgressors with. Offenses abrogated only one month after their introduction. Here’s the Covid-19 emergency criminal legislation!

1.

I divieti introdotti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19

La legislazione d’emergenza, lo sappiamo, è assai difficile che produca dei capolavori.

Questo vale, a maggior ragione, in una materia delicata quale il diritto penale ove le singole norme incriminatrici si inseriscono in un quadro generale all’interno del quale non sempre è facile mantenere coerenza ed equilibrio. La recente legislazione emessa in materia di Covid-19, purtroppo, non fa eccezione. Una enorme attenuante, però, va data al Legislatore: in questo caso, contrariamente a quanto avvenuto per molte altre leggi penali di emanazione più o meno recente, l’emergenza c’era, c’è tuttora, ed è davvero seria e un intervento immediato e cogente era assolutamente necessario. Il compito era, e resta ancora, tutt’altro che facile e la finalità dell’intervento legislativo rimane encomiabile: ridurre la diffusione del virus che ha drammaticamente colpito il nostro Paese, tra le altre cose inducendo la popolazione, con tutti gli strumenti coercitivi a disposizione, a rimanere a casa. Fatte queste doverose premesse, rimane il dato normativo, che qui si proverà ad analizzare. Con successivi provvedimenti (d.l., d.P.C.m., d.m., ecc.), sono state adottate misure d’emergenza massimamente restrittive della libertà personale, Responsabilità Medica 2020, n. 2


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che hanno fortemente limitato, tra gli altri, i diritti costituzionali al lavoro (art. 4 Cost.), alla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), al diritto di riunione (art. 17 Cost.), alla libertà di culto e di propaganda (art. 19 Cost.), alla libertà d’iniziativa economica (art. 41 Cost.). Alcuni autori hanno persino ipotizzato profili di possibile illegittimità costituzionale di tali norme, nella parte in cui introducevano gravi restrizioni a diritti costituzionali e applicazione di sanzioni penali anche attraverso provvedimenti (quali il d.P.C.m.) diversi dalla legge. In estrema sintesi, e senza nessuna velleità di completezza (anche alla luce dei continui aggiustamenti normativi e delle varie “sotto-legislazioni” a carattere locale che si sono sovrapposte alle norme nazionali) si può affermare che, nella fase di c.d. lockdown, è stato vietato ogni spostamento – senza nessuna esclusione: con i mezzi pubblici, con i mezzi propri e a piedi – a meno che lo stesso non fosse motivato da tre ragioni: 1. comprovate esigenze lavorative; 2. situazioni di assoluta urgenza o necessità; 3. ragioni di salute. Tra le situazioni di necessità rientravano certamente l’acquisto di beni essenziali (alimentari o beni legati ad esigenze primarie che non possono essere rimandate) e la gestione quotidiana delle esigenze fisiologiche dei propri amici a quattro zampe (oltre ad eventuali visite al veterinario indispensabili e non differibili). L’attività sportiva o motoria all’aperto è stata oggetto di ampi dibattiti. In una serie di successive interpretazioni, via via più restrittive, è stato precisato che: – tali attività erano (inizialmente) ammesse, ma solo evitando assembramenti e rispettando la distanza minima (di un metro) tra le persone; – successivamente è stato, invece, vietato l’accesso del pubblico ai parchi, alle ville, alle aree gioco e ai giardini pubblici nonché l’attività ludica o ricreativa all’aperto, ammettendo esclusivamente lo svolgimento individuale di “attività motoria in prossimità della propria abitazione”, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona (cfr. ordinanza del Ministero della Salute 20 marzo 2020);

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– alcune Regioni hanno adottato norme ancora più coercitive (in Campania ad esempio è stato previsto il divieto assoluto di praticare sport o fare attività motoria all’aperto). Nel periodo di lockdown, a chi era fermato al di fuori della propria abitazione veniva chiesto di produrre un’auto-dichiarazione – il cui modello è stato più volte modificato ed era scaricabile dal sito del Governo – nella quale era necessario indicare le ragioni che giustificavano lo spostamento. Nelle settimane successive all’entrata in vigore dei divieti le Forze dell’Ordine hanno accertato migliaia di infrazioni, redigendo altrettanti verbali di contestazione: vedremo di seguito cosa rischiano i trasgressori.

2. Le sanzioni per la violazione del divieto di spostamento prima del d.l. 25 marzo 2020, n. 19 A partire dal d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, intitolato “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”, il Governo ha espressamente stabilito che, “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, la violazione delle misure di contenimento è punita ai sensi dell’art. 650 c.p. L’art. 650 c.p. – che punisce chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, d’ordine pubblico o d’igiene – è stato poi richiamato più volte dai successivi provvedimenti del Governo, ogni volta che venivano modificate o integrate le misure di contenimento del coronavirus ed è stato anche inserito nei vari moduli di autodichiarazione predisposti dal Governo1. Da ultimo, anche diverse ordinanze regionali, nel prevedere ulteriori misure per la prevenzione dell’emergenza epidemiologica, hanno indicato nell’art. 650 c.p. la fattispecie di riferimento per i trasgressori.

Tra le varie affermazioni contenute nel documento vi è quella secondo la quale il sottoscrittore dichiara “di essere a conoscenza […] delle sanzioni previste dall’art. 4, co. 1, dello stesso decreto in caso di inottemperanza (art. 650 C.P. salvo che il fatto non costituisca più grave reato)”. 1


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Violazione delle misure di contenimento del virus

Il significato dei continui rimandi legislativi sembrerebbe univoco: a chi viola le misure di contenimento verranno applicate le pene indicate dall’art. 650 c.p. Vale a dire: arresto fino a tre mesi o ammenda fino a 206 euro. Da più parti si è affermato che la contravvenzione in esame prevede “l’arresto” dei responsabili. Sul punto pare però opportuno un chiarimento: essendo prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, ai sensi dell’art. 162-bis c.p. il contravventore può essere ammesso, a meno che non ricorrano particolari condizioni ostative2, alla c.d. “oblazione facoltativa”, che prevede l’estinzione del reato a fronte del pagamento, prima dell’apertura del dibattimento, della metà del massimo dell’ammenda. Ciò significa che, sorto il procedimento penale, concluse le indagini, formalizzata la contestazione all’imputato (presumibilmente con decreto penale di condanna), quest’ultimo potrebbe estinguere il reato versando la somma quasi simbolica di 103 euro. Insomma, una vera e propria “eterogenesi dei fini”, per superare la quale alcune Procure hanno ipotizzato una diversa fattispecie criminosa, vale a dire l’art. 260 del r.d. n. 1265 del 27 luglio 1934, il t.u. delle leggi sanitarie, chiedendo alle Forze dell’Ordine di procedere alla contestazione di tale reato3.

L’oblazione non può essere ammessa in particolari casi di recidiva del reato, per i contravventori abituali o professionali e quando permangono conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore; se non vi sono tali condizioni ostative, il Giudice può inoltre non ammettere l’oblazione “avuto riguardo alla particolare gravità del fatto”. 2

Il Procuratore della Repubblica di Genova, in una nota del 24 marzo 2020 alla Questura, ai Carabinieri, alla GdF, alla Polizia Municipale e a tutti i Magistrati di Genova, ha evidenziato che “considerata l’ingravescenza del fenomeno e l’aumento delle restrizioni previste […] si reputa più aderente alla necessità di fronteggiare la crescente violazione delle prescrizioni la contestazione dell’art. 260 del T.U. leggi sanitarie in vece della contravvenzione prevista dall’art. 650 c.p. L’art. 260 […] prevede la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda e pertanto la contravvenzione in questione non è oblabile. Prego pertanto disporre che, in caso di denuncia, l’elezione di domicilio […] indichi tale reato”. Analoga iniziativa, a quanto risulta, era in fase di valutazione da

Si tratta di una figura specifica rispetto all’art. 650 c.p., la quale punisce “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo”. La grossa differenza riguarda la pena, che essendo congiunta – arresto fino a sei mesi e ammenda da 20 a 413 euro4 – non prevede la possibilità di estinguere il reato mediante oblazione. La domanda, a questo punto, è d’obbligo: chi aveva ragione, tra il Governo e le Procure “ribelli”? La risposta non è semplice. A favore dell’interpretazione più rigorosa vi sono i seguenti elementi: – nel caso di specie le disposizioni emanate dal Governo hanno proprio la finalità di contrastare la diffusione del famigerato Covid-19, esattamente come prevede l’art. 260 t.u. delle leggi sanitarie; – per il noto principio iura novit curia, spetta al Magistrato e a nessun altro attribuire al fatto la corretta qualificazione giuridica, applicando la norma (ed eventualmente la sanzione) che ritiene corretta; – la clausola di riserva (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) utilizzata dal Legislatore prevede espressamente la possibilità di configurare reati più gravi; – nemmeno l’oscurità del testo legislativo, le indicazioni fuorvianti fornite dalle autorità competenti e il repentino mutamento della giurisprudenza parrebbero invocabili a titolo scriminante. Infatti, la “confusione normativa” che si è venuta a creare riguarda non tanto il precetto (vale a dire il contenuto dei divieti e delle limitazioni agli spostamenti), quanto la sanzione, rispetto alla quale non vale la scusante dell’ignoranza inevitabile5.

3

parte della Procura della Repubblica di Milano. Il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 ha modificato la pena, che ora è dell’arresto da 3 a 18 mesi e dell’ammenda da 500 a 5.000 euro. 4

Come noto la Corte costituzionale, con sentenza n. 364 del 24 marzo 1988, in Foro it., 1990, I, 415, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 c.p. “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità della ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile”, vale a dire le situazioni in cui 5

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Rimane, però, un dato, che potrebbe essere difficile da superare: la volontà del Legislatore. Il Governo ha indicato una serie di divieti e contestualmente ha individuato la sanzione penale nella quale incorre chi li viola, ribadendo più volte tale linea interpretativa. La stessa clausola di riserva pare fare riferimento, nelle intenzioni del Legislatore, non alla situazione tipica, bensì a fattispecie particolari, caratterizzate da condotte di maggior disvalore, tali da integrare profili di reati diversi e più gravi. Ebbene a fronte di una decisione legislativa chiara, l’applicazione di una sanzione penale più grave costituirebbe a parere di chi scrive una forzatura del dato normativo, perché adotterebbe una inammissibile interpretazione finalistica, fondata sui possibili effetti applicativi della norma a discapito del significato delle parole.

3. Le sanzioni per la violazione del divieto di spostamento dopo il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 In data 25 marzo 2020 il Governo ha modificato completamente la disciplina sanzionatoria. Le finalità dell’intervento erano quelle di semplificare il confuso quadro sanzionatorio che si era venuto a creare dopo il primo decreto legge e di ritagliare all’area penale uno spazio residuale, con la previsione di fattispecie a gravità crescente, nella verosimile consapevolezza che sarebbe stato inutile intasare le aule della Giustizia penale con procedimenti destinati quasi tutti a concludersi con il pagamento dell’oblazione. La violazione dei divieti di spostamento è stata quindi punita, nella “fattispecie base” (cioè quella non aggravata), con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 400 a 3.000 euro (con aumento da un terzo alla metà se il mancato

Saggi e pareri

rispetto delle misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo)6. Il legislatore ha tenuto a precisare espressamente che, per queste violazioni, non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 c.p. né ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità (il riferimento è evidentemente all’art. 260 del t.u. delle leggi sanitarie). Ciò significa che la violazione delle misure anti-contagio non integra più reato, ma è stata trasformata in una infrazione di carattere amministrativo. Si noti che la depenalizzazione ha effetto a prescindere dalle disposizioni di alcune ordinanze regionali, che richiamano l’art. 650 c.p., dal momento che la giurisprudenza costituzionale7 esclude la legge regionale dal novero delle fonti di diritto penale. Vale la pena sottolineare che, per espressa previsione legislativa (ma allo stesso risultato si sarebbe comunque pervenuti in applicazione del principio della retroattività della legge favorevole), sono state depenalizzate anche le condotte poste in essere prima del 26 marzo 2020, rispetto alle quali dovrà essere applicata, quindi, la sanzione amministrativa. In tali casi le sanzioni amministrative verranno però irrogate nella misura minima ridotta della metà. La depenalizzazione ha però fatto salva una particolare condotta, di maggiore gravità, che ha mantenuto rilevanza penale: la violazione del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché positive al virus integra ora il reato di cui all’art. 260 t.u. delle leggi sanitarie, le cui pene sono state contestualmente aumentate.

All’accertamento di alcune specifiche violazioni (inerenti gli esercizi commerciali, i locali pubblici, gli eventi, le attività didattiche, ecc.) l’Autorità procedente può inoltre disporre la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’attività o dell’esercizio da 5 a 30 giorni. 6

La Corte costituzionale ha più volte escluso che le leggi regionali possano introdurre sanzioni penali. Cfr.: Corte cost., 13.3.2014, n. 46, in Giur. cost., 2014, 1134; Corte cost., 22.6.1990, n. 309, ivi, 1990, 1890; Corte cost., 18.1.1991, n. 14, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, 668; Corte cost., 24.5.1991, n. 213, in Giur. it., 1991, I, 962. 7

la illiceità della condotta non era conosciuta né conoscibile dall’agente. La giurisprudenza costituzionale ha peraltro precisato che non può ravvisarsi l’ignoranza inevitabile allorché l’agente si rappresenti anche solo la possibilità che il fatto sia antigiuridico.

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Violazione delle misure di contenimento del virus

Con l’entrata in vigore del d.l. in commento, infatti, la pena è ora quella dell’arresto da 3 a 18 mesi e dell’ammenda da 500 a 5.000 euro.

4. I problemi nella successione di leggi penali nel tempo: la disciplina sanzionatoria delle violazioni al divieto di spostamento commesse prima del 26 marzo 2020 Le violazioni precedenti all’entrata in vigore del d.l. 25 marzo 2020 verranno punite con la sanzione amministrativa, ad esclusione di quelle commesse da persone infette in quarantena. Per tali ultimi casi (cioè le persone contagiate che hanno violato le misure di contenimento prima del 26 marzo), in virtù del principio di irretroattività della legge penale la sanzione più grave introdotta dal d.l. 25 marzo 2020 (vale a dire l’art. 260 t.u. delle leggi sanitarie) non potrà trovare applicazione, dovendosi fare riferimento alla normativa previgente. Si sono già analizzati i contrasti interpretativi sulla normativa originaria e in particolare sulla possibilità di applicare le sanzioni previste dall’art. 260 t.u. sanitario in luogo di quelle dell’art. 650 c.p. Al riguardo, non si può che ribadire l’opinione già espressa, secondo la quale le pene cui si deve fare riferimento sono quelle dell’art. 650 c.p., a maggior ragione dopo l’ultima modifica normativa, considerato che: 1. lo stesso Ministero dell’Interno, in una circolare del 26 marzo 2020, evidenzia che la nuova normativa è volta a “superare lo strumento originariamente individuato nell’art. 650 c.p.”; 2. la decisione di ridurre della metà la sanzione amministrativa per le trasgressioni precedenti al 26 marzo pare dettata proprio dalla volontà di mantenere coerenza con la disciplina previgente, che consentiva ai trasgressori di beneficiare dell’oblazione di 103 euro. Per tali motivi, si ritiene che le violazioni della quarantena da parte dei contagiati, commesse prima del 26 marzo, siano punite ai sensi dell’art. 650 c.p.

5. Le false autodichiarazioni Un aspetto paradossale dell’assetto normativo venutosi a creare dopo gli interventi legislativi è che (al di là delle ipotesi in cui si provochi il contagio di altre persone) i rischi più seri, dal punto di vista penale, non li corre chi ha violato i divieti di spostamento bensì chi – presumibilmente per evitare le lievi sanzioni previste dagli artt. 650 c.p. e 260 t.u. sanitario – ha riferito il falso nelle autodichiarazioni. Astrattamente, la compilazione di un’autodichiarazione contenente circostanze false in ordine ai motivi dello spostamento potrebbe integrare due reati alternativi: 1. Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), che punisce con la reclusione sino a due anni chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità; 2. Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 495 c.p.), che punisce con la reclusione da uno a sei anni chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona. Il Governo era chiaramente orientato a favore del secondo reato, tanto che nei moduli di autodichiarazione messi a disposizione dei cittadini vi era l’espresso richiamo a tale norma incriminatrice. Coerentemente, le Forze dell’Ordine hanno sin dall’inizio seguito tale strada, indicando nelle notizie di reato trasmesse alle Procure la violazione dell’art. 495 c.p. A mio avviso tale qualificazione giuridica non è corretta in tutti i casi in cui – e sono la maggioranza – l’oggetto della falsa affermazione riguardava il motivo dello spostamento e quindi qualcosa di ben diverso rispetto all’identità o alla qualità della persona. In tali ipotesi, l’art. 495 c.p. verrebbe contestato sulla base di una interpretazione analogica che però, come noto, è inammissibile in materia penale. L’art. 495 c.p. potrebbe invece trovare applicazione nei casi (del tutto residuali) in cui la persona fermata abbia fornito false generalità. Responsabilità Medica 2020, n. 2


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Questa è l’opinione di chi scrive, fermo restando che gli organi di Polizia hanno generalmente contestato (coerentemente con le indicazioni del Governo) proprio il reato ex art. 495 c.p. a tutti coloro che hanno sottoscritto dichiarazioni ritenute false. In alternativa, come si è detto, si potrebbe configurare la violazione dell’art. 483 c.p., che punisce la falsità ideologica commessa dal privato in un atto pubblico, quale può essere considerata l’autodichiarazione. Anche per questo reato, però, si profilano alcuni seri problemi applicativi: I) il delitto è configurabile solo se la falsità ha ad oggetto fatti dei quali l’atto pubblico è destinato a provare la verità. Nel caso di specie è a dir poco opinabile che il modulo in questione sia finalizzato a provare la verità dei fatti esposti dal privato; II) l’obbligo di verità, che costituisce il presupposto di tale reato, non può in ogni caso trovare applicazione nei confronti di chi ha commesso un reato, perché l’imputato ha il diritto di mentire. Quantomeno nelle ipotesi in cui l’interessato rischiasse – al momento della dichiarazione – la contestazione di un reato, il falso non sarebbe quindi configurabile. A fronte di questo quadro davvero complesso, e delle centinaia di denunce comminate dalla Polizia Giudiziaria da cui sono sorti procedimenti penali innanzi alle Procure di tutta Italia, rimane da vedere quale sarà l’atteggiamento della Magistratura8.

6. I delitti contro la salute Nel micro-sistema sanzionatorio che si è venuto a creare nella materia in esame, l’ultimo step è costituito dai delitti contro la salute.

Si segnala che il Procuratore di Genova ha indirizzato una nota ai vertici di Arma, Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia locale del capoluogo di Regione, oltre a tutti i colleghi della Procura, nella quale parrebbe escludere, salvi casi particolari, la configurabilità sia dell’art. 483 che dell’art. 495 c.p.

Saggi e pareri

Tali delitti sono configurabili, è bene chiarirlo, solo nei casi in cui vi sia la prova che il responsabile: I) era infetto; II) ha violato le misure di contenimento del virus; III) così facendo ha effettivamente contagiato una o più persone. In tali ipotesi, al responsabile potranno essere contestati i seguenti reati (in via alternativa, e non congiunta, alla sanzione amministrativa o all’art. 260 t.u. sanitario, per espressa previsione legislativa): – lesione colposa; – omicidio colposo; – epidemia colposa. Si può parlare di epidemia quando la diffusione della malattia contagiosa ha caratteri tali da porre in pericolo la salute di un numero indeterminato di persone. Vale la pena sottolineare che le pene per gli ultimi due reati possono essere molto pesanti, potendo arrivare – in caso di contagi multipli – sino a 12 anni di reclusione per l’epidemia colposa9 e 15 anni per l’omicidio colposo10. L’onere probatorio per questi reati è chiaramente molto complesso per la Procura, che dovrà dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio il contagio di altre persone da parte dell’imputato. Con riferimento all’elemento psicologico, la violazione delle misure previste dalla normativa anti-contagio potrebbe, secondo una impostazione rigorosa, essere sufficiente ad integrare l’elemento psicologico della colpa anche ove l’agente non sia a conoscenza di essere infetto, dal momento che – quando la normativa emergenziale è stata emanata – era presumibilmente noto a tutti che il virus ha un lungo periodo di incubazione e che molti malati sono del tutto asintomatici. Vale la pena evidenziare che l’epidemia colposa è già stata contestata dagli inquirenti ad alcuni malati di Covid-19, fermati in zone aperte al pubblico. I delitti sopra richiamati, infine, potrebbero in linea teorica essere contestati anche nella loro for-

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Art. 438 c.p. in relazione all’art. 452 c.p.

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Art. 589 c.p.


Violazione delle misure di contenimento del virus

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ma dolosa, con pene che possono arrivare sino all’ergastolo (per l’epidemia dolosa), nelle ipotesi in cui si raggiungesse l’ulteriore prova (difficilissima) che l’untore aveva quantomeno accettato il rischio di contagiare altre persone. Vengono in mente situazioni-limite di persone consapevoli di essere contagiate e che ciò nonostante circolano liberamente in zone altamente frequentate e senza adottare nessun tipo di neppur minima precauzione.

7. Conclusioni A fronte di un quadro normativo tanto complesso e di sanzioni così variegate, in attesa di conoscere gli sviluppi interpretativi della Giurisprudenza, il consiglio rimane sempre lo stesso: tenersi informati e continuare a rispettare le norme in vigore in materia di anti-contagio, in modo da non incorrere in spiacevoli contestazioni e da garantire altresì la sicurezza propria e delle altre persone.

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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di sti i e r Brevi riflessioni sulla tragica m giu esperienza da Covid-19: la prospettiva del giurista e del medico di medicina generale Roberto Pucella

Professore nell’Università di Bergamo

Germano Bettoncelli

Medico di medicina generale

Roberto Pucella L’emergenza sanitaria determinata dalla pandemia da Covid-19 ha messo in crisi il sistema sanitario nazionale: una domanda di prestazioni sanitarie (in ciò ricomprendendo sia le attrezzature e le strutture, sia la disponibilità del personale medico e paramedico) enormemente superiore alle capacità del sistema, l’impotenza di fronte a una patologia (o, forse, sarebbe meglio dire un insieme di patologie) per la quale non vi sono, allo stato, vaccini o cure che si dimostrino incontrovertibilmente utili, una complessa serie di “effetti domino” che ha comportato, a cascata, il ritardo o la sospensione dell’erogazione di prestazioni per i pazienti affetti da patologie diverse, ma ugualmente bisognosi di cure, ha messo in ginocchio il mondo della sanità. In questa condizione di straordinaria emergenza si sono fusi insieme profili ordinari di colpa e questioni invece non risolvibili.

Si pensi, per il primo aspetto, alla mancata sanificazione di ambienti sanitari, alla impropria coabitazione nelle stesse camere di ospedale di persone affette dal virus e persone affette da altre patologie; si pensi, ad esempio, alle frequenti ipotesi in cui il personale sanitario, pur consapevole di essere stato a contatto con persone (ad esempio familiari) affette dal virus, ha ciononostante continuato a frequentare gli ambienti ospedalieri, diventando così il principale veicolo di trasmissione dell’infezione. Accanto a ciò, però, dilemmi di difficile soluzione: nel mese di marzo di quest’anno, nelle zone maggiormente colpite dal virus, l’effettiva richiesta di prestazioni sanitarie si è rivelata circa 10 volte superiore alla capacità del sistema di farvi fronte; cosa fare in questi casi? A chi assegnare le risorse scarse? È noto che, in questo quadro, si è tentato di offrire delle “linee guida” al personale sanitario (in

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particolar modo quelle della SIAARTI e quelle del Comitato Nazionale di Bioetica). Dalla prospettiva del giurista le risposte, almeno in astratto, a tali complesse questioni sono possibili, ad esempio distinguendo le fattispecie colpose da quelle che non lo sono; o ascrivendo la responsabilità lì dove, secondo i principi generali, poteva ragionevolmente essere fatto qualcosa di diverso e di migliore; o utilizzando i rimedi che il nostro ordinamento offre tutte le volte in cui una prestazione (in questo caso sanitaria) non possa essere eseguita per ragioni diverse dalla negligenza o dall’inadempimento del professionista o della Struttura sanitaria di appartenenza. Ma il profilo giuridico del problema da un lato rappresenta solo il momento conclusivo di una complessa vicenda, mentre dall’altro tocca profili che, in quanto meramente legati ad aspetti patrimoniali (quelli risarcitori) o connessi alla ricerca di eventuali reati o di responsabilità amministrative, appaiono più aridi di quelli che la vicenda solleva. Difatti la questione appare molto più complessa se osservata nella sua articolata dimensione. Un medico deve decidere, infatti, a chi assegnare una risorsa scarsa, consapevole che chi non ne potrà beneficiare correrà seri rischi (o addirittura avrà la certezza) di soccombere. In questo quadro si pongono delicate questioni etiche e morali, perché la consapevolezza che non si sarebbe potuto fare qualcosa di meglio o di diverso non per ciò libera il professionista da spinosi tormenti di coscienza, dal momento che la scelta è sempre tra due o più persone bisognose della risorsa scarsa e il professionista si potrà sempre interrogare sul se abbia fatto la scelta giusta nell’attribuirla a quella, tra i bisognosi, cui è stata effettivamente attribuita; e le “Raccomandazioni” o le “Linee guida”, seppur in grado di offrire al professionista una formale patente di impunità, sul piano giuridico, ma ancor prima su quello deontologico, non per questo lo liberano dagli assilli della propria coscienza. La questione è resa ancora più difficile dalla circostanza che non vi è un orientamento univoco e condiviso in merito alla strategia da adottare in presenza di risorse scarse; e le richiamate “Raccomandazioni” ne sono la prova: per la SIAARTI il Responsabilità Medica 2020, n. 2

Dialogo medici-giuristi

criterio risolutivo è quello della maggiore possibilità di sopravvivenza che (pur evitando improprie generalizzazioni) fonda una regola operativa secondo la quale la persona giovane va preferita alla persona anziana e la persona priva di altre patologie di rilievo va preferita alla persona che versa in un quadro di comorbidità. Il comitato nazionale di bioetica, invece, pone al centro della decisione il criterio clinico, secondo il quale, a prescindere dall’età del paziente o di altri criteri, la risorsa scarsa va assegnata a colui che ne ha maggiormente bisogno nel momento in cui la decisione deve essere presa. Come reagisce il professionista che si trova, sul campo, ad affrontare queste delicate questioni che incidono sulla vita e sulla morte delle persone? E, in particolare, quale rilevanza egli riconosce alle linee guida e alle raccomandazioni? Sono strumenti che lo liberano unicamente dalle preoccupazioni collegate alle responsabilità (civile, penale, deontologica) o sono in grado di alleviare anche i dilemmi etico-morali? Il professionista che si trova ad affrontare sul campo questioni che investono la vita e la morte delle persone gradisce essere lasciato libero nella valutazione della scelta da prendere o preferisce, in un quadro drammatico, divenire esecutore di protocolli tracciati e definiti da altri? Il quadro eccezionale e drammatico nel quale la pandemia si è sviluppata rende agli occhi del professionista maggiormente giustificabile l’errore oppure, dalla sua prospettiva, le questioni rimangono distinte? Inoltre, è rinvenibile nel sistema una grande aspettativa nei confronti degli operatori sanitari: la gente faceva fatica ad accettare l’idea che il proprio caro potesse morire in completa solitudine in una struttura ospedaliera incapace di curare quella che, in un primo momento, era stata definita “poco più che una banale influenza”. È altresì rinvenibile, e così sempre sarà, l’ambizione di trarre concreti vantaggi patrimoniali pur in un contesto drammaticamente tragico. Come si pone il professionista di fronte alle enormi aspettative che la gente ha riversato nei loro confronti in questi mesi molto duri? Ritiene che sia corretto che le responsabilità vadano analiti-


Esperienza da Covid-19: giurista e medico a confronto

camente accertate e sanzionate, ove esistenti, o ritiene piuttosto che la drammaticità della situazione giustifichi una sorta di generale impunità dei professionisti coinvolti, magari con la sola eccezione di vicende macroscopicamente affette da imperdonabile negligenza? Vi sono recriminazioni che il mondo del personale sanitario può rivolgere nei confronti del Sistema o nei confronti della classe dei malati con i quali si è duramente interfacciato nel corso di questi mesi? Germano Bettoncelli In premessa va tenuto presente il differente contesto in cui opera il medico di medicina generale (MMG), come chi scrive, rispetto al medico ospedaliero. Da qui le diversità nel vissuto del fenomeno Covid-19. Nella prima fase della malattia a prevalere è stato il senso di impotenza, di frustrazione per l’incapacità di rispondere alla domanda assistenziale dei pazienti, nel rispetto coerente con il ruolo professionale ricoperto. Due aspetti: – quelli scientifici e clinici che hanno fatto e fanno della malattia un fenomeno in massima parte sconosciuto, imprevedibile nelle modalità di presentazione, di evoluzione, di risposta ai farmaci, di sequele successive; – quelli organizzativo-gestionali, la cui carenza ha rapidamente messo alle corde il sistema sociosanitario evidenziando l’impreparazione sia del territorio che degli ospedali. A livello territoriale si è registrata l’imposizione del passaggio da una gestione “de visu” tradizionale del paziente, ad una gestione a distanza attraverso modalità e strumenti nuovi o per lo meno mai utilizzati così intensamente, per tale scopo e in un analogo contesto. Questo ha generato in prevalenza forte disagio, sia nei pazienti che nei medici, per la mancanza di quel contatto diretto, anche fisico, che è un requisito fondamentale della relazione medico-paziente: nei medici, in particolare, condizionati dai dubbi nell’inquadramento dei problemi e di conseguenza nelle prescrizioni da proporre; nei pazienti, con i timori e le perplessità sbalorditive suscitate dall’incertezza delle diagnosi, dalla constatazione della scarsa risposta ai farmaci, dall’evoluzione della prognosi.

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Al cospetto di un caso, la prima decisione per il MMG è se gestire il paziente a domicilio o predisporne il ricovero. Nella fase più acuta della pandemia il MMG si è trovato a non poter ricoverare pazienti in gravissime condizioni per l’indisponibilità di posti ospedalieri. Potendo ricorrere solo a terapie di sollievo, mentre nel contempo sul territorio si registrava non solo la carenza di farmaci, ma anche di presidi fondamentali come l’ossigeno. Ulteriore problema ha fatto emergere l’attuazione delle norme di isolamento nei casi diagnosticati o sospetti, in contesti abitativi troppo esigui per le dimensioni del nucleo famigliare. Ancora, è possibile che dal 30 al 50% delle persone infette siano state e siano asintomatiche e si discute se esse siano potenzialmente contagiose al pari di quelle sintomatiche. Non sono state proposte chiare indicazioni gestionali per questi casi. Inoltre, con le persone straniere per il medico esistono non raramente barriere linguistiche. I riferimenti cui i medici hanno potuto attingere in questi mesi sono stati sostanzialmente di due tipi: quelli scientifici quelli istituzionali I riferimenti scientifici sono stati caratterizzati, soprattutto inizialmente, da grande incertezza, proponendo essenzialmente opinioni di esperti, espresse anche come linee guida, ma senza supporti di evidence che ne avvalorassero i contenuti. Le indicazioni per la clinica hanno spesso subito repentine modifiche e in genere sono state carenti sulla gestione di particolari gruppi di pazienti assai vulnerabili, come gli anziani. Articoli di revisione della metodologia scientifica adottata nei documenti pubblicati, hanno evidenziato infatti quanto essi fossero deboli e poco rigorosi nel loro sviluppo. Come dimostrato da un’indagine effettuata dall’Ordine dei Medici di Brescia, la principale fonte di informazione per i medici è stata la comunicazione, lo scambio di esperienze e il confronto con i colleghi. Una prassi certo non basata su solide evidenze scientifiche, ma probabilmente ritenuta più efficace in questa fase di grandi incertezze. Le comunicazioni istituzionali, nazionali, regionali e provinciali sono state copiose, a momenti quasi martellanti. Certamente molto consultate, in Responsabilità Medica 2020, n. 2


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quanto per molti aspetti cogenti dal punto di vista normativo, ma nel contempo foriere di complicazioni per il lavoro quotidiano del medico, per le difficoltà interpretative, le frequenti modifiche e revisioni, sia sugli aspetti clinici che per quelli sociali (ad esempio previdenziali). E a ciò si aggiunge il dovere etico di comunicare con tempestività ai centri di raccolta nazionali i dati delle diagnosi e dei sospetti emersi nel lavoro quotidiano. I riferimenti istituzionali locali hanno certamente sofferto di analoghe difficoltà. A posteriori, quando le conoscenze sulla malattia saranno più esaustive, comprenderemo gli errori che sono stati fatti in questi mesi, così come oggi guardiamo agli errori dei medici dei secoli passati. Il dovere del medico di mettere a disposizione del paziente aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche, cade quando la comunità scientifica non dispone di tali dati. Molti tentativi fatti con iniziative personali del medico per l’unico scopo di alleviare la sofferenza del paziente, a posteriori sono apparse fallaci o inutili. La pandemia Covid ha improvvisamente scaraventato il medico di oggi in una dimensione simile a quella in cui agivano i medici dei secoli passati. Una patologia di ampia, rapida estensione nella popolazione, sfuggente nella comprensione dei meccanismi fisiopatologici, priva di risposte terapeutiche mirate, se non quelle del sostegno alle funzioni vitali. In attesa che fosse la malattia stessa a decidere la propria insindacabile evoluzione. In questo contesto la decisione su quale paziente soccorrere con gli strumenti contingentati di supporto alla vita, quando non disponibili per tutte le necessità, è stata credo vissuta come dramma lacerante nell’intimità dell’animo del singolo medico. Poco o nulla condivisa per una sorta di pudore di fronte a quel dubbio irrisolto. L’articolo 3 del Codice Deontologico recita: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”. Questo dovrebbe essere il riferimento per l’agire del medico, ma quel testo Responsabilità Medica 2020, n. 2

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non porta in sé l’esperienza con cui la pandemia di Covid-19 ci ha obbligato a confrontarci. Esso non si traduce in un protocollo o linea guida cui il medico possa guardare nell’assumere decisioni che comportano la scelta tra offrire una speranza di vita ad alcuni, negandola nel contempo ad altri. Certamente l’adozione del criterio “first come, first served” semplificherebbe le procedure, ma quando la scelta di priorità si fonda sull’aspettativa di vita del paziente, per età o per condizioni cliniche, allora entrano in gioco considerazioni che attingono a valori personali, etici, morali, religiosi. É la società intera, a questo punto, che su tali circostanze deve assumersi la responsabilità di dettare linee di indirizzo e regole cui il medico possa ispirarsi, eventualmente prevedendo anche l’istituto dell’obiezione di coscienza. La allocazione delle risorse sanitarie in condizioni di scarsità delle stesse necessita della massima condivisione e trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica, come suggerisce la Commissione Nazionale di Bioetica, tenendo fermi i principi dell’attualità e dell’appropriatezza clinica. Ma posto che esistessero per il caso Covid-19, non esaurirebbe il problema la disponibilità di linee guida specifiche in quanto essendo “raccomandazioni sviluppate in modo sistematico per assistere medici e pazienti nelle decisioni sulla gestione appropriata di specifiche condizioni cliniche” sono per definizione prive della pretesa di essere cogenti. Tutto questo anche con l’intento di consentire al medico una difesa di fronte alle nascenti iniziative giudiziarie, spesso volte ad improbabili contestazioni del suo operato. Che dalla rilettura di quanto è accaduto in questi mesi la società si interroghi per sapere se vi siano state delle mancanze da parte di chi rivestiva responsabilità nei confronti dei pazienti e dei loro famigliari, è legittimo. Il giudizio dovrà essere espresso in forza di un’analisi obiettiva su quanto è accaduto, non solo negli ultimi mesi, ma anche sulle scelte di sistema pregresse e sulle conseguenti ricadute sui livelli assistenziali odierni.


i r o t Osservatorio Osservatorio medico-legale medico-legale erva ico s d le s e o Riflessioni medico-legali sulla m ga le responsabilità professionale del medico in formazione specialistica

Giacomo Fassina*, Guido Viel*, Massimo Montisci* Sommario: 1. Inquadramento normativo generale del medico in formazione specialistica. – 2. La responsabilità professionale del medico in formazione specialistica alla luce della recente giurisprudenza. – 3. La sentenza della Cassazione n. 26311 del 17 ottobre 2019. – 4. Conclusioni.

Abstract: Il contributo analizza il tema della responsabilità professionale in ambito medico, in particolare per quanto concerne l’attività del medico in formazione specialistica. Partendo dall’inquadramento normativo generale si concentra sull’analisi delle sentenze che ne hanno contribuito a delineare il profilo giuridico. In particolare, la n. 26311, Corte di Cassazione Civile, Sezione III che, ancora una volta, conferma la figura dello specializzando come responsabile delle sue attività, pur non avendo piena autonomia. The paper analyzes the argument of medical professional liability, in particular regarding the activity of the resident physician. Through the general normative key lecture, this contribute focuses on the analysis of sentences that contributes to defining its juridical profile. In particular, no. 26311 – Court of Cassation, Civil Chamber Section III, which, once again, confirms the figure of the resident physician liable for his medical acts, even though still not fully autonomous.

1. Inquadramento normativo generale del medico in formazione specialistica La formazione del medico specialista trova i suoi fondamenti normativi nella direttiva 82/76/CE, poi trasposta nel Decreto Legislativo n. 257/91 che disciplina, per la prima volta, l’attività del medico così definito “non strutturato”, definendone i diritti e doveri. Successivamente, abrogando il precedente, viene deliberato il Decreto Legislativo n. 368/99 il quale, recependo la necessità di una regolamentazione comune europea in tema di formazione dei medici, anche al fine di una libera circolazione degli stessi e di un reciproco riconoscimento dei loro diplomi nell’Unione, delinea quelli che sono i fondamenti imperativi nel percorso di formazione dello specialista. In questo Decreto è incardinato l’assunto secondo cui è imprescindibile la “partecipazione personale del medico chirurgo candidato alla specializzazione

Sede di Medicina Legale, Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica, Università degli Studi di Padova. *

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alle attività e responsabilità proprie della disciplina” sancendo di fatto l’impegno dello stesso “a seguire, con profitto, il programma di formazione svolgendo le attività teoriche e pratiche previste dagli ordinamenti e regolamenti didattici” tuttavia specificando che “ogni attività formativa e assistenziale dei medici in formazione specialistica si svolge sotto la guida di tutori”. Proprio quest’ultimo capoverso introduce la figura nodale nel percorso formativo, il medico “tutor”. Tale figura racchiude in sé numerosi compiti di primaria importanza, in primis quello di essere il diretto supervisore delle attività eseguite dal medico specializzando che, se nei primi anni sicuramente necessiterà di un controllo più stretto, successivamente avrà bisogno solo di una critica revisione dell’operato, anche in un’ottica di progressiva acquisizione di competenze. Appare dunque evidente che il medico in formazione specialistica negli anni acquisisca un compito via via più pregnante nell’economia delle attività sanitarie, divenendone esso stesso un attore fondamentale nell’erogazione delle prestazioni sanitarie, pur di fatto non essendo mai sostitutivo del personale di ruolo. Di fondamentale importanza, recependo quanto contenuto nel Decreto Ministeriale 01.08.2005, è stato il Decreto Interministeriale n. 68/15 definito di “Riordino delle scuole di specializzazione di area sanitaria” che ha apportato corpose e sostanziali modifiche alla loro struttura e al loro ordinamento. Tra le più impattanti troviamo la riduzione degli anni necessari per conseguire il diploma di specializzazione, uniformando la durata a quella dei principali paesi europei, unitamente alla contestuale soppressione di alcune scuole di specializzazione, non aventi reali raffronti all’interno dell’Unione europea, e il contestuale riordino, con precisa categorizzazione, degli ordinamenti didattici con relativi obiettivi formativi necessari al fine di acquisire il diploma. Tale Decreto Interministeriale sancisce inoltre che almeno il 70% del complesso delle attività formative è riservato allo svolgimento di attività professionalizzanti cosiddette pratiche e di tirocinio, ribadendo ancora una volta quanto il percorso di specializzazione sia fortemente incardinato in questo tipo di formazione. Analogamente, nell’ottica di voler rendere il più performante ed efficiente possibile il percorso formativo post Responsabilità Medica 2020, n. 2

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lauream di area medica, si inserisce il Decreto Legislativo n. 402/17 il quale, stante quanto già precedentemente introdotto dal DI n. 68/15, definisce gli standard minimi generali e specifici, le modalità e i termini per l’accreditamento delle Strutture Clinico-Assistenziali, Ospedaliere e Territoriali facenti parte della rete formativa delle scuole di specializzazione, unitamente ai requisiti minimi generali e specifici di idoneità della rete formativa delle scuole di specializzazione. Definisce altresì le disposizioni concernenti il sistema di gestione e certificazione della qualità, il libretto-diario e il diploma supplement e gli indicatori di performance di attività didattica e formativa e di attività assistenziale. Va doverosamente ricordato, inoltre, che, oltre alla normativa nazionale comune a tutto il suolo italiano, la figura del medico in formazione specialista è peculiarmente e dettagliatamente disciplinata dai Regolamenti di Ateneo propri alla struttura accademica di appartenenza la quale, in ottemperanza a quanto già normato a livello governativo, può ulteriormente definire il percorso con indicazioni di carattere squisitamente locale. Da questa fondamentale normativa appare evidente che la figura del medico specializzando, avendo una sua peculiare e singolare autonomia, deve sottostare a quelli che sono le discipline della responsabilità professionale, rispondendo quindi in sede civile e penale di quella che è la sua opera, in quanto laureato in medicina e chirurgia e abilitato alla professione medica, sebbene non ancora specialista. Discorso a parte, ma doveroso di analisi per il forte impatto sul percorso di formazione specialistica in area medica, va fatto per il Decreto-Legge n. 35/19 recante “Misure emergenziali per il servizio sanitario della Regione Calabria e altre misure urgenti in materia sanitaria” (c.d. “Decreto Calabria”). Tale decreto all’art.12, titolato “Disposizioni sulla formazione in materia sanitaria e sui medici di medicina generale”, dispone la possibilità che vengano ammessi alle procedure concorsuali per l’accesso alla dirigenza del ruolo sanitario i medici in formazione specialistica iscritti all’ultimo anno e, qualora abbia durata quinquennale, al penultimo anno del relativo corso. Tale assunzione avviene per mezzo di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato e con orario a


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tempo parziale in ragione delle esigenze formative degli specializzandi, che vengono inquadrati con qualifica dirigenziale. Questo contratto non può avere durata superiore a quella residuale del corso di formazione specialistica e può essere prorogato una sola volta fino al conseguimento del titolo di formazione medica specialistica e comunque per un periodo non superiore a dodici mesi. I medici in formazione specialistica svolgeranno attività assistenziali coerenti con il livello di competenze e autonomia raggiunto e correlato all’ordinamento didattico di corso, alle attività pratiche professionalizzanti nonché al programma formativo seguito e all’anno di corso di studi superato. Gli specializzandi, per la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato, restano iscritti alla scuola di specializzazione universitaria e la formazione specialistica sarà a tempo parziale. Alla luce di questa regolamentazione le vesti giuridiche proprie del medico in formazione, quando opera per mezzo dell’assunzione del cosiddetto “Decreto Calabria”, sono del tutto medesime a quelle di qualsiasi medico specialista dipendente del Servizio Sanitario Nazionale in quanto, per le attività e competenze certificate per cui esso viene valutato completamente autonomo, il suo inquadramento normativo è quello di un dirigente medico, recentemente normato dalla legge n. 24/17 recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” e meglio conosciuta come legge Gelli-Bianco. Sic stantibus rebus, la recente emergenza internazionale, legata alla diffusione del virus SARSCoV-2, ha reso necessarie misure straordinarie di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in ragione di far fronte all’aumentata richiesta di ospedalizzazione e di cure legata alla pandemia. Tra le misure atte a far fronte a tale emergenza è di particolare interesse il Decreto-Legge n. 14/20 che ha permesso l’assunzione di medici specializzandi, iscritti all’ultimo e al penultimo anno di corso delle scuole di specializzazione, conferendo incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, di durata non superiore a sei mesi, prorogabili in ragione del perdurare dello stato di emergenza,

sino al 2020. I medici specializzandi restano iscritti alla scuola di specializzazione universitaria e il periodo di attività, svolto in ragione dello stato di emergenza, è riconosciuto ai fini del ciclo di studi che conduce al conseguimento del diploma di specializzazione. Le Università, ferma restando la durata legale del corso, assicurano il recupero delle attività formative, teoriche e assistenziali, necessarie al raggiungimento degli obiettivi formativi previsti. In questo caso, le vesti giuridiche del medico in formazione, quando opera in accordi di questo Decreto-Legge, sono quelle di un medico chirurgo abilitato alla professione operante in regime di libera professione.

2. La responsabilità professionale del medico in formazione specialistica alla luce della recente giurisprudenza La legge riconosce, e quindi delinea, in maniera precisa le responsabilità e le autonomie convenute al medico in formazione specialistica delle quali, siano esse pur limitate e fortemente dipendenti dalle direttive del tutor, dovrà rispondere qualora venga sollevata un’ipotesi di responsabilità professionale medica. Nel corso degli anni, sul tema in oggetto, si è espressa molteplici volte la Corte di Cassazione, la quale ha delineato, come d’altronde vuole la sua funzione nomofilattica, il profilo giuridico del medico in formazione specialistica. Procedendo quindi ad una revisione delle sentenze che hanno strutturato e definito il già citato profilo riportiamo alcuni precetti di queste degni di attenzione. Una delle prime sentenze relative alla tematica in oggetto, sentenza n. 13389/1999, Corte di Cassazione, Sezione IV penale, determina che “il concreto e personale espletamento di attività operatoria da parte dello specializzando comporta pur sempre l’assunzione diretta anche da parte sua della posizione di garanzia nei confronti del paziente, condivisa con quella che fa capo a chi le direttive impartisce” ed, inoltre, che il medico in formazione “non si esime da responsabilità solo per aver eseguito” quanto espresso del referente, essendo “pur sempre in capo a lui l’onere, secondo quanto in concreto percepibile in termini di rappresentazione e Responsabilità Medica 2020, n. 2


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prevedibilità”, della valutazione clinica. Aggiunge, anche, che nell’eventualità di una disposizione non adeguata la “passiva acquiescenza alla direttiva impartita non lo esime da responsabilità […] avendo al contrario l’obbligo di astenersi dal direttamente operare”. Di rilievo anche la sentenza n. 32424/2008 della Corte di Cassazione, Sezione IV penale, la quale asserisce che “il medico specializzando non è un mero spettatore esterno, un discente estraneo alla comunità ospedaliera; egli infatti partecipa alle attività e responsabilità che si svolgono nella struttura dove si svolge la sua formazione” e che “l’autonomia riconosciuta dalla legge, sia pur vincolata, non può dunque che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non si ritiene in grado di compierle deve rifiutarle perché diversamente se ne assume la responsabilità (c.d. colpa per assunzione)”. Ribadisce inoltre che qualora il medico tutor detti “una ricetta o una prescrizione medica lo specializzando che scrive sotto dettatura, nei limiti delle sue competenze, deve segnalare eventuali errori od omissioni e rifiutare di avallare terapie che, secondo il livello di perizia e diligenza da lui esigibile, appaiano palesemente incongrue”. Ulteriore conferma di ciò si trova nella sentenza n. 6981/12, Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, la quale enuncia che “il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione professionale, la sua non è una mera presenza passiva né lo specializzando può essere considerato un mero esecutore di ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia”. Tale autonomia “non può essere disconosciuta, trattandosi di persone che hanno conseguito la laurea in medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione specialistica, l’attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un’attività svolta sotto le direttive del tutore. Ma tale autonomia seppur vincolata, non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle deve rifiutarne lo svolgimento perché diversamente se ne assume la responsabilità (c.d. colpa per assunzione). Pertanto, sussiste la responsabilità professionale sia per i medici strutturati che per i medici specializzandi”. Responsabilità Medica 2020, n. 2

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3. La sentenza della Cassazione n. 26311 del 17 ottobre 2019 La colpa “per assunzione” è ravvisabile in chi cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto dall’agente modello di riferimento. Questo “dovere di diligenza” ingiunge al medico un obbligo di astensione da un precisato atto in quanto porlo in essere comporterebbe un rischio cospicuo di incorrere in un reato colposo, in quanto non sufficientemente capace per svolgere l’azione de quo, richiedente particolari competenze tecniche. Ultima a ribadire quanto ormai cristallizzato dalla recente giurisprudenza è la sentenza n. 26311/19, Corte di Cassazione, Sezione III Civile, concernente la vicenda clinica di una donna gravida che si era dovuta sottoporre ad una procedura di amniocentesi praticata dal medico curante strutturato, il quale, a causa di un impegno negli Stati Uniti il giorno seguente, aveva affidato la paziente ad una specializzanda, indicandola come sua sostituta in caso di bisogno. Allarmata dalle perdite di liquido amniotico, la donna si è immediatamente rivolta alla specializzanda la quale si è limitata alla prescrizione di iniezioni di gestone, invece di disporre un controllo ecografico urgente unitamente a contestuale somministrazione di antibiotici a largo spettro. Dopo l’insorgenza di perdite ematiche ed iperpiressia, la donna è stata ricoverata d’urgenza incorrendo nell’aborto. Lo stato di salute della paziente peggiorava ulteriormente complicandosi con un grave shock settico, il quale portava a dei postumi permanenti invalidanti quali la completa sterilità e l’insufficienza renale cronica, benché i trapianti di rene eseguiti. In merito alla vicenda in oggetto la Suprema Corte in maniera perentoria afferma che lo specializzando “non può essere considerato un mero esecutore d’ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia” ricordando che “il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione professionale, né lo specializzando può essere considerato un mero esecutore d’ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia; si tratta di un’autonomia che non può essere disconosciuta, trattandosi di persone che hanno conseguito la laurea in


Responsabilità professionale del medico in formazione specialistica

medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione specialistica, l’attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un’attività svolta sotto le direttive del tutore”. Tale autonomia, si legge nella sentenza, seppur ordinata alla figura del medico tutor “non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle deve rifiutarne lo svolgimento perché diversamente se ne assume le responsabilità (c.d. colpa per assunzione ravvisabile in chi cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto all’agente modello di riferimento”. Ancora una volta quindi viene riconosciuta al medico in formazione un’autonomia professionale attiva nell’economia dell’erogazione delle prestazioni sanitarie della struttura in cui opera. Viene altresì richiesto che esso, in ragione della sua laurea in medicina e chirurgia e della sua abilitazione professionale, determini con giudizio critico quelle che sono le attività che è in grado di compiere in ragione della autonomia e della formazione raggiunta fino a quel momento e quali no.

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dal consiglio della scuola di specializzazione, risponderà al pari di uno specialista. Sia in ambito penale, quanto civile, esso verrà, quindi, inquadrato al pari di un dirigente medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale, quando impiegato in regime di dipendenza, soggiacendo agli assunti contenuti nella Legge n. 24/17, conosciuta anche come legge Gelli-Bianco. Diversamente, se impiegato mediante contratto libero professionale, sottostarà alla disciplina generale della responsabilità professionale medica, rispondendo quindi in sede civile e penale di quella che è la sua opera in quanto laureato in medicina e chirurgia, abilitato alla professione medica e specialista della relativa disciplina.

4. Conclusioni Il medico in formazione specialistica chiamato ad eseguire atti medici che non è in grado di compiere, o per i quali non si ritenga sufficientemente formato, deve categoricamente rifiutarne lo svolgimento. In caso contrario, in ragione delle vesti giuridiche che esso indossa se ne assume la piena responsabilità sotto ogni aspetto e la colpa, cui ipoteticamente risponderà, è “per assunzione” la quale, come ricordato dalla stessa Suprema Corte, è ravvisabile in chi “cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto all’agente modello di riferimento”. Qualora il medico in formazione specialistica si trovi però ad operare in regimi alternativi a quelli normati dal Decreto Legislativo n. 368/99, andrà ad indossare le vesti giuridiche correlate all’incarico di specie. In particolare, se operante in funzione del “Decreto Calabria” o del Decreto-Legge n. 14/20, per le attività per cui viene identificato “autonomo” Responsabilità Medica 2020, n. 2



i r o t Osservatorio Osservatorio normativo normativo ee internazionale internazionale erva ivo t n s a s o rm zio Il controllo di costituzionalità o a n n della legge francese di proroga r e t n i dello stato d’emergenza sanitaria: alla ricerca dei limiti costituzionali perduti Fanny Jacquelot

Professoressa nell’Università Jean Monnet di Saint-Etienne Sommario: 1. Premessa. – 2. La diluizione dei diritti e delle libertà costituzionalmente garantiti in una logica sanitaria incomprimibile. – A. Un controllo di costituzionalità focalizzato sull’obiettivo di protezione della salute. – B. Un controllo di costituzionalità che accorda prevalenza all’obiettivo di protezione della salute. – 3. La sopravvivenza del quadro costituzionale delle misure che attentano alla libertà individuale. – A. La qualificazione delle misure di privazione della libertà (messa in quarantena e isolamento). – B. L’applicabilità della riserva di giurisdizione dell’art. 66 della Costituzione.

Abstract: Il Consiglio costituzionale francese è stato adito in merito alla legge di proroga dello stato di emergenza sanitaria adottato in Francia in seguito alla diffusione della pandemia da Covid-19. Si tratta di una delle prime sentenze costituzionali in Europa a valutare i poteri speciali affidati al Governo, come è stato anche il caso in Italia o in Spagna, della cui legittimità costituzionale si dubita. La sentenza offre alcuni chiarimenti essenziali per valutare le misure di quarantena e isolamento, ma resta insufficiente per quanto riguarda sia il bilanciamento tra diritti fondamentali e salvaguardia della salute, che un uso proprio delle garanzie del diritto alla salute.

The French Constitutional Council was seized of the law extending the state of health emergency decided in France due to the Covid-19 pandemic. This is one of the first constitutional court decisions in Europe which shed light on the compliance with the Constitution of measures, also provided for abroad, such as quarantine or solitary confinement. While the contribution of the decision is undeniable with regard to the guarantees to be given to restrictions on individual freedom, this remains insufficient as regards the methods of applying the right to protection of health.

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1. Premessa L’epidemia di Covid-19 ha fatto precipitare i sistemi statali del mondo intero (che si tratti di Cina, Europa, Stati Uniti e, più recentemente, Sud America) entro un problema comune di salute pubblica. Mentre i sistemi non radicati nella democrazia non hanno esitato ad adottare misure drastiche per arginare la diffusione del virus, nei Paesi europei un certo numero di Stati, come Francia, Italia, Spagna e anche Germania, hanno dovuto adottare misure efficaci per affrontare la pandemia rimanendo ancorati, per quanto possibile, al proprio quadro democratico di riferimento. Se le modalità possono essere state differenti, la sostanza delle decisioni prese è stata simile, accentuando in modo singolare la circolazione di soluzioni tra i diversi Stati europei. È dunque un diritto comparato europeo o addirittura mondiale dell’emergenza sanitaria che è così progressivamente emerso, attribuendo alle questioni costituzionali nazionali in materia una dimensione trasversale. Con l’eccezione del minaccioso spettro della teoria dello stato di eccezione di Carl Schmitt, la riflessione, declinata in molti aspetti diversi, si è concentrata sul riposizionamento dei poteri costituiti entro un quadro costituzionale divenuto pericolosamente malleabile. La logica fondante della separazione organica e funzionale dei poteri che costituisce il fondamento dei sistemi democratici, nonché un aspetto inderogabile dei criteri di Copenaghen, si è, per così dire, spezzata. I diversi sistemi sono immersi in dispositivi di emergenza che rimettono in gioco l’organizzazione tradizionale dei poteri. I parlamenti sono stati rimossi dalla scacchiera normativa, in quanto squalificati1 a favore del potere esecutivo e in particolare dei capi di governo. Parlamentari e ministri sono stati quindi relegati in secondo piano, per lasciare il posto a una produzione normativa

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d’urgenza derivante dagli esecutivi, basata su procedure normative in deroga al diritto ordinario. In Spagna l’“estado de alarma” è stato dichiarato in base all’art. 116 Cost2. In Italia, anche se non vi è alcuna disposizione specifica nella Costituzione del 1947 (a parte la dichiarazione di guerra di cui all’art. 78 Cost.), sulla base di decreti legge, la cui adozione risponde alle condizioni di “straordinaria necessità e urgenza” (art. 77 Cost. e legge n. 400 del 1988), si è autorizzato un uso massiccio di poteri diretti del Presidente del Consiglio (d.P.C.m.). È quindi una grande parte del fondamento democratico della decisione che viene meno per essere sostituita da una sorta di “legittimità medico-sanitaria”. Le decisioni adottate nei vari Stati europei sono state sistematicamente presentate come il prodotto di pareri sanitari formulati da vari comitati o consigli scientifici3, o addirittura dall’OMS. Si può facilmente capire la necessità, nel contesto specifico, di ricorrere al parere medico, purché resti una competenza che non ipoteca l’ulteriore decisione politica. Invece, qui, competenza tecnico-scientifica e politica si sono chiaramente intrecciate, sul modello di un nuovo processo decisionale in cui il parere tecnico-scientifico potenzierebbe l’efficacia delle misure adottate. A tale regime non fa eccezione la Francia, con la differenza che ha cercato di gestire la crisi sanitaria mantenendo una serie di strumenti normativi di diritto comune. Anche se, comparativamente, sarebbe stata forse meglio attrezzata di altri Paesi in termini di “poteri di crisi” (con l’art. 16 Cost. e la legge n. 55-385 del 3 aprile 1955, relativa allo stato di emergenza), ha preferito istituire un

V., in particolare, Gallarati, Le libertà fondamentali alla prova del coronavirus. Prime note sulla gestione dell’emergenza in Francia e Spagna, in I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: una prospettiva comparativa, a cura di Cuocolo, consultabile all’indirizzo: www.federalismi.it. 2

In Italia, un Comitato scientifico è stato istituito dall’art. 2 dell’ordinanza 630 del 3 febbraio 2020. In Francia, un Comitato scientifico è stato istituito dal Ministro della Salute l’11 marzo 2020 (v. comunicato stampa, consultabile all’indirizzo: www.solidarites-sante.gouv.fr). In Spagna, un comitato tecnico-scientifico Covid-19 è stato parimenti istituito dal governo il 21 marzo 2020. 3

V. Silvestri, Covid-19 e costituzione, consultabile all’indirizzo: www.unicost.eu, parla di «accantonamento» del Parlamento. 1

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Legge di proroga dello stato d’emergenza sanitaria

sistema ad hoc chiamato “stato di emergenza sanitaria” votato dal Parlamento con la legge n. 2020290 del 23 marzo 20204. Si tratta di un dispositivo che nel suo complesso ha posto, come negli altri Stati europei, la delicata questione del controllo giurisdizionale. Se il Consiglio di Stato attraverso il référé-liberté (procedimento d’urgenza in materia di libertà)5, ha potuto occasionalmente pronunciarsi, il Consiglio costituzionale è stato criticato per la sua indulgenza. Infatti, investito del ricorso sulla legge organica di emergenza per fare fronte al Covid-19, nella sua decisione del 26 marzo 20206, ha ritenuto che “tenendo conto delle circostanze particolari del caso” il mancato rispetto della procedura nella preparazione della legge organica sottoposta al suo esame (previsto dall’art. 46 Cost.) non costituisse violazione della Costituzione. La dottrina non ha mancato di sottolineare come “questa decisione, senza precedenti, consacra il carattere rigorosamente derogatorio ed eccezionale di questo regime di emergenza sanitaria”7. Nella stessa decisione, il Consiglio costituzionale ha anche legittimato la sospensione dei termini entro i quali il Consiglio di Stato e la Corte di cassazione devono pronunciarsi in materia di QPC (questione prioritaria di costituzionalità), in

Da notare che l’introduzione nel diritto francese di queste disposizioni è a termine, essendo destinata a cessare dal 1° aprile 2021. Per una analisi dello stato d’emergenza sanitaria in Francia, si veda, in particolare, Petit, L’état d’urgence sanitaire, in AJDA, 2020, 833 s. 4

Si veda in particolare, Cons. Stato francese, ord. n .439765, M. A.A. et autres del 28 marzo 2020 (raccomandazione/autorizzazione temporanea d’utilizzo per il Plaquenil); ord. n. 439762 del 1° aprile 2020, Fédération Nationale des marchés de France (riapertura dei mercati alimentari); ord. n. 440002 del 15 aprile 2020, Union Nationale des syndicats FO SANTE PRIVE (screening sistematico e regolare delle persone residenti in EHPAD); ord. n. 440442, 440445 del 18 maggio 2020, Association la quadrature du Net (sorveglianza tramite droni nel rispetto delle misure d’emergenza a Parigi).

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quanto ciò “non mette in discussione l’esercizio di questo rimedio né impedisce la decisione su una questione prioritaria di costituzionalità durante questo periodo” (§.5 della decisione). D’altra parte, al giudice costituzionale, pur investito dai ricorsi, non è stato chiesto di esaminare la costituzionalità della legge istitutiva dello stato di emergenza sanitaria, come era avvenuto nel 2015, quando lo stato di emergenza è stato dichiarato a causa della lotta al terrorismo8; e neppure altrove, nonostante la moltiplicazione dei dubbi sulla costituzionalità, si sono pronunciate le Corti costituzionali. Di conseguenza, il ricorso al Consiglio costituzionale sulla legge n. 2020-546 dell’11 maggio 2020 che estende lo stato di emergenza sanitaria, investendo questioni comuni all’insieme degli Stati europei, rappresenta un’occasione di chiarimento costituzionale la cui portata va oltre il quadro nazionale. Questo ricorso ha, d’altronde, un peso speciale anche perché richiesto non solo da sessanta deputati e sessanta senatori, ma anche dal Presidente della Repubblica e dal Presidente del Senato, e perché, come annunciato nel comunicato stampa del 24 maggio 2020, il Consiglio costituzionale ha pubblicato il testo dei contributi esterni (denominati “portes étroites” sostanzialmente amici curiae) ricevuti in relazione alla legge in esame9. E non è senza significato che in uno dei contributi esterni sia stato chiesto al giudice costituzionale di applicare la giurisprudenza «Nuova Caledonia» (decisione CC n. 85-187 DC del 25 gennaio 1985, legge relativa allo stato di

5

Cons. Cost. décision n. 2020-799 DC del 26 marzo 2020, Loi organique d’urgence pour faire face à l’épidémie de covid-19, JORF n. 0078 du 31 mars 2020, texte n. 5; in AJDA, 2020, 706. A proposito della decisione, si veda in particolare, Benoit, Naissance de la théorie des «circonstances particulières» en droit constitutionnel, ibidem. 6

Jacquin, Daoud, L’État d’urgence sanitaire ou l’État de droit mutilé, in AJ pénal, 2020, 191. 7

Da notare che, al momento, già tre QPC (questioni prioritarie di costituzionalità) sono pendenti davanti Conseil constitutionnel, concernenti articoli del Codice di sanità pubblica introdotti dalla legge del 23 marzo 2020 per fronteggiare l’epidemia da Covid-19. Due QPC sono inoltre pendenti a proposito di articoli della stessa legge del 23 marzo 2020. 8

Questi i contributi esterni (detti «portes étroites») che sono stati presentati al Conseil constitutionnel: intervento del 10 maggio 2020 dell’Association de Défense des Libertés Constitutionnelles (ADELICO), la Ligue des Droits de l’Homme (LDH), il Syndicat des avocats de France (SAF) e il Syndicat de la magistrature (SM); intervento del 10 maggio 2020 dei deputati Philippe Dunoyer e Philippe Gomes e del senatore Gérard Poadja; intervento dell’11 maggio 2020 di Guillaume Hannonin per le associazioni CORONAVICTIMES et COMITE ANTI-AMIANTE DE JUSSIEU. 9

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emergenza in Nuova Caledonia), in modo da pronunciarsi anche in merito alle disposizioni della legge istitutiva dello stato di emergenza sanitaria. Ma così non è stato. Il Consiglio costituzionale si è concentrato sul contenuto della legge di proroga in quanto tale, in una decisione che mentre rassicura, pone altrettanti interrogativi; in effetti, tanto divide diluendo i diritti e le libertà in una inderogabile logica di salute (2), quanto unisce garantendo la sopravvivenza del quadro costituzionale di misure pregiudizievoli per la libertà individuale (3).

2. La diluizione dei diritti e delle libertà costituzionalmente garantiti in una logica sanitaria incomprimibile La legge di proroga dello stato di emergenza sanitaria contiene disposizioni che prevedono l’adozione di misure con l’unico obiettivo di proteggere la salute pubblica. Ciò ha necessariamente orientato la funzione del Consiglio costituzionale fino a inceppare il suo ragionamento. Il suo controllo, infatti, si è concentrato unicamente su questo obiettivo (A), accordandogli una prevalenza sistematica e inconsueta rispetto ai diritti e alle libertà manifestamente lesi dalla legge in esame (B). A. Un controllo di costituzionalità focalizzato sull’obiettivo di protezione della salute In Italia, l’art. 32 Cost. sancisce esplicitamente una protezione costituzionale della salute10. Come ha sottolineato la Corte costituzionale italiana, la protezione della salute ha molteplici dimensioni11. È sia un diritto fondamentale soggettivo, che un obiettivo che impone allo Stato di adottare una politica sanitaria nazionale, che includa, ad esempio, la previsione di vaccinazioni obbligatorie, l’istituzione di un sistema sanitario strutturato, ecc.

Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. e soc., 1983, 21. 10

Pezzini, Diritto alla salute e dimensioni della discrezionalità nella giurisprudenza costituzionale, in Cittadinanza, corti e salute, a cura di Balduzzi, Padova, 2007. 11

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Osservatorio normativo e internazionale

La protezione della salute riveste una dimensione insieme individuale e collettiva, riguarda interessi individuali specifici e obiettivi generali. Il sistema francese non ha, in senso proprio, alcun equivalente costituzionale dell’art. 32. In effetti, il paragrafo 11 del preambolo della Costituzione del 1946 si limita ad affermare che “la nazione garantisce a tutti [...] la protezione della salute”. Il quadro costituzionale di riferimento in materia di salute in Francia è quindi più vago, lasciando spazio all’interpretazione da parte del giudice costituzionale. Il Consiglio costituzionale francese non ha, tuttavia, preso una posizione esplicita in merito alla portata del paragrafo 11. Non ha d’altronde mai pronunciato censure sulla base di questa disposizione costituzionale, per quanto la lettura della giurisprudenza costituzionale nella materia mostri un approccio plurale alle dimensioni costituzionali della salute. A volte il giudice costituzionale si riferisce ad esso come principio costituzionalmente garantito, facendo propria una concezione di salute come diritto fondamentale; in altre decisioni si riferisce ad esso solo dal punto di vista dell’obiettivo di protezione della salute assunto dal legislatore. Inoltre, ciò che ostacola la chiarezza della giurisprudenza costituzionale francese in materia di salute è che il Consiglio costituzionale resta vago sulla pluralità di significati utilizzati in questo campo. L’assenza della costruzione di un’articolazione sistematica tra di essi rende complessa l’individuazione di una politica giurisprudenziale per la tutela costituzionale della salute in Francia. Non fa eccezione la decisione resa sulla legge di proroga dello stato di emergenza, che pure avrebbe potuto essere l’occasione sognata per affermare la completezza della protezione della salute. Una delle “portes étroites” aveva indirettamente invitato il Consiglio costituzionale a farlo, chiedendogli di pronunciarsi non solo sugli obiettivi perseguiti dal legislatore in materia di sanità pubblica, ma anche sulla protezione individuale della salute delle persone sottoposte senza il loro consenso al test diagnostico PCR. Il giudice costituzionale ha lasciato in secondo piano questo aspetto, peraltro essenziale nel contesto specifico.


Legge di proroga dello stato d’emergenza sanitaria

Ed è un peccato, perché vi sarebbe stata l’opportunità di associare salute individuale e collettiva. Invece di dare alla protezione costituzionale della salute la sostanza che le manca, il Consiglio costituzionale si è, ancora una volta, attenuto a un controllo di costituzionalità parziale. Si è limitato esclusivamente alla verifica, mediante il test di proporzionalità, dell’adeguatezza con l’“obiettivo di rango costituzionale di protezione della salute”, divenuto stranamente preponderante rispetto ai diritti e alle libertà in questione. B. Un controllo di costituzionalità che accorda prevalenza all’obiettivo di protezione della salute La giurisprudenza delle Corti costituzionali europee converge sul punto dell’assenza di gerarchia fra diritti e libertà costituzionalmente garantiti, che devono allora essere oggetto di bilanciamento. Lo stesso vale quando si tratta di far coesistere un diritto o una libertà con gli obiettivi perseguiti dal legislatore. La giurisprudenza del Consiglio costituzionale procede, in linea di principio, in questa direzione. Neppure i diversi elementi del blocco di costituzionalità potrebbero essere ordinati gerarchicamente e la considerazione degli obiettivi del legislatore non potrebbe portare all’annullamento dei diritti e delle libertà costituzionalmente garantiti. Ma ciò avveniva senza che vi fosse un obiettivo così specifico di tutela della salute. Come è stato sottolineato da taluni studiosi italiani, nel quadro della pandemia da Covid-19 tutto si è svolto in diversi sistemi come se la “ragione sanitaria” potesse giustificare qualsiasi sacrificio. È evidente, infatti, che in suo nome sono stati messi in discussione numerosi diritti e libertà. Nella decisione in commento, sono svariati i diritti e le libertà compressi dalle disposizioni legislative esaminate. Tuttavia, il Consiglio costituzionale circoscrive il suo intervento in modo molto chiaro, affermando che, in simili circostanze, “il giudice è responsabile di garantire che le misure adottate siano appropriate, necessarie e proporzionate allo scopo perseguito” (§.21 della decisione). E questo scopo, che è quello della protezione della salute, consentirà di spazzare via tutte le doglianze sollevate dagli autori del ricorso.

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Vengono così giustificati i pregiudizi che i poteri di ordinanza attribuiti al Primo Ministro sono in grado di arrecare alla libertà personale, alla libertà di circolazione, al diritto al rispetto della vita privata o ancora alla libertà di impresa. Le misure di isolamento e quarantena sono state analogamente convalidate dal giudice costituzionale, in nome della protezione della salute. Il medesimo argomento si ritrova, in altra parte della decisione, riguardo alle disposizioni relative alla raccolta di dati personali di natura medica, sebbene “violino il diritto al rispetto della vita privata” (§.62 della decisione)12. In definitiva, se pure il Consiglio costituzionale ha potuto pronunciare qualche censura ai margini, l’essenziale del dispositivo legislativo esaminato è stato conservato dal giudice costituzionale, a discapito di una parte molto ampia del catalogo di diritti e libertà costituzionalmente garantiti, che hanno ceduto tutti alle esigenze sanitarie, come se si stesse creando “una scala di valore tra libertà e salute”13. Eppure Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte costituzionale italiana, ha rimarcato che sarebbe stato possibile non mettere a repentaglio diritti e libertà: «non si deve sospendere nulla […] sarebbe sufficiente, per fronteggiare lo stato di necessità, applicare quanto è scritto nella Carta costituzionale»14. Osservazioni convergenti con lo stato attuale della riflessione in Spagna. Nel maggio 2020, il Tribunale costituzionale spagnolo ha dichiarato ricevibile il ricorso di incostituzionalità contro il regio decreto n. 463/2020 che dichiara lo stato di allarme (compresi i successivi decreti di proroga), in cui i ricorrenti hanno ritenuto che, in conformità con la giurisprudenza costituzionale spagnola e il testo costituzionale, lo stato di allarme “a differenza degli stati di eccezione [...]

Sul punto vedi per l’Italia, Zanovello, Il Covid-19 colpisce anche la tutela dei dati personali: il parere del Garante Privacy, nota di aggiornamento, 29 febbraio 2020, in www. rivistaresponsabilitamedica.it. 12

Civinini, Scarselli, Emergenza sanitaria. Dubbi di costituzionalità di un giudice e di un avvocato, 14 aprile 2020, consultabile all’indirizzo: www.questionegiustizia.it. 13

14

Silvestri, ibidem.

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Osservatorio normativo e internazionale

non consente la sospensione di alcun diritto fondamentale”15. Tuttavia, in Spagna, come in altri Paesi, questo è quello che è successo. La decisione del giudice costituzionale sarà pertanto decisiva in termini di bilanciamento tra l’emergenza e i diritti fondamentali. Alla luce di questi elementi, ci si può quindi rammaricare che il Consiglio costituzionale francese abbia dissolto i diritti fondamentali nell’emergenza sanitaria. In tal modo, ha reso la protezione della salute alternativa ai diritti e alle libertà, quando sarebbe stato necessario bilanciarli per garantire l’esistenza di tutti. Unico argine che ha tenuto in questa sfida, sono le garanzie costituzionali in materia di libertà personale, di cui il Consiglio costituzionale afferma l’intangibilità.

3.

La sopravvivenza del quadro costituzionale delle misure che attentano alla libertà individuale

La legge che estende lo stato di emergenza sanitaria consente di limitare la libera circolazione delle persone. Quando ciò implica “un divieto di qualsiasi uscita” (§.32 della decisione), il Consiglio costituzionale ritiene che si tratti di misure di privazione della libertà (A) che devono essere ordinate o convalidate dal potere giudiziario ai sensi della protezione garantita dall’art. 66 della Costituzione (B). A. La qualificazione delle misure di privazione della libertà (messa in quarantena e isolamento) Come è avvenuto in Italia e in Spagna, la legge francese ha istituito “due sistemi di contenimento forzato: la quarantena delle persone suscettibili di contagio e l’isolamento delle persone contagiate”16. Questi diversi sistemi hanno tutti, in modo

Trib. Cost. spagnolo, decisione n. 83 del 28 aprile 2016. Sulla fase attuale, il Tribunale costituzionale si è recentemente pronunciato, il 30 aprile 2020, su un ricorso di amparo contro il rifiuto di celebrazione di una manifestazione del 1° maggio. 15

Dord, Covid-19: les apports complémentaires de la décision du 11 mai, consultabile all’indirizzo: www.leclubdesjuristes.com. 16

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analogo, escluso la riserva di giurisdizione come dimostrato dai decreti legge italiani17. Dubbi sulla costituzionalità di questi dispositivi sono invero stati sollevati in Francia come all’estero, ma sempre sotto forma di ipotesi virtuali. Una delle questioni ricorrenti era se ci si trovasse di fronte a una “restrizione della libertà individuale o della libertà di circolazione”18. A fronte di una serie di misure adottate da autorità amministrative, e quindi con l’esclusione quasi sistematica dei parlamenti, si sono svuotate anche le aule delle Corti costituzionali, lasciando aleggiare nell’aria questioni irrisolte di costituzionalità. Il controllo di costituzionalità della legge francese di proroga dello stato di emergenza sanitaria ha permesso di fornire risposte. Una delle “portes étroites”, inoltre, aveva anche insistito fortemente sulla necessità che il Consiglio costituzionale qualificasse giuridicamente queste misure amministrative, richiamando, in particolare, la costante giurisprudenza costituzionale risultante dalla decisione n. 2015-527 QPC del 22 dicembre 2015, che aveva giudicato gli arresti domiciliari a lungo termine misure di privazione della libertà. Le ipotesi menzionate nel caso di specie non sembravano differire, nei termini e nella durata, da ciò che era stato precedentemente giudicato. Fedele alla logica del precedente, il giudice costituzionale si è effettivamente orientato in questa direzione affermando che “in caso di divieto di qualsiasi uscita, le misure di quarantena, collocamento e mantenimento in isolamento costituiscono una privazione della libertà. Lo stesso vale

Sulle fonti di emergenza in Italia, vedi in particolare: BatDecreto-legge “Covid-19”, sistemi di risposta all’emergenza, equilibrio costituzionale, 1 marzo 2020, consultabile all’indirizzo: www.questionegiustizia.it.; Luciani, Il Sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Rivista AIC, 2020, consultabile all’indirizzo: www.rivistaaic.it; Belletti, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, in Osservatorio AIC, 2020, consultabile all’indirizzo: www.osservatorioaic.it. 17

tarino,

Cuocolo, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: la reazione italiana, in I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: una prospettiva comparativa, a cura di Cuocolo, consultabile all’indirizzo: www.federalismi.it. 18


Legge di proroga dello stato d’emergenza sanitaria

quando impongono all’interessato di rimanere nel domicilio o dimora per un periodo di tempo superiore a dodici ore al giorno” (§.33 della decisione). Si è ritenuto inoltre che tutte le misure previste costituissero privazioni della libertà, mentre il governo, nelle proprie osservazioni scritte, intendeva distinguere tra le diverse misure. La portata di questa qualificazione giuridica va quindi oltre il quadro del sistema nazionale francese. La soluzione adottata dal Consiglio costituzionale può essere sfruttata anche all’estero. I dubbi sollevati sono divenuti certezze: l’adozione delle misure restrittive è avvenuta al di fuori delle garanzie costituzionali legate alla libertà personale. E questa è, d’altra parte, la sostanza degli effetti della decisione commentata, in quanto il giudice costituzionale accompagna questa classificazione con una riserva di interpretazione che impone il coinvolgimento del giudice ordinario. B. L’applicabilità della riserva di giurisdizione dell’art. 66 della Costituzione Mentre molti diritti e libertà sono retrocessi in nome dell’“interesse superiore” della protezione della salute pubblica, esiste una garanzia costituzionale che rimane inviolabile, ed è quella legata alla protezione della libertà personale. Possiamo citare qui le parole di A. Pace, che spiegando, nell’Enciclopedia del diritto, la resistenza della libertà personale (art. 13 Cost.) di fronte all’art. 32 Cost. sul diritto alla salute, afferma che «l’autorità pubblica non potrebbe mai invocare l’art. 32 della Costituzione per derogare, per motivi di salute, alla portata e alle garanzie dell’art. 13»19. L’ipotesi è quindi verificata anche nella decisione del Consiglio costituzionale francese che, con una riserva di interpretazione, subordina l’obiettivo sanitario alle garanzie dell’art. 66 Cost., vale a dire alla riserva di giurisdizione. Il giudice costituzionale afferma così, riprendendo la sua costante giurisprudenza in materia, che “la libertà individuale può essere considerata salvaguardata solo se il giudice interviene nel più breve termine

Pace, voce «Libertà personale», citato da Civinini, Scarselli, ibidem. 19

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possibile” (§.41 della decisione). In altri termini, per essere conformi a Costituzione, i sistemi di quarantena e di isolamento devono garantire la presenza del giudice ordinario che si manifesta su due livelli: nell’accesso al giudice e nell’inquadramento della misura di privazione della libertà. Per quanto riguarda l’accesso al giudice, la decisione rileva che le misure di quarantena, collocamento e isolamento sono suscettibili di ricorso al giudice per la libertà e la detenzione, che può anche intervenire d’ufficio. I termini per la decisione sono quelli d’urgenza, quindi la decisione va adottata entro settantadue ore, il che garantisce la piena efficacia di questo rimedio. D’altro canto, il giudice costituzionale constata che le misure di quarantena e di isolamento previste dalla legge non prevedevano “un intervento sistematico da parte del giudice ordinario”. Con la riserva di interpretazione, il Consiglio costituzionale impone in via generale la presenza del giudice ordinario, considerando che qualsiasi proroga “delle misure di quarantena o isolamento, che obblighi la persona interessata a rimanere nel suo domicilio o dimora per un tempo superiore a dodici ore al giorno” non possa essere decisa “senza l’autorizzazione del giudice”. Il Consiglio costituzionale estende la sua riserva di interpretazione anche alle stesse misure quando vengono adottate per prevenire la diffusione internazionale delle malattie. Ci si deve allora chiedere se le modalità di protezione così definite siano sufficienti nella fattispecie. Vi è una pista rimasta inesplorata, anche se è già stata invocata all’estero. Si tratta di inserire queste misure nella categoria dei trattamenti sanitari obbligatori. Il combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 comma 2°, della Costituzione italiana del 1947 sottopone tale trattamento a una doppia riserva, sia legislativa che di giurisdizione, che consente di accentuare l’intensità della protezione. La decisione commentata non si è inoltrata su questo terreno, non perché una qualifica giuridica del genere sarebbe stata errata, ma perché il Consiglio costituzionale considera queste questioni solo dal punto di vista dell’art. 66 della Costituzione, senza combinarlo con il paragrafo 11 del preambolo della Costituzione del 1946. Pertanto, tutte le decisioni costituzionali prese in materia Responsabilità Medica 2020, n. 2


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di ricovero ospedaliero senza consenso20 considerano il trattamento sanitario obbligatorio solo dal punto di vista della summenzionata riserva di giurisdizione, benché nei commenti sulle decisioni e nelle argomentazioni delle parti vengano esplorati molti aspetti relativi alla protezione della salute, come nuovamente confermato dal Consiglio costituzionale anche nella sua decisione n. 2020-844 QPC del 19 giugno 202021. E una delle “portes étroites” pubblicate dal Consiglio costituzionale sulla decisione in commento faceva proprio esplicito riferimento alla giurisprudenza in tema di ricovero ospedaliero obbligatorio, ritenendola collegata alle problematiche sollevate dalle misure di quarantena e isolamento. Non si sarebbe, dunque, trattato di contrapporre salute e sicurezza, ma di combinarle per cumulare le garanzie costituzionali. Il Consiglio costituzionale rimane ancorato alla propria linea di giurisprudenza, rifiutando di farla evolvere verso un’apertura del campo di applicazione del paragrafo 11 del preambolo alla Costituzione del 1946. Numerosi aspetti, come quello delle misure di quarantena e di isolamento, dovrebbe invece poter godere anche della protezione di questa disposizione costituzionale e non esclusivamente di quella dell’art. 66 Cost. La protezione costituzionale della salute è quindi, in Francia, ampiamente amputata del suo potenziale. Scommettiamo che sotto l’impulso delle corti europee sue omologhe il Consiglio costituzionale finirà per aprire il vaso

Cons. Cost., n. 2010-71 QPC, 26 novembre 2010, Melle Danielle S. (ospedalizzazione senza consenso), Rec. p. 343; n. 2010-135/140 QPC, 9 giugno 2011, M. Abdellatif B et autre (ospedalizzazione d’ufficio), Rec. p. 272; n. 2011-174 QPC, 6 ottobre 2011, Mme Oriette P (ospedalizzazione d’ufficio in caso di pericolo imminente), Rec. p. 484; n. 2011-185 QPC, 21 ottobre 2011, M. Jean Louis C. (revoca dell’ospedalizzazione d’ufficio per persone penalmente irresponsabili), Rec. p. 516; n. 2011-202 QPC, 2 dicembre 2011, Mme Lucienne Q (ospedalizzazione senza consenso precedente alla legge n. 90-527 del 27 giugno 1990), Rec. p. 567; n. 2012-235 QPC, 20 aprile 2012, Association Cercle de réflexion et de proposition d’actions sur la psychiatrie (disposizioni relative alle cure psichiatriche senza consenso), Rec. p. 202. 20

Cons. Cost., n. 2020-844 QPC, 19 giugno 2020, M. Eric G. (controllo delle misure di isolamento o contenzione nel quadro delle cure psichiatriche senza consenso). 21

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di Pandora, per scongiurare il rischio di subire, in quest’area, un vero e proprio isolamento giurisprudenziale.


i r o t Osservatorio Osservatorio normativo normativo ee internazionale internazionale erva ivo t n s a s o rm zio Profili di responsabilità del o a n n produttore di robot chirurgico r e t n i nell’ordinamento americano* Giorgia Guerra

Ricercatrice nell’Università di Verona Sommario: 1. Introduzione. – 2. La realtà oggetto di analisi. – 3. Il case law. – 4. La responsabilità da prodotto senza la prova del difetto: condizioni di operatività della malfunction theory. – 5. Duty to instruct e duty to train il personale medico: verso nuovi modelli di formazione? – 6. I doveri di formazione rispetto alla struttura ospedaliera. – 7. Le nuove sembianze della responsabilità del produttore di robot nel contesto europeo. – 8. Conclusioni.

1. Introduzione

Abstract: A partire dall’analisi dei dati relativi al malfunzionamento del robot teleoperato Da Vinci, il saggio esamina la litigation statunitense nel campo della chirurgia robotica. Osservando le criticità emergenti in punto di prova del malfunzionamento e di violazione del duty to warn e duty to instruct in capo al produttore, si rifletterà sui nuovi adattamenti delle regole di responsabilità del produttore che si rendono opportuni, nonché sulle proiezioni degli sviluppi futuri del tema, alla luce dei continui progressi in itinere della specifica tecnologia.

Taking into consideration data about robotic surgery damage, the essay examines US litigation concerning the field. Investigating the criticalities about malfunctioning, breach of duty to warn and instruct, the Author reflects on suitable adaptations of legal rules in light to the emerging technological progress.

I più recenti documenti europei in materia di tecnologie digitali affrontano i profondi mutamenti della realtà empirica proponendo prospettive di studio funzionali a coglierne la complessità1. Anche la robotica, al pari di altre applicazioni dell’intelligenza artificiale configura tale complessità: è un oggetto di studio composto da una

Il presente contributo rientra nell’ambito dell’attività dei gruppi di ricerca FILM 4.0 e ARrT, del Progetto di Eccellenza del Dipartimento di Scienze Giuridiche Diritto, Cambiamenti e Tecnologie, Università di Verona. Lo scritto è destinato al volume che raccoglie gli atti del webinar Profili giuridici dell’utilizzo della robotica e dell’intelligenza artificiale in medicina, tenutosi il 12 giugno 2020, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Verona. Il lavoro è il risultato di un percorso di ricerca iniziato con una prima riflessione sul tema presentata durante il V Colloquio Biennale dei Giovani Comparatisti, New topics and methods in comparative legal research and its relations with social sciences, Università del Molise, Campobasso, 27-28 maggio 2016. 1 Tra i più recenti: Commissione europea, Report on the safety and liability implications of Artificial Intelligence, the Internet of Things and robotics, del 19.2.2020, Brussels, COM (2020), 64 final; Eu Commission, Report from the Expert Group on Liability and New Technologies – New Technologies Formation, Bruxelles, 2019, spec. 3. *

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pluralità di elementi, interconnessi ed interdipendenti, le cui dinamiche si basano su modelli rappresentativi esperienziali2. All’idea di scienza associata ai canoni di certezza, causa e predicibilità, la complessità implica, per l’appunto, un nuovo stile di spiegazione, un modo diverso di guardare ai fenomeni che non rispondono ai canoni classici appena ricordati. Di riflesso, questi elementi innovativi del progresso mettono in discussione un tratto strutturale del diritto: la prevedibilità delle risposte giuridiche3. Il contesto medico odierno, caratterizzato dall’impatto pervasivo del progresso digitale comporta, dunque, una rimeditazione delle tradizionali categorie civilistiche, al fine di individuare di volta in volta, i necessari adattamenti del regime giuridico vigente4. Tuttavia, è doveroso mettere in guardia dal rischio di generalizzazioni poiché, anche in medicina, come accade in altri ambiti, il grado di

Per un approfondimento sul tema della complessità si rinvia a Scarciglia, Scienza della complessità e comparazione giuridica nell’età dell’asimmetria, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2019, 708. L’A. mette in relazione le componenti della complessità entro il contesto in cui nasce, la tecnologia, con l’elemento della struttura dinamica degli ordinamenti giuridici. 2

Sulla distinzione tra calcolabilità e prevedibilità si rinvia a Zaccaria, Figure del giudicare: calcolabilità, precedenti, decisione robotica, in Riv. dir. civ., 2020, 277.

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complessità varia notevolmente a seconda delle specifiche apparecchiature considerate e non è, pertanto, sempre tale da richiedere adattamenti giuridici. Le pagine che seguono declinano quest’ultime considerazioni entro gli aspetti più critici della responsabilità del produttore del robot chirurgico. L’analisi si focalizza sull’ordinamento statunitense, tradizionalmente all’avanguardia nell’introduzione dei ritrovati del progresso tecnoscientifico. Il saggio è strutturato in tre parti: nella prima parte vengono analizzati i dati e la casistica giurisprudenziale statunitense in materia di danni per malfunzionamento del robot chirurgico, in particolare del robot teleoperato Da Vinci5 (§§ 2; 3); nella seconda parte si analizzeranno i due principali profili emergenti, uno in punto di prova della difettosità, e l’altro concernente la responsabilità per mancata o inadeguata formazione del personale addetto all’uso del robot (§§ 4; 5; 6), nell’ultima parte si rivaluteranno i meccanismi utilizzati dal diritto statunitense per disciplinare le nuove sembianze del concetto di difettosità anche alla luce delle parallele iniziative di policy che avvengono nell’ordinamento europeo (§§ 7). Seguiranno alcune riflessioni conclusive sulle proiezioni degli sviluppi futuri del tema alla luce dei progressi in itinere della specifica tecnologia (§ 8).

3

Questa constatazione può essere estesa ad altri istituti del diritto privato. A titolo esemplificativo si riniva a De Franceschi, La vendita di beni con elementi digitali, Napoli, 2019. Relativamente all’impatto in materia di successioni si veda Resta, La successione nei rapporti digitali e la tutela post-mortale dei dati personali, in Regolare la tecnologia: il Reg. UE 2016/679 e la protezione dei dati personali. Un dialogo fra Italia e Spagna, a cura di Poletti e Mantelero, Pisa, 2018, 396 ss. In generale, è stato osservato che i Big Data analytics possono cambiare la prassi giuridica. Così Busch C., De Franceschi A., Granular legal norms: big data and the personalization of private law, in Mask V., Rjong E., Tai T., Berlee A., Research Handbook in Data Science and Law, EElgar, 2018, 408. Gli Aa. affermano «the rise of Big Data could fundamentally change the design and structure of legal norms and thus the legal system itself […] Big Data and algorithm-based regulation could lead to a shift from impersonal law based on the widespread use of typification to a more personalized law based on “granular legal norms” that are tailored to the individual adresses. As a consequence, the balance between individual fairness and legal certainty could be readjusted» (spec. 409). 4

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2. La realtà oggetto di analisi Con la diminuzione dei costi di produzione ed il miglioramento dei risultati6, la telechirurgia, o cyberchirurgia7, comunemente definita come la tecnica attraverso la quale il chirurgo opera da remoto, è diventata uno dei settori strategici del-

Il robot in questione è prodotto dalla società americana Intuitive Surgical Inc. Cfr. Goldberg, The Robotic arm went crazy: the problem of establishing liability in a monopolized field, in 38 Rutgers Computer & Tech L. J. 225, 2012. 5

Financial Times, FT Report – Innovation, London, England, June 8, 2005 (Wednesday), 10. 6

Hamilton-Piercy M., Cybersurgery: why the United States should embrace this emerging technology, in 7 J. High Tech. L. 203, 2007. Gli autori presentano le definizioni di telemedicina adottate dai codici degli Stati del Montana, Nebraska, New Mexico, Oregon, e Texas. 7


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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

la robotica8. La significativa riduzione dell’errore umano in virtù della precisione dei movimenti meccanici pre-programmati, la minima invasività dell’intervento e la possibilità di operare a distanza rappresentano i tratti distintivi. Si possono distinguere almeno tre tipologie di impieghi del sistema robotico9: fornire un supporto esterno all’azione del chirurgo10; permettere l’intervento di un chirurgo non presente in sala operatoria11; manovrare la strumentazione chirurgica, spesso pesante e poco maneggevole12.

Si veda il documento del Directorate General for internal policies (Policy Department C: Citizens’ rights and Constitutional Affairs), Upcoming Issues of EU Law. Compilation of in-depth analysis, Workshop 24 September 2014, p. 172 ss. Il report ricorda che, in base ad un recente studio, «the application of advanced robotics across health care, manufacturing, and services could generate an economic impact ranging from $1.7 trillion to 4.5 trillion per year by 2025....Robotic surgery (in particular minimally invasive laparoscopic surgery) is estimated as possibly reducing the number of deaths even as much as by 20% in developed countries (by providing aid to the doctor, autocorrecting movements, and by warning of potential risks), and up to 15% of all surgeries performed in countries with developed health-care systems could make use of these devices» (spec. 189). 8

Così Jacob B., Gagner M., Robotics and general surgery, in Surgical Clinics of North America, 2003. Sul tema anche Taylor H.R., Menciassi A., Fichtinger G., Dario P., Medical robotics and computer-integrated surgery, in Springer Handbook of robotics, Ed. B. Siciliano, O. Khatib, Berlin-Heidelberg, 2008. 9

È l’utilizzo più diffuso. Nel 1994, un robot chirurgico di tal tipo fu approvato per primo dalla Food and Drug Agency. La tecnologia in questione (Automated Endoscopic System for Optimal Positioning) permette di introdurre un endoscopio nel corpo del paziente, tramite un braccio meccanico che “esegue” i comandi vocali impartiti dal chirurgo. Per un esempio si pensi a RemotePresence-7. 10

In questo modo si permette al chirurgo non presente di interagire in videoconferenza con i colleghi, visualizzando da remoto le immagini endoscopiche in diretta. Sulla conseguente natura cross-border delle questioni giuridiche si rinvia a Dickens B.D., Robotic surgery in Canadian law, in Clinical Risk, vol. 14, 2008, 182-185. 11

Si tratta di un braccio meccanico situato a distanza dal paziente, sul quale sono montati strumenti chirurgici e terapeutici di varia natura e dimensione, come pinze, laser etc. Si pensi all’ormai diffuso CyberKnife, impiegato negli interventi radiochirurgici, in cui il braccio meccanico, muovendosi all’esterno del paziente, irradia con altissima precisione le aree tumorali. 12

L’applicazione “protagonista” della casistica giurisprudenziale in esame è il robot teleoperato Da Vinci: un sistema teleoperato composto da braccia meccaniche comandate a distanza dal professionista, il quale rimane, quindi, lontano dal tavolo operatorio, svolgendo la sua opera mediante una consolle che gli fornisce una visione tridimensionale con una profondità realistica del campo dell’intervento. Alle braccia meccaniche vengono fissati i ferri chirurgici necessari per l’operazione da effettuare. Lo specialista usa due manipoli, posizionati sotto il display, per controllare tutti gli strumenti robotici. Il sistema riesce a tradurre perfettamente i movimenti della mano, del polso e delle dita del chirurgo, in simultanei e precisi movimenti degli strumenti, “filtrando” il tremore fisiologico naturale dell’uomo. Le caratteristiche funzionali del sistema che contribuiscono a complicare l’analisi giuridica riguardano: il distacco spaziale tra chirurgo e paziente, l’interoperabilità del sistema, la connettività, e la dipendenza dai dati, la pluralità degli operatori economici che intervengono lungo la catena di produzione, distribuzione e uso della molteplicità di componenti, parti, software, sistemi o servizi, che insieme formano i nuovi ecosistemi tecnologici, l’apertura agli aggiornamenti e ai miglioramenti dopo l’immissione sul mercato; la dipendenza da algoritmi e l’opacità dei prodotti basati sull’intelligenza artificiale che rende difficile comprendere le possibili cause di un danno13. In alcuni casi, queste tecnologie robotiche sono una versione molto avanzata di quelle laparoscopiche, mentre, in altri casi, realizzano interventi irrealizzabili con queste ultime. Va, tuttavia, osservato che le peculiarità del Da Vinci non sono ancora riconducibili ad un livello elevato di autonomia, poiché un sistema teleoperato è caratterizzato da un grado di autonomia pari a zero14. È

Le caratteristiche delle tecnologie digitali sono, così, descritte dalla Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, Relazione sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose e della robotica in materia di sicurezza e di responsabilità, Bruxelles, 19.2.2020, COM (2020) 64 final. 13

14

I problemi giuridici più intricati sono relativi a macchine

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bene dar conto, però, nell’arco dell’ultimo quinquennio, non siano mancati i passi avanti: un progetto dell’Università di Verona, per esempio, attualmente in fase di validazione, ambisce alla realizzazione di un “assistente robotico”15, composto da braccia teleoperanti e braccia che si muovono autonomamente in base alla percezione dei segnali derivanti dall’ambiente, ed è, altresì, in grado di reagire al comportamento ed ai comandi (vocali) del chirurgo principale16. Le differenze tra versioni diverse della stessa tecnologia, dunque, da luogo ad una varietà di problemi giuridici difficilmente riconducibili ad unità. Tuttavia, sebbene le peculiari caratteristiche della nuova tecnologia non siano tali da richiedere eccezioni all’operatività delle regole e degli istituti civilistici tradizionali, da queste prime importanti distinzioni si può anticipare che le istituzioni europee sono orientate a prediligere un approccio regolatorio casistico, basato sul risk-based approach17.

che presentano un elevato grado di automazione, come per esempio, il machine learning, o il deep learning. I vari gradi di autonomia in chirurgia robotica sono stati oggetto di discussione durante il workshop dedicato alla “roadmap on robotic autonomy”, Dipartimento di informatica, Università di Verona, 30-31 ottobre 2017. Cfr. P. Kazanzides et al., Medical robotics – Regulatory, ethical, and legal considerations for increasing levels of autonomy, 2017. Si tratta del progetto (H2020) SARAS, Smart Autonomous Robotic Assistant Surgeon, condotto dal Dipartimento di informatica, Università di Verona. Consultabile all’indirizzo: www.saras-project.eu

15

È un’applicazione che prevede un progresso nella scala dei livelli di automazione che va da 0 a 1. Così emerge dalla relazione del prof. Fiorini, Le tecnologie e le applicazioni della robotica autonoma: dove si nascondono gli aspetti legali?, tenutasi durante il webinar Profili giuridici dell’utilizzo della robotica e dell’intelligenza artificiale in medicina, il 12 giugno 2020, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Verona. 16

D’altro canto, appare inopportuno in conformità a quanto già osservato dalla dottrina italiana, configurare un corpo unitario di regole dedicato alla robotica Contra vedi R. Calo, Robotics and the Lessons of Cyberlaw, in 103 Cal. L. Rev. 513, 532 (2015); A. Sandberg, Law-abiding Robots?, in Oxford Martin Opinion ( Jul. 15, 2016) consultabile all’indirizzo: www.oxfordmartin.ox.ac.uk; G. Miller, A Brief History of Robot Law, in Atlantic (Mar. 17 2016), consultabile all’indirizzo: www.theatlantic.com. C’è anche chi configura la Lex Robotica paragonandola alla Lex Mercatoria. Cfr. Stradella, Approaches for regulating robotic technologies: lessons learned and concluding remarks, in Palmerini, Stradella, Law 17

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Alcuni dati preliminari in merito agli effetti dell’impiego del Da Vinci sono utili per descrivere la realtà oggetto d’esame. Da una ricerca attraverso il database Manufacturer and User Facility Device Experience (MAUDE) della Food and Drug Administration Agency, che raccoglie i “reports” per eventi avversi dei dispositivi medici, denunciati sia da soggetti obbligati a farlo (produttori, importatori etc.) che quelli presentati in maniera volontaria (consumatori, etc.)18, a partire dal 2000, anno di autorizzazione, il numero di casi di malfunzionanti, danni fisici, e morti causati dallo stesso, supera le decine di migliaia. Peraltro, a detta di molti esperti si tratterebbe di un numero di molto inferiore a quello reale, essendo quest’ultimo di difficile identificazione: molti effetti collaterali, come lesioni intestinali e della vescica, ureteri perforati o tagliati, perforazioni di organi, o ustioni di organi si sono, infatti, manifestati molto tempo dopo l’intervento, senza esservi causalmente ricondotti. Tante furono le denunce che nel 2013 la stessa Fda lanciò una procedura di sorveglianza per verificarne le cause19. Anche il contenzioso in materia è cresciuto senza interruzione.

and Technology. The Challenge of Regulating Technological Development, Pisa, 2013, 345. Nessuna «law of the horse», per riprendere l’espressione che ha identificato lo scontro intellettuale tra Easterbrook e Lessig: il primo, in apertura ad un convegno, assimilava, provocatoriamente, la cyberlaw ad un “diritto dei cavalli” per indicarne l’inutilità (F. Easterbrook, Cyberspace and the Law of the Horse, in U. Chi. Legal F. 207 (1996); mentre il secondo offrì, successivamente, la prospettiva opposta. Tale contrasto di impostazioni non è nuovo. Analogamente per le nanotecnologie si rinvia alla raccolta di scritti di Guerra et al. (a cura di), Regolamentazione, forme di responsabilità e nanotecnologie, Bologna, 2011. Il MAUDE è consultabile all’indirizzo: www.accessdata. fda.gov. Tra il 2000 e 2013, anno in cui la stessa agency lancia una procedura di “sorveglianza” del Da Vinci per verificarne le cause, vi sono più di 10,000, di cui più di 8,000 malfunzionamenti; più di 1,400 denunce per danni fisici e più di 140 morti. Poiché questi dati rappresentano una piccola frazione rispetto ai ricoveri per chirurgia robotica avvenuti in quel periodo, alcuni esperti osservano che il numero dei report potrebbe essere verosimilmente sottorappresentato. 18

Cfr. www.advisory.com/Daily-Briefing/2013/04/12/ FDA-launches-investigation-into-da-Vinci-complaints. 19


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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

I fatti materiali dei principali casi americani analizzati sono analoghi: a causa di un malfunzionamento, il Da Vinci si blocca durante l’intervento ed il chirurgo è costretto a continuare con le tecniche tradizionali di laparoscopia. A causa di tutto ciò, il paziente manifesta danni di vario tipo (ustioni, dolori, disfunzioni) a distanza di molto tempo dall’intervento. La maggior parte dei casi si è conclusa tramite accordi transattivi stragiudiziali20. Attualmente il contenzioso pendente relativo al Da Vinci è ancora di proporzioni rilevanti. Può sembrare strano che non siano state proposte vere e proprie class actions21. Per ragioni di opportunità i danneggiati hanno preferito far ricorso ad un altro meccanismo utilizzato negli Stati Uniti, la c.d. Multi-District Litigation (MDL) in base alla quale la procedura in una corte federale è instaurata per trasferirvi molti giudizi statali pendenti e ridurre il rischio di sentenze contrastanti sulla stessa questione, rendendo, così, il processo più veloce.

3. Il case law La casistica in materia di danni provocati da robot chirurgico è, dunque, recente22. Uno dei primi casi

Nel 2018 la US Securities and Exchange Commission ha riportato che il produttore Intuitive Surgical aveva accantonato 17,4 milioni di dollari per transare i giudizi pendenti alla data del 31 marzo 2018. 20

Si rinvia all’indirizzo: surgicalwatch.com/davinci-robot/ lawsuit/ (ultima consultazione: 26.4.2020, il sito indica di essere stato aggiornato l’ultima volta nel 2015). Nel frattempo, anche il contezioso in materia è cresciuto senza interruzione, fino alla proposizione, nel 2015, della prima class action nello stato del Missouri per richiedere un risarcimento di 5 milioni di dollari. 21

Con riferimento al profilo del risarcimento per danni da dispositivo chirurgico robotico si rinvia ai principali casi: Mendoza v. Intuitive Surgical, Inc., No. 18-CV-06414-LHK, 2020 WL 3078178 (N.D. Cal. June 10, 2020); Kucharczyk v. Intuitive Surgical, Inc., No. 45052–6–II, 2015 ( July 07, 2015); Vanderford v. Intuitive Surgical, Inc., 4:2013cv02993, ( June 28, 2013); Tremblay v. Intuitive Surgical, Inc., Case No. 12-cv-00231-JSW ( June 6, 2013); Chronister v. Intuitive Surgical, Inc., 6:12-cv-01184-GAP-DAB, ( June 16, 2013); Kucharczyk v. Intuitive Surgical, Inc., No. CV12-03760 JSW (November 8, 2012); O’Brien v. Surgical, Inc., 1:10-cv-03005 22

risale al 2005, quando il signor Roland Mracek veniva sottoposto, presso il Bryn Mawr Hospital, all’intervento in chirurgia robotica per rimozione della prostata, in seguito alla diagnosi di un tumore23. Durante l’intervento di prosteoctomia, il robot si blocca, il display segnala ripetutamente “error” ed il chirurgo continua l’operazione servendosi della tradizionale tecnica laparoscopica. A distanza di una settimana dall’intervento, e verosimilmente a causa dell’interruzione del funzionamento del robot, il paziente manifesta diverse patologie (ematuria, disfunzioni erettili e forti dolori) e decide di esperire azione di risarcimento nei confronti dell’ospedale e del produttore del Da Vinci. La famiglia del danneggiato agisce in giudizio affermando la responsabilità dei convenuti rispettivamente per negligenza e malfunzionamento del dispositivo. Nessuna di queste domande viene, però, accolta, poiché la Corte ritiene omessa la prova del nesso di causa tra danno patito dal paziente e presunto malfunzionamento del robot (nemmeno l’urologo di parte attrice offriva la propria opinione sulla sussistenza di causalità tra intervento e patologie successive). Anche in sede d’appello24, la Corte del terzo circuito degli Stati Uniti escludeva la responsabilità del produttore per gli stessi motivi. L’onere della prova della difettosità è uno dei profili più problematici in materia e sarà oggetto di trattazione specifica nel proseguo (vedi infra § 4). Altrettante difficoltà probatorie incontra parte attrice nel caso Daniel J. O’Brien vs. Intuitive Surgical Inc25. Il paziente, dopo essersi sottoposto a pancreoctomia, lamenta un danno derivante, a suo dire, da difetto di fabbricazione (design de-

( July 25, 2011); Dulski et al v. Intuitive Surgical, Inc. et al, 1:2010cv00234 (February 9, 2011); O’Brien v. Intuitive Surgical, Inc. 1:2010cv03005 (May 17, 2010); Bresnahan v. Intuitive Surgical, Inc. and Chip Bowman, 1:09-cv-06272 (October 25, 2010); Mracek v. Bryn Mawr hospital et al. No. 2:08-cv00296 (March 11, 2009). Non si tratta del primo caso. Vi sono, infatti, notizie di casi sorti già nel 2002 ma conclusi in via stragiudiziale. 23

Mracek v. Bryn Mawr Hosp. and Intuitive Surgical Inc., 363 F. App’x 925, 926 ( January 28, 2010). 24

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Daniel J. O’Brien vs. Intuitive Surgical Inc., cit.

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fect) e conseguente malfunzionamento del robot chirurgico sostituito, in corso d’opera, da tecniche tradizionali. Delle azioni intraprese, per responsabilità oggettiva e per misrepresentation26, l’unica potenzialmente esperibile – secondo l’opinion del giudice Feinerman – consisteva nell’affermazione di responsabilità per difetto del robot27. Tuttavia, la Corte osservava che il robot è prodotto con la finalità di “supportare” l’azione del chirurgo, cosicché in caso di rottura o malfunzionamento dello stesso, il chirurgo è tenuto a continuare l’intervento con la strumentazione ordinaria. In altri termini, per l’Illinois District Court mancava l’allegazione della c.d. proximate causation, elemento essenziale per fondare un’azione di responsabilità oggettiva per difetto del prodotto28. Secondo le argomentazioni della corte, due fatti – se allegati e provati da parte attrice – avrebbero dimostrato la sussistenza della causalità tra fatto e danno: il malfunzionamento del dispositivo, quale causa diretta del danno fisico al paziente; ed il ritardo nell’esecuzione dell’intervento alternativo in laparoscopia. Queste stesse indicazioni della corte sembrano essere state recepite da parte attrice nel caso Silvestrini v. University Healthcare System, L.C., d/b/a Tulane University Hospital and Clinic (“TUHC”) e Intuitive Surgical, Inc. del 201229. L’attrice, ricoverata presso il TUHC, si sottopone a tiroidectomia

L’azione per misrepresentation è instaurata da O’Brien sulla base dell’inadeguata descrizione delle caratteristiche tecniche dell’apparecchiatura da parte della produttrice Intuitive Surgical inc. Su analogo profilo si veda anche Kopley Grp. V., L.P. v. Sheridan Edgewater Props., Ltd., 876 N.E.2d 218, 228 (Ill. App. 2007).

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con l’impiego della strumentazione robotica di ausilio, dopo essere stata informata del fatto che quest’ultima era meno invasiva rispetto alle tradizionali tecniche. Anche in questa fattispecie, il malfunzionamento del robot, verificatosi durante l’intervento, non viene risolto né dal chirurgo né da altro personale medico. Con il consenso dei familiari dell’attrice anestetizzata, l’intervento prosegue con la strumentazione tradizionale. Questo cambiamento comporta un lungo taglio chirurgico al collo della paziente, e successiva chirurgia plastica per rimediare, nonché ulteriori interventi, dal momento che il chirurgo non fu comunque in grado di rimuovere tutta la tiroide. L’attrice lamenta il fatto che il personale medico era «totalmente carente, inadeguato e inetto» nell’utilizzo del robot. Il personale non aveva, infatti, ricevuto adeguata formazione da parte del produttore, in violazione di quanto previsto dal contratto di fornitura in essere tra produttore, fornitore del robot e clinica ospedaliera. Anche in questa fattispecie, però, le domande attoree contro la struttura ospedaliera e contro il produttore30 vengono respinte per incompetenza della corte adita31. Con il caso Taylor v. Intuitive Surgical Inc del 25 marzo 2013, la Superior Court of the State of Washington ha impresso una svolta alla litigation in esame configurando la responsabilità del produttore per violazione del dovere di avvertenze e di formazione del personale medico32. Nonostante le

26

L’azione per responsabilità oggettiva è supportata, nella specie, dal fatto che lo stesso produttore aveva avviato la procedura di “recall” (richiamo) del robot stesso. 27

Elemento costitutivo dell’azione di responsabilità oggettiva è la prova del nesso di causa. L’attore ha omesso di dimostrare che il danno verificatosi era stato provocato dal malfunzionamento del dispositivo. In tema di proximate causation si rinvia a Mikolajczyk v. Ford Motor Co., 901 N.E.2d 329, 345 (Ill. 2008); e Salerno v. Innovative Surveillance Tech. Inc., 932 N.E.2d 101, 109 (Ill. App. 2010) (Theis, J.). 28

Silvestrini v. University Healthcare System, L.C., d/b/a Tulane University Hospital and Clinic (“TUHC”) e Intuitive Surgical, Inc., No. 11-2704 (E.D. La. Feb. 6, 2012). 29

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L’attrice fonda l’azione di responsabilità della struttura ospedaliera (TUHC) sulla base di molteplici omissioni: la mancanza di manutenzione del robot; la mancanza di informazione e rappresentazione all’attrice del possibile fallimento, o malfunzionamento del robot; l’aver utilizzato il robot chirurgico senza poter disporre di personale tecnico capace di correggere la causa del malfunzionamento; la mancanza di linee guida, o protocolli relativi alle procedure di utilizzo del robot; l’inadeguata preparazione del chirurgo responsabile dell’intervento e del personale dipendente per intervenire prontamente e risolvere il problema. 30

Secondo la legge dello Stato della Louisiana, l’attrice avrebbe dovuto adire il medical review pannel, prima di esperire l’azione giudiziale. Cfr. Silvestrini v. University Healthcare System, L.C., d/b/a Tulane University Hospital and Clinic (“TUHC”) e Intuitive Surgical, Inc., cit. 31

32

Taylor v. Intuitive Surgical Inc No. 92210-1 (Wash. March


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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

avvertenze del produttore del Da Vinci, circa la non idoneità dell’impiego del robot in caso di paziente obeso, il chirurgo decide di impiegarlo su tale tipologia di paziente già plurioperato. Come in altri casi, il robot è stato sostituito a causa del malfunzionamento in corso d’intervento. Durante e dopo l’intervento di prosteoctomia del 2008, il signor Taylor lamentava di aver subito danni fisici. L’attore prima, e poi i suoi eredi, agiscono contro il produttore configurando violazione del Washington Product Liability Act per il difetto di istruzioni e formazione del personale incapace di rimediare al problema verificatosi. Accogliendo, in parte, le domande attoree, la corte non concede, diversamente da quanto accaduto in passato, il summary judgment (giudizio abbreviato) al convenuto33. Per la corte di Washington non sussiste un duty to instruct in common law34. Esso discende dal più generale dovere di mantenere una condotta commerciale ragionevole qualora si instauri un rapporto tra i soggetti coinvolti (i maketing duties). Nell’ambito della responsabilità da prodotto, il Washington Products Liability Act (“WPA”)35

25, 2013). Più recentemente, un’altra vicenda giudiziaria, in cui non era stato concesso il summary judgment al convenuto (il produttore Intuitive Surgical) si è conclusa con un accordo stragiudiziale: Zarick v. Intuitive Surgical Inc, 1-12CV-2377232016 (April 21, 2016). Il summary judgment è la più significativa pretrial motion prevista dalla Rule 56 del Federal Rules of Civil Procedure. Si tratta di un’azione volta ad ottenere un giudizio abbreviato. Più precisamente l’art. 56 (a) prevede che il summary judgment sia concesso qualora «the movant shows that there is no genuine dispute as to any material fact and the movant is entitled to judgment as a matter of law». Il giudizio della corte adita ha per oggetto fatti materiali e la legittimazione attiva in capo all’attore. Per un approfondimento si rinvia a Friedenthal J.H., Kane A.R., Miller, Civil Procedure, 4th ed., Hornbook series, Thomson-west, St. Paul, MN, 2005, ed a Clark, Charles E., Samenow C.U., The Summary Judgment, in 38 Yale L.J. 423 (1928-1929). 33

Nel presente contesto la locuzione «common law» è utilizzata per contrapporre le regole “unwritten”, alle statues, o comunque ad atti aventi forza di legge. Sulla pluralità dei significati attribuibili all’espressione si rinvia a Mattei, Common Law. Il diritto anglo-americano, nel Trattato di Diritto Comparato, diretto da Sacco, Torino, 1992, 83 spec. 88. 34

Act of April 17, 1981, ch. 27, in Wash. Laws 112. Si rinvia a quanto previsto al § 4.(1) dell’Act. L’Act, inoltre, prevede 35

prevede che la società produttrice impartisca le avvertenze ed istruzioni circa l’uso del prodotto, senza specificare chi è il destinatario. In base all’Act istruzioni, avvertenze e formazione si devono considerare inadeguate qualora, al momento della produzione, la probabilità che il prodotto potesse causare un danno all’utente finale, e la severità di tale danno siano state sufficienti per richiedere al produttore di fornire quelle informazioni che il consumatore avrebbe ritenuto, invece, adeguate. La materia, dunque, è disciplinata da questa espressa previsione del WPA che, implicitamente “preempted” l’applicazione della regola di common law36. Ravvisando, pertanto, fatti materiali sufficienti a provare il fatto, il nesso di causa ed il danno per violazione del dovere di istruzioni previsto dal WPA, la Corte ritiene di non poter accogliere l’istanza di summary judgment proposta da parte convenuta e di procedere a giudizio37.

specificatamente che il prodotto sia considerato sicuro anche qualora il dovere di avvertenze e istruzioni in capo al produttore non sia esteso alla fase post-market. Cfr. Talmadge P.A., Washington’s Product Liability Act, in 2 University of Puget Sound Law Review 5, 1981. È la stessa decisione a chiarire tale rapporto. Cfr. Taylor v. Intuitive Surgical Inc, cit. Per un approfondimento sul rapporto tra federal common law e state law si rinvia a Tribe L.H., American Costitutional Law, vol. I, New York Foundation, New York, 2000, 475 ss. Il ruolo fondamentale nella regolamentazione di tale rapporto è svolto dalla preemption doctrine, corollario della Supremacy Clause di cui all’art. VI, par. 2 della Costituzione degli Stati Uniti. Autorevole dottrina non ha mancanto di enfatizzare che nell’ambito specifico della responsabilità da prodotto: «the defense of federal preemption in recent years has grown from little more than a blip on the radar screen to one of the most powerful defenses in all of products liability law». Cfr. Owen D.G., Products Liability Law (2005). La materia della responsabilità da prodotto rappresenta il terreno d’eccellenza per una panoramica della più recente giurisprudenza della Corte Suprema in tema di preemption. Si rinvia, a titolo esemplificativo, ai celebri casi: Cipollone v. Liggett Group Inc., 505 U.S. 504, 508, 530-31 (1992) relativi ai messaggi presenti sui label delle confezioni di sigarette; Medtronic v. Lohr, 518 U.S. 470, 474, 503 (1996), in materia di dispositivi medici. A ben vedere, gli esempi applicativi più paradigmatici della dottrina si rinvengono, soprattutto, in materia di medicinali e di dispositivi. 36

Il signor Taylor, peraltro, precisò che la società produttrice del robot non aveva adempiuto al dovere di commercializ37

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L’anno successivo (il 9 giugno 2014)38, Taylor tenta di convincere la giuria che Intuitive Surgical Inc. non aveva fornito sufficienti istruzioni circa l’utilizzo sicuro del robot, non solo al chirurgo, ma anche alla struttura ospedaliera presso la quale l’intervento era avvenuto. La corte declina tale richiesta e istruisce la giuria per verificare se tale dovere del produttore sussista solamente nei confronti del chirurgo responsabile dell’operazione. Inoltre, la Corte riteneva che tale potenziale profilo di responsabilità del produttore dovesse essere giudicato in base allo standard di negligenza39. La giuria esprimeva un verdetto favorevole al convenuto, non ravvisando negligenza nell’istruire e formare il chirurgo. Nel giudizio di appello proposto da Taylor, il 7 luglio 201540, la Corte di Washington conferma il verdetto della giuria investita del compito di verificare la sussistenza di responsabilità del convenuto solo con riferimento ad omissione di istruzioni nei confronti del chirurgo, e non anche della struttura ospedaliera41. Quando, infatti, il dispositivo o farmaco è utilizzabile solo su prescrizione, o attraverso l’opera del medico si ravvisa-

zare il sistema robotico informando e istruendo il personale ospedaliero circa il corretto e sicuro uso del sistema robotico (inadeguatezza del manuale delle istruzioni e del programma di formazione). La lacunosità non era dovuta al trasferimento di informazioni e istruzioni dalla casa madre (con sede in California) al personale addetto e medico dell’ospedale di Washington (dove si verificò il fatto), ma era congenito nella sua predisposizione. Così si legge nelle argomentazioni cfr. Taylor v. Intuitive Surgical inc., cit.

Osservatorio normativo e internazionale

no le condizioni per l’applicabilità della teoria in base alla quale il chirurgo funge da “guardiano” – come descritto dalla corte – nei confronti del paziente. Tale conclusione è stata, invece, riformata nel 2017, quando la Superior Court di Washington stabilisce che tale dovere in capo al produttore sussista anche rispetto alla struttura ospedaliera che acquista il robot (vedi infra § 6)42. Per riassumere. Il dibattuto “responsability gap” in materia di robotica deriva dalle caratteristiche tecniche e funzionali della stessa, le quali sembrano minare la corrispondenza tra possibilità di controllo, capacità di evitare il danno e relativa imputazione della responsabilità43. Tra i rischi più evidenti emerge la potenziale tendenza a trasformare le azioni contro il chirurgo in azioni contro i produttori del macchinario. Il paziente potrebbe agire per responsabilità del professionista medico, e/o contro la struttura ospedaliera per aver deciso di impiegare il robot nell’operazione che lo ha interessato, e la stessa struttura potrebbe esperire un’azione di rivalsa contro il produttore per difetto del prodotto. I parametri della responsabilità oggettiva cui soggiace il produttore sarebbero, per loro natura, più favorevoli al paziente-attore. Sul piano della fattispecie, invece, emergono essenzialmente due profili problematici: (i) l’onere della prova della difettosità; e (ii) la responsabilità per mancate o inadeguate istruzioni del personale addetto all’uso del robot (duty to train). All’analisi di tali profili sono dedicati, rispettivamente, i paragrafi successivi.

Estate of Fred E. Taylor v. Intuitive Surgical Inc., 09-203136-5, Superior Court, State of Washington, Kitsap County (Port Orchard), deciso il 9.6.2014. 38

39

Per capire la ratio del parametro usato vedi infra 18.

Taylor v. Intuitive Surgical, Inc., Court of Appeals Cause No. 45052-6-II, 2015 WL 4093346 (Wash. Ct. App.), deciso il 7.7.2015. 40

Le corti hanno esteso l’applicabilità della c.d. learned intermediary rule, prevista dalla sec. 6 del Product Liability Restatement, anche ai dispositivi medici. In base a tale doctrine il dovere di avvertenze della casa farmaceutica è soddisfatto se quest’ultima comunica le informazioni allo specialista, piuttosto che al consumatore finale. Cfr. Piper v. Bear Med. Sys. Inc., 883 P. 2d 407, Ariz. Ct. All. 1993, il caso è relativo ad una valvola cardiaca. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al§ 6. 41

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Taylor v. Intuitive Surgical, Inc., Superior Court di Washington n. 92210-1, (Wash. Feb. 9, 2017). 42

Non manca chi, recentemente, ha osservato che non esiste un “responsibility gap”, poiché è sempre possibile identificare un soggetto che potrebbe essere ritenuto responsabile per i danni derivanti dalla produzione e dell’uso di macchine basate sui sistemi di intelligenza artificiale. Cfr. Bertolini, Study on Artificial Intelligence and Civil Liability, commissionato dal Policy Department C e richiesto dalla Commitee on Legal Affairs dello European Parliament, Brussels, 2020, pagina 33 del documento, disponibile all’indirizzo: www.europarl.europa.eu. 43


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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

4. La responsabilità da prodotto senza la prova del difetto: condizioni di operatività della malfunction theory Le azioni fondate sulla responsabilità da prodotto hanno, per lo più, impegnato i giudici nella risoluzione della responsabilità senza la prova del difetto. Partiamo da un dato di fatto: è difficile individuare la causa del malfunzionamento di un dispositivo sofisticato come quello robotico. Nella maggior parte dei casi, infatti, si può solamente presumere che esso derivi da un difetto. Di regola, per stabilire un’azione di tal tipo, l’attore deve provare il difetto, il nesso di causa tra difetto e danno, e la sussistenza del difetto al momento dell’approvazione ed immissione in commercio del prodotto. Tuttavia, in generale, la complessità della tecnologia sembra rendere la prova materiale del difetto una probatio diabolica. Si pensi, per esempio, alla difficile ricostruzione probatoria del difetto di progettazione o fabbricazione, data la catena dei soggetti che intervengono lungo la supply chain. Va, però, per inciso notato che i robot chirurgici ora in commercio sono in grado di registrare tutti i comandi ricevuti durante l’operazione e acquisire, quindi, i dati utili per la valutazione dei fatti occorsi. Tuttavia, tali informazioni non sono direttamente accessibili all’ospedale o al paziente, limitando così la possibilità di ottenere prove cruciali nelle azioni contro l’ospedale, il produttore o il chirurgo. È questo un profilo che meriterebbe di essere disciplinato affinché il paziente, il suo legale, e tutti i soggetti meglio in grado di analizzare l’accaduto, possano avere accesso sulla base di una semplice richiesta. In ogni caso, per le criticità descritte nel caso Silvestrini è chiaro l’intento del danneggiato di prendere le distanze dalle tradizionali teorie basate sulla prova del difetto del prodotto, per configurare la responsabilità del produttore pur in assenza di essa44.

Una situazione non nuova, poiché, nell’ordinamento americano, ciò avviene già nelle ipotesi di misreppresen44

Ciò significa che qualora l’attore non sia in grado di fornire tale prova diretta, in base alla teoria in esame, la prova del malfunzionamento del prodotto funge da prova del difetto dello stesso. Si tratta della c.d. malfunction doctrine, un corollario della res ipsa loquitur (Restatement Second of Torts § 328D), disciplinata dal § 3 del Thrid Restatement of Torts dedicato alla “Circumstantial evidence supporting inference of product defect”45. In generale, nonostante la storica avversione della giurisprudenza di molti stati all’applicazione della res ipsa loquitur nel campo della responsabilità da prodotto, negli ultimi 50 anni le corti hanno ammesso la prova per circostanze del malfunzionamento, a cui i danneggiati hanno fatto appello in maniera sempre più consistente. Tanto che ciò ha indotto parte della dottrina ad ammonire circa gli effetti potenzialmente “disastrosi” cui tale ammissione potrebbe condurre, apprezzando l’approccio restrittivo di alcune corti statali in materia46.

tation, civil conspiracy; e violazione della legge Racketeer Influenced and Corrupt Organizations (RICO) un’ipotesi di negligent marketing. Cfr. Owen, Products Liability Law, cit. Si tratta della prova per circostanze del difetto, Restatement (Third), Torts, Products Liability § 3, p. 111, 1998, (traduzione mia). Il testo originale recita quanto segue: «it may be inferred that the harm sustained by the plaintiff was caused by a product defect existing at the time of sale or distribution, without proof of a specific defect, when the incident that harmed the plaintiff: (a) was of a kind that ordinarily occurs as a result of product defect; and (b) was not, in the particular case, solely the result of causes other than product defect existing at the time of sale or distribution». 45

La stessa dottrina identifica la teoria del malfunzionamento anche con le espressioni di “indeterminate defect theory”, o “general defect theory”, o semplicemente “a principle of circumstantial evidence”. Cfr. D. Owen, Manufacturing defects, in 53 S.C. L. Rev. 851, 873, 2002; nello stesso senso Schwartz G.T., The passage of time: the implications for product liability: new products, old products, evolving law, retroactive law, in 58 N.Y.U.L.Rev. 796, 1983. Metro. Prop. & Cas. Ins. Co. v. Deere & Co., 302 Conn. 123, 135 (Conn. 2011). L’approccio restrittivo è adottato nelle decisioni Martin v. E-Z Mart Stores, Inc., 464 F.3d 827, 830-831 (8th Cir. 2006); e Harrison v. Cairns Pontiac of Marlow Heights, Inc., 77 Md. App. 41; 549 A.2d 385 (1988). La teoria conferma le attuali considerazioni circa l’espansione della responsabilità civile. Tra i numerosi scritti sul punto si ricorda, a titolo di esempio, Ponzanelli, L’imperialismo della responsabilità civile, in Danno e resp., 2016, 221. 46

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Le condizioni che legittimano l’operatività del meccanismo pro-attore in esame sono tre: l’indicazione che il malfunzionamento deriva, verosimilmente, da una delle tre tipologie di difetti esaminati (fabbricazione; progettazione; informazione); l’assenza del verificarsi di cause secondarie; e l’assenza di uso anomalo. In punto di cause concorrenti, le corti hanno chiarito il rapporto tra l’azione di risarcimento danni per malfunzionamento del dispositivo medico e l’azione di risarcimento per responsabilità professionale del medico47: nel caso Rogers v. Johnson & Johnson Products, ad esempio, un paziente aveva agito in giudizio per i danni subiti in seguito ad ustioni di secondo e terzo grado durante l’ingessatura di una gamba rotta48. Il danneggiato aveva allegato gli elementi necessari al fine di fondare, in via cumulativa, la responsabilità della struttura ospedaliera e del medico dipendente per negligenza nella preparazione dell’ingessatura e, la responsabilità oggettiva del produttore per difetto intrinseco, e malfunzionamento del materiale fornito per effettuare l’ingessatura. Il convenuto aveva eccepito l’improponibilità di entrambe le domande. La Superior Court di Pennsylvania aveva accolto le argomentazioni dell’ospedale, in base alle quali, qualora la corte determini che la prova fornita da parte attrice sia sufficiente per ravvisare responsabilità medica si deve, conseguentemen-

L’estensiva applicazione trasformerebbe i produttori in assicuratori, apprezzando così l’approccio restrittivo di alcune corti statali in materia. Simile questione è stata affrontata anche nell’ordinamento europeo, con la sentenza della Corte giust. EU, Grande sez., 21.12.2011, causa C-495/10, in Danno e resp., 2012, 957, con nota di Frata, Il danno da prodotto difettoso nelle prestazioni sanitarie: la corte di Giustizia e l’armonizzazione “totale”. La Corte era stata adita dal Conseil d’ètat il seguente quesito: se il regime francese di responsabilità oggettiva delle strutture ospedaliere poteva coesistere con la disciplina comunitaria in tema di responsabilità da prodotto difettoso. La decisione esclude fermamente che la responsabilità gravante sulla struttura ospedaliera, in quanto utilizzatrice del prodotto difettoso nell’ambito della prestazione di cure a favore del paziente, rientri tra gli aspetti disciplinati dalla direttiva 85/374/CEE sulla responsabilità del produttore. 47

Rogers v. Johnson & Johnson Products, Inc., Superior Court of Pennsylvania, No. 01037 Philadelphia 1986, (November 6, 1987). 48

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Osservatorio normativo e internazionale

te, escludere che l’attore stabilisca prima facie un caso di responsabilità in base alla malfunction theory. Qualora, dunque, sia provata la negligente prestazione medica, non è più possibile applicare la teoria del malfunzionamento, in quanto la condotta umana rappresenta una causa indipendente e sopravvenuta di danno, sufficiente ad escludere la configurabilità della responsabilità per malfunzionamento del prodotto49. In ogni caso, assumendo una prospettiva più generale sulla casistica in esame emerge che tale agevolazione probatoria potrebbe non soccorrere il paziente quando il malfunzionamento è del Da Vinci. In Mracek v. Bryn Mawr Hospital, per esempio, il fatto che il display avesse ripetutamente segnalato “error” è stato ritenuto dalla corte elemento insufficiente “to clearly see a product defect”50. Alcuni autori proprio con riferimento specifico all’impiego della malfunction theory nell’ambito della robotica chirurgica suggeriscono l’opportunità di adottare una versione “agevolata” della theory al fine di ritenerlo ancora uno strumento rispondente alle esigenze del progresso tecnologico alla luce delle ragioni di politica sociale che hanno storicamente influenzato la responsabilità del produttore, ovvero ammettendo che la prova per circostanze sia soddisfatta solo escludendo l’uso anomalo o irragionevole e senza richiedere che l’attore alleghi l’assenza di cause secondarie, sarà poi in capo al produttore, in base al meccanismo di inversione dell’onere della prova (burden shifting mechanism), il dovere di allegare la prova dell’esistenza di specifiche cause secondarie con un “totally of the circumstances approach”51.

Casenote: Products liability: alternative theories of strict liability “malfunction” and medical malpractice cannot be simultaneously considered by jury, in American Health Lawyers Association, Journal of Health Law, Vol. 21, No. 3, 1988. 49

Mracek v. Bryn Mawr Hosp. and Intuitive Surgical Inc., 363 F. App’x 925, cit. 50

C. Beglinger, A Broken Theory: The Malfunction Theory of Strict Products Liability and the Need for a New Doctrine in the Field of Surgical Robotics, 104 Minn. L. Rev., 1041, 2019. Sottolineano il pericolo che l’accettazione dell’operatività della malfunction theory nella versione originaria possa 51


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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

5. Duty to instruct e duty to train il personale medico: verso nuovi modelli di formazione? I casi più recenti hanno individuato una diversa origine dei problemi: non tanto il malfunzionamento in sé per sé, ma l’insufficiente esperienza del chirurgo nell’utilizzo della tecnologia dovuta ad un’inadeguata formazione professionale. L’acquisizione di nuove abilità e conoscenze tecniche rappresenta per il chirurgo una prerogativa essenziale per poter usufruire della strumentazione robotica. È nel caso Taylor che l’azione di parte attrice contro il produttore si fonda, per la prima volta, sul difetto di istruzioni e formazione impartite al chirurgo che ha utilizzato il robot e rivolta alla struttura ospedaliera che ha acquistato52. In questo modo, prendendo le distanze dal terreno della responsabilità professionale del personale sanitario, e da quello più tradizionale della responsabilità da prodotto difettoso, l’attore individua un profilo di responsabilità del produttore del tutto specifico della commercializzazione dei dispositivi medici più sofisticati: il dovere di istruire (duty to instruct) e di formare il personale medico (duty to train). A tal proposito, la questione fondamentale affrontata ampliamente dalla corte d’appello di Washington nel 201553, concerne l’individuazione dei soggetti destinatari di tali istruzioni e formazione pratica impartita dal produttore del robot chirurgico (vedi infra § 6 per le considerazioni sulla struttura sanitaria). Non vi è dubbio che il primo soggetto individuato sia il professionista medico. Date le circostanze concrete di utilizzo del prodotto il medico, con la sua expertise e conoscenza dello specifico caso

trasformare i produttori in assicuratori B.H. Raymond, L.H. Allen, Malfunction Theory as a Triple Threat for the Defence, 80 Def. Couns. J. 297, 2013. Taylor v. Intuitive Surgical, Inc., Court of Appeals Cause No. 45052-6-II, decisa il 7.7.2015; Silvestrini v. Intuitive Surgical, Inc. et al, deciso dalla Louisiana Eastern District Court il 6.2.2012. 52

53

Taylor v. Intuitive Surgical, Inc., cit., vedi nota 35.

clinico, funge da “intermediario erudita” (c.d. learned intermediary hand), perché meglio di chiunque altro riesce a capire, interpretare e trasferire le informazioni dal produttore al paziente che ha preso in carico. Si deve tener conto che, al di là delle informazioni rinvenibili dai siti web, i consumatori, generalmente, non conoscono le caratteristiche dei dispositivi medici, terapie, o trattamenti chirurgici, fintantoché non diventano pazienti54. Inoltre, diversamente dalla commercializzazione dei farmaci, per i quali informazioni ed istruzioni sono obbligatoriamente parte integrante del packaging, il package dei dispositivi, molto spesso non entra direttamente nella sfera di conoscibilità del paziente55. E proprio come accade ai consumatori, anche i medici hanno, dunque, una conoscenza più limitata della strumentazione medica rispetto ai farmaci. Per i dispositivi, poi, non esiste un equivalente del Physician Desk Reference diffuso per i farmaci56. I robot chirurgici sono tra i prodotti più pubblicizzati dai centri medici americani e dal personale medico che ne dispone. Si differenziano da altri dispositivi in quanto le probabilità che “fallisca-

La maggior parte dei dispositivi di classe II e III sono soggetti a prescrizione ed il loro label deve soddisfare quanto prescritto dall’Fda. In sintesi, le informazioni relative al robot chirurgico, rivolte al pubblico dei consumatori dovrebbero: contenere il nome esatto del dispositivo e una breve illustrazione degli usi appropriati, avvertenze e precauzioni sulla sicurezza, effetti avversi e controindicazioni all’impiego del dispositivo. Tra i requisiti, l’Agency prevede che siano incluse adeguate avvertenze circa l’uso appropriato del dispositivo. Entro questa tipologia, un gruppo più ristretto di dispositivi, ivi inclusi i robot chirurgici come quello in esame, sono soggetti ad ulteriori requisiti sulla vendita, l’utilizzo, la distribuzione e l’informazione, imposti dall’Fda, qualora sia competente. Se, come ricordato, in virtù dell’art. 510 il dispositivo è soggetto ad un procedimento di autorizzazione abbreviato, l’Fda, automaticamente, non sarà competente a riguardo. 54

Ciò succede soprattutto per quelli impiantabili e disponibili solo su prescrizione del medico. 55

Il Physician Desk Reference (PDR) utilizzato in America corrisponde al prontuario in uso anche alle nostre latitudini. È relativo solamente ai farmaci e indicativo dei principali utilizzi del farmaco, del principio attivo in esso contenuto e degli effetti. 56

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no” non dipendono solo dalle peculiarità intrinseche inizialmente descritte, ma anche dalle abilità di chi le utilizza, dalle caratteristiche del paziente, dall’eventuale insorgenza di “bugs” del sistema, e dalle attrezzature a disposizione presso la struttura sanitaria nella quale avviene l’impiego57. Le fasi di commercializzazione, pubblicità e assistenza post market finalizzate al corretto impiego del robot sono profili essenziali, funzionali a garantire la sicurezza del prodotto58. Eppure, nonostante l’indiscusso obbligo del produttore di trasmettere una corretta informazione e formazione pratica del chirurgo, il “quantum” relativo a tali istruzioni e le modalità dello stesso è ancora oggetto di dibattiti59. Ciò non stupisce se si pensa che, per molte applicazioni di robotica avanzata è tuttora in discussione la stessa determinazione di precisi standard di sicurezza che possano soddisfare i complessi scenari operazionali di cui i robot sono protagonisti60. Il problema della determinazione di contenuti informativi emerge nelle argomentazioni dei difensori delle parti e nelle opinions dei giudici del caso Taylor v. Intuitive Surgical Inc. Il difensore

57

Così Patsner, Device Law, cit.

Per una ricostruzione dell’evoluzione che ha interessato le fasi di progettazione, produzione/fabbricazione e commercializzazione dei prodotti si rinvia a Al Mureden, La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore, Torino, 2015, 5 ss. 58

Come ricorda Lars Noah, a differenza dei farmaci, i dispositivi sono «costruiti non scoperti». Noah L., The products liability restatement: was it a success? this is your product liability restatement on drugs, in 74 Brooklyn L. Rev. 839, 2009. Con specifico riferimento ai casi di malfunzionamento del robot Da Vinci, un settimanale giuridico riportava gli argomenti delle parti in causa nei vari giudizi pendenti. Tra questi, si sottolineava che i chirurghi ai quali vengono impartite le istruzioni per usare il Da Vinci conoscono già le tecniche laparoscopiche, pertanto sarebbe difficile determinare quante e quali istruzioni ulteriori sono necessarie per far loro raggiungere il pieno controllo del dispositivo. Cfr. Levy D.J., Robot conflict: product-liability suits over surgical device could lead to med-mal actions, in Michigan Lawyers Weekly, del 27 luglio 2012. 59

Sul tema della standardizzazione in robotica si rinvia a Virk G.S., The role of standardisation in the regulation of robotic technologies, in Palmerini, Stradella, The challenge of Regulation Tecnological Development, cit., 311 ss. 60

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Osservatorio normativo e internazionale

di Taylor argomentò che il convenuto erroneamente riteneva che il chirurgo fosse pronto per operare con il robot Da Vinci dopo aver effettuato soltanto due operazioni robotiche simulate sotto la guida di un supervisore e una giornata di formazione presso la sede del produttore. Tale iter formativo era quanto appariva come “best practices” nei documenti aziendali redatti – secondo quanto dichiarava l’avvocato di parte attrice – da un direttore che poteva vantare precedente esperienza lavorativa nel mondo dei vini, ma non in quello dei prodotti medici. La difesa del produttore-convenuto, invece, argomentò che il chirurgo non avrebbe dovuto intraprendere l’operazione in chirurgia robotica nel caso di specie, poiché si trattava di paziente obeso e già pluri-operato, condizioni queste ritenute, secondo le istruzioni impartite, preclusive della chirurgia robotica. La Corte d’Appello, accogliendo quest’ultima argomentazione, non ravvisava responsabilità del produttore per insufficiente formazione del chirurgo ritiene responsabile quest’ultimo per condotta negligente. Non si tratta, in altri termini, di responsabilità oggettiva, poiché i giudici osservano che nell’ambito dei prodotti medici, i rischi che poi effettivamente si reificano, dipendono dalle caratteristiche individuali del paziente oltre che dalle caratteristiche del dispositivo, così come valutate dal chirurgo qualificato. Si deve considerare che il produttore deferisce al chirurgo coinvolto tale giudizio poiché, necessariamente, deve avvenire caso per caso61. La consueta preparazione universitaria non permette ancora ai clinici di maturare una sufficiente esperienza in merito all’utilizzo di complicati robot chirurgici. Nelle facoltà di medicina, ai corsi di farmacologia accessibili fin dai primi anni di università, non corrisponde un altrettanto specifica formazione in materia di utilizzo di dispositivi e di tecnologie chirurgiche.

“...with medical products, the risks depend as much on the patient’s individual circumstances, as assessed by a qualified physician, as the qualities of the product itself” and the manufacturer defers to the doctor’s judgment”. Così le conclusioni di Taylor v. Intuitive Surgical Inc. 61


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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

Il dibattito pubblico relativo all’uso di dispositivi non tradizionali che sfruttano le potenzialità dell’intelligenza artificiale si focalizza sul tipo di formazione idonei, e si interroga sull’opportunità di introdurre nuove pratiche accanto a quelle tradizionali. Una lettura interdisciplinare del tema in esame offre importanti spunti su questo versante. Uno studio empirico biennale condotto su cinque strutture ospedaliere statunitensi dislocate in diversi stati mette in evidenza che i chirurghi più abili nell’uso del robot Da Vinci non hanno seguito una pratica standard ma si sono formati secondo il c.d. “shadow learning”, ovvero una serie di pratiche non in linea con quanto prescritto dalle norme e dalla tradizionale prassi medica. È pur vero che le modalità di intervento radicalmente diverse della chirurgia robotica limitano molto le possibilità di collaborazione degli specializzandi, rendendo inefficaci i metodi di formazione standard. Il shadow learning si fonda su tre pilastri: a) una specializzazione fin dall’inizio della carriera professionale in luogo di una preparazione più generale; una preparazione “teorica” quando invece, in generale, si richiede quella empirica (es. allenando le competenze di base attraverso una rudimentale simulazione al computer); la possibilità di esercitarsi con l’apparecchiatura robotica senza la guida di un supervisore. Si riporta in nota uno schema riassuntivo dei risultati raggiunti da tale studio62. Le conclusioni dello studio sembrano, per certi versi, provocatorie poiché sono in controtendenza rispetto alla tradizionale prassi di formazione del personale medico: la pratica medica di forma-

Si tratta dello schema proposto dallo stesso M. Beane, Shadow Learning: Bulding Robotic Surgical Skill When Approved Means Fall, in Adm. Sci. Quarterly, 64, 2019. 62

re i nuovi chirurghi con i metodi usati nella chirurgia tradizionale è inadeguata, come prospetta la letteratura corrente. In effetti, queste osservazioni empiriche fanno riflettere sul fatto che l’acquisizione di nuove abilità, è una naturale conseguenza del nuovo modo di lavorare che le tecnologie implicano. Il fatto che questo adattamento si verifichi a livello organizzativo, non è di per sé sufficiente a garantire la piena fruibilità ed il livello elevato di sicurezza di una nuova tecnologia. È necessario il passaggio ulteriore: per realizzare pienamente il progresso tecnologico, la comunità scientifica deve garantire l’adeguata preparazione di chi applicherà i risultati del progresso.

6. I doveri di formazione rispetto alla struttura ospedaliera Nel grado d’appello del caso Taylor v. Intuitive Surgical Inc si discute un ulteriore profilo degno di osservazione per le sue implicazioni giuridiche e di responsabilità sociale d’impresa: si tratta della valutazione della responsabilità del produttore per mancate e inadeguate istruzioni e formazione anche nei confronti della struttura ospedaliera contraente, ovvero il soggetto che acquista il robot nonché il luogo in cui avviene il suo impiego effettivo. I giudici d’appello interpretavano restrittivamente la ratio sottesa al WPLA, affermando che la learned intermediary doctrine non si applica al soggetto che paga il robot o lo possiede, ma solo a chi è in grado di valutare la storia clinica del paziente per esprimere un giudizio medico personalizzato, a seconda del caso affidatogli. Pertanto, in base al WPLA, il produttore adempie il suo dovere trasferendo avvertenze e curando la formazione dei soli learned intermediaries, ossia i medici. In sintonia con la dissenting opinion di uno dei tre giudici della corte d’appello63, tale interpre-

L’opinione dissenziente è del giudice Lisa R. Worswick la quale, considerando che l’ospedale ha acquistato il robot ed autorizzato il chirurgo ad utilizzarlo, sostiene che il produt63

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tazione pare fungere da scudo rispetto all’individuazione delle responsabilità del produttore, incoraggiandolo a non “diffondere” informazioni circa i profili di rischio dell’attrezzatura medica acquistata dalla struttura ospedaliera. Tale effetto, non solo sarebbe contrario alla ratio generale dei marketing duties, ma anche a quell’atteggiamento “proattivo” che il sistema americano costantemente richiede al produttore, intensificando tale obbligo quando si tratta di prodotti “unavoidable unsafe”, oppure quelli ottenuti con tecnologie avanzate, relativamente alle quali ancora non vi è una prassi medica consolidata64. La soluzione originariamente offerta non sembra, a maggior ragione, condivisibile considerato il fatto che solitamente il primo contatto del paziente non avviene, quasi mai, con il chirurgo ma con il personale della struttura, che pur non avendo, generalmente, familiarità con i meccanismi di utilizzo della chirurgia robotica, è destinatario dei numerosi interrogativi e dubbi dei pazienti65. Spesso, inoltre, la struttura ospedaliera pubblicizza l’impiego del robot chirurgico attraverso il suo sito web, attraendo così l’attenzione di numerosi potenziali pazienti in cerca di risposte circa i rischi ed i benefici di tale impiego. A questo proposito, un problema ricorrente che si palesa quando si promuovono informazioni ed avvertenze relative a nuovi dispositivi impiantabili concerne il livello di accuratezza delle stesse, poiché ancora non vi sono parametri predefiniti per individuare il contenuto. Le indicazioni più chiare riguardano solamente i dispositivi robotici impiantabili temporaneamente, o la disponibilità di tecniche laparoscopiche avanzate, quale conte-

tore abbia un dovere di formazione anche verso la struttura ospedaliera “because the physician does not stand between manufacturers and unwarned hospitals, the physician does not protect the unwarned hospital” ( Justice Worswick). Pertanto, in base a questa prospettiva, la learned intermediary doctrine non solleva l’impresa produttrice dal dovere di formare ed istruire gli ospedali che acquistano il prodotto. Il Second Restatement of Torts § 402A cmts. i, k (1965) riconosce l’esistenza di prodotti che non possono essere ritenuti sicuri, neppure quando utilizzati per il normale uso cui sono destinati. 64

65

Patsner, Device Law, cit.

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Osservatorio normativo e internazionale

nuto fondamentale nella pubblicizzazione di programmi avanzati di chirurgia oncologica, ginecologica, urologica e cardiologica, principali ambiti di profitto per ospedali, centri medici specializzati e gruppi di chirurghi. In questi contesti, le applicazioni robotiche sono pubblicizzate da più di un quinquennio. I dati relativi alle prassi commerciali non sono incoraggianti ed evidenziano che il canale informativo principale per promuovere l’uso del robot chirurgico è quello telematico. Uno studio presentato nel 2012 al congresso americano della Society of Gynecologic Oncology, ad esempio, analizza i contenuti, la qualità e l’accuratezza delle informazioni circa l’uso della chirurgia robotica in ginecologia rinvenibile nel sito web di prestigiose strutture ospedaliere66. I risultati dell’indagine hanno indicato che solo in un numero inferiore al 15% dei casi, le affermazioni relative alla “superiorità” del robot chirurgico rispetto alle tecniche tradizionali erano supportate da dati scientifici. Informazioni relative ai costi, alle complicazioni e ai tempi di intervento rispetto alla chirurgia convenzionale sono risultate rare. Lo studio, pertanto concludeva che le informazioni diffuse via web dalle strutture ospedaliere circa la disponibilità e l’impiego di robot chirurgico non erano in linea con quanto richiesto dall’Fda e non presentavano adeguatamente le procedure alternative ed i profili di sicurezza relativi alle tecniche. Il problema che si configura nel caso Taylor con riguardo alla mancata formazione della struttura ospedaliera riguarderebbe, in realtà, un profilo specifico inerente ai difetti che affliggono la fase di marketing del prodotto. Il difetto inciderebbe, dunque, sull’utilizzo sicuro ed efficace del prodotto e sull’adeguatezza sia delle avvertenze, che delle istruzioni relative al prodotto. Diventa essenziale, dunque, capire se istruzioni e avvertenze diffuse dal produttore possano consi-

66 Si tratta dello studio proposto da M.B. Schiavone et al., The commercialization of robot surgery: unsubstantiated marketing of gynecologic surgery by hospitals, in 207 Am. Obstetrics & Gynecology 174, 2012. Il paper analizza i siti web degli ospedali di New York, Pennsylvania, Georgia, Illinois, Colorado e California.


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derarsi sufficientemente adeguate. A tal fine, sono molteplici i parametri di giudizio finora sperimentati. Il più diffuso è l’analisi rischi-benefici. Molte corti affermano che l’analisi dei difetti di fabbricazione e quelli inerenti alla fase di marketing deve avvenire sulla base della valutazione dei rischi e delle tecniche utilizzate per evitarli, tra quelle che ci si possono legittimamente attendere al momento della distribuzione67. Una parte della dottrina sottolinea, invece, la necessità di un giudizio controfattuale, dal quale dedurre che l’informazione, o istruzione tecnica omessa fosse proprio quella necessaria ad evitare il danno occorso68. Tuttavia, questo criterio di giudizio rischierebbe di invalidare l’analisi rischio-beneficio, dal momento che in tutti i casi l’ulteriore istruzione d’uso (quella mancante) potrebbe apparire meno costosa rispetto alla verifica del grado di prevedibilità del rischio reificatosi. Tutte queste contraddizioni sembrano essere state recepite dalla Supreme Court di Washington nell’ultimo grado di giudizio del caso Taylor v. Intuitive Surgical del 2017, riformando la decisione della Corte d’Appello, e includendo la struttura ospedaliera che acquista il robot69. In pratica,

Molte corti affermano che per avere un sistema di valutazione efficiente e corretto della responsabilità sia necessario bilanciare i rischi ed i benefici. Cfr. Ruiz-Guzman v. Amvac Chem. Corp., 7 P.3d 795, 807. Sul tema si veda in dottrina E.M.Z., Risk utility analysis of unavoidably unsafe products, in 17 Seton Hall L. Rev. 623, 641 (1987).

le strutture ospedaliere devono garantire che il personale medico sia adeguatamente preparato, nonché gli adeguati standard di sicurezza per i pazienti, sebbene non vi sia un rapporto diretto con gli stessi70. Soprattutto con riferimento a prodotti estremamente complessi pare necessario garantire che anche la stessa struttura ospedaliera sia destinataria delle istruzioni fornite dal produttore, anche in virtù del duty of care che essi hanno nei confronti dei loro pazienti data la «public’s perception of the modern hospital as a multifaceted health care facility responsible for the quality of medical care and treatment»71. I giudici di Washington sottolineano che il personale della struttura sanitaria è direttamente coinvolto nella formazione dei chirurghi che impiegano il robot. La struttura sanitaria semplicemente non può mantenere gli elevati standard di sicurezza previsti per legge qualora i produttori siano esentati dal dovere in parola rispetto la stessa struttura. Disporre di adeguate informazioni circa i rischi del sistema Da Vinci è necessario per porre in essere un processo di formazione più severo.

7. Le nuove sembianze della responsabilità del produttore di robot: spunti dalla riflessione europea

67

Cantù C.E., Distinguishing the concept of strict liability for ultra-hazardous activities from strict products liability under section 402A of the Restatement (Second) of Torts: two parallel lines of reasoning that should never meet, in 35 Akron L. Rev. 1, 2001. 68

Taylor v. Intuitive Surgical, Inc., Superior Court di Washington n. 92210-1, Wash. Feb. 9, 2017. Nella decisione si legge: «The WPLA does not specify who should receive these warnings. However, it states that “[a] product is not reasonably safe because adequate warnings or instructions were not provided with the product ... “!. On one hand, the statute discusses inadequate warnings owed “with the product” for products where at the time of manufacture, there was a likelihood the product would cause the plaintiffs harm. !d. On the other hand, it discusses that warnings provided after the product was manufactured be given to “product users.” Id. at (l)(c). Since the product is owned and maintained by the purchasing hospital, it follows from the text of the statute that the purchaser is owed product warnings with the product it 69

Prima di avviarci alle conclusioni, pare utile volgere lo sguardo al contesto europeo per trarne qualche utile spunto di riflessione sugli sviluppi futuri della materia con una più ampia prospettiva. Al di là delle note divergenze tra i sistemi giuridici, culturali e di policy che caratterizzano i due contesti, la presente riflessione è anche volta ad individuare quali questioni giuridiche sono identificate come problemi comuni ad ambo le latitudini e se le soluzioni prospettate vanno nella direzione di creare un panorama omogeneo al

purchases”» (p. 12 del documento). Howell v. Spokane & Inland Empire Blood Bank, 114 Wn.2d 42, 55, 785 P.2d 815 (1990). 70

Pedroza v. Bryant, 101 Wn.2d 226, 232-33, 677 P.2d 166 (1984). 71

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fine di affrontare le sfide ormai globali di mercati contigui72. A tal fine, dalla lettura dei più recenti documenti europei emergono alcune considerazioni che, almeno in parte, richiamano per analogia i problemi affrontati nella casistica americana. Dal confronto si può così ricavarne qualche indicazione in prospettiva futura73. A livello europeo, il fulcro delle considerazioni ruota intorno ai problemi di responsabilità civile dell’intelligenza artificiale e presuppone, principalmente, il riferimento a due corpi di legislazione coordinati: quello della responsabilità da prodotto e quello della sicurezza dei prodotti. La necessità di ripensare la disciplina della sicurezza dei prodotti deriva, innanzitutto dalla caratteristica citata in apertura del presente scritto e ben analizzata dall’aumento della complessità74, sia intrinseca al sistema (opacità, etc.), sia “esterna”, ovvero in dipendenza degli effetti dell’interazione dell’applicazione tecnologica con il contesto digitale nel quale si trova l’utilizzatore. In particolare, per i profili qui di maggior interesse, è utile dar conto che la Direttiva sulla responsabilità da prodotto difettoso 85/374/EEC (d’ora

Così anche Frattari, Robotica e responsabilità da algoritmo. Il processo di produzione dell’intelligenza artificiale, in Contratto e impr., 2020, I, 458. 72

Tutti i documenti di interesse sono utilmente raggruppati sul sito dell’European Union Agency for Fundamental Rights, consultabile all’indirizzo: fra.europa.eu. 73

Il Gruppo di esperti osserva che: «modern-day hardware can be a composite of multiple parts whose interaction requires a high degree of technical sophistication. Combining it with an increasing percentage of digital components, including AI, makes such technology even more complex and shifts it far away from the archetypes of potentially harmful sources on which the existing rules of liability are based. Where, for example, an AV interacts with other AVs, a connected road infrastructure and various cloud services, it may be increasingly difficult to find out where a problem has its source and what ultimately caused an accident. The plurality of actors in digital ecosystems makes it increasingly difficult to find out who might be liable for the damage caused. Another dimension of this complexity is the internal complexity of the algorithms involved». Expert Group on Liability and New Technologies – New Technology Formation, Report on Liability for Artificial Intelligence and other emerging digital technologies, 2019 (pagine 32 s. del documento).

Osservatorio normativo e internazionale

in poi: Direttiva) soggetta a periodica revisione è stata ritenuta, nell’ultima valutazione ufficiale, nel suo complesso ancora adeguata, ma che tuttavia ha bisogno di essere adeguata alle questioni più critiche conseguenti all’introduzione di prodotti emergenti. Proprio a tal proposito, la Commissione europea ha incaricato due gruppi di esperti – uno finalizzato alla revisione della Direttiva, e l’altro allo studio delle questioni di responsabilità poste dalle tecnologie emergenti75 – per valutare se la Direttiva e tutto il sistema di regole di responsabilità applicabile ai prodotti tradizionali è applicabile anche alle nuove tecnologie al fine di sviluppare delle linee guida per indicare i possibili adattamenti. Nel documento di sintesi del 2019, l’expert group constata che gli attuali regimi di responsabilità nazionali, contrattuali e non, assicurano solo un livello minimo di protezione nelle fattispecie relative alle nuove tecnologie; alcune caratteristiche delle tecnologie emergenti, inoltre, rendono difficoltosa la posizione probatoria del danneggiato. Più in dettaglio, il gruppo prospetta l’utilità di espandere la nozione di prodotto76; alleggerire l’onere della prova a livello nazionale; escludere l’operatività della scusante del rischio da sviluppo. È qui il caso di focalizzarsi su uno di questi aspetti, emerso anche dall’analisi della casistica statunitense: la prova della difettosità. Soprattutto con riferimento al difetto di progettazione, il mancato o inadeguato design è il difetto-tipo che si va delineando per prodotti hi-tech77: la maggior parte dei

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Expert Group on Liability and New Technologies – New Technology Formation, Report on Liability for Artificial Intelligence and other emerging digital technologies, 2019. 75

Un software il cui funzionamento causa un danno, per esempio, potrebbe non essere considerato un prodotto, quanto piuttosto un servizio e ciò, pertanto, escluderebbe l’applicabilità della Direttiva. Le più attuali ricerche giuridiche hanno, infatti, iniziato a chiedersi se la nozione di difettosità possa essere applicata all’algoritmo in sé e per sé. In pratica ci si chiede se sia opportuno individuare quale oggetto di imputazione del malfunzionamento il prodotto che incorpora l’IA nella sua fisicità, ovvero gli algoritmi che generano la decisione da cui discende l’azione materiale del prodotto. 76

77

Si concorda con Bertolini, Robot as Products: the Case for


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difetti di design dell’algoritmo dà luogo al malfunzionamento del computer e mette in discussione i criteri di valutazione applicati sia in Europa che oltreoceano78. Il software di guida automatizzato, per esempio, potrebbe causare un’accelerazione maggiore rispetto a quella normale, o il veicolo potrebbe non fermarsi con il semaforo rosso. E nell’ambito che qui interessa si pensi al fatto che il paziente potrebbe allegare la prova del difetto di progettazione del da Vinci affermando che il modo in cui furono progettate le punte chirurgiche crea un aumento del rischio di bruciature. Nell’ordinamento statunitense, in base al Thrid Restatement of Torts § 2 (comment f) del 1998, la valutazione del difetto del progetto del prodotto avviene attraverso la comparazione con quello che sarebbe stato il reasonable alternative design (RAD): un parametro di confronto ideale, verosimilmente disponibile a costi analoghi a quello oggetto di malfunzionamento, in base al quale si stabilisce la responsabilità del progettista per il difetto del prodotto reale qualora risulti che i rischi

a Realistic Analysis of Robotic Applications and Liability Rules, in Law, Innovation and Technology, vol. 5, 2013, 214-247 spec. 239. Pur non essendo possibile una nitida comparazione in materia per la diversità strutturale dei due sistemi – europeo e americano – emerge chiaramente che la disciplina europea è stata influenzata dal modello statunitense: è analogo il riferimento al difetto del prodotto come nucleo centrale della responsabilità; così come emergono le analogie nelle soluzioni operazionali in punto di prodotto conforme agli standard. È pur vero che tali modelli divergono sotto profili importanti sia nell’architettura della difettosità, che con riguardo al relativo onere della prova. Il Third Restatement classifica i difetti in tre categorie ben distinte, con oneri probatori eterogenei a seconda del tipo di difetto. Si tratta di una soluzione che non è presente nel testo della direttiva europea e che, sebbene adottata talvolta dalla nostra giurisprudenza, non ha comportato differenziazione dell’onere probatorio. Nella prospettiva di alleggerire le incombenze probatorie a carico dei consumatori danneggiati emergono poi altre significative differenze: solo il Restatement prevede che il danneggiato possa prescindere dalla prova del difetto, quando specifiche “circostanze”, tra le quali l’esclusione di altre cause possibili del danno, permettano al giudice di presumere l’esistenza di un difetto. La prova circostanziale assume particolare importanza rispetto ai problemi prospettati dal malfunzionamento dell’algoritmo, laddove una serie di presunzioni permetterebbero di dedurre il difetto dal danno, in assenza di cause diverse cui ricondurre il danno in questione.

potessero essere evitati, progettando diversamente il prodotto79. Tuttavia, il criterio del RAD si palesa sempre più indeterminato nel contesto delle tecnologie innovative80. È ancora una volta il riferimento alla “ragionevolezza” che sembrerebbe non essere più adeguato81. Nel contesto americano, l’attore avrebbe bisogno di un esperto altamente specializzato per capire come l’algoritmo alternativo potrebbe essere stato “scritto” (programmato), in modo maggiormente sicuro, e pertanto idoneo a prevenire l’incidente. Ed in ogni caso, per la complessità della procedura, i costi e le difficoltà di trovare tale esperto, questo tipo di operazione spesso non è perseguibile. In questa circostanza, è difficile per il fabbricante valutare le probabilità dell’accadimento dannoso e quando esso sia la risultante di un’azione eseguita dalla macchina, in virtù, per esempio, del processo di autoapprendimento (machine learning)82. Ciò implicherebbe il monitoraggio di quello che produttori e programmatori stanno codificando. Non è un’operazione semplice, poiché, come osserva Frank Pasquale – nel libro the black box society – molte architetture dei sistemi digitali sono

78

Cfr. Restatement Third § 2 (comment f) del 1998: “product is defective in design if the reasonable risks of harm could have been reduced by a reasonable alternative design”. 79

Cfr. S. Chopra, L.F. White, A Legal Theory for Autonomous Artificial Agents, 2011, 139; e Davola R., A model for Tort Liability in a World of Driverless Cars: Establishing a Framework for the Upcoming Technology, Idaho Law Review, vol. 54, iss. 1, 2018, disponibile all’indirizzo: www.ssrn.com, o dx.doi. org/10.2139/ssrn.3120679. 80

In quella che è stata efficacemente definita «Black Box Society» (Pasquale F.,The Black Box Society. The secret Algorithms That Control Money and Information, Cambridge-London, 2015, 3), la trasparenza dei processi che porta all’acquisizione e all’elaborazione delle informazioni relative alle operazioni algoritmiche del software incorporato nel prodotto è una questione centrale nella valutazione della difettosità. Per una più ampia prospettiva si rinvia a Pellecchia, Profilazione e decisioni automatizzate al tempo della black box society: qualità dei dati e leggibilità dell’algoritmo nella cornice della responsible research and innovation, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1209. 81

Balkin, Austin, Distinguished Lecture on Big Data Law and Policy, cit. 82

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velate da segretezza assoluta: è impossibile capire che cosa succeda nella scatola nera dell’algoritmo83. Per garantire il monitoraggio, i legislatori dovrebbero allora stabilire delle regole e delle linee-guida per la programmazione e le loro interazioni84. Pare assumere, invece, un’importanza centrale la natura statistica del “discostamento” del funzionamento concreto dei prodotti basati su algoritmi rispetto al funzionamento mediamente atteso. Si tratta di un passaggio che merita attenzione poiché, attualmente, è prospettato solo da alcuni studi pionieristici in materia, i quali così, efficacemente, argomentano85: comparare il risultato finale di due algoritmi presenti nel mercato per dedurne la difettosità di uno è probabilmente la via più ovvia, certamente quella che detterebbe la tradizione giuridica americana. Tuttavia, il metodo non è convincente, poiché due algoritmi progettati per eseguire lo stesso compito potrebbero funzionare secondo un diverso processo matematico, e affrontare la stessa situazione in modi diversi. In altri termini, un criterio di valutazione di un algoritmo va ricercato nel valore medio del loro risultato, tenendo conto che se un algoritmo funziona in modo più efficiente di un altro, ciò non significa “tout court” che il secondo sia difettoso: lo standard di difettosità, pertanto, non può essere quello del ‘not as good as the best algorithm on the market’. Alla luce di queste considerazioni, un criterio di cui sembrerebbe indispensabile che la Commissione tenesse conto nel rivedere il concetto di difettosità potrebbe essere quello statistico, identificando quale riferimento un valore “soglia” dell’efficienza (X%) al di sotto della quale considerare l’algoritmo malfunzionante, ergo difettoso.

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Il riesame delle tipologie dei difetti e dei criteri necessari per la valutazione dei nuovi prodotti si profila un’esigenza principale nel quadro della revisione della Direttiva, al fine di predisporre un sistema efficace, coerente e “tecnologicamente neutro” per prevenire gli incidenti nella misura del possibile.

8. Conclusioni Dall’esame della casistica statunitense in materia di chirurgia robotica, risolta per lo più in via stragiudiziale86, emergono i molti profili critici che l’ordinamento giuridico deve affrontare per mantenere l’innovazione “responsabile” e la fiducia di fornitori, pazienti, consumatori e investitori87. Anche in un ordinamento come quello statunitense, tradizionalmente basato su un consolidato modello culturale che incentiva il comportamento proattivo del produttore, ed in uno basato su ampie definizioni e varietà di interpretazioni giurisprudenziali come il nostro, la complessità delle applicazioni di robotica chirurgica presenta diverse questioni che impattano sulla responsabilità del produttore. Sinteticamente, le questioni che si prospettano sono le seguenti. Emerge, in prim’ordine, l’impatto sugli elementi strutturali della fattispecie di responsabilità da prodotto. La nozione della difettosità e la prova della stessa sono un esempio. L’orientamento dominante che emerge dalla casistica statunitense e dai report di studio del gruppo di esperti nominati dalla Commissione europea sembra propenso a mitigare l’onere della prova richiesto per danni causati da applicazioni robotiche.

F. Pasquale, Toward a Fourth Law of Robotics: Preserving Attribution, Responsibility, and Explainability in an Algorithmic Society, in Ohio St. L.J., 78, 2017, 1243.

Il dato è riportato anche nel più recente caso Zarick v. Intuitive Surgical Inc, cit. Le cronache danno atto che al momento sono circa 86 i processi pendenti di fronte alle corti federali e statali americane. Il produttore ha dichiarato di aver già intrapreso la via della risoluzione stragiudiziale con accordi confidenziali in molti dei suddetti casi. Si rinvia all’indirizzo: www.law360.com.

J.S. Borghetti, How can Artificial Intelligence be Defective?, in S. Lohsse, R. Schulze, D. Staudenmayer, Liability for Artificial Intelligence and the Internet of Things, Münster Colloquia on EU Law and the Digital Economy IV, Hart Publishing, Nomos, 2019, 63 ss.

87 L’implementazione di una responsible research and innovation agenda è un’azione chiave del programma europeo Horizon 2020. Si rinvia all’indirizzo: ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/h2020-section/responsible-research-innovation.

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F. Pasquale, The black box society, cit.

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Responsabilità del produttore di robot chirurgico

La nozione stessa di prodotto. In prospettiva futura, le versioni più avanzate della robotica chirurgica renderanno critica la netta distinzione tra prodotto, sistema, servizio e prestazione, laddove i sistemi avanzati di IA lasciano interagire i prodotti ed i servizi, ed è impossibile una netta separazione. La grande differenza tra i sistemi di chirurgia robotica permette di delineare in che modo può evolvere il concetto stesso di sicurezza. Mentre, infatti, con riferimento al Da Vinci, non vi è dubbio che si tratti di sicurezza da prodotto tradizionalmente intesa, qualche dubbio sorgerà considerando il c.d. assistente robotico, il quale sarà in grado di eseguire alcuni tasks dell’operazione chirurgica in maniera autonoma. L’aumento delle abilità dei robot e l’intensificarsi della loro interazione con l’essere umano fanno si che, sempre più spesso, si identifichi nel robot una prestazione (non a caso si parla di “assistente” robotico), e non più un semplice prodotto. In quest’ultima ipotesi, pare verosimile il cambiamento delle modalità di interazione tra robot-uomo e robot-ambiente, si pensi ai dati che l’applicazione robotica sarà in grado di carpire dalla fase di perception dell’ambiente operatorio e dalla voce del chirurgo principale. Così, anche il concetto di sicurezza evolve: l’obbligo di garantirla non si limita al prodotto, ma si estende all’interazione tra uomo e robot. Capire i confini tra un prodotto ed un servizio, implica la comprensione della natura più profonda di un artefatto non umano che, nelle ipotesi più avanzate, dovrebbe agire secondo il rispetto di un codice etico88. Non sembra inverosimile, nemmeno la prospettiva di poter configurare un’équipe mista, formata da chirurghi e assistenti robotici. Anche gli interrogativi sollevati in merito all’inadeguatezza delle modalità tradizionali di formazione del personale, riflettono alcuni dei cambiamenti necessari, essendo il profilo informativo parte in-

tegrante del sistema che garantisce il livello adeguato di sicurezza. Si prospetta, inoltre, l’ampliarsi del novero di soggetti responsabili per il corretto funzionamento del robot che richiede al giurista di identificare i compiti di ciascun soggetto. Per esempio, il produttore mantiene il dovere di aggiornamento e controllo del prodotto dopo l’entrata in commercio, tuttavia tale dovere potrebbe non essere più di sua competenza esclusiva, laddove l’uso dei dati sia controllato da terzi o dipenda da processi automatizzati di autoapprendimento. Questo ridimensiona il ruolo del produttore quando una moltitudine di attori è coinvolta nella progettazione, nel funzionamento e nell’uso di prodotti o sistemi di AI, ovvero richieda di allargare ad altri soggetti la nozione di produttore stesso89. Si pensi al provider che fornisce il servizio di telecomunicazione nella struttura in cui si opera, dato che un’eventuale interruzione del servizio influirebbe sull’esito dell’operazione90. La pluralità di soggetti richiede al giurista l’esatta identificazione dei compiti di ciascun soggetto e delle loro conseguenze. Per la diversità delle competenze in gioco è logico pensare che il giurista necessiti del supporto di vari esperti per capire esattamente i confini dei ruoli degli attori coinvolti. Ciò richiede approcci di analisi nuovi ed interdisciplinari al tema. Per concludere. Da quanto si è analizzato e prospettato, le tecniche correnti con le quali l’ordinamento americano bilancia potenziali profili di rischi connessi alla tecnologica con la necessaria promozione dell’innovazione non sembrano altrettanto efficaci nell’ambito della responsabilità

Eu Commission, Report from the Expert Group on Liability and New Technologies, cit., Bruxelles, 2019. 89

Sebbene non vi siano ancora casi che coinvolgono questi ultimi, essi sono comunque interessanti, poiché l’adeguatezza del collegamento telematico è una componente necessaria delle operazioni cyber chirurgiche, in particolare di quelle del secondo tipo menzionate nel paragrafo introduttivo (quelle che permettono l’intervento di un chirurgo da remoto e addirittura non presente nella sala operatoria). Per un’analisi del profilo si rinvia a McLean T., The complexity of litigation associated with robotic surgery and cybersurgery, in 3 Int. J. Med. Robotics Comput Assist Surg., 2007, 23-29. 90

Per una riflessione sulla necessità di integrare la riflessione etica con quella giuridica, sottoponendo anche “quella parte del codice” al processo di standardizzazione si rinvia a Guerra, La sicurezza degli artefatti robotici in prospettiva comparatistica. Dal cambiamento tecnologico all’adattamento giuridico, Bologna, 2018, 104 spec. 142. 88

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da robot chirurgico. Nell’immaginare le linee di sviluppo dell’adeguamento delle regole in materia si conferma la necessità di evitare l’approccio unitario alla regolamentazione delle tecnologie basate sull’intelligenza artificiale anche con rispetto al tema della responsabilità, in favore di un sistema di allocazione della responsabilità risk-based non fondato sul principio della neutralità tecnologica. Tale sistema permetterebbe, in ultima analisi, di allocare la responsabilità sul soggetto che si trova nella miglior posizione per identificare il rischio, poiché le proprie scelte imprenditoriali controllano e minimizzano lo stesso; nonché in grado di avvalersi di sistemi assicurativi, i quali distribuisco il rischio sugli altri soggetti che intervengono nella catena produttiva e collegati al suo operato.

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