Responsabilità Medica 4/2019

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Ottobre-Dicembre 2019

Diritto e pratica clinica 4 RESPONSABILITÀ MEDICA

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ISSN 2532-7607

RESPONSABILITÀ MEDICA

Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Consensi e colpe dei pazienti incapaci, di Luciano Olivero Autodeterminazione terapeutica e risarcimento del danno, di Patrizia Ziviz L’aiuto medico a morire dopo la sentenza sul caso Cappato, di Lucia Busatta e Nereo Zamperetti Robotica e intelligenza artificiale: profili di r.c. in campo sanitario, di Valentina Di Gregorio L’accertamento medico-legale delle preesistenze di malattia, di Barbara Bonvicini, Selene Rigato, Lorenzo Menozzi, Massimo Montisci

Ottobre-Dicembre 2019 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella

Pacini


INDICE Saggi e pareri Luciano Olivero, Consensi e colpe dei pazienti incapaci..............................................................pag. 407 Patrizia Ziviz, Autodeterminazione terapeutica e risarcimento del danno....................................» 423 Valentina Di Gregorio, Robotica e intelligenza artificiale: profili di r.c. in campo sanitario........» 433 Italo Partenza, L’efficacia temporale della assicurazione di r.c.: una questione irrisolta..............» 447 Matteo Turci, L’azione diretta del soggetto danneggiato nel quadro della nuova responsabilità sanitaria.............................................................................................................................................» 455

Giurisprudenza Trib. Milano, 14 maggio 2019, con nota di commento di Claudio Scognamiglio, Un’intelligente applicazione della modalità risarcitoria prevista dall’art. 2057 c.c......................» 471 Corte dei Conti, sez. Giur. Lombardia, 7 ottobre 2019, n. 245, con nota di commento di Maria Grazia Peluso, Mancata riscossione di ticket c.d. bianchi e carenze gestionali. Un caso al vaglio della Corte dei Conti...............................................................................................................» 475

Dialogo medico-giuristi

Lucia Busatta e Nereo Zamperetti, L’aiuto medico a morire dopo la sentenza sul caso Cappato....» 483

Osservatorio medico-legale Anna Aprile e Matteo Bolcato, Il contributo medico-legale nell’accertamento del danno catastrofale........................................................................................................................................» 489 Barbara Bonvicini, Selene Rigato, Lorenzo Menozzi, Massimo Montisci, L’accertamento medicolegale delle preesistenze di malattia o menomazione alla luce della recente giurisprudenza......» 493



i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Consensi e colpe dei pazienti p incapaci Luciano Olivero

Professore nell’Università di Torino Sommario: 1. Ospedale e contratto. – 1.1. Ricadute dell’approccio contrattuale. – 2. Incapacità e ospedalità. – 2.1. Vigilanza sull’incapace e concorso nel danno. – 3. Limitazioni di capacità e sovrapposizione di consensi. – 3.1. Entourage del malato e rappresentanza. – 4. Osservazioni e proposte conclusive.

Abstract:

As the title suggests, this paper analyzes two questions concerning patients who lack mental capacity and are unable to make competent decisions for themselves. The first one regards the problem of contributory negligence of the incapable person, when the patient is hospitalized for medical treatment. The second one concerns the role of family members when the person is de facto unable to give informed consent, in the absence of living will made by the patient and in the absence of legal representative.

Come suggerisce il titolo, l’articolo indaga due questioni concernenti i pazienti naturalisticamente incapaci di assumere decisioni autonome nel proprio interesse. Il primo problema concerne il concorso colposo del danneggiato nella causazione del danno nel particolare contesto in cui a ledersi sia un incapace ricoverato in una struttura ospedaliera. Il secondo riguarda il ruolo dei familiari quando il paziente è di fatto incapace di rendere il consenso informato e non si può fare assegnamento su disposizioni anticipate di trattamento o su rappresentanti legali.

1. Ospedale e contratto Vi fu un tempo lontano in cui l’ospedale era «l’asilo gratuito» per frotte di poveri e malati in cerca di una zuppa o di un unguento: «pauperes e infirmi»1, ma anzitutto pauperes, a cui per forza

o per carità sarebbe stato improprio chiedere un compenso e ancor più assurdo parlare di contratto2. È noto invece che per l’opinione corrente i rapporti con l’ente s’inquadrano proprio in un contratto di “spedalità” che si instaurerebbe per facta concludentia3 con l’accettazione in struttura e il

Parallelamente è nota la ritrosia che si è a lungo opposta a considerare contratto quello col medico, per non svilirne la figura e la scienza: non per nulla – si fa notare – il suo compenso era una sorta di offerta ad honorem (da cui il termine onorario): Paradiso, La responsabilità medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, 334. Lo ricorda anche Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie, Ospedaletto (Pisa), 2018, 27, nt. 4. 2

Così Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari, 2010, 50 s., da cui è tratto anche il primo virgolettato. Nell’etica del medioevo cristiano – scrive Cosmacini – «gli ospedali erano spazi caritativo-assistenziali aperti a chiunque si trovasse nel bisogno […] senza distinzione tra esigenza sanitaria e indigenza economica». L’hospitale era insomma il ricovero compassionevole in cui trovare, se non la guarigione, almeno il conforto della carità.

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Così ex multis, Trib. Milano, 13.6.2019, in DeJure. Ana-

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cui oggetto s’allarga4 dalle cure mediche all’attività paralberghiera (ospedale, in fondo, vuol dire ospitare); il tutto erogato «a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente)»5. Nella definizione che ha preso a farsi seriale, il contratto – atipico6 – appare dunque «a prestazione corrispettive con effetti protettivi». In particolare, tra gli obblighi complementari ed anzi coessenziali della struttura vi sarebbero «la vigilanza ed il controllo dell’ospite, al fine di salvaguardare la sua incolumità, dovendo in difetto rispondere del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1218 c.c.»7. Tale ultimo accenno non fa mistero che la contrattualità del rapporto paziente-istituto apre la via (che non sarebbe l’unica, ma è la maestra) verso la responsabilità da inesatto adempimento8. E responsabilità da inadempimento significa termini prescrizionali intonsi (decennali). Ma soprattutto significa una distribuzione degli oneri di prova

logamente, Trib. S.M. Capua Vetere, 4.5.2018, Trib. Salerno, 3.8.2017, Trib. Arezzo, 23.7.2018, ibidem. Sul contratto di spedalità tra i precedenti di legittimità v. Cass., sez. un., 1°.7.2002, n. 9556, Cass., 13.4.2007, n. 8826 e Cass., sez. un., 11.1.2008, nn. 576 e 577, e Cass., 3.2.2012, n. 1620, Cass., 19.10.2015, n. 21090 e Cass., 8.3.2016, n. 4540, ibidem; da ultimo Cass., 29.1.2018, n. 2060, consultabile all’indirizzo: www.aiop.it con breve nota di De Marco. Per un riferimento ai «contratti» di assistenza sanitaria forniti o meno attraverso strutture ospedaliere v. ad es. l’art. 47, comma 1°, lett. b) c. consumo. Il carattere composito dell’obbligazione dell’ente, inclusiva di prestazioni diverse, anche alberghiere, «non separabili, per modalità e scopi, dai profili assistenziali e sanitari», risulta ben focalizzato dalla dottrina che ha saputo, con le sue critiche, distogliere la giurisprudenza dal riduttivo appiattimento del contratto di assistenza sanitaria sul contrato d’opera professionale: in questo senso v. per tutti Pucella, nota di commento a Cass., 1°.3.1988, n. 2144, in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 610, da cui è tratto il virgolettato che precede.

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Così ancora Trib. Milano, 13.6.2019, cit.

Di «tendenziale tipizzazione» parla però Princigalli, La libera professione dei medici ospedalieri, in Resp. civ. e prev., 2003, 532 ss.

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Così ad es. App. Cagliari, 16.11.2018 e Cass., 18.9.2014, n. 19658, in DeJure.

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V. ad es. Faccioli, La responsabilità civile, cit., 32.

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più favorevole al paziente attore, cui basterà «allegare (ma non provare) l’inadempimento»9. In termini diacronici non è inutile ricordare che l’idea di un contratto tra paziente e struttura è a sua volta piuttosto longeva. Vi è chi la fa risalire alla prima10 e chi alla seconda metà11 degli anni ’70 del secolo scorso. In tutti i casi, varata la legge istitutiva del SSN (legge 23.12.1978, n. 833), quell’idea non è tramontata, ma si sarebbe addirittura rafforzata12, per approdare al presente passando per le leggi Balduzzi e Gelli-Bianco13. Calcoliamo ora l’estensione di questo contratto. Il primo aspetto notevole è la dilatazione del concetto di spedalità, e quindi di ospedalizzazione, ndai ricoveri in senso proprio ai semplici accessi in struttura per una visita ambulatoriale: sul punto la giurisprudenza è costante14. Non meno costante è l’iterazione del medesimo approccio a prescindere dalla natura dell’ente. Ogni volta infatti che un paziente è accettato in una struttura ospedaliera il contratto sorge: che l’ente sia pubblico o privato non importa15.

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Così Trib. Milano, 13.6.2019, cit.

Cfr. Faccioli, La responsabilità civile, cit., 26, nt. 3 che cita la decisione capostipite Cass., 15.5.1973, n. 1368, in Rep. Foro it., voce «Responsabilità civile», n. 99.

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Cfr. Gorgoni, L’incidenza delle disfunzioni della struttura ospedaliera sulla responsabilità «sanitaria», nota a Cass., 16.5.2000, n. 6318, in Resp. civ. e prev., 2000, 55, nt. 14, ove si cita la Cass., 21.12.1978, n. 6141, in Foro it., 1979, I, 4.

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12 Così Galgano, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1984, 713: «La riforma ha, semmai, accentuato e non certo ridotto il momento dispositivo e “negoziale” del diritto alla salute». 13 Contrariamente alla responsabilità del medico e ai suoi arcinoti travagliati rimbalzi tra 2043, contatto sociale e 2043 redivivo, la responsabilità ex art. 1218 c.c. della struttura appare dunque una costante nel lungo periodo. In generale, per un’efficace sintesi dell’evoluzione storica della responsabilità medica si vedano, Busnelli, 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica, in questa Rivista, 2018, 91 ss., Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, ivi, 2017, 5 ss. e D’Amico, Responsabilità medica e istituti alternativi negli ordinamenti europei di civil law, ivi, 2019, 161 ss. 14 Cass., 11.1.2008, n. 577, cit.: «l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto» (il corsivo è mio). 15

Cass., 13.4.2007, n. 8826, cit.: «L’accettazione del paziente


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Queste due variabili (durata della degenza e natura dell’ente) rendono assai elastico il contratto e frastagliate le ipotesi che vi rientrano, da una semplice visita in pronto soccorso al ricovero sine die in una clinica privata. Una serie di dati sono però costanti. Essi consistono anzitutto nel prendere atto che se pure ad adempiere saranno medici, infermieri, inservienti, le obbligazioni di cui parliamo restano dell’ente16. Sull’ente, in particolare, grava l’obbligo “primigenio” di coordinare mezzi e persone17 per evitare che da leggerezze individuali propiziate da inefficienze di sistema18 derivino lesioni dei diritti dei pazienti. Tra questi diritti due non possono mancare: e sono la salvaguardia dell’incolumità (che già si è detto essere indissociabile dall’idea di “spedalità”) e il consenso informato. Anche se quest’ultimo inerisce ad ogni cura, e non solo a quelle rese in ospedale, non c’è dubbio che in tale contesto si può meglio misurare la tenuta dei principi al cospetto della prassi19 e dei diversi

in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria […] comporta la conclusione di un contratto» (il corsivo è mio). 16 «L’ente ospedaliero, in realtà, offre al paziente un «opus» complesso che non coincide con la sommatoria delle prestazioni erogate dai medici dipendenti»: così Pucella, op. ult. cit., 611.

Sulle possibili responsabilità legate alla mancata predisposizione del necessario per adempiere nella fase che precede la stessa conclusione del contratto di cura v. Gorgoni, op. cit., 956 s., che efficacemente parla di «preadempimento».

consensi che s’intrecciano all’atto del ricovero. Su questi due snodi – dell’incolumità e del consenso – si articoleranno le riflessioni che seguono a partire dalle spiccate singolarità dei contratti ospedalieri. 1.1. Ricadute dell’approccio contrattuale È infatti chiaro che quelli con gli ospedali, se sono contratti, lo sono in modi assai peculiari, rispetto alla conclusione e al contenuto. Rispetto al contenuto vi è chi ha segnalato la potenziale indeterminatezza dell’oggetto, stante la naturale complessità delle cure e l’incerta risposta della malattia20. Altri hanno invece additato il rischio di un’impropria mercificazione della salute21, risucchiata nel gorgo dei rapporti patrimoniali ex art. 1321 c.c. Vi è infine chi si è appellato, muovendosi tra prestazioni mediche e prestazioni para-alberghiere, al contratto per persona da nominare, nel senso che il paziente stipulerebbe con la struttura, e questa nominerebbe poi il medico o l’équipe incaricata delle cure22. Ovviamente – se così fosse – la nomina dovrebbe poi seguire la forma usata per il contratto; ma il punto è proprio qui: in che modo e in che forma si stipulano i contratti di spedalità23? Guardiamo alla conclusione del contratto come incontro di volontà e confrontiamo quel paradigma con ciò che accade nei contratti di spedalità.

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Su questa «dimensione organizzativa» delle obbligazioni dell’ente v. inoltre Faccioli, La responsabilità civile, cit., e, con particolare riguardo agli obblighi informativi, Id., La dimensione “organizzativa” del consenso informato, in questa Rivista, 2018, 107 ss. Sui medici dipendenti dell’unità sanitaria come ausiliari ai sensi dell’art. 1228 c.c.: cfr. Galgano, op. cit., 722. Sui rapporti tra responsabilità individuali e dell’ente v. infine De Matteis, La Legge Gelli-Bianco e il regime binario: presupposti, implicazioni e questioni irrisolte, in questa Rivista, 2019, 179: oggi «non è l’atto del singolo medico che, isolatamente considerato in modo avulso dall’attività sanitaria, vale a fondare una responsabilità della struttura […], quanto invece è la violazione di obblighi, sulla struttura gravanti per legge (e per contratto) nell’esercizio dell’attività sanitaria, a reclamare una diretta e autonoma responsabilità». 18

Rinvio, sul punto, ai risultati di un prezioso studio su cui sarà necessario tornare: mi riferisco all’indagine sul campo condotta nei presidi ospedalieri della Città della salute 19

e della scienza di Torino da Quagliariello e Fin, Il consenso informato in ambito medico. Un’indagine antropologica e giuridica, Bologna, 2016 (nella Collana del laboratorio dei diritti fondamentali, diretta da Zagrebelsky). Sul punto rinvio ai condivisibili rilievi di Zambrano, Il trattamento terapeutico e la falsa logica del consenso, in Rass. dir. civ., 2000, 768. 20

Sui rischi di un’insidiosa «patrimonializzazione del diritto alla salute» cfr. i misurati rilievi di Sanna, Osservazioni critiche in tema di contratto di spedalità, nota a Pret. Tolmezzo, 21.4.1998, in Resp. civ. e prev., 1998, 1566. 21

22 La nomina non sarebbe però totalmente sostitutiva perché non determinerebbe una totale deresponsabilizzazione della struttura: è l’ipotesi formulata da Viola, Il contratto atipico di spedalità quale negozio giuridico per persona da nominare, in Studium iuris, 2013, 520.

«Generalmente in forma tacita» rileva Faccioli, op. ult. cit., 32, nt. 20 e ivi ult. rif.; «secondo lo schema dell’offerta al pubblico, ex art. 1336 c.c., o secondo gli schemi consueti» scrive Viola, op. cit., 519. 23

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Lì c’è una proposta? In che consiste l’accettazione? Ogni volta che il paziente entra in struttura, che si tratti di un ottuagenario in casa di riposo o di un intervento in day surgery di mezza giornata, si ha un’ospedalizzazione in senso lato, lo sappiamo. Tanto basta a integrare il contratto. Esso, in effetti, si perfeziona con l’accettazione (retro § 1); ma questa accettazione – si badi – è l’accettazione in struttura; non l’accettazione di una proposta negoziale. Non è certo una sottigliezza perché non sempre il paziente formula una vera proposta. E di sicuro non formula alcunché nei casi in cui, per le ragioni stesse in cui giunge in ospedale, non è più in grado di decidere nulla24. Rispetto a questi casi, dunque, il problema non è “solo” l’inefficienza a valle dei rimedi contrattuali, dall’esecuzione forzata alla messa in mora25. Vi è anzitutto un problema a monte. Il contratto, in effetti, non sembra nascere dallo scambio dei consensi. Ad ogni modo non nasce, in moltissimi casi, dal consenso del paziente o di un suo rappresentante formale. Nel divario che si spalanca tra prassi e modello contrattuale, si possono far largo due letture. Ci si può arrendere alla constatazione per cui in un «enorme numero di casi» non è realistico parlare di contratto per carenza del requisito essenziale del consenso, e non solo26. Oppure ci si può chie-

Lo rileva bene Sanna, Osservazioni critiche in tema di contratto di spedalità, cit., 1563. Scrive Sanna: «si pensi ai casi, purtroppo non rari, nei quali il paziente non possa in alcun modo determinarsi al ricovero perché, ad esempio, privo di sensi, in stato di coma a seguito di eventi traumatici o patologici improvvisi. In tali fattispecie l’accettazione del paziente presso una struttura ospedaliera non potrebbe in alcun modo valere come manifestazione tacita, per facta concludentia, da parte di costui, di volontà diretta a concludere un contratto: e ciò per la banale ragione che una parte è fisicamente impossibilitata ad esprimere la propria volontà contrattuale».

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25 Lo rileva puntualmente Zeno-Zencovich, Una commedia degli errori? La responsabilità medica fra illecito e inadempimento, in Riv. dir. civ., 2008, I, 313.

È l’autorevole rilievo di Zeno-Zencovich, op. cit., 314 s.: «A voler essere coerenti, interrogandosi sul consenso, sulla causa di tale contratto e sullo scambio che in ipotesi esso dovrebbe realizzare, si dovrebbe pervenire alla conclusione che non si tratta in nessun modo di un contratto difettando alcuni suoi requisiti essenziali».

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Saggi e pareri

dere se anche senza il consenso del malato possano instaurarsi rapporti contrattuali con l’ospedale. Rapporti che si manifestano nelle cure prestate, senza essere preceduti da proposte: ma esistono rapporti di tal fatta? Analizzando la mediazione e altre figure, la dottrina ha in effetti isolato fattispecie “contrattuali” (contratti di fatto) non fondate sul dogma consensuale-bilaterale27. Se ad esempio il mediatore, per l’attività svolta, matura il diritto alla provvigione verso soggetti a cui non è legato (art. 1754 c.c.), ciò dipenderebbe dagli usi. Usi che «tipizzano il compenso in una percentuale sull’oggetto di quell’attività». La legge può a quel punto considerare il compenso quale controprestazione e «attribuire alla fattispecie gli effetti del contratto». Ma senza trattativa («superflua») e senza un accordo sul punto28. Il caso del mediatore è istruttivo. Ovviamente il tipo di contratto è lontanissimo da quelli che interessano in questa sede. Cionondimeno la mediazione ci mostra due dati da non trascurare, che si completano con la sua refrattarietà agli schemi dei comuni contratti. Uno, appunto, è l’agire di fonti extra-legali, che danno una fisionomia definita ad un rapporto che la legge lascia evanescente; l’altro è la rilevanza giuridica connessa all’agire di chi, formalmente, non ha rapporti di rappresentanza con nessuna delle parti in gioco. Ora, io credo che qualcosa di simile – ossia l’emergere di regole sociali e di “competenze” avulse da formali poteri rappresentativi – si rinvenga pure, certo in forme diverse, nel calderone dei contratti di spedalità. Rispetto ai quali la pudica impostura di una stipulazione per facta concludentia serve oggi a dare una base contrattuale-unitaria all’«obbligazione» dell’ente verso il malato (ex art. 7, comma 1°, legge n. 24/2017)29. E par-

27 Sono i casi censiti da Sacco, in Sacco e De Nova, Il contratto, nel Trattato Rescigno, X, t. 2, Torino, 1982, 42 ss.

Il ragionamento è di Sacco, op. loc. ult. cit., come i virgolettati riportati nel testo.

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La legge, in effetti, parla di obbligazione ma non si sbottona sulla fonte: lo rilevano Faccioli, La responsabilità civile, cit., 37 e Venchiarutti, Responsabilità dell’ospedale per mancanza di attenzione e accertamenti eseguiti in ritardo 29


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Consensi e colpe dei pazienti incapaci

tendo da quella base essa raggiunge tre obiettivi. 1) Cancella le asimmetrie di trattamento (2043 vs. 1218 c.c.) o almeno di inquadramento teorico (contatto sociale vs. contratto) tra i danni patiti da chi giunse in struttura incosciente o incapace comunque di negoziare e i danni patiti da chi vi entrò davvero per la porta del contratto. 2) Ha un effetto “salvifico” per l’incapace in ordine al tema dell’autolesione (§ 2.1), perché inquadra il problema ex ante in quello delle obbligazioni negoziali dell’ente. 3) Evita infine di privarsi della cornice di un accordo negoziale in una materia in cui il “contatto sociale” potrebbe surrogare il contratto30 ai fini della responsabilità, ma non potrebbe supplire a quel consenso informato che illumina ormai ogni aspetto di questa materia (§ 3); e come tutti i principi luminosi deve misurarsi con i chiaroscuri della realtà.

2. Incapacità e ospedalità Questi “chiaroscuri” ci richiamano ad un problema che sta alla confluenza di tutte le questioni fin qui evocate (contratto, consenso, autolesione, scollamento tra diritto e prassi): ed è la condizione di speciale fragilità in cui può versare il paziente. Una simile evenienza è tutt’altro che rara, lo si è già detto; e basta un’occhiata alle corsie degli ospedali, delle cliniche, delle case di riposo per constatarlo. All’interno del contratto di spedalità la debolezza del paziente è dunque un dato strutturale, com’è proprio di certe aree del mondo negoziale (si pensi al diritto del consumo). Non è, però, una debolezza solo informativa, tecnica, economica. Dato che qui parliamo di malati, a volte colpiti da

(nota a Trib. Gorizia, 18.7.2017), in questa Rivista, 2017, 536. Entrambi gli a.a. rilevano nondimeno che tale silenzio è del tutto compatibile con l’idea tradizionale di un rapporto di fonte contrattuale tra malato e struttura. 30 Nella giurisprudenza, specie di merito, è tuttavia frequente l’uso promiscuo, quasi interscambiabile, di entrambi i titoli, del contratto di spedalità e del contatto sociale: v. ad es. Trib. Rimini, 18.8.2015, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 282 ss.. seguita dalla puntuale nota di Muccioli, La responsabilità sanitaria tra medico e struttura in un caso esemplare.

traumi, e soprattutto di anziani con ingravescente ridotta autonomia, la debolezza che affiora spesso integra una vera incapacità naturale. Occorre anzi convenire che nessun altro “tipo” contrattuale conosce una ricorrenza altrettanto elevata e fisiologica di incapaci. Tutti costoro hanno un rappresentante legale? Uno studio recente riferisce di almeno mezzo milione di italiani – disabili o anziani non autosufficienti – «che avrebbero bisogno di una qualche protezione giuridica, anche temporanea e invece non l’hanno» e così si ritrovano «soli con le loro fragilità»31. Tali persone – va da sé – si ammalano come le altre (anzi: già lo sono) e possono facilmente trovarsi parte di un contratto di spedalità: e allora? Trattandosi di incapaci si potrebbe annullare il contratto; ma sarebbe riduttivo (ed inutile, dinanzi a prestazioni già eseguite) fermarsi agli artt. 428 e 1425 c.c. Oltretutto, se è vera la premessa, al paziente servono le cure; e ciò conferma l’insufficienza dell’approccio “demolitorio”. Meglio riflettere allora sul modo in cui la condizione di fragilità (fisica ma anzitutto) psichica del paziente si riverbera sulle prestazioni che riceve nel corso del ricovero. Una, la più tipica, è proprio la vigilanza durante la degenza: inizio da qui e da uno dei risvolti più immediati e spinosi del tema. 2.1. Vigilanza sull’incapace e concorso nel danno Ogni tanto, infatti, una notizia di cronaca32 o la relazione di un Garante ci avvertono allarmate

Sono i dati di uno studio del dicembre 2015 dell’Associazione italiana amministratori di sostegno solidali (consultabile all’indirizzo: www.aiassonlus.it). Raccogliere dati statistici in questo campo è tutt’altro che agevole. Quelli disponibili paiono comunque evidenziare uno scollamento significativo tra il numero delle misure di protezione attive e il numero dei soggetti fragili potenziali destinatari. La deduzione che a mio avviso si può fare è che in numero rilevante di tali casi un supporto vicario provenga – senza essere formalizzato – dalla cerchia familiare (§ 3). 31

32 Come quella che ha portato alla sentenza Cass. pen., 20.6.2018, n. 50497, relativa alla morte di un paziente rimasto più di 80 ore immobilizzato mani e piedi ad un letto del reparto psichiatrico: vedine l’articolato commento di Benci, “La costrizione fisica non è un atto terapeutico”. La Cassazione

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«del sempre più diffuso utilizzo, in luoghi di cura, della pratica di immobilizzare continuativamente pazienti anziani non autosufficienti, con la giustificazione di prevenire pericoli per la salute»33: allontanamenti dai reparti, azioni avventate in stato di confusione mentale, cadute. Rispetto a simili pratiche – che hanno ben poco di terapeutico34 – i problemi sono molteplici: medici, etici e, appunto, giuridici. È chiaro infatti che se la contenzione esiste essa è la risposta (inadeguata) a un’esigenza vera; e l’esigenza è vera perché un paziente ricoverato – lo si è appena ricordato – ha diritto a prestazioni che includono la vigilanza sull’incolumità, che va garantita con l’organizzazione e la sicurezza dell’ambiente ospedaliero35. Messa su questo piano – e accantonata la costrizione a letto, la quale, salvo casi marginalissimi, non è mai una forma ortodossa di prevenzione – la questione si generalizza e si condensa in questi dubbi: l’ospedale risponderà dei danni che il paziente, complice la sua incapacità, ha concorso a provocarsi? Un simile danno è ancora danno in senso giuridico? Oppure no, perché quod quis ex culpa sua damnun sentit non intelligitur damnum sentire36? Rispondere a queste domande – che superano l’ambito ospedaliero: la più ampia casistica formatasi nel tempo riguarda gli investimenti stra-

sul caso “Mastrogiovanni”, consultabile all’indirizzo: www. quotidiano.sanità.it Così si legge nell’accurata relazione annuale del Difensore civico della regione Piemonte, nonché Garante per il diritto alla salute, dott. Fierro, relativa al 2018, 30 ss. Il brano riportato è tratto da pagina 32. 33

Così ancora la relazione del Difensore civico del Piemonte, ibidem. 34

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Cfr. Faccioli, La responsabilità civile, cit., 49 ss.

Vecchio di secoli, l’adagio – attribuito a Pomponio – continua dunque a interrogarci: sulle radici romanistiche del principio di auto-responsabilità v. Civello, Il principio del sibi imputet nella teoria del reato, Torino, 2017, 7 s. e Benigni, La così detta compensazione delle colpe, estr. da Riv. crit. dir. e giur., 1906, 27. 36

dali degli incapaci37 – significa allocare38 il costo dell’autolesionismo tra due pretese: quella del pieno ristoro del danneggiato (o dei suoi familiari) e quella del danneggiante di non risarcire nulla più di quanto sia commisurato al suo agire. È un equilibrio difficile che l’art. 1227 c.c., com’è noto, prova a fissare diminuendo il risarcimento «se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno» (comma 1°) ed escludendo la risarcibilità degli ulteriori danni «che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza» (comma 2°)39.

La triste casistica degli investimenti include sia gli adulti incapaci (per un caso francese v. Cass. fr., 7.6.1989, in Recueil Dalloz Sirey, 1989, 40, 559, con nota di Aubert, La faute inexcusable de l’aliené), sia, soprattutto, i minori sfuggiti al controllo dei sorveglianti (tra le tante Cass., 10.2.2005, n. 2704, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 118 ss., con nota di Cricenti, Concorso del danneggiato incapace e riduzione del danno nei confronti delle “vittime secondarie”). Le fattispecie precedono l’avvento dei mezzi a motore: sulla responsabilità dei cocchieri v. Benigni, op. cit., 47 e Laurent, Principii di diritto civile, Milano, XX, 395. 37

38

Così Cricenti, op. cit., 126.

Sull’art. 1227 c.c. con speciale riguardo all’incapacità del danneggiato v.: Bianca, Diritto civile, vol. V, La responsabilità, Milano, 1994, 139 ss. e 659 ss.; Cattaneo, Il concorso di colpa del danneggiato, in Riv. dir. civ., 1967, I, 460 ss. (in partic. da 501 ss.); Corsaro, Concorso di colpa e danneggiato incapace, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, I, 474 ss.; De Cupis, Postilla sulla riduzione del risarcimento per concorso del fatto del danneggiato incapace (nota a Cass., sez. un., 17.2.1964, n. 351), in Riv. dir. civ., 1965, II, 62 ss.; Id., Sulla riduzione del risarcimento per concorso del fatto del danneggiato incapace (nota a Cass., 25.3.1957, n. 1016), in Foro it., 1958, I, 933 ss.; Franzoni, Dei fatti illeciti, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 774 ss.; Gentile, Ancora sul concorso di colpa dell’incapace (nota a Cass., sez. un., 17.2.1964, n. 351), in Resp. civ. e prev., 1964, 18 ss.; Liserre, In tema di concorso colposo del danneggiato incapace, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1962, I, 347 ss.; Marchio, Concorso di colpa del minore incapace danneggiato nella produzione dell’evento dannoso (e questioni relative alla liquidazione del danno) (nota a Cass., 15.6.1973, n. 1753), in Giur. it., 1974, I, 1, 1399 ss.; Ondei, Nota sulla responsabilità civile dei non imputabili, in Riv. dir. civ., 1965, II, 464 ss.; Pogliani, Irrilevanza del concorso del fatto dell’incapace sulla diminuzione della responsabilità del debitore per fatto illecito (nota a Cass., 10.2.1961, n. 291 e App. Milano, 24.11.1961), in Temi, 1961, 600 ss.; Ruffini, Sul concorso di colpa del danneggiato incapace: «ratio decidendi» e «obiter dicta» di una decisione giudiziale (nota a Cass., sez. un., 17.2.1964, n. 351), in Riv. dir. comm., 1966, II, 90 ss.; Scognamiglio, Note sui limiti della c.d. compensazione 39


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Consensi e colpe dei pazienti incapaci

Dobbiamo però chiederci – e non è affatto scontato – se tale norma si applichi pure agli incapaci. Ai giudici pare di sì, e da lungo tempo; e cioè da quando le Sezioni unite nel 196440 chiusero un contrasto che si era aperto tra giudicati sull’onda di una disputa che aveva diviso la dottrina e che merita due righe alla memoria per quanto ancora importa ai nostri fini. Va dunque ricordato che nel silenzio del codice Pisanelli, ma guardando ai modelli stranieri41, gli studiosi avevano preso a sostenere che il danneggiato – pur al cospetto di un’azione del danneggiante capace di causare tutto il danno – doveva sopportare le conseguenze che fossero pro quota riferibili alla sua colpa. Varie norme sparse (dallo scontro tra navi ai danni in albergo) confermavano l’intuizione42.

di colpa (nota a App. Napoli, 30.1.1953), ibidem, 1954, II, 108 ss.; Zampolli, Come rispondere di scelte che non si possono fare: sul concorso di colpa del danneggiato incapace (osservaz. a Cass., 7.3.1991, n. 2384), in Foro it., 1993, I, 1974 ss. Tra i contributi più recenti: Farace, Sul concorso colposo dei soggetti lesi, in Riv. dir. civ., 2015, 158 ss.; Micari, L’art. 1227, comma 1, c.c., e l’incapacità naturale del danneggiato (nota a Cass., 10.2.2005, n. 2704), in Giust. civ., 2006, 2525 ss.; Cricenti, Concorso del danneggiato incapace, cit., 125 ss.; Faccioli, Responsabilità presunta dell’automobilista e concorso di colpa del pedone (incapace) (nota a Cass., 26.3.2004, n. 6054 e 14.5.2004, n. 9218), in Resp. civ., 2005, 107 ss. Sui «fiumi d’inchiostro» che questo tema ha fatto versare in dottrina v. infine Rossetti, nel Commentario Gabrielli, nel vol. Dei fatti illeciti, a cura di Carnevali, Torino, 2011, sub art. 2046 c.c., 65 ss. 40 Cass., sez. un., 17.2.1964, n. 351, in Foro it., 1964, I, 752 ss.

Segnatamente il § 254 del B.G.B., l’art. 44 del c. svizzero delle obbligazioni e il § 1304 del c. civile austriaco. Sull’influsso che tali modelli esercitarono sui codificatori del 1942: Colagrosso, Commento al nuovo codice civile italiano. Il libro delle obbligazioni (parte generale), Milano, 1943, 97. Venendo al presente e al sistema a noi forse più vicino, il francese, è degno di nota il fatto che il progetto di riforma della responsabilità civile presentato nel marzo 2017 dal ministro della giustizia preveda un art. 1255 del seguente tenore: «Sauf si elle revêt les caractères de la force majeure, la faute de la victime privée de discernement n’a pas d’effet exonératoire». Si tratta di una costante dei progetti riformatori francesi, che muove da una diffusa critica verso gli orientamenti inaugurati dall’Assemblea plenaria della Cassazione negli anni ’80: sul punto cfr. Grare-Didier, Des causes d’exclusion ou d’exonération de la responsabilité, in Terré, Pour une réforme du droit de la responsabilité civile, Parigi, 2011, 189. 41

42

V. ad es. Coppa-Zuccari, La compensazione delle colpe,

E altrettanto suggerivano l’equità e il buon senso: chi è (con)-causa del suo mal ...43 Restava appunto un dubbio, destinato a farsi dilemma: nella compensazione potevano cadere le concause «innocenti»44, e cioè le azioni degli incapaci di discernimento? O non era più giusto ritenere che «il pazzo, il fanciullo, gli eventi naturali possono essere cause, non cause colpose, di danni»45? In effetti l’art. 1227 c.c. parlava (e parla) di concorso colposo, come prima di lui s’era parlato di colpe compensabili46. Orbene – sostenevano molti – la colpa esige l’imputabilità. Presuppone cioè un soggetto capace di intendere e volere. E quindi un soggetto capace di capire il valore afflittivo della sanzione ricevuta (il risarcimento decurtato)47. Rispetto al principio di «irrilevanza delle concause», l’art. 1227 assumeva così i contorni dell’«eccezione»; e come ogni eccezione andava ristretta «nel suo esatto limite» segnato da una colpa intesa in senso «psicologico». Occorreva insomma un danneggiato «spiritualmente […] riprovevole»; quindi capace di intendere e volere48.

Modena, 1909, 139, 165 ss. e 197 s. Il riferimento è all’art. 662 c. comm. (per lo scontro tra navi) e all’art. 1868 c. Pisanelli (per la responsabilità dell’albergatore). 43 Pressappoco così, citando Gentile, Ferrante, La responsabilità civile dell’insegnante, del genitore e dei tutori, Milano, 2008, 141. 44

Come le definì Coppa-Zuccari, op. cit., 71.

45

Così Coppa-Zuccari, op. loc. ult. cit.

Sulla «compensazione delle colpe» sotto il vecchio codice: Benigni, La così detta compensazione delle colpe, cit.; Candice, La compensazione delle colpe nel diritto civile, Napoli, 1920, 63 ss.; Coppa-Zuccari, op. cit., 18 ss.; Tabanelli, La teoria della compensazione delle colpe nei quasi-delitti (nota ad App. Genova, 1.12.1899), in Foro it., 1900, I, 1198 ss.; Brugi, Colpe di diversa natura e compensazione di colpe (nota a Cass. Roma, 4.5.1907), in Riv. dir. comm., 1908, II, 13 ss.; Pacchioni, Della cosidetta compensazione delle colpe (nota a Cass. Firenze, 1.8.1910), in Riv. dir. comm., 1910, II, 1032 ss. 46

«La sanzione […] è la riduzione del risarcimento»: così Corsaro, op. cit., 481. L’idea che tale riduzione sia una sanzione ha spesso animato i disegni di riforma discussi Oltralpe. Per tutti cfr. l’avant-projet de reforme du droit des obligations coordinato da Catala del 2005 (consultabile all’indirizzo: www.justice.gouv.fr) che parlava di «peine privée» irrogabile solo a soggetti coscienti delle proprie azioni (152, nt. 16). 47

Così De Cupis, Sulla riduzione, cit. 935, da cui sono tratti i virgolettati riportati.

48

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Come si sa le Sezioni Unite saranno di un altro avviso. Esse diranno infatti che può essere in colpa pure un incapace e che il danno autoinflitto «non è danno in senso giuridico». Rispetto a un nondanno, dunque, è improprio attendersi un risarcimento. Oggettivamente intesa, la colpa regrediva così a una condotta in sé contraria a regole di prudenza49. E come tale poteva ravvisarsi nell’agire di chiunque. Compresi – per l’appunto – gli incapaci incolpevoli per ragioni anagrafiche o per vizio di mente50. Inutile dire che un tale principio – se trasposto di peso nella materia ospedaliera – avrebbe effetti dirompenti nelle vertenze sulle condotte autolesive dei pazienti da cui siamo partiti. Siamo però sicuri che il danno autoinflitto sia sempre irrilevante, come scrissero le S.U., a prescindere dall’incapacità del danneggiato «e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo»? Anche se sono passati decenni, la risposta va ancora cercata nei casi concreti. Rileggendo i vecchi precedenti emergono infatti due costanti. Ogni volta che era stato invocato, l’art. 1227 si era trovato a operare in area extracontrattuale (per il richiamo dell’art. 2056). E ogni volta – di fatto – si era trovato al cospetto di bambini. Vittime incapaci naturali ma naturalmente capaci di sfuggire al controllo degli adulti e cacciarsi nei guai: arrampicarsi sull’acquasantiera in chiesa ed esserne travolti51; gettarsi in mezzo alla carreggiata ed essere

Cfr. Gentile, Ancora, cit., 21: «si può essere colpevoli anche senza essere imputabili». Sulla nozione oggettiva di colpa quale mero disallineamento dal modello di condotta dovuto: Bianca, op. cit., 139. 49

Questo è il principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite n. 351/64 cit.: «quando un incapace d’intendere o di volere, per minore età o per altra causa subisca un evento di danno, in conseguenza del fatto illecito altrui in concorso causale col proprio fatto colposo, l’indagine deve essere limitata all’esistenza della causa concorrente alla produzione dell’evento di danno, prescindendo dall’imputabilità del fatto all’incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo e il risarcimento al danneggiato incapace è dovuto dal terzo danneggiante solo nella misura in cui l’evento possa farsi risalire alla di lui colpa, con esclusione della parte di danno ascrivibile al comportamento dello stesso danneggiato». 50

51 Cass., 25.3.1957, n. 1016, in Foro it., 1958, I, 933. È l’ultima sentenza dell’orientamento tradizionale prima del revi-

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Saggi e pareri

investiti52; infilare la mano sotto il muso di un’auto e vedersela tranciata dalla ventola del motore (per citare un caso molto più recente)53. Ecco il punto allora: in simili casi era inevitabile la coincidenza tra attori e genitori nel chiedere il ristoro di un danno (in nome del figlio o iure proprio) che proprio i genitori-sorveglianti, per primi, non avevano saputo impedire54. Già questo spiega perché in un caso identico agli altri – di un bimbo investito per essersi gettato nel traffico ignorando i richiami perché non si muovesse – la Cassazione abbia invece accordato un risarcimento intatto55. La colpa oggettiva era certa. Il minore, però, non era più coi genitori, ma presso le suore di una scuola privata. Esse l’avevano accompagnato alla fermata del pulmino, ma dal lato sbagliato della strada: di qui l’incauto attraversamento e la disgrazia. Ridurre il risarcimento a carico della scuola, come avevano fatto i giudici di merito, avrebbe avvantaggiato per paradosso

rement tentato da Cass., 3.6.1959, n. 1650, in Foro it., 1959, I, 923 e Cass., 10.2.1961, n. 291, in Temi, 1961, 600 ss. con nota di Pogliani. Entrambe riguardavano bambini feritisi con materiale esplosivo. Riguardava un minorenne anche Cass., 21.4.1965, n. 702, in Foro it., 1965, I, 890, che si allinea subito alle Sez. Un. Riguardava infine due minori anche l’ord. Corte cost., 23.1.1985, n. 14, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1227, comma 1°, in Foro it., 1985, I, 934, con nota di Pardolesi. 52 Riguardava l’investimento di un minore di 6 anni il caso deciso delle più volte citate Sezioni Unite del ’64. Cfr. altresì Cass., 15.6.1973, n. 1753, in Giur. it., 1974, I, 1, 1400 (un bimbo in bici era caduto a causa di un furgone); Cass., 16.4.1992, n. 4691, in DeJure (investimento di una bambina di 4 anni da parte di un autocarro); Cass., 1.4.1995, n. 3829, ibidem (incidente ferroviario che aveva coinvolto due ragazzini); Cass., 10.2.2005, n. 2704, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 118 (uccisione di una bambina che aveva attraversato la via mentre era affidata ad una signora diversa dai genitori). 53 È il cd. “caso Renault”: Cass., 2.3.2012, n. 3242, in banche dati Foro it. Si trattava nella specie di un bimbo di 3 anni.

Bisogna infatti considerare, per quanto sia banale, che quando un incapace patisce un danno che lui stesso ha favorito, la negligenza di chi doveva custodirlo può aver pesato al pari di quella del terzo. Un’applicazione meccanicistica dell’assunto porterebbe a ravvisare una responsabilità di entrambi nei confronti dell’incapace. Il terzo dovrebbe allora risarcire l’intero, per confidare nel regresso verso il sorvegliante: così De Cupis, Sulla riduzione, cit., 934; contra Corsaro, Concorso, cit., 487. 54

55

Cass., 10.3.1980, n. 1601, in Foro it., 1980, I, 2526.


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Consensi e colpe dei pazienti incapaci

i cattivi sorveglianti per un danno da essi propiziato. Osservata in questa luce, e cioè nel passaggio dalla responsabilità extracontrattuale a quella per inadempimento, l’applicazione dell’art. 1227 c.c. ha finito così per impigliarsi in una sorta di logicismo edificato sul rilievo che quando un soggetto si obbliga a sorvegliare un incapace la colpa di questi non può mai escludere o diminuire la responsabilità del debitore «perché la prestazione cui è tenuto il sorvegliante è proprio quella di impedire che il sorvegliato cagioni danni a sé o ad altri»56: ciò che dà corpo all’inadempimento non può esserne al contempo la scusante. Si tratta di un punto dirimente, dinanzi al quale che l’incapace sia una bimba all’asilo57 o un anziano in ospedale poco importa. Una volta, infatti, che vi sia un’obbligazione dell’ente di vigilare sui propri ospiti, e di vigilare tanto più occhiutamente quanto più si tratti di soggetti «di minorata o nulla autotutela»58, l’autolesione in sé denuncia l’inesatta esecuzione del contratto. I precedenti sono ormai numerosi anche in materia ospedaliera e – senza scavare più indietro del necessario – possono farsi iniziare da una sentenza di meri-

Ancora Cass. n. 1601/1980 cit. Cfr. Monateri, La responsabilità civile, nel Trattato Sacco, Torino, 1998, 119 e 273, che giudica tale decisione «logicamente ineccepibile». Favorevole è anche la posizione di Venchiarutti, nel Commentario al codice civile, a cura di Cendon, Milano, 2009, sub art. 1227 c.c., 1125. Cfr. altresì Bianca, op. cit., 140. Principi analoghi risultano ben documentati anche in altri sistemi: cfr. Tomfohr vs Mayo Foundation and St. Mary’s Hospital, riportata da Gaudino, Condotte autolesive e risarcimento del danno, Milano, 1995, 83: «Il paziente […] non può essere ritenuto in tutto o in parte responsabile per aver mancato al dovere di aver cura della propria integrità, perché l’ospedale ha già assunto su di sé tale obbligo». 56

Come quella di 3 anni feritasi per avere infilato la manina in un termoconvettore: Cass., 18.7.2003, n. 11245, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 491 annotata da Carassale, Danno cagionato dall’incapace a se medesimo: dal torto al contratto, sempre nell’ottica del risarcimento. In tema v. Bonomo, Autolesione dell’incapace: contatto sociale e obblighi di protezione, consultabile all’indirizzo: www.personaedanno.it 57

Per riprendere l’espressione che si legge in Cass., 4.8.1987, n. 6707, in Foro it., 1988, I, 1629. Nella specie, tuttavia, non si trattava di anziani malati ma di un neonato rapito dal “nido” dell’ospedale, colpevolmente privo di ogni vigilanza. 58

to quasi coeva a quella delle suore, e relativa ad una clinica psichiatrica, da una cui finestra si era lanciata una paziente59. «Viola l’obbligo contrattualmente assunto di vigilanza», dirà in quel caso il tribunale, «la casa di cura per malattie nervose che non riesca ad impedire al malato schizofrenico di nuocere a se stesso» omettendo l’assistenza necessaria a prevenire quel rischio. Ospitando un paziente con disagi psichici – statuirà più avanti la Cassazione – nasce sempre un obbligo di sorveglianza, a prescindere dall’obbligatorietà del trattamento (TSO)60. Sempre – preciserà la Corte in un altro caso – perché quell’obbligo è un effetto «naturale» del contratto di ricovero e per i più fragili – e per primi i sofferenti psichici – «costituisce la parte essenziale della cura»61. Tolti i tristi casi dei pazienti che hanno tentato il suicidio gettandosi nel vuoto (o sotto un treno, come nell’ultimo citato), la giurisprudenza si è occupata dei “grandi anziani” feritisi dopo rovinose cadute dai letti62 o dalle scale63: ipotesi che ci ri-

59 Trib. Velletri, 19.3.1979, in Giur. it., 1981, I, 2, 567. Prima ancora, per la responsabilità del direttore di una clinica in cui era avvenuto il suicidio di un paziente schizofrenico: Trib. Roma, 28.2.1977, in Quale giust., 1977, 697. Su questo precedente v. Monateri, op. cit., 937 e, ivi, nt. 8-9 e Gaudino, Condotte autolesive, cit., 83, nt. 29. 60 Cass., 10.11.1997, n. 11038, in Danno e resp., 1998, 388. Anche in tal caso si trattava del tentato suicidio di una paziente con problemi psichiatrici ricoverata, per mancanza di posti, nel reparto di otoiatria: allontanatisi gli infermieri, la donna si era lanciata dalla finestra.

Cass., 22.10.2014, n. 22331, in DeJure. La vicenda riguardava un paziente con disturbi mentali che si era allontanato dalla clinica e, nel tentativo di togliersi la vita sotto un treno, aveva subito l’amputazione di una mano. In una decisione dello stesso anno – Cass., 16.5.2014, n. 10832, ibidem – la Suprema Corte ha parimenti ritenuto responsabile l’ospedale per i danni a sé provocati da una giovane che si era lanciata dalla finestra del pronto soccorso mentre attendeva la visita psichiatrica. 61

62 Cfr. Trib. Milano, 18.2.2019, in DeJure. Nella specie un anziano ultranovantenne, affetto dal morbo di Parkinson e da seri problemi di deambulazione, era caduto dal letto la notte prima delle dimissioni. L’incidente lo condurrà di lì a poco al decesso.

Cfr. Trib. Belluno, 7.6.2016, in DeJure. La lite nasceva da un incidente occorso ad un anziano affetto da demenza senile, il quale, legato alla carrozzella da una cintura di sicurezza che ne impediva l’alzata, si era spinto fino alle scale, 63

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portano ai tipici rischi di autolesione nosocomiale da cui siamo partiti64. Richiamandosi all’art. 1227, gli ospedali hanno talvolta tentato di portare l’attenzione sull’oggettiva sventatezza dei pazienti: ma senza successo. Il concorso dell’incapace – si legge in una decisione emblematica – va infatti inteso «come un evento naturale, non imputabile al suo autore», e in quanto tale «non può attenuare la responsabilità del soggetto tenuto alla sorveglianza»65. Se si ripensa al principio fissato dalle Sezioni unite del ’64 la differenza pare abissale; ma nei fatti la ratio è costante: “punire” i cattivi sorveglianti.

3. Limitazioni di capacità e sovrapposizione dei consensi Occorre ora considerare che i tentati suicidi e i capitomboli in corsia, benché emblematici, non sono i soli modi in cui un incapace si lede, è naturale. Gli atti autolesivi potrebbero infatti prescindere dal ricovero e – per quanto qui interessa – potrebbero intrecciarsi col diritto di ogni persona «di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile» sul proprio stato di salute e sulle cure consigliate, restando libera di scegliere una terapia diversa e anche di rifiutarle tutte, purché sia resa edotta delle conseguenze (art. 1, comma 3°, legge n. 219/2017). Nessuno, va da sé, potrebbe parlare di danno se un paziente, rifiutando la terapia consigliata, si ritrovasse una salute ancor più compromessa; e men che meno si potrebbe biasimare il medico, avendo

precipitando giù per le rampe. Per una scrupolosa analisi di questa casistica v. FaccioLa responsabilità, cit., 56 ss. Sui temi dell’autolesione in ospedale e in altri luoghi tipizzabili (dalla scuola al carcere, dalla caserma all’ambiente di lavoro) è poi d’obbligo il rinvio a Gaudino, Condotte autolesive e risarcimento del danno, cit. 64

li,

Trib. Belluno, 7.6.2016, cit. Cfr. anche Trib. Milano, 18.2.2019, cit., secondo cui «va respinta la prospettazione della struttura sanitaria che invochi l’applicazione dell’art. 1227 c.c. […] sul presupposto che sarebbe evidente come la caduta sia l’esclusivo esito di un movimento poco consono del paziente». In effetti il semplice uso di spondine avrebbe evitato l’incidente. 65

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Saggi e pareri

egli fatto quanto doveva suggerendo la via migliore e cercando inutilmente il placet del paziente; ma se questi era incapace? Incapace di capire le informazioni e la posta in gioco, e abbia quindi opposto un rifiuto insensato o fatto una scelta irrazionale? Non sarebbe facile, in simili casi, negare l’esistenza di un danno alla salute prodotto dalla lesione della libertà di autodeterminarsi; e se danno fosse, sarebbe anche qui da escludere un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.: se si tutela l’incapace che cade dal letto, perché non accordare lo stesso livello di tutela a chi cade in malintesi autolesivi a causa di un’incapacità trascurata da chi doveva raccoglierne il consenso? Eppure – si potrebbe rispondere – simili casi sono impossibili perché, se si presentassero sul serio, a decidere sarebbe il rappresentante legale o il paziente stesso, con le sue volontà affidate – allora per ora – a delle d.a.t. ai sensi della legge 219/2017. L’obiezione sarebbe giustissima; ma tanto, troppo formalistica. Tra i pazienti che giungono in ospedale molti si trovano infatti in condizioni di incapacità o semi-incapacità senza avere un rappresentante legale e senza avere predisposto delle d.a.t. In tutti i casi, non è detto che il rappresentante legale, quando vi sia, abbia il potere di sostituirsi all’incapace per le questioni sanitarie che incombono; così com’è possibile che le d.a.t., pur esistenti, tacciano sul punto e non vi sia un fiduciario a cui chiedere lumi. Mi sembra insomma difficile che l’amministratore di sostegno o il fiduciario in seno alle d.a.t. – tutti ottimi strumenti di cui il nostro ordinamento si è dotato – azzerino da soli il divario, non facile da misurare ma palpabile, tra l’area dell’incapacità naturalistica e l’area degli strumenti rappresentativi. Occorre cercare (anche) altrove la chiave del consenso. Ritorna così, per vie diverse, un problema già additato nel § 1.1. per il contratto di ricovero. Ed infatti, così come al contratto non corrisponde un reale consenso dei pazienti troppo fragili per renderlo, allo stesso modo è improbabile che quei pazienti siano in grado di consentire ai trattamenti sanitari. Così com’è irrealistico che intendano davvero le informazioni sul trattamento dei dati


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sanitari66; e quindi siano in grado di rendere un consenso nei casi (residuali) in cui è ancora necessario67. Ho detto irrealistico, non impossibile perché ogni caso è diverso; e una cosa è contrattare, altro è dire “si” o “no” a una cura, altro è ricevere l’informativa sulla privacy: ma come separare caso da caso68? Effettivamente il confine è chiaro in teoria ma in pratica si perde; e quindi non meraviglia leggere chi consiglia di convogliare «anche in un unico atto da fornire al paziente» le distinte informative per il trattamento sanitario e per il trattamento-dati69; così com’è del tutto ragionevole quanto si legge in dottrina, e cioè che il dovere informativo include le «carenze strutturali dell’ente che possano in qualche modo influire sul ricovero e sull’intervento terapeutico»70; e che anzi il medico dovrebbe consigliare «un altro nosocomio che sia meglio attrezzato»71 (sì che l’informativa sulle cure influirà

66 Artt. 75 ss., d. lgs. n. 196/2003 e artt. 13 e 14, reg. UE n. 679/2016. 67 Cfr. il provvedimento del Garante della privacy n. 55 del 7.3.2019 su cui Corso, Sul trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario: l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali, in questa Rivista, 2019, 225 ss. Oggi non è più indispensabile, di massima, che il professionista sanitario, tenuto al segreto professionale, richieda il consenso del paziente per i trattamenti dei dati necessari alla prestazione domandata dall’interessato. Si noti però che la liceità del trattamento di tali dati può fondarsi, ex art. 9, par. 2, lett. h) del GDPR, sul contratto con un professionista della sanità; e, nota opportunamente Corso, op. cit., 235, «il consenso di natura negoziale del contraente è un consenso distinto da quello dell’interessato al trattamento dei dati personali». Il punto, a me pare, è che il tema del consenso dell’incapace, se può uscire dalla porta della privacy, rientra comunque dalla finestra del contratto.

In generale, sui complessi rapporti tra consenso contrattuale e consenso al trattamento dei dati personali: Thobani, Diritti della personalità e contratto: dalle fattispecie più tradizionali al trattamento in massa dei dati personali, Milano, 2018, 94 ss. e 160 ss. 68

69 In questa prospettiva rivolta ai pratici cfr. l’articolo a firma di Gobbato e Formato, Consenso informato: differenze tra trattamento sanitario e dati personali, consultabile all’indirizzo: www.odontoiatria33.it 70 Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 218 e da pagina 217, in nota 119, utili rif. giurisprudenziali. 71

Faccioli, La dimensione organizzativa, cit., 108.

sulla scelta della controparte contrattuale); e che insomma «l’informazione adeguata appare requisito indefettibile per la manifestazione non solo di un valido consenso al contratto di cura, ma anche alla terapia e alle singole fasi di essa»72. Una simile commistione delle informative e del consenso ai fini del ricovero e del trattamento è dunque nella natura delle cose73, ma non è neutrale dal punto di vista delle costruzioni giuridiche. Nei fatti, essa è anzitutto la ragione (come si diceva nel § 1.1) che induce a coltivare l’idea di contratto di ricovero anche laddove sembra più stiracchiata, per farne lo sfondo su cui proiettare i consensi e le informative che il ricovero stesso esige. Poiché tuttavia – si ripete – la volontà del paziente non sempre è manifesta o è manifestata da un rappresentante legale, si aprono tre vie: il ricorso allo stato di emergenza e urgenza (che potrebbe però non sussistere e comunque urterebbe con l’idea del contratto); la sistematica apertura di misure protettive (che potrebbe però rallentare le cure e risultare eccedente allo scopo)74; la valorizzazione di una soluzione mediana e ragionevole, che molto spesso è già praticata lontano dai riflettori delle forme solenni. Analizzando le sentenze è

72

Paradiso, op. cit., 342.

Cfr. altresì Mazzamuto, Note in tema di responsabilità civile del medico, in Eur. e dir. priv., 2000, 508, che addita con giusta preoccupazione la prassi dei modelli contrattuali standard predisposti per ogni tipo di operazione e usati anche come veicolo per raccogliere un consenso informato, a sua volta, sempre più standardizzato.

73

74 Mi richiamo qui all’orientamento, probabilmente minoritario ma condivisibile, secondo cui il principio della “minore limitazione possibile della capacità di agire” che illumina la disciplina dell’amministrazione di sostegno (art. 1 legge n. 6/2004) dovrebbe essere inteso in tutta la sua ampiezza, anche nel senso di sconsigliare l’apertura di misure protettive quando il soggetto sia già adeguatamente sorretto da una rete solidale di prossimità fatta di persone a lui vicine che provvedono ai suoi bisogni. Cfr. Trib. Busto Arsizio, 12.10.2011, in Giur. merito, 2013, 2373 (con nota di Buffone); Trib. Modena, 20.2.2014, in Dir. fam. e pers., 2014, I, 1459; Trib. Vercelli, 16.10.2015, con nota di Bonilini, L’anziano consapevole, e adeguatamente assistito, non abbisogna di amministratore di sostegno. In soccorso può intervenire il mandato, in Fam. e dir., 2016, 177, e da Piccinni, Misure di protezione e principio di sussidiarietà nell’attuazione dei diritti delle persone non autonome, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 829 ss.

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infatti facile accorgersi della costante presenza di familiari accanto ai malati incapaci: familiari che li accompagnano al pronto soccorso75; familiari a cui si chiede il consenso per l’uso di dispositivi di protezione76; figli che sottoscrivono per il padre affetto da demenza senile il contratto di assistenza residenziale77; figlie che portano l’anziana madre a farsi operare e firmano per lei il modulo del consenso informato78… La casistica giurisprudenziale è il riflesso di quella ospedaliera79; e la prassi ospedaliera dimostra che il ricovero e il consenso informato dei malati, specie se molto anziani e fragili, non di rado assume i connotati di una «decisione di famiglia»80. Per alcuni ordinamenti – in difetto di rappresentanti di nomina giudiziale o di direttive anticipate – i prossimi congiunti hanno di per sé il potere di assumere decisioni per l’incapace81; ma in Italia? Il caso non è regolato; ma qualcosa di simile traspare. 3.1. Entourage del malato e rappresentanza Tanto per cominciare, vanno ricordati gli ampi poteri che i vecchi codici deontologici medici assegnavano sempre ai familiari del malato quali

75

Cass., n. 10832/2014, cit.

76

Trib. Belluno, 7.6.2016, cit.; Trib. Milano, 18.2.2019, cit.

77

Trib. Belluno, ult. cit.

78

Trib. Torre Annunziata, 16.4.2018, in DeJure.

Su queste prassi si vedano i risultati della già citata indagine di Quagliariello e Fin, Il consenso informato in ambito medico. 79

80 Così, ancora, Quagliariello-Fin, op. cit., 133 ss.: «Molti dei pazienti anziani incontrati nei reparti ha scelto di affidare le decisioni relative alla propria salute alle opinioni dei familiari, trasformando la richiesta di parlare con i propri figli in una costante della propria assistenza nello spazio ospedaliero».

Cfr., in particolare, gli artt. 377 del c.c. svizzero. Per un commento a tali norme, introdotte nel 2013: Steinauer e Fountoulakis, Droit des personnes physiques et de la protection de l’adulte, Berna, 2014, 434 ss.: «Même si chaque personne peut désormais établir des directives anticipées pour le cas où, devenue incapable de discernement, elle aurait besoin de soins médicaux (art. 370 ss. […]), il arrivera sans doute souvent qu’un incapable de discernement doive être traité médicalement sans avoir donné de telles directives. C’est pourquoi le Code prévoit un cercle de personnes qui, dans de telles circonstances, sont habilitées (dans un certain ordre) à représenter le patient vis-à-vis du médecin traitant ». 81

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Saggi e pareri

affidabili custodi delle sue volontà (e delle verità troppo angoscianti per giungergli inattutite: «una prognosi grave – diceva ad esempio l’art. 30 del codice del ’78 – può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia»)82. Oggi i familiari sono quasi spariti dal codice deontologico; ma più che la sconfessione del loro ruolo, ciò riflette la tendenza dei testi più recenti a occuparsi solo dei rappresentanti legali. Di questa tendenza è un esempio la convenzione di Oviedo sulla biomedicina, il cui art. 6 considera la rappresentanza della persona minore o maggiore d’età che «secondo la legge» non è capace di consentire ed è sostituita dall’intervento «del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge». Il che parrebbe appunto suggerire che ci si riferisca ai soli casi di incapacità – e dunque di rappresentanza – legali. La stessa legge n. 219/2017, che pure in più punti valorizza il coinvolgimento dei familiari, all’art. 3, sotto la rubrica «minori e incapaci» considera i soli rappresentanti «legali» del minore, dell’interdetto, dell’inabilitato, e poi l’amministratore di sostegno con poteri in ambito sanitario: l’adulto incapace di fatto e chi di fatto lo assiste non sono contemplati. Una simile omissione, tuttavia, non va scambiata per miopia. Certo, il sistema ripone ogni fiducia sulla capacità dei rappresentanti legali di trasmettere all’esterno le volontà dei “loro” malati, senza tradirle. Eppure dalla legge e dai suoi silenzi sembra emergere dell’altro: e cioè la percezione, del legislatore, di lambire un assetto di regole tacitamente presupposto e destinato a operare in modo interstiziale per completare l’azione delle norme positive. Le quali, di tanto in tanto, aprono uno spiraglio sulle regole sommerse e fanno fare loro capolino. In stato di urgenza – per fare un esempio – i medici devono cercare di rispettare la volontà del paziente desumibile dalle «circostanze» (art. 1, comma 7°, legge n. 219/17): e “chi” sono queste circostanze se non coloro, di norma fa-

Per la storia dei codici deontologici italiani v. Patuzzo, Storia del codice italiano di deontologia medica. Dalle origini ai nostri giorni, Torino, 2014. V. altresì Benciolini, La deontologia dai Galatei ai Codici deontologici, in La Professione. Medicina, Scienza, Etica e Società, 2010, 261 ss. 82


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miliari, che stanno intorno (circum-stant) al letto del malato? Che significa – per fare un altro esempio – il comma 4° dell’art. 4 della legge quando prevede che se manca un fiduciario per le d.a.t. si nomina un amministratore di sostegno «in caso di necessità»? Ovvio, a me pare: che i primi in grado di fare luce sulle d.a.t. sono le persone legate da rapporti di affetto e consuetudine di vita con chi le ha scritte; e solo quando «il confronto con i familiari o altre persone vicine al disponente si riveli infruttuoso» o impossibile avrà senso nominare un amministratore83. Nelle pieghe del sistema questo potere latente si affaccia in normicine fitte e sparse che a vario titolo prevedono poteri (di attivazione, consultazione, opposizione) in capo al marito non tutore per l’interruzione della gravidanza della moglie interdetta (art. 13, legge 22.5.1978, n. 194), in capo ai parenti per la cremazione di un congiunto (art. 3, legge 30.3.2001, n. 130), in capo ai familiari del defunto per l’opposizione alla donazione di organi (art. 23, legge 1°.4.1999, n. 91), o ancora in capo ai familiari per l’accompagnamento ai seggi degli elettori disabili (art. 55, d.p.r. 30.3.1957, n. 361). Senza scordare la legge sulle cure palliative (legge 15.3.2010, n. 38), in cui morente e famiglia sono considerati a volte un tutt’uno; o la legge sul “dopo di noi” (legge 22.6.2016, n. 112) per le persone prive del «sostegno familiare» fin lì assicurato dalla rete parentale; o ancora e soprattutto la norma del codice privacy che consente di posticipare le informazioni sul trattamento dei dati in ambito sanitario in caso di «impossibilità fisica, incapacità di agire o incapacità di intendere o di volere dell’interessato, quando non è possibile rendere le informazioni […] a chi esercita legalmente la rappresentanza, ovvero a un prossimo congiunto, a un familiare, a un convivente o unito civilmente ovvero a un fiduciario» (art. 82, comma 2°, lett. a), d. lgs. n. 196/2003, come modificato dal d. lgs. n. 101/2018). Un pulviscolo ancora più fitto,

va da sé, si rinviene se si scende nella gerarchia delle fonti; e ancor più se si guarda al diaframma sottile tra regole e prassi in cui fioriscono convenzioni, linee guida, raccomandazioni. Mi limito a due esempi minuscoli: un protocollo tra provincia di Prato, azienda sanitaria, associazioni laiche e rappresentanze religiose per il supporto spirituale negli ospedali su richiesta del malato «o dei suoi familiari»84; e la raccomandazione del difensore civico del Piemonte affinché i direttori delle Asl dispongano la rivalutazione della situazione clinica in presenza di ricorsi contro le dimissioni presentati dai ricoverati «o da loro familiari»85. Inutile ribadire che si tratta di due gocce nel mare. Ognuna di queste ipotesi, da sola, può apparire un’anomalia rispetto al principio per cui i familiari “nudi”, senza l’abito del tutore, dell’amministratore, del fiduciario, non contano nulla. Raccolte insieme, esse invece fanno indovinare un principio sottinteso, che valorizza nei familiari i primi interpreti delle volontà dell’incapace se questi non ha altri mezzi o soggetti deputati a rappresentarlo. A quest’idea spontanea il legislatore ha dato di recente un ulteriore, decisivo avallo in alcune previsioni dedicate ai conviventi di fatto. Nuovamente, dunque, non si tratta di regole scritte per essere universali. Esse, nondimeno, lo diventano, in un gioco di specchi e di ombre86. Il riferimento è ai commi 39°, 40° e 41° della legge n. 76/2016 e, in particolare alla lettera a) del 40°, secondo cui ogni convivente può designare l’altro come suo «rappresentante» per le decisioni sanitarie «in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere».

84 Il protocollo d’intesa, sottoscritto il 26.6.2014, è consultabile all’indirizzo: www.provincia.prato.it.

Relazione del Difensore civico della regione Piemonte, cit., 28. 85

Sul punto si vedano le riflessioni di Zatti e Piccinni, La faccia nascosta delle norme: dall’equiparazione del convivente una disciplina delle DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1283 ss. Sia lecito inoltre rinviare a Olivero, Tra ombre e specchi: brevi riflessioni sui commi 39, 40 e 41 della legge Cirinnà, ivi, 2019, II, 347 ss. In tema cfr. altresì CALÒ, Convivenze: il legislatore crea il testamento biologico credendo di estenderlo, in Notariato, 2016, 596 ss. 86

Così, del tutto condivisibilmente, Mantovani, Relazione di cura e disposizioni anticipate di trattamento, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 223. E si veda altresì Piccinni, Decidere per il paziente: rappresentanza e cura dopo la l. n. 219/2017, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, spec. 1124.

83

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La previsione di un simile potere è subito apparsa, nel 2016, singolare. E a onor del vero a molti è sembrata sbrigativa nella forma e imperfetta nel merito. Tanto più imperfetta – si è fatto notare – perché quell’inedito potere di rappresentanza veniva introdotto solo tra conviventi di fatto, e cioè nel modello familiare più fluido e residuale: non nelle unioni civili e non nel matrimonio (per non parlare dei single). Troppo poco davvero per soddisfare le lunghe attese di una disciplina a tutto tondo delle disposizioni mediche anticipate. In quella normicina stava però l’avvisaglia di un vento nuovo. E quando l’anno dopo si è approvata la legge n. 219 sul consenso informato e le d.a.t. i limiti del comma 40° sono diventati irrilevanti e alcuni hanno anzi parlato di tacita abrogazione. Bastava, ormai, la disciplina nuova87. Una simile lettura, tuttavia, ha rinunciato troppo presto a indagare quali regole implicite88 si nascondessero sotto la legge 76. O, se si vuole, ha rinunciato troppo presto a porsi una domanda cruciale. Nei suoi 69 commi la legge era venuta a regolare non solo le convivenze di fatto (commi 36 ss.), ma anche le unioni civili. Innanzitutto le unioni civili (commi 1 ss.) modellate sul matrimonio civile. Visti questi due campi d’azione, perché mai non accordare anche ai civiluniti il potere di scegliersi l’un l’altro come “rappresentanti” in caso di malattia? In termini razionali nessuna spiegazione tiene, fuorché una: lo si è stimato superfluo. Superfluo perché implicito; ed implicito appunto perché l’unione civile (a differenza della convivenza di fatto)89 nasce come il matrimonio da un atto solenne a cui si riconnette un retico-

Sui problemi di coordinamento tra la legge 219/2017 e i commi 40° e 41° della legge 76/2016 v. Cordiano, L’incapacità e l’impossibilità di provvedere ai propri interessi del convivente: disposizioni in materia di salute e fine-vita, in Legami di coppia e modelli familiari, a cura di Ferrando, Fortino e Ruscello, nel Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, le riforme 2012-2018, Milano, 2019, 190 ss. 87

Implicite e dall’«andamento carsico» come quelle scrutinate da Caterina, Il crittotipo, muto e inattuato, in Le nuove frontiere della comparazione, a cura di Antoniolli, Benacchio e Toniatti, Trento, 2012, 85 ss. (spec. 91 ss.). 88

89 Vedi Lenti, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, in Jus civile, 2016, 97.

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Saggi e pareri

lato di diritti e doveri che mimano per l’appunto quelli tra coniugi90. Va da sé – deve aver pensato allora il legislatore – che come i coniugi così gli uniti civilmente devono reciprocamente “esserci” nei frangenti difficili della malattia per parlare coi medici e rappresentare loro le volontà del partner incapace91. E così un potere implicito tra coniugi (e probabilmente tra genitori e figli, fuori e dentro il matrimonio) è passato tacitamente all’unione civile per riemergere – espressamente – solo nelle convivenze di fatto.

In questa direzione – sia pure in termini dubitativi – cfr. Liberali, La problematica individuazione e il ruolo dei soggetti terzi coinvolti nella relazione di cura fra medico e paziente nella nuova disciplina sul consenso informato e sulle DAT, in Forum Quad. cost., 25.6.2018, 11: «La legge n. 76 del 2016, dunque, ha introdotto espressamente per i conviventi di fatto (già prima della legge n. 219 del 2017) la possibilità di definire le proprie disposizioni anticipate di trattamento, dando (forse) per scontato che questa stessa possibilità potesse già valere per i coniugi (e poi per le parti delle unioni civili, a essi equiparati» (il corsivo è una mia aggiunta). 90

Sui protettori naturali: Piccinni, Relazione terapeutica e consenso al trattamento dell’adulto “incapace”: dalla sostituzione al sostegno, in I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris e Zatti, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Milano, 2011, 385. In argomento della stessa autrice, v. altresì Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, spec. 261 s., sub lett. g). Per una valorizzazione del ruolo dei protettori naturali v. altresì Cembrani et al., Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile, ivi, 240. In precedenza, sui protettori naturali v. almeno De Acutis, Ebene e Zatti, La cura degli interessi del malato. Strumenti di intervento organizzato e occasionale, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di Busnelli e Breccia, Milano, 1978, 152 ss.; Nannini, Il consenso al trattamento medico. Presupposti teorici e applicazioni giurisprudenziali in Francia, Germania e Italia, Milano, 1989, 486. Sui limiti in cui i familiari possono avere voce in capitolo v., da ultimo, Di Sapio, Muritano e Pischetola, Disposizioni anticipate di trattamento: tempo di comunicazione, tempo di cura, in Familia, 2019, 399 ss. Va preso atto, invero, che anche la migliore dottrina, pur considerando utile (o ineluttabile) che i medici parlino coi familiari del malato, è poi del tutto riluttante a riconoscere ai congiunti poteri rappresentativi o decisori in ordine alle scelte terapeutiche: v. Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, in I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris e Zatti, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Milano, 2011, 221; in generale Rossi, voce «consenso informato», nel Digesto disc. priv., sez. civ., aggiornam., Torino, 2012, 202 e, ivi, ulteriori rif. 91


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4. Osservazioni e proposte conclusive Gli argomenti toccati – se tiriamo le fila – evidenziano dunque un dato costante e perfino scontato: e cioè che la proliferazione di schemi giuridici che si rifanno al consenso e alla capacità (contratti da stipulare, informative da ricevere, consensi informati da dare) entra in crisi in un ambito in cui è fisiologico che una parte dei soggetti non abbia più la lucidità per capire appieno la portata delle procedure a cui servono quei consensi e quelle informazioni. Le risposte al problema ci sono: sono l’amministratore di sostegno con poteri di affiancamento o rappresentanza in ambito sanitario; sono le cure pianificate; sono le d.a.t. e i buoni uffici del fiduciario. Il punto è che vi sarà sempre chi, alla bisogna, non avrà questi strumenti. Ed è qui che serve un correttivo che appiani lo scarto tra teoria e prassi. Ritorniamo all’ospedalizzazione che produce, come contratto, effetti protettivi per l’incolumità del malato: tanto più la vigilanza dev’essere attenta quanto più il paziente è incapace di discernimento; ma meno è capace all’atto dell’accettazione meno reggono gli schemi classici del contratto come incontro di due volontà che negoziano l’affare. Allo stesso modo – lo si è appena visto – un paziente incapace non può ricevere esaustive informazioni sul trattamento dei dati personali né sui trattamenti sanitari né rendere i consensi del caso; ma non è detto che il sistematico ricorso al giudice sia la sola via o la migliore: per il malato, per i medici, per il giudice stesso. La soluzione talvolta può essere un’altra, ed è a portata di mano. Analizzando la prassi, in effetti, si è visto emergere a più riprese il coinvolgimento dei familiari dell’incapace. Vicini a lui e per lui portatori di istanze rivolte ai medici, essi appaiono naturalmente portati a dialogare con i sanitari per il bene del malato. Il sistema giuridico, dal canto suo, non fa mistero di vedere nei “proches”, per dirla alla francese, i soggetti in teoria più idonei a svolgere le funzioni di assistenza e rappresentanza dei soggetti fragili. Tale è l’input che chiaramente ci dà la lista dei “preferibili” amministratori di sostegno nell’art. 408 c.c.; ma lo stesso può ripetersi per quel pulviscolo di norme

censite nel § 3.1; e ancora più eloquenti sono gli spunti ricavabili – come si è detto – dalle leggi 76/2016 e 219/2017. A questo insieme di evidenze empiriche e dati legali si deve soltanto trovare una forma; e la forma si ricava per contrasto dalle norme esplicite. Con i loro silenzi e le loro mezze ammissioni, esse sembrano infatti presupporre una regola implicita, adagiata sul fondo del sistema giuridico e radicata negli usi e nel sentire sociale. Ogni malato incapace – essa dice – deve contare sul fatto che i familiari a lui più vicini siano legittimati a interloquire con i medici, perché sia fatto il suo interesse nel modo migliore e la sua volontà nel modo più fedele. Inutile dire che un tale potere – affinché il dialogo tra norme espresse e implicita non generi attriti – non può che essere residuale92. Solo se manchino soggetti già investiti (dall’interessato o dal giudice) del compito di sostituirsi al malato, ha infatti senso chiamare in causa i familiari “riservisti”: il coniuge e il civilunito, anzitutto93; e in loro mancanza i figli; e se mancano pure costoro i genitori dell’adulto incapace94. Una volta, però, chiamati in causa, ad essi va riconosciuta una triplice legittimazione, perché tre, si è visto, sono i fronti su cui la legge impegna il discernimento del paziente. Occorre cioè ammettere che il prossimo congiunto, che assiste il malato, è lì al suo capezzale o lo conforta in ospedale – in difetto, si ripete, di fiduciari, amministratori e tutori – possa: a) ricevere l’informativa sul trattamento dei dati sanitari (come del resto già prevede l’art. 82 c. privacy); b) essere l’orecchio e la voce dell’incapace per aiutarlo a rendere il consenso informato ai trattamenti medici; c) stipulare per l’incapace i contratti del caso, incluso quello di spedalità, essendo evidente l’interesse dello stipulante (ex art. 1411 c.c.) a che sia curata la salute del congiunto. In questo modo – e cioè solo ipotizzando l’opera-

Di «residuale rilevanza delle rete di protezione informale» parla Piccinni, Prendere sul serio, cit., 267. 92

93

Come si ricava dal comma 40° della legge n. 76/2016.

Secondo la logica del familiare più prossimo che si ricava, ad esempio, dalla disciplina della cremazione (art. 3, comma 1°, lett. b), n. 3, legge n. 130/2001). 94

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re di questa legittimazione residuale – il sistema torna a funzionare senza salti logici95 e finzioni. Dunque tutto risolto? Ovviamente no, perché nessuna soluzione è taumaturgica; e qui vi potrebbe essere l’inconveniente derivante dalla potenziale conflittualità di più familiari (come fare a sentirli tutti?); e più in generale il timore che l’incapace si trovi esposto alla tirannia dei congiunti. Non c’è dubbio che le difficoltà esistono, ma non vanno ingigantite, perché si potrebbe da un canto presumere, come fa il codice svizzero96, che ogni familiare agisce d’intesa con gli altri; e soprattutto perché i rischi di una legittimazione a priori possono emendarsi con un controllo in itinere, con l’eventuale nomina di un amministratore (su ricorso di uno dei soggetti dell’art. 406 c.c.) affinché siano rivalutate le misure fin lì adottate e senza che nessuna di esse possa riuscire irreparabile. In effetti, se neppure l’amministratore di sostegno con rappresentanza esclusiva in ambito sanitario può di per sé rifiutare i trattamenti di sostegno vitale (salvo uno specifico conferimento di tale potere da parte del giudice)97, tanto più va escluso che un simile potere rigermini in capo ai “semplici” familiari negli interstizi della regola residuale: e ciò dovrebbe fugare paure eccessive ad accordare a tale regola lo spazio ragionevole che la prassi da sempre le affida.

Come i «salti logici» tra capacità a contrattare e capacità a rendere il rendere il consenso informato già lucidamente colti da Zambrano, op. cit., 771. 95

96

Art. 378, al. 2.

V. Corte cost., 13.6.2019, n. 144, consultabile all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it. 97

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Saggi e pareri


i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Autodeterminazione terapeutica p e risarcimento del danno Patrizia Ziviz

Professoressa nell’Università di Trieste Sommario: 1. Violazione dell’autodeterminazione terapeutica. – 2. Autonomia della lesione. – 3. Risarcimento del danno non patrimoniale. – 4. Quali danni risarcire.

Abstract: Il riconoscimento, da parte della giurisprudenza, della tutela risarcitoria del paziente – in caso di violazione degli obblighi informativi volti a ottenere il consenso al trattamento sanitario – pone l’interprete di fronte alla necessità di individuare quali siano i pregiudizi non patrimoniali provocati da tale illecito e quali appaiano le regole risarcitorie agli stessi applicabili. The compensation of the patient, recognised by the case-law, for the violation of its right to information in case of medical intervention, obliges the legal scholar to identify the non-pecuniary losses and the operational rules of compensation of such losses.

1. Violazione dell’autodeterminazione terapeutica Nel nostro ordinamento, a ciascun individuo viene garantita l’autodeterminazione con riguardo a qualsiasi genere di trattamento medico. Ogni persona è libera di optare tra le varie alternative terapeutiche, compresa la possibilità di rifiuto e interruzione del trattamento stesso: libertà il cui radicamento costituzionale è stato individuato – oltre che nelle generali previsioni di cui all’art. 2 Cost. – nell’art. 32 Cost., in virtù del quale even-

tuali trattamenti sanitari obbligatori possono essere previsti soltanto a norma di legge e devono, in ogni caso, assicurare il rispetto della persona umana, e nell’art. 13 Cost., il quale garantisce l’inviolabilità della libertà personale. L’autodeterminazione terapeutica incarna, pertanto, uno specifico versante lungo il quale può essere esercitata la libertà dell’individuo e pone, in caso di violazione, problematiche peculiari (del tutto diverse da quelle destinate ad emergere laddove la lesione dell’autodeterminazione abbia luogo in conseguenza a errori di carattere diagnostico da parte del medico: come accade, ad esempio, quando il sanitario abbia omesso di rilevare le malformazioni congenite del feto, impedendo l’esercizio di una scelta in ordine all’eventuale – ove consentita – interruzione della gravidanza). Secondo quanto oggi espressamente previsto dall’art. 1 della l. n. 219/2017 – ma già dagli interpreti ampiamente desunto, in passato, dai principi affermati sia a livello interno che sovranazionale – sussiste in capo al medico uno specifico obbligo di carattere informativo; appare necessario comunicare al paziente tutte le notizie e indicazioni utili allo stesso affinché costui possa acquisire piena consapevolezza con riguardo a tutte le implicazioni del trattamento cui si accinge a sottoporsi. A tale riguardo, la Cassazione ha osservato che “il medico è tenuto, in ogni caso, a rendere edotto il paziente, indipendentemente dalla riconducibilità o meno di tale attività in-

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formativa ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale, trovando titolo il dovere in questione nella qualificazione ‘illecita’ della condotta omissiva o reticente, in quanto violativa di un diritto fondamentale della persona, e dunque da ritenere ‘contra jus’, indipendentemente dalla sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o del contatto sociale, ovvero dell’illecito extracontrattuale: ai fini della verifica della violazione del diritto alla autodeterminazione non assume, dunque, alcun rilievo la modifica legislativa della natura della responsabilità professionale medica, trasformata da contrattuale o paracontrattuale ad extracontrattuale, operata dalle leggi intervenute nel 2012 (DL n. 158/2012 conv. Legge n. 189/2012, cd. Balduzzi) e nel 2017 (legge n. 24/2017, cd Gelli-Bianco)”1. Vari interpreti, osservando come l’obbligo informativo appaia rivolto a ridurre il deficit conoscitivo che sussiste in capo al paziente rispetto al medico, hanno individuato un parallelismo con altre ipotesi di asimmetria informativa, come quella riguardante il rapporto tra professionista e consumatore. Si tratta, a ben vedere, di un’analogia che non appare del tutto calzante: nel rapporto medico-paziente la relazione non si pone in termini di contrapposizione, bensì viene definita quale alleanza terapeutica. Non si tratta, quindi, di trovare un bilanciamento tra interessi confliggenti, bensì di identificare la miglior soluzione nel trattamento medico a fronte delle concrete esigenze personali del paziente. Laddove venga accertata una violazione degli obblighi informativi – in quanto il trattamento sanitario sia stato effettuato in assenza di consenso o, comunque, sia stato autorizzato da un soggetto non pienamente edotto quanto alle implicazioni della terapia – viene a delinearsi, in capo al medico, una peculiare ipotesi di responsabilità, legata all’inadempimento di una prestazione che si distingue da quella strettamente sanitaria. Tale autonomia è stata sottolineata ripetutamente dalla Suprema Corte, secondo cui “poiché l’obbligo informativo del medico si correla al diritto fondamentale del paziente all’espressione della consa-

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pevole adesione al trattamento sanitario propostogli, la prestazione che ne forma oggetto costituisce una prestazione distinta da quella sanitaria, la quale è finalizzata alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute. Di conseguenza la violazione dell’obbligo assume autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria del sanitario, in quanto, mentre l’inesatta esecuzione del trattamento medico-terapeutico determina la lesione del diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), l’inadempimento dell’obbligo di acquisizione del consenso informato determina la lesione del (diverso) diritto fondamentale all’autodeterminazione del paziente (art. 32, secondo comma, Cost.)”2. Va, d’altro canto, evidenziato che la prestazione di carattere informativo – pur distinguendosi da quella relativa all’effettuazione del trattamento medico – confluisce assieme a quest’ultima nell’ambito della relazione di cura instaurata tra medico e paziente: come si evince chiaramente dalla previsione dell’art. 1, comma 8°, della l. n. 219/2017, secondo cui il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura. Gli stessi giudici di legittimità riconoscono che “la relazione medico-paziente si caratterizza per la unitarietà del rapporto giuridico articolato in plurime obbligazioni tra loro poste in nesso di connessione strumentale, in quanto tutte convergenti al perseguimento del risultato della cura e del risanamento del soggetto”3. Il fatto che venga posta in luce la differenza tra le due prestazioni serve a sottolineare la possibilità che si verifichi l’inadempimento di una soltanto di esse; mentre, laddove ricorra la violazione di entrambe, è necessario che il paziente provveda ad avanzare specifica domanda per ciascuno dei due profili. A tale riguardo, la giurisprudenza ha più volte sottolineato la diversità della domanda volta a ottenere il risarcimento del danno derivante da errore nell’esecuzione dell’intervento chirurgico da quella diretta a far valere la tutela per inadempimento degli obblighi informativi, per cui non

Da ultimo, Cass., 15.5.2018, n. 11749, in Foro it., 2018, I, 2400.

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Cass., 11.11.2019, n. 28985, in Giuda al dir., 2019, 32.

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Cass., 11.11.2019, n. 28985, cit.


Autodeterminazione terapeutica e risarcimento del danno

potrà essere prospettato per la prima volta in appello il mancato risarcimento del danno derivante da omessa acquisizione del consenso informato quando in primo grado la richiesta risarcitoria riguardi solo il danno alla salute derivante da errore nel trattamento. L’inadempimento degli obblighi informativi finalizzati a ottenere il consenso del paziente è suscettibile di provocare, da un lato, la (eventuale) lesione della salute, correlata alle taciute complicanze del trattamento, e, dall’altro lato, la lesione dell’autodeterminazione del paziente. È proprio in relazione a questo secondo profilo che, da qualche anno a questa parte, si registrano significative evoluzioni giurisprudenziali: le quali, tuttavia, non sono riuscite ancora a sciogliere tutti i nodi che emergono in questa sfuggente materia, dove la necessità di garantire effettività alla tutela va calibrata in modo da impedire che la lesione dell’autodeterminazione diventi un pretesto utile a fornire sempre e comunque un risarcimento al paziente insoddisfatto del trattamento. Si tratta, pertanto, di identificare – a fronte di tale peculiare figura di illecito – le compromissioni suscettibili di scaturire in capo al paziente e di definire l’ampiezza della relativa regola risarcitoria.

2. Autonomia della lesione Da un decennio a questa parte, consolidato risulta – presso i giudici di legittimità – l’indirizzo volto a riconoscere autonoma rilevanza, sul piano risarcitorio, alla lesione dell’autodeterminazione. La Suprema Corte appare, infatti, orientata a riconoscere che “la mancanza di consenso può assumere rilievo ai fini risarcitori quando siano configurabili conseguenze pregiudizievoli derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato, del tutto a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente”4. La tutela della persona risulta, in tal modo, proiettata oltre l’idea di salute intesa come assenza di malattia, per diventare espressione di un benessere in armonia con l’immagine che l’in-

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Cass., 14.11.2017, n. 26827, in Ri.da.re.

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dividuo ha di sé. Al paziente viene riconosciuta la libertà nella gestione del proprio corpo, per cui egli può decidere di rifiutare o interrompere le cure, in accordo con il proprio sentire e con le proprie convinzioni personali: e ciò quand’anche le sue scelte, in termini di appropriatezza terapeutica, possano apparire irrazionali. L’autodeterminazione in campo terapeutico rappresenta il presidio di un ventaglio ampio di valori, in quanto viene a coinvolgere – oltre alla salute – la dignità e l’identità della persona. In tale prospettiva, al paziente viene garantita una protezione sul piano risarcitorio che prescinde dall’accertamento, a suo carico, di complicanze legate al trattamento non correttamente assentito. Sono state così superate le resistenze degli interpreti a delineare in capo al medico un’ipotesi di responsabilità anche quando il trattamento sanitario risulti correttamente eseguito, e non abbia prodotto alcun tipo di compromissione dell’integrità psico-fisica del paziente: ipotesi che viene descritta dagli interpreti nei termini di lesione pura all’autodeterminazione. Si tratta, in ogni caso, di sottolineare come a questo tipo di tutela non possa essere attribuita una funzione sussidiaria, per cui la stessa sarebbe attivabile esclusivamente ove il paziente non abbia visto coinvolta la propria integrità psico-fisica; si finirebbe, altrimenti, per applicare in maniera ingiustificata una logica di assorbimento, volta a convogliare entro il perimetro della lesione alla salute quella che rappresenta una differente violazione. Bisogna, pertanto, riconoscere che la protezione risarcitoria deve scattare in quanto l’autodeterminazione terapeutica sia stata negativamente incisa, siano o meno venute a manifestarsi delle complicanze del trattamento; e, altresì, nelle ipotesi in cui quest’ultimo non sia stato eseguito a regola d’arte, essendo emersa una colpa del medico. Alquanto variegata appare la casistica suscettibile di verificarsi in concreto. I giudici di legittimità, hanno evidenziato – senza, peraltro, risultare esaustivi – le seguenti ipotesi “A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi nelle medesime condizioni, hic et nunc: in tal caso il riResponsabilità Medica 2019, n. 4


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sarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale; B) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente; C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla situazione ‘differenziale’ tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto; D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto; E) omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti […]: in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile […] qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, salva possibilità di provata contestazione della controparte”5.

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Cass., 11.11.2019, n. 28985, cit.

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Saggi e pareri

Al fine di attivare la tutela risarcitoria, il paziente deve allegare l’inadempimento del medico relativamente agli obblighi informativi, fornendo la prova dell’esistenza del nesso di causalità tra tale condotta e la lesione della propria autodeterminazione. Secondo la Cassazione, il legame causale andrebbe escluso laddove il paziente fosse pienamente consapevole della situazione: “se il paziente sappia perfettamente quale sia l’intervento cui ha da essere sottoposto; quali ne siano le conseguenze, quali i rischi, quali le alternative (ad esempio, perché vi si è già sottoposto; perché è stato già informato da terzi; perché ha una competenza specifica su questa materia), l’eventuale inadempimento, da parte del medico, dell’obbligo di informarlo è giuridicamente irrilevante, per l’inconcepibilità d’un valido nesso di causa tra esso e le conseguenze dannose del vulnus alla libertà di autodeterminazione. Non informare il paziente, infatti, è una condotta colposa che in tanto può produrre un danno giuridicamente rilevante, in quanto impedisca al paziente di autodeterminarsi in modo libero e consapevole. Ma se il paziente sia già, per qualsivoglia causa, perfettamente consapevole delle conseguenze delle proprie scelte, mai potrà pretendere alcun risarcimento dal medico che non lo informi: non perché la condotta di quest’ultimo sia scriminata, ma perché qualsiasi conseguenza svantaggiosa dovrebbe ricondursi causalmente alle scelte consapevoli del paziente, piuttosto che al deficit informativo del medico”6. Per quel che concerne l’accertamento della relazione causale tra il comportamento del medico e le compromissioni scaturite dalla lesione dell’autodeterminazione, parte della dottrina ritiene necessaria la dimostrazione che – in presenza di una corretta informazione – il paziente non si sarebbe sottoposto all’intervento. Di diverso avviso appare la giurisprudenza, la quale – secondo una prospettiva pienamente condivisibile – non considera indispensabile, ai fini risarcitori, una simile verifica. In effetti, ciò che occorre accertare è che le compromissioni lamentate dal paziente, in quanto dipendenti dal suo stato di ignoranza o falsa

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Cass., 27.3.2018, n. 7516, in Foro it., 2018, I, 2401.


Autodeterminazione terapeutica e risarcimento del danno

conoscenza, non si sarebbero prodotte a fronte di un corretto esercizio dei doveri informativi da parte del medico: il che accade non soltanto nei casi in cui la scelta del paziente si sarebbe orientata verso un rifiuto del trattamento, ma anche qualora, egli “avrebbe optato per un differimento del tempo in cui sottoporsi all’intervento, in modo da poter perseguire altri interessi od assolvere a propri impegni che non avrebbero potuto essere altrimenti soddisfatti in un tempo successivo”7. Nessun peso riveste, altresì, l’accertamento di un ipotetico rifiuto del trattamento da parte di un paziente correttamente informato per quei pregiudizi che appaiono causati dall’impreparazione derivante dalle carenze informative oppure siano legati alla preclusione di scelte di vita, estranee alla terapia, che avrebbero potuto bensì essere esercitate – in presenza di un’esaustiva informazione – prima di sottoporsi all’intervento.

3. Risarcimento del danno non patrimoniale Posto che, a fronte della lesione dell’autodeterminazione, la tutela appare destinata a coinvolgere essenzialmente compromissioni di carattere non patrimoniale, l’interprete dovrà far capo alle indicazioni di carattere generale che governano tale categoria di pregiudizi. In particolare, si tratta di dare applicazione alla disciplina prevista dall’art. 2059 c.c., secondo la lettura costituzionalmente orientata della norma formulata dalle Sezioni Unite nelle pronunce del novembre 2008. La regola risarcitoria selettiva individuata da tale disposizione prevede, fuori dai casi esplicitamente regolati dalla legge, la necessità di accertare la rilevanza costituzionale dell’interesse leso. Ora, per quanto concerne l’autodeterminazione, nessun dubbio emerge al riguardo, anche alla luce delle conferme in tal senso provenienti dalla Consulta8. I dubbi, semmai, si pongono quanto al superamento della soglia di tollerabilità, posto che “condizione di risarcibilità (in via strettamente

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Cass., 11.11.2019, n. 28985, cit.

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Corte cost., 23.12.2008, n. 438, in Foro it., 2009, I, 1328.

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equitativa) di tale tipo di danno non patrimoniale è che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni Unite nn. 26972-26975 del 2008, con le quali è stato condivisibilmente affermato che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico”9. In applicazione delle indicazioni formulate dalle Sezioni Unite, si tratterebbe allora di accertare – da un lato – un livello minimo di gravità in ordine alla lesione, e di verificare – dall’altro lato – che la stessa abbia generato un pregiudizio qualificato dal connotato della serietà. Si tratta di criteri selettivi i quali incontrano un’applicazione problematica, considerato che nessuna indicazione viene fornita dalla giurisprudenza intorno alle modalità attraverso le quali individuare una soglia di sopportazione – da parte del paziente – di carenze informative, da ritenersi accettabili in quanto corrispondenti a una violazione del diritto all’autodeterminazione da considerarsi non grave e come tale irrilevante ai fini risarcitori. Una prospettiva del genere finisce – d’altro canto – per collidere in maniera plateale con i principi affermati in materia di consenso informato, secondo i quali – in un campo delicato come quello del trattamento sanitario – le informazioni devono essere quanto più complete e compiute possibili. Una volta che la carenza informativa venga a incidere sull’esercizio della libertà di autodeterminazione, non si vede in che termini possa venir tratteggiata un’area di irresponsabilità del medico, a fronte di una lesione considerata lieve e, come tale, rientrante nel dovere di tolleranza da parte del paziente. Ancora più complicato appare, poi, applicare in questo campo il concetto di serietà del pregiudizio, considerato come la signoria riconosciuta all’individuo con riguardo ai trattamenti sanitari risulti assoluta, e possa quindi essere esercitata alla stregua di valori pesati in maniera del tutto idiosincratica da parte del paziente. Va,

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Cass., 21.6.2018, n. 16336, in Guida al dir., 2018, 68.

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peraltro, riconosciuto che le restrizioni legate al superamento della soglia di tollerabilità finiscono per trovare eco esclusivamente a livello di principio, in quanto non sono ad oggi emersi riscontri concreti quanto a un’esclusione della tutela fondata sulla natura bagattellare del pregiudizio. In verità è un diverso principio – di portata generale – a costituire il muro sul quale si infrangono, molto spesso, le istanze risarcitorie del paziente non correttamente informato. In materia di danno non patrimoniale, è affermazione condivisa quella secondo cui è sempre indispensabile distinguere la lesione del diritto dalle conseguenze pregiudizievoli di carattere non economico da quest’ultima provocate. Ciò significa che, per quanto riguarda il nostro campo di indagine, non è sufficiente – al fine di attivare la tutela risarcitoria – dimostrare l’avvenuta violazione dell’autodeterminazione; occorre bensì provare che l’evento lesivo abbia prodotto una qualche conseguenza nella sfera del paziente. A tale riguardo i giudici di legittimità rilevano che “il danno-evento è rappresentato dalla stessa esecuzione, da parte del medico, dell’intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso. Esso risulta, dunque, dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva. Il danno-conseguenza (indicato dall’art. 1223 c.c. come “perdita subita” o come “mancato guadagno”) è, invece, rappresentato dall’effetto pregiudizievole che la mancanza dell’acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell’intervento, ha determinato sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima dell’intervento”10. Spetta quindi al paziente fornire la prova quanto alla ricorrenza di ripercussioni negative a suo carico; precisandosi, tuttavia, come quest’ultimo possa limitarsi a una mera allegazione quando sono in gioco pregiudizi la cui sussistenza sia ricostruibile sulla base di un ragionamento presuntivo da parte del giudice. Per quelle che rappresentano conseguenze pre-

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Cass., 15.5.2018, n. 11749, cit.

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Saggi e pareri

giudizievoli normalmente ricollegabili alla lesione dell’autodeterminazione, il paziente potrà quindi limitarsi all’identificazione delle compromissioni patite. Un ruolo centrale, ai fini del riconoscimento della tutela risarcitoria, spetta – in definitiva – all’individuazione di quelli che sono i pregiudizi ricollegabili alla lesione dell’autodeterminazione.

4. Quali danni risarcire Ove il medico non abbia rispettato le regole in materia di consenso informato, un ruolo a sé stante è ricoperto dai riverberi negativi derivanti dalle complicanze delle quali il paziente non sia stato preventivamente edotto. Il pregiudizio alla salute – pur non essendo provocato da alcun errore del sanitario – risulta in tal caso attratto nell’area della risarcibilità in ragione dell’avvenuta violazione dell’obbligo informativo: la quale non costituisce causa diretta della lesione alla salute e del conseguente danno, ma incarna un antecedente logico-causale della stessa. Il risarcimento del danno non patrimoniale alla salute appare pertanto legato alla dimostrazione, da parte del paziente, che – in caso di informazione corretta – egli non avrebbe affrontato il trattamento, manifestando il proprio rifiuto. La Suprema Corte sottolinea che tale prova potrà essere fornita sulla base di presunzioni “la cui efficienza dimostrativa seguirà una sorta di ideale scala di proporzionalità inversa, a seconda della gravità delle condizioni di salute e della necessarietà dell’operazione”11. Più difficile, per la giurisprudenza, risulta l’individuazione dei pregiudizi destinati a scaturire (non già dalla violazione della salute, bensì) direttamente dalla lesione dell’autodeterminazione terapeutica. A tale riguardo, rammentiamo come i giudici di legittimità abbiano ripetutamente sottolineato che l’assolvimento dell’obbligo informativo da parte del medico pone il paziente nella situazione di poter scegliere tra le seguenti opzioni: a) rifiutare l’intervento, rimanendo nelle condizioni ritenute pregiudizievoli dal medico, anche a rischio di perdere la vita; b) rimandare l’inter-

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Cass., 31.1.2018, n. 2369, in Guida al dir., 2018, 63.


Autodeterminazione terapeutica e risarcimento del danno

vento a un momento successivo; c) effettuare l’intervento presso una diversa struttura sanitaria. Si afferma, allora, che ogni carenza informativa – in quanto suscettibile di togliere al paziente la possibilità di poter optare tra queste differenti scelte – sarebbe fonte di un danno-conseguenza, corrispondente alla privazione di tale opportunità. Va, tuttavia, osservato che ricostruire il danno nei termini di impedimento di una scelta finisce per rappresentare null’altro che una variante linguistica per descrivere la lesione dell’autodeterminazione. La stessa Cassazione, del resto, ha osservato che la perdita della possibilità di scelta “concreta una privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fisica (libertà che, costituendo un bene di per sé, quale aspetto della generica libertà personale, viene negata e, quindi, risulta sacrificata irrimediabilmente, si che si configura come “perdita” di un bene personale)”12. Né pare, d’altro canto, prospettabile una ricostruzione del danno nei termini di perdita di chance, quale bene presente nel patrimonio del soggetto: non è, infatti, qui in gioco un risultato sperato, relativamente al quale il soggetto coltiva delle opportunità di conseguimento; ben diversamente il paziente è titolare di un diritto, godendo del quale gli è consentito di autodeterminarsi in ordine alla gestione del proprio corpo. Una lettura che identifica il pregiudizio con la perdita della possibilità di scelta finisce, pertanto, per prospettare il ristoro di un danno-evento. Muovendosi in una linea mirante a identificare le compromissioni innescate dalla lesione all’autodeterminazione – in termini da quest’ultima distinti – la Cassazione richiama le conseguenze negative cui il paziente è andato incontro nella sfera personale, e che ove debitamente informato avrebbe scelto di evitare anche a costo di affrontare compromissioni di altro genere. Un esempio concreto, spesso richiamato dalla giurisprudenza, è quello del testimone di Geova: il quale – messo di fronte alla scelta tra due interessi configgenti ad esso facenti capo – preferisca affrontare il rischio di morte piuttosto che subire una trasfusione di

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Cass., 15.5.2018, n. 11749, cit.

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sangue suscettibile di pregiudicare le sue possibilità di salvezza spirituale. Si tratta, peraltro, di compromissioni che sono destinate a manifestarsi esclusivamente in relazione a situazioni peculiari, e non già per qualsiasi ipotesi di violazione dell’autodeterminazione terapeutica. Altro specifico profilo di danno, di frequente evocato dai giudici di legittimità, è quello corrispondente alle ripercussioni psicologiche negative determinate dal verificarsi di una situazione non prevista; la Suprema Corte parla “del turbamento e della sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate, e, anche per questo, più difficilmente accettate”, rilevando che “se il paziente non sia stato convenientemente informato, quella condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili”13. In buona sostanza, ove l’informazione manchi o sia comunque lacunosa, a venire in evidenza sarebbe un turbamento emotivo legato all’“impreparazione” di fronte alla condizione provocata dal trattamento. Un pregiudizio del genere andrebbe risarcito in ogni caso, anche laddove risulti che il paziente avrebbe comunque assentito al trattamento: ciò in quanto il turbamento emotivo dipende esclusivamente dall’effetto sorpresa provocato dalla carenza informativa, tanto più rilevante quanto più gravi si rivelino le conseguenze inattese. Muovendosi nella prospettiva volta a configurare uno specifico profilo di danno – legato alla lesione dell’autodeterminazione – i giudici di legittimità fanno spesso riferimento alla sofferenza e alla contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente durante l’esecuzione dell’intervento e la convalescenza: pregiudizio che corrisponde allo sviluppo di circostanze connotate da normalità, per cui tali perdite andrebbero risarcite senza necessità di specifica prova. La linea di demarcazione tra

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Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Riv. it. med. leg., 2010, 774.

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lesione e conseguenze dannose, di ordine non patrimoniale, ad essa correlate diventa – in questo caso – più nebulosa; per sparire del tutto, attraverso una sostanziale sovrapposizione tra i due concetti, in quelle pronunce dove la Cassazione ipotizza che la sottoposizione della persona a trattamento sanitario non assentito incarni di per sé un’aggressione alla sua dignità, e – dunque – determini un pregiudizio da risarcire in ogni caso. Le varie ricostruzioni del pregiudizio fin qui illustrate vanno vagliate alla luce dei traguardi da ultimo raggiunti dalla Cassazione per quel che concerne, in generale, il sistema di risarcimento del danno non patrimoniale. Particolare rilievo assumono, da questo punto di vista, le indicazioni formulate dai giudici di legittimità nella sentenza n. 901/2018 e nell’ordinanza n. 7513/2018, con le quali – confermando una linea di lettura già affermata in passato – si riconosce la duplice essenza del danno non patrimoniale: che va distinto in danno dinamico-relazionale, quale modificazione peggiorativa della vita della vittima e danno morale, corrispondente al patimento emotivo in tutti i suoi aspetti. La sofferenza interiore e la modificazione negativa delle dinamiche relazionali rappresentano – in tale prospettiva – danni diversi e autonomamente risarcibili. La componente morale corrisponde alle compromissioni tradizionalmente descritte dalla giurisprudenza nei termini di patema d’animo e che si identificano con ogni genere di sofferenza emotiva. Per quel che concerne la componente dinamico-relazionale si tratta di far capo al “pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”14. Alla luce di tali indicazioni generali, la tutela risarcitoria a fronte della lesione all’autodeterminazione terapeutica del paziente andrà assicurata per quel che concerne i danni-conseguenza sia di carattere morale che relazionale sofferti dal

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Cass., 17.1.2018, n. 901, in Foro it., 2018, I, 911.

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paziente. Su questo piano, va rammentato come il paziente sia libero di esercitare le proprie scelte secondo le personali inclinazioni, contraddistinte da una forte soggettività. Le compromissioni variano – quindi – caso per caso, in quanto legate alla specifica situazione prodotta dal mancato esercizio della libertà decisionale. Ciò vale anche per il danno da impreparazione, considerato che dipende dal concreto atteggiarsi delle conseguenze negative prodotte dal trattamento sanitario il turbamento emotivo determinato dall’effetto-sorpresa. Resta da chiedersi se – a fronte della violazione delle regole sul consenso informato – un danno possa sussistere a prescindere dal manifestarsi di ulteriori conseguenze dannose. In particolare, si tratta di domandarsi se trovi spazio – entro il quadro generale tracciato dalla giurisprudenza in relazione al ristoro del danno non patrimoniale – una prospettiva volta a riconoscere la dannosità intrinseca della lesione all’autodeterminazione, posto che a venire conculcata sarebbe la dignità della persona. Bisogna rammentare – a tale riguardo – le indicazioni, talora prospettate dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’area morale del pregiudizio comprende, oltre alle sofferenze di carattere emotivo, un’ulteriore e distinta dimensione pregiudizievole, relativa alla compromissione della dignità della persona. A venire in evidenza sarebbe, dunque, un pregiudizio corrispondente allo spregio del valore dell’individuo, per cui il danno verrebbe a corrispondere al disconoscimento, in capo alla vittima, della sua qualità di persona umana. Tale conseguenza negativa, prodotta dal comportamento del danneggiante, appare diversa e indipendente dalla sofferenza emotiva patita dalla vittima, in quanto incarnata da una compromissione di carattere oggettivo: viene in evidenza una sorta di reificazione dell’individuo, percepibile nei termini di pregiudizio a livello di coscienza sociale. Nel campo della lesione dell’autodeterminazione, un danno del genere si concretizza non soltanto in ipotesi peculiari (come, ad esempio, qualora la terapia sia effettuata a soli fini sperimentali, senza che il paziente venga informato di questo scopo, per cui finisce per essere trattato come un’inconsapevole cavia), bensì in termini generali. Può, infatti, rite-


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nersi sussistere una compromissione della dignità ogni volta che abbia luogo la sottoposizione del paziente a un atto terapeutico non pienamente assentito: ciò per il fatto che egli viene espropriato della gestione del proprio corpo, in quanto divenuto oggetto e non soggetto della terapia. Non rileva, ai fini di una possibile esclusione della tutela risarcitoria, il fatto che il paziente – ove informato – avrebbe tenuto la medesima scelta: il pregiudizio si manifesta, infatti, in ragione dell’avvenuta coercizione nei confronti della persona, che non ha potuto manifestare la sua decisione con riguardo alla terapia. Al danno appena illustrato – destinato a manifestarsi in ogni caso di lesione dell’autodeterminazione – andranno ad aggiungersi gli ulteriori eventuali effetti negativi provocati dal mancato esercizio della scelta da parte del paziente: che possono aver coinvolto l’integrità psico-fisica o altri profili della sfera personale. Per quanto concerne la dimensione della salute, oltre ai già menzionati danni provocati dalle complicanze, si tratta di rammentare anche la possibile ricorrenza di altri pregiudizi: pensiamo, per richiamare i casi più volte evocati dai giudici di legittimità, all’ipotesi di un trattamento impeccabile privo di complicanze, che tuttavia si presenti più invasivo rispetto a quello che il paziente avrebbe potuto scegliere in alternativa, oppure a un trattamento che si riveli molto più doloroso – rispetto a un altro – sul piano della sofferenza fisica. Ovviamente, laddove sia in gioco una compromissione della salute suscettibile di incidere in maniera negativa sul rapporto parentale, la tutela andrà estesa anche ai pregiudizi patiti dai congiunti per le ripercussioni negative sofferte in ambito familiare.

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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Robotica e intelligenza p artificiale: profili di r.c. in campo sanitario Valentina Di Gregorio Professoressa nell’Università di Genova Sommario: 1. Le implicazioni giuridiche del progresso tecnologico: intelligenza artificiale e robotica. – 2. Il panorama di diritto interno ed europeo. – 3. Responsabilità oggettiva e per rischio d’impresa: la tutela contro i danni nell’uso di dispositivi medici e robot in ambito sanitario.

Abstract: Lo studio analizza l’impatto della robotica e dell’intelligenza artificiale sul sistema della responsabilità civile, con particolare riferimento al settore sanitario, soffermandosi a valutare se sia necessario introdurre una disciplina legislativa ad hoc, come raccomandato dalla Risoluzione del Parlamento europeo che nel 2017 ha invitato la Commissione a dettare nuove regole, o se la normativa attuale offra già una struttura adeguata a fornire tutela contro i danni provocati da dispositivi e robot anche in campo medico. The article analyzes the robotics and artificial intelligence impact on tort law, focused on health field, to evaluate whether it is necessary to introduce new liability rules, as recommended by the European Parliament Resolution in 2017, or if the current laws may already offer an adequate way to provide protection against damages caused by devices and robots even in the medical field.

1. Le implicazioni giuridiche del progresso tecnologico: intelligenza artificiale e robotica Intelligenza artificiale (AI) e robotica rappresentano la principale espressione della quinta rivoluzione industriale. A partire dai primi anni di questo millennio, i progressi scientifici nel campo della tecnologia hanno aperto nuovi scenari in cui l’elaborazione di sistemi sempre più sofisticati, in grado di prendere decisioni in base ad algoritmi e di sviluppare meccanismi di autoapprendimento hanno generato interrogativi sui temi della soggettività giuridica delle macchine1, della responsabilità civile, della tutela della riservatezza, della sicurezza informa-

Riguardo alla soggettività giuridica, uno dei temi, di natura essenzialmente filosofica, è quello della “coscienza della macchina”, affrontato da Frosini, Informatica diritto e società, Milano, 1988, 70 ss.; Id., Cibernetica, diritto e società, Milano, 1973, 104 ss. Con particolare riferimento ai robot, Costanza, Impresa robotizzata e responsabilità, in Intelligenza artificiale e responsabilità, a cura di Ruffolo, Milano, 2017, 107 ss. 1

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tica, ma anche della formazione del contratto e, in campo giudiziario, hanno posto quesiti sull’opportunità di utilizzare gli strumenti informatici per garantire l’uniformità delle decisioni giudiziali2. Ne è scaturita l’esigenza di individuare una disciplina che, considerata la rapida evoluzione delle nuove tecnologie e il loro impatto non solo nell’ambito dell’automazione industriale, ma anche sul piano sociale, preveda l’introduzione di norme standard multilivello e renda il più possibile omogenea l’interpretazione delle disposizioni vigenti. L’argomento catalizza oggi l’attenzione degli osservatori per le sue implicazioni giuridiche, economiche ed etiche ponendo questioni riguardo ai principi sui quali fondare la progettazione e la costruzione delle nuove tecnologie, sulle regole che dovrebbero governare i comportamenti delle macchine e sull’adattamento del fenomeno al sistema che, nel favorire il processo di innovazione, indispensabile allo sviluppo della società, deve contestualmente garantire il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento3.

Una società ad alto livello di tecnologia richiede infatti la predisposizione di strategie di compliance con le norme vigenti e l’elaborazione, ove occorra, di nuove regole idonee a sfruttare le opportunità offerte dallo sviluppo scientifico, limitando al contempo i rischi generati dalla produzione e commercializzazione di modelli e strumenti che, nel consentire alla comunità di usufruire dei vantaggi sul piano della maggiore accessibilità dei servizi da essi resi e della sicurezza pubblica, possano al contempo rappresentare un pericolo nella salvaguardia dei diritti e degli interessi della collettività. Nel settore dei trasporti, sono tuttora oggetto di sperimentazione – pur essendo per certi aspetti già affinate – varie tecniche di progettazione di autoveicoli “intelligenti”, c.d. Smart Cars, nella versione self driving, che viaggiano ammettendo l’intervento umano e driverless, senza conducente o che prevedono la presenza del conducente a bordo consentendo solo operazioni di arresto e di richiesta di intervento in emergenza, relativamente ai quali sorgono problemi di individuazio-

Comoglio, Nuove tecnologie e disponibilità della prova. L’accertamento del fatto nella diffusione delle conoscenze, Torino, 2018. L’impegno dell’Unione Europea nel campo del ricorso alle nuove tecnologie in ambito giurisdizionale è testimoniata dalla redazione a Strasburgo, il 3.12.2018, della European Ethical Charter on the Use of Artificial Intelligence in Judicial Systems and their Environment, adottata dalla Commissione europea per l’efficienza dei sistemi di giustizia (CEPEJ) che rileva l’esigenza di preservare la tutela dei diritti fondamentali, prevede la lotta alla discriminazione e il ricorso a criteri di trasparenza ed equità delle decisioni assunte con l’impiego delle nuove tecnologie.

tono di progettare sistemi hardware e software atti a fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, ad un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana. Il fondamento di questa scienza è ricondotto agli studi di Turing, considerato il padre dell’informatica (Turing, Computing machinery and Intelligence, in Mind, New Series, 1950, 59). La robotica, quale scienza che studia e sviluppa metodi che permettano ad una macchina (robot) di eseguire dei compiti specifici, riproducendo il lavoro umano in modo automatico, pone una serie di questioni sulla relazione uomo-macchina, le cui suggestioni sono espresse nelle tre leggi di Azimov, autore del romanzo “Io Robot”, secondo cui: “un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che a causa del proprio mancato intervento un essere umano riceva danno” (prima legge); “un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani purché tali ordini non contravvengano alla prima legge” (seconda legge); un robot deve proteggere la propria esistenza purché questo non contrasti con la prima e la seconda legge” (terza legge). Ad esse viene aggiunta una quarta legge, superiore per importanza a tutte le altre, ma valida solo per gli automi più sofisticati: “Un robot non può recar danno all’umanità e non può permettere che, a causa di un suo mancato intervento, l’umanità riceva danno”. Per alcune riflessioni sul tema v. Santosuosso, Boscarato, Garolfo, Robot e diritto: una prima ricognizione, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 494.

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La necessità di creare una definizione generalmente accettata di robot e di Artificial Intelligence (AI) è espressa nella Risoluzione del Parlamento europeo del 16.2.2017, recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla Robotica (2015/2103 (INL)), seguita dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 12.2.2019 su una politica industriale europea in materia di robotica e intelligenza artificiale [2018/2088(INI)]; tale compito è affidato dall’Unione Europea all’High Level Expert Group on Artificial Intelligence (consultabile all’indirizzo: www.ec.europa. eu). Non essendo questa la sede per descrivere il significato scientifico ed epistemologico dell’espressione “intelligenza artificiale”, si precisa che in questo studio essa viene utilizzata con il significato di branca della scienza che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consen-

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ne della responsabilità per danni in situazioni di pericolo quando il comportamento della macchina sia l’effetto di una decisione programmata e sia rimessa all’algoritmo la scelta tra la protezione del conducente/trasportato o del pedone/occupante di altro mezzo4. La compatibilità delle regole vigenti con il progresso tecnologico diviene terreno di indagine anche riguardo ai droni o veicoli aerei senza equipaggio (Remotely piloted aircrafts systems – RPAS), impiegati non solo in operazioni di tutela dell’ambiente, di salvataggio e militari, ma reperibili facilmente sul mercato e utilizzati anche da operatori non esperti, potenzialmente idonei a generare danni da sinistro o da violazione del diritto alla riservatezza derivante da captazione illecita di dati personali. In campo sociale e lavorativo, ove i device tecnologici possono sostituire l’attività dell’uomo offrendo assistenza (così, nel caso del robot assistente personale) e sul terreno dell’ICT, in cui si assiste all’incremento dell’uso di strumenti controllabili da remoto (Internet of Things), affiorano una serie di questioni relative all’opportunità e ai rischi di sostituzione dell’uomo con la macchina oltre che di sicurezza dei dati raccolti ed elaborati dal dispositivo5.

L’utilizzo degli ADAS (Advanced Driver Assistance System) dovrebbe determinare una riduzione del tasso di incidenti, del costo economico e dell’inquinamento ambientale ma pone problemi di responsabilità (e di ripartizione dei costi assicurativi). Emblematico è il c.d. “dilemma del carrello”, test reso disponibile sul sito del MIT all’indirizzo www. moralmachine.mit.edu, che prefigura le possibili situazioni di conflitto derivanti da malfunzionamento della macchina proponendo all’utente di compiere una scelta tra tutela del trasportato e soggetti esterni all’autoveicolo. Sul tema la bibliografia è piuttosto estesa; ex multis si segnala Davola e Pardolesi, In viaggio col robot: verso nuovi orizzonti della r.c. auto (“driverless”)?, in Danno e resp., 2017, 616 ss.; Gaeta, Automazione e responsabilità civile automobilistica, in Resp. civ. e prev., 2016, 1718 ss.; per l’esperienza europea v. Losano, Il progetto di legge tedesco sull’auto a guida automatizzata, in Dir. inf., 2017, 1 ss.

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Il campo dell’IoT è in rapida evoluzione ed ha apportato profondi cambiamenti sulla vita delle persone attraverso i device come smartphone e smartwatch, capaci di compiere attività quotidiane in sostituzione dell’uomo.

In ambito contrattualistico, è sorta l’esigenza di individuare la disciplina degli Smart Contracts, che ha suscitato interrogativi sulla compatibilità delle norme vigenti con le modalità di negoziazione ed esecuzione di tale tipologia di contratti; anche sul terreno giurisdizionale si sono poste questioni riguardo all’uso dell’intelligenza artificiale per l’individuazione di algoritmi mirati a coadiuvare il giudice nelle sue decisioni, che dovrebbero essere utilizzati per assicurare l’omogeneità e la prevedibilità dei provvedimenti6. In campo sanitario, robotica e AI trovano spazio in ambito diagnostico, chirurgico e riabilitativo, coadiuvano il medico e consentono l’impiego di robot chirurgici e dispositivi (anche impiantabili nel corpo umano) che, attraverso algoritmi, riducono l’errore umano, per realizzare operazioni di alta precisione con il movimento della macchina anche a distanza e agevolando la lettura e la valutazione dei dati raccolti ai fini della diagnosi, cui può seguire l’eventuale indicazione di una terapia. Ai benefici dell’innovazione tecnologica sotto il profilo dell’efficienza, del risparmio economico, dell’innalzamento del livello dei servizi, della precisione e della sicurezza si contrappongono pertanto incertezze sulle soluzioni invocabili e i rimedi esperibili in caso di danni; basta pensare alla riduzione della percentuale di errore che può presentare una macchina rispetto al comportamento umano e alla diminuzione del tasso di incidenti ottenuta con l’impiego di un robot chirurgico o con l’uso di veicoli a guida autonoma. I problemi principalmente affrontati riguardano l’individuazione dei soggetti responsabili di eventuali malfunzionamenti del software, la mancanza di trasparenza del procedimento di creazione dello strumento, la difficoltà di programmazione dei processi decisionali delle macchine in modo compatibile con l’intervento umano e la potenziale (ma altamente diffusa) violazione delle regole sulla riservatezza dei dati, così come diviene fonte di preoccupazione la trasformazione del merca-

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Di Giovanni, Intelligenza artificiale e rapporti contrattuali, in Intelligenza artificiale, cit., 121 ss.

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to del lavoro con perdita di posti di lavoro e il rischio di violazione dei principi di dignità della persona, uguaglianza, autodeterminazione, di non-discriminazione e, nel campo delle decisioni automatiche, del giusto processo (artt. 2, 3, 14, 35, 111 Cost.). La rapidità del progresso tecnologico impone quindi al giurista di valutare se, considerati i costi delle imprese che investono in questo settore e i relativi costi assicurativi, l’attuale normativa, alla luce delle innovazioni scientifiche introdotte, sia adeguata a definire le responsabilità nascenti dall’uso della AI e della robotica anche quando essa si fondi su sistemi di autoapprendimento (self learning) capaci di compiere operazioni in via autonoma e di comunicare con altri sistemi (software o robot) estraendo informazioni e adattandosi alle condizioni ambientali o se si renda necessario elaborare una nuova disciplina idonea a regolamentare la materia, sia a livello preventivo che rimediale, in particolar modo nel campo della medicina.

2. Il panorama di diritto interno ed europeo Si è detto che le principali questioni nascenti dallo sviluppo della nuova economia digitale attengono alla responsabilità per i danni provocati dalla macchina o dall’agente artificiale. L’esecuzione di un comportamento attraverso programmi o software capaci di compiere operazioni simili a quelle umane con un certo grado di autonomia può trarre origine da funzioni basate, sia su processi tipici delle neuroscienze, che utilizzano reti neurali (neural networks) e consistono in una programmazione che ricalca nell’algoritmo le modalità di funzionamento del cervello umano ed è basata sui risultati di indagini probabilistiche che simulano il modo con cui il cervello elabora i dati, sia su meccanismi di deep learning, in cui il software riconosce modelli ripetitivi e da essi impara. I profili di riflessione destati dall’intelligenza artificiale riguardano i rimedi per i danni derivanti da difetto di progettazione (ideazione dell’algoritmo) o di programmazione (sviluppo del codice che realizza l’algoritmo), da vizi delle componenti che si Responsabilità Medica 2019, n. 4

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sottraggono al controllo del sistema, deviando dal modello prefigurato o da difetti dei meccanismi di autoapprendimento che agiscono in maniera difforme da quanto previsto originariamente. Altri aspetti critici, come anticipato, sono costituiti dai rischi di illegittimo impossessamento e di sfruttamento illecito di una massa di dati personali, ottenuti in modo legittimo per finalità determinate, tramite device e sistemi che li conservano, profilano ed elaborano anche quando la divulgazione o la comunicazione a terzi non è stata autorizzata o, situazione ancora più grave, quando il dato è riconducibile al suo titolare. In questo quadro, è necessario che l’elaborazione dei dati venga compiuta secondo criteri di trasparenza per permettere di rintracciare le operazioni svolte e ricostruire il percorso che ha condotto alla decisione qualora si renda necessario (Explainable Artificial Intelligence). Nel campo dell’AI, la regolamentazione introdotta dal GDPR n. 976/2017, nel bilanciare la tutela della riservatezza dei dati con lo sviluppo del mercato digitale interno ed europeo, garantisce al titolare il controllo dei propri dati personali e impone il rispetto di regole di trasparenza, ma lascia irrisolte alcune questioni relative all’idoneità della normativa a raggiungere gli obiettivi nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, posto che la raccolta e la gestione dei dati da parte di soggetti che adottano sistemi tecnologici avanzati deve svolgersi in modo da non determinare la lesione del diritto alla riservatezza del singolo7. Nell’ambito dei trasporti, il tema della sicurezza dei veicoli autonomi, la cui introduzione è finalizzata a ridurre il numero degli incidenti causati dall’errore umano del guidatore e a migliorare il traffico, si pone al centro della ricerca di un equilibrio tra repressione degli illeciti e sviluppo tecnologico che contribuisce al progresso scientifico. Benché una regolamentazione a livello europeo sia auspicabile per garantire lo sviluppo e la diffusione sul mercato dei veicoli autonomi e per valu-

Il tema della protezione dei dati sanitari che comprende lo studio delle questioni relative alla raccolta dei dati e alla relativa protezione richiede un approfondimento rimesso ad altro scritto in corso di pubblicazione su questa Rivista.

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tare il rilievo dei tempi di reazione del conducente in caso di difetto di funzionamento del veicolo, non si può dire che il nostro sistema sia carente sotto il profilo di una disciplina applicabile in materia di circolazione dei veicoli, anche dotati delle caratteristiche sopra descritte. In un contesto regolato anche dal codice della strada – che tuttavia dovrebbe essere riveduto alla luce dell’introduzione dei nuovi veicoli – le soluzioni che consentono di individuare criteri di attribuzione della responsabilità per i danni derivanti dalla circolazione delle “macchine intelligenti” possono essere rinvenute ricorrendo alla disciplina di origine comunitaria dettata in materia di product liability e al regime di responsabilità da circolazione degli autoveicoli previsto dall’art. 2054 c.c. Per i danni da fabbricazione, progettazione, programmazione del software, la disciplina della responsabilità del costruttore/produttore prevede il risarcimento del danno indipendentemente dalla colpa, mentre il proprietario o il conducente del mezzo sono chiamati a rispondere, a diverso titolo, dei danni derivanti dalla circolazione del veicolo ex art. 2054 c.c. che non possano ricondursi a difetti del prodotto, ma alla condotta dell’agente stesso. Il coinvolgimento dei due regimi, nei veicoli autonomi, può variare a seconda del livello di automazione del mezzo che consente di graduare l’entità dell’apporto umano rispetto alla programmazione del veicolo e quindi di imputare la responsabilità al conducente nei casi in cui il grado di automazione consente la supervisione umana e al produttore quando l’automazione non prevede margini correttivi da parte del conducente8.

In Europa i veicoli autonomi sono già in fase di sperimentazione su strada. Nel nostro ordinamento è allegato alla legge di bilancio del 2018 (l. 27.12.2017, n. 2015) il decreto del Ministero dei trasporti e delle infrastrutture del 28.2.2018 (c.d. decreto Smart Roads) che ha autorizzato i test delle auto senza conducente. In Germania alle leggi che consentono i test su strada di guida autonoma è affiancata l’introduzione di modifiche al codice della strada. Per quanto riguarda l’esperienza americana, l’approccio nell’accogliere sistemi di guida automatizzati è nel senso di prevedere diversi livelli di automazione (precisamente sei), reperibili sul sito National Highway Traffic Safety Administration, consultabili all’indirizzo: www.nhtsa.gov e la sperimentazione è in fase già avanzata. V. sul tema Ruffolo e Al Mureden, Autonomous

Nell’ipotesi di danno derivato da malfunzionamento del bene, da difetto di costruzione del veicolo o di programmazione del software, quindi, possono applicarsi le norme sulla responsabilità del produttore (d. lgs. n. 206/2005, art. 114 ss.) che risponde dei difetti delle singole componenti del mezzo, rappresentate anche dal sistema operativo dell’auto, facendo valere, in presenza dei relativi presupposti, le cause di giustificazione previste nell’art. 118, ivi compreso il rischio di sviluppo (lett. e). La guida di una smart car espone dunque a responsabilità chi la conduce (e il proprietario, secondo la disciplina del codice), ma altresì, nel caso di erronea progettazione del sistema per errore dell’algoritmo, colui che la fabbrica, il quale potrà agire contro il progettista. Non mi pare percorribile l’alternativa di considerare pericolosa la produzione di auto self driving ed applicare quindi il regime della responsabilità oggettiva ex art. 2050 c.c. in modo da escludere che il rischio di sviluppo ricada sull’utilizzatore, perché l’utilizzo dell’AI nel settore dovrebbe assolvere a funzioni opposte, vale a dire garantire standard di sicurezza più elevati rispetto a quelli offerti dal conducente umano9. I vantaggi derivanti dall’impiego dei risultati raggiunti nel settore automobilistico si concretizzeranno tuttavia allorquando saranno affrontate anche le problematiche sul piano energetico e delle fonti rinnovabili, delle infrastrutture ICT, della condivisione delle informazioni fornite e quando saranno risolte le questioni relative all’impatto della diffusione di mezzi autonomi sui costi assicurativi, il cui eventuale aumento potrebbe in realtà trovare compensazione nella diminuzione del numero degli incidenti10.

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vehicles e responsabilità nel nostro sistema e in quello statunitense, in Giur. it., 2019, 1704. Comporti, Fatti illeciti: Le responsabilità oggettive, Artt. 2049-2053, nel Commentario Schlesinger, Milano, 2009, sub. artt. 2049-2053, 186 ss.

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10 Da un punto di vista generale, non solo limitato al campo dei veicoli autonomi, tuttavia, le politiche fiscali sull’AI e la robotica attualmente avviate sembrano muovere nella direzione contraria allo sviluppo e all’utilizzo dei risultati tecnologici, poiché non solo non sono previste agevolazioni per le aziende, ma è in discussione, per contro, l’introduzione

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Per quanto attiene ai droni (Remotely piloted aircrafts systems – RPAS), che costituiscono una possibile fonte di danno per eventuali malfunzionamenti del veicolo o del sistema operativo, cui si aggiungono le problematiche sulla protezione dei dati personali e sulla tracciabilità della posizione dei velivoli, si è reso necessario introdurre una disciplina specifica su aspetti di carattere tecnico e amministrativo contenuta nel Regolamento (UE) n. 1139/2018 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4.7.2018, che detta regole comuni nel campo dell’aviazione civile e costituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza dell’aviazione, ma non affronta il tema della responsabilità11. Nel campo dell’Internet of Things, che si fonda su device ampiamente diffusi sul mercato e contenenti programmi connessi alla rete, capaci di captare e rielaborare le informazioni ricevute in modo pervasivo, si aggiungono con maggiore evidenza le problematiche attinenti alla sicurezza dei dati comunicati, raccolti, reperibili.

di una tassazione più elevata per ovviare al mancato gettito derivante dal minore impiego di manodopera. Il Regolamento UE n. 1139/2018 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4.7.2018, recante norme comuni nel settore dell’aviazione civile, che istituisce un’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza aerea, fissa uno standard di sicurezza dell’aviazione civile nell’Unione. Il regolamento si applica alla progettazione, produzione (con particolare riguardo alla compatibilità elettromagnetica ed alle frequenze radio), manutenzione ed esercizio di aeromobili, dei loro motori e, in particolare, agli aeromobili senza equipaggio, stabilendone i requisiti e le modalità di immatricolazione, introducendo appositi sistemi nazionali d’immatricolazione digitali, armonizzati, di facile accessibilità e interoperabili, in cui dovrebbero essere conservate le informazioni, compresi gli stessi dati di base, riguardanti gli aeromobili senza equipaggio e relativi operatori immatricolati, implementati nel rispetto del diritto dell’Unione e nazionale sulla riservatezza e sul trattamento dei dati personali. Gli aeromobili a pilotaggio remoto, infatti, utilizzano lo stesso spazio aereo degli aeromobili a conduzione umana, sicché è di fondamentale importanza una regolamentazione uniforme in tutti gli Stati membri nell’ottica di sviluppare servizi, ricerca e opportunità di lavoro. Il regolamento fissa alcune regole proporzionate al rischio in relazione alla tipologia delle operazioni svolte, estendendo le regole europee a tutti i droni indipendentemente dal loro peso (anche ai droni di peso inferiore a 150 kg, oggi di competenza nazionale). Anche gli operatori dei droni dovranno essere registrati in specifici elenchi nazionali. 11

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In materia contrattuale occorre valutare i criteri di adattamento delle regole sulla formazione del contratto ai “contratti intelligenti”, contemplati dal legislatore nel d.l. 14.12.2018, n. 135, c.d. decreto legge semplificazioni, (convertito in l. 11.2.2019, n. 12 (all.), che nell’art. 8 ter definisce la tecnologia delle Blockchain e le applicazioni agli Smart Contracts12. Dall’ambito farmaceutico a quello della ricerca della cura e della terapia del paziente, fino ai medical device e alla gestione dei Data sanitari, sono sempre più estesi gli ambiti di applicazione dell’AI e della robotica medica nel campo della eHeatlh. Attingono da questo ramo della scienza le tecniche adottate con i dispositivi medici elettronici o robotizzati, come i device chirurgici, utilizzati in telechirurgia o cyberchirurgia, distinti in diversi livelli di automazione che sono in grado di analizzare la scena chirurgica e riconoscere l’anatomia del paziente in modo più preciso e approfondito rispetto alle capacità umane (ne costituisce un esempio il robot Da Vinci, utilizzato in campo urologico e dotato di alta precisione, comandato da remoto), la robotica intelligente in campo riabilitativo, posta in essere da personal assistant robotizzati che seguono il paziente, tenendo conto dei suoi progressi e modulando l’intervento attraverso il sistema di adattamento all’ambiente e il ricorso a metodi di self learning. Vi rientrano anche gli sviluppi tecnologici rappresentati dai sistemi diagnostici che, sulla base dei dati raccolti e attraverso la comparazione di innumerevoli altri casi, compiono una diagnosi proponendo una terapia e i dispositivi che svolgono un’attività di monitoraggio dello stato di salute della persona, i c.d. wearable device, incorporati, ad esempio, in uno smartwatch. In materia di dispositivi medici, nel 2017 è stato emanato il Regolamento (UE) n. 745/2017 del Parlamento e del Consiglio del 5.4.2017 (Medical

12 Gambino e Bomprezzi, Blockchain e protezione dei dati personali, in Dir. inf., 2019, 619 ss.; Sarzana di S.Ippolito, Nicotra, Diritto della blockchain, intelligenza artificiale e IoT, Milano, 2018; Attico, Blockchain. Guida all’ecosistema. Tecnologia, business, società, Milano, 2018.


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Device Regulation), entrato in vigore il 25 maggio 2017 e applicabile dal 26 maggio 2020 (che abroga la Direttiva n. 385/90 CEE e la Direttiva n. 42/93 CEE e sostituisce il precedente d. lgs. n. 46/1997 di attuazione), finalizzato a garantire il buon funzionamento del mercato interno per quanto riguarda i dispositivi medici, un livello elevato di protezione della salute dei pazienti e degli utilizzatori e la fissazione di standard elevati di qualità e sicurezza. In questo specifico settore, può rappresentare una fonte di rischio anche la raccolta di dati sanitari personali dai quali l’operatore ricava elementi idonei e utili per fare diagnosi e assumere decisioni terapeutiche, diminuendo in modo decisivo la percentuale di errore nell’interpretazione; laddove i parametri d’impostazione consentano un risparmio dei costi e una maggiore precisione e sicurezza dell’attività (statisticamente più elevata nell’ambito delle tecnologie mediche rispetto all’agire dell’uomo), l’intervento umano si ridimensiona a favore della macchina purché permanga inalterato il diritto del singolo alla protezione dei dati riservati13. All’esigenza di tutela dei dati personali riserva particolare attenzione la Risoluzione del Parlamento europeo di normativa uniforme del 16.2.2017, contenente raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla Robotica [2015/2103 (INL)], che, nel fornire articolate indicazioni alla Commissione per l’emanazione di una disciplina civilistica della robotica, segnala i pericoli insiti nella facilità dell’accesso e della gestione dei dati personali e delle banche dati che viene agevolata dalla comunicazione tra applicazioni e apparecchi informatici evoluti e dall’automatizzazione dei processi decisionali basati su algoritmi (ove l’apporto e il controllo umano sono ridotti), in cui potrebbe essere coinvolto anche il mondo giudiziario (lett. q). Nell’ambito della robotica, la Risoluzione esprime la necessità che l’Unione provveda alla regolamentazione delle macchine intelligenti, rilevan-

13 V. sul tema Pizzetti, Intelligenza artificiale, protezione dei dati personali e regolazione, Torino, 2018.

do l’importanza dei cambiamenti che lo sviluppo delle tecnologie apporterà nella vita dell’uomo e considerando il rilievo assunto dal fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Nel confermare la necessità della conservazione del controllo umano sulla macchina, il legislatore europeo raccomanda alla Commissione il rispetto dei principi di uguaglianza, dignità, giustizia, equità, consenso informato, tutela della vita privata e familiare e protezione dei dati, declamati nel Trattato sull’Unione europea (art. 2) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (artt. 1, 6, 7, 8), pur promuovendo il fine della ricerca e dell’innovazione che devono essere accompagnate dalla redazione di codici di condotta, protocolli di robotica e modelli di licenze per progettisti e utenti e dalla predisposizione di una black box che registri i dati della macchina e i passaggi logici prodromici alle decisioni prese. Sotto questo profilo, è di recente adozione il codice etico per una AI “affidabile” dell’Unione europea (Ethics Guidelines for Trustworthy AI, dell’8.4.2019) che detta linee guida per garantire un approccio etico basate su sette principi, tratti dalla Risoluzione e dagli studi svolti dall’High Level Expert Group on AI nominato dalla Commissione europea: supervisione umana, robustezza e sicurezza, privacy e data governance, trasparenza, rispetto della diversità, correttezza e divieto di discriminazione, tutela del benessere sociale e ambientale, responsabilità14. Ai vantaggi connessi alla tecnologia basata sull’AI possono infatti contrapporsi effetti negativi diretti e indiretti, originati dall’impiego delle macchine intelligenti nella società, sicché efficienza, risparmio economico nei trasporti, potenziamento e incremento del livello delle prestazioni di assistenza medica, miglioramento della capacità di analisi dei dati, rappresentano contestualmente fonti di rischio sul piano della trasparenza e della comprensibilità dei processi decisionali. In particolare, riguardo alla robotica in medicina, sono evidenti le preoccupazioni destate dalle implicazioni etiche del ricorso ad apparecchi e sistemi che ten-

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Reperibile all’indirizzo: www.ec.europa.eu.

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dono a “riparare” o a “migliorare” gli esseri umani, che devono essere resi conciliabili con l’obiettivo di preservare la dignità, l’autonomia e l’autodeterminazione delle persone. I profili più critici riguardano i rischi di compromissione della sicurezza, salute, libertà, dignità, autodeterminazione, di lesione del principio di non discriminazione, cui le norme tradizionali in tema di responsabilità non provvedono forse adeguatamente, soprattutto quando si tratti di robot capaci di apprendere dall’esperienza e quindi di interagire con l’ambiente tenendo comportamenti imprevedibili perché difformi da quelli che sono stati considerati nella fase di programmazione, in quanto non previsti dall’ideatore o perché sono intervenuti più fattori di interazione rimessi ad altre componenti dell’apparecchio comunque con esso integrate. In questo senso, secondo la Risoluzione, la Direttiva sulla responsabilità del produttore n. 374/85 CEE è insufficiente a garantire la protezione della persona danneggiata al di fuori dei presupposti fondati sulla dimostrazione del danno, del difetto del prodotto e del nesso di causalità, risultando carente sulla disciplina dei rimedi in caso di danni prodotti dai robot o dall’uso di macchine intelligenti e sull’individuazione dei soggetti responsabili coinvolti nel processo tecnologico, come il progettista o ideatore, il programmatore, il produttore che assumono un ruolo attivo, oltre all’operatore, al proprietario o all’utilizzatore che intervengono invece nella fase del funzionamento della macchina. La risoluzione, nel sottolineare il carattere “autonomo” dei robot, segnala l’esigenza di operare una scelta tra l’approccio della responsabilità oggettiva (strict liability) e l’approccio della gestione dei rischi.

In campo sanitario, biomedico e farmacologico, l’impiego pratico dei risultati delle scienze dedicate allo sviluppo delle diverse forme di intelligenza artificiale e della robotica si colgono nel quadro del controllo dei rischi e della tutela del paziente contro i danni derivanti dall’utilizzo di apparecchiature, dispositivi e robot medici, dal ricorso a farmaci “su misura” e della necessità di fronteggiare i possibili pregiudizi generati dalla disponibilità dei dati sanitari dei pazienti che, nel costituire il materiale di supporto della ricerca, delle diagnosi (spesso fondate su meccanismi di deep learning) o delle decisioni terapeutiche del medico, rappresentano pur sempre un pericolo per la circolazione di informazioni riservate15. Anche la bioingegneria, da intendersi come scienza che utilizza le metodologie e le tecnologie dell’ingegneria per risolvere problemi nell’ambito della medicina, della biologia e delle scienze della vita, attraverso l’acquisizione di biosegnali e bioimmagini, la conservazione e l’elaborazione di dati a scopo clinico, può essere fonte di rischi per la protezione dei dati personali quando non vengono rispettati i diritti fondamentali dell’individuo garantiti dalla Costituzione e, segnatamente nel campo della riservatezza, dal GDPR n. 679/2016. L’uso della robotica e di forme di intelligenza artificiale, infatti, mentre contribuisce allo sviluppo della ricerca in campo medico e all’innalzamento del livello di efficienza dei servizi diagnostici e terapeutici, suscita al contempo interrogativi sui profili di responsabilità per danni (patrimoniali e non patrimoniali) provocati dall’agente artificiale al paziente a causa di difetti di progettazione

3. Responsabilità oggettiva e per rischio d’impresa: la tutela contro i danni nell’uso di dispositivi medici e robot in ambito sanitario

15 Tra le questioni che destano maggiore preoccupazione rientrano l’identificazione e la tracciabilità della persona quando non sia stato raccolto il suo consenso esplicito all’elaborazione dei dati e il tema della trasparenza dell’interlocuzione persona-robot nell’interfacciarsi dell’utente (il paziente) con uno strumento di AI. Nel settore farmaceutico sono rilevanti le questioni connesse al “packaging intelligente” che prevede l’erogazione del farmaco secondo un programma prestabilito. In materia vigono le disposizioni del d. lgs. n. 206/2005 e il Regolamento UE n. 745/2017 sui dispositivi medici. Fino alla data di applicazione del Regolamento resta in vigore la normativa contenuta nel d. lgs. 24.2.1997, n. 46, di attuazione della Direttiva n. 93/42 CEE sui dispositivi medici.

La necessità per il giurista di trovare soluzioni a problemi nuovi rientra nel quadro della trasformazione della realtà sociale che accompagna l’innovazione tecnologica.

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del software (che si basa su una funzione o algoritmo) sviluppato per il funzionamento del dispositivo, di vizi di fabbricazione, installazione, manutenzione (ad es. protesi robotiche) oppure determinati da manovre errate del personale o errori nella gestione ed elaborazione dei dati, cui sono interessati più soggetti, come il medico, la struttura sanitaria, il produttore della macchina e, indirettamente, il suo progettista o programmatore. Il tema assume aspetti di maggiore complessità laddove i robot o i dispositivi siano programmati ad agire sulla scorta di un sistema di autoapprendimento che consente di modulare il comportamento in base alle reazioni dell’ambiente e, più precisamente, del paziente e delle sue condizioni di salute, come accade nell’uso dei robot in fisioterapia, senza che tuttavia, a mio parere, mutino le conclusioni cui si può pervenire sulla disciplina applicabile in tema di responsabilità. L’Unione europea ha rimesso al Comitato Economico e Sociale Europeo e alla Commissione lo studio degli effetti economici ed etici delle nuove forme di intelligenza artificiale e della robotica in medicina, unitamente al compito di valutare se le norme vigenti negli Stati membri siano sufficienti a garantire un’adeguata protezione dei cittadini sul piano della responsabilità, dettando linee guida in cui l’obiettivo primario è la tutela dei diritti fondamentali16. La Risoluzione del 2017 sulla robotica ha richiamato l’attenzione sul profilo della prevenzione, imponendo agli Stati di concentrare le iniziative sulla fase della formazione del professionista medico o tecnico dedicato all’attività, al fine di proteggere la salute degli utenti e richiedendo la garanzia che i dispositivi medici e i robot usati in medicina siano soggetti a procedure di sperimentazione in sicurezza, nel rispetto delle disposizioni già vigenti. Nel settore medico, la Risoluzione ribadisce l’ap-

16 Parere del Comitato economico e sociale europeo su «L’intelligenza artificiale. Le ricadute dell’intelligenza artificiale sul mercato unico (digitale), sulla produzione, sul consumo, sull’occupazione e sulla società» (2017/C 288/01) del 31.5.2017; Ethics Guidelines for Trustworthy AI, 8 aprile 2019, cit.

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proccio della supervisione e del controllo umano, in virtù del quale la programmazione della cura e la scelta finale sull’esecuzione di un intervento spetteranno sempre al chirurgo. Il documento, nella sezione dedicata all’educazione e al lavoro, raccomanda che vengano sviluppate le necessarie competenze dei professionisti sul piano formativo, rendendo compatibile lo sviluppo tecnologico con la sostenibilità ambientale. Uno dei principali obiettivi dell’Unione, in un contesto in cui la collaborazione tra diritto, medicina e tecnologie convergono verso la tutela della salute e la cura del paziente, consiste nell’identificazione dei ruoli e delle responsabilità di tutti i soggetti coinvolti nell’attività sanitaria: dal progettista al programmatore, dal produttore (o fornitore) dell’apparato all’operatore (medico, tecnico o altro esperto incaricato di svolgere l’attività nel settore). Segnatamente nel campo della robotica, l’attenzione è concentrata, oltre che sui robot impiegati per l’assistenza di anziani e disabili (robot personal assistant), sui robot chirurgici, progettati per svolgere interventi di alta precisione, secondo il principio di “autonomia supervisionata”, in virtù del quale la programmazione iniziale della cura del paziente e la scelta finale sull’esecuzione spettano sempre ad un chirurgo umano; allo stesso principio sono soggetti anche i robot usati per l’autodiagnosi (benché sottoposti al controllo del medico), essenziali per la riduzione dei costi sanitari perché efficaci nella prevenzione, nel trattamento della malattia e nella personalizzazione delle cure. Il quadro è completato dalle protesi robotiche e dai sistemi cyberfisici (CPS) che possono essere collocati o impiantati sul corpo del paziente, per i quali si rende necessario l’accesso continuo alla manutenzione e all’aggiornamento del software e cui sono correlati rischi di hacking, cancellazione o disattivazione della memoria del dispositivo, con possibili risvolti negativi sul piano della protezione della vita e della salute della persona. In ambito europeo, l’innovazione tecnologica in medicina trova parziale disciplina nel già citato Regolamento (UE) n. 745/2017 sui dispositivi medici, che contiene, tra le altre, previsioni tecniche riguardanti l’inserimento del software tra i dispoResponsabilità Medica 2019, n. 4


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sitivi come componente di un dispositivo medicale. L’art. 2 del Regolamento definisce dispositivo medico “qualunque strumento, apparecchio, apparecchiatura, software, impianto, reagente, materiale o altro articolo destinato dal fabbricante a essere impiegato sull’uomo da solo o in combinazione” per lo svolgimento di diagnosi, prevenzione, monitoraggio, previsione, prognosi, trattamento o attenuazione di malattie, lesioni o disabilità, per lo studio, sostituzione o modifica dell’anatomia oppure di un processo o stato fisiologico o patologico, per fornire informazioni attraverso l’esame in vitro di campioni provenienti dal corpo umano. Il regolamento detta criteri per l’identificazione e la tracciabilità dei dispositivi, la registrazione dei dispositivi e degli operatori economici, la sicurezza e la banca dati europea dei dispositivi medici, e nell’Allegato I, precisa i requisiti di sicurezza che i “sistemi elettronici programmabili” e i dispositivi contenenti software devono possedere17. Altre leggi applicabili sono la Direttiva macchine n. 42/06 CE, diretta a regolare la progettazione e costruzione delle macchine, che si pone l’obiettivo di armonizzare i requisiti di salute e sicurezza dei macchinari all’interno dell’Unione, all’interno della quale possono farsi rientrare i robot impiegati anche in medicina, in quanto costituiti dalle componenti soggette alla normativa, la Direttiva n. 95/01 CE sulla sicurezza generale dei prodotti (se si conviene di qualificare le attrezzature robotiche come prodotti), il Regolamento CE n.

Nel vigore della precedente normativa, contenuta nella Direttiva n. 93/42 CEE, era stata la Corte di Giustizia a ricomprendere tra i “dispositivi medici” anche alcune forme di software, come quelli destinati a raccogliere dati per rilevare controindicazioni, interazioni tra medicinali, anche se non si tratta di disposizioni che agiscono direttamente sul corpo umano: così Corte giust. UE, 7.12.2017, causa C-329/16, in Rass. dir. farm., 2017, 1380, ma in precedenza Corte giust. UE, 15.1.2009, causa C-140/07, ivi, 2009, 427. V. anche Corte giust. UE, 22.11.2012, causa C-219/11, ivi, 2013, 939, in cui la Corte ha specificato che la nozione di dispositivo medico comprende un oggetto concepito dal fabbricante per essere utilizzato sull’uomo a fini di studio di un processo fisiologico solo se destinato a scopo medico. Klesta, Produzione di medicinali e dispositivi medici, nel Trattato di biodiritto Rodotà-Zatti, le Responsabilità in medicina, IV, 2011, 587. 17

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Saggi e pareri

756/2008 sulla sicurezza dei prodotti all’interno del mercato europeo che definisce la marcatura CE, la Direttiva n. 771/2019 UE sulla vendita dei beni di consumo (che nell’art. 23 dispone l’abrogazione della Direttiva n. 44/99 CE a partire dal 2022)18. Non sembra che l’allocazione delle responsabilità derivanti dall’autonomia del robot o del device in capo ai soggetti operanti in campo medico richieda nuove regole, posto che la macchina dotata di capacità di autoapprendimento agisce sempre in virtù di un programma sviluppato e caricato dal produttore che la immette sul mercato. Non si può dire oggi di essere nelle condizioni di dover gestire le azioni del “robot assassino” che sfugge completamente al controllo umano e prende decisioni criminali attraverso ragionamenti indipendenti dal software, come prefigurato da alcuni19; il problema del controllo e della gestione degli atti delle macchine dotate di pensiero autonomo, c.d. strong AI, benché non possa considerarsi mera fantascienza, appartiene ancora ad una visione futuristica20. Il nostro sistema della responsabilità civile offre soluzioni, quando il danno è provocato dall’uso negligente o imperito del dispositivo da parte del medico o da altro professionista dedicato all’attività, nell’art.2043 c.c., applicabile eventualmente in concorrenza con le disposizioni che individuano altri soggetti responsabili. È quanto disposto, riguardo alla responsabilità degli enti sanitari, dall’art. 7 della legge sulla responsabilità medica n. 24/2017, che imputa la responsabilità a titolo extracontrattuale al medico della struttura presso la quale il paziente ha ricevuto la cura o è stato sottoposto ad intervento, mentre attribuisce

La Direttiva macchine 42/2006 CE è stata recepita con d. lgs. 27.1.2010, n. 17, mentre la Direttiva 95/2001 CE è stata recepita con d. lgs. 21.5.2004, n. 172, successivamente abrogato dall’art. 146, comma 1°, lett. o) del codice del consumo nel quale è confluita la normativa (artt. 102-113). 18

Sparrow, Killer robots (2007) 24 Journal of applied philosophy, 62 ss.

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20 Searle, Minds, brains and programs (1980) Behavioral and Brain Sciences, 417 ss.


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all’ente una responsabilità a titolo contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c.21. In assenza di colpa (anche derivante da difetto di formazione adeguata) nello svolgimento della prestazione, occorre stabilire se sia ammissibile perseguire soluzioni interpretative fondate sull’impianto normativo già esistente o si renda necessario introdurre una nuova disciplina specifica. La Risoluzione del Parlamento del 2017, nel rilevare l’opportunità di approntare un’efficace azione congiunta umano-robotica contro i danni materialmente provocati da un “soggetto non umano” (da cui consegue l’inapplicabilità dell’art. 2043 c.c.), segnala l’importanza dell’individuazione di un regime di responsabilità da malfunzionamento o errata progettazione dei robot, considerato che i danni sono conseguenza della programmazione del software (in cui possono essere compresi anche processi di self learning) e del suo impiego nel settore sanitario. In particolare, la disciplina attuale in materia di Consumer Protection non viene ritenuta sufficiente a garantire standard di sicurezza in quanto non idonea a coprire i casi di danni prodotti dai comportamenti imprevedibili delle macchine dotate di capacità di autoapprendimento (punto AI della Risoluzione); una delle tematiche più discusse riguarda pertanto l’individuazione del regime di responsabilità invocabile per i danni subiti dalla persona a causa dell’azione del robot medico, del malfunzionamento del dispositivo utilizzato, dell’anomalia del software22.

L. 8.3.2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie) per il cui commento si rinvia a De Matteis, Le responsabilità in ambito sanitario. Il regime binario: dal modello teorico ai risvolti applicativi, Milano, 2017. 21

22 V. per tutti, sul principio di responsabilità oggettiva per rischio d’impresa, Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 9 ss. Sono favorevoli a considerare oggettiva la responsabilità del produttore per l’assenza del criterio di imputazione basato sulla colpa, tra gli altri, Galgano, Responsabilità del produttore, in Contr. e impr., 1986, 995; Visintini, I Fatti illeciti, II, Padova, 1990, 318; Comporti, op. cit., 185. Sullo specifico tema qui trattato: Ruffolo, Per i fondamenti di un diritto della robotica self learning, dalla machinery pro-

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Nel codice civile le figure di responsabilità oggettiva che potrebbero trovare applicazione sono descritte negli artt. 2049, 2050, 2051. Gli artt. 2050 e 2051 c.c., sui danni da attività pericolosa e da cose in custodia, delineano fattispecie di responsabilità oggettiva che individuano il soggetto responsabile in base alla natura dell’attività esercitata e alla sua relazione con la “cosa”, riducendo i margini di esclusione della responsabilità, limitata rispettivamente alla prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno e alla prova del caso fortuito. L’art. 2049 prevede l’imputabilità soggettiva al padrone o committente dell’illecito commesso dal sottoposto o dipendente nell’ambito delle mansioni affidate che non consente facilmente di esonerarsi dalla responsabilità. La responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. non discende dalla violazione di un dovere di custodia, ma dal verificarsi di un danno provocato dal dinamismo della cosa custodita, tanto è vero che la norma non attribuisce alcun rilievo alla colpa del custode ed è previsto il caso fortuito quale unica causa di esclusione. Sotto questo profilo, mi pare difficile concepire una situazione in cui i danni causati da un robot medico capace di compiere azioni autonome senza intervento umano siano imputabili al custode o a colui che esercita un potere di controllo sulla cosa: l’unica situazione in cui si potrebbe riconoscere la responsabilità descritta dalla norma è quella in cui il dispositivo, programmato per compiere una certa attività, sfugge al controllo del medico e provoca danni muovendosi in uno spazio fisico inadatto. In un caso di questo tipo, di divergenza dal compito originariamente affidato, tuttavia, viene in luce la fragilità del confine con la responsabilità prevista dalla clausola generale dell’art. 2043, che impone al medico o all’operatore di rispondere dei danni per colpa nell’esecuzione della prestazione, sicché, sotto questo profilo, non sembra necessario

duttiva all’auto driverless: verso una “responsabilità da algoritmo”?, in Intelligenza artificiale, cit., 15 ss. Il tema è affrontato anche nella Risoluzione del Parlamento europeo del 12 febbraio 2019 su una politica industriale europea globale in materia di robotica e intelligenza artificiale [2018/2088(INI)].

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elaborare regole nuove23. Neppure l’art. 2050 c.c. sembra poter trovare spazio di espansione nel settore, posto che le forme di intelligenza artificiale, come anche i robot, sono dotate di una precisione tecnico-scientifica che contribuisce, per contro, all’aumento del livello di sicurezza. Una regolamentazione basata su un modello di responsabilità oggettiva fondato sull’art. 2050 c.c. – laddove si ritenga sussistano i relativi presupposti – avrebbe l’effetto di facilitare il danneggiato nella riconducibilità del danno all’autore, dovendo la vittima provare solo l’esistenza del danno e il nesso di causalità tra questo e il malfunzionamento del robot o dell’apparecchiatura basata sull’algoritmo, ma sarebbe inopportuna per ragioni economiche e di politica del diritto perché imporrebbe un criterio di imputazione della responsabilità così severo da scoraggiare le iniziative di ricerca, gli investimenti, la diffusione sul mercato delle nuove tecnologie24. Non appare in questo contesto invocabile neppure l’art. 2049, non potendosi configurare un rapporto uomo-macchina analogo a quello che governa la relazione tra datore di lavoro/preposto e lavoratore/sottoposto ed essendo l’intelligenza artificiale destinata a sostituire l’intervento umano allo scopo di eliminarne gli errori. Nel panorama normativo interno sembra più adeguato allora il richiamo alle disposizioni di cui agli artt. 114 - 126 del codice del consumo (d. lgs. n. 206/2005 e successive modifiche). Nell’impianto normativo del codice del consumo, la disciplina dettata in tema di caratteristiche del prodotto difettoso (art. 117), onere della prova (art. 120), cause di esclusione della responsabilità e danno risarcibile (artt. 118 e 123) risulta più favorevole per l’azienda produttrice e meno van-

Ne delinea la natura di responsabilità presunta, Comporti, op. cit., 294; v. Costanza, L’intelligenza artificiale e gli stilemi della responsabilità civile, in Giur. it., 2019, 1687. 23

Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., 2, rileva come i compilatori del codice civile non abbiano risolto il problema della responsabilità per rischio introducendo, quale unica novità, rispetto al previgente codice, l’art. 2050, espressivo di un principio “intermedio” fra quello della colpa e quello del rischio.

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taggiosa per il consumatore, al quale è dunque richiesto di provare non solo il danno e il nesso di causalità, ma anche di individuare il difetto, da intendersi come mancanza di sicurezza (artt. 117 e 120), requisito di difficile dimostrazione per chi è profano in materia di tecnologie avanzate. L’applicazione delle norme consumeristiche consente al fabbricante (o fornitore) di liberarsi dalla responsabilità scegliendo tra una vasta gamma di cause, ivi compreso il c.d. rischio di sviluppo (art. 118 lett. e) che, in campo sanitario, è invocabile con maggiore facilità, posto che le conoscenze scientifiche impiegate nella robotica e nell’AI progrediscono molto rapidamente. Ai fini di tutela del paziente danneggiato, in questo campo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia tende alleggerire tuttavia l’onere probatorio del danneggiato circa il difetto del singolo esemplare, quando si tratti di prodotti in serie, in contrapposizione all’orientamento della Cassazione che, nel definire “presunta” la responsabilità da prodotto, richiede la prova del collegamento causale tra il difetto del prodotto (non tra prodotto) e il danno subito25.

25 Così, ad esempio nel noto caso della difettosità di un dispositivo medico accertata sulla base di un esemplare e non di una serie deciso dalla Corte giust. UE, 5.3.2015, cause C-503/13 e C-504/13, in DeJure. Il caso riguardava l’accertamento di un guasto di un componente utilizzato per la produzione di un pacemaker che aveva indotto la ditta produttrice a segnalare la necessità della sostituzione anticipata del dispositivo impiantato nei pazienti a causa di un possibile malfunzionamento in un componente, benché tale difetto non fosse ancora manifestato. La Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione della nozione di “difetto” di cui agli artt.4 e 6 della Direttiva, allo scopo di chiarire se un dispositivo si possa ritenere difettoso per il fatto che il difetto si presenti in alcuni esemplari, ha stabilito che deve qualificarsi come difettoso il prodotto che non presenta la sicurezza che è legittimo attendersi, senza che debba riscontrarsene in concreto il difetto in ogni esemplare: quindi, anche nel caso di mero rischio di guasto. Ammette il ricorso a metodi anche indiziari per ricavare la difettosità del prodotto Corte giust. UE, 21.6.2017, causa C-621/15, in Guida al dir., 2017, 52. Adotta un criterio più rigoroso nel senso della natura presunta della responsabilità del produttore che impone la prova del collegamento tra difetto e danno e non tra prodotto e danno: Cass., 24.9.2018, n. 23447, in DeJure; Cass., 29.5.2013, n. 13458, in Giust. civ., 2013, I, 1979. Contra: Cass., 8.10. 2007, n. 20985, in Foro it., 2008, I, 143, che, in un caso


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Il modello di responsabilità del produttore regolato nel codice del consumo è più simile al regime della responsabilità oggettiva cui si riferisce la Risoluzione nel porre l’alternativa con la responsabilità per rischio d’impresa, in cui il difetto è inteso come errore di progettazione, programmazione, costruzione. La scelta tra i due regimi è determinante sia dal lato del danneggiato, perché nel distribuire tra le parti l’onere probatorio, agevola o complica, a seconda della soluzione adottata, il suo compito nell’ottenere tutela, sia dal lato del danneggiante, perché incentiva o scoraggia le iniziative di sviluppo economico delle imprese che operano nel campo della tecnologia, condizionandole all’applicazione di criteri di responsabilità più o meno rigidi26. Se il danno è generato da malfunzionamento del robot o del dispositivo, deve dunque ritenersi responsabile il produttore. La regola è chiara quando il pregiudizio colpisce l’utilizzatore che ha il controllo sull’attività della macchina, ma in medicina è generalmente il paziente (che assume il ruolo di soggetto terzo rispetto alla struttura sanitaria o al professionista utilizzatore) a subire le conseguenze dannose originate dall’uso di strumentazioni robotiche o da diagnosi errate per vizi di programmazione dell’algoritmo. In questa usuale situazione la tutela non può essere fornita al paziente con il ricorso alla disciplina sulla responsabilità del produttore perché essa regola i danni da utilizzo del prodotto nel rapporto diretto produttore/utilizzatore e non i danni derivanti a

di protesi mammaria difettosa, aveva ritenuto la responsabilità dell’azienda produttrice sulla base della constatazione che la protesi aveva dato luogo ad un “risultato anomalo”. Sul tema la letteratura è amplissima. V. spec. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., 9 ss.; Id., Atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 275 ss.; Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 128; Alpa, Il problema dell’atipicità dell’illecito, Napoli, 1979; Franzoni, L’illecito, nel Trattato della responsabilità civile, Milano, 2010, 395 ss.; Id., La responsabilità oggettiva – II: Il danno da cose, da esercizio di attività pericolose, da circolazione di veicoli, Padova, 1995, XVI-630; Monateri, Le fonti delle obbligazioni, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, 3, La responsabilità civile, Torino, 1998, 1036 ss.; Comporti, op. cit., 54 ss. 26

terzi causati dall’utilizzatore del prodotto difettoso, per i quali resterebbe responsabile quest’ultimo, salvo rivalsa nei confronti del produttore27. Riguardo all’errore nell’algoritmo, invece, non può configurarsi una responsabilità dell’autore ai sensi dell’art. 115, comma 2-bis del codice del consumo, basata sulla natura di “componente” della funzione, non solo perché l’algoritmo diviene parte integrante e costitutiva inscindibile dal prodotto quanto a natura e funzioni, sia perché tale soluzione graverebbe il consumatore di un ulteriore onere probatorio verso un soggetto diverso dal produttore del bene, rendendo difficile la sua tutela28. Si pensi, ad esempio, al danno provocato ad un paziente da un errore dell’algoritmo del device che compie la diagnosi o dosa la medicina da assumere: il paziente dovrebbe rivolgersi non al fornitore del bene, ma ad un altro soggetto con cui non ha alcun rapporto, incontrando notevoli difficoltà ad azionare il rimedio. Il produttore del bene, ricorrendone i requisiti, potrà eventualmente rivolgersi al programmatore, almeno finché non verrà accolta la raccomandazione del Parlamento europeo che invita a provvedere alla personificazione dei robot più sofisticati, costituendo meccanismi assicurativi speciali e fondi di risarcimento finanziati anche dalle aziende costruttrici. Ma anche in tale ipotesi, non potrebbe che rimanere in piedi la responsabilità dell’ideatore o del programmatore, nonché del produttore che è il soggetto che dovrebbe poter essere rintracciato in prima istanza. Le perplessità sul punto aumentano quando si tratti di macchine self-learning che apprendono dall’esperienza processando i dati e adattandosi all’ambiente, capaci di porre in essere comportamenti originariamente imprevisti o imprevedibili; la particolarità dello strumento tecnologico impone, in questo caso, di ricercare regole che consentano di identificare il soggetto responsabile all’interno della catena causale.

27

Costanza, L’intelligenza artificiale, cit., 1689.

Così, Coppini, Robotica e intelligenza artificiale: questioni di responsabilità civile, in Pol. dir., 2018, 728.

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Allo stato attuale, tuttavia, finché le macchine dotate di autoapprendimento si muoveranno secondo un programma inserito nel robot o nel dispositivo basato su una funzione creata dall’uomo, le soluzioni sul piano giuridico non potranno che essere omogenee a quelle proposte nelle altre situazioni esaminate, sicché, nel caso di anomalia del sistema di autoapprendimento, la vittima potrà richiedere il risarcimento all’impresa che ha prodotto o immesso il bene sul mercato e sarà quest’ultima, laddove ne ricorrano i presupposti, a ribaltare gli effetti negativi dell’errore sul programmatore dell’algoritmo che ha delineato il sistema fonte di danno e quindi su colui che, secondo la risoluzione, è “il formatore” del robot o della macchina, il programmatore del sistema operativo (così, la Risoluzione, art. 56). Conseguentemente l’attuale sviluppo e impiego della “narrow” o “weak” AI, diretta ad elaborare dati e rafforzare capacità di risolvere problemi, tale da consentire calcoli di livello superiore alle possibilità umane (come elaborare grandi quantità di dati da cui estrapolare significati e conoscenze), non mi pare che giustifichi l’urgenza di rivedere completamente la disciplina della responsabilità civile, che invece dovrà essere integrata e forse modificata allorché – ma i tempi non sembrano ancora maturi – verranno introdotte forme di “general” o “strong” AI, espressive di capacità cognitive e di pensiero autonomo e basate sull’idea che una macchina possa ragionare e diventare autocosciente attuando processi di pensiero propri.

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Saggi e pareri


i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a L’efficacia temporale della p assicurazione di r.c.: una questione irrisolta Italo Partenza

Avvocato in Milano Sommario: 1. Esiste un problema di efficacia temporale delle coperture di r.c.? – 2. La retroattività nelle clausole claims made: il grande fraintendimento. – 3. I livelli minimi assicurativi e le obbligazioni impossibili, ovvero gli obblighi dei professionisti.

Abstract: L’autore analizza le criticità tuttora presenti nell’applicazione delle clausole claims made in caso di successione di coperture, proponendo l’esigenza di livelli minimi di garanzia diversi dall’ininfluente retroattività della copertura assicurativa e ponendo dubbi sulla legittimità costituzionale di una clausola claims made in caso di obbligo assicurativo previsto ex lege per i professionisti. The author analyzes the critical issues still present in the application of the claims made clauses in case of coverage succession. He proposes a minimum level of guarantee, different from the influential retroactivity of the insurance coverage. He also calls into question the constitutional legitimacy of a claims made clause in the event of mandatory professional coverage.

1. Esiste un problema di efficacia temporale delle coperture di r.c.? Qualunque copertura assicurativa prevede una delimitazione alla propria efficacia temporale, vale a dire un termine iniziale e finale entro il quale si colloca la manleva prestata all’assicurato. Come noto, questo tema è stato oggetto di ampio dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale

con specifico riferimento alla liceità della clausola claims made, che utilizza come riferimento per l’operatività della garanzia, sotto il profilo cronologico, la data di pervenimento all’assicurato della richiesta risarcitoria formulata dal terzo, garantendo copertura alle sole richieste di risarcimento pervenute durante la vigenza del contratto. La pronuncia delle Sezioni Unite del 24 settembre 2018 n. 224371 ha definitivamente “sdoganato” il tema della liceità di detta clausola, ma la questione risulta tutt’altro che chiarita, quantomeno sotto il profilo della permanenza di serie criticità in parte dovute alla natura stessa della clausola ed agli inevitabili problemi applicativi di norme codicistiche che regolano l’assicurazione danni ed anche per talune applicazioni che rischiano di svuotare il contenuto delle garanzie offerte, alterando l’equilibrio contrattuale fra le parti.

Cass., sez. un., 24.9.2018, n. 22437, in Resp. civ e prev., 2019, 175, con nota di Miotto, Per le Sezioni Unite la claims made è (sempre stata) «atipica», ma...; in Banca, borsa e tit. cred., 2019, 138, con nota di Campobasso, Evoluzioni e rivoluzioni nella giurisprudenza in tema di assicurazioni claims made; in Giust.civ.com, 2018, 7, con nota di Gervasio, Tipicità delle clausole claims made e rimedi esperibili dall’assicurato; in Foro it., 2018, I, 3511, con nota di Palmieri et al.; ivi, 2018, I, 3015 (s.m.), con nota di De Luca; in Ri.da.re, 1° ottobre 2018, con nota di Rodolfi; in Guida al dir., 2018, 40, con nota di Martini. 1

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Le principali problematiche derivano da una visione d’insieme o, se si preferisce, “dinamica” delle coperture assicurative di un assicurato, che la Suprema Corte solo da ultimo, con la citata pronuncia, ha posto al centro dell’attenzione, posto che fino a quel momento l’analisi si era soffermata su un mero confronto “statico” fra i due modelli fra loro alternativi di copertura, ovvero la citata claims made e la garanzia su base “act committed”, meglio nota come “loss occurrence”. Il lungo e per certi versi estenuante dibattito ante Sezioni Unite 2018 aveva infatti riguardato la sussumibilità in astratto di questo modello assicurativo di origine anglosassone2, nell’ambito dei principi del nostro ordinamento, sicché per almeno quindici anni si è discusso se la clausola claims made fosse o meno compatibile con l’alea assicurativa, con le previsioni dell’art. 1917, comma 1° c.c. o se costituisse espressione di un vero e proprio rischio putativo, per come definito dall’art. 514 del Codice della navigazione. Quindici anni per una discussione sulla clausola in sé, sviluppatasi di fatto nella sostanziale sottovalutazione – con l’eccezione di una precoce ed illuminata intuizione3 – di ciò che accade nella

Si rimanda in questo senso allo scritto di Mazzola, La copertura assicurativa claims made: origine, circolazione del modello e sviluppi normativi, in Eur. e dir. priv., 2017,1012. Così l’autore: “Le origini del negozio non sono da rinvenirsi – come tralaticiamente riportato in letteratura – nel sistema nordamericano, quanto piuttosto, nel mercato assicurativo inglese, ove, già a partire dai primi decenni del XIX secolo, erano offerte dai Lloyd’s di Londra polizze assicurative a copertura della responsabilità professionale, per l’appunto modulate secondo lo schema claims made. Come riportato dalla cronaca del tempo, all’epoca, presso i Lloyd’s era già possibile ottenere, infatti, per gli esercenti la professione legale, una specifica garanzia, la Lloyd’s Solicitors Indemnity Policy, a copertura di ogni claim originato «by reason of any neglect, omission or error whenever or wherever the same was or may have been committed»”. Si vedano in particolare note nn. 27 e 28.

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pratica allorché non si discetta su una singola previsione contrattuale, ma se ne valutano gli effetti nel suo regolare quell’imprescindibile ed inevitabile fenomeno che prende il nome di successione fra coperture. L’assicurato infatti, professionista o imprenditore che sia, fortunatamente ha una vita professionale ed umana un po’ più lunga della durata di una polizza, sicché appare non trascurabile l’esigenza di comprendere che cosa accada della gestione dei suoi rischi allorché una polizza termina e un’altra inizia. A parziale giustificazione di questa sottovalutazione, vi è da dire che il problema dell’efficacia temporale non si rappresentava, allorché il più comune istituto dell’act committed costituiva l’unico criterio per definire l’efficacia temporale della garanzia di responsabilità civile. Il riferirsi infatti all’accadimento di un evento verificatosi durante il tempo dell’assicurazione, secondo il modello previsto dall’art. 1917, comma 1°, c.c., evitava di porsi qualsivoglia problema a riguardo: un fatto si verifica in uno specifico momento, non prima, non dopo… un po’ come la morte per Epicuro, sicché al momento della successione di una polizza ad un’altra (immaginiamo che ciò avvenga alla mezzanotte di un determina-

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Rossetti, Il diritto delle assicurazioni, Vol. III, Padova, 2013, 38. Così anche Trib. Roma, 24.2.2012, n. 405, inedita, il quale afferma la nullità della clausola claim in ragione del sostanziale squilibrio contrattuale che verrebbe a crearsi fra le parti, con particolare riferimento al momento conclusivo del rapporto ed alla valutazione del successivo rinnovo, ma anche negando di fatto la sussistenza di un’alea relativamente ai sinistri già accaduti seppure con claim non ancora 3

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formulato. Così anche Cass., 28.4.2017, n. 10506, in Giur. Comm. 2018, 973, secondo la quale: “La clausola claim’s made, infatti, fa dipendere la prestazione dell’assicuratore della responsabilità civile non solo da un evento futuro ed incerto ascrivibile a colpa dell’assicurato, ma altresì da un ulteriore evento futuro ed incerto dipendente dalla volontà del terzo danneggiato: la richiesta di risarcimento. L’avveramento di tale condizione, tuttavia, esula del tutto dalla sfera di dominio, dalla volontà e dall’organizzazione dell’assicurato, che non ha su essa ha alcun potere di controllo. Ciò determina conseguenze paradossali, che l’ordinamento non può, ai sensi dell’art. 1322 c.c., avallare. La prima è che la clausola in esame fa sorgere nell’assicurato l’interesse a ricevere prontamente la richiesta di risarcimento, in aperto contrasto col principio secolare (desumibile dall’art. 1904 c.c.) secondo cui il rischio assicurato deve essere un evento futuro, incerto e non voluto. La seconda conseguenza paradossale è che la clausola claim’s made con esclusione delle richieste postume pone l’assicurato nella seguente aporia: sapendo di avere causato un danno, se tace e aspetta che sia il danneggiato a chiedergli il risarcimento, perde la copertura; se sollecita il danneggiato a chiedergli il risarcimento, viola l’obbligo di salvataggio di cui all’art. 1915 c.c.”.


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to anno), un minuto prima della scadenza opererà la polizza precedente, un secondo dopo, quella successiva. Che poi potesse essere difficile stabilire il momento esatto dell’accadimento è altra questione, ma certamente una volta collocato temporalmente l’evento assicurativamente rilevante, il tema di quale polizza dovesse operare era risolto. Dunque, nelle coperture loss occurence non vi è mai un problema di operatività fra garanzie fra loro susseguenti. Il riferimento, invece, al pervenimento del claim pone problemi assai più corposi, non tanto perché sia difficile comprendere quando il claim sia pervenuto (per tale finalità sono di aiuto i postini o i file EML delle poste certificate), quanto piuttosto – come correttamente ricordato dalle Sezioni Unite del 2018 – perché la richiesta risarcitoria, a differenza del fatto, altro non è che la fase terminale di un processo che inizia con la condotta del responsabile civile/assicurato, alla quale segue il fatto ad essa eziologicamente legato, che dà poi origine alla formulazione del claim da parte del terzo danneggiato, circostanze queste tutte rilevanti giuridicamente. Se infatti l’assicurazione di RC partecipa della natura del contratto di assicurazione contro i danni – e di questo non c’è alcun dubbio4 – non si può non tener conto del fatto che ogni volta che si assicura per la responsabilità civile su base claim, se da un lato si fa riferimento all’unico vero momento in cui si concretizza il rischio di depauperamento del patrimonio dell’assicurato, dall’altro si assume un rischio sulla base di situazioni pregresse e preesistenti rispetto alle quali l’assicurato può essere in varie forme, varie modalità, varie intensità, già consapevole ed informato. Assicurare su base claim significa accettare il rischio che possano pervenire richieste risarcitorie

In realtà la definizione classica dell’assicurazione di RC come assicurazione del patrimonio (vale a dire come protezione del patrimonio dell’assicurato dal rischio dell’insorgenza di un debito derivante da un’obbligazione risarcitoria) data da numerosi autori, fra i quali da ultimo ricordiamo Donati, Volpe Putzolu, Manuale di Diritto delle Assicurazioni, Milano, 2006. 4

per fatti già accaduti, rispetto ai quali non si può pretendere che l’assicurato sia totalmente ignaro (forse sarebbero inassicurabili un professionista od un’azienda totalmente inconsapevoli a se stessi che non si rendano neppure conto delle conseguenze potenziali del proprio operato), ma certamente questi neppure deve sottacere che si siano verificati fatti o circostanze tali da rendere possibile il pervenimento di un claim. Questo diverso funzionamento del meccanismo assicurativo che, lo si ripete, è tipico della clausola claim, se da un lato pone di fronte al problema di gestire un “passato” che in qualche modo incombe od incomberà sulla vita della polizza, dall’altro ha la funzione ed il vantaggio di consentire all’assicuratore di superare l’annoso ed irrisolto problema di gestire a livello statistico ed attuariale gli accantonamenti per potenziali richieste di risarcimento che dovessero pervenire dopo la cessazione della polizza e, quindi, dopo la cessazione degli incassi dei premi5. Le Sezioni Unite, che il 6 maggio 2016 emisero la sentenza n. 91406 attraverso un percorso argo-

Di qui la sistematica difficoltà per gli assicuratori di contabilizzare a bilancio gli accantonamenti per possibili esborsi relativi a sinistri “tardivi”, cioè sinistri relativi a polizze cessate da tempo (cd. IBNR: Incurred But Not Reported) a fronte di incassi da tempo cessati.

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Cass., sez. un., 6.5.2016, n. 9140, in Foro it., 2016, I, 3190; in Resp. civ. e prev., 2016, 852, con nota di Vernizzi, Le Sezioni Unite e le coperture assicurative «retroattive»; in Danno resp., 2016, 929, con nota di Gazzara, La meritevolezza della clausola claims made al vaglio delle Sezioni Unite; in Contratti, 2016, 753, con nota di Carnevali, La clausola claims made nella sentenza delle Sezioni Unite; in Corr. giur., 2016, 921, con nota di Calvo, Clausole claims made fra meritevolezza e abuso secondo le Sezioni Unite; in Giur. it., 2016, 2602, con nota di Magni, Le Sezioni Unite sul contratto di assicurazione della responsabilità civile claims made: contratto valido (a meno che la manipolazione dello schema tipico non ne avveleni la causa). In dottrina ex multis si veda Hazan, Claims made: cronaca di una morte annunciata? in Insurance Trade.it; Tarantino, La clausola “claims made” non è vessatoria: ma l’ultima parola spetta al giudice, in Dir. e giust., 2016, 9; Guarneri, Le clausole claims made c.d. miste tra giudizio di vessatorietà e giudizio di meritevolezza, in Resp. civ. e prev., 2016, 1238; Corrias, La clausola claims made al vaglio delle Sezioni Unite: un’analisi a tutto campo, in Banca, borsa e tit. cred., 2016, 656; Facci, Le clausole claims made e la meritevolezza di tutela, in Resp. civ. e prev., 2016, 1136. 6

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mentativo fondato su una questione non propriamente condivisibile, ovvero la atipicità della clausola claims made con conseguente applicazione dell’art. 1322, comma 2° c.c7, avevano giustamente avuto modo di stigmatizzare – definendole “immeritevoli di tutela” – le clausole claims in virtù delle quali si richiedeva come condizione di operatività della garanzia non soltanto il pervenimento della domanda risarcitoria durante la vigenza della copertura, bensì anche che la stessa si riferisse ad un fatto accaduto nel medesimo periodo. Rilevavano opportunamente gli Ermellini a riguardo che un siffatto tipo di garanzia finiva per svilire l’equilibrio contrattuale, svuotandolo di effettivo significato: quali ipotesi infatti potevano essere oggetto di manleva se si prevedeva che nel circoscritto periodo assicurativo, a volte limitato ad un anno, dovessero realizzarsi entrambe le condizioni?

2. La retroattività nelle clausole claims made: il grande fraintendimento Su tale assunto delle Sezioni Unite si è modellata una variegata giurisprudenza8 che ha individua-

Giustamente critico sul tema dell’atipicità del contratto su base claims made Facci, Le clausole claims made e i cosiddetti “fatti noti” nella successione di polizze, in Resp. civ. e prev., 2017, 760 b. In questo senso si rimanda anche all’acuta nota di Miotto, Dalle sezioni unite alla legge Gelli: la claims made dall’atipicità alla tipizzazione, in Resp. civ. e prev., 2017, 1390.

Saggi e pareri

to nella retroattività della copertura, ovvero nella sua idoneità a coprire claim pervenuti durante la vigenza del contratto, ma riferiti a fatti accaduti antecedentemente la stipula che, se da un lato è servita a stigmatizzare coperture pensate forse con un eccesso di prudenza assicurativa, forse con una stigmatizzabile astuzia, dall’altro ha forse guardato più al dito che alla luna, pensando che il problema si risolvesse allungando a ritroso il periodo di operatività della garanzia. Così non è stato. Per comprendere perché chi scrive ritiene che il tema della retroattività della copertura claim sia un mero specchietto per le allodole, una medusa poco fosforescente ed assai gelatinosa ed urticante, occorre richiamare le disposizioni degli artt. 1892 e 1893 c.c., l’uso nella prassi liquidativa dell’esclusione dei cosiddetti “fatti noti” di discutibilissima legittimità ed i principi previsti dagli artt. 1913 e 1915 c.c., i quali – tutti quanti – offrono la possibilità al mondo assicurativo di dare di fatto copertura solo ed esclusivamente ai claim pervenuti durante la vigenza del contratto e relativi a fatti accaduti nel medesimo periodo. Gli artt. 1892 e 1893 c.c.9 regolamentano, infatti, quelle situazioni nelle quali la valutazione del ri-

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Sul punto emblematico il Tribunale di Milano che con sentenza del 17.6.2016, n. 7149, ha ritenuto non meritevole di tutela una clausola claims made rientrante nel normotipo stigmatizzato dalle Sezioni Unite, ovvero quello che richiede la compresenza nello stesso periodo assicurativo del claim e fatto generatore della richiesta, con conseguente dichiarazione di nullità parziale della clausola ex art. 1419, comma 2° c.c. e sua sostituzione ex officio con garanzia avente pure natura claim, ma estesa a tutti i fatti generatori del claim stesso antecedenti i dieci anni alla stipula della polizza. Ricorda il Giudicante in questo senso che “In conclusione, ritiene questo Tribunale che l’inefficacia della clausola relativa alla validità della garanzia debba essere limitata a quella parte della pattuizione che, invece di coprire i rischi verificatesi nei dieci anni precedenti alla stipulazione della polizza, limita la garanzia ai rischi nel descritto limitato periodo temporale. Tale inefficacia non si estende a tutta la clausola relativa alla validità della garanzia che resta efficace nella parte in cui

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delimita l’oggetto del contratto e prevede che l’assicurazione vale per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’Assicurato nel corso del periodo di validità dell’assicurazione (fino alla maturazione dei termini di prescrizione decennale, ancora non compiuti nel caso in esame)”. Art. 1892 c.c.: “Le dichiarazioni inesatte e le reticenze del contraente, relative a circostanze tali che l’assicuratore non avrebbe dato il suo consenso o non lo avrebbe dato alle medesime condizioni se avesse conosciuto il vero stato delle cose, sono causa di annullamento del contratto quando il contraente ha agito con dolo o con colpa grave. L’assicuratore decade dal diritto d’impugnare il contratto se, entro tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza, non dichiara al contraente di volere esercitare l’impugnazione. L’assicuratore ha diritto ai premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui ha domandato l’annullamento e, in ogni caso, al premio convenuto per il primo anno. Se il sinistro si verifica prima che sia decorso il termine indicato dal comma precedente, egli non è tenuto a pagare la somma assicurata”. Art. 1893 c.c.: “Se il contraente ha agito senza dolo o colpa grave, le dichiarazioni inesatte e le reticenze non sono causa di annullamento del contratto, ma l’assicuratore può re-

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schio da parte dell’assicuratore sia risultata errata in conseguenza di reticenze o dichiarazioni inesatte fatte dall’assicurato, con dolo o colpa grave (art. 1892 c.c.) o senza dolo o colpa grave (art. 1893 c.c.). Se le dichiarazioni inesatte o le reticenze sono tali che l’assicuratore non avrebbe contratto qualora fosse stato in condizione di conoscere l’effettivo stato del rischio, in caso di dolo o colpa grave dell’assicurato, l’assicuratore può agire per ottenere l’annullamento del contratto, a decorrere dalla data della conoscenza dell’inesattezza della dichiarazione o della reticenza. Tali articoli nascono in una visione loss occurrence, poiché inevitabilmente concepiti nell’ambito di una assicurazione danni che copre il rischio di un evento futuro ed incerto ed evidenziano il diritto dell’assicuratore di voler garantire (o comunque poter compiutamente valutare) situazioni che al momento della conclusione del contratto non risultino “viziate” da una maggiore probabilità di accadimento e da un maggior rischio sottaciuti dall’assicurando/assicurato. Nelle coperture di responsabilità civile su base claims made questa esigenza diventa ancor più stringente dal momento che, se oggetto della garanzia è il rischio di pervenimento all’assicurato di una domanda risarcitoria per fatti rientranti nella descrizione del rischio, va da sé che l’essersi tali fatti già verificati o meno fa una profonda differenza in termini di probabilità di ricezione del claim, sicché le reticenze sul punto non potrebbero che avere le conseguenze previste dai succitati articoli, fino alla perdita del diritto all’indennizzo. Orbene, sovente si è portati ad immaginare le situazioni alle quali si riferiscono queste norme come non ancora regolate da una polizza, posto

cedere dal contratto stesso, mediante dichiarazione da farsi all’assicurato nei tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza. Se il sinistro si verifica prima che l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza sia conosciuta dall’assicuratore, o prima che questi abbia dichiarato di recedere dal contratto, la somma dovuta è ridotta in proporzione della differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose”.

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che esse riguardano il tema della formazione di un consenso non ancora formatosi allorché l’obbligo comunicativo insorge. Eppure, nell’ottica dinamica con la quale si deve guardare la “vita” assicurativa di un assicurato, nel momento in cui si stipula una polizza c’è sempre (o dovrebbe esserci) una copertura precedente ancora in vigore al momento della nuova contrattazione: ergo, le stesse circostanze oggetto di disciplina degli artt. 1892 e 1893 c.c. possono divenire rilevanti anche per le sorti della copertura in essere in quel momento. È necessario ricordare, infatti, che l’assicurato ha l’onere di “[…] dare avviso del sinistro all’assicuratore o all’agente autorizzato a concludere il contratto, entro tre giorni da quello in cui il sinistro si è verificato o l’assicurato ne ha avuta conoscenza. Non è necessario l’avviso, se l’assicuratore o l’agente autorizzato alla conclusione del contratto interviene entro il detto termine alle operazioni di salvataggio o di constatazione del sinistro”. Prevede invece l’art. 1915, comma 1°, c.c.: “L’assicurato che dolosamente non adempie l’obbligo dell’avviso o del salvataggio perde il diritto all’indennità”. Mentre il secondo comma dello stesso articolo sancisce che “Se l’assicurato omette colposamente di adempiere tale obbligo, l’assicuratore ha diritto di ridurre l’indennità in ragione del pregiudizio sofferto”. Un termine così ristretto entro il quale deve essere effettuato l’avviso del sinistro trova la sua ragione nelle previsioni dell’art. 1914 c.c., che impone all’assicurato di fare quanto gli è possibile per evitare o diminuire il danno e che pone a carico dell’assicuratore, in proporzione con il valore assicurato, il costo di tali operazioni: l’obbligo di tempestivo avviso di accadimento del sinistro trova, dunque, la sua ragione nelle necessità istruttorie dell’assicuratore finalizzate ad accertare tempestivamente le cause del danno, onde verificarne entità, sussumibilità in garanzia ed eventuale necessità di un intervento di salvataggio ex art. 1914 c.c. Orbene, il meccanismo che di fatto consegue all’applicazione di tali norme è il seguente: l’assicurato deve dare notizia all’assicuratore di qualResponsabilità Medica 2019, n. 4


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siasi evento potenzialmente rilevante a termini di polizza10 entro tre giorni dal fatto, ma quell’assicuratore non coprirà l’evento fin tanto che non perverrà un claim durante la vigenza della polizza. Il nuovo assicuratore (si ipotizza che il precedente, consapevole della pericolosità della situazione vista l’immanenza di un claim, possa non rinnovare la copertura), non avrà alcun interesse a prestare copertura per un fatto già denunciato alla precedente Compagnia e per il quale il pervenimento di un claim risulti una ragionevole probabilità e, se l’assicurato tacesse a riguardo, scatterebbero le conseguenze dell’art. 1892 c.c. Ecco quindi che quelle fattispecie che gli assicuratori ritenevano unica condizione di operatività della clausola claim in numerose polizze ovvero contestualità nel periodo assicurativo di fatto e claim e che le Sezioni Unite n. 9140/2016 avevano ritenuto non meritevoli di tutela, possono essere agevolmente espunte dalla copertura di qualsiasi garanzia attraverso una applicazione fra il “rigoroso” e l’“ostruzionistico” dei dettati codicistici. Se, infatti, si escludono dalla indennizzabilità i claim che siano pervenuti per fatti accaduti durante la vigenza di una polizza precedente rispetto ai quali l’assicurato aveva l’obbligo di fare comunque denuncia ex art. 1913 c.c., non si sta forse applicando in modo massivo e metodico quel meccanismo che le Sezioni Unite del 2016 avevano inteso stigmatizzare come lesivo dell’equilibrio contrattuale e dei diritti dell’assicurato? Dunque, ciò che le Sezioni Unite del 2016 ritennero immeritevole è quanto ad oggi, in una considerevole pluralità di casi, le compagnie continuano di fatto a ritenere uniche ipotesi indennizzabili, usando – sicuramente in modo astrattamente legittimo ma, a parere di chi scrive, improprio – i principi codicistici che la giurisprudenza non pare aver tenuto in debito conto, abbagliata dal falso problema della retroattività, fino all’illuminante pronuncia, sempre delle Sezioni Unite, del 2018.

10 Non si può ritenere che l’obbligo di denuncia entro tre giorni riguardi il pervenimento del claim in quanto ciò svuoterebbe di significato il termine di prescrizione ex art. 2952 c.c., che prevede – inderogabilmente – un termine biennale dal ricevimento della domanda risarcitoria.

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3. I livelli minimi assicurativi e le obbligazioni impossibili, ovvero gli obblighi dei professionisti Ricorda la Supr. Corte con la pronuncia a sez. un. n. 4912/2018, l’importanza di verificare “i profili di meritevolezza relativi anche al collegamento tra le due polizze e la circostanza che, dalla successione dei contratti emerge un “buco di copertura” (come evidenziato dal Procuratore Generale), al fine di verificare la sussistenza di profili di irragionevolezza di tali modalità negoziali rispetto alla finalità di copertura del rischio assicurativo. E ciò indipendentemente dall’approvazione specifica ex art. 1341 c.c., anche in considerazione dell’ulteriore circostanza (ben delineata con il quinto motivo) che, al momento della conclusione della seconda polizza e relativa proroga, il soggetto danneggiato aveva già inviato la richiesta di danno, profilandosi l’ipotesi di assicurazione per un rischio verificatosi e già noto prima della conclusione del (secondo) contratto e compatibile con la finalità di garanzia solo nel caso in cui ciò non abbia comportato la sostanziale cessazione del rischio assicurato”. Al fine di fornire un contributo costruttivo a questa inaccettabile situazione di impasse che ogni giorno vede aprirsi nuovi conflitti – piaccia o no – fra una parte forte ed una debole, occorre individuare “livelli minimi assicurativi”, da intendersi come indicatori di uno standard minimo imprescindibile al quale far riferimento per la validità della clausola claims, con la conseguenza, in caso di mancato raggiungimento di tale livello, della inevitabile dichiarazione di nullità della clausola claims made ex art. 1419, comma 2° c.c. e sua trasformazione ex officio in loss occurence. Tale livello minimo non può essere il grado di retroattività della clausola claim in quanto, per le ragioni sopra esposte, del tutto irrilevante. Una prima ipotesi di indicatore di “livello minimo assicurativo” potrebbe essere rappresentato dalla cosiddetta deeming clause. Tale clausola, diffusasi nel mercato anglosassone, appare espressione di buona fede fra le parti e tempera in modo logico e costruttivo l’obbligo di denuncia dell’evento gravante sull’assicurato.


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Se infatti il problema maggiore deriva dalla drammatica combinazione di: a) obbligo di denuncia del fatto ex art. 1913 c.c. pur in assenza di claim; b) irrilevanza di tale denuncia ai fini dell’obbligo indennitario dell’assicuratore che abbia in corso la polizza sulla quale la denuncia è effettuata; c) facoltà del nuovo assicuratore di non coprire qualsiasi claim pervenga per fatti già accaduti di cui l’assicurato possa in qualche modo aver avuto cognizione. La deeming clause offre una soluzione a questi problemi, in quanto impedisce all’assicuratore che riceva una denuncia di sinistro ex art. 1913 c.c. per fatti che in re ipsa abbiano una loro rilevanza e siano suscettibili di provocare future richieste di risarcimento, di sottrarsi ad obblighi indennitari per effetto della semplice scadenza della polizza prima che l’eventuale claim sia pervenuto. Con questa modalità di copertura, pertanto, l’assicuratore della polizza in corso rimane “deemed”, cioè obbligato a fornire la propria prestazione contrattuale al pervenire, in qualsiasi data, anche dopo anni dalla scadenza della polizza, di un claim relativo ai fatti denunciati. Del pari, l’assicurato non è più assoggettato all’assurda situazione di dover restare in una terra di nessuno e di vedersi negare la copertura assicurativa, anche a distanza di molti anni dal fatto, al momento del pervenimento del claim durante la vigenza della polizza sottoscritta con un nuovo assicuratore. Tale clausola, ovviamente, necessita di alcuni paletti per non far sì che comportamenti contra bonam fidem dell’assicurato trasformino la garanzia da claim in loss attraverso la sistematica denunzia di qualsiasi evento, anche il più irrilevante. È possibile rinvenire talune virtuose coperture di RC, che individuano come sinistri denunziabili ai fini della deeming clause, avvisi di garanzia o comunque provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria aventi rilevanza di natura processual-penalistica, oppure talune specifiche fattispecie tipiche del rischio assicurato (si pensi nell’ambito sanitario all’evidenza del cattivo esito di un intervento o di una prestazione o alla notizia di una grave patologia o lesione immediatamente conseguente al

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proprio operato o al sequestro di cartella clinica disposto dall’autorità giudiziaria per uno specifico fatto). Tali circostanze, in assenza della deeming clause, non sarebbero coperte dalla polizza in essere al momento del loro accadimento e neppure dalla successiva polizza, nel corso della cui vigenza dovesse pervenire il relativo claim. Tale clausola appare espressione non soltanto di equità, scoraggiando mancati rinnovi della garanzia o riformulazioni su base loss come nel caso oggetto del pronunciamento delle Sezioni Unite del 2018, ma appare anche opportunamente responsabilizzante nei confronti dell’assicurato, dando un significato ed un valore a quell’art. 1913 c.c., la cui applicabilità risulterebbe altrimenti totalmente svuotata di significato. Da questo punto di vista verrebbero accolte le lungimiranti preoccupazioni di chi ha avuto modo di evidenziare quanto distorto sia un meccanismo che in qualche modo faccia auspicare all’assicurato di ricevere nel più breve tempo possibile una richiesta di risarcimento da parte del terzo. L’obbligo di denuncia del sinistro nella deeming clause non avrebbe alcuna attinenza con il termine previsto in tema di prescrizione: rimarrebbe, come del resto rimane, fermo il termine biennale entro il quale comunicare il ricevimento dell’eventuale richiesta risarcitoria ex art. 2952 c.c., posto che una volta denunciato l’accadimento permane, come del resto previsto dal nostro Codice, l’onere di mettere al corrente l’assicuratore del fatto realizzativo del rischio, ovvero il pervenimento della domanda risarcitoria. Non vi sarebbe, pertanto, alcuna necessità di assimilare i differenti termini (tre giorni e due anni) e risulterebbe perfettamente sostenibile quel periodo di tre giorni entro i quali porre i presupposti per una futura manleva all’eventuale pervenimento del claim. Un secondo indicatore di “livello minimo assicurativo”, sostanzialmente analogo (o, se si vuole, “simmetrico”) alla deeming clause, può essere rilevabile dall’assimilazione al claim di una serie di situazioni ad esso prodromiche (quali, ad esempio, molte di quelle che costituirebbero obbligo di denuncia nella deeming clause) così da spostare, questa volta sul nuovo assicuratore, quell’area Responsabilità Medica 2019, n. 4


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grigia rappresentata dai “quasi claim” o dai presupposti dei claim. In assenza di questi minimi standard assicurativi, non sembra a chi scrive di potersi escludere nel vicino futuro un tema di costituzionalità dell’art. 1932 c.c., laddove non preveda l’inderogabilità anche del famigerato art. 1917, comma 1° c.c. in tutti i casi in cui l’assicurazione di responsabilità civile sia imposta per legge come condizione necessaria per l’esercizio di una professione o di un’impresa, poiché la vexata quaestio della retroattività più o meno estesa, illimitata o meno, ha oramai manifestato la sua irrilevanza sul piano pratico. Sistematiche lesioni del diritto a fare impresa o ad esercitare la libera professione, riconosciuto e protetto dall’art. 41 della nostra Costituzione, non possono più trovare spazio, non sussistendo sufficienti ragioni che giustifichino una così drammatica contrazione di diritti inalienabili ed assoluti secondo lo spirito della pronunzia in tema di risarcimenti tabellari delle micropermanenti11. Il diritto di fare impresa o di esercitare la professione non è certamente secondario nel nostro ordinamento. Professionisti ed imprese, nella visione della nostra Costituzione, testimoniano ogni giorno la centralità dei principi liberali del nostro ordinamento ed indirettamente garantiscono anche quel diritto al lavoro che ha pari importanza come principio fondante della nostra Repubblica. Questi principi, piuttosto ovvi, vengono quotidianamente erosi da una legislazione che chi scrive trova talvolta poco comprensibile, come – ad esempio – nel caso in cui si subordini l’esercizio del fondamentale diritto all’esercizio della libera professione alla stipula di una copertura assicurativa, senza preoccuparsi di quali requisiti minimi tale garanzia, di fatto, debba avere. E se qualcuno obiettasse che tali livelli minimi vengono garantiti da retroattività illimitate o da ultrattività in caso di cessazione della professione, fa un’affermazione sicuramente suggestiva, ma certamente non vera.

11 Corte cost., 6.10.2014, n. 235, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 172.

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Saggi e pareri

Senza la deeming clause vi è un evidente problema di costituzionalità, con particolare riferimento alla famigerata derogabilità dell’art. 1917, comma 1° c.c., in quanto l’art. 1932 c.c. – a queste condizioni – diviene incostituzionale con riferimento all’art. 41 della Costituzione laddove non include anche l’art. 1917, comma 1° c.c. fra le norme inderogabili, allorché vi sia un obbligo ex lege ad assicurarsi per poter liberamente usufruire dei diritti previsti dal citato articolo. L’art. 41 Cost., al quale si è guardato, anche seguendo input comunitari per liberalizzare attività di nuova diffusione (l’osteopatia, il counseling, etc.) riguarda anche i medici e gli altri liberi professionisti (persino i noiosi avvocati, categoria alla quale chi scrive è orgoglioso di appartenere) e le legittime esigenze di business delle compagnie di assicurazione devono necessariamente cedere il passo ai diritti fondamentali della persona, salvo casi particolari, come quello previsto in caso di risarcimento del danno da circolazione, certamente non applicabile a questo contesto. Né appare tollerabile che il professionista medico (sì, quello che la Legge Gelli, allorché collabori in modo strutturato assieme ad una struttura pubblica o privata, ritiene non meritevole di una copertura assicurativa sottoscritta dall’Ente, né di un tetto all’azione di rivalsa), debba in qualche modo attraversare un vero e proprio “miglio verde” che inizia da quando si rende conto dell’essersi verificato un evento potenzialmente fonte di claim a quando la richiesta di risarcimento arriverà e sarà certamente respinta ex art. 1892 c.c. o già preventivamente non assicurata dal nuovo assicuratore. Tutto ciò mina le fondamenta dell’esercizio della libera professione e danneggia la società civile nella sua totalità, perché questa società ha ancora bisogno di imprese e professionisti.


i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a L’azione diretta del soggetto p danneggiato nel quadro della nuova responsabilità sanitaria Matteo Turci

Dottorando di ricerca nell’Università di Genova Sommario: 1. La legge 8 marzo 2017 n. 24 e il ruolo dell’assicurazione obbligatoria. – 2. L’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore del danneggiante nell’ordinamento italiano. – 3. La natura dell’azione diretta. – 4. Segue: la cumulabilità dell’azione diretta e dell’azione aquiliana. – 5. I soggetti. – 6. Il regime delle eccezioni. – 7. Segue: altri profili processuali. – 8. Confini e limiti dell’azione ex art. 12 l. 8 marzo 2017, n. 24.

Abstract: In attesa dell’emanazione dei decreti attuativi che sanciranno l’entrata a regime della disciplina dell’azione diretta in materia di responsabilità sanitaria, recentemente introdotta dalla legge di riforma l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli-Bianco), il contributo passa in rassegna alcune particolarità della normativa con specifico riferimento alle finalità della figura, alla sua natura e al suo possibile funzionamento, traendo ispirazione delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali maturate in tema di assicurazione RCA obbligatoria, dalla quale la nuova legge ha tratto ispirazione. Pending the implementing decrees that will establish the coming into force of the discipline concerning the institution of a direct action, recently introduced by the law reforming medical liability (the so-called Gelli-Bianco Law), the essay analyses some peculiarities of the same, with specific reference to the aims of such action, its nature, and its possible functioning, drawing inspiration from both the doctrinal elaboration and the jurisprudence concerning the mandatory third party liability insurance, by which the above-mentioned new law was inspired.

1. La legge 8 marzo 2017 n. 24 e il ruolo dell’assicurazione obbligatoria La l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Bianco-Gelli), introducendo nell’ordinamento nuove norme in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, contribuisce allo sviluppo di quel sottosistema della responsabilità civile cui, sempre più di frequente, ci si suole riferire con le locuzioni “responsabilità medica” o “responsabilità sanitaria”1.

1 Ex multis: Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. e prev., 1999, 316 ss. e De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995; Id., Responsabilità in ambito sanitario (voce), in Digesto IV ed., Aggiornamento, in corso di pubblicazione e visionato per gentile concessione dell’autrice. Sulle ambizioni di affrancamento della responsabilità sanitaria dal generale statuto della responsabilità civile e sul suo accreditamento come sottosistema, autonomo (benché non indipendente), oggi dotatosi anche di riconoscimento normativo, pare opportuno ricordare le osservazioni di Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in Diritto civile e diritti speciali, a cura di Plaia, Milano, 2008, 5 ss. In punto si notino, inoltre, Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1979, 18 ss.; Breccia, L’interprete tra codice e nuove leggi civili, in Pol. dir., 1982, 579 ss.; Galgano, Come fare le leggi civili?, in Riv. crit. dir. priv., 1983, 315 ss.; Busnelli, Il diritto civile tra codice e legislazione speciale, Napoli, 1984; Roppo, Introduzione, nel

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L’evoluzione di tale sottosistema, tradizionalmente ispirata dagli ondivaghi orientamenti espressi dalla giurisprudenza, ha risentito dei mutamenti che hanno investito l’area della responsabilità civile, con particolare riferimento alla disciplina applicabile alla tematica dell’accertamento del nesso causale, che porta ad affermare più latamente tale forma di responsabilità rispetto ad altre2, al decorso del termine prescrizionale cui soggiace la domanda di risarcimento del danno3, all’ampliamento, in via interpretativa, del catalogo dei danni risarcibili4, e alle regole operazionali che influiscono sull’ordinario regime degli oneri probatori5. Tali variegati ed incerti orientamenti giu-

Trattato della responsabilità contrattuale, diretto da Visintini, Padova, 2009, 1 ss. Nota la dicotomia di principi che regge l’accertamento del nesso causale in responsabilità penale e in responsabilità civile: l’una improntata al criterio del “al di là di ogni ragionevole dubbio” e l’altra che, informandosi al criterio del “più probabile che non”, ammette l’accertamento del nesso causale su basi probabilistiche, attribuendo valore a rilievi statistici ed esperienziali (emblematica, a proposito del danno da perdita di chance, Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Riv. it. med. leg., 2004, 789 ss.).

2

Il tema vede il confronto tra chi individua il dies a quo nel momento di compimento del comportamento dannoso, cfr. Monateri, La prescrizione e la sua decorrenza del fatto: una sentenza da elogiare, in Danno e resp., 2004, 389 ss., e chi propende per la decorrenza dal giorno di acquisizione della consapevolezza della illiceità del danno patito (per tutte Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 576, in Vita not., 2008, 839 ss.) . Contestualizzata nell’ambito della responsabilità medica la questione ha assunto notevole importanza a proposito dei c.d. “danni lungolatenti”, con particolare riferimento alla ricca casistica in materia di danni da emotrasfusione di sangue infetto. A proposito del concetto di danno lungolatente e, in particolare, dei danni da contagio emotrasfusionale si consenta il rinvio a Turci, La responsabilità del Ministero della Salute per danni da emotrasfusione: i principi delle Sezioni Unite nn. 576-585/2008, a dieci anni dalle pronunce, in questa Rivista, 2018, 55 ss.

Saggi e pareri

risprudenziali determinano un negativo influsso sulla prevedibilità delle decisioni contribuendo alle incertezze delle professioni sanitarie e, quale diretta conseguenza, sulle condizioni di assicurabilità di queste6. In tempi più recenti, gli interventi normativi da ultimo attuati dal legislatore hanno perseguito l’obiettivo di regolare le questioni sopra descritte in modo incompleto. La l. 8 novembre 2012, n. 189 (conversione del d.l. 13 settembre 2012, n. 158), approccia la materia di cui trattasi con un’eccessiva “prudenza”, attirandosi i rimproveri di parte della dottrina7. Tra le critiche principali si ricordano quelle che hanno sottolineato “l’irrilevanza” della normativa rispetto ai profili civilistici a cagione dell’assenza di innovatività; la costruzione di un sistema di responsabilità incentrato sulla figura del professionista sanitario e non sulla struttura; una reazione inefficace ai fenomeni della c.d. medicina difensiva8. Le medesime voci critiche si facevano promotrici di alcune istanze di “riforma della riforma”, concentrando l’attenzione su tre profili particolari: i) focalizzare il sistema di responsabilità civile sulle strutture sanitarie e non sugli esercenti le professioni mediche; ii) prevedere limiti alle azioni di rivalsa delle strutture ver-

3

Tra le tante vicende si veda quella attinente ai c.d. danni riflessi su cui D’Adda, Le funzioni del risarcimento del danno non patrimoniale, diretto da Patti, Responsabilità civile. Danno non patrimoniale, a cura di Delle Monache, Torino, 2010, 115 ss. 4

Emblematico il principio, di formazione giurisprudenziale, di c.d. prossimità della prova, espresso da Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 576 cit., in dottrina, per tutti, Trimarchi, La responsabilità civile, fatto illecito, rischio, danno, Milano, 2018, 630 ss. 5

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6 Sulla calcolabilità del diritto si veda per tutti, Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, passim; e in particolare nel campo della responsabilità civile, Di Gregorio, La calcolabilità del danno non patrimoniale, Torino, 2018, 185 ss. Sempre sul tema Comandé, L’assicurazione della responsabilità sanitaria: una questione nazionale o europea?, in Verso una disciplina europea del contratto di assicurazione?, a cura di Troiano, Milano, 2006, 216 ss., sottolinea l’impatto delle evoluzioni di tipo giuridico sul rischio che l’assicuratore si trova ad affrontare, ipotizzando che le trasformazioni repentine delle regole giuridiche divengano un “nuovo rischio da affrontare”, concludendo il ragionamento con l’indicazione di un’armonizzazione a livello europeo quale soluzione all’evidenziata problematica. Cfr. Gaggero, L’azione diretta del soggetto danneggiato, in La responsabilità sanitaria. Commento alla l. 8 marzo 2017, n. 24, a cura di Alpa, Pisa, 2017, 446.

Per una panoramica degli orientamenti dottrinali a proposito della previgente normativa si veda Gorgoni, La responsabilità sanitaria tra passato e futuro, in questa Rivista, 2017, 18 ss.

7

Sulla questione si veda, in particolare, Colombo, Responsabilità civile sanitaria e l. 8 novembre 2012, n. 189, in Biodiritto, 2012, 61 ss. 8


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L’azione diretta del danneggiato

so i singoli professionisti sanitari; e iii) introdurre una disciplina puntuale dei profili assicurativi, comprensiva dell’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore del danneggiante9. Successivamente con la l. 8 marzo 2017, n. 24 il legislatore sembra aver fatto proprie, almeno in parte, la istanze di riforma avanzate in dottrina, sebbene questo non sia stato sufficiente a riscuotere unanime consenso10. Ciò che pare potersi affermare è che l’intervento del legislatore presenta l’indubbio merito di aver tentato di introdurre uno statuto generale della responsabilità medica attento ai risvolti civilistici (ed anzi sbilanciato a favore dei profili risarcitori piuttosto che a quelli punitivi) costruito attorno alla figura della struttura sanitaria e non sull’esercente la professione medica e, infine, caratterizzato da un sistema di assicurazione obbligatoria: aspetti questi che paiono indirizzati verso una traslazione

Ibidem. In altra prospettiva si veda altresì Montanari VerLa colpa sanitaria verso la fase del bilanciamento: analisi de jure condito e proposte di riforma, Milano, 2016. 9

gallo,

10 Per alcune osservazioni in corso di elaborazione del provvedimento normativo si veda Ponzanelli, La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 816 ss. Parere dichiaratamente favorevole è espresso da Colombo, Profili civilistici della riforma della responsabilità sanitaria (l. 8 marzo 2017, n. 24), in Osser. dir. civ. comm., 2017, 299 ss. Pur senza esaltare il prodotto degli sforzi del legislatore sembrano accogliere con favore la nuova legge De Matteis, Errore e responsabilità in medicina, in questa Rivista, 2017, 60 ss. e Travaglino, Vaghi appunti sulla riforma della responsabilità sanitaria, in Giust.civ.com, 2017, 3. Il fronte critico, che appare maggiormente nutrito, trova espressione nelle osservazioni di Pucella, É tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, 3 ss., secondo il quale si è persa un’occasione per approdare a risultati di maggiore importanza ma anche Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, ivi, 5 ss.; Cendon, Sulla riforma del danno non patrimoniale, in Giust.civ.com, 2017, 3 e Quadri, Il parto travagliato della riforma in materia di responsabilità sanitaria, ibidem, sembrano propendere per un complessivo giudizio negativo della legge in parola. Negativo appare il giudizio di Partenza, L’assicurazione della responsabilità sanitaria posto riforma Gelli e le criticità del mercato: una mancata risposta a bisogni reali, in questa Rivista, 2017, 50 ss., che ampliando le proprie riflessioni iniziali auspica una radicale riforma (cfr. Partenza, La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria ovvero la necessità di un nuovo modello riparatorio, ivi, 2018, 129 ss.).

delle controversie in materia medico-sanitaria dalla sede penale a quella civile, in conformità con il ruolo secondario proprio del potere punitivo dello Stato avanti a fattispecie colpose scevre da elementi di elevata pericolosità o allarme sociale11. In questa prospettiva assumono un ruolo centrale le disposizioni in materia di assicurazione, come traspare ictu oculi dalla struttura del dettato normativo che dedica ben cinque articoli (dei diciotto totali) alla disciplina di tali profili. Ruolo preminente è rivestito poi da due disposizioni in particolare: l’art. 12 in materia di azione diretta (su cui infra § 2) e l’art. 10 che istituisce l’obbligo di assicurazione. La previsione di un obbligo di assicurazione non si configura come una novità nel panorama normativo italiano (vedi, ancora, infra § 2), né con precipuo riferimento all’attività legislativa in materia di responsabilità sanitaria, in considerazione del tentativo, infruttuoso, di introdurre tale previsione nella previgente legge di riferimento n. 189 del 201212. Il motore di tale reiterata scelta legislativa è da più parti individuato nella presa di coscienza da parte del legislatore della “fuga” degli assicuratori (ed in particolare di quelli nazionali) dal settore medico-sanitario13 e dalla conseguente ricerca di un’inversione di tendenza tesa ad assicurare una convergenza di interessi tra tutti i soggetti in gioco, attraverso il bilanciamento dell’interesse degli esercenti le attività sanitarie a poter accedere all’assicurazione della propria responsabilità civile con l’interesse degli assicuratori a perseguire lo scopo di lucro e dei pazienti a esercitare l’azione

Colombo, Profili civilistici della riforma della responsabilità sanitaria, cit., 302.

11

A tali riguardi si rinvia alle più ampie osservazioni di SeIl passato e il presente dell’obbligo assicurativo in ambito sanitario, in Danno e resp., 2017, 301 ss. 12

lini,

Per tutti si veda Partenza, L’assicurazione della responsabilità sanitaria posto riforma Gelli e le criticità del mercato, cit., 50 ss. Per un’attenta e dettagliata ricostruzione del fenomeno, corroborata da dati tecnici e statistici si rinvia ad Altomare, Risvolti assicurativi della Legge “Gelli-Bianco”, in Responsabilità sanitaria: tutte le novità della legge “Gelli-Bianco”, a cura di Martini e Ridolfi, in Il Civilista, Speciale riforma, 2017, 66 ss. 13

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di garanzia verso un coobbligato solvibile in caso di danno da malpractice medica14. Destinatari dell’obbligo di assicurazione – che vero obbligo non pare essere in considerazione dell’apertura offerta dallo stesso art. 10 alle “misure analoghe” – sono, oltre agli esercenti le professioni sanitarie, sui quali grava l’ulteriore obbligo di munirsi di garanzia idonea per i casi nei quali sia esperibile nei loro confronti l’azione di regresso, anche le strutture sanitarie e socio-sanitarie, tanto pubbliche quanto private, che sono altresì tenute a rendere noto il nome della compagnia che presta la copertura15. Di converso non esiste lo speculare obbligo a contrarre delle assicurazioni, con il rischio che le compagnie che vogliano mantenersi lontane dal settore possano dissuadere i potenziali contraenti praticando condizioni di polizza antieconomiche16. La copertura richiesta è la più ampia possibile, comprendendo ogni danno cagionato “dal personale a qualunque titolo operante” ivi compresi “coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica”. Sono altresì incluse le prestazioni sanitarie prestate in regime di libera professione intramuraria o in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale17. Oltre alla possibilità di azione diretta contro l’assicuratore del responsabile, posto a favore del danneggiato dall’art. 12, il sistema è caratterizzato

14 Cossignani, L’azione diretta, in I profili processuali della nuova disciplina sulla responsabilità sanitaria (legge 8 marzo 2017, n. 24, Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie), a cura di De Santis, Roma, 2017, 236 ss. 15 Per i medici dipendenti, quindi, sussiste solo l’obbligo di assicurazione per il caso di rivalsa, mentre per i medici liberi professionisti l’obbligo ricalca la più generale previsione di cui all’art. 3 del d.l. n. 138/2011, convertito con l. n. 148/2011, nonché dell’art. 5 del d.p.r. n. 137/2012 per quanto concerne l’obbligo di rendere noto al cliente gli estremi della copertura assicurativa.

A differenza di quanto è previsto in materia di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da conduzione di autoveicoli. 16

Di Majo, La salute responsabile. Diritti e rimedi, Torino, 2018, 79 ss.

17

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dalla costituzione di un Fondo di garanzia per i casi di danno eccedente il massimale di polizza, di messa in liquidazione coatta amministrativa della compagnia assicuratrice, ovvero di mancata copertura assicurativa. Altro tratto distintivo della disciplina è il rinvio alla fonte regolamentare per la determinazione dei requisiti minimi delle polizze, che demanda a un decreto ministeriale la decisione in merito ai massimali, alle condizioni di operatività, all’azione di rivalsa, all’efficacia retroattiva, e dell’ultrattività, delle polizze assicurative. Ad oggi l’adozione dei decreti attuativi rimane, peraltro, lettera morta condizionando l’effettività dell’obbligo18.

2. L’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore del danneggiante nell’ordinamento italiano Un’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore della responsabilità civile del terzo danneggiato è stata teorizzata da parte della dottrina già nei primi anni di vigenza del codice civile, pur senza trovare il pieno accoglimento in seno alla comunità scientifica19. Il più autorevole orientamento, pur affermando l’impossibilità di riconoscere un’azione diretta del danneggiato fondata su un autonomo diritto di credito di tale soggetto nascente dal contratto di assicurazione, costruiva il diritto all’azione diretta del danneggiato in base al privilegio stabilito a favore di tale soggetto ex art. 2769 c.c. Presupposto

Il punto è in realtà controverso: alcune decisioni di merito hanno sancito la non operatività delle disposizioni in parola in assenza del decreto attuativo (Cfr. Trib. Milano, 6.7.2018, consultabile all’indirizzo: www.quotidianosanità.it; contra Trib. Benevento, 24.10.2018, nota di aggiornamento 25 novembre 2018, in www.rivistaresponsabilitamedica. it, che ha riconosciuto la legittimazione passiva di una compagnia citata ai sensi dell’art. 12). 18

Tra le teorizzazioni si vedano, in particolare, Angeloni, I diritti del terzo danneggiato verso l’assicuratore della responsabilità civile, in Assicurazioni, 1934, I, 187 ss.; Gaetano, I privilegi, nel Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1952, 40 ss. e Donati, Trattato del diritto della assicurazioni private, III, Milano, 1956, 426 ss. 19


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di tale orientamento era il rilievo secondo cui il privilegio non è costituito sull’indennità spettante all’assicurato-responsabile in ragione del contratto di assicurazione, con la conseguente possibilità per il danneggiato di domandare il solo sequestro conservativo fronte del timore dello spostamento di tale somma dall’assicuratore all’assicurato, bensì sul credito dell’assicurato verso l’assicuratore a titolo di indennità. Poiché il pagamento dell’indennità da parte dell’assicuratore all’assicurato-responsabile estingue il credito, l’eventuale corresponsione dell’indennità avrebbe determinato il venire meno dell’oggetto del privilegio e, conseguentemente, il privilegio stesso nel momento nel quale tale strumento di tutela avrebbe dovuto dispiegare i propri effetti20. Tanto facendo leva sull’absurdum che tale meccanismo avrebbe generato nel privare di efficacia lo strumento offerto dal legislatore al danneggiato, quanto applicando alla garanzia su un credito il generale principio secondo cui il titolare di un diritto di garanzia può pretendere che non gli venga sottratto il bene sul quale la garanzia è costituita21, la prospettazione concludeva per il diritto del danneggiato a che il credito oggetto della propria garanzia non venisse estinto con il pagamento e, poiché il debitore è liberato laddove vi sia qualcuno che possa esigere il pagamento, naturale soluzione al problema era sottrarre all’assicurato il diritto di esazione del credito per conferirlo al danneggiato-garantito22. I vari orientamenti favorevoli al riconoscimento di una generale azione diretta del terzo verso l’assicuratore della responsabilità civile sono stati oggetto di puntuale critica. In primo luogo si è osservato che, a norma dell’art. 1917 c.c. un obbligo dell’assicuratore di pagare al danneggiato sorge solo nel caso in cui sia l’assicurato a richiederlo. Si è altresì ribadito che il contratto di assicurazione non ha natura di contratto

a favore di terzo, giacché l’assicurato, allorquando conclude il contratto di assicurazione, non persegue lo scopo di attribuire a terzi diritti. Da ultimo si è rilevato che scopo del privilegio sarebbe solamente impedire che il terzo danneggiato, in caso di fallimento del responsabile, debba concorrere con i creditori chirografari23. Più in generale si obiettava come scopo del contratto di assicurazione della responsabilità civile sia la tutela dell’interesse dell’assicurato e non già quello del terzo danneggiato, delegittimando la necessità di un’azione diretta di quest’ultimo a preservare il perseguimento della funzione propria del tipo. E a tale specifico ultimo rilievo critico si lega l’avvento dell’azione diretta assicurativa nell’ordinamento italiano. Il mutamento della coscienza sociale ha portato al consolidamento dell’esigenza di riparazione dei danni sopra quello di sanzionarne il colpevole, determinando un accorciamento della distanza concettuale tra assicurazione e responsabilità civile e andando a precostituire le premesse ideologiche per l’introduzione dell’obbligatorietà dell’assicurazione in quei settori nevralgici del fare umano i quali, per la loro importanza e capacità di generare danni, pur mantenendo il nome “assicurazione”, hanno visto il legislatore spingere la finalità di tutela del patrimonio del responsabile a soccombere rispetto alla volontà di garantire al danneggiato il ristoro dei danni patiti24. Il primo (e, fino alla l. 8 marzo 2017, n. 24, principale) settore nel quale il legislatore ha avvertito la necessità di intervenire nella summenzionata ottica è la responsabilità civile automobilistica. Sulla scorta dell’esperienza maturata in altri ordinamenti, infatti, il legislatore intervenne con la l. 24 dicembre 1969, n. 990 introducendo l’obbligo assicurativo per i veicoli a motore e, all’art. 18, l’azione diretta del danneggiato a ribadire la finalità

In relazione alle critiche sommariamente richiamate si veda, ex plurimis, Benatti, Appunti in tema di azione diretta, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 624 ss., in particolare 634 e 635, ove più ampi riferimenti bibliografici. 23

Così Donati, Trattato del diritto della assicurazioni private, cit., 427.

20

21 Cfr. artt. 2753, comma 3°; 2761, comma 4°; 2764, comma 2° e 2765, comma 3°, c.c.

Donati, Trattato del diritto della assicurazioni private, cit., 430. 22

Si riprende il ragionamento proposto, con ben maggior dettaglio, da La Torre, Azione diretta e assicurazione, in Assicurazioni, 1971, I, 526 ss., in particolare 529 e 530. 24

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perseguita con l’intervento normativo25. La scelta di un sistema imperniato sul binomio assicurazione obbligatoria con azione diretta del danneggiato - fondo di garanzia prevalse a discapito dell’opinione di quanti proponevano la costituzione di un ente apposito finanziato con l’introduzione di un’accisa sulla benzina o della proposta di istituzione del solo fondo di garanzia di ispirazione francese26. I tratti salienti della riforma del 1969 vedono l’istituzione del divieto di circolazione senza assicurazione per veicoli senza guida di rotaie muniti di targa, con espressa estensione anche ai natanti27. L’assicurazione obbligatoria non opera automaticamente come avviene per alcune ipotesi di assicurazioni sociali, bensì tramite l’imposizione di un doppio obbligo legale a contrarre gravante sul contraente (art. 1) e sulla compagnia (art. 11)28. L’estensione della copertura richiesta, per la quale la legge fissa dei massimali minimi, esorbita la richiamata (art. 1, comma 1°) responsabilità

25 Si noti, in particolare, l’esperienza spagnola del tempo su cui Barreiro, Comentarios sobre el seguro obligatorio de veichulos de motor, Madrid, 1965. Quanto alle riflessioni della dottrina italiana in materia di azione diretta ex art. 18 l. n. 990/1969 si vedano, senza pretesa di esaustività, De Cupis, Dei fatti illeciti, nel Commentario Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1971, 99 ss.; Alibrandi, Assicurazione obbligatoria r.c.a. e surroga assicurativa, in Arch. giur. circ., 1992, 642 ss.; Id., In tema di danni riportati dai veicoli a causa dei sinistri stradali, ivi, 1991, 369 ss.; Franzoni, Il terzo danneggiato, Padova, 1986, in particolare 13 ss.; La Torre, Azione diretta, in Azione diretta e assicurazione, Atti del convegno di Como 14/18 ottobre 1971, Milano, 1972, 57 ss.; Poggi e Fusaro, L’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile, Firenze, 1970, 111ss.; Casali, L’azione diretta nell’ambito della legge 990, in Azione diretta e assicurazione, cit., 319 ss.; Pagliara, L’art. 18 della legge 990 del 1969 dopo vent’anni, in Dir. e prat. ass., 1990, 357 ss.; Partesotti, L’azione diretta dopo la riforma dell’assicurazione r.c.a., ivi, 1980, 158 ss. 26 Nel primo senso militava il c.d. progetto Amasio, mentre la seconda prospettiva era al centro del c.d. progetto Foderaro, Isgrò e altri consultabili all’indirizzo: www.senato.it. 27 Solo per i natanti entro le 25 tonnellate di stazza e con motore di potenza superiore ai 3 cavalli vapore e, comunque, non per la responsabilità verso i terzi trasportati, salvo talune ipotesi tassativamente previste.

Sebbene la legge non lo esplicitasse, dal combinato disposto degli artt. 1, 8 e 32 si evince che il soggetto tenuto ad assolvere all’obbligo assicurativo era colui il quale aveva, a qualsiasi titolo, la disponibilità del veicolo. 28

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Saggi e pareri

civile prevista dall’art. 2054 c.c., andando a ricomprendere anche i danni causati da circolazione invito domino (art. 1, comma 2°) esclusi dall’art. 2054, comma 3°, c.c., e financo la responsabilità contrattuale verso i terzi traspostati da alcuni determinati veicoli. Quanto al profilo soggettivo, la polizza deve coprire la responsabilità tanto del proprietario (o del detentore a qualsiasi titolo), quanto del conducente, mentre con riferimento al terzo danneggiato sono esclusi dalla copertura i danni al terzo responsabile, i danni ad alcuni soggetti legati all’assicurato da rapporto qualificato di parentela e ai terzi trasportati (salvo che siano trasportati dai veicoli di cui agli artt. 1 e 2, comma 2°). Quanto all’azione diretta, sulla cui natura non si rinvengono indizi sufficienti nel testo della legge, essa è prevista all’art. 18 a favore del danneggiato entro i limiti delle somme per le quali è stata stipulata l’assicurazione, ed è esercitabile dal danneggiato solo dopo il termine dilatorio di sessanta giorni dalla richiesta di risarcimento del danno all’assicuratore ed entro il medesimo termine prescrizionale previsto per l’azione che sarebbe esercitabile verso il responsabile (art. 26)29. Nel giudizio instaurato dal danneggiato il terzo responsabile è litisconsorte necessario (art. 23), e l’assicurazione non può opporre al danneggiato le eccezioni che siano fondate sul contratto di assicurazione, né le clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno. É fatto salvo il diritto dell’assicuratore ad agire in rivalsa verso il proprio assicurato30. Il riordino della disciplina operato dal legislatore con il d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, (c.d. Codice delle Assicurazioni Private) non ha apportato modifiche significative alla disciplina dell’assicurazio-

Si è affermato che nel termine “danneggiato” debbano ritenersi compresi anche i danneggiati c.d. “di rimbalzo”, quali i prossimi congiunti di una persona deceduta o gravemente ferita. Sul punto si rinvia infra § 8. Si veda, inoltre, Rossetti, Il diritto delle assicurazioni, III, Padova, 2013, 315. 29

30 Per una più completa disamina della legge in parola si rinvia a Donati, La nuova legge italiana sull’assicurazione obbligatoria responsabilità civile automobilistica e la convenzione di Strasburgo, in Assicurazioni, 1970, I, 30 ss. e La Torre, Azione diretta e assicurazione, cit., 526 ss.


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ne della responsabilità civile da guida di veicoli quanto ai profili di cui si discorre31. In particolare, l’azione diretta del danneggiato ha trovato la nuova collocazione normativa nell’art. 144 cod. ass.32, che ricalca la previgente disposizione, salvo alcuni accorgimenti tra i quali spicca la sostituzione del riferimento al legittimato passivo: non più genericamente “l’assicuratore” (art. 23 l. n. 990/1969), bensì “l’impresa di assicurazione del responsabile civile” (art. 144, comma 1°, cod. ass.)33. Durante la vigenza della testé richiamata disciplina la dottrina e la giurisprudenza sono state chiamate a dirimere alcuni importanti problemi interpretativi emersi dall’applicazione delle norme in materia di azione diretta automobilistica, pervenendo a soluzioni la cui analisi si ritiene poter offrire, in ragione delle affinità di formulazione e finalità tra l’art. 144 cod. ass. e l’art. 12 l. n. 24/2017, solida base di partenza per una più completa comprensione della portata dell’intervento apportato nella provincia della responsabilità sanitaria dal legislatore con l’art. 12 della legge Bianco-Gelli. Tali questioni attengono, innanzitutto, alla natura dell’azione diretta, cui si legano le considerazioni circa la cumulabilità dell’azione diretta con l’ordinaria azione risarcitoria; involgono poi la corretta perimetrazione soggettiva del rapporto e la concreta individuazione delle eccezioni opponibili al danneggiato oltre, infine, ad alcune notazioni di ordine processuale.

Per maggiori riferimenti si veda Spena, Il codice delle assicurazioni private, a cura di Capriglione, II, Padova, 2007, sub art. 144, 464 ss.; Ferrari, I contratti di assicurazione contro i danni e sulla vita, nel Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato, diretto Perlingieri, Napoli, 2011, 278 ss.; Calvo, Il contratto di assicurazione. Fattispecie ed effetti, nel Trattato della responsabilità civile, diretto da Franzoni, Milano, 2012, 153 s. e Rossetti, op. cit., 314 ss. 31

La previsione non è più modificabile dal legislatore a partire dal Recepimento della direttiva n. 203/2009 CE, art. 18. 32

La nuova formulazione serve a coordinare la disciplina dell’azione diretta con gli istituti, di nuova introduzione, del risarcimento al terzo trasportato (art. 141 cod. ass.) e del risarcimento diretto (art. 149 cod. ass.). 33

3. La natura dell’azione diretta La figura dell’azione diretta è stata posta, dalla dottrina, al centro di numerose riflessioni, accumunate dall’intento di individuare un inquadramento teorico unitario delle diverse ipotesi normativamente previste di azioni dirette. Ritenendo superfluo soffermarsi in questa sede sull’ampio ventaglio di proposte avanzate dalle diverse voci dottrinarie si ripercorrono, in rapida sintesi, i principali orientamenti onde evidenziarne la disomogeneità, riconducendo le principali interpretazioni proposte dalla dottrina a due grandi famiglie (teorie processualistiche e teorie sostanzialistiche) in un’ottica di semplificazione del discorso34. Da più parti si è, in primo luogo, proposto di qualificare l’azione diretta come una particolare ipotesi di sostituzione processuale: una legittimazione ad agire concessa in via di eccezione dalla legge per consentire ad un soggetto di azionare in giudizio un diritto che non gli appartiene35. A questa visione si contrappongono più tesi “sostanzialistiche”, le quali hanno, di volta in volta, i) ritenuto l’azione diretta una deviazione dallo schema dell’azione surrogatoria, il cui elemento di specialità risiede nel fatto che il legislatore concede l’azione a prescindere dall’eventuale inezia del debitore-titolare del diritto azionato in giudizio; ii) ricondotto l’azione diretta ad una ipotesi di cessione coattiva del credito, dal debitore contrattuale al creditore privilegiato, con contestuale traslazione dell’onere debitorio connesso al rapporto obbligatorio principale a carico del terzo debitore; iii) qualificato l’azione diretta come una particolare garanzia supplementare costituita ex lege a titolo di privilegio in ipotesi, normativamente individuate, nelle quali il legislatore ha

In punto, in particolare: Franzoni, L’azione diretta nei confronti dell’assicuratore: profili storici e ricostruttivi, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 773 ss.

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35 In tal senso si vedano, inter alia, le considerazioni svolte da Carnelutti, Responsabilità del committente verso il subappaltatore, in Riv. dir. proc. civ., 1935, II, 200 ss.; Garbagnati, La sostituzione processuale, Milano, 1942, 205 ss. e Balena, Contributo allo studio delle azioni dirette, Bari, 1990, 70 ss.

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individuato, con una scelta di politica legislativa, il coinvolgimento di particolari interessi ritenuti meritevoli di una tutela rafforzata in ragione della loro rilevanza sul piano sociale36. Le incertezze in ordine alla natura dell’azione diretta che hanno ammantato questa figura da un punto di vista generale, si ritrovano anche, a livello particolare, a proposito dell’azione diretta in materia assicurativa. Nel corso degli anni Settanta si diffuse in dottrina l’idea che l’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore della responsabilità civile del terzo responsabile avesse natura contrattuale. Secondo tale ricostruzione il contratto di assicurazione configurava un particolare schema contrattuale trilatero laddove prevedeva l’azione diretta del danneggiato, nel quale l’assicuratore, concludendo il contratto con il proprio assicurato, accetterebbe di assumere su di sé l’obbligo di pagare l’indennizzo direttamente a favore del danneggiato37. La posizione successivamente assunta (e mantenuta) dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione38 sul punto ha determinato la necessità di una revisione della predetta teoria. I giudici di legittimità hanno, infatti, con costanza, sostenuto che il contratto tra assicuratore e responsabile si atteggia, rispetto al danneggiato, quale mero fatto e non già alla stregua di un negozio giuridico, inducendo così a concludere che alla base dell’azione diretta non vi sia né un contratto, né un mero fatto illecito, bensì una fattispecie complessa e composita, della quale fanno parte: l’illecito, il contratto di assicurazione e il rapporto diretto che si costituisce tra assicuratore e danneggiato determinando l’estensione a quest’ultimo di alcuni effetti propri del contratto di assicurazione, rispetto al quale egli rimane terzo39. Corollario di

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tale concezione della fattispecie sono il divieto di interpretazione analogica (ed anche estensiva) delle norme in materia di azione diretta, considerazione che deve necessariamente trovare applicazione anche rispetto all’art. 12 della legge Bianco-Gelli. Sulla scorta delle contrapposizioni tra elaborazioni dottrinarie maturate a proposito del generale istituto dell’azione diretta, anche in relazione all’applicazione della stessa in ambito assicurativo si sono scontrate due differenti interpretazioni. Un primo e minoritario fronte, rifacendosi alla concezione processualistica, qualifica l’azione diretta del danneggiato verso l’assicuratore del proprio danneggiante alla stregua di un’ipotesi di legittimazione straordinaria40. Al contrario, secondo il contrapposto e più nutrito schieramento dottrinario, le norme in esame istituiscono a favore del danneggiato un vero e proprio diritto sostanziale, attribuito ex lege al creditore (la vittima del sinistro) nei confronti dell’assicuratore del responsabile41. Secondo il predetto orientamento il diritto conferito dalla legge alla vittima del sinistro avrebbe, quindi, contenuto identico al diritto che il danneggiato vanta nei confronti del responsabile civile42. Tale interpretazione parrebbe aver

tore (e il regime delle eccezioni e della rivalsa), in La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione. Commento sistematico alla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd legge Gelli), a cura di Gelli, Hazan e Zorzit, Milano, 2017, 604 ss. 40 Si veda anche Rigolino Barberis, Riflessi della l. 990/69 sulla struttura e sulla funzione dell’istituto dell’assicurazione della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1978, 9 ss. 41 In questo senso si sono espressi, con riferimento alla previgente normativa, La Torre, Azione diretta e assicurazione, cit., passim e, con riferimento alla disciplina attualmente vigente, Rossetti, op. cit., in particolare 314.

Richiamando la definizione di azione diretta elaborata da Benatti, ibidem, è stato affermato che “l’essenza dell’azione diretta consiste quindi nel consentire al creditore di far valere il proprio credito nei confronti del debitore del proprio debitore” (Cfr. Rossetti, ibidem). Di tale considerazione si ritiene di dover dubitare, in considerazione del fatto salvo che il diritto attribuito al danneggiato verso l’assicuratore del responsabile civile, in realtà, prescinde dal diritto di questi verso il proprio assicuratore, che gode, infatti, del diritto di rivalsa. La citata dottrina tenta di superare tale considerazione ricorrendo alla definizione di “diritto parzialmente autonomo” che, tuttavia, non pare convincere appieno. 42

Cosi, su tutti, Vecchi, L’azione diretta, Padova, 1990, 167 ss. 36

37 Per una più ampia analisi si veda Pacileo e Sica, nel Commentario alla legge 8 marzo 2017, n. 24, a cura di Meoli, Sica e Stanzione, Napoli, 2018, sub art. 12, 253 ss.

Ex plurimis: Cass., 29.7.1983, n. 5218, in Assicurazioni, 1983, II, 237 ss.; Cass., 28.11.1994, n. 10156, in Arch. giur. circ., 1995, 986 ss.

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Così, tra gli altri, Hazan, L’azione diretta verso l’assicura-

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trovato anche i favori della giurisprudenza, andando a completare quell’indirizzo in seno alla giurisprudenza di legittimità che già aveva negato la fonte contrattuale dell’azione diretta, con la precisazione del valore sostanziale (e non già meramente processuale) del diritto conferito ex lege al danneggiato43.

4. Segue: la cumulabilità dell’azione diretta e dell’azione aquiliana Collegata alla precedente è, poi, la questione relativa al rapporto tra l’azione diretta e l’azione di responsabilità esperibile dal danneggiato nei confronti del responsabile del danno. Tale tematica, affrontata (e risolta) con riferimento al rapporto tra l’azione ex art. 144 cod. ass. e l’azione ex art. 2054 c.c., si ripropone specularmente anche in ambito sanitario, arricchita dell’ulteriore complicazione che vede l’azione di risarcimento verso il responsabile avere natura contrattuale o extracontrattuale, in ragione del fatto che la vittima rivolga le sue pretese contro la struttura sanitaria, ovvero contro il professionista44. É oggi pacifica convinzione che conseguente all’affermazione della natura di diritto sostanziale ex lege dell’azione diretta, sia la possibilità di cumulare tale diritto con il diritto a chiedere il risarcimento che matura in capo al danneggiato nei confronti del responsabile del fatto illecito alla stregua delle norme codicistiche in tema di responsabilità aquiliana (o contrattuale)45.

In questo senso si veda, ad esempio, Cass., 28.5.2007, n. 12376, in Guida al dir., 2007, 38 ss. Cfr. Cass., 5.12.2011, n. 26019, in Resp. civ. e prev., 2012, I, 274; in Foro it., 2012, I, 1526 ss. e in Giust. civ., 2012, I, 1495 ss. 43

44 Come noto l’art. 7 della l. 8 marzo 2017, n. 24 disciplina la responsabilità sanitaria secondo il c.d. doppio binario, prevedendo che le strutture sanitaria risponda ex artt. 1218 e 1228 c.c., laddove i professionisti sanitari rispondono ai sensi dell’art. 2043 c.c. In punto si veda la dottrina richiamata in nota 1.

Ferrari, op. cit., 280 s.; Rossetti, op. cit., 315 s.; Guerrieri e Rubini, Nuovo diritto della circolazione stradale, Milano, 1996, 127 ss.; Giannini, L’assicurazione obbligatoria dei veicoli e dei natanti, Milano, 1988, 113 ss.; Castellano e Scarlatella, Le assicurazioni private, Torino, 1981, 661 ss.; Franzoni, voce «Responsabilità civile (assicurazione della)», nel Digesto, 45

Il paziente sarà, quindi, libero di decidere se azionare cumulativamente ovvero alternativamente i due menzionati diritti, fermo restando che l’adempimento da parte di uno dei due debitori in solido estingue il debito anche rispetto all’altro debitore, nel rispetto della disciplina in materia di obbligazioni solidali, come affermato e ribadito dalla Corte di Cassazione in materia di assicurazione della responsabilità civile da autoveicoli, con un ragionamento integralmente sovrapponibile alla fattispecie che qui interessa46. Pare opportuno chiedersi, inoltre, se la richiesta di condanna in solido di assicuratore e struttura sanitaria (o professionista medico), da parte del paziente debba essere invero trattata alla stregua della proposizione cumulativa di due diverse domande: l’una aquiliana e l’altra diretta. In punto si è espressa in senso affermativo la Suprema Corte, quale ha affermato che tale ipotesi determina l’insorgere di un litisconsorzio a natura meramente processuale tra assicuratore e responsabile del danno47. Tra le conseguenze di tale affermazione vi è che la confessione resa dal responsabile nel corso del giudizio ha valore di piena prova contro quest’ultimo, ma deve essere apprezzata secondo quanto disposto dall’art. 2733 c.c. rispetto all’assicuratore. La possibilità, in capo al paziente-danneggiato, di azionare cumulativamente o alternativamente i due differenti diritti sostanziali si presta al verificarsi di differenti scenari. Il paziente potrà, infatti,

Disc. priv., sez. comm., XVII, Torino, 1996, 396 ss.; Candian, Responsabilità civile e assicurazione, Milano, 1993, 117ss.; Fanelli, Le assicurazioni, nel Trattato Cicu-Messineo, Milano, 1973, 165 ss.. Specificamente a proposti dell’azione ex art. 12 l. 8 marzo 2017, n. 24 si veda Gaggero, op. cit., 466 ss. 46 Si notino, ex plurimis, Cass., 11.6.2008, n. 15462, in Giust. civ., 2010, I, 169 ss. e in Resp. civ. e prev., 2008, 2597 ss., Cass., 1°.8.2000, n. 10042, in Foro it. rep., 2000, Assicurazione (contratto), n. 151; Cass., 5.12.1994, n. 10463, ivi, 1994, Assicurazione (contratto), n. 160; Cass., 28.11.1994, n. 10156, in Arch. giur. circ., 1995, 722 ss., Cass., 28.11.1988, n. 6402, ivi, 1989, 301 ss.; Cass., 27.11.1982, n. 6428, in Mass. Giust. civ., 1982, 2172 ss.; Cass., 7.6.1974, n. 533, in Dir. e prat. ass., 1974, 533 ss.

Così Cass., 12.2.1998, n. 1471, in Arch. giur. circ., 1998, 333, in relazione ad una fattispecie ex art. 18 l. n. 990/1969. In punto si vedano anche le riflessioni di Ferrari, op. cit., 280. 47

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proporre unicamente l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore. In tal ipotesi il responsabile (professionista o struttura sanitaria) dovrà prendere parte al giudizio in qualità di litisconsorte necessario (amplius, infra, § 5), sicché la decisione sulla domanda del danneggiato implicherà necessariamente che il giudice accerti la sussistenza della responsabilità dell’assicurato, statuendo in punto con efficacia di giudicato (a prescindere dal fatto che nei confronti dello stesso il paziente non abbia dispiegato domande). Il danneggiato potrebbe, poi, proporre cumulativamente la domanda di risarcimento verso i responsabili48 e l’azione diretta verso l’assicuratore di questi. In tale ipotesi è necessario che il giudice decida sulle domande in modo uniforme, non potendo accogliere, in ipotesi, la sola domanda aquiliana nei confronti del medico (e/o contrattuale nei confronti della struttura) per poi respingere la domanda ex art. 12 dispiegata vero l’assicuratore del (o gli assicuratori dei) responsabile49. La vittima, infine, potrebbe decidere di agire nei soli confronti dei responsabili (struttura sanitaria e/o professionista medico). Tale scelta appare invero obbligata laddove la struttura sanitaria responsabile si sia avvalsa della possibilità, prevista dalla l. 8 marzo 2017, n. 24, di ricorrere a misure “equivalenti” all’assicurazione50. In questa ipotesi la legge non prevede l’estensione del contraddittorio all’assicuratore, con la conseguenza che l’eventuale sentenza favorevole al paziente non potrà da questi essere opposta all’assicuratore

A differenza dell’azione diretta del danneggiato da circolazione di veicoli e natanti, nel caso dell’azione diretta sanitaria il danneggiato che volesse massimizzare le proprie chances di ristoro dei danni patiti, potrà convenire in giudizio sia la struttura sanitaria o socio sanitaria, pubblica o privata, sia il medico appartenente alla stessa, reciprocamente legati da un vincolo di solidarietà passiva atipica ex art. 2055 c.c., si il medico libero professionista (oltre, ovviamente, alle rispettive compagnie di assicurazione). Sul punto si vedano le più ampie riflessioni di Hazan, op. cit., 609 ss. 48

In questo senso si veda Cass., 5.5.2006, n. 10311, in Foro.it, 2007, I, 1259 ss., e in Assicurazioni, 2006, II, 272 ss. 49

50

Sul punto si veda meglio infra § 8.

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Saggi e pareri

del responsabile (ma neppure dal responsabile al proprio assicuratore)51.

5. I soggetti I soggetti (attivo e passivo) dell’azione diretta sono spesso identificati in dottrina dalla locuzione “legittimato attivo” e “legittimato passivo”. Pur attenendosi a tale denominazione ai soli fini espositivi, è opportuno sottolineare l’utilizzo in senso atecnico del termine “legittimazione” la quale, secondo il diritto processuale, discende dalla sola affermazione dell’attore di agire per la tutela di un proprio diritto, esulando dalla prospettiva processuale la questione relativa all’effettiva sussistenza e titolarità del diritto affermato che permane questione di merito52. Ricalcando quanto previsto dall’art. 144 cod. ass., il quale attribuisce la titolarità dell’azione diretta a “il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante, per i quali vi è obbligo di assicurazione”, l’art. 12, comma 1°, l. 8 marzo 2017, n. 24 stabilisce che “il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente”. In conformità con quanto affermato dalla giurisprudenza in materia di azione diretta del danneggiato da circolazione di veicoli e natanti, si deve ritenere che legittimati ad agire direttamente ex art. 12 debbano essere, non soltanto la vittima primaria del sinistro, bensì anche le vittime c.d. di rimbalzo. Tale principio è stato affermato in giurisprudenza con riferimento ad un ventaglio di ipotesi variegato, contribuendo a delineare una vera e propria categoria di soggetti titolari del diritto: tra questi rientreranno certamente i familiari e gli eredi di un paziente deceduto o gravemente danneggiato, così come colui il quale si sia visto costretto a rinunziare alla propria attività lavorativa

51

Cfr. Rossetti, op. cit., 316.

Sul significato di legittimazione si veda, per tutti, Attardi, voce «Legittimazione ad agire», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., X, Torino, 1993, 524 ss.. Ai fini di quanto in discorso i termini “legittimato attivo” e “legittimato passivo” hanno da intendersi come “titolare del diritto sostanziale” e “titolare dell’obbligo”.

52


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per prestare assistenza al paziente danneggiato53. La titolarità dello stesso diritto è stata riconosciuta anche in capo al coniuge extracomunitario54, al convivetene more uxorio55 ed è riconosciuta al convivente di fatto dall’ art. 1, comma 49°, della l. 20 maggio 2016, n. 7656. A conferma dell’ampiezza della definizione di danneggiato si è affermata la legittimazione attiva anche del datore di lavoro che abbia perduto l’apporto lavorativo del proprio dipendente vittima del sinistro57. Secondo un’interpretazione che pare maggioritaria, il credito risarcitorio maturato in capo al danneggiato potrebbe essere oggetto di cessione58 ovvero trasferirsi in forza di surrogazione nei diritti del danneggiato59 e con esso passerebbe in capo al cessionario il diritto di agire direttamente verso l’assicuratore del responsabile60. Poiché le decisioni che affermano tale principio fondano il diritto del cessionario di far valere il diritto acquisito verso il debitore ceduto (nel caso de quo il responsabile civile e il suo assicuratore) sul contratto di cessione del credito e quale effetto del medesimo, parte della dottrina ha sottolineato il rischio che tale argomento si presti a sostenere che all’azione del cessionario, non fondata sull’art. 144 cod. ass. o sull’art. 12 l. n. 24/2017, non siano applicabili le disposizioni connesse (quali sono quelle relative

alle condizioni di procedibilità dell’azione ex art. 8 l. n. 24/2017, per esempio)61. Quanto alla legittimazione passiva, il titolare dell’obbligo si rinviene senza particolari questioni nella compagnia di assicurazioni che ha stipulato la polizza a favore del responsabile. Per agevolare la concreta individuazione di tale soggetto, la l. 8 marzo 2017, n. 24 introduce all’art. 10 l’obbligo per le strutture sanitarie di rendere nota mediante pubblicazione sul proprio sito internet la denominazione dell’impresa che presta la copertura assicurativa della responsabilità civile verso terzi e verso i prestatori d’opera, indicando per esteso i contratti e le clausole assicurative. Un corrispondente obbligo grava sugli esercenti le professioni mediche non strutturati, in virtù dell’art. 3, comma 5°, lett. e), del d.l. n. 138/201162.

6. Il regime delle eccezioni Coerente con la finalità di protezione del danneggiato sottesa alla legge di riforma della responsabilità sanitaria è il regime delle eccezioni opponibili al danneggiato che agisca in via diretta. Rifacendosi al modello ispiratore del codice delle assicurazioni private, infatti, l’art. 12, comma 2°, prevede l’inopponibilità al danneggiato delle “eccezioni derivanti dal contratto”63.

Si veda Cass., 15.9.2003, n. 13549, in Arch. giur. circ., 2004, 922 ss. 53

54 Così Cass., 11.1.2011, n. 540, in Giur. it., 2011, 2023 e in Corr. giur., 2011, 495.

Cfr. Cass., 28.3.1994, n. 2988, in Resp. civ. e prev., 1995, 564 ss. 55

56 Il comma 49° dell’art. 1 così recita: “In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite”.

In questo senso: Cass., sez. un., 12.11.1988, n. 6132, in Foro it., 1989, I, 742, con nota di Di Majo e di Poletti. 57

58 Cass., 10.1.2012, n. 51, in Dir. e giust., 2012; Cass., 13.5.2009, n. 11095, in Arch. giur. circ., 2011, 936 ss. 59 Cass., 14.10.2016, n. 20740, in Dir. civ. cont., 2017, con nota di Turci, La surroga dell’assicuratore ex art. 1916 c.c.: “terzi responsabili” e “terzi obbligati”. 60 Così, ex multis, Cass., 3.10.2013, n. 2988, in Foro it., 2014, I, 876. Sulla questione si veda Gaggero, op. cit., 567.

61

Cfr. Hazan, op. cit., 622 ss.

In generale sulla legittimazione passiva si vedano BonoI profili processuali della nuova responsabilità medica, in La nuova responsabilità medica, a cura di Ruffolo, Milano, 2018, 137 ss., in particolare 148 ss. e Cossignani, op. cit., 38 s. Si notino anche le brevi osservazioni di Pacileo e Sica, op. cit., 256. 62

ra,

Secondo la dottrina richiamata al § 3, tale regime delle eccezioni opponibili al danneggiato sarebbe riflesso (e quindi prova) della natura parzialmente autonoma del diritto posto in capo al danneggiato dalla legge. Quanto alla disciplina delle eccezioni opponibili al danneggiato attore in via diretta verso l’assicuratore RC del responsabile nel codice delle assicurazioni private si veda, per tutti, Rossetti, op. cit., 319 ss. Per le prime riflessioni sulla questione nel quadro della legge Bianco-Gelli si vedano Di Majo, op. cit., 82 ss.; Mantovani, L’assicurazione della responsabilità civile medico-sanitaria, Napoli, 2017, 84 ss.; Hazan, op. cit., 319 ss.; Gaggero, op. cit., 568; Cossignani, op. cit., 46. 63

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Attingendo all’esperienza maturata attorno all’azione diretta ex art. 144 cod. ass., è possibile meglio precisare i contorni del divieto di opporre al danneggiato eccezioni derivanti dal contratto di assicurazione, enucleando quali siano, in concreto, le eccezioni che la giurisprudenza ha ritenuto, di volta in volta, opponibili o meno64. Tra le eccezioni che la giurisprudenza ha ritenuto certamente inopponibili si rinvengono, innanzitutto, la liberazione dall’obbligo dell’assicuratore di pagare l’indennizzo o l’annullabilità del contratto a causa di dichiarazioni inesatte o reticenti da parte dell’assicurato (artt. 1892 e 1893 c.c.); l’aggravamento del rischio ex art. 1898 c.c.65; le eccezioni di mancata denuncia ex art. 1906 c.c. e di inadempimento all’obbligo di avviso e salvataggio; il dolo nella causazione del sinistro66. Non sono state ritenute opponibili al danneggiato neppure la stipula del contratto da parte di impresa

Si noti, infatti, come il legislatore italiano abbia fatto generico riferimento all’inopponibilità delle eccezioni al danneggiato, senza precisare i limiti di tale divieto, demandati alla giurisprudenza nel caso della responsabilità da circolazione di veicoli e natanti e, in parte, ai regolamenti di cui all’art. 10 comma 6° per quanto concerne la responsabilità sanitaria, al contrario, per esempio, di quanto si può rilevare nell’esperienza anglosassone. In Inghilterra, infatti, il Road Traffic Act del 1988 limita il generale principio di opponibilità al terzo delle eccezioni fissato da Third party Act del 1930, elencando alcune specifiche clausole ed eccezioni opponibili al terzo danneggiato, quali le eccezioni fondate sull’arbitration clause, sulla notice clause, sulla pay to be paid clause. Per una più diffusa analisi dell’azione diretta in materia assicurativa nell’ordinamento Inglese si rinvia alle osservazioni di Pironti, L’azione diretta nell’assicurazione della responsabilità civile ed il regime delle eccezioni opponibili nel regno unito, in Verso una disciplina europea del contratto di assicurazione?, a cura di Troiano, 2005, Milano, 127 ss.

Saggi e pareri

non autorizzata67, né la clausola che obblighi l’assicurato a contribuire al risarcimento del danno68. Al contrario vi sono alcuni casi di eccezioni che sono state ritenute opponibili al danneggiato, tra le quali spicca l’eventuale inesistenza o nullità assoluta del contratto di assicurazione69. I primi commentatori della norma di cui si discorre hanno evidenziato come il regime delle eccezioni opponibili al danneggiato sconti un discostamento dall’omologo in materia di responsabilità da circolazioni automobilistica. Infatti l’art. 12, comma 2°, precisa che non sono opponibili le eccezioni fondate sul contratto “diverse da quelle stabilite dal decreto di cui all’articolo 10, comma 6, che definisce i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie di cui all’articolo 10, comma 2”70. Come è stato autorevolmente sostenuto71, tale limite trova la sua ragion d’essere laddove venga inteso nel senso per cui, qualora il legislatore secondario, agendo come previsto dall’art. 10, comma 6°, nel disciplinare i requisiti minimi dei contrasti di assicurazione circoscriva i confini della copertura, i limiti così individuati sarebbero opponibili al danneggiato anche laddove assicurato-

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Cfr. Cass., 20.2.1998, n. 1786. in Arch. giur. circ., 1998, 572 ss. e Cass., 14.3.1996, n. 2115, in Riv. giur. circ. trasp., 1996, 126 ss. 65

Rimane salvo il diritto all’azione in regresso dell’assicuratore che abbia pagato l’indennizzo a favore del danneggiato verso il responsabile del danno. In punto cfr. Cass., 18.2.1997, n. 1502, in Foro it., 1997, I, 2144. 66

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Cass., 19.1.1995, n. 586, in Assicurazioni, 1995, II, 176 ss. A fondamento della decisione stava il rilievo secondo il quale tale circostanza non determina nullità o annullabilità del contratto, ma ne consente la risoluzione a richiesta del contraente. Il principio è oggi superato da una nullità espressamente comminata dalla legge (nuovo art. 17 c.c.). Anche tale nullità non sarebbe comunque opponibile al danneggiato in quanto può essere fatta valere solamente dall’assicurato per espressa previsione normativa. 67

68 Similarmente, in caso di coassicurazione, l’obbligo di corrispondere l’indennità solo pro quota non è invocabile dal coassicuratore per opporsi alla richiesta del danneggiato legittimato in via diretta. Cfr. Cass., 23.7.2014, n. 16781, in Arch. giur. circ., 2014, 1016 ss.

In particolare per il caso di nullità derivante da inesistenza del rischio assicurato si veda Cass., 17.10.1994, n. 8460, in Riv. giur. circ. trasp., 1995, 320 ss. 69

Tale rilievo è messo in risalto da Di Majo, op. cit., 82 ss.; Mantovani, op. cit., 84 ss. e Bugiolacchi, Le strutture sanitarie e l’assicurazione per la r.c. verso terzi: natura e funzione dell’assicurazione obbligatoria nella Legge n. 24/2017 (Legge Gelli-Bianco), in Resp. civ. e prev., 2017, 1032 ss. 70

71

In questi termini Di Majo, op. cit., 82.


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L’azione diretta del danneggiato

re e assicurato non ne avessero tenuto conto nella stipulazione del contratto. A conferma della predetta interpretazione è stato rilevato come il diritto di rivalsa garantito dal terzo comma dell’art. 12 all’assicuratore che abbia pagato, pur non essendone tenuto a termini di contratto, l’indennizzo in forza dell’inopponibilità delle eccezioni, sia esercitabile dal titolare “nel rispetto dei requisiti minimi, non derogabili contrattualmente, stabiliti dal decreto di cui all’articolo 10, comma 6”. Tale precisazione sembrerebbe sottintendere che nelle intenzioni del legislatore, tanto la pretesa del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, quanto la rivalsa di questo verso il responsabile, non potrebbero superare o discostarsi dai contenuti minimi fissati con decreto72. Meno problematica appare l’individuazione di un ulteriore limite all’operare del principio di inopponibilità delle eccezioni al danneggiato, laddove lo stesso secondo comma dell’art. 12 precisa che il divieto di opporre eccezioni fondate sul contratto opera, a favore del danneggiato, “per l’intero massimale di polizza”73.

7. Segue: altri profili processuali Il comma quarto dell’art. 12 della legge Gelli-Bianco, disponendo che “nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata a norma del comma 1 è litisconsorte necessario la struttura medesima; nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione dell’esercente la professione sanitaria a norma del comma 1 è litisconsorte necessario l’esercente la professione sanitaria”,

72 Di Majo, op. cit., 83. Per ulteriori limiti e confini dell’azione diretta si rinvia infra al paragrafo conclusivo. 73 Anche in questo caso emerge limpidamente la fonte d’ispirazione per la disciplina dell’azione diretta sanitaria, apertamente ispirata al secondo comma dell’art. 144 cod. ass., il quale dispone che “per l’intero massimale di polizza l’impresa di assicurazione non può opporre al danneggiato eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno. L’impresa di assicurazione ha tuttavia diritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe avuto contrattualmente diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione”.

sembra fare tesoro delle ambiguità interpretative suscitate prima dall’art. 18 della l. n. 990 del 1969 e poi dall’art. 144 cod. ass. il quale ultimo prevede che “nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione è chiamato anche il responsabile del danno”. In effetti la scelta del termine “chiamato” è presto apparsa impropria (ed infelice) alla dottrina ed alla giurisprudenza, che hanno da sempre sostenuto la qualità di litisconsorte necessario della compagnia di assicurazione, spingendo, almeno in apparenza, il legislatore all’adozione di una formulazione inequivoca nella norma in oggetto74. La ragione alla base di tale previsione è da rinvenire nel favore del legislatore a che si addivenga ad un accertamento in contraddittorio con il responsabile, garantendo un più celere ed efficiente procedimento di ristoro dei danni a favore dei danneggiati anche nell’ottica dell’azione di rivalsa esercitabile dall’assicuratore nei confronti del responsabile75. Oltre a introdurre una nuova ipotesi normativa di litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 c.p.c. tra assicuratore convenuto e soggetti assicurati76, il comma quarto dell’art. 12 istituisce, con l’ultimo periodo, un vero e proprio diritto di accesso, a favore di tutti quanti vi siano interessati, relativamente a tutta la documentazione ritenuta utile in fase istruttoria e reperibile presso gli uffici ammi-

In particolare sulla questione si veda Pagliara, L’art. 18 della legge 990/69, dopo vent’anni, in Dir. e prat. ass., 1990, 219 ss.. L’inopportunità della scelta lessicale compiuta dal legislatore nell’art. 18 della legge 990 del 1969 e nell’art. 144 cod. ass. è sottolineata con forza da Tarzia, Aspetti processuali dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica, I, in Riv. dir. proc., 1974, 643 ss. e II; ivi, 29 ss. in particolare: II, 32ss. Contra Castellano, Il fondo di garanzia per le vittime della strada, in Assicurazioni, 1971, I, 384 ss. 74

Cfr. Garbagnati, Parere “pro veritate” sull’art. 22 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, in Dir. e prat. ass., 1972, I, 11 ss. e, sul litisconsorzio necessario e l’opponibilità della sentenza al responsabile del danno, Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, 438 ss. 75

Tra i soggetti garantiti rientrano quindi tanto le imprese sanitarie, quanto l’esercente la professione sanitaria in regime libero-professionale. Cfr. Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, cit., 9 ss. 76

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nistrativi e legali delle strutture sanitarie i quali, onde non incorrere in responsabilità per il pregiudizio eventualmente arrecato a causa del ritardo alla parte richiedente, pare ragionevole ritenere si dovranno organizzare per una tempestiva evasione delle richieste pur nell’assenza di un’esplicita previsione sanzionatoria77. Il primo comma dell’art. 12, nel fare “salve le disposizioni dell’articolo 8”, sembra suggerire che la condizione di procedibilità prevista da tale articolo debba essere soddisfatta anche dal danneggiato che rivolga le sue doglianze direttamente verso l’assicuratore del responsabile78. Oggetto della predetta condizione di procedibilità è, alternativamente, l’espletamento della procedura di accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696-bis c.p.c., ovvero della procedura di mediazione obbligatoria ex art. 5 del d.lgs, n. 28 del 2010. Ancora una volta in analogia con quanto stabilito in materia di assicurazione obbligatoria della R.C. automobilistica (e precisamente dal quarto comma dell’art. 144 cod. ass.), anche la nuova legge in materia di responsabilità sanitaria (art. 12, comma quinto) assoggetta l’azione diretta al medesimo termine prescrizionale al quale sarebbe soggetta l’azione esercitabile nei confronti del responsabile. Tale previsione non opera rispetto all’azione di rivalsa dell’assicuratore che, nascendo direttamente dal contratto e non ex lege, è soggetta al termine prescrizionale biennale di cui all’art. 2952 c.c., comma secondo79.

8. Confini e limiti dell’azione ex art. 12 l. 8 marzo 2017, n. 24 Si è frequentemente osservato come l’azione diretta in materia assicurativa sorga in stretta correlazione con un obbligo assicurativo80. Sebbene

77

Pacileo e Sica, op. cit., 258.

78

Bugiolacchi, op. cit., 1032 ss.

Sulla prescrizione dei diritti nascenti dal contratto di assicurazione si veda, per tutti, Gambino, Prescrizione in materia di assicurazione, La prescrizione, nel Commentario Schlesinger, II, Milano, 1999, sub artt. 2941-2963, 251 ss. 79

80

Secondo Fanelli, L’essenza dell’assicurazione obbligato-

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Saggi e pareri

l’affermazione appaia condivisibile, si ritiene opportuno precisare come la relazione tra azione diretta ed assicurazione obbligatoria non sia ambivalente: non ogni ipotesi di assicurazione obbligatoria implica il diritto di azione diretta del danneggiato; e ciò è vero anche avendo riguardo agli obblighi di copertura assicurativa contenuto nella legge Gelli-Bianco. L’art. 10, infatti, introduce diverse ipotesi di assicurazione obbligatoria: al primo comma è contemplato l’obbligo per le strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, di munirsi di copertura per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, oltre alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria, ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. Il successivo comma dell’art. 10 prevede, invece, l’obbligo assicurativo a carico dell’esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture di cui al comma 1° dell’art. 10 o che presti la sua opera all’interno della stessa in regime libero-professionale ovvero che si avvalga della stessa nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Infine, il terzo comma prevede che “ciascun esercente la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private provvede alla stipula, con oneri a proprio carico, di un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave”. L’art. 12 attribuisce il diritto di azione diretta “nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private di cui al comma 1 dell’articolo 10 e all’esercente la professione sanitaria di cui al comma 2 del medesimo articolo

ria automobilistica, in L’assicurazione dei veicoli a motore, a cura di Genovese, Padova, 1977, 22 ss., ove l’autore qualifica l’azione diretta quale “sviluppo logico e necessario dell’obbligo di contrarre l’assicurazione di responsabilità”. Sulla questione in rapporto alla riforma della responsabilità sanitaria si vedano, in particolare, le riflessioni di Quadri, Il parto travagliato della riforma in materia di responsabilità sanitaria, in Giust. civ.com


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L’azione diretta del danneggiato

10”, ragione per la quale si deve escludere che nell’ipotesi di cui all’art. 10, comma 3°, il danneggiato possa beneficiare dell’azione diretta. Poiché le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private sono tenute anche all’obbligo di stipulare una polizza a copertura della responsabilità civile verso terzi ex 2043 c.c. dei medici c.d. strutturati81, ci si è chiesti se il danneggiato sia assistito dall’azione diretta anche in tale ipotesi di assicurazione obbligatoria. La tesi restrittiva è sostenuta da quanti osservano come in un caso di assicurazione in favore di terzo il danneggiato dovrebbe proporre l’azione nei confronti del professionista sanitario strutturato che avrà facoltà di chiamare in causa l’assicuratore per essere tenuto indenne, secondo la normale disciplina del contratto di assicurazione82. Più convincente appare la soluzione, di contrario avviso, secondo la quale il primo comma dell’art. 12 della l. 8 marzo 2017, n. 24 sarebbe da intendersi riferito non già al beneficiario della copertura, bensì allo stipulante della stessa, ricomprendendo, quindi, tutte le coperture di cui all’art. 10, comma 1°83. Tale soluzione appare, in effetti, maggiormente allineata con la finalità di escludere il medico dal processo, celata nella legge di riforma ed esplicitata al quarto comma dell’art. 12, che prevede, nell’azione promossa verso l’assicuratore della struttura, il litisconsorzio della stessa, ma non del medico strutturato. A ulteriore suggello della bontà di tale lettura emergono altri elementi normativi. L’art. 10, come già sottolineato, impone al medico strutturato di dotarsi di idonea copertura, tra l’altro, per il caso di rivalsa da parte dell’assicuratore84. Ebbene, poi-

ché l’azione di rivalsa è concessa all’assicuratore proprio dall’art. 12 (comma 3°), la lettura coordinata delle due norme suggerisce che l’azione di rivalsa sia esercitata dall’assicuratore a valle dell’azione diretta del danneggiato per fatto illecito del medico strutturato proprio assicurato85. Pur giudicando positivamente l’intento del legislatore di garantire un surplus di tutela ad una categoria di soggetti danneggiati particolarmente “deboli”, non sembra un absurdum ritenere che aver favorito (rectius imposto) la compresenza nel giudizio di risarcimento del danno da malpractice medica di plurimi diversi soggetti, tra loro legati da rapporti incrociati, si presti ad un aumento della complessità e della durata di un giudizio nel quale facilmente si troveranno a convivere, affianco alla domanda (o alle domande) principale del danneggiato, la domanda di rivalsa dell’assicuratore oltre a possibili domande incrociate e subordinate, con il rischio reale di frustrare le finalità di protezione del soggetto danneggiato insite nella norma. Benché l’importanza dell’assicurazione nell’impianto della normativa sia stata dovuta alla contingente situazione che vedeva la “fuga” degli operatori dallo specifico settore di mercato, un regime così severo nei confronti degli assicuratori, non assistito dall’obbligo a contrarre in capo alle assicurazioni rischia di favorire il perdurare dell’esodo delle compagnie, ovvero di fornire il presupposto per un innalzamento insostenibile dei costi delle coperture. Tale ultimo scenario si affianca ad un’ulteriore, potenziale, debolezza del nuovo impianto normativo. L’art. 10 della l. 8 marzo 2017, n. 24 fa salva la possibilità delle strutture sanitarie e sociosanitarie di soddisfare l’obbligo assicurativo mediante “altre analoghe misure” (art. 10, comma 1°)86.

Venendo così a configurare un modello di assicurazione per conto di chi spetta, su cui Venditti, L’assicurazione di interessi altrui, Napoli, 1961. 81

82

Così Hazan, op. cit., 319 ss.

In questo senso Masieri, Novità in tema di responsabilità sanitaria, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 765 ss.

83

Per una più dettagliata e completa analisi dell’azione di rivalsa nell’impianto della nuova legge sulla responsabilità sanitaria si rinvia a Paladini, L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, in questa Rivista, 2018, 139 ss. e Pari, L’azione di rivalsa e l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’esercente la profes84

sione sanitaria: le novità introdotte dalla l. n. 24/2017, ivi, 2017, 365 ss. 85

In questo senso anche Cossignani, op. cit., 34.

Sull’innovazione apportata dalla possibilità di assolvere l’obbligo assicurativo attraverso le altre analoghe misure si veda Corrias, La copertura dei rischi dell’attività sanitaria nella legge Gelli-Bianco, in questa Rivista, 2018, 119 ss., in particolare 124 ss. 86

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Un aumento dei costi delle coperture potrebbe spingere molti operatori del settore verso questa ipotesi di c.d. autoassicurazione, con il rischio di non garantire il soddisfacimento delle pretese risarcitorie dei danneggiati. Il Fondo di garanzia istituito dall’art. 14 della legge, infatti, sembrerebbe operare nei soli casi tassativi di cui al settimo comma del medesimo articolo, elenco nel quale non compare l’ipotesi di misura analoga all’assicurazione poi rivelatasi insufficiente. Sarà l’entrata a regime, ad oggi ancora frenata stante la mancata emanazione dei regolamenti attuativi di cui all’art. 10, comma 6°, delle disposizioni in materia di azione diretta ed assicurazione obbligatoria a fugare, ovvero confermare, i predetti dubbi.

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Saggi e pareri


s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Tribunale di Milano, 14.5.2019

Danno alla persona di rilevante entità – Modalità riparatoria – Costituzione di una rendita vitalizia – Presupposti (c.c., art. 2057 c.c.)

Nel caso di danno patrimoniale permanente alla persona, costituisce modalità risarcitoria adeguata la costituzione di una rendita vitalizia, sulla base delle previsioni dell’art. 2057 e dell’art. 1872 c.c. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

Un’intelligente applicazione della modalità risarcitoria prevista dall’art. 2057 c.c. Claudio Scognamiglio

Professore nell’Università degli Studi di Roma – Tor Vergata Sommario: 1. Il danno patrimoniale futuro alla persona: un profilo trascurato nel dibattito sul danno alla persona? – 2. La modalità risarcitoria prevista dall’art. 2057 c.c.: un istituto quasi negletto ma ricco di promettenti prospettive applicative.

Abstract: La tecnica di risarcimento del danno, contemplata dall’art. 2057 c.c., può rappresentare una risposta adeguata alle molteplici esigenze che si delineano nella materia del risarcimento dei danni alla persona. The technique of damages, provided for in art. 2057 c.c., can be an adequate response to the multiple needs that arise in the matter of compensation for damage to the person.

sponsabilità sanitaria1, tale da indirizzare la riflessione teorica e l’applicazione pratica per i prossimi anni, richiamare l’attenzione, per mezzo di questa breve nota, su una pronuncia di merito. E potrebbe sembrare ancora più discutibile concentrare l’analisi su un aspetto che pare a prima vista davvero marginale, anche nell’economia della decisione commentata: vale a dire, l’individuazione operata nel caso concreto dal giudice della modalità risarcitoria ritenuta più congrua, attraverso l’utilizzazione dello strumento disciplinato dall’art. 2057 c.c. e cioè con la costituzione di una rendita vitalizia a beneficio del danneggiato ed a carico del danneggiante.

1. Il danno patrimoniale futuro alla persona: un profilo trascurato nel dibattito sul danno alla persona? Potrebbe sembrare discutibile, nel momento in cui la Corte di Cassazione ha proposto un articolato restatement delle questioni più rilevanti in materia di re-

Il riferimento è ovviamente alle sentenze della Sezione Terza Civile della Suprema Corte depositate l’11 novembre 2019; Cass.,11.11.2019, nn. 28985-28994, tutte in Guida al dir., 2019, 16 ss.

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Eppure, una considerazione appena più approfondita consente di rendersi conto subito delle ragioni di interesse della questione, ad onta della estrema rarefazione dei precedenti giurisprudenziali in materia2 e della scarsità dei contributi dottrinali: situazione che si inserisce, del resto, all’interno di un quadro in cui lo stesso problema del danno patrimoniale alla persona (e cioè della componente di danno che rappresenta l’ambito di esplicazione più significativo, anche se non esclusivo, dell’istituto) costituisce un argomento obiettivamente di assai minore impatto, sia nel formante dottrinale che in quello giurisprudenziale, rispetto a quello del danno non patrimoniale. Infatti, se quest’ultimo ci conduce al cuore della dimensione più fascinosa e complessa del rimedio della responsabilità civile – chiamato ad operare quella sorta di procedimento alchemico che conduce a trasformare in una condanna al pagamento di una somma di danaro una perdita di utilità puramente personali di vita – il risarcimento del danno patrimoniale futuro alla persona pare destinato a collocarsi su un piano assai più lineare, dove possono operare, senza residui, criteri di prova e determinazione quantitativa del danno ormai collaudati3.

Infatti, l’unico precedente davvero in termini, per quel che concerne l’elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte, è quello, citato anche dalla sentenza oggetto di questa breve nota di commento, di Cass., 18.11.2005, n. 24451, in Arch. giur. circ., 2007, 203. Appena più numerosi i precedenti di merito, anche se di rado pubblicati anche quanto alla motivazione; tra di essi, circoscrivendo l’indagine all’ultimo quindicennio, si possono rammentare Trib. Genova, 15.6.2005, in Pluris; Trib. Milano, 27.1.2015, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 621 ss., con nota di Mazzanti, Danno permanente alla persona e risarcimento sotto forma di rendita vitalizia; in Resp. civ. e prev., 2015, 1645 ss., con nota di Chindemi, Rendita vitalizia in caso di danno patrimoniale futuro e da incapacità lavorativa: criteri di determinazione; Trib. Milano, 9.6.2017, in Ri.da.re, con nota di Rodolfi, La rendita vitalizia: nuove applicazioni da parte della giurisprudenza in tema di danno patrimoniale futuro; Trib. Busto Arsizio, 3.7.2019, in Pluris. 2

3 Lo nota, da ultimo, anche Salvi, La responsabilità civile, nel Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2019, 270, il quale osserva che mentre “una peculiarità tematica si pone con riferimento al lucro cessante consistente nella ridotta capacità lavorativa…non sussistono problemi specifici per il danno emergente: spese di cura, ecc.)”. Appena più articolata la trattazione del tema della quale si legge nel volume, a sua volta assai recente, di Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2019, 627 s., dove si osserva “nel caso di lesione personale è

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Giurisprudenza

Tuttavia, una lettura del problema del danno alla persona che guardi alla dimensione concreta dell’esperienza ci rende consapevoli che il riconoscimento, e la liquidazione, del danno patrimoniale futuro possono assumere, per la vittima del fatto lesivo, un significato perfino più pregnante di quello suscettibile di essere ascritto alla condanna al risarcimento del danno non patrimoniale. Infatti, ogni vicenda di danno alla persona – ed il riferimento è, in particolare, com’è evidente, al danno alla persona di rilevante gravità – non incide profondamente solo sugli aspetti che hanno costituito da ultimo il termine di riferimento della messa a punto da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione dell’argomento della liquidazione del danno non patrimoniale: secondo la formulazione che “la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale deve essere intesa nel senso di attribuire al danneggiato una somma di denaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore quanto sotto quello dell’alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione, considerata in ogni suo aspetto e senza ulteriori frammentazioni nominalistiche”4. Al contrario, le lesioni di rilevanti gravità alla persona traggono con sé conseguenze attinenti ad esigenza di cura e di assistenza della vittima, che si proiettano nel tempo e che richiedono, dal punto di vista della modalità risarcitoria, tecniche riparatorie in grado di tenere conto appunto della ricorrenza nel tempo di quelle esigenze e della difficoltà di fissare il termine finale della prestazione risarcitoria: essendo peraltro quest’ultimo destinato a coincidere con la durata stessa della vita della vittima del fatto lesivo,

dovuto il rimborso delle spese di cura e così pure delle spese ragionevolmente necessarie per l’assistenza durante il periodo dell’infermità o per la sostituzione nel compimento di attività domestiche, includendo sia i costi già affrontati, sia una stima attualizzata dei costi futuri”; questo Autore, peraltro, colloca il discorso sulla modalità risarcitoria cui ha riguardo l’art. 2057 c.c. all’interno della voce del futuro lucro cessante “stimato come differenza tra il reddito quale sarebbe stato presumibilmente in assenza dell’infortunio e quale presumibilmente sarà”. Così Cass., 28.9.2018, n. 23469, e Cass., 12.6.2018, n. 15213, in Resp civ. e prev., 2019, 507 ss., con nota di Scognamiglio, La giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di risarcimento del danno non patrimoniale tra continuità ed innovazione. 4


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Il risarcimento ex art. 2057 c.c.

qualora si tratti di lesioni permanenti. Si consideri, in particolare, e per rendersi conto della fondatezza della constatazione appena fatta, che il riconoscimento alla vittima di una somma a titolo risarcitorio ingente per i profili di danno non patrimoniale discendenti dal fatto illecito potrebbe rivelarsi inidonea a soddisfare pienamente l’esigenza di tutela sottostante al rimedio risarcitorio: basti pensare all’eventualità che il danneggiato non riesca a gestire razionalmente la situazione di ‘arricchimento’ – in termini di saldo patrimoniale – che discende dal riconoscimento di una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale5 e, dunque, disperda rapidamente la somma conseguita, così, ed in termini solo all’apparenza paradossali, trovandosi in difficoltà sul piano dei bisogni di una vita quotidiana in ipotesi pesantemente condizionata dall’illecito. Pertanto, la sensazione, che poc’anzi si esprimeva, secondo la quale il profilo del danno patrimoniale futuro alla persona rappresenta un profilo trascurato del dibattito in argomento risulta a ben vedere confermata: ed è un profilo trascurato a torto poiché l’approfondimento di esso anzi consente di cogliere in maniera particolarmente chiara la dimensione, per così dire solidaristica, del risarcimento del danno alla persona, nella misura in cui si risolve nella attribuzione alla vittima dei mezzi necessari a fronteggiare le conseguenze del fatto illecito che più direttamente incidono sulle dinamiche della vita. Dal canto suo, e proprio per le conseguenze non desiderabili che possono dipendere dal riconoscimento immediato, attraverso l’erogazione di una somma di denaro alla vittima, dell’intero ammontare corrispondente al danno non patrimoniale, pure per quel che concerne questa voce di danno può dischiudersi un ambito di esplicazione per l’istituto disciplinato dall’art. 2057 c.c.

2. La modalità risarcitoria prevista dall’art. 2057 c.c.: un istituto quasi negletto ma ricco di promettenti prospettive applicative Le considerazioni da ultimo svolte sono già sufficienti a rendere evidente l’interesse della modalità risarcitoria rappresentata dall’art. 2057 c.c., ad onta della già rimarcata scarsità di applicazioni della medesima: ed al riguardo non è difficile cogliere le ragioni della rarità di occasioni applicative, potendo venire in considerazione, in questa prospettiva, l’incerta solvibilità del soggetto onerato, soprattutto quando non si tratti di una compagnia assicuratrice (con l’evidente, connesso rischio per il danneggiato di perdere in futuro il beneficio); così come l’inclinazione del danneggiato verso una liquidazione immediata e totale della prestazione risarcitoria in suo favore, sia, di nuovo, per scongiurare il rischio di insolvenza del soggetto condannato alla costituzione della rendita, sia al fine di permettere al danneggiato di disporre liberamente di una somma di danaro che gli sia integralmente, ed immediatamente, riconosciuta. Approfondendo il discorso sulla modalità risarcitoria, può dirsi ancora, nel solco di un accenno già formulato, che, se essa manifesta la propria duttilità applicativa in maniera più significativa quanto alle voci di danno patrimoniale legate alle esigenze di cura e di assistenza della persona vittima del fatto illecito, può astrattamente riferirsi anche all’ipotesi di danno non patrimoniale6 e può anche essere prevista per la liquidazione di una voce soltanto del danno totale7; così come può anche riferirsi al danno patrimoniale da lucro cessante per la perdita della capacità lavorativa specifica8.

Così, in particolare, e sia pure incidentalmente, Chindemi, op. cit., 1645.

6

Cfr., in questo senso, Cass., 22.6.2007, n. 14581, in Mass. Giust. civ., 2007.

7

Hanno riguardo ad un caso del genere le due sentenze del Tribunale Milano, 9.6.2017, cit., poiché, come nota Rodolfi, cit., “al momento di procedere alla liquidazione del danno patrimoniale futuro, e quindi al riconoscimento delle spese di assistenza necessarie per il resto della sua vita, nonché del danno patrimoniale da lucro cessante per la perdita della capacità lavorativa specifica, il Tribunale ha provveduto a disporre, in favore del danneggiato, la costituzione di una 8

Cfr., anche da ultimo, per la notazione, ovviamente scontata, che “il risarcimento del danno non patrimoniale, quando avvenga – come prevalentemente accade – attraverso il pagamento di una somma di denaro – determina un arricchimento della vittima”, Salvi, op. cit., 289.

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Non c’è dubbio che il principale valore aggiunto della modalità risarcitoria in questione è che, e come è stato notato in dottrina, essa consente di realizzare l’obiettivo di “evitare, a seconda dei casi, ingiustificati arricchimenti da parte del danneggiato o dei suoi eredi in caso di premorienza ‘ante’ età media tabellare, o un danno per la vittima nel caso di prolungamento della vita oltre la ‘media’ statistica nazionale”9. Non è del resto un caso che la possibilità di procedere al risarcimento del danno patrimoniale futuro alla persona sia nota alla gran parte dei sistemi normativi culturalmente più vicini a quello italiano, rappresentando anzi talora, come è stato rilevato, la modalità principale10. In quest’ordine di idee, viene in considerazione, in particolare, il § 843 del BGB, secondo il quale “(1) Se in seguito ad una lesione del corpo o della salute viene annullata o ridotta la capacità di guadagno del soggetto leso o si verifica un aumento dei suoi bisogni, al soggetto leso deve essere prestato risarcimento del danno mediante il pagamento di una rendita in denaro. (2) Alla rendita trova applicazione la disposizione di cui al § 760. Se, in quale modo ed in quale importo l’obbligato al risarcimento debba prestare garanzia, si determina secondo le circostanze. (3) Al posto della rendita, il soggetto leso può esigere una liquidazione in capitale, se vi è una giusta causa”. In quest’ordine di idee, appare senz’altro condivisibile la ricostruzione offerta di recente11 quanto ai presupposti dell’istituto, ravvisati nelle condizioni delle parti e nella natura del danno. Dal primo punto di vista, vengono in considerazione i casi di un danneggiato che, in relazione alle proprie condizioni personali, appaia particolarmente inidoneo a gestire proficuamente una somma di danaro di rilevante entità che gli pervenga in un’unica soluzione; così come di un danneggiante che possa offrire garanzie di adeguata solvibilità, in modo da rendere non potenzialmente fonte di rischi per il danneggiato la scelta di dare ingresso alla modalità risarcitoria per mezzo della co-

rendita vitalizia a far data dalla decisione”. 9

I brani riportati nel testo sono di Chindemi, op. loc. ult. cit..

Una rassegna accurata dell’assetto normativo in alcune esperienze straniere è quella offerta da Mazzanti, op. cit., 626 ss. 10

11

Il riferimento è a Mazzanti, op. cit., 627.

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Giurisprudenza

stituzione di una rendita vitalizia. Dal secondo punto di vista, invece, saranno sicuramente da valutare con particolare favore, al fine della scelta della modalità risarcitoria in esame, i casi di danni alla persona di rilevante entità: ed infatti qui, da un lato, l’immediato riconoscimento al danneggiato dell’integrale posta risarcitoria potrebbe dare luogo ai problemi di gestione della somma già in precedenza evocati; dall’altro, la gravità del danno è verosimilmente tale da enfatizzare la funzione che si potrebbe definire assistenziale della prestazione risarcitoria, così da suggerire appunto la costituzione della rendita. Per altro verso, la modesta entità del danno subito orienta la scelta della modalità risarcitoria in senso opposto rispetto alla costituzione della rendita vitalizia, anche per il rilievo che una rendita di importo troppo contenuto potrebbe risultare inidonea ad apprestare al danneggiato la tutela della quale questi avverte il bisogno. La sentenza qui pubblicata mostra piena consapevolezza delle coordinate applicative della modalità risarcitoria in questione, laddove – per dare ingresso ad essa – muove dalla constatazione della “oggettiva gravità della situazione della vittima”, del “carattere permanente del danno” e della “impossibilità di stabilire, in modo oggettivo, una durata presumibile della vita della danneggiata”, prendendo in considerazione una serie di elementi: dalla determinazione delle somme dovute alla ricorrente a titolo di danno non patrimoniale, all’importo dovuto a titolo di danno patrimoniale per le spese di adeguamento dell’immobile alle mutate condizioni fisiche della vittima dell’illecito, alle spese necessarie per l’assistenza domiciliare della medesima vittima per mezzo di un badante. Resta così confermata, dall’esame della decisione, l’immagine di un istituto estremamente flessibile, che – pur trovando certamente il proprio terreno di elezione privilegiato sul piano delle modalità risarcitorie del danno patrimoniale futuro, dall’angolo visuale del danno emergente – può prestarsi anche al risarcimento del danno non patrimoniale, così come del danno patrimoniale sotto il profilo del lucro cessante per ridotta capacità di guadagno.


s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Corte dei Conti, sez. giur. Lombardia, 7.10.2019, n. 245

Danno erariale – Ospedali pubblici – Pronto soccorso – Omesso versamento di ticket sanitario c.d. bianco – Mancato introito pluriennale – Carenze organizzative – Responsabilità degli organi apicali dell’azienda sanitaria – Sussistenza (Cost., artt. 28, 97, 103; c.c., artt., 1176, 1223, 2043; l. n. 20/1994, art. 1; r.d. n. 2440/1923, artt. 82, 83; r.d. n. 1214/1934, art. 52; r.d. n. 3/1957, artt. 18, 19, 20)

Sussiste un danno erariale da lucro cessante a fronte del mancato introito, per anni, da parte dei medici del Pronto Soccorso di una Azienda Ospedaliera, per gravi carenze organizzative, del ticket sanitario c.d. bianco per prestazioni rese a pazienti in c.d. codice bianco, il cui recupero si sia prescritto. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

Mancata riscossione di ticket c.d. bianchi e carenze gestionali. Un caso al vaglio della Corte dei Conti Maria Grazia Peluso

Dottoranda nell’Università di Bergamo Sommario: 1. Il fatto. – 2. La delibera regionale n. 11534/2002. – 3. Difficoltà di natura tecnica e gestionale. – 4. Il direttore amministrativo e i suoi obblighi. – 5. La responsabilità degli organi di vertice. – 6. Il decisum.

Abstract: Il presente contributo si occupa di una pronuncia della Corte dei Conti su di un tema oggi particolarmente caldo. L’occasione viene data dal verificarsi di un danno erariale a causa della mancata riscossione dei crediti nascenti dalle prestazioni in codice bianco erogate in Pronto Soccorso. A fronte di una condizione di assoluta carenza organizzativa e gestionale, la magistratura contabile ascrive la responsabilità del danno subito dall’amministrazione in capo agli organi dirigenziali,

gravemente colpevoli di essersi sottratti alle proprie ordinarie mansioni. The Court of Auditors has recently rule about the damage as a consequence of the failure to collect health tickets. The Court charges the liability to the managers, guilty of not having fulfilled their duties, who were unable to organize the hospital and so caused a damage to the public administration.

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1. Il fatto La Corte dei Conti è stata recentemente chiamata a giudicare un interessante caso di danno erariale derivante dalla mancata riscossione di ticket c.d. bianchi. A seguito di un controllo operato della Guardia di Finanza, la Procura presso la Corte dei Conti indagava in merito ad un ingente danno erariale. Dalle indagini effettuate si riscontrava come – contrariamente a quanto espressamente prescritto dalla delibera regionale n. 11534/2002 – nel periodo tra il 2003 e il 2013 gli operatori sanitari avessero omesso di verificare il pagamento dei ticket per prestazioni in codice bianco prima della consegna del relativo referto. Emergeva, inoltre, una grave carenza organizzativa, avendo la dirigenza solo nel 2016 – in patologico ritardo – predisposto idonei strumenti atti al concreto monitoraggio e alla riscossione dei crediti derivanti dalle prestazioni effettuate in Pronto Soccorso. La magistratura contabile veniva, dunque, chiamata a decidere in merito ad un danno pari a 229.615,00 euro derivante dagli importi relativi al periodo 2003-2005, in quanto mai riscossi e ormai prescritti. La responsabilità di tale ammanco veniva imputata dalla Procura al dirigente responsabile dell’U.O. Convenzioni e Marketing, alla coordinatrice e referente della S.S. Sistemi di Accesso, Convezioni e Libera Professione, al dirigente dell’Unità Gestione Risorse Economico Finanziarie e al direttore amministrativo, per non avere questi predisposto misure organizzative dirette ad un puntuale monitoraggio dei ticket non immediatamente saldati dai pazienti, per non aver effettuato un minimo controllo su quanto effettivamente incassato né aver provveduto all’interruzione della prescrizione dei relativi crediti. La Guardia di Finanza, infatti, verificava come presso la struttura ospedaliera non fossero state apprestate misure idonee alla riscossione dei crediti in parola né ad una corretta gestione e verifica contabile degli stessi. Le difese dei convenuti, eccependo tutte l’estraneità delle proprie mansioni dal compito di monitoraggio dei ticket, evidenziavano come non fosse ad essi ascrivibile alcuna colpa a fronte della mancanza di idonei software che permettessero un raffronto tra le prestazioni eseguite e i crediti Responsabilità Medica 2019, n. 4

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da esse nascenti. Si rilevava, inoltre, come le difficoltà di riscossione fossero dovute alla mancanza di personale a ciò adibito anche nelle ore notturne, oltre che a causa della mancata collaborazione da parte degli stessi medici del Pronto Soccorso. Il personale sanitario – ritenendo la consegna del referto una componente della prestazione medica – si rifiutava infatti di applicare la delibera regionale che prescriveva espressamente la consegna del referto solo previa esibizione dell’avvenuto pagamento da parte dei pazienti. Quanto al direttore amministrativo, nello specifico, si sosteneva come i compiti di quest’ultimo fossero identificabili unicamente in un generale dovere “strategico” di vigilanza, non rientrando quindi tra le sue mansioni un capillare controllo di tutti i singoli microcrediti derivanti dai mancati pagamenti dei ticket. A ciò, inoltre, doveva aggiungersi la presenza, al tempo dei fatti, di una condizione di eccezionalità, dovuta ad interventi straordinari presso l’Azienda Ospedaliera, che aveva impedito al direttore di apportare una vigilanza puntuale sui reparti, anche a fronte di una mancata segnalazione di criticità da parte dei responsabili dei relativi uffici.

2. La delibera regionale n. 11534/2002 Al fine di meglio comprendere il caso di specie appare necessario prendere in considerazione il disposto della delibera regionale n. 11534/2002, della cui violazione la Corte dei Conti è stata chiamata ad occuparsi. La delibera venne emanata in un contesto normativo interessato da una parte da esigenze di razionalizzazione della spesa sanitaria, così come previsto dal d. lgs. n. 347/2001 e successiva legge di conversione n. 405/2001, e dall’altra da una maggiore attenzione ai livelli essenziali di assistenza1 (c.d. LEA) compiutamente disciplinati dal d.P.C.m. del 29.11.2001, e recentemente aggiornati. Ciò ha

Con tale espressione vengono indicate le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale deve fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro il pagamento di una quota di partecipazione, mediante l’utilizzo di risorse pubbliche.

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comportato per le Regioni la necessità di regolare le prestazioni erogate dalle strutture ospedaliere pur senza ledere il diritto dei cittadini all’accesso alle prestazioni sanitarie. Venne dunque introdotto dalla normativa regionale l’obbligo di una contribuzione forfetaria per le prestazioni in c.d. codice bianco2. La necessità di una contribuzione era nata, infatti, a seguito della prassi invalsa di recarsi al Pronto Soccorso al fine di poter accedere in maniera più celere a tutta una serie di prestazioni non emergenziali, ma erogabili sotto altro regime assistenziale, saltando quindi le lunghe liste d’attesa che affliggono il SSN, e con l’intento di sottrarsi alla compartecipazione alla loro spesa. Ciò ha conseguentemente comportato una condizione patologica per le strutture ospedaliere, dovendo i reparti di Pronto Soccorso procedere all’erogazione di servizi inappropriati – non ricompresi tra le prestazioni facenti parte dei livelli essenziali di assistenza – e, come espressamente evidenziato nella stessa delibera regionale, comportanti una «disparità di trattamento nei confronti dei cittadini che accedono per l’erogazione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali con le corrette modalità e tempi»3. Proprio alla luce di tale condizione ormai patologica veniva deciso che i pazienti concorressero al costo della prestazione ricevuta, il cui importo minimale veniva fissato in 35 euro per le prestazioni ambulatoriali e in 50 euro in caso di ulteriori prestazioni diagnostiche e terapeutiche. La ratio della delibera, anche alla luce dell’entità della contribuzione richiesta, era chiaramente volta a ricondurre l’erogazione di detti servizi al corretto

La delibera regionale fornisce una definizione di codice bianco. Le linee guida sul triage ospedaliero, pubblicate nel 2001, in analogia con quanto previsto dal d. m. del 15.5.1992, prevedono l’assegnazione di diversi colori a seconda delle condizioni di gravità in cui si trovano i pazienti al momento dell’accesso in Pronto Soccorso. Il colore bianco viene utilizzato per indicare quei pazienti che richiedono prestazioni sanitarie che non rivestono alcun carattere di urgenza e che, dunque, potrebbero essere svolte anche sotto altro livello assistenziale.

regime assistenziale, decongestionando i reparti di Pronto Soccorso e permettendo così anche un miglioramento complessivo delle attività svolte dalle strutture ospedaliere. La delibera prevedeva dunque per le Aziende sanitarie l’obbligo di verifica dell’effettivo pagamento del ticket prima del rilascio del referto, oltre che la necessaria attivazione di procedure idonee all’eventuale riscossione del relativo credito4. Nel quadro di tali inequivoche disposizioni si innesta la decisione in commento; proprio in violazione della delibera, l’assoluta inerzia gestionale degli organi di vertice aveva causato l’ingente danno erariale.

3. Difficoltà di natura tecnica e gestionale Dalle indagini effettuate dalla Guardia di Finanza emergeva un quadro organizzativo particolarmente deficitario; nell’Azienda Ospedaliera venivano riscontrate difficoltà sia di riscossione che di successivo monitoraggio e recupero dei crediti insoluti, apparendo la Struttura gravemente carente di minimi e basilari accorgimenti gestionali che permettessero un effettivo rispetto delle prescrizioni regionali. Le stesse difese dei convenuti, a supporto della non addebitabilità in capo ad essi di colpa alcuna, evidenziavano alcune criticità quali l’assenza di personale addetto alla riscossione dei ticket nelle ore notturne e la mancata collaborazione dei medici del Pronto Soccorso. Dette argomentazioni, tuttavia, pur evidenziando una effettiva situazione di carenza organizzativo-gestionale, non sono parse fondate giustificazioni dell’inerzia operativa dei funzionari pubblici. Alla mancanza di personale addetto alla riscossione dei ticket si sarebbe infatti potuto ri-

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Delibera regionale, regione Lombardia, n. 11534 del 10.12.2002.

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Sull’obbligo di previa debenza del ticket la magistratura contabile ha già avuto modo di esprimersi in alcune pronunce. La Corte dei Conti ha evidenziato chiaramente come debbano ritenersi responsabili del danno da mancata riscossione del ticket per prestazioni erogate dal Pronto Soccorso i dirigenti dell’azienda sanitaria, ravvisando nell’assoluta inerzia gestionale tenuta da questi ultimi una colpa grave ed inescusabile. Si veda in particolare Corte Conti, sez. giur. Calabria, 26.1.2016, n. 1, in DeJure.

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mediare con accorgimenti di varia natura, oltre che con un logico aumento del personale a ciò specificamente adibito; sarebbe bastato, ad esempio, prevedere l’installazione di strumenti che permettessero un pagamento in loco. Macchinari dal funzionamento similare a quelli destinati al pagamento della sosta delle auto, o sportelli bancomat, avrebbero potuto facilmente permettere ai cittadini di adempiere all’obbligo di contribuzione anche nelle ore notturne. Ove ciò non fosse stato possibile, sarebbe evidentemente bastato provvedere alla consegna del referto il giorno successivo e previa esibizione dell’avvenuto pagamento del relativo bollettino da parte dei pazienti. Tali accorgimenti, lungi dall’essere misure straordinarie, appaiono chiaramente come basilari attività gestorie facenti capo a tutte le aziende, sia pubbliche che private, che eroghino un servizio dietro il corrispettivo di un prezzo o di un contributo. Ugualmente priva di pregio pare, per i giudici della Corte dei Conti, l’argomentazione circa la mancata collaborazione da parte dei medici del Pronto Soccorso. Giova ricordare come tutti i lavoratori della pubblica amministrazione e dunque anche gli operatori sanitari – che siano al contempo dipendenti pubblici – siano soggetti ad obblighi di natura contrattuale e legislativa, tra i quali sono annoverabili anche quelli istituiti dalla normativa regionale sopra richiamata. A ciò deve aggiungersi come non possa rinvenirsi nel codice deontologico medico nessun fondamento alla pratica di consegnare i referti senza il previo controllo del relativo pagamento; non si rinviene infatti nella formulazione allora vigente5, né in

Le difese dei convenuti ritenevano desumibile tale obbligo gravante sui medici dagli artt. 8 e 25 del codice di deontologia allora vigente. Gli articoli citati prescrivevano: all’art. 8, rubricato “Obbligo di intervento”, «Il medico, indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare assistenza» e all’art. 25, rubricato “Documentazione clinica”, «Il medico deve, nell’interesse esclusivo della persona assistita, mettere la documentazione clinica in suo possesso a disposizione della stessa o dei suoi legali rappresentanti o di medici e istituzioni da essa indicati per iscritto».

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quella attuale6, alcun obbligo di consegna libera e gratuita del referto. Ma anche qualora si volesse ritenere tale facoltà come un principio desumibile dal complesso delle previsioni del codice, non avrebbe comunque potuto essere concessa alcuna giustificazione alla prassi operante in Pronto Soccorso, dal momento che le norme ordinistiche devono considerarsi recessive in caso di contrasto con le disposizioni normative. Ne discende come il rispetto delle prescrizioni regionali non avrebbe potuto comportare l’instaurazione di procedimenti disciplinari nei confronti dei medici che si fossero legittimamente rifiutati di consegnare il referto, poiché questi avrebbero operato nel rispetto di un obbligo pubblicistico e contrattuale. Dalle considerazioni sopra svolte dunque si manifesta chiaramente la grave condotta omissiva tenuta dal dirigente del Pronto Soccorso. Quest’ultimo, certamente a conoscenza della normativa regionale, avrebbe dovuto, anche mediante ordini di servizio diretti al personale, organizzare il reparto al fine di interrompere la prassi ivi seguita dai medici, impedendo così a monte la nascita di crediti da recuperare ed il verificarsi del successivo danno erariale. Oltre a tali difficoltà di natura gestionale, tutte le difese dei convenuti evidenziavano come il mancato monitoraggio dei crediti insoluti fosse riconducibile unicamente alla mancanza di adeguati strumenti tecnici. Si sottolineava, infatti, come l’assenza di un software a ciò destinato – installato solamente nel 2007 – impediva sia l’effettivo monitoraggio delle posizioni debitorie che la stessa conoscenza circa l’esistenza di eventuali crediti, divenendo questi noti solo al momento dell’avvenuto pagamento. Inoltre, le erronee indicazioni fornite da al-

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Nella attuale formulazione l’art. 8 prescrive che «Il medico in caso di urgenza, indipendentemente dalla sua abituale attività, deve prestare soccorso e comunque attivarsi tempestivamente per assicurare idonea assistenza»; mentre l’art. 25 sancisce che «Il medico deve, nell’interesse esclusivo della persona assistita, mettere la documentazione clinica in suo possesso a disposizione della stessa o del suo rappresentante legale o di medici e istituzioni da essa indicati per iscritto. Il medico, nei casi di arruolamento in protocolli di ricerca, registra i modi e i tempi dell’informazione e del consenso informato anche relativamente al trattamento dei dati sensibili».

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cuni pazienti comportavano un’ulteriore difficoltà di riscossione dei ticket; dalle risultanze emergeva infatti come in un terzo dei casi la procedura di recupero crediti non potesse perfezionarsi proprio a causa della mancata consegna dei bollettini postali compilati con dati errati, così rendendo spesso irrecuperabili detti crediti. Sebbene anche tali condizioni fossero all’epoca dei fatti effettivamente sussistenti, non paiono, tuttavia, di per sé sufficienti a fornire una giustificazione in punto di gravità della colpa ascrivibile agli organi dirigenziali. Appartiene alla logica e al buon senso, prima ancora che ai principi di una corretta governance aziendale, la considerazione secondo cui la mancanza di strumenti di natura tecnico-informatica non possa comportare la completa astensione dalle proprie ordinarie mansioni. Nel caso di specie, nelle more dell’installazione di software dedicati sarebbe, infatti, bastato fare uso di elementari strumenti analogici. Si sarebbe potuto facilmente ovviare alle difficoltà di riscossione prevedendo il pagamento brevi manu e l’installazione di strumenti atti a permettere la corresponsione in loco anche nelle ore notturne, oltre che prevedere la consegna del referto al giorno successivo e previa verifica dell’avvenuto pagamento da parte dei pazienti. Ma anche qualora, come nel caso di specie, si fosse comunque proceduto alla consegna illegittima del referto, avrebbe dovuto essere predisposto un registro cartaceo dove annotare i recapiti e le generalità dei pazienti, verificabili tramite l’esibizione di un valido documento di identità. Tali misure minimali dunque avrebbero permesso di procedere più agevolmente con le attività di recupero crediti, ovviando così anche alle relative difficoltà di monitoraggio. Emerge pertanto con evidenza la totale inerzia degli organi dirigenziali, la cui condotta omissiva, manchevole dei più basilari accorgimenti organizzativi, appare al contempo lesiva dello stesso buon andamento della pubblica amministrazione7.

4. Il direttore amministrativo e i suoi obblighi

Parte della dottrina amministrativa ritiene, infatti, come l’azione di responsabilità nei confronti dei dipendenti pubblici sia posta altresì a presidio dello stesso buon andamento della pubblica amministrazione, mostrandosi quindi come un

effettivo mezzo di attuazione del disposto dell’art. 97 Cost. V. sul punto Sinisi, Questioni di responsabilità amministrativa nell’ambito dell’impresa pubblica: vecchi e nuovi dubbi, in Foro amm., 2009, 2986 ss.

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La Corte procede poi ad illustrare quali siano le responsabilità e gli obblighi degli organi dirigenziali. La difesa del direttore amministrativo, in punto di ascrivibilità della colpa, ruota attorno alla particolarità del contesto storico aziendale al tempo dei fatti contestatati. La struttura sanitaria era stata infatti oggetto di estesi interventi di ristrutturazione e ampliativi dell’intero complesso ospedaliero. La straordinarietà del carico di lavoro era quindi stata tale che il convenuto non aveva avuto, al tempo, la possibilità di occuparsi anche di un minuzioso controllo dei crediti derivanti dai ticket del Pronto Soccorso e della conseguente organizzazione del reparto, anche a fronte della mancanza di alcuna segnalazione di criticità da parte dei funzionari adibiti alla riscossione e al controllo. Le argomentazioni della difesa non paiono tuttavia cogliere nel segno. Nel caso di specie venivano infatti riscontrate macroscopiche carenze gestionali. Non erano infatti state predisposte nemmeno le più basilari misure atte all’espletamento degli obblighi istituiti dalla delibera regionale; né organizzate le risorse, umane e strumentali, in modo da permettere il pagamento in loco e prima della consegna del referto, né erano stati messi in atto elementari accorgimenti atti ad un compiuto monitoraggio e un recupero dei crediti insoluti. Dalle indagini emergeva, finanche, la mancanza di un conto corrente dedicato nel quale far confluire i pagamenti dei bollettini postali inviati ai pazienti, accorgimento questo che avrebbe certamente permesso un più agevole controllo delle posizioni creditorie ancora aperte e una più chiara tenuta contabile. Le difficoltà del contesto storico aziendale, valutabili unicamente in sede di determinazione del quantum di danno, non possono ovviamente valere quale giustificazione a gravi e

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macroscopiche carenze organizzative, soprattutto quando queste finiscano col tradursi in una completa rinuncia all’espletamento delle proprie ordinarie incombenze. A ciò deve necessariamente aggiungersi come alcun pregio può essere concesso alle argomentazioni in punto di dovere di controllo unicamente “strategico” operante nei confronti del direttore amministrativo. Il dovere nascente dalle funzioni dirigenziali non può infatti ritenersi limitato ad una generale e inerte osservazione delle mancanze dei dipendenti e funzionari sottordinati; questo deve piuttosto essere orientato al raggiungimento strategico di un obiettivo, e a tal fine quindi tradursi in un’attenta vigilanza sulle unità operative e, se necessario, anche in iniziative disciplinari8. È evidente come dette mansioni siano riscontrabili in ogni contesto aziendale e a maggior ragione in quello pubblico, ancora organizzato secondo logiche gerarchiche. Nel rispetto del principio di corretto e legale operare della pubblica amministrazione, agli organi di vertice vengono infatti affidati specifici compiti sanzionatori e avocatori, ma a cui, nel caso di specie, i dirigenti paiono invece essersi totalmente sottratti, violando così i propri obblighi di servizio.

al fine di evitare con ogni mezzo il verificarsi di un danno all’amministrazione9. Nel caso di cattiva gestione, questi saranno pertanto chiamati a rispondere, previa verifica della diligenza richiesta dalla particolare natura dell’opera, non del risultato perseguito ma delle modalità di gestione della “cosa pubblica”10. Nel caso di specie ciò che rileva dunque non è il merito delle scelte dirigenziali, dal momento che per espresso disposto normativo11 queste non sarebbero imputabili agli agenti in quanto esercizio di una discrezionalità amministrativa12 non sindacabile dalla Corte dei Conti13, ma proprio la prolungata e gravemente colposa mancata gestione aziendale. In punto di gravità della colpa la magistratura contabile ha infatti più volte ribadito, secondo un orientamento ormai consolidato, come questa possa essere rinvenuta proprio in comportamenti contraddistinti da «mancanza di diligenza, violazione delle disposizioni di legge, sprezzante trascuratezza dei propri doveri […]»14.

5. La responsabilità degli organi di vertice

10 De Paolis, La responsabilità amministrativa per disorganizzazione degli uffici pubblici, in Azienditalia, 2018, 931 s.

Tra le particolari attribuzioni a cui sono adibiti gli organi dirigenziali rientra certamente quella di una corretta organizzazione della struttura amministrativa, mostrandosi quest’ultima altresì come parametro diretto a valutare il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Ricoprendo i dirigenti un ruolo apicale, sono infatti tenuti a gestire nel modo migliore l’ufficio a cui sono preposti

Tra le competenze affidate agli organi dirigenziali è annoverabile anche l’“organizzazione delle risorse umane” ai sensi dell’art. 4, comma 2°, d. lgs. n. 165/2001. È, infatti, compito del dirigente vigilare sull’effettiva produttività individuale e sull’efficienza complessiva della struttura. V. Boscati, Dirigenza pubblica: poteri e responsabilità tra organizzazione del lavoro e svolgimento dell’attività amministrativa, in Lavoro nelle p.a., 2009, 50 ss.

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Detta regola di condotta viene fatta discendere dal principio di “neminem laedere” quale principio informatore dell’intero ordinamento.

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Art. 1, comma 1°, l. n. 20/1994, il quale espressamente stabilisce che «La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali». 11

Con tale espressione vengono indicate quelle condotte espressive di una scelta, effettuata tra più soluzioni possibili, ritenuta la più opportuna al soddisfacimento dell’interesse pubblico. V. Girella, Il processo di trasformazione della responsabilità dei dipendenti pubblici, Milano, 2014, 468 ss. 12

Sul punto interessante la disamina effettuata da Bottino, Rischio e responsabilità amministrativa, Napoli, 2017, 348, ove l’A., indagando nel merito dell’effettiva applicabilità di tale principio, rileva come sia la giurisprudenza della Corte dei Conti che quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ne abbiano «ridotto fortemente, e costantemente, la portata interpretativa ed applicativa, e dunque la sua stessa efficacia». 13

14 Corte Conti, sez. giur. Veneto, 14.7.2005, n. 1010, in Resp. civ. e prev., 2006, 705, con nota di Rodriquez. Sul punto numerose sono le pronunce ex multis: Corte Conti, sez. riun., 21.5.1998, n. 23/A, in Riv. Corte Conti, 1998, 128; Corte Conti, sez. giur. Campania, 29.6.2000, n. 51, ivi, 2000, 128.


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A fronte dei rilievi sopra svolti emerge chiaramente come presso la struttura ospedaliera siano mancati i più basilari accorgimenti organizzativi, e dalla grave inerzia degli organi di vertice, tutti consapevoli delle criticità ivi presenti, è dunque derivato l’ingente danno erariale. Si rileva come il danno avesse potuto verificarsi proprio in ragione della prassi, indubitabilmente nota al dirigente del Pronto Soccorso e da questi tollerata per anni, di consegnare i referti senza previa verifica dell’avvenuto pagamento. Del pari inerti si sono dimostrati l’allora direttore generale, il direttore sanitario e il direttore amministrativo, tutti consapevoli dell’operato dei medici e dei successivi problemi di recupero crediti, ma che mai sono intervenuti per imporre il rispetto delle prescrizioni, di facile attuazione, dettate dalla Dgr. n. 11534/20002. Pertanto, sebbene il danno erariale si fosse verificato in un contesto caratterizzato altresì da difficoltà di riscossione e da un carente monitoraggio dei crediti insoluti, dette condizioni si innestano solo successivamente alla condotta omissiva dannosa tenuta a monte dagli organi di vertice. Non sarebbero sorti crediti da recuperare, né si sarebbe verificato alcun danno all’amministrazione, se la dirigenza avesse saputo efficacemente organizzare il Pronto Soccorso e il personale in esso operante. Prima ancora che disposizioni atte a razionalizzare le procedure di monitoraggio, avrebbero infatti dovuto essere predisposte direttive che imponessero come obbligo di servizio – a pena di illecito disciplinare e di danno erariale – il controllo del pagamento del ticket prima della consegna del referto. Ciò che viene addebitato dunque non risulta essere una mancata vigilanza sull’attività di recupero dei crediti, seppur anch’essa presente, quanto piuttosto una gravemente colposa condotta omissiva dei dirigenti sanitari, per essersi sottratti per anni alle proprie mansioni organizzative e avere così causato il danno erariale come quantificato dalla Procura.

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vezioni e Libera Professione e il dirigente dell’Unità Gestione Risorse Economico Finanziarie. Di contro ritiene unicamente responsabili il direttore amministrativo, il vertice dirigenziale del Pronto Soccorso, il direttore sanitario e il direttore generale, per avere per anni abdicato alle proprie mansioni organizzative e gestionali, configurandosi tale gravemente colposa condotta omissiva come una iniziale ed assorbente serie causale autonoma. Avendo i responsabili, in aperta violazione del chiarissimo disposto della delibera regionale n. 11534/2002, causato un danno erariale pari a 229.615,00 euro, la magistratura contabile condanna dunque ciascuno al risarcimento del danno nella misura del 25%, rivalutando per il solo direttore amministrativo, a fronte delle effettive peculiarità dell’allora contesto aziendale, l’importo dovuto e quantificandolo in 40.000,00 euro.

6. Il decisum Alla luce delle considerazioni sopra svolte la Corte dei Conti assolve il dirigente responsabile dell’U.O. Convenzioni e Marketing, la coordinatrice e referente della S.S. Sistemi di Accesso, ConResponsabilità Medica 2019, n. 4



o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di sti L’aiuto medico a morire dopo la me iuri g sentenza sul caso Cappato* Lucia Busatta

Assegnista di ricerca, Università degli Studi di Padova

Nero Zamperetti

Medico, UOC Hospice e Cure Palliative, Ospedale di Bolzano

Lucia Busatta Con la sentenza n. 242 del 2019, pubblicata il 22 novembre, la Corte costituzionale ha risolto la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, che era stata sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del procedimento penale a carico di Marco Cappato, accusato del reato di assistenza al suicidio per aver accompagnato Fabiano Antoniani (DJ Fabo) in Svizzera. Una breve ricostruzione degli elementi fattuali della storia è funzionale a focalizzare i principali snodi delle motivazioni del giudice delle leggi. Fabiano Antoniani, in seguito ad un incidente stradale avvenuto nel giugno del 2014, era tetraplegico, affetto da cecità bilaterale, non era autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione. A causa di questa situazione necessitava del supporto, pur non continuativo, di

Questo testo rappresenta l’anticipazione di una riflessione più ampia in corso di pubblicazione nella Rivista Italiana di Medicina Legale.

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un respiratore e soffriva di contrazioni e spasmi che non potevano essere completamente leniti per via farmacologica. Non aveva tuttavia subito alcuna diminuzione delle facoltà intellettive. Dopo aver tentato senza successo alcuni interventi terapeutici, Fabiano Antoniani aveva maturato la decisione di porre termine alla propria vita, recandosi in Svizzera. L’interruzione dei trattamenti, infatti, lo avrebbe portato al decesso in qualche giorno e in modo da lui considerato non dignitoso. Marco Cappato, al ritorno dalla Svizzera, viene imputato del reato di cui all’art. 580 c.p. e, nell’ambito del relativo procedimento penale, la Corte d’Assise di Milano ha sollevato una questione di legittimità costituzionale. Il giudice penale dubitava della compatibilità tra questa norma e la nostra Carta costituzionale, soprattutto nella parte in cui «incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario». Ciò violerebbe – secondo la Corte d’Assise – alcuni fra i più importanti principi su cui è fondata la nostra Costituzione, fra cui il principio d’eguaglianza, la libertà personale, il diritto alla salute, senza tralasciare le

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obbligazioni derivanti dall’adesione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte costituzionale, come è noto, si è inizialmente pronunciata con una motivata e articolata ordinanza di rinvio, lasciando aperto il campo all’intervento del legislatore, ed è tornata a decidere sulla questione di legittimità il 24 settembre 2019. L’ordinanza n. 207 del 2018 ha già aperto un amplissimo dibattito, non solo in ambito giuridico. Tralasciando i profili più strettamente tecnici, legati all’inedita tipologia di pronunciamento e alle sue implicazioni, ciò che pare importante evidenziare concerne il fatto che sembra cominciare a trasparire un mutamento del paradigma che lega la gestione della salute fisica ed il progetto di vita della persona. Dopo aver ribadito che la scelta dell’ordinamento di punire penalmente chiunque agevoli o istighi l’altrui proposito suicidario non è, in sé, incompatibile con i principi costituzionali, la Corte si concentra sulla vicenda umana (la fattispecie) che ha generato il processo penale e la conseguente questione di legittimità. A partire dalle condizioni cliniche rilevanti in quella vicenda, la Corte disegna le condizioni soggettive che escludono la punibilità del reato. Tale passaggio è chiaramente enucleato nell’ordinanza del 2018: rispetto alla particolarissima situazione di una persona che sia «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (ord. n. 207/2018, punto 8), il divieto di aiuto al suicidio, di per sé costituzionalmente fondato, può trovare un limite. La sentenza n. 242 del 2019 conferma le condizioni soggettive che possono legittimare la non punibilità del reato. Se con l’ordinanza n. 207 del 2018, però, la decisione resta sospesa in attesa di un opportuno intervento del Parlamento, con la sentenza di qualche settimana fa, alla Corte non resta che decidere la questione a causa dell’inerzia del legislatore. La ragione per la quale la situazione clinica in cui versa la persona che chiede l’assistenza al suicidio viene così delimitata dalla Corte è da individuarResponsabilità Medica 2019, n. 4

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si nella necessità di “ritagliare” il pronunciamento sugli elementi della fattispecie portata all’attenzione del giudice delle leggi. Nereo Zamperetti Sicuramente nel testo della sentenza della Corte costituzionale si sente la tensione a rimanere aderenti alla vicenda umana che è all’origine del caso giudiziario. È peraltro altrettanto evidente che quanto affermato dalla Corte avrà sicuramente ripercussioni su altre storie di cura che saranno molto (ma non del tutto) simili, ed in tali casi sarà inevitabile cercare di costruire una soluzione adeguata, eventualmente anche rivolgendosi ai giudici. Chi ha frequentazione quotidiana di storie di persone sofferenti non farà fatica ad immaginarne qualcuna. Ci potrà essere una persona con una patologia degenerativa neuromuscolare, in ventilazione controllata per alcune ore al giorno tramite tracheostomia ma non completamente dipendente da essa; una situazione molto simile a quella in esame, ma nella quale sono assenti dolori fisici significativi. Oppure una persona con la stessa patologia, ancora autonoma dal punto di vista respiratorio ma con gravi problemi di disfagia e quindi nutrita artificialmente tramite PEG, che chieda di rinunciare alla stessa ma contestualmente ritenga lesivo della propria dignità il lungo tempo che intercorrerebbe dalla sospensione della nutrizione alla morte. Probabilmente si tratta di situazioni che rientrano nel perimetro disegnato dalla sentenza, riferendosi entrambe ad una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche (in entrambi gli esempi) che trova assolutamente intollerabili, tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale (come è una PEG), ma resta capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Sarà tuttavia comunque necessario uno sforzo di interpretazione (che talvolta potrà diventare difficile) per capire se e fino a che punto la situazione rientra nei criteri previsti dalla sentenza per l’accesso all’aiuto medico a morire. Al proposito va segnalato come tali criteri, indispensabili per una regolamentazione della procedura e per la protezione sia delle persone in stato di fragilità che chiedessero di accedervi e


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sia del personale che le assiste, possano prestarsi ad una deriva strumentale o solamente formalistica. Si immagini al proposito la situazione (clinicamente non infrequente) di una persona con una patologia degenerativa neuromuscolare in fase avanzata con gravi deficit di movimento, discreta autonomia respiratoria residua, gravi problemi di deglutizione per cui è clinicamente indicato il posizionamento di una PEG. Tale persona, nel caso in cui non solo rifiutasse la PEG ma chiedesse l’accesso ad una procedura di aiuto medico a morire, non rientrerebbe nei criteri della sentenza – almeno fino al posizionamento della PEG, che diventerebbe così solo una condizione strumentale di accesso alla procedura. Quel che si vuol dire è che l’attività di cura non è fatta di storie standardizzabili; anzi, ogni situazione è una storia a sé che chiede di essere interpretata con attenzione, prudenza e profondo rispetto per la persona che ne è protagonista e per la sua sofferenza. Lucia Busatta Dal punto di vista giuridico, sembrerebbe che solo questo sia il punto della decisione in cui il giudice resti strettamente aderente alla questione di costituzionalità e alla fattispecie. Come ora vedremo, gli altri passaggi delle motivazioni della sentenza vanno ben oltre la vicenda di Marco Cappato e Fabiano Antoniani e creano, anzi, una vera e propria disciplina dell’aiuto medico a morire. Il punto, poi, è interessante, perché – come rileva la stessa Corte – in questo genere di situazioni, la decisione di porre termine alla propria vita può essere già presa dalla persona, secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017, e tale decisione avrebbe «effetti vincolanti nei confronti dei terzi» (sent. n. 242 del 2019, punto 2.3). La persona può, infatti, decidere di interrompere un trattamento in atto (art. 1, comma° 5) e il medico è tenuto a rispettarne la volontà (art. 1, comma° 6). Un profilo assai rilevante della sentenza riguarda proprio il legame tra la decisione di rifiutare e interrompere i trattamenti, combinata alla sedazione palliativa profonda, e l’aiuto medico a morire. Sul punto, la Corte rileva come la perdita di coscienza che segue a tale scelta terapeutica possa essere «vissuta da taluni come una soluzione

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non accettabile». I giudici, poi, aggiungono che, se nell’ordinamento giuridico ora trova spazio questa possibilità, «non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri». Tale passaggio è meritevole di considerazione poiché la dimensione assiologica dell’autodeterminazione individuale nelle scelte terapeutiche ottiene riconoscimento giuridico. In altre parole, vengono poste sullo stesso piano dai giudici storie cliniche tra loro molto simili (chi può rifiutare un trattamento, da un lato, e chi, pur potendo rifiutare un trattamento, considera non dignitoso il modo di congedarsi dalla vita cui andrebbe incontro), ma caratterizzate da un quid che, sul piano giuridico, le distingue. Tale distinzione, ad avviso del giudice delle leggi, non ha ragion d’essere, in base ai valori costituzionali che la stessa legge n. 219 si prefigge di tutelare (punto 2.4). Ecco, quindi, per quale ragione la Corte specifica in modo così definito le condizioni soggettive che delimitano l’ambito di applicazione della propria decisione. Pur comprendendo la necessità di restringere la portata della sentenza alla fattispecie che ha dato origine alla questione, bisogna tuttavia segnalare che, probabilmente, in un futuro intervento del legislatore, le medesime condizioni potrebbero risultare problematiche. Una disciplina completa della materia richiede, infatti, di prendere in considerazione pure la situazione di quelle persone per le quali non vi è (o non vi è ancora) un trattamento di sostegno vitale a cui rinunciare, ma che potrebbero comunque accedere ad un percorso di cure palliative e alla sedazione profonda. Si pensi alle multiformi situazioni di terminalità in oncologia. Una volta individuate le condizioni soggettive di non punibilità dell’assistenza al suicidio, la Corte si spinge oltre, cercando di individuare, all’interno dell’ordinamento giuridico, alcune fonti che possano contribuire a definire la procedura da seguire. Il percorso viene così rinvenuto nell’art. 1, comma° 5, della legge n. 219 (sul rifiuto dei trattamenti). Tale disposizione, ad avviso del giudice delle leggi, «prefigura una “procedura medicalizzata” Responsabilità Medica 2019, n. 4


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estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo» (punto 5 della sentenza). Tale disposizione, a dire il vero, non prevede una vera e propria procedura; prevede, piuttosto, il diritto del paziente a revocare il consenso prestato e a rifiutare «qualsiasi trattamento sanitario o accertamento diagnostico» proposto. Ciononostante, nelle more dell’intervento del legislatore, è questo il percorso che, ad avviso della Corte, la persona che intenda chiedere l’assistenza medica a morire dovrà intraprendere. In aggiunta, il giudice delle leggi indica ulteriori strumenti di tutela (individuati tra le norme esistenti dell’ordinamento), mirati a presidiare i valori costituzionali in gioco. In primo luogo, si rende necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti che legittimano tale richiesta, ossia la condizione clinica della persona e la sua piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Sulla scia di quanto già indicato dalla Corte nelle precedenti sentenze in materia di procreazione medicalmente assistita, anche al fine della garanzia del principio di eguaglianza, tale verifica (inclusa quella relativa alle «relative modalità di esecuzione») deve essere affidata a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. Con quali modalità ciò dovrà accadere non è ulteriormente specificato, né è chiaro comprendere se l’intera procedura andrà condotta presso strutture del SSN o se la Corte consideri sufficiente una mera verifica da parte dell’amministrazione sanitaria. Questo profilo, in effetti, pone qualche dubbio circa la possibilità di un’immediata applicazione di quanto previsto dalla sentenza. Nereo Zamperetti Questo è un altro problema pratico per quanto riguarda la applicabilità di questa sentenza nella pratica quotidiana. La Corte infatti dichiara – per alcune e ben determinate circostanze – «l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, […], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio», e aggiunge «[…] sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale». Al riguardo, come detto, fa riferimento alle norme contenute nella legge 219/2017. Di Responsabilità Medica 2019, n. 4

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più, certamente, la Corte Costituzionale non poteva fare. Tuttavia, tali norme appaiono come un contenitore che deve essere riempito di contenuti pratici, cioè da indicazioni che specifichino chi fa cosa, come e quando. In Italia non esiste una procedura codificata per l’assistenza medica al morire, né esistono precedenti noti a tale riguardo. Nella pratica, non esiste quindi uno standard di riferimento. Rimane del tutto da definire, ad esempio, in che modo si debba accertare l’autenticità di una richiesta di aiuto a morire: quanti medici sia opportuno che siano coinvolti, con quale formazione ed esperienza professionale, in che tempi ed in che modi debbano incontrare la persona. E rimane da definire come concretizzare tale richiesta, cioè quale procedura sia più adatta, con quali farmaci, in che tempi, in quale setting (ospedale, Hospice, domicilio, …). Non è chiaro quindi su quali parametri una struttura può verificare «condizioni e modalità di esecuzione»: il rischio è che ogni struttura appronti le proprie. È opportuna quindi la formulazione di norme giuridiche (una legge) e, in prospettiva strettamente medica, professionali (linee guida formulate da parte di una o più società scientifiche); è peraltro auspicabile che tali norme riescano a coniugare la capacità di orientare in maniera adeguata la pratica e l’indispensabile elasticità per permettere di gestire situazione potenzialmente molto diverse. Lucia Busatta In secondo luogo, la Corte aggiunge un requisito ulteriore che non emergeva nell’ordinanza n. 207 del 2018 e che non era facilmente prevedibile. L’applicazione della «procedura medicalizzata» di cui all’art. 1, comma° 5, non appare, al giudice delle leggi sufficiente a tutelare le persone vulnerabili coinvolte, ma viene indicato «l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze» (punto 5 della sentenza). Questo appare essere, con ogni probabilità, il passaggio più critico della pronuncia, sia per il suo carattere “innovativo”, sia per la qualificazione di questo organo, che dalla Corte viene individuato nei «comita-


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ti etici territorialmente competenti». Da un lato, la Corte sembra avere in mente i comitati etici per la pratica clinica (nella sentenza si legge infatti: «Tali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria»), ma questi non sono oggetto di una disciplina omogenea sul territorio nazionale. Manca una legge in proposito ed esistono solo alcune virtuose esperienze regionali. Il riferimento normativo richiamato dai giudici, però, fa riferimento ai comitati etici per la sperimentazione dei medicinali. Il doppio profilo critico è dato, da un lato, dal fatto che – come rilevato dalla Corte stessa – la legge n. 219 non prevede espressamente il coinvolgimento alcun organo collegiale nelle decisioni terapeutiche e, dall’altro lato, che l’organo richiamato dalla Corte abbia competenze diverse dalle decisioni in ambito clinico, occupandosi di sperimentazioni. Infatti, i comitati etici per la pratica clinica, dove esistono, vengono interpellati laddove l’equipe curante lo ritenga utile o necessario; non è previsto – nemmeno nelle leggi regionali – alcun obbligo di coinvolgimento. Obbligatorio è invece il coinvolgimento dei comitati etici per la sperimentazione nei casi indicati dalla legge citata nella sentenza stessa; nessuno di essi, tuttavia, è riferibile in alcun modo al caso del suicidio assistito. Infine, una volta delineata la “nuova” procedura da seguire, la Corte specifica che la propria decisione non configura alcun obbligo in capo al personale sanitario. Da ciò segue che l’intervento nell’assistenza medica a morire sarà – sino ad un auspicabile intervento legislativo – affidato alla coscienza del singolo medico. Anche questo passaggio può aprire ad alcune considerazioni critiche, nella definizione del rapporto esistente tra il medico operante nel servizio sanitario nazionale e la struttura pubblica. Al di là delle questioni attinenti alla determinazione giuridica del rapporto di lavoro (che comunque ricade nell’ambito del pubblico impiego), bisogna evidenziare che la previsione della verifica sia delle condizioni che delle modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio richiede, comunque, un certo tipo di coinvolgimento da parte del medico.

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Nereo Zamperetti Anche questo è un problema importante. In aggiunta a quanto detto, si può rilevare che per i componenti stessi del comitato si renderà necessaria una formazione specifica sulle decisioni di fine vita. Ma soprattutto è importante chiarire il ruolo del Comitato e le modalità con le quali questo si dovrà esprimere: su cosa verterà esattamente il parere? Non è chiaro infatti se il Comitato sarà chiamato a verificare solo la correttezza del procedimento adottato per la verifica dell’autenticità della richiesta ed eventualmente di quello previsto per la sua implementazione, oppure se dovrà entrare direttamente nella storia, incontrare la persona e verificare direttamente condizioni e procedure. E, soprattutto in quest’ultimo caso, non è chiaro se dovrà dare un parere unanime o se basterà eventualmente una maggioranza, e se saranno ammesse “dissenting opinions” e come dovranno essere gestite. Lucia Busatta Un altro punto – anche se non è dalla Corte esplicitato – riguarda la problematica gestione del rapporto tra il quadro giuridico derivante dalla sentenza e l’attuale previsione del Codice di Deontologia Medica. Il medico del servizio sanitario che volesse dare seguito alla richiesta di una persona di porre termine alle proprie intollerabili sofferenze rischierebbe, infatti di andare incontro a conseguenze disciplinari, in assenza di un tempestivo adeguamento del codice all’attuale quadro giuridico. È evidente, a questo punto, la necessità di riconciliare il quadro giuridico risultante dalla sentenza della Corte costituzionale ed il dettato deontologico, per definire con certezza l’ambito di azione dei medici e permettere loro di operare in serenità. Questo soprattutto per il fatto che la Corte, nel momento in cui dichiara – per alcune e ben determinate circostanze – «l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio», riconosce un diritto della persona che lo richiede, che in qualche modo dovrà essere reso effettivo da qualcuno.

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Nereo Zamperetti È probabile che il ruolo professionale dei medici sia il vero problema. Una parte importante della professione medica ha infatti assunto una netta posizione di contrarietà all’idea di un coinvolgimento dei medici in una procedura di aiuto medico a morire, facendo riferimento all’articolo 17 (Atti finalizzati a provocare la morte) del Codice di Deontologia Medica: «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte». Peraltro, l’oggetto dell’intervento della Corte (con l’ordinanza n. 207/2018 prima e con la sentenza n. 242/2019 poi) non può che essere di competenza dei medici, in quanto professionisti che posseggono le competenze professionali per verificare l’esistenza dei requisiti per accedere alla procedura di assistenza medica a morire e per garantire l’adeguatezza della pratica affinché questa si verifichi in modo appropriato. Anche in futuro, quando il legislatore interverrà nel segno della sentenza, questa responsabilità resterà ragionevolmente in capo ai medici. In questo senso, è evidente la necessità di capire se e fino a che punto la posizione del medico e lo statuto stesso della attività di cura siano consone alla nuova realtà che la riflessione giuridica sta disegnando. Lucia Busatta Le analogie tra questa vicenda e quella relativa all’aborto, che oltre un quarantennio fa aveva occupato il dibattito pubblico e politico nel nostro Paese, sono numerose. Di sicuro, la pronuncia della Corte determina, oggi come allora, una grande incertezza per l’agire medico, in assenza di una legge che disciplini in modo organico le condizioni per la richiesta di assistenza medica a morire, le procedure per praticarla e la posizione del medico e degli altri professioni coinvolti. Nei mesi che hanno preceduto la pubblicazione della sentenza n. 242 del 2019, un gruppo di medici e giuristi che si è riunito presso l’Università degli Studi di Trento ha lavorato sui vari profili etici, medici e giuridici su cui dovrebbe concentrarsi una futura legge sull’assistenza medica a morire. Il risultato di questo lavoro corale è pubblicato sul sito www.biodiritto.org e sul fascicolo 3/2019 Responsabilità Medica 2019, n. 4

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di BioLaw Journal ed è aperto all’adesione di tutti coloro che ne condividano i contenuti.


i r o t Osservatorio Osservatorio medico-legale medico-legale erva ico s d le s e o Il contributo medico-legale m ga le nell’accertamento del danno catastrofale Matteo Bolcato Specialista in Medicina Legale

Anna Aprile Professoressa nell’Università di Padova Sommario: 1. Il danno catastrofale nelle sentenze della Corte di Cassazione. – 2. I presupposti per il riconoscimento del danno catastrofale e il ruolo del contributo medico-legale per la loro individuazione. – 3. L’importanza dell’autopsia: necessità di implementare la ricerca sul fronte delle indagini necroscopiche.

Abstract: Il contributo analizza i presupposti per il riconoscimento del danno catastrofale nell’ordinamento italiano isolando i criteri indicati nelle sentenze della Corte di Cassazione e tenta di delineare il ruolo medico legale nella valutazione di tale danno. Si concentra in particolare sulle fonti informative utili ad indicare i presupposti necessari e mostrare alcune delle possibilità di ricerca dalle indagini necroscopiche.

The paper analyzes the prerequisites for recognizing catastrophic damage in the Italian legal system by isolating the criteria indicated in the Court of Cassation sentences and attempts to outline the medical-legal role in the assessment of such damage. It focuses in particular on information sources useful to indicate the necessary assumptions and to show some of the research possibilities from necroscopic investigations.

1. Il danno catastrofale nelle sentenze della Corte di Cassazione Nel corso dell’ultimo anno abbiamo riscontrato che sempre più casi arrivati alla nostra attenzione professionale richiedono l’accertamento di quel peculiare danno risarcibile rappresentato dal danno c.d. “catastrofale”. Come noto si tratta di una fattispecie di danno che mira a risarcire le conseguenze di chi abbia subito, nel periodo immediatamente antecedente al decesso, una sofferenza causata “dall’attendere lucidamente l’estinzione della propria vita” la cui nascita giurisprudenziale si colloca all’inizio degli anni 2000, con la sentenza della Cassazione Civile del 2 aprile 2001, n. 4783 in cui era trattato il caso di un giovane deceduto circa quattro ore dopo un sinistro stradale. Nel dispositivo si indicava chiaramente che il danno catastrofale: “è un danno morale che si traduce in un forte turbamento psichico, dotato di particolare intensità, ma, contestualmente, non definibile quale vera e propria malattia psicologica e ciò in considerazione della durata Responsabilità Medica 2018, n. 4


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limitata dello spazio temporale intercorrente tra le lesioni e la morte: spazio così esiguo da non consentire la effettiva degenerazione del turbamento in patologia. […] Non può dunque il giudice del merito sottrarsi al dovere di motivazione adeguata su tali punti decisivi, anche ricorrendo al supporto di una appropriata consulenza medico legale”. I presupposti di questo peculiare danno sono stati chiariti ulteriormente dalla sentenza della Cassazione a Sezioni unite n. 15350 del 2015 e poi dalla sentenza della Cassazione n. 22451 del 2017, che identifica il “danno morale cd. soggettivo” (cd. “danno catastrofale”) nello “stato di sofferenza spirituale od intima (paura o paterna d’animo) sopportato dalla vittima nell’assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso l’ineluttabile fine-vita: anche in questo caso, trattandosi di danno-conseguenza, l’accertamento dell’“an” presuppone la prova della cosciente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine”. Del tutto recentemente la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 23153 del 17 settembre 2019 della VI Sezione è tornata ad occuparsi del danno catastrofale stabilendo che non si può negare il risarcimento dello stesso agli eredi della vittima per il solo fatto che il decesso si sia verificato a poche ore dal sinistro. Nel caso i ricorrenti lamentavano la decisione assunta dalla Corte di Appello che aveva escluso il loro diritto iure hereditatis al risarcimento del danno poiché la morte del loro congiunto era intervenuta a distanza di due ore dalla lesione; la Corte d’Appello aveva ritenuto troppo breve tale lasso temporale intercorso tra l’evento e la morte per giustificare la ricorrenza del danno lamentato. In accoglimento del ricorso dei congiunti della vittima, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata specificando che deve escludersi la risarcibilità del danno da perdita della vita qualora il decesso si verifichi immediatamente dopo la lesione ma quando, invece, le lesioni mortali producano l’effetto esiziale a distanza di tempo dalla lesione, in questo intervallo, matura sempre il danno biologico soggettivo e a questo può aggiungersi un danno morale peculiare, ovvero il danno da percezione dell’imminenza della propria morte. Questo il passaggio: “Qualora nel tempo che intercorre tra la lesione e il decesso, la persona non è in Responsabilità Medica 2019, n. 4

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grado di percepire la sua situazione, e in particolare l’imminenza della morte, il danno non patrimoniale sussistente è riconducibile soltanto alla specie biologica; se, invece, la persona si trova in una condizione di lucidità agonica, si aggiunge, sostanzialmente quale ulteriore accessorio della devastazione biologica stricto sensu, un peculiare danno morale terminale […]” e, conclude la Corte, “nel caso di specie lo spatium temporis appare tutt’altro che il “brevissimo tempo” cui si riferiscono le Sezioni Unite nell’intervento del 2015, per escluderne il rilievo ai fini risarcitori, trattandosi di alcune ore. Il giudice del rinvio, sulla base delle risultanze istruttorie, verificherà se la vittima era lucida, e quindi percepiva la sua tremenda situazione, tale da non poter non indurre quantomeno il forte timore della morte imminente e lo strazio per l’abbandono dei congiunti”. Il danno catastrofale sussiste, dunque, quando la vittima abbia sofferto di un forte turbamento psichico, dotato di particolare intensità, ma non definibile quale vera e propria malattia psicologica, e ciò in considerazione della durata limitata dello spazio temporale intercorrente tra le lesioni e la morte, spazio così esiguo da non consentire la effettiva degenerazione del turbamento in patologia.

2. I presupposti per il riconoscimento del danno catastrofale e il ruolo del contributo medico-legale per la loro individuazione Tale definizione traccia i presupposti necessari affinché possa identificarsi tale fattispecie di danno identificabili in: – esistenza di un lasso di tempo tra evento lesivo e decesso, definibile come “apprezzabile”, ma non tanto lungo da consentire l’affermarsi di un quadro patologico stabilizzato; – cosciente percezione delle conseguenze letifere delle lesioni riportate; – presenza di una sofferenza psichica data dal massimo grado di disperazione nel percepire l’approssimarsi della propria morte. È necessario chiedersi quale possa essere il contributo medico-legale nell’identificare la presenza


L’accertamento del danno catastrofale

degli elementi sopra riportati e, quindi, l’esistenza del danno catastrofale. Per quanto riguarda il primo degli elementi costitutivi del danno ora indicati, oltre alla valutazione delle eventuali testimonianze disponibili, potrà assumere peculiare importanza l’indagine necroscopica effettuata sul cadavere che dovrà essere condotta tenendo conto che vi è la possibilità di isolare elementi utili nell’identificare un periodo di agonia precedente al decesso. Esistono studi eseguiti a completamento dell’indagine autoptica, infatti, che indicano come l’utilizzo di tecniche peculiari, quali l’immunoistochimica, e la determinazione della presenza e concentrazione dell’ossido nitrico si rivelino utili nel determinare la presenza e stimare temporalmente la durata dell’agonia1. Altri studi mostrano come la maggiore presenza di albumina, proteina del sangue, all’interno della barriera ematoencefalica mostri una correlazione con la lunghezza del periodo agonico2. Analogamente la presenza di un particolare biomarcatore costituito da una proteina astrogliale (GFAP) è correlabile al tempo di agonia3. Anche la concentrazione post-mortale in alcuni fluidi corporei di specifici ormoni, chiamati catecolamine, è indice della presenza di un particolare stress pre-mortale che può realizzarsi in caso di percezione dell’evento stressogeno4. L’indagine necroscopica potrebbe, inoltre, e al contrario, in funzione delle peculiari caratteristiche anatomo-patologiche delle lesioni, consentire di escludere che vi sia stato un intervallo apprezzabile di sopravvivenza tra

Scendoni et al. Analysis of immunohistochemical expression of inducible nitric oxide synthase for the evaluation of agonal time in forensic medicine. (2016) 130(6) International Journal of Legal Medicine, 1639 ss.

1

Mangin et al. Forensic Significance of Postmortem Estimation of the Blood Cerebrospinal Fluid Barrier Permeability. 1983 22(2-3) Forensic Science International 143 ss.

2

3 Breitling et al. Post-mortem Serum Concentrations of GFAP Correlate With Agony Time but Do Not Indicate a Primary Cerebral Cause of Death, (2018) 13 Plos One 10 ss. 4 Wilke et al. Postmortem Determination of Concentrations of Stress Hormones in Various Body Fluids-Is There a Dependency Between Adrenaline/Noradrenaline Quotient, Cause of Death and Agony Time? (2007) 121 (5) International Journal of Legal Medicine 385 ss.

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queste e la morte identificando elementi coerenti con l’ipotesi di morti improvvise pressoché istantanee. Per quanto riguarda il secondo degli aspetti costitutivi del danno catastrofale, l’analisi medico-legale dovrebbe considerare l’eventuale presenza di testimonianze di soggetti che hanno assistito agli eventi al periodo antecedente alla morte, nonché la documentazione inerente ai soccorsi e alle successive cure al fine di ricostruire le condizioni di vigilanza del soggetto. La documentazione sanitaria può assumere notevole importanza, considerato che nei verbali di primo soccorso è costantemente presente l’indicazione in merito allo stato di coscienza della persona, tuttavia deve essere tenuto presente che una lettura non supportata da un approfondimento medico-legale potrà risultare insufficiente alla valutazione. Non di rado, infatti, potranno evidenziarsi situazioni in cui la documentazione e le testimonianze restituiscono un quadro in cui la persona viene descritta in uno stato di semi coscienza, o coscienza altalenante, determinato sia dall’evento traumatico lesivo in sé sia, talora, dalle successive cure come l’induzione farmacologica o anestesia. Tali quadri sono necessariamente da considerare con attenzione e pretendere un approfondimento medico-legale per pervenire ad una motivata valutazione dei dati. La molteplicità di tale possibile mole di dati, certamente complessa, deve essere considerata a seconda delle cause di morte e delle condizioni del soggetto oltreché alle notizie in merito alle circostanze del decesso. Non esiste ad oggi alcun elemento che indichi con certezza se si è realizzato uno stato agonico prima del decesso né, tantomeno, in grado di stabilire se il vissuto nel periodo agonico sia stato caratterizzato da una condizione di consapevolezza del morente; fermo restando quanto sopra, tuttavia, una adeguata analisi medico-legale può consentire di impostare correttamente e, talora, dare risposta a quesiti in merito al periodo antecedente alla morte. Resta da considerare il terzo aspetto, che esula dalla competenza medico-legale tenuto conto che dalla lettura della giurisprudenza di merito e di diritto, nonché dalla dottrina, si evince come la condizione della devastante sofferenza integrante il danno catastrofale appartenga alla sfera del danno morale Responsabilità Medica 2019, n. 4


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in senso stretto che prescinde dalle peculiari caratteristiche del danno biologico la cui sussistenza e dimensione, invece, è accertata dal medico-legale. Un ulteriore motivo consiste nel fatto che la stessa giurisprudenza assume l’esistenza del danno catastrofale come conseguenza intrinseca della consapevolezza del morente che la morte è imminente: qualora la condizione di lucidità del soggetto in prossimità del decesso sia stata accertata, quindi, questa diviene condizione sufficiente per riconoscere tout court la sussistenza della sofferenza alla quale ancorare il risarcimento del danno catastrofale. In disaccordo con questa impostazione, ricordiamo che è stato autorevolmente rilevato in dottrina (Bianchini) che, per quanto riguarda il danno da lucida agonia, la giurisprudenza muova da un assunto acritico: che la lucida agonia sia sempre di per sé, e per chiunque, più dannosa rispetto alla morte improvvisa per il soggetto senza tener conto che, per motivi che hanno a che vedere con l’orientamento filosofico, religioso, credenziale del morente, questo potrebbe non essere vero. Assumendo in ogni caso esistente il danno da lucida agonia, riporta Bianchini, “l’ordinamento piuttosto che essere laico, dunque aconfessionale, equidistante da ogni particolare approccio religioso-filosofico alla vita e alla morte, ne adotti uno particolare, quello del riduzionismo, escludendo dal proprio campo di indagine anche soltanto l’opzione che la credenza filosofico-religiosa del singolo riferita all’Oltre possa intervenire come elemento capace di variare l’esito dell’esame inerente la risarcibilità del danno connesso ad una morte accompagnata alla consapevolezza di essa”5.

3. L’importanza dell’autopsia: necessità di implementare la ricerca sul fronte delle indagini necroscopiche

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potranno indirizzare le indagini se vi è stato prima un atteggiamento serio e concreto di ricerca. Da qui la seconda e importante considerazione in merito all’importanza delle indagini necroscopiche. Negli ultimi decenni a livello mondiale è in costante calo il numero totale delle autopsie la cui esecuzione è per lo più relegata ai casi di stretta competenza e necessità giudiziaria finalizzate all’accertamento delle cause di morte in fatti di rilevanza penale6. Per raccogliere informazioni che potranno poi essere utili ad evidenziare la presenza di uno spazio di coscienza a seguito delle lesioni mortali a fini civilistici, sarebbe necessario implementare la ricerca nell’ambito della patologia forense indirizzando l’indagine alla raccolta e alla studio di quei peculiari rilievi cui prima si è fatto cenno, effettuando specifici approfondimenti complementari all’autopsia che dovrebbe essere effettuata anche al di fuori del contesto di esclusiva rilevanza penalistica. Il momento appare in effetti particolarmente propizio stante il fatto che la legge n. 24 del 2017 ha inserito all’articolo 37 del Regolamento di polizia mortuaria, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285, dopo il comma 2° la specifica che: “I familiari o gli altri aventi titolo del deceduto possono concordare con il direttore sanitario o sociosanitario l’esecuzione del riscontro diagnostico, sia nel caso di decesso ospedaliero che in altro luogo, e possono disporre la presenza di un medico di loro fiducia”. Tale aspetto, tutt’altro che secondario, può rappresentare una prospettiva vincente in ambito medico legale e utile al fine di raccogliere dati necessari non solo a giungere ad identificare la causa di morte, che spesso in caso di sinistri stradali e politraumatismi difficilmente riserva particolari sorprese, ma anche ad indagare maggiormente il periodo pre-mortale al fine di identificare la totalità dei danni risarcibili.

Ritornando agli aspetti di competenza tecnico-biologica rimane da considerare che questi

Bianchini, Il dibattito sul danno tanatologico come specchio del rapporto fra laicità dell’ordinamento giuridico e ontologia naturalista, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, 12 ss. 5

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6 Blokker et al. Autopsy rates in the Netherlands: 35 years of Decline (2017) 6 Plos One 15 ss.


i r o t Osservatorio Osservatorio medico-legale medico-legale erva ico s d le s e o L’accertamento medico-legale m ga le delle preesistenze di malattia o menomazione alla luce della recente giurisprudenza

Barbara Bonvicini*, Selene Rigato*, Lorenzo Menozzi*, Massimo Montisci* Sommario: 1. Inquadramento generale. – 2. La sentenza dell’11 novembre 2019, n. 28986. – 3. Il ruolo del medico-legale alla luce della recente giurisprudenza.

Abstract: La sentenza della Corte di Cassazione n. 28986 dell’11 novembre 2019, offre lo spunto per una riflessione in tema di accertamento dello stato anteriore, laddove preesistenze di malattia o menomazione vengano ad essere computate nella quantificazione delle ripercussioni di danno in esito a fatti illeciti. Evidenziato che le preesistenze rappresentano circostanze che pongono all’interprete un problema di causalità (di tipo materiale e giuridica), la Cassazione si esprime sia sulla valutazione che sulla liquidazione del cosiddetto danno differenziale, affrontando la questione anche sotto il profilo medico-legale. Viene così ad essere tracciato un percorso metodologico da condividersi nella comunità scientifica laddove si debba procedere alla concreta quantificazione della menomazione subita dal danneggiato anche alla luce dell’inabilità pregressa, con lo scopo di fornire al giudice la giusta “mensura” del danno. Sentence n. 28986 published on 11th November 2019 by the Italian Court of Cassation provides an important step forward in the ascertainment of previous health state, where pre-existing illnesses or impairments are considered as a peculiar subject in the complexity of personal damage. This kind of ascertainment consists of two different evaluations regarding the comprehen-

sion of linkages between on the one hand illicit facts and personal damage, on the other hand between personal damage and its liquidation. Both of these queries are taken into consideration by the Supreme Court’s Judges who also offer their interpretation of medico-legal role in such setting. In conclusion, medico-legal specialists involved in the “concrete quantification” of personal damage are encouraged to follow methodological recommendations from the Court in order to provide the correct “mensura” of impairment when evaluating individuals with pre-existing diseases.

1. Inquadramento generale L’adeguato apprezzamento del danno biologico permanente in soggetto con preesistenze menomative – cui derivi un maggiore pregiudizio dello stato psico-fisico in esito ad un fatto illecito – rappresenta da tempo una delle più complesse

Sede di Medicina legale, Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Cardiovascolari, Università degli Studi di Padova.

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e controverse problematiche operative che ricorrono nell’attività medico-legale. Gli Autori, in un precedente contributo1, hanno affrontato la questione in oggetto evidenziando come, in assenza di presupposti condivisi dalla Comunità Medico-Legale italiana, siano andate delineandosi nel corso del tempo due metodologie di quantificazione, rappresentate dai cosiddetti “metodo tradizionale” e “metodo innovativo”. Con l’utilizzo del “metodo tradizionale” si valuta la misura in cui, in conseguenza del danno subito, il soggetto, con il suo valore di “100” (i.e. insieme di abilità e disabilità che gli appartengono), vede ridotta la capacità di vivere la vita che aveva prima. Utilizzando il “metodo innovativo”, invece, si stabilisce la percentuale del danno biologico complessivo (derivante da entrambe le menomazioni), sottraendo poi il valore della preesistenza ed ammettendo a risarcimento l’incremento di danno in rapporto causale con il fatto illecito. La liquidazione del danno avverrebbe, pertanto, secondo la formula Delta = (D.B.1+ D.B.2) – D.B.1, ove “D.B.1 + D.B.2” indica il danno della persona derivante da entrambe le menomazioni, preesistente (D.B.1) e sopraggiunta (D.B.2), da intendersi come valutazione complessiva e non già quale mera sommatoria aritmetica, cui andrà sottratto – da qui la denominazione “danno differenziale” – il valore di danno biologico attribuito alla preesistenza (D.B.1). Nella quotidiana attività medico-legale si evidenzia tuttavia come non vi sia preponderanza assoluta di uno dei due metodi, stanti le caratteristiche che li contraddistinguono. Nella fattispecie, con il “metodo tradizionale”, a fronte delle specifiche preesistenze individuate, non è possibile confinare all’interno dei bàremes percentuali la valutazione globale della menomazione (pesati sull’uomo medio in buono stato di salute); in siffatta circostanza la valutazione deve tener conto del pregiudizio reale arrecato alla persona. Tale metodica è esposta al rischio di un sog-

Bonvicini, Viero, Montisci, La valutazione della preesistenza nel danno alla persona, in questa Rivista, 2019, 377 ss.

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gettivismo valutativo – al quale è necessario far fronte con una rigorosa formazione specialistica medico-legale – ma ha il pregio, se ben applicato, di garantire un congruo ristoro al danneggiato e di evitare di porre a carico del danneggiante la responsabilità di ciò che non sia direttamente ascrivibile alla sua condotta (i.e. stato anteriore). Con il “metodo innovativo”, invece, tale rischio diviene tangibile e comporta, soprattutto nei casi in cui si riscontri una menomazione di lieve entità su un individuo già gravemente compromesso (e.g. esiti di frattura di alluce in soggetto paraplegico), una “ipervalutazione liquidativa” della menomazione stessa, frutto del calcolo differenziale a partenza da un valore percentuale attribuito arbitrariamente alla condizione patologica preesistente (D.B.1) ed erroneamente desunto dai valori di danno biologico permanente riportati nei bàremes di riferimento. Tale criterio troverebbe adesione in ragione del suo rigore matematico che si precisa nel differenziare le voci di danno, laddove il “metodo tradizionale” lascerebbe troppa discrezionalità al valutatore. Infine, per entrambi i metodi si rileva come la quantificazione retrospettiva dell’invalidità preesistente sia spesso ricostruita “approssimativamente” utilizzando criteri presuntivi, ovvero sulla base della raccolta anamnestica e della ricostruzione cronologica dei dati sanitari a disposizione, con permanenza di un certo grado di soggettivismo derivante dalla necessità di ricorrere a valutazioni “per analogia” in assenza di menomazioni tabellate. Se da un lato il legislatore sembrerebbe far riferimento al “metodo tradizionale” – ove nei Criteri applicativi della tabella di cui al Decreto Ministeriale del 3 luglio 2003 si legge che “nel caso in cui la menomazione interessi organi od apparati già sede di patologie od esiti di patologie, le indicazioni date dalla tabella andranno modificate a seconda della effettiva incidenza delle preesistenze” – dall’altro, la mancanza di una metodologia valutativa condivisa ha dato origine a giudizi non sempre univoci nel definire il danno alla persona, con il rischio che si possano verificare situazioni di sovra- ovvero sotto-compensazione e correlata iniquità delle poste risarcitorie.


L’accertamento medico-legale delle preesistenze di malattia

Per i motivi su espressi, la valutazione del danno biologico permanente in soggetto con preesistenze menomative concorrenti risulta essere uno degli argomenti maggiormente dibattuti dalla dottrina specializzata nel settore, soprattutto a seguito dei ben noti mutamenti giurisprudenziali in materia. Con la sentenza dell’11 novembre 2019, n. 28986 della III Sezione Civile della Cassazione si pone un nuovo tassello nell’irrisolta questione inerente alla più appropriata metodologia valutativa.

2. La sentenza dell’11 novembre 2019, n. 28986 Oggetto della sentenza è il ricorso presentato da una compagnia di assicurazione avverso il signor G.B.L., risultato vittima nel 2004 di sinistro stradale causato da N.C.S., assicurato per responsabilità civile auto presso l’anzidetta società. In occasione del sinistro stradale, la vittima subiva un trauma contusivo all’anca destra, distretto corporeo già menomato da esiti fratturativi riportati in analoga sinistrosità risalente al 1998. Sostenendo dunque che il sinistro stradale del 2004 avesse aggravato i postumi del pregresso traumatismo, financo alla necessità per la vittima di sottoporsi ad intervento chirurgico di protesizzazione dell’anca, nel 2013 G.B.L. conveniva la società assicurativa e N.C.S. dinanzi al Tribunale di Lecco per vedersi risarcire le adeguate conseguenze di danno patite. Il Tribunale ritenne che la necessità per l’attore di sottoporsi ad intervento chirurgico non fosse causalmente ascrivibile al sinistro stradale oggetto del giudizio; da detto sinistro, era residuata per la vittima una invalidità permanente del 6,5%, il cui risarcimento era da liquidarsi nei termini della differenza tra il valore monetario del grado di invalidità permanente antecedente all’evento del 2004, stimabile nella misura del 60%, ed il valore monetario del grado di invalidità permanente complessivamente residuato, stimato nella misura del 66,5%. La pronuncia veniva impugnata dalla società assicurativa presso la Corte d’Appello di Milano che nel 2017 rigettava il ricorso così motivando: “la sottrazione [ai fini del calcolo del danno deve] essere operata non già tra i diversi gradi di invalidi-

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tà permanente, bensì tra i valori monetari previsti in corrispondenza degli stessi” ed asserendo che detto criterio fosse il solo a consentire una monetizzazione equa ed effettiva dell’entità del danno biologico cosiddetto differenziale. La società assicurativa impugnava infine per Cassazione la sentenza della Corte d’Appello, esitando la vicenda giudiziaria nell’oggetto del presente commento. Nel ricorso la società assicurativa prospettava che le lesioni patite dalla vittima in occasione dell’evento del 2004 fossero inquadrabili, in riferimento agli esiti del pregresso traumatismo, come “coesistenti” e non come “concorrenti” dato il riconoscimento, già nella sentenza del Tribunale di Lecco e poi della Corte d’Appello di Milano, della non riconducibilità della protesizzazione dell’anca alle conseguenze del sinistro stradale. Su tale presupposto, ritenute le lesioni coesistenti non idonee ad aggravare lo stato preesistente, la compagnia di assicurazione concludeva che il danno biologico residuato fosse liquidabile con la monetizzazione del grado di invalidità micropermanente pari al 6,5%, con possibili aggiustamenti equitativi del risultato “per tenere conto dell’eventuale maggiore afflittivitá dei postumi, rispetto al caso in cui avessero attinto una persona sana”. La Corte di Cassazione, con sentenza dell’11 novembre 2019, nell’affrontare l’annosa questione della valutazione dello stato preesistente, muove innanzitutto da alcune precisazioni dottrinali in tema di accertamento del nesso di causalità materiale e giuridica; citando: “l’accoglimento d’una domanda di risarcimento del danno richiede l’accertamento di due nessi di causalità: a) il nesso tra la condotta e l’evento di danno – inteso come lesione di un interesse giuridicamente tutelato –, o nesso di causalità materiale; b) il nesso tra l’evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, o nesso di causalità giuridica”, ed ancora “la distinzione tra causalità materiale e giuridica (…) merita di essere in questa sede condivisa e confermata (…) perché è l’unica in grado di offrire un’appagante soluzione al delicato problema del concorso tra cause umane e cause naturali alla produzione dell’evento dannoso”. In ordine all’accertamento del nesso di causalità materiale, valutabile mediante l’applicazione dei criteri dettati dagli artt. 40 e 41 c.p., la III Sezione Responsabilità Medica 2019, n. 4


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Civile asserisce l’impossibilità di riduzione proporzionale della responsabilità del danneggiante, quando la condotta umana (imputabile) si inserisca su concausa naturale (non imputabile). Sono pertanto irrilevanti, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità materiale, eventuali preesistenze patologiche in capo alla vittima dell’evento lesivo che agiscano da concausa di lesione. Relativamente all’accertamento del nesso di causalità giuridica, in conformità ai criteri stabiliti dall’art. 1223 c.c., la valutazione delle conseguenze dell’evento lesivo in presenza di preesistenze patologiche deve attuarsi con l’applicazione del giudizio controfattuale, ovverosia, citando la sentenza: “lo stabilire col metodo c.d. della prognosi postuma quali sarebbero state le conseguenze dell’illecito, in assenza della patologia preesistente”. Tale metodologia consente, limitando il rischio di ricorrere ad astrazioni definitorie, la distinzione tra quadri patologici pregressi che abbiano o meno concausato ovvero aggravato la menomazione (cosiddette menomazioni policrone concorrenti vs menomazioni policrone coesistenti). In quest’ultima evenienza, dette menomazioni risultano irrilevanti ai fini della valutazione del grado percentuale di invalidità permanente e, di conseguenza, della liquidazione monetaria, non avendo concausato né aggravato i postumi in esito all’evento lesivo. Nell’alternativa ipotesi, appare invero decisiva la condivisione di una metodologia di accertamento che miri alla definizione concreta del danno biologico, conseguente all’illecito e alle eventuali condizioni patologiche preesistenti. Il concetto di “concretezza” è bene rimarcato dalla Corte che sul punto afferma che “all’accertamento concreto del grado percentuale di invalidità permanente sono infatti estranei i concetti di equità e di iniquità. L’equità è una regola di liquidazione del danno (…) non viene in rilievo quando si tratta di accertare i fatti” ed ancora “l’accertamento in facto della validità residuata all’infortunio è un accertamento concreto: è la descrizione di una condizione personale, che non può essere compiuta preoccupandosi se la percentuale espressa dal criterio adottato per la relativa quantificazione sia equa od iniqua. Spetterà all’organo giudicante, quando verrà il momento di convertire in denaro la stima compiuta Responsabilità Medica 2019, n. 4

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dal medico-legale, fare ricorso se del caso all’equità correttiva od a quella integrativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c.”. Tale assunto è di fondamentale importanza per gli obiettivi della sentenza: arginare la “fantasia degli autori” appartenenti alla dottrina medico-legale che, appellandosi al criterio di equità, sono intervenuti nel dibattuto tema della valutazione delle preesistenze, argomentando l’adesione al “metodo tradizionale” o “innovativo” di accertamento del danno biologico differenziale, ovvero formulando proposte personali ad hoc. I principali passaggi logici della sentenza mirano a distogliere lo specialista medico-legale dalla tentazione di sconfinare in materia di pertinenza del giudice, vale a dire nell’accertamento del nesso di causalità giuridica al fine di circoscrivere i postumi risarcibili ex art. 1223 c.c. Sul punto “nella stima del danno alla salute al medico-legale si demanda il prezioso compito di misurare l’incidenza della menomazione sulla vita della vittima (…) in punti percentuali (…) il grado percentuale di invalidità permanente non è che una unità di misura del danno, non la sua liquidazione. Quella misurazione non può dunque che avvenire al netto di qualsiasi valutazione giuridica circa l’area della risarcibilità, onde evitare che delle preesistenze si finisca per tenere conto due volte: dapprima dal medico – legale, quando determina il grado di invalidità permanente; e poi dal giudice, quando determina il criterio di monetizzazione dell’invalidità”. In conclusione, ciò che è demandato allo specialista medico-legale è la definizione, senza variazioni rispetto alle percentuali indicate dai barèmes medico-legali, del grado di invalidità permanente complessivo presentato dal danneggiato in esito all’evento lesivo e del grado di invalidità permanente antecedente ad esso. Ai fini della identificazione dei postumi risarcibili sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. il giudice, assistito da una puntuale descrizione dell’iter logico seguito dallo specialista medico-legale, provvede alla liquidazione del danno biologico sottraendo il valore monetario corrispondente all’invalidità permanente pregressa all’evento lesivo, al valore monetario corrispondente all’invalidità permanente complessiva, essendogli comunque riservata la


L’accertamento medico-legale delle preesistenze di malattia

possibilità di ricorrere a valutazioni equitative ex art. 1226 c.c. I punti cardine della sentenza in oggetto vengono ad essere così riassunti dallo stesso Relatore: 1) Lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella derivata; 2) La concausa di lesioni è giuridicamente irrilevante; 3) La menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall’illecito; 4) Saranno “coesistenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno, invece, “concorrenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi; 5) Le menomazioni coesistenti sono di norma irrilevanti ai fini della liquidazione; né può valere in ambito di responsabilità civile la regola sorta nell’ambito dell’infortunistica sul lavoro, che abbassa il risarcimento sempre e comunque per i portatori di patologie pregresse; 6) Le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione: a) stimando in punti percentuali l’invalidità complessiva dell’individuo (risultante, cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata all’illecito) e convertendola in denaro; b) stimando in punti percentuali l’invalidità teoricamente preesistente all’illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale; c) sottraendo l’importo (b) dall’importo (a); 7) Resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all’equità correttiva ove l’applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.

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Formulate tali considerazioni, la Corte di Cassazione con la presente sentenza rigettava il ricorso mosso dalla società assicurativa, rappresentando che all’esito dell’accertamento medico-legale le menomazioni preesistenti al sinistro stradale del 2004 risultavano possedere carattere di concorrenza e, pertanto, nella liquidazione del danno biologico come definita dalla Corte d’Appello di Milano era correttamente applicato il criterio sovra esplicitato.

3. Il ruolo del medico-legale alla luce della recente giurisprudenza Inserendosi nell’articolato percorso evolutivo dottrinale, la sentenza dell’11 novembre 2019, n. 28986 ha il pregio di pronunciarsi in modo piuttosto netto soprattutto nella definizione del ruolo del medico-legale quando chiamato, in veste di consulente tecnico del giudice, ad esprimersi sull’accertamento del danno biologico permanente in soggetto con pregresse menomazioni. Particolare insistenza è posta sulla caratterizzazione dell’accertamento tecnico di competenza dello specialista; accertamento, come si è detto, concreto, da condursi sulla base di comprovate conoscenze scientifiche ed esperienziali, compiendo un netto discrimine tra l’ambito di pertinenza tecnica medica (i.e. la puntuale descrizione ed apprezzamento del grado di invalidità permanente della vittima di illecito) e l’ambito di pertinenza giuridica (i.e. la definizione della quota di danno risarcibile). Alla luce delle conclusioni espresse dalla sentenza, affini al “metodo innovativo” di apprezzamento delle preesistenze, è tuttavia possibile individuare nel testo alcuni passaggi che arridono ai presupposti dottrinali del cosiddetto “metodo tradizionale”, in particolare: “la salute (…) è un bene inesauribile” ed ancora, dopo aver citato i Criteri applicativi della tabella di cui al D.M. del 03.07.2003, “quando si deve stimare il grado percentuale di invalidità permanente sofferto da persona già invalida prima del sinistro, deve tenersi conto delle rinunce complessive cui questa sarà soggetta, senza pretendere di dividere l’essere umano in porzioni anteriori e posteriori al sinistro”. Tali rimandi risultano in apparente possibile Responsabilità Medica 2019, n. 4


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contrasto con la summa conclusiva della sentenza, ove il criterio liquidativo del danno biologico è esplicitato nella differenza tra i valori monetari corrispondenti al grado di “invalidità permanente” – antecedente e successivo – all’illecito (sic! senza alcun cenno al “danno biologico”), laddove lo scorporare le voci di danno in fase liquidatoria sembrerebbe ammettere, de facto, che il bene salute non sia inesauribile, ove la persona offesa non risulta più foriera della sua “valetudo 100”. Urge allora sottolineare in questa sede come l’accertamento medico-legale del danno biologico sia cosa altra rispetto sia all’accertamento del grado di “invalidità permanente” antecedente e successivo all’illecito, poggiando su presupposti dottrinali e giuridici completamente differenti (e ben noti da decenni!)2 che della sua liquidazione; nel primo contesto, la puntuale descrizione delle condizioni patite dalla vittima in esito all’evento lesivo e delle “menomazioni preesistenti” è da condursi mediante valutazione complessiva sull’essere umano e sul suo stato di salute pari a 100, in entrambe le occasioni (ante e post iniuriam) . Spetterà invece al giudice il compito di circoscrivere quale sia l’effettiva entità del danno risarcibile, ricorrendo, peraltro, alla correzione equitativa qualora la rigida applicazione del calcolo differenziale conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto. Quando lo specialista medico-legale è chiamato a fornire descrizioni particolareggiate inerenti allo stato di salute anteriore all’illecito, emerge poi l’inevitabile difficoltà di desumere – spesso in modo solo presuntivo – informazioni in tal senso. Oltre a ciò, particolarmente arduo risulterà incasellare in termini rigorosamente percentuali il complesso, soventemente pluri-patologico, delle preesistenze laddove, per le ragioni esposte sopra, non sarà possibile esprimersi in termini meramente descrittivi.

Osservatorio medico-legale

Pertanto, oltre a mirare alla circoscrizione del ruolo del medico-legale nei giudizi in tema di preesistenze – in cui il consulente tecnico contribuisce apportando concretezza (ed oggettività) accertativa – la sentenza fa trasparire, talora con palesi ed inopportune invasioni “di campo”, la sempre attuale questione della necessità, per lo specialista, di solida formazione giuridica ed aggiornamento scientifico continuo, di modo che la corretta valutazione dello stato anteriore complessivo, pur gravata dalle notorie difficoltà già citate, divenga infine agevolmente risolvibile. In quest’ottica, coerentemente con i principi illustrati a livello nazionale ed internazionale nel novero della letteratura scientifica, la “rielaborazione” dell’attuale sistema di operatività in tema di valutazione del danno alla persona non può prescindere dalla preliminare identificazione di “Modello Guida”, volto a garantire l’incremento della qualità, dell’appropriatezza e della sicurezza dei servizi assistenziali forniti al cittadino, la tutela dei diritti e della professionalità degli operatori sanitari, nonché il contestuale contenimento dei costi sostenuti. È ad oggi unanimemente condiviso, sia a livello internazionale che nazionale, il principio guida di pratica medico-sanitaria basata sulle “Evidenze” (c.d. Evidence Based Medicine), ovvero fondata sull’applicazione delle migliori metodologie, conoscenze e prassi operative derivanti dal consenso della Comunità Scientifica e Professionale di riferimento e basate su dati scientifici oggettivi, consolidati e comprovati a livello di efficacia (c.d. “Piramide delle Evidenze”, di crescente oggettività e valore probatorio). Nel rispetto del metodo scientifico, la prassi operativa medico-legale deve “ispirarsi” a raccomandazioni metodologiche espresse in documenti elaborati dalla comunità scientifica in forma di “Linee Guida” e “Standard operativi” (nazionali3 e sovra-nazionali4), espressione della sintesi epicri-

3

Per tutti vedi Buzzi, Domenici, Simla, Linee Guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico, Milano, 2016. 2

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Cfr. nt. 3.

Ferrara et al., Padova Charter on personal injury and damage under civil-tort law: Medico-legal guidelines on methods of ascertainment and criteria of evaluation, in International Journal of Legal Medicine, 2016, 1 ss.

4


L’accertamento medico-legale delle preesistenze di malattia

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tica di dati scientifici di massima qualità desunti dalla letteratura. Al fine di minimizzare l’attuale eterogeneità valutativa e massimizzare la capacità preventiva ed oggettiva della valutazione medico-legale del danno alla persona è imprescindibile il rispetto delle predette linee guida metodologico-accertative e criteriologico-valutative soprattutto da parte dei professionisti sanitari implicati nell’accertamento e nella valutazione di casi di danno alla persona in veste di consulenti tecnici e/o periti. A tal proposito si evidenzia l’importanza di attenersi a linee guida nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale da parte degli esercenti le professioni sanitarie, peraltro recentemente sottolineata dal legislatore con la legge n. 24/2017, cosiddetta “Legge Gelli-Bianco”.

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