Ditri 4/2020

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Vol. XXX - Agosto

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

4

Rivista bimestrale

Vol. XXX - Agosto 2020

4

Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2020

In evidenza: • Cinque quesiti in tema di “contraddittorio endoprocedimentale” tributario

Salvatore La Rosa • La grande illusione? L’autonomia differenziata nel tunnel della centralizzazione statalista

Andrea Giovanardi • Le sanzioni per le violazioni commesse in materia di agevolazioni fiscali per ricerca e

sviluppo. Dalla prassi interpretativa alla ricostruzione teorica (e non viceversa) Christian Califano • Il (discutibile) coordinamento tra sequestro e confisca per reati tributari e procedure

concorsuali alla luce del codice della crisi d’impresa Simone Francesco Cociani

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini



Indici DOTTRINA

Christian Califano

Le sanzioni per le violazioni commesse in materia di agevolazioni fiscali per ricerca e sviluppo. Dalla prassi interpretativa alla ricostruzione teorica (e non viceversa)..................................................................................................................... I, 353 Simone Francesco Cociani

Il (discutibile) coordinamento tra sequestro e confisca per reati tributari e procedure concorsuali alla luce del codice della crisi d’impresa....................................... III, 101 Andrea De Lia

Notazioni in ordine ai riflessi penal-fallimentari delle operazioni “infragruppo” e “infra-aggregato”, con particolare riferimento alla questione della rilevanza del transfer pricing........................................................................................................... I, 373 Andrea Giovanardi

La grande illusione? L’autonomia differenziata nel tunnel della centralizzazione statalista....................................................................................................................... I, 321 Biagio Izzo

La tassazione “in uscita” dei Trusts ai fini dell’imposta sulle donazioni nella giurisprudenza di legittimità: lux (quasi) facta est (nota a Cass. civ., sez. V, 8 maggio 2019 - 21 giugno 2019, n. 16701).............................................................................. II, 190 Salvatore La Rosa

Cinque quesiti in tema di “contraddittorio endoprocedimentale” tributario............ I, 295 La tassazione delle distribuzioni da trust esteri. Position paper. STEP Italy........... V, 63 Andrea Perini

Crisi di liquidità e reati tributari: l’omesso versamento dell’Iva alla vigilia dell’entrata in vigore del Codice della crisi........................................................................... III, 129 Mario Ravaccia

La cessione a titolo oneroso della posizione processuale e l’interpretazione della realtà economica sottostante (nota a Corte giustizia UE, sentenza 17 ottobre 2019, sez. II, causa C-692/17).................................................................................... IV, 108 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Gaetano Ragucci.......................................................................................... III, 101


II

indici

Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 99 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 63

Gli articoli e le note pubblicati nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR e sono stati valutati positivamente da Nicolò Abriani, Massimo Basilavecchia, Andrea Carinci, Mario Esposito, Paolo Patrono, Dario Stevanato, e Tiziana Vitarelli.

INDICE ANALITICO

IMPOSTE INDIRETTE Imposta sulle successioni e le donazioni - Vincoli di destinazione –– Presupposto impositivo – Trasferimento effettivo di ricchezza – Trust – Atto istitutivo – Atto di dotazione – Insussistenza – Attribuzioni al beneficiario – Sussistenza (Cass. civ., sez. V, 8 maggio 2019 - 21 giugno 2019, n. 16701, con nota di Biagio Izzo)............................................................................................................................. II, 179

IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Rinvio pregiudiziale – Cessione di posizione processuale – Direttiva 2006/112/ CE - Operazione esente ex art. 135 lett. b) o lett. d – Natura della operazione interessata – Cessione di immobile o cessione di bene immateriale – Imponibilità (Corte giustizia UE, sentenza 17 ottobre 2019, sez. II causa C-692/17, con nota di Mario Ravaccia)...................................................................................................... IV, 99

INDICE CRONOLOGICO Corte giustizia UE., sez. II 17 ottobre 2019 – causa C-692/17............................................................................. IV, 99

***

Cass. civ., sez. V 8 maggio 2019 - 21 giugno 2019, n. 16701............................................................... II, 179


indici

III

Elenco dei revisori esterni Nicolò Abriani - Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Mario Bertolissi - Andrea Carinci - Alfonso Celotto – Marco Cian - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Giuseppe Corasaniti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico Eugenio Della Valle - Vittorio Domenichelli - Mario Esposito - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Gian Luigi Gatta - Emilio Giardina - Andrea Giovanardi - Alessandro Giovannini - Giuseppe Ingrao - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Alberto Marcheselli - Enrico Marello Giuseppe Marini - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Sebastiano Maurizio Messina - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Paolo Patrono - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Maria C. Pierro - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone – Barbara Randazzo - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Giovanni Strampelli - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Mauro Trivellin - Antonio Uricchio - Arianna Vedaschi - Paolo Veneziani - Marco Versiglioni - Antonio Viotto - Giuseppe Zizzo.



Dottrina

Cinque quesiti in tema di “contraddittorio endoprocedimentale” tributario* Sommario: 1. Gli attuali termini del dibattito sul diritto del contribuente al c.d. “contraddittorio endoprocedimentale”. – 2. I cinque quesiti: A) la doverosità del contraddittorio preventivo dipende (in tutto o in parte) dal diritto interno o da quello europeo? – 3. Segue: B) la problematica del contraddittorio endoprocedimentale tributario investe tutte le attività autoritative o solo alcune di esse? – 4. Segue: C) può veramente assumersi il contraddittorio a fase interna del procedimento amministrativo tributario? – 5. Segue: D) l’esigenza del contraddittorio amministrativo tributario deve essere soddisfatta solo in presenza di norme primarie che lo richiedono espressamente? – 6. Segue: E) la c.d. “prova di resistenza” attiene alla formale invalidità del provvedimento o al merito del suo contenuto? – 7. Osservazioni conclusive. In questo lavoro, vengono distintamente focalizzate le cinque questioni teorico-sistematiche che alimentano il dibattito sulla necessità o meno che dagli Uffici finanziari venga sempre attivato il contraddittorio con il contribuente, prima dell’adozione di provvedimenti lesivi dei suoi diritti ed interessi. Ad avviso dell’Autore, tale necessità sussiste soltanto per gli accertamenti delle imposte dirette, dell’IVA e dei dazi doganali. Essa di per sé discende dalla natura giustiziale e dalle finalità principalmente sanzionatorie della funzione della quale in questo campo sono investiti gli Uffici finanziari; e si traduce nell’obbligatorietà della valutazione anche degli errori ed omissioni eventualmente commessi dal contribuente in proprio danno, quando da esso addotti o comunque riscontrati. Ritiene infine l’Autore che, cosi identificate le implicazioni dell’audiatur et altera pars nella fase amministrativa, le inosservanze del relativo principio normalmente esorbitino dall’area delle irregolarità procedimentali, in quanto incidenti sul merito del provvedimento adottato; e possano essere fonte di responsabilità processuale aggravata per la P.A quando non supportate da valide ragioni. This work distinctly focuses on the five theoretical-systematic questions that feed the debate on whether or not the financial offices must always activate the contradictory with the taxpayer, before adopting measures that are detrimental to his rights and interests. In the Author’s opinion, this need exists only for tax-assessments of direct taxes, VAT and customs duties. In itself, it derives from the judicial nature and the sanctioning purposes of the administrative functions in this field; and it is also reflected into the mandatory evaluation of errors and omissions that may be committed by the taxpayers to their own detriment, when they are adduced or otherwise encountered. Finally, the author believes that, having thus identified the implications of the audiatur et altera pars principle in the


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Parte prima

administrative phase, the non-compliance with this principle normally does not concern the area of procedural irregularities, but the matter of the provision adopted; and it may be source of aggravated procedural responsibility for the Public Administration when not supported by valid reasons.

1. Gli attuali termini del dibattito sul diritto del contribuente al c.d. “contraddittorio endoprocedimentale”. – Benché molto sia già stato detto e scritto su tale discussa problematica (1), non sembra che su di essa possano dirsi sinora conseguiti risultati generalmente condivisi, e tanto meno compiutamente persuasivi. Come è noto, quel dibattito ha preso le mosse dal rilievo di una discrepanza tra gli orientamenti che esisterebbero nel diritto europeo (ove quel diritto discenderebbe da un principio generale) e le norme tributarie vigenti nel diritto interno (ove esso sarebbe invece riconosciuto soltanto da disposizioni settoriali); e penso che i principali referenti giurisprudenziali e teorico-sistematici dell’attuale e conseguente problematica possano essere sintetizzati nei seguenti termini. A) Quanto agli orientamenti giurisprudenziali, è noto che la generalizzata necessità del contraddittorio preventivo tributario ha avuto il suo primo ed autorevole riconoscimento giurisprudenziale ad opera della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 19667/2014, concernente le iscrizioni ipotecarie effettuabili dagli Agenti della riscossione sui beni dei contribuenti morosi. In essa si osservava infatti che tale iniziativa, “…in quanto destinata ad incidere in modo negativo sui diritti e gli interessi del contribuente, deve essere a quest’ultimo comunicata prima di essere eseguita, in ragione del dovuto rispetto del diritto di difesa, mediante l’attivazione del “contraddittorio endoprocedimentale”, che costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento cui dare attuazione anche in assenza di una espressa e specifica previsione normativa…”; ma, a distanza di poco più di un anno, le medesime Sezioni Unite hanno poi non poco circoscritto (con la sentenza n. 24823/2015) l’area di operatività di quel riconoscimento, limitandone la riferibilità al solo campo dei tributi “armonizzati” al livello europeo.

* In ragione della particolare autorevolezza del contributo, la Direzione della Rivista, all’unanimità, ha ritenuto non necessario il referaggio esterno. (1) Per ampi riferimenti bibliografici e giurisprudenziali sul tema, cfr., per tutti, S.F. Cociani, Il contraddittorio preventivo e la favola di Fedro della volpe e della maschera da tragedia, in Riv. Dir. Trib., 2018, I, 89 ss.


Dottrina

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Si affermava infatti in tale sentenza che “…differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi ‘non armonizzati’, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi ‘armonizzati’, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (2). Infine, la Cassazione medesima ha poi operato un ulteriore “aggiustamento” di questa soluzione, escludendo dalla sfera di operatività della c.d. “prova di resistenza necessaria” anche gli accertamenti relativi ai tributi “armonizzati”, quando esistono norme interne che per l’inosservanza del preliminare contraddittorio con il contribuente prevedono la sanzione della nullità; la quale dovrebbe quindi in tali casi ritenersi riferibile agli accertamenti concernenti i tributi sia “armonizzati” che “non armonizzati” (3).

(2) Cosi, Cass. SS.UU. 9 dicembre 2015, n. 24823, nonché le conformi Cass. nn. 2875/2017, 10030/2017, 20799/2017, 21071/2017, 26943/2017, 998/2018, 18390/2018. (3) Cfr. Cass., 15 gennaio 2019, n. 701, così massimata: “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 (cd. Statuto del contribuente), nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, opera una valutazione ‘ex ante’ in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l’atto impositivo emesso ‘ante tempus’, anche nell’ipotesi di tributi ‘non armonizzati’, senza che, pertanto, ai fini della relativa declaratoria debba essere effettuata la prova di ‘resistenza’, invece necessaria, per i soli tributi ‘armonizzati’, ove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio


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B) Alle vicende giurisprudenziali così sinteticamente richiamate è rimasta del tutto estranea l’area degli accertamenti relativi ai dazi doganali (di per sé costituenti risorse proprie dell’Unione Europea), benché proprio a tale settore disciplinare attenessero le sentenze della Corte di Giustizia, e malgrado l’esigenza del preliminare contraddittorio con il contribuente sia in tale campo avvertita in misura certamente non minore di quanto avvenga in quelli delle imposte dirette e dell’IVA. Per gli accertamenti dei suddetti tributi, si è invece sviluppato e consolidato, nella giurisprudenza della Cassazione, un orientamento settoriale, secondo il quale l’esigenza del preliminare contraddittorio con il contribuente avrebbe dovuto ritenersi di per sé soddisfatta dall’esperibilità dei preliminari e facoltativi ricorsi amministrativi di cui all’art. 11, comma 7, del D.Lvo 374/1990 (4); e soltanto ad opera dell’art. 92, comma 1, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (dopo le iniziali incertezze suscitate dalla pronuncia della Corte di Giustizia sul caso Sopropè (5)) è poi stato inserito, nel corpo del suddetto art. 11, un comma 4

con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., nel caso di accertamenti cd. a tavolino), ipotesi nelle quali il giudice tributario è tenuto ad effettuare una concreta valutazione ‘ex post’ sul rispetto del contraddittorio”. Conformi, Cass., 10 maggio 2019, n.12451 e Cass., 11 settembre 2019, n. 22644. (4) Sul punto (da ultimo, e con ampi riferimenti ai precedenti giurisprudenziali) cfr. Cass. n. 2175/2019, così massimata: “Agli avvisi di rettifica in materia doganale precedenti all’entrata in vigore del d.l. n. 1 del 2012, conv., con modif., in l. n. 27 del 2012, non si applica l’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, perché, in tale ambito, opera lo ‘ius speciale’ di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990, nel testo vigente ‘ratione temporis’, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento anticipato rispetto alla formazione dell’atto definitivo, che può essere impugnato in sede giurisdizionale, non sussistendo violazione né dei principi unionali né degli artt. 3 e 24 Cost., perché il procedimento previsto dall’art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990 tutela il diritto del contribuente al contraddittorio preventivo e, dunque, il suo diritto di difesa endoprocedimentale”. Si noti, tuttavia, che l’art. 12, comma 1, lett. b) del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, ha abrogato il suddetto comma 7, nel corpo dell’art. 11 del d.lgs 374/1990. (5) …emblematicamente attestate dalle opposte soluzioni adottate nelle sostanzialmente coeve sentenze della Cassazione 9 aprile 2010, n. 8481 (nella quale la Corte affermò che “… pur non dubitandosi dell’applicabilità retroattiva delle sentenze interpretative della Corte di Lussemburgo, vi è…da rilevare che il principio affermato dalla Corte riguarda una formalità procedimentale la cui osservanza generalizzata non era richiesta dalla prassi della Commissione europea, né dalla giurisprudenza comunitaria, oltre che…. da specifiche norme comunitarie. Considerato che l’applicazione del principio ai processi in corso comporterebbe una generale caducazione di qualunque decisione doganale sfavorevole all’importatore, con pesantissime ricadute su una fondamentale risorsa del bilancio comunitario, questa Corte ritiene che l’affidamento… delle autorità doganali nazionali su una prassi comunitaria che non considerava necessario assicurare un contraddittorio nella fase amministrativa, non possa


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bis, dal tenore per molti versi coincidente (6) con quello dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente. Per quanto consta, non sono state ancora adeguatamente colte, nella giurisprudenza, le implicazioni di tale innovazione normativa; nella quale può tuttavia ravvisarsi un passo di non lieve importanza nella direzione del superamento di una ormai anacronistica soluzione nella quale veniva impropriamente considerato “endoprocedimentale” un contraddittorio che avrebbe dovuto invece dirsi “postprovvedimentale”; in quanto successivo al compiuto esercizio della funzione impositiva e volto alla verifica della correttezza o meno del provvedimento impugnato. C) L’intrinseca complessità di queste soluzioni ha già determinato l’insorgere di diverse censure di incostituzionalità, per l’irragionevolezza delle discriminazioni tra accertamenti relativi a tributi “armonizzati” o “non armonizzati”, conseguenti a verifiche aziendali o effettuati “a tavolino” in Ufficio, concernenti ipotesi tipiche o atipiche di elusione fiscale, ecc.; le quali, tuttavia, sono sinora sfociate in pronunce dichiarative della loro inammissibilità (7), o di rigetto per infondatezza del loro contenuto (8).

comportare, per le decisioni doganali assunte prima della sentenza Sopropé, l’invalidità di tali atti…”) e 11 giugno 2010, n. 14105 (di annullamento, invece, di una ingiunzione di pagamento non preceduta dal preliminare contraddittorio perché “…il rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente presente nel codice doganale comunitario, costituisce… un principio riaffermato incondizionatamente dalla Corte di Giustizia con la recente sentenza 18 dicembre 2008 un C-349/07 (Sopropè-Fazenda Pubblica) nella quale si afferma (par. 35) che il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione (in via preventiva) ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo…”). (6) …pur se con assegnazione al contribuente di un termine di termine di trenta giorni (invece che sessanta) dalla consegna del verbale conclusivo dei controlli, per far valere le proprie ragioni prima dell’emissione del provvedimento impositivo. (7) …per inadeguatezza della descrizione della fattispecie controversa o mancata individuazione della norma censurata, cfr. Corte Cost. 13 luglio 2017, nn. 187, 188 e 189, nonché Corte Cost. 31 gennaio 2020, n. 8. (8) Cfr. Corte Cost. 11/7/2018, n. 152 (in Giur. Cost., 2018, p. 1669 ss., ed ivi La Rosa, In tema di tasse automobilistiche regionali e di contraddittorio preventivo tributario), con la quale sono state rigettate le censure di incostituzionalità – sollevate dal Governo centrale anche in relazione agli artt. 3 e 97 e per violazione del diritto dei contribuenti al preventivo contraddittorio – di una norma regionale siciliana che aveva accorpato nelle cartelle di pagamento le funzioni relative all’accertamento ed alla riscossione delle tasse automobilistiche regionali.


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Ed una particolare attenzione merita la sentenza con la quale il Giudice delle leggi ha disatteso (con il supporto di ampia motivazione), la censura di incostituzionalità (sollevata dalla Corte di Cassazione, e per violazione degli artt. 3 e 53 Cost.) dell’art. 37 bis del DPR 600/1973, nella parte in cui disponeva (per i soli comportamenti elusivi ivi previsti) la sanzione della nullità degli accertamenti non preceduti dall’assegnazione al contribuente di un apposito termine per far valere in sede procedimentale le proprie ragioni sugli addebiti formulati dall’Ufficio (9). Quanto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., si osservava in essa che “…la sussistenza di un orientamento non isolato della stessa Corte di Cassazione che tende a riconoscere forza espansiva alla regola contenuta nella norma denunciata, non consente di ritenere esistente un diritto vivente in base al quale gli atti impositivi… si debbano considerare validi anche se emessi in violazione della regola contenuta nella stessa norma…”; e veniva esclusa la configurabilità di una violazione dell’art. 53 Cost. nella previsione della sanzione di nullità per gli accertamenti emessi ante tempus osservando che “…la sanzione della nullità dell’atto conclusivo del procedimento assunto in violazione del termine stesso trova… ragione in una divergenza dal modello normativo che, lungi dall’essere qualificabile come meramente formale o innocua, o di lieve entità, è invece di particolare gravità, in considerazione della funzione di tutela dei diritti del contribuente…”. D) Per completezza del quadro di riferimento, merita infine di essere segnalato che con l’art. 4 octies della recente L. 28 giugno 2019, n. 84 (di conversione del precedente D.L. 30 aprile/2019, n. 34) sono state emanate nuove disposizioni (rubricate “Invito obbligatorio”, e non poco diverse da quelle contenute nell’art. 11 dell’originario decreto legge, ove erano rubricate “Obbligo di invito al contraddittorio”), sostanzialmente animate dall’intento, per un verso, di circoscrivere drasticamente l’area di operatività di tale fase dell’attività amministrativa (limitandone l’applicazione ai soli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA diversi da quelli “parziali” o non preceduti dal rilascio dal P.V. di constatazione di violazioni), nonché, e, per altro verso, di ricondurre tale contraddittorio all’interno del procedimento di definizione degli accertamenti per adesione ex D.Lvo n. 218/1997 (10).

(9) Cfr. Corte Cost. 7 luglio 2015, n. 132. (10) Si riporta, come segue, il testo integrale delle suddette nuove disposizioni: “Al decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, sono apportate le seguenti modificazioni:


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Ma si tratta di disposizioni sulla cui proficuità già da più parti sono stati avanzati dubbi e riserve di diverso ordine (11); ed il cui contenuto (sul quale si tornerà più avanti) fa comunque ragionevolmente prevedere l’insorgenza di ulteriori e sempre più complesse questioni. Sembra, in definitiva, che con il passar degli anni il dibattito sul c.d. “contraddittorio endoprocedimentale” tributario si stia sempre più sfilacciando in una miriade di questioni settoriali (grandi e piccole, sostanziali e processuali, de iure condito e de iure condendo, di diritto interno ed europeo, ecc.) che ne annebbiano i referenti di fondo, non poco alimentando le probabilità che il tutto si risolva, non solo in un inutile spreco di risorse materiali ed intellettuali, ma anche (e come si

b) prima dell’art. 6 è inserito il seguente: Art. 5 ter – (Invito obbligatorio) – 1. L’ufficio, fuori dei casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, prima di emettere un avviso di accertamento notifica l’invito a comparire di cui all’articolo 5 per l’avvio del procedimento di definizione dell’accertamento. 2. Sono esclusi dall’applicazione dell’invito obbligatorio di cui al comma 1 gli avvisi di accertamento parziale previsti dall’art. 41-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.600, e gli avvisi di rettifica parziale previsti dall’art. 54, terzo e quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633. 3. In caso di mancata adesione, l’avviso di accertamento è specificamente motivato in relazione ai chiarimenti forniti e ai documenti prodotti dal contribuente nel corso del contraddittorio. 4. In tutti i casi di particolare urgenza, specificamente motivata, o nelle ipotesi di fondato pericolo per la riscossione, l’ufficio può notificare direttamente l’avviso di accertamento non preceduto dall’invito di cui al comma 1. 5. Fuori dai casi di cui al comma 4, il mancato avvio del contraddittorio mediante l’invito di cui al comma 1 comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato. 6. Restano ferme le disposizioni che prevedono la partecipazione del contribuente prima dell’emissione di un avviso di accertamento”. (11) Per prime osservazioni critiche, cfr. Deotto, Una finta semplificazione che si applicherà in casi residuali, in Il Sole 24 Ore del 29 aprile 2019, 17; Farri, Considerazioni “a caldo” circa l’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dal Decreto Crescita, in Riv. Dir. Trib., supplemento online 4 luglio 2019; Fazio, L’obbligo di consegna del processo verbale di constatazione e il diritto al contraddittorio endoprocedimentale: note critiche ad un recente orientamento giurisprudenziale di legittimità, in Riv. Dir. trib., 2019, II, part. 221 ss.; Ragucci, Partecipazione e contraddittorio nei procedimenti tributari, in Accordi e azione amministrativa nel diritto tributario, Atti del Convegno tenutosi a Catania il 25/26 ottobre 2019, Pisa, 2020, 33 ss.; Farri, Il nuovo invito al “contraddittorio” nel prisma della legge n. 241/1990, in Accordi, ult. cit., 209 ss.; G. Moschetti, Premesse valoriali e quadro costituzionale del “diritto al contraddittorio”: le soluzioni “proporzionate” dell’esperienza tedesca, in Accordi, ult. cit., part. 237 ss.


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osserverà in chiusura) in una sostanziale compromissione proprio degli auspicati spazi riservabili al contraddittorio tra Uffici finanziari e contribuenti. Nelle pagine che seguono, si cercherà quindi di passare velocemente in rassegna, e porre distintamente a fuoco (pur se in termini certamente suscettibili di maggiori e più analitiche riflessioni), i profili propriamente tecnicogiuridici delle cinque ed interconnesse questioni di fondo che stanno alla base di questa ancora controversa problematica. 2. I cinque quesiti: A) la doverosità del contraddittorio preventivo dipende (in tutto o in parte) dal diritto interno o da quello europeo? – Nella prospettiva anzidetta, occorre anzitutto interrogarsi sul se la problematica relativa al preliminare contraddittorio con il contribuente sia veramente condizionata (in tutto o in parte) dal diritto europeo. La diffusa attenzione della dottrina e della giurisprudenza per la prospettiva europea è stata invero essenzialmente generata (e poi alimentata) da due autorevoli sentenze della Corte di Giustizia (12) nelle quali, in termini generalissimi, si afferma (nella prima) che “…il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo…”, e si aggiunge (nella seconda) che “…Il giudice nazionale, avendo l’obbligo di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, può nel valutare le conseguenze di una violazione dei diritti della difesa…tenere conto della circostanza che una siffatta violazione determina l’annullamento della decisione adottata al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso…”. Nella valutazione dell’impatto sul diritto interno di queste due pur autorevoli pronunce occorre però evitare le frettolose enfatizzazioni, e prestare invece la dovuta attenzione al fatto che entrambe investivano il solo campo dei dazi doganali; i quali costituiscono risorse proprie dell’Unione Europea; sono regolati da disposizioni (contenute nel Codice doganale comunitario) che riservano integralmente agli Stati membri (ex art. 220) la disciplina delle modalità appli-

(12) Ci si riferisce a Corte di Giustizia UE 18 dicembre 2008, C349/07 – 527/06 (Sopropè), in Rass. Trib. 2009, 570 ss. (ed ivi, G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario), nonché Corte di Giustizia UE 3 luglio 2014, C 129/13, C130/13 (Kamino).


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cative del tributo; e relativamente alle quali, oltretutto, il sindacato della Corte di Giustizia non poteva andare oltre la sottolineatura (contenuta in chiusura della sentenza Kamino) del fatto che “…le condizioni in cui deve essere garantito il rispetto dei diritti della difesa e le conseguenze della violazione di tali diritti rientrano nella sfera del diritto nazionale, purché i provvedimenti adottati in tal senso siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)…”. In particolare, nessun riferimento è in tali pronunce contenuto a settori delle discipline nazionali diversi da quello dell’accertamento dei dazi doganali; né in esse ricorrono interpretazioni vincolanti di specifiche disposizioni europee; ed anche le affermazioni sulla conformità al diritto dell’Unione di una disciplina portoghese che aveva determinato l’assegnazione al contribuente di un termine di soli otto giorni per far valere le sue ragioni sulla regolarità di N. 52 distinte operazioni doganali – ovvero sull’essere il vincolo della c.d. “prova di resistenza” di per sé giustificato dall’incombenza sui giudici nazionali dell’“…obbligo di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione…” – appaiono riferibili soltanto ai dazi doganali, ed all’intento di assicurarne l’ordinato e sollecito afflusso alla finanza dell’Unione; non anche a quello di subordinare in ogni caso l’esercizio dei poteri autoritativi tributari al preliminare contraddittorio con il destinatario degli emittendi provvedimenti. Più in generale, ed in punto di refluenze delle pronunce delle Corti europee sulle discipline interne italiane, merita di essere richiamata l’attenzione sul fatto che, nelle disposizioni della UE, il diritto dei cittadini ad essere ascoltati dagli Uffici amministrativi (prima dell’adozione di decisioni potenzialmente lesive dei loro interessi) trova riscontro soltanto nella generale enunciazione di cui all’art. 41 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo; che, dal punto di vista dei rapporti tra le discipline tributarie italiane ed i diritti fondamentali dell’Uomo, nessuna incidenza sul nostro ordinamento ha sinora avuto la ben più rilevante sentenza della CEDU sul c.d. caso Ravon, in ordine alla necessità che venga garantito il diritto alla difesa giurisdizionale immediata nei confronti degli atti dispositivi di perquisizioni domiciliari per verifiche fiscali (13); e che nell’ordinamento italiano, paradossalmente, al preliminare contraddittorio con il contribuente continua ad essere riservata, nel campo degli accertamenti

(13) Cfr. la sentenza della CEDU 21 febbraio 2008, n. 18497.


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doganali, una attenzione decisamente minore di quanto riscontrabile per quelli concernenti le imposte dirette e l’IVA (14). In definitiva, deve ritenersi fonte soltanto di ingiustificate complicazioni l’evocazione del diritto europeo, o di altri Stati della UE, in relazione ad una problematica che più proficuamente potrebbe e dovrebbe affrontarsi soltanto sul versante del diritto interno italiano (15). 3. Segue: B) la problematica del contraddittorio endoprocedimentale tributario investe tutte le attività autoritative o solo alcune di esse? – Si deve verosimilmente all’aprioristica correlazione del contraddittorio “endoprocedimentale” al diritto di difesa (16) l’essere stata la sua obbligatorietà occasionalmente affermata per le iscrizioni ipotecarie nei confronti dei contribuenti morosi e per le cartelle di pagamento relative a tasse automobilistiche; ma sta di fatto che (per quanto risulta) l’esigenza in questione non è mai stata evocata nei confronti dei provvedimenti dispositivi di ispezioni fiscali e indagini bancarie, e normalmente rivendicata soltanto per gli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA, invece che anche per gli accertamenti catastali, o delle imposte di registro e sulle successioni; per quanto anche questi ultimi provvedimenti possano talora gravemente pregiudicare i diritti e gli interessi del contribuente. A fronte di questa circoscrizione fattuale del dibattito al solo campo degli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA, appare necessario chiedersi se essa dipenda o meno dalle peculiarità disciplinari delle relative attività amministrative; e, ad avviso di chi scrive, a questo quesito dovrebbe rispondersi affermativamente, essendo non lieve la disomogeneità funzionale dei momenti di autorità che si esprimono (malgrado la formale identità delle etichette) negli accertamenti catastali e delle imposte sui trasferimenti da un lato, ed in quelli delle imposte dirette e dell’IVA (oltre che dei dazi doganali) dall’altro. La prima tipologia di attività amministrativa tipicamente si correla, infatti, soltanto a vicende qualificative e modificative degli assetti patrimoniali dei

(14) Per un esempio emblematico, cfr. Cass., 31 luglio 2019, n. 20603, confermativa della validità di un accertamento doganale in un caso in cui l’Agenzia aveva “…notificato insieme il pvc e l’avviso di rettifica…”. (15) Per ulteriori riflessioni nella medesima direzione, cfr. Fransoni, La parabola del contraddittorio, in Per un nuovo ordinamento tributario, Atti del Convegno tenutosi a Genova il 14/15 ottobre 2016, Padova, 2019, vol. II, part. 977-978. (16) …che, in realtà, non dovrebbe mai evocarsi per il campo degli accertamenti tributari, essendo tali provvedimenti sempre immediatamente impugnabili avanti i giudici tributari.


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contribuenti (la natura dei beni immobili posseduti, la vendita, la successione, ecc.); in essa, hanno normalmente modesta rilevanza le questioni probatorie dei fatti, mentre assumono preminente rilievo quelle relative alla loro qualificazione giuridica ed alla valutazione estimativa dei beni; la legge (pur ponendo a carico dei contribuenti obblighi di dichiarazione e – talora – anche di versamento diretto) istituzionalmente riserva soltanto agli Uffici finanziari il compito di procedere, caso per caso, alla determinazione degli imponibili e delle imposte dovute (nelle diverse forme delle imposizioni principali, complementari e suppletive, ecc.); tali attività ricadono quindi nell’area della c.d. “amministrazione attiva”; e non sono facilmente ipotizzabili spazi per forme di vero e proprio contraddittorio preventivo rispetto all’assolvimento dei loro compiti da parte degli Uffici medesimi, perché a fronte dell’esercizio di funzioni amministrative sostanzialmente officiose sono configurabili, nel cittadino, soltanto interessi oppositivi; i quali sono di per sé suscettibili di forme di tutela (sia amministrativa che giurisdizionale) soltanto successive, e sempre “postprovvedimentali”. Nel campo della imposte dirette e l’IVA, invece, l’azione amministrativa altrettanto tipicamente si correla all’estremamente variegata molteplicità dei fatti posti in essere dal contribuente in ciascun periodo d’imposta, e che hanno anche una loro autonoma rilevanza fiscale (sia positiva che negativa) ai fini della determinazione del dovuto; le loro modalità applicative sono fondate sul principio della c.d. “autotassazione” (ossia, dell’essere istituzionalmente devoluto al contribuente il compito di procedere – in prima battuta - alla determinazione e al versamento del dovuto); l’attività amministrativa è in questo campo sempre selettiva, parcellizzata e mai definitiva (in quanto reiterabile, negli ordinari termini decadenziali di legge, nei casi di successiva emersione di nuovi elementi); essa è accompagnata da sanzioni amministrative mediamente maggiori del tributo evaso (nonché, e nei casi più gravi, da sanzioni penali), le quali denotano le finalità principalmente sanzionatorie dell’azione amministrativa; e sfocia in provvedimenti il cui vero oggetto è già stato da tempo autorevolmente identificato (pur se con riferimento ad analoghi assetti normativi del passato) nella “fattispecie dell’evasione” (17). Tali interventi autoritativi si traducono quindi in provvedimenti (non di accertamento di imposte dovute, ma) con i quali viene contestata e quantificata l’evasione fiscale attuata dal contribuente (in ciascun periodo d’impo-

(17) Cfr. Capaccioli, L’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1966, I, part. 5.


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sta) attraverso le irregolarità di volta in volta rilevate nel suo operato; tali provvedimenti assumono i connotati tipici dell’“amministrazione giustiziale” proprio perché costituenti autoritative risposte – con finalità principalmente sanzionatorie – a comportamenti ritenuti contra legem e a situazioni obiettivamente conflittuali; e si debbono proprio a queste peculiari caratteristiche della funzione amministrativa, per un verso, la settorializzazione e la reiterabilità del suo esercizio (nei prescritti termini decadenziali, e per un medesimo periodo d’imposta, ma per fatti diversi) in dipendenza della progressiva emersione di irregolarità tributarie, nonché (e per altro verso), la crescente attenzione per la contestabilità dell’operato degli Uffici finanziari, da parte dei contribuenti, anche sulla base di elementi (di fatto o di diritto) diversi da quelli dichiarati o da essi riscontrati; ma che al tempo stesso riducono, o totalmente assorbono, la rilevanza delle irregolarità contestate. Non è invero evasore fiscale chi può dimostrare che, al di là della fondatezza o meno delle irregolarità contestate, ha comunque versato quanto doveva per ciascun periodo d’imposta, o ha sottratto alla finanza pubblica importi minori di quelli pretesi dall’Ufficio (18); a questa fondamentale esigenza di giustizia fiscale è già stato dato autorevole avallo giurisprudenziale dalle Sezioni Unite della Cassazione quando hanno avuto occasione di sancire il generale principio per il quale, nel campo delle imposte periodiche, “…il contribuente,… in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, allegando errori di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione incidenti sull’obbligazione tributaria…” (19); tale principio (20) è poi stato anche testualmente recepito (21) negli artt. 2, comma 8 bis e 8, comma 6 quinquies, del DPR n.

(18) …poiché, ad esempio, pur avendo interamente versato il dovuto, non ha regolarmente assolto gli obblighi di dichiarazione e versamento (per disguidi informatici, dimenticanza, errore di intestazione, utilizzo di codici tributo erronei, ecc.), o non ha fatto valere, in dichiarazione, tutti i diritti a deduzioni, detrazioni e trattamenti agevolativi che avrebbe potuto esercitare, o è incorso in irregolarità (sia favorevoli che sfavorevoli) le cui implicazioni sostanziali si compensano reciprocamente, ecc. (19) Così, Cass. SS.UU. 30 giugno 2016, n. 13378. (20) …già di per sé desumibile dal chiaro testo degli artt. 38 e 39 del DPR n. 600/1973 (per le imposte dirette) e 54 del DPR 633/1972 (per l’IVA), nei quali l’esercizio del potere di rettifica delle dichiarazioni è testualmente riferito all’ammontare complessivo degli imponibili e delle imposte dichiarati dal contribuente. (21) … ad opera dell’art. 5, comma 1, del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, conv. in L. 1° dicembre 2016, n. 293.


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322/1998; e ad esso dovrebbe quindi guardarsi come ad un naturale corollario proprio della natura obiettivamente giustiziale (invece che di amministrazione attiva), della funzione che gli Uffici finanziari in questi campi sono chiamati ad esercitare (22). Sembra quindi meritevole di condivisione l’espressa limitazione dell’area di operatività del contraddittorio preventivo tributario (nel nuovo art. 5 ter del D.Lvo n. 218/1997) ai soli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA; ma non certo anche la commistione della relativa disciplina con quella degli accertamenti con adesione, e (soprattutto) la formale esclusione dei c.d. “accertamenti parziali” (o conseguenti a verifiche fiscali) dalla suddetta sfera di operatività. 4. Segue: C) può veramente assumersi il contraddittorio a fase interna del procedimento amministrativo tributario? – Come già segnalato in apertura, i più recenti orientamenti giurisprudenziali della Cassazione (e peraltro dominanti in dottrina) sono nel senso del doversi ravvisare nel c.d. “contraddittorio endoprocedimentale” una fase interna (a seconda dei punti di vista, sempre necessaria, o talora non necessaria) del complessivo procedimento amministrativo tributario. Ma non può certo dirsi che di questa etichetta giuridico-sistematica siano state sinora fornite valide giustificazioni. E, di ciò, la ragione di fondo penso debba soprattutto ravvisarsi nel fatto dell’essersi in

(22) Giova ricordare, a tal proposito, che in passato, e proprio per la natura “giustiziale” della relativa attività amministrativa, i profili gestionali autoritativi dei tributi c.d. “senza accertamento” (IGE, imposte di bollo, concessioni governative, tasse automobilistiche, ecc.) erano riservati ad un ramo di Uffici (le Intendenze di Finanza) diverso e distinto da quello degli Uffici delle imposte dirette e indirette; ad Uffici che erano posti alle dipendenze della Direzione Affari Generali del Ministero delle Finanze (invece che di una delle Direzioni di amministrazione attiva); ad Uffici che avevano competenza esclusiva per l’irrogazione delle sanzioni amministrative tributarie parapenalistiche; e ad Uffici che tali competenze tributarie esercitavano tramite le “ordinanze” di cui all’art. 55 della L. 7 gennaio 1929, n. 4, invece che attraverso atti di accertamento delle imposte dovute. Restava invece riservata agli Uffici di amministrazione attività l’attività relativa alla riscossione coattiva (mediante ingiunzione fiscale) delle imposte e delle sanzioni così determinate. A seguito della Riforma tributaria degli anni settanta del secolo scorso, e dati gli obiettivi nessi esistenti tra gli adempimenti relativi alle imposte dirette e all’IVA, tutte le suddette competenze sono state gradualmente devolute ad uno stesso ramo dell’Amministrazione finanziaria. Ma i mutamenti avvenuti nella titolarità soggettiva delle competenze amministrative non dovrebbe far venir meno l’attenzione per la diversità dei peculiari contenuti delle funzioni amministrative tributarie.


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presenza di una nozione che è in realtà meramente descrittiva, sostanzialmente atecnica, e quindi anche fuorviante. Potrebbe forse dirsi, anzi, che essa si risolva in un sostanziale ossimoro, se si considera che: a) non si vede come possa validamente configurarsi un contraddittorio antecedente la formalizzazione della pretesa che dovrebbe costituirne l’oggetto; b) né dirsi “endoprocedimentale” un contraddittorio che (come in passato avveniva nel campo dei dazi doganali) è successivo ad un procedimento concluso ed a pretese tributarie già avanzate; c) né si comprende la proficuità dell’essere stato stabilito (nel nuovo art. 5 ter del D.Lvo 218/1997) che gli Uffici dovrebbero “invitare” il contribuente al contraddittorio prima della notificazione di un provvedimento già adottato, ed allo specifico fine del conseguimento della sua “adesione” al loro operato. Queste evidenti aporie in larga misura dipendono dalla non sempre adeguata percezione delle differenze intercorrenti tra i principi e le regole della “partecipazione” (ai procedimenti amministrativi) e quelli del “contraddittorio” (nei procedimenti contenziosi, sia giurisdizionali che amministrativi). A tal proposito (e senza poter qui entrare in maggiori svolgimenti), mi limiterei soltanto ad osservare che il primo ordine di regole è volto a consentire la partecipazione degli eventuali controinteressati, sin dall’inizio dello svolgimento dei procedimenti di amministrazione attiva, a tutela del generale interesse al buon andamento dell’azione amministrativa; mentre l’audiatur et altera pars è un fondamentale principio di giustizia, vincolante l’operato di quanti sono legittimati all’emissione di decisioni autoritative su conflitti intersoggettivi, o ad applicare misure sanzionatorie (sia penali che amministrative); ed è anche un principio che non necessariamente presuppone la preliminare convocazione del destinatario del provvedimento da adottare, assumendo invece specifica rilevanza ai fini della validità delle decisioni assunte sui conflitti medesimi (23). Dovrebbero quindi evitarsi le fuorvianti commistioni delle ben diverse prospettive della “partecipazione” (dei controinteressati) allo svolgimento dei procedimenti di amministrazione attiva, e del “contraddittorio” (tra gli interessati) quando vengono esercitate funzioni giurisdizionali o di amministrazione giustiziale; e, se si conviene sulla natura “giustiziale” (invece che di “amministrazione attiva”) degli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA,

(23) È superfluo dire che, per l’attività giurisdizionale, ciò anche testualmente risulta dall’art. 101, comma 1, c.p.c.


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l’attenzione dovrebbe essere rivolta, prima e più che al “quando” l’Ufficio è tenuto ad attivare il contraddittorio, alle ragioni ed alle finalità che lo giustificano, oltre che alla fonte, al contenuto ed agli effetti delle regole ad esso riferibili. Su questo versante, e con specifico riferimento all’attività giustiziale amministrativa, si aprono questioni teorico-sistematiche non poco delicate e complesse; relativamente alle quali, meritano comunque di essere qui sinteticamente richiamate le riflessioni svolte da un autorevole Maestro del diritto amministrativo in un suo risalente e corposo contributo (24), volto a dimostrare l’esistenza, nella complessiva “Organizzazione amministrativa dello Stato”, dei connotati propri di un vero e proprio “ordinamento giuridico”; di un ordinamento che, pur ricadendo all’interno del generale ordinamento giuridico statale, è al suo interno caratterizzato dalla compresenza di regole, organi e funzioni di tipo sia normativo che giurisdizionale e sanzionatorio; e di un ordinamento le cui conseguenti problematiche possono essere avviate a soddisfacenti soluzioni soltanto avendo cura di distinguere adeguatamente i piani dei discorsi che vengono in questione a seconda che si guardi alla natura ed agli effetti dei relativi atti all’interno dell’ordinamento amministrativo medesimo, ovvero nel quadro del generale ordinamento giuridico statale. In particolare (e con specifico riferimento all’attività giustiziale amministrativa), si osservava in tale contributo che essa costituirebbe una “…attività contenziosa riconosciuta come tale solo nell’ambito dell’amministrazione…”, ovvero una “…attività svolta da organi amministrativi che ha i caratteri dell’attività giurisdizionale, pur dovendosi considerare, secondo l’ordinamento generale, amministrativa…” (25), facendosi da tali notazioni discendere la riferibilità ad essa di non pochi profili disciplinari tipicamente processualistici, ivi compresa l’irrevocabilità delle decisioni assunte nell’esercizio di tali funzioni, in quanto “…l’organo che svolge una funzione di giustizia, dovendo determinare qual è la soluzione giusta, non può contemporaneamente ritenere che più soluzioni siano tali. Non può perciò ammettersi che successivamente, nell’esercizio di un jus poenitendi, lo stesso organo possa indifferentemente sostituire altra soluzione a quella adottata, revocando la decisione assunta…” (26).

(24) Cfr. V. Ottaviano, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, p. 825 ss., e poi ripubblicato in Scritti giuridici, vol. I, Milano 1992, 91-171. (25) Così, V. Ottaviano, op. cit., 125. (26) Così, V. Ottaviano, op. cit., 132.


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Avute presenti queste premesse sistematiche (che sarebbero certamente meritevoli di maggiori svolgimenti e approfondimenti), le implicazioni dell’operatività del principio del contraddittorio, nel campo che qui interessa, potrebbero e dovrebbero definirsi con un approccio non molto diverso da quello che dovrebbe sempre adottarsi quando si affrontano problematiche quali quelle dell’autotutela negativa tributaria o dell’autonomia procedimentale e processuale dei diversi accertamenti IVA e imposte dirette che possono susseguirsi per un medesimo periodo d’imposta; ossia, ravvisando nel mancato contraddittorio preventivo un vizio (della decisione) che, in quanto derivante dall’inosservanza di regole proprie della fase decisoria, non è annoverabile tra le violazioni di natura procedimentale, e non è di ostacolo all’apprezzamento giudiziale, nel merito, della fondatezza o meno delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto anche anteriormente far valere nella precedente fase amministrativa. Peraltro, spunti per proficue riflessioni in questa direzione possono indirettamente trarsi anche dal comma 5 del nuovo art. 5 ter del D.Lvo 218/1997 (richiamato in apertura), ove si dispone che l’inosservanza, da parte dell’Ufficio, del generalizzato obbligo di attivare il contraddittorio “…comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato…”, sembrando evidente (come meglio si dirà più avanti) che: a) l’invalidità del provvedimento non è ivi assunta a diretta, automatica e totalizzante conseguenza della mancata notificazione del pur obbligatorio “invito al contraddittorio”; b) ed è sempre subordinata, appunto, all’apprezzamento giudiziale della plausibile fondatezza, nel merito, delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto anche anteriormente far valere in sede amministrativa. 5. Segue: D) l’esigenza del contraddittorio amministrativo tributario deve essere soddisfatta solo in presenza di norme primarie che lo richiedono espressamente? – Nel quadro delle considerazioni sin qui sommariamente svolte, dovrebbero ritenersi già superate le bizantine distinzioni, ai fini della doverosità del preliminare contraddittorio, tra accertamenti “ordinari” o “parziali”, relativi a tributi “armonizzati” o “non armonizzati”, conseguenti a controlli effettuati in ambito aziendale o elaborati “a tavolino”, a P.V. contenenti rilievi fiscali o attestanti soltanto l’avvenuta esibizione di atti e documenti, ecc. Se si conviene, invero, sull’essere connaturato agli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA (e solo ad essi) il rispetto dell’esigenza dell’audiatur


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et altera pars, la sfera di operatività del relativo principio non può che essere generalizzata nel quadro delle regole proprie dell’azione amministrativa nel settore in questione, e suscettibile soltanto di limitazioni in negativo (invece che necessitante di positivi riconoscimenti) ad opera delle norme primarie; ed una indiretta conferma di ciò dovrebbe potersi già desumere, oltre che dagli effetti procedimentali che le norme primarie ricollegano alle finali dichiarazioni annuali dei contribuenti, anche dalla natura derogatoria e limitativa (se non proprio eccezionale) delle disposizioni con le quali (ad esempio) viene ad essi negata la possibilità, di avvalersi in proprio favore, e nelle successive fasi amministrative e contenziose, degli atti e documenti dei quali sia stata rifiutata l’esibizione in fase controllo (27), o viene subordinata la riconoscibilità dei c.d. “costi neri”, in fase di accertamento induttivo, al fatto che essi risultino “…da elementi certi e precisi…” (28), ecc. Sta però di fatto che gli orientamenti in atto dominanti, sia in dottrina che nella giurisprudenza, sono invece nel senso (ricordato in apertura) del doversi ritenere necessario il c.d. “contraddittorio endoprocedimentale” solo nei casi in cui esso è espressamente richiesto da norme primarie, a pena di nullità del provvedimento finale. Su questo ben diverso ordine di idee, un duplice ordine di aggiuntivi rilievi può a questo punto formularsi. A) Il primo attiene all’impossibilità di trarre dall’esistenza di talune eterogenee disposizioni (in vario modo imponenti la convocazione del contribuente prima dell’emanazione del provvedimento) la conclusione (come si legge in Cass. SS.UU. 24823/2015) che “…il contraddittorio endoprocedimentale in rapporto ad atti specifici, lungi dal poter assurgere ad indice dell’esistenza, nell’ordinamento tributario, di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, assume, ineludibilmente, la valenza opposta…”. Infatti, le disposizioni che in tal senso sono state dalla Cassazione analiticamente evocate ricadono nell’area delle sempre possibili e settoriali aperture normative alla partecipazione del contribuente al procedimento tributario; nella maggior parte dei casi attengono alle condizioni alle quali viene talora subordinata la rilevanza degli elementi indicativi di irregolarità fiscali; non sempre, né necessariamente, la loro inosservanza comporta la totale invalidità dei provve-

(27) Cfr. l’art. 32, commi 3 e 4 del DPR n. 600/1973, per le imposte dirette e l’art. 52, comma 5, del DPR 633/1972, per l’IVA. (28) Art. 109, comma 4, DPR n. 917/1986.


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dimenti viziati (29); né, per la loro settorialità, hanno molto a che fare con le generali esigenze giustiziali che stanno alla base del principio del contraddittorio; le quali sono da ravvisare nella necessità che le imposte evase vengano autoritativamente determinate tenendo conto, non solo delle irregolarità pregiudizievoli per il Fisco, ma anche degli errori ed omissioni nei quali il contribuente può essere incorso in proprio danno, se riscontrati o facilmente riscontrabili. E, su questi specifici aspetti, nulla dicono le analizzate disposizioni (30). B) Sotto altro profilo, la prospettiva sin qui delineata consente di avviare a più soddisfacenti soluzioni anche le questioni relative alla rilevanza riconoscibile, nell’ordinamento generale, agli atti interni (o comunque subprimari) con i quali l’Agenzia delle Entrate normalmente esercita il suo generale potere autorganizzativo in punto di disciplina dei rapporti tra gli Uffici periferici ed i contribuenti. L’esternazione (ed auspicabile pubblicizzazione) delle direttive date agli Uffici centrali a quelli periferici assume, invero, una particolare rilevanza quando debbono esercitarsi funzioni giustiziali in presenza di una molteplicità di elementi sia favorevoli che contrari agli interessi del contribuente; ed un opportuno punto di riferimento per riflessioni su questo aspetto può trarsi dalle vicende che hanno accompagnato la disciplina delle modalità attuative degli accertamenti sintetici ex art. 38, 4° comma, del DPR 600/1973. In tale articolo, infatti, solo con l’art. 22, comma 10, del D.L. n. 78/2010 (31) è stato introdotto un comma settimo, disponente (tra l’altro) l’obbligatorietà

(29) …poiché, ad esempio, sembra chiaramente da escludere che l’inosservanza degli obbligatori adempimenti preliminari alle rettifiche dei ricavi fondate su studi di settore o alle contestazioni dell’indeducibilità di costi black list, possa di per sé comportare il totale annullamento del provvedimento, quando contenente anche altri recuperi fiscali. (30) Per conclusioni vicine a quelle delineate nel testo (pur se supportate da diverse argomentazioni) cfr. Fransoni, La parabola del contraddittorio, cit. p. 981, ove si osserva che “…le uniche discipline davvero complete relative al contraddittorio sono quelle contenute nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente e nell’art. 16 del D.Lgs. n. 472 del 1997…”; ma, in realtà, la “richiesta di chiarimenti” di cui all’art. 10 bis della L. 212/2000 apre un “contraddittorio” circoscritto alle ragioni per le quali l’Ufficio ritiene configurabile un comportamento elusivo in talune operazioni (invece che alla complessiva fedeltà o infedeltà della sua dichiarazione); e le “deduzioni difensive” ex art. 16, comma 4, del D.Lvo 472/1997 sembrano da annoverare nell’area dei rimedi amministrativi “postprovvedimentali” nei confronti del già avvenuto (ed insuscettibile di reformatio in pejus) esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Ufficio, con l’atto di “contestazione” delle violazioni. (31) …che si apre con il seguente enunciato: “Al fine di adeguare l’accertamento sintetico al contesto socio-economico, mutato nel corso dell’ultimo decennio, e dotandolo di garanzie per il contribuente, anche mediante il contraddittorio… con effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in


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della preventiva convocazione del contribuente per il corretto esercizio del relativo potere da parte degli Uffici; ma la necessità del preliminare contraddittorio era già stata da alcuni anni espressamente riconosciuta dalla stessa Agenzia delle Entrate, nella Circolare 7 agosto 2007, n. 47/E (32); ed è avvenuto che, senza tenersi conto alcuno di tali precedenti direttive amministrative, si è consolidato, nella giurisprudenza della Cassazione, un orientamento secondo il quale, nel campo degli accertamenti sintetici, il preventivo contraddittorio con il contribuente dovrebbe ritenersi dovuto “…solo dal periodo d’imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle precedenti annualità sono legittimi anche senza l’instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale…” (33). Non è facile dire se, e quanto, sull’affermarsi di tale orientamento giurisprudenziale abbia influito l’intento di evitare generalizzati annullamenti degli accertamenti sintetici medio tempore effettuati. Certo è che a supporto delle soluzioni così raggiunte non potrebbe addursi l’efficacia soltanto interna delle direttive amministrative, poiché ciò può dirsi soltanto per le circolari interpretative delle disposizioni di legge; mentre l’inosservanza delle direttive regolatrici delle modalità di esercizio di poteri direttamente incidenti sui diritti e interessi legittimi del contribuente può assumere rilevanza – nell’ordinamento generale e sub specie di eccesso di potere – ai fini dell’annullamento dei provvedimenti emessi in violazione delle direttive medesime.

vigore del presente decreto…”. (32) …ove si diceva, al punto 4.2, che “per ciascun contribuente selezionato e inserito nel piano dei controlli sostanziali, al fine di valutare la complessiva posizione fiscale, è necessario preliminarmente notificare una comunicazione informativa circa gli elementi di capacità contributiva disponibili per i periodi d’imposta oggetto di controllo e del complessivo reddito complessivo netto accertabile determinato sinteticamente, con invito ad avvalersi della facoltà prevista dall’art. 38 – sesto comma – del d.P.R. n. 600 del 1973…”; che “…se ritenuto opportuno, sarà prevista la convocazione del contribuente in Ufficio; in tal caso, gli esiti del colloquio saranno raccolti in un verbale nel quale sarà dato atto della documentazione prodotta, delle argomentazioni e degli elementi forniti. Tale verbale costituisce documento formale nell’ambito del procedimento di accertamento…”; che (punto 4.3) “…Gli Uffici dovranno tenere presente ogni argomentazione ed elemento di valutazione forniti dal contribuente, al fine di pervenire a determinazioni reddituali pienamente convincenti… Gli Uffici dovranno esaminare la documentazione prodotta dal contribuente valutandone la probatorietà in relazione al possesso ed effettivo utilizzo nello specifico periodo d’imposta, nell’ambito del biennio oggetto di controllo di: redditi esenti; redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta…”, ecc. (33) Cfr., da ultimo ed ex multis, Cass., 3 luglio 2019, n. 17897, nonché Cass., 30 aprile 2019, n. 11428.


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Sembra, in definitiva, necessitante di auspicabili rimeditazioni l’assunto secondo il quale l’osservanza del principio del contraddittorio da parte degli Uffici finanziari (e nel campo degli accertamenti delle imposte dirette e dell’IVA), si imporrebbe solo se, e nella misura in cui, espressamente richiesta da norme primarie, in quanto, al contrario, le generali norme primarie possono soltanto comprimere e limitare quel contraddittorio (tra Uffici e contribuenti) che dovrebbe sempre osservarsi e le cui discipline attuative possono essere costituite anche dalle direttive interne date dall’Amministrazione Centrale agli Uffici periferici. 6. Segue: E) la c.d. “prova di resistenza” attiene all’invalidità formale del provvedimento o alla sua (totale o parziale) infondatezza nel merito? – Per completezza, e con riferimento alla fase propriamente giurisdizionale dei rapporti tributari, appare infine opportuno lo svolgimento di alcune riflessioni anche sulla c.d. “prova di resistenza” di cui al comma 5, del nuovo art. 5 ter del D.Lvo 218/1997, ove si dispone che “…il mancato avvio del contraddittorio mediante l’invito di cui al comma 1 comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato”. La formulazione di tale disposizione è quasi testualmente ripresa dal principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Cassazione in chiusura della sentenza n. 24823/2015, ove, tuttavia, la suddetta “prova di resistenza” veniva richiesta: a) per il solo campo dei tributi “armonizzati”; b) come conseguenza della diretta applicazione del diritto della U.E.; c) con riferimento ai soli accertamenti emessi ante tempus, in violazione del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della L. 212/2000; d) e nel presupposto logico-giuridico del doversi considerare sempre dovuto il rispetto di tale spatium deliberandi, a pena di nullità del provvedimento emesso, malgrado il silenzio (sul punto) della suddetta disposizione. Adesso, la medesima “prova di resistenza” risulta inserita in un contesto normativo molto diverso da quello precedente, in quanto essa: a) risulta indistintamente richiesta per gli accertamenti dei tributi sia “armonizzati” (e cioè per l’IVA) che “non armonizzati” (e cioè per le imposte dirette); b) con espressa esclusione degli accertamenti parziali o conseguenti a verifiche fiscali; c) solo quando non sia stato avviato quel preliminare contraddittorio che l’Ufficio deve obbligatoriamente promuovere; d) e con una invalidità del provvedimento che si concretizza solo se il contribuente impugna l’avviso di accertamento e dimostra le ragioni che avrebbe potuto far valere ove il contraddittorio fosse stato attivato.


Dottrina

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A fronte del così profondamente innovato assetto normativo, dovrebbe quindi dirsi ormai superata l’antecedente divaricazione (in fase processuale) tra contraddittorio preventivo in materia di tributi “armonizzati” e “non armonizzati”, essendo le nuove norme indistintamente riferibili sia agli uni che agli altri; e sembrano anche da escludere sia l’evocabilità del paradigma della “prova di resistenza” di cui all’art. 21 octies della L. 241/1990 (34), sia la prospettabilità di questioni di riparto degli oneri probatori (35). Non pochi dubbi e problemi interpretativi sono però provocati dal fatto che quello così introdotto è in realtà un contraddittorio “postprovvedimentale” (in quanto successivo alla compiuta elaborazione del provvedimento da parte del competente Ufficio finanziario, anche se non ancora notificato), oltre che dalla testuale previsione dell’essere l’invalidità dell’accertamento subordinata (nei casi di omesso avvio del contraddittorio) all’impugnazione dell’atto ed alla dimostrazione delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere ove fosse stato attivato il contraddittorio. Invero, nell’ordinario lessico giuridico, quando la legge dispone che l’emissione di un determinato provvedimento deve essere necessariamente preceduta dalla notificazione di un certo “invito”, l’inosservanza di tale obbligo dovrebbe automaticamente comportare l’invalidità del provvedimento adottato; e l’essere stato nel caso di specie invece disposto che l’invalidità (per omesso invio dell’invito al contraddittorio) si concretizza “…qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere…” implicherebbe (a rigore) la facoltatività dell’adempimento omesso, e giudizialmente sindacabile la parziale o totale fondatezza, nel merito, delle ragioni vantate dal contribuente. Si è, in altri termini, in presenza di disposizioni obiettivamente antinomiche, presumibilmente frutto di difficili mediazioni tra diverse soluzioni normative (36), e le cui implicazioni interpretative ed applicative appaiono destinate ad impegnare non poco sia la dottrina che la giurisprudenza.

(34) …poiché il contraddittorio che qui interessa non riguarda violazioni di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, né inosservanze della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, né pone a carico dell’Amministrazione l’onere di provare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. (35) …in quanto esse di per sé attengono al campo delle regole processuali ed alle questioni di mero fatto, invece che anche di diritto. (36) …di per se stesse attestate dalle profonde diversità intercorrenti tra il testo dell’art. 11 dell’originario decreto legge n. 34/2019 (contenente, non solo una molto più articolata


Su queste molto problematiche prospettive applicative, mi limiterei quindi a formulare, in questa sede, un duplice ordine di veloci notazioni. A) Il primo attiene alla necessità di non sopravvalutare il profilo relativo all’“obbligatorietà” del preliminare “invito” al contraddittorio in questione (ed al suo ambito di operatività), in quanto espressamente finalizzato al conseguimento di un obiettivo (l’eventuale “adesione” del contribuente all’accertamento dell’Ufficio) che deve ritenersi egualmente perseguibile dal contribuente anche dopo la formale notificazione del provvedimento. Sembra, cioè, in proposito auspicabile l’affermarsi di un orientamento giurisprudenziale non molto diverso dalle posizioni già dalla Cassazione assunte in altre analoghe situazioni (37), e nel senso della non attribuibilità di una specifica rilevanza processuale alla genesi ed alla tipologia dell’accertamento emesso dall’Ufficio ed ai vizi che possono avere inficiato tale fase dell’azione amministrativa, nonché al fatto che il contribuente abbia aderito (o non aderito) al suddetto “invito”, alle ragioni che possono avere determinato sia l’uno che l’altro comportamento, ecc.; mentre dovrebbe tenersi ferma l’impossibilità, per l’Ufficio, di modificare in pejus (anche soltanto nei profili motivazionali) il già predisposto (ed ancorché non notificato) avviso di accertamento. Dal punto di vista del contraddittorio, non sono infatti ragionevolmente identificabili valide ragioni giuridico-sistematiche per la diversificazione dei riflessi procedimentali e processuali di identiche vertenze a seconda che l’Ufficio abbia predisposto avvisi di accertamento “normali” o “parziali”, inviato o non inviato l’“invito” al contraddittorio, faccia valere rilievi contestati a seguito di ispezioni fiscali o elaborati “a tavolino”, agisca a seguito di ispezioni concluse con o senza elevazione di addebiti fiscali, ecc.; e solo l’affermarsi di soluzioni interpretative che valgano ad escludere le irragionevoli discriminazioni scatu-

serie di disposizioni procedimentali, ma anche una espressa esclusione dell’ammissibilità dell’accertamento con adesione a seguito del pur obbligatorio “invito al contraddittorio”, e nessun riferimento alla c.d. “prova di resistenza” per il caso di omesso avvio del suddetto contraddittorio) e quello delle disposizioni poi definitivamente approvate dal Parlamento con la legge di conversione n. 84/2019. (37) Si pensi, ad esempio, al fatto che, in materia di accertamenti fondati su “studi di settore”, benché (ed a seguito di Cass. SS.UU. 18/12/2009, n. 26635) costituisca jus receptum la nullità dei provvedimenti non preceduti dal contraddittorio con il contribuente, è stata anche talora riconosciuta la possibilità, per l’Ufficio, di difendere il proprio operato sulla base delle relative risultanze anche con riferimento ad accertamenti standardizzati non preceduti dal preliminare contraddittorio (cfr. Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814 e 16 maggio 2018, n. 12020).


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renti dal tenore testuale delle nuove disposizioni può evitare l’insorgenza di altrimenti inevitabili questioni di incostituzionalità della disciplina in questione. B) Quanto alla c.d. “prova di resistenza”, giova puntualizzare che la sua introduzione nell’ordinamento italiano è stata il sostanziale frutto di un perseguito allineamento della disciplina italiana a quella vigente (soprattutto) nell’ordinamento tedesco, nel quale, però: a) esiste una puntuale, e molto articolata, disciplina della generale necessità della preventiva “audizione” del contribuente; b) e la “prova di resistenza” è in sede giurisprudenziale evocata a salvaguardia dell’interesse fiscale, nei casi in cui, pur non essendo state dall’Ufficio osservate quelle regole, il provvedimento adottato è dai giudici ritenuto comunque sostanzialmente corretto (38). A prima vista, potrebbe sembrare che l’esistenza di una puntuale disciplina del “diritto del contribuente ad essere sentito” (prima dell’adozione di provvedimenti incidenti sui suoi diritti ed interessi) diversifichi profondamente la situazione dei contribuenti tedeschi da quelli italiani; ma le cose non stanno in realtà in questi termini, poiché anche in quell’ordinamento, ed attraverso l’attribuzione di una valenza soltanto formale a quelle regole, viene di fatto escluso che l’inosservanza di esse possa di per sé determinare la nullità del provvedimento adottato, se il suo contenuto è poi dai giudici ritenuto sostanzialmente corretto; né pregiudica la possibilità che il contribuente faccia valere in giudizio le ragioni che avrebbe potuto far valere in sede amministrativa, per ottenere una più corretta pronuncia di merito. Vale a dire che le divergenze (tra quanto avviene nell’ordinamento tedesco ed in quello italiano) si collocano più sul piano complessivamente culturale che su quello propriamente normativo. In estrema sintesi, e tirando le fila delle risposte date ai diversi quesiti sin qui affrontati, sembra quindi auspicabile che l’osservanza del principio del contraddittorio (inteso come necessità che l’Ufficio tenga conto anche delle omissioni ed errori nei quali il contribuente può essere incorso in proprio danno) venga considerata comportamento sempre obbligatorio (dal punto di vista dell’ordinamento amministrativo) quando gli Uffici procedono alla contestazione di addebiti di evasione fiscale in materia di imposte dirette ed IVA; ma da annoverare al tempo stesso tra gli oneri di buona amministrazione nel qua-

(38) Per più ampie notazioni comparative sugli approcci degli ordinamenti italiano e tedesco alla problematica del contraddittorio preventivo tributario, cfr. G. Moschetti, Premesse valoriali, cit., part. 236 ss.


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dro dell’ordinamento generale dello Stato, in quanto non ostativo allo svolgimento di ogni difesa di merito da parte del contribuente in fase giudiziale, e possibile fonte di responsabilità processuale aggravata per la P.A. (se disatteso senza giustificato motivo), ovvero di nullità radicale del provvedimento nei casi di esercizio palesemente abusivo del potere amministrativo. 7. Osservazioni conclusive – Resterebbero da affrontare le questioni relative alle ragioni per le quali l’esigenza del “contraddittorio endoprocedimentale tributario” ha di fatto assunto, negli ultimi anni, la rilevanza che emerge dai dibattiti di dottrina e giurisprudenza; e penso di non andare molto lontano dal vero identificando tali ragioni nella parallela crisi dell’istituto della dichiarazione annuale, come referente essenziale dell’azione amministrativa tributaria. Da ormai non pochi anni, infatti, la centralità di quell’istituto (e delle connesse questioni relative alle distinzioni tra metodi più o meno analitici e/o induttivi di accertamento) è stata sempre più offuscata (39) da disposizioni che hanno, per un verso, notevolmente ampliato l’area degli obblighi informativi (infrannuali e telematici) gravanti sugli esercenti attività d’impresa o di lavoro autonomo, e, per altro verso, introdotto discipline (di c.d. “tax compliance”) (40) volte a favorire l’adeguamento “spontaneo” dei con-

(39) …sino al punto dell’essere stata talora prospettata la possibilità della soppressione del relativo obbligo per la maggior parte dei contribuenti. (40) … essenzialmente costituite dalla c.d. “dichiarazione dei redditi precompilata” (istituita dal D.Lvo 175/2014, fondata sugli elementi già posseduti dall’Agenzia delle Entrate, riservata ai percettori di redditi di lavoro dipendente, ed il cui acritico recepimento da parte degli interessati viene poi perseguito anche mediante intense campagne pubblicitarie), dalla profonda revisione della disciplina del c.d. “ravvedimento operoso” (operata dall’art. 1, commi 634 e ss., della L. 190/2014, e con la quale viene consentito ai contribuenti di rimediare alle pregresse irregolarità anche dopo essere stati “scoperti” dagli Uffici finanziari, e di ottenere un sensibile abbattimento delle sanzioni, se prestano acquiescenza alle relative pretese), e dagli “Indici Sintetici di Affidabilità fiscale”, (introdotti dalla L. n. 96/2017, e volti ad offrire agli esercenti attività d’impresa e di lavoro autonomo la conoscenza del punteggio di affidabilità/pericolosità riservato alla dichiarazione che si accingono a presentare, e la possibilità di migliorare la propria posizione esponendo in dichiarazione elementi positivi delle basi imponibili maggiori di quelli contabilizzati). In senso critico su tale new deal (e con riferimento soprattutto alla radicale modificazione della disciplina del ravvedimento operoso), cfr. Fantozzi, L’accertamento tributario dalla dichiarazione verificata all’esaltazione della compliance, in Per un nuovo ordinamento tributario, cit., 939 ss., ove ineccepibilmente si osserva che, con essa, “… si ritorna indietro di decenni…”, in quanto “…il contribuente, una volta presentata (o omessa) la dichiarazione,


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tribuenti a quel che da essi l’Ufficio ritiene di poter pretendere, sulla base di risultanze principalmente tratte dai sempre più ricchi archivi informatici dell’Anagrafe Tributaria. Vengono quindi privilegiati gli accertamenti “parziali” ed i “controlli incrociati” effettuati “a tavolino” dagli Uffici; le comunicazioni provenienti dai “terzi” (benché anch’esse potenzialmente inficiate da errori di ogni tipo) vengono considerate elementi di per se stessi più attendibili di quanto risulta dalle dichiarazioni dei contribuenti; praticamente mai vengono presi in considerazione gli errori nei quali il contribuente può anche essere incorso in proprio danno; e gli accertamenti degli Uffici (anche quando conseguenti a verifiche fiscali e formalmente “analitici”) si risolvono in sommatorie di addebiti spesso elaborati sulla base di ardite tesi giuridiche e supposizioni fattuali. È superfluo dire che tali unilaterali prassi operative, non solo tradiscono quelle finalità giustiziali che dovrebbero sempre animare l’esercizio del potere in questione (e di per se stesse richiederebbero che il contraddittorio si svolgesse sempre con i contribuenti interessati prima e più che con i “terzi” con i quali essi hanno avuto rapporti fiscalmente rilevanti), ma finiscono poi anche con il favorire l’introduzione di quelle deresponsabilizzanti misure di tax compliance che l’evasione fiscale in qualche modo legittimano, o risultano disorientanti per il contribuente. A quest’ultimo proposito (e facendo un banale esempio “di scuola”), si ipotizzi che il contribuente XY, esaminando la “dichiarazione precompilata” che l’Agenzia delle Entrate ha posto a sua disposizione, si accorga che in essa sono indicati: a) oneri deducibili per spese sanitarie in misura inferiore a quella risultante dalla documentazione in suo possesso; b) e redditi fondiari imponibili, per canoni locativi desunti dalle originarie pattuizioni negoziali, anch’essi minori di quelli effettivamente percepiti (in forza di successivi accordi) nel periodo d’imposta. Se (e nella misura in cui) tali divergenze si neutralizzano reciprocamente, la suddetta “dichiarazione precompilata” dovrebbe potersi dire comunque sostanzialmente corretta ed accettabile dal contribuente. Ma, in realtà, e quali che poi siano le soluzioni operative concretamente adottate, quel contribuente è di fatto comunque predestinato ad un contenzioso fiscale tanto incerto negli esiti finali, quanto sostanzialmente ingiustificato. Se, infatti, fiduciosamente recepirà la “dichiarazione precompilata” predisposta dall’Agenzia delle Entrate, dal Fisco potrà essergli successivamen-

attenderà l’eventuale esercizio dei poteri istruttori, e solo in tale caso provvederà ad integrare per ravvedimento la dichiarazione con sanzioni ridotte…” (ivi, 946).


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te contestata l’infedele dichiarazione dei canoni locativi; se, invece, curerà la presentazione di una personale dichiarazione difforme da quella “precompilata”, gli sarà certamente negata la deducibilità delle maggiori spese sanitarie denunciate rispetto a quanto acquisito dall’Anagrafe Tributaria; ed in entrambi i casi diverrà comunque destinatario di quei particolari avvisi di accertamento parziale “automatizzato” (nonché “centralizzato” e “di massa”) (41) che per tali ipotesi sono normativamente consentiti. Sarebbe in definitiva sotto ogni profilo auspicabile che il favor per la tax compliance cedesse il passo ad un recupero di attenzione per la centralità della dichiarazione annuale dei contribuenti nello svolgimento della naturale dialettica con gli Uffici finanziari.

Salvatore La Rosa

(41) In tali termini viene etichettato un particolare sottotipo di accertamento parziale, contraddistinto dal fatto dell’essere: a) emesso e notificato da un Ufficio (il Centro Operativo di Pescara) diverso da quello del domicilio fiscale del contribuente; b) fondato su elementi già posseduti dall’Anagrafe tributaria e presumibilmente derivante da algoritmi applicati ad aree più o meno vaste di contribuenti; c) normativamente previsto e genericamente regolato dall’art. 28, comma 2, del D.L. n. 78/2010, e successivo provvedimento attuativo dell’Agenzia delle Entrate n. 16271/2011; d) e caratterizzato da un riparto delle competenze amministrative per il quale, mentre è riservata all’Ufficio emittente la competenza relativa all’eventuale annullamento in autotutela del provvedimento, è invece devoluta in toto all’Ufficio del domicilio fiscale del contribuente la gestione del rapporto contenzioso avanti le locali Commissioni tributarie. Proprio come conseguenza di tale anomalo riparto delle competenze, negli avvisi notificati ai contribuenti non viene richiamata la possibilità che tali pendenze vengano definite mediante accertamento con adesione.


La grande illusione? L’autonomia differenziata nel tunnel della centralizzazione statalista Sommario: 1. Un dibattito aspro nei toni, fuorviante nei contenuti: se si prescinde dalle

bozze di intesa e dall’attuale assetto dei rapporti finanziari interterritoriali, si finisce per affermare, apoditticamente, che l’unico obiettivo dei progetti di autonomia differenziata sia l’ottenimento di maggiori risorse da parte delle regioni ricche a scapito dei territori più poveri. – 2. In realtà, i progetti di autonomia differenziata nascono dalla crisi del modello di federalismo solidaristico e cooperativo e dall’inidoneità della centralizzazione che ne è conseguita a ridurre il divario nord-sud. – 3. I misconosciuti contenuti delle bozze di intesa. Autonomia differenziata e finanziamento delle funzioni trasferite. La fase di avvio, a spesa storica, e gli strumenti del finanziamento delle materie assegnate, da individuarsi obbligatoriamente nelle compartecipazioni e/o nelle aliquote riservate. – 4. (Segue). Dalla spesa storica ai fabbisogni standard. La necessaria rideterminazione delle aliquote di compartecipazione e/o aliquote riservate. – 5. (Segue). Le clausole di garanzia. – 6. La questione centrale: meccanismo di funzionamento degli strumenti compartecipativi e risorse a disposizione delle regioni ad autonomia differenziata. – 7. Considerazioni conclusive. Malgrado il dibattito che ha accompagnato il varo dei progetti di autonomia differenziata di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, l’attenzione degli studiosi non si è concentrata a sufficienza sui contenuti delle bozze di intesa che le tre regioni hanno presentato al Governo. Di conseguenza, si è assistito ad accuse incentrate sull’assunto secondo il quale l’unico obiettivo dei proponenti fosse quello di appropriarsi di più risorse rispetto a quelle attualmente a disposizione. Il tentativo delle tre regioni del nord nasce invece dalla crisi del modello di federalismo solidaristico-cooperativo e dal conseguente accentramento che ne è derivato: a fronte di una situazione in cui i trasferimenti interterritoriali nord-sud sono particolarmente cospicui, l’efficacia della spesa sostenuta nelle diverse aree della nazione non è uniforme e l’evasione fiscale è maggiormente diffusa, in proporzione al valore aggiunto prodotto, nel Mezzogiorno del paese, il tentativo di ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia è l’unico strumento a disposizione per guadagnare in efficienza ed efficacia, per ottenere maggior crescita e, quindi, maggiori risorse, che potrebbero innescare virtuosi percorsi di sviluppo per tutto il paese. Le bozze di intesa sono in linea con gli anzidetti obiettivi e sono pienamente coerenti con i fondamenti dell’art. 116, terzo comma, Cost., rimanendo sul tappeto, a ben vedere, un unico vero problema, quello del funzionamento degli strumenti compartecipativi, se cioè gli stessi debbano consentire


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esclusivamente la copertura delle spese collegate alle funzioni trasferite o permettere alle regioni di appropriarsi degli eventuali surplus derivanti dall’incremento dei gettiti a sua volta connessi all’aumento del PIL regionale. Si è deciso, tuttavia, di prendere tempo, proponendo da parte governativa il varo di una legge quadro che, non affrontando l’anzidetto principale problema, si fa portatrice, trincerandosi dietro i principi di solidarietà e perequazione, di una visione fortemente accentratrice. Il tutto alla vigilia di una crisi epocale, che imporrebbe di puntare con convinzione sulle aree più produttive, le uniche in grado di fare da traino a tutto il paese, garantendone prima la sopravvivenza e poi il successo. Despite the debate that accompanied the launch of the differentiated autonomy projects of Veneto, Lombardia and Emilia-Romagna, the attention of scholars did not focus sufficiently on the contents of the draft agreements that the three regions presented to the Government. As a result, there have been accusations centered on the assumption that the proponents’ sole objective was to appropriate more resources than those currently available. The attempt of the three northern regions instead arises from the crisis of the model of solidaristic-cooperative federalism and the consequent centralization that has resulted: in the face of a situation in which the north-south inter-territorial transfers are particularly conspicuous, the effectiveness of the expenditure incurred in the various areas of the nation is not uniform and tax evasion is more widespread, in proportion to the added value produced, in the South of country, the attempt to obtain further forms and particular conditions of autonomy is the only tool available to gain efficiency and effectiveness, to obtain greater growth and, therefore, more resources, which could trigger virtuous development paths for the whole country. The draft agreements are in line with the aforementioned objectives and are fully consistent with the foundations of art. 116, third paragraph, of the Constitution, remaining on the carpet, in hindsight, a single real problem, that of the functioning of the co-participatory instruments, that is, the same should only allow the coverage of the expenses connected to the transferred functions or allow the regions to appropriate the any surpluses deriving from the increase in revenues in turn connected to the increase in regional GDP. It was decided, however, to take time, proposing by the government the passing of a framework law which, by not facing the aforementioned main problem, becomes the bearer, entrenching behind the principles of solidarity and equalization, with a strongly centralizing vision. All on the eve of an epochal crisis, which would require us to focus with conviction on the most productive areas, the only ones capable of driving the whole country, guaranteeing their survival first and then their success.

1. Un dibattito aspro nei toni, fuorviante nei contenuti: se si prescinde dalle bozze di intesa e dall’attuale assetto dei rapporti finanziari interterritoriali, si finisce per affermare, apoditticamente, che l’unico obiettivo dei progetti di autonomia differenziata sia l’ottenimento di maggiori risorse da parte delle regioni ricche a scapito dei territori più poveri. – Il dibattito sui profili finanziari dell’autonomia differenziata che ha fatto seguito al tentativo di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna di ottenere, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia


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è stato (utilizzo il passato prossimo, perché l’argomento sembra essere per il momento, quanto meno nel confronto mediatico, accantonato) aspro nei toni e imbarazzante nei contenuti. Aspro nei toni perché quanto è successo dopo il referendum ha risvegliato nel paese contrapposizioni e risentimenti che sembravano sopiti (1). Da una parte, la massiccia adesione al voto referendario del 22 ottobre 2017 è stata l’evidente segnale del malumore dei cittadini di Veneto e Lombardia che, recatisi in massa alle urne, hanno dato dimostrazione di ritenere, convintamente, che le funzioni richieste potrebbero essere gestite in modo più efficace ed efficiente dalla regione e che i trasferimenti interterritoriali dal nord al sud del paese non possano più essere sostenuti da un tessuto produttivo che, sottoposto ad un’imposizione fiscale e contributiva particolarmente pesante, non sta sicuramente vivendo un fulgido momento; dall’altra, si è registrato il fastidio di chi, stufo di essere dipinto come la palla al piede del paese (2), non accetta più le differenze nei servizi ricevuti da una pubblica amministrazione spesso inefficiente ed è convinto che il divario nasca dagli insufficienti investimenti nel Mezzogiorno, e, quindi, in definitiva, da un deficit di spesa pubblica (3).

(1) Non si può non citare in questa prospettiva quanto rilevato da L.A. Mazzarolli, Una voce fuori dal coro, perché … apertamente favorevole al regionalismo differenziato, in Atti del convegno Regionalismo differenziato: opportunità e criticità, Milano, 8 ottobre 2019, 57: «da che ho accettato di fare parte della c.d. “delegazione trattante” per il Veneto, deputata, appunto, a trattare con il Governo centrale per vedere attuato, per la prima volta, il disposto di cui all’art. 116, co. 3, Cost., mi è capitato, con un’inversione dell’onere della prova affatto peculiare, di essere da alcune parti riguardato, anziché come uno studioso di diritto costituzionale attirato dall’idea di vedere realizzata – anche con il suo contributo – la prima attuazione di un articolo della Costituzione, fino ad allora mai utilizzato, come un facinoroso arruffapopoli, da taluno qualificato addirittura come “terrorista”». (2) G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, BariRoma, 2019, 26, si riferisce esplicitamente alla «rinnovata enfasi sul “teorema meridionale”, cioè sulla descrizione del Mezzogiorno come terra della cattiva amministrazione e dello spreco di grandi risorse pubbliche». Sostanzialmente negli stessi termini dieci anni prima anche A.E. La Scala, La specialità statutaria alla prova del c.d. federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2009, I, 353-354, il quale, tuttavia, ravvisava nell’attuazione del federalismo un’opportunità di sviluppo per il sud e, quindi, di riduzione del divario. (3) Cfr., ex multis, L. Bianchi e M. Volpe, Regionalismo differenziato e diritti di cittadinanza in un paese diviso, in Riv. ec. del Mezzogiorno, 2019, fasc. 1, 4, i quali ritengono che si sia di fronte ad una «presunta ingiustizia fiscale sofferta dalle Regioni forti del paese», che, in realtà, nasconde la vera ingiustizia, quella della «spesa pubblica sperequata a sfavore del Mezzogiorno che pregiudica l’essenziale criterio di equità nell’accesso ai diritti di cittadinanza e la capacità di riequilibrio territoriale». A tale conclusione, gli Autori giungono tenendo conto dell’intera spesa pubblica, il che dà adito a notevolissime perplessità: «analizzando dunque,


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Fuorviante nei contenuti perché: i) si è scritto in più di un’occasione senza leggere/considerare le proposte delle tre regioni; ii) mai come in questa situazione è risultata evidente la necessità di un approccio multidisciplinare, rivelandosi necessariamente parziali e quindi distorsive le prospettive, isolatamente considerate, di costituzionalisti, tributaristi ed economisti; iii) ci si è spesso lasciati andare, anche per l’incandescenza politica delle questioni trattate, a generalizzazioni e semplificazioni che non hanno senz’altro influito positivamente sulla qualità scientifica del confronto di idee. Per quel che riguarda il primo aspetto, non hanno contribuito alla perspicuità del dibattito sui profili finanziari dell’autonomia differenziata le c.d. preintese, siglate tra Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e il Governo Gentiloni il 28 febbraio 2018, a pochi giorni dalle ultime elezioni politiche. Ed invero, l’art. 4, uguale per tutte e tre le regioni, stabiliva che le modalità di attribuzione delle risorse finanziarie necessarie all’esercizio di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sarebbero state determinate, in ultima istanza, «in termini: […] c) di fabbisogni standard, che dovranno essere determinati entro un anno dall’approvazione dell’Intesa, e che, progressivamente, entro cinque anni, dovranno diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato sul territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatto salvo l’attuale livello di erogazione dei servizi»: si trattava di previsione effettivamente molto discutibile nella parte in cui ancorava la determinazione dei fabbisogni standard anche al gettito dei tributi (4), tanto

oltre allo Stato, gli altri enti della PA [quali ad esempio gli Enti di Previdenza (come se la spesa per pensioni non dipenda dai contributi pagati sul territorio da dipendenti e datori di lavoro, n.d.a.) e il comparto del sistema sanitario che pesano circa il 46% e il 14% sul totale PA], le classifiche regionali risultano completamente diverse, smentendo la vulgata di un eccesso di spesa pubblica nelle Regioni meridionali. La spesa degli Enti di previdenza, infatti, favorisce in maniera consistente le Regioni in cui il tasso di disoccupazione è più basso». Analogamente, L. Bianchi e C. Petraglia, Facciamo i conti giusti sul regionalismo differenziato, in lavoce.info, 11 giugno 2019. Negli stessi termini anche Svimez, Audizione presso la Commissione (VI) Finanze della Camera dei deputati, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui sistemi tributari delle regioni e degli enti territoriali nella prospettiva dell’attuazione del federalismo fiscale e dell’autonomia differenziata, 10 dicembre 2019, 6 e s., reperibile nel sito www.lnx.svimez.info. (4) G. Viesti, op. cit., 27, rileva che «il gettito fiscale non è stato sinora considerato nei complessi calcoli del fabbisogno standard dei Comuni, collegati sempre e solo alle caratteristiche


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che, successivamente, non è stata riproposta nelle trattative con il Governo. Malgrado ciò, è accaduto che, anche dopo la pubblicazione delle bozze di intesa (5), si è continuato a criticare il progetto sul versante finanziario in ragione dell’anzidetta statuizione normativa, come se la stessa non fosse stata del tutto abbandonata (6). Di qui l’idea, continuamente ribadita, secondo la quale il vero ed unico fine delle regioni richiedenti sia sempre unicamente stato (e sia ancor oggi) quello dell’accaparramento di maggiori risorse, tanto da ipotizzarsi, da parte di un Autore, che il riferimento al gettito sia stato una sorta di espediente per crearsi un «tesoretto» da utilizzare per le più svariate (e non commendevoli) esigenze, tra cui anche, addirittura, le prebende elettorali (7).

territoriali e agli aspetti socio demografici della popolazione». Con esso, si concretizzerebbe la «secessione dei ricchi». Da segnalarsi che il fatto che i fabbisogni fossero, nell’originaria previsione, parametrati anche al gettito dei tributi è il principale elemento a sostegno della tesi che dà il titolo all’ormai famoso pamphlet, che è quindi totalmente disinnescato nella sua vis polemica dal suo subitaneo ritiro. (5) Il 15 febbraio 2019 il Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie ha pubblicato le bozze di intesa tra il Governo e le tre regioni nelle loro parti generali (laddove è compresa anche la norma finanziaria). Successivamente, la pubblicazione è avvenuta nel sito www.roars.it, accompagnate dal redazionale Ecco le carte segrete dell’autonomia differenziata: come Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna si preparano a frantumare il paese. (6) Cfr. G.M. Cipolla, Le aporie del regionalismo differenziato, in Rass. trib., 2019, 523. L’articolo è stato pubblicato nel mese di settembre del 2019, ben oltre quindi l’intervenuta pubblicazione delle bozze di intesa. Peraltro, che non si facesse più riferimento, giustamente, al gettito dei tributi erariali riferito al territorio è stato anche evidenziato l’11 aprile 2019, mi sia permesso di segnalarlo, da A. Giovanardi, Il processo di attuazione dell’autonomia differenziata: osservazione sui profili finanziari delle bozze di Intesa tra Stato e Regioni Veneto e Lombardia, Audizione presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali, il cui video è reperibile in rete. (7) G.M. Cipolla, op. cit., 523-524. L’Autore fonda sulla norma contenuta negli accordi preliminari con il Governo, non più attuale, come abbiamo visto, non solo l’osservazione secondo la quale «a dispetto della funzione redistributiva assicurata dai principi di capacità contributiva e progressività, il riferimento alla ricchezza prodotta nelle singole Regioni quale parametro per il finanziamento statale delle competenze differenziate da trasferire non potrà che acuire quella forbice che, ancora una volta paradossalmente, quegli stessi principi costituzionali, nell’ottica di garantire ed assicurare la coesione e la solidarietà sociale, si erano ripromessi di attenuare se non proprio di annullare», ma anche l’affermazione, per il vero grave, secondo la quale il vero obiettivo delle tre regioni sarebbe (stato) quello di ottenere maggiori risorse e non anche quello di gestire maggiori competenze. «Se questo è […] [e, invece, come si è visto, non è, n.d.a.] il quadro di riferimento» – continua Cipolla – «si può essere facili profeti nel prevedere che le quote dei tributi erariali da trasferire alle Regioni non saranno necessariamente utilizzate […] per assicurare nel territorio regionale l’esercizio delle competenze differenziate»,


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Con riferimento al secondo aspetto, il confronto di idee ha fornito la prova della sterilità dell’approccio che ritiene di poter prescindere da una chiara comprensione dell’attuale assetto dei rapporti finanziari tra gli enti che costituiscono la Repubblica. Prima di discettare dell’impatto sul principio di eguaglianza dei progetti di autonomia differenziata, occorrerebbe verificare se l’attuale situazione, particolarmente sperequata tra cittadini del sud e cittadini del nord, ne garantisca (o meno) una più sicura realizzazione (8).

che quindi non sarà una priorità, mirando invece le regioni a crearsi una «sorta di “provvista” (un tesoretto) da utilizzare per una delle disparate esigenze che si dovessero di volta in volta presentare ed in occasione di non casuali scansioni temporale (come, per tutte, il rinnovo dei consiglieri regionali)». Ma il prof. Cipolla non è isolato. Cfr. sul punto, senza pretesa alcuna di esaustività, M. Dogliani, Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, in Il Piemonte delle Autonomie, 8 febbraio 2019, in http:// piemonteautonomie.cr.piemonte.it, il quale, facendo riferimento, nel 2019, alla legge del 2014, dichiarata incostituzionale in parte qua con sentenza della Corte 25 giugno 2015, n. 118, in cui il Consiglio regionale del Veneto ha cercato di impostare uno dei quesiti referendari sul trattenimento dell’80 per cento dei tributi annualmente pagati dai cittadini veneti all’amministrazione centrale, definisce la proposta veneta, che non esiste nei termini indicati dall’Autore, dato l’intervento della Corte costituzionale, «proterva», con la conseguenza che «l’attribuzione di ulteriori competenze è un fronzolo per coprire queste verità»; M. Villone, Italia divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, Napoli, 2019, 37. La tesi è riproposta in modo estemporaneo anche da altri illustri giuristi: «il principio del libero mercato» – rileva G. Alpa, Giuristi e interpretazioni. Il ruolo del diritto nella società postmoderna, Genova, 2017, 122 – «è oggetto di autentica mistificazione: l’avvento di uno stato federalista è auspicato per poter avvantaggiare le regioni più ricche e produttive rispetto a quelle più povere e economicamente più deboli». Sempre lo stesso refrain insomma: i tentativi di federalizzazione sarebbero un sordido strumento per far prevalere gli egoismi dei più forti sull’inclusiva solidarietà che tiene conto anche dei diritti dei deboli. Come se le inaccettabili differenze tra nord e sud del paese non siano lì a dimostrare l’esatto contrario, e cioè a dire che gli assetti centralistici di certo non garantiscono quella convergenza territoriale che è a sua volta funzionale alla migliore realizzazione del principio di uguaglianza. Evidenzia invece che i criteri su cui si fondano le bozze sono molto lontani da più o meno convinte rivendicazioni regionali quale quella veneta sul trattenimento di parte del residuo, D. Girotto, L’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Tentativi di attuazione dell’art. 116, comma 3, e limiti di sistema, Torino, 2019, 168. (8) Il che non pare potersi agevolmente sostenere se si prende a riferimento quel che dice Svimez, Rapporto 2018. L’autonomia e la società nel Mezzogiorno, Bologna, 2018, 9 e s., laddove si rileva che nell’attuale contesto: i) «l’intensità della crescita occupazionale appare comunque troppo debole al Sud, insufficiente a colmare il crollo dei posti di lavoro avvenuto nella crisi»; ii) si assiste ad un vero e proprio dualismo generazionale, perché i giovani occupati sono sempre meno; iii) le famiglia in povertà assoluta e i lavoratori poveri aumentano; iv) la crisi demografica sta colpendo anche il sud; v) il divario nei servizi è sempre più ampio


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Per quel che concerne il terzo profilo, gli oppositori ai progetti delle tre regioni si sono spesso trincerati dietro ad apodittiche affermazioni secondo le quali la differenziazione di funzioni e competenze metterà in crisi l’unità del paese spaccandolo definitivamente in due (9). Non sono mancate nemmeno le critiche, quasi sempre generiche (10), all’efficacia e all’efficienza delle nuove

nei confronti dei servizi resi ai cittadini del nord, dato che «mancano (o sono carenti) diritti fondamentali: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia». Ancora, «l’intero comparto sanitario presenta livelli di prestazioni che sono al di sotto dello standard minimo nazionale», circostanza questa dimostrata dai dati sulla mobilità ospedaliera interregionale. Insomma, un vero e proprio bollettino di guerra, in assenza di autonomia differenziata; l’autonomia differenziata, però, peggiorerà la situazione!!! (9) Cfr., ex multis, M. Dogliani, Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, cit., 1, il quale osserva perentoriamente che «le richieste di maggiore autonomia da parte di alcune regioni potrebbero colpire […] le condizioni di vita dei cittadini italiani che vivono in altre regioni, fino a mettere in pericolo la stessa unità del paese»; E. Felice, L’autonomia contro il sud unisce destra e sinistra, in L’Espresso, 28 luglio 2019, 42-43, il quale curiosamente rimprovera i governatori delle regioni del nord che chiedono forme rafforzate di autonomia di pensare, proprio in ragione delle iniziative in cui si stanno impegnando, solo a se stessi (ed infatti, l’autonomia differenziata si fonderebbe secondo il professore siciliano, sull’ideologia leghista, la peggiore, «l’egoismo del più forte»), con la conseguenza che, per gli altri, le cose resteranno come prima, «solo con meno soldi»; M. Villone, Italia divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, cit., 39, secondo il quale il sud, nella prospettiva di coloro che vogliono l’autonomia differenziata, «è la palla al piede, la pietra che trascina verso il fondo. L’Italia non punta più ad essere la piattaforma logistica dell’Europa verso il Mediterraneo e l’Africa. Piuttosto la sua parte più avanzata vuole diventare un’appendice dei paesi europei dominanti. Il resto del paese si arrangi. Per questo bisogna staccare la locomotiva di testa del Nord dai vagoni più lenti». Interessante rilevare che il descritto timore di «compromettere la saldezza unitaria dello stato» è ben descritto, nel 1949, da L. Sturzo, La regione nella nazione (1949), Soveria Mannelli, 2007, 19, il quale scriveva che la decisione di non riconoscere il diritto agli statuti speciali a tutte le regioni derivava non dalla paura del salto nel buio, ma «da altro stato d’animo, quello di voler mantenere intiero e intatto il potere legislativo statale anche in materia locale, e il timore che dandolo alle regioni potesse venir meno quella uniformità di leggi che non solo ai bigotti e agli ignoranti, ma a molte persone illuminate sembra dover essere uno dei caratteri dell’unità nazionale». (10) Fa eccezione A. Petretto, La finanza delle regioni a statuto ordinario in attuazione della legge delega 42/2009 e il finanziamento del federalismo differenziato. Una premessa alla richiesta di autonomia rafforzata della Toscana, in IRPET, Osservatorio regionale sul federalismo, Nota 1, gennaio 2019, 6-7, in cui, a fronte delle richieste di quasi tutte le regioni di ottenere forme rafforzate di autonomia (di cui l’Autore dà conto), si rileva che «sarebbe opportuno che il Governo si dotasse di un sistema di valutazione oggettivo, basato su indicatori benchmark, che individuasse la legittimità della richiesta di maggiore autonomia» e che «è legittimo porre la questione se tutte queste argomentazioni (capacità di adattarsi alle peculiarità


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ripartizioni competenziali, fino ad arrivare addirittura a teorizzare, prescindendo anche qui dalla bozza di intesa predisposta dal Veneto, disponibile in rete nella versione consegnata il 23 settembre 2019 al Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Francesco Boccia (11), che l’epidemia di coronavirus Covid-19 dimostrerebbe che i nuovi assetti istituzionali (non ancora realizzati) non sarebbero in grado di rispondere in modo efficiente agli eventi straordinari, data l’evidente necessità in tali frangenti, mai messa in discussione negli articolati predisposti dalle tre regioni settentrionali, dell’intervento statale (12).

territoriali, livello di eccellenza raggiunto dalle regioni richiedenti, maggiore efficacia ed efficienza che le regioni destinatarie delle funzioni sarebbero in grado di ottenere, n.d.a.) siano effettivamente giustificate sul piano economico … e, quindi, siano da considerarsi tutte ammissibili in sede di valutazione circa l’effettivo interesse pubblico a che le regioni richiedenti si vedano riconosciute forme di federalismo differenziato». E ciò, è il caso di aggiungere, anche in ragione delle dimensioni troppo contenute di alcune delle regioni richiedenti. (11) È il caso di segnalare che nell’art. 5, co. 2, della bozza di Intesa della Regione Veneto consegnata il 23 settembre 2019 al Ministro Boccia si legge, nell’ultimo periodo, che «per il settore sanitario restano fermi i costi e i fabbisogni standard individuati annualmente con l’intesa sulle disponibilità finanziarie per il servizio sanitario regionale; in caso di mancata applicazione del criterio dei costi e fabbisogni standard le risorse sono assegnate secondo il criterio della quota capitaria», sicché non si riesce a capire come i progetti di autonomia differenziata possano impattare negativamente sulla gestione delle emergenze. (12) C. Buzzacchi, Coronavirus e territori: il regionalismo differenziato coincide con la zona gialla, in www.lacostituzione.info, 2 marzo 2020. L’Autrice, dopo aver rilevato che, «per ironia della sorte, le tre Regioni che sono più pesantemente colpite dall’emergenza sanitaria legata al virus Covid-19 sono le stesse che dal 2017 stanno percorrendo il cammino messo a disposizione dall’art. 116 Cost.»: i) argomenta come se le regioni interessate avessero preteso di occuparsi delle materie richieste nella loro interezza e non anche solamente, come è a voler leggere le bozze, solo di alcune funzioni e competenze; ii) dà per scontato che lo stato sia sempre in grado di rispondere all’emergenza sanitaria meglio delle regioni; iii) descrive le ovvie difficoltà che hanno affrontato i sistemi sanitari di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna come la prova della necessità del coordinamento dello stato, coordinamento che non è per nulla escluso (anzi) dai progetti di autonomia differenziata; iv) afferma apoditticamente che «l’art. 5 di tutte le proposte regionali ha finora dimostrato superficialità nella quantificazione delle risorse che occorrono affinché un territorio possa reggere una quantità di competenze come quelle che sono state richieste». Nutre dubbi sull’efficacia ed efficienza delle politiche autonomistiche anche E. Felice, op. cit., il quale teorizza che l’autonomia renderà meno controllata la potente autonomia regionale perché a livello locale la stampa non sarebbe altrettanto vigile, come risulterebbe dimostrato, l’esempio è perfino incomprensibile, dalla condanna all’ex governatore lombardo Formigoni.


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2. In realtà, i progetti di autonomia differenziata nascono dalla crisi del modello di federalismo solidaristico e cooperativo e dall’inidoneità della centralizzazione che ne è conseguita a ridurre il divario nord-sud. – Il dibattito, di cui si è data sintetica e non esaustiva esposizione, dimostra che non è con le ideologiche contrapposizioni «egoismo vs solidarietà» che si riesce ad ottenere un qualche risultato scientificamente rimarchevole, tanto più di fronte ad un innegabile dato di fatto: le regioni che sono più avanti nel processo di riconoscimento dell’autonomia differenziata, non a caso le tre più dinamiche e produttive del paese, stanno cercando di dare attuazione ad una norma costituzionale, l’art. 116, terzo comma, Cost., rispettandone i principi guida (13) e seguendo pedissequamente il procedimento individuato dalla legge (14). Piaccia o non piaccia, questo è il dato di partenza, non già se i più ricchi vogliano trattenere i soldi a scapito dei più poveri: questo sarebbe, al limite, un argomento per criticare i contenuti delle bozze di intesa (al limite, perché è del tutto naturale che ogni territorio cerchi di trattenere, fatta salva l’esigenza

(13) In tal senso, C. Tubertini, La proposta di autonomia differenziata delle Regioni del Nord: un tentativo di lettura alla luce dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, in www. federalismi.it, 26 settembre 2018, p. 21. (14) È il caso di ricordare che l’art. 1, co. 571, della l. 27 dicembre 2013, n. 147 stabilisce che «anche ai fini di coordinamento della finanza pubblica, il Governo si attiva sulle iniziative delle regioni presentate al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli Affari regionali ai fini dell’intesa ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione nel tempo di sessanta giorni dal ricevimento. …». La norma prefigura quindi il confronto come bilaterale e di iniziativa, in modo da arrivare ad un’intesa da sottoporre al voto parlamentare. Non va di certo sottaciuto, peraltro, che le indicazioni contenute nell’art. 116, terzo comma, Cost., sono particolarmente scarne, il che ha generato un importante dibattito, lo evidenzia D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, in Economia e società regionale, 2019, 96, sul ruolo del Parlamento (possibilità di modificare le intese), sulla possibilità di recepire le intese con legge delega, sulla durata delle intese. Sull’articolazione del procedimento previsto dall’art. 116, terzo comma, Cost., cfr. anche S. Mangiameli, L’attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, con particolare riferimento alle iniziative delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (novembre 2017), in www.issirfa.cnr.it/stelio-mangiameli-l-attuazione-dell-articolo-116-terzo-commadella-costituzione-con-particolare-riferimento-alle-recenti-iniziative-delle-regioni-lombardiaveneto-ed-emilia-romagna-novembre-2017.html#4. Vi è chi, in questo contesto, ha sostenuto, senza dare spiegazione delle ragioni alla base di tale presa d’atto, che è necessaria una legge di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost.. Intendo riferirmi, ma non è sicuramente voce isolata, a P. Balduzzi, Dove si infrange il federalismo differenziato, in lavoce.info, 19 aprile 2019; Id., A che punto siamo col federalismo differenziato, ibid., 24 maggio 2019. Contra, invece, persuasivamente, F. Gallo, L’incerto futuro del regionalismo differenziato sul piano finanziario, in www.federalismi.it., 9 maggio 2018, 5.


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costituzionale della perequazione, il più possibile della ricchezza che è in grado di produrre), ma non anche l’elemento cardine su cui possa incentrarsi l’attacco alle iniziative regionali, perché, così facendo, si ragiona come se l’art. 116, terzo comma, Cost. non fosse stato introdotto circa 20 anni fa, rimanendo inattuato, nel Titolo V della Parte II della Costituzione. In questa prospettiva, è difficile non essere d’accordo con chi ha perentoriamente rilevato che «la richiesta di un’autonomia differenziata è il riflesso di consolidate e mai corrette disfunzioni: […]. Per questo è necessario lasciar perdere un malinteso senso dell’unità. L’unità non è uniformità, non è eguaglianza sul piano formale e, dunque, egualitarismo, ma unità sostanziale. Non è giustapposizione o somma di entità diverse, ma sintesi del plurale. L’unica vera rispetta, per definizione, le differenze e le costruisce in foedus» (15). D’altra parte, che si sia consentito allo stato di aumentare i vincoli unilateralmente imponibili alle regioni e agli altri enti territoriali, sia sul fronte delle entrate che della spesa (anche in materia di loro stretta competenza), è circostanza riconosciuta e stigmatizzata anche da altra autorevole dottrina, la quale ha avuto modo di evidenziare che «in nome dell’unitarietà della finanza pubblica pare essersi messo in moto in via trasversale un processo, in termini politico-culturali, inverso rispetto ai modelli classici di federalismo fiscale e, comunque, non del tutto coerente con i principi costituzionali di autonomia e sussidiarietà» (16).

(15) M. Bertolissi, Autonomia. Ragioni e prospettive di una riforma necessaria, Venezia, 2019, 11. (16) Così, F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, in Rass. trib., 2019, 240, il quale, dopo aver individuato la causa della mancata realizzazione delle strategie federaliste che l’ordinamento presuppone nelle modifiche apportate agli artt. 81, 117 e 119 Cost. nel 2012, nell’entrata in vigore della l. 24 dicembre 2012, n. 243 e nella mancata applicazione della legge delega sul federalismo fiscale e del d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68, rincara la dose allorquando specifica che «la più recente legislazione statale ha portato avanti la ricentralizzazione in un contesto di deresponsabilizzazione del potere pubblico, e quindi senza prendere iniziative di sviluppo sul piano sociale. […] Indubbiamente, se si va avanti di questo passo, il rischio dovrebbe essere l’abbandono, di fatto, del modello costituzionale di pluralismo istituzionale e paritario che era alla base della riforma del 2001». In argomento, cfr. dello stesso Autore, L’incerto futuro del regionalismo differenziato sul piano finanziario, cit., 1-4, laddove si dà conto del révirement, «difficilmente comprensibile» sul piano logico, della Corte costituzionale in materia di competenza statale in tema di coordinamento finanziario. Sulla lentissima fase di attuazione della legge di delegazione 5 maggio 2009, n. 42, cfr. anche S. Mangiameli, La nuova parabola del regionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme (ottobre 2012), in www.issirfa.cnr.it/stelio-mangiameli-la-nuova-paraboladel-regionalismo-italiano-tra-crisi-istituzionale-e-necessita-di-riforme-ottobre-2012.html; A.


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Conclusione questa che trova ulteriore supporto nel fatto che l’attuazione del Titolo V della Parte II della Costituzione ha dato origine ad una situazione in cui i poteri tributari che l’ordinamento riconosce alle regioni a statuto ordinario si palesano come particolarmente limitati, sia perché gli spazi di intervento riconosciuti con riferimento ai tributi propri derivati sono stabiliti dallo stato, sia perché i tributi propri in senso stretto, stante il divieto di doppia imposizione sullo stesso presupposto (17), si limitano, data la bulimia statale, a fattispecie di carattere bagatellare (18): la svalutazione del ruolo dell’autonomia tributaria nella progettazione dei percorsi autonomistici (19) impedi-

Petretto, La finanza delle regioni a statuto ordinario in attuazione della legge delega 42/2009 e il finanziamento del federalismo differenziato. Una premessa alla richiesta di autonomia rafforzata della Toscana, cit., 1. Sul fatto che nel decennio successivo alla legge delega siano state disattese le tensioni verso un «regionalismo fiscale propriamente detto» vd. anche A. Quattrocchi, Lineamenti evolutivi della fiscalità delle regioni a statuto ordinario tra assetti costituzionali e diritto dell’Unione europea, in Dir. prat. trib., I, 2018, 2450. (17) Cfr. art. 2, co. 2, lett. o), della l. n. 42 del 2009, laddove si individua quale criterio direttivo per il delegato quello della «esclusione di ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto, salvo le addizionali previste dalla legge statale o regionale». Vd. anche l’art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011. (18) Sulla ripartizione della potestà tributaria tra stato ed enti pubblici territoriali a seguito della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione (e sulla netta predominanza dello stato) sia consentito di rinviare a A. Giovanardi, L’autonomia tributaria degli enti territoriali, Milano, 2005, 169 e s. Cfr. anche le caustiche parole di M. Bertolissi, Autonomia. Ragioni e prospettive di una riforma necessaria, cit., 132, secondo il quale, «con la riforma costituzionale del 2001, a conferma della matrice giacobina del nostro ordinamento, la Corte costituzionale – sorprendendo, addirittura, l’avvocatura generale dello Stato – ha stabilito che l’imposta regionale sulle attività produttive non è vero che è regionale, è statale. Leggere la sentenza n. 296/2003 per credere». In argomento, vd. altresì A. Petretto, Dalla legge delega 42/2009 al nuovo centralismo: quali prospettive per il nuovo federalismo fiscale in Italia, Audizione presso la Commissione parlamentare sull’attuazione del federalismo fiscale in Italia, 22 giugno 2017, DISEI, il quale, perentoriamente osserva che «gli attuali tributi assegnati sono di fatto tributi interamente erariali e limitatamente modificabili; non solo, anche le compartecipazioni ai tributi erariali non sono quelle “riferite al territorio”, come previsto originariamente in Costituzione (art. 119), ma sono di fatto trasferimenti verticali»; G. Scanu, Regionalismo differenziato e sostenibilità finanziaria, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 141. (19) Svalutazione che, comunque, non può senz’altro imputarsi al vincolo di coerenza dell’autonomia tributaria degli enti territoriali con l’ordinamento dell’Unione Europea, il quale emerge in tutta la sua evidenza soprattutto in relazione alla disciplina degli aiuti di stato, anche sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (si pensi a Corte di Giustizia, 6 settembre 2006, causa C-88/03, Repubblica Portoghese c. Commissione). In argomento, cfr., senza pretesa di completezza, V. Ficari, Aiuti fiscali regionali, selettività e insularità dalle Azzorre agli enti locali italiani, in Dir. prat. trib. int., 2007, 319 ss.; A. Carinci,


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sce, nei fatti, alle regioni a statuto ordinario di calibrare la politica tributaria alle esigenze del territorio (è questa l’essenza del federalismo), sicché non ci si può stupire se l’autonomia differenziata abbia finito per rappresentare, per le regioni che fanno da traino al resto del paese, l’unico attrezzo a disposizione per «uscire dal tunnel in cui sono entrati il principio autonomistico e quello di sussidiarietà» (20). Si tratta peraltro di sforzo che appare, se si vogliono guardare i numeri della ripartizione delle risorse finanziarie tra regioni e territori, più che giustificato: è l’Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), da sempre ostile a qualsiasi ipotesi di differenziazione, ad avere a chiare lettere ricordato che il «residuo fiscale» (differenza tra entrate fiscali e contributive e spesa pubblica riferibile al territorio) trasferito, per il tramite dell’intermediazione romana, alle regioni meridionali sarebbe pari (si prendono i numeri della ricordata associazione per evitare polemiche, inutili, sulla correttezza della quantificazione) alla tutt’altro che trascurabile cifra di 50 mld di euro circa l’anno (21), importo questo che, pur essendo particolarmente cospicuo, non è stato in grado di ridurre il divario tra le regioni settentrionali e il Mezzogiorno. Anzi, malgrado le regioni del nord siano sottoposte ad una pesante stretta fiscale oramai da decenni, il Mezzogiorno non riesce,

Autonomia impositiva degli enti sub statali e divieto di aiuti di Stato, in Rass. trib., 2006, 1785 ss. Sui rapporti tra autonomia tributaria e principi europei, si rinvia anche, oltre che a R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei, Milano, 2014, passim, e di G. Bizioli, L’autonomia finanziaria e tributaria regionale, Torino, 2012, 50 e s., a V. Ficari (a cura di), L’autonomia delle Regioni e degli enti locali tra Corte Costituzionale (sent. n. 102 e ord. n. 103/2008) e disegno di legge delega. Un contributo giuridico al dibattito sul federalismo fiscale, in Quaderni riv. dir. trib., n. 3, 2009; G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Bergamo, 2008; G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina degli aiuti di stato, Pisa, 2007; L. Salvini (a cura di), Aiuti di stato in materia fiscale, Padova, 2007; G. Della Cananea, Autonomie regionali e vincoli comunitari, in V. Ficari, L. Giovanelli e G. G. Carboni (a cura di), Gestione delle risorse e finanziamento degli enti locali territoriali, Torino, 2007, 73 e s.; R. Franzè, Il contributo della Corte di Giustizia delle Comunità Europee alla valutazione del criterio della selettività nel sindacato di conformità al diritto comunitario degli aiuti fiscali regionali, in V. Uckmar (coordinato da), La normativa tributaria nella giurisprudenza delle Corti e nella nuova legislatura, Padova, 2007, 69. (20) L’espressione è di F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 242, a cui va riconosciuta la pregevolezza dell’impostazione metodologica che collega le iniziative delle regioni del nord alla crisi del federalismo solidaristico e cooperativo. (21) Svimez, Rapporto 2018. L’autonomia e la società nel Mezzogiorno, cit., 8.


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nonostante le risorse incamerate, a crescere come o più del settentrione (che già cresce poco). Se si concentra l’attenzione, infatti, utilizzando il sistema dei conti pubblici territoriali gestito dall’Agenzia per la Coesione territoriale (Presidenza del Consiglio dei Ministri) (22) sui valori cumulati a valori costanti 2010 (su base dati Istat) dei surplus finanziari nel periodo che va dal 2001 al 2017 e li si raffronta con la crescita cumulata del PIL pur sempre a valori costanti 2010, emerge che il saldo finanziario tra erogazioni di spesa pubblica e prelievi fiscali nella macroarea Mezzogiorno (circa 20 milioni di abitanti) è stato positivo per oltre 670 miliardi di euro a fronte di un PIL che nel 2017 era addirittura inferiore a quello del 2000 di 11,4 miliardi di euro. Al contrario, se, facendo riferimento, a titolo esemplificativo, al Veneto (circa 4,7 milioni di abitanti), si raffrontano i valori cumulati a valori costanti 2010 dei surplus finanziari nel

(22) Non è certo questa la sede per soffermarsi sulla significatività dei dati che emergono dal sistema dei Conti Pubblici Territoriali, il cui obiettivo «è quello di ricostruire l’effettivo sforzo finanziario sui singoli territori regionali da parte dell’operatore pubblico…La natura dei CPT è di tipo finanziario…La scelta di un conto finanziario discende dalla convinzione che sia proprio questo ad essere indispensabile per delineare la realtà entro cui si colloca l’intervento pubblico a livello regionale» (in tal senso G. Giungato e A. Tancredi, Confronto tra il sistema CPT e i Conti delle Amministrazioni Pubbliche Istat, in CPT informa, n. 3/2019). Se, infatti, è pur noto che nella letteratura economica (vd., per tutti, A. Staderini e E. Vadalà, Bilancio pubblico e flussi redistributive interregionali; ricostruzione e analisi dei residui fiscali nelle regioni italiane, in Banca d’Italia, Mezzogiorno e politiche regionali, novembre 2009, 598), si tende a ritenere che la ripartizione regionale delle entrate e delle spese centrali dei CPT non consenta di calcolare i saldi a livello regionale in conseguenza della non perfetta coerenza dei metodi di riparto, è anche vero che non si può trascurare che a risultati forse ancora più eclatanti giunge Banca d’Italia, la quale ha avuto modo di rilevare che «nella media del triennio 2014-16 i flussi redistributivi di cui ha beneficiato il Mezzogiorno, pari al 4,1 per cento del PIL nazionale su base annua (18,0 per cento in rapporto al prodotto dell’area), hanno più che recuperato il calo registrato durante gli anni della crisi: nel periodo 2008-2012 tali flussi rappresentavano rispettivamente il 3,9 per cento del PIL nazionale e il 16,8 di quello del Mezzogiorno. Il saldo di segno opposto, riconducibile al Centro Nord, è stato pari al 6,4 per cento del prodotto nazionale (8,3 in rapporto al PIL dell’area; ...), dopo essere sceso al 5,8 per cento nella media del periodo 2008-2012 (7,5 per cento in rapporto al PIL dell’area)» (Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali, n. 23, novembre 2018, 45, in https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ economie-regionali/). Ad ulteriore conferma si vedano altresì i dati dei residui fiscali, calcolati con metodologie in parte differenti, atteso che la regionalizzazione delle spese è effettuata sulla base del criterio del beneficio e non anche quello della localizzazione dell’operatore pubblico proprio dei Conti Pubblici Territoriali, quali risultano da Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali, n. 23, novembre 2017, 105, Tavola a.5.5, in https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economie-regionali/).


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periodo che va dal 2001 al 2017 alla crescita cumulata del PIL a valori costanti 2010, emerge che il saldo finanziario tra erogazioni di spesa pubblica e prelievi fiscali è stato negativo per 248,1 miliardi di euro a fronte di un PIL che nel 2017 superava quello del 2000 di 11,7 miliardi di euro (23). Sono dati assai significativi, perlopiù trascurati nel dibattito, che, invece, come abbiamo visto, preferisce acriticamente concentrarsi sui rischi per l’eguaglianza (che già non c’è) che potrebbero derivare dalla differenziazione richiesta dalle tre regioni del nord. A ciò si aggiunga che: i) «non ci si può limitare a temi del tipo “dove si spende di più o di meno” da parte delle amministrazioni locali. Ciò che conta è “quanto si spende” assieme a “per cosa si spende”, cioè quali sono i servizi pubblici che vengono offerti e fruiti dalle collettività locali» (24), con la conseguenza che l’elaborazione di un indice sintetico di output (basato su 25 indicatori) «che rappresenta quanti servizi pubblici vengono offerti e fruiti per abitante nelle singole regioni italiane» (25), induce a concludere che «se al Sud non si spende molto più che al Nord in termini di costo dei servizi pubblici per abitante […] il problema è che di tali servizi se ne producono molto meno [...]. L’output delle regioni migliori è più o meno triplo rispetto a quello appannaggio degli abitanti di Calabria e Campania, doppio rispetto all’Abruzzo, due volte e mezzo rispetto alla Puglia» (26); ii) la dimensione dell’evasione fiscale e contributiva, calcolata in percentuale rispetto al valore aggiunto, è nettamente più elevata al sud, circostanza questa che di per sé influisce negativamente sul contenimento dei trasferimenti interterritoriali (27).

(23) A fronte dei dati riportati si è affermato che chi pacificamente dà (lo dice anche, a chiare lettere la SVIMEZ) in realtà prende e ruba al sud. Si intende riferirsi a R. Napoletano, La grande balla. Non è vero che il Sud vive sulle spalle del Nord, è l’esatto contrario, Milano, 2020, di cui merita essere riportata la frase iniziale: «un parassita si è infilato indisturbato nell’organismo contabile (sic! n.d.a.) della Repubblica italiana. Si chiama Nord ladrone». Non servono ulteriori chiose. (24) Così Ufficio Studi Confcommercio, Una nota sulla spesa pubblica locale, Ottobre 2019, in https://www.confcommercio.it, 12. (25) Ufficio Studi Confcommercio, op. e loc. ult. cit. (26) Ufficio Studi Confcommercio, op. e loc. ult. cit. (27) Ministero dell’Economia e delle Finanze, Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva – anno 2019 (art. 10-bis c.3 Legge 31 dicembre 2009, n. 196), in www.dt.mef.gov.it, 36. Nella relazione del MEF (rectius, della commissione appositamente nominata presieduta


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Forse che in queste condizioni le tre principali regioni del nord, che fanno da cornice istituzionale ad un sistema produttivo che tenta di confrontarsi ad armi pari con la concorrenza internazionale, potevano esimersi, nella consapevolezza che una gestione più efficace ed efficiente potrebbe generare migliori servizi e maggiori risorse (sia per i risparmi ottenuti, sia per via dell’utilizzo dello strumento compartecipativo, vd. infra), dal tentare di attribuirsi le materie individuate nell’art. 116, terzo comma, Cost.? (28) È egoismo questo? Secondo l’illustre dottrina già citata sì, perché un siffatto approccio si connetterebbe alla declinazione competitiva del federalismo (peraltro, mi sia consentito, acquisita al sistema anche in forza dell’art. 116, terzo comma, Cost.) (29), quella secondo la quale «il regionalismo cooperativo non consentirebbe di distinguere tra Regioni e Regioni secondo prestazioni di efficienza», con la conseguenza, osserva il Presidente emerito della Corte costituzionale, che «solo l’inserimento di un fattore competitivo e incentivante che faccia

dal prof. Enrico Giovannini) la più elevata incidenza dell’evasione al sud risulta anche con riferimento alle singole imposte, tra cui IRPEF (p. 54-55), IRES (p. 68-69), IVA (p. 72-73, laddove si legge che l’Italia meridionale esprime un quarto del gap Iva nazionale, pari a circa 37 miliardi di euro nel 2017), IRAP (p. 77, da cui risulta che «la Sicilia si caratterizza per una più elevata propensione all’evasione, insieme a Calabria, Molise e Basilicata» e che «le regioni più produttive mostrano i tassi di evasione più bassi»). (28) Riconduce, condivisibilmente, l’attivismo delle regioni del nord alle perduranti criticità e limiti entro i quali il Titolo V è stato interpretato e attuato e, quindi, ai mille vincoli imposti dal legislatore statale all’azione regionale C. Tubertini, La proposta di autonomia differenziata delle Regioni del Nord: un tentativo di lettura alla luce dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, cit., 5-6. (29) È molto interessante rilevare che secondo il prof. Gallo il federalismo che promana dal Titolo V della Parte II della Costituzione è solidaristico e cooperativo (vd. F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., passim, ma soprattutto 244), mentre secondo A. Petretto, Dalla legge delega 42/2009 al nuovo centralismo: quali prospettive per il nuovo federalismo fiscale in Italia, cit., «la riforma del Titolo V ricalcava un modello di “federalismo competitivo” alla canadese, in base al quale le regioni e gli enti locali si finanziano per lo più con tributi propri e compartecipazioni; hanno un patrimonio, si indebitano e si fanno carico dei propri debiti. I «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», cioè i limiti della responsabilità statale, sono definiti ad un livello tale da non precostituire una spesa incompatibile con i vincoli di finanza pubblica. Lo stato attribuisce fondi alle regioni più povere, senza porre vincoli sulla loro utilizzazione, e in più finanzia qualche intervento speciale per qualche territorio in particolare». È proprio questa caratteristica del sistema ad averne impedito l’attuazione perché, secondo il prof. Petretto, l’acquisizione decentrata delle risorse avrebbe inasprito i già rilevanti squilibri territoriali, mettendo in crisi il sistema, il tutto in un momento in cui il regionalismo differenziato non era mai stato preso in seria considerazione.


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risaltare le performance migliori su quelle peggiori potrebbe rilanciare l’autonomia, premiando i migliori e responsabilizzando i meno bravi attraverso una distribuzione a geometria variabile delle competenze e delle relative risorse strumentali» (30). Obiettivo questo che, secondo Franco Gallo, non avrebbe diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale (che, quindi, non premierebbe i più responsabili), perché «i meno meritevoli manterranno le stesse competenze, ma avranno minori risorse, considerato che i mezzi finanziari disponibili sono, per definizione, limitati […]». Di qui il prefigurato conflitto con il vago principio della neutralità perequativa che deriverebbe dall’art. 119 Cost. e che imporrebbe alla finanza statale di farsi carico delle minori risorse di cui, in assenza del ricordato principio, disporrebbero i territori meno efficienti: «e nessuno» – ammonisce Gallo – «può garantire nella presente fase storica questa disponibilità al sacrificio da parte dello Stato, né, tanto meno, si può pensare ad un processo decisionale costruito in modo tale da costringerlo a tale sacrificio» (31). Insomma, i territori più efficienti, costretti a rilevantissimi avanzi, i sacrifici dovrebbero continuare a farli perché ai più inefficienti debbono essere garantite, anche nelle materie a fronte delle quali non c’è la necessità della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, sempre le stesse risorse, prescindendo quindi dalle loro responsabilità nella gestione della cosa pubblica; allo stato, d’altra parte, non si potrebbe chiedere nulla nella difficile congiuntura che stiamo vivendo. Il nord, detto in altri termini, dovrebbe dunque continuare, perché occorre garantire trasferimenti di dimensione tutt’altro che irrilevante alle regioni del sud e senza che ci si ponga una qualche preoccupazione sulla sostenibilità e sull’efficacia in termini di riduzione del divario di un siffatto assetto della ripartizione delle risorse, a trainare il resto del paese in una condizione in cui le proprie imprese e i propri cittadini sono sottoposti ad una pressione fiscale e contributiva che è più alta di quella a cui essi potrebbero essere assoggettati. Sarebbe questo il federalismo cooperativo ed integrativo? Sarebbe questa la solidarietà tra territori e individui su cui fondare il senso di appartenenza ad un’unica comunità statuale? Non è che l’attuale situazione risulti invece talmente divisiva e disgregante da generare sempre più convinte e diffuse tentazioni secessionistiche?

(30) F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 242. (31) F. Gallo, op. cit., 243.


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3. I misconosciuti contenuti delle bozze di intesa. Autonomia differenziata e finanziamento delle funzioni trasferite: la fase di avvio, a spesa storica, e gli strumenti del finanziamento delle materie assegnate, da individuarsi obbligatoriamente nelle compartecipazioni e/o aliquote riservate. – Delineato il contesto in cui prende piede il tanto discusso tentativo e ricordato che l’art. 14 della l. 5 maggio 2009, n. 42 («Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione»), citato dall’art. 5, co. 1 delle bozze, stabilisce, ricognitivamente, che «con la legge con cui si attribuiscono, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, forme e condizioni particolari di autonomia a una o più regioni si provvede altresì all’assegnazione delle necessarie risorse finanziarie, in conformità all’articolo 119 della Costituzione e ai principi della presente legge», non resta che soffermarsi sull’art. 5 delle bozze di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, rubricato «Risorse finanziarie» (32). Da esso si desume, innanzitutto, che, nel momento di avvio del federalismo differenziato, le risorse necessarie per finanziare le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia saranno determinate dall’apposita Commissione paritetica Stato-Regione di cui all’art. 3 delle bozze sulla base della «spesa sostenuta dallo Stato nella Regione, riferita alle funzioni trasferite o assegnate» [(art. 5, co. 2, lett. a)]. Nessun rischio quindi che la fase di avvio del processo di attuazione dell’autonomia differenziata influisca negativamente sulla sostenibilità degli equilibri di finanza pubblica (33): tanto spendeva sul territorio lo stato per le

(32) Si prende a riferimento la bozza consegnata a Venezia al Ministro Francesco Boccia dal Governatore Luca Zaia il 23 settembre 2019, reperibile in https://it.scribd.com/ document/427056513/Autonomia-Documento-Veneto-23-Settembre-2019. (33) Che il costo storico sia il criterio più conservativo è ammesso da C. Ferretti e P. Lattarulo, Regionalismo differenziato: costo storico, costo medio, fabbisogni standard, in IRPET, Osservatorio regionale sul federalismo, Nota 5, maggio 2019, 1-2, le quali tuttavia specificano che «molte riserve sono sorte nel dibattito riguardo alla possibile evoluzione della situazione attuale negli anni successivi a quelli di avvio», non rendendosi tuttavia conto, a mio parere, del fatto che l’evidenziata preoccupazione non promana dalla scelta della spesa storica, quanto dalla necessità di utilizzare lo strumento compartecipativo, su cui ci si soffermerà di seguito nel testo. Sul criterio della spesa storica, osserva tuttavia la Corte dei Conti – Sezione delle Autonomie, Audizione della Corte dei Conti su attuazione del federalismo fiscale e definizione delle intese ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, in https://www. corteconti.it/Download?id=abd9cfde-9c30-473a-bc24-ac9a739376dd, che non è senz’altro semplice addivenire ad una corretta quantificazione delle risorse da attribuire alle regioni


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funzioni trasferite o assegnate alla regione ad autonomia differenziata, tanto spenderà la regione che ne è stata assegnataria (34). Il riferimento, per il vero ovvio, dell’art. 116, terzo comma, Cost., alla necessità di rispettare i principi di cui all’art. 119 Cost., norma che costituisce il riferimento fondamentale ai fini dell’individuazione dei meccanismi di regolazione dell’assetto dei rapporti finanziari tra lo stato e le autonomie, impedisce tuttavia di configurare le risorse da assegnare come trasferimenti. Dal testé menzionato art. 119 si desume agevolmente infatti che, con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, si è chiaramente virato verso un sistema di «finanza originaria», che, quindi, deve necessariamente sostituirsi al precedente sistema di «finanza derivata» (35). Non più trasferimenti statali, quanto meno a regime (36), dato che le funzioni e i compiti attribuiti agli enti territoriali debbono essere integralmente finanziati (art. 119, quarto comma, Cost.) da: i) tributi ed entrate propri; ii) compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio; iii) per i territori con minore capacità fiscale per abitante, dalle entrate di tipo perequativo che, evidentemente, debbono garantire la solidarietà e la coesione tra i vari enti che costituiscono la Repubblica, in una prospettiva di riduzione progressiva e costante delle differenze. Di qui l’operata individuazione nelle bozze di intesa degli strumenti di finanziamento nella «compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali» e nelle (si tratta di altra forma di compartecipazione) «aliquote riservate, nell’ambito di quelle previste dalla legge statale, sulla base imponibile dei medesimi tributi riferibile al territorio regionale» [art. 5, co. 2,

richiedenti perché «le fonti disponibili presentano limiti consistenti: la regionalizzazione della spesa statale condotta dalla Ragioneria generale dello Stato attraverso i pagamenti non presenta un dettaglio adeguato». (34) Rilevava C. Buratti, Federalismo differenziato. Il punto di vista di un economista, in Federalismo fiscale, 2007, 218, che «l’essenza dell’art. 116, co. 3, non è l’attribuzione di maggiori risorse alle Regioni che facciano richiesta di più ampie forme di autonomia, quanto la possibilità di organizzare in modo diverso e più efficiente certe funzioni pubbliche utilizzando sostanzialmente le medesime risorse impiegate in precedenza dallo Stato». (35) Lo evidenziava già qualche anno fa A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 2, della Costituzione, in Federalismo fiscale, 2007, 1, 182. (36) È il caso di ricordare che l’art. 7 del d.lgs. n. 68 del 2011 reca disciplina della soppressione dei trasferimenti dello stato alle regioni a statuto ordinario, soppressione che, dopo una serie di rinvii, è oggi fissata all’anno 2021.


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lett. a) e b)] (37). Dovrebbe essere la Commissione paritetica Stato-Regione a decidere: i) se utilizzare unicamente la compartecipazione all’Irpef o anche altri tributi erariali; ii) se affidarsi alle compartecipazioni in senso stretto o alle aliquote riservate; iii) se fare ricorso all’utilizzo congiunto degli anzidetti strumenti. Si tratta, è bene ribadirlo, di scelta costituzionalmente obbligata, giacché, lo si è visto, le funzioni trasferite o assegnate debbono essere finanziate utilizzando esclusivamente gli strumenti previsti nell’art. 119, secondo e terzo comma, Cost., che, nei fatti e per quel che ci riguarda, sono quelli di carattere compartecipativo, non potendo ipotizzarsi che la spesa statale diventata regionale sia finanziata con tributi propri, che incrementerebbero senza ragione la pressione fiscale sui residenti nel territorio ad autonomia differenziata (38). In definitiva, quindi: - il trasferimento alla regione ad autonomia differenziata delle materie indicate nell’intesa e scelte tra quelle individuate dallo stesso art. 116, terzo comma, Cost., determina la necessità di finanziare la spesa con gli strumenti previsti nell’art. 119, secondo e terzo comma, Cost. (non è possibile quindi fare ricorso ai trasferimenti statali); – gli unici strumenti che possono essere utilizzati sono, per le ragioni dianzi dette, quelli a carattere compartecipativo; – evidenti ragioni di carattere pratico inducono ad individuare nella fase di avvio dell’autonomia differenziata la spesa da finanziare in quella che lo stato ha sostenuto sul territorio. La necessitata scelta delle compartecipazioni/aliquote riservate porta con sé quale conseguenza, ma è risultato tutt’altro che definitivamente acquisito e su cui il confronto è molto acceso (39), che le risorse disponibili seguiranno

(37) Le aliquote riservate assegnate alla regione nell’ambito di quelle statali non risentono delle modifiche in diminuzione delle medesime che eventualmente lo stato decida di stabilire; le compartecipazioni in senso stretto, invece, sono tarate sul gettito del tributo statale, con la conseguenza che l’intervento sul tributo erariale da parte dello stato si traduce automaticamente in una riduzione dell’entità dell’entrata di spettanza della regione. (38) D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 97. Sul ruolo della compartecipazione all’Iva, disciplinata dall’art. 4 del d.lgs. n. 68 del 2011, come strumento di accentramento e non di devoluzione e sul rapporto della compartecipazione (e, più in generale, delle compartecipazioni) con i tributi propri, cfr. A. Quattrocchi, Lineamenti evolutivi della fiscalità delle regioni a statuto ordinario tra assetti costituzionali e diritto dell’Unione europea, cit., 2439. (39) Vd. infra, par. 6.


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la dinamica del gettito dell’imposta compartecipata: qualora quest’ultimo, in conseguenza dell’incremento del PIL regionale crescesse, la regione si troverebbe a disporre di maggiori risorse, utilizzabili senza vincolo di destinazione; se, invece, il gettito diminuisse, la regione dovrebbe far fronte a minori risorse, senza poter contare su interventi compensativi da parte dello stato, fatta salva la necessità, nelle materie di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., di garantire i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) (40). Il che è pienamente in linea con le traiettorie autonomistiche, che non possono mai andare disgiunte dall’attribuzione di concrete e ineludibili forme di responsabilità. 4. (Segue). Dalla spesa storica ai fabbisogni standard. La necessaria rideterminazione delle aliquote di compartecipazione e/o aliquote riservate. – L’art. 1 della l. n. 42 del 2009, citato nell’art. 5, co. 1, delle bozze, stabilisce che «la presente legge costituisce attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni e garantendo i principi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e da garantire la loro massima responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti». Il superamento del criterio della spesa storica, evidentemente iniquo, perché favorisce chi più ha sprecato rispetto a chi ha meglio gestito le pubbliche risorse, deve quindi connotare l’intero sistema dei rapporti finanziari interistituzionali. È questa la ragione per cui nelle bozze (41), oltre a menzionare il testé citato art. 1, si prevede che la spesa storica dovrà essere sostituita dai fabbisogni standard, i quali, individuati da «un apposito Comitato Stato Regioni, con la partecipazione di rappresentanti della Regione Veneto, che il Governo si impegna ad istituire e che opera in raccordo con organismi già esistenti per la medesima materia» (art. 5, co. 7), «dovranno essere determinati entro un anno dall’entrata in vigore della legge di approvazione dell’Intesa, fatti salvi i livelli essenziali delle prestazioni». La clausola di garanzia su cui ci intratter-

(40) Individuate dall’art. 14 del d.lgs. n. 68 del 2011 nella sanità, assistenza, istruzione e nel trasporto pubblico locale. (41) Evidenzia la coerenza delle bozze con l’art. 1 della l. n. 42 del 2009 D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 102.


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remo qui di seguito scatta tuttavia dal terzo anno, dal che deriva che, nei fatti, il tempo necessario per addivenire al varo dei fabbisogni standard è di tre anni dalla data di trasferimento delle competenze. Il che deve condurre, qualora i fabbisogni standard non coincidessero con la spesa storica (è ben difficile che ciò non accada), alla revisione del livello di spesa iniziale, con conseguente rideterminazione, a favore o a scapito delle regioni ad autonomia differenziata, delle aliquote di compartecipazione e/o delle aliquote riservate (42). Né la determinazione dei fabbisogni standard dovrebbe essere particolarmente complicata, atteso che, come è stato notato in dottrina, «rispetto all’esperienza recente di determinazione dei fabbisogni dei Comuni, il quadro di riferimento nel caso delle funzioni aggiuntive delle Regioni ad autonomia differenziata è molto diverso. I Comuni sono infatti caratterizzati da una forte eterogeneità dei servizi forniti e di condizioni finanziarie di partenza, mentre le funzioni che domani saranno devolute ad alcune regioni sono oggi garantite dallo Stato in condizioni di tendenziale omogeneità su tutto il territorio nazionale. C’è quindi da attendersi che i criteri che saranno individuati dal metodo dei fabbisogni standard non potranno discostarsi in modo sostanziale da quelli adottati attualmente dallo Stato per allocare le risorse umane e finanziarie nelle varie aree del paese (si pensi al caso della scuola). Pertanto, è improbabile che dal passaggio dalla spesa storica statale ai fabbisogni standard possano emergere correzioni rilevanti nella distribuzione delle risorse tra le varie aree» (43). In definitiva, secondo l’illustre Autore, non dovrebbero esserci insormontabili problemi nell’arrivare al calcolo dei fabbisogni standard, anche se i lunghi anni trascorsi, senza che alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, su cui si fondano i fabbisogni, si sia giunti, non inducono ad essere particolarmente ottimisti. 5. (Segue). Le clausole di garanzia. – Il percorso delineato dalle norme contenute nelle bozze è quindi quello che, muovendo dalla spesa storica e

(42) In argomento, C. Ferretti e P. Lattarulo, Regionalismo differenziato: costo storico, costo medio, fabbisogni standard, cit., 3, secondo cui «il metodo dei costi standard – fabbisogni standard è quello che meglio si inserisce nel percorso di federalismo avviato con le riforme degli artt. 119 e 116 Cost. e con la L. 42/2009, e quindi il sistema più coerente con l’attuale quadro normativo». (43) A. Zanardi, Alcune osservazioni sui profili finanziari delle bozze di intesa sull’autonomia differenziata, in Rassegna Astrid, 2019, 8-9.


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dall’individuazione degli strumenti di finanziamento in quelli compartecipativi, determina, in linea con i principi dell’ordinamento cristallizzati nell’art. 1 della l. n. 42 del 2009, il superamento della spesa storica e l’approdo ai fabbisogni standard, che andranno ovviamente determinati in contemporanea alla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, da un apposito ed istituendo comitato Stato-Regioni. Nel caso in cui, tuttavia, a ciò non si addivenga, ma Zanardi dice, lo si è visto, che a tanto non si dovrebbe giungere (44), si prevede, all’art. 5, co. 1, lett. b), che «per assicurare in ogni caso il rispetto del principio del graduale superamento della spesa storica, onde dare corretta attuazione dell’art. 119 della Costituzione, secondo quanto previsto dall’art. 1 della legge 5 maggio 2009, n. 42, decorsi tre anni dall’entrata in vigore della legge senza che siano stati approvati e in concreto applicati i fabbisogni standard, l’ammontare delle risorse assegnate alla Regione per l’esercizio delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui alla presente Intesa non potrà essere inferiore al valore medio nazionale pro capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse». Una vera e propria clausola di garanzia, quindi, non applicabile peraltro al settore sanitario, che, in ragione dell’evidente matrice sollecitatoria, mi sembra difficilmente criticabile (45), dato che:

(44) Vd. nota precedente. (45) Ma che è stata invece criticatissima, proprio in ragione del fatto che, se venisse azionata, le regioni richiedenti, che si trovano, quanto a spesa statale regionalizzata, agli ultimi tre posti, potrebbero godere di maggiori risorse. Cfr. sul punto D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 103, il quale rileva che, soprattutto per il Veneto, «in assenza di una clausola di salvaguardia, la mancata determinazione dei fabbisogni standard cristallizzerebbe un assetto redistributivo avverso. Al contrario, al passaggio ai valori medi pro capite nazionale garantirebbe un riequilibrio nell’allocazione della spesa». In argomento, cfr. anche D. Girotto, L’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Tentativi di attuazione dell’art. 116, comma 3, e limiti di sistema, cit., 166-167, il quale dà conto del dibattito sulla discussa clausola, senza tuttavia prendere posizione, in ragione del fatto che il discorso incrocerebbe «riflessioni di carattere quasi puramente politico». Sul tema, cfr. anche L. Rizzo e R. Secomandi, Effetti finanziari delle richieste di autonomia regionale: prime simulazioni, in IRPET, Osservatorio regionale sul federalismo, Nota 7, settembre 2019, i quali evidenziano (p. 1) che Veneto, Lombardia e Emilia Romagna sarebbero fortemente avvantaggiati «poiché la loro spesa storica pro capite è inferiore alla spesa storica media nazionale» (a p. 4 la determinazione del vantaggio delle tre regioni e dello svantaggio delle altre). Di qui la critica alla clausola, che tuttavia non tiene conto della funzione della stessa, pungolo al legislatore, il quale altrimenti potrebbe rimanere, come è finora successo, nell’inerzia, malgrado, come rilevato da Zanardi (vd. supra), la determinazione dei


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– essa trova applicazione se e solo se non si arriva alla determinazione dei fabbisogni standard, della cui necessità tutti sono d’accordo, e ciò in ragione dell’altrettanto indiscutibile iniquità del criterio della spesa storica, da superare definitivamente a tutti i livelli di governo in applicazione del citato art. 1 della l. n. 42 del 2009; – i dati della spesa statale regionalizzata pro capite, al netto degli interessi, delle tre regioni che chiedono l’autonomia (46) dimostrano che queste ultime si collocano negli ultimi tre posti della classifica; – la clausola costituisce formidabile pungolo ad evitare rinvii sine die di quello che l’ordinamento richiede, e cioè il definitivo superamento della spesa storica. Ad essa si aggiunge altra clausola di salvaguardia e cioè quella che, contenuta nell’art. 7, dovrebbe garantire alle regioni ad autonomia differenziata l’invarianza dei gettiti derivanti dai tributi compartecipati o con riserva di aliquota a fronte di modifiche delle aliquote e/o delle basi imponibili unilateralmente decisi dallo stato: si stabilisce infatti, replicando modelli già previsti nella l. n. 42 del 2009 e nel d.lgs. n. 68 del 2011, che «gli interventi statali sulle basi imponibili o altre modifiche di disciplina relative ai tributi erariali compartecipato od oggetto di aliquota riservata a favore della regione […] sono possibili, a parità di funzioni conferite, solo se prevedono la contestuale adozione di misure per la completa compensazione tramite modifica di aliquota o attribuzione di altri tributi in linea con quanto previsto per i tributi regionali dalla lettera t), del comma 1, dell’articolo 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42 e dell’articolo 11 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68. La quantificazione finanziaria delle predette misure è effettuata con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su quantificazione della Commissione paritetica Stato-Regione» (47).

fabbisogni standard non possa senz’altro ritenersi di proibitiva difficoltà: si tratterebbe, infatti, secondo gli Autori dell’«esatto opposto dell’obiettivo che dovrebbe prefiggersi uno schema di decentramento della fornitura di servizi pubblici, che dovrebbe riflettere le differenze nei fabbisogni e costi dei diversi territori». Della stessa opinione C. Ferretti e P. Lattarulo, Regionalismo differenziato: costo storico, costo medio, fabbisogni standard, cit., 2, le quali considerano il criterio del costo medio come il criterio «più iniquo e lontano dalla situazione attuale». (46) Fonte MEF, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, Ispettorato generale di Bilancio. (47) Ritiene che una clausola siffatta sia corretta e auspicabile A. Zanardi, op. cit.,p. 9.


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In alternativa, si potrebbe prevedere che l’intervento compensativo scatti nel caso in cui la diminuzione di gettito derivante dai tributi compartecipati conseguente agli interventi statali superi una determinata soglia percentuale. Si tratta di clausola evidentemente necessaria, tanto più in un periodo come l’attuale, in cui il principale tributo dell’ordinamento, l’Irpef, si trova in profondissima crisi e potrebbe evolvere, equilibri di finanza pubblica permettendo, verso modelli di flat tax, che inciderebbero pesantemente sul gettito a cui la regione ad autonomia differenziata compartecipa. 6. La questione centrale: meccanismo di funzionamento degli strumenti compartecipativi e risorse a disposizione delle regioni ad autonomia differenziata. – Soffermiamoci ora sulle principali critiche ai contenuti delle bozze sinteticamente riassunti nei precedenti paragrafi. Ci si è concentrati, innanzitutto, si tratta ovviamente di legittima preoccupazione, sui rischi per l’equilibrio della finanza pubblica che deriverebbero dal descritto sistema di finanziamento. Si è così rilevato che «il fatto che le entrate delle regioni dipendano dall’evoluzione delle proprie basi imponibili di per sé non è un male; vuol dire che hanno un incentivo a farle crescere (e a far pagare le tasse ai propri cittadini). Ma qui stiamo parlando delle regioni più ricche d’Italia, a cui verranno devolute quote importanti di tributi e altri cespiti erariali. Ora, la situazione economica dei conti pubblici del paese è quella che è; grazie anche alle politiche del governo giallo-verde, le possibilità che nel prossimo futuro si debba introdurre una forte correzione dei conti pubblici, tagliando spese e aumentando entrate, è tutt’altro che secondaria. Ma come farà il governo centrale a farlo, se ha già attribuito alle regioni una buona parte del gettito tributario e le competenze sulle spese?» (48). Non pare tenersi in debita considerazione, tuttavia, non solo della circostanza che le eventuali maggiori risorse verrebbero riconosciute a regioni che già trasferiscono, come si è visto, ingenti risorse al resto del paese (così adempiendo in pieno al dovere costituzionale di solidarietà), ma anche del fatto che le compartecipazioni vengono riconosciute a fronte di spese trasferite, con la conseguenza che le risorse aggiuntive di cui eventualmente potrebbero disporre le regioni ad autonomia differenziata sarebbero quelle conseguen-

(48) M. Bordignon, La posta in gioco con l’autonomia del Nord, in lavoce.info, 15 febbraio 2019.


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ti all’applicazione dell’aliquota di compartecipazione ai maggiori imponibili nel frattempo emersi in ragione dell’andamento positivo dell’economia del territorio, andamento positivo che non risulterebbe irrilevante per lo stato, il quale risulterebbe comunque destinatario dell’incremento di gettito non coperto dall’aliquota di compartecipazione, disponendo l’art. 5, co. 4, delle bozze che «l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio della Regione dei tributi compartecipati o oggetto di aliquota riservata rispetto a quanto venga riconosciuto sulla base delle aliquote di compartecipazione o aliquote riservate determinate in ragione della spesa sostenuta dallo Stato nella Regione, o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria in cui dovesse risultare applicabile il criterio del valore medio nazionale pro capite, è di competenza della Regione nei limiti di quanto previsto dalle aliquote di compartecipazione o riservate determinate dalla Commissione paritetica». In altre parole, l’incremento del PIL e i conseguenti aumenti di gettito vanno anche a vantaggio dei conti pubblici statali e il vantaggio potrebbe anche finire per compensare e superare la quota addizionale lasciata alla regione qualora le dinamiche autonomistiche influiscano positivamente sul PIL del territorio in modo da generare una situazione win-win (49). Non si può non evidenziare poi che l’anzidetta osservazione critica impedisce, in ragione della perdurante crisi della finanza pubblica nazionale, l’attuazione dell’autonomia differenziata, traducendosi in una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 116, terzo comma, Cost.: se le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere finanziate esclusivamente con strumenti compartecipativi (il punto, per quel che si è detto, non può essere seriamente messo in discussione) e se l’attribuzione del gettito a copertura della spesa non è consigliabile o praticabile perché potrebbe mettere in crisi gli equilibri finanziari, allora, evidentemente, dovrebbe giungersi alla conclusione che non vi possano essere concrete possibilità di giungere all’attuazione dell’autonomia differenziata. Vi sarebbe quindi nella Carta fondamentale una disposizione insuscettibile di essere attuata. Senza contare che, comunque, l’art. 5, co. 6, dispone che «ogni due anni la Commissione paritetica verifica la congruità delle compartecipazioni e delle riserve di aliquota prese a riferimento per la copertura dei fabbisogni stan-

108.

(49) Così anche D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit.,


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dard sia in termini di gettito che di correlazione con le funzioni svolte», sicché potrebbe sostenersi, si tratta per il vero di tesi che non mi sento di condividere, che l’eventuale incremento di gettito di cui la regione ad autonomia rafforzata potrebbe «appropriarsi» sia solo quello dei due anni in cui la compartecipazione rimane fissa (50). Più articolata la posizione di altro Autore (51), il quale osserva che si possono immaginare due soluzioni per regolare la dinamica del finanziamento delle regioni ad autonomia differenziata. La prima «prevede la revisione periodica dell’ammontare di risorse nazionali riconosciute per le funzioni devolute alle Regioni ad autonomia differenziata attraverso la rideterminazione delle aliquote di compartecipazione. Tale revisione/rideterminazione periodica sarebbe decisa dallo Stato … secondo uno schema top-down in relazione da un lato alla revisione dei fabbisogni e a possibili manovre di riallocazione settoriale della spesa pubblica […]. Sarebbe un modello analogo a quello adottato per il finanziamento statale della sanità regionale […]. Il vantaggio fondamentale di questa soluzione sarebbe quello di rendere le regioni ad autonomia differenziata partecipi dell’evoluzione della finanza pubblica generale e quindi anche del mantenimento degli equilibri dei conti pubblici. Per contro, lo svantaggio è quello di indebolire l’incentivo di queste ultime a utilizzare in modo efficiente le competenze rafforzate, negando loro la possibilità di appropriarsi delle eventuali risorse finanziarie aggiuntive che dovessero derivare dall’ampliamento dei gettiti erariali compartecipati nei propri territori, soprattutto se effetto del federalismo rafforzato». Si tratta, evidentemente, di soluzione inaccettabile per le regioni che vogliono l’autonomia differenziata (52), e ciò per quanto già evidenziato dallo

(50) In tal senso sembrerebbero orientati L. Rizzo e R. Secomandi, Effetti finanziari delle richieste di autonomia regionale: prime simulazioni, cit., 5-6, i quali comunque prendono atto che la norma può essere interpretata nel senso che le compartecipazioni dovrebbero essere modificate solo qualora non siano in grado di garantire il pieno sostenimento delle spese trasferite alle regioni, e quindi solo a favore delle regioni ad autonomia rafforzata. Se, invece, il gettito cresce, l’aliquota dovrebbe rimanere invariata. Da segnalare che gli Autori sembrano aver inteso che tutto il gettito incrementale dovrebbe restare alle regioni e non anche solo quello corrispondente alle aliquote di compartecipazioni, circostanza questa che è chiaramente smentita dal citato, nel testo, art. 5, co. 4, delle bozze. (51) A. Zanardi, op. cit., 4 e 5. (52) La pensa diversamente F. Gallo, I limiti del regionalismo differenziato, cit., 246, il quale ritiene la soluzione individuata nel testo, quella secondo la quale le compartecipazioni non


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stesso Autore in termini di incentivi: perché mai una regione dovrebbe accollarsi le responsabilità derivanti da ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia se le risorse all’uopo assegnate possono essere continuamente rimesse in discussione dallo stato? Perché mai intraprendere l’impervia strada dell’autonomia differenziata se il maggior gettito che deriva da cicli econo-

possano mai generare gettito aggiuntivo rispetto alla spesa trasferita, l’unica costituzionalmente compatibile, giacché altrimenti accadrebbe che la determinazione delle risorse dipenderebbe anche dal gettito, con la conseguenza che accadrà che, anche a parità di costi standard, «a chi più ha, e quindi a chi paga più tasse, più sarà dato; con la conseguenza che funzioni vitali per tutti i cittadini verranno finanziate diversamente a seconda della maggiore ricchezza del territorio di residenza». Il presupposto sembra essere quello, quindi, che debbano essere garantiti non i livelli essenziali delle prestazioni (evidentemente Gallo si riferisce alle funzioni Lep), ma livelli delle prestazioni uguali per tutti, come se, oltretutto, l’identico finanziamento si traduca sempre nella medesima qualità del servizio reso. Da segnalare infine che è controintuitivo che chi paga più tasse non debba vedersi riconoscere, fatti salvi i Lep, anche un maggior finanziamento del servizio di cui può godere, visto che quel servizio se l’è pagato. Condividono la tesi secondo la quale non può consentirsi alle regioni più ricche di trattenere una quota maggiore delle risorse necessarie a sostenere il fabbisogno derivante dal riconoscimento delle nuove funzioni anche G. Rivosecchi, Poteri, diritti e sistema finanziario tra centro e periferia, in Riv. Aic, n. 3/2019, 10 luglio 2019, p. 288, il quale, dopo aver correttamente evidenziato che alla differenziazione potrebbero ambire, e ciò costituirebbe vincolo di sistema derivante dall’art. 119 Cost., solo le regioni che dispongono di determinate caratteristiche finanziarie idonee a sostenere le ulteriori funzioni acquisite, osserva che «dovrebbe essere rispettato il principio di connessione tra funzioni e risorse, in maniera tale da garantire che le rinnovate dotazioni finanziarie regionali siano strettamente corrispondenti alle funzioni preventivamente acquisite, […]. Soltanto in questa prospettiva, potrebbe essere scongiurato il rischio che il regionalismo differenziato sia trasformato in espediente finalizzato a ridisegnare le relazioni finanziarie tra Stato e (soltanto alcune) Regioni, favorendo il trasferimento di risorse aggiuntive agli enti sub-statali con capacità fiscale maggiore e così rovesciando la logica degli istituti costituzionalmente previsti a garanzia della solidarietà sociale e dei diritti fondamentali, proprio a partire dalle risorse aggiuntive che possono essere destinate agli enti sub-statali»; G. Scanu, Regionalismo differenziato e sostenibilità finanziaria, cit., 142-143. Non si tiene conto in tal modo, tuttavia, adottando formalistica prospettiva: i) del fatto che le regioni del nord sono già contributori netti per decine di miliardi l’anno a favore delle regioni del sud; ii) che quindi esse contribuiscono fattivamente alla piena realizzazione del principio di solidarietà (una solidarietà tutto sommato inutile, visto che il divario non si attenua); iii) della circostanza, come si vedrà nel testo, che le risorse che comunque potrebbero arrivare in più alle regioni ad autonomia differenziata non saranno, anche se venissero trasferite tutte le materie, particolarmente consistenti; iv) che se il gettito compartecipato dalle regioni ad autonomia differenziata aumentasse, ciò rifluirebbe anche a vantaggio dello stato, che, quindi, si potrebbe trovare con più risorse a disposizione di quante ne avesse nell’attuale accentrato sistema; v) che una siffatta impostazione non lascia alcuno spazio alla valutazione dell’efficacia della spesa, nel semplicistico assunto secondo il quale la solidarietà territoriale dipenderebbe esclusivamente dal quantum delle risorse trasferite.


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mici positivi, anche in ragione dell’esercizio delle ulteriori attribuzioni, non rimane, nella parte corrispondente alle aliquote di compartecipazione, alle autonomie regionali? La seconda consiste invece «nel mantenere invariate nel corso del tempo (a meno di eventi eccezionali) le aliquote di compartecipazione fissate inizialmente, lasciando in tal modo che le risorse delle regioni ad autonomia differenziata siano determinate unicamente dalla dinamica dei gettiti erariali riferibili al loro territorio. Ne segue pertanto che se la dinamica del gettito dei tributi compartecipati fosse superiore nelle regioni ad autonomia differenziate rispetto all’andamento dei fabbisogni nelle materie devolute nella media nazionale, tali regioni disporrebbero coeteris paribus di maggiori risorse per finanziare la propria spesa rispetto agli altri territori rimasti sotto la fornitura statale. Ma potrebbe ovviamente verificarsi anche il contrario […]. Vantaggi e svantaggi di questa soluzione sono analoghi a quelli relativi alla prima soluzione con, evidentemente, segno contrario: le regioni ad autonomia differenziata conserverebbero gli incentivi connessi con la possibilità di appropriarsi delle eventuali risorse aggiuntive prodotte per effetto delle politiche da loro assunte; ma, al contempo, tali regioni non parteciperebbero alle scelte di finanza pubblica nazionale, costituendo una sorta di enclave autonoma per la parte corrispondente alle risorse destinate alle competenze rafforzate» (53). Quest’ultima è l’unica possibile ed accettabile per le regioni che ambiscano all’autonomia differenziata. E ciò, innanzitutto, per una fondamentale ragione: questa soluzione è una soluzione autonomistica; la prima è, invece, spiccatamente centralistica e, quindi, palesemente contraria alla logica ed allo spirito dell’art. 116, terzo comma, Cost.: «la concezione delle “compartecipazioni”» – si è correttamente rilevato – «come pura traduzione in termini numerici delle somme che lo Stato decide di assegnare alle Regioni trasforma […] la compartecipazione in un “trasferimento” statale, perpetuando un modello di finanza locale interamente derivata, antitetica al concetto di autonomia finanziaria, che la riforma del Titolo V intendeva superare» (54). Ma, a prescindere da ciò, non vanno nemmeno ingigantiti gli asseriti svantaggi dell’ipotesi delineata, dato che, come Zanardi è costretto ad ammettere, «le risorse finanziarie che una soluzione di questo tipo sottrarrebbe agli spazi

(53) A. Zanardi, op. cit., 4 e 5. (54) D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 107.


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di intervento nazionale sarebbero in realtà limitate ad una quota “al margine” delle risorse complessive trasferite [cioè dei circa 7 miliardi di euro … per il finanziamento della scuola in Lombardia e Veneto (55)], anche tenendo conto della rigidità delle voci di spesa pubblica coinvolte (pubblico impiego)» (56). Va poi nuovamente ricordato che l’auspicabile andamento positivo dell’economia regionale rifluisce anche a vantaggio dello stato, che giustamente si approprierà del gettito addizionale dei tributi per la parte di propria spettanza, del tutto complementare all’aliquota di compartecipazione riconosciuta alle regioni. Non può dimenticarsi infine che le regioni del nord già contribuiscono massicciamente alle esigenze di solidarietà nazionale, attesa l’entità dei trasferimenti interterritoriali, 50 mld di euro l’anno secondo la SVIMEZ, ogni anno destinata alle aree più povere del paese, sicché, quand’anche l’autonomia differenziata si traducesse in maggiori risorse a favore delle tre regioni, comunque tale circostanza non darebbe origine, con certezza, ad una significativa riduzione degli importi che costantemente (e con esiti francamente deludenti) vengono trasferiti nel Mezzogiorno in attuazione del principio di solidarietà interterritoriale. Senza considerare poi che l’essenza dell’autonomia, che, è il caso di evidenziarlo, il sistema costituzionale richiede, dà necessariamente origine ad una parziale marginalizzazione dei territori autonomi rispetto alle logiche che debbono presiedere alla gestione della finanza pubblica nel suo insieme considerata: la responsabilità connessa alla gestione di materie oggi statali deve essere controbilanciata dalla possibilità di ottenere, grazie all’efficienza della gestione e alle ricadute positive, anche in termini di fiducia dei cittadini, che questo genera, maggiori risorse da trattenere sul territorio (che, oltretutto, come si è visto, non è detto che si traducano in minori risorse a disposizione di altri territori). Nessuno può accettare di essere autonomo sulla base della spesa storica o scontando il fatto che lo stato possa intervenire sui meccanismi di finanziamento degli ambiti competenziali che gli sono stati riconosciuti. Inaccettabile quindi mi sembra anche la soluzione intermedia proposta da Zanardi, che si impernia sull’idea di «recuperare la distinzione tra modalità di funzionamento delle funzioni Lep (in questo contesto la materia rilevante sarebbe soprattutto l’istruzione) e delle altre funzioni regionali. Si potrebbe

(55) Si tratta della principale spesa, da un punto di vista quantitativo, che verrebbe sostenuta in ragione del trasferimento delle competenze. (56) A. Zanardi, op. cit., 4 e 5.


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cioè prevedere di rivedere le aliquote di compartecipazione quando si attuino manovre di aumento/riduzione delle spese Lep nelle altre regioni, mentre le risorse attribuire alle regioni ad autonomia differenziata per il finanziamento delle funzioni aggiuntive non-Lep continuerebbero ad essere determinate secondo le aliquote di compartecipazione fissate inizialmente» (57). E ciò non solo per le ragioni dianzi dette, ma anche perché è lo stesso Zanardi ad affermare che «al di fuori del settore istruzione il problema del finanziamento assume … portata assai modesta» (58), con la conseguenza che la soluzione intermedia finisce per identificarsi con la prima soluzione che, come abbiamo visto, consegna la finanza delle regioni ad autonomia differenziata allo stato, ritrasformandola nella sostanza da originaria in derivata e, quindi, togliendo ogni serio incentivo ed interesse all’ottenimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Il vero è che l’assunto secondo il quale, sulle materie trasferite, lo stato debba mantenere la possibilità di intervenire sulle aliquote di compartecipazione si pone in palese contrasto con l’intima essenza dell’autonomia differenziata, che deve sostanziarsi nel trasferimento, tendenzialmente definitivo, di funzioni e compiti da finanziare attraverso meccanismi compartecipativi che debbono dispiegare pienamente i loro effetti sul territorio. 7. Considerazioni conclusive. – Come abbiamo avuto modo di vedere: i) dalle bozze di intesa non emerge alcun tentativo di accaparramento di risorse che prescinda dalle funzioni trasferite (e nemmeno potrebbe emergere, data la chiara posizione della Corte costituzionale nella sentenza n. 118 del 2015, la stessa che ha sdoganato il referendum veneto), e ciò malgrado questa sia la regola per le regioni a statuto speciale, nei confronti delle quali non si registra alcun fastidio o scatto di indignazione; ii) si parte, è il criterio più conservativo e prudente possibile, dalla spesa storica, sicché nella fase iniziale si assiste semplicemente al cambio del provider, la regione al posto dello stato; iii) l’unico strumento che consente di individuare le risorse necessarie per sostenere le spese per le materie assegnate è quello compartecipativo, stanti i limiti imposti dall’art. 119 Cost., cui l’art. 116, terzo comma, Cost. rinvia; iv) la successiva determinazione dei fabbisogni standard non si collega, giustamente, al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio e, ovviamente, richiede la de-

(57) A. Zanardi, op. cit., 4 e 5. (58) Id., op. cit., p. 2.


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terminazione dei livelli essenziali delle prestazioni nelle materie di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. (per quel che qui interessa, soprattutto l’istruzione); v) la clausola di garanzia del costo medio pro capite potrebbe essere azionata solamente nel caso dell’inerzia statale, sicché è chiara la sua funzione sollecitatoria, in un contesto in cui, come è stato autorevolmente rilevato, la determinazione dei fabbisogni non presenta insormontabili difficoltà tecniche (e, quindi, di azionare la clausola, se non si ricorre ad inaccettabili tattiche dilatorie, non vi sarà nemmeno bisogno); vi) l’altra clausola di salvaguardia, quella dell’invarianza delle risorse in caso di intervento unilaterale dello stato sui tributi compartecipati, è prevista anche nell’art. 11 del d.lgs. n. 68 del 2011, sicché, in un contesto in cui il d.lgs. n. 68 costituisce svolgimento della delega contenuta nella l. n. 42 del 2009, che, a sua volta, dà attuazione all’art. 119 Cost., a cui l’art. 116, terzo comma, Cost., rinvia, risulterebbe problematica non la sua presenza, ma piuttosto la sua assenza. A ben vedere quindi, resta, quale unico pomo della discordia, la questione connessa al funzionamento delle compartecipazioni/aliquote riservate, nel senso che occorrerà capire se le stesse debbano servire per coprire spese predeterminate, come se fossero trasferimenti (in una logica di finanza derivata, quindi) o se, invece, l’eventuale surplus derivante dall’incremento del PIL regionale possa essere trattenuto dalla regione, che sarebbe costretta, nel caso opposto, a far fronte alle minori risorse che introiterebbe per effetto della riduzione del gettito, fatta salva la necessità di far salvi i livelli essenziali delle prestazioni nelle materie Lep. Siamo quindi di fronte a progetti particolarmente rispettosi degli equilibri interistituzionali delineati nella Costituzione, che, tuttavia, sono stati considerati da più parti addirittura come eversivi (59) e che, per questo, sono finiti su un binario morto, anche in forza del tentativo del Ministro Boccia, per il momento non riuscito, di far precedere le intese da una legge cornice che dovrebbe dare attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., prevedendo la necessità di determinare anticipatamente i livelli essenziali delle prestazioni nelle materie di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. (per quel che qui interessa, si tratta soprattutto dell’istruzione), con l’avvertenza che, se non si giungerà alla loro determinazione nei dodici mesi successivi all’entrata in vigore della legge, l’assegnazione delle risorse avverrà sulla base del criterio della spesa storica, che, quindi, in palese contrasto con l’art. 1 della l. n. 42 del

(59) V. supra, par. 1.


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2009, rischia di diventare il criterio definitivo di calcolo delle risorse da assegnare alle regioni grazie all’utilizzo degli strumenti compartecipativi (60). È evidente il tentativo di prendere tempo: degli effetti del funzionamento delle compartecipazioni e delle aliquote riservate sulla ripartizione dei gettiti non si fa nemmeno menzione nella bozza di legge cornice, che, quindi, trincerandosi dietro ai richiami alla solidarietà nazionale e alla perequazione, si fa portatrice di una visione spudoratamente accentratrice, «con buona pace per l’autonomia finanziaria delle Regioni e per le richieste di differenziazione» (61). Il tutto alla vigilia di un momento difficilissimo per le sorti della Repubblica, un momento in cui sarebbe il caso di puntare decisamente sulle aree più efficienti del paese, quelle che, grazie al dinamismo del proprio settore produttivo (o di quello che ne resterà), costituiscono speranza di riscossa da cui l’intero paese non può prescindere.

Andrea Giovanardi

(60) Sulla bozza di legge cornice successivamente varata, con particolare riferimento ai profili di più che dubbia costituzionalità, v. L.A. Mazzarolli, Considerazioni a prima vista di diritto costituzionale sulla “bozza di legge quadro” consegnata dal Ministro degli Affari regionali e delle Autonomie del Governo Conte II Francesco Boccia ai Presidenti Zaia, Fontana e Bonaccini, in www.federalismi.it, 27 novembre 2019. (61) Ne evidenzia il carattere marcatamente accentratore, D. Stevanato, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 108-109.


Le sanzioni per le violazioni commesse in materia di agevolazioni fiscali per ricerca e sviluppo. Dalla prassi interpretativa alla ricostruzione teorica (e non viceversa) Sommario: 1. Il credito di imposta R&S negli orientamenti della prassi e l’intervento di Assonime. – 2. La natura giuridica dell’atto di recupero. – 3. L’identificazione dei profili di “non spettanza” ovvero di “inesistenza” del credito d’imposta e la rilevanza penale delle contestazioni già elevate in sede amministrativa. – 4. I corollari dell’incertezza interpretativa. – 5. Recenti sviluppi e possibili spunti di riflessione sulla “nuova” formulazione del credito di imposta previsto della legge di Bilancio 2020.

Le contestazioni mosse dagli Uffici finanziari e fondate sulla presunta inesistenza del credito ricerca e sviluppo, sottendono una problematica di natura qualificatoria collegata al differente carico sanzionatorio relativo alla contestazione di inesistenza di un credito d’imposta, rispetto alla corrispondente misura afflittiva prevista in caso di “non spettanza” del credito medesimo. La prassi dell’Agenzia delle Entrate ha posto in evidenza solo i profili di intrasferibilità del credito e di corretta imputazione temporale dei costi capitalizzabili, senza alcun approfondimento in ordine al disconoscimento, in sede di attività di controllo, del credito d’imposta mediante contestazione dell’inesistenza materiale del regime agevolativo, nonostante il consolidato orientamento, sul punto, della giurisprudenza della Corte di Cassazione. In tale quadro di riferimento è intervenuta la circolare Assonime n. 23/2019, che, riprendendo gli spunti già messi in evidenza dalla Risoluzione 2.04.2019, n. 40 e partendo dalla contestazione dell’inesistenza del credito di imposta in virtù della non spettanza dello stesso, identifica il quadro sanzionatorio applicabile (art. 13, comma 5 D.Lgs. n. 471/1997) e la possibile suscettibilità di rilievo penale (ai sensi dell’art. art. 10 quater D.Lgs. n. 74/2000), stigmatizzando inoltre il fatto che le contestazioni vengono elevate con atti di recupero ex art. 27, comma 16, D.l. n. 185/2008, irrogabili, tuttavia, solo in caso di comportamento fraudolento del contribuente. The injunctions issued by domestic Tax Authority and based on the presumed inexistence of the Research and Development tax credit (hereinafter, «R&D tax credit») imply a proper recognition about the correct qualification of the administrative sanctions, and finally criminal penalties, related to the statement of inexistence or differently (to the statement of) «not being lawfully entitled» to the fruition of the tax credit aforementioned. In


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short, the best practices suggested by domestic Tax Authority and followed up by its local offices mostly concerned with the issues connected both to the assignment of the «R&D tax credit» in favor of «third-party», and to the correct allocation in time of the so-called multi-year charges and other costs related to the assets eligible for the tax credit thereof. Above all, without any sort of detailed explanation associated to the situation which might take place during the activity of carrying out fiscal audits, when the measure of the «R&D tax credit» can be queried through an order stating the actual inexistence of the credit thereof, notwithstanding the consolidated case-law of the Italian Supreme Court on it. In the framework described on top and related to the different qualification between inexistence and «not lawful entitlement» to the fruition of the «R&D tax credit», the recent circular adopted by Assonime, No. 23/2019 identifies, consistently with the interpretative line expressed by domestic Tax Authority through the Resolution 2nd April 2019, No. 40, administrative and criminal penalties which a taxpayer could be subjected to (respectively, art. 13, Legislative Decree, No. 471/1997 and art. 10 quater, Legislative Decree, No. 74/2000). Moreover, it is worth saying that the procedure thereof enforced by domestic Tax Authority’s local offices is pursued by notifying express «recovery injunctions» to the taxpayer (see art. 27, paragraph 16, Decree Law No. 185/2008) which could be issued, however, just after having ascertained the fraudulent behaviour of the taxpayer himself.

1. Il credito di imposta R&S negli orientamenti della prassi e l’intervento di Assonime. – Il recente interesse verso i profili di criticità degli indirizzi di intervento, attuati in sede di controllo, dagli uffici territoriali dell’Agenzia delle Entrate in materia di crediti d’imposta per ricerca e sviluppo (1), ha trovato ulteriori spunti di riflessione nella recente Circolare Assonime del 14 novembre 2019, n. 23 (2), esortata dal vivace dibattito sollevato dall’iter procedurale seguito dall’Amministrazione. Le contestazioni mosse dagli Uffici finanziari e fondate sulla presunta inesistenza del credito R&S sottendono infatti, in tale contesto, una problematica di natura qualificatoria collegata al differente carico sanzionatorio relativo alla contestazione di inesistenza di un credito d’imposta, rispetto alla corrispondente misura afflittiva prevista in caso di “non spettanza” del credito medesimo (ai sensi dell’art. 13, comma 4, D.Lgs. n. 471/1997).

(1) Si consenta in questa sede il rinvio a C. Califano, Indebita compensazione del credito d’imposta per ricerca e sviluppo e attività di controllo volta alla contestazione dell’inesistenza dei crediti, in Riv. dir. trib. – suppl. online, in www.rivistadirittotributario. it/2019/09/30/indebita-compensazione-del-credito-dimposta-ricerca-sviluppo. (2) Assonime, circ. 14.11.2019, n. 23, Le sanzioni per gli errori commessi in sede di applicazione del credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo, in www.assonime.it


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Nel corso del 2019 le risposte a quesiti pubblicate dall’Agenzia delle Entrate (3) hanno posto in evidenza solo i profili di intrasferibilità del credito e di corretta imputazione temporale dei costi capitalizzabili, senza alcun approfondimento in ordine al disconoscimento, in sede di attività di controllo, del credito d’imposta mediante contestazione dell’inesistenza materiale del regime agevolativo. Sul punto occorre considerare che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha già espresso un consolidato orientamento operando una distinzione tra categorie di crediti “non spettanti” e “inesistenti” con riferimento ai correlati trattamenti sanzionatori: il Giudice di legittimità ha individuato, infatti, come “inesistenti” quei crediti che risultano tali sin dall’origine (perché il credito utilizzato non esiste materialmente o perché, seppur esistente, è già stato utilizzato una volta), ovvero anche quelli che non sono esistenti dal punto di vista soggettivo (cioè di cui è riconosciuta la spettanza ad un soggetto diverso da quello che li utilizza in compensazione) o, infine, quelli sottoposti a condizione sospensiva. Al contrario, sono crediti non spettanti quelli utilizzati oltre il limite previsto dalla norma oppure in compensazione, (in assenza di dolo specifico e con conseguente configurabilità della fattispecie sanzionatoria in caso di dolo generico o colpa del contribuente) (4). La distinzione operata dalla Cassazione ha condotto la prassi interpretativa dell’Agenzia delle Entrate a ribadire che sarà procedibile il recupero delle somme indebitamente compensate su crediti d’imposta inesistenti nei casi in cui le condotte sanzionate “siano quelle connotate da aspetti fraudolenti a seguito di specifici riscontri di coerenza contabile (tra quanto analiticamente indicato nei modelli di versamento, relativamente ai crediti utilizzati in compensazione e le dichiarazioni (in molti casi omesse) in cui risulterebbe essersi formata la provvista”; pertanto, la sanzione diretta a colpire condotte fraudolente (ai sensi dell’art. 27, D.l. n. 185/2008), secondo l’Agenzia, era da

(3) Si v. per tutti Agenzia delle Entrate, Ris. 8.05.2018 n. 36/E; in precedenza, la prassi amministrativa era intervenuta sul tema del contrasto alle indebite compensazioni attraverso l’utilizzo del concetto di “credito inesistente” su cui, ex multis, Circ. 10.05.2011, n. 18/E; Circ. 12.10.2016, n. 42/E, § 2 (con riferimento l’accesso all’istituto premiale del “ravvedimento” in caso di compensazione di un debito fiscale – in tutto o in parte – con un credito “non spettante”) e la Circ. 25.09.2017, n. 23/E, § 5.2. tutte disponibili in www.finanze.it. (4) Corte di Cassazione, Relazione dell’Ufficio del Massimario, n. III/05/2015 del 28 ottobre 2015.


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intendersi come diretta a colpire quelle “idonee a indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, in quanto rilevabili solamente a seguito di un controllo del modello di versamento, nel presupposto che la condotta illecita si fosse realizzata mediante artifici o raggiri capaci di trarre in inganno, con la consapevolezza di tale idoneità (scientia fraudis)” (5). Sono dunque da individuare tre condizioni necessarie, ai fini della qualificazione giuridica del credito d’imposta come inesistente, che si sostanziano nella carenza assoluta e ab origine (6), nella integrazione in capo al contribuente soggetto a controllo di una condotta fraudolenta, con dolo specifico, volta all’ottenimento di misure agevolative (7), altrimenti precluse ed, infine, nella realizzazione un’apposita attività di controllo sulle dichiarazioni presentate (8).

(5) Ris. 8.05.2018 n. 36/E, cit. (6) Salvo i casi di sopravvenuta inesistenza del credito dovuta all’intervento di una legge d’interpretazione autentica, ovvero per declaratoria di incostituzionalità dei requisiti – oggettivi e soggettivi – previsti dalla norma agevolativa ai fini dell’accesso del contribuente agli effetti premiali. Sul punto si v. G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 41 ss. e 194 ss.; M. Basilavecchia, Credito “riportato”, ma inesistente: rilevanza penale dell’utilizzo, in Corr. trib., 2011, 216 ss. e, diffusamente, – soprattutto in parallelo con l’integrazione del reato di indebita compensazione ex art. 10 quater, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, V. Mastroiacovo, Riflessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle vertenze penali, in Riv. dir. trib., 2015, 2, 142 ss.; A. Pace, I reati di omesso versamento di ritenute certificate e di indebita compensazione, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 2, 233 ss.; S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, ivi, 2015, 5, 405 ss. Da ultimo, sul punto, Corte Cost., 21.02.2018, n. 35 con nota di M. Di Siena, La Corte costituzionale e la soglia di punibilità del delitto di indebita compensazione: fra suggestive assimilazioni e rigide differenziazioni. Anamnesi di un delitto imperfetto, in Giur. cost., 2018, 1, 347 ss. e Cass., Sez. III pen., 14.11.2017, n. 1999 con nota di E. Fassi, Indebita compensazione ex art. 10-quater d.lg. n. 74/2000. ricognizione degli elementi costitutivi della fattispecie ed estensione del concetto di profitto ascrivibile a tale tipologia di reato, in Giur. pen., 2018, 5, 1737 ss. (7) A. Vallini, Funzione del dolo specifico e rilevanza dell’errore rispetto alle incriminazioni del d.lgs. 74/2000 e G. Checcacci, I reati con condotta di omesso adempimento all’obbligo tributario in A. Di Martino, E. Marzaduri e A. Giovannini, Trattato di Diritto Sanzionatorio Tributario, Milano, 2016, rispettivamente 258 ss. e 775 ss. (8) Tale controllo deve essere realizzato in fase “endoprocedimentale” ed in contraddittorio con il contribuente, ovvero a seguito di appositi accessi, ispezioni e verifiche ed al rilascio del processo verbale di contestazione. Sulla rilevanza del “momento di confronto” anticipatorio e dialettico tra Amministrazione finanziaria e contribuente in via preventiva all’adozione dell’atto impositivo, v. G. Vanz, I poteri conoscitivi e di controllo dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2012, 426; in precedenza, L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento nelle imposte sui redditi e nell’iva, Padova,


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In tale quadro di riferimento è intervenuta la circolare Assonime n. 23/2019, che, riprendendo gli spunti già messi in evidenza dalla Risoluzione 2.04.2019, n. 40 (9) e partendo dalla contestazione dell’inesistenza del credito di imposta in virtù della non spettanza dello stesso, identifica il quadro sanzionatorio applicabile (art. 13, comma 5 D.Lgs. n. 471/1997) e la possibile suscettibilità di rilievo penale (art. 10 quater D.Lgs. n. 74/2000). Nella circolare Assonime emerge, a più riprese e su più punti, una netta stigmatizzazione sul fatto che le contestazioni vengono elevate con atti di recupero (10) ex art. 27, comma 16, D.l. n. 185/2008, irrogabili, tuttavia, solo in caso di comportamento fraudolento del contribuente (11).

1990, p.436; G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, 288; R. Schiavolin, Il dovere di informazione nello Statuto del contribuente, in A. Bodrito, A. Contrino e A. Marcheselli (a cura di), Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del prof. Gianni Marongiu, Torino, 2012, 319 in particolare 325; A. Marcheselli, Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2012, 96 ss. Tra i contributi più recenti: S. Muleo, Il contraddittorio procedimentale: un miraggio evanescente?, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 1, 233 ss.; S.F. Cociani, Il contraddittorio preventivo di nuovo all’attenzione della Consulta. Verso il riconoscimento del principio del giusto procedimento?, in Rass. trib., 2019, 531 ss. (9) Tale risoluzione concerne l’identificazione dei profili problematici di riconduzione nella nozione di “innovatività” ai fini del godimento del credito di imposta ricerca e sviluppo della c.d. “innovazione di processo”; sul punto si v. OECD, Guidelines for Collecting and Interpreting Innovation Data. Oslo Manual, Paris, 2005, 166 in materia di innovazione e la Comunicazione della Commissione 2014/C 198/03, § 1.3, p.to n. 15, relativamente alla definizione di “Technological Process Innovation” e che non rientra tra le fattispecie ammissibili al credito d’imposta. (10) Gli organi di controllo hanno, nella quasi totalità dei casi, posto al centro delle contestazioni sollevate il requisito della novità dell’investimento, quale elemento caratterizzante ed essenziale ai fini dell’attribuzione del credito d’imposta; gli Uffici (o almeno, alcuni di essi) hanno poi conseguentemente provveduto all’emissione di appositi atti di recupero (ex art. 27, commi da 16 a 20, D.l. n. 185/2008) delle somme indicate nel credito d’imposta indebitamente utilizzato in compensazione, irrogando la corrispondente sanzione prevista dall’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997. La prassi amministrativa che si è espressa sul punto, con un indirizzo non sempre chiaro, ha dato una definizione di “prodotto o processo nuovo”, legato al concetto di innovazione, evidenziando che rimarrebbero escluse dalle agevolazioni tutte quelle trasformazioni di processo o di prodotto che rappresentano un mero “adattamento della tecnologia esistente”. Sul punto cfr. Agenzia delle Entrate, Circ. 10 maggio 2005, n. 25/E, § 3.1 come ripresa dalle Circ. 16 marzo 2016, n. 5/E, § 2.1, 27 aprile 2017 n. 13/E e 10 aprile 2019 n. 8/E, § 3.1, nonché Ris. 22 giugno 2018 n. 46/E tutte disponibili in www.finanze.it). (11) Sul punto cfr. Agenzia delle Entrate, Ris. 8.05.2018, n. 36/E, cit. non annoverata dalla ricognizione di prassi amministrativa operata da Assonime, e circ. 14.11.2019, n. 23, cit. dove, invece, è citata la relazione illustrativa al decreto.


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Sulla base di tali osservazioni, la circolare evidenzia che, qualora gli uffici rilevassero l’insussistenza del presupposto oggettivo dell’agevolazione, prima di applicare la sanzione per credito inesistente, dovrebbero compiere un’ulteriore indagine: comprendere se l’errore commesso dall’impresa riguardi aspetti valutativi particolarmente complessi concernenti la tipologia di attività concretamente svolta, ovvero se l’impresa abbia fruito dell’agevolazione a fronte di attività che risultano, ictu oculi, prive dei requisiti necessari per essere considerate agevolate (12). 2. La natura giuridica dell’atto di recupero. – Un ulteriore aspetto di rilevanza sul tema attiene alla natura giuridica dell’atto di recupero, adottato ai sensi dell’art. 27, D.l. n. 185/2008 ed avente ad oggetto la contestazione dell’indebita compensazione del credito d’imposta (13). Su tale punto si coglie una certa centralità nella circolare Assonime, che opera anche sotto il profilo “pratico-applicativo”, una ricostruzione relativa alla natura giuridica dell’atto di recupero ed alle modalità di utilizzo da parte dell’Agenzia delle Entrate. Gli “atti di recupero dei crediti d’imposta” sono stati introdotti dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, il cui art. 1, comma 421 (14), ha tipizzato uno strumento già utilizzato dagli Uffici e finalizzato al recupero del credito d’imposta indebitamente fruito perché mancante dei presupposti di legge. La formulazione della disposizione ha generato, sin dalla sua introduzione, dubbi interpretativi, principalmente in ordine al concetto di “utilizzo in-

(12) Assonime, circ. 14.11.2019, n. 23, Le sanzioni per gli errori commessi in sede di applicazione del credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo, cit., 14-15. (13) In materia di indebita compensazione cfr. M. Logozzo, Gli incerti confini dell’indebita compensazione dei crediti inesistenti, in Corr. Trib., 2011, 33, 2661 ss.; in termini generali, F. Paparella, L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2008, 322 – 324; in termini penalistici, G. Soana, il reato di indebita compensazione, in Rass. trib., 1, 2008, 60; S.M. Messina, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2008, 200; in termini di ricostruzione sistematica, A. Turchi, il credito d’imposta, in Dig. Disc. Priv. sez. comm., IV, Torino, 1989, 23; da ultimo, ma con un’attenzione più accentuata ai profili definitori della compensazione tributaria G. Girelli, La compensazione tributaria, Milano, 2010, 239 e 240. (14) A mente del quale “… per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, nonché per il recupero delle relative sanzioni e interessi l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973”.


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debito” e di termine decadenziale entro cui era possibile esperire l’azione di recupero. Una serie di interventi legislativi successivi, resi necessari al fine di contrastare l’ormai diffuso fenomeno di indebito utilizzo di crediti inesistenti, ha poi consentito di meglio delineare la fattispecie di riferimento: l’art. 27, D.L. 185/2008, ha disciplinato, quantomeno a fini sanzionatori, una precisa e vincolata condotta illecita, e cioè quella di colui che, per il tramite della compensazione ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 241/1997, utilizzi un credito completamente inesistente, peraltro non intaccando la struttura dell’atto di recupero delineata dalla legge n. 311/2004. Il sopra richiamato art. 27 ha introdotto poi la previsione di un termine di decadenza per la contestazione di un credito inesistente (15). Un ulteriore chiarimento normativo si è avuto, poi, con la riforma del sistema sanzionatorio operata dal D.Lgs. n. 158/2015 che, tra gli altri, ha ridefinito il regime sanzionatorio relativo all’utilizzazione di crediti inesistenti e non spettanti (16). La giurisprudenza di legittimità ha chiarito sul punto, in linea con la dottrina, che gli avvisi di recupero dei crediti d’imposta manifestano una volontà impositiva dell’Ufficio e assumono, pertanto, natura sostanzialmente accertativa (17). L’Agenzia delle Entrate, tuttavia, ha espresso il costante avviso secondo cui tali atti possono essere posti alla base della richiesta di misure cautelari ex

(15) L’introduzione dell’art. 27, D.L. n. 185/2008, ha previsto inoltre un termine più lungo per l’emanazione dell’atto di cui alla L. 311/2004 finalizzato al recupero di un credito inesistente, compensato ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. 241/1997. (16) L’art. 20, D.lgs 158/2015 ha aggiunto nella rubrica la dizione “e altre violazioni in materia di compensazione” ed è poi intervenuto sull’art. 1, comma 421, L. 311/2004, per ridisegnare l’assetto dell’atto del recupero dei crediti indebitamente utilizzati. Sul relativo regime sanzionatorio si v. infra, § 3. (17) Cfr. Cass., Ord. 3.04.2019, n. 9247; Cass., Ord. 13.03.2019, n. 7131; Cass., Ord. 22.03.2011, n. 6582; Cass., Sez. Trib., 22.07.2016, n. 15186; Cass. Sez. Trib., 9.07.2014, n. 15634; Cass., Sez. Trib., 17.09.2014, n. 19561, in CED online. In dottrina tale qualificazione è condivisa da F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2014, 85; G. Ragucci, La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013, 129 e 130 spec. nota n. 31 e A. Carinci, La concentrazione della riscossione nell’accertamento (ovvero un nuovo ircocervo tributario), in C. Glendi e V. Uckmar, La concentrazione della riscossione nell’accertamento, Padova, 2011, 45 ss. Per un approfondimento sulla differenza sistematica tra gli “atti di recupero” in commento e gli “atti di recupero di Aiuti di Stato” non conformi alla disciplina europea, si v. A. Pace, Recupero di aiuti di Stato e tutela cautelare, in Riv. dir. trib., 2008, 10, 867 ss.


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articolo 22 del D.Lgs. n. 472/1997 a motivo della “natura giuridica dell’atto di recupero, il quale rientra nel novero degli atti autoritativi impositivi nella misura in cui reca una pretesa tributaria ormai definita, compiuta e non condizionata” (18): questo approccio interpretativo recante precise locuzioni quali “pretesa definitiva e non condizionata”, non deve però condurre a ritenere che, invece, gli atti di recupero possano assumere una valenza più specificamente “riscossiva”. La natura accertativa degli atti di recupero assume rilevanza, infatti, anche nell’ambito del diritto europeo, dove trovano applicazione gli istituti procedimentali tipici dell’ordinamento tributario (19) ed in primis quelli che regolano la potestà di accertamento (20), a miglior tutela delle situazioni soggettive (21). Adottando questa impostazione, dunque, si legittima l’accesso del contribuente agli istituti di tipo deflattivo (art. 6. D.lgs. n. 218/1997) al fine di beneficiare, in caso di esito positivo della procedura, del relativo regime premiale in termini di abbattimento della sanzione amministrativa, oltre al perfezionamento di una causa di non punibilità ex art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000, a mente della quale “se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso” (22).

(18) Si v. Agenzia delle Entrate, Circ. 15.02.2010, n. 4/E in www.finanze.it. (19) Cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2017, 236; A. Fantozzi, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della corte di giustizia europea e alle decisioni della Commissione CE, in Rass. Trib., 2003, 2267 ss.; F. Tesauro, Processo tributario ed aiuti di Stato, in Corr. Trib., 2007, 3666; G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, 2007, 92 ss.; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, 197 ss. (20) G. Pizzonia, Aiuti di stato mediante benefici fiscali ed efficacia nell’ordinamento interno delle decisioni negative della commissione Ue rapporti tra precetto comunitario e procedure fiscali nazionali, in Riv. dir. fin., 2005, 3, 384. (21) L. Del Federico, Le controversie sul recupero degli aiuti di stato nella giustizia tributaria italiana: profili critici, orientamenti giurisprudenziali e linee evolutive, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2012, 3, 591 ss. il quale afferma la natura di provvedimento dell’atto di recupero. (22) Sul punto cfr. G. Checcacci, Le circostanze attenuanti in Trattato di Diritto Sanzionatorio Tributario, cit., 230 ss.


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Per altro verso, recenti indicazioni della prassi amministrativa valorizzano come la contestazione dei crediti ricerca e sviluppo debba preferibilmente esercitarsi mediante l’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e verifica, in ragione del fatto che la complessità di ogni singolo sistema produttivo e contabile necessita di un’analisi analitica e specifica del credito d’imposta eventualmente contestato (23). In tal modo i risultati dell’attività di controllo troverebbero una sintesi all’interno di un processo verbale, lasciando percorribile la strada della regolarizzazione immediata della posizione fiscale mediante il ricorso all’istituto del ravvedimento ex art. 13, comma 1, lett. b quater, D.Lgs. n. 472/1997 (24). L’accoglimento integrale dei rilievi contenuti nel processo verbale, attraverso la presentazione di apposita dichiarazione integrativa, consentirebbe di avvalersi dell’apposita riduzione delle sanzioni amministrative ad un quinto del minimo edittale. Sotto il profilo sanzionatorio va evidenziato che, all’emanazione dell’atto di recupero finalizzato alla ripresa a tassazione degli importi indebitamente compensati, consegue l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 13, commi 4 e 5, D.Lgs. n. 471/1997, in dipendenza della qualificazione del credito come, rispettivamente, “non spettante” (soluzione da privilegiare in considerazione di quanto argomentato) ovvero “inesistente”, affiancandosi a tale sanzione altresì la configurabilità della contestazione di omesso, ritardato o insufficiente versamento delle maggiori imposte (o delle minori perdite scomputabili nei periodi d’imposta successivi), risultanti in conseguenza del recupero a tassazione della materia imponibile abbattuta attraverso l’indebita compensazione avvenuta (art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997). L’Agenzia ha sempre espresso il convincimento che la sanzione per credito inesistente non sia applicabile, ad esempio, nei casi in cui il credito utilizzato in compensazione risulti non esistente per violazione di limiti temporali

(23) Cfr. Agenzia delle Entrate, Ris. 8.05.2018, n. 36/E, cit. in www.finanze.it. (24) Sull’evoluzione normativa che ha interessato l’istituto del “ravvedimento”, soprattutto in chiave “preventiva” dell’eventuale contenzioso fiscale v. per tutti G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, Padova, 2017, 546 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte Generale, Milano, 2016, 322; per gli aspetti evolutivi dell’istituto, cfr. S. Galeazzi, Il nuovo ravvedimento oneroso, in Riv. dir. trib., 2014, 9, 994 ss.; G. Pizzonia, Il ravvedimento 2.0, tra deflazione del contenzioso, fiscalità negoziata e cripto-condonismo. Prime note, in Riv. dir. fin., 2015, 1, 72 ss.


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e quantitativi (25), senza peraltro riportare alcuna fonte di supporto; si rinvengono, invece, interessanti spunti nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 158/2015 che ha introdotto il comma 5 dell’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997, ove si evidenzia che “il riferimento operato al riscontro dell’esistenza del credito da utilizzare in compensazione mediante procedure automatizzate rappresenta condizione ulteriore a quella dell’esistenza sostanziale del credito, ed è volta ad evitare che si applichino le sanzioni più gravi quando il credito, pur sostanzialmente inesistente, può essere facilmente “intercettato” mediante controlli automatizzati, nel presupposto che la condotta del contribuente si connota per scarsa insidiosità” (26). 3. L’identificazione dei profili di “non spettanza” ovvero di “inesistenza” del credito d’imposta e la rilevanza penale delle contestazioni già elevate in sede amministrativa. – L’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità più recente sostiene la non sussistenza di una vera differenza tra le categorie della “non spettanza” e della “inesistenza” del credito: viene infatti affermato dai Giudici di legittimità che la separazione categoriale tra “credito non spettante” e “credito inesistente” risulta “basata sulla diversa definizione terminologica del credito d’imposta, oltre a non avere base normativa, si appalesa speciosa in quanto la ratio della norma di cui al Decreto Legge n. 185 del 2008, articolo 27, comma 16, convertito dalla L. n. 2 del 2009, che prevede il termine di otto anni per il recupero dell’imposta, è volta a consentire all’ufficio di compiere gli accertamenti, talvolta complessi, riguardanti la natura dell’investimento che ha generato il credito di imposta […] ogniqual-

(25) Cfr. Agenzia delle Entrate Ris., 8.05.2018, n. 36/E, cit.; parimenti Ris. 22.06.2018, n. 46/E, cit.; Circ. 25.11.2017, n. 23/E, cit.; Circ. 10.05.2011, n. 18/E; Circ. 10.04.2019, n. 8/E, tutte in www.finanze.it. (26) Cfr. Gov. It., – XVII Legislatura, Relazione illustrativa e relazione tecnica ATN e AIR, Roma, 2015, 7 e 8.


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volta il credito derivante dall’operato investimento non sussiste, per ciò solo deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma” (27). A ben vedere, tuttavia, come già in altra sede evidenziato (28), è la stessa giurisprudenza di legittimità, questa volta in sede penale ed in tema di configurabilità del reato di cui all’art. 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000, a fornire la chiave interpretativa secondo cui la fattispecie “è integrata dal mancato versamento di somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17, crediti non spettanti o inesistenti. Ne consegue che non è sufficiente, ad integrare il reato, un mancato versamento, ma occorre che lo stesso risulti, a monte, formalmente “giustificato” da una operazione di compensazione tra le somme dovute all’erario e crediti verso il contribuente, in realtà non spettanti od inesistenti” (29). La punibilità, ai sensi ai sensi dell’art. 10 quater, D.Lgs. n. 74/2000, si interseca dunque con le contestazioni già elevate in sede amministrativa dall’Agenzia per l’utilizzo in compensazione, ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 241/1997 di crediti non spettanti o di crediti inesistenti. La soglia quantitativa, al di sopra della quale l’illecito viene perseguito ai fini penali, costituisce, inoltre, un limite decisamente esiguo in materia di crediti ricerca e sviluppo. L’instaurazione parallela (o in stretta contiguità) dei due procedimenti penale ed amministrativo, comporta l’insorgenza della tematica del divieto di ne bis in idem, che necessiterebbe un coordinamento nelle attività di controllo e di contestazione delle violazioni suscettibili di acquisire rilievo sia dal punto di vista amministrativo, sia penale.

(27) Cass., Sez. Trib., 21.04.2017, n. 10112, in CED online. In termini, Cass. Sez. Trib., Ord. 2.04.2017, n. 19237. Sul punto si v. anche la Ris., 27.11.2008, 452/E, che definisce “non spettanti” i crediti utilizzati in compensazione in misura superiore al limite stabilito dalla legge, ma comunque esistenti, mentre devono considerarsi “inesistenti” i crediti nelle ipotesi di acquisto di un bene riconosciuto non strumentale o di un bene acquistato in epoca antecedente all’entrata in vigore della norma agevolativa. (28) Cfr. C. Califano, “Indebita compensazione del credito d’imposta per ricerca e sviluppo e attività di controllo volta alla contestazione dell’inesistenza dei crediti”, cit., § 4. (29) Cass., 7 giugno 2019, n. 25336, in CED online. In tale sentenza viene altresì evidenziato che “è proprio la condotta, necessaria, di compensazione ad esprimere la componente decettiva o di frode insita nella fattispecie e che rappresenta il quid pluris che differenzia il reato di cui all’articolo 10-quater cit. rispetto ad una fattispecie di mero omesso versamento”.


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La dottrina ha sempre evidenziato la necessità di un’attenta valutazione circa la natura delle singole sanzioni tributarie (amministrative o penali) in relazione al medesimo illecito e ciò deve riguardare inevitabilmente anche l’applicazione del principio di specialità (30). In punto a divieto di ne bis in idem la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo il tradizionale approccio “sostanziale” nella qualificazione della sanzione, ha ricondotto l’illecito amministrativo alla materia penale, con la correlativa assimilazione del procedimento amministrativo (pervenuto a un giudizio definitivo) ad un procedimento penale, con la conseguente attivazione delle garanzie contemplate dalla CEDU (31). Del resto, la stessa giurisprudenza di Cassazione sembra aver recepito pacificamente i principi appena enucleati, tanto da affermare che “in materia tributaria, non è configurabile una violazione del principio del ne bis in idem in caso di contemporaneità del procedimento amministrativo e di quello penale. La connessione temporale, infatti, unita alla diversità di fini perseguiti, esclude la violazione” (32). L’orientamento della giurisprudenza di legittimità, in punto a connessione temporale dei due procedimenti, trova costanti conferme anche nelle ultime pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “lo svolgimento di procedure in gran parte indipendenti l’una dall’altra, in cui si realizza solo una breve sovrapposizione temporale, comporta che non si verifichi quella connessione sufficientemente stretta da far ritenere che non si tratti di

(30) Per tutti, anche a fini ricostruttivi, F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale e A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo in A. Di Martino, E. Marzaduri e A. Giovannini (a cura di), Trattato di diritto sanzionatorio tributario, cit., rispettivamente 1378 ss. e 1408 ss e, con riferimento alla giurisprudenza della CEDU sul punto cfr. R. Cordeiro Guerra, La tutela – processuale e procedurale – del contribuente sottoposto a sanzioni nella giurisprudenza della corte europea dei diritti umani e F. Tesauro, Tutela del contribuente nel sistema della CEDU in F. Bilancia C. Califano, L. Del Federico e P. Puoti, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria italiana, Torino, 2014, rispettivamente 230 ss. e 369 ss. (31) Cfr. caso Engel c. Paesi Bassi, ricorso n. 51100/71, sent. 8.06.1976, in hudoc.echr. coe.int/ che ha postulato il coordinamento temporale e sostanziale fra i due procedimenti aventi natura sostanzialmente penale (i.e. sufficiently close connection in substance and time – caso A e B c. Norvegia, ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11, sent. 15.11.2016 in hudoc.echr.coe.int/. (32) Cass., Sez. pen., 14 febbraio 2018, n. 6993: in senso conforme Cass., 30 ottobre 2018, n. 27581; si v. anche Cass., ord. 13.03.2019, n. 7131 tutte in CED online.


Dottrina

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un doppio procedimento. In questi casi, quindi, si configura una violazione del principio del ne bis in idem” (33). 4. I corollari dell’incertezza interpretativa. – Le criticità e le problematiche applicative emerse in sede di verifica in merito alla corretta applicazione del credito d’imposta per ricerca e sviluppo (34) e del relativo regime sanzionatorio applicabile, hanno originato un ampio dibattito, anche in sede parlamentare (35). In sede applicativa, infatti, si è verificato che le imprese, che hanno adeguatamente e dettagliatamente documentato l’attività di ricerca secondo quanto previsto dalla norma (i.e. relazione tecnica ricerca e sviluppo, registri presenze del personale, contratti di ricerca, relazione rilasciata dal soggetto commissionario, attestazione del revisore), hanno visto gli Uffici occuparsi, in sede di controllo, di questioni di natura tecnica che, invece, competono alle imprese stesse, le quali hanno l’onere di far emergere le implicazioni tecniche che riguardano la riconducibilità delle attività di ricerca e sviluppo a quelle agevolabili. La circolare del Ministero per lo Sviluppo Economico n. 59990/2018 chiarisce sul punto che, trattandosi di incentivi che operano in automatico, dovrà essere cura dell’impresa che intende avvalersi dell’agevolazione predisporre,

(33) Cfr. caso Bjarni Ármannsson c. Islanda, ricorso n. 72098/14, sent. 16.04.2019 in www. cortedicassazione.it/ne-resources/resources/cms/documents/Bollettino_I_Semestre_2019, con nota di M. Castellaneta, Violato il “ne bis in idem” se i due riti su questioni fiscali non hanno una connessione temporale e sostanziale stretta, ivi, 96 ss. e L. La Spina, “Ne bis in idem” processuale europeo, ivi, 2016, 1, 70 ss. Il tema è stato oggetto di un vivace dibattito dottrinale che ha interessato non solo la produzione scientifica nazionale (P. Provenzano, Note minime in tema di sanzioni amministrative e “materia penale”, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 6, 1073 ss.; F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem CEDU: la dimensione antropologica di un (irriducibile?) conflitto, in Riv. dir. trib., 2015, 6, 490 ss.; S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, ivi, 2015, 5, 405 ss. e M.C. Fregni, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e tassazione, in Riv. dir. fin., 2014, 2, 210 ss.) ma anche la dottrina internazionale: A. Rosanò, Ne Bis Interpretatio In Idem? The Two Faces of the Ne Bis in Idem Principle in the Case Law of the European Court of Justice, in German L. J., 2017, 1, 38-59; J. Lelieur, “Transnationalising” Ne Bis in Idem: How the Rule of Ne Bis in Idem Reveals the Principle of Personal Legal Certainty, in Utrecht L. R., 2013, 4, 198-210 e nello stesso volume J.A.E. Varvaele, Ne Bis In Idem: Towards a Transnational Constitutional Principle in the EU?, ivi, 211-229. (34) Ai sensi dell’art. 3, D.l. n. 145/2013. (35) Si v. la risposta scritta del 26 giugno 2019 in Commissione Finanze della Camera all’interrogazione n. 5-02356, 95 ss. e 101 ss.


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oltre alla documentazione obbligatoria, anche un’apposita documentazione concernente l’ammissibilità delle attività di ricerca e sviluppo svolte, dalla quale risultino gli elementi di novità che il progetto intende perseguire, l’avanzamento di tali lavori nell’ambito dei periodi d’imposta agevolabili (36). In caso di incertezze o necessità di chiarimenti, è la stessa Agenzia delle Entrate che, nella sua prassi applicativa, pone tale onere in capo al Ministero dello Sviluppo Economico che, a sua volta, nell’eventualità in cui non ritenesse esauriente relazione tecnica, dovrebbe richiedere approfondimenti direttamente al contribuente. Tale aspetto viene colto con chiarezza dalla circolare Assonime che, proprio sulla base dell’esperienza applicativa maturata dagli Uffici accertatori, rileva che gli stessi organi verificatori necessitano dell’intervento dei competenti uffici del MISE per accertare, appunto, se l’attività svolta dall’impresa può considerarsi ammessa al beneficio dell’agevolazione: “non appare, cioè, priva di rilevanza la circostanza che gli stessi verificatori si trovino in una situazione per così dire speculare a quella dell’impresa, nel senso che anche gli uffici, stante la complessità della fattispecie esaminata, devono fare affidamento sulla valutazione di soggetti terzi in possesso delle necessarie competenze tecniche” (37). Le questioni tecniche relative alla ricerca ed all’innovazione hanno, infatti, implicazioni molto complesse che devono essere messe in relazione sia alla già rilevata circostanza per cui l’agevolazione è fruita dalle aziende applicando l’automatismo previsto dalla norma, sia in relazione al fatto che tale beneficio è stato fruito in passato assenza di quei chiarimenti interpretativi che oggi, invece, vengono espressi dalla prassi ministeriale. Tale delicato aspetto è da tenere nella debita considerazione in quanto gli Uffici verificatori, di fatto, applicano oggi gli orientamenti interpretativi espressi solo assai di recente, con efficacia retroattiva a verifiche su periodi d’imposta anteriori (38).

(36) Sul punto risulta di preminente interesse la Comunicazione CE 2014/C -198/01 (punto n. 75, nota 2) sulle attività operativamente considerabili “innovative” (“The Measurement of Scientific and technological Activities, Proposed Standard Practice for Surveys on Research and Experimental Development”. A fini pratici, si può anche ritenere che le diverse categorie di R&S corrispondano a tre livelli (Technology Readiness Levels): ricerca di base, ricerca industriale e sviluppo sperimentale. (37) Circolare Assonime 23/2019 cit., pag. 14, spec. nota 17. (38) A titolo di esempio e prendendo spunto proprio dagli orientamenti interpretativi che si sono avuti prima da parte del Ministero per lo sviluppo economico e, poi, da parte dell’Agenzia delle Entrate, solo a partire dal 2018, la Circ. 10 aprile 2019, n. 8/E, chiarisce nitidamente che “l’attività di controllo della corretta applicazione della disciplina del credito


Dottrina

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Devono dunque essere valutati attentamente, in sede di verifica, quei contribuenti che, pur in assenza di obblighi di legge nei periodi di imposta considerati, hanno comunque provveduto alla redazione di relazioni tecniche e di perizie giurate da parte di soggetti professionali, con la finalità specifica di dare rilievo, anche sotto il profilo documentale, ai contenuti tecnici effettivamente conseguiti. Il tema ricerca e sviluppo e la valutazione, operata dagli Uffici, in merito alle attività analiticamente documentate, i cui contenuti, però, non sono stati ritenuti condivisibili dai verificatori, implicano, oltre alla qualificazione ed al recupero dei “crediti d’imposta inesistenti” (anziché “non spettanti”), anche il delicato tema relativo all’applicazione delle sanzioni sotto lo specifico profilo di interesse relativo all’incertezza interpretativa, di cui all’articolo 6, comma 2, D.Lgs n. 472/1997, all’articolo 10, comma 3, L. n. 212/2000 ed all’art. 15, D.Lgs n. 74/2000. Nell’ipotesi in cui, il contribuente, in totale buona fede, abbia realizzato e dettagliatamente documentato tutta l’attività di ricerca secondo quanto previsto dalla norma, (ovvero relazione tecnica, registri presenze del personale e perizie giurate) anche in periodi di imposta antecedenti alla loro obbligatorietà, dovrà essere valutato sia in relazione alle necessarie competenze tecniche (che, stando anche alle indicazioni di prassi ufficiali, competerebbero alle imprese con riferimento alla riconducibilità delle attività di ricerca e sviluppo a quelle agevolabili e, in caso di incertezze o necessità di chiarimenti, al Ministero dello Sviluppo Economico), sia in considerazione della particolarità e complessità dei profili (anche) tecnici, sui cui, peraltro, la prassi interpretativa si è espressa solo successivamente. Sotto il profilo sanzionatorio va ulteriormente evidenziato che, come già emerso nei paragrafi precedenti, all’emanazione dell’atto di recupero finalizzato alla ripresa a tassazione degli importi indebitamente compensati, conse-

d’imposta, non consiste solo nella verifica dell’effettività e dell’ammissibilità delle spese indicate dall’impresa [……] presupponendo anche la previa analisi dei contenuti di ricerca e sviluppo delle attività svolte ai fini della loro ammissibilità al beneficio”, nonché ribadendo che “trattandosi di analisi per le quali si può rendere necessario il supporto di competenze specialistiche, nei vari ambiti scientifici e tecnologici, l’Agenzia delle Entrate, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del decreto attuativo della misura, potrà avvalersi del supporto del Ministero dello Sviluppo economico per ricevere pareri tecnici in ordine sia alla qualificazione delle attività svolte dall’impresa, sia in ordine alla pertinenza ed alla congruità delle spese sostenute” (p. 86).


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Parte prima

gue l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 13, commi 4 e 5, D.Lgs. n. 471/1997, in dipendenza della qualificazione del credito come, rispettivamente, “non spettante”, ovvero “inesistente”; a tale sanzione si affianca altresì la configurabilità della contestazione di omesso, ritardato o insufficiente versamento delle maggiori imposte (o delle minori perdite scomputabili nei periodi d’imposta successivi) risultanti in conseguenza del recupero a tassazione della materia imponibile abbattuta attraverso l’indebita compensazione avvenuta (art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997). Da qui l’esigenza di distinguere le attività documentate in modo corretto, ma con contenuti tecnici complessi e ritenuti non comprensibili dagli Uffici in sede di verifica (da soggetti comunque non dotati di adeguate competenze tecniche, che spettano invece, come già evidenziato, al Ministero dello Sviluppo Economico), dalle ipotesi fraudolente; in altri termini occorre differenziare le ipotesi di crediti d’imposta “non spettanti” dai crediti “inesistenti”, distinzione che implica e si riverbera sui profili di aggravio sanzionatorio e sulle modalità di recupero del credito di imposta. 5. Recenti sviluppi e possibili spunti di riflessione sulla “nuova” formulazione del credito di imposta previsto della legge di Bilancio 2020. – La legge di Bilancio 2020 (l. 27 dicembre 2019, n.160) offre qualche spunto di riflessione in tema di agevolazioni per ricerca e sviluppo. In particolare, l’art. 1, commi da 198 a 209, estendono fino al 31 dicembre 2020 la misura agevolativa, ma con alcune rilevanti modifiche: il credito d’imposta premia ora non solo gli investimenti in ricerca e sviluppo, ma anche quelli per la “transizione ecologica, l’innovazione tecnologica 4.0 le altre attività innovative a supporto della competitività delle imprese” (comma 198) (39). Sono, altresì considerate, ai sensi del comma 200, le “attività di ricerca e sviluppo ammissibili al credito d’imposta le attività di ricerca fondamentale, di ricerca industriale e sviluppo sperimentale in campo scientifico o tecnologico, come definite, rispettivamente, alle lettere m), q) e j) del punto 15

(39) Cfr. i recenti commenti di A. Sacrestano, Ricerca, sviluppo e innovazione: aumenta la platea ma diminuisce il credito d’imposta, in Aa.Vv., Novità fiscali 2020, IlSole24Ore Milano, 2020, 119 ss. e S. De Cesari, Interventi in attesa di regole a regime; P. Ceppellini e R. Lugano, Processi innovativi premiati dal Fisco, IlSole24Ore - Milano, 10 gennaio 2020, 23. La prassi è intervenuta, in risposta a specifici interpelli, con le ris. 11.11.2019, n. 477; 14.11.2019; 12.12. 2019, n. 516 e n. 520, in www.finanze.it.


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del paragrafo 1.3 della comunicazione della Commissione (2014/C 198/01) del 27 giugno 2014, concernente disciplina degli aiuti di Stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione”, peraltro in stretta attinenza e con evidente trasposizione nel dettato normativo di quanto già espresso nell’orientamento interpretativo della Risoluzione n. 40/E del 2 aprile 2019. Il successivo comma 201 conferma inoltre espressamente che per prodotto o processo di produzione nuovo o sostanzialmente migliorato si intende “un bene materiale o immateriale o un servizio o un processo che si differenzia, rispetto a quelli già realizzati o applicati dall’impresa, sul piano delle caratteristiche tecnologiche o delle prestazioni o dell’ecocompatibilità o dell’ergonomia o per altri elementi sostanziali rilevanti nei diversi settori produttivi”; non sono, invece, considerate attività di innovazione tecnologica ammissibili al credito d’imposta, le “attività di routine per il miglioramento della qualità dei prodotti e in generale le attività volte a differenziare i prodotti dell’impresa da quelli simili, presenti sullo stesso mercato concorrenziale, per elementi estetici o secondari, le attività per l’adeguamento di un prodotto esistente alle specifiche richieste di un cliente nonché le attività per il controllo di qualità e la standardizzazione dei prodotti”. Il credito d’imposta spettante è utilizzabile esclusivamente in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del D.Lgs. n. 241/1997, in tre quote annuali di pari importo, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello di maturazione (40), subordinatamente all’avvenuto adempimento degli obblighi di

(40) Le modalità di funzionamento del “nuovo” credito di imposta sono disciplinate dal comma 3: per le attività di ricerca e sviluppo, in misura pari al 12 per cento della relativa base di calcolo, al netto delle altre sovvenzioni o contributi a qualunque titolo ricevute per le stesse spese ammissibili, nel limite massimo di 3 milioni, ragguagliato ad anno in caso di periodo d’imposta di durata inferiore o superiore a dodici mesi; per le attività di innovazione tecnologica, separatamente, in misura pari al 6 per cento della relativa base di calcolo, al netto delle altre sovvenzioni o contributi a qualunque titolo ricevute sulle stesse spese ammissibili, nel limite massimo di 1,5 milioni di euro, ragguagliato ad anno in caso di periodo d’imposta di durata inferiore o superiore a dodici mesi; per le attività di innovazione tecnologica destinate alla realizzazione di prodotti o processi di produzione nuovi o sostanzialmente migliorati per il raggiungimento di un obiettivo di transizione ecologica o di innovazione digitale 4.0, il credito d’imposta è riconosciuto in misura pari al 10 per cento della relativa base di calcolo, al netto delle altre sovvenzioni o contributi a qualunque titolo ricevute sulle stesse spese ammissibili, nel limite massimo di 1,5 milioni di euro, ragguagliato ad anno in caso di periodo d’imposta di durata inferiore o superiore a dodici mesi; per le attività di design e ideazione estetica, il credito d’imposta è riconosciuto in misura pari al 6 per cento della relativa base di calcolo, al netto delle altre sovvenzioni o contributi a qualunque titolo ricevute sulle stesse spese ammissibili, nel limite massimo di 1,5 milioni di euro, ragguagliato ad anno in caso di periodo d’imposta di


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certificazione (41); il credito d’imposta non concorre alla formazione del reddito d’impresa né della base imponibile Irap e non rileva ai fini degli articoli 61 e 109, comma 5, del Tuir. Il credito d’imposta, infine, non è cumulabile con altre agevolazioni che abbiano ad oggetto i medesimi costi (42). Tale assetto di “riproposizione” della misura agevolativa trova poi, al successivo comma 207, la disciplina relativa all’attività di controllo: qui il Legislatore sembra propendere per una soluzione diretta alla necessaria anticipazione dell’atto di recupero (seppur non direttamente richiamato mediante un riferimento all’art. 27, d.l. n. 185/2008), attraverso una verifica della contabilità e delle certificazioni prodotte dall’azienda, in tal modo implicitamente ammettendo un’attività che richiede un riscontro nell’ambito delle ordinarie attività di accertamento, ove “l’Agenzia delle entrate, sulla base dell’apposita certificazione della documentazione contabile e della relazione tecnica prevista dai commi 205 e 206 nonché sulla base della ulteriore documentazione fornita dall’impresa, effettua i controlli finalizzati alla verifica delle condizioni di spettanza del credito d’imposta e della corretta applicazione della disciplina”. Tale ultima disposizione, se inquadrata nel contesto normativo generale adottato dalla Legge di Bilancio, porta a ritenere che il Legislatore non ha colto quelle che avrebbero potuto essere le possibilità di sviluppo di questa forma agevolativa, in tal modo perdendo l’occasione di superare prima le incertezze applicative, poi quelle interpretative. La normativa configura l’agevolazione ricerca e sviluppo come credito d’imposta e la contestazione relativa alla mancanza dei requisiti confluisce inevitabilmente nel profilo sanzionatorio amministrativo e penale che caratterizza il credito d’imposta “inesistente”.

durata inferiore o superiore a dodici mesi. (41) Il comma 205 dispone che “ai fini del riconoscimento del credito d’imposta, l’effettivo sostenimento delle spese ammissibili e la corrispondenza delle stesse alla documentazione contabile predisposta dall’impresa devono risultare da apposita certificazione rilasciata dal soggetto incaricato della revisione legale dei conti. Per le imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti, la certificazione è rilasciata da un revisore legale dei conti o da una società di revisione legale dei conti, iscritti nella sezione A del registro di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39”. (42) Secondo il comma 204, ciò è sottoposto alla condizione che tale cumulo “tenuto conto anche della non concorrenza alla formazione del reddito e della base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive di cui al periodo precedente, non porti al superamento del costo sostenuto”.


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Altre recenti norme agevolative connesse alle attività caratterizzate da ricerca e sviluppo, e conseguente sfruttamento degli investimenti immateriali (43), hanno configurato l’agevolazione non come credito d’imposta, bensì come variazione in diminuzione da operare ai fini Irpef, Ires ed Irap. Tali norme originariamente prevedevano che detta agevolazione fosse subordinata alla conclusione di un “ruling preventivo” con l’Agenzia delle Entrate nel caso di utilizzo diretto dei c.d. “intangibles”, mentre tale procedimento era facoltativo nel caso di redditi derivanti dall’uso di detti beni concessi a terzi. Ulteriori novità introdotte dal c.d. “decreto crescita” (in particolare l’art. 4, D.l 30 aprile 2019, n. 34) hanno innovato tale disciplina prevedendo che i titolari di reddito d’impresa che optano per il regime agevolativo della patent box possano scegliere, in alternativa alla procedura del “ruling”, ove applicabile, di determinare e dichiarare il reddito agevolabile, indicando le informazioni necessarie attraverso una idonea documentazione predisposta secondo quanto previsto dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 30 luglio 2019; viene altresì stabilito che, in caso di rettifica del reddito escluso dal reddito d’impresa per effetto di detta agevolazione, determinata direttamente dal contribuente, la sanzione amministrativa di cui all’art. 1, comma 2, D.lgs 471/97, non si applica qualora nel corso degli accessi, ispezioni, verifiche od altra attività istruttoria, il contribuente consegni all’Amministrazione finanziaria la documentazione indicata nel provvedimento, della cui detenzione il contribuente deve informare l’Amministrazione finanziaria nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta per quale beneficia dell’agevolazione. L’adozione di tale modello agevolativo, che si articola non più sul riconoscimento del credito d’imposta (e, di riflesso sui gravi effetti sanzionatori connessi al suo mancato riconoscimento) ma sulla determinazione di una variazione in diminuzione del reddito imponibile, consentirebbe di uscire dalla stringente disciplina del credito d’imposta (e dal relativo impianto sanzionatorio) e garantirebbe una attività di disclosure preventiva da parte del contribuente. Se prevista e disciplinata da specifica normativa, pertanto, si tratterebbe di inserire a sistema una penalty protection per l’impresa collaborativa ed in

(43) Il riferimento è alla disciplina della patent box, ai sensi dell’art. 1, commi da 37 a 45, l. 23 dicembre 2014 n. 190 e del d.m. 30 luglio 2015 del Ministero dello Sviluppo Economico di concerto con il Ministero dell’Economia e delle finanze.


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Parte prima

buona fede nelle attività di ricerca e sviluppo, già peraltro conosciuta e adottata a sistema nel reddito d’impresa (ad esempio nella disciplina del transfer pricing), evitando l’attuale situazione per cui una contestazione relativa alla “non spettanza” di una agevolazione, possa essere duramente sanzionata sotto il profilo amministrativo e, in molti casi, penale. Come per il pregresso sistema agevolativo di ricerca e sviluppo, tali nuove misure verranno in concreto applicate attraverso le verifiche degli uffici dell’Agenzia, che sarà chiamata a dare concreta ed effettiva attuazione ad un’agevolazione che è normativamente strutturata per operare in automatico, sindacandone di fatto la corretta ed effettiva applicazione, auspicabilmente attraverso il vaglio tecnico del Ministero per lo Sviluppo economico. La prospettiva sarà dunque ancora quella per cui la prassi applicativa definirà, in sede di controllo, il perimetro applicativo della misura agevolativa in mancanza di un efficace sistema di norme che garantisca, per l’impresa, il riconoscimento dell’effettiva fruizione dell’agevolazione sin dalla sede dichiarativa. Come dire: dall’applicazione pratica alla ricostruzione teorica della corretta applicazione dei principi (e non viceversa).

Christian Califano


Notazioni in ordine ai riflessi penal-fallimentari delle operazioni “infragruppo” e “infraaggregato”, con particolare riferimento alla questione della rilevanza del transfer pricing Sommario: 1. Premesse. Il tema d’indagine. – 2. Operazioni “infra-gruppo” e “infra-

aggregato” e bancarotta prefallimentare prima del “Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza”. La teoria dei c.d. “vantaggi compensativi” nell’approccio giurisprudenziale: aspetti problematici. – 3. Accenni alle prospettive emergenti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Un piccolo passo in avanti… – 4. Ulteriori profili di rilevanza penale: il “fair value” nelle operazioni e il transfer pricing. – 5. Conclusioni. Una proposta per l’individuazione di “indici di contesto”. Il contributo affronta il tema della rilevanza penale delle operazioni compiute nel contesto di rapporti tra imprese, facenti parte di un “gruppo” o di un “aggregato” su base contrattuale, nel caso di default, analizzando anche la questione del transfer pricing. The paper deals with the issue of the relevance of transactions carried out between companies to the effects of criminal-bankruptcy law, also analyzing the figure of transfer pricing.

1. Premesse. Il tema d’indagine. – La breve analisi che verrà condotta in questa sede avrà ad oggetto la questione della rilevanza penale di operazioni compiute da due o più imprese che interagiscono attraverso rapporti non pienamente improntati sull’autonomia decisionale, sulla mera logica del mercato e della libera concorrenza, e sull’economicità del risultato di singoli atti dispositivi realizzati. Tali relazioni possono avere origine dall’identità del soggetto economico (holding) che detiene, generalmente mediante la titolarità azionaria, la governance, diretta o indiretta, delle imprese interessate – nel qual caso si è al


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cospetto di un vero e proprio “gruppo di imprese” (1) – ovvero da accordi di partnership tra enti economici che importano vincoli (più o meno “intensi”) di natura contrattuale (consorzi, associazioni, franchising, cartelli, legami contrattuali nella logica della “venture” etc.), e che sono riconducibili al diverso concetto di “aggregato di imprese” (2). Le motivazioni che sottendono alla formazione del gruppo o dell’aggregato di imprese possono essere le più disparate, ma sicuramente prevalenti sono le spinte della segregazione/ripartizione del rischio e della limitazione della responsabilità, dello sviluppo analitico della specializzazione, dell’interscambio e condivisione di know how e mezzi di produzione, quella della razionalizzazione dell’organizzazione attraverso la separazione ed il coordinamento tra cabina di regia finanziaria e attività produttive, ed infine il risparmio dei costi in ottica di scala (3). Mentre allora nei gruppi societari, specie nel caso in cui le imprese componenti svolgano attività imprenditoriale in settori diversi, il legame tra enti può anche essere determinato soltanto dall’identità del soggetto economico al quale è riferibile la governance, fondandosi dunque su trame di natura finanziaria tra capogruppo e società satellite (nel qual caso si parla di holding “pura”), negli altri casi l’intersoggettività è fondata generalmente su più o meno intensi legami di cooperazione nelle attività produttive, che può attuarsi, ad esempio: i) attraverso la ripartizione e il coordinamento delle attività (ciascuna delle imprese realizza alcuni dei componenti di un medesimo macchinario, o prodotti “complementari”; più imprese si occupano distintamente della produzione, della pubblicizzazione e della commercializzazione di un medesimo bene o di un servizio; o ancora più imprese agricole conferiscono in una cooperativa diversi prodotti);

(1) Almeno secondo l’accezione di una parte della dottrina, in difetto di una definizione normativa generalizzata della nozione di “gruppo”. (2) Si tratta dunque di ipotesi non del tutto coincidenti con le nozioni di “società controllate” e “società collegate” di cui all’art. 2359 c.c., e che vanno oltre l’ipotesi del c.d. “controllo esterno”, e cioè di una vera e propria limitazione dell’azione decisoria e strategica di un’impresa per l’effetto di vincoli contrattuali con altro ente, e che possono estrinsecarsi in legami correlati a singoli ambiti dell’attività d’impresa, o a singoli atti gestori. (3) Su questi temi vd. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2013, 244 ss.; Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2006, 504 ss.


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ii) attraverso la produzione di un medesimo (o analogo) bene o servizio, che viene ceduto con differenti brand, ai fini di una differenziazione dell’offerta al pubblico (4), oppure mediante la “spartizione” delle aree di mercato tra le imprese. Si tratta però soltanto, come detto (e al di là della variegata nomenclatura elaborata in dottrina per definire le differenti ipotesi), di esemplificazioni, atteso che la partnership tra imprese, nell’ampia autonomia sancita dall’art. 41 Cost., può assumere, in concreto, molteplici connotazioni e perseguire le più eterogenee finalità. Ciò rilevato in termini economico-aziendali, occorre sottolineare allora che se l’obiettivo dell’impresa, atomisticamente considerato, è quello dell’equilibrio economico e del conseguimento di un surplus, nel gruppo d’imprese, e talora anche negli aggregati, tale logica può risultare alterata; insomma può realizzarsi il caso che relazioni plurisoggettive d’impresa siano improntate non sulla rigorosa ratio del rapporto tra profitti e perdite in capo ai singoli, o in relazione a singole operazioni, bensì sul “ruolo” che ciascun ente gioca nella dinamica intersoggettiva. È proprio attraverso il coordinamento tra detti ruoli, infatti, che la holding o i vari soggetti economici di riferimento talora intendono perseguire il risultato dell’equilibrio economico e del surplus remunerativo; non è un caso, allora, che nella prassi si registrino di frequente anche casi in cui alcune imprese, proprio a causa delle relazioni interaziendali, chiudano i bilanci d’esercizio costantemente in perdita, e che vengano per l’effetto periodicamente alimentate attraverso nuove iniezioni di capitale da parte dei soggetti interessati (5). In tale contesto si inserisce poi il tema dei riflessi fiscali di operazioni intercompany realizzate a corrispettivo disallineato rispetto al parametro del “valore di mercato”, che ha generato negli ultimi anni un crescente interesse tra gli studiosi del diritto sia per l’amplificazione del fenomeno (dipendente dall’internazionalizzazione e globalizzazione della struttura degli scambi) sia per la sempre maggior attenzione prestata al riguardo dall’Amministrazione finanziaria. Sebbene infatti le peculiarità contrattuali e delle condizioni praticate negli scambi tra imprese appartenenti al medesimo gruppo, o comunque legate da vincoli di natura contrattuale, possano ritenersi in linea di massima fisiologi-

(4) (5)

Su questi argomenti vd. Onida, Economia d’azienda, Torino, 1971, 33 ss. Sul tema vd. Troina, Elementi di economia aziendale, Roma, 2014, 40 ss.


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ci, in ragione della logica “cooperativa”, specie laddove si tratti di operazioni transfrontaliere non è infrequente che esse, mediante la manipolazione di valori di trasferimento, e quindi attraverso una distorsione dello strumento negoziale, celino finalità di indebito “profit shifting” verso paesi a fiscalità più vantaggiosa (è questo il tema del transfer pricing). I brevi rilievi generali sopra sviluppati debbono allora essere proiettati in ambito penalistico, attraverso l’analisi degli effetti determinabili dalla logica del gruppo o dell’aggregato di imprese nel caso in cui venga lesa la sfera degli stakeholders, attraverso operazioni che, solipsisticamente considerate, risultino svantaggiose per la società che le compie, ed in particolare nei riflessi per i creditori dell’impresa in default e, dunque, nella prospettiva degli illeciti prefallimentari (6), anche tenendo conto delle innovazioni di cui al “codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” (d’ora in poi, per brevità, “CCII”). 2. Operazioni “infra-gruppo” e “infra-aggregato” e bancarotta prefallimentare prima del “Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza”. La teoria dei c.d. “vantaggi compensativi” nell’approccio giurisprudenziale: aspetti problematici. 2.1. Per lungo tempo si è registrata una divaricazione tra la realtà d’impresa, sempre più protesa alla logica dell’intersoggettività anche per affrontare le sfide progressivamente imposte dalla global economy, e la disciplina giuridica del gruppo, anche rispetto al default, tanto nell’ottica civilistica quanto in quella penalistica. Tale scollamento, verosimilmente, non è tuttavia dipeso dal disinteresse del legislatore, o da un difetto di consapevolezza in ordine all’espansione del fenomeno della cooperazione intercompany, ma dal fatto che, quest’ultimo è stato valutato come particolarmente “critico”, perché potenzialmente foriero di manovre di aggiramento di norme imperative, se non addirittura “criminogeno” (7), tanto da scoraggiare interventi modificativi dell’impianto normativo che si sarebbero potuti prestare ad abusi (8).

(6) In questa verrà utilizzato convenzionalmente il termine “fallimento” (e vocaboli da esso derivati) sebbene con il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza esso sia destinato all’oblio per l’effetto della sostituzione con la locuzione “liquidazione giudiziale”. (7) Vd. Scaroina, Verso una responsabilizzazione del gruppo di imprese multinazionali, 23 luglio 2018, in www.penalecontemporaneo.it. (8) In questo senso, tra i tanti, vd. Scognamiglio, I gruppi d’impresa nel CCII: fra unità e pluralità, in Le società, 2019, 413 ss.


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Il legislatore, dunque, al fine di eliminare il gap, solo in tempi recenti (al di là di alcuni interventi settoriali) ha dapprima modificato (d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61) l’art. 2634 c.c., con l’esclusione, nel contesto della nuova figura dell’infedeltà patrimoniale, della responsabilità civile nel caso di operazioni, risultate svantaggiose, realizzate a fronte della sussistenza o della fondata previsione di vantaggi cooperativi “di ritorno” sottesi all’atto gestorio (9), ed è poi intervenuto con l’inserimento del capo IX nel libro V del codice civile in tema di “direzione e coordinamento di società” (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), prevedendo tra l’altro l’effetto esimente correlato al risultato complessivo della gestione dei rapporti intersoggettivi e a condotte ripristinatorie (primo comma dell’art. 2497 c.c.). Non è certamente questa la sede per soffermarsi nella disamina della reale portata innovativa di tali norme, e per evidenziare se si sia, in realtà, al cospetto di una esplicitazione di principi già in precedenza ricavabili in via interpretativa dall’ordinamento, e quindi se le novelle abbiano avuto, tutto sommato, esclusivamente l’effetto di richiamare l’attenzione dell’interprete (10). Si può tuttavia senz’altro rilevare, sulla “sponda penale”, che se da un lato le disposizioni sopra citate hanno posto in risalto la necessità, specie nel caso di default dell’impresa, di una verifica del reale “contenuto” dell’elemento soggettivo tipico dei reati di bancarotta (con il riferimento operato dall’art. 2634 c.c. alla “previsione” dei vantaggi perseguibili attraverso l’operazione risultata lesiva), e dell’offensività della condotta anche nell’ambito di reati (ci si riferisce alla bancarotta patrimoniale prefallimentare per distrazione e dissipazione) notoriamente qualificati come “di pericolo concreto” (11) (soprattutto attraverso la previsione, in seno all’art. 2497 c.c., dell’efficacia escludente della responsabilità, civile, tanto di vantaggi compensativi quanto di condotte post-factum, evocative del concetto di “bancarotta riparata” (12)), dall’altro,

(9) Accogliendo dunque la teoria dei c.d. vantaggi compensativi preconizzata da Montalenti, Conflitto di interessi e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. Comm., 1995, 710 ss. (10) In questo senso vd. Cass., Sez. V, 24 maggio 2006, n. 36764, e Cass., Sez. V, 12 gennaio 2016, n. 30333, entrambe in Dejure. Analogamente, Borzheku, L’offensività nella bancarotta fraudolenta per operazioni distrattive infragruppo, in Cass. Pen., 2018, 340 ss. (11) Ma contra vd. Fiorella, I reati fallimentari, in Fiorella (a cura di), Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2016, 383. (12) Sull’argomento vd. Chiaraviglio, Danno e pericolo nella bancarotta c.d. “riparata”, 29 maggio 2015, in www.penalecontemporaneo.it; Cocco, Il ruolo delle procedure concorsuali e l’evento dannoso nella bancarotta, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, 67 ss.


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sul piano applicativo, la giurisprudenza ha mostrato al riguardo un atteggiamento assai rigido. Infatti, dopo un primo atteggiamento conservativo, perché limitativo dell’efficacia esimente (13) del perseguimento dei vantaggi compensativi alla sola ipotesi dell’infedeltà patrimoniale e al più alla bancarotta societaria di cui al comma 2 n. 1 dell’art. 223 LF (14), si è pervenuti, mediante interpretazione sistematica (15), all’estensione delle previsioni di riferimento alla bancarotta

(13) In questa sede verrà utilizzato il termine “esimente”, associato alla clausola dei vantaggi compensativi, seppure lo stesso non sia indicativo della sua effettiva natura giuridica, particolarmente controversa in dottrina che, sulla base di diverse argomentazioni e richiami, in parte propende per la scusante (operante sotto il profilo soggettivo), in altra parte per la causa di giustificazione, in altra ancora per il “limite esegetico” (vd. sull’argomento, anche per i riferimenti bibliografici, Marini, L’infedeltà patrimoniale e il conflitto d’interessi, in Alessandri, Reati in materia economica, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da Palazzo e Paliero, vol. VIII, Torino, 2017, 139 ss. e Falcinelli, Riflessioni in progress: la clausola dei vantaggi compensativi infragruppo e i principi di sistema dell’offensività penale in concreto, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2014, 435 ss). (14) Cfr. Cass., Sez. V, 24 aprile 2003, n. 23241, secondo la quale «il vantaggio compensativo non può andare oltre la figura dell’infedeltà patrimoniale per la quale è previsto e non è, dunque, applicabile all’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria riguardante una società collegata od appartenente al gruppo, in quanto il fenomeno del collegamento societario non vulnera il principio dell’autonomia soggettiva delle società interessate ed il fallimento di una di esse prescinde dalla considerazione degli interessi del gruppo societario»; Cass., Sez. V, 18 novembre 2004, n. 10688, secondo la quale «il vantaggio compensativo previsto dall’art. 2634 comma 3 c.c., presuppone un conflitto di interessi, effettivo ed attuale, tra il soggetto agente che compie l’atto dispositivo e la società. Il conflitto non può ritenersi in ogni atto che vada a nocumento di una società ed a vantaggio di un’altra, collegata o facente parte del gruppo. Il vantaggio compensativo non può, in ogni caso, andare oltre la sfera dell’infedeltà patrimoniale per la quale è previsto». Entrambe le sentenze sono state pubblicate in Dir. Pen. Proc., 2005, 747 ss con nota critica di Lemme, La giurisprudenza di legittimità apre al concetto di gruppo di imprese, ibidem, 751 ss. Sul tema vd. però Caraccioli, Gruppi di società e valenza strategica dell’art. 2634 comma 3 c.c., in Impresa, 2003, 882 ss.; vd. inoltre N. MazzacuvaAmati, Diritto penale dell’economia, Trento, 2013, pp. 170 ss., e più di recente Manna, La riforma della bancarotta impropria societaria del 2002 ed i suoi riflessi sistematico-esegetici sui reati di bancarotta. Parte prima, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2015, 493 ss.; Perdonò, Le singole fattispecie di reato, in Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’economia, Milano, 2018, 584 ss. Rispetto alla limitazione operata dalla giurisprudenza, vd. in senso critico Donini, Antigiuridicità e giustificazione oggi. Una “nuova” dogmatica, o solo una critica, per il diritto penale moderno?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2009, 1646. (15) Abbandonandosi argomenti quali quello della specialità della previsione di cui all’art. 2634 comma 3 c.c. (con conseguente impossibilità di applicazione analogica, seppur in bonam partem), e quello della diversa teleologia delle fattispecie criminose di riferimento (fondato sull’individuazione del bene giuridico della sfera patrimoniale dei soci per i fatti d’infedeltà e di quella dei creditori per i fatti di bancarotta).


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patrimoniale, seppur a condizione della sussistenza di una effettiva interazione produttiva tra le attività delle imprese interessate, e del perseguimento da parte dell’autore dell’atto gestorio di interessi di gruppo non confliggenti con quelli della singola impresa che, facendone parte, a seguito dell’atto dispositivo pregiudizievole giunga al default (16). Non mancano, però, come dimostra l’esame della casistica, espressioni ancor oggi molto intransigenti (17), che giungono all’attribuzione di responsabilità sulla base della verifica, “ragionieristica”, “del saldo attivo finale” dell’operazione originariamente svantaggiosa per la disponente (18), attraverso la svalutazione della previsione normativa di riferimento, una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 2634 comma 3 c.c. che, come detto, esclude la responsabilità anche nel caso in cui l’operazione stessa sia stata posta in essere al fine, non raggiunto, dell’ottenimento di un vantaggio derivante dall’interazione (19).

(16) Cfr. Cass. n. 36764/2006 cit., secondo la quale «l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni società anche se appartenente ad un gruppo, non consente di sacrificare l’interesse suo proprio in nome di altro interesse (quello del vertice del gruppo) che non sia idoneo a venire in rilievo per i terzi creditori della società controllata… può riconoscersi valore compensativo solo al vantaggio che refluisca sulla società cui afferisce l’atto dispositivo». (17) Alle quali aderisce peraltro una parte, seppur minoritaria, della dottrina, la cui attenzione è evidentemente polarizzata sull’interesse dei creditori (vd. Musco-Ardito, Diritto penale fallimentare, Bologna, 2018, 251), e che giunge a ritenere doverosa una linea di demarcazione tra i rapporti intercompany dal punto di vista economico ed i loro effetti in termini penal-fallimentari. (18) Vd. infatti in tal senso Bricchetti, Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quella della legge fallimentare, in Dir. Pen. Cont. Riv. Trim., 2019, 100. (19) Cfr. Cass., Sez. V, 9 maggio 2012, n. 29036, Cass., Sez. V, 17 marzo 2015, n. 23997, Cass., Sez. V, 26 giugno 2015, n. 8253, Cass., Sez. V, 19 gennaio 2016, n. 32131, Cass., Sez. V, 30 giugno 2016, n. 46689, tutte in Dejure. In senso critico sul punto vd. E. Basile, Art. 217 bis L. Fall. e gruppi di società, in Banca Borsa Tit. Cred., 2013, 1, 203 ss., che infatti sottolinea che il vantaggio compensativo debba essere valutato in senso qualitativo ex ante e non quantitativamente ex post. Sull’argomento vd. anche Mucciarelli, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell’economia del delitto di infedeltà patrimoniale degli amministratori, in Giur. Comm., 2002, 633, che nel rimarcare la rilevanza penale di condotte “spregiudicate”, nel contempo afferma la necessità di evitare l’applicazione di schemi rigidi fondati sulla logica del puro saldo attivo. In questo senso vd. anche Militello, I reati d’infedeltà, in Dir. Pen. Proc., 2002, 704.


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Nel complesso descritto, che solo sporadicamente consente di registrare timide aperture a soluzioni più garantiste (20), la giurisprudenza, anche di legittimità, è così sostanzialmente ferma nel ritenere – tanto sotto il profilo dell’offensività quanto della colpevolezza – che l’operazione pregiudizievole, nel complesso dei rapporti inter-societari, non rileverebbe agli effetti delle figure di bancarotta (al di là del caso della sussistenza di un saldo effettivamente attivo per l’ente interessato dall’atto dispositivo) soltanto se il vantaggio compensativo perseguito attraverso l’atto, e non concretamente raggiunto, sia al momento del compimento “pressoché certo” (21), escludendo peraltro in radice l’effetto esimente nell’ipotesi di collegamenti tra società derivanti dalla mera identità del soggetto economico titolare della governance o da relazioni di natura esclusivamente contrattuale tra imprese (22). Il tutto ponendo peraltro a carico dell’imputato l’onere della prova relativo alla finalità concretamente perseguita con l’atto dispositivo (23), e negando talora in modo assoluto la legittimità di operazioni intercompany realizzate tra imprese in condizioni di difficoltà economico-finanziaria (24). 2.2. Il self-restraint sopra descritto è probabilmente indotto, almeno in parte, dagli effetti devastanti su di un sistema economico, quello nostrano, già in sé depresso e da decenni assai poco dinamico, dei grandi crack d’impresa italiani, che hanno avuto e ancor oggi hanno ampia eco mediatica. Si pensi al caso “Parmalat”, a quello del “Gruppo Cirio” (25), fino a giungere, in tempi più recenti, a quello, ancora sub iudice, del “Gruppo Marenco”. Ciò nonostante, gli orientamenti dominanti in giurisprudenza presentano varie criticità, ed in particolare, in estrema sintesi:

(20) Valutate positivamente dalla dottrina maggioritaria (vd. ad esempio Manna, La riforma della bancarotta impropria societaria, in Diritto penale dell’economia, diretto da Cadoppi-Canestrari-Manna-Papa, Tomo II, Assago, 2017, 2000 ss.). (21) In dottrina, in questo senso, vd. anche Zannotti, Diritto penale dell’economia, Milano, 2017, p. 243. (22) Cfr. da ultimo Cass., Sez. V, 10 giugno 2019, n. 47216, in Dejure. Inoltre vd. Cass., Sez. V, 6 marzo 2018, n. 31997, in Banca dati Pluris. Sul tema vd. Alessandri, Diritto penale commerciale, vol. IV, I reati fallimentari, Torino, 2019, 115 ss. (23) Cfr. Cass., Sez. I, 26 ottobre 2012, n. 48327, Cass., Sez. V, 14 ottobre 2016, n. 8008, e Cass., Sez. I, 12 giugno 2018, n. 20494, in Banca dati Pluris. (24) Vd. Cass., Sez. V, 4 dicembre 2007, n. 4410, in Dejure. (25) Vd. Ramponi, Il caso Parmalat: il giudizio parmense sul reato di bancarotta fraudolenta, in Foffani-Castronuovo (a cura di), Casi di diritto penale dell’economia, Bologna, 2015, 39 ss., e Gambardella, Il caso Cirio: i delitti di bancarotta, op. ult. cit., 95 ss.


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– è eccessiva l’ingerenza del giudice nelle valutazioni delle scelte dell’impresa, che fa leva sull’anodino termine di “distrazione” (o “dissipazione”) e oblitera il necessario carattere “fraudolento” della bancarotta, che invece imporrebbe anche l’individuazione di una chiara linea di demarcazione con la figura di bancarotta semplice, che infatti nella prassi è raramente contestata e che viene (indebitamente) “riassorbita” nelle figure criminose più gravi (26); – la questione dell’attrazione di condotte imprudenti (id est colpose) (27), che dovrebbero quindi essere a rigore ricondotte nell’alveo degli artt. 217 e 224 LF, anziché nelle fattispecie di bancarotta fraudolenta, è ben nota. Fatto è che nelle dinamiche del gruppo o dell’aggregato d’imprese detta problematica assume una diversa dimensione, anche statistica, atteso che la lettura delle operazioni intercompany senza una prospettiva d’insieme, cioè sulla base di una valutazione atomistica, costituisce il viatico alla valorizzazione del solo contenuto lesivo delle operazioni stesse (28), che invece dovrebbero essere qualificate come fraudolente solo se il soggetto al quale esse sono attribuibili abbia agito nella consapevolezza delle loro ricadute negative (non “intermedie” ma) “finali” sul patrimonio societario (29), attraverso condotte anomale perché non orientate al raggiungimento dello scopo sociale (30);

(26) Vd. Insolera, Il concorso nei reati fallimentari, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2002, pp. 816 ss. (27) Vd. anche Farina, Gli illeciti penali in materia fallimentare, in Rampioni (a cura di), Diritto penale dell’economia, Torino, 2017, 270 ss. (28) Vd. Pisani, Crisi d’impresa e diritto penale, Bologna, 2018, 79, che infatti rileva che nella realtà di gruppo vi sia una fisiologica situazione di conflitto d’interesse tra la holding e i creditori delle controllate. (29) Cfr. Mezzetti, L’infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 193 ss. Contra Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, Torino, 2018, 205, che nega ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione che sia necessario che il soggetto che compie l’operazione si prefiguri il danno come “risultato finale” della stessa. Tale impostazione, tuttavia, sfrondando dal suo necessario carattere “fraudolento” la fattispecie, sganciata peraltro anche dalla previsione del default e dalla necessità di una connessione temporale con lo stesso, conduce all’attribuzione di rilevanza penale ad una eccessivamente vasta serie di condotte, rendendo a ben vedere la contestazione del reato di bancarotta l’epilogo incontrollato della stragrande maggioranza dei fallimenti. (30) Pedrazzi, art. 223, in Pedrazzi-Sgubbi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna, 1995, 291; Benussi, La Cassazione ad una svolta: la clausola dei vantaggi compensativi è esportabile nella


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– l’approccio epistemologico ai rapporti intersoggettivi da parte della giurisprudenza è molto spesso viziato da ragionamenti “secondo il senno di poi” (hindsight bias), e cioè dalla lettura ex post dell’elemento psicologico correlato alle operazioni dispositive risultate pregiudizievoli, che contrasta inevitabilmente col principio di colpevolezza e non tiene conto del rischio connaturato all’attività d’impresa, e dell’indisponibilità in capo ai soggetti che la conducono di poteri predittivi degli innumerevoli fattori, endogeni ed esogeni, che possono condizionare il risultato delle operazioni e gli sviluppi della vita dell’impresa (31); – non valorizzano, generalmente, il profilo temporale delle operazioni lesive, che si riverbera invece giocoforza (anche) sul connotato soggettivo dell’azione o dell’omissione, cosicché l’individuazione della c.d. “area di rischio penale” dovrebbe costituire un elemento indicatore indefettibile del dolo caratteristico della fattispecie; – negandosi l’invocabilità dei vantaggi compensativi perseguiti (ed evidentemente non ottenuti) nel caso in cui l’impresa beneficiaria, e/o quella disponente, si trovino in una situazione di crisi (32), si finisce col dimenticare a ben vedere che proprio uno degli elementi propulsori della cooperazione intercompany è rappresentato dall’ausilio reciproco prestato in condizioni di difficoltà, e si giunge pertanto ad un totale scollamento del sistema rispetto alle esigenze reali dell’attività d’impresa (33);

bancarotta per distrazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2007, 421 ss. (l’A. condivisibilmente rileva che «ad un’operazione cui consegua la diminuzione del patrimonio sociale… non si addice l’inquadramento come distrazione che, sul terreno del diritto penale fallimentare, esige il compimento di un atto dal quale derivi uno squilibrio di valori, privo di giustificazione economica»); Ambrosetti, I reati fallimentari, in Ambrosetti-Mezzetti-Ronco, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016, 310. Inoltre, sulla carenza del dolo nelle operazioni realizzate al fine di perseguire un interesse indiretto, di appartenenza al gruppo, vd. Seminara, Diritto penale commerciale, vol. II, I reati societari, Torino, 2018, 122. (31) Cfr. Giunta, La riforma dei reati societari ai blocchi di partenza. Prima lettura del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (seconda parte), in Studium iuris, 2002, 293; Seminara, Il diritto penale societario dopo le riforme: otto anni di giurisprudenza della Corte di cassazione, in Jus, 2011, 71 ss. (32) Apprezzabile invece è la soluzione sposata da Cass., Sez. V, 5 luglio 2012, n. 38995, in Dejure, che ha affermato, in estrema sintesi, che la concessione di un finanziamento da parte della controllante (poi fallita) di una società satellite in difficoltà, ma non in dissesto, non rappresenti, in assoluto, condotta rilevante ai fini del delitto di bancarotta fraudolenta. (33) Sul punto vd. Donini, Critica dell’antigiuridicità e collaudo processuale delle categorie, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2016, pp. 559 ss., secondo il quale «quando allora la giurisprudenza penale fallimentare, disattende la regola civilistica dei vantaggi compensativi


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– è eccessivamente rigido l’approccio al cash pooling, e cioè alla strutturazione del gruppo attraverso l’individuazione di un’impresa incaricata della gestione della tesoreria, finalizzata per lo più al finanziamento interno e ad evitare i costi di quello bancario, atteso che in caso di default il mero atto dispositivo di per sé non può ritenersi indicativo della natura fraudolenta delle operazioni che rispondono alla suddetta logica (34); – la limitazione della portata dell’esimente dei vantaggi compensativi alle realtà definibili in termini di gruppo di imprese, e quindi l’esclusione delle operazioni compiute nel contesto di aggregati, per lo meno in termini assoluti, non appare conforme alle esigenze della prassi ed è frutto di un atteggiamento eccessivamente formalistico, che non consente di valutare concretamente i requisiti soggettivi della fattispecie. 2.3. Sul versante civilistico, si può osservare che la giurisprudenza sia attestata su una posizione per alcuni tratti non dissimile da quella sopra descritta, nella misura in cui è chiaramente e rigorosamente ribadita l’efficacia esimente dei vantaggi compensativi rispetto all’azione di responsabilità spiegata nei confronti degli amministratori (o comunque nel contesto, più ampio, di azioni aventi ad oggetto questioni di legittimità di determinati atti gestori) alla sola condizione che le operazioni, risultate lesive, siano state compiute al fine di perseguire un interesse economico, sia pur indiretto, per la stessa società amministrata, e con previsione di idoneità a compensare, in prospettiva, l’effetto immediatamente pregiudizievole arrecato. «Con la conseguenza che, sebbene l’appartenenza al medesimo gruppo societario consenta, in linea di principio, di riconoscere connessioni economiche rilevanti tra gli interessi, formalmente distinti, dei vari soggetti giuridici che compongono il gruppo – sì da giustificare attività dirette al perseguimento di un interesse che, pur esulando da quello proprio e specifico delle singole società, inteso in senso stretto, vi è però ricompreso in senso mediato – tuttavia

nel qualificare come ipotesi di distrazione fallimentare scelte imprenditoriali in situazioni di crisi nei c.d. gruppi societari, compie un’operazione illegittima». In precedenza, sulla fisiologica diversità “dimensionale” delle operazioni economiche nel contesto di gruppo, vd. Napoleoni, Geometrie parallele e bagliori corruschi del diritto penale dei gruppi (bancarotta infragruppo, infedeltà patrimoniale e «vantaggi compensativi»), in Cass. Pen., 2005, 3787 ss. (34) Su questo tema vd. Santoriello, Contratto di cash pooling: penalmente irrilevante ma solo a determinate condizioni, 15 ottobre 2018, in www.ilsocietario.it.


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la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi non è sufficiente al fine di affermare la legittimità dell’atto» (35). Sicché, in ossequio ai principi generali che regolano la ripartizione dell’onere della prova nel contesto delle azioni di risarcimento per inadempimento contrattuale, anche la giurisprudenza civile ha a più riprese stabilito che l’onere di allegare e di provare gli ipotizzati benefici indiretti incomba sugli organi sociali evocati in giudizio nel contesto dell’azione di responsabilità (36). Tuttavia, a ben vedere, l’esame della casistica mostra che la valutazione civilistica dell’impatto dei vantaggi compensativi sia molto più ampia ed elastica rispetto a quella penale, nel senso che detto giudizio, muovendo dal presupposto che gli atti compiuti nell’interesse del gruppo dall’impresa che ne fa parte non sono da ritenere di per sé estranei all’oggetto sociale di quest’ultima nel caso in cui esistano delle effettive sinergie, non si fonda, in linea di massima, su criteri “aritmetici”, e non trova sbarramenti nella circostanza che l’impresa beneficiaria dell’operazione, o di converso quella che la compie, si trovino in situazioni di mera difficoltà economica (37). In questa stessa ottica, la suprema Corte generalmente riconosce peraltro la legittimità di operazioni realizzate nel contesto di gruppi tanto “orizzontali” quanto “verticali”, ovvero “misti”, e di quelle rese dalla (o in favore della) holding “pura” (con funzione di “cassaforte” o “polmone finanziario”) sempre laddove risulti dimostrata la finalità di perseguire un vantaggio compensativo derivante dalla partecipazione al gruppo stesso. E ciò indipendentemente dalla riconducibilità dell’operazione medesima ad una esplicita previsione dello statuto sociale dell’impresa che la compie, nel caso in cui la scelta attuata risulti orientata, in un momento di difficoltà, alla prosecuzione dell’attività del gruppo, non ricorrendo in tali casi alcun conflitto d’interesse (38). Talché, la Cassazione, sempre in sede civile, ha a più riprese chiarito la centralità dell’elemento, sotteso all’operazione lesiva, del perseguimento di un interesse societario seppur indiretto, con conseguente irrilevanza del fatto che detta prospettiva si sia rivelata in concreto fallace, «per il principio conso-

(35) Cass., Sez. I Civ., 14 ottobre 2010, n. 21250, in Dejure. (36) Cfr. Cass., Sez. I, 11 dicembre 2006, n. 26325; Cass., Sez. I Civ., 26 marzo 2009, n. 7293; Cass., Sez. I Civ., 7 luglio 2017, n. 16846; Cass., Sez. I Civ., 18 settembre 2017, n. 21566, Cass., Sez. VI Civ., 12 febbraio 2019, n. 4121, tutte in Dejure. (37) Cfr. Cass., Sez. I Civ., 4 agosto 2006, n. 17696; Cass., Sez. I Civ., 8 settembre 2016, n. 17761, in Dejure. (38) Cfr. Cass n. 21250/2010 cit.


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lidato che le scelte gestionali, pur se rischiose, non possono essere valutate ex post in funzione dei risultati: principio, più volte affermato a sostegno dell’insindacabilità delle iniziative economiche degli amministratori», giungendo a riconoscere anche la legittimità di atti gestori quali la dazione volontaria di ipoteca in favore di altra impresa che, seppur non controllata o collegata (e quindi al di fuori di un rapporto di gruppo, e nel contesto di realtà di partnership su base contrattuale qualificabili come inter-aggregato), svolga attività produttiva strategica (39). Si è dunque al cospetto di un evidente ed inaccettabile disallineamento tra le due sfere, atteso che la maggiore severità della giurisprudenza in sede penale contrasta inevitabilmente con il principio dell’extrema ratio (40). 3. Accenni alle prospettive emergenti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Un piccolo passo in avanti… – Come ben noto il legislatore, attraverso il CCII (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), è intervenuto per ridisegnare in maniera pervasiva la disciplina della crisi e dell’insolvenza sotto il profilo civilistico, entrando invece in punta di piedi nell’area penalistica, in ossequio alla delega conferita dal Parlamento (l. 19 ottobre 2017, n. 155) che aveva per l’appunto alla base la «continuità delle fattispecie criminose» già previste dal r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (art. 2). Le disposizioni penali introdotte (artt. 322-347 nel Titolo IX del CCII), e che entreranno in vigore nel settembre dell’anno 2021, costituiscono infatti un impianto che ricalca quello della precedente (e tuttora vigente) legge fallimentare, ad eccezione delle nuove previsioni incriminatrici di cui agli artt. 344 e 345 CCII (41), e dell’introduzione delle “misure premiali” di cui all’art. 25 comma 2, rappresentate più nel dettaglio da una speciale causa di non punibilità (operante nel caso di attivazione “tempestiva” di una procedura per la risoluzione della crisi, se «il danno cagionato è di speciale tenuità») e da una circostanza attenuante ad effetto speciale (con riduzione della pena fino alla metà, nel caso di preventiva presentazione della domanda di accesso a procedure di risoluzione della crisi ove sia previsto il soddisfacimento di almeno

(39) Cass., Sez. I Civ., 19 marzo 2015, n. 5522, in Dejure. (40) Sul tema generale, vd. di recente Paliero, Extrema ratio. Una favola raccontata a veglia?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2018, 1477 ss. (41) Su cui vd. B. Romano, Dal diritto penale fallimentare al diritto penale della crisi d’impresa e dell’insolvenza, 28 giugno 2019, in www.archiviopenale.it.


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il 20% dei crediti in chirografo, e comunque di “danno cagionato” di valore inferiore ad euro 2.000.000). Non essendo possibile affrontare diffusamente, in questa sede, le questioni penalistiche sollevate dalla novella, che meriterebbero ampio spazio soprattutto per la verifica dei riverberi delle riforme in materia civile, e dovendosi focalizzare l’attenzione sul tema oggetto della presente riflessione, si può soltanto soggiungere che il legislatore abbia perso l’occasione per rimodulare in maniera puntuale le figure criminose di riferimento, da sempre al centro di orientamenti applicativi assai ondivaghi ed incerti (42). Per quanto attiene allora alla prospettiva delle trame intersoggettive tra imprese, si può notare che il CCII abbia in qualche modo tenuto conto del mutato contesto economico, e dell’esigenza di disciplinare le dinamiche imprenditoriali plurisoggettive in sede concorsuale, al fine di salvaguardare ove possibile il valore aggiunto derivante dall’appartenenza al “gruppo”, che evidentemente eccede in molti casi quello del valore attribuibile al singolo ente che lo compone. Il riferimento è al Titolo VI dell’articolato, che consente una trattazione unitaria, o comunque coordinata, del fenomeno di gruppo, che viene ricondotto nell’alveo delle situazioni definibili in termini di “direzione e coordinamento” (art. 2 lettera h del CCII), nonché all’art. 290 che, in ordine alle azioni di inefficacia degli atti infragruppo, richiama l’art. 2497 comma 1 c.c. Talché, pur in difetto di una disciplina penal-fallimentare ad hoc, sarebbe auspicabile che le novità sollecitassero l’evoluzione del dibattito, ingenerando nell’interprete una maggiore sensibilità rispetto alle peculiarità che involge la cooperazione tra imprese, e che si giunga (perlomeno) ad un allineamento dei canoni di valutazione con quelli generalmente accolti in sede civilistica (43).

(42) Valga considerare, per quel che qui più interessa, la problematica distinzione tra bancarotta societaria da infedeltà patrimoniale e bancarotta fraudolenta per distrazione. Ed in effetti, attese le difficoltà nella definizione del “conflitto d’interessi”, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 2634 c.c., e del concetto di “dissesto” richiamato dall’art. 223 comma 2 n. 1 LF, nonché degli oneri dimostrativi a carico dell’accusa della portata causale della condotta antidoverosa, la bancarotta da infedeltà è raramente contestata, e lascia costantemente il passo all’altra figura delittuosa. (43) In tal senso anche Rossi, La bancarotta nei gruppi di imprese, in Dir. Pen. Proc., 2019, 1212 ss.; Gambardella, Il codice della crisi di impresa: nei delitti di bancarotta la liquidazione giudiziale prende il posto del fallimento, in Cass. Pen., 2019, 488 ss. (in particolare par. 7).


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4. Ulteriori profili di rilevanza penale: il “fair value” nelle operazioni e il transfer pricing. 4.1. Al centro delle dinamiche infragruppo o infra-aggregato nella prospettiva del diritto penal-fallimentare vi è, ovviamente, il contenuto economico e finanziario delle operazioni: anche la bancarotta prefallimentare patrimoniale (per distrazione o dissipazione), in estrema sintesi, presuppone lo “spostamento” di asset e risorse da un ente all’altro, senza contropartita o senza adeguato corrispettivo, che importa una lesione o il pericolo di danno per la sfera patrimoniale della società e, di riflesso, per la garanzia di soddisfazione delle ragioni creditorie. In tale ambito, alcune condotte potrebbero però essere mosse dal particolare intento di ridurre l’impatto fiscale attraverso operazioni dispositive simulate (simulazione assoluta), o più spesso realizzate per scopi diversi da quelli più propriamente e genuinamente produttivi, e rappresentati per l’appunto dal “risparmio di spesa fiscale”, mediante il trasferimento di valori (positivi o negativi). Queste tecniche operative, definite com’è noto “transfer pricing”, si estrinsecano di solito nel trasferimento di valori attivi dall’Italia all’estero, in paesi con pressione fiscale più bassa rispetto a quella interna (al fine di sfruttamento delle c.d. “asimmetrie fiscali”), generalmente attraverso l’acquisizione a prezzi maggiorati di beni e servizi provenienti dall’estero (con aumento dei costi di produzione e quindi abbattimento dell’utile imponibile d’esercizio, c.d. “profit shifting”) o con la cessione a condizioni incongrue, perché inferiori al reale valore di scambio, di asset aziendali. Sicché, sebbene sia ipotizzabile anche il transfer pricing “interno”, attuato cioè da imprese tutte sottoposte all’imposizione italiana (che intendano muoversi tra le pieghe del sistema e sfruttare particolari forme di agevolazione fiscale, oppure fronteggiare specifiche e contingenti situazioni reddituali, come nel caso di sussistenza di rilevanti crediti d’imposta), è senza dubbio quello transnazionale a rappresentare la forma più frequente e con impatto più rilevante sulla “ragion fiscale” dello Stato italiano (44). Al di là dell’inciso, ed esplicitata la dimensione intersoggettiva di tali condotte, è dunque opportuno sviluppare una brevissima disamina anche in

(44) Del resto l’art. 5 comma 2 d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 stabilisce esplicitamente che le norme vigenti in ordine al transfer pricing transnazionale non si applicano a quello domestico. Sul tema vd. anche Cass., Sez. Trib., 25 giugno 2019, n. 16948.


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ordine agli eventuali riflessi penali di quest’ultime, anche nel caso in cui, evidentemente, a seguito di operazioni di questo tipo si verifichi il default dell’impresa. 4.2. La disciplina del transfer pricing è principalmente segnata, internamente, dall’art. 110 comma 7 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”) che, più volte oggetto di rimaneggiamenti, stabilisce attualmente che, nei rapporti infragruppo, i trasferimenti debbano comunque avvenire (non più secondo il “valore normale” bensì) sulla base delle condizioni e dei prezzi che sarebbero stati applicati in un contesto di libera concorrenza, tra imprese indipendenti (“arm’s lenght principle”) e “in circostanze comparabili” (si potrebbe dire, non senza imprecisione, “a valore di mercato”). Senza voler entrare nel dettaglio delle modalità di accertamento e dei criteri fruibili per l’individuazione del fair value, si può rilevare allora che in caso di disallineamento del valore assegnato dalle parti (e dichiarato ai fini fiscali) ed il fair price (45) l’amministrazione finanziaria opera le rettifiche, rideterminando le imposte con recupero a tassazione e applicando (salvo che l’impresa abbia ottemperato ad alcuni oneri documentali, nel qual caso è prevista una “penalty protection”) (46) le sanzioni amministrative previste. La giurisprudenza, in ambito amministrativo (non constano, invece, precedenti di rilievo in ambito penale, per lo meno per quanto riguarda la Cassazione), ha in più occasioni chiarito che si è al cospetto di operazioni che rappresentano una forma di “abuso del diritto”, elusive, in quanto si traducono in un uso distorto dello strumento negoziale, operato al fine di ridurre l’impatto fiscale dell’attività imprenditoriale (47); talché, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e del nuovo art. 10-bis comma 13

(45) Con onere dimostrativo in tal senso a carico dell’Amministrazione finanziaria (vd. da ultimo Cass., Sez. Trib., 30 giugno 2017, n. 13387; Cass., Sez. Trib., 18 settembre 2017, n. 18392; Comm. Trib. Milano, Sez. IX, 26 giugno 2019, n. 2757, tutte in Dejure). (46) Cfr. art. 26 comma 1 d.l. 31 maggio 2010, n. 78 conv. l. 30 luglio 2010, n. 122. (47) Cfr. Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2009, n. 30055; Cass., Sez. Trib., 19 gennaio 2012, n. 7953; Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2013, n. 17995 (con nota di Carpentieri, Valore normale e transfer pricing “interno” ovvero alla ricerca dell’arma accertativa perduta, in questa Rivista, 2013, pt. II, 448-461); Cass., Sez. Trib., 16 aprile 2014, n. 8849, (con nota di Caraccioli, Derivazioni penal-tributarie ricavabili dall’orientamento giurisprudenziale sul c.d. “transfer pricing interno”, in questa Rivista, 2014, pt. III, pp. 188-195); Cass., Sez. Trib., 7 febbraio 2015, n. 2908; Cass., Sez. Trib., 22 giugno 2015, n. 12844, tutte reperibili anche in Dejure.


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dello Statuto del contribuente (l. 27 luglio 2000, n. 212) (48), laddove si tratti di operazioni realmente realizzate, si dovrebbe concludere con l’affermare che esse non possono rilevare agli effetti del diritto penale tributario. Tale principio deve estendersi anche alla fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non solo in presenza della documentazione “protettiva” di cui al comma 1-bis, e non solo nel caso in cui il transfer pricing abbia importato l’esposizione elusiva di elementi passivi (49), attesa l’attrazione della fattispecie nell’alveo della clausola d’esenzione generale compendiata nel citato art. 10-bis dello Statuto del contribuente (50). 4.3. Le operazioni di transfer pricing elusivo, tuttavia, debbono anche essere considerate tanto sotto il profilo delle falsità nelle comunicazioni sociali (ed in particolare ai sensi dell’art. 2621 c.c.) (51), con riferimento al falso “valutativo” (52), quanto ancora rispetto alla figura di infedeltà di cui all’art. 2634 c.c. In proposito, si può osservare allora che il vantaggio che generalmente s’intende perseguire, in termini di “risparmio di spesa”, attraverso tali condotte “espoliative” (che evidentemente si riverberano sui valori esposti in contabilità e conseguentemente nelle comunicazioni societarie) sembra dover indurre ad escludere la configurabilità del “conflitto d’interesse” che rappre-

(48) Che stabilisce che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie». Sulla rilevanza penale del transfer pricing anteriforma vd. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, in Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro, vol. XVII, Milano, 2010, 402 ss. (49) Sull’argomento vd. Soana, I reati tributari, Milano, 2018, 230 ss. L’A. esclude la rilevanza penale del transfer pricing nel caso di esposizione di passività a fini elusivi, mentre per quanto concerne le attività sembra ammettere la configurabilità dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000. (50) Così Gaggero, Il transfer pricing, in Dir. Prat. Trib., 2015, 978 ss.; Cerqua, I reati tributari, Napoli, 2018, 65. In senso contrario vd. Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, Assago, 2017, p. 283; Mezzetti, Due problemi emergenti nello statuto penal-tributario dei non residenti, in Ambrosetti (a cura di), Studi in onere di Mauro Ronco, Torino, 2017, pp. 626-627; Cingari, La dichiarazione infedele, in Bricchetti-Veneziani (a cura di), I reati tributari, in Trattato teorico-pratico di Diritto penale, diretto da Palazzo e Paliero, vol. XIII, Torino, 2017, pp. 238-239. Su questi temi vd. anche Musco-Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, 165 ss. (51) In tal senso vd. Cortesi-Orlando, Le false comunicazioni sociali dopo la riforma del 2015: alcune riflessioni da una prospettiva economico-aziendale, in Riv. Dott. Comm., 2016, 577 ss. (52) Su questo tema sia tollerato il rinvio a De Lia, Problemi di struttura della nuova disciplina penale delle false comunicazioni sociali, in Riv. Dir. Impr., 2017, 451 ss.


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senta elemento costitutivo del delitto di infedeltà patrimoniale; a diversa conclusione, invece, sembrerebbe doversi pervenire per l’altra fattispecie, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 25-ter lettera a) del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 alla responsabilità dell’ente (che come noto si fonda per l’appunto sull’interesse-vantaggio in capo alla persona giuridica richiamato dall’art. 5) dovrebbe indurre a ritenere che tra i soggetti destinatari dell’ingiusto profitto perseguito (quello derivante dall’elusione) vi sia anche la società alla quale si riferisce la falsa comunicazione (53). Allo stesso epilogo sembrerebbe doversi approdare nel caso in cui il transfer pricing elusivo abbia coinvolto imprese appartenenti al medesimo gruppo, seppur nell’ambito di rapporti intercompany tesi, attraverso la combinazione con altri atti gestori, al perseguimento di un vantaggio “di ritorno” ulteriore per l’impresa disponente (diverso da quello derivante dall’elusione), atteso che tale obiettivo (nell’ambito di strategie d’impresa intersoggettive più ampie), pur esclusa la configurabilità dell’infedeltà patrimoniale, non elimina né l’ingiustizia del profitto, che rappresenta come appena rammentato elemento costitutivo del figura delittuosa disciplinata dall’art. 2621 c.c., né l’asimmetria informativa relativa alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società e/o del gruppo (54). Così, nonostante la capacità espansiva della teoria dei vantaggi compensativi, nell’ipotesi di successivo default, al ricorrere di ulteriori presupposti (cioè laddove risultasse dimostrato il nesso causale con il “dissesto”) dovrebbe ritersi configurabile anche la bancarotta societaria disciplinata (attualmente) dall’art. 223 comma 2 n. 1 LF (che richiama l’art. 2621 c.c.). Per quanto concerne, invece, la bancarotta patrimoniale impropria (art. 223 comma 1 LF), non v’è dubbio che la traslazione di valori e/o asset, seppur finalizzata all’elusione tributaria, possa rappresentare comunque una “distrazione” (se non addirittura un “depauperamento”) del patrimonio sociale, con sviamento dalla sua legittima funzione economico-produttiva e, di riflesso, di garanzia di soddisfazione delle ragioni dei creditori (tra i quali, per l’appunto, l’Erario).

(53) Cfr. Rossi, Illeciti penali e amministrativi in materia societaria, in Trattato di diritto penale diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro, vol. XVI, Milano, 2012. (54) Sul tema vd. Benussi, I nuovi delitti di false comunicazioni sociali e la rilevanza penale delle false valutazioni, 15 luglio 2016, in www.penalecontemporaneo.it.


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Laddove poi tali operazioni siano connesse al perseguimento di aggiuntivi vantaggi derivanti dalla partecipazione al gruppo e da atti dispositivi di altri enti che vi appartengono, si sarebbe al cospetto di rapporti sinallagmatici viziati dalla finalità elusiva di partenza; talché l’estensione a queste ipotesi dell’efficacia esimente della clausola di cui all’art. 2634 comma 3 c.c. condurrebbe all’epilogo di legittimare, sotto certi versi, atti negoziali con causalità ed oggetto contrari a norme imperative, e quindi costituirebbe un fuor d’opera (55). In altri termini appare indispensabile distinguere operazioni che, importando uno svantaggio immediato per la disponente in vista di un vantaggio “partecipativo” al gruppo, siano realizzate in una genuina logica cooperativa e complessivamente di scambio da quelle che, attraverso il transfer pricing per l’appunto, strumentalizzino il gruppo per raggiungere uno scopo antigiuridico che, a ben vedere, non può che incidere negativamente anche sugli equilibri della concorrenza e del mercato. Talché, in tale limitata ipotesi, sembra doversi giocoforza concludere che l’addebito di bancarotta patrimoniale possa essere evitato solo nel caso in cui risulti effettivamente dimostrato il compimento di condotte “ripristinatorie” che abbiano interamente compensato la deminutio patrimonii e consentito l’assoluto riassorbimento degli squilibri provocati dalla condotta dispositiva illegittima. 4.4. Un’ulteriore problematica che s’innesta sulla disciplina del transfer pricing è quella della sua applicazione a contesti diversi dal controllo e collegamento tra imprese, e quindi in ordine a rapporti che sono stati definiti in questa sede come “infra-aggregato”, determinati cioè da legami di natura contrattuale che non incidono propriamente sulla governance; sul tema, allora, occorre sottolineare che la circolare Ministero delle Finanze, 22 settembre 1980, n. 32, all’art. 4 stabilisce che la normativa di riferimento trova applica-

(55) Il transfer pricing elusivo, peraltro, laddove comporti l’irrogazione di sanzioni amministrative che abbiano prodotto il default potrebbe inoltre essere qualificato anche come “operazione dolosa” agli effetti dell’art. 223 comma 2 n. 2 LF. Cfr. da ultimo Cass., Sez. V, 19 febbraio 2018, n. 24752, in Dejure, secondo la quale «in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2 LF possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali».


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zione anche nel caso di legami di natura contrattuale tra imprese che esulano dal perimetro dell’art. 2359 c.c. Tale impostazione ha ricevuto anche avallo giurisprudenziale (56), ed è stata sostanzialmente ribadita nel Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 14 maggio 2018, recante “linee guida per l’applicazione delle disposizioni previste dall’articolo 110, comma 7, del Testo unico delle imposte sui redditi”, che richiama tra le tipologie di relazioni rilevanti tra enti quelle determinate, per l’appunto, da vincoli contrattuali. Talché (indipendentemente dall’inapplicabilità della teoria dei vantaggi compensativi ai riflessi penali del transfer pricing, che è determinata dai particolari ostacoli di cui si è dato brevemente conto) si è al cospetto di un ulteriore elemento che milita nella direzione dell’opportunità, al fine di garantire maggiore coerenza del sistema, di una rivisitazione di quegli orientamenti giurisprudenziali che in ambito penal-fallimentare, come si è detto, escludono l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 2634 comma 3 c.c. in contesti diversi dal gruppo d’imprese. 5. Conclusioni. Una proposta per l’individuazione di “indici di contesto”. 5.1. Tirando le fila dell’analisi, si può rilevare allora che, nella complessa dinamica dei rapporti intersoggettivi tra imprese, i vantaggi compensativi costituiscano una fondamentale chiave di lettura in ordine alla questione della rilevanza penale, sotto molteplici e talora concorrenti profili, delle operazioni risultate lesive per la società poi entrata in default. Si è anche avuto modo di chiarire, infatti, che il riconoscimento della portata trasversale della clausola di cui all’art. 2634 comma 3 c.c. in tema di infedeltà patrimoniale risulti indispensabile per garantire coerenza sistematica; il che impone il superamento della posizione assunta dalla giurisprudenza attraverso alcune pronunce, secondo le quali il rilievo dei vantaggi compensativi dovrebbe essere limitato alle relazioni sostanzialmente dipendenti da vincoli azionari e al fenomeno di gruppo propriamente inteso, dovendosi invece estendere ai rapporti contrattuali, e quindi a quelli definibili, per quanto detto, come inter-aggregato.

(56) Cfr. Cass., Sez. Trib., 22 aprile 2016, n. 8130, in Dejure, che ha stabilito, in ordine alla nozione di “controllo” richiamata dall’art. 110 TUIR, che essa debba essere interpretata in modo “teleologico”, in ragione dello scopo antielusivo che sottende alla normativa fiscale.


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Su tali presupposti, in ogni caso, resta vivo il problema del difficile equilibrio tra, da un lato, la necessità di tutela degli stakeholders (ed in particolare dei creditori dell’impresa in caso di default, nell’ipotesi di compimento di operazioni che, analiticamente considerate, siano risultate di fatto svantaggiose e lesive del patrimonio societario), rispetto alle quali, evidentemente, gli oneri comunicativi correlati ai rapporti tra imprese non possono che costituire uno scarsamente attrezzato avamposto, e la libertà di iniziativa economica dall’altro. Quello della cooperazione tra imprese, specie nel caso in cui essa assuma carattere transnazionale, rappresenta del resto un fenomeno complesso e multiforme, che in caso di distorsione della libertà negoziale può importare effetti devastanti sull’economia, talora difficilmente contrastabili con i mezzi posti a disposizione dal diritto civile. Se poi la dottrina ha da tempo focalizzato e tratteggiato, nella prospettiva oggetto della presente disamina, gli elementi indispensabili alla valutazione delle componenti oggettive e soggettive delle fattispecie incriminatrici che compongono lo strumentario penal-fallimentare, evidenziando attentamente anche le carenze strutturali di alcune disposizioni che lo compongono, la giurisprudenza dal canto suo è disallineata alle logiche dell’attività produttiva, oltre che alle esigenze del garantismo. Alla luce del sostanziale immobilismo del legislatore rispetto alla proiezione in area penale delle relazioni tra imprese, e dell’inadeguatezza dell’impianto normativo rispetto all’evoluzione e alla dinamicità della realtà economica e del mercato (come dimostra l’emersione del fenomeno del transfer pricing), quello dell’individuazione di una chiara linea di demarcazione tra imprenditore sfortunato, incapace o anche incautamente ottimista, e “bancarottiere” resta dunque un problema vivo, e dalla notevole rilevanza pratica. Le condizioni per declinare la natura fraudolenta, id est distrattiva (o depauperativa), delle operazioni infragruppo o infra-aggregato non sono peraltro affatto definibili attingendo a parametri comuni, stante l’assoluta peculiarità del “contesto”; talché l’opportunità di elaborazione di indici, ispirati ad una logica eminentemente procedimentale-probatoria, in ordine ai quali – sulla base dell’osservazione della prassi – si formulerà da qui a breve una modesta proposta. La bancarotta fraudolenta per distrazione (che è la figura criminosa che più si presta a disciplinare i casi esaminati in questa sede), del resto, rappresenta per l’appunto una “fattispecie di contesto”, e cioè una figura criminosa in cui il fatto offensivo rivela un disvalore in termini penali solo laddove


esso si verifichi in particolari condizioni; talché, come è stato già chiarito in dottrina, gli “indici di contesto”, a loro volta, costituiscono mezzi per la dimostrazione delle circostanze che necessariamente devono accompagnare la condotta affinché questa possa ritenersi tipica (57). In quest’ottica, e a voler “ragionar per indici”, si potrebbero allora isolare alcuni criteri idonei allo scopo, ed in particolare: i) il profilo cronologico, e cioè la distanza temporale dell’operazione svantaggiosa rispetto all’insorgere della crisi e all’apertura della procedura concorsuale. Se è vero, infatti, che le fattispecie di riferimento, ed in particolare la bancarotta patrimoniale (distrazione e dissipamento), de iure condito sono astrattamente idonee ad attrarre condotte illecite anche assai risalenti rispetto al default, ciò nondimeno si è al cospetto di un elemento di fondamentale importanza per la valutazione, innanzitutto, della concreta offensività/pericolosità delle operazioni compiute. Con ciò si vuole rimarcare che la figura della “bancarotta riparata” non è agevolmente fruibile sul piano pratico, poiché – al di là dei casi “facili” in cui la lesione patrimoniale sia stata prontamente ed aritmeticamente eliminata – la verifica del “riassorbimento” dello squilibrio provocato non può che essere oggetto di valutazione ad alto tasso di opinabilità. Talché il gap temporale rappresenta per l’appunto un indice più rassicurante per l’interprete, in ordine alla reale portata offensiva dell’atto gestorio. Nella prospettiva delle relazioni infragruppo o infra-aggregato (ma non solo), ove la logica del vantaggio correlato alle singole operazioni, come si è accennato, è assolutamente particolare, il criterio temporale finisce per giocare inoltre un ruolo indispensabile anche per la verifica della sussistenza dell’elemento psicologico della fattispecie (dolo); ii) lo “stato di salute” delle imprese interessate dalle operazioni. Si è al cospetto, come pure si è detto, di un elemento già fruito dalla giurisprudenza; per quanto emergente dalla casistica, però, è stato in alcuni casi assegnato ad esso, in modo inaccettabile, un valore assorbente, tanto che operazioni dispositive realizzate tra imprese in difficoltà sono state molto spesso ricondotte ex se nell’alveo della bancarotta. Tale impostazione (al di là delle invero non infrequenti ipotesi di movimentazione dalla “bad” alla “good company” attuate con finalità illecite) conduce così al rimprovero anche per operazioni di salvataggio che invece, molto spesso, sono del tutto allineate alla logica coo-

(57) Sul tema vd. Di Martino, Tipicità di contesto, 15 dicembre 2018, in www. archiviopenale.it.


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perativa e al concetto di vantaggio compensativo. Insomma vi è la necessità di distinguere comportamenti attivi o omissivi anomali, perché radicalmente estranei dalla logica economica, e posti in essere con la consapevolezza del danno “finale” provocato all’impresa e ai creditori, da quelli invece attuati nella prospettiva del superamento della crisi; iii) le formalità e le forme di pubblicità che hanno contraddistinto le operazioni. In altre parole, la circostanza che una determinata scelta imprenditoriale sia stata resa correttamente e tempestivamente conoscibile agli stakeholders, al fine di esercitare eventuali forme di “opposizione”, è elemento che milita nella direzione della “buona fede” dei soggetti che l’hanno assunta; iv) la natura dei rapporti tra le imprese protagoniste dell’operazione lesiva. In questa ottica, l’interprete dovrà verificare, ad esempio, i legami produttivi tra imprese, che possono porre in luce la reale finalità perseguita attraverso operazioni a primo impatto “sospette”. Sicché, nell’ipotesi in cui emerga una forte dipendenza produttiva dell’impresa disponente “danneggiata” e quella “favorita” (come nel caso dello sfruttamento di diritti di privativa), si è al cospetto di quelle condizioni che generalmente giustificano, nell’ottica del perseguimento di vantaggi indiretti, il compimento di atti dispositivi svantaggiosi; v) la sussistenza di obbligazioni di garanzia, personali o reali in relazione ad esposizioni debitorie in capo alle imprese interessate. Come dimostra la prassi, infatti, alcune operazioni vengono frequentemente realizzate, attraverso lo spostamento di valori, per sostenere, nel contesto di partnership plurilaterali, imprese esposte per l’effetto di garanzie prestate in favore di altri enti appartenenti al gruppo o all’aggregato, al fine di evitare “effetti domino” derivanti dal default della garante, e che quindi possono estrinsecarsi come mezzo del tutto lecito per attuare tentativi di salvataggio; vi) l’assetto azionario delle imprese coinvolte. Con ciò si vuole rimarcare che, ferma l’autonomia soggettiva tra enti, l’operazione in favore di un’impresa partecipata in via maggioritaria, o addirittura esclusiva dall’impresa disponente, seppur risultata svantaggiosa ex post, generalmente è realizzata per salvaguardare quello che rappresenta, in effetti, un vero e proprio asset aziendale; vii) la coincidenza soggettiva o i legami personali tra gli organi appartenenti alle imprese coinvolte dall’operazione intercompany. Si tratta infatti di elementi che, in questo contesto, possono contribuire a disvelare se il comportamento risultato lesivo sia stato attuato effettivamente con la previsione di vantaggio di “ritorno”, in ottica genuinamente back to back;


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viii) l’eventuale inserimento dell’operazione risultata pregiudizievole nel contesto di una prassi consolidata. Nei rapporti negoziali, specie quelli di finanziamento, la circostanza che l’operazione pregiudizievole costituisca un unicum, specie nel caso in cui essa intervenga in prossimità del default, può denotare anomalia, mentre invece la ripetitività dell’operazione stessa, in un contesto ove la parte beneficiata abbia onorato regolarmente in precedenza le proprie obbligazioni (o comunque garantito un vantaggio indiretto alla disponente) può costituire indice della carenza del dolo caratteristico dei fatti di bancarotta; ix) l’individuazione di una finalità di transfer pricing elusivo sottesa all’operazione dispositiva, che abbia importato la fuoriuscita dal patrimonio della società di valori o asset, rappresenta – per quanto detto – condotta distrattiva/ depauperativa, anomala rispetto a criteri di sana e corretta gestione, tale da determinare l’addebito in base alle norme incriminatrici di riferimento, salva l’eventualità di condotte riparatorie. 5.2. Gli indici, in generale, rivestono un carattere, come si è detto, procedimentale-dimostrativo, ma finiscono con l’assumere significato anche sotto il profilo del fatto tipico laddove, come nel caso della bancarotta patrimoniale, l’anodina descrizione normativa provochi un vuoto di tipicità che facilmente può incidere sul giudizio, facendolo degenerare in puro arbitrio. Se da un lato, allora, l’eccesso descrittivo può spesso condurre a preoccupanti vuoti di tutela, specie dinnanzi a fenomeni che, come la realtà delle attività produttive, si rivelano assai dinamici ed evolutivi, dall’altro è l’elaborazione di indici generalmente condivisi a rappresentare lo strumento per ovviare agli eccessi opposti, e cioè al difetto di determinatezza, “tamponando” i preoccupanti vuoti lasciati spalancati dal legislatore, peraltro a fronte del tradizionale self restraint della Consulta in ordine alle questioni sollevate in punto di legalità-determinatezza delle fattispecie criminose. Così, per la bancarotta fraudolenta distrattiva, l’individuazione di alcuni parametri (58) condivisi sembra indispensabile alla definizione della struttura della fattispecie astratta, e all’individuazione del carattere anomalo che deve necessariamente accompagnare la condotta affinché essa possa definirsi “fraudolenta” e penalmente rilevante: il fatto, per assurgere a tipicità, deve in altri termini essere arricchito da elementi, contestuali, che ne denotano,

(58) Trattandosi di indici di verificazione dell’anomalia, l’onere dimostrativo dovrebbe ritenersi peraltro a carico dell’accusa.


Dottrina

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per l’appunto, il carattere antigiuridico, sul piano dell’offesa e dell’elemento psicologico. Il tutto affinché il diritto penale recuperi, anche in questo settore, il proprio indispensabile ruolo anche in termini di orientamento dell’agire dei consociati, e per evitare il tangibile rischio della deriva pan-penalistica, specie in un momento di congiuntura economica sfavorevole quale quella che l’Italia, ormai da anni, sta attraversando.

Andrea De Lia



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cass. civ., sez. V, 8 maggio 2019 - 21 giugno 2019, n. 16701, Pres. Chindemi – Est. Botta Vincoli di destinazione – Imposte indirette – Presupposto impositivo – Trasferimento effettivo di ricchezza – Trust – Atto istitutivo – Atto di dotazione – Insussistenza – Attribuzioni al beneficiario – Sussistenza La costituzione del vincolo di destinazione di cui al D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, non integra un autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta. Per l’applicazione delle imposte indirette e, in particolare, dell’imposta sulle successioni e donazioni e delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura proporzionale è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale. Nel trust, un trasferimento così imponibile non è riscontrabile, né nell’atto istitutivo, né nell’atto di dotazione patrimoniale dei beni in trust, ma soltanto in quello di eventuale attribuzione di detti beni al beneficiario. In ogni tipologia di trust l’imposta proporzionale non va anticipata né all’atto istitutivo né a quello di dotazione, bensì riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento del bene al beneficiario.

(Omissis) Sul ricorso iscritto al n. 15445/2017 R.G. proposto da: B.E., elettivamente domiciliato in Roma viale delle Milizie 22, presso l’avv. Alessandro Fusillo, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce al ricorso;- ricorrente - contro Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende per legge; - controricorrente - avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio (Roma), Sez. 9, n. 8765/9/16 del 16 dicembre 2016, depositata il 20 dicembre 2016, non notificata; Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 8 maggio 2019 dal Consigliere Botta Raffaele; Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Basile Tommaso, che ha concluso chiedendo che l’accoglimento del ricorso; Preso atto che sono presenti per le parti l’avv. A. S., per delega dell’avv. Alessandro Fusillo, per il ricorrente e l’avv. Alfonso Peluso per l’Avvocatura Generale dello Stato che si riportano alle proprie difese. Fatti di causa. - La controversia concerne l’impugnazione di un avviso di liquidazione con il quale veniva pretesa la tassazione in misura proporzionale, ai fini


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dell’imposta di successione e donazione e ai fini dell’imposta ipotecaria e catastale, di un atto con il quale i coniugi C.F. e D.N.G. - con il ministero del notaio B.E. (cui l’atto impositivo era stato notificato e che ne aveva proposto l’impugnazione innanzi al giudice tributario) - avevano conferito al Trust F.C. la nuda proprietà di fabbricati e terreni di loro proprietà perché ne fossero beneficiari, al termine finale di durata del trust stesso, i coniugi, figli e nipoti figlie dei figli dei disponenti. La questione dibattuta nel giudizio è la seguente: se l’atto di costituzione del trust immobiliare che determina la segregazione del bene del disponente in attesa che lo stesso sia trasferito al beneficiario finale, sia da sottoporre o meno all’imposta sulle successioni e donazioni e alle imposte ipotecarie in misura proporzionale e non fissa. Il giudizio ha avuto nei due gradi un esito negativo per il contribuente, che ora propone ricorso per cassazione con unico motivo, illustrato anche con memoria, sottoponendo alla Corte la medesima questione discussa nei gradi di merito. Resiste l’amministrazione con controricorso. Ragioni della decisione. - Con l’unico motivo di ricorso il contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, nonché dell’art. 12 preleggi, comma 1, del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 1, dell’art. 53 Cost., del D.Lgs. n. 37 del 1990, artt. 1, 2 e 10, in quanto erroneamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto che l’atto istitutivo del trust, perché diretto a costituire un vincolo di destinazione, sarebbe - per ciò solo, in ossequio alla disposizione di cui al D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47 - soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni. Il motivo è fondato alla luce delle seguenti considerazioni. 1. Secondo l’art. 2 della Convenzione dell’Aja 1 luglio 1985, ratificata con L. n. 364 del 1989: - si intendono per trust i “rapporti giuridici” istituiti da una persona, il costituente (o disponente o settior) - con atto tra vivi o mortis causa - qualora alcuni beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico; - i beni in trust “costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee”; - tali beni sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; - il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni “in conformità alle disposizioni del trust” e secondo le norme impostegli dalla legge; - non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà, o che il trustee stesso abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario. Il trust può rispondere a finalità eterogenee: - di famiglia; - di garanzia; - di liquidazione e pagamento; - di realizzazione di un’opera pubblica; - di solidarietà sociale; - di realizzazione di interessi meritevoli di tutela a favore di persone disabili, pubbliche amministrazioni


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o altri soggetti (art. 2645 ter c.c.) ecc.... Ulteriori diversificazioni si riscontrano: - a seconda che il trust venga costituito per atto tra vivi oppure per testamento, con efficacia dopo la morte del disponente; - ovvero a seconda delle prescelte modalità di individuazione del beneficiario (al momento della istituzione o in un momento successivo; - da parte del disponente o dello stesso trustee; (con possibilità di revoca o meno); - ovvero, ancora, a seconda che il trustee ed il beneficiario vengano individuati in soggetti terzi oppure nello stesso disponente (c.d. trust autodichiarato). Fattori individualizzanti comuni possono purtuttavia individuarsi: - nel nucleo causale unitario costituito dalla combinazione dello scopo di destinazione con quello, ad esso strumentale, di segregazione patrimoniale; - nell’attuazione del vincolo di destinazione mediante intestazione meramente formale dei beni al trustee ed attribuzione al medesimo di poteri gestori circoscritti e mirati allo scopo; - nell’attribuzione al beneficiario (ove esistente) di una posizione giuridica iniziale che non è di diritto soggettivo sul bene, ma di aspettativa o di interesse qualificato ad una gestione conforme alla realizzazione dello scopo. Proprio perché mero “insieme” di beni e rapporti giuridici destinati ad un fine determinato nell’interesse di uno o più beneficiari (Cass. n. 10105 del 2014, n. 3456 del 2015, n. 2043 del 2017, n. 31442 del 2018), il trust è privo di personalità giuridica, con la conseguenza che soggetto legittimato nei rapporti, anche processuali, con i terzi è esclusivamente il trustee nella sua veste di gestore, formale intestatario dei beni ed esercente in proprio dei diritti correlati. L’ordinamento vede con favore l’istituto; sia per la varietà e flessibilità di funzione, sia perché esso permette un’operatività comune ed armonizzata pur nell’ambito di legislazioni di tradizione differente. 2. Scarna è anche la disciplina fiscale. L’amministrazione finanziaria (Circolare 22 gennaio 2008, n. 3/E, e circolare 6 agosto 2007, n. 48/E) assume che: - debba considerarsi trust “un rapporto giuridico complesso con un’unica causa fiduciaria che caratterizza tutte le vicende del trust (istituzione, dotazione patrimoniale, gestione, realizzazione dell’interesse del beneficiario, raggiungimento dello scopo”; - debbano considerarsi “vincoli di destinazione” “i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi” (n. 3/E cit.) Per quanto riguarda le imposte dirette, la mancanza di personalità giuridica non è di ostacolo, per regola generale, alla individuazione nel trust della soggettività passiva Ires (Tuir, art. 73, come modificato dalla L. n. 296 del 2006); con diversa disciplina a seconda che si tratti di trust residente o non residente, ovvero che si tratti di trust con individuazione, o senza individuazione, dei beneficiari (art. 73 cit.). Per quanto concerne le imposte indirette, norma di riferimento è stata considerata - ma con esiti interpretativi molto diversi - il D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, conv. dalla L. n. 286 del 2006, secondo cui: “E’ istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per do-


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nazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54”. Rileva anche la L. n. 112 del 2016, art. 6 (c.d. legge del “Dopo di noi”) in base al cui comma 1: “I beni e i diritti conferiti in trust ovvero gravati da vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. ovvero destinati a fondi speciali di cui all’art. 1, comma 3, istituiti in favore delle persone con disabilità grave (...) sono esenti dall’imposta sulle successioni e donazioni prevista dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, commi da 47 a 49, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2006, n. 286, e successive modificazioni”. Aspetti ancora diversi riguardano l’imposizione locale, la quale appare però segnata da presupposti impositivi del tutto autonomi e divergenti da quelli invece riconducibili (in termini di attribuzione traslativa di ricchezza) all’imposta di registro, a quella ipotecaria-catastale ed a quella sulle successioni e donazioni; ciò perché normalmente ricollegati al dato oggettivo, immediato e contingente costituito, ad esempio, dalla fruizione di un servizio pubblico (“tassa rifiuti”), dallo sfruttamento di una risorsa pubblica (come nella TOSAP) o dall’esercizio sugli immobili di un diritto reale o di un possesso ad esso corrispondente (come nell’ICI-IMU). Tornando alle imposte indirette, l’incertezza applicativa riguarda, pur nell’ambito di una figura unitaria, i differenti momenti negoziali nei quali quest’ultima normalmente si articola, a seconda che oggetto di imposizione sia: - l’atto istitutivo del trust, di natura non traslativa di beni o diritti ma meramente preparatoria, enunciativa e programmatica; - l’atto di dotazione o provvista del trust, comportante il momentaneo trasferimento del bene o del diritto al trustee in funzione della realizzazione degli obiettivi prefissati e con i vincoli ad essa pertinenti; - l’atto di trasferimento finale del bene o del diritto al beneficiario. Non rileva per contro, in quanto solo collaterale al rapporto di trust ed assoggettato all’imposizione generale di registro, l’incarico attribuito dal disponente al trustee ed avente ad oggetto - secondo lo schema del mandato gratuito od oneroso - la gestione finalizzata dei beni e la loro allocazione ultima. Per quanto concerne l’imposta di registro (ma tematica analoga investe anche l’imposta ipotecaria e catastale), la controversia applicativa riguarda, segnatamente, la quota di imposta eccedente la misura fissa, secondo quanto stabilito in via residuale dal D.P.R. n. 131 del 1986, Tariffa allegata, art. 9, secondo cui la tassazione proporzionale (3%) si applica per la sola circostanza che l’atto abbia per oggetto “prestazioni a contenuto patrimoniale”. 3. Com’è noto, l’interpretazione di legittimità in materia si è evoluta - attraverso il graduale recepimento, favorito anche dall’apporto della dottrina e della giurisprudenza di merito, di soluzioni intermedie e più sfumate - attraverso due posizioni concettualmente molto distanti tra loro. La posizione di partenza (Cass. nn. 3735, 3737, 3886, 5322 del 2015) è fissata dalla se-


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guente massima (n. 3735 del 2015): “L’atto con il quale il disponente vincoli propri beni al perseguimento della finalità di rafforzare una generica garanzia patrimoniale già prestata, nella qualità di fideiussore, in favore di alcuni istituti bancari, pur non determinando il trasferimento di beni ad un beneficiario e l’arricchimento di quest’ultimo, nondimeno è fonte di costituzione di un vincolo di destinazione, sicché resta assoggettato all’imposta prevista dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, comma 47, convertito dalla L. 23 novembre 2006, n. 286, la quale: - accomunata per assonanza alla gratuità delle attribuzioni liberali; - a differenza delle imposte di successione e donazione, che gravano sui trasferimenti di beni e diritti “a causa” della costituzione dei vincoli di destinazione, è istituita direttamente, ed in sè, sulla costituzione del vincolo”. La posizione che possiamo definire di arrivo (Cass. n. 1131 del 2019, in corso di massimazione) afferma invece che: - “non si può trarre dallo scarno disposto del D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, il fondamento normativo di un’autonoma imposta, intesa a colpire ex se la costituzione dei vincoli di destinazione, indipendentemente da qualsivoglia evento traslativo, in senso proprio, di beni e diritti, pena il già segnalato deficit di costituzionalità della novella così letta”; - “in relazione agli atti di dotazione del fondo oggetto di causa (...), il giudice di appello (...) ha correttamente escluso che la costituzione del vincolo di destinazione sulle somme di denaro conferite in trust avesse prodotto un effetto traslativo immediato, solo in tal caso giustificandosi la soggezione dell’atto dotativo all’imposta sulle successioni e donazioni, in misura proporzionale, in quanto sicuro indice della capacità economica del soggetto beneficiato”. Si ritiene che quest’ultima sia la posizione più persuasiva, così da dover essere qui recepita a composizione di un contrasto che può sul punto dirsi, anche in ragione delle altre decisioni di cui si darà conto, ormai soltanto diacronico. Si riconosce che nel “genere” degli atti di “costituzione di vincoli di destinazione” di cui all’art. 2, comma 47, cit. rientri anche la “specie” del trust; ha in proposito osservato Cass. n. 1131 del 2019 cit. che: “nell’ambito concettuale dei “vincoli di destinazione” devono essere ricondotti non solo gli “atti di destinazione” di cui all’art. 2645-ter c.c., ma qualunque fattispecie prevista dall’ordinamento tesa alla costituzione di patrimoni vincolati ad uno scopo (...)”. E tuttavia, tale inclusione non è ritenuta bastevole a giustificare l’imposizione del trust in quanto tale, ostandovi principalmente considerazioni di natura costituzionale. Ciò perché la tesi della “nuova imposta” gravante sul vincolo di destinazione, assunto quale autonomo e sufficiente presupposto, non dà adeguatamente conto del fatto che la sola apposizione del vincolo non comporta, di per sè, incremento patrimoniale significativo di un reale trasferimento di ricchezza; con quanto ne consegue, appunto nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata, in ordine alla non ravvisabilità in esso di forza economica e capacità contributiva ex art. 53 Cost.. Ferma restando l’indubbia discrezionalità del legislatore nell’individuare i presupposti impositivi, questa discrezionalità deve pur sempre muoversi in un ambito di ragionevolezza e di non-arbitrio (Corte Cost. n. 4 del 1954 e n. 83 del 2015), posto che la capacità contributiva in ragione della quale il contribuente è chiamato a concorrere


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alle pubbliche spese “esige l’oggettivo e ragionevole collegamento del tributo ad un effettivo indice di ricchezza” (Corte Cost. ord. n. 394 del 2008). E, in materia, tale indice non prende consistenza prima che il trust abbia attuato la propria funzione. Non può negarsi che l’apposizione del vincolo, in quanto tale, determini per il disponente l’utilità rappresentata dalla separatezza dei beni (limitativa della regola generale di cui all’art. 2740 c.c.) in vista del conseguimento di un determinato risultato di ordine patrimoniale; ma, d’altra parte, in assenza di una simile utilità, e dell’interesse ad essa sotteso nel libero esercizio dell’autonomia negoziale delle parti, verrebbe finanche meno lo stesso fondamento causale del trust, della cui validità e meritevolezza ex art. 1322 c.c. - dopo la ratifica della Convenzione - non è invece più dato dubitare. Ciò che si vuol dire è che questa utilità non concreta, di per sè, alcun effettivo e definitivo incremento patrimoniale in capo al disponente e nemmeno al trustee, quanto soltanto - “se” e “quando” il trust abbia compimento - in capo al beneficiario finale. Prima di questo momento, l’”utilità” insita nell’apposizione del vincolo si risolve infatti, dal lato del conferente, in una autorestrizione del potere di disposizione mediante segregazione e, dal lato del trustee, in un’attribuzione patrimoniale meramente formale, transitoria, vincolata e strumentale. Neppure è a dire che questa interpretazione apparentemente antiletterale produrrebbe, sul piano sistematico, effetto sostanzialmente abrogativo della nuova formulazione del D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, con cui il legislatore avrebbe invece proprio inteso “aggiungere” all’imposta sulle successioni ed a quella sulle donazioni - indipendentemente da qualsivoglia arricchimento - la terza imposta sul vincolo di destinazione; tanto più che, ritenendosi necessario l’arricchimento, l’aggiunta in questione non avrebbe avuto ragion d’essere operando comunque, in sua assenza, le imposte ordinarie. Si è infatti osservato che, vista l’esigenza di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il richiamo ai vincoli di destinazione deve essere riferito all’intendimento del legislatore di evitare “che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni, disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit., potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione”, e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto “vecchio” D.Lgs. n. 346 cit.” (Cass. n. 21614 del 2016). Il che equivale ad affermare che la menzione legislativa del vincolo di destinazione, accanto a donazioni ed atti a titolo gratuito, si limita a precisare - in un quadro normativo reso incerto dalla non perfettamente integrale riesumazione della previgente disciplina di cui al TU n. 346 del 1990 - che l’imposta (quella di donazione) deve essere applicata anche quando l’incremento patrimoniale a titolo liberale sia indirettamente realizzato attraverso un “vincolo di destinazione”; il che nel trust non accade. Quanto osservato


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in ordine alla non individuabilità, nella costituzione del vincolo, di un autonomo presupposto di imposta vale anche ad escludere che l’atto istitutivo del trust e quelli di dotazione/provvista del medesimo siano alternativamente assoggettabili all’imposta sulle donazioni; di questa mancano infatti gli elementi costitutivi rappresentati sia dalla liberalità sia dal concreto arricchimento mediante effettivo trasferimento di beni e diritti, secondo quanto evincibile dal TU n. 346 del 1990 cit., art. 1. A fronte delle rassegnate indicazioni, di tipo anche costituzionale, oggettivamente debole è l’argomento di segno contrario secondo cui quando il legislatore ha inteso esentare da imposta di successione e donazione il trust, lo ha specificato a chiare lettere, così come accade nella L. n. 112 del 2016, art. 6, cit. sul trust di disabilità. Questa conclusione appare forzata. Intanto, alla determinazione dei presupposti dell’imposta dovrebbe giungersi in via diretta, certa e tassativa, e non con argomento a contrario; inoltre, va considerato che la disposizione in parola è sopravvenuta in un momento ed in un contesto interpretativo (anche di legittimità) ancora estremamente variegato ed incerto, in maniera tale che il legislatore del 2016 ben può avere ritenuto di dover comunque senz’altro esentare dall’imposta il trust in questione (rispondente ad obiettivi di speciale ed urgente protezione) restando però del tutto impregiudicato il dibattito sulla portata generale del D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47. Nemmeno risulta applicabile agli atti in questione l’imposta (proporzionale) di registro. Ha osservato Cass. n. 25478 del 2015: “In merito ai profili impositivi del trust, non è dato sottoporre l’atto costitutivo di un trust liberale ad imposizione proporzionale immediata, giacché quell’atto non è in grado di esprimere la capacità contributiva del trustee (solo l’attribuzione al beneficiario può considerarsi sintomatica ai fini dell’imposizione). Nel caso di specie l’errore insito nella tesi erariale è di considerare il trust liberale come immediatamente produttivo degli effetti traslativi finali che costituiscono il vero (e unico) presupposto dell’imposta: ne consegue che la sua costituzione va considerata estranea al presupposto dell’imposta indiretta sui trasferimenti in misura proporzionale, sia essa l’imposta di registro, ipotecaria o catastale, mancando l’elemento fondamentale dell’attribuzione definitiva dei beni al beneficiario”. Si è affermato in questa decisione (resa su fattispecie antecedente alla reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni, ma contenente affermazioni valide anche per il problema in discussione) che è vero che il D.P.R. n. 131 del 1986, Tariffa all., art. 9, su riportato, prevede l’applicazione residuale dell’imposta proporzionale su tutti gli atti aventi contenuto patrimoniale, e tuttavia non è vero che quest’ultimo requisito di patrimonialità sussista “per il sol fatto che il consenso prestato riguarda un vincolo su beni muniti di valore economico”. Si tratta invece di requisito riconducibile al carattere di onerosità, posto che “la norma non può essere intesa in modo dissociato dal contesto del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 43, comma 1, che fissa la base imponibile dell’imposta prevedendola (v. lett. h), per le “prestazioni a contenuto patrimoniale”, nell’ammontare “dei corrispet-


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tivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto””; il che è dimostrazione del fatto che, ai sensi della tariffa, art. 9, “la prestazione “a contenuto patrimoniale” è la prestazione onerosa” (Cass. n. 25478 del 2015 cit.). Questa lettura, d’altra parte, è coerente - nell’ambito di quel già ricordato procedimento interpretativo per affinità ed analogia necessitato dall’assenza di organica disciplina dell’istituto - con l’orientamento di legittimità ampiamente consolidatosi intorno all’imposizione dell’atto costitutivo di fondo patrimoniale ex art. 167 c.c.. Si è osservato, in proposito, che quest’ultimo “non è un atto traslativo a titolo oneroso, nè un atto avente per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, nè, infine, un atto avente natura meramente ricognitiva, bensì una convenzione istitutiva di un nuovo regime giuridico, diverso da quello precedente, costitutivo di beni in un patrimonio avente un vincolo di destinazione a carattere reale, in quanto vincola l’utilizzazione dei beni e dei frutti solo per assicurare il soddisfacimento dei bisogni della famiglia”; con la conseguenza che, in tema di imposta di registro: “il regime di tassazione di tale atto non è quello dell’imposta proporzionale, di cui al D.P.R. n. 26 aprile 1986, n. 131, tariffa, parte prima, allegata, artt. 1 (atti traslativi a titolo oneroso), 9 (atti diversi, aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale), o 3 (atti di natura dichiarativa) ma va individuato nella categoria residuale disciplinata dalla tariffa stessa, art. 11, con conseguente applicabilità dell’imposta nella misura fissa ivi indicata” (Cass. n. 10666 del 2003; così nn. 21056 del 2005; 12071 del 2008 ed altre). Analoghe considerazioni valgono per l’imposta ipotecaria e catastale sui trasferimenti immobiliari di dotazione del trust. Anche in tal caso (così Cass. n. 25478 del 2015 cit.) la mancanza di un effetto traslativo “reale” - con ciò ovviamente intendendosi non un trasferimento “simulato” o “fittizio” o “non voluto”, ma un trasferimento non stabile, non definitivo e con limitazioni d’esercizio e godimento - osta all’imposizione proporzionale, essendo quest’ultima prevista per la trascrizione di atti “che importano trasferimento di proprietà di beni immobili o costituzione o trasferimento di diritti reali immobiliari sugli stessi” (D.Lgs. n. 347 del 1990, Tariffa all.; in accordo con il D.Lgs. cit., art. 1 e art. 10, comma 2). Anche per l’imposta ipotecaria e catastale, in altri termini, è decisiva l’osservazione secondo cui l’effetto tipico del trust - quello segregativo - non equivale a trasferimento nè ad arricchimento attuale; effetti che si realizzeranno invece a favore dei beneficiari, dunque chiamati al pagamento dell’imposta in misura proporzionale (Cass. n. 21614 del 2016). Ha stabilito Cass. n. 975 del 2018 che: “Il trasferimento del bene dal settlor al trustee avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del trust: detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale”.


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La strumentalità dell’atto istitutivo e di dotazione del trust ne giustifica, nei termini indicati, la fiscale neutralità. 4. Si è detto che la complessità del problema deriva anche dal fatto che il trust è istituto multiforme. E tuttavia, l’orientamento al quale questa corte di legittimità è da ultimo pervenuta (Cass. n. 1131 del 2019 cit.) è in grado di dare conto di tale aspetto, apprestando una soluzione che opportunamente valorizzando l’elemento essenziale sempre causalmente costituito, come detto, dal collegamento di segregazione e destinazione - deve ritenersi estensibile a tutte le diverse forme di manifestazione. Dunque, in ogni tipologia di trust l’imposta proporzionale non andrà anticipata nè all’atto istitutivo nè a quello di dotazione, bensì riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario. Si tratta di conclusione che può ricondurre ad unità anche quegli indirizzi che, pur condivisibilmente discostandosi dall’originaria posizione interpretativa di cui in Cass. nn. 3735, 3737, 3886, 5322 del 2015 cit., hanno tuttavia ritenuto di dover mantenere dei distinguo in relazione a fattispecie di trust reputate peculiari ed in qualche modo divergenti dal paradigma convenzionale. Così quando (Cass. ord. n. 31445 e 31446 del 2018; 734 del 2019) si attribuisce rilevanza dirimente al fatto che il beneficiario sia designato già con l’atto istitutivo del trust, in modo da denotare “sin da subito” la sussistenza nel disponente della volontà di trasferire a questi il bene in dotazione, con conseguente applicazione immediata dell’imposta proporzionale; mentre l’imposta dovrebbe essere applicata in misura fissa nella diversa ipotesi di mancata designazione del beneficiario nell’atto istitutivo. Si osserva nella decisione n. 31445 del 2018 cit.: “Tuttavia, ciò non esclude tout court che in alcune fattispecie sia possibile valutare sin da subito se il disponente abbia avuto la volontà effettiva di realizzare, sia pure per il tramite del trustee, un trasferimento dei diritti in favore di terzo. (...) E’ chiaro, infatti, che, allorquando il beneficiario sia unico e ben individuato (determinando, nel caso di specie, in assenza di rapporti di parentela con la disponente, l’applicazione dell’aliquota massima dell’8%) ed il negozio costitutivo non preveda, neppure in via subordinata, il ritorno dei beni in capo al settlor, l’operazione dismissiva evidenzi, in assenza di provati intenti elusivi, una reale volontà di trasferimento, con la conseguente applicabilità immediata dell’aliquota di volta in volta prevista”. Oppure quando (Cass. n. 13626 del 2018) si individua, nel trust liquidatorio so/ vendi causa, un effetto traslativo immediato (con conseguente applicazione dell’imposta di donazione) nella volontà del disponente di realmente attribuire all’attuatore la proprietà dei beni, in modo tale che il vincolo di destinazione debba ritenersi “idoneo a produrre un effetto traslativo funzionale al (successivo ed eventuale) trasferimento della proprietà dei medesimi beni vincolati a favore di soggetti beneficiari diversi dal soggetto disponente senza alcun effetto di segregazione del bene”. Ha in particolare stabilito la decisione in esame che: “Il trust mediante il quale si costituisce un vincolo di destinazione idoneo a produrre un effetto traslativo in favore del trustee,


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sebbene funzionale al successivo ed eventuale trasferimento della proprietà dei beni vincolati ai soggetti beneficiari, deve essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni, facendo emergere la potenziale capacità economica, ex art. 53 Cost., del destinatario del trasferimento”, osservando quindi che: “Nella specie i contraenti vollero il reale trasferimento delle quote e dei relativi diritti al trustee, sia pure ai fini della liquidazione e quindi il reale arricchimento del beneficiario. E’ quindi corretta l’applicazione dell’imposta nella misura dell’8% prevista dal D.L. n. 262 del 2006, comma 49, lett. c), che sottopone all’imposta di donazione la costituzione di vincoli di destinazione con beni devoluti a soggetti diversi da quelli previsti nelle lettere a), a-bis) e b)”. Nella prima ipotesi, il fatto che il beneficiario sia individuato fin dall’atto istitutivo non comporta di per sè necessaria deviazione dal tipo negoziale del trust e, soprattutto, non pare giustificare l’immediata tassazione proporzionale, dal momento che la sola designazione, per quanto contestuale e palese (c.d. trust “trasparente”), non equivale in alcun modo a trasferimento immediato e definitivo del bene, con quanto ne consegue in ordine all’applicazione dei già richiamati principi impositivi. Anche questa fattispecie può dunque rientrare nel delineato sistema di imposizione proporzionale eventuale e differita. Nella seconda ipotesi, non si dubita della effettività del trasferimento al trustee dei beni da liquidare, ma ciò non esclude che - anche in tal caso - sia connaturato al trust che tale trasferimento sia mero veicolo tanto dell’effetto di segregazione quanto di quello di destinazione. Ancora una volta, dunque, si tratterà di individuare e tassare gli atti traslativi propriamente detti (che sono quelli di liquidazione del patrimonio immobiliare di cui il trust sia stato dotato), non potendo assurgere ad espressione di ricchezza imponibile nè l’assegnazione-dotazione di taluni beni alla liquidazione del trustee in funzione solutoria e nemmeno, in tal caso, la ripartizione del ricavato ai beneficiari a dovuta soddisfazione dei loro crediti. In entrambe le ipotesi, poi, non è inutile osservare come, qualora sia davvero individuabile un effetto traslativo immediato propriamente detto - perché realizzato in via diretta e senza alcuna volontà di segregazione/destinazione - sembri addirittura dubitabile la stessa ravvisabilità in concreto della causa negoziale di trust. Nel qual caso, non è più un problema di fiscalità del trust quanto, se mai, di attribuzione all’atto della sua più appropriata qualificazione secondo intrinseca natura ed effetti giuridici; perché non è in discussione che, come i “creditori comuni” possono allontanare da sè gli effetti di un trust solo apparente e rispondente a finalità deviate (proponendo azione di simulazione o revocatoria), così il “creditore fisco” è ammesso a far prevalere la “sostanza sulla forma” mediante disconoscimento degli effetti dell’atto previa sua riqualificazione D.P.R. n. 131 del 1986 ex art. 20 o, al limite, contestazione di abuso/elusione L. n. 212 del 2000 ex art. 10 bis. La soluzione qui accolta può trovare applicazione anche nel caso del c.d. trust autodichiarato, connotato dalla coincidenza di disponente e trustee; fattispecie, questa, nella quale è pure ravvisabile, nonostante la mancanza di un trasferimento patri-


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moniale intersoggettivo con funzione di dotazione, sia la volontà di segregazione sia quella di destinazione. Anzi, è proprio la mancanza di quel trasferimento patrimoniale intersoggettivo a rendere, in tal caso, ancor più evidente e radicale l’incongruenza dell’applicazione dell’imposta proporzionale sull’atto istitutivo e su quello di apposizione del vincolo all’interno di un patrimonio che rimane in capo allo stesso soggetto (applicazione già esclusa, nel trust autodichiarato, da Cass. n. 21614 del 2016 cit.). In definitiva, deve qui affermarsi che: - la costituzione del vincolo di destinazione di cui al D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, convertito dalla L. n. 286 del 2006, non integra autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta, in aggiunta a quella di successione e di donazione; - per l’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale di registro ed ipocatastale, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale; - nel trust di cui alla L. n. 364 del 1989, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Afa 1 luglio 1985, un trasferimento così imponibile non è riscontrabile né nell’atto istitutivo né nell’atto di dotazione patrimoniale tra disponente e trustee - in quanto meramente strumentali ed attuativi degli scopi di segregazione e di apposizione del vincolo di destinazione - ma soltanto in quello di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo. Siffatta conclusione ha il pregio di indicare - una volta escluso che di fronte ad un fenomeno così complesso come quello del trust si possa “trarre dallo scarno disposto del D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, il fondamento normativo di un’autonoma imposta, intesa a colpire ex se la costituzione dei vincoli di destinazione, indipendentemente da qualsivoglia evento traslativo, in senso proprio, di beni e diritti”, senza incorrere in un deficit di costituzionalità della norma - un percorso interpretativo privo di incertezze e saldamente ancorato alla concretezza dell’effettivo incremento patrimoniale del beneficiario quale elemento rivelatore della capacità contributiva che legittima l’imposizione. P.Q.M. Alla luce di tali considerazioni il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata e, decidendo nel merito, deve essere annullato l’atto impositivo. L’esistenza di un contrasto di giurisprudenza nell’orientamento della Corte in materia giustifica la compensazione delle spese. P.Q.M. Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito annulla l’atto impositivo. Compensa le spese. (Omissis)


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(1) La tassazione “in uscita” dei Trusts ai fini dell’imposta sulle donazio-

ni nella giurisprudenza di legittimità: lux (quasi) facta est.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’interpretazione della novella legislativa. – 3. L’altale-

nante percorso interpretativo della Corte di Cassazione. – 4. Il consolidamento della tesi della “tassazione all’uscita” nella sentenza 16701 del 21 giugno 2019. – 5. Prospettive future e aporie interpretative derivanti dalla “tassazione in uscita”. – 6. È davvero possibile portare a unitarietà la fiscalità indiretta degli atti di dotazione di beni in trust? La Corte di Cassazione, dopo un lungo percorso interpretativo caratterizzato da altalenanti arresti e vani tentativi di mediare tra l’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria e l’attività esegetica quasi unanime della dottrina, ha provato a far luce – con un percorso argomentativo logico e costituzionalmente orientato – sul regime fiscale applicabile agli atti di dotazione di qualsiasi tipologia di trust. La Corte, consolidando il suo più recente orientamento, ha affermato che simili atti, non realizzando alcun trasferimento definitivo di ricchezza, non sono soggetti né all’imposta sulle successioni e donazioni, da un lato, né alle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura proporzionale, dall’altro. Il momento impositivo, ai fini delle menzionate imposte, coinciderebbe, a prescindere dalla tipologia di trust, con l’attribuzione dei beni in trust ai beneficiari, in quanto la segregazione dei beni trust non esprime capacità contributiva ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione. The Supreme Court, after a long interpretative path characterized by fluctuating decisions and vain attempts to mediate between the Tax Authorities’ interpretation and the scholars’ interpretation, tried to clarify, with a logical and constitutionally oriented argumentative reasoning, which indirect tax regime is applicable to the deeds of transfer of assets to any kind of trust. The Court stated that such deeds, not realizing any definitive transfer of assets, are not subject neither to inheritance and gift taxes, nor to proportional registration, mortgage and cadastral taxes. The aforementioned taxes have to be applied (regardless of the kind of trust) only at the time of the assignment of the trust fund (or part of it) to the beneficiaries, since deeds of appointment do not express any ability to pay pursuant to Article 53 of the Constitution.

1. Premessa. – Con la sentenza in commento (1) la Corte di Cassazione affronta la questione relativa al regime impositivo applicabile ai fini delle

(1) Alla data odierna, la sentenza qui annotata è stata commentata, tra gli altri, anche da: A. Fedele, Finalmente una bella sentenza della Cassazione sul regime fiscale dei trusts, in Riv. Dir. Trib. - supplemento online, 26 giugno 2019; T. Tassani, Consolidamento giurisprudenziale e nuove prospettive interpretative per trust e vincoli di destinazione, in Corr. Trib., n.


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imposte indirette agli atti di dotazione dei trusts (2) e sembra aver (quasi) definitivamente fatto chiarezza (3) sulle numerose questioni interpretative che avevano alimentato orientamenti contrastanti tra le Sezioni V e VI della medesima Corte, da un lato, e tra l’Amministrazione finanziaria e la dottrina prevalente, dall’altro. Il thema decidendum della sentenza in commento è stato così perfettamente inquadrato: «la questione dibattuta nel giudizio è la seguente: se l’atto di costituzione del trust immobiliare che determina la segregazione del bene del disponente in attesa che lo stesso sia trasferito al beneficiario finale, sia da sottoporre o meno all’imposta sulle successioni e donazioni e alle imposte ipotecarie in misura proporzionale e non fissa». Il menzionato dibattito dottrinale e giurisprudenziale trova la sua origine nella scarsa (e talvolta opaca) regolamentazione civilistica e fiscale che il

10/2019, 865 e ss. (il quale si focalizza sulla sentenza n. 16699); A. Busani, Tassazione degli atti di dotazione del trust, in GT - Riv. Giur. Trib., n. 7/2019, 590 e ss. (il quale si sofferma sulle sentenze n. 16700 e 16705); L. Sabbi, Il punto sugli orientamenti tributari della Corte di cassazione, in Trusts & AF, 2019, 631 e ss.; A. Busani, Rassegna ragionata e ricostruzione critica (alla luce di dottrina, prassi e giurisprudenza) della “terza stagione” della corte di cassazione in tema di tassazione dell’atto di dotazione del trust, in Riv. Dir. Trib., 2/2020, 12 e ss. Si osserva che, nella medesima data, la Sezione V della Corte di Cassazione ha pubblicato sette sentenze, pressoché identiche tra loro, in materia di trust, ossia le sentenze nn. 16699 e 16700 (entrambe in relazione a trusts liberali autodichiarati); 16701 (qui in commento); 16702; 16703; 16704; 16705 (tutte e cinque in relazione trust liberali trasparenti). (2) Nel presente contributo, ove possibile ci si riferirà all’istituto giuridico noto come trust al plurale (trusts), al fine di privilegiarne le diversità tipologiche seguendo l’insegnamento di M. Lupoi, Introduzione ai trusts, Milano, 1994, 5. (3) La sentenza in commento consolida l’orientamento che si è andato formandosi negli ultimi anni in seno alla Sezione V della Corte di Cassazione. Cfr. Cass. Civ., Sent., 26 ottobre 2016, n. 21614; Cass. Civ., Sent., 17 gennaio 2019, n. 1131; Cass. Civ., Sent., 7 giugno 2019, n. 15455, Cass. Civ., Sent., 7 giugno 2019, n. 15456. Si anticipa che la sentenza in commento è stata seguita da ulteriori arresti della Sezione V della Corte di Cassazione che confermano il consolidamento a livello giurisprudenziale della tesi quasi unanimemente sostenuta dalla dottrina; si fa riferimento, ex pluribus, alle sentenze n. 19167 e n. 19319 del 18 luglio 2019, alla sentenza n. 22754 del 12 settembre 2019, all’ordinanza n. 19319 del 18 luglio 2019 rese dalla Sezione V della Corte di Cassazione, alle ordinanze n. 2897 e n. 7003 rese rispettivamente in data 7 febbraio 2020 e 11 marzo 2020 dalla Sezione VI e alle più recenti sentenze del 29 maggio 2020 nn. 10254, 10255, 10256, 10259 e 10261 rese dalla Sezione V. Sul punto, tuttavia, non può sottacersi che talune decisioni della Corte successive rispetto a quella qui in commento sembrano discostarsi dai principi ivi espressi. Ad esempio, nella sentenza n. 22758 del 12 settembre 2019, la Sezione V della Corte, adottando un’argomentazione palesemente in contraddizione con le conclusioni ivi raggiunte (ma, come verrà osservato nel prosieguo, sostanzialmente condivisibili) ha ritenuto assoggettabile a imposizione l’atto di dotazione di un trust di scopo.


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nostro ordinamento giuridico riserva ai trusts. L’ingresso dei trusts nell’ordinamento civile italiano, infatti, ha creato non poche problematiche interpretative (4) soprattutto a causa delle difficoltà derivanti dai tentativi di una loro sussunzione in categorie giuridiche estranee rispetto al sistema giuridico d’origine dei trusts. Anche in ragione di tali difficoltà, l’ingresso dei trusts in Italia si deve alla Convenzione dell’Aja relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento (5) che è stata ivi resa esecutiva in ragione della Legge, 16 ottobre 1989, n. 364 (6) che ne ha sancito la «piena e intera esecuzione» (7). Senza volersi dilungare sulle caratteristiche dei trusts e senza volerne provare a fornire una definizione (8), si osserva che la caratteristica più significa-

(4) La principale e più nota tematica interpretativa sorta nel nostro ordinamento attiene alla ammissibilità dei c.d. trusts interni, ossia i trusts caratterizzati dall’assenza di collegamenti con l’estero eccezion fatta che per la legge regolatrice. La questione sembra ormai essere stata risolta dalla Sezione III della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9637 del 19 aprile 2018 – in Foro.it, 2018, I, 3136 (con nota di M. Lupoi). In detta sentenza, infatti, si legge che il trust rappresenta un istituto giuridico tipico del nostro ordinamento chiarendo, in particolare, che «la valutazione (astratta) della meritevolezza di tutela è stata compiuta, una volta per tutte, dal legislatore […] infatti, riconoscendo piena validità alla citata convenzione dell’Aja, ha dato cittadinanza nel nostro ordinamento, se così si può dire, all’istituto in oggetto, per cui non è necessario che il giudice provveda di volta in volta a valutare se il singolo contratto risponda al giudizio previsto dal citato art. 1322 cod. civ. (nella premessa alla Convenzione si afferma espressamente che si tratta di un istituto tipico dei Paesi di common law, adottato però anche da altri Paesi con alcune modifiche)». (5) Similarmente si esprimono anche G. Contaldi, Il trust nel diritto internazionale privato, Milano, 2001, 3; A. Gambaro, Il trust in Italia, in Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento, A. Gambaro, A. Giardina, G. Ponzanelli, in Legg. Civ. Comm., 1993, 1215. Inoltre, per un’analisi della giurisprudenza italiana formatasi in materia di trusts anteriormente alla ratifica della Convenzione dell’Aja, si veda L. Santoro, Il trust in Italia, in Il diritto privato oggi, (serie a cura di) P. Cendon, Milano, 2009, 377 e ss.; G. Contaldi, op. cit, 39 e ss.. (6) A. De Donato, V. De Donato, M. D’Errico, Trust convenzionale: lineamenti di teoria e pratica, Roma, 1999, 52 - 53 delineano quello che fu l’iter di ratifica nell’ordinamento italiano della Convenzione dell’Aja. (7) Per un commento in merito all’articolato della Convenzione si vedano tra gli altri: J. Harris, The Hague Trusts Convention, Oxford, 2002 (ove peraltro è possibile consultare l’explanatory report ufficiale della Convenzione redatto da A.E. von Overbeck); D. Hayton, Matthews, C. Mitchell, Underhill and Hayton. Law Relating to Trust and Trustees, Reigate, 2010; e, per un commento in lingua italiana, si veda S. Bartoli, Il trust, in Il diritto privato oggi, (serie a cura di) P. Cendon, Milano, 2001, 500 e ss.. (8) Per una ricostruzione della nozione di trust fornita dalla dottrina italiana ed estera si veda S. Bartoli, op. cit., 208. Un’efficace e sintetica definizione di trusts è fornita da A. Gianola, I trust in Italia: la Convenzione de L’Aja e la giurisprudenza sui trust interni, in Il trust e il suo utilizzo nella famiglia e nell’impresa: caratteristiche, applicazioni e profili


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tiva dei trusts conformi alla Convenzione dell’Aja (9) è sicuramente rappresentata dall’effetto derivante dagli atti di dotazione dei trusts, ossia l’effetto segregativo in virtù del quale il c.d. trust fund rappresenta un patrimonio separato rispetto al patrimonio residuo degli altri “attori” generalmente presenti nella vita dei trusts, ossia il settlor, il trustee e i beneficiari (10). Come si osserverà nel prosieguo, il menzionato effetto segregativo nell’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, avallata da parte della giurisprudenza di legittimità formatasi sul tema, costituirebbe ex se autonomo presupposto impositivo ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni di cui al Decreto Legislativo, 31 ottobre 1990, n. 346 (di seguito “TUS”), nella versione risultante in esito alla novella legislativa di cui al Decreto Legge, 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla Legge, 24 novembre 2006, n. 286. 2. L’interpretazione della novella legislativa. – Come noto, il legislatore, dopo una profonda rielaborazione parlamentare del decreto legge origina-

fiscali, (a cura di) C. Sacchetto, Soveria Mannelli, 2012, ove si legge, con riferimento al trust volontario che esso «si configura come uno strumento di autonomia privata mediante il quale è possibile creare un patrimonio separato la cui titolarità è ripartita fra diversi soggetti, spettando a uno il potere di amministrazione, ad altro il potere di godimento». Per un approfondimento della nozione di trusts ai fini tributari si veda, fra gli altri, N. de Renzis Sonnino, La soggettività passiva del trust, in Teoria e pratica della fiscalità dei trusts, (a cura di) N. de Renzis Sonnino, R. Fransoni, Milano, 2008, 109. (9) Anche la sentenza qui annotata cerca di fornire, in via preliminare, una definizione di trust ricavandola dall’articolo 2 della Convenzione dell’Aja. La Corte, inoltre, cogliendo pregevolmente la polimorfia dei trust, sottolinea che essi possono essere costituiti con il fine di perseguire «finalità eterogenee» e possono essere caratterizzati da diversi assetti di governance e di regolamenti interni. Conseguentemente, facendo tesoro della variegata casistica su cui la Corte ha avuto modo di esprimersi, vengono elencate diverse tipologie di trusts, ossia i c.d. trusts «di famiglia; di garanzia; di liquidazione e pagamento; di realizzazione di un’opera pubblica; di solidarietà sociale; di realizzazione di interessi meritevoli di tutela a favore di persone disabili, pubbliche amministrazioni o altri soggetti», mentre con riferimento alla “struttura” dei trusts e alla loro governance viene sottolineato che i trusts si distinguono tra loro, a titolo esemplificativo, anche in ragione delle «prescelte modalità di individuazione del beneficiario», nonché (facendo invero un po’ di confusione) «a seconda che il trustee ed il beneficiario vengano individuati in soggetti terzi oppure nello stesso disponente». (10) Come abilmente sintetizzato da M. Lupoi, Istituzioni del Diritto dei Trust e degli Affidamenti fiduciari, Padova, 2008, 7, «il fondo in trust, pur nel patrimonio del trustee, è vincolato alla realizzazione del compito; il vincolo comporta che le vicende personali e obbligatorie del trustee non si ripercuotono sul fondo in trust: questo effetto è detto segregazione».


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riamente presentato alle Camere (11), ha reintrodotto l’imposta sulle successioni e donazioni nel nostro ordinamento (12). Più nello specifico, l’articolo 2, comma 47 del menzionato D.L. 262/2006, in esito alle modifiche apportatevi in sede di conversione dispone che «è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successoni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001». Per quanto interessa in questa sede, risulta evidente l’oscurità dell’espressione utilizzata in relazione ai vincoli di destinazione, in quanto l’imposta sulle successioni e donazioni, anche in esito alla novella del 2006 richiede, stante il tenore del citato articolo 2, in ogni caso, che vi sia un trasferimento di beni e diritti. Trasferimento che non si realizza in esito alla mera costituzione di vincoli di destinazione (13). In virtù di tale apparentemente (ovvia) considerazione, secondo l’interpretazione prevalente della dottrina, la costituzione di un vincolo di destinazione che non comporti il trasferimento della proprietà dei beni sottostanti non an-

(11) Il testo originario della novella normativa in commento prevedeva l’inclusione degli atti costitutivi di vincoli di destinazione nell’ambito di applicazione dell’imposta di registro salvo poi optare per la reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni. Sull’argomento si vedano, tra gli altri, A. Fedele, op.cit., 2010, 590 – 592 e D. Stevanato, La reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni: prime riflessioni critiche, in Corr. trib., 3/2007, 250). (12) Come noto l’articolo 13, comma 1 del Capo VI (rubricato «Soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni») della Legge, 18 ottobre 2001, n. 383 (pubblicata in G.U. n. 248 del 24 ottobre 2001, ed in vigore dal giorno successivo), soppresse l’imposta sulle successioni e donazioni. (13) Per una analisi sul concetto di vincoli di destinazione, si vedano A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., I, 2017, 48 e ss.; G. Giusti, L’imposizione indiretta sui vincoli di destinazione, in Dir. Part. Trib., 4/2019, 1524 – 1560. Invero, sull’argomento non può non rilevarsi che in M. Lupoi, Trust e vincoli di destinazione: qualcosa in comune?, in Trusts & AF, 2019, 237 – 240 si legge, dopo una attenta ricostruzione civilistica in chiave comparativa del concetto di trust e del concetto di vincolo di destinazione, che «i trust per beneficiari non danno luogo alla costituzione di alcun rapporto con i beni qualificabile quale “vincolo di destinazione” secondo il diritto civile italiano, anzi fanno nascere un rapporto che è il preciso contrario del “vincolo di destinazione” secondo il diritto civile italiano: il trustee deve curare non tanto i beni in trust, ma il loro valore perché è esso che normalmente essi debbono passare ai benefici al momento debito e comunque entro il termine del trust».


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drebbe assoggettata all’imposta sulle successioni e donazioni. Tale conclusione, avanzata dai primi commentatori della norma, era coerente, da un lato, con passate prese di posizione dell’Amministrazione finanziaria (14) e, dall’altro, con le premesse (ma solo con esse) da cui quest’ultima muoveva per raggiungere le conclusioni enucleate con la Circolare, 6 agosto 2007, n. 48/E (15) e con la Circolare, 22 gennaio 2008, n. 3/E (16), i cui approdi interpretativi furono successivamente precisati con la Circolare, 27 marzo 2008, n. 28/E (17). In estrema sintesi, secondo l’impostazione tutt’oggi seguita dall’Amministrazione finanziaria (18), il presupposto impositivo dell’imposta sulle successioni e donazioni si realizzerebbe nel momento in cui i beni sono segregati in trust (19), con conseguente immediato sorgere dell’obbligo tributario (20) in base al rapporto di parentela o coniugio intercorrente tra il disponente e i beneficiari del trust.

(14) Ad esempio, con riferimento alla costituzione di fondi patrimoniali di famiglia, senza il passaggio della proprietà dei beni l’Amministrazione finanziaria aveva chiarito che le imposte di registro (nonché, in caso di immobili) le imposte ipotecarie e catastali, fossero dovute in misura fissa (cfr. Circ., 30 novembre 2000, n. 221/E). (15) Per un primo commento si veda M. Lupoi, L’Agenzia delle entrate e i principi sulla fiscalità dei trust Agenzia delle entrate, in Corr. Trib., n. 34/2007, 2785 e ss. (16) Per un primo commento alla citata circolare si veda G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. Trib., n. 8/2008, 646 e ss. (17) Sul punto, per completezza, appare opportuno osservare che l’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria con la circolare 28/E in relazione ai negozi fiduciari aventi ad oggetto le ipotesi di beni immobili sottoposti a “fiducia romanistica” sembra essere stata fortemente indebolita dalle sentenze nn. 11401 e 11402 del 30 aprile 2019 della Sezione V della Corte di Cassazione. In tale sede è stato infatti affermato che, anche nelle ipotesi di “fiducia romanistica” il trasferimento immobiliare non sarebbe espressivo di capacità contributiva e, conseguentemente, non sarebbe assoggettabile a imposizione indiretta (per un commento alle citate sentenze si veda S. Baruzzi, Non si applica l’imposta di donazione per il trasferimento di immobile al mandatario senza rappresentanza, in il fisco, 22/2019, 2171-2174). (18) Cfr. Risposta n. 371 pubblicata in data 10 settembre 2019 dall’Amministrazione finanziaria (sul punto funditus in nota n. 58 infra). (19) Con riferimento agli atti istitutivi di trusts, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che quando tale atto non contempla anche il trasferimento di beni, lo stesso rappresenta un atto privo di contenuto patrimoniale e – se redatto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata nel territorio dello Stato – è soggetto all’imposta di registro in misura fissa ai sensi dell’art. 11 della Tariffa, parte I del D.P.R., 26 aprile 1986, n. 131 TUR. (20) L’unica voce espressasi in dottrina in favore della ricostruzione interpretativa resa dall’Amministrazione finanziaria è quella di G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 166. Più di recente, sembrano aderire a detta tesi anche C. Scalinci, Dalla “pigra macchina” legislativa al dietrofront della Cassazione sull’esistenza di un’imposta «sulla costituzione dei vincoli di destinazione», in Riv. Dir. Trib., I, 2017, 63 e ss.; L. Sabbi, op. cit. 248 e G. Salanitro, op. cit., 1225.


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L’Agenzia, tuttavia, riconosce che i trusts si sostanziano in un rapporto giuridico complesso con un’unica causa fiduciaria e, pertanto, la successiva devoluzione ai beneficiari dei beni vincolati in trust non dovrebbe nuovamente essere assoggetta a tassazione ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. La posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria in merito all’esigibilità dell’imposta sulle donazioni al momento della destinazione dei beni in trust, come noto, è stata fortemente criticata in dottrina (21). 3. L’altalenante percorso interpretativo della Corte di Cassazione. 3.1. Il contrasto interpretativo sorto tra la dottrina e l’Amministrazione finanziaria, nonostante una auspicabile composizione da parte della giurisprudenza di legittimità, è stato da quest’ultima ulteriormente alimentato da svariati interventi giurisprudenziali. La Corte di Cassazione, infatti, con le prime decisioni rese in materia, è giunta a conclusioni ancor più nette rispetto a quelle fatte proprie dall’Amministrazione finanziaria, disconoscendo peraltro la copiosa giurisprudenza di merito formatasi medio tempore (22). Nelle ordinanze n. 3735, n. 3886 (23) e n. 3737 (24) – rese dalla Sezione VI della Corte

(21) Per una sintesi delle posizioni contrarie a quella espressa dall’Amministrazione finanziaria si veda fra tutti A. Ravera, Il trust, in Dir. Part. Trib., 3, 2018, 1335 – 1388. (22) Per un’elencazione esaustiva della giurisprudenza di merito espressasi in materia, si veda A. Busani, G. Ridella, Reset in Cassazione: l’imposta di donazione non si applica al vincolo di destinazione derivante da un trust, in Corr. Trib., n. 6/2017, 459 e per un aggiornamento della stessa si veda P. Mastellone, Il defatigante “moto perpetuo” del pendolo giurisprudenziale sugli apporti in trust, in Trust & AF, 2019, 61 – 65. (23) Appare opportuno osservare che con l’ordinanza n. 3886 del 2015, la Sezione VI della Suprema Corte, oltre a esprimersi in merito al tema oggetto di analisi della presente nota, ebbe altresì modo di affermare che il trust autodichiarato oggetto di giudizio non potesse tecnicamente definirsi trust mancando «uno dei tratti tipologicamente caratteristici, ossia il trasferimento a terzi da parte del settlor dei beni costituiti in trust, al fine del conseguimento dell’effetto, con carattere reale, di destinazione del bene alla soddisfazione dell’interesse programmato». Ebbene, tale affermazione dimostra una certa superficialità degli estensori dell’ordinanza, in quanto, sebbene, da un lato, sia vero che i trusts autodichiarati legittimino dubbi in merito alla loro interposizione nei confronti del disponente, dall’altro, non può non sottolinearsi che numerose leggi straniere in maniera di trust ammettono pacificamente l’istituzione di trusts in cui lo status di settlor e di trustee si sommano nel medesimo soggetto, né che, come attentamente osservato in dottrina, non dovrebbero essere dubbi circa l’ammissibilità dei trust autodichiarati nel nostro ordinamento (in questo senso si veda M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, 29, il quale, poi in nel recente contributo Trust e vincoli di destinazione: qualcosa in comune?, in Trusts & AF, 2019, 237 – 240, definisce il citato passaggio dell’ordinanza ora in commento come «puro vaneggiamento»). (24) Per un commento alle citate decisioni si vedano, tra gli altri, D. Stevanato, La “nuo-


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di Cassazione, in data 24 febbraio 2015 – si legge che con la novella del 2006 sarebbe stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova imposta. In particolare, nelle menzionate ordinanze è dato leggere che «l’imposta è istituita non già sui trasferimenti di beni e diritti a causa della costituzione di vincoli di destinazione», bensì l’imposta sarebbe stata «istituita direttamente, in sé sulla costituzione dei vincoli» (25). 3.2. In tale contesto, nel 2016, si è avuta la prima decisione di segno contrario. Ci si riferisce alla sentenza n. 21614, resa dalla Sezione V della Corte di Cassazione in data 26 ottobre 2016 (26), in relazione alla destinazione di

va” imposta su trust e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT – Riv. Giur. Trib., n. 5/2015, 400 e ss.; G. Bizioli, La creazione irrazionalmente estensiva di un tributo autonomo, in Dial. Trib., 2015, 108 e ss.; A. Contrino, Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione creata dalla Suprema Corte: osservazioni critiche, in Rass. Trib., 2016, 30 e ss.; A. Borgoglio, Il Trust autodichiarato sconta l’imposta sulle successioni e donazioni, in il fisco, n. 11/2015, 1077 e ss.. (25) Come è evidente, una simile impostazione comporterebbe l’esistenza di due distinti tributi regolati dal medesimo testo di legge, uno dei quali normato per mero rinvio. Infatti, se è pur vero che il dato letterale dell’articolo 2 del D.L. 262/2006 sembrerebbe far propendere per l’introduzione del contesto del TUS di un nuovo e autonomo presupposto impositivo costituito dalla mera costituzione di vincoli di destinazione, è altrettanto vero che, in virtù di una lettura sistematica e costituzionalmente orientata del TUS, non può che pervenirsi a una conclusione diversa, ossia che il TUS disciplina un unico tributo e, conseguentemente, non è possibile parlare di imposta sui vincoli di destinazione. Ammettere che l’articolo 2 del D.L. 262/2006 abbia introdotto nel nostro ordinamento una nuova imposta, come accaduto nelle citate ordinanze rese nel 2015 dalla Corte di Cassazione, sarebbe contrario (i) al principio di ragionevolezza e di coerenza e unitarietà dell’ordinamento giuridico che trae origine nell’articolo 3 della Costituzione e (ii) al principio della riserva di legge. Accogliere la tesi cui giunse la Corte con le decisioni del 2015 dimostrerebbe un’irrazionalità sistematica di fondo del sistema impositivo delineato dal D.L. 262/2006 in ragione dell’assenza di una disciplina compiuta e puntuale degli elementi costitutivi della “nuova” imposta sui vincoli di destinazione con evidente violazione dei menzionati principi costituzionali. Occorre infatti notare che la tesi dell’Amministrazione finanziaria, esasperata dalla Corte di Cassazione con le menzionate ordinanze, pecca soprattutto per l’assenza di una compiuta regolamentazione degli elementi costitutivi della nuova imposta, ossia l’individuazione dei soggetti passivi della stessa, l’individuazione della sua base imponibile e delle aliquote applicabili. Con riferimento ai soggetti passivi del “nuovo tributo”, infatti, nelle citate decisioni, a seconda della tipologia di trusts oggetto di giudizio, la Corte ha inopinatamente ritenuto applicabile l’imposta in capo al disponente nel caso di trusts autodichiarati (Cfr. Cass. Civ., Ord., 24 febbraio 2015, n. 3735 e Cass. Civ., Ord., 24 febbraio 2018, n. 3886; Cass. Civ., Sent., 7 marzo 2016, n. 4482), ovvero ai beneficiari finali dell’attribuzione nel caso di trusts liberali (Cfr. Cass. Civ., Ord., 24 febbraio 2015, n. 3733). (26) Per un commento alla citata sentenza si vedano, tra gli altri: T. Tassani, Trust e imposte sui trasferimenti: il “nuovo corso” della Corte di cassazione, in Trusts & AF, 2019, 28 e ss.; A. Fedele, Vincoli di destinazione: scelte legislative inadeguate determinano un conflitto


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quote societarie in un trust autodichiarato. In detta sede, la Sezione tributaria della Suprema Corte ha affermato che l’unico presupposto impositivo previsto dal TUS è il trasferimento di diritti e beni (in ossequio a quanto previsto dal relativo articolo 1) e che il momento rilevante è quello in cui si realizza l’arricchimento dei beneficiari del vincolo di destinazione. La Sezione V della Corte di Cassazione, infatti, sconfessando i precedenti approdi interpretativi a cui era giunta la Sezione VI nel 2015, ha ritenuto che (i) con il D.L. 262/2006 non sia stato introdotto nel nostro ordinamento un “nuovo tributo”, bensì sia stata semplicemente «reintrodotta l’imposta sulle successioni e donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i “vincoli di destinazione”» (27) e, conseguentemente, (ii) l’unico presupposto impositivo previsto dal TUS fosse da individuarsi nell’arricchimento patrimoniale a titolo gratuito così come previsto, per l’appunto, dall’articolo 1 del menzionato testo unico. Pertanto, in ragione della circostanza per cui la destinazione di beni in trust produce, nella generalità dei casi, esclusivamente effetti segreganti, non può determinarsi in relazione alle menzionate fattispecie un reale trasferimento imponibile ai fini del TUS senza che ciò comporti una violazione dell’articolo 53 della Costituzione il quale «non pare poter tollerare un’imposta [….] senza relazione alcuna con un’idonea capacità contributiva».

interpretativo tra le sezioni della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., I, 2017, 48 e ss.; C. Scalinci, op. cit., 63 e ss.; S. Carunchio, Imposte ipotecaria e catastale in misura fissa sul trust autodichiarato; in il fisco, n. 46/2016, 4476; P.P. Muià, Le imposte indirette nella costituzione del trust in misura fissa o proporzionale? la soluzione (si spera) definitiva della Cassazione; in Dir. Prat.Trib., n. 5/2017, 2228 e ss.; A. Busani, G. Ridella, Reset in Cassazione: l’imposta di donazione non si applica al vincolo di destinazione; in Corr. Trib., n. 6/2017, 463; D. Stevanato, Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione?, in GT - Riv. Giur. Trib., n. 1/2017, 31; M. Moretti, Trust liberali e imposizione indiretta: la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione destituisce di ogni fondamento l’evanescente imposta autonoma sui vincoli di destinazione, in Boll. Trib., n. 3/2017, 231 e ss; S. Cannizzaro, Addio all’imposta proporzionale per la costituzione di trust, in Riv. Dir. Trib. - supplemento online, 21 novembre 2016. (27) Come prospettato in dottrina, dunque, secondo la Corte in verità il riferimento alla costituzione dei vincoli di destinazione dimostrerebbe «“l’intenzione del legislatore” di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quanto lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione” e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione del ridetto “vecchio” D.Lgs. n. 346 cit.».


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3.3. Il percorso ermeneutico iniziato con la sentenza n. 21614 del 2016 è stato successivamente disatteso dalla sentenza 30 maggio 2018, n. 13626 (28). Nella sentenza da ultimo citata la Corte ha ritenuto, infatti, che un trust solutorio istituito con il fine di «provvedere al pagamento dell’esposizione debitoria della disponente» fosse assoggettabile al tributo donativo con aliquota massima (i.e. 8%) affermando che gli atti di dotazione di trusts (ove non si tratti di trusts autodichiarati) realizzerebbero un atto a titolo gratuito fiscalmente rilevante (29). Successivamente, la Corte è tornata a decidere sul momento impositivo degli atti di dotazione di beni in trust, con le ordinanze della Sezione V della Corte di Cassazione n. 31445 (30) e n. 31446 del 5 dicembre 2018 (31). Nelle menzionate ordinanze, pur dichiarando di aderire all’orientamento giurisprudenziale espresso con la sentenza 30 maggio 2018, n. 13626, la Corte ha esplicitamente introdotto la distinzione fra trust traslativi con effetti stabili e trust

(28) Per un commento alla citata sentenza si vedano T. Tassani, La “terza via” interpretativa della Cassazione su trust e vincoli di destinazione, in Trust & AF, 2018, 624; A. Busani, Ulteriore giravolta in Cassazione sulla tassazione dell’apporto al trust, in Corr. Trib., 2018, 1951 e ss.; M. Bertolazzi Menchetti, Il tentativo di mediazione della Cassazione sul rapporto tra trust e restituita imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. Dir. Trib., V, 2018, 206 e ss.; F. Gallio, Il trasferimento a un trust “solutorio” di quote di una S.r.l. sconta l’imposta di donazione del’8%, in il fisco, 2018, 2670 e ss.; S. Cannnizzaro, Sulla tassazione del trust un passo avanti e uno indietro, in CNN notizie, 2018; G. Salanitro, op. cit., 1239 e ss.. (29) La sentenza ora in rassegna, sconforta in quanto in essa viene dapprima affermato di accogliere il filone interpretativo inaugurato dalla sentenza n. 21614 del 2016, salvo poi giungere a conclusioni incompatibili con lo stesso, assoggettando a tassazione un trust non liberale (sic!). Infatti, se è vero che la Corte si disancora definitivamente dalle “decisioni del 2015” affermando che debbano essere assoggettati a tassazione non tutti gli atti di destinazione di beni in trust, ma solo quelli «in grado di determinare effetti traslativi in vicende non onerose […] che realizzano un incremento stabile, misurabile in moneta, di un dato patrimonio con correlato decremento dell’altro» è parimenti vero che, con il citato passaggio, la Corte sembra aver attribuito rilevanza autonoma all’atto di disposizione escludendone, sostanzialmente, la assoggettabilità al tributo donativo solo in caso di trust autodichiarati. (30) La fattispecie analizzata nell’ordinanza n. 31445 citata nel testo aveva ad oggetto un trust di tipo solutorio, mentre l’oggetto dell’ordinanza n. 31446 era quello di un trust autodichiarato istituto al duplice scopo di «rafforzare la garanzia già prestata […] a favore di alcuni istituti bancari» e di destinare «l’eventuale attivo residuato al soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze della famiglia della disponente». (31) Per un commento esteso alle citate ordinanze si veda T. Tassani, La fiscalità dei trust onerosi nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Trusts & AF, 2019, 300-304; Id., Trust onerosi e imposte sui trasferimenti: il nuovo approccio teorico della Suprema Corte, in Corr. Trib., 2/2018, 190-200.


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privi di effetti traslativi (32) ritenendo assoggettabili a tassazione solo i primi, senza però individuare quali fossero i criteri atti individuare i trusts rientranti nell’una o nell’altra categoria (33). In questo contesto, dunque, sembrava possibile trarre il seguente (condivisibile) principio: gli atti di dotazione di beni in trust sono assoggettabili a tassazione solo nell’ipotesi in cui essi sono in grado di realizzare un effettivo trasferimento in capo ai destinatari (immediati) degli stessi e, conseguentemente, le ipotesi di trust autodichiarati e di trust privi di un simile effetto traslativo sono assoggettabili a tassazione solo in esito all’attribuzione dei beni ivi segretati ai relativi beneficiari. 4. Il consolidamento della tesi della “tassazione all’uscita” nella sentenza 16701 del 21 giugno 2019. 4.1. Sulla scia tracciata dall’ordinanza n. 1131 del 17 gennaio 2019 (34), con la sentenza n. 16701 qui in commento, la Sezione V della Corte di Cassazione sembrerebbe aver finalmente (quasi) messo un punto al regime tributario applicabile alla segregazione di beni in trust, consolidando i principi già espressi (ma in maniera meno articolata e più frettolosa) nelle tre sentenze rese in data 7 giugno 2019 dalla Sezione V della Corte n. 15453, n. 15455 e n.

(32) Secondo la Corte, infatti, ai fini del tributo donativo rileverebbero i soli «vincoli di destinazione in grado di determinare effetti traslativi collegati al trasferimento di beni e diritti» che realizzano «un incremento stabile, misurabile in moneta, di un dato patrimonio con correlato decremento di un altro». Viceversa, «se il trasferimento dei beni al “trustee” ha natura transitoria e non esprime alcuna capacità contributiva, il presupposto d’imposta si manifesta solo con il trasferimento definitivo dei beni dal “trustee” al beneficiario e non può applicarsi il regime delle imposte indirette sui trasferimenti in misura proporzionale». (33) Per una ricostruzione sulle tipologie di trusts astrattamente riportabili alle due categorie si veda T. Tassani, ult. op. cit., 194. (34) Con l’ordinanza n. 1131 del 17 gennaio 2019 resa dalla medesima Sezione V della Corte, si è affermato a chiare lettere che «il conferimento di beni e diritti in trust non integra di per sé un trasferimento imponibile e, quindi, rappresenta un atto generalmente neutro, che non dà luogo ad un trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta, per cui si deve far riferimento non già alla – indeterminata – nozione di “utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone” (Cass. n. 3886/2015), ma a quella di effettivo incremento patrimoniale del beneficiario». Inoltre, decidendo a favore del contribuente, la Corte ha altresì messo in rilevo che al fine di determinare l’assoggettabilità o meno di un atto di dotazione di beni in trust è necessario analizzare la causa insita nell’atto e la sua natura non liberale.


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15456 (35). La sentenza è di particolare pregio, non solo perché giunge a conclusioni in gran parte condivisibili, sebbene – come si osserverà oltre – troppo nette, ma ancor di più perché nella sua redazione l’estensore della stessa segue un percorso logico ordinato e chiaramente argomentato. La sentenza, infatti, dopo aver brevemente analizzato i fatti di causa (36) e aver magistralmente inquadrato il thema decidendum, analizza le caratteristiche tipiche dei trusts cogliendone un aspetto essenziale ai fini della questione qui trattata. I giudici, infatti, nell’individuare i fattori comuni a tutte le tipologie di trusts, affermano che attraverso tali strumenti viene attribuita ai beneficiari (ove esistenti) una posizione giuridica non assimilabile a un diritto soggettivo sul bene, bensì una (mera) aspettativa (o interesse qualificato) a che i beni ivi conferiti siano gestiti in conformità alla realizzazione dello scopo voluto dal settlor (37). La Corte, inoltre, in aperto contrasto con quanto affermato nella sentenza n. 4482 del 2016, ove era stata paventata «una visione di sfavore nei confronti dei vincoli negoziali di destinazione, scoraggiati attraverso la leva fiscale», conclude il paragrafo introduttivo della sentenza affermando con fermezza che «l’ordinamento vede con favore l’istituto sia per la varietà e flessibilità di

(35) Per un commento alle citate sentenze, si veda, tra gli altri, A. Albano, M. TamburiTassazione degli atti di trasferimento di beni in trust: conseguenze e criticità operative della recente giurisprudenza, in il fisco, 30/2019, 2950-2956; L. Sabbi, op. cit., 631 ss. (36) La controversia concerneva l’impugnazione di un avviso di liquidazione con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva assoggettato l’atto di segregazione della nuda proprietà di fabbricati e terreni in un trust liberale sia all’imposta sulle donazioni, sia alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale. (37) In effetti, tale aspetto, quantomeno ai fini delle imposte dirette, è colto anche dall’Amministrazione finanziaria, la quale, infatti, distingue tra beneficiari individuati e non. Nel lessico dell’Amministrazione per “beneficiario individuato” si intende «il beneficiario di “reddito individuato”, vale a dire il soggetto che esprime, rispetto a quel reddito, una capacità contributiva attuale». In tale è ottica è stato altresì chiarito che «è necessario […] che il beneficiario non solo sia puntualmente individuato, ma che risulti titolare del diritto a pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata per trasparenza». A contrario, dunque, si qualificano come beneficiari “non individuati” i titolari di una posizione beneficiaria solo eventuale e sottoposta a condizione, ossia – come correttamente affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza oggetto del presente contributo – di una «posizione giuridica che non è di diritto soggettivo sul bene, ma di aspettativa o di interesse qualificato ad una gestione conforme alla realizzazione dello scopo». Come verrà osservato infra, si ritiene che tale classificazione sebbene posta ai fini delle imposte sui redditi, mutatis mutandis, potrebbe avere la sua valenza anche in relazione alla tematica relativa all’imposizione indiretta degli atti di trust. ni,


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funzione, sia perché esso permette un’operatività comune ed armonizzata pur nell’ambito di legislazione di tradizione differente». 4.2. Dopo aver introdotto il thema decidendum e delineato il quadro giuridico entro cui muoversi (38), la Sezione V della Corte analizza i precedenti di legittimità susseguitisi in materia (39), individuando, nelle decisioni rese dalla

(38) In particolare, la Corte dopo aver inquadrato il regime fiscale ai fini delle imposte diritte dei trusts e aver fatto menzione della disciplina speciale posta dal “dopo di noi”, si sofferma, dimostrando una profonda conoscenza dell’istituto, anche sul regime fiscale applicabile ai trusts ai fini dell’imposizione locale. Sul punto, infatti, è interessante osservare che la Sezione V della Corte ha affermato che l’imposizione locale «è segnata da presupposti impositivi del tutto autonomi e divergenti da quelli riconducibili (in termini di attribuzione traslativa di ricchezza) all’imposta di registro, a quella ipotecaria-catastale ed a quella sulle successioni e donazioni» in ragione del fatto che i presupposti impositivi delle imposte locali sono generalmente ricollegati «dal dato oggettivo, immediato e contingente, costituito, ad esempio, dalla fruizione di un servizio pubblico (“tassa rifiuti”), dalla sfruttamento di una risorsa pubblica (come nella TOSAP) o dall’esercizio sugli immobili di un diritto reale o di possesso ad esso corrispondente (come nell’ICI-IMU)». La Corte con tale affermazione, sebbene non la citi, sembra avere in mente la sentenza n. 16550 del 20 giugno 2019 resa dalla Sezione V. Con detta sentenza, gli ermellini hanno analizzato, per l’appunto, la questione relativa all’imposizione ai fini dei tributi locali dei trusts. Nella citata sentenza, la Corte ha sottolineato, che diversamente da quanto accade ai fini IRES, dove i trusts in sé si qualificano come soggetti passivi, ai fini dell’ICI (e analogamente ai fini dell’IMU) non si ha alcuna “entificazione” dei trusts. La Corte individua, infatti, nel trustee il soggetto passivo dell’ICI (facendo salva per il settlor la facoltà di individuare nell’atto istitutivo il soggetto che deve sostenere l’onere economico delle imposte), escludendo che la soggettività passiva dei trusts possa essere ricavata in via analogica dalla circostanza che essi sono soggetti passivi ai fini IRES. Tali conclusioni derivano, condivisibilmente, dalla circostanza per cui l’ICI è un tributo avente natura prettamente patrimoniale, che individua come propria base imponibile il valore del bene immobile al di là di qualsivoglia condizione personale del titolare del diritto e dell’uso che si faccia del bene. Per un commento alla citata sentenza si vedano E. Marvulli, Il trustee è soggetto passivo ai fini IMU, in il fisco, 29/2019, 2875 e ss.; A. Martelli, La Corte di cassazione sulla mancanza di soggettività fiscale del trust, ai fini ICI/IMU e in generale, in Trusts & AF, 2019, 660 e ss.; T. Tassani, La dicotomia trust-trustee nell’accertamento tributario, in Trusts & AF, 2019, 666 e ss.. (39) Invero, non va sottaciuto che in chiusura del secondo paragrafo della sentenza qui commentata, con riferimento alle c.d. imposte sui trasferimenti (i.e. imposta di registro, ipotecaria e catastale), si legge che «la quota di imposta eccedente la misura fissa, secondo quanto stabilito in via residuale dall’articolo 9 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, secondo cui la tassazione proporzionale (3%) si applica per la sola circostanza che l’atto abbia per oggetto “prestazioni a contenuto patrimoniale”». Tale inciso, come è stato pregevolmente notato da A. Fedele, Finalmente una bella sentenza della Cassazione sul regime fiscale dei trusts, in Riv. Dir. Trib. - supplemento online, 26 giugno 2019, sembrerebbe confermare, sebbene non espressamente, «[…] la distinzione fra trusts (o assetti fiduciari ) come “operazioni” risultanti dal collegamento di più atti complessivamente “onerosi”, rientranti nell’ambito di operatività dell’imposta di registro, ed analoghi assetti complessivamente “liberali” soggetti all’imposta


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Sezione VI della Corte, «la posizione di partenza» e, nella citata ordinanza n. 1131 del 2019, la «posizione di arrivo» di quello che a parer della Corte può definirsi un contrasto «ormai soltanto diacronico» (40). I giudici, dopo aver testualmente citato la massima relativa all’ordinanza n. 3735 del 2018 e i principi enunciati nella sentenza n. 1131 del 2019, hanno ritenuto di aderire ai principi da ultimo menzionati perché ritenuti «più persuasivi». Alle anticipate conclusioni la Supreme Corte giunge analizzando sia la tesi dell’Amministrazione finanziaria, sia, soprattutto, riesaminando in chiave critica le proprie precedenti pronunce. 4.2.1. In particolare, dopo aver affermato che i trusts vanno fatti rientrare nel novero dei vincoli di destinazione, la Corte àncora la propria decisione principalmente a considerazioni di natura costituzionale. Secondo il percorso logico ivi seguito (41), il principio di cui all’articolo 53 della Co-

sulle successioni e donazioni (solo agli atti che concorrono a formare i primi è infatti riferibile il richiamo alla “quota di imposta eccedente la misura fissa”)». (40) Sul punto si osserva che in dottrina (cfr. T. Tassani, Consolidamento giurisprudenziale e nuove prospettive interpretative per trust e vincoli di destinazione, in Corr. Trib., 10/2019, 865 e L. Sabbi, Il punto sugli orientamenti tributari della Corte di cassazione, in Trust & AF, 633) è stato affermato che l’aver derubricato il contrasto interpretativo esistente in seno alla Corte a un contrasto meramente «diacronico», unitamente alla scelta di ripercorrere i principi da espressi in precedenti pronunce, giustificherebbe il mancato rinvio della questione alle Sezioni Unite. Non si concorda appieno con tale considerazione in quanto, come si è già accennato nelle pagine che precedono, la Corte di Cassazione sembra essere parzialmente tornata sui propri passi in relazione ai trusts di scopo e ai trusts con beneficiari individuati e, dunque, risulta evidente che l’intervento delle Sezioni Unite sia ormai doveroso. (41) Nella sentenza qui in commento gli estensori della stessa richiamano l’ordinanza della Consulta n. 394 del 28 novembre 2008, mentre nelle decisioni del 2015 la Corte si era rifatta alle sentenze della Corte Costituzionale n. 315 del 20 luglio 1994 e n. 155 del 21 maggio 2001. In base alle pronunce della Consulta richiamate nel 2015, le decisioni della Corte di Cassazione ascrivibili alla «la posizione di partenza» affermano che assoggettare a tassazione gli atti di dotazione di beni in trust rappresenterebbe l’esito di una interpretazione «costituzionalmente orientata, se si considera che la capacità contributiva […] sarebbe da intendere come attitudine ad eseguire la prestazione imposta, correlata non già alla concreta situazione del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale l’obbligazione è correlata, di modo che “è sufficiente che vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione». Secondo questo argomentare gli atti di dotazione di beni in trust esprimerebbero ex se capacità contributiva pur non determinando «alcun vantaggio economico diretto per qualcuno». In tale ottica dunque, «non rileverebbe affatto […] la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva sarebbe ragguagliato all’utilità economica, che, in quanto indirizzata ad altri, si collocherebbe al di fuori del patrimonio del disponente».


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stituzione esige un «oggettivo e ragionevole collegamento del tributo ad un effettivo indice di ricchezza» che sarebbe assente nelle ipotesi di dotazione di beni in trusts i quali, conseguentemente, sarebbero atti non espressivi di capacità contributiva. Più nello specifico, riconoscendo che l’apposizione del vincolo comporta un’utilità diretta in capo al disponente (42), al fine di superare quanto affermato dalla Sezione VI con le ordinanze del 2015, derubrica sapientemente tale utilità a mero elemento necessario affinché i trusts possano ritenersi meritevoli di tutela ai sensi dell’articolo 1322 del codice civile (43). A differenza di quanto sostenuto nella anzidetta «posizione di partenza», viene affermato che la dotazione di beni in trusts e, dunque, l’apposizione di un vincolo di destinazione sugli stessi è rappresentata dal punto di vista del disponente «dall’autorestrizione del potere di disposizione mediante segregazione» e dal punto di vista del trustee «in una attribuzione patrimoniale meramente formale, transitoria, vincolata e strumentale». Con tali affermazioni la Corte dimostra di cogliere, come peraltro già fatto nelle premesse del suo argomentare, quello che è il punto fondamentale per la soluzione all’aporia interpretativa derivante dal disposto di cui all’articolo 2 del D.L. 262/2006. Con tali affermazioni, sebbene peccando – a parer dello scrivente – di eccessiva generalizzazione, la Sezione V della Corte chiarisce che a fondamento della propria tesi vi è la consapevolezza che gli atti di dotazione dei beni in trust non comportano un vero e proprio trasferimento di proprietà (come generalmente inteso nella tradizione civilistica paneuropea) e, conseguentemente, assoggettare a tassazione simili atti risulterebbe in contrasto con il principio di capacità contributiva. 4.2.2. La Corte, al fine di non fornire il fianco del proprio argomentare a facili critiche, supera anche quello che rappresenta, forse, il punto di forza della c.d. «posizione di partenza», ossia il dato letterale dell’articolo 2, comma 47 del D.L. 262/2006. Essa conclude infatti che ritenere non applicabile l’imposta sulle successioni e donazioni al momento di dotazione dei beni in trust non rappresenta la conseguenza di una interpretazione abrogatrice

(42) Tale utilità sarebbe rappresentata dalla «separatezza dei beni (limitativa della regola generale di cui all’articolo 2740 cod. civ.) in vista del conseguimento di un determinato risultato di ordine patrimoniale». (43) Gli estensori della sentenza qui in commento, nell’affermare che dopo la ratifica della Convenzione dell’Aja non vi è dubbio di dubitare in merito alla meritevolezza ex articolo 1322 del codice civile, dimostrano di aver recepito l’orientamento espresso dalla Sezione III della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9637 del 19 aprile 2018 (cfr. nota 4 supra).


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della disposizione da ultimo citata. Citando testualmente quanto originariamente affermato con la sentenza n. 21614 del 2016 (44), la Corte arriva poi ad affermare che il riferimento alla costituzione dei vincoli di destinazione vada inteso come una mera precisazione della circostanza per cui l’imposta sulle donazioni «deve essere applicata anche quando l’incremento patrimoniale a titolo liberale sia indirettamente realizzato attraverso un “vincolo di destinazione”; il che nel trust non accade», in quanto sia negli atti istitutivi, che negli atti di dotazione di trusts, manca l’effettivo trasferimento di beni e diritti previsto dall’articolo 1 del TUS (45). 4.2.3. La Corte critica e supera anche quanto sostenuto da alcuni autori (46) a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’articolo 6 della Legge, 22 giugno 2016, n. 112 (47) (i.e. la c.d. legge sul “dopo di noi”) (48).

(44) In cui si legge che il richiamo ai vincoli di destinazione deve essere riferito all’intendimento del legislatore di evitare «che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni, disciplinata mediante richiamo al già abrogato d.lgs. n. 346 cit., potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione”, e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto “vecchio” d.lgs. n. 346 cit.». (45) Sul punto si ritiene di dover condividere l’assunto di fondo della Corte, ossia l’incompatibilità dell’imposizione “in ogni caso” degli atti di dotazione dei trusts con il testo della Costituzione, seppur con una precisazione. Secondo lo scrivente, infatti, una simile impostazione non confliggerebbe direttamente con il principio di capacità contributiva in quanto nell’ambito dell’imposizione indiretta non mancano ipotesi di prelievi tributari su atti non espressivi di capacità contributiva immediata che risultano essere ancorati alla mera utilità ritratta dalla loro realizzazione (si pensi, a titolo esemplificativo, all’imposta di registro proporzionale gravante sulle garanzie). La tesi dell’Amministrazione finanziaria, in assenza di un quadro legislativo ad hoc, più che confliggere con il principio di capacità contributiva, sembra confliggere con il principio di ragionevolezza e con il principio della riserva di legge. (46) A. Accinni, S. Sciumè, di Felice, Primo commento alla legge sul “Dopo di Noi”, in SFEF, 2016/25, 23 e ss. e G. Salanitro, op. cit., 1261. (47) La citata disposizione, in particolare, detta la disciplina applicabile ai fini delle imposte di donazione e successione, di registro, ipotecaria e catastale, applicabili ai trusts, ai vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del codice civile e ai fondi speciali disciplinati da contratti di affidamento fiduciario istituiti, per atto pubblico, in favore di persone con disabilità grave. (48) Ai sensi della disposizione da ultimo citata, i «beni e i diritti» apportati in trust «sono esenti dall’imposta sulle successioni e donazioni» a condizione che¸ inter alia, siano «istituiti a favore delle persone con disabilità grave come definita dall’articolo 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata con le modalità di cui all’articolo 4 della medesima legge» e che venga perseguita «come finalità esclusiva l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone con disabilità grave, in favore dei quali sono stati istituiti». Per completezza, si osserva che ai


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Secondo alcuni commentatori, infatti, la disciplina recata dalla citata legge – ai sensi della quale, al ricorrere di determinate condizioni, il prelievo del tributo donativo è postergato all’atto di trasferimento del patrimonio vincolato ai beneficiari – rappresenterebbe la conferma della bontà dell’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria in relazione al regime impositivo degli atti di dotazione dei beni in trust. Secondo tale tesi, ragionando a contrario, l’articolo 6 della menzionata Legge 112 del 2016 confermerebbe l’imponibilità di tutti gli atti di dotazione dei beni in trust estranei all’ambito applicativo della legge sul “dopo di noi”. La Corte, correttamente, non condivide tale interpretazione ritenendola «forzata», specificando che «alla determinazione dei presupposti dell’imposta dovrebbe giungersi in via diretta, certa e tassativa, e non con argomento a contrario». La Corte, infatti, rileva che l’ipotesi di esenzione di cui al menzionato articolo 6 è stata introdotta in un «momento ed in un cotesto interpretativo (anche di legittimità) ancora estremamente variegato e incerto», da qui la necessità di attribuire certezza alla questione, lasciando però impregiudicato il dibattito sulla portata generale della novella del 2006 in materia di imposta sulle successioni e donazioni (49). 4.2.4. Inoltre, la Corte, prima di focalizzare la propria attenzione sulla validità dei principi esposti anche con riferimento a fattispecie differenti rispetto a quella oggetto di giudizio (i.e. rispetto alle ipotesi di trust liberali) e di superare le citate sentenze della “stagione dei distinguo”, si sofferma sull’imposta di registro, affermando, sebbene in maniera implicita, principi di notevole rilevanza sistematica. Nell’affermare, infatti, che «nemmeno risulta applicabile agli atti in questione l’imposta (proporzionale) di registro» la Corte, sembra recepire quanto osservato in dottrina in merito al principio di alternatività esistente tra l’imposta di registro e l’imposta sulle successioni e donazioni. Nel fare ciò, richiamando la sentenza n. 25478 del 2015, delinea il

sensi del quarto comma del menzionato articolo 6 è prevista un’ulteriore esenzione espressa con riferimento alle ipotesi di premorienza dei beneficiari del trust rispetto ai disponenti dello stesso. In tale ipotesi è, infatti, previsto che i trasferimenti dei beni e diritti a favore dei suddetti soggetti godono delle medesime esenzioni dall’imposta sulle successioni e donazioni e dell’applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa (ove applicabili). (49) In maniera conforme alla Corte, si erano già espressi, sebbene in virtù di un diverso percorso logico, T. Tassani, Imposte sui trasferimenti e fattispecie destinatoria in funzione del “Dopo di Noi”, in Trust & AF, 2017, 121 e ss., Studio n. 33-2017/T del Consiglio Nazionale del Notariato, 18 maggio 2017 e, in chiave adesiva a quest’ultimo, R.A. Papotti, L. Ferro, Trust e imposta sulle successioni e donazioni: le pronunce della S.C. come “suggel ch’ogn’omo sganni”, in Corr. Trib., 24/2018, 1906.


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concetto di “patrimonialità” rilevante ai fini dell’articolo 9 della prima parte del TUR chiarendo che un atto non può qualificarsi come avente per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale «per il sol fatto che il consenso prestato riguarda un vincolo su beni muniti di valore economico». Nella condivisibile interpretazione della Sezione V della Corte, il concetto di patrimonialità ai fini dell’imposta di registro deve essere inteso come sinonimo di onerosità, in quanto il disposto di cui al citato articolo 9 non può essere inteso in modo svincolato dall’articolo 43, comma 1, lettera h) del TUR il quale prevede che la base imponibile delle «prestazioni a contenuto patrimoniale» sia costituita dai «corrispettivi in denaro pattuiti per l’intera durata del contratto» (50). Alle medesime conclusioni (i.e. non imponibilità in misura proporzionale) la Corte giunge con riferimento alle imposte ipotecaria e catastale le quali vanno applicate in misura fissa in relazione all’atto di dotazione con cui il disponente trasferisce diritti reali immobiliari al trustee in quanto il presupposto di tali imposte non può essere individuato in un «trasferimento non stabile, non definitivo e con limitazioni d’esercizio e godimento» essendo «decisiva l’osservazione secondo cui l’effetto tipico del trust – quello segregativo – non equivale a trasferimento né ad arricchimento attuale; effetti che si realizzeranno invece a favore dei beneficiari, dunque chiamati al pagamento dell’imposta proporzionale». In conclusione, nell’interpretazione della Corte è «la strumentalità dell’atto istitutivo e di dotazione del trust» al successivo arricchimento dei beneficiari a giustificarne «la fiscale neutralità» (51). 4.3. Nel paragrafo conclusivo della parte motiva della sentenza qui annotata, la Sezione V della Corte di Cassazione – peccando, forse, di eccessiva generalizzazione – tenta di “riportare a unità” anche gli indirizzi che nel presente contributo sono stati ascritti alla “stagione dei distinguo”. Nell’interpretazione della Corte, infatti, «in ogni tipologia di trust l’imposta proporzione non andrà anticipata né all’atto istitutivo né a quello di dotazione, bensì riferito a

(50) Si osserva, inoltre, che la Corte – al fine di avallare la sua ricostruzione – sembra equiparare l’atto di dotazione dei beni in trust all’atto costitutivo del fondo patrimoniale di cui all’articolo 167 del codice civile. (51) Tale conclusione viene raggiunta anche in virtù del parallelismo con gli atti costitutivi dei fondi patrimoniali di cui all’articolo 167 del codice civile, nell’interpretazione della Corte, la dotazione dei beni in trust comporta la creazione di «un nuovo regime giuridico, diverso da quello precedente, costitutivo di beni in un patrimonio avente un vincolo di destinazione a carattere reale» che non dà luogo ad alcun «incremento patrimoniale significativo di un reale trasferimento di ricchezza».


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quello della sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario». Nel fare ciò, gli estensori della sentenza in commento richiamano la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione alle ipotesi di trusts con beneficiari individuati (52) e ai trusts liquidatori solvendi causa (53) affermando inoltre che le menzionate conclusioni debbano trovare applicazione anche con riferimento ai trusts autodichiarati in quanto in tali ipotesi «è proprio la mancanza di quel trasferimento patrimoniale a rendere […] ancor più evidente e radicale l’incongruenza dell’applicazione dell’imposta proporzionale sull’atto istitutivo e su quello di apposizione del vincolo all’interno di un patrimonio che rimane in capo allo stesso soggetto» (54). Secondo la Corte di Cassazione la circostanza che il beneficiario di un trust liberale sia individuato sin dall’atto istitutivo non giustificherebbe «l’immediata tassazione proporzionale, dal momento che la sola designazione, per quanto contestuale e palese (c.d. trust “trasparente”), non equivale in alcun modo a trasferimento immediato e definitivo del bene». In relazione ai trusts liquidatori, invece, la Corte ravvisa in essi «un mero veicolo tanto dell’effetto di segregazione quanto di quello di destinazione» non espressivo «di ricchezza imponibile né nell’assegnazione-dotazione di taluni beni alla liquidazione del trustee di taluni beni […] e nemmeno, in tal caso, la ripartizione del ricavato ai beneficiari a dovuta soddisfazione dei loro crediti» (55). 4.4. In conclusione, secondo gli estensori della sentenza qui in commento e delle altre sei sentenze “sorelle” ritenere assoggettabile a imposizione indiretta solo «l’eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo» rappresenterebbe la logica conclusione di «un percorso interpretativo privo di incertezze e saldamente ancorato

(52) Nello specifico la Corte richiama le già citate ordinanze n. 31445 e n. 31446 rese dalla Sezione V della Corte di Cassazione del 5 dicembre 2018 e l’ordinanza n. 734 del 15 gennaio 2019. (53) Il riferimento è alla sentenza 30 maggio 2018, n. 13626. (54) Il citato principio era già stato enunciato con sentenza n. 21614 resa dalla Sezione V della Corte di Cassazione in data 26 ottobre 2016. (55) Con specifico riferimento ai c.d. trusts liquidatori, si osserva che la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi con l’ordinanza n. 5766 del 3 marzo 2020 della Sezione VI, con l’ordinanza n. 33544 resa dalla medesima Sezione VI in data 18 dicembre 2019 e con la sentenza n. 19167 del 17 luglio 2019 resa dalla Sezione V. Per un commento all’ordinanza n. 5766 del 3 marzo 2020 si veda F. Gallio, Imposte indirette in misura fissa sul trust liquidatorio senza arricchimento del beneficiario, in il fisco, n. 17/2020, 1669 -1672.


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alla concretezza dell’effettivo incremento patrimoniale del beneficiario quale elemento rivelatore della capacità contributiva che legittima l’imposizione». Sorvolando sull’atecnicità di talune delle espressioni utilizzate dalla Corte nei passaggi da ultimo citati (56), si ritiene le conclusioni ivi raggiunte, possano essere accolte con favore in quanto pregevoli da un punto di vista sistematico e in grado di dissipare – invero in virtù di una generalizzazione che mal si coordina con la polimorfia tipica dei trusts – le questioni interpretative relative al momento impositivo degli atti di dotazione in trusts (57). La soluzione interpretativa adottata dalla Corte, infatti, sebbene come si osserverà nel prosieguo non sia esente da critiche in quanto non si ritiene possa essere estesa ad ogni tipologia di trust, in un’ottica di semplificazione del regime fiscale applicabile agli atti di dotazione di beni in trust, sembra essere l’unica possibile nell’attuale quadro normativo nonché l’unica in grado ad assicurare certezza agli operatori, attesa l’assenza di una legislazione puntuale e completa in materia (58).

(56) Si fa riferimento al passaggio in cui la Corte, nell’ambito delle imposte indirette richiama concetti propri alle imposte dirette (i.e. i trusts trasparenti) ovvero quando viene fatto riferimento alla «attribuzione finale del bene al beneficiario». Rispetto all’ultima espressione si ritiene che essa debba essere intesa come volta a ricomprendere tutte le attribuzioni a favore dei beneficiari siano esse poste in essere al termine della durata del singolo trust ovvero durante la sua vita (nello stesso senso si esprime T. Tassani, ult. op. cit., 868). (57) In questo senso anche R. Baboro, ult. op. cit., 933. (58) Come anticipato nel testo, invero, l’ormai consolidato orientamento della Cassazione sul tema non sembra essere stato in grado di modificare l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria atteso che quest’ultima, con la Risposta n. 371 del 10 settembre 2019, ha confermato quanto da essa originariamente sostenuto con la Circolare, 6 agosto 2007, n. 48/E e con la Circolare, 22 gennaio 2008, n. 3/E. Nella risposta da ultimo fornita, infatti, l’Amministrazione finanziaria – rimanendo sorda agli arresti giurisprudenziali qui commentati – ha ribadito che l’istituzione e la dotazione di un trust testamentario comporta l’applicazione dell’imposta di successione e, in presenza di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato, anche l’applicazione delle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale. Inoltre, implicitamente la posizione dell’Amministrazione finanziaria era stata altresì confermata con la Risposta n. 355 del 30 agosto 2019 per un commento alla quale si rinvia all’illuminato contributo di M. Lupoi, T. Tassani, Il c.d. “scioglimento consensuale” del trust: diritto civile e diritto tributario, in Trusts & AF, 2020, 5 – 8, nonché ai commenti di S. Massarotto, G. Sorci, Saunders v Vautier e “risoluzione consensuale” di un trust in dirittobancario.it, e A. Busani, Trust di jersey con l’equivoco del mutuo consenso, in Sole24Ore, 31 agosto 2019. Sul punto, per completezza, appare opportuno evidenziare che, una parziale apertura in materia, sembrava potesse rinvenirsi nella la risposta a un quesito posto dall’Associazione Bancaria Italiana (cfr. Consulenza giuridica n. 954-19/2017) ove era stata affermata la non imponibilità ai fini del tributo donativo dei patrimoni separati di cui alla Legge 130/1999 sulle cartolarizzazioni, in quanto in tali ipotesi non sarebbe ravvisabile un reale trasferimento della titolarità giuridica dei crediti (per un com-


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5. Prospettive future e aporie interpretative derivanti dalla “tassazione in uscita”. – Sebbene, le conclusioni raggiunte dalla Corte nella sentenza in commento appaiano allo scrivente estremamente generalizzate e non applicabili a tutte le tipologie di trust, si ritiene che esse siano in linea di massima condivisibili. Le menzionate conclusioni, infatti, hanno indubbiamente il pregio di chiarire definitivamente che in assenza di un effettivo trasferimento di ricchezza non si realizza il presupposto impositivo del tributo donativosuccessorio e che – quantomeno nella generalità dei casi – gli atti di dotazione di beni in trust non sono assoggettabili a imposizione. Tale principio, chiarendo altresì ulteriori aspetti interpretativi (59), invero, da un lato, fornisce all’istituto del trust nuove e interessanti prospettive applicative (60) e, dall’altro, pone nuovi e ulteriori aspetti interpretativi che meriterebbero di essere chiariti con un intervento legislativo ad hoc.

mento si veda R. Parisotto, Imposta sulle successioni e donazioni e costituzione di patrimoni separati, in SFEF, n. 2017/30, 31 ss.). (59) Si pensi alla tematica relativa al regime tributario applicabile al c.d. “cambio di trustee”. Ebbene, in applicazione del principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza qui in commento, sembra ora possibile affermare con un sufficiente grado di certezza che gli atti con cui viene nominato un nuovo trustee con conseguente trascrizione e voltura degli eventuali beni immobili segregati in trust a favore di quest’ultimo debbano scontare le imposte ipotecaria e catastale in misura fissa, in quanto essi non producono alcun effetto traslativo (sull’argomento si vedano, ex pluribus, le sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Savona, III Sez., 28 maggio 2019, n. 166 e della Commissione Tributaria Regionale Toscana, Sex. IX, 12 aprile 2019, n. 645). (60) A tal proposito, occorre osservare che tali prospettive applicative ad oggi non appaiono immediatamente percorribili se non con l’assunzione di un rischio di natura tributaria, ossia con il rischio di una contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria. Come anticipato nelle pagine che precede, infatti, l’Agenzia delle Entrate sembra tuttora ancorata alla interpretazione resa con la citata Circolare 48/E del 2007 secondo la quale «il conferimento di beni nel trust (o il costituito vincolo di destinazione che ne è l’effetto) va assoggettato […] all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, sia esso disposto mediante testamento o per atto inter vivos». Ciò, come detto, è confermato dalle risposte a istanze di interpello n. 371 del 10 settembre 2019 e n. 424 del 24 ottobre 2019, nelle quali l’Agenzia ha confermato il proprio precedente orientamento a prescindere dalle sentenze di segno contrario che, ai tempi della pubblicazione di tali risposte, erano già state emesse dalla Suprema Corte. Affinché le prospettive applicative che verranno descritte nel prosieguo possano dirsi percorribili senza il rischio di una contestazione dell’Amministrazione finanziaria sarebbe necessario che quest’ultima rivedesse espressamente il proprio orientamento dando istruzioni agli uffici locali affinché rivalutino le contestazioni pendenti alla luce dei nuovi chiarimenti come accaduto, a titolo esemplificativo, (i) con la circolare n. 33/E del 8 novembre 2013 in materia di deducibilità dell’indennità suppletiva di clientela ove è stato superato il precedente indirizzo interpretativo espresso con la Circolare n. 42/E del 2007; (ii) con la circolare n. 6/E del 30 marzo 2016,


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5.1. La non assoggettabilità a tassazione degli atti di dotazione di beni in trust rende, infatti, l’istituto del trust ancor più interessante prospetta nuovi scenari impositivi in materia di trusts testamentari. Difatti, l’utilizzo di simili strumenti – nell’assunto che la dotazione di beni in trust, quantomeno nella generalità dei casi, non rappresenti un evento imponibile ai fini del TUS – consentirebbe di ridurre legittimamente l’onere tributario dovuto in sede successoria. Nel devolvere, infatti, parte del proprio patrimonio ai propri eredi tramite trust testamentari si raggiungerebbe l’effetto di vedere assoggettati a tassazione solo i beni direttamente attribuiti per via testamentaria agli eredi, mentre la tassazione dei beni segregati nel trust verrebbe posticipata a un momento successivo e solo eventuale. Sempre in chiave di pianificazione patrimoniale e successoria, il principio enunciato dalla Corte potrebbe attribuire all’esenzione di cui all’articolo 3, comma 4 ter del TUS ulteriori e nuovi ambiti di applicazione. Come noto, l’Amministrazione finanziaria, con la risoluzione n. 110/E del 23 aprile 2009 e con la successiva circolare n. 18/E del 29 maggio 2013, ha riconosciuto l’applicabilità dell’esenzione in discorso anche alle ipotesi in cui una partecipazione di controllo (o un compendio aziendale) sia trasferita a un trust istituito a favore di soggetti aventi titolo a beneficiare dell’esenzione. In particolare, con i citati provvedimenti di prassi, l’Amministrazione finanziaria ha espresso il proprio avviso in merito alle condizioni al ricorrere delle quali l’esenzione trova applicazione in relazione ai passaggi generazionali attuati attraverso l’istituzione di un trust. Più nello specifico, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che le condizioni previste dall’articolo 3, comma 4 ter del TUS possano ritenersi soddisfatte ove: (i) il trust abbia una durata non inferiore a cinque anni a decorrere dalla segregazione dalla partecipazione di controllo o dell’azienda; (ii) i beneficiari finali del trust siano i discendenti ovvero il coniuge del disponente; (iii) il trust non sia discrezionale o revoca-

nella quale l’Agenzia delle Entrate si è espressa affermando che gli interessi passivi derivanti da operazioni di acquisizione con indebitamento (operazioni di MLBO/LBO) dovessero essere considerati, in linea di principio, inerenti e, quindi, deducibili dalla base imponibile IRES sconfessando la posizione interpretativa di numerosi uffici locali in sede di verifica; ovvero (iii) con la risoluzione n. 13/E del 26 gennaio 2017, nella quale l’Agenzia, prendendo atto dell’orientamento della Corte di Cassazione in materia di agevolazione “prima casa”, ha invitato «le strutture territoriali a riesaminare le controversie pendenti concernenti la materia in esame e, ove l’attività accertativa dell’Ufficio sia stata effettuata secondo criteri non conformi a quelli espressi dai giudici di legittimità, ad abbandonare – con le modalità di rito, tenendo conto dello stato e del grado di giudizio – la pretesa tributaria».


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bile, ossia non sia attribuito al disponente o al trustee il potere di modificare i beneficiari finali dell’azienda o delle partecipazioni di controllo segregate in trust; (iv) il trustee si impegni a conservare la partecipazione di controllo o a esercitare l’attività di impresa per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data di trasferimento. Ebbene, il principio affermato nella sentenza qui in commento consentirebbe di estendere l’applicabilità dell’articolo 3, comma 4 ter del TUS anche a ipotesi in cui all’epoca della dotazione dei beni in trust non dovessero ricorrere le condizioni necessarie per fruire dell’esenzione ora in commento, rendendo peraltro superflua la necessità di strutturare il trust in maniera conforme alle indicazioni dell’Amministrazione finanziaria. Infatti, in virtù del menzionato principio, dovrebbe essere ora possibile segregare in trust una partecipazione non di controllo (e.g. una partecipazione del 45%) senza applicazione del tributo donativo e, nell’ipotesi in cui il trustee (fornito, eventualmente, degli strumenti economici a ciò necessari) acquistasse una partecipazione utile ad ottenere il controllo della società (nell’esempio, una partecipazione pari al 6% del capitale sociale della società), in “uscita” potrebbe essere attribuita ai beneficiari una partecipazione di controllo realizzando il passaggio generazionale in esenzione di imposta. Una simile soluzione operativa garantirebbe maggiore flessibilità in quanto il trustee non sarebbe vincolato a conservare la partecipazione per almeno cinque anni e verrebbe, quindi, a questi concessa la possibilità di valutare, da un lato, la meritevolezza e la capacità dei beneficiari a proseguire l’attività di famiglia e, dall’altro, consentirebbe di valutare eventuali offerte di acquisto provenienti dal mercato, rendendo la partecipazione quindi più “liquida”. 5.2. Analizzate brevemente le opportunità derivanti dall’applicazione del principio enunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, in chiave prospettica non può, in ogni caso, non rilevarsi la necessità di un nuovo impianto normativo (o quantomeno di un chiarimento dell’Agenzia delle Entrate) in grado di rispondere alle numerose tematiche di difficile soluzione poste dal tema che in queste pagine si è provato di sistematizzare. Infatti, pur assumendo che i principi espressi nella sentenza n. 16701 del 21 giugno 2019 rappresentino il punto di approdo del lungo percorso interpretativo della Corte di Cassazione in relazione alla fiscalità indiretta dei trusts, non può non notarsi che essi pongono nuovi e ulteriori aspetti interpretativi che andrebbero colmati con un intervento legislativo ad hoc non più prorogabile. Si pensi, ad esempio: (i) al rischio di doppia imposizione di quanti abbiano assoggettato a tassazione agli atti di dotazione dei beni in trust; (ii) alla sorte delle men-


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zionate imposte così assolte e alla possibilità di chiederle a rimborso; (iii) alla necessità individuare il dies a quem di eventuali istanze di rimborso; (iv) al regime fiscale applicabile in caso di ritorno del fondo in trust al disponente; nonché (vi) all’applicabilità o meno dell’articolo 56-bis del TUS alle ipotesi di attribuzioni ai beneficiari non formalizzate in atti nei casi in cui l’atto istitutivo ovvero l’atto di dotazione del trust non sia stato formalmente registrato. In ragione di quanto sopra, facendo tesoro degli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità, sembra ineludibile un intervento del legislatore volto a evitare che sulla fiscalità indiretta dei trust nascano nuove contestazioni con un invitabile appesantimento della già malmessa giustizia tributaria. 6. È davvero possibile portare a unitarietà la fiscalità indiretta degli atti di dotazione di beni in trust? – Infine, come anticipato, si ritiene che le conclusioni raggiunte della Suprema Corte si prestino a qualche riflessione critica in quanto esse, seppure evidentemente mosse dalla necessità di dettare un principio di carattere generale, rischiano di svilire la polimorfia propria dei trusts. Possono nutrirsi infatti perplessità in relazione alla correttezza delle conclusioni raggiunte dalla sentenza qui in commento con specifico riferimento alle ipotesi di trusts caratterizzati dalla presenza di beneficiari titolari di diritti a ricevere o godere immediatamente il patrimonio destinato in trust in maniera non condizionata (i c.d. trusts nudi) (61) ovvero alle ipotesi di trusts di

(61) Conferma della bontà di tale tesi si rinviene, peraltro, anche in più recenti decisioni della Corte e, in particolare, nelle ordinanze n. 2902 e n. 4163 rese dalla Sezione V della Corte di Cassazione rispettivamente il 7 febbraio e il 19 febbraio 2020. Nello stesso senso si veda, poi, anche T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Ospedaletto, 2012, 156 ove afferma con riferimento ai c.d. bare trusts che «in queste fattispecie è possibile considerare che già il negozio dispositivo sia rilevante ai fini della tassazione nel tributo in esame, ma solo perché questo stesso negozio, alla luce dell’atto istitutivo, risulta in grado di realizzare gli ‘effetti giuridici finali’ della vicenda negoziale, determinando l’arricchimento del patrimonio del beneficiary»; Id., Trust onerosi e imposte sui trasferimenti: il nuovo approccio teorico della Suprema Corte, in Corr. Trib., 2/2018, 194; e, in chiave adesiva, G. Giusti, L’imposizione indiretta sui vincoli di destinazione, in Dir. Prat. Trib., 4/2019, 1549. Sul punto M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Vicenza, 2016, 313 afferma che il presupposto di imposta, ossia «l’arricchimento di un beneficiario del fondo si verifica non […] quando un bene è trasferito dal trustee al beneficiario, ma quando il beneficiario è investito del diritto di ricever dal trustee il fondo in trust o parte di esso» e che tale arricchimento può verificarsi in due distinti momenti «fin dal momento della istituzione del trust; o in un momento successivo». L’autore da ultimo citato, inoltre, elenca una serie di ipotesi in cui l’arricchimento del beneficiario si realizza in momento successivo alla dotazione del trust il cui minimo comun denominatore può essere individuato nella discrezio-


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scopo non onerosi o caritatevoli (62). Nel momento in cui, infatti, una delle principali motivazioni utilizzate dalla Corte per superare la «posizione di partenza» è rappresentata dalla necessità di rispettare il principio di capacità contributiva, non può non notarsi che nelle menzionate ipotesi l’applicazione immediata del tributo donativo non potrebbe considerarsi costituzionalmente illegittima ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione. Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui il disponente vincoli un bene immobile in trust affinché il trustee ne gestisca gli aspetti amministrativi e gestori prevedendo altresì che detto immobile sia utilizzato dall’unico figlio del disponente come abitazione principale e che esso sia a questi attribuito in concomitanza con il decesso dello stesso disponente, ovvero all’ipotesi di trusts non onerosi istituti per il perseguimento di uno specifico scopo (e.g. la cura delle “aree verdi” di una determinata città) (63). In siffatte ipotesi sembra possibile affermare che l’atto di dotazione dei beni in trust sia espressivo di capacità contributiva immediata. Nel primo esempio, infatti, il riconoscimento ai beneficiari di una situazione giuridica attuale sembra comportare in capo agli stessi un incremento patrimoniale autonomamente assoggettabile a tassazione e, avendo a mente il disposto di cui all’articolo 1 del TUS (64), potrebbe giustificare un prelie-

nalità del trustee, ovvero nella non individuazione puntuale dei beneficiari del fondo in trust. (62) Analogamente sembra esprimersi anche A. Fedele, Finalmente una bella sentenza della cassazione sul regime fiscale dei trusts, in Riv. Dir. Trib. – supplemento online, 26 giugno 2019 il quale segnala «la possibilità di trusts c.d. “di scopo” il cui patrimonio deve restare stabilmente destinato alla realizzazione delle finalità date, essendo esclusi sia devoluzioni a beneficiari sia “ritorni” al disponente. Qui la “dotazione” parrebbe assumere caratteristiche di definitiva attribuzione liberale, non di trasferimento “strumentale” (ed avrebbe allora senso porsi il problema dell’operatività del regime di favore previsto per le ONLUS - cfr. Cass. Sez. V, n. 32820/2019)». Anche M. Leo, Trust e imposte di successione: superare l’attuale prassi erariale per evitare penalizzazione improprie, in Corr. Trib., n. 5/2020, 436, evidenzia la necessità di distinguere tra le varie tipologie di trust al fine di determinarne il corretto regime fiscale ai fini dell’imposizione indiretta. (63) Tale tesi è peraltro stata recepita dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 22758 del 12 settembre 2019, la Sezione V della Corte di Cassazione. In detta sede, infatti, la Corte, tornata a pronunciarsi sulla fiscalità indiretta degli di dotazione di beni in trust, sebbene ricopiando pedissequamente la motivazione della sentenza n. 16701 del 21 giugno 2019, giunge – condivisibilmente – a conclusioni opposte per l’appunto in relazione a un trust di scopo. La Corte, infatti, in detta occasione ha ritenuto legittimo il prelievo del tributo donativo nella misura dell’8% con riferimento all’ipotesi di un trust istituito per beneficenza a favore di beneficiari indeterminati caratterizzato dal fatto che il «trustee potesse operare direttamente con il denaro ricevuto per finalità liberali» in quanto espressiva di per sé di un trasferimento e, quindi, di un arricchimento assoggettabile a imposizione. (64) L’articolo 1 del TUS, rubricato “Oggetto dell’imposta”, dispone che «l’imposta sulle


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vo “anticipato”. In tali ipotesi, infatti, il disponente – nel segregare i beni in trust – attribuisce al beneficiario una posizione giuridica c.d. vested, ossia un diritto soggettivo pieno, attuale e incondizionato e non una mera aspettativa. Pertanto, si ritiene che di fronte a tali ipotesi non sia possibile negare che la posizione vested del beneficiario comporti già un trasferimento di ricchezza a favore dello stesso anche se la materiale apprensione dei beni segregati in trust verrà poi posticipata nel tempo. Anche nell’ipotesi di trust di scopo (non onerosi) gli atti di dotazione sembrano essere espressivi di capacità contributiva direttamente in capo al trustee il quale sarebbe chiamato a rispondere dell’obbligazione tributaria attingendo dal fondo in trust (65). In simili fattispecie, infatti, sembra innegabile che il disponente, nel dotare patrimonialmente un ente per il perseguimento di scopi latu sensu filantropici, realizzi immediatamente un trasferimento finale di ricchezza assoggettabile a tassazione. Peraltro, anche ragioni di coerenza sistematica e di politica tributaria imporrebbero una simile soluzione. I trust di scopo non onerosi, infatti, sono figure giuridiche simili alle fondazioni o agli altri enti del terzo settore e pertanto – anche al fine di evitare facili arbitraggi – si ritiene che analogo debba essere il regime fiscale ad essi applicabile. In tale ottica, dunque, lo scrivente ritiene che la novella legislativa del 2006 andrebbe letta come una specificazione dell’ovvia conclusione secondo cui l’arricchimento patrimoniale di un determinato soggetto a titolo non oneroso deve considerarsi rilevante ai fini del tributo donativo anche se non realizzato attraverso una donazione ovvero attraverso un atto a titolo gratuito,

successioni e donazioni si applica ai trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte ed ai trasferimenti di beni e diritti per donazioni o altra liberalità tra vivi». Sul punto si rileva la isolata voce di G. Salanitro, op. cit., 1257 secondo cui l’articolo 1 del TUS sarebbe da intendersi non più vigente in ragione dell’abrogazione del tributo ad opera del citato decreto legge del 2001. (65) Come giustamente osservato dall’autore citato nella nota a piè di pagina che precede, si ritiene, come confermato dalla Sezione V della Corte di Cassazione con l’ordinanza 32820 del 19 dicembre 2018, che a determinate condizione gli atti di dotazione dei beni in trust possano fruire dell’esenzione prevista dall’articolo 3, comma 2 del TUS. In detta occasione, la Corte ha chiarito che l’esenzione per gli enti che perseguono le finalità di pubblica utilità possa fruita anche dagli enti non ancora riconosciuti alla data di apertura della successione (per un commento alla sentenza si veda C. Marrazzo, L’esenzione dall’imposta sulle successioni per i trust e l’iscrizione all’Anagrafe ONLUS, in Trust & AF, 2019, 495 – 498. Con specifico riferimento alla applicabilità ai trust del c.d. “codice del terzo settore” introdotto nel nostro ordinamento dal Decreto Legislativo, 3 luglio 2017, n. 117 si veda N.D. Latrofa, Dal trust charitable al trust ente del Terzo settore, in Trust & AF, 2020, 27-38.


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bensì, per l’appunto, attraverso la costituzione di un trust. In conclusione, si ritiene, quindi, che con la novella del 2006 il legislatore abbia inteso riferirsi non tanto alla mera costituzione del vincolo di destinazione inteso come “atto” in senso formalistico, bensì agli effetti traslativi derivanti da tali atti che, in determinate ipotesi, possono anche verificarsi contestualmente alla dotazione dei beni in trust.

Biagio Izzo


Rubrica di diritto penale tributario a cura di Gaetano Ragucci

Il (discutibile) coordinamento tra sequestro e confisca per reati tributari e procedure concorsuali alla luce del codice della crisi d’impresa Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso e le ragioni della decisione. – 3. La necessità di un

approccio sistematico. – 4. Le ragioni a favore di un più attento esame della sussistenza dei presupposti per la misura patrimoniale. – 5. Le misure cautelari nel codice della crisi d’impresa. – 6. L’estensione della confisca allargata ai reati tributari quale conferma dell’indirizzo volto a privilegiare le esigenze general-preventive rispetto alle garanzie della persona. Profili critici. La sentenza della Corte di Cassazione n. 18034 del 2019 costituisce l’occasione per esaminare il rapporto tra sequestro preventivo finalizzato all’obbligatoria confisca in presenza di un reato tributario e concordato preventivo. A tale riguardo, il coordinamento tra misure reali e procedure concorsuali, sinora rimesso alla difficile opera di bilanciamento della giurisprudenza, è in procinto di essere regolato alla luce del nuovo codice della crisi d’impresa. Quest’ultimo, tuttavia, mostra una certa inclinazione per la tutela di esigenze general-preventive a scapito delle garanzie del contribuente, come peraltro sembra confermato dalle recenti modifiche introdotte in materia di misure reali a seguito di reati tributari. The Supreme Court case no. 18034 of 2019 gives the opportunity to examine the relationship between seizure and confiscation in the presence of a tax offense and a composition with creditors in order to avoid bankruptcy procedures. In this regard, the coordination results an hard job. Indeed, the jurisprudence finds some difficulties in balancing different rights. Now, the corporate crisis code shows a certain inclination for the protection of general-preventive needs versus the taxpayer rights as, moreover, is confirmed by the recent changes made regarding confiscation in the presence of a tax offense.


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1. Premessa. – La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III penale, n. 18034 del 5 febbraio 2019, depositata il 2 maggio 2019 – con cui è stata affermata l’irrevocabilità del sequestro preventivo a fini di confisca precedentemente adottato in esito alla contestazione di un reato tributario, anche in presenza di ammissione del contribuente al concordato preventivo, poi omologato, nel contesto del quale sia stato perfezionato un accordo con l’amministrazione finanziaria – costituisce l’occasione per esaminare il delicato rapporto che intercorre tra reati tributari, misure patrimoniali a finalità ripristinatorie (1) e concordato preventivo (2), anche alla luce delle novità legislative recentemente introdotte. Come noto, l’art. 12-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n.74 (3), nel caso di condanna o di patteggiamento per uno dei delitti previsti dal medesimo d.lgs. n. 74/2000, dispone che sia «sempre ordinata la confisca dei beni» che costituiscono il profitto o il prezzo del reato. Ancora, come altrettanto noto, è piuttosto frequente che l’impresa insolvente, o anche solo in crisi, finisca per trovarsi alle prese con contestazioni in ordine a violazioni tributarie cui è attribuita rilevanza pure ai fini penali. A quest’ultimo proposito, tralasciando volutamente le ipotesi connotate dal profilo della fraudolenza, basti pensare alle fattispecie di omesso versamento di ritenute dovute o certificate, ovvero di omesso versamento di Iva cui, a seguito del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, in vigore dal 22 ottobre 2015, è stato appunto conferito rilievo penale (cfr. artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000). Risultano quindi tutt’altro che infrequenti, specie in un contesto economico connotato da modesti tassi di crescita, i casi di interferenze tra i tre sistemi normativi appena evocati, ovvero: tributario, penale e concorsuale (4).

(1) Da queste, peraltro, deve distinguersi il sequestro di cui all’art. 22 del d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, invece connotato da finalità conservative e, dunque, per ragioni di spazio, non oggetto delle presenti riflessioni. (2) In termini generali, sul sequestro e sulla confisca per reati tributari, senza pretesa di esaustività, si vedano: O. Mazza, Sequestro e confisca, in Rass. Trib., 2016, 1014 ss.; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, Torino, 2016; A. Toppan-L. Tosi, Lineamenti di diritto penale dell’impresa, Milano, 2017; P. Veneziani, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. pen., 4, 2017, 1694 ss. e, più recentemente, G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento di tributi, in Riv. dir. trib., 2019, III, 47 ss. (3) Così come inserito dall’art. 10, comma 1, del d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158. (4) Al riguardo, seppur da altro punto di osservazione, si veda anche P. Vella, Procedure concorsuali e processo tributario, in Riv. dir. trib., 2020, I, 61 ss.


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Dal canto loro, tutti e tre i sistemi normativi in discorso sono caratterizzati da principi e da “logiche” propri, non sempre adeguatamente coordinati. Ne consegue che, tutte le volte in cui un’impresa che abbia posto in essere delle violazioni tributarie rilevanti a fini penali (a volte consistenti nel mero accumulo di una rilevante esposizione debitoria nei confronti dell’erario) si trovi poi in procedura concorsuale, provvedimenti di sequestro – finalizzati alla successiva obbligatoria confisca – finiscono per mettere a nudo le contrastanti logiche che caratterizzano ciascuno dei sistemi giuridici in questa sede considerati (5). Ebbene, poiché il sequestro – in quanto finalizzato all’obbligatoria confisca a seguito dell’accertamento di reati tributari – finisce per determinare un’oggettiva “sottrazione” (seppur giustificata da una finalità ripristinatoria) delle risorse invero destinate alla soddisfazione del ceto creditorio (da attuarsi secondo il noto principio della par condicio creditorum), è di tutta evidenza come una qualche composizione dei contrastanti interessi, propri di ciascun settore dell’ordinamento, debba essere senz’altro ricercata. A quest’ultimo riguardo occorre poi osservare come il criterio di composizione affermato dal secondo comma dell’art. 12-bis predetto (6), così come interpretato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, appaia del tutto insoddisfacente in presenza di misure patrimoniali operanti nel contesto di procedure concorsuali, specie allorquando il credito erariale tutelato dalla misura risulti avere un grado di privilegio inferiore a quello, invece poziore, spettante a taluna categoria dei creditori concorsuali (7). Ebbene, la sentenza in questa sede annotata s’inserisce nel solco di quelle pronunce che sembrano non farsi carico di ricercare una composizione dei

(5) Sulle relative questioni si vedano altresì, senza pretesa di esaustività, G. Amato, Riforma dei reati tributari: la confisca del “profitto” tra impegno del contribuente a pagare il debito tributario e aggredibilità dei beni sociali, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Torino, n. 1, 2016, 61 ss.; E. Belli Contarini, Transazione fiscale ed eventuali riflessi penali, in Riv. dir. trib., 2017, III, 4 ss.; L. D’Agostino, L’operatività della confisca e le sorti del sequestro preventivo in presenza di impegno al pagamento del debito tributario: in dubio pro reo?, in Riv. trim. dir. trib., 2017, II, 367 ss.; V. Mastroiacovo, Riflessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle vertenze penali, in Riv. dir. trib., 2015, I, 143 ss.; T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, in Rass. Trib., 2015, 1385 ss. (6) Allorquando dispone che «la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro». (7) Ad esempio, è questo il caso, tutt’altro che infrequente, di debiti verso l’erario per ritenute fiscali, ovvero anche per Iva, in presenza di debiti nei confronti di lavoratori dipendenti.


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diversi interessi perseguiti dai differenti settori dell’ordinamento in discorso. Essa, come pare, si limita a fare diligente applicazione dei consolidati principi giurisprudenziali in materia di sequestro e confisca per reati tributari, senza porsi il problema della coesistenza di tali principi con altri posti a tutela di differenti interessi, parimenti degni di considerazione. La sentenza in commento, dunque, costituisce l’occasione per prospettare alcune riflessioni problematiche con riferimento alla intersezione fra i diversi principi sopra evocati che, in quanto tutti egualmente meritevoli di apprezzamento, impongono la ricerca di soluzioni da rimettersi – volta per volta – alla sensibilità e al prudente apprezzamento dell’interprete. 2. Il caso e le ragioni della decisione. – Venendo brevemente alla pronuncia oggetto delle presenti note, questa si riferisce all’impugnativa dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Varese che, per parte sua, aveva confermato un sequestro preventivo (ex art. 321 c.p.p.) finalizzato alla successiva obbligatoria confisca diretta nei confronti di una società, a seguito d’indagini a carico del relativo legale rappresentante per il delitto di omesso versamento di ritenute dovute o certificate di cui all’art. 10-bis del d. lgs. n. 74/2000. Tra i vari motivi di ricorso, ai fini che in questa sede interessano, è opportuno ricordarne alcuni. Anzitutto quello che concerne l’insussistenza della relazione d’immediatezza tra la res sequestrata e il reato, specie in considerazione della presenza dell’ammissione della società alla procedura di concordato preventivo in continuità (per di più con apporto di finanza esterna), omologato, nell’ambito del quale era stata conclusa una transazione fiscale per il pagamento dei debiti tributari (8). Ancora, secondo il ricorrente, nemmeno sussisterebbe il fumus del reato perché l’impegno assunto in sede concordataria, di versare integralmente le imposte dovute, farebbe venir meno l’elemento soggettivo

(8) Più in particolare, sui rapporti tra misure reali e transazione fiscale, si vedano: M. D’Avirro, L’impegno al pagamento rateale non conduce alla inoperatività della confisca, in Giur. It., 2016, n. 7, 1741 ss.; L. Del Federico, Articolo 182-ter. Transazione fiscale, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, II, Bologna, 2007, 2561; V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario: dalla tradizione alle nuove “occasioni” di riduzione “pattizia” del debito tributario, in Riv. dir. trib., 2016, I, 492 ss.; G. Marini, La transazione fiscale: profili procedimentali e processuali, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, a cura di Paparella, Milano, 2013, 672 ss.


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del reato stesso. Per non dire che il mantenimento del sequestro sulle giacenze di conto corrente rischierebbe di impedire di disporre della liquidità necessaria a onorare l’impegno assunto con la transazione fiscale in sede concordataria. Ancora, sempre ad avviso del ricorrente, nemmeno sussisterebbero i requisiti di concretezza e attualità del periculum in mora. Difatti la presenza del commissario giudiziale, quale soggetto legalmente incaricato di vigilare sul corretto e puntuale adempimento del piano concordatario, varrebbe a garantire dal rischio di dispersione dei beni, con conseguente impossibilità per la società di non onorare gli obblighi di pagamento stabiliti nella transazione fiscale che, peraltro, non prevedeva alcuna falcidia del credito erariale ma solo una dilazione di pagamento. I supremi giudici, nel rigettare il ricorso di cui dichiarano l’infondatezza, osservano partitamente quanto appresso. A proposito del fumus, l’astratta integrazione della fattispecie delittuosa per cui si procede – emergendo inequivocamente dalla documentazione (dichiarazioni tributarie e certificazioni) allegata dalla G.d.F. a una propria nota informativa – renderebbe soddisfatto il relativo requisito. Più in particolare, l’ammissione al concordato preventivo (ancorché – si osserva – non risulti specificato se anteriore o successivo alla scadenza del termine per l’integrazione della relativa fattispecie delittuosa) non varrebbe, nella sede cautelare nella quale non si discuta dell’applicazione di misure personali, a costituire causa di oggettiva impossibilità a provvedere all’adempimento, con conseguente non imputabilità sotto il profilo soggettivo dell’agente (bastando quindi il fumus commissi declicti), ferma restando sul punto ogni più approfondita decisione ad opera del giudice del merito. A proposito del periculum in mora, secondo il giudice di legittimità il sequestro preventivo, così come finalizzato all’obbligatoria confisca, prevarrebbe sui diritti di credito vantati sul bene oggetto di sequestro, nonostante l’ammissione alla procedura di concordato preventivo. Ciò in ragione dell’obbligatorietà della confisca alla cui protezione è finalizzato il sequestro preventivo. Peraltro, osservano i giudici, la transazione fiscale, di per sé, non eliminerebbe il pericolo di dispersione della garanzia, costituendo il relativo inadempimento un’opzione (ancorché non auspicabile), certamente possibile. Ancora, quanto all’apprensione fra le somme oggetto di sequestro di quelle provenienti da finanza esterna, la peculiare natura del profitto in relazione ai reati tributari (consistente nel risparmio di spesa) e la fungibilità del denaro,


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consentirebbero l’apposizione della misura cautelare reale su qualsiasi somma presente nelle casse sociali, a prescindere dalla concreta provenienza (9). In termini più generali, venendo alle questioni oggetto delle presenti note, la S.C. richiama la propria giurisprudenza che esclude che gli effetti del sequestro preventivo possano venir meno anche qualora sia stato perfezionato, nel contesto della procedura concorsuale, un accordo con l’amministrazione finanziaria, dovendosi semmai operare una rideterminazione del quantum sequestrato al fine di tener conto delle somme versate all’erario, evitando così – prosegue la Corte – il rischio di duplicazione delle penalità in ragione della ritenuta natura sanzionatoria della confisca e, quindi, del sequestro alla prima finalizzato (10). Infine, ancorché la Corte ammetta l’esistenza di un principio secondo il quale il valore del bene oggetto di ablazione definitiva non possa mai essere superiore al vantaggio economico conseguito mediante l’illecito penale (di cui l’art. 12-bis del d.lgs. n. 74/2000 sarebbe espressione), e sebbene lo stesso giudicante affermi poi – pur nel rispetto dell’autonomia del giudice penale nell’accertamento e nella valutazione degli elementi costitutivi del reato tributario – di non potersi prescindere dagli eventuali accordi raggiunti tra contribuente e a.f. sul quantum debeatur, tuttavia, in tale operazione di accertamento e valutazione, la stessa ritiene debbano applicarsi i canoni elaborati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (11). A quest’ultimo riguardo, il concetto di “impegno” di cui all’art. 12-bis più volte richiamato deve essere inteso non quale mera esternazione dell’intento di adempiere l’obbligo tributario, come tale dipendente da scelte unilaterali del contribuente,

(9) A quest’ultimo riguardo, ammettendo cioè che possano assoggettarsi alla misura reale somme provenienti da terzi, ancorché giudizialmente vincolate al buon esito della procedura, dovrebbe tutt’al più potersi parlare (solamente) di sequestro per equivalente, perché non parrebbero sottoponibili a sequestro diretto somme costituite da c.d. “finanza esterna”, peraltro assistite da prededucibilità ex art. 182-quinquies L.F., specie se apportate in epoca successiva alla commissione dell’illecito tributario, il cui profitto è costituito dal risparmio d’imposta verosimilmente non più presente nel patrimonio del contribuente alla data del ricorso alla procedura concorsuale. (10) Cfr. Cass., Sez. III pen., 19 gennaio 2016, n. 4097. Diversamente, sulla finalità ripristinatoria della confisca, e quindi anche del sequestro a questa preordinato, e non già sulla sua funzione afflittiva, in letteratura, si veda da ultimo G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento di tributi, cit., 47 ss., ove riferimenti di dottrina e giurisprudenza (cfr. in partic. nota 23). (11) Cfr. Cass., Sez. III, penale, 13 luglio 2016, n. 42470.


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ma, piuttosto, quale impegno formale e vincolante in grado di assicurare l’adempimento. E poiché la transazione fiscale risulta atta ad assicurare l’effettiva e concreta soddisfazione degli interessi erariali solo ex post, da ciò, secondo la Corte, discenderebbe la necessità della conservazione del sequestro preventivo prodromico alla confisca, sino cioè all’integrale pagamento del debito o, almeno, per un quantum corrispondente ai versamenti ancora mancanti (12). In consonanza con tale rigorosa impostazione, infine, i supremi giudici hanno ritenuto che l’interessato potesse semmai domandare il dissequestro per la parte corrispondente alle somme effettivamente versate, a mente del disposto di cui all’art. 321, comma 3, c.p.p., ovvero che potesse invocare l’applicazione dell’art. 85, disp. att. c.p.p., al fine di ottenere la restituzione delle cose sequestrate previa esecuzione di specifiche prescrizioni quali, nel caso di specie, la destinazione in favore dell’erario (delle somme già sequestrate) a titolo di pagamento del debito (13). Conclusivamente, secondo la sentenza in commento, è da ritenersi corretto l’operato del Tribunale del riesame – allorquando questo ha negato l’esistenza di un automatismo tra la presenza di una procedura conservativa di carattere pubblicistico e l’assenza di periculum in mora – specie laddove il medesimo considera che la transazione fiscale (anche a qualificarla alla stregua di un accordo con il creditore e non già un mero impegno unilaterale ad adempiere proveniente dal debitore (14)), di per sé, non vale a eliminare in radice il pericolo di dispersione dei beni e, in ogni caso, essa non è suscettibile di produrre gli effetti impeditivi di cui all’art. 12-bis predetto, ferma restando – come detto – la possibilità per l’indagato di domandare il dissequestro per

(12) Sui rapporti tra misure reali e transazione fiscale, si vedano: M. D’Avirro, L’impegno al pagamento rateale non conduce alla inoperatività della confisca, cit., 1741 ss.; L. Del Federico, Articolo 182-ter. Transazione fiscale, cit., 2561; V. Ficari, Transazione fiscale e disponibilità del “credito” tributario: dalla tradizione alle nuove “occasioni” di riduzione “pattizia” del debito tributario, cit., 492 ss.; G. Marini, La transazione fiscale: profili procedimentali e processuali, cit., 672 ss. (13) Ipotesi quest’ultima praticabile anche in presenza di sequestro su beni mobili e/o immobili, come peraltro ammesso da Cass., 21 giugno 2018, n. 28745. (14) Di recente, in senso contrario a riconoscere qualsivoglia natura consensuale o negoziale, men che meno transattiva, si veda F. Paparella, Il nuove regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter L.F.: dalla transazione fiscale soggettiva e concorsuale alla retrogradazione oggettiva, in Rass. trib., 2018, 317 ss. Per una sintesi delle varie possibili ricostruzioni si veda Marco Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, Padova, 2017, 83.


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la parte corrispondente alle imposte che egli dimostri essere state versate, ex art. 321, comma 3, c.p.p., ovvero di invocare l’applicazione dell’art. 85, disp. att. c.p.p. (15). 3. La necessità di un approccio sistematico. – Come appena riferito, molteplici sono le questioni toccate (o anche solo evocate) dalla pronuncia in commento. Tuttavia, prima di procedere all’esame di quelle ritenute più significative, è opportuno sottolineare che l’oggetto della controversia su cui ha provveduto il giudice di legittimità risulta costituito dall’impugnazione della decisione del tribunale del riesame che, per parte sua, aveva confermato il disposto sequestro preventivo. Si tratta quindi di una decisione resa in sede cautelare ove – come noto – il relativo giudizio si caratterizza per una certa sommarietà, essendo riservata la ricerca della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza al giudizio di merito. In ogni caso, seppur tale premessa risulti probabilmente spiegare le ragioni di una pronuncia alquanto rigorosa nell’applicazione del consolidato orientamento della corte di legittimità in argomento (16), la stessa (premessa)

(15) Si noti che una tale prerogativa (volta alla riduzione della misura in rapporto alla parte di debito tributario medio tempore assolto) sembra discendere dalla riconosciuta applicazione del principio di proporzionalità, secondo cui la misura cautelare non potrebbe prestarsi a far ottenere più di quanto si potrebbe conseguire con la definitiva confisca. In tal senso Cass., Sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 12515 e Cass., Sez. II, 27 novembre 2014, n. 2488 e, in partic., Cass., Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 42087; Cass., Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5278; Cass., Sez. III, 19 gennaio 2016, n. 4097; in dottrina si vedano G. Marra, Sequestri e principio di proporzionalità, in Cassazione penale, 2018, 4, suppl., 305 ss.; P. Molino, I reati tributari e l’incidenza delle riforme legislative del 2015, ivi, 2016, 6, suppl., 154 ss. (16) Peraltro, si noti che la giurisprudenza di legittimità orientata ad affermare l’irrilevanza della sola ammissione alla procedura di concordato preventivo (sia anteriore che successiva), al fine della valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti, necessario a disporre il sequestro, pare essersi formata con particolare riferimento al reato di omesso versamento Iva sul presupposto (erroneo) della irrinunziabilità di tale tributo stante la sua “natura” comunitaria (cfr. Cass., Sez. III penale, 4 febbraio-31 marzo 2016, n. 12912, Cass., Sez. III penale, 14 maggio -31 ottobre 2013, n. 44283). Pertanto, specie dopo la pronunzia della Corte di Giustizia, 7 aprile 2016, C. 546/14 (che ha ritenuto pienamente compatibile con l’ordinamento comunitario il pagamento parziale del debito Iva, seppur in esito ad una procedura concorsuale che veda la partecipazione di un soggetto terzo e indipendente che attesti che la liquidazione non garantirebbe miglior soddisfacimento delle ragioni erariali) – cui ha fatto seguito l’introduzione, nella stessa legge fallimentare, dell’art. 182-ter che, ora, espressamente prevede la falcidiabilità del quantum dell’Iva (come pure, per quanto in questa sede interessa, delle imposte e delle ritenute non precedentemente versate) – sembra opportuno rimeditare il predetto orientamento giurisprudenziale (così come fatto da Cass., Sez. IV, 17 ottobre – 17 novembre 2017, n. 52542).


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non pare giustificare la rinunzia al tentativo di verificare funditus – anche nella medesima sede cautelare – l’esistenza dei presupposti per la disposta misura in presenza del reato di omesso versamento di ritenute e, in special modo, in presenza di un accordo con il fisco concluso nel contesto di una procedura di concordato preventivo in continuità che, per giunta, avrebbe potuto essere stata dichiarata aperta anche anteriormente al tempus commissi delicti (17). 4. Le ragioni a favore di un più attento esame della sussistenza dei presupposti per la misura patrimoniale. – Volendo dunque anche solo accennare, stanti i limiti delle presenti note, a un inquadramento sistematico delle più rilevanti questioni, nonché alle possibili ragioni a favore di una più attenta verifica della sussistenza dei presupposti per la concessione (rectius: mantenimento) della misura patrimoniale, occorre anzitutto osservare come la Corte abbia dato atto (ad avviso di chi scrive condivisibilmente) della natura pubblicistica della procedura – definita “conservativa” – di concordato preventivo. Difatti, specie nel concordato preventivo in continuità (come nel caso in esame), risulta facilmente ravvisabile l’interesse costituzionale alla conservazione dell’impresa. La relativa procedura, ancorché avviata su impulso del debitore, non può più dirsi confinata alla sola sede privatistica, bensì attinge alla soglia pubblicistica, snodandosi in un percorso (durante il quale i creditori non possono – sotto pena di nullità – iniziare o proseguire azioni sul patrimonio del debitore) giurisdizionalmente disegnato e vigilato (anche attraverso la partecipazione del pubblico ministero agli snodi più significativi di esso), per poi ricevere l’omologazione, da parte del tribunale, dell’accordo approvato dalle parti (18). Per non dire che, anche dopo l’omologazione,

Sulla giurisprudenza comunitaria sopra richiamata, in dottrina, si veda tra gli altri P. Boria, La pronuncia europea sulla falcidia dell’IVA, in Riv. dir. trib., 2016, I, p. 461 ss. (17) Difatti, anche in materia di omesso versamento Iva di cui all’art. 10-ter del d. lgs. n. 74/2000, si registrano aperture della giurisprudenza con riferimento a quei concordati dichiarati aperti prima della scadenza del termine per il versamento delle imposte rilevante ai fini penali (cfr. Cass., Sez. III penale, ud. 12 marzo-16 aprile 2015, n. 15853), sicché il relativo ragionamento, a fortiori, si dovrebbe poter estendere al delitto di omesso versamento delle ritenute di cui all’art. 10-bis del d. lgs. n. 74/2000. (18) È ora appena il caso di annotare che la giurisprudenza di merito, da tempo, ha attribuito natura pubblicistica anche al concordato con riserva (cfr. Trib. Reggio Emilia, 6 marzo 2013, in www.ilcaso.it, poi confermata da App. Bologna, 25 giugno 2013, in www.ilcaso.it) per cui, a fortiori, è possibile attribuire la medesima natura al concordato preventivo una volta che sia stato presentato il piano concordatario.


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l’attuazione del piano concordatario (in parte normativamente predeterminato nei suoi contenuti) è affidata a un liquidatore giudiziale e sottoposta alla vigilanza del commissario giudiziale, dal medesimo tribunale nominato. Tuttavia, pur avendo posto la corretta premessa giuridica in ordine alla natura pubblicistica del concordato preventivo, la Corte sembra trascurare di apprezzarne le conseguenze ai fini penali (19). Difatti i supremi giudici avrebbero anche potuto osservare che la transazione fiscale all’interno del concordato preventivo, anzitutto, è qualcosa di più di una mera esternazione unilaterale proveniente dal debitore, nel senso che essa si inscrive all’interno di un accordo (con i creditori) destinato ad essere omologato dal tribunale (20); la medesima, per di più, è espressamente qualificata e regolata da una specifica disposizione normativa (art. 182-ter L.F.) che, come tale, può anche determinare l’effetto impeditivo di cui all’art. 12-bis, comma 2, in discorso (21). E difatti, in base alla predeterminata

(19) Come invece fatto da altra giurisprudenza che, parimenti, aveva mosso dalla natura pubblicistica del concordato preventivo; si vedano: Cass., Sez. III penale, ud. 12 marzo 2015, n. 15853, Cass., Sez. III penale, ud. 30 aprile 2015, n. 22127, e, più di recente, Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione Riesame, 13 aprile 2017, n. 131, con nota di G. Della Volpe, Il delicato rapporto tra concordato preventivo e sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, nell’ambito dei reati di omesso versamento, in www. giurisprudenzapenale.com. (20) Cfr. P. Rossi, in Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e Fondazione Nazionale dei Commercialisti, L’ambito applicativo della “nuova” transazione fiscale, Documento di ricerca, 4 maggio 2018, 6 ss., secondo la quale, oggi, l’istituto in discorso sembra perdere (almeno nell’ambito del concordato preventivo) la propria individualità ed autonomia, per assumere le vesti di un obbligo volto a disciplinare, in modo esclusivo, il trattamento dei crediti tributari e dei contributi, nonché le modalità procedimentali per consentire ai destinatari dell’istanza di trattamento di quantificare il proprio credito. Talché, in questo modo, la riduzione e/o la dilazione del debito tributario o contributivo, più che esito di un accordo con gli enti creditori, diviene effetto dell’approvazione del concordato da parte della maggioranza dei creditori e della sua omologazione. Sulle varie ricostruzioni teoriche in ordine alla natura giuridica della transazione fiscale si vedano altresì i riferimenti richiamati dalla dottrina da ultimo citata (P. Rossi, op. ult. cit., 4 ss.). (21) Peraltro, anche ad ammettere che l’effetto impeditivo in parola possa riconoscersi – così come fa la prevalente giurisprudenza – unicamente allorquando il relativo impegno possa dirsi inserito all’interno di una fattispecie espressamente prevista dalla legge, allora la collocazione della transazione fiscale all’interno della procedura di concordato preventivo varrebbe ad impedire alla confisca di operare. Al riguardo, sulla necessità di un impegno formale al fine d’impedire l’operare della confisca, ex art. 12-bis, comma 2, del d.l.gs. n. 74/2000, si vedano in giurisprudenza: Cass., Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 42087; Cass., Sez. III, 14 gennaio 2016, n. 5728, con nota di M. Grande, L’inoperatività della confisca in caso di impegno al versamento del debito tributario, in Cassazione penale, 2016, 9, 3370 ss.; Cass. Sez. III, 9


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disposizione normativa di cui sopra, dalla transazione fiscale discendono conseguenti effetti sul piano della riscossione delle imposte, talché l’impegno assunto (in quanto conforme allo schema legale di cui all’art. 182-ter L.F.) sarebbe per ciò stesso idoneo a determinare l’effetto ostativo in parola e, quindi, la revoca del sequestro alla confisca poreordinato (22). Al contrario, la conservazione della misura finirebbe allora per trovare giustificazione prevalentemente in chiave di strumento di garanzia rispetto all’adempimento concordatario (difatti il secondo comma dell’art. 12-bis più volte richiamato afferma che la confisca «non opera» e non già che non può essere disposta) (23), di tal guisa, però, finendo per trascurare la rilevanza dei

febbraio 2016, n. 28225. Senonché – come si vedrà più oltre – la giurisprudenza afferma che la causa di non punibilità di cui all’art. 13 d. lgs. n. 74/2000 opera solo a seguito dell’integrale pagamento, anche rateale, del debito tributario e non consegue al mero accordo intervenuto tra debitore e a.f. (cfr. Cass., Sez. III, 13 luglio 2018, n. 48375). Sul tema, in dottrina, si vedano altresì: S. Finocchiaro, L’impegno a pagare il debito tributario e i suoi effetti su confisca e sequestro, in Diritto penale contemporaneo, 2015, www.penalecontemporaneo.it, 11 ss; A. Perini, La riforma dei reati tributari, in Diritto penale e processo, 2016, I, 31; L. D’Agostino, L’operatività della confisca e le sorti del sequestro preventivo in presenza di impegno al pagamento del debito tributario: in dubio pro reo?, cit., 367 ss. e, di recente, G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento di tributi, cit., 57, secondo il quale il mero impegno informale, collocato cioè al di fuori dalle fattispecie normativamente individuate, risulta strumento non adeguato al sistema di riscossione dei tributi che, per parte sua, segue precise regole dettate dalla disciplina di settore, sicché appare ragionevole ritenere irrilevanti eventuali impegni di versamento non collegati a procedure formali di riscossione, per non dire che anche il pregresso (e gravemente illecito) comportamento del contribuente suggerisce di positivamente considerare solo impegni derivanti dall’applicazione di una espressa disposizione sull’adempimento dei debiti fiscali al contribuente contestati. (22) Per la ricostruzione secondo cui l’impegno formale – in quanto assunto secondo i canoni pre-fissati dal legislatore – è idoneo a dispiegare l’effetto ostativo in discorso sin dalla data di assunzione dell’impegno medesimo, si veda pure T. Tassani, Confisca e recupero dell’imposta evasa: profili procedimentali e processuali, cit., 1392 ss. (23) Al riguardo si vedano quelle pronunce secondo cui l’art. 12-bis deve intendersi nel senso che l’espressione che la confisca «non opera» non significa che essa, in presenza di impegno al pagamento, non possa essere adottata ma che, più semplicemente, essa è destinata a non produrre effetti, ovvero a restare condizionatamente sospesa, fino a quando il reo mantenga l’impegno preso di versare il dovuto all’erario, per contro riacquistando tutti i suoi effetti la misura in discorso allorquando possa riscontrarsi un mancato pagamento. In tal senso: Cass., Sez. III, 7 ottobre 2016, n. 42470; Cass., Sez. III, 6 ottobre 2016, n. 42087; Cass., Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5728, con note di S. Finocchiaro, La Cassazione sul sequestro e la confisca del profitto in presenza dell’impegno a pagare il debito tributario,in Diritto penale contemporaneo, 2016, www.penalecontemporaneo.it e di M. Grande, L’inoperatività della confisca in caso di impegno al versamento del debito tributario, ibidem., 3370 ss. Più recentemente si veda Cass., Sez. III, 7 novembre 2018, n. 50157, ove l’espressa conferma dell’adottabilità della


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molteplici profili rituali propri della transazione fiscale così come collocata all’interno del concordato preventivo, la cui efficacia esdebitatoria presuppone appunto la convenienza sostanziale e la legittimità formale, rispettivamente, della proposta concordataria e del relativo procedimento di approvazione, la cui omologazione, di per sé, costituisce garanzia per tutti i creditori, fisco compreso (24). In ogni caso, gli stessi giudici – ancorché abbiano privilegiato l’interpretazione più prudente per gli interessi erariali (in ordine all’applicazione dell’art. 12-bis, comma 2, più volte richiamato (25)) – avrebbero altresì potuto, quanto meno, verificare se la società fosse stata ammessa al concordato preventivo prima ovvero dopo il verificarsi del tempus commissi delicti (che, nel caso di specie, coincide con il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale dei sostituti d’imposta). Ebbene, nel caso di ammissione alla procedura (se non addirittura nel caso di presentazione della domanda di concordato (26)) prima del termine assunto a riferimento dalla norma

confisca (così come pure del sequestro preventivo alla medesima preordinato) anche a fronte dell’assunzione di un impegno di pagamento, dovendosi semmai riconoscere che l’efficacia della misura opera limitatamente a quella parte delle somme rimaste impagate; analogamente Cass., Sez. III, 11 ottobre 2018, n. 6246. In dottrina si vedano altresì S. Finocchiaro, La confisca “condizionatamente sospesa” in caso di impegno a pagare il debito tributario e la permanenza del sequestro preventivo anche dopo la condanna, nota a Cass., Sez. III, 13 luglio 2016, n. 42470, in Diritto penale contemporaneo, 2016, www.penalecontemporaneo.it, 7; E. Fassi, Le prime indicazioni della Corte di Cassazione sulla interpretazione dell’art. 12-bis recentemente introdotto nel tessuto del D. Lgs. n. 74 del 2000, nonché sulla sua efficacia con riguardo a provvedimenti di sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, nota a Cass., Sez. III, 22 febbraio 2016, n. 5728 in Cassazione penale, 2016, 7-8, 2950-2967. (24) Sulla verificabilità da parte del tribunale (anche) della fattibilità economica del piano concordatario, in aggiunta alla diretta verificabilità della fattibilità giuridica dello stesso, si veda, da ultimo Cass., ord. 13 marzo 2020, n. 7158, ove la precisazione che la fattibilità sotto il profilo economico è da intendersi come realizzabilità di esso nei fatti, da svolgersi quindi nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, tenuto conto delle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi. Al riguardo si vedano altresì Cass., Sez. VI, ord. 9 marzo 2018, n. 5825; Cass., Sez. I, sent. 23 maggio 2014, n. 11497. (25) Difatti, come anche osservato al paragrafo 2 che precede, il tenore dell’art. 12-bis in discorso non è tale impedire il sequestro nei confronti del contribuente che, pur impegnatosi a versare il dovuto, non abbia altresì completamente estinto il proprio debito. D’altronde, essendo il sequestro funzionale alla confisca che, per parte sua, risulta obbligatoria in presenza di reati tributari, può allora sostenersi che il sequestro può essere mantenuto fermo finché continui a sussistere il debito tributario. (26) Difatti già con la semplice presentazione della domanda (anche solamente di tipo prenotativo) scaturiscono degli effetti giuridicamente rilevanti, anche ai fini del caso in esame,


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penale per l’integrazione della fattispecie delittuosa, sembra quanto meno illogico riguardare i diversi settori (pubblicistici) dell’ordinamento come non comunicanti tra loro (27). In altre parole, pare quanto meno contraddittorio che sia ammesso al (“beneficio”, come una volta si diceva del) concordato preventivo un imprenditore che nel relativo piano progetta di commettere un reato e, similmente, pare altrettanto illogico consentire al giudice penale di sanzionare il contribuente che ha eseguito un accordo, non solo omologato dal tribunale, ma nel cui giudizio è stato invitato a partecipare anche il pubblico ministero al quale era stata in origine comunicata la relativa domanda. Ancora, detto in termini differenti, la sentenza in esame non si perita di verificare come una data condotta (peraltro soggetta a controlli da parte di organi giurisdizionali) possa essere considerata, allo stesso tempo, lecita e illecita per due settori dello stesso ordinamento, evidenziando così il contrasto con il principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico in generale. E non si dica che un tale approfondimento non possa essere svolto in sede cautelare – dovendo essere riservato al giudice del merito – giacché la verificazione del tempus commissi delicti successivamente alla data della ammissione al concordato preventivo è sia facilmente accertabile nella medesima sede cautelare e, in ogni caso, influisce sulla verifica della sussistenza del fumus commissi delicti, costituendo, se non una scriminante oggettiva (nella forma dell’esercizio del diritto ovvero nell’adempimento del dovere (28)), quanto meno un elemento tale da incidere sotto il profilo soggettivo della responsabilità, alla stregua di una scriminante putativa (ex art. 59, comma 4, c.p.) per errore sui presupposti di fatto o sulla legge extra-penale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificatrice (29).

essenzialmente consistenti nelle misure c.d. “protettive” (cfr. art. 168 L.F.). (27) Sul tema dei rapporti tra diritto tributario e altre scienze, di recente, si veda F. Paparella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in Riv. dir. trib., 2019, I, 587 ss. (28) Al riguardo, in una fattispecie analoga a quella di cui si discute, è stata infatti ritenuta sussistente la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità, di cui all’art. 51 c.p., costituito da norme poste a tutela di interessi aventi rilievo anche pubblicistico, equivalenti a quelli di carattere tributario (cfr. Cass., Sez. penale, 17 novembre 2017, n. 52542). (29) Cfr. Cass., Sez. III penale, 29 ottobre 2014-10 febbraio 2015, n. 5921, ove la riconosciuta rilevanza in capo al liquidatore volontario del legittimo convincimento, ancorché erroneo, che il versamento delle imposte avrebbe violato la par condicio creditorum. Si veda altresì Cass. 23 luglio 2014, n. 32598, peraltro concernente il delitto di cui all’art. 2 del d.l.


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Ancora, i supremi giudici non sembrano essersi peritati di verificare se tra i creditori concorsuali ve ne fossero alcuni titolari di ragioni di credito assistite da privilegio di grado poziore rispetto a quello che assiste l’erario (30). Difatti, in questo caso, il sequestro e la successiva obbligatoria confisca (ancorché temperati in base alla lettura “orientata” dell’art. 12-bis del d.lgs. n. 74/2000, nonché dell’art. 321, comma 3, c.p.p. e dell’art. 85, disp. att. c.p.p., nel senso in precedenza accennato), ben potrebbero porsi in (insanabile) conflitto con il principio della par condicio creditorum. Invero, il pagamento del debito d’imposta in difformità rispetto a quanto (come pure rispetto al “quando”) previsto nel piano, costituisce lesione del principio anzidetto e, al contempo, trasgressione rispetto al divieto di eseguire pagamenti di debiti scaduti senza autorizzazione degli organi della procedura (divieto questo, come noto, sanzionato finanche con la revoca del concordato) (31). Insomma, alla luce di quanto appena osservato, la Corte avrebbe anche potuto annullare l’ordinanza impugnata, seppur con rinvio al giudice del riesame avendo quest’ultimo omesso di valutare – alla luce della normativa fallimentare che, come noto, ora ammette la transazione fiscale pure per ciò che concerne il quantum debeatur (cfr. art. 182-ter L.F.) – l’incidenza, sin dall’ammissione al concordato preventivo, della rateizzazione del debito per imposte (a titolo di ritenuta) ai fini dell’integrazione del fumus del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74/2000, anche in relazione all’elemento soggettivo del reato medesimo (32). Peraltro, è appena il caso di sottolineare che – a quanto si apprende dalla lettura dell’annotata decisione – la proposta concordataria, nel caso in esame, non prevedeva la falcidia del credito erariale ma solo la sua dilazione secondo l’accordo con l’amministrazione, omologato nel contesto del piano concordatario. Quindi, ai fini della risoluzione della questione in esame, avrebbe dovuto più opportunamente verificarsi se, al momento della

n. 463 del 1983, conv. in legge n. 638 del 1983, per mancato versamento di contributi Inps a seguito del quale il contribuente era stato ammesso al beneficio della rateizzazione degli stessi. (30) Si pensi al caso, come detto assai frequente nella pratica, di crediti per prestazioni di lavoro dipendente, assistiti dal privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2751-bis n. 1 c.c. (31) Divieto ricavabile dalla lettura dell’art. 168 L.F. (32) Cfr., pressoché in termini, Cass., Sez. III penale, 4 settembre 2018, n. 39696, con nota di F. Di Vizio, I rapporti tra la dilazione concordataria ed il reato di omesso versamento dell’Iva, in Il Fallimento, n. 3/2019, 364 ss., su cui anche C. Santoriello, Non è reato il mancato versamento del’iva in caso di ammissione al concordato preventivo, in Il Fisco, n. 37/2018, 3570 e ss.


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scadenza del termine fissato per l’integrazione del reato di omesso versamento (omissivo ed a consumazione istantanea), vi fosse stato o meno un reale dovere giuridico tale da impedire al debitore l’adempimento, ovvero, in alternativa, la sussistenza di una putativa causa di giustificazione del mancato adempimento. E ciò tenuto conto dell’obiettiva attitudine della transazione fiscale a rigenerare un elemento strutturale del delitto tributario (quanto alle scadenze e ai modi di adempimento) (33), a prescindere dalla natura novativa o meno della dilazione concordataria rispetto all’obbligazione tributaria originaria (34). Infine, per completezza, i supremi giudici avrebbero anche potuto peritarsi di verificare la sussistenza della causa di non punibilità qualora fosse intervenuto il successivo pagamento del debito tributario (per opera della società contribuente) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (con riferimento al legale rappresentate, penalmente responsabile), alla stregua del disposto di cui all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000 che, così come riformato dal richiamato d.l. n. 158 del 2015, sembra esprimere nettamente il principio della prevalenza della pretesa erariale rispetto a quella ablatoria statale (35). Peraltro, a quest’ultimo riguardo, una misura cautelare sul patrimonio della società, per di più ammessa a concordato preventivo (per giunta omologato), avrebbe l’effetto di rendere eccessivamente difficoltoso il ricorso alla causa di non punibilità ex art. 13, comma 1, predetto (36). E, da

(33) Cfr. F. Di Vizio, I rapporti tra la dilazione concordataria ed il reato di omesso versamento dell’Iva, cit., 369. (34) In senso favorevole alla natura novativa, Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 5 giugno 2013; contra Cons. Stato, Sez. III, 5 marzo 2013, n. 1332, come pure Agenzia delle Entrate, circ. n. 16/E/2018. Si noti peraltro che la giurisprudenza penale tende a considerare che l’effetto novativo dell’obbligazione, così come esso deriva dall’accordo tra contribuente e amministrazione, rimane circoscritto all’ambito tributario, non producendo conseguenze sul piano penale (ex multis Cass. pen., sez. III, n. 48375 del 13 luglio 2018). (35) Al riguardo si veda G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. Trib., 2016, 589 ss. e, seppur in una diversa prospettiva, S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 405 ss. (36) A tale riguardo, in dottrina, si è osservato che il permanere del sequestro, nel caso in cui il contribuente si sia impegnato ad estinguere il debito fiscale, potrebbe essere ritenuto distonico rispetto alle previsioni di cui agli artt. 13 e 13-bis del d. lgs. n. 74/2000, in materia di cause di non punibilità ovvero di circostanze attenuanti del reato, serbando il reo una legittima aspettativa a non vedersi frapporre ostacoli da parte della pubblica autorità all’adempimento. Difatti, in assenza di sequestro, il contribuente sarebbe messo in condizioni di più agevolmente onorare il proprio debito e, dunque, ottenere i benefici in sede penale di cui sopra, anche se, gli artt. 13 e 13-bis in discorso sembrano trovare la propria ratio non già in una funzione premiale


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ultimo, quanto appena rilevato sarebbe francamente difficile da comprendere nel caso in cui il piano concordatario prevedesse – come nel caso di specie – solamente la dilazione del debito tributario, il cui integrale pagamento sia invero destinato a essere assicurato, sebbene dopo il termine per l’integrazione della fattispecie delittuosa (art. 10-bis), comunque entro il termine di cui al successivo art. 13, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 74/2000 (37) (e non anche successivamente ad esso seppur entro il limite temporale previsto dalla concessa dilazione (38)). In altre parole, anche concordando con la ratio “acceleratoria” dell’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000, non v’è dubbio che, qualora l’ultima rata di pagamento prevista dalla (dilazione di cui alla) transazione fiscale si collocasse anteriormente alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, potrebbe allora porsi il tema dell’opportunità della revoca del sequestro preventivo la cui giustificazione presuppone la preordinazione rispetto ad una successiva (quanto definitiva) confisca che, invero, potrebbe verosimilmente risultare impedita in ragione della (in ipotesi) verificata causa di non punibilità conseguente al puntuale pagamento (entro il termine sopra detto) delle somme previste nella transazione fiscale (39). In definitiva, risulta oltremodo evidente che la conservazione della misura patrimoniale (nel caso di specie giustificata in ragione del precedentemente richiamato cauto approccio serbato dagli estensori della pronuncia in questa

per l’indagato/imputato ma, piuttosto, mirano ad indurre il contribuente a pagare prima possibile quanto dovuto. Talché il sequestro andrebbe legittimamente disposto, o mantenuto, anche qualora il privato avvii piani di assolvimento del proprio debito tributario (cfr. G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento di tributi, cit., 60). (37) Su tali aspetti si veda altresì G. Della Volpe, Il delicato rapporto tra concordato preventivo e sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, nell’ambito dei reati di omesso versamento, op. cit. (38) Ipotesi, questa, su cui ha avuto modo di esprimersi la Corte costituzionale che, con sentenza n. 126 del 2019, ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni prospettate, non senza aver prima dato atto del carattere eccezionale della causa di non punibilità di cui all’art. 13 in discorso e, quindi, della conseguente non irragionevolezza della scelta del legislatore di delimitarne la portata attraverso attraverso la previsione di un limite temporale adeguato a contemperare i diversi interessi in gioco. (39) E peraltro una tale ricostruzione sembrerebbe pienamente coerente con la posizione, rigorosa, di quella giurisprudenza che afferma che la causa di non punibilità di cui all’art. 13 d. lgs. n. 74/2000 opera solo a seguito dell’integrale pagamento, anche rateale, del debito tributario e non consegue al mero accordo intervenuto tra debitore e a.f. (così Cass., Sez. III, 13 luglio 2018, n. 48375).


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sede annotata (40)), finisce per mettere a nudo – oltre alla funzione servente dell’art. 12-bis predetto (come pure dei successivi artt. 13 e 13-bis) rispetto alle esigenze di gettito (41) – un difetto di coordinamento (se non anche un vero e proprio conflitto) tra le rationes delle varie norme in precedenza richiamate (42) e, non ultimo, possibili discriminazioni in termini di concreta

(40) Per la giurisprudenza che afferma l’irrevocabilità del sequestro preventivo sulla base del solo impegno a pagare si vedano altresì: Cass., Sez. III, 20 luglio 2017, n. 35781; Cass., Sez. III, 7 ottobre 2016, n. 42470; Cass., Sez. III, 22 agosto 2016, n. 35246; Cass., Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 5728. Si veda altresì la Relazione n. III/05/2015 dell’Ufficio del Massimario presso la Corte di cassazione secondo cui solo il pagamento integrale del debito tributario impone la revoca del sequestro preventivo precedentemente disposto (cfr. pag. 41 della predetta Relazione). Più di recente, sulla inidoneità della mera istanza di ammissione al concordato preventivo, ancorché corredata da richiesta di accesso alla c.d. “rottamazione ter”, a costituire causa impeditiva rispetto al sequestro finalizzato alla successiva confisca si veda Cass., n. 25061 del 5 giugno 2019. Tale pronuncia merita di essere segnalata perché afferma che la mera presentazione della istanza di ammissione al concordato preventivo, in assenza dei provvedimenti di ammissione e omologazione, è per ciò stesso inidonea ad impedire il sequestro a mente dell’art. 12-bis più volte citato, giacché non basta una manifestazione di volontà unilaterale ma occorre che l’impegno sia frutto di un accordo, manifestato con le diverse forme previste dalla legge, al pagamento, cosicché possa poi darsi applicazione alla disposizione di cui all’art. 12-bis predetto (nel senso sopra ricordato). Tuttavia, a parere di chi scrive, l’enfasi posta sulla mancanza dei provvedimenti di ammissione e di omologazione del concordato preventivo costituisce mero frutto della tecnica redazionale impiegata al fine di sorreggere la decisione di manifesta infondatezza del relativo motivo di ricorso e, dunque, non autorizza – secondo l’interpretazione dell’art. 12-bis fatta propria dagli estensori della sentenza in parola (peraltro in conformità agli indirizzi giurisprudenziali nella stessa puntualmente richiamati) – a ritenere che un concordato preventivo omologato possa costituire valido impedimento al sequestro e alla successiva confisca. Difatti la successiva giurisprudenza di legittimità ribadisce che il riferimento all’accordo come fattore giuridicamente rilevante va inteso non tanto per il suo effetto ostativo rispetto alla misura, quanto alla stregua di un elemento rispetto al quale determinare il profitto del reato e, in definitiva, commisurare il quantum della confisca (cfr. Cass., 4 ottobre 2019, n. 40793). (41) Cfr. A. Ingrassia, Ragione fiscale vs. “Illecito penale personale” – il sistema penale tributario dopo il D. Lgs. n. 158/2015, Roma, 2016, 163 ss.; D. Potetti, Confisca tributaria e sequestro preventivo alla luce del nuovo art. 12-bis, comma 2 del D. Lgs. 74/2000, nota a Cass., Sez. III, 15 aprile-20 maggio 2015, n. 20887, in Cassazione penale, 2016, 4, 1686 ss.; G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento di tributi, cit., 62, ove si ricostruisce la natura di sequestro e confisca in termini di strumento forzoso all’adempimento del tributo, in coerenza con le disposzioni di cui agli artt. 13 e 13-bis del d. lgs. n. 74/2000 e, più in generale, con l’intero sistema penale tributario. (42) Il difetto di coordinamento in parola, peraltro, sembra frustrare la stessa intentio legislatoris posta alla base del comma 2 dell’art. 12-bis in discorso, quanto meno nei termini che di esso è dato conoscere dalla lettura della Relazione illustrativa al d. lgs. n. 158/2015 che, appunto, afferma risiedere nello scopo di consentire al contribuente di utilizzare quanto in sequestro per provvedere al pagamento del tributo.


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applicazione della sanzione penale, alla quale sono destinati a sfuggire coloro i quali dispongono di mezzi ulteriori (rispetto a quelli sottoposti a misura), tali da consentire l’integrale pagamento del debito d’imposta così da invocare l’applicazione della causa di non punibilità di cui al successivo art. 13 (ovvero la diminuente di cui all’art. 13-bis), all’opposto inapplicabile per coloro i quali non dispongono di mezzi sufficienti al pagamento del tributo accertato (43). Ancora, sotto altro angolo visuale, una simile applicazione dell’art. 12bis in discorso rischia di imporre al privato un sacrificio patrimoniale che è difficile ritenere rispettoso del principio di proporzionalità. Difatti, nel caso (probabilmente non frequente ma non impossibile da verificarsi) di consolidamento della confisca (all’esito della definitiva condanna in sede penale) prima dell’adempimento (ovvero della definzione) dell’obbligazione tributaria, l’ablazione patrimoniale imposta al reo non vale a liberare lo stesso – nella sua qualità di contribuente – dal suo debito nei confronti dell’erario, non costituendo la confisca causa di estinzione dell’obbligazione tributaria. Ebbene, simili difetti di coordinamento, specialmente nei casi come quello oggetto della pronuncia in questa sede annotata, risultano suscettibili di determinare autentiche aporie che, in quanto tali, sono impossibili da risolvere ex ante e, dunque, in mancanza di un più meditato intervento da parte del legislatore, non possono che essere rimesse all’opera di composizione del giudice, quale unico organo chiamato a dettare la regola rispetto al caso concreto, peraltro all’esito di un’attenta opera di bilanciamento degli interessi e delle rationes sottesi alle varie norme di volta in volta applicabili (44). 5. Le misure cautelari nel codice della crisi d’impresa. – Se quindi, come retro osservato, il coordinamento tra misure reali e procedure concorsuali risulta attualmente rimesso alla sensibilità della giurisprudenza che, invero, non sembra aver favorito l’elaborazione di principi atti a scongiurare esiti applicativi talvolta incongrui e contraddittori, merita ora segnalare che il

(43) Cfr. L. D’Agostino, L’operatività della confisca e le sorti del sequestro preventivo in presenza di impegno al pagamento del debito tributario: in dubio pro reo?, cit, 385; G. Melis, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, cit., 621. (44) Peraltro, è questo l’approccio seguito anche da quegli autori che ritengono come – in mancanza dell’auspicato intervento del legislatore – la stessa autorità giudiziaria possa disporre l’osservanza di opportune prescrizioni al cui rispetto subordinare la restituzione (di tutto o parte) dei beni sequestrati. Cfr. G. Girelli, Sequestro, confisca e pagamento di tributi, cit., 64 ss., ove ulteriori riferimenti.


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codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, introdotto con d.lgs. 12 gennaio 2019, ha introdotto un qualche criterio di composizione al riguardo. Tuttavia, come si vedrà tosto, un simile intervento risulta ben lungi dal costituire efficace rimedio rispetto ai difetti prima segnalati, anzi, se possibile, sembra averne messi in luce di altri. A tale riguardo, in particolare, tra le disposizioni del titolo VIII del codice in parola, è possibile segnalare che l’art. 317 sancisce il principio della prevalenza del sequestro penale, strumentale alla confisca, rispetto alle procedure concorsuali e, per l’effetto, esso traccia altresì la disciplina della tutela dei terzi, tuttavia ciò fa sulla base delle disposizioni contenute nel Libro I, titolo IV del d.lgs. n. 159/2011 (codice antimafia) (45). Partando da quest’ultimo aspetto – ovvero quanto alla scelta del legislatore di rinviare al codice antimafia per ciò che concerne la tutela dei diritti dei terzi – l’opzione seguita pare giustificarsi per l’attitudine che il corpus normativo richiamato mostra nel disciplinare gli effetti di fenomeni di criminalità economica anche se – deve rilevarsi – le soluzioni dal medesimo codice adottate riflettono precise scelte assiologiche in ordine al (non troppo elevato) livello di garanzia dei diritti costituzionali (46). Insomma, il legislatore – seppur nel rispetto della legge delega (47) – risulta aver scelto di affermare la tendenziale prevalenza della confisca, e quindi anche del sequestro preventivo alla stessa preordinato, rispetto alla procedura concorsuale. Ciò nondimeno, è opportuno sottolineare che il nuovo codice della crisi d’impresa si fa carico di chiarire come i diritti di credito dei terzi debbano essere garantiti, sebbene ai sensi delle disposizioni e delle regole affermate nel codice antimafia. Ancora, va altresì osservato che lo stesso art. 104-bis, comma 1-quater, delle norme di attuazione del codice di procedura penale (48), così come modificato dall’art. 373 del codice della crisi, afferma l’applicazione alle forme particolari di sequestro e confisca (ivi comprese, per

(45) che, a sua volta, è fatto oggetto di modifiche ad opera dell’art. 373 del medesimo codice della crisi. (46) E dunque, probabilmente anche in quest’ottica, è possibile spiegare la recente estensione al settore dei reati tributari della confisca allargata, ovvero per sproporzione, di cui all’art. 12-ter del d. lgs. n. 74/2000, introdotto ad opera dell’art. 39 del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157. (47) Cfr. art. 13, comma 1, legge 19 ottobre 2017, n. 155 che già aveva manifestato l’opzione per il coordinamento con il codice antimafia. (48) approvate con d. lgs. 28 luglio 1989, n. 271.


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quanto in questa sede interessa, quelle di cui al d.lgs. n. 74/2000 e al d.lgs. n. 231/2001) di tutte le disposizioni del codice antimafia riguardanti non solo la tutela dei terzi ma anche i rapporti con le procedure concorsuali (49). Quanto al concreto atteggiarsi di tale affermato principio di prevalenza, come accennato, nel codice della crisi si precisa che la misura reale debba applicarsi anche in presenza di procedura concorsuale (sia essa dichiarata prima o dopo la misura), prevedendosi comunque una qualche (parziale) soddisfazione dei creditori sui beni vincolati, alle condizioni e secondo le modalità previste dal codice antimafia (50). Orbene, non essendo questa la sede per approfondire la disciplina dei rapporti tra procedure concorsuali e misure reali dovute a reati tributari, è comunque possibile osservare che la scelta legislativa fatta nel nuovo codice della crisi d’impresa – consistente nell’esclusione dalla gestione concorsuale dei beni sottoposti a misura – non sembra comunque farsi carico di affrontare i (problematici) rapporti tra pretese erariali, misure reali e diritti del debitore, sia esso sottoposto a fallimento (rectius: liquidazione giudiziale), ovvero ad altra procedura concorsuale c.d. “minore”. E tale lacuna risulta ancora più ingiustificabile se si osserva che, nel (solo) fallimento, è consentito al curatore farsi interprete degli interessi dei creditori terzi (di cui egli non è rappresentante), a tal fine potendo financo richiedere la revoca della misura (cfr. artt. 318, 319 e 320 del nuovo codice della crisi) (51), ma non anche di quelli del debitore (il cui patrimonio però è posto sotto l’amministrazione del curatore), rispetto ai quali pare arduo sfuggire alle previsioni del codice antimafia così come richiamate dal codice della crisi d’impresa. Insomma, se pure il legislatore civilistico pare aver voluto espressamente evitare alla persona del debitore sottoposto a procedura lo stigma del fallimento, non altrettanto sembra potersi osservare allorquando i beni del debitore (parimenti sottoposto a procedura concorsuale)

(49) Sul tema si vedano M. Bontempelli e R. Paese, La tutela dei creditori di fronte al sequestro e alla confisca, in Diritto penale contemporaneo, 2/2019, 123 ss. (50) Cfr. artt. 52 e ss. del d.lgs. n. 159/2011, ove l’attribuzione al giudice penale della fase di verifica dei crediti e dei diritti inerenti ai rapporti relativi ai beni sottoposti a misura, come detto esclusi dalla liquidazione giudiziale (e ciò anche qualora il sequestro sia successivo alla verifica dei crediti già svolta in sede concorsuale). (51) In giurisprudenza, sulla legittimazione del curatore a chiedere la revoca del sequestro preventivo ai fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale quando il vincolo sia stato apposto prima della dichiarazione di fallimento si veda Cass. 16 aprile 2019, n. n. 22602, con cui è stata rimessa alle Sezioni Unite la relativa questione; in ogni caso, sulla legittimazione del curatore, si veda altresì Cass. 13 febbraio 2019, n. 37638.


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siano stati gravati da sequestro, finalizzato alla successiva confisca. Difatti, in questo caso, la risoluzione delle delicate questioni concernenti il coordinamento tra le varie discipline pubblicistiche (tributaria, penale, concorsuale) risulta sottratta alla sensibilità del giudice dell’esecuzione penale per essere attribuita allo stesso giudice penale delegato (ovvero il giudice che ha disposto la misura cautelare), chiamato a dare applicazione, addirittura, alla legislazione antimafia che, in quanto tale, presuppone l’individuazione di un livello di garanzia per il debitore tutt’altro che elevato. Si potrebbe quindi provocatoriamente affermare che lo stigma del fallimento, ove riferito ai diritti personali del debitore, ancorché cacciato dalla porta, risulta poi rientrato dalla finestra, attraverso una minor considerazione dei diritti patrimoniali dello stesso debitore, verrebbe da dire equiparato a un pericoloso delinquente tutte le volte in cui esso sia stato raggiunto da una misura reale. Diversamente, su di un piano più concreto, specie se in presenza di attivi di una certa rilevanza, è facile prevedere che le varie questioni derivanti dall’intersezione tra sequestro per reati tributari e procedure concorsuali daranno luogo ad un incremento del contenzioso, in esito al quale sarà sempre più complicato raggiungere un equo contemperamento tra i vari interessi in campo, in spregio dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, sicché la transizione da uno stato di diritto ad uno stato di polizia patrimoniale risulta ormai del tutto conclusa (52). 6. L’estensione della confisca allargata ai reati tributari quale conferma dell’indirizzo volto a privilegiare le esigenze general-preventive rispetto alle garanzie della persona. Profili critici. – Quanto appena osservato, in ordine alla prevalenza delle misure di tipo patrimoniale sulle “ragioni” del contribuente, pare trovare conferma nella scelta, recente, di prevedere la confisca allargata, o per sproporzione, anche in relazione a reati tributari (53). È difatti noto che tale misura reale ripete la relativa disciplina dall’art. 240-bis c.p. (54) e

(52) Al riguardo si veda già V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullo crimen sine confiscatione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 3, 1259 ss. e, seppur in termini più generali, A. Manna, Il lato oscuro del diritto penale, Pisa, 2017, ove la denuncia della prevalenza delle esigenze general-preventive rispetto alle garanzie della persona. (53) Cfr. d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni in legge 19 dicembre 2019, n. 157. (54) che, per parte sua, ne prevede l’applicazione in relazione a determinati reati, tra i quali è possibile ricordare, anzitutto, quelli di criminalità organizzata e di terrorismo.


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la sua progressiva estensione, da ultimo al settore tributario, se da un lato vale ad affermare il particolare disvalore sociale che il legislatore (rectius: l’esecutivo) (55) ha recentemente inteso attribuire a taluni gravi illeciti fiscali (56), dall’altro non sembra prevedere idonei contrappesi in chiave di garanzia dei diritti della persona, o più propriamente, del contribuente, specie allorquando la misura in discorso venga adottata – così come la giurisprudenza ammette che sia adottata – anche sulla base di un gracile quadro indiziario (57). E difatti, al riguardo, si tende a parlare di confisca di prevenzione come “pena del sospetto” (58). In ogni caso, stanti i limiti di spazio riservati al presente contributo, e quindi lasciando da parte le perplessità in ordine alla – recentemente confermata – possibilità di normativamente prevedere la confisca di beni acquisiti (si suppone) illecitamente, per effetto di un provvedimento giudiziario reso al termine di un procedimento che non è subordinato alla constatazione di un reato né, a fortiori, alla condanna dei presunti autori di tale reato (59), uno dei nodi maggiormente problematici che, fin da subito, pare prospettarsi

(55) Sulla tendenziale predominanza del potere governativo rispetto al potere legislativo, così da porre in crisi lo stesso principio di legalità in sede penale, con il conseguente sviluppo della c.d. “giurisprudenza giuscreativa”, si veda altresì A. Manna, Il lato oscuro del diritto penale, cit., passim, il quale mette poi in rilievo l’influenza esercitata da talune forze simbolicoespressive (seppur determinate da fenomeni criminali che incidono fortemente sui profili di insicurezza della popolazione) su di un legislatore che, per parte sua, tende a rispondere nel senso della progressiva erosione delle garanzie, op. ult. cit., 117 ss. Sulle criticità – pure sotto il profilo costituzionale – dell’accennata predominanza del potere governativo rispetto al potere legislativo in tema di reati penali tributari si vedano anche E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, Torino, 2016, in partic., 17 ss. (56) Sulle scelte di politica criminale operate dal legislatore attraverso l’individuazione di delitti particolarmente allarmanti idonei a creare un’accumulazione economica a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti si veda, in giurisprudenza, Cass., SS.UU., 17 dicembre 2003, n. 920. (57) Si noti peraltro che già la raccomandazione n. 19 del piano d’azione del 2000 “Prevenzione e controllo della criminalità organizzata: strategia dell’Unione europea per l’inizio del nuovo millennio”, approvato dal Consiglio dell’Unione europea il 27 marzo 2000, indica che occorrerebbe esaminare l’eventuale necessità di uno strumento che, tenendo conto delle migliori prassi in uso negli Stati membri e nella debita osservanza dei principi fondamentali del diritto, introduca la possibilità di mitigare, nell’ambito del diritto penale, civile o fiscale, a seconda dei casi, l’onere della prova per quanto concerne l’origine dei beni detenuti da una persona condannata per un reato connesso con la criminalità organizzata. (58) Cfr. A. Manna, Il diritto delle misure di prevenzione, in AA.VV., S. Furfaro (a cura di), Misure di prevenzione, Torino, 2013, 3 ss. (59) Su cui, recentemente Corte Giust. UE, 19 marzo 2020, causa C-234/18.


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dal punto di vista tributario, risulta costituito dal dualismo tra l’ente – cui è riferibile la violazione fiscale – e la persona fisica (tipicamente il legale rappresentante dell’ente medesimo) – cui è invece riferibile la violazione del relativo precetto penale –. Talché occorrerà senz’altro comprendere se la sproporzione tra effettive disponibilità e redditi dichiarati ai fini delle relative imposte, presupposto della misura reale in discorso, debba riferirsi a entrambi i soggetti (ente e persona fisica), ovvero anche solo a uno di essi. Qualora – valorizzandosi la necessità di seguire le stesse regole che presiedono all’irrogazione della sanzione penale che, normalmente, è riferibile alla persona fisica (60) – dovesse optarsi per la verifica della sproporzione unicamente in capo alla persona fisica medesima (es. legale rappresentante) (61) e non anche in capo all’ente che, pure, potrebbe giovarsi della violazione, si avrebbe un evidente (ed ulteriore) abbassamento del livello di garanzia in capo alla persona fisica destinataria della misura. Difatti, ben potrebbe darsi il caso (nella pratica tutt’altro che infrequente) in cui il prevenuto, pur non dichiarando redditi particolarmente significativi, si giovi in realtà di disponibilità che gli derivano dall’essere il legale rappresentante (anche in quanto unico o principale socio) dell’ente. E quindi, ancorché la sproporzione tra disponibilità effettive e redditi dichiarati non risulti accertabile in capo all’ente che la violazione tributaria ha commesso, potrebbe comunque essere disposta la confisca allargata, seppur sui beni della persona fisica, qualora in capo a quest’ultima possa essere positivamente accertata la sproporzione in discorso (62). E ancora, pure a prescindere da tali aspetti, la confisca allargata – sulla cui natura giuridica è lecito interrogarsi (pur non potendolo fare compiutamente

(60) Anche se la recente estensione ai reati tributari della responsabilità amministrativa degli enti ex d. lgs. n. 231/2001 potrebbe autorizzare una diversa ricostruzione. (61) Così come sembra emerso dalla risposta data dal Comando Generale della G.d.F. in occasione di Telefisco 2020. (62) Quanto poi all’entità della confisca, secondo la giurisprudenza, in presenza di reati dichiarativi connotati da evasione d’imposta ovvero in presenza di reati di omesso versamento, questa deve essere commisurata alla sola imposta evasa (il c.d. “profitto del reato”) e non anche alle relative sanzioni (che, a ben vedere, costituiscono “costo del reato” stesso). Diversamente, nel caso di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte la confisca deve essere commisurata ad imposta, sanzioni e interessi, costituenti (tutti assieme) il complessivo vantaggio patrimoniale conseguito per effetto della consumazione del reato. Cfr. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Servizio Penale, Relazione n. 3/20 del 9 gennaio 2020, 16 ss. da consultare per i relativi riferimenti di giurisprudenza.


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nella presente sede) (63) –, è atta ad appuntarsi anche sui beni che siano entrati nella proprietà del prevenuto in modo del tutto legittimo e pure ben prima della (supposta) commissione del reato (64). Difatti – secondo la prevalente giurisprudenza – la confisca in parola costituisce una misura di sicurezza patrimoniale atipica con funzione (non solo ripristinatoria, ma) anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia (65) e, da ciò, discenderebbe che, secondo quanto disposto dall’art. 200 c.p., la stessa confisca allargata sarebbe regolata dalla legge in vigore al tempo della sua applicazione, con l’effetto che la misura potrà essere disposta anche nei casi in cui la condanna sia pronunciata per un reato commesso in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova norma (66). Tuttavia, a quest’ultimo riguardo, deve osservarsi che il legislatore tributario ha stabilito che le disposizioni che estendono la confisca allargata a taluni reati tributari si applicano esclusivamente alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124 (67), ciò nonostante non sembra impedita una futura applicazione retroattiva della misura in discorso (ad esempio nel caso di successivo ampliamento/rimodulazione del catalogo dei delitti tributari presupposto per i quali è applicabile la misura de qua) con il solo limite costituito dalla data del 25 dicembre 2019, giorno in cui è entrata in vigore la legge 19 dicembre 2019, n. 157, di conversione del predetto d.l. n. 124/2019. Invero, qualora un determinato fatto già, al momento della sua realizzazione, costituisca reato

(63) Difatti, quanto meno in dottrina, si mette in dubbio la naura giuridica di misura di sicurezza della confisca allargata, per prospettarne la natura sanzionatoria o, tutt’al più, di misura civile o amministrativa, volta a limitare il diritto di proprietà del prevenuto su di un bene in quanto (supposto) illecitamente acquisito. Si noti poi che taluna giurisprudenza ha attribuito alla confisca in parola un carattere versatile, poliedrico o, più propriamente, una natura giuridica “neutra”, dovendo quest’ultima essere ricostruita di volta in volta, in ragione del concreto atteggiarsi della misura rispetto alla fattispecie concreta. (64) Ivi compresa la c.d. “prima casa” (cfr. Cass. n. 8995 del 5 marzo 2000). Sulla progessiva erosione del nesso di pertinenzialità tra commissione del reato e i beni da sottoporre a misura, a partire dalla confisca per equivalente, si veda L. D’Agostino e G. Melis, Il decreto fiscale crea una confisca sproporzionata, in Il Sole 24 Ore del 20 novembre 2019. (65) Cfr. Cass., SS.UU., sentenza n. 920/2004, Cass. n. 45105/2019. (66) Cfr. A. Zappi, Manette agli evasori: quando si applica la confisca per sproporzione, in https://www.ipsoa.it/documents/fisco/sanzioni/quotidiano/2019/11/16/manette-evasoriapplica-confisca-sproporzione (67) Cfr. art. 39, comma 1-bis, del d.l. n. 124/2019, nel testo coordinato a seguito dell’approvazione della legge di conversione.


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e, solo successivamente, il legislatore ricolleghi ad esso l’operatività di una misura di sicurezza, secondo la consolidata giurisprudenza si ritiene che la misura di sicurezza possa ugualmente infliggersi al suo autore (68), seppure con il limite temporale sopra richiamato. In ogni caso, come sopra accennato, stante l’anzidetta natura, così come affermata dalla consolidata giurisprudenza, la misura in discorso – la cui applicazione non pare limitata dalla legge di conversione del decreto fiscale sopra richiamato – sembra destinata ad estendere i propri effetti al patrimonio storico del destinatario, potendo la confisca in parola essere disposta anche in relazione a beni acquisiti in epoca anteriore all’entrata in vigore delle disposizioni che l’hanno istituita o che l’hanno estesa (69). Talché il prevenuto sarà tenuto a giustificare la provenienza di beni in precedenza acquisiti e, dunque, con una discutibile inversione dell’onere della prova ora posto in capo al medesimo destinatario della misura, con la sola eccezione, invero del tutto indeterminata, di acquisti risalenti ad epoca assai lontana dalla commissione del reato. Sicché, inevitabilmente, si finisce con l’ammettere la presunzione secondo cui il prevenuto abbia commesso non solo il delitto che ha originato la condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone (70), tanto è vero che si suole giustificare una simile misura con il brocardo: “poca pena, poca prova”, cui andrebbe aggiunta l’espressione: “poche garanzie”. Insomma, volendo cominciare a tirare le fila del discorso sin qui svolto in tema di confisca di prevenzione, a noi pare che, allorquando la misura in parola perda il suo fondato ancoraggio rispetto ai proventi del reato per, diversamente, in tutto, o anche solo in parte, colpire un patrimonio lecitamente acquisito, ovvero lecitamente formatosi nel corso degli anni, allora essa finisce per dismettere i panni della misura di sicurezza patrimoniale per vestirsi degli

(68) Cfr. Cass., Sez. I, 11 marzo 2005, n. 13039; Cass., Sez. I, 1 marzo 2006, n. 9269; Cass., Sez. I, 19 maggio 1999, n. 3717. (69) Cfr. Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Servizio Penale, Relazione n. 3/20, cit., 16, ove i richiami a Cass., Sez. II, 12 ottobre 2018, n. 56374 e a Cass., Sez. VI, 11 ottobre 2012, n. 10887. (70) Cfr. L. D’Agostino e G. Melis, Il decreto fiscale crea una confisca sproporzionata, op. ult. cit., i quali richiamano Corte cost. n. 33/2018 che, per parte sua, pur dichiarando non fondata la relativa questione di legittimità costituzionale, dà conto della diffusa tendenza ad introdurre speciali tipologie di confisca, caratterizzate sia da un allentamento del rapporto tra l’oggetto dell’ablazione e il singolo reato, sia, soprattutto, da un affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa.


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abiti della sanzione punitiva, ovvero di una qualche (non meglio precisata) misura giuridica civile o amministrativa, comunque volta a limitare il diritto di proprietà sui beni di cui è affermata l’illecita acquisizione. Ora, a prescindere dalla preferenza per la prima ovvero per la seconda delle opzioni ricostruttive appena accennate (71), pare a chi scrive che – in entrambi i casi – il relativo procedimento debba comunque caratterizzarsi per il riconoscimento di garanzie, più o meno intense a seconda della scelta per la prima o la seconda opzione, non potendo l’ordinamento in alcun modo tollerare l’applicazione di misure di ablazione patrimoniale non giustificate da ragioni di carattere sanzionatorio, siano esse disposte all’esito di un procedimento giudiziario celebrato con le garanzie – costituzionali e convenzionali – (di tipo “forte”) (72), tipiche del processo penale (73), ovvero con le garanzie (di tipo “meno forte”) (74), proprie del processo civile o amministrativo (75). A quest’ultimo riguardo, proprio con riferimento all’esperienza amministrativa (76), è appena il caso di segnalare che, con riferimento alle misure interdittive antimafia, nonostante la giurisprudenza ne ricostruisca la natura giuridica come, sotto il profilo formale, non avente carattere sanzionatorio, essa ne valorizza comunque il contenuto (sostanzialmente) afflittivo per il privato in merito all’esercizio della propria libertà economica, in guisa tale da condurre (seppur per altra strada) alla verifica di compatibilità con l’art. 6, par. 1, del Trattato Edu, la cui previsione – come noto – è suscettibile di essere estesa, in relazione al profilo dell’incidenza sui diritti civili, anche ai procedimenti amministrativi che abbiano come risultato la compressione di situazioni soggettive di carattere civilistico (77). Ancora,

(71) Su cui si vedano le considerazioni svolte svolte da F. Viganò e A. Alessandri, nel corso del Seminario n. 1, su Lo statuto costituzionale e convenzionale della confisca, tenutosi presso l’Università Bocconi in data 6 giugno 2017 e reperibili all’indirizzo: https://archiviodpc. dirittopenaleuomo.org/d/5448-lo-statuto-costituzionale-e-convenzionale-della-confisca--seminario-n-1-alberto-alessandri-e-franc. (72) Secondo la logica del c.d. “al di là di ogni ragionevole dubbio”. (73) Tra cui il principio di legalità, quello dell’equo processo e quello della proporzionalità della sanzione. (74) Secondo la logica del c.d. “più probabile che non”. (75) Tra cui tutte quelle garanzie, costituzionali e convenzionali, che tutelano il diritto di proprietà. (76) Ex multis, Cons. Stato , Sez. III, 4 aprile 2017, n. 1559. (77) Si osserva che “il criterio dell’idoneità dei provvedimenti amministrativi a incidere in modo decisivo su posizioni soggettive degli individui ha consentito alla Corte europea dei diritti dell’uomo di far rientrare nel campo di applicazione dell’art. 6, sotto l’aspetto “civile”,


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sempre con riferimento alla misura appena richiamata, non si dica che essa sia frutto di una valutazione meramente discrezionale del prefetto se è vero, come è vero, che la più recente giurisprudenza intende la discrezionalità alla stregua di un equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica (78). Talché non sembri inopportuno il parallelo fra l’interdittiva antimafia e la questione che ci occupa se è vero che il giudizio – di tipo prognostico – richiesto all’autorità prefettizia implica un tipo di valutazione (secondo la regola del id quod plerumque accidit) che al dato statistico o meramente sintomatico associ una verifica – magari all’esito di una fase di accertamento in contraddittorio (79)

numerose vertenze di regola qualificate come pubblicistiche negli ordinamenti degli Stati membri”. Così, Miriam Allena, La rilevanza dell’art. 6, par. 1, CEDU per il procedimento e il processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 601; Id., Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012. Peraltro, con riferimento al solo settore tributario, la bibliografia è rilevantisima. Senza alcuna pretesa di esaustività è appena il caso di richiamare: A.A. Ferrario, La Convenzione europea dei “diritti dell’uomo” ed il diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2002, II, 227 e ss., nota a Corte CEDU, 12 luglio 2001, Case of Ferrazzini vs. Italian Republic; P. van der Broek, Taxation and the European Convention on Human Rights in European taxation, 1985, vol. 25, n. 12, 344 e ss.; S. Frommel, The European Court of Human Rights and the right of the Accused to Remain silent: can it be invoked by taxpayers?, in British tax review, 1994, 598-634; M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario europeo: applicazioni e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Riv. Dir. Trib., 2002, 529 e ss.; F. Gallo, Verso un giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2003, 11 e ss.; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2004, 11 e ss.; G. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 11 e ss.; A. Marcheselli, in AA.VV., Giusto processo e riti speciali, Milano, 2009, 322-333; L. Del Federico, I principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in materia tributaria, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2010, 206 ss. (78) Cons. Stato, sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105. (79) Cfr. TAR Bari, ord., 20 gennaio 2020, n. 28, con la quale è stata rimessa alla Corte di Giustizia la questione della compatibilità degli artt. 91, 92 e 93 del Codice antimafia con le disposizioni di rango comunitario tra cui, in particolare, il diritto a una buona amministrazione sancito dall’art. 41 della la Carta fondamentale dei diritti dell’uomo, rispetto al del quale un ruolo centrale è svolto non a caso dal principio audi alteram partem, in quanto il principio del contraddittorio, quale espressione fondamentale di civiltà giuridica europea, appartiene, oltretutto, al catalogo dei principi generali del Diritto dell’Unione in base all’art. 6, par. 3 del Trattato sull’Unione Europea, a mente del quale “i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”, sul punto si veda F. Figorilli, La controversa natura delle interdittive antimafia, in Scritti in onore di Franco Scoca, in corso di pubblicazione, 18 s. del dattiloscritto. Tuttavia deve osservarsi che, sul punto specifico, il Consiglio di Stato ha prontamente negato la sussistenza di qualsivoglia contrasto tra la disciplina italiana e le disposizioni convenzionali di natura comunitaria ed, in particolare, con quelle volte ad


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– delle specifiche circostanze indizianti, non dissimilmente da ciò che il giudice penale (con la garanzia del contraddittorio e del doppio grado) compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali (80). In conclusione, ritornando alle procedure concorsuali e, in particolare, al concordato preventivo, nei rapporti con il sequestro e la confisca per reati tributari, si annunciano a dir poco problematiche, in primo luogo, tutte quelle ipotesi di sistemazione dell’esposizione debitoria di imprese societarie che facciano perno sull’apporto di risorse da parte di terzi (tra cui lo stesso legale rappresentante), i cui beni siano stati medio tempore sottoposti a confisca per sproporzione, ancorché la violazione sia stata commessa dalla società e i beni sottoposti a misura siano stati (dall’amministratore) lecitamente acquisiti, anche anteriormente alla commissione della contestata violazione. Insomma, in definitiva, sebbene il nuovo codice della crisi d’impresa abbia in qualche modo disciplinato i rapporti tra misure patrimoniali e fallimento, il contenzioso che comunque deriverà dall’intersezione tra sequestro e confisca per reati tributari e procedure concorsuali continuerà, inevitabilmente, ad essere rimesso all’opera di composizione della giurisprudenza cui, cum grano salis, spetterà considerare non solo l’interesse fiscale ma anche i diritti del contribuente e, più in generale, i diritti della persona prevenuta. Peraltro, è da auspicare che il recente differimento della data di entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa al 1° settembre 2021 (81) possa costituire l’occasione per indurre il legislatore a più approfonditamente meditare sui profili maggiormente problematici del testo legislativo in parola, nonché delle disposizioni che disciplinano la confisca, anche nella sua modalità allargata o per sproporzione, all’esclusivo fine di raggiungere soluzioni più equilibrate e rispettose dei diritti (anche) dei soggetti prevenuti.

Simone Francesco Cociani

assicurare il diritto alla buona amministrazione così come declinato dall’art. 41 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a tal fine richiamando espressamente alcune recenti prese di posizione della Corte di Giustizia (cfr. Corte di Giustizia UE, 9 novembre 2017, in C-298/16, § 35). Così, Cons. Stato, sez. III, 31 gennaio 2020, n. 820. (80) Cons. Stato, sez. III, 2 gennaio 2020, n. 2. (81) Ad opera dell’art. 5 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23.


Crisi di liquidità e reati tributari: l’omesso versamento dell’Iva alla vigilia dell’entrata in vigore del Codice della crisi* Sommario: 1. Premessa. – 2. Il delitto di omesso versamento dell’Iva dichiarata:

lineamenti generali della fattispecie. – 3. Omesso versamento e crisi di liquidità: i limiti della questione. – 4. La posizione delle Sezioni Unite: l’obbligo di “accantonare” l’Iva riscossa sulle operazioni attive. – 5. L’omesso versamento dell’Iva nell’impresa in crisi, tra bancarotta semplice e bancarotta preferenziale. – 6. Codice della crisi e procedure di allerta. – 7. Riflessioni conclusive: l’impatto del Codice della crisi sulla fattispecie prevista dall’art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000. L’entrata in vigore del Codice della crisi comporterà, verosimilmente, la tempestiva emersione di molti casi di difficoltà o di impossibilità di versare l’imposta sul valore aggiunto, facendoli confluire in forme di gestione sorvegliata della crisi d’impresa. Ciò si riverbererà, molto probabilmente, sulla sfera applicativa dell’art. 10-ter, D.Lgs. n. 74/2000 in quanto gran parte dei fenomeni di inadempimento alle obbligazioni derivanti dall’imposta sul valore aggiunto troverà soluzione nell’ambito del Codice della crisi prima ancora che venga a scadenza il termine previsto dalla fattispecie penale tributaria. The entry into force of the “Codice della crisi e dell’insolvenza” will cause, likely, the early emergence of many cases of difficulty and impossibility to pay the VAT (IVA). In fact, many of these cases will flow into the supervised management of the company crisis. This will have an effect, most likely, on the application of the Article 10-ter, D.Lgs. nr. 74/2000, considering that most of the default phenomena of the obligations accruing from VAT will find a solution under the application of the “Codice della crisi e dell’insolvenza”, even before that the term of the tax criminal matter expires.

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Il presente scritto è destinato agli Studi in onore di Alessio Lanzi.


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1. Premessa. – Affrontare il tema della crisi di liquidità nell’ambito del diritto penale tributario significa, sostanzialmente, occuparsi di una delle questioni più delicate che pone l’applicazione del D.Lgs. n. 74/2000, ossia delimitare il perimetro applicativo del delitto di omesso versamento dell’Iva allorquando tale omissione venga ad essere in qualche modo influenzata da uno stato di crisi del contribuente. Il tema è noto, tanto da essere già stato oggetto di due “sentenze gemelle” delle Sezioni Unite della Cassazione (1), ma nonostante ciò alimenta ancora applicazioni giurisprudenziali tutt’altro che uniformi della fattispecie penale tributaria (2), il che giustifica – di per sé – un approfondimento della questione (3). Ma vi è di più, in quanto l’approvazione e la (probabile?)

(1) Cass., SS.UU., 28-3-2013 (dep. 12-9-2013), nn. 37424 e 37425, in Riv. dir. trib., 2013, III, 207, con nota di Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, ivi, 253. Si veda anche il commento a tali pronunce di Ciraulo, La punibilità degli omessi versamenti dell’Iva e delle ritenute certificate nella lettura delle Sezioni Unite, in Cass. pen. 2014, 66. Nello stesso solco, cfr. Cass., sez. III, 19-12-2013 (dep. 28-1-2014), n. 3705, e Cass., sez. III, 5-12-2013 (dep. 4-22014), n. 5467, ambedue Il fisco, 2014, 792, con Commento di Santoriello; Cass., sez. III, 17-1-2013 (dep. 28-2-2013), n. 9578, Riv.dir.trib., 2013, III, 36, con nota di Coaloa, Omesso versamento Iva e illiquidità, ivi, 41. Cfr. altresì, in merito all’onere probatorio necessario per escludere la sussistenza di responsabilità penale, Cass., sez. III, 6-2-2014 (dep. 3-4-2014), e Cass., sez. III, 8-1-2014 (dep. 4-4-2014), entrambe Il fisco, 2014, 1778, con Commento di Borgoglio. (2) Si vedano, ad esempio, GIP Roma, 26-1-2011, www.iusexplorer.it; GIP Firenze, 12-82012, Riv. pen., 2012, 1261; GIP Milano, 7-1-2013, www.penalecontemporaneo.it, 25 gennaio 2013; GIP Milano, 19-9-2012, www.penalecontemporaneo.it, 25 marzo 2013; Trib. Milano, 28-4-2011, www.penalecontemporaneo.it, 30 settembre 2011; Trib. Novara, 20-3-2013, www. ilcaso.it, 2 maggio 2013; Trib. Vigevano, 11-4-2013, n. 286, Riv.pen., 2014, 318 ss., con nota di Miglio-Ferri, Illiquidità involontaria dell’impresa e omesso versamento di IVA e di ritenute certificate: la non punibilità dell’impresa all’epoca della crisi economica, in Riv. pen., 2014, fasc. 3, 318 ss.; GIP Trento, 12-12-2012, www.magistraturademocratica.it; Trib. Chieti, 2-122014, www.ilcaso.it, 28 gennaio 2015; Trib. Campobasso, 14-1-2014, n. 12, www.iusexplorer. it; Trib. Bologna, 13-6-2013, www.magistraturademocratica.it; Trib. Roma, 7-5-2013, e Trib. Roma, 12-6-2013, entrambe www.penalecontemporaneo.it, con nota di Soana, Crisi di liquidità del contribuente ed omesso versamento di ritenute e di IVA (artt. 10-bis e 10-ter D.Lgs. 74/2000). Qualche apertura, nella giurisprudenza di legittimità, anche in Cass., sez. III, 21-12015 (dep. 19-2-2015), Le società, 2015, 1156, con Commento di Amarelli; Cass., sez. III, 17-7-2014 (dep. 5-5-2015), Il fisco, 2015, 2179, con Commento di Santoriello; Cass., sez. III, 8-4-2014 (dep. 26-6-2014), in Dir. pen. processo, 2014, 813. (3) In argomento, cfr. Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, II ed., Milano, 2017, 446 ss.; Zunica-Gentili, I delitti di occultamento, omesso versamento e indebita compensazione, in Aa.Vv., La disciplina penale in materia d’imposte dirette e I.V.A., a cura di Scarcella, Torino, 2019, 236 ss.


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imminente entrata in vigore del Codice della crisi pare foriera di non marginali ripercussioni su di un tessuto normativo già di non semplice lettura, crocevia di norme tributarie e di precetti penali non sempre di facile coordinamento. Vi è quanto basta per ritenere che una delle fattispecie penali tributarie già più frequentate dalla prassi (4) si avvii, forse un po’ inaspettatamente, a divenire un interessante banco di prova proprio per l’incipiente riforma del diritto della crisi d’impresa. Tuttavia, prima di entrare in medias res, vale la pena ripercorrere – seppur per sommi capi – quelli che sono i lineamenti della fattispecie penale tributaria, premessa indispensabile per poter poi procedere ad affrontare le questioni che si pongono allorquando il contribuente precipiti in una crisi di liquidità. 2. Il delitto di omesso versamento dell’Iva dichiarata: lineamenti generali della fattispecie. – Nel luglio del 2006 il legislatore ritenne di intervenire sul sistema penale tributario introducendo due, nuove, fattispecie incriminatrici. Ed infatti, con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, vennero aggiunti gli artt. 10-ter e 10-quater al testo del D.Lgs. n. 74/2000. Tali articoli contengono altrettante figure di reato che, per molti versi, possono essere assimilate al delitto di cui all’art. 10 bis del medesimo Decreto, a propria volta introdotto nel 2004, ossia a quattro anni di distanza dalla complessiva riforma del diritto penale tributario che si ebbe nel 2000 con il citato Decreto n. 74. La tecnica legislativa che, in un primo momento, fu adottata per descrivere la fattispecie non fu affatto apprezzabile, visto il rinvio all’art. 10-bis e, quindi, la tipizzazione per relationem di buona parte del fatto di reato. Su tale profilo intervenne il legislatore del 2015 che, con l’art. 8 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, riscrisse la fattispecie dotandola, anche sotto il profilo descrittivo, di una sua autonomia precettiva. Del pari, la soglia di punibilità – in precedenza collocata ad euro cinquantamila di Iva non versata – fu significativamente innalzata, fino a raggiungere la vetta di euro duecentocinquantamila di imposta sul valore aggiunto non corrisposta (5). Evidente fu l’impatto di tale modifica, e ciò

(4) Stando ai dati annualmente forniti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano attraverso il suo Bilancio di responsabilità sociale, nel 2017 vi sono stati 348 nuovi fascicoli relativi alla fattispecie di reato prevista dall’art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000. Tale grandezza, nel 2015, era pari ad oltre il doppio, ossia a 878 nuovi fascicoli. (5) Per la ritenuta incompatibilità di una tale soglia con la normativa europea che governa


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non solo rispetto ai fatti di successiva commissione ma anche sotto il profilo dell’abolitio criminis delle precedenti omissioni (6). Di certo, ci troviamo al cospetto di un reato proprio (7) che può essere commesso unicamente da chi abbia maturato un debito Iva superiore (oggi) a duecentocinquantamila euro, atteso che al di sotto di tale soglia l’omesso versamento non risulta punibile. La condotta è di tipo misto (8), presentando un primo frammento attivo ed una seconda parte squisitamente omissiva. Il segmento attivo della condotta consiste nella presentazione di una dichiarazione Iva che denunci un debito d’imposta superiore ai duecentocinquantamila euro. Naturalmente, una tale dichiarazione ben potrebbe, a propria volta, essere non conforme a verità e, quindi, integrare anche gli estremi dei delitti previsti dagli artt. 2, 3 o 4 del Decreto n. 74/2000 che, in una tale situazione, finirebbero con il concorrere con l’ipotesi in esame. Essenziale, ai fini della norma in commento, è quindi che il debito inadempiuto ma risultante dalla dichiarazione superi comunque la citata somma di duecentocinquantamila euro. La parte omissiva della condotta, invece, si sostanzia nel mancato pagamento del debito dichiarato. Fuori dall’ambito applicativo dell’art. 10-ter, quindi, rimangono sia i casi in cui la dichiarazione presentata non sia conforme a verità ma venga versato tutto quanto è stato dichiarato, ancorché falsamente, e sia i casi di

l’imposta sul valore aggiunto, cfr. l’ordinanza di rimessione della questione alla CGCE di Trib. Varese, 30 ottobre 2015, sulla quale si veda Amadeo, sub art. 13, in Aa.Vv., La riforma dei reati tributari, a cura di Nocerino-Putinati, Torino, 2015, 334 ss. Sul punto si è pronunciata la Corte di Giustizia, con sentenza 2 maggio 2018, causa C-574/15, la quale ha ritenuto la normativa italiana del tutto compatibile con la disciplina comunitaria: cfr., in argomento, Zunica-Gentili, I delitti di occultamento, omesso versamento e indebita compensazione, cit., 251 s. (6) E cfr., in questo senso, Cass., 16-12-2015, n. 2024. (7) Cernuto-D’Arcangelo, I reati omissivi e di indebita compensazione, in Aa.Vv., La nuova giustizia penale tributaria, a cura di Giarda-Perini-Varraso, Milano, 2016, 383; Monticelli, sub art. 10 ter, in Aa.Vv., La riforma dei reati tributari, a cura di NocerinoPutinati, cit., 216; Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 346; Martini, Reati in materia di finanze e tributi, Milano, 2010, 607; Musco-Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2013, 285; Rossi, Omesso versamento Iva ed indebita compensazione. Artt. 10 ter e 10 quater del d.lg. n. 74/2000 ex d.l. n. 223/2006, in Il fisco, 2006, 4879; Zunica-Gentili, I delitti di occultamento, omesso versamento e indebita compensazione, cit., 249. (8) Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 346; Monticelli, sub art. 10 ter, cit., 219.


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omessa presentazione della dichiarazione, eventualmente destinati a confluire nell’alveo dell’art. 5 (9). La norma, poi, prende in considerazione esclusivamente l’imposta sul valore aggiunto: rimane, così, fuori dalla sfera applicativa della fattispecie l’omesso versamento delle imposte dirette dichiarate. Come si può rilevare, da una tale opzione di politica legislativa affiora nitidamente il vero imprinting della norma, inequivocabilmente sorta per contrastare le c.d. “frodi carosello”, ossia forme di evasione fiscale che hanno (di regola) nell’imposta sul valore aggiunto la “vittima” predestinata. Ciò perlomeno se ci si sofferma sui modelli – per così dire – “tradizionali” di frode (10). Come si è accennato, la norma prevede una soglia di punibilità di duecentocinquantamila euro che riterremmo assuma i connotati dell’elemento costitutivo del reato (11). Per verificare il superamento di tale soglia occorrerà determinare l’imposta sul valore aggiunto non versata dal contribuente e, quindi, si dovranno detrarre dal debito risultante dalla dichiarazione gli eventuali versamenti periodici (mensili o trimestrali) comunque effettuati dal contribuente. Se, quindi, dovesse risultare – ad esempio – un’imposta complessivamente a debito di 270.000 euro ma il contribuente avesse effettuato versamenti periodici di ammontare pari a 25.000 euro, la soglia di punibilità non sarebbe superata. A differenza di altri delitti tributari, la fattispecie in questione non prevede un particolare atteggiamento psicologico del contribuente, dando vita ad un delitto contrassegnato da dolo generico (12). Nel fuoco del dolo, quindi, dovranno ricadere sia la presentazione della dichiarazione sia l’omissione del versamento, ossia vi dovrà essere la consapevolezza dell’avvenuto decorso

(9) Cfr. Rossi, Omesso versamento Iva ed indebita compensazione, cit., 4879. (10) Per tutti, sul tema, Monticelli, sub art. 10 ter, cit., 207; Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 337 ss., ove ulteriori riferimenti. Sia consentito, altresì, fare rinvio a Perini, Frodi Iva e bancarotta fraudolenta patrimoniale: limiti della normativa penale tributaria e “supplenza” del diritto penale fallimentare, in Dir. pen. processo, 2007, 231. (11) Nello stesso senso Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 348. Nella giurisprudenza, Cass., sez. III, 4-2-2016, n. 12912, U.M. (12) Monticelli, sub art. 10 ter, cit., 229; Martini, Reati in materia di finanze e tributi, cit., 615; Rossi, Omesso versamento Iva ed indebita compensazione, cit., 4879; ZunicaGentili, I delitti di occultamento, omesso versamento e indebita compensazione, cit., 235. Nella giurisprudenza, limitandoci a quella più recente, cfr. Cass., sez. III, 12-12-2018, n. 7644, Porta, Il fisco, 2019, 1168 ss., con nota di Santoriello; Cass., sez. III, 10-5-2018, n. 38715, Bartolomei.


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del termine annuale di versamento dell’imposta a debito, accompagnato dalla rappresentazione del mancato versamento. In coerenza con la natura di elemento costitutivo riconosciuta alla soglia di punibilità, occorre ritenere che nell’oggetto del dolo rientri anche il quantum di imposta non versata. Dunque, oggetto di rappresentazione dovrà essere, perlomeno, il fatto che tale imposta abbia superato la soglia dei duecentocinquantamila euro. Si noti che non assumono rilevanza penale le eventuali omissioni di versamenti periodici dell’Iva, con il che risulterebbe atipico anche l’eventuale omesso versamento di Iva mensile o trimestrale di importo superiore alla soglia di punibilità. Ciò che rileva, infatti, è il decorrere del termine di pagamento dell’Iva annuale, fissato espressamente dal legislatore nella scadenza prevista per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo. Tale termine si colloca negli ultimi giorni di dicembre del periodo d’imposta successivo: ad esempio, il debito Iva risultante dalla dichiarazione 2005 aveva nel 27 dicembre 2006 il termine ultimo di versamento (13). Tale scadenza segna, così, il momento consumativo del reato. È questo un profilo di particolare interesse sul quale occorrerà tornare in seguito in quanto, com’è agevole constatare, la fattispecie penale trova consumazione in epoca assai successiva rispetto allo scadere degli obblighi di versamento periodico dell’Iva: se un soggetto (ipotizzando una liquidazione mensile dell’Iva, come avviene per i contribuenti di maggiori dimensioni) si trova nell’impossibilità, per carenza di liquidità, di far fronte al versamento dell’Iva dovuta, ad esempio per il mese di marzo o aprile di un determinato periodo d’imposta, ebbene un tale inadempimento (sempre che superi la soglia di punibilità) sarà suscettibile di assumere rilevanza penale solo a distanza di oltre un anno e mezzo (fine del periodo d’imposta successivo) dal suo manifestarsi. Dunque, ed è questa una prima considerazione dotata di un certo peso specifico, l’integrazione della fattispecie prevista dall’art. 10-ter in un contesto di crisi di liquidità presuppone non solo la sussistenza di un tale

(13) Mastrogiacomo, Le novità penali del d.l. n. 223 del 4-7-2006, in Il fisco, 2006, 4696; Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 347; Musco-Ardito, Diritto penale tributario, cit., 289; Caraccioli, Il reato di omesso versamento Iva non si applica alla dichiarazione 2005, in Il fisco, 2006, 6703, al quale si rinvia anche per le questioni sorte attorno all’applicabilità della novella fattispecie alle dichiarazioni Iva relative al periodo d’imposta 2005. Nello stesso senso altresì la circ. dell’Agenzia delle Entrate 28/E del 2 agosto 2006 e, nella giurisprudenza, Cass., 14-10-2010, n. 38619, CED, 2010, 248626; Cass., 14-1-2010, n. 6293, in Riv. dir. trib., 2010, IV, 72.


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stato di crisi, sotto il profilo qualitativo, ma anche, sotto il profilo temporale, il protrarsi di una tale situazione per un lasso di tempo – di regola – persino superiore all’anno. Ma, come si diceva, è questo un profilo che occorrerà riprendere in seguito. 3. Omesso versamento e crisi di liquidità: i limiti della questione. – Come si accennava, un delicato profilo applicativo che si è posto di frequente nella prassi attiene ad omessi versamenti di Iva che risultano in qualche misura – per così dire – “necessitati” da una situazione di sopravvenuta crisi di liquidità del contribuente. Si tratta, in altri termini, di situazioni nelle quali il contribuente omette di far fronte ai propri obblighi in materia di Iva in quanto privo della necessaria liquidità per provvedere al versamento di quanto dovuto. Onde evitare fraintendimenti, è bene delimitare fin da subito i contorni di tale fenomeno, così da individuare nel modo più preciso possibile i confini degli inadempimenti che davvero si pongono come problematici. Per far ciò occorre sgombrare subitamente il campo da tutte quelle situazioni nelle quali la carenza di liquidità sia solo temporanea o, comunque, rimediabile attraverso il ricorso a finanziamenti bancari o, al limite, persino all’alienazione di cespiti non strategici per il contribuente, vale a dire asset la cui cessione non sia tale da poter dar luogo a forme di adempimento da ritenersi “anomalo” ai sensi dell’art. 5 L.F. o, addirittura, da porre in pericolo la continuità aziendale. Detto diversamente, è chiaro che la semplice presa d’atto che il saldo dei conti bancari del contribuente (comprensivo dei fidi in essere) non è capiente rispetto al debito Iva scaturente dalla dichiarazione annuale non rappresenta ancora una circostanza fattuale capace, di per sé, di rivelare la sussistenza di una vera e propria impotenza finanziaria del contribuente stesso. Verrebbe da dire che un tale scenario sia (verosimilmente) una circostanza necessaria ma non ancora sufficiente per poter affermare che il contribuente si trovi in una situazione di crisi finanziaria tale da essere impossibilitato a fronteggiare il proprio debito Iva. In un contesto di solvibilità del contribuente, intesa come possibilità –quantomeno – di ricorrere al credito, l’omesso versamento dell’Iva, nei tempi previsti dalla norma, è senza dubbio fonte di responsabilità penale (14).

(14) Ad esempio, Cass., sez. III, 21-3-2019, n. 23796, Minardi, fa riferimento alla possibilità per il contribuente di ricorrere a finanziamenti bancari, anche giovandosi di eventuali garanzie fornite a livello di gruppo.


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Sul punto, diremmo, nulla quaestio. Ciò posto, occorre ora riprendere un tema dianzi accennato, relativo alle modalità con le quali, periodicamente, viene ad essere assolto il debito Iva. Com’è noto, il debito Iva scaturisce dal differenziale tra imposta a credito ed imposta a debito che viene a maturare durante lo svolgimento di attività rilevanti ai fini di tale imposta (quali, rimanendo su di un piano molto superficiale ed esemplificativo, attività d’impresa o esercizio di attività professionali). Tale differenziale viene ad essere calcolato con periodicità mensile (15) o, su opzione esercitabile da parte dei contribuenti di minori dimensioni, con cadenza trimestrale (16). In tal guisa, la presentazione della dichiarazione annuale Iva rappresenta il momento nel quale, in un contesto fisiologico, trovano riepilogazione tutti i versamenti effettuati periodicamente dal contribuente e, quindi, si provvede al versamento dell’eventuale differenziale residuo. In sostanza, può dirsi che – di regola – il versamento dell’Iva avviene con una cadenza periodica alquanto ravvicinata, nel corso del medesimo periodo d’imposta. Quindi, il momento consumativo del delitto in questione, coincidente – come si è visto – con la scadenza del termine per il versamento dell’acconto Iva relativo al successivo periodo d’imposta, si colloca non solo a distanza temporale di qualche mese dalla presentazione della

(15) In merito alla liquidazione dell’Iva, si rammenta che l’art. 1, co. 1, D.P.R. 23 marzo 1998, n. 100, prescrive che: “entro il giorno sedici di ciascun mese, il contribuente determina la differenza tra l’ammontare complessivo dell’imposta sul valore aggiunto esigibile nel mese precedente, risultante dalle annotazioni eseguite o da eseguire nei registri relativi alle fatture emesse o ai corrispettivi delle operazioni imponibili, e quello dell’imposta, risultante dalle annotazioni eseguite, nei registri relativi ai beni ed ai servizi acquistati, sulla base dei documenti di acquisto di cui è in possesso e per i quali il diritto alla detrazione viene esercitato nello stesso mese ai sensi dell’articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633. Entro il medesimo termine di cui al periodo precedente può essere esercitato il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai documenti di acquisto ricevuti e annotati entro il quindici del mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione, fatta eccezione per i documenti di acquisto relativi ad operazioni effettuate nell’anno precedente. Il contribuente, qualora richiesto dagli organi dell’Amministrazione finanziaria, fornisce gli elementi in base ai quali ha operato la liquidazione periodica”. (16) Si precisa, infatti, che i contribuenti che nell’anno solare precedente hanno realizzato un volume d’affari non superiore ad euro 309.874,14 per le imprese aventi per oggetto prestazioni di servizi e per gli esercenti arti e professioni, ovvero di euro 516.456,90, per le imprese aventi per oggetto altre attività, possono effettuare le liquidazioni periodiche di cui al predetto art. 1, co. 1, D.P.R. n. 100/1998 e dei relativi versamenti dell’imposta entro il sedici del secondo mese successivo a ciascuno dei primi tre trimestri solari.


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dichiarazione annuale Iva (17) ma, più significativamente, ad un’apprezzabile distanza temporale da quando sono stati omessi i versamenti periodici che il contribuente avrebbe dovuto effettuare durante il periodo d’imposta. Breve: nella generalità dei casi, se davvero il contribuente si trova in una situazione di impossibilità di adempiere alla propria obbligazione Iva nel termine previsto dall’art. 10 ter, allora occorrerà ritenere che una tale situazione si stia protraendo da numerosi mesi e, probabilmente, persino da più di un anno. Diversamente, infatti, il contribuente in questione avrebbe avuto la liquidità necessaria per far fronte tempestivamente alle liquidazioni periodiche Iva o, al più, avrebbe potuto porre rimedio alla situazione versando il dovuto in sede di presentazione della dichiarazione annuale, adempimento di regola antecedente di oltre sei mesi (stanti le scadenze previste negli ultimi anni) rispetto al momento consumativo del delitto in esame. Ora, è ben vero che, a livello di fattispecie penale, dovrebbe essere del tutto irrilevante, in un’ipotesi (parzialmente) omissiva, l’aliud agere del contribuente (18): quindi, l’interprete si dovrebbe disinteressare, ad esempio, del fatto che il contribuente abbia omesso di effettuare i versamenti periodici Iva, pur avendo la liquidità per farlo, confidando di poter elidere in toto il proprio debito Iva un istante prima della scadenza prevista dalla norma penale. A rilevare dovrebbe essere esclusivamente ciò che è accaduto nel momento dell’omissione e, quindi, allorquando è spirato il termine previsto dalla norma penale, di talché il giudizio di possibilità o impossibilità di adempiere dovrebbe essere formulato avendo a riferimento unicamente il quadro fattuale presente in quell’istante (19). Di certo, una tale osservazione è destinata a cogliere nel segno, ricostruendo in modo corretto, aderente alla sintassi penale, i confini dell’omissione tipica. Nondimeno, sotto il profilo prasseologico, non ci pare azzardato affermare che siffatte situazioni, di volontario e deliberato inadempimento ai versamenti periodici poi seguite da un’assoluta impossibilità di adempiere, repentinamente manifestatasi solo nell’immediatezza del termine previsto dall’art. 10 ter,

(17) Presentazione che deve essere effettuata – attualmente – nel periodo compreso tra il 1° febbraio ed il 30 aprile. (18) In merito all’irrilevanza dell’aliud agere nei reati omissivi, per tutti, Giuliani Balestrino, Aspetti del tentativo nei delitti di omissione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1977, 435 ss. (19) In argomento (affrontando il tema sotto il profilo dell’ammissibilità del tentativo nei reati omissivi propri), per tutti, Cadoppi, Il reato omissivo proprio, vol. II, Padova, 1988, 926 ss. Romano, Commentario sistematico del Codice penale, III ed., Milano, 2004, 597-598.


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possano essere relegate ad autentici casi di scuola sui quali, in questa sede, probabilmente non vale la pena soffermare l’attenzione. Più feconda, invece, appare l’analisi di ciò che certamente costituisce l’id quod plerumque accidit, ossia il già tratteggiato scenario nel quale lo spirare della scadenza imposta dalla norma penale altro non sia se non lo scadere di un ulteriore termine che, tuttavia, ha già visto, a monte, decorrere vanamente altre scadenze previste per il regolare adempimento degli obblighi Iva. Il tutto in un contesto nel quale sussiste e perdura una oggettiva impossibilità, per il contribuente, di procurarsi la liquidità necessaria per versare l’imposta a debito maturata. Quid iuris in un siffatto scenario? 4. La posizione delle Sezioni Unite: l’obbligo di “accantonare” l’Iva riscossa sulle operazioni attive. – La giurisprudenza – specie quella di legittimità – non si è mai dimostrata particolarmente indulgente con i contribuenti che, avendo omesso di versare tempestivamente le ritenute o l’imposta sul valore aggiunto dovute, si siano difesi opponendo l’imprevedibile situazione di insolvenza della quale sarebbero stati vittime (20). Infatti, al di là di qualche sporadica apertura giurisprudenziale – soprattutto della giurisprudenza di merito (21) – già si è fatto cenno a come le Sezioni Unite della Cassazione si siano pronunciate affermando che il contribuente deve tenere accantonata l’imposta sul valore aggiunto riscossa dall’acquirente del bene o del servizio, “organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria” (22).

(20) Cfr., per tutti, Ambrosetti, I reati tributari, in Aa.Vv., Diritto penale dell’impresa, a cura di Ambrosetti-Mezzetti-Ronco, Bologna, 2016, 544; Monticelli, sub art. 10 ter, cit., 229 ss.; Alagna, Crisi di liquidità ed evasione da riscossione: itinerari di non punibilità per i reati di omesso versamento, in Aa.Vv., Profili critici del diritto penale tributario, a cura di Borsari, Padova, 2013, 215 ss.; Aldrovandi, Crisi aziendale e reati di omesso versamento dei tributi, tra inadeguatezza del dato normativo e “creatività” giurisprudenziale: una paradigmatica esemplificazione del difficile rapporto tra “law in the books” e “law in action”, in Indice pen., 2014, 505; Cuomo-Molino, Crisi economica e reati in materia tributaria e previdenziale, in Cass. pen., 2015, 84; Cardone-Pontieri, L’incidenza dell’illiquidità dell’impresa sui reati di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000, in Riv. dir. trib., 2013, III, 19. (21) Cfr. la precedente nota n. 2. (22) Cass., SS.UU., 28-3-2013 (dep. 12-9-2013), nn. 37424 e 37425, cit., con nota di Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, ivi, 253. Si vedano gli ulteriori riferimenti alla precedente nota n. 1.


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Si tratta, per vero, di un ordine di idee che non convince fino in fondo. Per un verso, infatti, non vi è dubbio che l’incasso dell’Iva proveniente dalle operazioni attive effettuate dal contribuente comporti un ingresso di tali sostanze nel patrimonio del contribuente stesso, nel quale si vanno a confondere. A sussistere, in un tale contesto, sarà l’obbligazione, gravante sul contribuente, di riversare tale imposta all’erario attraverso il descritto meccanismo della compensazione con l’imposta a credito e, quindi, con il versamento del saldo. È indubbio, tuttavia, che il quantum incassato dal contribuente a titolo di imposta non costituisca affatto una somma di denaro di cui è titolare l’erario e che, in questa prospettiva, sarebbe detenuta a titolo precario dal contribuente. Al contrario, come si osservava, si tratta di sostanze che divengono a pieno titolo parte del patrimonio del contribuente stesso, patrimonio sul quale viene a gravare, specularmente, un’obbligazione pecuniaria di entità pari all’imposta incassata (23).

Di recente, l’obbligo di “accantonamento” è stato affermato anche, ad esempio, da Cass., sez. III, 12-12-2018, n. 7644, Porta, cit.; Cass., sez. III, 21-3-2019, n. 23796, Minardi; Cass., sez. III, 10-5-2018, n. 38715, Bartolomei; Cass., sez. III, 23-1-2018, n. 38593, Del Stabile. (23) Con particolare riferimento alle ritenute d’imposta si è avuto modo di specificare che “è da ritenere rimanga valida la giurisprudenza che considera il sostituto d’imposta detentore di denaro proprio (in relazione al quale ha l’obbligazione di versamento a favore dell’Erario) e non detentore di denaro altrui: di conseguenza, il delitto di cui all’art. 10-bis non può essere considerato una forma di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) o di peculato (art. 314 c.p.) e il fatto del dipendente che, in ipotesi, si impossessi delle ritenute che doveva andare a versare in nome e per conto del datore di lavoro/sostituto d’imposta è delitto contro gli interessi patrimoniali di quest’ultimo e non contro gli interessi patrimoniali dello Stato-Erario e, pertanto, non può essere ricondotto alla fattispecie di cui all’art. 10-bis in esame”, cfr. Corso, Costituisce nuovamente delitto l’omesso versamento di ritenute, in Corr. trib., 2005, 263 e ss. Quanto poc’anzi evidenziato in merito alle ritenute d’imposta assume particolare rilevanza anche in relazione al versamento dell’Iva, così come specificato da Gullo, La rilevanza penale della dichiarazione del sostituto d’imposta, in Il fisco, 2013, 1-2420 e ss.: “si osservi che la situazione del sostituto è, senz’altro, sovrapponibile a quella del soggetto passivo Iva. È ben noto che l’imprenditore che emette fattura è obbligato a calcolare e poi (previo espletamento degli altri oneri e salvo diritto a detrazioni) a versare e, infine, a dichiarare l’imposta dovuta. Economicamente, però, quell’imposta non è riferita a una propria capacità contributiva, bensì alla capacità contributiva del consumatore finale, l’unico che nel rapporto tributario, non avendo diritto di rivalsa, rimane inciso dal tributo. Il soggetto passivo Iva è obbligato anch’esso per fatti riferibili ad altri. Le due figure sono sovrapponibili sotto più profili. L’Iva, per l’imprenditore, non è un costo. Allo stesso modo non lo è la ritenuta. In contabilità vengono entrambi rilevati, conseguentemente, come debiti e non come costi. Entrambi sono


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Dunque, non sembra sussistere alcun obbligo di “accantonare” l’imposta sul valore aggiunto riscossa a fronte di operazioni attive (24): non solo, infatti, non esiste alcuna norma che preveda un tale “accantonamento” ma, esattamente al contrario, si noti che l’obbligo di versare l’imposta sul valore aggiunto non consegue (di regola, almeno per le imprese) all’incasso della somma fatturata ma deriva dalla mera emissione della fattura. Quindi, l’obbligo di corrispondere all’erario l’Iva proveniente dalle operazioni attive scaturisce (in una rilevantissima parte di casi concreti) dalla semplice

due debiti propri del soggetto obbligato al versamento, che il sistema fiscale crea per fatti riferibili a terzi. Sostituto e soggetto passivo Iva hanno entrambi diritto di rivalsa. Nessuno è stato mai sfiorato dall’idea di affermare che i reati dichiarativi non sono attribuibili al soggetto passivo Iva, poiché questa non rappresenta un costo, ma solo una partita di giro finanziaria. Nessuno ritiene che l’imprenditore che non emette fattura al consumatore finale agisca al fine di consentire a terzi l’evasione (si pensi all’imprenditore edile in perdita – il quale non ha alcun interesse a ridurre le imposte sui redditi, già nulle – che per mettersi d’accordo con il cliente che gli chiede uno sconto gli offre o accetta la proposta di una fattura per un importo più basso: l’evasione da un punto di vista economico la compie il consumatore finale, ma giuridicamente è attribuita al soggetto passivo, il quale ha anche un interesse economico – poter vendere ad un prezzo più alto – per evitare di riscuotere e poi versare l’Iva). Ha un fine evasivo proprio, poiché giuridicamente è il titolare del rapporto obbligatorio, seppur riferito a fatti relativi a terzi (l’Iva economicamente è legata alla capacità contributiva del consumatore finale). L’evasione, così come è intesa sia dal legislatore tributario che dal legislatore penaltributario, è un fatto giuridico e non è legata necessariamente all’esistenza di un rapporto di coesistenza in capo allo stesso soggetto di capacità contributiva e obbligo tributario. Nel sistema fiscale sia le ritenute che l’Iva sono imposte pagate da terzi in sostituzione dei soggetti che hanno la capacità economica oggetto d’imposizione”. Pertanto, “i due reati contemplati negli artt. 10-bis e 10-ter non costituiscono ipotesi (speciali?) di appropriazione indebita, come già da tempo la migliore dottrina (e per vero anche la giurisprudenza) aveva condivisibilmente affermato” sanzionando “il semplice inadempimento di una obbligazione tributaria”, cfr. Flora, Crisi di “liquidità” ed omesso versamento di ritenute e di I.V.A.: una questione davvero chiusa?, in Rass. trib., 2014, 906 e ss. (24) Sul punto, in dottrina si è precisato che “l’esistenza o meno dell’obbligo di accantonamento può valere solo sotto il profilo strettamente tributario, ad esempio ai fini della ritenuta violazione dell’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, ma non sotto il profilo penale, in quanto non è possibile costituire la fattispecie attorno a tale dovere di accantonamento di ‘fonte extralegale’. Se, dunque, l’esistenza di un obbligo giuridico di accantonamento delle somme appare giuridicamente inesistente con riguardo alle ritenute, a maggior ragione esso risulta inaccettabile quanto al meccanismo concernente il versamento dell’IVA”. Conseguentemente, “non potendosi ritenere configurabile a carico del soggetto tenuto al versamento delle ritenute e dell’IVA alcun obbligo di «preventivo accantonamento» delle somme, l’esclusivo momento di rilevanza, quanto alla valutazione della condotta (omissiva) tenuta dal contribuente, non può che essere quello della scadenza dell’obbligo, e questo appunto sulla base dei principi generali desumibili dal codice penale”, cfr. D’Avirro, Reati tributari Omesso versamento dell’IVA e crisi di impresa, in Il fisco, 2017, 1963 ss.


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emissione della fattura e non dall’incasso delle somme in essa indicate. Ed allora, come potrebbe parlarsi, in siffatte situazioni, di “accantonamento” di una somma di denaro che neppure è stata percepita? È ben vero che, come talora ha giustamente ricordato la giurisprudenza (25), vi sono non sporadiche situazioni nelle quali la fattura viene emessa dal contribuente al momento del pagamento della prestazione, cosicché l’imposta a debito viene ad essere effettivamente incassata dal contribuente stesso. Nondimeno, una tale situazione non rappresenta di certo la regola nell’ambito applicativo dell’Iva (26). Anzi, non pare fuori luogo ipotizzare che non poche delle situazioni critiche, sotto il profilo della solidità finanziaria del contribuente, trovino innesco proprio nel quadro di rapporti commerciali che vedono maturare un debito Iva non accompagnato dal contemporaneo incasso delle fatture che tale debito hanno generato: è il caso dell’imprenditore che, dopo aver emesso fatture che espongono imposta a debito, fatichi ad incassare i corrispettivi fatturati ma si trovi a dover comunque corrispondere un’imposta che, “a valle”, non ha ancora potuto riscuotere. Di qui il richiamo, anch’esso ricorrente nella giurisprudenza, all’obbligo di illustrare “i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo” (27), pur nella consapevolezza che una tale circostanza non è affatto eccezionale né, tantomeno, anomala nel contesto che ci occupa. E ancora. Come si è detto, la liquidazione dell’Iva avviene periodicamente, all’esito della compensazione tra imposta a debito ed imposta a credito relative al periodo. Sicché, anche volendo ammettere la sussistenza di un obbligo di “accantonamento” dell’imposta, resterebbe aperto il problema della sua quantificazione: di entità pari allo sbilancio di periodo? Ma, in tal caso, resterebbe l’impossibilità, fino alla chiusura del periodo (mensile o trimestrale), di valutarne la consistenza. Oppure pari all’intera imposta a debito? Una tale soluzione, oltre che avulsa da qualsiasi indicazione normativa, comporterebbe il “congelamento” di risorse finanziarie ingenti e, comunque,

(25) Ad esempio, Cass., sez. III, 21-3-2019, n. 23796, Minardi; Cass., sez. III, 12-7-2017, n. 3647, Botter. (26) Si pensi, ad esempio, alle cessioni di beni mobili che, ai fini Iva, si ritengono effettuate – con conseguente obbligo di emissione della fattura – nel momento della consegna o della spedizione, ossia indipendentemente dal pagamento del relativo corrispettivo (cfr. art. 6, co. 1, D.P.R. n. 633/1972). (27) Ad esempio, cfr. Cass., sez. III, 21-3-2019, n. 23796, Minardi.


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certamente sovrabbondanti in quanto determinate prescindendo dal maturare dell’imposta a credito. Non vi è dubbio che, specie in epoca più recente, la Cassazione si sia fatta carico, con approccio più problematico, di meglio sondare l’effettiva situazione nella quale si è trovato il contribuente, verificando se questi abbia “fatto il possibile” per fronteggiare l’obbligazione tributaria e, quindi, scongiurare che l’omissione sia riconducibile ad una “deliberata scelta aziendale” (28). Anzi, particolarmente efficace appare il riferimento a “cause indipendenti” che “sfuggono al … dominio finalistico” del contribuente come unico quadro fattuale in grado di scongiurarne la responsabilità penale (29). Si noti, per inciso, che l’eventuale (effettiva) impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria non inciderebbe sull’elemento soggettivo della fattispecie quanto, piuttosto, sulla stessa tipicità del fatto, essendo pacifico che l’impossibilità di tenere la condotta doverosa comporti, tout court, l’assenza di una omissione e non un’omissione incolpevole (ultra posse nemo obligatur) (30). In realtà, a prescindere dalla scivolosa questione concernente il presunto dovere di “accantonare” l’imposta riscossa (rectius: l’imposta a debito!), non vi è dubbio che l’orientamento ormai consolidatosi della Cassazione, pur con sfumature ed accenti talora differenti, sia volto a richiedere un vaglio molto severo della situazione patrimoniale e finanziaria del contribuente, all’esito del quale il venir meno della responsabilità penale appare un punto di approdo riservato esclusivamente a situazioni di reale impotenza finanziaria dello stesso. Impotenza finanziaria che, giusta il descritto meccanismo di periodica corresponsione dell’imposta sul valore aggiunto, di regola troverà la propria scaturigine in epoca ormai risalente rispetto al momento consumativo della fattispecie penale tributaria.

(28) In questo senso, tra le molte, Cass., sez. III, 21-3-2019, n. 23796, Minardi; ma cfr. altresì Cass., sez. III, 12-12-2018, n. 7644, Porta, cit.; Cass., sez. III, 23-1-2018, n. 38594, Martinelli; Cass., sez. III, 24-6-2014, n. 8352/2015, Schirosi; Cass., sez. III, 9-10-2013, n. 5905, Maffei; Cass., sez. III, 5-12-2013, n. 5467, Marcutello. (29) Ancora Cass., sez. III, 12-12-2018, n. 7644, Porta, cit.; Cass., sez. III, 23-1-2018, n. 38594, Martinelli. (30) Per tutti, in argomento, Cadoppi, Il reato omissivo proprio, cit., 815 ss. Cfr. altresì Romano, Commentario sistematico del Codice penale, cit., 336.


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Solo ricorrendo un tale scenario, quindi, potrà dirsi di essere al cospetto di una “non-omissione”, ossia di una condotta atipica in conseguenza dell’impossibilità di tenere la condotta imposta dalla norma penale. Al riguardo, peraltro, merita una sottolineatura la ricostruzione dell’elemento soggettivo che non di rado è stata elaborata dalla giurisprudenza per affermare la sussistenza del dolo dell’omissione, quantomeno nella sua forma eventuale. Infatti, il mancato tempestivo versamento dell’imposta (e, quindi, l’assolvimento puntuale degli obblighi di liquidazione periodica) è stato identificato con l’accettazione del rischio di trovarsi successivamente, alla scadenza ultima prevista dalla norma incriminatrice, nella impossibilità di far fronte al debito tributario (31). Si tratta, probabilmente, di una ricostruzione persino sovrabbondante, che in qualche modo sembra richiamare il paradigma dell’actio libera in causa (32), nel quale la colpevolezza del contribuente viene fatta risalire al momento della violazione dell’obbligo di liquidazione periodica, allorquando vi sarebbe l’accettazione del rischio di trovarsi, in epoca successiva, nell’impossibilità di adempiere all’obbligazione fiscale. In realtà, pare forse preferibile la tesi che, in aderenza al generale statuto penalistico dell’omissione, concentra sulla scadenza del termine la verifica dell’elemento soggettivo, accontentandosi della rappresentazione e volizione della condotta omissiva (33). Certo, a condizione che, alla scadenza del termine, sia possibile, per il soggetto agente, tenere la condotta doverosa. Tuttavia, al di là di una tale precisazione, un siffatto orientamento va a rimarcare la fondatezza, perlomeno sotto il profilo empirico, di quanto si è dianzi osservato, ossia che – di regola – il delitto di cui all’art. 10 ter non emerge improvvisamente, come Minerva dalla testa di Giove, in un contesto di fisiologica ed ordinaria conduzione di un’attività imprenditoriale ma, assai di frequente, rappresenta il precipitato di una situazione di crisi, perlomeno finanziaria, già risalente allorquando trova consumazione l’illecito penale tributario. Ed è proprio su questo profilo che occorre, ora, approfondire l’analisi.

(31) Cfr., ad esempio, Cass., sez. III, 12-12-2018, 7644, Porta, cit. (32) O, forse, sarebbe meglio dire omissio libera in causa: cfr. ancora Cadoppi, Il reato omissivo proprio, cit., 817, ove ulteriori riferimenti. Cfr. altresì, in senso analogo, LanziAldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 453-454. (33) Cfr. Cass., sez. III, 23-1-2018, n. 38594, Martinelli; Cass., sez. III, 24-6-2014, n. 8352, Schirosi.


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5. L’omesso versamento dell’Iva nell’impresa in crisi, tra bancarotta semplice e bancarotta preferenziale. – Allorquando il contribuente (che, in siffatte situazioni, è di regola un imprenditore commerciale) si trova nell’impossibilità di far fronte, finanziariamente, a tutte le obbligazioni che derivano dalla sua attività imprenditoriale, non è infrequente che, tra i creditori da “sacrificare” in attesa di tempi migliori, scelga l’erario e, segnatamente, il debito scaturente dall’imposta sul valore aggiunto. Le ragioni di una tale scelta sono intuibili: l’erario è un creditore di regola non tempestivo nel reclamare quanto gli spetta e, a differenza dei fornitori e dei dipendenti, non è in grado – se non in casi eccezionali – di bloccare, perlomeno nell’immediato, l’attività d’impresa. Mentre un fornitore può rifiutarsi di consegnare la materia prima se non viene saldato ed i dipendenti di prestare attività lavorativa se non regolarmente pagati, le iniziative dell’erario sono, di regola, quantomeno assai più procrastinate nel tempo. Di qui la “tentazione”, in una situazione di crisi finanziaria, di non versare l’imposta sul valore aggiunto. D’altro canto, sotto il profilo criminologico, l’introduzione di una tale fattispecie incriminatrice, priva di connotati di fraudolenza e volta a sanzionare penalmente, a ben vedere, un mero inadempimento, si spiega proprio con la potenziale diffusività di un fenomeno che, in presenza di situazioni di crisi, rappresenta davvero un commodus discessus per il contribuente. Tanto più che il “lontano” (temporalmente) momento consumativo rischia di trasformare l’inestinguibile fiducia dell’imprenditore verso una risalita dell’attività d’impresa in una pericolosa spinta a rinviare l’adempimento agli obblighi tributari. In questa prospettiva, forse, la stessa riforma del 2015 può aver contribuito, in qualche misura, ad alimentare un tale processo di pericoloso “rinvio a tempi migliori” del versamento dell’Iva. Ed invero, giova rammentare che il già ricordato D.Lgs. n. 158/2015 è intervenuto sul tessuto normativo in esame introducendo, tra l’altro, la causa sopravvenuta di esclusione della punibilità oggi prevista dall’art. 13, co. 1, D.Lgs. n. 74/2000, grazie alla quale il contribuente può caducare la propria responsabilità penale estinguendo, prima dell’apertura del dibattimento, la propria pendenza con il fisco. Non vi è dubbio che si tratti, sotto molti profili, di una previsione normativa positiva per come incentiva il versamento del dovuto e per la conseguente deflazione delle pendenze penali tributarie che da essa deriva. Nondimeno, è chiaro che una siffatta causa di esclusione della punibilità contiene un pericoloso messaggio per il contribuente in crisi: se oggi non hai la liquidità per


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assolvere l’imposta sul valore aggiunto, sappi che non risponderai penalmente se riuscirai a trovare quei denari (oltre ad interessi e sanzioni, ben inteso!) prima che abbia inizio il processo penale, ossia a distanza –verosimilmente – di qualche anno. Dunque, una previsione normativa opportuna ma, nondimeno, capace di alimentare pericolose tentazioni nella mente di chi, versando in un’attuale situazione di crisi, sia persuaso, più o meno fondatamente, che la burrasca sia destinata a passare rapidamente. La giurisprudenza si è più volte occupata di contesti di tal fatta, nei quali il contribuente si è trovato a scegliere di sacrificare il creditore-erario sull’altare della continuità d’impresa (34). Ne è un recente ed eloquente esempio la sentenza Pagani, del 2018 (35), nella quale il delitto in esame viene accostato alla fattispecie di bancarotta preferenziale, compiendo un’interessante actio finium regundorum che vale la pena ripercorrere. Secondo tale pronuncia, infatti, è “manifestamente infondato … il rilievo secondo cui il pagamento del debito contributivo oggetto di contestazione avrebbe potuto generare responsabilità penale per il reato di bancarotta preferenziale: al di là del fatto che non è provato che alla data del 27 dicembre 2012 vi fosse una situazione conclamata di insolvenza (e neppure risulta che la società sia stata successivamente dichiarata fallita), basti osservare come il reato di cui all’art. 216, terzo comma, L.F., richieda il dolo specifico di favorire taluno dei creditori in danno di altri, ciò che certamente non ricorre laddove l’imprenditore adempia ad un’obbligazione tributaria la cui omissione sia penalmente sanzionata” (36). Il tema è interessante in quanto, forse diversamente dal caso in concreto deciso dalla Cassazione, potrebbe davvero darsi che il contribuente non versi l’Iva in quanto ormai precipitato in un vero e proprio stato di insolvenza. Ciò tanto più alla luce delle osservazioni dianzi formulate. E, d’altro canto, è la stessa pronuncia citata che, affrontando il tema relativo alla “scelta” delle obbligazioni cui adempiere in un contesto di insufficienza patrimoniale, osserva “come non possa neppure condividersi … l’affermazione secondo

(34) Cfr., ad esempio, Cass., sez. III, 23-1-2018, n. 38594, Martinelli; Cass., sez. III, 231-2018, n. 38593, Del Stabile, pur se nell’ambito di un complesso piano attestato coinvolgente l’intero gruppo di appartenenza del contribuente. (35) Cass., sez. III, 28-3-2018, n. 46684, Pagani. (36) La stessa pronuncia cita, in senso conforme, Cass., sez. V, 21-11-2011 (dep. 2014), n. 673, Lippi; Cass., sez. V, 4-10-2013 (dep. 2014), n. 592, De Florio.


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cui «la necessità di pagare i dipendenti risulta evidente anche perché, in caso contrario, ne deriverebbe il blocco dell’attività imprenditoriale; con conseguenze irrimediabili sulla vita dell’impresa e, dunque, sulla stessa possibilità di pagare i tributi e gli altri creditori». Se non altrimenti circoscritta, questa eventualità finirebbe di fatto col risolversi, in tutti i casi di scarsa remuneratività (ovvero di insufficiente liquidità o capitalizzazione), nel giustificare la prosecuzione in perdita di attività d’impresa che resterebbero sul mercato, con grave lesione delle regole di concorrenza, soltanto grazie al mancato pagamento delle imposte”. In realtà, se le osservazioni della Cassazione appaiono condivisibili al di fuori di un contesto di insolvenza, laddove, invece, un tale stato trovasse davvero concretizzazione, allora è verosimile ritenere che gli eventuali pagamenti effettuati dal contribuente non possano prescindere dal reticolo di privilegi tracciato dagli artt. 2777 e 2778 c.c. (37). È ben vero, come osserva la medesima pronuncia, che tali privilegi riguardano i beni mobili e non gli immobili, dovendosi tenere conto anche di quanto previsto dall’art. 2780, n. 4, c.c., in ordine al credito Iva di rivalsa, ma è altrettanto indubitabile che i crediti tributari non siano comunque posti al vertice della gerarchia dei privilegi (cfr. art. 2778 c.c.). Peraltro, la Cassazione (38) ha altresì osservato che “non ha pregio il pur suggestivo riferimento all’ordine di preferenza previsto dalla legge (nel senso che il pagamento dei crediti da lavoro dipendente è imposto per legge con priorità ex art. 2777 c.c., a differenza dei crediti erariali e contributivi ex art. 2778 c.c.), atteso che si tratta di ordine – riguardante i cosiddetti crediti prededucibili – che deve essere rispettato ex lege nell’ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può quindi essere richiamato al fine di escludere, in contesti diversi dove (ancora) non opera il principio del par condicio creditorum, l’adempimento «preferenziale» del creditore erariale rispetto ad altri (i crediti da lavoro). Ne consegue che non può ritenersi applicabile la disciplina dell’art. 51 c.p., invocata dal ricorrente al fine di escludere sotto il profilo soggettivo il reato contestato”.

c.c.

(37) Ma cfr. altresì gli artt. 2751 bis, 2752, 2758, 2759, 2771, 2772, 2779, 2780-2783 ter

(38) Cass., sez. III, 6-7-2018, n. 52971. Nello stesso senso, recentemente, Cass., 4-7-2019, n. 36709, Giuzio.


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Ciò, evidentemente, fintantoché non sussistano i presupposti per accedere ad una procedura concorsuale. Al contrario, ci pare, un tale orientamento avvalora l’idea che, in un contesto di ormai affiorata insolvenza, in effetti vi siano davvero spazi per escludere che l’omissione del versamento dell’Iva sia tipica ai sensi dell’art. 10 ter, pur con tutte le limitazioni – specie di ordine probatorio – che la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di evidenziare (39). Ciò a patto, tuttavia, che all’emersione dello stato di insolvenza abbia fatto seguito l’accesso ad una procedura concorsuale. Facile comprendere, allora, come un tale scenario schiuda le porte ad altre, e forse ancor più intricate, questioni di natura penale fallimentare, in quanto la protrazione dell’attività d’impresa in un contesto nel quale il contribuente non è in grado di fronteggiare – quantomeno – gli adempimenti di natura tributaria, richiama alla mente il perimetro applicativo dell’art. 217, co. 1, n. 4), L.F. Giova avvertire, al riguardo, che è assolutamente necessario rifuggire da qualsivoglia facile automatismo. Nondimeno, non vi è dubbio che sia difficile ritenere ancora in bonis un contribuente-imprenditore che, probabilmente da oltre un anno (giusta quanto si osservava in precedenza), si trovi nell’impossibilità di reperire la liquidità necessaria per versare l’imposta sul valore aggiunto a debito, se non – eventualmente – a scapito dell’adempimento di altre obbligazioni. E, quindi, non è fuori luogo interrogarsi se un tale imprenditore non sia divenuto ormai destinatario dell’obbligo di richiedere il proprio fallimento, sotto pena, come si osservava, di scivolare nell’alveo dell’art. 217, co. 1, n. 4), L.F., quando non della fattispecie di bancarotta preferenziale (40). È ben vero che istituti quali i piani attestati ex art. 67, co. 3, lett. d), L.F., o quelli disciplinati dagli artt. 160 e 182-bis L.F. contemplano forme di intervento alternative al fallimento, ma è altrettanto vero che, ad eccezione di quanto previsto dall’art. 67, co. 3, lett. d), L.F., in tali contesti si accede già a procedure – lato sensu – concorsuali. E non a caso l’art. 217-bis L.F. va a limitare la sfera applicativa della bancarotta semplice proprio al cospetto di tali procedure.

(39) In argomento, per tutte, si veda Cass., sez. III, 28-3-2018, n. 37089, Croce. (40) Per tutti, Giuliani Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concursuali, V ed., Milano, 2006, 477.


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Breve: laddove il contribuente sia un imprenditore commerciale suscettibile di fallire, non è agevole individuare condotte di omesso versamento dell’Iva che superino la soglia dei duecentocinquantamila euro destinate a rimanere atipiche ai sensi della fattispecie penale tributaria ma, contemporaneamente, capaci di fuoriuscire anche dal perimetro di prensione punitiva dell’art. 217 L.F. E ciò per tacere delle situazioni, obiettivamente eterogenee e più gravi, ma non infrequenti, nelle quali a trovare applicazione possa essere addirittura l’art. 223, co. 2, n. 2), L.F. (41). Probabilmente, in un tale intreccio di precetti penali, a rimanere esenti da rimprovero saranno le situazioni di crisi tempestivamente riconosciute e divenute immediatamente fonte di innesco per le citate forme di gestione della crisi oggi previste dall’attuale legge fallimentare, perlomeno fintanto che resterà in vigore (42). In tali ambiti, l’inadempimento dell’Iva potrà davvero essere figlio di un’oggettiva impossibilità di adempiere che, tuttavia, sarà stata tempestivamente imbrigliata attraverso il ricorso a strumenti appositamente previsti dal legislatore, capaci di evitare che un simile stallo finanziario diventi lo strumento per aggravare ulteriormente la situazione patrimoniale del contribuente imprenditore. Merita quindi condivisione l’orientamento (43) venutosi a formare, dopo qualche iniziale incertezza (44), in ordine all’assenza di rilevanza penale di omessi versamenti di Iva avvenuti nell’ambito di procedure concordatarie, particolarmente allorquando il momento consumativo della fattispecie penale venga a cadere in epoca successiva rispetto all’avvio della procedura. In particolare, osserva la Corte (45) che “il concordato preventivo, pur originandosi da un impulso del debitore come sottolinea Cass. sez. 3ˆ, 14 maggio 2013 n. 44283, non è confinato in un dispositivo privatistico, governato esclusivamente dalle parti (debitore e creditore) dei negozi coinvolti in quell’inadempimento complessivo che integra lo «stato di crisi» (L.F., art.

(41) Sul punto, cfr. Cass., sez. V, 13-11-2018, n. 1984, Spiller. (42) Cfr., nondimeno, per la sussistenza del delitto in questione pur in presenza di un piano attestato coinvolgente (o almeno così sembrerebbe) l’intero gruppo di appartenenza del contribuente, Cass., sez. III, 23-1-2018, n. 38593, Del Stabile. (43) Cass., sez. III, 12-3-2015, n. 15853; Cass., sez. IV, 17-10-2017, n. 52542, M.M.; Cass., sez. III, 4-9-2018, n. 39696; Cass., sez. IV, 17-11-2017, n. 52542; Cass., sez. III, 2-42019, n. 36320. (44) Cass., sez. III, 14-5-2013, n. 44283, G.S.; Cass., sez. III, 24-4-2013, n. 39101, M.A.N.; Cass., sez. III, 4-2-2016, n. 12912, U.M. (45) Cass., sez. III, 12-3-2015, n. 15853.


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160, comma 1) o addirittura «lo stato di insolvenza» (art. 160, u.c.), bensì attinge alla soglia pubblicistica, si snoda in un percorso giurisdizionalmente disegnato e vigilato, per ricevere infine una ratifica di quanto deliberato dai creditori sulla proposta del debitore da parte dell’organo giurisdizionale che non può ritenersi irrilevante ai fini delle conseguenze penali della condotta conforme al deliberato accordo. [omissis] Se, dunque, la dilazione del pagamento del debito Iva (dilazione compensata dalla non elisione di interessi e sanzioni amministrative) rientra nell’ambito del piano concordatario – come conferma un solido orientamento della giurisprudenza civile di questa Suprema Corte già richiamato – e se il concordato preventivo non è una manifestazione di autonomia negoziale, bensì un istituto prevalentemente pubblicistico (che poi il suo stesso accesso sia libera scelta da parte dell’imprenditore in crisi è vero fino a un certo punto, poiché l’alternativa, perlomeno quando la situazione di crisi coincide con lo stato di insolvenza, è fallimento), è più che illogico considerare ciò tamquam non esset ai fini penali, dissociando settori parimenti pubblicistici dell’ordinamento, ovvero consentendo da un lato al giudice fallimentare di ammettere al concordato preventivo l’imprenditore che nel suo piano progetta di commettere un reato e poi di omologare la deliberazione con cui i creditori hanno approvato (anche) un siffatto progetto criminoso, e dall’altro al giudice penale di sanzionare il soggetto che ha eseguito un accordo omologato (la cui relativa domanda era stata, tra l’altro, ab origine comunicata al pubblico ministero) condannandolo per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter”. E, ancora più di recente, tale orientamento è stato ribadito ed arricchito di un’importante precisazione della stessa Cassazione (46), ad avviso della quale l’irrilevanza penale dell’inadempimento agli obblighi in materia di Iva si applica anche al debito tributario maturato anteriormente al momento di formale ammissione al concordato preventivo. Quindi, dirimente, anche in sede penale, risulta essere la presentazione della domanda di concordato. 6. Codice della crisi e procedure di allerta. – Le riflessioni svolte non sarebbero complete se non si gettasse lo sguardo oltre l’attuale disciplina fallimentare per occuparci, ormai in chiusura, delle ricadute che, sul tema in esame, potranno derivare dall’entrata in vigore del novello Codice della crisi. In una tale prospettiva, ovviamente, occorre fare affidamento sul testo

(46) Cass., sez. III, 2-4-2019, n. 36320.


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normativo ad oggi approvato, anche se non mancano rumors in ordine a modificazioni che, in modo più o meno esteso, dovrebbero ancora essere apportate al testo normativo. Sta di fatto che l’ordito di norme che ci ha consegnato il legislatore del 12 gennaio 2019 suggerisce più di qualche riflessione proprio in ordine alle questioni sollevate dall’applicazione dell’art. 10 ter in contesti di “crisi”, in senso lato, aziendale. Per affrontare compiutamente tale tema, tuttavia, è necessario premettere che la nozione di crisi – assente nel R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (47) – campeggia ora al primo posto tra le definizioni elencate all’art. 2, co. 1, D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. Nel passaggio dalla criptica formulazione della legge fallimentare alla novella enunciazione fornita dal Codice della crisi, il legislatore della riforma ha puntualizzato che per “crisi” si intende lo “stato di difficoltà economicofinanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” [così la lett. a) del co. 1] (48). Una nozione che, posta a raffronto con quella invariata di insolvenza [racchiusa alla successiva lett. b) (49)], dovrebbe abbracciare quelle situazioni in cui sussista “semplicemente la probabilità di un’insolvenza futura e, come tale, per sua natura incerta” (50), ponendosi il legislatore l’obiettivo di

(47) Ove ci si limitava a precisare, nell’ambito della disciplina del concordato preventivo, che “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza” (art. 160, co. 3). (48) Trovano così attuazione le indicazioni della L. 19 ottobre 2017, n. 155, recante la “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, ove, all’art. 2, co. 1, individuando i principi generali della riforma, è stata espressamente prevista la necessità di “introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica” [così la lett. c)]. Tra i primi commenti al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, v. Aa.Vv., La riforma del fallimento. Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, a cura di Pollio-Longoni, Milano, 2019; Aa.Vv., Il nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, a cura di Sanzo-Burroni, Bologna, 2019; Nardecchia, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Disciplina, novità e problemi applicativi, Roma, 2019; Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2019. (49) L’insolvenza è, per il legislatore della riforma, “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Il mantenimento della medesima nozione fornita dall’art. 5 L.F. è stato espressamente previsto dalla L. delega n. 155/2017, art. 2, co. 1, lett. c). (50) In questi termini Ambrosini, Crisi e insolvenza: distinzione teorica e incertezze applicative, in Aa.Vv., La riforma del fallimento. Il nuovo codice della crisi d’impresa e


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“rendere «manifesta» (ovvero «consapevole» da parte dell’imprenditore) la crisi, con la previsione di un intervento interno ed esterno all’impresa, nella prospettiva di un suo possibile superamento” (51). La prospettiva di una presa di coscienza tempestiva della china scivolosa cui è avviata l’impresa si riflette altresì nelle “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” introdotte con la riforma del 2019 (52), le quali – come stabilito dall’art. 4 della L. delega n. 155/2017 – sono “finalizzate a incentivare l’emersione anticipata della crisi e ad agevolare lo svolgimento di trattative tra debitore e creditori”. In particolare, tra gli strumenti di allerta individuati dal legislatore all’art. 12 del Codice della crisi figurano espressamente “gli obblighi di segnalazione posti a carico dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15, finalizzati” – prosegue la norma – “alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione”. In questo contesto, ad assumere rilievo – ai fini delle presenti considerazioni – sono le disposizioni dell’art. 15, il quale regola il novello “Obbligo di segnalazione di creditori pubblici qualificati”. Senza volerci soffermare, in questa sede, sulla portata della norma e sulle sue ricadute sistematiche (53), si rammenta brevemente che, come stabilisce il co. 1, l’Agenzia delle Entrate, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’agente della riscossione sono tenuti a “dare avviso” al debitore, mediante comunicazione all’indirizzo di posta elettronica certificata di cui

dell’insolvenza, cit., 26, il quale osserva che “non del tutto perspicuo risulta il significato del termine «pianificate», potendo esso, a tutta prima, far pensare alle obbligazioni programmate dal debitore, come tali ancora da assumere. In realtà, sembra assai più logico ritenere che la norma, seppur con scelta lessicale non felicissima, intenda alludere a quei debiti che siano prossimi alla scadenza e di cui il piano d’azione del debitore debba appunto tener conto. Ma, se così è, sarebbe stato probabilmente più semplice e lineare parlare di «obbligazioni di imminente scadenza»”. Sulla nozione di crisi così come definita nel Codice del 2019, v., ex multis, A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCII alla resilienza della twilight zone, in Fallimento, 2019, 291 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici. (51) Così Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 7. (52) La loro disciplina è contenuta nel Titolo II della Parte I del D.Lgs. n. 14/2019. (53) In argomento, tra gli altri, Sanzo, La disciplina procedimentale. Le norme generali, le procedure di allerta e di composizione della crisi, il procedimento unitario di regolazione della crisi o dell’insolvenza, in Aa.Vv., Il nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, cit., 51 ss., part. 54-56, ove l’Autore rileva che a porsi è “esclusivamente un problema di adeguatezza delle soglie di segnalazione, adeguatezza che, probabilmente, soltanto l’esperienza pratica consentirà di saggiare e comprovare”; Ponti, Tutto inizia davanti agli O.C.R.I., in Aa.Vv., La riforma del fallimento. Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 86 ss.


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dispongono (54), che i) la “sua esposizione debitoria ha superato l’importo rilevante” indicato al co. 2, e che ii) essi provvederanno a segnalare tale situazione all’Organismo di composizione della crisi d’impresa (in breve, OCRI, disciplinato dal successivo art. 16), qualora il debitore non provveda entro novanta giorni dalla ricezione dell’avviso, alternativamente, all’estinzione o alla regolarizzazione dell’intero debito nei modi previsti ex lege (55) oppure alla presentazione di istanza di composizione assistita della crisi o di domanda per accedere ad una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza (56). Focalizzando l’attenzione sull’obbligo di segnalazione gravante in capo all’Agenzia delle Entrate, l’art. 15, co. 2, lett. a), individua l’importo rilevante modulandolo sull’ammontare “totale del debito scaduto e non versato per l’imposta sul valore aggiunto” risultante dalla comunicazione della liquidazione periodica di cui all’art. 21 bis del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 2010, n. 122. Segnatamente, l’esposizione debitoria assume rilevanza ai sensi dell’art. 15 ove essa sia pari ad almeno il 30% del volume d’affari del medesimo periodo e non sia inferiore i) a venticinquemila euro, per volume d’affari “risultante dalla dichiarazione modello Iva relativa all’anno precedente” sino a due milioni di euro; ii) a cinquantamila euro, per volume d’affari dell’anno precedente sino a dieci milioni di euro; iii) a centomila euro, laddove il volume d’affari risultante dalla dichiarazione Iva dell’anno anteriore superi i dieci milioni di euro. L’art. 15 stabilisce, inoltre, che il mancato avviso al debitore comporta l’inefficacia del titolo di prelazione spettante sui crediti di cui l’Agenzia delle Entrate è titolare (57) (così il co. 1) e che l’Amministrazione finanziaria è tenuta ad attivarsi a decorrere “dalle comunicazioni della liquidazione

(54) Oppure, in mancanza, mediante raccomandata con avviso di ricevimento spedita all’indirizzo risultante dall’anagrafe tributaria. (55) O, ancora, per l’Agenzia delle Entrate, “non risulterà in regola con il pagamento rateale del debito previsto dall’articolo 3 bis del Decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 462”, il quale disciplina la “Rateazione delle somme dovute” a seguito di controlli automatici e formali. (56) Come prevede il co. 4, qualora non si verifichi alcuno dei predetti scenari, la segnalazione deve essere effettuata dal creditore pubblico qualificato “senza indugio” scaduto il termine di novanta giorni. (57) Analoghe conseguenze sono poste in capo all’Inps, mentre l’inerzia dell’agente della riscossione determina l’inopponibilità del credito per spese e oneri di riscossione.


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periodica Iva”, di cui al già citato art. 21 bis D.L. n. 78/2010, “relative al primo trimestre dell’anno d’imposta successivo all’entrata in vigore del presente Codice” (in questi termini il co. 7). Il creditore pubblico qualificato, infine, non deve effettuare la segnalazione nel caso in cui il debitore documenti di essere “titolare di crediti di imposta o di altri crediti verso pubbliche amministrazioni risultanti dalla piattaforma per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni” (58) di importo complessivamente “non inferiore alla metà del debito verso il creditore pubblico qualificato”. Del pari, l’obbligo di segnalazione cessa in “pendenza di una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza” disciplinate dal D.Lgs. n. 14/2019, così come dispone espressamente l’art. 12, ult. co. 7. Riflessioni conclusive: l’impatto del Codice della crisi sulla fattispecie prevista dall’art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000. – La breve disamina dell’art. 15 del Codice della crisi che ci è parsa doverosa consente, ora, di svolgere qualche riflessione conclusiva in ordine a quello che potrebbe essere il futuro applicativo dell’art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000, all’indomani dell’entrata in vigore della novella disciplina delle procedure concorsuali. Ed infatti, l’intervento proattivo dell’Agenzia delle Entrate, ai sensi del citato art. 15 del Codice della crisi, appare destinato a far affiorare in modo assai tempestivo situazioni di omesso versamento dell’Iva di importo tale da superare la soglia di punibilità prevista dalla fattispecie incriminatrice. Certamente, i tempi di emersione di tali inadempimenti saranno assai più stringenti di quelli previsti per giungere alla consumazione del delitto tributario. Ed allora, in un tale scenario, se il contribuente non riuscirà a porre tempestivamente rimedio a tali omissioni, ecco che si entrerà in un contesto di “crisi sorvegliata”, ossia di coinvolgimento dell’OCRI e di probabile ricorso alle “misure protettive” di cui all’art. 20 del Codice della crisi. Un ambito, questo, dal quale il contribuente potrà uscire o con il superamento della crisi,

(58) Piattaforma che, come ricorda la norma, è “predisposta dal Ministero dell’economia e delle finanze ai sensi dell’articolo 4 del Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 25 giugno 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 2 luglio 2012, n. 152, e dell’articolo 3 del Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 22 maggio 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 21 giugno 2012, n. 143”.


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e quindi con il recupero della capacità di adempiere alle proprie obbligazioni, oppure con l’accesso ad una procedura di tipo concorsuale. Vero tutto ciò, ben si comprende come il Codice della crisi appaia votato al superamento di quelle situazioni di strisciante insolvenza che fungono da habitat per la commissione della fattispecie di cui all’art. 10 ter: la tempestiva (e, al limite, forzata) emersione dell’inadempimento agli obblighi di versamento dell’Iva sembra in grado di dirottare sul nascere verso forme di gestione assistita della crisi situazioni altrimenti candidate a divenire tipiche ex art. 10ter. E ciò consentirà, verosimilmente, di applicare il principio, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il delitto tributario non può trovare applicazione in presenza di procedure concordatarie che conducano in un alveo pubblicistico la gestione della crisi del contribuente (59). Dunque, il Codice della crisi, nella misura in cui riuscirà davvero a trovare concreta applicazione, potrebbe rivelarsi capace di erodere significativamente il contesto (finanziario ancor prima che criminologico) nel quale, fino ad oggi, sono venuti a maturare gli inadempimenti agli obblighi in materia di imposizione indiretta suscettibili di assumere rilevanza penale. In altri termini, la situazione di crisi finanziaria del contribuente, oggi assai di rado capace di dispiegare una qualche efficacia in ambito penale, appare destinata ad essere tempestivamente individuata e riconosciuta grazie ad un articolato corpus di procedure, tutte previste normativamente e volte a tracciare un percorso di gestione pubblicistica o para-pubblicistica della crisi. La situazione di crisi, quindi, diventa una sorta di status riconosciuto del contribuente, foriero di obblighi ma anche di misure protettive: e tra queste, verosimilmente, anche l’irrilevanza penale dell’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto.

Andrea Perini

(59) Cfr. la già ricordata Cass., sez. III, 12-3-2015, n. 15853.


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte Giust., sez. II, 17 ottobre 2019 – C-692/17; Pres. L. Bay Larsen e Rel. C. Vajda Rinvio pregiudiziale – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Cessione di posizione processuale – Direttiva 2006/112/CE - Operazione esente ex art. 135 lett. b) o lett. d – Natura della operazione interessata – Cessione di immobile o cessione di bene immateriale – Imponibilità Nell’ipotesi di cessione a titolo oneroso dei diritti e obbligazioni connessi ad una posizione processuale occorre analizzare la realtà economica e commerciale sottostante al fine dell’individuazione del regime IVA applicabile. Nel caso di specie, a seconda della data di cessione (anteriore o posteriore alla sentenza di aggiudicazione dell’immobile), il regime IVA è riconducibile rispettivamente a quello di una prestazione di servizi o di una cessione di bene immobile. Non sono applicabili le esenzioni di cui all’art. 135, paragrafo 1, lettere b) e d) in quanto la fattispecie in esame non rientra nelle previsioni delle citate disposizioni. (1)

(Omissis) Nella causa C‑692/17, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Supremo Tribunal Administrativo (Corte amministrativa suprema, Portogallo), con decisione dell’8 novembre 2017, pervenuta in cancelleria l’11 dicembre 2017, nel procedimento Paulo Nascimento Consulting – Mediação Imobiliária Lda contro Autoridade Tributária e Aduaneira, LA CORTE (Seconda Sezione), composta da A. Arabadjiev, presidente di sezione, L. Bay Larsen e C. Vajda (relatore), giudici, avvocato generale: H. Saugmandsgaard Øe cancelliere: M. Ferreira, amministratrice principale vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 7 febbraio 2019, considerate le osservazioni presentate: – per la Paulo Nascimento Consulting – Mediação Imobiliária Lda, da R. Silva Lopes e A. Coelho Martins, advogados;


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Parte quarta

– per il governo portoghese, da L. Inez Fernandes, M. Figueiredo e R. Campos Laires, in qualità di agenti; – per la Commissione europea, da L. Lozano Palacios e B. Rechena, in qualità di agenti, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 2 maggio 2019, ha pronunciato la seguente Sentenza La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1). Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Paulo Nascimento Consulting – Mediação Imobiliária Lda (in prosieguo: la «PNC») e la Autoridade Tributária e Aduaneira (autorità tributaria e doganale, Portogallo), in merito all’imposta sul valore aggiunto (IVA) dovuta sulla cessione a titolo oneroso, in favore di un terzo, della posizione processuale detenuta dalla PNC in un’azione esecutiva per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice. Contesto normativo Diritto dell’Unione Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettere a) e c), della direttiva 2006/112, sono soggette all’IVA, rispettivamente, «le cessioni di beni effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale» e «le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale». L’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva in parola dispone quanto segue: «Si considera “soggetto passivo” chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività. Si considera “attività economica” ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate. Si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità». Conformemente all’articolo 14, paragrafo 1, di detta direttiva, «[c]ostituisce “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario». Ai sensi dell’articolo 24, paragrafo 1, della medesima direttiva, «[s]i considera “prestazione di servizi” ogni operazione che non costituisce una cessione di beni».


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L’articolo 25, lettera a), della direttiva 2006/112 stabilisce che «[u]na prestazione di servizi può consistere, tra l’altro, [nella] cessione di beni immateriali, siano o no rappresentati da un titolo». L’articolo 135, paragrafo 1, lettere b) e d), di tale direttiva prevede quanto segue: «Gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: la concessione e la negoziazione di crediti nonché la gestione di crediti da parte di chi li ha concessi; (…) le operazioni, compresa la negoziazione, relative ai depositi di fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali, ad eccezione del ricupero dei crediti». Diritto portoghese Il Código do Imposto sobre o Valor Acrescentado (codice dell’imposta sul valore aggiunto), che ha recepito nel diritto portoghese la direttiva 2006/112, prevede, all’articolo 9, punto 27, lettere a) e c), della sua versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: il «codice IVA»), che siano esenti dall’IVA le operazioni seguenti: la concessione e la negoziazione di crediti, sotto qualsiasi forma, ivi comprese le operazioni di sconto e di risconto, nonché la loro amministrazione o gestione da parte del concedente; le operazioni, compresa la negoziazione, riguardanti i depositi di fondi, i conti correnti, i pagamenti, i giroconti, gli incassi, gli assegni, gli effetti commerciali e altri strumenti, ad eccezione delle operazioni di semplice riscossione di crediti». Procedimento principale e questione pregiudiziale Dalla decisione di rinvio risulta che, nel mese di novembre del 2006, alla PNC veniva affidato, nell’ambito della sua attività di mediazione immobiliare, un mandato esclusivo di vendita di un terreno agricolo. La PNC trasmetteva un’offerta di acquisto al suo mandante, il proprietario di detto terreno, ma tale offerta veniva respinta da quest’ultimo, il quale rifiutava di compensarla per il servizio fornito. La PNC adiva il Tribunal de Família e Menores e de Comarca de Portimão (Tribunale della famiglia e dei minori del distretto di Portimão, Portogallo), al fine di veder condannare il suo mandante a versarle un importo di EUR 125 000, per la commissione di mediazione immobiliare dovuta, oltre all’IVA e agli interessi di mora sino al pagamento integrale. Tale Tribunale accoglieva la domanda della PNC con sentenza passata in giudicato. Dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta inoltre che, non avendo il debitore versato l’importo così posto a suo carico, la PNC intentava, dinanzi a detto giudice, un’azione esecutiva diretta ad ottenere la riscossione forzata del suo credito quale accertato dalla suddetta sentenza, per l’ammontare complessivo di EUR 170 859,62.


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È pacifico inoltre che, nell’ambito di tale procedimento di esecuzione forzata, è stato pignorato un bene immobile appartenente al debitore per garantire il pagamento dell’importo dovuto. Il bene è stato successivamente aggiudicato alla PNC per la somma di EUR 606 200, che rappresentava circa il 70% del valore di detto bene sul mercato. L’aggiudicazione era corredata dell’obbligo, per la PNC, di versare all’organo procedente all’esecuzione l’eccedenza, ossia la differenza tra l’ammontare dell’aggiudicazione e il valore del suo credito, maggiorata delle spese di esecuzione, ammontante ad un totale di EUR 417 937,12. Con accordo del 29 settembre 2010, la PNC cedeva alla Starplant – Unipessoal Lda (in prosieguo: la «Starplant») tutti i diritti e gli obblighi derivati dalla sua posizione processuale nell’azione esecutiva in corso, a fronte del pagamento, da parte della Starplant, di un importo di EUR 351 619,90. Nel mese di ottobre del 2010, da una parte, la PNC contabilizzava l’importo di EUR 125 000 a titolo di corrispettivo dei servizi forniti al mandante summenzionato e versava la somma di EUR 26 250 corrispondente all’IVA dovuta al riguardo. Dall’altra parte, essa contabilizzava un importo di EUR 200 369,90, come «altri utili non precisati», che corrispondeva alla rimanenza del prezzo pagato dalla Starplant, importo sul quale essa non aveva versato IVA. Il 24 giugno 2014 l’Autoridade Tributária e Aduaneira (autorità tributaria e doganale, Portogallo) emetteva nei confronti della PNC atti di liquidazione complementare dell’IVA unitamente agli interessi, per un importo totale di EUR 83 647,77, dopo aver ritenuto che nella dichiarazione IVA presentata dalla PNC, per il periodo considerato, non fosse stata contabilizzata correttamente la cessione di posizione processuale operata per EUR 351 619,90. Al riguardo, secondo detta autorità, si trattava di un’operazione distinta da quella relativa alla commissione di mediazione immobiliare, che era soggetta all’IVA, in quanto costituiva una cessione di diritti a titolo oneroso, da parte di un soggetto passivo agente in quanto tale, che rientrava nella nozione di prestazione di servizi e che non era compresa in alcuna esenzione prevista dal codice IVA. Il Tribunal Administrativo e Fiscal de Loulé (Tribunale amministrativo e fiscale di Loulé, Portogallo), adito dalla PNC, accoglieva il ricorso di quest’ultima, diretto all’annullamento dei summenzionati atti di liquidazione complementare dell’IVA. Con sentenza del 4 febbraio 2016, il Tribunal Central Administrativo Sul (Tribunale amministrativo centrale Sud, Portogallo), adito dalla Fazenda Pública (Tesoro pubblico, Portogallo), annullava la sentenza resa in primo grado, in quanto la cessione di credito di cui trattasi rientrava nell’attività economica della PNC, doveva essere considerata come una prestazione di servizi imponibile e non beneficiava di alcuna delle esenzioni di cui all’articolo 9 del codice IVA. In particolare, tale giudice considerava che l’operazione interessata non rientrava nell’esenzione prevista all’articolo 9, punto 27, lettera a), di tale codice per le operazioni bancarie e finanziarie di concessione e di negoziazione di crediti.


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La PNC proponeva un ricorso in cassazione contro tale sentenza dinanzi al Supremo Tribunal Administrativo (Corte amministrativa suprema, Portogallo), facendo valere principalmente che l’esenzione di cui all’articolo 9, punto 27, lettera a), del codice IVA era applicabile alle operazioni di cessione di crediti anche qualora esse fossero realizzate da soggetti diversi dagli istituti finanziari. Al riguardo, essa si è basata sulla giurisprudenza della Corte relativa alla disposizione del diritto dell’Unione recepita nel diritto portoghese da detto articolo 9, punto 27, lettera a), vale a dire l’articolo 13, parte B, lettera d), punto 1, della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (GU 1977, L 145, pag. 1; in prosieguo: la «sesta direttiva»). Tale disposizione della sesta direttiva è stata ripresa all’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112, la quale ha abrogato e sostituito la sesta direttiva a decorrere dal 1° gennaio 2007. Ciò premesso, il Supremo Tribunal Administrativo (Corte amministrativa suprema) ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se la cessione, effettuata a titolo oneroso, da parte di un soggetto passivo IVA ad un terzo, della posizione processuale di cui è titolare nel contesto di un’azione esecutiva per il recupero di un credito riconosciuto giudizialmente, risultante dall’inadempimento di un contratto di mediazione immobiliare, maggiorato di IVA, al tasso in vigore alla data di effettuazione del pagamento, e di interessi moratori maturati e maturandi fino al pagamento integrale, rientra nella nozione di “concessione”, “negoziazione” o “gestione di crediti” ai fini dell’applicazione dell’esenzione prevista dall’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112/CE». Sulla questione pregiudiziale Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112 debba essere interpretato nel senso che l’esenzione che esso prevede per le operazioni relative alla concessione, alla negoziazione nonché alla gestione di crediti si applica ad un’operazione che consiste, per il soggetto passivo, nella cessione a titolo oneroso, in favore di un terzo, della sua posizione processuale in un’azione esecutiva per la riscossione forzata di un credito. Occorre esaminare, in via preliminare, se tale operazione costituisca un’operazione soggetta ad IVA. Al riguardo, in primo luogo, dall’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, che determina l’ambito di applicazione dell’IVA, risulta che all’interno di uno Stato membro sono soggette a tale imposta solo le attività aventi carattere economico. In forza dell’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, di tale direttiva, si considera soggetto passivo chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, tale attività di natura economica. Secondo la definizione di cui all’articolo 9, paragrafo 1, secondo


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comma, di detta direttiva, la nozione di attività economica comprende ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi e, in particolare, le operazioni che comportano lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità (sentenza dell’8 novembre 2018, C&D Foods Acquisition, C‑502/17, EU:C:2018:888, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). Occorre rilevare che la Corte ha già avuto modo di interpretare l’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2006/112 nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 13 giugno 2013, Kostov (C‑62/12, EU:C:2013:391), avente ad oggetto la questione dell’assoggettamento all’IVA di operazioni effettuate a titolo occasionale da una persona soggetta ad IVA per la sua attività principale, in un caso in cui l’attività secondaria di tale persona, pur costituendo un’attività economica e presentando un’affinità con la sua attività principale, non corrispondeva a quest’ultima. La Corte ha dichiarato che una persona fisica, già soggetta all’IVA per un’attività economica che esercita in modo permanente, deve essere considerata come «soggetto passivo» per qualsiasi altra attività economica che esercita in modo occasionale, a condizione che tale attività costituisca un’attività ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112 (v., in tal senso, sentenza del 13 giugno 2013, Kostov, C‑62/12, EU:C:2013:391, punto 31). Dalla giurisprudenza della Corte risulta inoltre che il numero e la portata delle operazioni non possono costituire un criterio di distinzione tra le attività di un investitore privato, che si collocano al di fuori dell’ambito di applicazione di tale direttiva, e quelle di un investitore le cui operazioni costituiscono un’attività economica (v., in tal senso, sentenza del 15 settembre 2011, Słaby e a., C‑180/10 e C‑181/10, EU:C:2011:589, punto 37 e giurisprudenza ivi citata). Nel caso di specie, la PNC ha espresso dubbi sul fatto che, in una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, si possa ritenere che il cedente abbia agito nel contesto della sua «attività economica», ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2006/112, per il motivo che l’intervento della PNC nell’operazione di cessione di credito in questione nel procedimento principale è stato meramente occasionale, poiché l’attività economica che essa esercita in modo abituale è un’attività di mediazione immobiliare. Al riguardo va rilevato, al pari dell’avvocato generale al paragrafo 42 delle sue conclusioni, che l’operazione di cessione di cui trattasi nel procedimento principale è intervenuta nell’ambito di una controversia relativa alla riscossione forzata di un credito derivante da un contratto concluso nel quadro dell’attività economica imponibile della PNC, consistente nel fornire servizi di mediazione immobiliare, senza che la PNC contesti di aver agito, per quanto concerne l’operazione all’origine dell’azione esecutiva per la riscossione forzata, nell’ambito della sua attività economica. Pertanto, l’operazione in questione nel procedimento principale si inserisce effettivamente nel prolungamento diretto dell’attività economica principale di tale società.


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In tali circostanze, il fatto che l’operazione di cui trattasi nel procedimento principale, effettuata da una persona già soggetta all’IVA, non corrisponda all’attività principale di tale persona e sia stata eseguita da quest’ultima in modo meramente occasionale non esclude che detta persona abbia agito, per quanto concerne tale operazione, nel quadro della sua attività economica, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2006/112. In secondo luogo, occorre ricordare che, a norma dell’articolo 2, paragrafo 1, lettere a) e c), della direttiva 2006/112, sono soggette all’IVA, rispettivamente, le «cessioni di beni effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale» e le «prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale». L’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 definisce la cessione di beni come «il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario», mentre l’articolo 24, paragrafo 1, di tale direttiva definisce la prestazione di servizi come «ogni operazione che non costituisce cessione di un bene». Nel caso di specie, per quanto riguarda la qualificazione, ai fini dell’IVA, dell’operazione di cui trattasi nel procedimento principale, è pacifico che tale operazione è stata effettuata «a titolo oneroso». Dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta che la PNC ha ceduto alla Starplant, contro retribuzione e in modo unitario e globale, tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla posizione processuale che deteneva nell’ambito di un procedimento esecutivo per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice e il cui recupero effettivo era garantito dal pignoramento e dall’aggiudicazione alla PNC di un immobile appartenente al debitore. Orbene, dalla giurisprudenza della Corte si evince che occorre concludere che si è in presenza di un’unica prestazione quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo al cliente sono così strettamente collegati da formare, oggettivamente, un’unica prestazione economica inscindibile la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso (v., in tal senso, sentenze del 10 marzo 2011, Bog e a., C-497/09, C-499/09, C‑501/09 e C‑502/09, EU:C:2011:135, punto 53, nonché del 10 novembre 2016, Baštová, C-432/15, EU:C:2016:855, punto 70). Pertanto, tenuto conto degli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte, menzionati al punto 31 della presente sentenza, occorre considerare che l’operazione in questione nel procedimento principale non può essere artificiosamente scomposta in due prestazioni consistenti, da un lato, in una cessione di credito e, dall’altro, nella cessione di una posizione processuale diretta alla riscossione forzata di un credito. In proposito, se dovesse risultare, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 36 delle sue conclusioni, che, tra i diversi elementi che costituiscono detta operazione, l’elemento principale risiede nel trasferimento di un bene materiale, vale a dire l’immobile aggiudicato al soggetto passivo, la decisione di rinvio non precisa se, prima che la sentenza di aggiudicazione di tale immobile diventasse definitiva, il


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soggetto passivo a cui detto immobile è stato aggiudicato avesse già potuto disporne, di fatto, come se ne fosse il proprietario. Se così fosse, l’operazione di cessione di cui trattasi nel procedimento principale, che, secondo le osservazioni presentate dinanzi alla Corte, è intervenuta il giorno prima della data in cui la sentenza di aggiudicazione dell’immobile di cui trattasi è divenuta definitiva, consisterebbe in un trasferimento di un bene materiale, vale a dire di un immobile, da una parte che autorizza un’altra parte a disporne, di fatto, come se fosse il proprietario di tale bene, il che costituirebbe una cessione di beni (v., in tal senso, sentenza del 27 marzo 2019, Mydibel, C-201/18, EU:C:2019:254, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). Se così non fosse, l’operazione in questione nel procedimento principale consisterebbe nella cessione di un bene immateriale, che avrebbe ad oggetto diritti su un bene immobile, e rientrerebbe nella nozione di prestazione di servizi, conformemente all’articolo 25, lettera a), della direttiva 2006/112. Spetta al giudice del rinvio effettuare le necessarie verifiche a tal riguardo. Tenuto conto delle caratteristiche peculiari dell’operazione di cui trattasi nel procedimento principale, quali esposte ai punti da 31 a 35 della presente sentenza, a prescindere dalla sua qualificazione come prestazione di servizi o come cessione di beni, essa è, per sua natura, differente da quella in questione nel procedimento che ha dato luogo alla sentenza del 27 ottobre 2011, GFKL Financial Services (C93/10, EU:C:2011:700). Infatti, l’operazione esaminata dalla Corte in tale sentenza consisteva nell’acquisizione da parte di un operatore, a proprio rischio, di crediti in sofferenza ad un prezzo inferiore al loro valore nominale, e in merito alla quale la Corte ha concluso, al punto 26 di tale sentenza, che un operatore che acquisti siffatti crediti non effettua una prestazione di servizi a titolo oneroso e non compie un’attività economica che ricade nella sfera di applicazione della sesta direttiva qualora la differenza tra il valore nominale di detti crediti ed il loro prezzo di acquisto rifletta il valore economico effettivo dei crediti medesimi al momento della loro cessione. Per contro, l’operazione in questione nel procedimento principale consiste nella cessione, in favore di un terzo, contro retribuzione, di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla posizione processuale detenuta da un soggetto passivo in un’azione esecutiva per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice. Dalle considerazioni che precedono risulta che l’operazione di cui trattasi nel procedimento principale è soggetta all’IVA, in forza dell’articolo 2, paragrafo 1, lettere a) o c), della direttiva 2006/112. Per quanto concerne la questione se tale operazione rientri nell’esenzione di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112, relativo alla «concessione e [al]la negoziazione di crediti nonché [al]la gestione di crediti da parte di chi li ha concessi», si deve osservare che, come rilevato dal governo portoghese e dalla Commissione nelle loro osservazioni e come indicato dall’avvocato generale al paragrafo 61 delle sue conclusioni, le circostanze all’origine della controversia principale, con tutta evidenza, non fanno riferimento a un «credito», consistente nella messa a


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disposizione di un capitale, debitamente retribuito con il pagamento di interessi, o in un pagamento differito del prezzo di acquisto di un bene concesso da un fornitore, mediante il pagamento di interessi su tale credito [v., in tal senso, sentenze dell’11 luglio 1996, Régie dauphinoise, C-306/94, EU:C:1996:290, punti da 16 a 19; del 29 aprile 2004, EDM, C-77/01, EU:C:2004:243, punti da 65 a 70, e del 18 ottobre 2018, Volkswagen Financial Services (UK), C-153/17, EU:C:2018:845, punto 36 e giurisprudenza ivi citata]. Infatti, dalla decisione di rinvio non risulta in alcun modo che l’operazione in questione nel procedimento principale abbia comportato l’obbligo, per la Starplant, di versare interessi destinati a rimborsare un credito che le era stato concesso. Di conseguenza, anche qualora tale operazione fosse qualificata dal giudice del rinvio come prestazione di servizi, tale operazione non rientrerebbe nell’esenzione di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla PNC in udienza dinanzi alla Corte, tenuto conto delle considerazioni che figurano ai punti 33 e 35 della presente sentenza, non si può in ogni caso considerare che l’operazione di cui trattasi nel procedimento principale riguarda «crediti», ed essa, pertanto, non rientra nell’esenzione di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2006/112, per le operazioni concernenti i «crediti (…), ad eccezione del recupero di crediti». Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione posta dichiarando che l’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112 deve essere interpretato nel senso che l’esenzione che esso prevede per le operazioni relative alla concessione, alla negoziazione o alla gestione di crediti non si applica ad un’operazione che consiste, per il soggetto passivo, nella cessione a titolo oneroso, in favore di un terzo, di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla sua posizione processuale nell’ambito di un procedimento esecutivo per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice e il cui pagamento è stato garantito da un diritto su un bene immobile pignorato aggiudicatogli. Sulle spese Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: L’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, dev’essere interpretato nel senso che l’esenzione che esso prevede per le operazioni relative alla concessione, alla negoziazione o alla gestione di crediti non si applica ad un’operazione che consiste, per il soggetto passivo, nella cessione a titolo oneroso, in favore di un terzo, di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla sua posizione proces-


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suale nell’ambito di un procedimento esecutivo per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice e il cui pagamento è stato garantito da un diritto su un bene immobile pignorato aggiudicatogli. (Omissis)

(1) La cessione a titolo oneroso della posizione processuale e l’interpretazione della realtà economica sottostante. Sommario: 1. La fattispecie e la domanda di pronuncia pregiudiziale. – 2. Il principio

di attrazione ad IVA delle attività svolte da un soggetto passivo. – 3. La natura complessa della operazione. – 4. Il trasferimento della posizione processuale tra cessione dell’immobile e prestazione di un servizio. – 5. L’applicazione dell’esenzione IVA ex art. 135 della direttiva. La Corte di Giustizia Europea è intervenuta sull’applicazione della Direttiva 2006/112/ CE in merito ad una cessione a titolo oneroso, in favore di un terzo, di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla sua posizione processuale nell’ambito di un procedimento esecutivo per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice e il cui pagamento è stato garantito da un diritto su un bene immobile pignorato aggiudicatogli. L’analisi della realtà economica sottostante alla complessa operazione ha comportato l’applicazione dell’IVA in quanto cessione di bene immobile ovvero cessione di bene immateriale escludendo, in quanto non inerenti, le disposizioni di cui all’art. 135, paragrafo 1, lettere b) e d). The European Court of Justice has intervened on the application of Directive 2006/112/ CE regarding the assigning, to a third party, for consideration all the rights and obligations deriving from the taxable person’s position in enforcement proceedings for recovery of a debt recognized by a judgment, a debt the payment of which was secured by a right over immovable property awarded to that taxable person and made the subject of attachment. From analysis of the economic reality of the complex operation the European Court ruled the application of VAT as a transfer of real estate or a transfer of intangible property excluding as not inherent the application of art. 135 (1)(b) and (d).


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1. La fattispecie e la domanda di pronuncia pregiudiziale. – Il Supremo Tribunale Amministrativo del Portogallo ha presentato una domanda di pronuncia pregiudiziale relativamente al caso di una agenzia immobiliare (Paulo Nascimento Consulting di seguito PNC) che ha ceduto a titolo oneroso ad un altro soggetto passivo (Starplant) la propria posizione processuale detenuta in un’azione diretta all’esecuzione forzata di un credito già accertato con decisione giurisdizionale. Nell’ambito dell’espletamento di un mandato esclusivo di vendita di un terreno agricolo, la PNC otteneva un’offerta per l’acquisto del terreno che sottoponeva al mandante; quest’ultimo rifiutava non solo l’offerta ma anche di corrispondere a PNC il compenso per l’attività svolta, pari a 125.000 euro. A seguito di tale rifiuto, l’agenzia immobiliare otteneva, con sentenza poi passata in giudicato, la condanna del mandante a corrispondere la commissione di mediazione immobiliare oltre all’IVA e agli interessi di mora. Ciononostante, il mandante non adempiva al proprio obbligo costringendo quindi PNC a intentare, dinanzi allo stesso giudice, un’azione esecutiva volta ad ottenere la riscossione forzata del proprio credito accertato in complessivi euro 170.859,62 (di cui euro 26.250 per IVA sulla mediazione e euro 19.609,62 per interessi di mora). A seguito della suddetta azione esecutiva, un bene immobile appartenente alla debitrice del valore complessivo di circa 866 mila euro veniva pignorato ed assegnato al creditore per un valore pari a circa 606 mila euro quale prezzo di vendita ridotto dall’ufficiale giudiziario sulla base di una stima immobiliare a tale scopo redatta. A questo punto, la PNC cedeva alla Starplant il proprio diritto ad acquisire l’immobile e le relative posizioni di credito verso la debitrice per un importo complessivo pari a euro 351.619,90; così operando, la Starplant avrebbe da un lato pagato alla PNC il suddetto importo e, utilizzando il credito vantato da PNC e acquisito mediante la suddetta cessione (i.e. 170.859,62), avrebbe corrisposto a quest’ultima la differenza tra l’importo dell’immobile assegnato e il credito stesso per una somma pari a euro 417.937,12 (i.e. 606.200 meno 170.859,62 meno le spese di esecuzione a carico del debitore). L’operazione consentiva a Starplant di acquisire l’immobile ad un costo complessivo pari a euro 769.557,02 (417.937,12 più 351.619,90) a fronte di una valorizzazione dello stesso pari a euro 866 mila. Avendo già assoggettato ad imposta l’importo di euro 125.000 (sul quale è stata liquidata IVA per euro 26.250), PNC non ha applicato l’IVA né sugli interessi di mora (pari a euro 19.609,62) né sulla residua parte (pari a euro


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200.369,90), contabilizzando tali importi come “altri utili non precisati”. In particolare, la cessione del credito veniva considerata esente IVA ai sensi dell’art. 9 del codice Iva portoghese, norma che ha trasposto l’art. 135 paragrafo 1, lettera b) della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006 nell’ordinamento portoghese. Di diverso avviso l’Amministrazione finanziaria portoghese la quale ha emesso un avviso di liquidazione dell’IVA applicando l’imposta sul totale del corrispettivo della cessione della posizione processuale dopo aver ritenuto che la suddetta operazione costituisse un’operazione (prestazione di servizi) distinta da quella relativa alla mediazione. Dopo alterne decisioni da parte delle commissioni tributarie di primo e di secondo grado (la prima favorevole a PNC, la seconda all’Amministrazione finanziaria portoghese), PNC ha proposto ricorso al Supremo Tribunal Administrativo il quale, sospendendo il giudizio, ha sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale “se la cessione, effettuata a titolo oneroso, da parte di un soggetto passivo IVA ad un terzo, della posizione processuale di cui è titolare nel contesto di un’azione esecutiva per il recupero di un credito riconosciuto giudizialmente, risultante dall’inadempimento di un contratto di mediazione immobiliare, maggiorato di IVA, al tasso in vigore alla data di effettuazione del pagamento, e di interessi moratori maturati e maturandi fino al pagamento integrale, rientra nella nozione di ‘concessione’, ‘negoziazione’ o ‘gestione di crediti’ ai fini dell’applicazione dell’esenzione prevista dall’articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della Direttiva IVA”. 2. Il principio di attrazione ad IVA delle attività svolte da un soggetto passivo. – Poiché nel corso del giudizio la PNC ha invocato il principio di non applicabilità dell’IVA al caso di specie ritenendo di non aver agito nell’ambito della sua “attività economica” ai sensi dell’art. 9, paragrafo 1, secondo comma della direttiva 2006/112, la sentenza affronta preliminarmente il problema dell’applicazione del principio di attrazione dell’attività economica svolta da un soggetto passivo nell’ambito dell’IVA. PNC in particolare sosteneva che il suo ruolo nell’operazione fosse solamente occasionale non esercitando abitualmente un’attività relativa ad operazioni di credito ma come detto, un’attività di intermediazione immobiliare; da ciò conseguirebbe, secondo la tesi sostenuta da PNC, l’impossibilità di ricondurre i proventi di tale attività nell’ambito IVA. La tematica è nota. Ai sensi del combinato disposto dell’art. 9, paragrafo 1, primo e secondo comma della direttiva 2006/112/CE si considera soggetto


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passivo chiunque eserciti, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica intesa come ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività. Quanto sopra ha portato la Corte di Giustizia a ritenere che non esiste alcuna circostanza che consenta di considerare come non assoggettabili ad IVA le attività svolte da un soggetto passivo; in altre parole, la qualifica di soggetto passivo comporta l’applicazione dell’IVA a tutte le attività economiche da questi compiute ancorché alcune di esse siano svolte in modo occasionale sempreché le medesime non rientrino nella sfera delle sue attività private o non vengano svolte nell’ambito dell’amministrazione del suo patrimonio privato (1). Tale conclusione è derivata dalla lettura dei considerando 5 e 13 della direttiva 2006/112/CE i quali affermano da un lato che il sistema IVA raggiunge la maggior semplicità e neutralità se l’imposta è riscossa nel modo più generale possibile e dall’altro lato che la nozione di soggetto passivo dovrebbe essere definita in modo da consentire agli Stati membri, sempre per garantire una più puntuale applicazione del principio di neutralità dell’imposta, di includervi le persone che effettuano operazioni occasionali (2). In particolare, la sentenza in commento ha statuito sul punto che “in tali circostanze, il fatto che l’operazione di cui trattasi nel procedimento principale, effettuata da una persona già soggetta all’IVA, non corrisponda all’attività principale di tale persona e sia stata eseguita da quest’ultima in modo meramente occasionale non esclude che detta persona abbia agito, per quanto concerne tale operazione, nel quadro della sua attività economica, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2006/112”. Il principio è del tutto condivisibile ancorché sia opportuno circostanziarlo con qualche precisazione, facendo anche riferimento alla trasposizione della direttiva IVA nell’ordinamento domestico italiano. Le conclusioni della Corte di Giustizia sono pienamente condivisibili con riferimento ai soggetti giuridici quali le società commerciali di qualsiasi tipo, giusta anche il disposto

(1) Si veda punto 53 delle conclusioni dell’avvocato generale Wathelt alla sentenza del 13 giugno 2013, Galin Kostov C-62/12 in www.curia.europa.eu. (2) Corte Giustizia UE, sentenza 13 giugno 2013, Kostov, C-62/12, cit., punto 29. P. Centore, L’attrazione delle operazioni occasionali nella sfera dell’attività economica, in L’Iva, 2013,12; Sirri, Attività occasionali e forza attrattiva della posizione IVA del soggetto passivo, in GT, 2013, 833 ss.


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dell’art. 4, secondo comma, n. 1), del d.P.R. n. 633/1972; per questi soggetti passivi, infatti, non esiste una “sfera privata” in quanto gli stessi rivestono la qualifica di soggetti passivi IVA per tutte le attività dagli stessi poste in essere; di conseguenza, la forza attrattiva dell’imponibilità IVA è applicabile a tutte le attività svolte, non esistendo la possibilità di ricondurre una qualsivoglia attività da essi esercitata ad una sfera privata. Diversamente, qualora il soggetto passivo sia una persona fisica, il principio deve essere applicato con i dovuti distinguo: l’imprenditore individuale, la società agricola o il lavoratore autonomo potrebbero svolgere attività pur sempre remunerate la cui riconducibilità nell’ambito IVA non sempre è automatica. Si pensi, a titolo esemplificativo, al noto dibattito sorto in merito all’applicabilità dell’IVA alla cessione da parte di un imprenditore agricolo di terreni divenuti edificabili durante l’esercizio della propria attività. Una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha concluso (traendo conforto anche dalle sentenze della Corte di Giustizia del 15 settembre 2011 C-180/10 e C-181/10 Ja. Sl. e E-mi.Ku.) affermando che la cessione del terreno non dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione dell’IVA in quanto il bene – con l’attribuzione della edificabilità – avrebbe perduto il carattere di strumentalità, uscendo così dalla sfera imprenditoriale correlata all’attività agricola esercitata (3). Al pari devono ritenersi escluse da IVA, similmente a quanto accade per l’imprenditore commerciale ai sensi del 1° comma dell’art. 4 del decreto IVA, le operazioni estranee all’attività di lavoro autonomo svolte da un professionista soggetto passivo IVA; le persone fisiche, pertanto, devono selezionare e isolare – in assenza di norme specifiche, applicando le soluzioni già individuate dall’art. 4 per l’esercizio d’impresa – la sfera dei beni diversi da quelli relativi all’arte o professione esercitata (4). Ad esempio, per i compensi che i lavoratori autonomi iscritti in Albi professionali traggono dalla partecipazione ai consigli di amministrazione degli enti collettivi, l’amministrazione finanziaria ha indicato che occorre verificare

(3) Cass., 16 febbraio 2018, n. 3802, in Corr. Trib. 2018,1309 e ss. con commento critico di Centore, Il terreno edificabile tra Iva e imposta di registro; nel medesimo senso Cass., 9 aprile 2014, n. 8327, in Banca dati Eutekne con commento di De Nardi, Nella cessione di terreni agricoli “vale” la loro sfera imprenditoriale, 2014 Eutekne.info. (4) A. Contrino, Incertezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2011, I, 10535 ss.; M. Vantaggio, L’esercizio di arti e professioni nell’IVA, in Rass. Trib., 2002, 1571.


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se l’attività che la società amministrata svolge è oggettivamente connessa alle mansioni tipiche dell’attività professionale. Solo in tal caso il compenso deve essere attratto nella sfera di imponibilità IVA (5). 3. La natura complessa della operazione. – Al fine di poter analizzare il rinvio pregiudiziale la Corte di Giustizia ha dovuto in via preliminare svolgere alcune considerazioni in merito alla qualificazione dell’operazione essendone il corretto inquadramento propedeutico alla successiva verifica circa la sua riconducibilità o meno alle esenzioni previste dall’art. 135, paragrafo 1, lettere b) e d) della direttiva 2006/112/CE. Nel caso di specie, PNC ha sostenuto che l’operazione si è risolta in una mera cessione di credito e come tale – giusta la richiamata sentenza GFKL Financial Services – non rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva; di diverso avviso l’Amministrazione finanziaria portoghese secondo la quale la cessione della posizione giudiziale (comprendente sia il credito vantato sia il diritto all’acquisizione dell’immobile) deve essere considerata come un’unica operazione – distinta da quella relativa alla commissione di mediazione – rientrante nella prestazione di servizi o in alternativa nella cessione di un bene materiale. La Commissione, invece, si è espressa per ritenere l’operazione come composta da due prestazioni di servizi: la prima relativa alla cessione del credito detenuto dalla PNC e la seconda relativa alla cessione della posizione processuale. La Commissione ritiene non condivisibile la tesi della PNC poiché risulterebbe incomprensibile l’interesse che avrebbe indotto la Starplant ad acquistare un credito per un corrispettivo molto superiore al valore nominale. Aderendo alla posizione dell’amministrazione finanziaria portoghese, l’avvocato generale Henrik Saumandsgaard si è orientato a considerare la negoziazione con un’unica operazione costituita dalla cessione di una posizione processuale successiva all’aggiudicazione dell’immobile (ancorché la decisione sia passata in giudicato il giorno successivo alla firma dell’accordo tra PNC e Starplant).

(5) Circ. min. 12 dicembre 2001, n. 105 nella quale si richiama il principio espresso nella circ. min. 6 luglio 2011, n. 67/E vale a dire “al fine di stabilire se sussista o meno una connessione tra l’attività di collaborazione e quella di lavoro autonomo esercitata occorre valutare se per lo svolgimento dell’attività di collaborazione siano necessarie conoscenze tecnico giuridiche direttamente collegate all’attività di lavoro autonomo esercitata abitualmente”.


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L’Avvocato generale non ha condiviso la ricostruzione della Commissione poiché ciò avrebbe comportato una artificiosa scomposizione dell’operazione, alterando la funzionalità del sistema dell’IVA. Tale affermazione merita un approfondimento. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è in presenza di un’unica prestazione quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo al cliente sono così strettamente collegati da formare, oggettivamente, un’unica prestazione economica inscindibile la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso (6). Pertanto, ove le due componenti della prestazione siano poste sullo stesso piano e siano apprezzate come indispensabili per la realizzazione della prestazione complessiva, non è possibile scomporle considerandone una principale, l’altra accessoria. In altre parole, è importante valutare sia l’obiettivo economico dell’operazione sia l’interesse dei suoi destinatari (7). Pertanto, al fine di accertare se una prestazione costituisca un’unica operazione complessa oppure operazioni diverse, occorre stabilire se ogni componente di tale prestazione costituisca, sotto il profilo economico, un fine a sé stante per il cliente o se il suo interesse riguardi solo la prestazione complessa nella sua interezza. Nel caso di specie l’interesse dell’acquirente (i.e. Starplant) è quello di beneficiare di una prestazione unica piuttosto che di una pluralità di sottoprestazioni in quanto, sotto il profilo economico, l’operazione è stata costruita dalle parti come un’unica cessione (8). Coerentemente con tali argomentazioni, la sentenza conclude affermando che, “tenuto conto degli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte, menzionati al punto 31 della presente sentenza, occorre considerare che l’operazione in questione nel procedimento principale non può essere artificiosamente scomposta in due prestazioni consistenti, da un lato, in una cessione

(6) In merito si confrontino Corte Giustizia UE, sentenze del 27 ottobre 2005, Levob Verzekeringen e OV Bank, C-41/04, punto 22, in www.curia.europa.eu; 9marzo 2007, Aktiebolaget NN, C-111/05, punto 23, in www.curia.europa.eu, 10 marzo 2011;Bog e a., C-497/09, C-49/09, C-501/09 e C-502/09, punto 53, in GT, 2011, 373 con commento di P. Centore nonché 10 novembre 2016, Batova, C-432/15, punto 70, in www.curia.europa.eu. Per la giurisprudenza italiana si rinvia a Cass., 6 luglio 2018, n. 17836, in Dir. prat. trib., 2019, II,1283 ss. con commento di G. De Petris; Cass., 31 luglio 2018, n. 20234 in www.cassazione.it. (7) Si confronti Corte Giustizia UE, sentenza 18 ottobre 2018, Volkswagen Financial Services, C-153/17, punto 33, in www.curia.europa.eu. (8) Sul punto si confronti anche la Corte Giustizia UE, sentenza 8 maggio 2012, Deutsche Bank AG, C-44/11 in Corr. trib., 2013, 205, con commento di G. Molinaro.


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di credito e, dall’altro, nella cessione di una posizione processuale diretta alla riscossione forzata di un credito”. 4. Il trasferimento della posizione processuale tra cessione dell’immobile e prestazione di un servizio. – La ricostruzione della natura della operazione è essenziale al fine del suo corretto trattamento ai fini IVA. Nel caso in esame la cessione della posizione processuale da parte di PNC è intervenuta il giorno prima della data in cui la sentenza di aggiudicazione dell’immobile di cui trattasi fosse divenuta definitiva; tuttavia, dall’analisi della documentazione disponibile non è chiaro alla Corte di Giustizia se PNC avesse potuto già disporre dell’immobile con le medesime prerogative del proprietario. Questa circostanza sarebbe determinante per comprendere se l’atto di cessione della posizione processuale possa configurarsi come un trasferimento di un bene materiale già disponibile (i.e. immobile) ovvero di un bene immateriale (i.e. diritti processuali su un bene immobile). Deve farsi notare che il corretto inquadramento della posizione giuridica è importante anche ai fini dell’applicazione della normativa italiana. La prassi dell’amministrazione finanziaria ha già preso posizione su una fattispecie analoga pervenendo alla conclusione che il mero spossessamento del potere di disporre e di amministrare il bene non sia sufficiente per considerare avvenuto il trasferimento del bene stesso in quanto occorre verificarne la titolarità giuridica e, conseguentemente, la soggettività d’imposta (9). L’occasione nella quale l’Agenzia delle Entrate ha raggiunto tale conclusione è stata la risposta ad un’istanza di interpello riguardante un’ipotesi di conversione della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento a carico di un imprenditore in una liquidazione del patrimonio dello stesso (10).

(9) Occorre ricordare che ai sensi dell’art. 14 della Direttiva “1. Costituisce «cessione di beni» il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario. 2. Oltre all’operazione di cui al paragrafo 1, sono considerate cessione di beni le operazioni seguenti: a) il trasferimento, accompagnato dal pagamento di un’indennità, della proprietà di un bene in forza di un’espropriazione compiuta dalla pubblica amministrazione o in suo nome o a norma di legge;”. Spetta al giudice nazionale determinare, caso per caso, in relazione alla singola fattispecie, se una data operazione su un bene comporti il trasferimento del potere di disporre di un bene come proprietario; in tal senso Corte Giustizia UE, sentenza 27 marzo 2019, Mydibel SA, C-201/18, punti 34 e 35 in www.curia.europa.eu. (10) Si veda la risposta all’istanza di interpello n. 104 del 10 dicembre 2018.


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Come noto, con il decreto di apertura della procedura de qua, che è equiparato ad un atto di pignoramento, viene disposto lo spossessamento dei beni da liquidare in favore del liquidatore; nello stesso tempo, il debitore conserva la titolarità giuridica dei beni fino al perfezionamento della vendita a favore di terzi (11). Nella prassi italiana, quindi, il trasferimento di beni in ipotesi di esecuzione forzata fa sorgere in capo al debitore esecutato l’obbligo – ove verificati i presupposti IVA – di assolvere l’IVA al momento del trasferimento del titolo giuridico sul bene escusso (12). L’eventuale successivo trasferimento da parte del terzo assegnatario è disciplinato dalle regole ordinarie previste dalla normativa nazionale. Nella normativa italiana un esempio dell’applicazione del principio appena descritto è rinvenibile nelle disposizioni della legge n. 130/1999 relative alle cd. società di appoggio (Reoco) nelle operazioni di cartolarizzazione di crediti (aventi come sottostanti garanzie immobiliari), recentemente oggetto di una modifica normativa (i.e. d.l. n. 34/2019 convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019 n. 58 – c.d. decreto crescita). In particolare, nell’art. 7.1 della citata legge 130/1999 sono stati inseriti i commi da 4-bis a 4-quinquies che prevedono l’intervento delle citate società non solo nella gestione dei crediti cartolarizzati, ma altresì nell’acquisizione dei beni oggetto delle garanzie del credito in modo da poterne gestire le potenzialità di produzione di liquidità sia come generatori di reddito sia come controvalore nella futura alienazione.

(11) A fini di completezza si rileva che ai sensi dell’art. 2, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 dispone che “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere” e in materia di trasferimento di beni immobili ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972 “le cessioni di beni si considerano effettuate nel momento della stipulazione se riguardano beni immobili”. (12) Si confronti ris., 26 novembre 2001, n. 193/E in Banca dati Eutekne nella quale si rinvia anche alla sentenza della Suprema Corte, 12 agosto 1997 n. 7528. In particolare, l’Amministrazione finanziaria ha affermato che “Accertata la rilevanza oggettiva delle vendite forzate, è necessario, inoltre, ai fini dell’imposizione Iva, che tali cessioni siano effettuate nell’esercizio d’impresa, ovvero che il debitore esecutato sia qualificato come soggetto passivo d’imposta e che i beni siano inerenti all’attività esercitata dallo stesso. Al riguardo, non rileva la circostanza che le operazioni di vendita siano effettuate coattivamente, con l’intervento del Giudice delle esecuzioni, in considerazione del fatto che tali cessioni dispiegano i loro effetti giuridici ed economici direttamente sul patrimonio dell’imprenditore esecutato, che è e resta il soggetto passivo d’imposta”.


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Nella fattispecie, la Reoco acquisterà la proprietà dell’immobile dal debitore e successivamente venderà il bene sul mercato. Sulla base di quanto sopra, le compravendite immobiliari poste in essere dalla Reoco dovrebbero essere assoggettate ai fini IVA al regime ordinariamente previsto per tali operazioni (13). Il caso esaminato dalla Corte di Giustizia offre spunti di riflessione anche per l’ipotesi in cui il bene non possa ritenersi trasferito dal debitore esecuto all’assegnatario; in tal caso, infatti, secondo la Corte di Giustizia il trasferimento della posizione processuale non può essere assimilato ad una cessione di beni ma deve essere considerato una prestazione di servizi ai sensi dell’art. 25, primo comma lettera a) della Direttiva il quale prevede che “una prestazione di servizi può consistere, tra l’altro, in una delle operazioni seguenti: a) la cessione di beni immateriali, siano o no rappresentati da un titolo”. La fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia non risulta sia stata oggetto di interpretazioni ufficiali da parte dell’Amministrazione finanziaria né sia stata esaminata dalla giurisprudenza nazionale ed è pertanto di particolare interesse chiedersi quale sia il corretto trattamento IVA secondo la normativa nazionale per situazioni analoghe a quella trattata dalla Corte di Giustizia avente ad oggetto la cessione di una posizione processuale. Vengono in ausilio, a tal proposito, la regola prevista dall’art. 3, comma 2, n. 2) del d.P.R. n. 633/1972 e quella della disposizione di cui all’ultimo periodo dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972, norma che considera prestazioni di servizi le prestazioni dipendenti da “obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte” (14), sempreché dietro corrispettivo. È vero che la disposizione di cui all’art. 3, secondo comma, n. 2) sopra citata si riferisce solo a specifiche fattispecie, che potrebbero risultare anche del tutto disomogenee rispetto al caso esaminato dalla Corte, ma la stessa Amministrazione finanziaria, in una fattispecie relativa al trasferimento dei diritti

(13) In tal senso si confronti la risposta n. 18 del 30 gennaio 2019 in banca dati Eutekne. (14) L’art. 3, comma 2, n. 2, considera prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo, “le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti d’autore, quelle relative ad invenzioni industriali, modelli, disegni, processi, formule e simili e quelle relative a marchi e insegne, nonché le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti”. In merito all’applicazione dell’art. 3, comma 2, n. 2) alle cessioni di beni immateriali, si veda anche la circ. min., 6 luglio 2019, n. 32, la quale afferma che “in coerenza con le direttive comunitarie in materia, le cessioni di beni immateriali quali i diritti di invenzione, brevetti, marchi, ecc. e quelle di beni virtuali sono considerate prestazioni di servizi ai sensi dell’articolo 3, comma 2, n. 2, del Dpr 26 ottobre 1972, n. 633” e la sentenza della Corte di Cassazione, 10 ottobre 2019, n. 24592 in materia di trasferimento di certificati CO2, in banca dati Eutekne.


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di “quote tonno rosso” di pesca professionale, ha affermato che “il trasferimento di tali ‘diritti’ tra soggetti passivi si configura ai sensi dell’articolo 3, secondo comma, del DPR n. 633 del 1972, come prestazione di servizi relativa a cessione di un ‘bene immateriale’ dell’impresa, strumentale all’esercizio dell’attività di pesca professionale” (15). Qualora non si condivida tale soluzione, resta comunque la riconducibilità della cessione del diritto processuale all’assunzione di un’obbligazione di fare, non fare e permettere di cui al citato art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972, disposizione in forza della quale la cessione della posizione processuale può essere fatta rientrare nel novero delle prestazioni di servizi. 5. L’applicazione dell’esenzione IVA ex art. 135 della direttiva. – Una volta definita la natura dell’operazione la sentenza ha esaminato gli argomenti della domanda di pronuncia pregiudiziale vale a dire l’interpretazione dell’art. 135, paragrafo 1, lettere b) e d) della direttiva 200/112/CE il quale prevede che “gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: b) la concessione e la negoziazione di crediti nonché la gestione di crediti da parte di chi li ha concessi; (…) d) le operazioni, compresa la negoziazione, relative ai depositi di fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali, ad eccezione del ricupero dei crediti”. In primo luogo, occorre ricordare che ancorché la questione pregiudiziale rinvii unicamente alla lettera b) sopra riportata è sempre possibile, come è stato fatto nel caso di specie, che la Corte di Giustizia prenda in considerazione altre norme di diritto dell’Unione alle quali il giudice nazionale non abbia fatto riferimento nel formulare la domanda. La Corte è tenuta a trarre, dall’insieme degli elementi forniti dal giudice nazionale e, in particolare, dalla motivazione della decisione di rinvio, gli elementi del diritto dell’Unione che richiedano un’interpretazione tenuto conto dell’oggetto della controversia (16). La Corte ha il diritto di fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione che possano essere utili il giudice di rinvio alla decisione della causa di cui è investita, indipendentemente dal

(15) Cfr. ris., 22 febbraio 2011, n. 20/E. (16) Si rinvia a Corte Giustizia UE, sentenze 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF, C-425/14, punto 20 in www.curia.europa.eu e 19 dicembre 2018, AREX CZ C-414/17 punti 34 e 35 in www.curia.europa.eu.


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fatto che il giudice del rinvio vi abbia fatto riferimento o meno nella formulazione delle sue questioni. Se lo ritiene necessario, la Corte può inoltre riformulare le questioni che le sono state sottoposte sempre al fine di fornire tutti gli elementi utili per l’applicazione delle norme unionali al diritto dello Stato richiedente. Ciò spiega il motivo dell’allargamento da parte della Corte di Giustizia della propria disamina sulla questione pregiudiziale anche alla lettera d) del citato articolo 135 della direttiva. Trattandosi di interpretazione di una norma di esenzione dall’IVA le conclusioni dell’avvocato generale hanno ricordato il principio consolidato nella giurisprudenza comunitaria di interpretazione restrittiva delle suddette norme in quanto deroghe al principio generale secondo cui l’IVA è riscossa per ogni cessione di beni e per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo (17). Quanto sopra deve comunque essere applicato con l’accortezza che l’interpretazione di tali norme di esenzione non può essere restrittiva al punto di privare del loro effetto utile i fattori di esenzione interessati (18). Nell’analisi della disposizione di cui alla lettera b) del primo paragrafo dell’art. 135 della direttiva, la Corte di Giustizia in primo luogo evidenzia come la normativa IVA portoghese abbia tradotto in modo non chiaro il termine “credito” ivi contenuto (la concessione e la negoziazione di crediti nonché la gestione di crediti da parte di chi li ha concessi) in quanto l’espressione deve riferirsi alla messa a disposizione di una somma di denaro sotto forma di prestito, rimborsabile ad una determinata scadenza ed eventualmente accompagnato da interessi (19).

(17) Punto 54 delle conclusioni dell’avvocato generale Henrik Saugmandsgaard. (18) Si confrontino le sentenze della Corte Giustizia UE, 28 ottobre 2010, Axa UK (C175/09, punto 25, in www.curia.europa.eu; 16 novembre 2017, Kozuba Premium Selection C-308/16, punti 39 e 45, in www.curia.europa.eu; 25 luglio 2018, DPAS C-5/17, punto 29, in www.curia.europa.eu e 19 dicembre 2018, Mailat C-17/18, punto 37, in www.curia.europa.eu. (19) L’art. 10, primo comma, n. 1 del d.P.R. n. 633/1972 ha recepito le lettere b) e d) dell’art. 135 della direttiva disponendo che “sono esenti dall’imposta: 1) le prestazioni di servizi concernenti la concessione e la negoziazione di crediti, la gestione degli stessi da parte dei concedenti e le operazioni di finanziamento; l’assunzione di impegni di natura finanziaria, l’assunzione di fideiussioni e di altre garanzie e la gestione di garanzie di crediti da parte dei concedenti; le dilazioni di pagamento, le operazioni, compresa la negoziazione, relative a depositi di fondi, conti correnti, pagamenti, giroconti, crediti e ad assegni o altri effetti commerciali, ad eccezione del recupero di crediti; la gestione di fondi comuni di investimento e di fondi pensione di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, le dilazioni di pagamento e le gestioni similari e il servizio bancoposta”.


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A fini di completezza si rileva, inoltre, che il termine “negoziazione” (di crediti) deve intendersi riferito all’attività di un intermediario che fornisce un servizio di intermediazione, consistente nel fare il necessario perché due parti concludano un contratto (vertente nel caso di specie su un prodotto finanziario), senza che tale intermediario sia a sua volta parte del contratto, né che abbia un interesse proprio riguardo al contenuto di quest’ultimo (20). Il termine “gestione” si riferisce ad un’attività svolta dalla medesima persona che ha concesso il prestito. Da quanto sopra emerge che la fattispecie sottoposta all’attenzione dei giudici comunitari nulla ha a che vedere con la definizione delle attività riportate tra quelle di cui alla lettera b) in esame. Come anticipato ampliando l’analisi delle norme unionali la Corte di Giustizia ha altresì analizzato l’eventuale applicazione al caso di specie dell’art. 135, primo paragrafo, lettera d) della direttiva vale a dire “le operazioni, compresa la negoziazione, relative ai depositi di fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali, ad eccezione del ricupero dei crediti”. Ebbene la medesima conclusione sopra illustrata è stata raggiunta in merito alla lettera d) dell’articolo 135 della direttiva ove si constati che la cessione da parte di PNC avrebbe ad oggetto diritti su un bene immobile e non un diritto di credito. Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto, l’art. 135 primo paragrafo lettera b) deve essere interpretato nel senso che l’esenzione che esso prevede per le operazioni relative alla concessione, alla negoziazione o alla gestione di crediti non si applica ad un’operazione che consiste, per il soggetto passivo, nella cessione a titolo oneroso, in favore di un terzo, di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla sua posizione processuale nell’ambito di un procedimento esecutivo per la riscossione forzata di un credito accertato con decisione del giudice e il cui pagamento è stato garantito da un diritto su un bene immobile pignorato aggiudicatogli.

Mario Ravaccia

(20) Per una definizione del termine “negoziazione” si rinvia alle sentenze della Corte Giustizia UE, 21 giugno 2007, Ludwig (C-453/05, punti 23 e 28, in www.curia.europa.eu; 5 luglio 2012, DTZ Zadelhoff C-259/11, punto 27, in www.curia.europa.eu nonché all’ordinanza 21 novembre 2017, Kerr C-615/16, disponibile solo in lingua francese o portoghese, punti 42 e 43 in www.curia.europa.eu.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

La tassazione delle distribuzioni da trust esteri Position paper STEP Italy Indice Disciplina commentata Abstract Position paper 1. Considerazioni introduttive 2. La situazione prima della novella 3. (segue) Il riferimento ai trust “opachi” nella Circolare n. 61/E del 2010 4. L’intervento del legislatore 5. (segue) Il richiamo all’articolo 47-bis 6. (segue) Il criterio distintivo tra distribuzione di reddito e di patrimonio 7. La posizione di STEP Italy

Disciplina commentata Articolo 13 del D.L. n. 124/2019 (convertito con modificazioni dalla L. 19 dicembre 2019, n. 157 (in G.U. 24/12/2019, n. 301) - Trust

1. Al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante testo unico delle imposte sui redditi, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 44, comma 1, lettera g-sexies), dopo le parole “anche se non residenti” sono aggiunte le seguenti: “, nonché i redditi corrisposti a residenti italiani da trust e istituti aventi analogo contenuto, stabiliti in Stati e territori che con riferimento al trattamento dei redditi prodotti dal trust si considerano a fiscalità privilegiata ai sensi dell’articolo 47-bis, anche qualora i percipienti residenti non possano essere considerati beneficiari individuati ai sensi dell’articolo 73”; b) all’articolo 45, dopo il comma 4-ter, è aggiunto il seguente: “4-quater. Qualora in relazione alle attribuzioni di trust esteri, nonché di istituti aventi analogo


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contenuto, a beneficiari residenti in Italia, non sia possibile distinguere tra redditi e patrimonio, l’intero ammontare percepito costituisce reddito.”. 2. All’articolo 25, comma 1, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, la lettera a) è sostituita dalla seguente: “a) si avvalgono anche dei poteri e delle facoltà previsti dall’articolo 9, commi 4, lettera a), e 6, lettere a) e b), del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231;”.

Abstract 1. Considerazioni introduttive. La tematica della tassazione dei redditi prodotti da trust esteri è da sempre problematica, soprattutto sotto i profili della territorialità e del trattamento dei trust localizzati in c.d. “paradisi fiscali”. Sul tema è intervenuto il legislatore con il D.L. 124/2019 che ha introdotto sia un regime di imponibilità delle distribuzioni da trust “paradisiaci”, sia una presunzione di reddito ove non sia chiara la distribuzione a titolo di reddito o di patrimonio. Tali norme pongono talune tematiche interpretative in relazione alle quali STEP Italy intende esprimere la propria posizione. 2. La situazione prima della novella. I criteri di collegamento applicabili ai trust non residenti alla luce degli interventi di prassi. Con riguardo ai criteri di territorialità, l’Agenzia delle Entrate ha dapprima sostenuto, nella Circolare n. 48/E del 2007, che “per i trust non residenti, l’imponibilità in Italia riguarda solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato”. Nella successiva Circolare n. 61/E del 2010 si è specificato, invece, che limitatamente ai trust esteri “trasparenti” ogni reddito imputato ai beneficiari italiani sarebbe imponibile in Italia. 3. (segue) Il riferimento ai trust “opachi” all’interno della Circolare n. 61/E del 2010. La Circolare n. 61/E nel trattare del regime di imponibilità dei trust trasparenti, reca inoltre un riferimento ai trust opachi localizzati in paradisi fiscali. Il contesto faceva pensare a una svista e che l’Agenzia delle Entrate si riferisse in realtà ai trust trasparenti. C’è tuttavia chi ha ipotizzato che gli estensori avessero inteso proporre una interpretazione antielusiva, pur mancando, al tempo, qualsiasi riscontro normativo in tal senso.


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4. L’intervento del legislatore. Il D.L. n. 124/2019 ha recentemente modificato la lettera g-sexies) dell’articolo 44 del TUIR, estendendo la qualifica di redditi di capitale anche ai redditi distribuiti da trust opachi stabiliti in paradisi fiscali, così come individuati dall’articolo 47-bis. 5. (segue) il richiamo all’articolo 47-bis. Perimetro applicativo. Ai fini dell’individuazione delle giurisdizioni a regime fiscale privilegiato, l’unico criterio, fra quelli enucleati dall’articolo 47-bis, comma 1, applicabile ai trust, sembra essere il confronto tra i livelli nominali di tassazione. Si ritengono applicabili il comma 2, lettera b) (il quale prevede la possibilità di disapplicare il regime, ove si dimostri che non vi è l’effetto di localizzare i redditi in paradisi fiscali) nonché si ritiene possibile disapplicare la disposizione presentando un’apposita istanza di interpello all’Amministrazione finanziaria.

nio.

6. (segue) Il criterio distintivo tra distribuzione di reddito e di patrimo-

La novella aggiunge all’articolo 45 del TUIR il comma 4-quater volto ad assoggettare ad imposizione integrale le distribuzioni di trust esteri qualora “non sia possibile distinguere tra redditi e patrimonio”. La norma, letta in combinato disposto con il novellato articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR conferma che le distribuzioni di capitale da parte di trust (ovunque residenti) non sono assoggettabili a tassazione ai fini delle imposte dirette. Tali distribuzioni, a determinate condizioni, potrebbero invece avere rilevanza ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. 7. La posizione di STEP Italy. Conclusioni. STEP Italy, con riferimento alle tematiche interpretative poste dall’articolo 13 del D.L. 124/2019, ritiene che: (i) la novella non possa essere considerata come una norma di interpretazione autentica e, pertanto, sia applicabile solo pro futuro; (ii) la disposizione si limiti a introdurre un nuovo meccanismo di tassazione per i beneficiari italiani di trust opachi “paradisiaci” inapplicabile con riferimento ai trust trasparenti “paradisiaci”; (iii) anche in relazione ai trust opachi residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata valga il principio secondo cui le distribuzioni dei redditi di fonte italiana già tassati in Italia non siano assoggettabili a tassazione in capo ai beneficiari; (iv) la novella confermi, implicitamente, che tutte le distribuzioni provenienti da trust opachi non residenti in Stati a fiscalità privilegiata non sono assoggettabili a tassazione


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in Italia ai fini delle imposte sui redditi; (v) i trust residenti in Stati membri dell’Unione europea ovvero in Stati aderenti allo Spazio allo Spazio economico europeo con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni siano estranei dell’ambito di applicazione della norma; (vi) al fine di rendere inoperante il disposto di cui al secondo periodo della lett. g-sexies) del primo comma dell’articolo 44 del TUIR sia possibile avvalersi della seconda esimente di cui all’articolo 47-bis comma 2, come anche disapplicare la disposizione presentando un’apposita istanza di interpello all’Amministrazione finanziaria; (vii) la novella confermi l’irrilevanza ai fini dell’imposizione diretta delle distribuzioni di patrimonio con riferimento a qualsiasi tipologia di trust; (viii) sia doveroso suggerire ai trustee di tenere appositi rendiconti nell’ottica di distinguere gli apporti effettuati dai disponenti rispetto ai redditi prodotti e accumulati dal trust; (ix) le distribuzioni di capitale da parte dei trust (ovunque residenti) possa, a determinate condizioni, avere rilevanza ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, con la necessità di evitare ipotesi di doppia imposizione ove gli atti di dotazione siano stati originariamente assoggettati a imposizione.


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Position paper 1. Considerazioni introduttive. La fiscalità diretta dei trust è disciplinata dalla Legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (Legge Finanziaria per il 2007), la quale ha introdotto alcune specifiche disposizioni all’interno del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”). In particolare, è stata espressamente riconosciuta la soggettività passiva ai fini IRES in capo al trust (articolo 73, comma 1, del TUIR), il quale è stato assoggettato alla disciplina degli enti commerciali o non commerciali a seconda dell’attività svolta e, se non residente, a quella delle società o degli enti non residenti. Sono state stabilite, inoltre, differenti modalità di tassazione dei redditi prodotti dal trust, a seconda che i beneficiari dello stesso siano qualificabili come “individuati” (c.d. trust trasparente) o “non individuati” (c.d. trust opaco) (1). Infatti, mentre in quest’ultimo caso il trust è identificato come soggetto passivo IRES e su di esso grava il relativo prelievo fiscale, nel caso di trust trasparente il reddito prodotto dal trust è imputato ai beneficiari e assog-

(1) Nella Circolare, 6 agosto 2007, n. 48/E, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che il concetto di beneficiario individuato deve intendersi come beneficiario di “reddito individuato”, ovvero “un soggetto che esprime, rispetto a quel reddito, una capacità contributiva attuale”. Pertanto, la mera indicazione dei dati identificativi dei beneficiari non sarebbe sufficiente affinché gli stessi possano considerarsi “individuati” ex articolo 73 del TUIR. In particolare, il beneficiario può dirsi individuato quando “risulta titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata per trasparenza”. A ciò corrisponde l’assenza di discrezionalità del trustee in merito all’allocazione del reddito. Infatti, come precisato nella Risoluzione del 5 novembre 2008, n. 425/E, “se il trustee dispone della discrezionalità di decidere se, quando, in quale proporzione e/o a quali soggetti attribuire il reddito del trust, questo non può essere considerato trasparente”. La differenza tra le due tipologie di trust, netta nella teoria, può rivelarsi sfumata nel concreto atteggiarsi dei meccanismi individuati dall’atto istitutivo del trust. Ciò, a maggior ragione, in considerazione del fatto che l’Agenzia delle Entrate ha individuato anche la categoria dei trust “misti”, cioè quei trust in cui solo alcuni redditi sono “attributi” a dei beneficiari individuati: “ciò avviene, ad esempio, quando l’atto istitutivo prevede che parte del reddito del trust sia accantonato a capitale (…) e parte sia, invece, attribuito ai beneficiari. In quest’ultima ipotesi, il reddito accantonato sarà tassato direttamente in capo al trust, mentre il reddito attribuito ai beneficiari concorrerà alla formazione dell’imponibile di questi ultimi” (cfr. Circolare, , 7 marzo 2008, n. 81/E).


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gettato all’aliquota marginale IRPEF come reddito di capitale (così qualificato ex lege dall’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies), del TUIR) (2). Sul tema si sono avuti alcuni interventi di rilievo dell’Agenzia delle Entrate, che hanno sollevato dubbi interpretativi di non poco momento. In particolare, il tema dei redditi conseguiti dai trust non residenti (e delle relative distribuzioni in favore di beneficiari residenti) è stato oggetto di prese di posizione contrastanti. Infatti, se in un primo tempo (3) l’Agenzia delle Entrate aveva affermato, in linea generale, che i trust non residenti avrebbero dovuto essere assoggettati a tassazione in Italia limitatamente ai redditi di fonte italiana ai sensi dell’articolo 23 del TUIR, successivamente, la stessa Agenzia ha elaborato un’interpretazione che, almeno per quanto riguarda i trust trasparenti, contraddice tale principio (4). Nella stessa circolare, inoltre, è presente un passaggio “spiazzante”, in cui l’estensore sembra riferire il predetto orientamento in tema di tassazione dei trust trasparenti esteri anche ai trust opachi localizzati in paradisi fiscali. Sulla questione è intervenuto, infine, il legislatore prevedendo all’articolo 13, comma 1 lett. a) del cosiddetto “decreto fiscale” collegato alla legge di bilancio 2020 (D.L. n. 124/2019, di seguito il “Decreto”), che i redditi corrisposti a beneficiari italiani da trust opachi localizzati in paradisi fiscali ex articolo 47-bis del TUIR sono tassati in Italia quali redditi di capitale. È stata inoltre introdotta una “presunzione di reddito” con riferimento alle distribuzioni da trust esteri, qualora non sia possibile distinguere la natura di reddito o di patrimonio. Con il presente documento STEP Italy, dopo aver tratteggiato il regime impositivo dei trust esteri, intende esprimere la propria posizione sulle principali questioni interpretative poste dal recente intervento normativo.

(2) Secondo le indicazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria, in particolare nella Risoluzione del 5 novembre 2008, n. 425/E, il reddito realizzato sui beni in trust è di esclusiva pertinenza del trust stesso quale soggetto passivo ai fini dell’IRES (sia esso residente o meno) e, conseguentemente, “la successiva devoluzione ai beneficiari, al termine individuato, non avrà più carattere reddituale bensì patrimoniale”. Tale impostazione, valida in linea di principio con sia con riferimento ai trust opachi che ai trust trasparenti, come si osserverà funditus nel prosieguo, è stata recentemente “scalfita” dal legislatore con riferimento ai trust opachi “paradisiaci”. (3) Cfr. Circolare, 6 agosto 2007 n. 48/E, 13. (4) Cfr. Circolare, 27 dicembre 2010, n. 61/E, 7 ss.


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2. La situazione prima della novella. In linea generale, il TUIR individua due criteri per collegare il conseguimento di un reddito alla potestà impositiva dello Stato Italiano: (i) il c.d. criterio di tassazione su base mondiale il quale implica la tassazione dei soggetti residenti su tutti i redditi ovunque conseguiti, sia in Italia sia all’estero; e (ii) il c.d. criterio di territorialità, il quale prevede l’assoggettamento ad imposta dei soggetti non residenti sui soli redditi prodotti in Italia, così come individuati dall’articolo 23 del TUIR (5). In merito alla territorialità dei redditi prodotti da trust non residenti, l’Agenzia delle Entrate si è espressa dapprima con la Circolare, 6 agosto 2007 n. 48/E (in seguito, la “Circolare n. 48/E”) e, successivamente, con la Circolare, 27 dicembre 2010, n. 61/E (in seguito, la “Circolare n. 61/E”). Con la prima, l’Agenzia, pur senza affrontare in modo specifico il tema del trattamento fiscale dei trust non residenti, ha affermato che, mentre i redditi prodotti dai trust residenti sono imponibili in Italia secondo il principio di tassazione mondiale, “per i trust non residenti, l’imponibilità in Italia riguarda solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 23 del TUIR”. L’Agenzia fa quindi applicazione degli ordinari principi generali, sopra richiamati, in tema di criteri di collegamento con la potestà impositiva dello Stato. Trattasi, peraltro, di una presa di posizione coerente con l’assimilazione, operata dallo stesso legislatore, dei trust agli altri soggetti giuridici di cui all’articolo 73 del TUIR. Come accennato, tale posizione viene di fatto sconfessata dalla successiva Circolare n. 61/E, ove si forniscono ulteriori indicazioni in tema di trust interposti, trust esteri e beneficiari esteri, “ad integrazione di quanto già chiarito con la Circolare n. 48/E del 6 agosto 2007”. In tale occasione, l’Agenzia, dopo aver comunque ribadito che i trust non residenti sono soggetti all’IRES “per i redditi prodotti nel territorio dello Stato” (6), dedica una sezione specificamente rubricata “trust esteri-beneficiari residenti” nella quale sviluppa una peculiare linea interpretativa con riferimento ai trust trasparenti. L’interpretazione proposta dall’Amministrazione finanziaria prende le mosse dalla lettera dell’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies), del TUIR, il

(5) Così come richiamato, per le società e gli enti commerciali, dall’articolo 151, co. 2, del TUIR e, per gli enti non commerciali non residenti, dall’articolo 153, co. 2, del TUIR. (6) Si veda la sezione rubricata “premessa” della citata Circolare (in particolare, punto n. 3 del primo elenco puntato, pag. 2).


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quale stabilisce che sono inclusi tra i redditi di capitale “i redditi imputati al beneficiario di trust ai sensi dell’art. 73, comma 2, [beneficiario di trust trasparenti, n.d.r.] anche se non residenti”. Come si legge nella Circolare n. 61/E, secondo l’Agenzia, tale disposizione dovrebbe essere interpretata nel senso che l’espressione “anche se non residenti” sia riferita ai trust, in ragione del fatto che “la finalità della norma è quella di rendere il beneficiario residente individuato soggetto passivo [enfasi aggiunta] con riferimento ai redditi ad esso imputati dal trust, a prescindere dalla residenza di quest’ultimo […] [enfasi aggiunta]”. Gli esiti di tale approccio interpretativo sono esplicitati con chiarezza nelle righe successive, ove si afferma che “in definitiva […] ai sensi della citata lettera g-sexies) il reddito imputato dal trust a beneficiari residenti è imponibile in Italia in capo a questi ultimi quale reddito di capitale, a prescindere dalla circostanza che il trust sia o meno residente in Italia e che il reddito sia stato prodotto o meno nel territorio dello Stato [enfasi aggiunta]”. In tal modo, verrebbe “assicurato che il trust estero venga assoggettato a tassazione analogamente ai trust italiani e, in particolare, ai trust opachi con riferimento all’eventuale reddito prodotto in Italia ed imputabile al trust medesimo nonché ai trust trasparenti con riferimento alla quota di reddito imputabile al beneficiario italiano”. L’Agenzia individua pertanto il “beneficiario residente individuato” come il soggetto passivo di imposta anche con riferimento ai redditi di fonte estera prodotti dal trust trasparente. In altri termini, l’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies), del TUIR non avrebbe la sola finalità di qualificare ex lege (come redditi di capitale) le somme derivanti dal trust trasparente, ma svolgerebbe altresì la funzione di speciale norma impositiva, idonea a qualificare il beneficiario di un trust trasparente come l’unico soggetto passivo di imposta. Siffatta ricostruzione, in controtendenza rispetto alla generale enunciazione di principio di cui alla precedente Circolare n. 48/E, delineerebbe un “doppio binario” per quanto attiene i criteri di collegamento applicabili ai trust non residenti. Infatti, mentre per i trust opachi non residenti sarebbero validi i criteri di territorialità di cui all’articolo 23 del TUIR, i trust trasparenti, invece, sarebbero considerati, di fatto, privi di una soggettività giuridica rilevante ai fini dell’allocazione “territoriale” dei redditi dagli stessi prodotti. Per questi ultimi, il criterio di collegamento con la potestà impositiva dello Stato italiano non sarebbe la residenza del soggetto che consegue i redditi (ovvero il trust), bensì la residenza del beneficiario individuato, definito quale “soggetto passivo con riferimento ai redditi ad esso imputati dal trust”.


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Tale tesi è apparsa forzata in quanto, oltre a proporre una lettura “estensiva” dell’articolo 44, comma 1, lett g-sexies) quale norma impositiva, non sembrava coerente con la ratio dell’articolo 73, comma 2, ultimo periodo, del TUIR. Tale disposizione avrebbe piuttosto indotto a ritenere che il regime di trasparenza previsto per i trust con beneficiari individuati operi soltanto sul piano dei soggetti tenuti a dichiarare, pro quota, il reddito prodotto dal trust (la norma testualmente fa riferimento ai redditi conseguiti “dal trust”), senza che potesse escludersi la previa determinazione (e l’allocazione territoriale) dei redditi dallo stesso prodotti. Inoltre, quanto sostenuto non sembra presentare coerenza sistematica in quanto, oltre a ridimensionare fortemente il principio, desumibile dalla legge, per cui il trust (a prescindere dalla qualificazione come opaco o trasparente) sia comunque titolare di una propria soggettività tributaria, conduce ad una situazione per cui il trust estero con beneficiari “individuati” sarebbe trattato in modo analogo ad un trust interposto, eccetto per la qualificazione (penalizzante) dei relativi redditi come redditi di capitale ex articolo 44, comma 1, lett g-sexies) (7) (8). 3. (segue) Il riferimento ai trust “opachi” nella Circolare n. 61/E del 2010. La stessa Circolare n. 61/E prosegue evidenziando che il regime di imponibilità appena descritto eviterebbe, oltretutto, indebiti risparmi di imposta che “potrebbero essere conseguiti, ad esempio, nell’ipotesi di trust opachi costituiti in giurisdizioni straniere a regime fiscale agevolato. In tal caso, infatti, alla tassazione ridotta in capo al trust corrisponderebbe, comunque, l’imposizione in capo al beneficiario residente secondo il regime del più volte citato articolo 44, comma 1, lettera g-sexies), del TUIR [enfasi aggiunta]”.

(7) Di tale esito interpretativo sembrerebbe consapevole anche la stessa Amministrazione finanziaria, ove ammette, nella Circolare n. 61E, che il reddito imputato ai beneficiari individuati è imponibile in Italia in capo a questi ultimi quale reddito di capitale, “fatte salve le ipotesi di interposizione del trust nelle quali il beneficiario può conseguire redditi di diversa natura secondo le categorie previste dall’articolo 6 del TUIR”. (8) Tale approdo porta, inoltre, ad esiti non desiderabili in punto di certezza del diritto, specie nel caso in cui il contribuente residente non sia nelle condizioni di stabilire con chiarezza l’effettiva natura “opaca” del trust non residente di cui lo stesso è beneficiario. A tal proposito, si potrebbe configurare una violazione dell’articolo 3 della Costituzione in quanto da situazioni di fatto non dissimili (ovverosia, il fatto di essere beneficiario, individuato o meno, di un trust) discenderebbero conseguenze fiscali irragionevolmente diseguali a seconda che il trust sia qualificato come opaco o trasparente.


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Questo passaggio appare formulato in modo criptico. A disorientare è in particolare il riferimento ai trust opachi, anziché, come sarebbe logico aspettarsi dal contesto, ai trust trasparenti. Invero, il successivo richiamo all’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) (norma applicabile ai soli trust trasparenti) potrebbe far pensare che la menzione dei trust opachi possa essere derubricata ad una mera svista (9). Volendo prendere alla lettera tale affermazione, e considerando l’assenza di tempestive rettifiche da parte dell’Amministrazione finanziaria, si è ipotizzato che l’Agenzia delle Entrate avesse voluto introdurre (pur a legge invariata) un regime antielusivo per colpire anche i beneficiari di trust opachi, purché residenti in Paesi a fiscalità privilegiata. Tale ultima ipotesi avrebbe portato ad inestricabili incertezze applicative. In particolare, non si comprendeva se i redditi in esame dovevano essere tassati per competenza oppure secondo un criterio di cassa (10). Un ulteriore ostacolo sarebbe stato rappresentato dalle (fisiologiche) situazioni di deficit informativo in cui non infrequentemente versano i beneficiari di trust esteri (11).

(9) La tesi della “svista” potrebbe trovare conforto nella formulazione delle istruzioni al modello dichiarativo dei redditi, il quale ospita una sezione dedicata ai redditi “conseguiti” dal trust e imputati “per trasparenza” al beneficiario “individuato” ai sensi dell’articolo 73, comma 2, ultimo periodo, del TUIR. In sede dichiarativa non sembrerebbe, quindi, esserci spazio per una ipotetica imputazione effettuata da trust esteri opachi. (10) Si ritiene che il criterio di competenza dovrebbe rappresentare il regime d’imposizione proprio dei redditi conseguiti dal trust, ma si avrebbe, in tal modo, una imputazione per trasparenza dei redditi conseguiti da un trust opaco, in contrasto con la lettera della legge. In questo modo, inoltre, i beneficiari di un trust opaco sarebbero tassati in assenza di un diritto attuale e incondizionato al reddito del trust, in violazione del principio del “possesso” del reddito (articolo 1 del TUIR) e di quello costituzionale di capacità contributiva (peraltro già valorizzati dalla stessa Agenzia per tracciare la distinzione tra trust opachi e trust trasparenti). D’altro canto, l’eventuale applicazione di un criterio di cassa, avrebbe portato ad un’applicazione dell’imposta in capo al beneficiario al momento della distribuzione, così contraddicendo la logica dei meccanismi di imposizione diretta del trust al tempo vigenti, che vorrebbe le successive distribuzioni esenti da imposta sui redditi in quanto mere movimentazioni finanziarie prive di rilevanza reddituale. (11) Ciò può verificarsi, ad esempio, nel caso in cui l’atto istitutivo espressamente vieti al trustee di comunicare al beneficiario identificato ma “non individuato” informazioni di natura reddituale. In tal caso, tale soggetto non verrebbe a conoscenza del reddito conseguito dal trust se non al momento della effettiva distribuzione.


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In definitiva, il riferimento ai trust opachi contenuto nel citato passaggio della circolare non sembrava affatto idoneo a fondare una interpretazione in chiave antielusiva della normativa al tempo vigente (12). 4. L’intervento del legislatore. È in tale contesto di incertezza che s’innesta la disposizione introdotta dal citato Decreto. Il testo dell’articolo 13 interviene ad integrare la lettera g-sexies) dell’articolo 44 del TUIR, aggiungendo che la qualificazione come redditi di capitale deve essere attribuita anche a “i redditi corrisposti a residenti italiani da trust e istituti aventi analogo contenuto stabiliti in Stati e territori a fiscalità privilegiata ai sensi dell’art. 47-bis, anche qualora i percipienti residenti non possano essere considerati beneficiari individuati ai sensi dell’art. 73”. L’intervento del legislatore parrebbe dare continuità alla posizione dell’Agenzia, intendendo “aggiungere” un ulteriore presupposto impositivo valevole anche per i beneficiari di trust opachi, purché “paradisiaci”. La lettera della norma menziona i redditi “corrisposti” a “percipienti” residenti, per cui si deve ritenere che il legislatore abbia delineato un meccanismo ispirato al c.d. criterio di cassa in linea con il criterio impositivo valevole per i trust opachi residenti. La ratio della nuova disposizione sembra quella di tassare una manifestazione di capacità contributiva (e non certo quella di limitarsi a una qualificazione reddituale) che, in precedenza, non era espressamente assoggettata a tassazione da alcuna norma di fonte primaria. Infatti, come esplicitato dalla relazione illustrativa al Decreto, l’intento del legislatore sarebbe stato quello di “risolvere problematiche di carattere interpretativo e operativo, sottoponendo a imposizione nei confronti dei beneficiari italiani i redditi distribuiti dai trust opachi esteri stabiliti in Paesi a fiscalità privilegiata”. Pertanto STEP Italy, ritiene che: (i) la tassazione per cassa delle distribuzioni ricevute da beneficiari residenti di trust esteri sia limitata a quelle effettuate da trust opachi “paradisiaci” (13); e (ii) la novella legislativa non possa essere interpretata nel

(12) Si sarebbe trattato di introdurre una palese discriminazione, non giustificata da alcun addentellato normativo, tra trust opachi esteri e trust opachi residenti, senza peraltro chiarire l’eventuale possibilità di fornire prova contraria. (13) Il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, nell’audizione presso la VI Commissione Finanze e Tesoro della Camera dei Deputati del 6 novembre 2019, sembra aver affermato il principio secondo cui le distribuzioni provenienti da trust “paradisiaci” siano sempre (e dunque


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senso di estendere il regime di trasparenza di cui all’articolo 73, comma 2 del TUIR ai trust opachi “paradisiaci” (14). Si ritiene, dunque, che l’intenzione del legislatore sul punto sembrerebbe essere stata quella di riprendere quanto espresso nel citato passaggio della Circolare n. 61/E (nella quale, come si è detto, si operava uno “spiazzante” riferimento ai trust opachi) al quale non poteva certo assegnarsi una coerente e compiuta efficacia interpretativa della normativa al tempo vigente attesa l’assenza di qualsivoglia addentellato normativo in tal senso. Per questa stessa ragione, la novella non deve essere considerata come una norma di interpretazione autentica e, pertanto, risulterebbe applicabile solo pro futuro (15). Una considerazione più articolata merita invece il tema del coordinamento con le disposizioni in materia di territorialità dell’imposizione. Il nodo da

anche in presenza di trust trasparenti) assoggettabili a tassazione per cassa. Una simile interpretazione non sembra accogliibile in quanto, in assenza di meccanismi legislativamente previsti al fine di neutralizzare in sede di percezione del reddito la tassazione subìta per trasparenza, si realizzerebbe un’ipotesi di doppia tassazione, non tollerata dal nostro ordinamento ai sensi dell’articolo 163 del TUIR. Sulla base del principio posto dal ciato articolo 163 del TUIR, peraltro, la stessa Amministrazione finanziaria con riferimento ai trust trasparenti aveva già affermato che “l’effettiva percezione dei redditi da parte dei beneficiari rimane una mera movimentazione finanziaria, ininfluente ai fini della determinazione del reddito” (Circolare, 6 agosto 2007, n. 48/E). (14) Assofiduciaria, con la comunicazione 2020_027_C del 13 febbraio 2020, infatti, sembra aver paventato che con la novella legislativa qui in commento il legislatore abbia voluto estendere il regime della tassazione per trasparenza previsto dall’articolo 73, comma 2 del TUIR anche ai trust opachi purché residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata ai sensi dell’articolo 47-bis del citato testo unico. A prescindere dall’assenza di riferimenti letterali atti ad avvalorare una simile interpretazione, si rileva che estendere il regime della tassazione per trasparenza a beneficiari di trust opachi costituirebbe una evidente violazione del principio di capacità contributiva codificato nel nostro ordinamento dall’articolo 53 della Costituzione. È, infatti, insegnamento della stessa Amministrazione finanziaria quello secondo cui solo i beneficiari di reddito individuati esprimono rispetto al reddito prodotto dal trust “una capacità contributiva attuale”. (15) L’articolo 3 dello Statuto (Legge 27 luglio 2000, n. 212), rubricato “Efficacia temporale delle norme tributarie”, al comma 1, stabilisce che “salvo quanto previsto dall’art. 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono”. Tale conclusione non sembra poter essere messa in discussione dalla lettera della relazione illustrativa al Decreto, ove si afferma che “la novella [...] intende risolvere problematiche di carattere interpretativo e operativo”. I contribuenti che avessero ritenuto di aderire alle indicazioni elaborate dalla Circolare n. 61/E in periodi d’imposta anteriori all’entrata in vigore del Decreto potrebbero, pertanto, valutare l’opportunità di instaurare procedimenti di rimborso per le imposte versate.


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sciogliere è se, nel determinare i redditi che assumono rilevanza fiscale in sede di (e per effetto della) distribuzione, debba comunque operarsi un distinguo “a monte” ricomprendendo i soli redditi di fonte italiana oppure anche i redditi prodotti dal trust opaco estero aventi fonte non italiana. La disposizione in commento non aiuta a dirimere la questione, e questo né con riferimento ai trust trasparenti, né con riferimento ai trust opachi. Invero, essa si limita ad aggiungere il caso dei trust opachi (paradisiaci) nell’ambito dell’articolo 44, lettera g-sexies), del TUIR. Parrebbe quindi possibile ipotizzare che anche il “nuovo” presupposto impositivo possa dirsi soggetto ai generali criteri di territorialità, come si è ipotizzato supra. Anche nel mutato scenario normativo, infatti, la distribuzione del reddito di fonte italiana già tassato in capo al trust dovrebbe risultare priva di rilevanza reddituale in capo al beneficiario, poiché, come già chiarito dalla Circolare n. 48/E e confermato dalla Circolare n. 61/E, l’articolo 163 del TUIR osta a che un reddito già tassato in capo al trust possa essere nuovamente tassato in capo ai beneficiari (16). Ciò posto, si ritiene che l’inclusione del riferimento ai soli c.d. trust “paradisiaci” opachi nel novellato testo dell’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR (congiuntamente a quanto previsto dal nuovo comma 4-quater dell’articolo 45 del TUIR) vada salutata con favore in quanto, implicitamente, conferma che tutte le distribuzioni provenienti da trust opachi “non paradisiaci” non sono assoggettabili a tassazione in Italia ai fini delle imposte sui redditi (17). 5. (segue) Il richiamo all’articolo 47-bis. Incerto sembra l’ambito soggettivo di applicazione della disposizione in commento. Come anticipato, l’articolo 13 del Decreto, integrando il disposto

(16) L’articolo 163 del TUIR, stabilisce infatti che: “la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi”. (17) Tale conclusione discende dalla lettura a contrario dell’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR. Si ritiene, infatti, che l’aver limitato la fattispecie imponibile ai soli trust opachi residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata confermi, anche alla luce della ratio della novella legislativa e di quanto precedentemente affermato dall’Amministrazione finanziaria con la Circolare n. 61/E, la non imponibilità dei redditi distribuiti da trust opachi residenti in Stati o territori diversi da quelli a fiscalità privilegiata.


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di cui all’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR ha introdotto nel novero dei redditi di capitale (assoggettabili a IRPEF in maniera progressiva) anche i redditi corrisposti a residenti italiani da trust “stabiliti in Stati e territori che con riferimento al trattamento dei redditi prodotti dal trust si considerano a fiscalità privilegiata ai sensi dell’articolo 47-bis, anche qualora i percipienti residenti non possano essere considerati beneficiari individuati ai sensi dell’articolo 73”. La lettura della disposizione testé citata pone un primo dubbio di natura interpretativa derivante dalla lettera della norma. Il richiamo agli Stati e territori che “con riferimento al trattamento dei redditi prodotti dal trust” si considerano a fiscalità privilegiata ai sensi dell’articolo l’articolo 47-bis del TUIR (rubricato “Disposizioni in materia di regimi fiscali privilegiati”) (18) si presta, almeno in linea teorica, a una duplice lettura. Non è, infatti, immediatamente chiaro se il riferimento all’articolo 47-bis debba essere inteso come un richiamo complessivo alle disposizioni ivi contenute, ovvero al solo “trattamento dei redditi prodotti dal trust”, ossia al livello di tassazione (nominale o effettivo) inferiore al 50% rispetto a quello applicabile in Italia. Il dubbio interpretativo non è di poco conto, atteso che ove si dovesse propendere per la prima tesi, i trust residenti in Paesi membri dell’Unione europea e in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni (Norvegia, Liechtenstein e Islanda) sarebbero automaticamente esclusi dall’ambito di applicazione della recente disposizione, effetto che, per contro, non si realizzerebbe ove si propendesse per la seconda interpretazione. Sul punto, pur in assenza di chiarimenti, STEP Italy ritiene che il richiamo all’articolo 47-bis sia riferito al complesso delle disposizioni ivi contenute, di guisa che i trust residenti in Paesi membri dell’Unione europea e i Paesi aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni sono da considerarsi estranei dell’ambito di applicazione della novella. Una conferma indiretta in tal senso sembra essere contenuta nella scheda di lettura del Decreto pubblicata in data 9 dicembre 2019 dal servizio studi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (19) ove si legge, sebbene

(18) Recentemente introdotto dall’articolo 5, comma 1, lett. b), D.Lgs. 29 novembre 2018, n. 142, di recepimento della c.d. Direttiva Anti-Elusione o “ATAD”. (19) Il citato documento è consultabile al seguente link http://www.senato.it/service/PDF/


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in maniera leggermente imprecisa, che “sono considerati Stati o territori a fiscalità privilegiata quelli non aderenti alla Spazio economico europeo che abbiano stipulato con l’Italia un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni in ambito fiscale”. Peraltro, una diversa interpretazione volta a valorizzare l’espressione “con riferimento al trattamento dei redditi prodotti dal trust”, oltre ad essere priva di sistematicità, si porrebbe in aperto contrasto con il principio della libertà di stabilimento posto dall’articolo 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea il quale è stato espressamente ritenuto applicabile anche ai trust con la sentenza Trustees of the P Panayi Accumulation & Maintenance Settlements (causa C-646/15) pubblicata dalla Corte di Giustizia Europea in data 14 settembre 2017. Chiarito che la disposizione in comento non è applicabile ai trust residenti in Paesi membri dell’Unione europea e i Paesi aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, occorre osservare che per tutti gli altri Paesi, il criterio d’individuazione posto dall’articolo 47-bis è duplice e alternativo. In primo luogo, qualora “l’impresa o l’ente non residente o non localizzato in Italia sia sottoposto a controllo ai sensi dell’articolo 167, comma 2, da parte di un partecipante residente o localizzato in Italia”, il criterio d’individuazione viene determinato – per effetto di un rinvio all’articolo 167, comma 4, lettera a), del TUIR – dal confronto tra la tassazione effettiva estera e la tassazione “a cui [gli enti esteri controllati, n.d.r.] sarebbero stati soggetti qualora residenti in Italia” (c.d. tassazione italiana “virtuale”). L’ente estero si qualificherebbe come residente in un Paese a fiscalità privilegiata qualora la tassazione effettiva estera (data dal rapporto tra utile ante imposta risultante da bilancio o analogo rendiconto economico e imposte sul reddito effettivamente versate) risulti inferiore del 50% alla tassazione “virtuale” italiana. L’applicabilità di tale criterio al caso di specie sembra scontrarsi con la difficoltà di coniugare il concetto di controllo e di partecipazione al fenomeno negoziale del trust. Il concetto di controllo rilevante ai fini dell’articolo 47-bis è individuato per effetto di un rinvio all’articolo 167, comma 2, del TUIR: da un lato, vale il concetto di controllo “tradizionale” ottenuto tramite ulteriore rinvio all’articolo 2359 cod. civ., dall’altro, s’individua un criterio alternativo rappresentato dalla titolarità, diretta o indiretta, del diritto alla percezione di una quota superiore al 50% degli utili realizzati. Per entrambi i criteri sem-

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brano sussistere significativi dubbi di compatibilità con la fattispecie del trust “opaco” non residente. L’applicabilità del concetto di controllo partecipativo alla fattispecie del trust pare potersi risolutamente escludere per la l’impossibilità di assimilare il trust a una società di capitali. Analoghe considerazioni sembrano potersi spendere con riferimento al controllo c.d. contrattuale di cui all’articolo 2359, comma 1, n. 3, cod. civ., che richiederebbe “un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali” tra il soggetto residente e l’ente estero, prescindendo dal possesso di una partecipazione al capitale. Difficilmente, infatti, il beneficiario del trust potrebbe esercitare una “influenza dominante” sullo stesso, posto che tale eventualità rischierebbe di integrare una fattispecie di interposizione e, quindi, di inesistenza del trust quantomeno ai fini tributari (20). Quanto, al secondo criterio alternativo, rappresentato dalla titolarità alla percezione di una quota superiore al 50% degli utili prodotti, tale circostanza, ove presente, sembrerebbe idonea ad attribuire al percipiente la qualifica di beneficiario individuato. Ma allora tali utili sarebbero già imputati per trasparenza in capo al beneficiario nell’esercizio di produzione (criterio di competenza) ai sensi dell’articolo 73, comma 2, del TUIR, e qualificati come redditi di capitale ai sensi della lettera g-sexies), prima parte. Di talché il criterio risulterebbe inapplicabile ai trust opachi. Uno spazio di operatività residuerebbe solo per il secondo criterio enucleato dall’articolo 47-bis del TUIR, rappresentato dal confronto tra i livelli nominali di tassazione, applicabile appunto “in mancanza del requisito del controllo”. Il confronto andrebbe operato, come chiarito della Circolare n. 35 del 2016, tra la somma delll’aliquota nominale dell’IRES e dell’IRAP (21) e l’aliquota dell’imposta sul reddito applicabile nell’ordinamento estero di localizzazione (22), che ne determinerebbe la qualifica di Paese a fiscalità pri-

(20) Secondo l’Agenzia delle Entrate (Circolare n. 68/E/2010) sono da considerarsi “inesistenti in quanto interposte”, tra le altre, le tipologie di trust ove il beneficiario “risulti, dall’atto istitutivo ovvero da altri elementi di fatto, titolare di poteri […] in conseguenza dei quali il trustee, pur dotato di poteri discrezionali nella gestione ed amministrazione del trust, non può esercitarli senza il suo consenso” e, in via residuale, “ogni altra ipotesi in cui potere gestionale e dispositivo del trustee […] risulti in qualche modo limitato o anche semplicemente condizionato dalla volontà del disponente e/o dei beneficiari”. (21) L’inclusione dell’aliquota dell’IRAP sembra giustificata dalla circostanza che i trust possono risultare soggetti passivi dell’imposta ai sensi dell’articolo 3, D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. (22) Secondo la Circolare n. 35/E/2016, “dal lato estero, rilevano le imposte sui redditi


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vilegiata ove inferiore al 50% della prima. Andrebbe tuttavia tenuto conto di eventuali regimi speciali applicabili al trust estero (23). Non è chiaro, infine, se residui spazio per l’applicazione del comma 2 dell’articolo 47-bis, il quale prevede la possibilità di evitare l’applicazione del comma 1, qualora il contribuente dimostri che: a) il soggetto non residente svolga una attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali; oppure b) dalle partecipazioni non si consegua l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al comma 1. Nonostante tali disposizioni non siano indirizzate ai trust, si ritiene che l’esimente di cui alla lettera b) possa trovare applicazione nel caso di specie, ad esempio nelle ipotesi non infrequenti nella prassi, in cui i redditi finanziari del trust estero siano già assoggettati a ritenuta alla fonte nei Paesi di residenza degli emittenti degli strumenti finanziari ovvero nelle ipotesi in cui il trust residente in Stati o territori a fiscalità privilegiata detenga beni immobili assoggettati a tassazione nello Stato in cui sono ubicati. Tale conclusione è di fatto confortata, oltre che dal generico richiamo all’articolo 47-bis effettuato dal legislatore, anche dalla sostanziale finalità antielusiva del nuovo regime. Attesa la natura antielusiva del richiamato articolo 47-bis del TUIR, STEP Italy ritiene, pur in assenza di chiarimenti sul punto da parte dell’Agenzia delle Entrate, che sia possibile disapplicare la disposizione in commento presentando apposito interpello all’Amministrazione finanziaria.

nio.

6. (segue) Il criterio distintivo tra distribuzione di reddito e di patrimo-

Il Decreto include, infine, una norma speciale recante una presunzione relativa a favore dell’Amministrazione finanziaria intesa a facilitarne l’attività di accertamento. In particolare, viene inserito nell’articolo 45 del TUIR, il nuovo comma 4-quater: “qualora in relazione alle attribuzioni di trust esteri,

applicate nell’ordinamento fiscale di localizzazione, da individuare facendo riferimento, qualora esistente, alla Convenzione per evitare le doppie imposizioni vigente con lo Stato di volta in volta interessato, tenendo conto anche delle eventuali imposte di natura identica o analoga intervenute in sostituzione di quelle menzionate espressamente nella medesima Convenzione”. (23) Individuati secondo le linee guida espresse dalla citata Circolare n. 35/E/2016. Tale potrebbe essere il caso degli ordinamenti che concedono una fiscalità di vantaggio a condizione che i proventi affluiscano da fonti estere e i disponenti e/o beneficiari siano residenti in un Paese diverso da quello in cui è considerato residente il trust.


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nonché di istituti aventi analogo contenuto, a beneficiari residenti in Italia, non sia possibile distinguere tra redditi e patrimonio, l’intero ammontare percepito costituisce reddito”. Con l’introduzione di questa norma il legislatore, come esplicitato nella relazione illustrativa alla novella legislativa, si sarebbe posto l’obiettivo di “risolvere il problema inerente i redditi provenienti da trust ‘opachi’ esteri per i quali spesso i beneficiari italiani si dicono impossibilitati a distinguere la parte delle attribuzioni riferibile al patrimonio del trust rispetto a quelle riferibili al reddito”. Sul punto appare opportuno osservare che, sebbene la disposizione debba considerarsi applicabile a tutti i trust esteri, essa con riferimento ai trust “non paradisiaci” risulta sostanzialmente priva di rilevanza concreta. Ciò per un duplice ordine di motivazioni. Ciò i quanto, come si è già osservato nelle pagine che precedono, il riferimento ai soli c.d. trust “paradisiaci opachi” nel novellato testo dell’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR (congiuntamente a quanto previsto dalla nuovo comma 4-quater dell’articolo 45 del TUIR) sembra implicitamente confermare che tutte le distribuzioni provenienti da “trust opachi non paradisiaci”, siano esse di reddito o di capitale, non sono assoggettabili a tassazione in Italia ai fini delle imposte sui redditi. Ciò posto, si osserva che il nuovo comma 4-quater dell’articolo 45 del TUIR conferma (anche alla luce della nuova fattispecie impositiva introdotta nell’articolo 44, lettera g-sexies) del TUIR) un ulteriore principio ampiamente condiviso in dottrina, ossia che la rilevanza ai fini delle imposte sui redditi attenga unicamente alle distribuzioni di “redditi” prodotti dai trust e non anche alle distribuzioni di patrimonio. Sulle modalità di documentazione della suddivisione dell’importo percepito tra quota reddito e quota patrimonio si gioca un rilevante aspetto dell’operatività della novella, tanto più delicato quando si pensi a situazioni (invero piuttosto fisiologiche) ove il beneficiario versi in una situazione di deficit informativo. La norma affronta la questione sancendo una vera e propria presunzione “di reddito”. La disposizione, infatti, pone in capo al contribuente l’onere di provare la descritta distinzione, con il rischio di vedersi tassato l’intero importo percepito qualora il corredo probatorio prodotto non sia ritenuto soddisfacente da parte dell’Amministrazione finanziaria (24). È evidente che

(24) In dottrina è stato avanzato un diverso percorso interpretativo nel senso di valorizzare il ricorso all’aggettivo “possibile” presente nella norma qui in commento. Ciò comporterebbe,


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fornire la menzionata prova, in taluni casi, potrà non risultare sempre agevole (25). In tale ottica, quantomeno pro futuro (26), si suggerisce quindi, ove possibile, di istruire i trustee affinché tengano – anche ove non siano a ciò obbligati in virtù della disciplina applicabile al singolo trust – un apposito rendiconto al fine di mantenere distinti il reddito e il capitale che costituisce il patrimonio del trust, così da precostituirsi la prova oggi richiesta (27). Inoltre si ritiene che nel determinare l’onere probatorio incombente in capo ai contribuenti al fine di superare la menzionata presunzione reddituale, l’Amministrazione finanziaria dovrà tenere conto delle specificità dei singoli trust. In tale ottica: (i) bisognerà attribuire primaria importanza alle delibere dei trustee contenenti un riferimento alla provenienza (reddito o capitale) di quanto corrisposto al beneficiario; (ii) in assenza di simili atti da parte del trustee, occorrerà far riferimento alla contabilità del trust o a qualsiasi atto similare; e (iii) ove il trust non disponga di una apposita contabilità perché a ciò non obbligato dalla disciplina applicabile, al contribuente dovrà essere comunque concessa la possibilità di superare la presunzione anche attraverso la produzione di altri documenti quali, ad esempio, le copie dei bonifici effettuati dal disponente in favore del trustee per alimentare il trust fund. Infine, sebbene ciò in parte esuli dall’argomento qui trattato, sembra opportuno interrogarsi brevemente sul regime fiscale applicabile alle distribuzio-

secondo tale interpretazione, che la presunzione di reddito opererebbe soltanto in situazioni estreme e connotate da una radicale carenza documentale. Quando invece il contribuente dovesse offrire un criterio di distinzione plausibile l’Ufficio sarebbe tenuto ad accoglierlo. In questo senso si veda A. Longo, A. Sandalo, Il nuovo criterio di tassazione dei redditi distribuiti da trust esteri, in il fisco, 44/2019, 4250 ss. (25) Si pensi a un trust estero localizzato in un Paese ove il trust risulta soggetto a un regime speciale applicabile agli enti non commerciali che, di fatto, determina una tassazione inferiore del 50% rispetto a quella “nominale” italiana. Il trust è destinatario, tra le altre cose, dell’apporto di un complesso immobiliare. Il trustee procede all’alienazione di alcune unità immobiliari e alla discrezionale distribuzione dell’intero corrispettivo ricevuto ai beneficiari italiani. Soltanto la quota relativa all’eventuale plusvalenza rappresenterebbe un reddito prodotto dal trust tassato in capo ai beneficiari residenti. La restante parte, invece, atterebbe al patrimonio del trust e risulterebbe al più soggetta al tributo donativo (sul punto funditus infra). (26) Come già osservato nelle pagine che precedono si ritiene che la presunzione in esame sia destinata a operare esclusivamente con riferimento alle distribuzioni che saranno effettuate a partire dal periodo di imposta 2020 non potendosi attribuire all’articolo 13 del Decreto efficacia retroattiva atteso il suo carattere innovativo e non interpretativo. (27) Appare opportuno osservare che si ritiene che il concetto di “patrimonio” debba circoscritto ai soli apporti effettuati dal disponente e non possa essere esteso a eventuali capitalizzazioni effettuate ai fini contabili.


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ni di capitale ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (di seguito “TUS”), rimandando a futuri studi un’analisi dettagliata della tematica. La tematica testé introdotta, infatti, merita un’attenta disamina delle numerose questioni ad essa sottese e delle diverse fattispecie che possono verificarsi nella pratica professionale. In estrema sintesi e senza alcuna pretesa di esaustività, assumendo (e auspicando) che l’interpretazione tutt’ora seguita dall’Amministrazione finanziaria (28) sia stata definitivamente sconfessata dalla giurisprudenza di legittimità da ultimo intervenuta (29), sembrerebbe possibile affermare che le distribuzioni di patrimonio da parte di trust (ovunque residenti), ove siano integrati i presupposti di territorialità previsti dall’articolo 2 del TUS, vadano, in linea di principio, assoggettate a imposizione ai fini del tributo donativo con applicazione delle aliquote applicabili in virtù del rapporto di parentela esistente tra disponente e beneficiario con fruizione delle franchigie, fatta salva la necessità di evitare ipotesi di doppia imposizione ove gli atti di dotazione siano stati originariamente assoggettati a imposizione. 7. La posizione di STEP Italy. STEP Italy, con riferimento alle tematiche interpretative poste dall’articolo 13 del Decreto, ritiene che: (i) l’articolo 13, comma 1, lett. a) non possa essere considerato come una norma di interpretazione autentica e, conseguentemente, risulta applicabile solo pro futuro; (ii) la nuova disposizione si limiti a introdurre un nuovo meccanismo di tassazione per i beneficiari italiani di trust opachi “paradisiaci” inapplicabile con riferimento ai trust trasparenti “paradisiaci”; (iii) anche con riferimento ai trust opachi residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata valga il principio di divieto di doppia imposizione e, conseguentemente, le distribuzioni di redditi di fonte italiana già tassati in Italia non siano assoggettabili a tassazione in capo ai beneficiari;

(28) Cfr. Circolare, 6 agosto 2007, n. 48/E; Circolare, 22 gennaio 2008, n. 3/E; Circolare, 27 marzo 2008, n. 28/E e più recentemente la Risposta, 10 settembre 2019, n. 371. (29) Si vedano in particolare le recenti sentenze n. 16999 e n. 16701 del 21 giugno 2019; le sentenze n. 19167 e n. 19319 del 18 luglio 2019; la sentenza n. 22754 del 12 settembre 2019 e l’ordinanza n. 19310 del 18 luglio 2019, tutte rese dalla Sezione V della Corte di Cassazione nonché le più recenti ordinanze n. 2897 del 7 febbraio 2020 e n. 5766 del 3 marzo 2020.


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(iv) la novella conferma, implicitamente, che tutte le distribuzioni provenienti da trust opachi non residenti in Stati a fiscalità privilegiata non sono assoggettabili a tassazione in Italia ai fini delle imposte sui redditi; (v) il richiamo all’articolo 47-bis del TUIR debba essere inteso come un rinvio complessivo alla citata disposizione e, conseguentemente, il secondo periodo dell’articolo 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR non sia applicabile ai trust residenti in Paesi membri dell’Unione europea e i Paesi aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni siano estranei dell’ambito di applicazione della novella; (vi) in relazione alla verifica del livello di tassazione del trust opaco estero è possibile avvalersi dell’esimente di cui all’articolo 47-bis del TUIR, nonché, disapplicare la disposizione presentando apposito interpello all’Amministrazione finanziaria; (vii) il nuovo comma 4-quater dell’articolo 45 del TUIR, congiuntamente al secondo periodo della novellata lett. g-sexies) del primo comma dell’articolo 44 del TUIR, conferma che (i) tutte le distribuzioni provenienti da trust non residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata, siano esse di reddito o di capitale, non sono assoggettabili a tassazione in Italia ai fini delle imposte sui redditi e (ii) l’irrilevanza ai fini dell’imposizione diretta delle distribuzioni di patrimonio con riferimento a qualsiasi tipologia di trust; (viii) attesa l’introduzione della presunzione di reddito recata dal nuovo comma 4-quater dell’articolo 45 del TUIR, è doveroso suggerire ai trustee di tenere appositi rendiconti nell’ottica di tenere distinti gli apporti effettuati dai disponenti rispetto ai redditi prodotti e accumulati dal trust. Inoltre si ritiene che nel determinare l’onere probatorio incombente in capo ai contribuenti, l’Amministrazione finanziaria dovrà attribuire primaria rilevanza alle delibere dei trustee contenenti un riferimento alla provenienza (reddito o capitale) di quanto corrisposto al beneficiario; (ix) le distribuzioni di patrimonio da parte di trust (ovunque residenti), ove siano integrati i presupposti di territorialità previsti dall’articolo 2 del TUS, vadano, in linea di principio, da assoggettare a imposizione ai fini del tributo donativo con applicazione delle aliquote applicabili in virtù del rapporto di parentela esistente tra disponente e beneficiario con fruizione delle franchigie, fatta salva la necessità di evitare ipotesi di doppia imposizione ove gli atti di dotazione siano stati originariamente assoggettati a imposizione. Milano, 17 marzo 2020



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