Vol. XXXI - Agosto
Rivista di
Diritto Tributario FONDATORI: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi
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Rivista bimestrale
www.rivistadirittotributario.it
Vol. XXXI - Agosto 2021
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DIREZIONE SCIENTIFICA Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin
2021
In evidenza: Violazioni tributarie ed esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici Giuseppe Ingrao Sul concorso dei dividendi all’imponibile irap delle banche Roberto Schiavolin Divieto di bis in idem e declinazione procedimentale del principio di specialità nel sistema punitivo tributario Stefania Gianocelli La stabile organizzazione tra presente e futuro Stefano Dorigo Imponibilità e disciplina delle operazioni di cambio e pagamento con criptomonete nel sistema europeo dell’IVA Roberto Iaia
ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
COMPONENTI ONORARI: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo
Pacini
Indici DOTTRINA
Susanna Cannizzaro
Una visione europea sul problema delle variazioni Iva in caso di mancato pagamento (nota a Corte di Giustizia UE, 15 ottobre 2020 – causa C-335/19).............I V, 135 Pier Luca Cardella
Inerenza e spese di sponsorizzazione (nota a Cass. n. 6368/2021).......................... II, 199 Gianmarco Dellabartola, Andrea Rottoli
Fatto generatore ed esigibilità dell’Iva nelle prestazioni di servizi tra normativa nazionale e normativa comunitaria............................................................................ I, 245 Stefano Dorigo
La stabile organizzazione tra presente e futuro (nota a Cass. n. 21693/2020)......... V, 64 Stefania Gianoncelli
Divieto di bis in idem e declinazione procedimentale del principio di specialità nel sistema punitivo tributari (nota a Cass. n. 21696/2020)..................................... III, 96 Roberto Iaia
Imponibilità e disciplina delle operazioni di cambio e pagamento con criptomonete nel sistema europeo dell’IVA.............................................................................. I, 273 Giuseppe Ingrao
Violazioni tributarie ed esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici........................................................................................................................ I, 327 Roberto Schiavolin
Sul concorso dei dividendi all’imponibile IRAP delle banche (nota a Comm. trib. prov. Reggio Emilia, n. 374/02/2020)........................................................................ II, 219
Rubrica di diritto penale tributario
a cura di Gaetano Ragucci.......................................................................................... III, 89 Rubrica di diritto europeo
a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 121 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato
a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 59
II
indici
Gli articoli e le note pubblicati nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR e sono stati valutati positivamente dai proff. E. Della Valle, G. Gaffuri, A. Marcheselli, S. Muleo, M. Pierro, S. Sammartino, G. Zizzo.
INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI SANZIONI Sanzioni tributarie – Rapporti tra illecito penale e illecito tributario – Assoluzione o proscioglimento per insussistenza del fatto – Non eseguibilità della sanzione amministrativa – Condizioni (art. 21, d.lgs. n. 74/00) (Cass. Civ., Sez. V, 17 gennaio 2020 – 8 ottobre 2020, n. 21696, con nota di Stefania Gianoncelli)................ III, 89
IMPOSTE SUI REDDITI REDDITI D’IMPRESA Determinazione – Costi deducibili – Costi per spese di sponsorizzazione – Requisito di inerenza – Valutazione di congruità rispetto ai ricavi – Irrilevanza – Prevalenza di giudizio di carattere qualitativo (Cass. civ., sez. VI-T, ordinanza 9 dicembre 2020 - 8 marzo 2021, n. 6368, con nota di Pier Luca Cardella).............. II, 195 Stabile organizzazione di società estera - Configurazione - Requisiti – Valutazione (Cass. civ., sez. V, sentenza 15 gennaio 2020 - 08 ottobre 2020, n. 21693, con nota di Stefano Dorigo)....................................................................................... V, 59
IMPOSTE INDIRETTE IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (IVA) Rinvio pregiudiziale - Direttiva 2006/112/CE – Articolo 90 – Riduzione della base imponibile dell’IVA – Mancato pagamento totale o parziale del prezzo – Condizioni imposte da una normativa nazionale ai fini dell’esercizio del diritto alla riduzione – Condizione secondo cui il debitore non deve essere sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione – Condizione secondo cui creditore e debitore devono essere entrambi soggetti passivi dell’IVA (Corte di Giustizia UE - 15 ottobre 2020 – causa C-335/19, con nota di Susanna Cannizzaro)........... IV, 121
indici
III
IMPOSTE LOCALI IRAP (IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE) Base imponibile – Attività bancaria – Ratio della determinazione forfettaria dei dividendi “da negoziazione” –– Non proporzionalità della forfettizzazione rispetto ai fini perseguiti – Art. 3 Cost. – Questione di illegittimità costituzionale – Non manifesta infondatezza (Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 18 dicembre 2020, n. 374, con nota di Roberto Schiavolin)........................................................................ II, 215
INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia UE 15 ottobre 2020 – causa C-335/19............................................................................. IV, 121 *** Cass. civ., sez. V 15 gennaio 2020 - 8 ottobre 2020, n. 21693.............................................................. V, 59 Cass. civ., sez. V 17 gennaio 2020 - 8 ottobre 2020, n. 21696.............................................................. III, 89 Cass. civ., sez. VI-T 9 dicembre 2020 - 8 marzo 2021, n. 6368................................................................. II, 195 *** Comm. trib. prov. Reggio Emilia 18 dicembre 2020, n. 374........................................................................................... II, 215
Elenco dei revisori esterni Nicolò Abriani - Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Mario Bertolissi - Andrea Carinci - Alfonso Celotto – Marco Cian - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Alberto Comelli - Giandomenico Comporti - Giuseppe Corasaniti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Vittorio Domenichelli - Mario Esposito - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Gian Luigi Gatta - Emilio Giardina - Andrea Giovanardi - Alessandro Giovannini - Giuseppe Ingrao - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Alberto Marcheselli - Enrico Marello - Giuseppe Marini - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Sebastiano Maurizio Messina - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato Paolo Patrono - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Maria C. Pierro - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone – Barbara Randazzo - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Giovanni Strampelli - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Mauro Trivellin - Antonio Uricchio - Arianna Vedaschi Paolo Veneziani - Marco Versiglioni - Antonio Viotto - Tiziana Vitarelli - Giuseppe Zizzo.
Dottrina
Fatto generatore ed esigibilità dell’IVA nelle prestazioni di servizi tra normativa nazionale e normativa comunitaria Sommario: 1. Premessa. – 2. Il momento impositivo delle prestazioni di servizi nella
disciplina comunitaria. – 3. Il recepimento della normativa comunitaria nell’ordinamento interno e i più significativi interventi giurisprudenziali e di prassi. – 4. L’inquadramento e l’interpretazione sistematica dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633/72. – 5. La rilevanza pratica della ricostruzione teorica del momento impositivo. Alcuni esempi. – 6. Considerazioni conclusive. L’articolo analizza il concetto di momento impositivo ai fini IVA nelle prestazioni di servizi alla luce sia della disciplina comunitaria sia della normativa nazionale. L’analisi muove dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 26650/2020 nella quale i Giudici di legittimità si sono discostati non solo dai principi espressi dalle Sezioni Unite della medesima Corte ma anche da quelli della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Il contributo evidenzia la centralità del momento impositivo ai fini IVA dal quale dipendono diritti e obblighi correlati all’imposta e si sofferma sulla possibilità di una lettura dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633/1972 compatibile con il diritto comunitario, ritenendola preclusa in ragione di un insanabile contrasto fra normativa interna e diritto comunitario che dovrebbe più propriamente condurre alla disapplicazione di tale disposizione da parte del Giudice nazionale. This article analyses the meaning of chargeable event for VAT purposes as laid down by the EU and Italian provisions for the supplies of services. The analysis moves from a recent decision of the Italian Court of Cassation no. 26650/2020 where the judges departed from the principles enshrined by both the Italian Supreme Court in Joint Sections and the Court of Justice of European Union. The article first highlights the pivotal role of the chargeable event to which rights and obligations set forth by the VAT system are linked. Then, it concludes that art. 6(3) of Presidential Decree no. 633/1972 (the Italian VAT provision governing the chargeable event for supplies of services) should be disregarded by the national Courts by reason of an irremediable conflict between the Italian law and the EU VAT law which does not allow any interpretation of the first in line with the latter.
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Parte prima
1. Premessa. – Una recente sentenza della Corte Suprema di Cassazione (1) offre lo spunto per una rassegna ed alcune annotazioni critiche relative all’interpretazione dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633/1972 che individua il “momento di effettuazione delle prestazioni di servizi”. Il tema è stato recentemente considerato dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione (2) che ha espresso le sue conclusioni in stretta aderenza ai principi della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Tale indirizzo è stato disatteso in più occasioni dalla sezione tributaria della stessa Suprema Corte che con la sentenza in commento pare conformarsi solo parzialmente ai principi di diritto stabiliti dalle Sezioni Unite. La questione riveste rilevanza fondamentale ai fini della corretta applicazione del tributo (si consideri l’individuazione del momento in cui applicare un nuovo regime IVA in caso di mutamento di aliquota o di recesso di uno Stato membro dall’Unione Europea e, quindi, di uscita dal sistema armonizzato dell’imposta sul valore aggiunto) (3). 2. Il momento impositivo delle prestazioni di servizi nella disciplina comunitaria. 2.1. La Seconda Direttiva IVA ha introdotto il fondamentale concetto di ‘fatto generatore’ dell’imposta, inteso come il momento in cui si realizza il presupposto del tributo e nel quale l’operazione assume rilevanza ai fini dell’IVA (4). In particolare, l’art. 6 par. 4, individua il fatto generatore delle prestazioni di servizi «al momento in cui viene effettuato il servizio». È la stessa Direttiva che poi prevede alcune eccezioni stabilendo che «nelle prestazioni di servizi di durata indeterminata o che superano un certo periodo di tempo
(1) Cass., Sez. trib., 24 novembre 2020, n. 26650. (2) Cass., Sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059. (3) Procedura disciplinata dall’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea, applicato per la prima (e finora) unica volta con il recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea formalizzato con l’accordo ratificato il 29 gennaio 2020 ed entrato in vigore alle ore 23:00 GMT del 31 gennaio 2020, cui ha seguito un periodo di transizione conclusosi il 31 dicembre scorso nel corso del quale il quale il Regno Unito è rimasto soggetto al diritto comunitario (c.d. ‘Brexit’). (4) Così L. Salvini, L’imposta sul valore aggiunto, in Diritto tributario delle attività economiche, Torino, 2019, 281. Un’altra esauriente definizione di fatto generatore la fornisce G. Fransoni, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2019, 80.
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o che danno luogo a versamento di acconti, può essere previsto che il fatto generatore si verifichi al momento del rilascio della fattura o al più tardi al momento dell’incasso dell’acconto; e ciò limitatamente all’importo fatturato od incassato». La disposizione deve essere considerata unitamente al punto 8 dell’allegato A della medesima Seconda Direttiva che definisce il fatto generatore come «il sorgere del debito di imposta». Muovendo da questo assetto normativo, le prime pronunce della Corte di Giustizia delle (allora) Comunità europee hanno elaborato un principio giurisprudenziale relativo al momento di esigibilità del tributo, da intendersi come momento in cui sorge per l’Erario il diritto a pretendere in pagamento dal soggetto passivo l’imposta da egli addebitata in rivalsa (5). La distinzione tra fatto generatore ed esigibilità risale agli arresti giurisprudenziali della Corte di Giustizia della sentenza 20 maggio 1976 resa nella causa 111/75, Mazzalai (6). In essa la Corte, anche in reazione alle osservazioni della Commissione europea, ha affermato che le eccezioni alla regola generale ex art. 6, comma 4 della Seconda Direttiva riguardano la sola esigibilità dell’imposta e non già il momento di insorgenza del fatto generatore (7). Invero, che la definizione di ‘fatto generatore’ fosse riferita al momento in cui la prestazione è eseguita si rinviene anche dall’analisi del Comitato Economico Sociale nel parere formulato sulla proposta di Seconda Direttiva (8). In tale occasione, il Comitato Economico Sociale osservò, con riferimento al concetto di ‘fatto generatore’, che in diverse fattispecie si sarebbe manifestata notevole difficoltà nel determinare il momento di effettuazione di un servizio e che per tale motivo sarebbe stato utile ed opportuno adottare un solo criterio per l’individuazione tanto dell’insorgenza del debito tributario quanto del
(5) Per la definizione di tale concetto piace ancora richiamare L. Salvini, L’imposta sul valore aggiunto, cit., 281 e G. Fransoni, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, cit., 80. (6) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 20 maggio 1976, 111/75, Mazzalai, EU:C:1976:68. (7) Si legge difatti che «dette deroghe concernono tuttavia solo i casi in cui vi sia versamento di acconti prima che il servizio o i servizi siano stati interamente effettuati, nei quali, cioè, venga anticipato il momento in cui, secondo la prima frase, l’imposta sarebbe divenuta esigibile» (punto 14). (8) Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee 1966, 569 ss.
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Parte prima
momento in cui tale debito avrebbe dovuto essere corrisposto all’erario, coincidente con l’incasso del corrispettivo per il servizio fornito (9). 2.2. La vera e propria autonomia concettuale e giuridica tra il fatto generatore del tributo ed il momento di esigibilità dello stesso si è avuta poi con l’emanazione della Sesta direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977. La disciplina del fatto generatore e dell’esigibilità del tributo figurano nell’art. 10 che al paragrafo 1, lett. a) e b) definiva rispettivamente il «fatto generatore dell’imposta» come «il fatto per il quale si realizzano le condizioni di legge necessarie per l’esigibilità dell’imposta» e la «esigibilità dell’imposta» come il «diritto che l’Erario può far valere a norma di legge, a partire da un dato momento, presso il debitore, per il pagamento dell’imposta, anche se il pagamento può essere differito». Quanto alla disciplina, il citato articolo al successivo paragrafo 2 sanciva in linea di principio che «il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile all’atto della cessione di beni o della prestazione di servizi» oppure, alternativamente, alla «scadenza dei periodi cui si riferiscono tali (10) acconti o pagamenti». Si può dunque affermare che il legislatore comunitario ha inteso stabilire la regola generale per la quale fatto generatore ed esigibilità dell’imposta sono in linea di principio temporalmente coincidenti fra loro e si verificano nel momento in cui le cessioni di beni e le prestazioni di servizi sono effettuate. Qualora tuttavia siano convenzionalmente pattuiti tra le parti pagamenti di acconti, il momento di effettuazione dell’operazione si deve considerare anticipato alla scadenza del rispettivo termine di adempimento. A fianco della regola generale di coincidenza tra fatto generatore ed esigibilità dell’imposta, il legislatore comunitario ha previsto ipotesi di scissione fra i due predetti momenti (11), ipotizzando casi in cui l’esigibilità deve ne-
(9) Si può quindi ritenere che sia stata l’esigenza di semplificare l’applicazione del tributo ad individuare nel momento in cui sorge il debito di imposta il pagamento del corrispettivo. In questo contesto, l’impianto normativo italiano potrebbe essere stato viziato dall’eredità dell’Imposta generale sull’entrata (IGE) il cui momento di esigibilità coincideva appunto con il versamento del corrispettivo in denaro o in natura. (10) Ossia le cessioni di beni e le prestazioni di servizi «che comportano successivi versamenti di acconti o pagamenti» (11) Così L. Salvini, La detrazione Iva nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno:
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cessariamente essere anticipata rispetto al fatto generatore e altri in cui, per contro, gli Stati membri hanno la facoltà di posticipare la pretesa del tributo ad un momento successivo. La prima ipotesi (anticipazione obbligatoria dell’esigibilità) era contemplata dal medesimo par. 2 dell’art. 10 cit., che al secondo comma imponeva – nelle ipotesi in cui vi fosse stato il «pagamento di acconti anteriore alla cessione o alla prestazione di servizi» – che «l’imposta diventa[sse] esigibile all’atto dell’incasso, a concorrenza dell’importo incassato», determinando così l’anticipazione dell’esigibilità rispetto al fatto generatore. Sul punto è fin da subito opportuno precisare, tuttavia, che l’incasso non rileva ex se (12), bensì solo in funzione di elemento rivelatore dell’esistenza di un accordo fra le parti (quantomeno sugli aspetti essenziali del fatto generatore) in vista dell’esecuzione di un’operazione economica rilevante ai fini IVA (13). La seconda ipotesi (posticipazione facoltativa dell’esigibilità) era delineata dal successivo terzo comma, che accordava agli Stati membri la facoltà di posporre il solo momento di esigibilità dell’imposta: «– non oltre la data di emissione della fattura o del documento che ne fa le veci, – al più tardi al momento dell’incasso del prezzo, ovvero – in caso di mancata o tardiva emissione della fattura o del documento che ne fa le veci, entro un periodo determinato a decorrere dalla data in cui ha luogo il fatto generatore dell’imposta» (14). 2.3. Il quadro normativo così descritto non ha più subito sostanziali modifiche. Anche la Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006
principi generali, in Riv. dir. trib., 1998, I, 137. (12) Essendo noto che sono soggette all’imposta sul valore aggiunto le operazioni economiche individuate dal legislatore comunitario «e non i pagamenti effettuati quale corrispettivo di quest’ultime» (così la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 9 ottobre 2001, causa C-108/99, Cantor Fitzgerald International, EU:C:2001:526, punto 17). (13) Sul tema la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 21 febbraio 2006, causa C-419/02, Bupa Hospitals, EU:C:2006:122, con compiuto commento di V. Liprino, Acconti, pagamenti anticipati ed esigibilità dell’Iva, in Rass. trib., 2007, 279. (14) Tali deroghe rispondono all’opportunità di consentire una simmetria tra esigibilità dell’imposta ed esercizio del diritto di detrazione in capo al committente quando il contenuto economico dell’operazione si considera già – in tutto o in parte – realizzato dando vita al presupposto fiscalmente sufficiente per l’imponibilità della prestazione sia pure limitatamente all’importo pagato o fatturato.
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relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (c.d. Direttiva rifusione, tutt’ora in vigore), ha difatti mutuato pressoché integralmente i principi contenuti nella Sesta Direttiva. In particolare, la definizione e la disciplina di fatto generatore ed esigibilità dell’imposta sono state rispettivamente inserite negli articoli 63 e 64. Il paragrafo 2 di quest’ultima disposizione prevede la facoltà per gli Stati membri, in chiave anti-elusiva, di considerare «le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in modo continuativo nell’arco di un periodo di tempo» come «effettuate almeno alla scadenza di un termine di un anno». Le ipotesi derogatorie di anticipazione necessaria dell’esigibilità e di posticipazione facoltativa della stessa sono state disciplinate, rispettivamente, negli articoli 65 e 66. Con la Direttiva del Consiglio n. 2010/45/UE del 13 luglio 2010 è stata poi introdotta un’ulteriore specificazione dei momenti impositivi per operazioni transfrontaliere (così la modifica all’art. 64, par. 2 della Direttiva rifusione) e una delimitazione della facoltà di deroga concessa agli Stati membri ai sensi dell’art. 66 (15). Ai fini del presente contributo preme unicamente evidenziare che, con la riformulazione del par. 2 dell’art. 64, è stato previsto che le prestazioni di servizi rese in via continuativa, in relazione alle quali l’imposta è dovuta dal committente mediante inversione contabile, «si considerano effettuate alla scadenza di ogni anno civile, fintanto che non si ponga fine alla prestazione dei servizi». Contestualmente si è stabilito che la deroga al criterio generale, fissato nella precedente formulazione del primo comma dell’art. 66, fosse limitata alle prestazioni diverse da quelle transfrontaliere ed a carattere continuativo (disciplinate dall’art. 64, par. 2, comma 2 della Direttiva rifusione). 2.4. Questa prima disamina della normativa comunitaria offre alcuni preliminari spunti di riflessione. In primo luogo, è evidente che il legislatore comunitario abbia voluto individuare specificamente materie di propria competenza esclusiva – qual è la
(15) Le modifiche introdotte dalla Direttiva n. 210/45/UE rispondono alla necessità di uniformare le norme relative all’esigibilità dell’imposta e alla fatturazione delle operazioni al fine di garantire il corretto ed omogeneo tracciamento delle operazioni che coinvolgono operatori economici stabiliti in due o più Stati membri (cfr. considerando 3 e 6 della Direttiva n. 2010/45/UE).
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disciplina del fatto generatore (16) e della obbligatoria anticipazione dell’esigibilità al momento dell’incasso in ipotesi di pagamento di acconti (17) – distinguendole da altre di competenza concorrente con gli Stati membri, segnatamente la facoltà di posticipazione dell’esigibilità (18) (19) (20). Ciò all’evidente scopo di armonizzare quanto più possibile uno degli elementi cardine del meccanismo applicativo dell’IVA, che è per l’appunto il momento impositivo delle operazioni rilevanti ai fini di tale tributo. In secondo luogo, emerge per contro una sorta di genericità nella definizione giuridica dei concetti di fatto generatore ed esigibilità del tributo (21). Ciò deriva dal fatto che l’armonizzazione europea dell’imposta, in ragione dei differenti ordinamenti giuridici nei quali essa si trova ad operare, non può che ispirarsi a nozioni di stampo più prettamente economico che civilistico, non essendo affatto armonizzati a livello comunitario concetti chiave come quelli di proprietà (e suo trasferimento), possesso, detenzione, consenso delle parti, etc. (22). 3. Il recepimento della normativa comunitaria nell’ordinamento interno e i più significativi interventi giurisprudenziali 3.1. La trasposizione della Direttiva IVA nell’ordinamento italiano è stata attuata con il d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, entrato in vigore il 1° gennaio 1973.
(16) i.e. con la sola facoltà di deroga prevista in chiave antielusiva all’art. 64, par. 2, comma 3. (17) i.e. art. 65. (18) Così G. Fransoni, Il momento impositivo, cit., 61, ancorché l’autore ritenga che non si possa ritenere violato il principio di competenza esclusiva del legislatore comunitario in tema di disciplina del fatto generatore in ragione della facoltà concessa agli Stati membri dall’art. 64, par. 2, comma 3, essendo questa introdotta ai soli fini antielusivi. (19) i.e. art. 66. (20) Si veda anche P. Centore, Momento impositivo delle prestazioni di servizi, in Corr. trib., 1994, 1771 ss. (21) Sul punto R. Cordeiro Guerra, Fatto generatore, esigibilità dell’Iva ed incasso del prezzo secondo la Corte di Giustizia: spunti per una revisione della disciplina italiana (nota a Corte di Giustizia CE, Sez. V, Sentenza 26 ottobre 1995, in causa n. C-144/94, Italittica S.p.A.), in Riv. dir. trib., 1996, II, 449 ss. (22) Sul punto pregevoli le osservazioni di P. Filippi, I profili oggettivi del presupposto dell’Iva, in Dir. prat. trib., 2009, I, 1199.
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In sede di recepimento, le scelte adottate dal legislatore nazionale in merito alla definizione del momento in cui sorge l’obbligazione tributaria e quello in cui l’imposta diviene esigibile sono state in larga parte influenzate dal regime stabilito dall’allora vigente imposta generale sulle entrate (23) e, quindi, in larga parte disallineato rispetto alle disposizioni comunitarie. L’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633 prevedeva – nella sua formulazione originaria – unicamente che «le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo» (24). Tutto ciò ancorché la Seconda
(23) In questo senso F. Maffezzoni, La fattura nell’ordinamento dell’IVA, in Boll. trib., 1973, 1173 ss. (24) La scelta di collegare l’effettuazione del servizio al pagamento è certamente rivolta a semplificare l’individuazione di un momento il quale, se fosse ancorato all’ultimazione della prestazione, sarebbe di non facile delimitazione (osservazione già avanzata dal Comitato Economico Sociale, si veda Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee 1966, 569 ss. Così anche A. Berliri, L’imposta sul valore aggiunto. Studi e scritti vari, 1971, Milano, 38). Indipendentemente dal dato letterale previsto dalle Direttive e dalla normativa nazionale, l’individuazione del momento impositivo ai fini IVA riflette la struttura ed il presupposto che il tributo intende colpire. L’IVA, quale imposta generale sul consumo, è un tributo che dal punto di vista economico non colpisce l’atto del consumo in sé, bensì gli scambi commerciali, nei loro aspetti giuridicamente rilevanti, che sono funzionali a realizzare un consumo finale avendo cura di non incidere, in linea di principio, sulla catena del valore (in tal senso si veda il quarto considerando della Seconda Direttiva, nonché P. Filippi, voce Valore Aggiunto (imposta sul), Enciclopedia del diritto, Milano, 1993, XLVI, 125 e A. Comelli, L’Iva quale imposta di consumo, in Riv. dir. trib., 1996, II, 1936). Tale postulato può dispiegare effetti anche sull’individuazione del momento di esecuzione del “fatto generatore”, poiché nella prospettiva dell’imposta sul consumo appare ragionevole integrare il presupposto della tassazione fin dal momento in cui il consumo è possibile e avviene, ossia fin dal momento in cui la prestazione di servizio è resa, ed ha quindi recato “l’utilità” al committente. In questa prospettiva, è ragionevole ritenere che il pagamento del corrispettivo, pur normalmente ricollegandosi ad un contratto che ha ad oggetto prestazioni di servizi a titolo oneroso, è vicenda estranea ed ulteriore rispetto all’atto (l’esecuzione del servizio) che ne rende possibile il consumo. Il pagamento del corrispettivo rileva cioè per la determinazione della base imponibile, ma non ai fini della risoluzione del problema del momento impositivo coincidente con il consumo, per il quale è evento esterno e (normalmente) successivo. Ad altre conclusioni si può giungere nella prospettiva dell’imposizione sugli scambi, poiché se si assume come oggetto dell’imposta lo scambio, l’imposta risulta coerentemente applicabile solo nel momento in cui tutti i momenti giuridicamente ricollegati allo scambio sono realizzati. L’imposta sugli scambi trova il suo naturale momento di rilevanza nel momento in cui lo scambio è perfezionato, in tutte le sue conseguenze e dunque apparirebbe ragionevole identificare la rilevanza impositiva nel momento del pagamento che normalmente è l’atto conclusivo di una prestazione di servizi (potrebbe deporre a favore di tale interpretazione il quinto considerando della Seconda Direttiva in base al quale l’IVA avrebbe potuto essere circoscritta, in nella sua prima fase, alle sole transazioni fra soggetti economici escludendo quindi il consumo dei beni e servizi al minuto). Avendo ciò in mente, e ricordando le note difficoltà iniziali di inquadramento teorico dell’imposta che hanno
Dottrina
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Direttiva, all’art. 6 par. 4, individuasse il fatto generatore delle prestazioni di servizi nel «momento in cui viene effettuato il servizio», e non già all’atto del pagamento del corrispettivo (25). Il successivo comma 4, avvalendosi questa volta secundum legem della facoltà concessa dal citato art. 6 par. 4, prevedeva poi che «se anteriormente al verificarsi degli eventi indicati nei precedenti commi o indipendentemente da essi sia emessa fattura o sia pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento» (26). 3.2. Il recepimento della normativa comunitaria nell’ordinamento nazionale, già passibile di critiche, si è mostrato ancor più confuso a seguito dell’emanazione della Sesta Direttiva la quale, come detto, ha espressamente introdotto il concetto di esigibilità del tributo, tenendolo ben distinto da quello di fatto generatore.
affaticato il legislatore nazionale degli anni ’70 (cfr. A. Fantozzi, Presupposto e soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 1972, I, 729), si può allora ritenere che il legislatore italiano abbia individuato nel pagamento il momento di rilevanza dell’operazione anche in virtù della costruzione dell’imposta in termini eminentemente giuridici, quale imposta sulle transazioni poste in essere nell’ambito dell’attività economica. Tuttavia, è ormai evidente che l’impostazione europea è chiaramente nel senso dell’imposizione sul consumo, pur con un meccanismo complesso che include nel funzionamento dell’imposta tutti gli operatori della catena distributivo-produttiva. Dunque, il nodo del momento di effettuazione delle prestazioni di servizio, se si vuole, vede anche la sua genesi nel diverso inquadramento generale e sistematico dell’IVA, e si ricollega ad una scelta a monte circa il modello impositivo cui si ispira tale imposta. (25) In dottrina si è affermato che «l’art. 6 del d.P.R. n. 633 del 197, disponendo che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della sua percezione e la data di esecuzione della prestazione cui il corrispettivo si riferisce, per cui, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data nella quale storicamente la medesima sia stata eseguita, bensì […] quella di percezione del relativo corrispettivo» (si veda G. Mandò, D. Mandò, Manuale dell’Imposta sul valore aggiunto, Milano, 2014, 188). (26) La normativa nazionale ha recepito la normativa comunitaria in maniera sensibilmente diversa anche dal punto di vista terminologico. La Seconda Direttiva parla di “incasso” mentre la normativa domestica parla di “pagamento”; il primo termine dà prevalenza alla posizione creditoria (l’atto di incassare, in termini G. Fransoni, op. cit., 182) mentre la seconda a quella debitoria (l’atto del pagare).
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L’Italia, nelle numerose difficoltà incontrate nel recepire le novità di cui alla Sesta Direttiva (27), non è in alcun modo intervenuta ad adeguare la disciplina del momento impositivo delle prestazioni di servizi, sino a che non è stata indirettamente sollecitata a farlo da una centrale pronuncia della Corte di Giustizia in tema di esigibilità del tributo nelle prestazioni di servizi (28) (29). Invero, nella causa C-144/94, Italittica, instaurata a seguito della domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dalla Commissione Tributaria Centrale, è stato chiesto alla Corte europea se l’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633 fosse conforme all’art. 10, par. 2, comma 3 nella parte in cui attribuiva agli Stati membri la facoltà di posticipare l’esigibilità del tributo solo per «talune operazioni» (30). Avendo l’Italia posticipato tale momento per tutte le prestazioni di servizi, il giudice nazionale ha posto la questione se l’art. 10, par. 2, consentisse «agli Stati membri di stabilire che l’“incasso del prezzo” sia considerato fatto che per tutte le prestazioni di servizi rende l’imposta “esigibile”». Con la sentenza 26 ottobre 1995 (31), la Corte di Giustizia ha fornito un’interpretazione estensiva della locuzione ‘talune operazioni’, sancendo che
(27) Per una compiuta disamina si veda F. Gallo, L’IVA: verso un’ulteriore revisione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, 592 ss. (28) Va segnalato il tentativo, poi abbandonato, di collegare il momento di effettuazione ai fini IVA delle prestazioni di servizi al momento di ultimazione delle stesse inserito nell’art. 9 del disegno di legge per la manovra finanziaria 1990 (Senato della Repubblica, Atto Parlamentare 30 settembre 1989, n. 1897 in Corr. trib., 1989, 2860 ss.). (29) Si osserva che una prima indicazione del disallineamento tra la normativa italiana ed il contenuto della Sesta Direttiva avrebbe potuto già desumersi dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 20 ottobre 1993, causa C-10/92, Balocchi, EU:C:1993:846, in cui è stata ribadita, nel contesto di una controversia avente ad oggetto le disposizioni nazionali in materia di versamento dell’imposta, la netta distinzione tra fatto generatore e momento di esigibilità del tributo. (30) Con le altre due questioni, secondarie ai fini del presente contributo, i Giudici nazionali hanno domandato alla Corte «se lo Stato membro che si avvalga della “deroga” di cui al predetto art. 10, n. 2, sia tenuto a stabilire “un periodo determinato a decorrere dalla data in cui ha luogo il fatto generatore dell’imposta” entro il quale (periodo) la fattura o il documento che ne fa le veci deve essere emesso, ancorché non si sia ancora avuto l’”incasso del prezzo”» e «Se lo Stato membro che si avvalga della “deroga” anzidetta sia tenuto a stabilire modalità di documentazione ed annotazione della prestazione ultimata e del relativo corrispettivo, ogniqualvolta non sia stata emessa la fattura o il documento che ne fa le veci, ovvero non si sia avuto l’”incasso del prezzo”». (31) Per un autorevole commento alla sentenza si rimanda a R. Cordeiro Guerra, Fatto generatore, esigibilità dell’Iva ed incasso del prezzo secondo la Corte di Giustizia: spunti per una revisione della disciplina italiana, cit.; A. Comelli, Sul momento di effettuazione delle
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«l’art. 10, n. 2, terzo comma, della direttiva consente agli Stati membri di stabilire che l’incasso del prezzo è il fatto che, per tutte le prestazioni di servizi, rende l’imposta esigibile». L’importanza di tale pronuncia si rinviene in ragione di una sua lettura a contrario. La sentenza Italittica non si è difatti pronunciata sulla compatibilità tout court dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633 con la Sesta Direttiva – non essendo questo il tema pregiudiziale sollevato dal giudice nazionale (32) – bensì si è limitata ad osservare come il differimento dell’esigibilità al momento del pagamento del corrispettivo per tutte le prestazioni di servizi non fosse incompatibile con la facoltà concessa agli Stati membri dall’art. 10, par. 2, comma 3, della Sesta Direttiva. L’esame della normativa nazionale, infatti, non ha riguardato il puntuale recepimento del concetto di fatto generatore di cui all’art. 10, par. 2, comma 2, della Sesta Direttiva ma unicamente se fosse stato correttamente esercitato il diritto di deroga di cui al successivo comma 3 circa la possibilità di differire l’esigibilità dell’imposta (33). Sullo specifico aspetto, è altrettanto importante rilevare come la Commissione europea, nelle osservazioni depositate nel corso del procedimento, avesse pregevolmente evidenziato come la normativa italiana, ancorché simile a quella francese (34), si discostasse da quest’ultima proprio in quanto non distingueva i concetti di fatto generatore ed esigibilità dell’imposta, così contravvenendo al disposto unionale.
prestazioni di servizi ai fini dell’IVA, in Riv. dir. trib., 1996, II, 214 ss. (32) Ed anzi, secondo attenta dottrina «così prospettata, la questione non coglieva, dunque, la distinzione tra «fatto generatore» ed «esigibilità dell’imposta», rappresentando in modo non del tutto puntuale la normativa nazionale» (così F. Ricca, Il momento di effettuazione dei servizi tra fatto generatore ed esigibilità dell’Iva, in Corr. trib., 2013, 2373). (33) In realtà vi è chi ha sostenuto, in una lettura estensiva della sentenza, che già si potesse ricavare da tale pronuncia l’incompatibilità dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633 con la Sesta Direttiva. È stato difatti sostenuto che con la sentenza Italittica i Giudici comunitari avrebbero statuito «con chiarezza che la norma nazionale deve essere necessariamente intesa nel senso che l’identificazione con il pagamento del corrispettivo investe il compimento della prestazione con esclusivo riferimento alla sua rilevanza ai fini della mera esigibilità dell’imposta; giacché, ove ne risultasse coinvolta anche la sua rilevanza ai fini dell’imponibilità e dell’insorgenza dell’obbligazione tributaria, la disposizione risulterebbe (per quanto detto in precedenza) incompatibile con il diritto dell’Unione» (così M. Peirolo, Compensi soggetti a Iva anche se incassati dopo la cessazione dell’attività professionale, in Corr. trib., 2016, 1947). (34) Cfr. articolo 269, par. 2, lett. c) del Code général des impôts a mente del quale l’imposta relativa alle prestazioni di servizi diviene esigibile all’atto dell’incasso del corrispettivo.
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3.3. A seguito di tale sentenza il legislatore nazionale è intervenuto con una modifica delle disposizioni sul momento di effettuazione delle prestazioni di servizi. Tentando per la prima volta di recepire il concetto di esigibilità dell’imposta a distanza di 20 anni dall’emanazione della Sesta Direttiva, l’art. 1 del d.lgs. 2 settembre 1997 n. 313 ha riformulato il comma 5 dell’art. 6 del d.P.R. n. 633 e al primo periodo, con formulazione tutt’oggi vigente, ha stabilito che «l’imposta relativa alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi diviene esigibile nel momento in cui le operazioni si considerano effettuate secondo le disposizioni dei commi precedenti» (35). Il quadro normativo si è ulteriormente complicato a seguito dell’introduzione di un ulteriore comma all’art. 6, il sesto, ad opera dell’art. 8 della l. 15 dicembre 2011 n. 217, volto a disciplinare il momento impositivo delle prestazioni di servizi transfrontaliere (36). Tale disposizione stabilisce che «in deroga al terzo e al quarto comma, le prestazioni di servizi di cui all’articolo 7-ter […] e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli articoli 7-quater e 7-quinquies […] si considerano effettuate nel momento in cui sono ultimate ovvero, se di carattere periodico o continuativo, alla data di maturazione dei corrispettivi». Se l’obiettivo era disciplinare in maniera chiara, compiuta e, soprattutto, conforme alla normativa comunitaria il fatto generatore e il momento di esigibilità del tributo nelle prestazioni di servizi, non può di certo dirsi che tale risultato sia stato raggiunto.
(35) Come correttamente osservato in dottrina, «il comma 3 dell’art. 1 modifica il comma 5 dell’art. 6 del decreto IVA […] nel senso di introdurre una nozione di momento di “esigibilità” dell’imposta che, nel sistema finora vigente, emergeva implicitamente dalla concatenazione degli adempimenti formali, ovvero dalla individuazione del momento di effettuazione delle operazioni da parte di specifiche norme di legge (art. 6). La nuova disposizione assume invece valenza di principio generale, soprattutto ai fini del sorgere del diritto di detrazione, e dispone che l’imposta diviene esigibile, nel momento in cui le operazioni si intendono effettuate ai sensi dello stesso art. 6, ad eccezione di talune fattispecie, già contenute nell’attuale testo del comma, e cioè in sostanza, di quelle costituite dalle operazioni effettuate nei confronti dello Stato ed enti pubblici, per le quali l’imposta diviene esigibile all’atto del pagamento dei corrispettivi» (S. Dus, Le modifiche strutturali dell’Iva introdotte con il D.Lgs. n. 313/1997, il fisco, 1998, 2916). (36) Tale intervento legislativo si è reso necessario a seguito dell’introduzione, da parte della Direttiva n. 2010/45/UE del Consiglio del 13 luglio 2010, del par. 2 all’art. 66 il quale ha sottratto agli Stati membri la facoltà di deroga al momento di esigibilità del tributo nelle prestazioni di servizi intracomunitarie.
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Ciò è dimostrato dall’evidente tenore letterale delle disposizioni introdotte con i predetti interventi riformatori. Invero, con la riscrittura del comma 5 è stata introdotta una precisazione, la quale rende palese che l’intenzione del legislatore italiano sia quella di ritenere la fattispecie di cui al comma 3, ossia «l’atto del pagamento del corrispettivo», vero e proprio fatto generatore e non mero momento di esigibilità del tributo (37). Il primo periodo del comma 5, infatti, conferma che l’imposta è «esigibile nel momento in cui le operazioni si considerano effettuate secondo le disposizioni dei commi precedenti» e, dunque, effettuate anche secondo il comma 3. Se il comma 3 fosse stato inteso come mera declinazione del momento di esigibilità, non avrebbe avuto particolare logica il riferimento a tale comma operato dal primo periodo del comma 5. Si sarebbe difatti dovuto leggere il combinato disposto dei due commi nel senso che ‘le prestazioni di servizi sono esigibili quando diventano esigibili’. Ipotizzando che l’iniziativa del legislatore dovesse essere volta alla razionalizzazione del rapporto tra momento di effettuazione, esigibilità del tributo ed esercizio del diritto di detrazione da parte del committente, la formulazione del comma 3 dell’art. 6, d.P.R. n. 633 avrebbe dovuto essere modificata per adeguarsi alla disciplina comunitaria. Il novellato comma 5 risulta conforme all’interpretazione della Sesta Direttiva, poiché gli Stati membri possono differire il momento di esigibilità (e conseguentemente il momento di detrazione) dell’IVA all’atto del pagamento del corrispettivo. Tuttavia, il comma 3 nel vincolare il momento di effettuazione allo stesso evento persiste nell’attribuzione di una deroga in violazione della Sesta Direttiva secondo la quale l’effettuazione coincide con la materiale esecuzione della prestazione. In secondo luogo, l’incipit del comma 6 dell’art. 6 introdotto dal d.l. n. 217/2011 – in un’ottica di conformità al dettato comunitario del comma 3 – si rivela altrettanto destabilizzante. Nel disciplinare il momento di effettuazione delle prestazioni di servizi intracomunitarie – e, dunque, il loro fatto generatore – il legislatore introduce una vera e propria ‘deroga al comma 3 dell’art. 6’, ritenendo quindi, ancora una volta, che tale ultimo comma individua non solo il momento di esigibilità ma anche il fatto generatore delle prestazioni di servizi. Se tale legislatore avesse ritenuto che il comma 3 recasse la mera esigibilità del tributo, allora
(37)
Nello stesso senso G. Fransoni, op. cit., 84.
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non avrebbe dovuto introdurre alcuna deroga allorquando ha provveduto a disciplinare il solo fatto generatore delle prestazioni intracomunitarie. 3.4. L’insoddisfacente e confusa trasposizione nell’ordinamento interno ha alimentato indirizzi giurisprudenziali tra loro contrastanti. A distanza di 20 anni dalla sentenza Italittica e a quasi 40 dalla Sesta Direttiva, nel 2016 le Sezioni Unite della Suprema Corte (38) hanno contribuito a fare chiarezza sulla corretta interpretazione dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633 e alla sua compatibilità con il diritto comunitario ancorché tale intervento non ha posto fine a successive contrastanti prese di posizione della stessa Suprema Corte delle quali si riferirà infra. La questione controversa, valutata dalle Sezioni Unite, riguardava l’incasso di corrispettivi per prestazioni di servizi da parte di un professionista successivamente alla cessazione della propria attività ai fini IVA. La questione solo apparentementea riguardava un tema di soggettività IVA (39), in quanto – come correttamente rilevato dalla Corte – per dirimere la controversia occorreva (ed è occorso) unicamente individuare il fatto generatore delle prestazioni di servizi. Se tale momento fosse stato individuato nel pagamento del corrispettivo, come sembra chiaramente stabilire l’art. 6 comma 3 ancorché divergendo dal dettato comunitario, le somme percepite non avrebbero dovuto essere assoggettate ad IVA poiché afferenti a prestazioni di servizi effettuate al di fuori dell’esercizio di arti e professioni. Diversamente, se detto momento fosse stato ritenuto coincidente con l’ultimazione del servizio – reputando che il pagamento del corrispettivo facesse insorgere la mera esigibilità dell’imposta da parte dell’Erario e non individuasse il momento genetico dell’operazione – la prestazione si sarebbe dovuta ritenere svolta nell’esercizio di arti e professioni, con suo conseguente assoggettamento ad imposta.
(38) Cass., Sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059; per un commento si veda P. Centore, Si applica l’IVA ai compensi del professionista riscossi dopo la cessazione dell’attività, in GT- Riv. giur. trib., 2016, 557 ss.; M. Peirolo, Compensi soggetti a Iva anche se incassati dopo la cessazione dell’attività professionale, cit.; M.T. Montemitro L’imponibilità Iva dei compensi percepiti dall’ex professionista, (Nota a Cass. sez. un. civ. 21 aprile 2016, n. 8059), in Riv. dir. trib., 2016, II, 229 – 239; A.M. Perrino, Sull’imponibilità ai fini Iva del compenso di prestazione professionale (Nota a Cass. sez. un. civ. 21 aprile 2016, n. 8059), in Foro it., 2016, 1643 – 1644. (39) Come in gran parte sostenuto dall’Agenzia delle Entrate nel proprio motivo di ricorso.
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Nel condividere la seconda prospettazione, le Sezioni Unite hanno sviluppato svariati e pregevoli argomenti (40). Discostandosi da un orientamento che si stava consolidando nella stessa giurisprudenza della sezione tributaria (41), le Sezioni Unite hanno anzitutto rilevato il manifesto contrasto fra la normativa interna e quella comunitaria che in merito al momento impositivo delle prestazioni di servizi (42) consente agli Stati membri la facoltà di deroga alla sola esigibilità dell’imposta, e non già al fatto generatore. (43). La Corte a Sezioni Unite ha affermato dunque che «le indicazioni emergenti dalla disciplina comunitaria, proiettandosi ineludibilmente sulle norme nazionali che ne realizzano la trasposizione, ostano a che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, sia letto, nel senso che, per le prestazioni di servizio, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità a fini Iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito». A sostegno di tale conclusione si aggiunge altresì una puntuale interpretazione della sentenza Italittica, che offre alle Sezioni Unite lo spunto per ribadire il principio secondo cui il pagamento del corrispettivo attiene esclusivamente al momento di esigibilità del tributo senza incidere sul fatto generatore
(40) Peraltro, puntualmente anticipate anni prima da F. Ricca, op. cit. (41) Pareva prevalente la tesi secondo cui «il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione di servizi» sostenuta, fra le altre, da Cass. sez. I, 26 ottobre 1995, n. 11150, Cass., Sez. trib., 9 giugno 2009, n. 13209, Cass., Sez. trib., 19 febbraio 2009, n. 3976 e Cass., Sez. trib. 20 aprile 2011, n. 9091. Tale tesi è stata riproposta anche in pronunce successive al 2016, fra le quali Cass., Sez. trib., 7 settembre 2018, n. 21870 e Cass., Sez. trib., 23 gennaio 2020, n. 1468. (42) Così il punto 3.2, «la lettura del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, nel senso che, per le prestazioni di servizio, il presupposto oggettivo dell’imponibilità a fini iva si verifica di regola, non con l’esecuzione della prestazione, ma con il successivo pagamento totale o parziale del corrispettivo correlativamente pattuito, si rivela, invero, in evidente, inammissibile, contrasto con la disciplina comunitaria dell’Iva, di cui il D.P.R. n. 633 del 1972» (43) Così il punto 3.3.2, «Per altro verso, l’ordinamento comunitario conferisce agli Stati membri la facoltà di derogare alla disciplina comunitaria con riguardo alle condizioni di esigibilità dell’iva, ma non anche in merito all’identificazione del fatto generatore dell’imposta. Gli artt. 10, 2, dir. 77/388/Cee e 65 dir. 2006/112/Ce, pur riconoscendo agli Stati margini di discrezionalità nella definizione delle condizioni di esigibilità dell’iva, non contemplano infatti, al riguardo, alcun riferimento al fatto generatore dell’imposta».
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in quanto, diversamente, la norma nazionale si rivelerebbe incompatibile con il diritto comunitario (44). Ed ancora, anche in prospettiva di rispetto del principio di uguaglianza e capacità contributiva, le Sezioni Unite evidenziano taluni effetti distorsivi che si potrebbero ingenerare qualora il momento impositivo venisse ancorato al mero pagamento del corrispettivo (45). L’intervento, tuttavia, non si è rivelato risolutivo. Infatti, la Sezione Tributaria (46) – senza neppure citare l’intervento a Sezioni Unite sopra citato – è tornata sull’argomento richiamando espressamente il proprio precedente indirizzo giurisprudenziale. In tale sentenza, la Sezione Tributaria riconferma il principio di identità tra il momento di effettuazione di una prestazione di servizi, l’esigibilità del tributo ed il pagamento del corrispettivo (47).
(44) Così il punto 3.4, «la norma nazionale deve essere necessariamente intesa nel senso che la ficta identificazione con il pagamento del corrispettivo (“le prestazioni di servizio si considerano effettuate...”) investe il compimento della prestazione con esclusivo riferimento alla sua rilevanza ai fini della mera esigibilità dell’imposta; giacché, ove ne risultasse coinvolta anche la sua rilevanza ai fini dell’imponibilità e dell’insorgenza dell’obbligazione tributaria, la disposizione risulterebbe (per quanto detto in precedenza)incompatibile con il diritto comunitario». (45) Così il punto 3.5.4., «diversamente dalle condizioni di esigibilità dell’imposta, che possono anche variare in considerazione di specifiche esigenze funzionali - l’imponibilità, quale espressione del fatto generatore dell’imposta ed indice di capacità contributiva (cui si ricollegano gli effetti previsti dalla disciplina del tributo ed in rapporto alla quale s’individuano ambito territoriale di relativo riferimento nonché disciplina ed aliquota in concreto applicabile), appare dover essere necessariamente riferito, nella prospettiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. e per l’esigenza di non trattare differentemente situazioni uguali, a dato oggettivo omogeneo ed insuscettibile di variazioni determinate da scelte casuali e soggettive. Situazione che non si verificherebbe, ove si ritenesse che, nel considerare l’effettuazione della prestazione coincidente con il pagamento, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, intendesse riferirsi a tale evento anche con riguardo al fatto generatore dell’imposta, giacché, in tal caso, l’imponibilità a fini iva sarebbe, irrazionalmente, destinata a mutare (cfr. la disciplina complessiva della citata disposizione), non solo in rapporto alla tipologia dell’operazione imponibile, ma anche all’interno di ciascuna di esse nonché in funzione dell’opzione dell’operatore (che eventualmente anticipi il momento impositivo con l’emissione della fattura)». (46) Cass., Sez. trib., 7 settembre 2018, n. 21870; per un commento si veda S. Servidio, Momento impositivo delle prestazioni di servizi a carattere periodico e continuativo, in L’IVA, 2019, 36; nello stesso senso Cass., Sez. trib., 23 gennaio 2020, n. 1468. (47) Così il punto 3.3. della sentenza Cass. n. 21870/2018 cit.: «sulla base di tale interpretazione si è formato l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 6, comma 3, il presupposto oggettivo dell’I.V.A. si verifica, per le prestazioni di servizi, con il pagamento, in tutto o in parte, del corrispettivo. Difatti, è
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Con una più recente ordinanza (48), la Corte è nuovamente intervenuta sulla controversa questione. Essa ha osservato (correttamente) che la corrispondenza – per presunzione assoluta – fra data di pagamento del corrispettivo e di esecuzione delle prestazioni di servizi dovesse ritenersi superata dalla pronuncia a Sezioni Unite del 2016 in quanto confliggente con la disciplina comunitaria dell’IVA. Tuttavia, dopo aver condivisibilmente enunciato il principio sancito dalla Sezioni Unite, la Corte ha fornito una propria interpretazione del momento impositivo delle prestazioni di servizi concludendo che il fatto generatore e con esso l’esigibilità dell’imposta devono intendersi realizzati con la materiale esecuzione della prestazione. La Corte ha affermato infatti che «sia la sesta direttiva Iva 77/388/CEE (art.10, commi 1 e 2), sia l’attuale direttiva Iva 2006/112/CE (artt. 62, 63 e 66) chiariscono che il fatto generatore dell’imposta si identifica con l’effettuazione della cessione dei beni ovvero con quella della prestazione dei servizi, il cui verificarsi determina anche l’esigibilità dell’imposta. Deve farsi, allora, riferimento al dato del materiale espletamento dell’operazione, e non a quello del pagamento del corrispettivo (Corte UE, 19 dicembre 2012, in causa c-549/11, proprio in relazione alla prestazione di servizi)». Ad abundatiam, la Corte ha espresso poi il principio di diritto secondo cui «tale disciplina unionale osta a che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 sia letto nel senso che, per le prestazioni di servizi, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità (49) a fini Iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito», così dimenticando la deroga, legitti-
stato più volte precisato che, in tema di I.V.A., il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione, sicché, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data in cui è stata storicamente eseguita, bensì quella di percezione del relativo corrispettivo (salvo il caso di precedente emissione di fattura). Tale principio è stato affermato per negare la sussistenza dell’obbligazione tributaria e del connesso obbligo di fatturazione prima della riscossione del corrispettivo (così Sez. 5, n. 3976 del 19/02/2009 (Rv. 606704) e Sez. 5, n. 13209 del 09/06/2009 (Rv.608594)» (48) Cass., Sez. trib., 24 novembre 2020, n. 26650; per un primo commento si veda M. Dellapina, L’IVA è esigibile all’atto dell’esecuzione della prestazione e non più al pagamento, in L’IVA, 2021, 26 ss. (49) Appare fondato ritenere che la Corte intendesse ‘esigibilità’ in luogo di ‘imponibilità’.
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ma, di cui all’art. 6, comma 3 (50) secondo la quale l’esigibilità dell’imposta e il diritto alla detrazione in capo al committente (51) insorgono nel momento del pagamento del corrispettivo. Tale tesi, se fosse confermata, condurrebbe a conseguenze distorsive per gli operatori economici che sarebbero tenuti ad emettere fattura non già al momento di incasso del corrispettivo bensì a quello – meno agevole da individuare – di ultimazione della prestazione. 4. L’inquadramento e l’interpretazione sistematica dell’art. 6, comma 3, d.P.R. n. 633/72. 4.1. Si profilano pertanto due diverse tesi interpretative. La prima tesi individua una separazione tra fatto generatore (per il quale rileverebbe la ultimazione della prestazione) ed esigibilità del tributo (per il quale rileverebbe il pagamento del corrispettivo). La seconda tesi condivide la separazione tra fatto generatore ed esigibilità facendo, tuttavia, convergere entrambi al momento della ultimazione della prestazione. A tali due tesi, si aggiunge quella storica seguita tutt’oggi dall’Agenzia delle Entrate (e riflessa nella giurisprudenza più datata e in qualche sentenza recente) che individua il momento impositivo (facendo coincidere fatto generatore ed esigibilità) con il pagamento del corrispettivo (52). Sezioni Unite
Ordinanza Sez. V
Agenzia delle Entrate
Fatto generatore
Esecuzione della prestazione
Esecuzione della prestazione
Pagamento del corrispettivo
Esigibilità imposta
Pagamento del corrispettivo
Esecuzione della prestazione
Pagamento del corrispettivo
4.2. Le Sezioni Unite hanno ratificato un principio cardine del diritto comunitario che distingue il momento in cui l’operazione si deve considerare effettuata (fatto generatore, fattispecie impositiva) da quello in cui l’imposta
(50) Così come interpretato dalla citata sentenza a Sezioni Unite n. 8059/2016. (51) Così l’art. 19, comma 1, d.P.R. n. 633 (52) Circolare n. 12/E del 3 maggio 2013, cap. IV, par. 5; risposta all’istanza di interpello 163 pubblicata sul sito dell’Agenzia delle Entrate l’8 marzo 2021.
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afferente detta operazione può essere pretesa dall’Erario (esigibilità, effetto della fattispecie), osservando come – ancorché come regola generale tali due momenti spesso siano temporalmente coincidenti – non è ammissibile una loro fusione in un unico momento impositivo. Con specifico riferimento alle prestazioni di servizi, leggendo l’art. 6, comma 3, alla luce della normativa e della giurisprudenza comunitaria, le Sezioni Unite hanno (si ritiene, correttamente) affermato che la disposizione nazionale disciplina unicamente il momento di esigibilità dell’imposta, essendo il fatto generatore – la cui disciplina comunitaria non è derogabile da parte degli Stati membri – individuabile unicamente nell’effettuazione del servizio e non già al momento di pagamento del corrispettivo (53). 4.3. Sul punto, si possono formulare alcune osservazioni critiche. Si è già ampiamente argomentato circa la forte dissonanza fra norma interna e norma comunitaria, sia a livello letterale che a livello sistematico. Per excursus normativo e interpretazione combinata con altre disposizioni all’interno del medesimo d.P.R. n. 633, la disposizione di cui all’art. 6 comma 3, primo periodo non può che essere interpretata come volta ad individuare il fatto generatore delle prestazioni di servizi nel momento del pagamento del corrispettivo. La norma prevede difatti testualmente (54) che l’effettuazione della prestazione – e quindi il suo fatto generatore – deve ritenersi coincidente con il momento di pagamento del corrispettivo. Tesi rafforzata dai successivi commi 5 e 6, come ampiamente argomentato. E come altrettanto evidenziato, e in frontale contrapposizione, le norme comunitarie individuano il fatto generatore nel momento di effettuazione della prestazione, consentendo agli Stati membri la posticipazione, a ben delimitate condizioni (come per l’appunto ad un momento non successivo all’incasso del corrispettivo), della sola esigibilità dell’imposta.
(53) Peraltro, se il pagamento del corrispettivo assurgesse a fatto generatore si giungerebbe a risultati paradossali (si veda F. Ricca, op. cit.); ancora sull’impossibilità di assimilare il pagamento al fatto generatore G. Antonini e I. Pellecchia, Iva su acconti in forza di contratto preliminare di vendita: dubbi sulla compatibilità con la normativa UE, in Corr. trib., 2014, 2120. (54) Ossia seguendo il primo criterio interpretativo della legge secondo l’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.
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Il contrasto, dunque, fra normativa interna e normativa comunitaria appare lampante (55), con la conseguenza che ciò, a rigore, dovrebbe precludere una rilettura della norma nazionale in ottica ‘comunitaria’ così come operata dalle Sezioni Unite (56), essendo decisamente eccessiva la manipolazione del dato testuale necessaria per giungere a un tale risultato. Si sarebbe dunque potuto (rectius, si dovrebbe, non essendo mutato il quadro normativo) procedere alla disapplicazione dell’art. 6, comma 3, primo periodo per incompatibilità con gli artt. 63 e 66 della Direttiva rifusione, sulla scorta della consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale (57).
(55) In tal senso, in maniera netta, M. Peirolo, Il momento di effettuazione delle prestazioni di servizi, in L’IVA, 2011, 14 e P. Centore, Si applica l’IVA ai compensi del professionista riscossi dopo la cessazione dell’attività, cit., 564. (56) Pur essendo noto che il tentativo di interpretazione adeguatrice della norma nazionale al dato comunitario da parte del Giudice del merito costituisce la prima opzione ermeneutica da seguire, in attuazione del principio espresso dalla Corte Costituzionale sin dalla sentenza Granital secondo cui il Giudice dovrà cercare «fra le possibili interpretazioni del testo normativo prodotto dagli organi nazionale [...] quella conforme alle prescrizioni della Comunità» (sentenza 8 giugno 1984 n. 170). (57) Le ricadute di una vera e propria disapplicazione della disposizione italiana per incompatibilità con la normativa comunitaria rispetto all’interpretazione adeguatrice offerta dalle Sezioni Unite non sono trascurabili. La drastica revisione del contenuto dell’art. 6, comma 3 quale risultato della sentenza delle Sezioni Unite, infatti, impedisce agli operatori economici di eccepire il divieto di effetto contrario della Direttiva di rifusione secondo il consolidato principio in base al quale «una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un soggetto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti» (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C‑397/01 a C‑403/01, Pfeiffer e a., EU:C:2004:584, punto 108). Il contribuente non può più confidare, in buona fede, sulla trasposizione della Direttiva rifusione in maniera errata da parte del legislatore nazionale in quanto, secondo le Sezioni Unite, è possibile una interpretazione comunitariamente orientata della stessa. Ciò comporta, in caso di contestazione, la legittima richiesta del tributo e delle sanzioni amministrative, fermo restando la potenziale disapplicazione di queste ultime stante la riscontrabile oggettiva incertezza del dettato normativo ed il legittimo affidamento (in tal senso, si veda V. Giordano, La giurisprudenza della Corte di Cassazione sull’IVA dal 2009 al 2019, in Giur. comm., 2020, 427). Sull’argomento appare altresì utile citare il contributo di Assonime in commento alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea dell’11 marzo 2020, causa C-94/19, San Domenico Vetraria, EU:C:2020:193. Sebbene con riferimento ad una diversa fattispecie (i.e., l’incompatibilità dell’art. 8, comma 35, della legge 11 marzo 1988, n. 67 con la Direttiva rifusione), Assonime condivisibilmente rileva come l’esigenza di tutelare il legittimo affidamento del contribuente ad una disposizione nazionale confliggente con il diritto comunitario postuli, quale soluzione preferibile, un intervento legislativo per il riadeguamento della norma onde evitare il rischio che siano considerati illegittimi comportamenti tenuti secondo la formulazione della stessa (si veda Assonime, Circolare del 19 maggio 2020, n. 8, 12 ss).
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La norma comunitaria che individua il fatto generatore delle prestazioni di servizi è certamente incondizionata, poiché, come ampiamente illustrato, la discrezionalità concessa agli Stati membri riguarda unicamente l’individuazione del successivo momento di esigibilità del tributo. Inoltre, la disposizione appare sufficientemente precisa a circoscrivere detto momento, non necessitando di ulteriori specificazioni ai fini di trovare concreta applicazione. Infine, è superfluo evidenziarlo, è ampiamente decorso il termine entro il quale lo Stato italiano avrebbe dovuto dare corretta attuazione alla disposizione de qua. Per tali ragioni, le Sezioni Unite seguendo un orientamento consolidato sulla diretta applicabilità delle direttive dell’Unione Europea avrebbero potuto (rectius, dovuto) ‘non applicare’ (58) l’art. 6, comma 3, primo periodo bensì, direttamente, l’art. 63 della Direttiva rifusione (59). È bensì vero che l’effetto concreto è stato, nella sostanza, il medesimo (60): i Giudici di legittimità hanno difatti prescisso dal disposto del comma 3, primo periodo e individuato il fatto generatore della prestazione di servizi nel momento di effettuazione della stessa. Inoltre, la non applicazione dell’art. 6, comma 3, primo periodo, non avrebbe in ogni caso determinato il venir meno del differimento dell’esigibilità al momento del pagamento del corrispettivo, la quale, come detto, è facoltà espressamente concessa agli Stati membri. Infatti, come autorevolmente osservato, «il richiamo al princípio di competenza comporta che la prioritaria applicazione delle norme comunitarie self-executing non provoca alcun effetto estintivo o modificativo delle norme nazionali con esse incompatibili, le quali conservano intatto il proprio valore e dispiegano pienamente la loro efficacia fuori dall’ambito materiale e dai limiti temporali in cui vige la disciplina europea» (61). Conseguentemente il comma 3, primo periodo – il quale non viene espunto dall’ordinamento bensì semplicemente non applicato
(58) Così Corte Cost., sentenza 18 aprile 1991, n. 168 secondo cui l’effetto è quello «di “non applicazione” della legge nazionale (piuttosto che di “disapplicazione” che evoca vizi della norma in realtà non sussistenti in ragione proprio dell’autonomia dei due ordinamenti)». (59) Lo rileva correttamente V. Giordano, op. cit., 427. (60) Lo rileva G. D’Angelo, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013, 50. (61) Così F. Gallo, La concorrenza fra il diritto nazionale e il diritto europeo (UE e CEDU) nella giurisprudenza costituzionale italiana, cit., 256.
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al fine di individuare il fatto generatore delle prestazioni di servizi – avrebbe permesso di continuare a ritenere esigibile l’imposta solo all’atto del pagamento del corrispettivo, soprattutto se letto in combinato con il comma 5. 5. La rilevanza pratica della ricostruzione teorica del momento impositivo. Alcuni esempi 5.1. Come anticipato in premessa, l’indagine condotta si dimostra tutt’altro che un mero esercizio di stile, in quanto sono numerosi, frequenti ed attuali i casi in cui l’individuazione del fatto generatore si rivela cruciale al fine di determinare il corretto regime impositivo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto dell’operazione tassata. Senza alcuna pretesa di esaustività, si indicano di seguito alcuni risvolti pratici della ricostruzione teorica dianzi condotta. 5.2. Una prima categoria di esempi si può rinvenire nelle modifiche di carattere puramente normativo, prima su tutte la modifica dell’aliquota dell’imposta, problematica che – dopo più di un decennio di irrilevanza – è tornata prepotentemente di attualità in tempi recenti con l’innalzamento dell’aliquota ordinaria dal 20% dapprima al 21% (62) e dipoi al 22% (63). Peraltro, come autorevolmente osservato (64), il tema delle modifiche delle aliquote IVA – in virtù dei continui squilibri di finanza pubblica – è stato (e si spera non tornerà ad esserlo) uno strumento particolarmente rilevante in virtù dell’introduzione nel nostro ordinamento (65) delle c.d. ‘clausole di salvaguardia’, ossia di
(62) Art. 2 commi da 2-bis a w-quater del d.l. 13 agosto 2011 n. 138 in vigore dal 17 settembre 2011. (63) Art. 40, comma 1-ter, d.l. 6 luglio 2011, n. 98 come modificato dall’art. 11, comma 1, lett. a) del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, in vigore dal 1° ottobre 2013. (64) Così F. Gallo, Nuovi profili dell’imposta sul valore aggiunto: verso una disciplina definitiva, in Dir. prat. trib., 2018, V, 1873. (65) Ad opera del citato d.l. n. 98/2011, attivate con il decreto-legge n. 201 del 2011 con l’introduzione del primo dei su-indicati aumenti dell’aliquota IVA, e di nuovo previste da numerosi successivi interventi legislativi. Dette clausole sono state definitivamente abrogate dall’art. 123 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, non già in ragione dell’avvenuto raggiungimento degli equilibri di finanza pubblica, bensì prevendendo una loro copertura tramite ricorso al maggior indebitamento approvato il 29 aprile 2020 dalla Camera dei Deputati e il 30 aprile 2020 dal Senato della Repubblica con le Risoluzioni di approvazione della Relazione al Parlamento presentata ai sensi dell’articolo 6 della legge 24 dicembre 2012, n. 243 (così l’art. 265 del medesimo d.l. n. 34/2020).
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quelle misure volte a garantire la copertura della spesa pubblica incrementale tramite variazione in aumento automatica di taluni tributi (fra cui, per l’appunto, l’IVA), con efficacia differita nel tempo rispetto al momento dell’entrata in vigore della legge che le istituisce. Al di fuori delle ipotesi dell’aumento dell’aliquota IVA, vi sono anche i casi di mutamento della stessa (o financo del regime impositivo) per specifiche categorie di beni o servizi. Di stretta attualità si rivela ad esempio quanto previsto dall’art. 124 del d.l. n. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio) il quale ha disposto l’esenzione dall’applicazione dell’imposta – garantendo parallelamente il diritto alla detrazione sugli acquisti (c.d. regime ad aliquota zero) – per le cessioni di determinati beni necessari al contenimento e alla gestione dell’epidemia COVID-19 elencati nel neo-introdotto numero 1-ter alla tabella A, parte II-bis, allegata al d.P.R. n. 633 se effettuate entro il 31 dicembre 2020 e, con aliquota del 5%, se effettuate successivamente a tale data. Come noto, il medesimo regime si applica anche alle prestazioni di servizi (appalto, locazione finanziaria, noleggio, ecc.) afferenti ai beni cui si applica tale regime, in virtù del principio generale posto dal comma 3 dell’art. 16 del d.P.R. n. 633. 5.3. Una seconda categoria di casi paradigmatici è quella del mutamento del regime impositivo di una data operazione, quale quella intervenuta con riferimento alle prestazioni di servizi di gestione individuale di portafogli, passato dal regime di esenzione a quello di imponibilità «per le operazioni effettuate a partire dal 1° gennaio 2013» (66) (67). 5.4. Per tutto quanto ampiamente esposto, al fine di individuare quale sia l’aliquota IVA o il regime impositivo applicabile ad una determinata prestazione di servizi nell’ipotesi in cui fra esecuzione della prestazione e pagamento del corrispettivo intervenga una modifica normativa, si ritiene corretto considerare solo ed esclusivamente tale primo momento, prescindendo dal
(66) Così l’art. 1, commi 520 e 521, legge 24 dicembre 2012, n. 228 che ha modificato l’art. 10, primo comma, numero 4), primo periodo, del d.P.R. n. 633. (67) Parimenti si potrebbe citare la modifica del regime IVA previsto per le prestazioni di servizi di trasporto urbano di persone per le vie d’acqua effettuato con mezzi diversi da quelli da piazza. Con le modifiche introdotte dall’art. 1, commi 33 e 34, legge 11 dicembre 2016, 232, le suddette prestazioni effettuate a partire dal 1° gennaio 2017 sono assoggettate ad IVA, con aliquota agevolata del 5%, in luogo del previgente regime di esenzione disposto dall’art. 10, comma 1, n. 14) del d.P.R. n. 633.
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momento in cui il corrispettivo risulta incassato. Infatti, è solo il fatto generatore che cristallizza il regime impositivo, essendo l’esigibilità un mero effetto dell’avvenuta esecuzione dell’operazione consistente nell’obbligo da parte del soggetto passivo di liquidare (e del correlativo diritto da parte dello Stato a percepire) la relativa imposta (68). Anche nell’ipotesi inversa, ossia nei casi in cui vi sia il versamento di acconti antecedentemente all’effettuazione della prestazione di servizi e, medio tempore, una variazione dell’aliquota o del regime impositivo, si dovrebbe comunque avere riguardo al momento di insorgenza del fatto generatore (i.e. effettuazione della prestazione) essendo il versamento di acconti una mera ipotesi di anticipazione della sola esigibilità (69), come tale non suscettibile di influenzare il regime tributario di una data operazione (70) (71).
(68) Il principio qui affermato dispiegherebbe anche i propri effetti al fine di individuare il momento in cui un cambiamento nel regime fiscale delle operazioni attive assume rilevanza nella determinazione dell’imposta detraibile ai sensi dell’art. 19 bis2, comma 3, del d.P.R. n. 633 (69) Su tutte si veda Corte di Giustizia delle Comunità europee del 21 febbraio 2006, causa C-419/02, Bupa Hospitals, EU:C:2006:122. (70) In tal senso, seppur con riferimento alle cessioni di beni, S. Chirichigno e P. Maspes, Corr. Trib., 2013, 2514 ss. I medesimi autori, proprio nell’affrontare il mutamento del regime impositivo delle prestazioni di servizi di gestione individuale di portafogli, criticano espressamente la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria con la Circolare 12/E del 3 maggio 2013, cap. IV, par. 5 e affermano che «coerentemente con l’interpretazione accolta dall’Agenzia delle entrate, che tiene evidentemente conto della normativa comunitaria - deve ritenersi che i servizi di gestione individuale resi entro il 31dicembre 2012, ma non pagati né fatturati entro tale anno, possano beneficiare del regime di esenzione ancorché la fattura e il pagamento intervengano successivamente a tale data». (71) I riflessi economici derivanti dal potenziale obbligo di rettifica dell’imposta esigibile, e specularmente detraibile, per il pagamento di un acconto per operazioni per le quali successivamente si modificano gli elementi determinanti ai fini della corretta applicazione del tributo (e.g. modifica dell’aliquota applicabile a seguito di un intervento normativo) andrebbero in ogni caso letti alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea in merito all’obbligo di rettifica dell’IVA assolta per il pagamento di acconti relativi ad operazioni poi non realizzate. Poiché l’art. 65 della Direttiva rifusione interviene unicamente a disciplinare il momento di esigibilità dell’imposta in caso di pagamento di un acconto, la giurisprudenza comunitaria riconosce che la successiva mancata effettuazione dell’operazione per la quale l’acconto è stato versato consentirebbe ad uno Stato membro di esigere la rettifica dell’imposta detraibile in capo al cessionario e committente ai sensi dell’articolo 185 della stessa Direttiva (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 31 maggio 2018, cause riunite C-660/16 e C-661/16, Kollroß, EU:C:2018:372). La mancata effettuazione dell’operazione determina, infatti, l’assenza del fatto generatore e conseguentemente travolge l’esigibilità del tributo in considerazione del fatto che la stessa Corte ritiene che l’articolo 65 non può essere applicato
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5.5. Un altro emblematico mutamento del regime impositivo delle operazioni rilevanti ai fini IVA si è recentemente verificato in conseguenza del recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea in esecuzione del diritto attribuito agli Stati membri ai sensi dell’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea. L’accordo è stato ratificato il 29 gennaio 2020 ed è entrato in vigore il 31 gennaio 2021. Sino al 31 dicembre 2020 vi è stato tuttavia un regime transitorio nel quale il Regno Unito è rimasto soggetto al diritto comunitario e, per quanto di interesse, al sistema armonizzato dell’imposta sul valore aggiunto. Dal 1° gennaio di quest’anno il Regno Unito è divenuto uno stato extracomunitario (c.d. ‘Brexit’). Ciò comporta conseguenze dirimenti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e, in particolare, sulla territorialità di talune operazioni rilevanti ai fini IVA. Un esempio concreto può aiutare a comprendere la portata del problema. Si ipotizzi un soggetto passivo IVA stabilito nel territorio dello Stato che effettua una consulenza legale ad un committente non soggetto passivo IVA residente nel Regno Unito. La consulenza viene svolta e ultimata nel dicembre 2020 e l’incasso del corrispettivo si ha nel gennaio 2021. La corretta individuazione del momento impositivo è imprescindibile al fine di individuare la territorialità o meno della prestazione. Invero, l’art. 7-septies, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 633 dispone che «in deroga a quanto stabilito dall’articolo 7-ter, comma 1, lettera b), non si considerano effettuate nel territorio dello Stato le seguenti prestazioni di servizi, quando sono rese a commit-
qualora la realizzazione del fatto generatore sia incerta e, a maggior ragione, qualora il fatto generatore non venga ad esistenza (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 13 marzo 2014, causa C-107/13, FIRIN, EU:C:2014:151, punto 39). Tuttavia, seguendo un principio anche di carattere economico, la Corte di Giustizia afferma che il diritto di una Stato membro di esigere la rettifica della detrazione incontra il limite nell’effettivo rimborso dell’imposta versata al fornitore all’atto del pagamento dell’acconto (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 31 maggio 2018, cause riunite C-660/16 e C-661/16, Kollroß, EU:C:2018:372, punto 69). In sostanza, i giudici europei ammettono che il tributo applicato a seguito del pagamento di acconti per operazioni non eseguite mantenga la propria esigibilità (pur in essenza del fatto generatore) e detraibilità in capo al cessionario o committente per economicità dei rapporti giuridici, non trovando ragionevole imporre la rettifica dell’imposta detratta in assenza di una restituzione del tributo da parte del fornitore (il quale a sua volta avrebbe diritto di rettificare l’imposta dovuta all’Erario). Muovendo da tali principi, si dovrebbe affermare che la mancata esecuzione di un’operazione per il quale è stato pagato un corrispettivo a titolo di acconto non pregiudica, in modo automatico, il diritto di detrazione dell’imposta versata in presenza dei requisiti richiesti dal citato articolo 65 della Direttiva rifusione.
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tenti non soggetti passivi domiciliati e residenti fuori della Comunità […] c) le prestazioni di consulenza e assistenza tecnica o legale». Seguendo alla lettera l’art. 6, comma 3, primo periodo, la prestazione dovrebbe a rigore ritenersi effettuata all’atto del pagamento (e quindi gennaio 2021), con la conseguenza che dovrebbe non essere assoggettata ad IVA per difetto del presupposto territoriale ai sensi del citato art. 7-septies. Diversamente, e seguendo un’interpretazione conforme al dettato comunitario, il fatto generatore della prestazione dovrebbe essere individuato nell’effettuazione del servizio (dicembre 2020), con conseguente rilevanza territoriale (e connessa imponibilità IVA) della stessa in virtù del generale principio del luogo di stabilimento del prestatore di cui all’art. 7-ter, comma 1, lett. b) e art. 45 della Direttiva rifusione. Sfruttando il medesimo esempio e ipotizzando per contro che il committente fosse stato un soggetto passivo IVA, il caso sarebbe stato agevolmente risolto in applicazione dell’art. 6, comma 6, d.P.R. n. 633, il quale individua il fatto generatore del servizio – in adesione alla inderogabile disposizione comunitaria di cui al par. 2 all’art. 66 della Direttiva rifusione – nell’ultimazione della prestazione. Ciò a riprova, ancora una volta, del fatto che se il legislatore nazionale avesse correttamente recepito la normativa comunitaria molte questioni interpretative circa l’individuazione del momento impositivo delle prestazioni di servizi potrebbero essere evitate. 6. Considerazioni conclusive. – L’analisi svolta consente di porre alcuni punti fermi in merito al momento impositivo delle prestazioni di servizi ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. La normativa comunitaria, sin dai tempi della Sesta Direttiva (72), distingue in maniera netta il momento di genesi del tributo (fatto generatore) da quello in cui la relativa imposta può essere pretesa dall’Erario (esigibilità), concedendo la facoltà agli Stati membri di differire – a precise condizioni – unicamente il secondo dei predetti momenti. Il legislatore nazionale, per quanto attiene alle prestazioni di servizi ed in continuità con la previgente disciplina IGE, non si è mai curato di differenziare tali distinti momenti ed ha stabilito che il fatto generatore delle prestazioni di servizi debba essere individuato all’atto del pagamento, il quale, per
(72) E, prima, anche tramite interpretazione giurisprudenziale in vigenza della Seconda Direttiva (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 20 maggio 1976 resa nella causa C-111/75, Mazzalai, EU:C:1976:68).
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il diritto comunitario, può incidere esclusivamente sul momento di esigibilità dell’imposta. Ciò ha determinato (e determina tutt’oggi) un insanabile contrasto fra normativa interna e diritto comunitario, correttamente rilevato anche dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza a Sezioni Unite del 2016 la quale ha interpretato, in ottica comunitaria, il disposto di cui all’art. 6, comma 3, primo periodo, ritenendo che il momento di pagamento del corrispettivo dovesse interpretarsi come mero differimento dell’esigibilità del tributo, e non come fatto generatore dello stesso, il quale, per contro, deve necessariamente essere fatto coincidere con l’effettuazione del servizio, in adesione a quanto stabilito dal diritto unionale. Si ritiene tuttavia che – stante il dato letterale e l’interpretazione sistematica della normativa nazionale – non si possa procedere ad una lettura (seppure pregevole) ‘comunitariamente orientata’ della predetta disposizione, bensì si debba formalmente procedere alla sua disapplicazione da parte del Giudice nazionale. La normativa comunitaria, infatti, possiede tutti i requisiti per la diretta applicabilità nell’ordinamento italiano (73), essendo certamente incondizionata (la discrezionalità concessa agli Stati membri riguarda unicamente il momento di esigibilità del tributo) e sufficientemente precisa al fine di individuare nell’esecuzione della prestazione di servizi il fatto generatore. Il comma 3 cit., pur sopravvivendo a tale disapplicazione (74), verrebbe così correttamente relegato a mera fattispecie di esigibilità, soprattutto se letto in combinato con il successivo comma 5 del medesimo art. 6. Tuttavia, trattandosi di una questione di rilievo ai fini della corretta applicazione del tributo sarebbe opportuno un intervento del legislatore volto alla riformulazione complessiva della norma. Così in avanti, si consegnerebbe agli operatori economici un principio incontrovertibile, prevenendo interpretazioni della disposizione in commento difformi e non compatibili con la disciplina comunitaria, come già si è riscontrato, nonostante l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite.
Gianmarco Dellabartola, Andrea Rottoli
(73) Cfr. ex multis, Corte Cost., sentenza 18 aprile 1991, n. 168. (74) Non procedendosi, come detto, ad alcuna declaratoria di nullità né tantomeno incostituzionalità della stessa.
Imponibilità e disciplina delle operazioni di cambio e pagamento con criptomonete nel sistema europeo dell’IVA Sommario: 1. Premessa. – 2. La cessione di denaro nel sistema europeo dell’IVA.
– 3. Connotati giuridici delle criptomonete. – 3.1. (Segue): la polifunzionalità dei “crypto-assets”. – 4. L’esenzione dell’art. 135, par. 1, lett. e) della Dir. 2006/112/CE. Le criptomonete nella sentenza Hedqvist della Corte di giustizia. – 4.1. Rapporto fra la sentenza Hedqvist e le conclusioni dell’avvocato generale sulla versione tedesca, inglese, finnica e italiana della disposizione. – 4.2. Analisi interlinguistica della locuzione «divise, banconote e monete con valore liberatorio». – 4.3. Esegesi teleologico-sistematica della norma. L’incerto e contraddittorio riferimento alle «difficoltà tecniche» quale ratio dell’esenzione. – 4.4. (Segue): la strumentalità alla libera circolazione dei capitali. – 4.5. (Segue): l’interpretazione conforme ai principi generali europei. – 5. Rapporto con le altre norme di esenzione per le operazioni finanziarie. – 6. La morfologia delle fattispecie (imponibili). – 7. «Fatto generatore» ed «esigibilità dell’imposta». – 8. La localizzazione delle operazioni. Profili di rilevanza. – 8.1. Le disposizioni generali della Direttiva. La problematica identificazione del destinatario e del luogo di perfezionamento. – 8.2. La disciplina del regolamento di attuazione della Direttiva. – 8.3. (Segue): criticità, possibili contestazioni e limiti agli oneri di controllo del dante causa. – 8.4. La individuazione della natura del destinatario. – 9. La quantificazione dell’imponibile. Le operazioni “crypto-to-fiat”. Il «valore soggettivo» per i “cryptocurrency payments”, remunerati da cessioni di beni o prestazioni di servizi. – 9.1. (Segue): l’imponibile per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, remunerate da “cryptocurrency payments” e per le operazioni “crypto-to-crypto”. – 10. Conclusioni. Le criptomonete sono sempre più utilizzate quali strumenti di cambio con altre monete, tradizionali o digitali, ovvero ai fini del pagamento di beni e servizi. Il contributo si propone di analizzare le relative operazioni, alla luce della Dir. 2006/112/CE afferente il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, la quale solleva alcune problematiche ermeneutiche, con particolare riguardo alla loro esenzione o imponibilità e alla disciplina conseguentemente applicabile. Cryptocurrencies are increasingly used as means of exchange for other fiat or digital money or for paying goods and services. The essay aims to analyse these transactions, in light of the Directive 2006/112/EC on the common system of value added tax, which raises
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interpretative issues, with particular regard to their exemption or taxability and to the applicable provisions.
1. Premessa. – Una delle più rilevanti espressioni della c.d. “economia digitale” (“digital economy”) riguarda l’applicazione delle tecnologie informatiche al settore finanziario (“FinTech”). In simile contesto, le criptomonete assumono particolare rilievo (1).
(1) Nella letteratura internazionale, v., p. es., A. M. Bal, Taxation of virtual currency, Leiden, 2014, spec. 33 ss. e, fra l’altro, in Stateless Virtual Money in the Tax System in Eur. tax., 2013, 351 ss.; How to Tax Bitcoin?, in Aa.Vv., Handbook of Digital Currency. Bitcoin, Innovation, Financial Instruments, and Big Data, a cura di D. Lee Kuo Chuen, Cambridge (USA), 2015, 267 ss.; Taxing Virtual Currency: Challenges and Solutions, in Intertax, 2015, 380 ss.; R. Wolf, Bitcoin and EU VAT, in International VAT Monitor, 2014, 254 ss.; M. Kothari, The Treatment of Bitcoin Transactions for Indirect Tax Purposes, in Aa.Vv., Taxation in a Global Digital Economy: Schriftenreihe IStR Band 107, a cura di I. Kerschner - M. Somare, Wien, 2017, 373 ss.; M.d.C. Pastor Sempere, Criptodivisas: ¿una disrupción jurídica en la eurozona?, in Revista de Estudios Europeos, 2017, 284; L. F. Kjærsgaard - A. Arfwidsson, Taxation of Cryptocurrencies from the Danish and Swedish Perspectives, in Intertax, 2019, 620 ss.; J. Kollmann, The VAT Treatment of Cryptocurrencies, in EC Tax Review, 2019, 164 ss.; T. Ehrke-Rabel - L. Zechner, VAT Treatment of Cryptocurrency Intermediation Services, in Intertax, 2020, 498 ss. Fra i tributaristi italiani, cfr., p. es., G. Corasaniti, Il trattamento tributario dei bitcoin tra obblighi antiriciclaggio e monitoraggio fiscale, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2018, 45 ss.; A. Contrino - G. Baroni, The cryptocurrencies: fiscal issues and monitoring, in Dir. prat. trib. internaz., 2019, 11 ss.; M. Pierro, La qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute, in Riv. dir. trib., 2020, I, 103 ss.; L. Salvini, La dimensione valutaria dell’economia digitale: le criptovalute, in Aa.Vv., Profili fiscali dell’economia digitale, a cura di L. Carpentieri, Torino, 2020, 165 ss.; v., inoltre, C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali. Alcune riflessioni alla luce della decisione della Corte di giustizia UE sul regime IVA applicabile ai bitcoin, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 949 ss., nota a Corte Giustizia, 22 ottobre 2015, causa C-264/14, Hedqvist (sulla quale v. supra nel presente contributo, passim); F. Cannas, The last developments of the digital economy and bitcoins as a ‘stress test’ for the EU VAT system, in World Journal of VAT/GST Law, 2015, 69 ss., spec. 75 ss.; D. Conte, Tassazione delle criptovalute: poche luci e molte ombre, in i-lex, Scienze Giuridiche, Scienze Cognitive e Intelligenza Artificiale, 2019, 67 ss.; R. Scalia, Riflessioni su alcuni temi controversi sulla disciplina IVA delle c.d. criptovalute, in Giur. imp., 2020, 1 ss.; v., altresì, S. Capaccioli, p. es. in VAT & bitcoin, in EC Tax Review, 2014, 361 ss.; Introduzione al trattamento tributario delle valute virtuali: criptovalute e bitcoin, in Dir. prat. trib. internaz., 2014, 27 ss.; L. Scarcella, Taxation issues rising from trading activities involving bitcoins, in Riv. dir. trib. internaz., 2018, 103 ss.; F. Antonacchio, Initial coin offering: riflessi fiscali, antiriciclaggio e di tutela dei mercati finanziari, connessi all’emissione di criptovalute (o cripto-asset), in Riv. dir. trib., 2019, I, 231 ss. Nella dottrina privatistica e pubblicistica italiana, v., p. es., Aa.Vv., Diritto del FinTech, a cura di M. Cian - C. Sandei,
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Corrispondono a stringhe informatiche, destinate a circolare nell’ambito delle piattaforme di generazione (“community-related virtual currencies”) ovvero a livello globale (“universal virtual currencies”), come si ravvisa per bitcoin ed ether, le più diffuse e importanti monete digitali. I trasferimenti di criptomonete sono caratterizzati dalla pseudonimia delle parti negoziali coinvolte e, di regola, non soggiacciono al pieno controllo di un’autorità pubblica (2). La trasmissione via internet di esse è sottoposta alla validazione di un gruppo di soggetti della piattaforma informatica di riferimento, definiti “minatori” (“miners”) (3).
Milano, 2020; M.F. Campagna, Criptomonete e obbligazioni pecuniarie, in Riv. dir. civ., 2019, 183 ss.; G. Befani, Contributo allo studio sulle criptovalute come oggetto di rapporti giuridici, in Dir. econ., 2019, 203 ss.; D. Fauceglia, Il deposito e la restituzione delle criptovalute, nota a Trib. Firenze, 19 dicembre 2018 (n. sent. non precisato) in I contratti, 2019, 661 ss. Rif. storico sul tema è il celeberrimo “manifesto” dell’ignoto A. (o gruppo di Aa.), celato sotto lo pseudonimo nipponico di S. Nakamoto, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System, in https://bitcoin.org/bitcoin.pdf. (2) Ciò ha favorito l’utilizzo delle criptomonete per finalità di riciclaggio correlato al terrorismo, alla evasione e alla elusione fiscale, tantoché sono state definite quali «super taxhavens»: O.Y. Marian, Are Cryptocurrencies ‘Super’ Tax Havens?, in Michigan Law Review First Impressions, 2013, 38 ss., spec. 39, cit. anche da A. M. Bal, Taxing virtual currency, cit., ivi, 390. Finora, l’Unione europea si è prevalentemente concentrata su questo terreno: v. Dir. 2018/843/UE, in tema di contrasto al riciclaggio, sulla quale v. supra, passim. L’assenza di governo e controllo pubblico ha altresì concorso alla volatilità delle monete digitali, anche ove costituiscano il c.d. “sottostante” di prodotti derivati; v. OECD, Taxing Virtual Currencies: An Overview Of Tax Treatments And Emerging Tax Policy Issues, Paris, 2020, 41. La volatilità ha provocato la creazione di una rilevante species di denaro virtuale: la stablecoin, ancorata al valore di divise tradizionali ovvero ad assets come materie prime, beni o indici, che ne circoscrivono le oscillazioni di mercato, rispetto alle comuni monete digitali. Per questa ragione, la stablecoin è «ampiamente accettata e potenzialmente sistemica»: v. la proposta di reg. U.E. del “Digital Fiscal Package”, Explanatory Memorandum, par. 1 nonché, amplius, Commissione, Staff Working Document. Impact assessment. Accompanying the document Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on Markets in Cryptoassets and amending Directive (EU) 2019/1937, SWD(2020) 380 final, Bruxelles, 2020, passim. V. anche OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 45 ss. Sulla figura, v. supra, amplius, passim. (3) A tal fine, risolvono equazioni matematiche e si avvalgono di una “tecnologia di registro distribuito” (“distributed ledger tecnology”: “DLT”), accostabile a una sorta di “libro mastro” di ogni operazione che trovi adito in seno alle medesime piattaforme informatiche, caratterizzate dalla pseudonimia delle parti: cfr. OECD/G20, Base Erosion and Profit Shifting Project. Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy. Action 1. Final Report, Paris, 2015, par. 3.2.2., sub 43-44, con rif. ai bitcoins; Parlamento europeo, Ris. 3 ottobre 2018 sulle «tecnologie di registro distribuito e blockchain: creare fiducia attraverso la disintermediazione», n. 2017/2772(RSP), punto 34. Gli atti istituzionali dell’Unione valorizzano i pregi della
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Le criptomonete possono essere oggetto di operazioni di cambio con denaro tradizionale (“crypto-to-fiat”), con altra tipologia di moneta digitale (“crypto-to-crypto”) ovvero fungere da contropartita di cessioni di beni o prestazioni di servizi (“cryptocurrency payments”). Il contributo si propone di analizzare tali operazioni alla luce della Dir. 2006/112/CE, ai fini IVA (hinc, indicata anche come “la Direttiva”) e della proposta di reg. U.E., relativa ai mercati delle criptomonete, emanata dalla Commissione il 24 settembre 2020, nell’ambito del c.d. “Digital Finance Package” (4). Anzitutto, il programma di indagine prenderà le mosse dalla estraneità della cessione di denaro tradizionale alla disciplina europea dell’imposta. Si rileverà che la soluzione è insuscettibile di essere estesa alle operazioni afferenti la moneta digitale, perciò rilevanti ai fini IVA. Simile esito imporrà di indagare se risultino imponibili o esenti. In proposito, sarà analizzata la sentenza Hedqvist, con la quale la Corte di giustizia ha affermato l’applicabilità della norma di esenzione dell’art. 135, par. 1, lett. e) della Dir. 2006/112/CE alle operazioni di cambio coinvolgenti bitcoin e denaro tradizionale (5), siccome funzionalmente affini (6). La conclusione sarà vagliata alla luce dei criteri ermeneutici delle norme sovranazionali, additati dalla stessa giurisprudenza europea e, in particolare, della interpretazione letterale multilingue e di quella teleologico-sistematica, sostanzialmente preferita dalla Corte di giustizia. Tale percorso condurrà alla dimostrazione della inapplicabilità della norma di esenzione e di altre contermini, recate dallo stesso art. 135, con la affer-
moneta virtuale: la riduzione dei costi di transazione e operativi per i pagamenti; l’accesso ai finanziamenti anche in assenza di un conto bancario tradizionale; la rapidità dei pagamenti e degli scambi, etc.: v. Parlamento europeo, Ris. 26 maggio 2016, n. 2016/2007(INI), punto 1 e Ris. 15 giugno 2017, n. 2016/2276(INI), punto 64; ECB, Virtual currency schemes. A further analysis, Frankfurt am Main, 2015, spec. 25; in rif. all’IVA, Commissione, Group on the future of VAT, 23 ottobre 2014, taxud.c.1(2014)3931884, GFV n. 49. (4) La proposta di reg. U.E. del “Digital Fiscal Package” della Commissione (v. Explanatory Memorandum, parr. 1 e 2) ha prefigurato obiettivi chiari: trasformare la stessa Unione in un “global digital player” sul mercato; assicurare la competitività del settore finanziario nel mercato interno e l’accesso ai consumatori a innovativi prodotti finanziari, in condizioni di protezione dall’utilizzo patologico del denaro virtuale (v. retro, nt. 2). (5) Ai sensi dell’art. 135, par. 1, lett. e) della Dir. 2006/112/CE. (6) Corte Giustizia, 22 ottobre 2015, causa C-264/14, Hedqvist, cit.
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mazione della imponibilità delle operazioni di cambio fra criptomonete con denaro tradizionale o virtuale. La non equiparabilità della moneta virtuale a quella tradizionale imporrà di considerare, quale operazione imponibile, pure l’utilizzo della prima quale corrispettivo per beni acquistati o servizi commissionati. Saranno esaminate le relative conseguenze quanto alla individuazione del momento genetico e di esigibilità dell’IVA, del luogo di perfezionamento e in ordine alla determinazione dell’imponibile e dell’imposta, con la prefigurazione di alcuni orizzonti disciplinari de jure condendo. 2. La cessione di denaro nel sistema europeo dell’IVA. – Nella prospettiva sovranazionale, l’IVA è un’imposta generale sui consumi, applicata ai beni ceduti e ai servizi prestati da operatori economici, nei confronti dei quali è neutrale, in linea di principio (7). Nel sistema dell’imposta, la moneta tradizionale entra in gioco ove sia oggetto di corrispettivo di una cessione di beni o di una prestazione di servizi nel perimetro di una «attività economica», esercitata da un soggetto passivo (8). Invece, la mera consegna di denaro, isolatamente considerata, non esprime consumo e, dunque, non costituisce ex se una operazione rilevante (9). Allora, occorre appurare se la medesima conclusione possa estendersi alla criptomoneta e, pertanto, se le operazioni che la riguardano siano incluse ovvero “out of scope” rispetto alla Direttiva. Il denaro tradizionale si atteggia, more solito, quale strumento di scambio, unità di conto e, perciò, generale misura del valore del bene o del servizio ai quali si riferisce (10).
(7) Art. 1 della Dir. 2006/112/CE, spec. al par. 2. (8) Art. 9, par. 1 della Dir. 2006/112/CE. (9) La conclusione è pacifica, pur in assenza di una previsione ad hoc nella Direttiva: Corte Giustizia, 3 maggio 2012, causa C-520/10, Lebara, punto 26; Corte Giustizia, 9 ottobre 2001, causa C-108/99, Cantor Fitzgerald International, punto 17 e causa C-409/98, Mirror Group, punto 26, tutte reperibili, come le ulteriori pronunce europee di seguito citt., in https:// eur-lex.europa.eu/. Cfr. R. Wolf, op. cit., 255-256; C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali, cit., ivi, 957; A. Zamaria, La reconnaissance juridictionnelle des monnaies virtuelles, in Aa.Vv., International Law and Litigation: a look into procedure, a cura di H. Ruiz Fabri, Baden-Baden, 2019, 319; M. Kothari, op. cit., 382. In Italia, v. artt. 2, comma 3, lett. a) e 3, comma 4, lett. c) del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. (10) A.M. Bal, Stateless Virtual Money, cit., ivi, 353; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 13-14; M. F. Campagna, op. cit., 186 ss.
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Nel genus della “moneta”, la species della “valuta” è connotata, fra l’altro, dall’essere emessa e governata da uno Stato, tramite una banca centrale, in base a norme sovranazionali e/o interne, che le attribuiscano “corso legale”. L’art. 1 della raccomandazione 2010/191/UE della Commissione reca la «definizione comune del corso legale» per gli Stati del c.d. “euro-sistema” e lo correla alla idoneità della valuta a estinguere obbligazioni pecuniarie senza che il creditore possa legittimamente rifiutarla (11). 3. Connotati giuridici delle criptomonete. – I caratteri dianzi illustrati non si ravvisano affatto nelle monete digitali (12). L’art. 128 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”) accredita «corso legale» solo alla moneta governata ed emessa dalla Banca centrale europea e/o dalle banche centrali nazionali (13). Nell’ambito del “Digital Finance Package”, la proposta regolamentare sul mercato dei “crypto-assets” li qualifica come «mezzi di rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti o custoditi elettronicamente (…)» (14), ma nulla dice in ordine al loro corso legale (15). Sempre in ambito sovranazionale, la fisionomia delle monete virtuali è ben delineata, a livello settoriale, dall’art. 1, par. 2, lett. d) della Dir. 2018/843/
(11) V., inoltre, il reg. U.E. 549/2013, relativo al sistema europeo dei conti nazionali e regionali nell’Unione, all. A, cap. 5, nn. 5.74, 5.76, 5.77; ECB, 24 luglio 2006, Guideline of the European Central Bank on the exchange of banknotes after the irrevocable fixing of exchange rates in connection with the introduction of the euro, ECB/2006/10 - 2006/549/EC, art. 1, quarto alinea; Commissione, 24 luglio 2019, Staff Working Document. Accompanying the document Report from the Commission to the European Parliament and the Council on the assessment of the risk of money laundering and terrorist financing affecting the internal market and relating to cross-border activities, SWD/2019/650 final, par. 3. Circa il corso legale, v., e variis, OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 18-19; ECB, Virtual currency schemes, cit., 24; A. M. Bal, p. es. in Taxation of virtual currency, cit., 63-64; L.F. Kjærsgaard - A. Arfwidsson, op. cit., 624 ss.; C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali, cit., ivi, 960. (12) Cfr. ECB, Virtual currency schemes, cit., ivi, 24; A. M. Bal, p. es. in Taxing virtual currency, cit., ivi, 383; T. Ehrke-Rabel – L. Zechner, op. cit., 499; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 14 e 31; F. Cannas, op. cit., 82; R. Scalia, op. cit., 31 ss. (13) S. Capaccioli, Introduzione, cit., ivi, 38-39; G. Befani, op. cit., 212-213. (14) Ciò «mediante la tecnologia di registro distribuito o altra similare tecnologia». A propria volta, la «tecnologia di registro distribuito» (“DLT”), «indica un tipo di tecnologia che supporta la registrazione distribuita di dati crittografati»: art. 3, par. 1, nn. 2) e 1). V. retro nt. 3. (15) Salvo quanto rileveremo subito supra, in ordine alle stablecoins.
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UE, in materia di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (16). Secondo la norma, la criptomoneta è «una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente» (17). Pertanto e di regola, le monete digitali non hanno corso legale nell’Unione e per la larga maggioranza degli Stati extra-europei, al di là di alcuni sporadici esempi (18). Proprio per questa ragione, non sono di regola riconducibili alla c.d. “moneta elettronica”, la quale identifica strumenti solutori, ascrivibili al sistema valutario di uno Stato, con l’attitudine a rendere disponibile denaro corrente al creditore, pur sempre avente corso legale (19). Sul piano tecnico-giuridico, la “criptomoneta” diventa “criptovaluta” (ossia una “criptomoneta avente corso legale”) qualora un ordinamento ne governi l’emissione e la qualifichi come mezzo di adempimento, non fisiologicamente rifiutabile dal creditore di obbligazioni pecuniarie (20).
(16) La norma ha introdotto un nuovo n. 18) nell’art. 3, par. 1 della Dir. 2015/849/UE. (17) Valorizzano la nozione, M. Pierro, op. cit., 108; D. Conte, op. cit., 73 e, in Spagna, Dirección General de Tributos, Consultas vinculantes 18 aprile 2018, V0999-18; 8 maggio 2018, V1149-18; 20 maggio 2019, V1069-19, rif. alle imposte sui redditi. Il testo italiano è in linea con quello francese («ne possèdent pas le statut juridique de monnaie ou d’argent»), recepito dalle versioni in lingua spagnola («que no posee el estatuto jurídico de moneda o dinero») e olandese («en die niet de juridische status van valuta of geld heeft»). Si ragiona di carenza di “status legale”, nella versione inglese («does not possess a legal status of currency or money») e tedesca («und die nicht den gesetzlichen Status einer Währung oder von Geld besitzt»). (18) Come nel caso storico del “petro” in Venezuela del 2018: OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 48. (19) V. il tredicesimo considerando e l’art. 11, parr. 2 e 12 della Dir. 2009/110/CE, in tema di avvio, esercizio e vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica. Cfr. A. M. Bal, p. es. in Taxation of virtual currency, cit., 64 ss., spec. 65-66; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 14-15. Ai fini antiriciclaggio, v. l’art. 1, punto 2), lett. d) della Dir. 2018/843/ UE, che ha introdotto il n. 16) nell’art. 3, par. 1 della cit. Dir. 2015/849/UE. (20) Il sostantivo “criptovaluta”, con cui è more solito identificata, è frutto di una traduzione letterale della parola inglese “cryptocurrency” ed è invalsa nel linguaggio comune, in forza di una sorta di consuetudine, altresì percepibile in alcuni testi ufficiali. Ne costituisce es. proprio l’art. 1, n. 2), lett. d) della Dir. 2018/843/UE cit., recante la definizione delle «valute
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Il “Digital Finance Package” dell’Unione può rappresentare un passaggio intermedio verso l’istituzione di una criptovaluta europea. Nondimeno, è orientato verso una equiparazione tra denaro virtuale e tradizionale nella sola ipotesi del c.d. «gettone di moneta elettronica» (“electronic money token” o “e-money token”). Si tratta di una tipologia di “crypto-asset”, stabilizzato mediante l’ancoraggio a una sola moneta avente corso legale (21), come il dollaro o l’euro (c.d. “dollar-stablecoin”, “euro-stablecoin”) (22). La proposta di reg. U.E. del “Digital Finance Package” prevede che, su richiesta del titolare delle stablecoins, il rispettivo emittente debba rimborsarle in contanti o tramite bonifico, in qualsiasi momento e alla pari (23). Ebbene, per tale species di criptomonete, lo stesso progetto normativo ne statuisce l’assimilazione de jure alla “moneta elettronica” e, dunque, alla valuta (24). Da qui, si inferisce a contrariis che nessuna equiparazione sia consentita fra le monete digitali, come bitcoin o ether (siccome, appunto, diverse dai descritti “e-money tokens”) e quelle tradizionali. 3.1. (Segue): la polifunzionalità dei “crypto-assets”. – L’accentuata polifunzionalità delle monete digitali costituisce un ulteriore tratto distintivo rispetto a quelle tradizionali. È una moneta digitale anche il “gettone” (“token”) emesso nell’ambito di una raccolta di capitali (“crowdfunding”) per l’avvio di un’attività d’impresa
virtuali», nel testo italiano analogo a quello inglese («virtual currencies»), tedesco («virtuelle Währungen») e olandese («virtuele valuta»). Tuttavia, è una denominazione giuridicamente inappropriata, ove le criptomonete non abbiano lo status di moneta legale: M. F. Campagna, op. cit., 197. Più corretta è la lezione francese dello stesso all’art. 1, n. 2), lett. d) ult. cit., la quale le identifica come «monnaies virtuelles», seguita da quella spagnola di «monedas virtuales». (21) Art. 3, par. 1, n. 4). Invece, l’assimilazione non riguarda l’ipotesi di stablecoins, calibrate su un “paniere” di più valute tradizionali, che l’art. 3, par. 1, n. 3) della proposta annovera nella diversa categoria degli «asset-referenced tokens» (cfr. anche art. 16, par. 2, lett. d). (22) V. retro, nt. 2 e la proposta di reg. U.E. del “Digital Fiscal Package”, Explanatory Memorandum, par. 5. (23) Art. 44, par. 4 della proposta di reg. U.E. (24) La stabilità dell’asset ne ha suggerito l’equiparazione normativa al denaro tradizionale, sul cui valore si radicano. V. art. 43, par. 1, lett. a) e b) della proposta di reg. U.E. Per effetto del rinvio alla Dir. 2009/110/CE sulla moneta elettronica (v. nt. 19), l’emittente deve essere «una persona giuridica che è stata autorizzata ad» emetterla (art. 2, n. 1).
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nel contesto di una c.d. “Initial Coin Offering” (“ICO”), cui si possono correlare diritti partecipativi in capo al titolare (25). Le criptomonete possono, altresì, remunerare un capitale investito in titoli obbligazionari societari, in luogo degli interessi (“security token”) (26). A una moneta digitale, può correlarsi sic et simpliciter il mero diritto ad accedere e operare in seno a una piattaforma informatica tramite i c.d. “utility tokens”, rappresentativi di beni e servizi, acquistabili o commissionabili esclusivamente in seno al network in cui sono generati (27). Infine, possono assumere una colorazione “ibrida”, ove assommino due o più delle funzioni testé illustrate. Anche alla luce di siffatto polimorfismo, allora, risulta da escludere una equiparazione con le monete tradizionali (28). Proprio per questa ragione, in ambito internazionale ed europeo, si tende a qualificarle come “cripto-attività” (“crypto-assets”; “intangible assets”) piuttosto che come “cryptocurrencies” (29). È possibile, dunque, arrivare a una prima conclusione. Il trasferimento di denaro virtuale non è affatto escluso dalla Dir. 2006/112/ CE, a differenza di quanto si ravvisa per la mera cessione di valute tradizionali, in sé e per sé considerata. In altri termini, le operazioni di cambio o pagamento in criptomonete sono rilevanti ai fini dell’IVA. Passiamo, dunque, a considerare la disciplina europea, onde appurare se tali operazioni siano imponibili o esenti dal tributo.
(25) V., p. es., M.d.C. Pastor Sempere, op. cit., 307 ss.; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 33; F. Antonacchio, op. cit., 231 ss. V. la Dir. 2020/1504/UE, che ha novellato la Dir. 2014/65/UE, afferente i mercati degli strumenti finanziari e il reg. U.E. 2020/1503, relativo ai fornitori europei di servizi di crowdfunding per le imprese. (26) Cfr., e variis, F. Antonacchio, op. cit., 244. (27) V., p. es., L. F. Kjærsgaard - A. Arfwidsson, op. cit., 622 ss.; F. Antonacchio, op. cit., 244. (28) A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 34; A. Zamaria, op. cit., passim, p. es., 320321 e, in Italia, Ag. Entrate, Risposta del 20 aprile 2020, n. 110. (29) Cfr. OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 15-16; nell’Unione, il cit. “Digital finance package” e, in part., l’art. 3, par. 1, nn. 2)-5) della proposta di reg. U.E. V. anche A.M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, 388; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 35; ne accenna F. Antonacchio, op. cit., 275.
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4. L’esenzione dell’art. 135, par. 1, lett. e) della Dir. 2006/112/CE. Le criptomonete nella sentenza Hedqvist della Corte di giustizia. – Il legislatore dell’Unione non ha mai introdotto previsioni dedicate alle criptomonete in seno alla Direttiva. Sul tema, invece, ha assunto cruciale rilievo l’art. 135, par. 1, lett. e), il quale esenta dall’imposta «le operazioni, compresa la negoziazione, relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio (…)». Sulla norma, è intervenuta la sentenza Hedqvist della Corte di giustizia, leading case (e, allo stato, l’unica pronunciata a livello europeo) in merito ai profili IVA di operazioni aventi ad oggetto monete virtuali (30). L’analisi della pronuncia è, dunque, imprescindibile. La fattispecie concreta riguardava l’attività di un soggetto esercente attività di cambio (“exchanger”) fra corone svedesi e bitcoin. La Corte ha ravvisato una prestazione di servizi a titolo oneroso, assoggettabile alla disciplina dell’IVA (31), in relazione al margine ritratto dall’“exchanger” fra l’acquisto di una tipologia di moneta tradizionale o virtuale e la vendita di altra, rispettivamente, virtuale o tradizionale. In seconda battuta, la Corte ha statuito che siffatta operazione sarebbe esente dal tributo, proprio in forza dell’art. 135, par. 1, lett. e). La moneta bitcoin non presenterebbe «altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento e che essa sia accettata a tal fine da alcuni operatori», alla stregua delle valute tradizionali (32). Tuttavia, un simile esito non è affatto condivisibile alla luce del dato normativo di riferimento, nei termini che passiamo a illustrare. 4.1. Rapporto fra la sentenza Hedqvist e le conclusioni dell’avvocato generale sulla versione tedesca, inglese, finnica e italiana della disposizione. – La sentenza Hedqvist riposa su quanto «esposto dall’avvocato generale ai paragrafi da 31 a 34 delle conclusioni». In particolare, le «diverse versioni linguistiche» dell’art. 135, par. 1, lett. e) non consentirebbero «di determinare senza ambiguità se (…) si applichi alle sole operazioni vertenti sulle valute tradizionali o se essa riguardi invece anche le operazioni relative ad altre valute» (33).
(30) (31) (32) (33)
Corte Giustizia, 22 ottobre 2015, causa C-264/14, Hedqvist cit. Ai sensi dell’art. 2, par. 1 della Dir. 2006/112/CE. Sent. Hedqvist, cit., punto 52. Sent. Hedqvist, cit., punto 46.
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A propria volta, le conclusioni dell’avvocato generale hanno affermato di fare leva sui testi ufficiali in lingua tedesca, inglese, finnica e italiana (34), la cui ricognizione di dettaglio apre scenari di rilievo. Anzitutto, «la versione tedesca (…) può essere interpretata nel senso che entrambi i mezzi di pagamento coinvolti nel cambio devono avere corso legale (‘Devisen […], die gesetzliches Zahlungsmittel sind’) (…)». Tuttavia, «già nella versione inglese si parla solo di ‘currency’ al singolare» e «sarebbe pertanto sufficiente anche un cambio in cui ci sia da una sola parte un» unico «mezzo di pagamento legale, come, nel caso di specie, la corona svedese» (35). Già questa prima osservazione non coglie nel segno. Le conclusioni hanno estrapolato il sostantivo dal contesto della versione di riferimento, la quale, invero, guarda a «currency, bank notes and coins» e, dunque, riporta anche sostantivi al plurale («bank notes and coins»). Il dato saliente è un altro. La ricostruzione dell’avvocato generale oblitera la seconda parte del testo inglese della previsione, ove guarda a «currency, bank notes and coins» esclusivamente ove (e nei limiti in cui) «utilizzate come corso legale» («used as legal tender»). Invero, si potrebbe ventilare che l’espressione «used as legal tender» si riferisca a un impiego di valute (anche) prive di corso legale, ma utilizzate («come», nel senso di:) “con la funzione di quelle” avente corso legale. Nondimeno, si tratterebbe di una lettura forzata, avulsa dal sistema ordinamentale europeo in cui si inserisce e che farebbe affermare al dato normativo ciò che non enuncia. Nel diritto dell’Unione, la locuzione «used as legal tender» è unicamente riferibile a «valuta, banconote e monete», alle quali lo Stato riconosca funzione giuridica di strumenti di adempimento dell’obbligazione pecuniaria che il creditore non potrebbe fisiologicamente respingere (36). Inoltre, le conclusioni dell’avvocato generale pongono attenzione alla versione finnica, la quale non esigerebbe «in alcun modo che siano mezzi di pagamento ex lege le divise, bensì unicamente le banconote e le monete».
(34) Conclusioni dell’avvocato generale J. Kokott per la causa C-264/14, Hedqvist, punti 31-34, cit. (35) Conclusioni ult. citt., punti 31-32. (36) V. supra, par. 2.
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Pertanto, sarebbe «formulata in modo ancor più ampio. In forme diverse dal denaro contante, tutte le altre valute, comprese le valute virtuali come i bitcoin, potrebbero essere interessate dall’esenzione» (37). Tuttavia, la nota 15 delle stesse conclusioni contraddice frontalmente un simile approdo. Difatti, precisa che «la versione finlandese parla di ‘valuuttaa sekä laillisina maksuvälineinä käytettäviä seteleitä ja kolikoita’, il che significa, indicativamente, ‘le divise nonché le banconote e le monete utilizzate quali mezzi di pagamento legale’». Pertanto, anche simile testo ufficiale non si discosta da quello tedesco né da quello inglese nel riferirsi esclusivamente alla valuta tradizionale, l’unica dotata di corso legale. Infine, l’avvocato generale ha considerato «la versione italiana», la quale porrebbe «persino in discussione che i mezzi di pagamento coinvolti debbano avere lo status di mezzi ex lege. In base ad essa, sono esentate le operazioni relative a mezzi di pagamento ‘con valore liberatorio’. Secondo tale versione», sarebbe «pertanto decisivo l’effetto liberatorio del mezzo di pagamento. (…) Anche i bitcoin» potrebbero «però avere un effetto liberatorio, qualora sia in tal senso convenuto dalle parti» (38). Pure simile approdo desta riserve. Il «valore liberatorio» della norma evoca l’effetto solutorio che presenta l’utilizzo di «divise, banconote e monete» ai fini dell’adempimento di obbligazioni pecuniarie. In proposito, si è affermato che l’esegesi di un testo ufficiale nazionale si radichi su una comparazione non solo interlinguistica e “orizzontale”. Sarebbe, invece, rilevante pure un approccio “verticale”, “dall’alto verso il basso”, orientato ad appurare il significato di una parola o di una locuzione, anche alla stregua della legislazione interna di riferimento (39).
(37) Conclusioni dell’avvocato generale J. Kokott per la causa C-264/14, Hedqvist, cit., punto 33. (38) Conclusioni ult. citt., punto 34. (39) Cfr. C. Robertson, The Problem of Meaning in Multilingual EU Legal Texts, in IJLLD - International Journal of Law, Language & Discourse, 2012, 6; E. Russo, L’interpretazione dei testi normativi comunitari, Milano, 2008, 280-281. La sensibilità del diritto dell’Unione alle nozioni, concetti degli ordinamenti nazionali, anche in assenza di rinvii espliciti, trova addentellati, p. es., in Trib. I grado, 18 dicembre 1992, causa T-43/90, Díaz García, cit. dalle conclusioni dell’avvocato generale V. Trstenjak, 3 maggio 2007 per la causa C-62/06, Z.F. Zefeser, punti 32-33.
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Simile approccio comporta che la formula italiana della Direttiva dovrebbe altresì confrontarsi con il significato che assume nel relativo ordinamento domestico in cui si irradia. In Italia, l’art. 1277, comma 1 c.c. accredita «valore liberatorio» al pagamento con la «moneta avente corso legale nello Stato» (40). Il creditore dell’obbligazione pecuniaria (non deve, ma) può sicuramente accettare un adempimento tramite moneta digitale (41). Tuttavia, in assenza di una simile pattuizione, è senz’altro libero di rifiutare l’offerta di un tale mezzo solutorio (42). Insomma, è chiaro che il «valore liberatorio», cui allude il testo italiano della Direttiva, non consente riferimenti a mezzi diversi dalla moneta avente corso legale, nel significato testé precisato (43). Stando così le cose, la conclusione si trae agevolmente. La sentenza Hedqvist pretende di riposare su inconsistenti fondamenta, ove ravvisa una «ambiguità» fra versioni linguistiche della norma europea,
(40) V., inoltre, l’art. 693 c.p., che colpisce chiunque rifiuti «di ricevere, per il loro valore, monete aventi corso legale nello Stato», con sanzione, depenalizzata dall’art. 33, n. 1) della l. 24 novembre 1981, n. 689. (41) In proposito, si ragiona di «moneta contrattuale» («contractual money») in ECB, Virtual currency schemes, cit., ivi, 24: v. C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali, cit., ivi, 959. (42) V. art. 1197 c.c. Cfr. anche G. Befani, op. cit., 213. Fra l’altro, nell’ipotesi di accettazione del pagamento con moneta digitale, resterebbe che eventuali domande in sede giurisdizionale, ad es., di risarcimento del danno per adempimento tardivo, sarebbero pur sempre espresse (e, se del caso, troverebbero accoglimento) in valuta ufficiale: F. Cannas, op. cit., 82. (43) Cfr. Commissione, Value Added Tax Commitee, 4 febbraio 2016, Working paper n. 892, passim; G. Befani, op. cit., 213. Da questa prospettiva, quindi, non è condivisibile l’opinione dell’avvocato generale nel caso Hedqvist, pure dove afferma che la locuzione del testo italiano della norma europea si discosterebbe dall’art. 10, par. 2 del reg. C.E. 974/1998, «relativo all’introduzione dell’euro», ove stabilisce che «le banconote denominate in euro sono le uniche aventi corso legale negli Stati membri partecipanti». Piuttosto, anche la interazione fra questa norma e quella in materia di IVA conferma che solo la moneta pubblica corrente rivesta primario «valore liberatorio» dalle obbligazioni pecuniarie (cfr., inoltre, ECB, Virtual currency schemes, cit., 24). L’avvocato generale menziona, poi, l’art. 344, par. 1, n. 2) della Dir. 2006/112/CE, il quale include nella nozione di «oro da investimento», ai fini IVA, «le monete d’oro di purezza pari o superiore a 900 millesimi, coniate dopo il 1800, che hanno o hanno avuto corso legale nel paese di origine e che sono normalmente vendute a un prezzo che non supera di più dell’80 % il valore sul mercato libero dell’oro in esse contenuto». L’esempio non solo non è pertinente al caso Hedqvist, ma si riferisce, di nuovo, al concetto di moneta che ha (o ha avuto) «corso legale».
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frutto di acritico recepimento delle conclusioni che l’avvocato generale ha tratto da una comparazione limitata a quattro testi ufficiali. Tuttavia, essi non rivelano affatto una simile «ambiguità» (44). Per individuare la portata dell’art. 135, par. 1, lett. e), appare allora imprescindibile seguire un diverso e più ortodosso percorso ermeneutico. 4.2. Analisi interlinguistica della locuzione «divise, banconote e monete con valore liberatorio». – Ai fini della interpretazione di una norma europea (45), una corrente giurisprudenziale ha sottolineato la priorità dell’esegesi letterale (“in claris non fit interpretatio”), illuminata dall’analisi dei testi ufficiali. Le relative pronunce di riferimento hanno certamente espresso sensibilità per il contesto e le finalità perseguite della disciplina, ma soprattutto ove (e nella misura in cui) l’approccio testuale sfociasse in esiti discordanti e si rivelasse, quindi, insoddisfacente (46). Nell’ordinamento dell’Unione, gli idiomi degli Stati membri godono di pari dignità e rilievo giuridico (47).
(44) Corte Giustizia, 14 luglio 1998, causa C-172/96, First National Bank, punto 25 non aveva rilevato differenze fra le versioni linguistiche dell’art. 135, par. 1, lett. e). (45) In generale, sui metodi esegetici delle norme europee, cfr., p. es., Ł. Biel, Translation of Multilingual EU Legislation as a Sub-genre of Legal Translation, in Aa.Vv., Court interpreting and legal translation in the enlarged Europe 2006: papers from the Warsaw International Forum held on 23-25 August 2006 in Warsaw, a cura di D. Kierzkowsk, Warsaw, 2007, 144 ss.; T. Schilling, Multilingualism and Multijuralism: Assets of EU Legislation and Adjudication?, in German Law Journal, 2011, 1460 ss.; C. Robertson, op. cit., 1 ss.; S. Šarčević, Multilingual Lawmaking and Legal (Un)Certainty in the European Union, in IJLLD, 2013, 1 ss. Nella dottrina italiana, E. Russo, op. cit., spec. 89 ss.; L. Pasquali, p. es. in Sull’interpretazione dei Trattati multilingue: necessità del ricorso a criteri specifici, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2017, disponibile in http://www.osservatoriosullefonti.it, 1 ss.; L. Mori, Dall’armonizzazione all’ibridazione nei testi legislativi: evidenze linguistiche e manifestazioni interculturali nell’italiano tradotto, in Entreculturas, 2019, 377 ss.; fra i tributaristi, G. Melis, L’interpretazione del diritto tributario europeo e internazionale, in Aa.Vv., Principi di diritto tributario europeo e internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2016, 23 ss. (46) Cfr., p. es., Corte Giustizia, 26 giugno 2019, causa C-723/17, Craeynest e a., punto 60; Corte Giustizia, 6 giugno 2018, causa C-49/17, Koppers, punto 22; Corte Giustizia, 7 febbraio 1979, causa C-11/76, Regno dei Paesi Bassi c. Commissione, punto 6. La stessa pronuncia Hedqvist, punto 47 si apre al criterio della individuazione dei fini della disciplina, solo dopo aver preso atto di (insussistenti) «ambiguità» testuali, segnalate dall’avvocato generale. (47) V. artt. 1 e 5 del reg. C.E.E. 1/1958 e, inoltre, gli artt. 21, par. 1; 22; 41, par. 4 della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” (c.d. “Carta di Nizza”).
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Pertanto, è necessario leggere la previsione di una Direttiva alla luce di tutte le versioni linguistiche (48). Da questa prospettiva, la sentenza Hedqvist avrebbe potuto e dovuto trarre risultati significativi. Infatti, appaiono individuabili sostanzialmente tre principali insiemi di testi ufficiali nazionali dell’art. 135, par. 1, lett. e) della Direttiva. Il primo abbraccia versioni linguistiche che alludono a divise, banconote e monete, definiti quali «mezzi di pagamento legale», sulla base dei modelli offerti dai testi in lingua francese (49) e inglese (50). Un secondo insieme comprende l’analizzata versione italiana, nonché quella portoghese, le quali attribuiscono rilievo al «valore liberatorio» della moneta per il debitore delle obbligazioni pecuniarie (51). Il terzo insieme è costituito dalla sola versione lituana, trascurata nelle conclusioni del caso Hedqvist, la quale considera lato sensu le monete «utilizzate come mezzo di pagamento» (52), senza evocare quelle aventi corso legale. Allora, qui e solo qui potrebbe ipotizzarsi una dilatazione della norma di esenzione rispetto al contenuto degli altri testi ufficiali della Direttiva. In questa prospettiva, si affaccia un ostacolo.
(48) Corte Giustizia, 15 maggio 2014, causa C-359/12, Timmel, punto 63; Corte Giustizia, 3 aprile 2014, causa C-515/12, 4finance, punto 19; Corte Giustizia, 5 dicembre 1967, causa C-19/67, van der Vecht. Cfr. C. Robertson, op. cit., 6 ss.; L. Mori, op. cit., 381 e sub nt. 5. (49) «qui sont des moyens de paiement légaux». Ad essa, si sono ispirate quelle in lingua tedesca («Devisen (…), die gesetzliches Zahlungsmittel sind»), olandese («bankbiljetten en munten die wettig betaalmiddel zijn»), spagnola («que sean medios legales de pago») e greca («που αποτελούν νόμιμα μέσα πληρωμή»). (50) «currency, bank notes and coins used as legal tender». La versione inglese è ripresa da quelle in lingua svedese (idioma ufficiale della causa Hedqvist: «valuta, sedlar och mynt använda som lagligt betalningsmedel»), danese («der anvendes som lovligt betalingsmiddel»), maltese («muniti użati bħala valuta legali»), polacca («jako prawny środki płatniczy»), ceca («jako zákonné platidlo»), bulgara («използвани като законно платежно средство»), rumena («utilizate ca mijloc legal de plată»), estone («seadusliku maksevahendina kasutatava valuuta»). (51) «divisas, papel-moeda e moeda com valor liberatório». V. artt. 550 ss. del Código Civil lusitano. (52) «kaip atsiskaitymo priemonė».
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Nessuna disposizione sancisce criteri per dirimere conflitti testuali fra diverse versioni linguistiche ufficiali di una norma dell’Unione (53), né il caselaw europeo offre stabili riferimenti in proposito. In varie occasioni, la giurisprudenza europea ha fatto leva su un criterio che potremmo definire “quantitativo”, sensibile ai risultati, desumibili dalla (lettera della) maggioranza dei testi ufficiali (54). Si è appena dimostrato come le versioni linguistiche ufficiali dell’art. 135, par. 1, lett. e), con l’eccezione del testo lituano, circoscrivano l’esenzione alle sole operazioni di cambio con monete aventi corso legale. Allora, in forza di tale criterio maggioritario, la norma non può riferirsi alle criptomonete, siccome prive di tale carattere (55) (56). Nondimeno, un simile approccio desta riserve sul piano metodologico: sacrifica la versione di minoranza, in spregio all’enunciato principio di parità che contraddistingue tutte le lingue ufficiali dell’Unione, senza eccezioni. Occorre, dunque, individuare un più rigoroso percorso esegetico. 4.3. Esegesi teleologico-sistematica della norma. L’incerto e contraddittorio riferimento alle «difficoltà tecniche» quale ratio dell’esenzione. – La dominante opinione giurisprudenziale ha accentuato la rilevanza (della indi-
(53) T. Schilling, op. cit., 1481. (54) Corte Giustizia, 22 marzo 2018, cause C-688/15 e C-109/16, Anisimovienė e a., punto 62; Corte Giustizia, 24 maggio 1988, causa C-122/87, Commissione c. Repubblica Italiana, punto 9; Corte Giustizia, 5 dicembre 1967, causa C-19/67, van der Vecht. (55) Pur senza valorizzare un approccio letterale multilingue, cfr. A. M. Bal, Taxation of virtual currency, cit., 238 e in How to Tax Bitcoin?, cit., ivi, 277; in termini molto critici sulla pronuncia, C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali, cit., ivi, 966 ss.; v. anche Group on the future of VAT, 23 ottobre 2014, cit., 6 e, spec., 7, cit. pure da G. Corasaniti, op. cit., 52-53. Al di fuori dell’art. 135, par. 1, lett. e), nega l’assimilabilità delle valute virtuali a quelle tradizionali, invece, dotate di corso legale, ECB, Virtual currency schemes, cit., 24, su cui fa leva, altresì, M. Pierro, op. cit., 108 ss., spec. 110 oltre che, soprattutto, sulla disciplina antiriciclaggio. L’applicazione dell’esenzione alle operazioni di cambio con “cryptocurrencies” rivela una sorta di assimilazione di esse alle valute estere: dalla prospettiva italiana, in senso critico, G. Corasaniti, op. cit., 57 e 59; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 31; M. Pierro, op. ult. cit., ivi, 118 ss.; L. Salvini, op. cit., 170; D. Conte, op. cit., 77 ss. (56) La conclusione si impone a fortiori, alla luce della più radicale declinazione del criterio di maggioranza, da parte di quella giurisprudenza che ha ritenuto di ignorare l’unica versione linguistica, divergente dalle altre: Corte Giustizia, 27 febbraio 1997, causa C-177/95, Ebony Maritime e a., punto 30, ma v. il punto 31, ove, in realtà, si evidenziano due versioni linguistiche discordanti; Corte Giustizia, 17 ottobre 1996, causa C-64/95, Lubella, punti 17-18; Corte Giustizia, 1° dicembre 1965, causa C-16/65, Schwarze, quart’ultimo periodo.
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viduazione) del contesto sistematico e delle finalità perseguite dalla norma europea da interpretare (57). La tendenza si è ancora più radicalizzata negli ultimi anni, quasi a voler aggirare, a priori, le complicazioni scaturite dall’ampliamento del numero dei Paesi aderenti all’Unione. Difatti, simile ampliamento comporta la necessità di leggere e comparare, ora, un testo normativo in ben ventiquattro diverse lingue ufficiali, destinato a essere applicato, a propria volta, in ventisette Stati membri, caratterizzati da differenti culture giuridiche e concezioni dogmatiche (58). Così, il criterio teleologico-funzionale di interpretazione assumerebbe importanza in ogni caso e non (solo) per comporre eventuali, inconciliabili disarmonie letterali fra i vari testi di una disposizione. Fermo ciò, appare indispensabile puntualizzare che le norme di esenzione dovrebbero essere strumentali a finalità di interesse generale, di rango primario nell’ordinamento e, perciò, meritevoli di favor legis (59). In particolare, la Corte qualifica come «operazioni finanziarie» quelle oggetto delle esenzioni dell’art. 135, par. 1, lett. b)-g) della Direttiva (60). Entro questo ambito, le fattispecie dell’art. 135, par. 1, lett. e) riguardano gli scambi speculativi di valute nell’esercizio di attività economiche.
(57) In generale linea di principio, fra le più risalenti, v. già Corte Giustizia, 5 febbraio 1963, causa C-26/62, van Gend & Loos, sub III, incipit del punto B.; di recente, Corte Giustizia, 18 giugno 2020, causa C-754/18, Ryanair, punto 28; Corte Giustizia, 26 febbraio 2019, cause C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, N Luxembourg 1 e a. cit., una delle due pronunce afferenti i c.d. “casi danesi”, punti 10 e 84 ss. Sulla centralità della interpretazione teleologica delle norme, Ł. Biel, op. cit., 147-148; G. Melis, op. cit., 23 ss. (58) Riv. art. 1 del reg. C.E.E. 1/1958; cfr. S. Šarčević, op. cit., 10. (59) P. es., nel sistema dell’IVA, tali sono le esenzioni concepite per l’ospedalizzazione e per le prestazioni mediche e paramediche (art. 132, par. 1, nn. 2) e 3) della Dir. 2006/112/CE), correlate a diritti fondamentali, quali quelli alla vita e alla protezione della salute, presidiati dagli artt. 2, par. 1 e 35 della “Carta di Nizza”. (60) Cfr. R. de la Feria, in EU VAT Treatment of Insurance and Financial Services (Again) Under Review, in EC Tax Review, 2007, 74 ss.; R. de la Feria - M. Walpole, Options for Taxing Financial Supplies in Value Added Tax: EU VAT and Australian GST Models Compared, in International and Comparative Law Quarterly, 2009, 897 ss.; Aa.Vv., VAT Exemptions. Consequences and Design Alternatives, a cura di R. de la Feria, Alphen aan den Rijn, 2013, spec. 309 ss.; F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, 281 ss.; C. Fusco, Le esenzioni IVA e le operazioni finanziarie nell’Unione europea: spunti di riflessione, nota a Corte Giustizia, 5 giugno 1997, causa C-2/95, SDC, in Riv. dir. trib., 1998, III, 43 ss.
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Qui non sembra così evidente una esigenza di salvaguardia di valori e interessi sociali di rilievo primario (61). Pare offrirne conferma anche il reg. U.E. 282/2011 di esecuzione della Direttiva che ci occupa (di seguito, anche indicato come “il regolamento”), il cui il capo VIII considera le esenzioni dall’imposta nella cornice di vari insiemi. Il primo di essi, all’art. 44, include le esenzioni «a favore di alcune attività di interesse pubblico» ed è ben distinto dal secondo che, all’art. 45, annovera quelle dell’art. 135 della Direttiva, in un generico coacervo di quelle concepite come «a favore di altre attività». Nella specie, il percorso di individuazione della ratio della esenzione in esame attraversa una pars destruens e una pars costruens. La pars destruens riguarda la finalità, come prefigurata dalla Corte di giustizia, la quale ha statuito che tutte le ipotesi di esenzione dell’art. 135 perseguirebbero il comune obiettivo di ovviare a «difficoltà tecniche» nella commisurazione dell’imponibile e dell’IVA detraibile (62). Sennonché, è proprio l’impostazione di fondo a suscitare perplessità. Già in linea di principio, «difficoltà tecniche», se effettivamente ravvisabili, potrebbero suggerire una peculiare disciplina in punto di commisurazione dell’imponibile, non affatto la sottrazione di esso dalla applicazione del tributo. Insomma, la soluzione normativa non potrebbe essere quella di “non tassare, perché è complicato tassare” una fattispecie astrattamente dotata di rilievo impositivo. Semmai, è ineludibile “tassare anche ciò che è complicato tassare”, con una disciplina razionale e il più possibile aderente alla reale situazione di fatto, alla specifica attitudine alla contribuzione rivelata dall’operazione (63).
(61) Cfr. R. de la Feria - M. Walpole, Options for Taxing Financial Supplies, cit., ivi, passim; R. de la Feria - R. Kraver, Ending VAT Exemptions: Towards a Post-Modern VAT in Aa.Vv., VAT Exemptions, cit., ivi, 25. In rif. all’art. 135, par. 1, lett. e), F. Cannas, op. cit., 77, par. 3.1.; T. Ehrke-Rabel – L. Zechner, op. cit., 510. (62) Sent. Hedqvist, cit., punti 36, 37, 48. Cfr. H. Grubert - R. Krever, VAT and Financial Services: Competing Perspectives on What Should Be Taxed, in Tax Law Review, 2012, 199 ss., spec. 239 (altresì pubblicato in Aa.Vv., VAT Exemptions, cit., ivi, 311 ss.); F. Montanari, op. cit., 281 ss., spec. 285; C. Fusco, op. cit., 51 ss. (63) V. le considerazioni “di sistema” di F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 285, nt. 81. Quanto agli addentellati fra il principio di capacità contributiva e quello generale europeo di parità di trattamento (v. supra, par. 4.5.), cfr. G. Falsitta, p. es. in I principi di capacità contributiva e di eguaglianza tributaria del diritto
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Proprio la Dir. 2006/112/CE ne offre lampante conferma. Difatti, si preoccupa di regolare ipotesi per le quali si affacciano difficoltà nella determinazione del corrispettivo, ma non certo risolte con l’esenzione dell’operazione da cui esso scaturisce. Piuttosto, la disciplina europea addita vari criteri e parametri finalizzati a commisurarlo, come si registra, ad esempio, in tema di quantificazione del corrispettivo alla stregua del c.d. «valore normale» (64). In secondo luogo, l’esenzione in esame non eviterebbe comunque «difficoltà tecniche» di commisurazione, se davvero esistenti. Si pensi alla eventualità in cui alle operazioni attive esenti concorrano quelle imponibili. Il soggetto interessato sarebbe pur sempre tenuto a quantificare i corrispettivi esenti, ai fini della determinazione del volume d’affari, nella cornice del c.d. pro rata di detrazione dell’imposta sulle proprie operazioni passive (65). Inoltre, l’esistenza di decisive, rilevanti «difficoltà» alla base dell’esenzione è manifestamente confutata da ulteriori versanti. L’art. 169, par. 1, lett. c) della Direttiva ammette il soggetto passivo alla detrazione, in riferimento alle «sue operazioni esenti conformemente all’articolo 135, paragrafo 1, lettere da a) a f)» e, pertanto, anche per l’ipotesi sub lett. e) che ci occupa, «quando il destinatario è stabilito fuori della Comunità o quando tali operazioni sono direttamente connesse a beni destinati a essere esportati fuori della Comunità». Qui il legislatore europeo non sembrerebbe aver ravvisato «difficoltà tecniche» nel computo dell’IVA, giacché ne ha riconosciuto la detraibilità. Non è tutto. L’art. 137, par. 1, lett. a) della Direttiva statuisce che gli «Stati membri possono accordare ai loro soggetti passivi il diritto di optare per l’imposizione delle operazioni seguenti: (…) a) le operazioni finanziarie di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettere da b) a g)» (c.d. “option-to-tax approach”) (66).
comunitario e nel diritto italiano tra ‘ragioni del fisco’ e diritti fondamentali della persona, in Riv. dir. trib., 2011, I, spec. 525 ss. (64) Cfr., p. es., l’art. 77 della Dir. 2006/112/CE, sulle prestazioni di servizi rese da un soggetto passivo per le esigenze della propria attività d’impresa qualora la prestazione di detto servizio, da parte di un altro soggetto passivo, non gli darebbe diritto alla detrazione totale dell’IVA (v. art. 27). Per il computo del «valore normale», v. art. 72. (65) Artt. 173 ss. e, spec., art. 174, par. 1, lett. b) della Dir. 2006/112/CE. (66) Cfr. F. Montanari, op. cit., 286-287, il quale, tuttavia, pone l’accento su un
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Parte prima
In attuazione della norma europea, l’art. 260 B, par. 1 del “Code général des impôts” (“CGI”) dell’ordinamento francese annovera tra le «opérations imposables sur option», proprio quelle riferibili «au commerce des valeurs et de l’argent». L’opzione per l’imposizione è stata storicamente esercitata con ampiezza dalle principali istituzioni finanziarie transalpine (67). Tanto avalla l’idea di una radicale insussistenza di «difficoltà tecniche», le quali, se esistenti, dovrebbero riscontrarsi sempre o, all’opposto, non ravvisarsi affatto per tutti i soggetti passivi e in tutti gli Stati membri (68). L’esito si trae agevolmente. L’ancoraggio della finalità dell’esenzione a «difficoltà tecniche», affermato dalla Corte di giustizia, rappresenta una spiegazione “di facciata” e di comodo, tutt’altro che appagante (69). Nella prospettiva di un’esegesi teleologico-sistematica, è necessario individuare diversi percorsi per ravvisare una plausibile finalità giustificativa dell’esenzione dell’art. 135 nel sistema e delineare i confini della norma.
mancato esercizio dell’opzione ad opera della maggior parte degli Stati membri. Nondimeno, la considerazione non vale per l’ordinamento francese (v. subito supra e alla nt. seg.). (67) T. Pons, Option for Taxation of Financial Services in France, in International VAT Monitor, 2006, 82. Sono eccettuate (e, pertanto, opera sempre l’esenzione per) le operazioni indicate dall’art. 260 C del CGI, soprattutto coinvolgenti soggetti riconducibili all’area bancaria (così quelle, p. es., dei parr. 1, 2, 3) o movimenti relativi al governo statuale della moneta (par. 7, rif. alle somme versate dal Ministero del Tesoro alla Banca di Francia). (68) Piuttosto, l’alternativa fra l’esenzione e il c.d. “option-to-tax approach” dipende da un’ampia discrezionalità che la disciplina europea dell’IVA ha riconosciuto ai legislatori nazionali: Corte Giustizia, 28 febbraio 2018, causa C-672/16, Imofloresmira, l’incipit del punto 48; Corte Giustizia, 9 settembre 2004, causa C-269/03, VOK, punto 21; Corte Giustizia, 19 gennaio 1982, causa C-8/81, Becker, punti 38 ss. L’esercizio di tale discrezionalità può essere frutto di mere valutazioni di opportunità che uno Stato può esprimere in un peculiare momento storico e abbandonare in un altro: Corte Giustizia, 12 gennaio 2006, causa C-246/04, Turnund Sportunion Waldburg, punto 29. Piuttosto, il combinato fra l’art. 137 e l’art. 135 (par. 1, lett. e) vulnera il principio europeo di parità di trattamento (su cui, v. supra, par. 4.5. cit.): discrimina ingiustificatamente i contribuenti tra quelli che potrebbero detrarre e quelli che non potrebbero detrarre l’IVA sulle operazioni passive, a seconda che lo Stato di perfezionamento dell’operazione abbia o meno esercitato la facoltà di contemplare una opzione per l’imposizione: cfr. Comitato economico e sociale europeo (CESE), parere 30 agosto 2008, sulla proposta di modifica della Dir. 2006/112/CE, in ordine ai servizi assicurativi e finanziari, COM(2007) 747 def. - 2007/0267 (CNS) (2008/C 224/28), p. es., ai punti 3 della premessa, 1.2 e 1.3 della motivazione. La disparità di trattamento altera la concorrenza nel mercato unico: C. Fusco, op. cit., 58. (69) Cfr. R. de la Feria - R. Kraver, Ending VAT Exemptions, cit., 33.
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4.4. (Segue): la strumentalità alla libera circolazione dei capitali. – Non è peregrino ipotizzare che l’esenzione sulle operazioni di cambio fra «divise, banconote e monete», sebbene priva di un immediato impatto sociale (70), sia strumentale a favorire l’effettività delle libertà fondamentali dell’Unione. In specie, il riferimento è alla libertà di circolazione dei capitali (71), senza la quale sarebbero, tra l’altro, mortificate le libertà di circolazione delle merci e dei servizi (72), alla cui tutela mira proprio la disciplina europea sull’IVA, nell’ottica di una piena instaurazione e tutela del mercato interno (73). Da questo crinale, per la disciplina tributaria, soccorrono le precedenti considerazioni. Le «divise, banconote e monete» rilevano quale possibile oggetto di corrispettivo sinallagmatico di cessioni di beni o prestazioni di servizi, delle quali formano l’imponibile ai fini IVA (74). In altre parole, l’egida della libertà di circolazione dei capitali copre la movimentazione, lo scambio di denaro in sé (75), il quale, in un momento successivo, è idoneo a essere utilizzato quale mezzo di adempimento di obbligazioni pecuniarie, significativo nel sistema europeo del tributo (76).
(70) V. par. prec. (71) Art. 63, parr. 1 e 2 TFUE. Cfr. G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2012, 572 ss.; G. de Bont, Taxation and the Free Movement of Capital and Payments, in EC Tax Review, 1995, 136 ss. Secondo C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali, cit., ivi, 957, la ratio della norma sarebbe individuabile nel rif. a operazioni che riguardano valute, insuscettibili di rilievo impositivo, siccome non oggetto di consumo (v. supra, par. 2.). (72) G. Tesauro, op. cit., 572; G. de Bont, op. cit., 136; C. Fusco, op. cit., 52. Per la libertà di circolazione delle merci e dei servizi, v. artt. 28 e 56 TFUE. (73) Ai fini IVA, v. l’incipit del quarto considerando della stessa Dir. 2006/112/CE. (74) V. par. 2. cit. (75) V. Corte Giustizia, 31 gennaio 1984, cause C-286/82 e 26/83, Luisi e a., punti 2122. (76) Proprio la diretta destinazione del denaro allo scambio di beni e di servizi, distingue la libertà di circolazione dei pagamenti da quella dei capitali: G. Tesauro, op. cit., 573. In simile ottica, non appare casuale che lo stesso art. 135, par. 1, lett. e) della Dir. 2006/112/CE abbia (eccettuato dalla norma di esenzione e, dunque) attratto a imposizione le «operazioni, compresa la negoziazione, relative a (…) monete e» ai «biglietti da collezione ossia monete d’oro, d’argento o di altro metallo e biglietti che non sono normalmente utilizzati per il loro valore liberatorio o presentano un interesse per i numismatici». Il baricentro di questa parte della regola poggia su un preciso trait d’union. Si tratta di «monete», «biglietti», non utilizzati di regola quali capitali destinati alla circolazione, quali mezzi di pagamento aventi corso legale, come reso ancora più esplicito nelle versioni ufficiali, tra l’altro, in lingua francese («qui ne sont pas normalement utilisés dans leur fonction comme moyen de paiement légal»), inglese («which are not normally used as legal tender»), tedesca («die normalerweise nicht als gesetzliches
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Da questa prospettiva, l’esenzione non potrebbe applicarsi alle monete digitali, siccome (e nella misura in cui) prive di corso legale e della natura di “capitali”, idonei a circolare come tali e ad assolvere la potenziale funzione di pagamento di beni e servizi, non rifiutabile dal cedente o prestatore. 4.5. (Segue): l’interpretazione conforme ai principi generali europei. – L’estraneità delle criptomonete all’art. 135, par. 1, lett. e) trova ulteriore conforto “dall’alto”, anche dai principi fondanti il sistema dell’IVA e, lato sensu, l’intero ordinamento dell’Unione. La Corte di giustizia ha rilevato la necessità di adottare una interpretazione che non privi le disposizioni di esenzione dei loro effetti, la quale deve comunque essere restrittiva. Difatti, le norme di esenzione sottraggono in thesi le fattispecie da esse regolate al generale dispiegarsi del principio europeo di neutralità dell’IVA per gli operatori economici, cardine imprescindibile del sistema europeo (77). Alla esenzione, si correla la indetraibilità dell’imposta a monte la quale viene, così e definitivamente, a gravare sul soggetto passivo, come se fosse un consumatore finale (78). Si realizza una sorta di “effetto paradosso”. Le operazioni esenti addossano l’onere definitivo del tributo (a monte) su chi le perfeziona, mentre l’IVA è neutrale per i soggetti passivi che pongono in essere operazioni attive imponibili (79), con il pericolo di evidenti distorsioni alla libera concorrenza fra i “market players” del mercato unico (80) (81).
Zahlungsmittel verwendet werden») e spagnola («que no sean utilizados normalmente para su función de medio legal de pago»). La logica di fondo è chiara. Le «operazioni concernenti le monete da collezione a carattere numismatico sono soggette all’IVA in quanto l’aspetto ‘merce’ prevale sull’aspetto ‘capitale’»: conclusioni dell’avvocato generale H. Mayras nella causa decisa da Corte Giustizia, 23 novembre 1978, causa C-7/78, Thompson e a., IV. (77) Cfr. Corte Giustizia, 25 marzo 2021, causa C-907/19, Q, punto 30; Corte Giustizia, 17 dicembre 2020, cause C-449/19, WEG Tevesstraße, punto 39; C-656/19, Bakati, punto 41; nonché C-801/19, Franck, punti 31 ss.; Corte Giustizia, 15 giugno 1989, causa C-348/87, SUFA, punto 13; da ultimo, incidenter, v. anche Corte Giustizia, 8 luglio 2021, causa C‑695/19, Rádio Popular, punto 44. (78) Accenna alla questione, F. Montanari, op. cit., 286. (79) R. de la Feria - R. Kraver, Ending VAT Exemptions, cit., ivi, 11; A. M. Bal, Taxation of virtual currency, cit., 237. (80) Cfr. C. Fusco, op. cit., 55 ss. (81) Si innesca, poi, un circolo vizioso. L’esenzione induce i soggetti passivi a incrementare i corrispettivi delle operazioni attive per aggiungervi una c.d. “IVA occulta”, onde recuperare “a cascata” (“tax cascading”) il costo di quella indetraibile, con effetti inflazionistici.
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Già in sede di lavori preparatori della prima stesura della Direttiva, la Commissione aveva rilevato che per «raggiungere il massimo di semplicità e di neutralità ai fini della concorrenza», il campo d’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto deve essere il più ampio possibile. Le eccezioni sono, quindi, rigorosamente limitate (82) e «le meno numerose possibili» (83), come ribadisce il quinto considerando della Dir. 2006/112/ CE: un «sistema d’IVA raggiunge la maggior semplicità e neutralità se l’imposta è riscossa nel modo più generale possibile (…)». Parte della giurisprudenza europea inibisce dilatazioni all’orbita di norme di esenzione, sulla base di un inquadramento del principio di neutralità quale «regola d’interpretazione della Direttiva IVA e non» già quale «norma di rango superiore alle disposizioni della medesima» (84). Tuttavia, la neutralità è funzionale a non addossare definitivamente l’imposta ad alcun operatore economico, senza ingiustificate discriminazioni. Da questa prospettiva, è espressione del principio generale di parità di trattamento (85), il quale è superiore alla stessa Direttiva, giacché i principi generali «rivestono rango costituzionale» («Verfassungsrang»; «constitutional status») nell’ordinamento europeo (86).
Cfr. R. de la Feria - M. Walpole, Options for Taxing Financial Supplies, cit., ivi, passim; F. Montanari, op. cit., 286; H. Grubert - R. Krever, op. cit., 203; Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), parere 30 agosto 2008, COM(2007) 747 def. - 2007/0267 (CNS) (2008/C 224/28), cit., punti 1.3 e 3.3 della motivazione. (82) Commissione, Parere 3 giugno 1964, n. 64/406/CEE, «concernente le strutture e le modalità di applicazione del sistema comune di imposta sul valore aggiunto», par. II, punto 1 e, con puntuale rif. alle esenzioni, par. VI, punto 2; C. Fusco, op. cit., 50 e sub nt. 13. (83) Commissione, Proposta della c.d. Sesta Direttiva (poi, Dir. n. 77/388/CEE) del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all’imposta sulla cifra di affari, tredicesimo considerando. (84) Così, Corte Giustizia, 2 luglio 2020, causa C-231/19, BlackRock, punto 51. (85) Altresì identificato dal caselaw europeo quale principio di non discriminazione o di eguaglianza: Corte Giustizia, 10 ottobre 2019, causa C-703/17, Krah, punto 23; Corte Giustizia, 27 ottobre 1976, causa C-130/75, Prais, punto 13. Sulla derivazione del principio di neutralità da quello di parità di trattamento, v. Corte Giustizia, 17 dicembre 2020, cause C449/19, WEG Tevesstraße, punto 48; Corte Giustizia, 29 ottobre 2009, causa C-174/08, NCC, punto 44. Il principio generale di parità di trattamento è, ora e fra l’altro, recepito dagli artt. 20 e 21 della “Carta di Nizza”. (86) Corte Giustizia, 15 ottobre 2009, causa C-101/08, Audiolux e a., punto 63; v., inoltre, Corte Giustizia, 22 giugno 2011, causa C161/11, Vino, punto 39; Corte Giustizia, 29 ottobre 2009, causa C174/08, NCC, cit., punto 42. Cfr., p. es., G. Tesauro, op. cit., 105; F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario in Av.Vv., Per una Costituzione fiscale europea, a cura di A. Di Pietro, Padova, 2008, 111 ss.;
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Per l’effetto, una norma di diritto derivato dell’Unione deve essere interpretata, nei limiti del possibile, in conformità alle disposizioni del Trattato e ai principi generali europei (87). Con specifico riguardo all’art. 135, par. 1, lett. e), il principio generale di parità di trattamento inibisce di sottoporre operazioni fra loro diverse al medesimo regime di esenzione dall’IVA, senza una obiettiva giustificazione (88), che qui non è dato scorgere (89). In difetto di corso legale, le monete digitali non equivalgono a quelle tradizionali. I corollari sono, allora, evidenti. Movendo pure da una lettura teleologico-sistematica dell’art. 135, par. 1, lett. e), si giunge al medesimo risultato scaturito dall’esegesi testuale interlinguistica: l’esenzione non si applica alle operazioni di cambio con moneta digitale, a differenza di quanto concluso dalla sentenza Hedqvist. 5. Rapporto con le altre norme di esenzione per le operazioni finanziarie. – Le fattispecie oggetto di analisi non risultano, parimenti, sussumibili ad altre norme di esenzione per le operazioni finanziarie. La questione ha toccato l’art. 135, par. 1, lett. f), relativo alle «operazioni, compresa la negoziazione, ma eccettuate la custodia e la gestione, relative ad azioni, quote parti di società o associazioni, obbligazioni e altri titoli, ad esclusione dei titoli rappresentativi di merci e dei diritti o titoli di cui all’articolo 15, paragrafo 2», afferenti beni immobili. Qui, l’estraneità delle monete digitali alla previsione appare manifesta, anzitutto ove non costituiscano titoli partecipativi, orientati a «realizzare un’interferenza diretta o indiretta nella gestione delle imprese in cui si è realizzato
lo stesso A. Di Pietro, Il ruolo dei principi europei per un nuovo ordinamento tributario, in Aa.Vv., Per un nuovo ordinamento tributario, contributi coord. da V. Uckmar, a cura di C. Glendi - G. Corasaniti - C. Corrado Oliva - P. de’ Capitani di Vimercate, Milano, 2019, I, 517 ss. (87) Corte Giustizia, 27 gennaio 1994, causa C-98/91, Herbrink, punto 9; v. anche Corte Giustizia, 19 dicembre 2012, Orfey, causa C-549/11, punto 32; Corte Giustizia, 10 luglio 2008, causa C-413/06, Bertelsmann e a., punto 174. (88) V. Corte Giustizia, 19 dicembre 2018, causa C-51/18, Commissione c. Repubblica d’Austria, punto 55, quanto alla neutralità dell’IVA; Corte Giustizia, 19 luglio 2012, causa C-250/11, LG, cit., punti 44-45; Corte Giustizia, 13 dicembre 1984, causa C-106/83, Sermide e a., punto 28. (89) Similiter anche T. Ehrke-Rabel – L. Zechner, op. cit., 510.
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l’acquisto di partecipazioni, o quando costituiscono il prolungamento diretto, permanente e necessario dell’attività imponibile» (90). Inoltre, non sono qualificabili come «obbligazioni», giacché non risultano ex se rappresentative di debiti né costituiscono «altri titoli», assimilabili a quelli partecipativi od obbligazionari (91), ove si presentino quali strumenti e oggetto di operazioni di cambio o pagamento. Desta maggiori incertezze l’art. 135, par. 1, lett. d). La regola esenta «le operazioni, compresa la negoziazione, relative ai depositi di fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali, ad eccezione del ricupero dei crediti». Prima della sentenza Hedqvist, l’interpretazione espressa dall’amministrazione fiscale spagnola e da parte della dottrina era nel senso dell’applicabilità della norma alle operazioni coinvolgenti il bitcoin, giacché rientrerebbe fra gli «altri effetti commerciali» (92). La stessa pronuncia europea ha escluso che la criptomoneta possa ritenersi un «effetto commerciale»: non è un titolo che rappresenti e comporti un trasferimento di valuta in via indiretta, com’è un assegno, ad esempio (93). Invero, il tema si potrebbe sollevare in termini più pertinenti, alla luce del richiamo normativo alle «operazioni (…) relative (…) ai pagamenti». Tuttavia, sul punto, appare preferibile ritenere che la previsione non riguardi direttamente i «pagamenti» (e, dunque, la moneta tout court), quanto, appunto, le «operazioni (…) relative (…) ai pagamenti». Allora, pure in tale ipotesi, la norma investe rapporti, titoli indirettamente implicanti una disponibilità (e un possibile trasferimento) della moneta, nella propria legale idoneità all’adempimento (e all’estinzione) delle obbligazioni pecuniarie, di cui le criptomonete sono prive, di regola (94).
(90) V., p. es., Corte Giustizia, 29 ottobre 2009, causa C-29/08, SKF, punto 51. (91) Corte Giustizia, 12 giugno 2014, causa C-461/12, Granton Advertising, punto 27. Per l’inapplicabilità dell’art. 135, par. 1, lett. f) alle criptomonete, v. proprio la sent. Hedqvist, cit., punti 54 ss.; contra, S. Capaccioli, VAT & bitcoin, cit., ivi, 362. (92) Dirección General de Tributos, Consultas vinculantes 30 marzo 2015, V102915; 1° ottobre 2015, V2846-15, par. 2, quest’ultima relativa al cambio di bitcoin con euro; la posizione è stata superata, in termini adesivi alla sent. Hedqvist, da Dirección General de Tributos, Consultas vinculantes, 18 giugno 2018, V1748-18, cit., parr. 3 ss. Accenna al primo dei citt. precc. M.d.C. Pastor Sempere, op. cit., 301, ult. periodo. (93) Sent. Hedqvist, cit., punto 40. (94) Cfr. F. Cannas, op. cit., 83.
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A questo proposito, peraltro, la sentenza Hedqvist ha recepito le conclusioni dell’avvocato generale il quale aveva sostenuto che la norma riguarderebbe «solo i derivati di valute (…), ma non la valuta in quanto tale», la quale sarebbe invece oggetto del solo art. 135, par. 1, lett. e) (95). Le criptomonete non sono affatto «derivati di valute» e, pertanto, titoli e contratti radicati su un valore “sottostante” espresso in monete tradizionali (96), quanto, in sé, «mezzi di rappresentazione digitale di valore», come li qualifica la nuova proposta regolamentare europea di settore (97). 6. La morfologia delle fattispecie (imponibili). – L’art. 14, par. 1 della Direttiva qualifica la «cessione di beni», come «il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario». Ai sensi dell’art. 24, par. 1, «si considera ‘prestazione di servizi’ ogni operazione che non costituisce una cessione di beni», con una definizione residuale, ritagliata “in negativo” sulla precedente (98). Allora, nel sistema europeo dell’IVA, qualsiasi operazione rilevante, che non riguardi «beni materiali», costituisce «prestazioni di servizi», siccome non sussumibile fra le «cessioni di beni». Le criptomonete si risolvono nella espressione di una stringa informatica alfanumerica (99), come tale, del tutto priva di corporeità.
(95) V. sent. Hedqvist, punti 38 ss., in rapporto ai punti 51-52 delle citt. conclusioni dell’avvocato generale nonché Corte Giustizia, 12 giugno 2014, causa C-461/12, Granton Advertising, punti 35 ss., spec. 37, ove fa leva sulla natura di fattispecie implicanti trasferimento di denaro (e, dunque, non il trasferimento in denaro in sé); da ultimo, Corte Giustizia, 17 dicembre 2020, causa C-801/19, Franck, punto 41-42, in rif. alle cambiali; contra, la cit. Dirección General de Tributos, Consulta vinculante 30 marzo 2015, V1029-15, ma prima della sent. Hedqvist. Sul punto, di nuovo, M.d.C. Pastor Sempere, op. cit., 304; in senso critico verso un inquadramento nell’alveo dell’art. 135, par. 1, lett. d), anche A.M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, 388. (96) Fra i «derivati di valute», le citt. conclusioni dell’avvocato J. Kokott annoverano «i crediti e gli assegni, nonché altri ‘effetti’» (punto 51). (97) In tale disciplina, neppure le stablecoins calibrate su una moneta tradizionale costituiscono «derivati di valute», quanto, piuttosto, «moneta elettronica» recta via, alla stregua della futura disciplina sovranazionale di riferimento. V. supra par. 3. (98) Non a caso, la portata residuale della previsione rispecchia quella primaria, enunciativa della libertà di circolazione dei servizi in rapporto a quella delle merci nel diritto primario: v. art. 57, par. 1 TFUE. Valorizza tale simmetria C. Trenta, Bitcoin e valute virtuali, cit., ivi, 954. (99) V. par. 1.
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Pertanto, non possono essere considerate alla stregua di «beni materiali», ai quali, esclusivamente, si riferisce la definizione normativa europea della «cessione di beni» (100). Piuttosto, le criptomonete sono “beni digitali” (“digital commodities”) (101) o “crypto-assets”, “intangible-assets”, secondo la definizione invalsa nella dimensione internazionale ed europea (102). Ne deriva che i trasferimenti di monete digitali (in cambio di altre monete o di beni e/o servizi) costituiscono prestazione di servizi, giacché non ascrivibili alle cessioni di «beni materiali» (103). Inoltre, sono da ritenersi imponibili (104), stante la inapplicabilità delle esenzioni dell’art. 135 (105). Da quest’ultimo crinale di analisi, un dato non può essere trascurato.
(100) V. anche la sent. Hedqvist, cit., punti 24 e 26, movendo tuttavia dalla premessa che il bitcoin in operazioni di cambio avrebbe natura di mezzo di pagamento. In ordine ai “beni” nella disciplina dell’IVA e sulla morfologia delle criptomonete, R. Scalia, op. cit., 18 ss. (101) Cfr. Dirección General de Tributos, Consultas vinculantes, 18 aprile 2018, V099918; 8 maggio 2018, V1149-18 e 20 maggio 2019, V1069-19. F. Cannas, op. cit., spec. 80 ss. (102) Par. 3.1. (103) Nello stesso senso, anche A. M. Bal, Taxation of virtual currency, cit., 238; F. Cannas, op. cit., passim, il quale auspica, ma in una prospettiva de jure condendo, una riqualificazione da prestazione di servizi a una nuova categoria di cessione di “beni digitali” («digital goods»), attualmente inesistente; in termini critici sulla tradizionale distinzione fra «beni» e «servizi» ai fini IVA, in rif. ai beni immateriali e alle c.d. new properties, R. Scalia, op. cit., 23; circa la natura di beni immateriali delle monete digitali, v. incidenter anche L. Salvini, op. cit., 170. Talvolta, in part. per le “universal virtual currencies” (v. supra, par. 1), il portafoglio elettronico di criptomonete non “vive” sul web, ma è recepito all’interno di un supporto fisico (“hardware wallet”), costituito da una chiavetta USB. Pertanto, il “datore” di moneta digitale potrebbe obbligarsi a consegnarle con tali modalità, per contenere l’esposizione del beneficiario a possibili frodi informatiche via internet. In tal caso, ci troveremmo al cospetto di una c.d. operazione “mista”: così P. Filippi, I profili oggettivi del presupposto IVA, in Dir. prat. trib., 2009, I, 1216. Difatti, il dante causa sarebbe tenuto a una cessione di un bene materiale, di valore economico relativamente modesto, strumentale al mero trasferimento del denaro elettronico. La penna USB realizza le condizioni per disporre della moneta virtuale, con il corollario della sussunzione della fattispecie pur sempre fra le prestazioni di servizi, alla luce del principio di accessorietà che trova riscontro in svariate disposizioni della Dir. 2006/112/CE (cfr., p. es., artt. 78, parr. 1, lett. b) e 2; 86, par. 1, lett. b) e 144; 312) e in giurisprudenza (v. Corte Giustizia, 25 marzo 2021, causa C-907/19, Q, punti 20-21; Corte Giustizia, 2 luglio 2020, cause C-215/19, A Oy nonché C-231/19, BFMI, in ambedue i casi al punto 29). (104) Così, con rif. all’acquisto di beni e servizi con criptomonete, v. le citt. conclusioni dell’avvocato generale J. Kokott nella causa Hedqvist, punto 27; contra, prima della cit. sent., R. Wolf, op. cit., 255, sulla base di una equiparazione fra moneta virtuale e denaro. (105) V. parr. precc. del presente contributo.
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La sentenza Hedqvist ha portata vincolante nell’esegesi dell’art. 135, par. 1, lett. e) (106), in termini accostabili al valore cogente del precedente giurisprudenziale negli ordinamenti di common law (107). Ne deriva l’approdo, qui contestato, della esenzione delle operazioni di cambio tra monete digitali sia con quelle tradizionali (“crypto-to-fiat”) sia con altre tipologie di monete virtuali (“crypto-to-crypto”: ad esempio, bitcoin con ether), ove connotate dalla funzione di «mezzi di pagamento» (108). Vi è di più. L’assimilazione funzionale, prefigurata dalla sentenza Hedqvist, dovrebbe comportare l’estraneità al sistema dell’IVA di un trasferimento non solo di valuta tradizionale, ma pure di criptomoneta con funzione di pagamento (109). Sennonché, la stessa premessa non risulta condivisibile, stante la descritta, strutturale eterogeneità della moneta digitale rispetto a quella avente corso legale, cui esclusivamente si riferisce la norma di esenzione. Solo in limitate ipotesi, l’accostamento alle valute tradizionali appare pertinente. Si pensi, ad esempio, alle stablecoins radicate su un’unica moneta (“emoney tokens”), oggetto del nuovo “Digital Finance Package” (110) o a fu-
(106) V., p. es., Corte Giustizia, 7 agosto 2018, causa C-300/17, Hochtief, punto 55; Corte Giustizia, 3 ottobre 2002, causa C-347/00, Barreira Pérez, punto 44; Corte Giustizia, 27 marzo 1980, causa C-61/79, Denkavit Italiana, spec. punto 16. (107) Cfr., e multis, E. Calzolaio, Il valore di precedente delle sentenze della Corte di giustizia, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 55. (108) Per tale conclusione, J. Kollmann, op. cit., 166. A favore della applicabilità dell’esenzione pure alle operazioni “crypto-to-crypto”, v. T. Ehrke-Rabel – L. Zechner, op. cit., 509, ove ambedue le monete digitali abbiano una funzione di mezzi di pagamento (e seppur nella cornice di una critica alla sent. Hedqvist). (109) V. Commissione, Value Added Tax Commitee, 4 febbraio 2016, Working paper n. 892, cit., 8, primo periodo, pur contestando la sentenza (v. anche ivi, p. 21, prima riga della tabella) e J. Kollmann, op. cit., 166. Accennano alla questione anche A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 27 e, in termini critici, 34 ss., con rif. alla prassi amministrativa italiana ricettiva di una impostazione affine. Proprio sulla base della pronuncia europea, alla equiparazione con il denaro tradizionale, si è approdati anche in Germania (Bundesministerium der Finanzen - “BMF” -, v. 27 febbraio 2018 - III C 3 - S 7160-b/13/10001. Umsatzsteuerliche Behandlung von Bitcoin und anderen sog. virtuellen Währungen; EuGH-Urteil vom 22. Oktober 2015, C-264/14, Hedqvist, par. II, primo periodo), nel Regno Unito (Her Majesty’s Revenue and Customs, Cryptoassets: tax for businesses. Policy paper, aggiornato al 20 dicembre 2019) e in Svizzera (Pubblicazioni della prassi. Info IVA n. 04, Oggetto dell’imposta, par. 2.7.3.3., prima ipotesi, aggiornato al 18 novembre 2020), riflessi di una tendenza globale (OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 32 e 37). (110) Par. 3.
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ture “valute digitali della banca centrale” (“central bank digital currencies”: “CBDCs”), coesistenti con la moneta tradizionale (111). Piuttosto, l’erroneità dei fondamenti ermeneutici, sui quali la Hedqvist doctrine ritiene di radicarsi (112), sollecita l’auspicio di un overruling, non affatto estraneo alla storia del caselaw della Corte di giustizia (113). L’auspicato superamento di simile giurisprudenza dovrebbe condurre a chiari risultati. Una operazione di cambio fra moneta digitale e tradizionale (“crypto-tofiat”) è una prestazione di servizi (il trasferimento di criptomonete, appunto), certamente imponibile, remunerata dal corrispettivo di quella tradizionale. Sia il cambio fra diverse tipologie di moneta digitale (“crypto-to-crypto”) sia i pagamenti con essa di beni o servizi (“cryptocurrency payments”) sono operazioni permutative imponibili (114). Difatti, ci troviamo al cospetto di due fattispecie: il trasferimento di moneta virtuale verso, rispettivamente, (il trasferimento di) altra e diversa moneta virtuale ovvero una cessione di beni o prestazione di servizi rilevanti per l’IVA, se poste in essere da soggetti passivi (115). In ambedue le ipotesi, una operazione costituisce reciprocamente il corrispettivo dell’altra (116).
(111) Una moneta digitale di Stato aiuterebbe a fronteggiare l’instabilità e le derive patologiche nella diffusione di criptomonete nel sistema finanziario: v. supra par. 1 e nt. 2. Sulle CBDCs, OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 47 ss.; L. Scarcella, The Implications of Adopting a European Central Bank Digital Currency: A Tax Policy Perspective, in EC Tax Review, 2021, 177 ss. (112) V. supra parr. precc. (113) Sul tema, anche per ulteriori richiami, E. Calzolaio, op. cit., 55 ss. (114) Commissione, Value Added Tax Commitee, 4 febbraio 2016, Working paper n. 892, cit., 7. (115) In questa prospettiva, è possibile che una abituale remunerazione di beni o servizi, mediante il trasferimento di criptomonete, consenta di ravvisare una «attività economica» ex art. 9, par. 1 della Direttiva e, così, di qualificare il trasferente come soggetto passivo del tributo. (116) Equiparano la fattispecie a un “baratto” («barter»), A. M. Bal, p. es. in Taxing Virtual Currency, cit., ivi, passim; M. Kothari, op. cit., 382-383; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., 35; F. Cannas, op. cit., passim, p. es. 83, il quale, nondimeno, solleva perplessità in ordine alla corrispondenza fra acquisto di criptomonete (bitcoins) e un consumo, ma poi prende atto della difficoltà a sostenere che l’accostamento alle operazioni permutative non sia in linea con il regime vigente (v. 84); contra, J. Kollmann, op. cit., 166, che muove dall’erronea equiparazione dei pagamenti in criptomonete a quelli con valute tradizionali (sul punto, v. supra, passim). Fra i civilisti, evoca la figura della permuta (art. 1552 c.c.), D. Fauceglia, op. cit., 671. V., inoltre, la prassi amministrativa canadese (https://www.canada.ca/en/revenue-
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A propria volta, la qualificazione delle operazioni quali imponibili e permutative (117) dà adito ad alcune questioni di non lieve momento, che passiamo ad analizzare. 7. «Fatto generatore» ed «esigibilità dell’imposta». – Le fattispecie in esame assumono rilievo giuridico secondo le disposizioni della Direttiva. Così, l’art. 62 guarda al «fatto generatore», all’avverarsi del quale matura altresì l’«esigibilità dell’imposta» ossia «il diritto che l’Erario può far valere a norma di legge, a partire da un dato momento, presso il debitore per il pagamento dell’imposta, anche se il pagamento può essere differito» (118). Il testo italiano dell’art. 63 della Direttiva correla «fatto generatore» ed «esigibilità» al «momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi», in termini assonanti con la versione francese (119). Dalla prospettiva europea, dunque, è la «effettuazione» delle operazioni che rileva quale momento genetico dell’obbligazione tributaria e di attualità della pretesa al suo adempimento da parte dell’amministrazione nazionale (120).
agency/news/newsroom/fact-sheets/fact-sheets-2013/what-you-should-know-about-digitalcurrency.html?utm_source=mediaroom&utm_medium=eml), ricordata da S. Capaccioli, p. es. in Introduzione al trattamento tributario, cit., ivi, 45 e quella spagnola, ancorché ai fini dell’imposizione reddituale (Consultas vinculantes 18 aprile 2018, V0999-18 e 8 maggio 2018, V1149-18, citt.). In generale, sul regime europeo IVA della permuta, v., p.es., G. Beretta, European VAT and the Sharing Economy, Alphen aan den Rijn, 2019, 131 ss.; in giurisprudenza, fra le più recenti, Corte Giustizia, 16 settembre 2020, causa C-528/19, Mitteldeutsche HartsteinIndustrie, punti 43-45; Corte Giustizia, 11 marzo 2020, causa C-94/19, San Domenico Vetraria, punto 26. (117) Effetto dell’inquadramento fra le operazioni permutative imponibili consiste, fra l’altro, nel consentire ai soggetti passivi di detrarre l’IVA per l’operazione a monte. Dalla prospettiva italiana, questa sarebbe la ratio della disciplina, secondo la relazione al d.P.R. n. 633/1972 (v. anche Cass., 13 febbraio 2002, n. 2057, punto 3.1., reperibile, come le ulteriori pronunce italiane citt. di seguito, in www.leggiditaliaprofessionale.it). Lo ricordano, p. es., M. Ingrosso, voce Permuta II) diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, XXIII, Roma, 1990, 2; A. Vozza, Le operazioni permutative e le dazioni di pagamento, in Giur. sist. dir. trib., dir. da F. Tesauro, Torino, 2001, 271 e 277; S. Cannizzaro, Permuta, operazioni permutative e datio in solutum, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 318. (118) Per una recente, lucida analisi di tali profili, v. G. Fransoni, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2019, 33 ss. (119) «au moment où la livraison de biens ou la prestation de services est effectuée». (120) V. Corte Giustizia, 19 dicembre 2012, Orfey, causa C-549/11, cit., punto 27.
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Alla luce del regime europeo dell’IVA, la trasmissione del denaro virtuale costituisce «effettuazione» della relativa operazione e, pertanto, momento genetico e di esigibilità dell’imposta da parte del fisco (121). Invero, l’art. 66, par. 1 della Direttiva ammette alcune possibilità di deroga per gli ordinamenti domestici, fra le quali si ricordano quelle di proiettare la «esigibilità» del tributo «non oltre il momento di emissione della fattura» e/o «non oltre il momento dell’incasso del prezzo» (122). Stati come la Francia e l’Italia hanno esercitato tale opzione (123), con l’avallo della Corte di giustizia (124). Allora, per legislazioni, quali quelle francese e italiana, l’esigibilità deve evidentemente riferirsi all’esecuzione della prima operazione, siccome momento di perfezionamento di essa e, al contempo, «momento di incasso del prezzo» in natura rispetto all’altra, in riferimento alle operazioni permutative (125). Inoltre, simili questioni si collegano a un ulteriore, delicatissimo tema. Alla luce dell’art. 25 del reg. 282/2011 di esecuzione della Direttiva, le circostanze esistenti al momento del «fatto generatore» dell’imposta incidono altresì ai fini delle norme in materia di individuazione del luogo della prestazione, che ci accingiamo a considerare.
(121) Tale prestazione potrebbe atteggiarsi quale «pagamento di acconto», «anteriore alla cessione di beni o alla prestazione di servizi» che remunera. Così, «l’imposta» diverrebbe «esigibile al momento dell’incasso, a concorrenza dell’importo incassato» (art. 65 della Dir. 2006/112/CE): G. Fransoni, op. cit., 109, con rif. all’ipotesi di prestazione di servizi contro prestazione di servizi; cfr. la sent. Orfey, ult. cit., punto 36. (122) Art. 66, par. 1, lett. a) e b) della Dir. 2006/112/CE cit. (123) Cfr., rispettivamente, gli artt. 269, spec. par. 2, lett. c) del Code général des impôts francese e 6, comma 3, prima statuizione del d.P.R. n. 633/1972 italiano. (124) In rif. all’ordinamento italiano, v. Corte Giustizia, 26 ottobre 1995, causa C-144/94, Italittica; cfr. G. Fransoni, op. cit., 104 ss. Nella Dir. 2006/112/CE, l’affrancamento del «fatto generatore» dal pagamento del corrispettivo trae conferma dall’art. 90, ove «prevede che la mancata riscossione del corrispettivo in conseguenza dell’inadempimento o della risoluzione del contratto, verificatisi successivamente all’effettuazione dell’operazione, non elimina l’obbligazione tributaria (ma incide esclusivamente sulla determinazione della base imponibile)»: Cass., SS. UU., 21 aprile 2016, n. 8059, sub 3.3.1., 3.4. ss.; di recente, Cass., 24 novembre 2020, n. 26650, sub 3.5. (125) V. la cit. sent. Orfey, causa C-549/11, punto 36 e le generali considerazioni di P. Boria, voce Permuta nel diritto tributario, in Dig. disc. priv. sez. comm., XI, Torino, 1995, 43; A. Comelli, IVA comunitaria e IVA nazionale: contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 594-595 et ivi, nt. 589; G. Fransoni, op. cit., 109 e 207 ss.; S. Cannizzaro, op. cit., 308 ss.; A. Vozza, op. cit., 275 e 277, per la fattispecie di datio in solutum.
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8. La localizzazione delle operazioni. Profili di rilevanza. – L’identificazione dello Stato di perfezionamento delle operazioni costituisce snodo fondamentale per individuare la disciplina ad esse applicabile (126), in ordine a svariati profili. In primo luogo, è imprescindibile per comprendere se l’operazione rientri o meno sotto l’egida della Direttiva, la quale, di regola, non riguarda le prestazioni di servizi, rese all’esterno dell’Unione europea (127). In secondo luogo, a fronte di operazioni imponibili, la localizzazione rileva per individuare l’aliquota applicabile, corrispondente a quella stabilita dalla legislazione dello Stato di perfezionamento. Inoltre, l’art. 196 prevede un regime di inversione contabile (“reverse charge”), con l’ascrivibilità dell’imposta al soggetto passivo europeo, destinatario della prestazione eseguita da un altro operatore economico (“business to business”: “B2B”), stabilito in un diverso Stato membro (128). La localizzazione assume, altresì, rilievo onde appurare l’operatività degli artt. 358 e seguenti della Direttiva, originariamente dedicati alle prestazioni transnazionali di servizi di telecomunicazione, teleradiodiffusione ed elettronici, a consumatori nell’Unione (“business to consumer”: “B2C”) (129). Si tratta della disciplina del c.d. “Mini One Stop Shop” (“MOSS”), la quale, nella cornice del “VAT e-commerce package”, è confluita in quella del c.d.
(126) Per alcuni profili, in rif. alle criptomonete, A. M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, 387. (127) L’art. 2, par. 1, lett. c) della Dir. 2006/112/CE assoggetta all’imposta «le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale». Rimane salva l’ipotesi, prevista dall’art. 59-bis, lett. b), in cui i legislatori dei Paesi dell’Unione si siano avvalsi della possibilità di considerare il luogo delle prestazioni, pur extra-europeo, come se fosse situato all’interno del loro territorio, ove corrisponda a quello di effettiva utilizzazione e fruizione del servizio: cfr. Commissione UE, Explanatory notes on the EU VAT changes to the place of supply of telecommunications, broadcasting and electronic services that enter into force in 2015. (Council Implementing Regulation (EU) No 1042/2013), 3 aprile 2014, 49, par. 5.5.2. Per tale criterio, v. anche il settimo considerando dello stesso reg. U.E. 1042/2013, che ha novellato il reg. U.E. 282/2011 di esecuzione alla Dir. 2006/112/CE, per quanto riguarda il luogo delle prestazioni di servizi, in rif. all’ipotesi di «una persona che non è soggetto passivo» ed «è stabilita in più di un Paese oppure ha il suo indirizzo permanente in un Paese e la sua residenza abituale in un altro» (v. Explanatory notes, citt., 52, ult. periodo). (128) L’art. 43, n. 2) della Dir. 2006/112/CE estende il regime alle prestazioni rivolte a persona giuridica, da identificare ai fini dell’IVA ed equiparata, a questi fini, a un soggetto passivo. (129) Per i riff. originari v. artt. 358 ss. della Dir. 2006/112/CE, nel testo inserito dall’art. 5 della Dir. 2008/8/CE, dedicata al «luogo delle prestazioni di servizi».
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“One Stop Shop” (“OSS”) dal 1° luglio 2021, che ne ha esteso l’operatività, fra l’altro, a tutte le prestazioni di servizi cross-border a consumatori, rese nel mercato unico (130). In particolare, i soggetti passivi, stabiliti o meno nell’Unione europea, possono identificarsi presso un solo Stato di essa, eletto per adempiere gli obblighi tributari, generati dalle (o, lato sensu, riferiti alle) operazioni perfezionate in differenti Paesi membri (131). 8.1. Le disposizioni generali della Direttiva. La problematica identificazione del destinatario e del luogo di perfezionamento. – Per le varie finalità, testé delineate, soccorre il criterio di collegamento del luogo di destinazione della prestazione (“destination principle”), in recepimento di consolidate indicazioni delle istituzioni europee e internazionali (132). Per il (servizio di) trasferimento “B2B” di criptomonete, rileva il generale disposto dell’art. 44 della Direttiva. La norma colloca la fattispecie presso lo Stato del beneficiario, in specie presso «la sede della (…) attività economica» o, se da essa diverso, il «luogo
(130) V. l’attuale testo degli artt. 358 ss. della Dir. 2006/112/CE. Il c.d. “VAT e-commerce package” comprende la Dir. 2017/2455/UE, in relazione a «taluni obblighi (…) per le prestazioni di servizi e le vendite a distanza di beni»; il reg. U.E. 2017/2454 e il reg. U.E. di esecuzione 2017/2459. Per l’attuazione del “pacchetto”, sono state emanate la Dir. 2019/1995/UE e il reg. U.E. di esecuzione 2019/2026, che ha apportato ulteriori modifiche al reg. U.E. 282 cit. Al reg. U.E. 904/2010 sulla cooperazione amministrativa e alla lotta contro le frodi in materia di IVA, ha fatto seguito il reg. U.E. di esecuzione 2020/194. (131) Oltre che a tutte le prestazioni di servizi, il c.d. “OSS” ha dilatato il regime alle vendite a distanza di beni spediti all’interno dell’Unione, alle cessioni di beni all’interno di uno Stato membro, effettuate mediante interfacce elettroniche che facilitano tali cessioni. A tale disciplina, il legislatore europeo ha altresì accostato il c.d. “IOSS” (“Import One Stop Shop”) riguardo alle vendite di beni importati da Paesi terzi mediante spedizioni, purché di valore non superiore a centocinquanta euro. Cfr. spec. artt. 369-bis ss. e 369-terdecies ss. della Dir. 2006/112/CE. L’intera normativa è entrata a pieno regime, solo il 1° luglio 2021, alla luce delle restrizioni per il contrasto alla pandemia da coronavirus: v. la Decisione U.E. 2020/1109; il reg. U.E. 2020/1108; i regg. U.E. di esecuzione nn. 2020/1112 e 2020/1318. Sul tema, amplius, v. Commissione, Explanatory Notes on VAT e-commerce rules Council Directive (EU) 2017/2455 Council Directive (EU) 2019/1995 Council Implementing Regulation (EU) 2019/2026, 30 settembre 2020, 32 ss. Nelle ulteriori parti del contributo, i richiami alle Explanatory Notes devono intendersi a quelle del 2014, citt. a nt. 127. (132) In part., con rif. alle operazioni “B2C”, si addita la soluzione per contrastare ipotesi di doppia imposizione o di involontaria doppia non imposizione nelle operazioni cross-border: OECD, Base Erosion and Profit Shifting Project. Addressing the Tax Challenges, cit., 126, par. 8.2.2., sub n. 335, cit. da C. Trenta, European VAT and the digital economy: recent developments, in eJournal of Tax Research, 2019, 120 ss.; v. pure F. Cannas, op. cit., 72 ss.
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in cui è situata la stabile organizzazione» e, in ultima istanza, presso «il luogo dell’indirizzo permanente o della residenza abituale». Riguardo ai trasferimenti “B2C”, l’art. 58, par. 1 della Direttiva individua il criterio di collegamento nel «luogo in cui la persona» beneficiaria «è stabilita oppure ha l’indirizzo permanente o la residenza abituale», riguardo, tra l’altro, ai «servizi forniti per via elettronica» (133). I criteri di collegamento sono pressoché analoghi a quelli generali dell’art. 44 della Direttiva. L’applicabilità dell’art. 58, anziché dell’art. 44, incide sulle modalità di loro riscontro istruttorio, come avremo modo di appurare (134). In simile prospettiva, occorre fin d’ora interrogarsi se le rilevanti ipotesi della circolazione criptomonetaria via internet siano o meno riconducibili fra i ricordati «servizi forniti per via elettronica» dell’art. 58 (135). Il par. 1, lett. c) della norma rinvia «all’allegato II», il quale reca un «Elenco indicativo», come precisa la sua intitolazione e, dunque, non affatto esauriente in thesi (136). Con una singolare e discutibile “inversione di piani” sul piano sistematico, la generale definizione dei «servizi forniti per via elettronica» va rintracciata (non nella Direttiva, ma) in seno al reg. U.E. 282/2011 di esecuzione. L’art. 7, par. 1 del regolamento identifica i «servizi prestati tramite mezzi elettronici» in quelli «forniti attraverso Internet o una rete elettronica e la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un in-
(133) V. par. prec. Sulla prima formulazione della disciplina, cfr. P. Tarigo, Intermediazioni, servizi prestati tramite mezzi elettronici e criteri di collegamento IVA, in Rass. trib., 2016, 343 ss., spec. 348 ss.; M. G. Ortoleva, La territorialità delle prestazioni di servizi fra esigenze di semplificazione e neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib. internaz., 2020, 1519 ss. (134) V. parr. ss. (135) Di certo, l’art. 58 non si applicherebbe ove la datio di moneta digitale fosse veicolata tramite un “hardware wallet” e, pertanto, un supporto fisico, come una chiavetta USB (v. retro nt. 103), consegnata o spedita a un destinatario e a una destinazione identificabili. In simile ipotesi, non ci troveremmo al cospetto di «servizi forniti attraverso Internet o una rete elettronica», ex art. 7, par. 3, lett. d) del reg. U.E. di esecuzione n. 282/2011 e l’ipotesi sarebbe ascrivibile alla generale previsione dell’art. 44 della Dir. 2006/112/CE, supra menzionato. (136) Così dispone la norma, come modificata dall’art. 5, n. 16 della Dir. 2008/8/CE cit. L’elenco esemplificativo comprende la fornitura di: «1) (…) siti web e web-hosting, gestione a distanza di programmi e attrezzature; 2) (…) software e relativo aggiornamento; 3) (…) immagini, testi e informazioni e messa a disposizione di basi di dati; 4) (…) musica, film, giochi, compresi i giochi di sorte o d’azzardo, programmi o manifestazioni politici, culturali, artistici, sportivi, scientifici o di intrattenimento; 5) (…) prestazioni di insegnamento a distanza».
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tervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell’informazione». Il legislatore europeo ricorre a formule molto elastiche, che, come tali, si aprono a margini di opinabilità. Da un lato, per il trasferimento di criptomonete via internet, non sembrerebbe così immediato considerare l’«intervento umano» quale «minimo», giacché l’operazione attraversa, fra l’altro, l’indispensabile validazione dei “miners” (137). D’altro canto, la «essenziale automatizzazione», cui allude la norma, si riferisce a una «ampia automatizzazione», come ben descrive la versione francese della regola (138). Proprio perché si tratta di una «automatizzazione larga», «ampia» e non «totale», la norma non esclude affatto la rilevanza di un «intervento umano», seppur non eccedente il «minimo» (139), da intendersi come «non ampio» in rapporto alla «automatizzazione» telematica (140). Pertanto, appare plausibile concludere che la trasmissione informatica di moneta digitale possa qualificarsi come «essenzialmente automatizzata» (141) e, dunque, inquadrabile fra i «servizi prestati tramite mezzi elettronici». Da questo angolo di visuale, risulterebbe sussumibile all’art. 7, par. 2, lett. c) del reg. U.E. 282/2011, ove comprende, fra i servizi in esame, quelli «automaticamente generati da un computer attraverso Internet o una rete elettronica, in risposta a dati specifici immessi dal destinatario» (142).
(137) V. retro, par. 1. (138) «prestation largement automatisée». (139) Cfr. M. Weidmann, The New EU VAT Rules on the Place of Supply of B2C E-Services: Practical Consequences. The German Example, in EC Tax Review, 2015, 105 ss., spec. par. 2.2.2. (140) Da simili coordinate, appare plausibile escludere l’applicazione della disciplina per i webinars, la didattica a distanza, i servizi di riparazione on line, nei quali il ruolo dell’«intervento umano» assume un’intensità tale da “personalizzare” significativamente il contenuto della prestazione di servizi. Una relazione o una lezione a distanza non sono, evidentemente, identiche se rese da un soggetto o da un altro: M. Lamensch, The Treatment of ‘Digital Products’ and Other ‘E-Services’ under VAT, in Aa.Vv., VAT/GST in a Global Digital Economy, a cura di M. Lang - I. Lejeune, Alphen aan den Rijn, 2015, 17. Così non può dirsi, ad es., per il “mining” di criptomonete: l’oggettivo contenuto della validazione della trasmissione è esattamente il medesimo, a prescindere dall’identità del “miner”. (141) A.M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, 386, par. 5.2.; T. Ehrke-Rabel – L. Zechner, op. cit., passim. (142) L’importanza della telematica e della “meccanizzazione” nel processo circolatorio, poi, risulta più accentuata per le criptomonete acquistate mediante uno “sportello automatico”
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I criteri di collegamento disegnati dagli artt. 44 e 58, par. 1 della Direttiva postulano la identificazione del beneficiario del servizio oltreché la localizzazione fisica del medesimo. Tuttavia, le operazioni di trasferimento di monete digitali via internet, sono di solito caratterizzate dalla istantaneità, dalla deformalizzazione (143) e, soprattutto, dalla pseudonimia degli utenti. Dalle piattaforme, di regola, l’unico dato obiettivo e incontrovertibile che si può cogliere è un codice alfanumerico cui si correla il recapito internet mediante il quale veicolare le criptomonete (144). Il soggetto che trasferisce moneta virtuale nulla può desumere circa l’identità e la localizzazione del destinatario (145). Simili difficoltà sollecitano l’intrapresa di ulteriori percorsi giuridici. 8.2. La disciplina del regolamento di attuazione della Direttiva. – Il reg. U.E. 282/2011 reca alcuni, importanti dati normativi. In ordine alle prestazioni di trasferimento “B2B” di criptomonete, rileva l’art. 20, par. 2, focalizzato sulle «informazioni ottenute dal destinatario». Il soggetto passivo ne «verifica l’esattezza applicando le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di
(“automated teller machine”: “ATM”), analogo a quelli installati presso gli istituti di credito per la valuta corrente. P.es., l’indirizzo potrebbe essere in formato “QR Code”, individuabile con un codice a barre bidimensionale, con moduli neri all’interno di una forma quadrata di uno schema bianco. (143) È problematica non affatto esclusiva delle operazioni con denaro virtuale, ma di quelle della digital economy in generale, le quali, sovente, si concludono tramite piattaforme, che nascono e vivono nella rete mondiale internet, affrancate in thesi da riferimenti “fisici” al territorio di uno Stato. Cfr. M. Lamensch, op. cit., 18 ss.; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., p. es., 36 e 53 e, in generale, 23-24; per una panoramica delle recenti posizioni dell’OCSE e dell’Unione, v. G. Marino, L’IVA nel contesto dell’economia digitale: eterogenesi di una imposta, in Dir. prat. trib., 2020, 47 ss. (144) A.M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, 388. (145) La difficoltà si riflette, poi, ai fini dell’applicazione di svariate disposizioni. Per quanto riguarda l’IVA, si considerino gli obblighi formali e strumentali, come quelli di fatturazione, ove il dante causa fosse soggetto passivo. Così, fra le c.d. “indicazioni obbligatorie” nelle fatture, l’art. 226, nn. 4) e 5) della Dir. 2006/112/CE prescrive quella del «numero d’identificazione IVA dell’acquirente o del destinatario (…)», ove, a propria volta, soggetto passivo del tributo, e, in ogni caso, «il nome e l’indirizzo completo del soggetto passivo e dell’acquirente o del destinatario». In ambito extra-tributaristico, v., p. es., artt. 10 ss. e, spec., l’art. 13 della Dir. 2015/849/UE cit. in tema di obblighi identificativi della controparte, ai fini del contrasto al riciclaggio.
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pagamento. Le informazioni possono comprendere il numero di identificazione IVA» del destinatario. Il richiamo alle «normali procedure di sicurezza commerciali» implica l’esperimento di approfondimenti (146). Allo scopo, assume peculiare importanza la disciplina delle «Presunzioni in materia di luogo di stabilimento del destinatario», applicabile anche per le prestazioni “B2C” dell’art. 58 della Direttiva (147). L’art. 24-bis, par. 1 del regolamento considera l’ipotesi in cui la fruizione del servizio elettronico esiga la presenza del beneficiario in taluni luoghi determinati (una postazione Wi-Fi, un Internet café, etc.) presso i quali la disciplina presume che sia avvenuto il “consumo” della prestazione (148). Per le operazioni “B2C”, l’art. 24-ter, comma 1 del regolamento correla il luogo di stabilimento a quello di ubicazione della linea terrestre fissa del destinatario o a quello identificato dal prefisso nazionale della carta SIM dal medesimo utilizzata per la ricezione di servizi erogati attraverso reti mobili (149). In via residuale, di norma, la localizzazione può presumersi «sulla base di due (…) elementi di prova non contraddittori» («two items of non-contradictory evidence») (150).
(146) Gli approfondimenti, naturalmente, saranno maggiori nei confronti di nuovi clienti rispetto a quelli abituali, per i quali può essere sufficiente una verifica sulla attualità delle informazioni già acquisite: Explanatory notes, citt., 71, in rif. all’art. 23 del reg. U.E. n. 282/2011. (147) Artt. 24-bis ss. del reg. U.E ult. cit. (148) La norma interessa le operazioni in criptomonete tramite gli “sportelli automatici”, come i “bitcoin ATM” (v. retro nt. 142). Alla luce di tale previsione, si ritiene che lo Stato di loro collocazione fisica rappresenti quello di «effettuazione» dell’operazione: T. Ehrke-Rabel – L. Zechner, op. cit., 506. Tuttavia, nell’Unione, la norma è applicabile a un numero esiguo di operazioni e non alle più diffuse fattispecie di cambio e pagamento realizzate in piattaforme via internet. Difatti, i “bitcoin ATMs” sono ampiamente diffusi in Nord America. In Europa, lo Stato membro più importante in proposito risulta essere l’Austria, presso il quale, tuttavia, transita solo l’1,2% del mercato mondiale del settore (dato aggiornato al 17 novembre 2020: https://coinatmradar.com/charts/geo-distribution/ ). (149) Lett. a) e b). In rif., soprattutto, ai servizi di telecomunicazione, la lett. c) sancisce la presunzione di stabilimento presso il luogo di collocazione del decodificatore o dell’analogo dispositivo installato o, se questo non è noto, nel luogo in cui la scheda di ricezione è inviata al fine di essere ivi utilizzata. (150) Per tale ipotesi, l’art. 24-ter, par. 2 del reg. U.E. 282/2011 si limita a richiedere un solo elemento, purché offerto da un soggetto diverso dal prestatore e dal destinatario, qualora «il valore totale» delle «prestazioni, al netto dell’IVA, effettuate da un soggetto passivo a partire dalla sede della propria attività economica o da una stabile organizzazione situata in uno Stato membro non» superi «100.000 EUR, o il controvalore in moneta nazionale, nell’anno
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Fra tali «elementi», l’art. 24-septies comprende «l’indirizzo di fatturazione del destinatario» e «le coordinate bancarie, come l’ubicazione del conto bancario utilizzato per il pagamento o l’indirizzo di fatturazione del destinatario in possesso di tale banca» (lett. a) e c) (151). Ciò nonostante, un simile percorso normativo non conduce sempre a traguardi soddisfacenti. Nella fisiologia, gli «items of evidence» potrebbero suggerire risultati diversi. Ad esempio, «l’indirizzo di fatturazione» potrebbe orientare verso uno Stato differente da quello di «ubicazione del conto bancario» (152). Occorre ricercare possibili strumenti per dipanare simili problematiche. Si consideri l’eventualità in cui il prestatore del servizio di trasferimento di criptomonete applicasse il medesimo corrispettivo in tutto il mondo, a prescindere, dunque, dal luogo di radicamento del destinatario. Con le Explanatory Notes, la Commissione ha ritenuto che, in tal caso, lo stesso destinatario non avrebbe alcun interesse a mascherare la propria collocazione. Da qui, la Commissione è approdata alla conclusione che il recapito di fatturazione dal medesimo comunicato al prestatore potrebbe ritenersi un «indicatore abbastanza affidabile» («a quite a reliable indicator») (153). Il tentativo esegetico ventila una soluzione non sufficientemente definita («a quite a reliable indicator») e, quindi, di per sé non appagante. Inoltre, oblitera che, a parità di corrispettivo, il destinatario potrebbe simulare di essere stabilito in uno Stato anziché in un altro, per “lucrare”, ad esempio, un’aliquota più mite (154).
civile corrente e nel precedente». La norma non si applica alle prestazioni rese nell’Unione da soggetti non stabiliti e, così, appare discriminarli rispetto agli operatori economici localizzati nel mercato unico. Da questo punto di vista, la regola desta perplessità alla luce del principio di parità di trattamento (sul quale v. par. 4.5.): cfr. M. G. Ortoleva, op. cit., 1548. (151) La nozione di «two items of non-contradictory evidence» allude a due oggetti di prova, fra loro «non contraddittori», ma diversi, non affatto a un oggetto di prova, dimostrato da due o più fonti. Così, vi sarebbe un solo «item of evidence», suffragato da due fonti istruttorie, se il prestatore ritenesse di sostenere la localizzazione dell’operazione tramite il conto corrente del destinatario e una dichiarazione del medesimo, confermativa della «ubicazione del conto bancario»: Explanatory notes, citt., 71. (152) Cfr. M. G. Ortoleva, op. cit., 1545. (153) Explanatory notes, citt., 72. (154) Cfr. M. Weidmann, op. cit., spec. par. 2.3.5.
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Allora, l’attendibilità dell’indirizzo di fatturazione comunicato dal beneficiario pare maggiore nelle ipotesi in cui il medesimo non abbia alcun interesse a rappresentare una fittizia localizzazione, per contenere o eliminare gli addebiti a proprio carico (155). Piuttosto, l’ultima questione solleva un profilo, rilevante e delicato. 8.3. (Segue): criticità, possibili contestazioni e limiti agli oneri di controllo del dante causa. – Per le ragioni considerate, il soggetto passivo non è posto al riparo dal pericolo di indicazioni lacunose o mendaci da parte del destinatario (156), in relazione all’oggetto di tali «items of evidence». Per appurare la completezza e veridicità delle indicazioni ricevute, chi trasferisce le criptomonete avrebbe l’onere di indirizzare le proprie ricerche verso altri orizzonti. In proposito, l’art. 24-septies del regolamento suggerisce di guardare, fra l’altro, all’«indirizzo di protocollo Internet (IP) del dispositivo utilizzato dal destinatario o» a «qualsiasi metodo di geolocalizzazione» (lett. b). In senso lato, la norma considera altresì gli elementi che il soggetto trasferente ritenga più rilevanti nell’individuare il luogo di “consumo” (157), in linea con la risalente soluzione additata dall’OCSE in materia (158). Difatti, con una ampia previsione generale di “chiusura”, l’art. 24-septies annovera il richiamo alle «altre informazioni commerciali pertinenti» (lett. f). La Commissione le ha ravvisate, fra l’altro, nella eventuale adozione da parte del destinatario di un sistema di pagamento proprio di un solo Stato, nell’esistenza di precedenti rapporti giuridici con lo stesso soggetto, fino ad arrivare alla semplice auto-certificazione del medesimo beneficiario (159). A tanto si potrebbero aggiungere documentate informazioni assunte da terzi (160), da ricerche via internet, etc.
(155) Così, per le operazioni “B2C”, sarebbe relativamente più attendibile la indicazione, da parte del consumatore, di un luogo di destinazione del servizio in uno Stato dall’aliquota più elevata di quella dell’ordinamento del prestatore. (156) Cfr. M. Lamensch, op. cit., 21 ss. (157) Explanatory notes, citt., 72. (158) OECD, Taxation and Electronic Commerce. Implementing the Ottawa Taxation Framework Conditions, Paris, 2001, 25. (159) Explanatory notes, citt., 69-70. (160) Se mendace, il prestatore ne sarebbe responsabile: Explanatory notes, citt., 73, par. 9.5.9. La conclusione risulta condivisibile nella misura in cui il fatto integrasse gli estremi di un «uso improprio» delle presunzioni imputabile al prestatore e, dunque, implicasse una consapevolezza, da parte del medesimo, della mendacità della dichiarazione altrui: art.
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Fermo ciò, il dato di fondo da cogliere è un altro. I criteri normativi per individuare il luogo di destinazione non mirano a raggiungere una certezza assoluta, d’altronde, pressoché impossibile per i servizi elettronici (161). L’apprezzamento richiesto ai soggetti passivi si radica su elementi probabilistici (162). Non a caso, la normativa europea ragiona di «presunzioni» (163), suscettibili di essere vinte da elementi istruttori di segno opposto (164) (c.d. presunzioni relative). Di conseguenza, gli operatori rispettosi di tale disciplina «non dovrebbero essere ritenuti responsabili per l’erronea o abusiva applicazione» di essa, per fatto ascrivibile ai loro destinatari (165). Detto altrimenti, in simili ipotesi, le amministrazioni nazionali non potrebbero contestare il luogo indicato da chi trasferisce la moneta digitale, quand’anche non corrispondesse a quello effettivo (166). Ad avviso della Commissione, l’inoperatività del regime potrebbe derivare da «situazioni in cui un prestatore» applicasse «una presunzione (esclusivamente) a vantaggio del suo cliente, o (…) una presunzione basata su informa-
24-quinquies del reg. U.E. n. 282/2011, su cui v. amplius nt. 164 e, circa la consapevolezza, subito supra nel testo. (161) La conclusione si impone a fortiori per i servizi di trasferimento “B2C”, stante l’assenza di obiettivi strumenti di identificazione, quali la titolarità di una partita IVA, l’iscrizione in pubblici registri, etc. (162) M. Lamensch, op. cit., 25. (163) Così, già in generale linea di principio, anche in riferimento alle operazioni “B2B”, stante l’incipit dell’art. 24-bis, par. 1 del reg. U.E. 282/2011, che richiama sia l’art. 44 sia l’art. 58 della Dir. 2006/112/CE. (164) Il prestatore può superare le presunzioni degli artt. 24-bis e 24-ter, par. 1, lett. a-c) del reg. U.E. n. 282/2011 con l’offerta di tre «elementi di prova non contraddittori» (sempre ritraibili dall’elenco dell’art. 24-septies cit. supra) e, così, dimostrare una diversa localizzazione delle operazioni. Invece, l’erario «può confutare» tutte le presunzioni in esame (inclusa quella residuale dell’art. 24-ter, par. 1, lett. d), facendo leva anche su meri «indizi di usi impropri» delle presunzioni stesse «da parte del prestatore»: v. l’art. 24-quinquies. Per «usi impropri», altri testi ufficiali alludono a fattispecie di violazione o di abuso delle norme presuntive: così le versioni in lingua inglese («indications of misuse or abuse»), spagnola («indicios de mala utilización o abuso»), francese («indications d’abus ou de fraude»), tedesca («Hinweise auf falsche Anwendung oder Missbrauch»). (165) Explanatory notes, citt., 72. Per l’ipotesi di «usi impropri» ascrivibili al prestatore, v. nt. prec. (166) Naturalmente, rimarrebbe ferma la possibilità del riscontro di patologie dal versante del beneficiario, che lo stesso erario avrebbe l’onere di dimostrare: Explanatory notes, citt., 60.
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zioni errate da parte del suo cliente anche se sapeva o avrebbe dovuto sapere che le informazioni risultavano errate» (167). Quest’ultima soluzione riecheggia ictu oculi il celebre formante giurisprudenziale europeo sulla posizione della controparte negoziale dell’autore della violazione nelle frodi relative all’imposta in esame (168). Tuttavia, la platea degli oneri di controllo del prestatore è circoscritta dal principio generale europeo di proporzionalità, mutuato dalla dogmatica tedesca, il quale vieta ogni misura eccedente quanto necessario al perseguimento dello scopo (169) della identificazione del luogo dell’operazione. In simile prospettiva, è comunque inibita la trasformazione del soggetto passivo, in una sorta di alter ego di un funzionario fiscale (170), tra l’altro, sprovvisto degli incisivi poteri di controllo, ad appannaggio delle amministrazioni nazionali, scolpiti dalla normativa europea e domestica (171). Alla radice, le Explanatory Notes hanno sottolineato come la disciplina riveli il pregio di essere «semplice e praticabile da applicare negli affari», in
(167) Explanatory notes, citt., 72. (168) Quali immediati richiami, mutatis mutandis, v. Corte Giustizia, 12 gennaio 2006, cause C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., punto 46; Corte Giustizia, 6 luglio 2006, cause C-439/04 e C-440/04, Axel Kittel e a., punto 43; da ultimo, Corte Giustizia, 4 giugno 2020, causa C-430/19, CF, punto 43, circa la detrazione dell’IVA da parte del cessionario/ committente a fronte di illeciti del cedente/prestatore. (169) Cfr. Corte Giustizia, 3 settembre 2020, causa C-719/18, Vivendi, spec. punto 63 e, ai fini IVA, Corte Giustizia, 8 maggio 2019, EN.SA., causa C-712/17, punto 33; Corte Giustizia, 18 dicembre 1997, cause C-286/94 e a., Molenheide e a. punti 46 ss. V., p. es., Aa.Vv., The Judge and the Proportionate Use of Discretion. A Comparative Study, a cura di S. Ranchordás - B. de Waard, Oxon - New York, 2016; sulla derivazione tedesca del principio, v. p. es., G. Nolte, General Principles of German and European Administrative Law - A Comparison in Historical Perspective, in The Modern Law Review, 1994, 191 ss., spec. 193; P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2015, 283 ss.; G. Moschetti, p. es. in Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario. Premesse generali, Milano, 2017. (170) Cfr., mutatis mutandis, Corte Giustizia, 4 giugno 2020, causa C-430/19, CF, cit., punto 47; Corte Giustizia, 22 ottobre 2015, causa C-277/14, PPUH Stehcemp, spec. punto 52; Corte Giustizia, 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében kft e a., punti 61-62, sempre dal versante dei recuperi dell’IVA in detrazione in capo al cessionario/ committente per patologie ascrivibili al cedente/prestatore. In Italia, cfr. Cass., 18 febbraio 2000, n. 1841. (171) V., p. es., la Dir. 2011/16/UE e successive modifiche sulla cooperazione amministrativa nel settore fiscale e, con rif. alle frodi IVA, il cit. reg. U.E. 904/2010 e quello di esecuzione n. 79/2012; per il regime italiano dei poteri istruttori, artt. 51 ss. del d.P.R. n. 633/1972.
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contemperamento con la necessità degli Stati di avere la sicurezza di «tassare i servizi nel luogo corretto» (172). Già nella propria concezione, il regime appare di per sé “proporzionato”. Difatti, circoscrive il riscontro dell’operatore, in ultima istanza, alla coesistenza di due elementi indicativi della localizzazione, a libera scelta, fra i cinque inseriti in un elenco, peraltro non esauriente (173), oltre a quello generale, relativo alle «altre informazioni commerciali pertinenti». 8.4. La individuazione della natura del destinatario. – Si è rilevato come l’art. 196 della Direttiva prescriva l’applicazione del “reverse charge” per le prestazioni di servizi cross-border fra soggetti passivi, alle quali possono ascriversi quelle di trasferimento via internet di criptomonete (174). L’art. 18 del regolamento prevede che il destinatario, stabilito nell’Unione, possa essere considerato come soggetto passivo, ove abbia comunicato il proprio numero di identificazione ai fini IVA al prestatore e, dunque, al “mittente” della moneta virtuale, il quale ha l’onere di verificare tale numero, il nome e l’indirizzo corrispondenti (175). La soluzione si impone altresì ove il destinatario comunichi al trasferente le criptomonete di essersi attivato per richiedere il proprio numero di identificazione all’autorità pubblica competente. In tale ipotesi, il trasferente può offrire «qualsiasi altra prova» dello status di soggetto passivo (176) della propria controparte (177).
(172) Explanatory notes, citt., 60. (173) L’art. 24-septies del reg. U.E. n. 282/2011 afferma che «valgono in particolare» «elementi di prova», come quelli ivi elencati; la locuzione «valgono in particolare» non esclude la possibile allegazione di ulteriori elementi: Explanatory notes, citt., 68. Ciò trova conferma dalla elasticità della previsione della lett. f) sulle «altre informazioni commerciali pertinenti» (ivi, 69 e supra nel testo). Sul carattere “non sproporzionato” della prova, v., le citt. notes, 60. Peraltro, l’art. 24-ter, par. 2 riduce detto riscontro a un solo elemento, nelle ipotesi ivi considerate: v. nt. 150. (174) V. supra, par. 8. (175) Art. 18, par. 1, lett. a) del reg. U.E. 282/2011, il quale rinvia all’art. 31 del cit. reg. U.E. 904/2010. Il par. 2 costituisce pendant della regola: il prestatore può considerare il destinatario stabilito nell’Unione quale consumatore, ove questi non gli abbia comunicato il proprio numero di identificazione IVA, a prescindere dal contenuto delle informazioni acquisite aliunde dal medesimo soggetto passivo, circa la natura (di operatore economico o meno) della propria controparte. In termini critici su quest’ultimo profilo, M. G. Ortoleva, op. cit., 1543. (176) Ovvero di persona giuridica assimilata: v. nt. 128. (177) Art. 18, par. 1, lett. b) del reg. U.E. 282/2011. Cfr. Explanatory notes, citt., 48 ss.
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Di nuovo, la disciplina richiede al prestatore «una verifica di ampiezza ragionevole dell’esattezza delle informazioni fornite dal destinatario applicando le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di pagamento» (178). Affiora, dunque, la preminenza del numero di identificazione (o, quantomeno, dell’attivazione per conseguirlo da parte) del beneficiario delle criptomonete, per qualificarlo come soggetto passivo, tenuto alla esposizione dell’IVA in fattura, in applicazione del “reverse charge”. A tutta prima, sembrerebbe un approccio in attrito con la giurisprudenza europea, ad esempio maturata in tema di operazioni intracomunitarie (179), la quale tende a ripudiare approcci formalistici, per attribuire rilievo al concreto atteggiarsi della condotta di un soggetto allo scopo di appurarne la natura (180). Ma così non è. Stante il dato normativo, le stesse Explanatory notes della Commissione avvertono la necessità di ribadire che lo status di soggetto passivo si ritrae dalla attività concretamente esercitata e non affatto dalla esistenza o meno di un numero di identificazione IVA (181). Pertanto, la disciplina non enfatizza profili formali; piuttosto, risponde alla ratio di semplificare il contenuto degli oneri di controllo del prestatore (182), in armonia con l’enunciato principio generale di proporzionalità.
(178) L’art. 18, par. 3 del reg. U.E. reca una disciplina piuttosto simile, nella propria formulazione, anche nei confronti dei destinatari non stabiliti nell’Unione. In realtà, la fattispecie dovrebbe essere estranea alla Dir. 2006/112/CE: cfr. Explanatory notes, citt., 49, par. 5.5.2. La norma, invero, potrebbe entrare in gioco per escludere la debenza dell’IVA (da parte del prestatore) per una operazione che si ritenga comunque perfezionata nel mercato unico, alla luce del luogo di effettivo “consumo” del servizio (art. 59-bis, lett. b) della Dir. ult. cit.). V. retro nt. 127. (179) Artt. 138 ss. della Dir. 2006/112/CE. (180) Sulla non decisività del numero di identificazione, v., p. es., Corte Giustizia, 20 giugno 2018, causa C-108/17, Enteco Baltic, punti 51 ss.; Corte Giustizia, 9 febbraio 2017, causa C-21/16, Euro Tyre, punti 29 ss.; Corte Giustizia, 6 settembre 2012, causa C-273/11, Mecsek-Gabona, punti 59 ss., in tema di cessioni intracomunitarie. La rilevanza dei profili sostanziali emergeva, più in nuce, già da Corte Giustizia, 12 gennaio 2006, cause C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., cit., punto 42; Corte Giustizia, 4 ottobre 1995, causa C-291/92, Ambrecht, punti 16-18; cfr., inoltre, Corte Giustizia, 17 dicembre 2020, causa C-656/19, Bakati, punti 71 ss. (181) Explanatory notes, citt., 47, nt. 11. (182) Cfr. Explanatory notes, citt., 48.
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Si traduce in una soluzione equilibrata e ragionevole, al cospetto di chiare difficoltà per l’inquadramento del destinatario delle prestazioni telematiche. In specie, tali difficoltà sono accentuate dalla natura “intangibile” dell’operazione e, per le criptomonete, da una immediata impossibilità di identificazione soggettiva, stante la rilevata pseudonimia delle parti che caratterizza simili operazioni via internet (183). 9. La quantificazione dell’imponibile. Le operazioni “crypto-to-fiat”. Il «valore soggettivo» per i “cryptocurrency payments”, remunerati da cessioni di beni o prestazioni di servizi. – In ordine alla commisurazione dell’imponibile, nulla quaestio per le fattispecie di cambio tra monete digitali e tradizionali (“crypto-to-fiat”). La “dazione” di monete digitali è la prestazione di servizi imponibile, il cui corrispettivo è costituito dalla valuta tradizionale che il destinatario è tenuto a versare in contropartita. Invece, risulta problematica la individuazione di sicuri criteri normativi di quantificazione di un corrispettivo determinato in monete virtuali, ai fini dell’assolvimento degli obblighi previsti dalla disciplina sovranazionale. In tema di operazioni permutative, il caselaw europeo muove dalla premessa che il corrispettivo rilevante per l’imposta, ai fini dell’art. 73 della Direttiva, debba rappresentare «il valore soggettivo, ossia il valore realmente percepito e non un valore stimato secondo criteri oggettivi» (184). La Corte di giustizia ha concluso che il corrispettivo costituito, ad esempio, da una prestazione di servizi sia rappresentato dal valore che il beneficia-
(183) D’altronde, pure ai fini delle cessioni intracomunitarie, si è comunque affermato che «l’attribuzione di un siffatto numero (n.d.r.: quello di identificazione IVA) fornisce la prova dello status fiscale del soggetto passivo ai fini dell’applicazione dell’IVA e agevola il controllo tributario delle operazioni intracomunitarie»: Corte Giustizia, 6 settembre 2012, causa C-273/11, Mecsek-Gabona, cit., punto 60; v. anche Corte Giustizia, 9 ottobre 2014, causa C-492/13, Traum, punto 35; Corte Giustizia, 14 marzo 2013, causa C-527/11, Ablessio, punto 19. (184) Corte Giustizia, 19 dicembre 2012, Orfey, causa C-549/11, punto 44; v. pure Corte Giustizia, 17 dicembre 2020, causa C-449/19, WEG Tevesstraße, punto 27; Corte Giustizia, 5 febbraio 1981, causa C-154/80, Coöperatieve Aardappelenbewaarplaats, punto 13. Può entrare in gioco il valore normale, in caso di opzione degli Stati membri, a fronte di «destinatari con cui sussistono legami familiari o altri stretti vincoli personali, gestionali, di associazione, di proprietà, finanziari o giuridici quali definiti» dal diritto interno (art. 80, par. 1 della Dir. 2006/112/CE).
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rio di essa «attribuisce ai servizi che (…) intende procurarsi e deve corrispondere alla somma che (…) è disposto a pagare a tal fine» (185). Da queste coordinate, allora, si consideri l’ipotesi di cessioni di beni o prestazioni di servizi, remunerate con moneta digitale. A rigore, dovrebbe derivarne che l’imponibile del trasferimento criptomonetario coincida con «la somma» che, a propria volta, la controparte, destinataria del denaro virtuale (ossia il cedente il bene o il prestatore del servizio) sarebbe «disposta a pagare». In proposito, la sentenza Empire Stores della Corte di giustizia ha precisato che, per la «fornitura di un bene», il «valore» di riferimento potrebbe essere dato «soltanto» dal «prezzo d’acquisto che il fornitore ha versato per l’articolo che egli dà (…) come corrispettivo (…)» (186). Tuttavia, appare preferibile ritenere che il «valore soggettivo» non sia costituito da quello espresso da un criterio di costo per la controparte. Semmai, dal versante attivo, rileva il corrispettivo applicato in valuta tradizionale dal cedente il bene o dal prestatore del servizio, come desumibile dalla sentenza Naturally Yours della stessa Corte (187). Difatti, il cedente o il prestatore così esprime il «valore soggettivo» dei propri beni o servizi, il quale coincide con l’ammontare «che è disposto a pagare» in natura per ricevere le criptomonete (188).
(185) Corte Giustizia, 10 gennaio 2019, causa C-410/17, A Oy, punto 38; Corte Giustizia, 19 dicembre 2012, Orfey, causa C-549/11, cit., punto 45; Corte Giustizia, 2 giugno 1994, causa C-33/93, Empire Stores, punto 19. Sulla applicabilità del valore normale solo ai casi contemplati dall’art. 80, v. S. Cannizzaro, op. cit., 310. (186) Corte Giustizia, 2 giugno 1994, causa C-33/93, Empire Stores, punto 19. Si aggiungono le spese di spedizione, sostenute dal fornitore: Corte Giustizia, 3 luglio 2001, causa C-380/99, Bertelsmann, punto 24. (187) Cfr. Corte Giustizia, 23 novembre 1988, causa C-230/87, Naturally Yours, spec. punto 17. La prospettiva giurisprudenziale è ben illustrata da G. Beretta, op. cit., 132-133. (188) Per conclusioni affini, v. G. Fransoni, op. cit., 204. All’opposto, chi aderisce all’impostazione della giurisprudenza Empire Stores (i.e.: a una generalizzata valutazione della controprestazione imponibile sulla base del prezzo di costo, sostenuto dal beneficiario per l’oggetto della propria operazione), vi ravvisa un’eco nell’art. 75 della stessa Dir. 2006/112/CE: per «le prestazioni di servizi consistenti nell’utilizzazione di un bene destinato all’impresa per l’uso privato e per le prestazioni di servizi effettuate a titolo gratuito (…) la base imponibile è costituita dall’importo delle spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione della prestazione di servizi»: lo riferisce G. Beretta, op. cit., 133. Tuttavia, la norma non appare pertinente. Non vi sono operazioni dirette a fini privati né gratuite, ma fattispecie che, nell’ipotesi di partenza, rientrano nell’attività economica dell’operatore, a titolo oneroso, giacché remunerate da una controprestazione, seppure non pecuniaria in senso
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9.1. (Segue): l’imponibile per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, remunerate da “cryptocurrency payments” e per le operazioni “crypto-tocrypto”. – Il più rilevante e delicato punctum pruriens investe due ipotesi. Di nuovo, si considerino le cessioni di beni o prestazioni di servizi, remunerate in monete virtuali (“cryptocurrency payments”), ma dal lato della determinazione dell’imponibile per il cedente o prestatore e, inoltre, le operazioni di cambio fra differenti monete virtuali (“crypto-to-crypto”). Per simili fattispecie, il «valore soggettivo» da considerare dovrebbe sempre allinearsi all’importo che (la controparte e, dunque) il trasferente le criptomonete «è disposto a pagare». Qui affiora in tutta evidenza la maggiore problematica relativa alle operazioni afferenti monete digitali: la loro conversione in valute nazionali. Per dirimere la vexata quaestio, si è fatto riferimento all’art. 91 della Direttiva, relativo ai cambi monetari. Il par. 1 della norma guarda a «elementi da prendere in considerazione ai fini della determinazione della base imponibile di un’operazione diversa da un’importazione di beni», che «siano espressi in moneta diversa da quella dello Stato membro in cui è fatta la stima». All’art. 91, rinvia l’art. 230 della Direttiva ove consente di esprimere gli importi fatturati «in qualsiasi moneta» (189), purché l’IVA sia calcolata in base alla valuta dello Stato membro di perfezionamento dell’operazione.
stretto. Lo stesso dicasi per l’art. 76 che adotta il criterio di costo per i trasferimenti di beni con destinazione in altro Stato membro ossia per «qualsiasi spedizione o trasporto di un bene mobile materiale effettuato dal soggetto passivo o per suo conto, fuori dal territorio dello Stato membro in cui si trova il bene, ma nella Comunità, per le esigenze della sua impresa» (art. 17, par. 1, secondo periodo). Si tratta, analogamente, di fattispecie affatto particolare che non sembra consentire una generalizzazione del criterio del costo. Nel sistema, ne offre conferma l’art. 72 della Dir. 2006/112/CE, in tema di valore normale, il quale guarda al criterio di costo, ma solo qualora «non siano accertabili cessioni di beni o prestazioni di servizi analoghe» e, dunque, in difetto di parametri per una commisurazione dall’imponibile dal lato attivo (v. par. 1 della norma). Invece, per la diversa e peculiare ipotesi in cui fosse stato convenuto un pagamento “misto” sia con moneta avente corso legale sia con quella digitale, il valore di questa dovrebbe «essere considerato pari all’importo della riduzione da parte del fornitore del prezzo», ove originariamente determinato solo in valuta tradizionale: cfr. Corte Giustizia, 10 gennaio 2019, causa C-410/17, A Oy, punti 42, 54-56. (189) Nel contesto dell’art. 230 e alla luce di quanto rileveremo subito supra riguardo all’art. 91, deve intendersi riferito a «qualsiasi moneta avente corso legale» il generico richiamo dello stesso art. 230 a «qualsiasi moneta», comune anche ad altri testi ufficiali, tra i quali quelli in lingua inglese («any currency»), francese («dans toute monnaie»), spagnolo («cualquier moneda»).
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Per il denaro virtuale, si è attribuito rilievo al “valore del mercato aperto” (“open value market”) che il soggetto passivo dovrebbe individuare sotto la propria responsabilità (190) ovvero a “quotazioni” private, desumibili dall’internet (191). Tuttavia, l’art. 91, par. 2 fa leva sul «tasso di cambio applicabile». Si tratta della «ultima quotazione lettera rilevata, nel momento in cui l’imposta diventa esigibile, sul mercato o sui mercati dei cambi più rappresentativi dello Stato membro» di localizzazione «ovvero una quotazione determinata con riferimento a tale o tali mercati, secondo le modalità fissate da detto Stato membro». La regola allude a una determinazione pur sempre calibrata su valute nazionali. La ragione è agevolmente comprensibile. In generale linea di principio, l’imponibile e il tributo sono commisurati in euro o nella divisa nazionale per gli Stati membri, non aderenti alla c.d. “moneta unica” (192). Pertanto, una dilatazione dell’art. 91 alle criptomonete ne postula una preliminare assimilazione alle valute tradizionali, similare a quella tratteggiata dalla sentenza Hedqvist, in rapporto all’art. 135, par. 1, lett. e) (193). Ma una tale assimilazione non appare sostenibile, de jure condito, come rilevato (194). In ogni caso, già di per sé, il valore delle criptomonete presenta intrinseche e ineludibili difficoltà di quantificazione da vari versanti.
(190) Lo ipotizza la Commissione, Value Added Tax Commitee, 30 aprile 2015, Working paper, n. 854, 14 ss. ed è ribadito anche nel Working paper, n. 892, cit., 8. (191) In questo senso, R. Wolf, op. cit., 256, sebbene l’A. prenda atto dell’assenza di un unico tasso di cambio ufficiale in proposito; J. Kollmann, op. cit., 166. Simile approccio ha trovato eco anche presso l’amministrazione fiscale in Germania: BMF, v. 27 febbraio 2018 - III C 3 - S 7160-b/13/10001, cit., par. 1. (192) Oltre al cit. art. 230, v. l’art. 366 della Dir. 2006/112/CE, in ordine alla dichiarazione. In termini affini, R. Scalia, op. cit., 39. V., inoltre, artt. 369-nonies e 369-duovicies della Direttiva, nella cornice del nuovo regime del c.d. “OSS” e “IOSS”. (193) In rapporto all’art. 91, par. 2, appare invece aperta a tale accostamento, L. Scarcella, Taxation issues, cit., ivi, 124, sulla base della sent. Hedqvist, cit. (194) V. supra, parr. 3 ss. De jure condendo, una assimilazione è prefigurabile per gli “e-money tokens” equiparati alla “moneta elettronica” dalla proposta di reg. U.E. del “Digital Finance Package”: v. par. 3 cit.
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Anzitutto, è praticamente impossibile stimarle, in rapporto a un dato momento storico e a un determinato luogo, in assenza di un tasso espressivo del cambio con denaro tradizionale (195). A quest’ultimo proposito, le illustrate difficoltà di localizzazione di una fattispecie negoziale digitale (196) renderebbero comunque non immediata la individuazione di uno «Stato membro» in cui «fare la stima». Una volta identificato, risulterebbe comunque ardua la prospettiva di una soluzione, anche solo lontanamente ispirata all’art. 91, par. 2. La norma prescrive la necessità di individuare il «mercato o» i «mercati dei cambi più rappresentativi» all’interno di tale Stato di riferimento. La natura di moneta privata, propria di quella digitale, ne comporta una tendenziale estraneità a mercati ufficiali dei cambi (197). Sul punto, l’art. 91, par. 2, comma 2 prevede l’alternativo utilizzo, da parte degli Stati membri, dell’«ultimo tasso di cambio pubblicato dalla Banca centrale europea al momento in cui l’imposta diventa esigibile. La conversione fra monete diverse dall’euro è effettuata utilizzando il tasso di conversione in euro di ciascuna di esse (…)». Tuttavia, anche simile prospettiva si rivela infruttuosa.
(195) Cfr. A. M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, passim (p. es. 382). (196) Par. 8 e relativi sottoparagrafi. (197) V. Commissione, Value Added Tax Commitee, 4 febbraio 2016, Working paper n. 892, cit., 8 nonché, incidenter, L. Scarcella, Taxation Issues, cit., ivi, 124. Le eccezioni, per quanto importanti, risultano quantitativamente minoritarie. Le più significative sono localizzate in ambito extra-europeo, come, ad es., la borsa di New York (“New York Stock Exchange”) che contempla il “NYSE BITCOIN INDEX ($NYXBT)” con la definizione del rapporto di cambio in dollari statunitensi e il mercato elettronico “NASDAQ”, che comprende anche analogo cambio in riferimento all’ether. Tali listini, comunque, non includono le numerose altre criptomonete presenti sul mercato globale. Sul fondamento dell’esistenza di quotazioni ufficiali, non a caso, proprio la Internal Revenue Service (“IRS”) negli Stati Uniti ha avuto buon gioco nell’affermare che il criterio fiscale di commisurazione delle criptomonete di pagamento di beni o servizi sia costituito dal “fair market value”, determinato in dollari americani in base al saggio di cambio in listini di mercato, alla data di ricezione del denaro virtuale: IRS, Notice 2014-21, Section 4. Frequently Asked Questions (“FAQ”), risposta n. 3, pp. 2-3, seppur ai fini dell’imposizione diretta e risposta n. 5, p. 3 con generale riferimento a ogni tributo («For U.S. tax purposes»); menziona questa seconda parte del documento amministrativo, anche A. M. Bal, Taxing Virtual Currency, cit., ivi, 390. Nell’Unione europea, la borsa di Stoccolma e quella di Francoforte trattano alcuni “Exchange Traded Funds” (“ETF”) ed “Exchange Traded Commodities” (“ETC”), correlati ai rialzi e ribassi delle criptomonete.
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La Banca centrale europea non ha stabilito alcun cambio fra euro e criptomonete di sorta, ma solo rispetto a valute di Stati terzi (198) o di Paesi membri che non applicano l’euro (199). Insomma, difetta una soluzione come quella adottata dall’ordinamento svizzero, il quale prevede una determinazione delle parità fra alcune criptomonete e valuta nazionale, sulla base di «listini dei corsi», elaborati dall’amministrazione federale delle contribuzioni (200). In assenza di listini ufficiali, risulta disagevole l’individuazione di parametri espressivi di una commisurazione di “mercato”, similare a quella cui guarda l’art. 91, par. 2 (201). Pertanto, i vaghi riferimenti al c.d. “open value market” o alle “quotazioni” private, ritraibili dal web (202), non sembrano affatto
(198) Il dollaro statunitense, lo yen giapponese, etc. (199) Come le parità concepite per il lev bulgaro o la corona danese. V. https://www. bancaditalia.it/compiti/operazioni-cambi/cambi/index.html. (200) Confederazione Svizzera, Pubblicazioni della prassi. Info IVA 07. Base di calcolo e aliquote d’imposta, par. 1.3.3., testo aggiornato al 18 novembre 2020. (201) Sottolinea le difficoltà dell’assenza di listini ufficiali in correlazione agli adempimenti fiscali, incidenter, anche F. Cannas, op. cit., 85. L’esperienza giuridica irlandese costituisce paradigmatico esempio del disagio provocato da tale severa lacunosità normativa e dalla diffusa assenza di valutazioni, desumibili da mercati ufficiali. Nel 2020, l’amministrazione ha rilevato che, per le cessioni di beni o le prestazioni di servizi verso criptomonete, l’imponibile sarebbe costituito dal controvalore in euro al momento perfezionativo delle operazioni: Irish Tax and Customs, Tax and duty manual. Taxation of cryptocurrency transactions, Document last reviewed April 2020, 3, par. 2.2. Pure da tale discutibile prospettiva, il fisco irlandese ha preso atto dell’inesistenza di un singolo, affidabile tasso di cambio e si è limitata a invitare il soggetto passivo a produrre uno «sforzo ragionevole» («a reasonable effort») per ricorrere a una «valutazione appropriata» («an appropriate valuation») della singola operazione (ivi, par. 4). L’assenza di dati normativi ha indotto l’amministrazione ad abbozzare simili espressioni, del tutto vaghe, generiche, opinabili, contrarie ad esigenze di certezza del diritto e foriere di possibile contenzioso in ordine alla loro corretta definizione. (202) V. il Ministero federale delle finanze in Germania: BMF, v. 27 febbraio 2018 III C 3 - S 7160-b/13/10001, cit., par. I, ove, dall’accostamento all’art. 91, par. 2 della Dir. 2006/112/CE, prefigura l’idea di una conversione all’ultimo tasso applicato, p.es., su portali di conversione via internet. In Italia, il tema è stato affrontato dal versante della imposizione reddituale, per la determinazione del «valore normale» (art. 9 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) ed è stato ancorato a una media dei tassi di cambio ritraibili dalle piattaforme internet in cui si realizza la compravendita di moneta virtuale: cfr. Ag. Entrate, Ris. 2 settembre 2016, n. 72/E; Risposta 28 settembre 2018, n. 14; v. altresì Direzione Regionale della Lombardia, Risposta 21 aprile 2018, n. 956-39/2018, 6, che guarda, invece, al «rapporto di cambio al 1° gennaio rilevato sul sito dove» l’interessato «ha acquistato la valuta virtuale o, in mancanza, quello rilevato sul sito dove effettua la maggior parte delle operazioni».
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trovare un’eco, neppure larvata, nell’art. 91, par. 2, né in altre previsioni della Direttiva (203). Quanto ai futuri orizzonti del diritto dell’Unione, l’art. 68 della proposta di reg. U.E. del “Digital Finance Package” prevede obblighi di trasparenza del gestore di una piattaforma circa i prezzi ivi praticati (204). L’art. 69, par. 2 sancisce un dovere di predeterminazione di un corrispettivo fisso o di illustrazione del metodo di commisurazione di esso per i cambi di monete digitali sia con quelle tradizionali (“crypto-to-fiat”) sia verso altre monete digitali (“crypto-to-crypto”). Nondimeno, la questione cruciale si colloca a priori. Alla radice, risulta un vizio di fondo sia nel richiamo all’art. 91, par. 2 della Direttiva sia alle future norme regolamentari: l’adesione alla fragile concezione del denaro virtuale quale strumento funzionalmente equipollente alla valuta e non quale oggetto di una prestazione rilevante ai fini IVA, nella cornice di una fattispecie permutativa (205). Per le operazioni permutative, la Corte di giustizia ha attribuito rilievo al «valore soggettivo» e, così, all’importo che lo specifico beneficiario dell’operazione è disposto a pagare, non affatto a «un valore stimato secondo criteri oggettivi», come appurato (206). Il «valore soggettivo», allora, non sembra essere quello di un (peraltro, inesistente) mercato ufficiale dei cambi, bensì il valore che intende attribuirvi il trasferente le criptomonete. Né il «valore soggettivo» corrisponde a quello, per così dire, “oggettivo limitato” del titolare della piattaforma che “ospita” l’operazione ex art. 69, par. 2 della proposta regolamentare.
(203) Sia i precc. citt. del Value Added Tax Commitee sia R. Wolf, op. cit., ragionano di soluzioni similari a quella dell’art. 91, par. 2. Sta di fatto che quelle riportate supra nel testo non trovano riscontro nella Dir. 2006/112/CE. L’art. 69, par. 5 della proposta di reg. U.E. sui “crypto-assets” prevede la trasparenza del gestore di una piattaforma circa i prezzi ivi praticati; tuttavia, si tratta pur sempre (e, giustappunto) di una piattaforma informativa, priva di quella correlazione a uno Stato e del rango di «mercato più rappresentativo» in esso, invece richiesti dall’art. 91, par. 2 della Dir. ult. cit. In termini critici sulla applicabilità della norma, si è espresso anche R. Scalia, op. cit., 40. (204) V. spec. parr. 5-7 della norma. (205) V. supra par. 6. (206) V. par. 9 e nt. 184.
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Pertanto, il transito verso un approccio oggettivo di commisurazione del valore della moneta digitale, dovrebbe passare dalla elaborazione di una disciplina ad hoc istitutiva di una criptovaluta di Stato (207). In tale scenario, sarebbe sostenibile l’estraneità all’IVA di mere cessioni di una nuova valuta digitale pubblica, a meno che non si atteggino a corrispettivo di operazioni rilevanti per l’imposta. Sarebbe comunque indispensabile l’elaborazione di previsioni che superino le radicalità della giurisprudenza sul «valore soggettivo» e consentano di determinare l’imponibile attraverso parità fra monete digitali e correnti, in base a listini ufficiali, da concepire in termini generalizzati. Una riforma del genere dovrebbe essere necessariamente adottata a livello europeo, per intuitive esigenze di uniformità disciplinare e scongiurare distorsioni nel mercato unico. 10. Conclusioni. – Il sistema comune dell’IVA, delineato dalla Dir. 2006/112/CE non include le cessioni di denaro, inidonee a esprimere quel “consumo” su cui gravita l’imposizione, alla luce di tale disciplina. Le criptomonete sono qualificabili alla stregua di rappresentazioni digitali di valore, diverse dalle valute tradizionali, rispetto alle quali – soprattutto – non condividono l’idoneità a estinguere obbligazioni pecuniarie, senza che il creditore possa legittimamente rifiutare tale modalità di adempimento. Le monete digitali sono suscettibili di vari utilizzi. Fra l’altro, possono essere cambiate con valuta tradizionale (“crypto-tofiat”) o altre tipologie di denaro virtuale (“crypto-to-crypto”) o trasferite in contropartita per l’acquisto di beni o servizi (“cryptocurrency payments”). Operazioni siffatte sono sussumibili alla Dir. 2006/112/CE, proprio perché riguardano “assets” che non presentano la morfologia di valuta. La recentissima proposta di reg. U.E. del “Digital Finance Package” eccettua quel sottoinsieme di monete digitali, il cui valore sia ancorato a quello di una moneta avente corso legale. Si tratta di una species di c.d. stablecoins, equiparate alla “moneta elettronica” e convertibili in denaro corrente su richiesta del detentore (“e-money tokens”).
(207) La quale, peraltro, avrebbe il pregio di contrastare alla radice la diffusa illegalità nel ricorso alle monete digitali private: v. supra nt. 2.
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In futuro, analoghe conclusioni potranno affermarsi per criptomonete emesse dalle banche centrali (“CBDCs”). Con la sentenza Hedqvist, la Corte di giustizia ha ritenuto applicabile l’esenzione dell’art. 135, par. 1, lett. e) della Dir. 2006/112/CE all’eccedenza sulle operazioni di cambio monetario coinvolgenti bitcoins. La Corte ha tratto la propria conclusione sulla base di una asserita equiparazione funzionale della moneta virtuale a quella tradizionale. L’opinione ha recepito le conclusioni dell’avvocato generale, che facevano leva su divergenze fra quattro versioni linguistiche ufficiali della norma (tedesca, inglese, finnica, italiana), tre delle quali denoterebbero aperture verso un’applicabilità della norma a operazioni di cambio relative a monete diverse da quelle tradizionali. Tuttavia, si è riscontrato come la premessa sia erronea e la quasi totalità delle versioni ufficiali, con l’eccezione del testo lituano, alluda a operazioni relative a divise tradizionali, aventi corso legale. L’esito è avallato anche da un’esegesi teleologico-sistematica della regola, che ne valorizzi la possibile correlazione alla libertà fondamentale di circolazione dei capitali, ai principi di neutralità dell’imposta e di parità di trattamento. Stante l’inapplicabilità anche di altre norme di esenzione, si è concluso che le fattispecie di cambio o pagamento con criptomonete abbiano rilievo imponibile, ove coinvolgenti almeno un soggetto passivo dell’IVA, con la rilevata eccezione dei futuri “e-money tokens” e dei CBDCs. Al di fuori di tali ipotesi, gli atti di trasferimento di denaro virtuale, posti in essere da un operatore economico, riguardano beni privi di corporeità e, perciò, attratti nell’alveo delle prestazioni di servizi. Di regola, la disciplina europea correla «fatto generatore» ed «esigibilità» dell’imposta all’esecuzione della prestazione e ammette una deroga, esercitata – ad esempio – dalla Francia e dall’Italia, per correlare la «esigibilità» del tributo al «momento di incasso del prezzo». Sicché, per le operazioni permutative, la «esigibilità» coinciderà con l’esecuzione della prima di esse. La loro localizzazione è imprescindibile al fine di apprezzarne la rilevanza o l’estraneità ratione loci all’orbita della Direttiva, di individuare l’aliquota applicabile e di appurare l’operatività dei regimi del “reverse charge” per le fattispecie tra soggetti passivi (“B2B”) e del “MOSS”, ora “OSS”, per quelle destinate a consumatori (“B2C”).
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Il luogo della prestazione di servizi è radicato sul principio di destinazione e, pertanto, sul beneficiario, presso il quale si realizza il consumo. In proposito, si ravvisano intrinseche difficoltà a tale individuazione, dovute dalle modalità del trasferimento criptomonetario, ove si realizzi sulla rete internet mondiale, con la pseudonimia delle parti. Per la stessa ragione, non appare, altresì, agevole la individuazione della natura di soggetto passivo o di consumatore in capo al destinatario, ai fini dei ricordati regimi del “reverse charge” e del “MOSS” – “OSS”. I temi devono essere affrontati, movendo dalla preliminare qualificazione delle operazioni di circolazione delle monete digitali attraverso internet alla stregua della disciplina per i «servizi forniti per via elettronica», rilevante per le operazioni “B2C”. Il reg. U.E. 282/2011 di attuazione della Direttiva integra la disciplina di riferimento, soprattutto in riferimento alle c.d. presunzioni. In ultima istanza, per le stesse operazioni “B2C”, si limita a richiedere all’operatore l’indicazione di due elementi non contraddittori a tale scopo (208). La disciplina è allineata al principio generale europeo di proporzionalità, il quale non consente di imporre al soggetto passivi oneri accertativi eccedenti l’obiettivo di assicurare una corretta applicazione delle norme tributarie. Le problematiche maggiori si registrano dal crinale della determinazione dell’imponibile, in assenza di specifiche previsioni normative e di mercati ufficiali di conversione fra monete digitali e tradizionali nell’Unione. La complessiva ricostruzione del quadro normativo d’insieme disvela la ragione fondamentale di simili incertezze. Nel settore, si avverte la mancanza di una disciplina tributaria ad hoc, almeno per l’IVA, l’imposta armonizzata per eccellenza, la quale ben potrebbe essere ospitata nella cornice del “Digital Finance Package”. In simile ambito, invece, la proposta di reg. U.E. si limita a riferirsi a un collaterale coinvolgimento delle amministrazioni fiscali, per controlli relativi all’accertamento del corretto funzionamento del mercato di settore, da parte delle autorità competenti (209).
(208) Salva l’ipotesi dell’art. 24-ter, par. 2 del reg. U.E. n. 282/2011: v. nt. 150. (209) Artt. 85 e 110 della proposta di reg. U.E.
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Al contrario, il nuovo orizzonte sovranazionale potrebbe e dovrebbe offrire l’occasione per cercare di dissipare le nebbie relative alle assolute particolarità delle operazioni involgenti le criptomonete. Si apre una alternativa. Le istituzioni potrebbero regolamentare e governare la diffusione di una moneta virtuale avente corso legale. È una prospettiva che non appare remota, ma neppure imminente. La permanenza di criptomonete non aventi indole di valuta richiede comunque una riforma della disciplina dell’IVA per le operazioni ad esse relative. Si avverte l’urgenza di un intervento normativo, soprattutto in ordine alla quantificazione dell’imponibile, sensibile alle attuali dinamiche dei servizi finanziari e, in generale, dei traffici giuridico-economici, caratterizzati da una esponenziale pervasività delle nuove tecnologie a livello globale (210).
Roberto Iaia
(210) Sulla necessità di una disciplina normativa, v. OECD, Taxing Virtual Currencies, cit., 54 ss.; A. Contrino - G. Baroni, op. cit., passim; dalla prospettiva nazionale, D. Conte, op. cit., passim.
Violazioni tributarie ed esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici Sommario: 1. Premessa: l’ampliamento della causa di esclusione prevista dall’art. 80,
comma 4, del D. Lgs. n. 50/2016. – 2. La ratio dell’esclusione dalle gare per le violazioni connesse agli obblighi di pagamento di tributi. – 3. I confini dell’espressione “violazione dell’obbligo relativo al pagamento di imposte e tasse non definitivamente accertate”. – 3.1 (segue): e dell’espressione “violazione dell’obbligo relativo al pagamento di tributi non definitivamente accertati”. – 4. L’esercizio del potere discrezionale della stazione appaltante di esclusione dell’operatore economico per violazione dell’obbligo di pagamento connesso ad accertamenti non definitivi: la possibile valutazione della sproporzione tra debito tributario e importo dell’appalto. – 5. Conclusioni. La normativa sull’esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici per irregolarità fiscali, contenuta nell’art. 80, comma 4, D. Lgs. n. 50/2016, nonostante la sua chiara formulazione, risente di criticità applicative che emergono dalla mancata comprensione della circostanza che il legislatore dà rilievo non alla mera sussistenza di una violazione fiscale definitivamente accertata, ma alla violazione dell’obbligo di pagamento del debito tributario. L’inclusione nel campo di applicazione della norma anche dei debiti risultanti da accertamenti non definitivi, avvenuta con il Dl n. 76/2020, incide ulteriormente sul diritto di partecipazione alle procedure, senza tuttavia specificare i parametri in base ai quali le stazioni appaltanti possono esercitare, entro limiti di proporzionalità, il potere discrezionale di esclusione dell’operatore economico. Pertanto, se è destinato a crescere il rischio che si determini un irragionevole vulnus del diritto dell’operatore economico di partecipazione alla procedura, si può fondatamente ipotizzare un netto incremento del contenzioso amministrativo. The legislation on exclusion from tender procedures for tax irregularities, contained in art. 80, paragraph 4, D.Lgs no. 50/2016, despite its clear formulation, is affected by application criticalities that emerge from the lack of understanding that the legislator emphasizes not the mere existence of a definitively established tax violation, but the violation of the obligation to pay the debt. The inclusion in the scope of the rule also of the debts resulting from non-definitive assessments, which took place with Dl no. 76/2020, further affects the right to participate in the procedures without however specifying the parameters on the basis of which the contracting authorities can exercise, within limits of proportionality,
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the discretionary power of exclusion of the economic operator. Therefore, if the risk of an unreasonable violation of the economic operator’s right to participate in the procedure is destined to grow, a consequent increase in administrative litigation can be justified.
1. Premessa: l’ampliamento della causa di esclusione prevista dall’art. 80, comma 4, del D. Lgs. n. 50/2016. – Il decreto legge n. 76 del 16 luglio 2020 (1) c.d. “semplificazioni” contiene un’importante novità che impatta su una delle cause di esclusione dell’operatore economico dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici (2) e in particolare su quella connessa alla sussistenza di una violazione degli obblighi di pagamento di imposte e tasse (e dei contributi previdenziali), disciplinata dall’art. 80, comma 4, del nuovo codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 50/2016) (3). Il legislatore ha in sostanza allargato l’ipotesi di esclusione dalla procedura dando rilievo, oltre alla sussistenza di debiti fiscali accertati in modo definitivo, anche all’esistenza di violazione degli obblighi di pagamento per imposte e tasse non definitivamente accertate. Tale previsione, che incide sui bandi di gara pubblicati dopo la data di entrata in vigore del decreto (17 luglio 2020), ha creato notevole allarme tra gli operatori economici, atteso che è diffusa l’esistenza di contestazioni fiscali in corso di definizione nell’an e nel quantum, le quali appunto potrebbero precludere la partecipazione alla gara (4). Le preoccupazioni, peraltro, sono ancor più evidenti per il fatto che il comma 10 bis dell’art. 80 non annovera un limite massimo di durata per la causa di esclusione di cui al comma 4.
(1) Convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120. (2) Sull’argomento si veda il recente studio monografico di E. Romano, L’esclusione dell’operatore economico dalla procedura di affidamento dei contratti pubblici,Torino, 2019. (3) Sul tema cfr. AA.VV., Trattato sui contratti pubblici, vol. II Soggetti, qualificazione, regole comuni alle procedure di gara, diretto da M.A. Sandulli - R. De Nictolis, Milano, 2019, 816; F. Ventura, Commento all’art. 80, in A. Cardullo - G. Iudica (diretto da), Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, Padova, 2018 725; S. Vinti, Motivi di esclusione, in G.M. Esposito, Codice dei contratti pubblici, Milano, 2017, 942; Id., I “garbugli” della nuova disciplina Delle esclusione nel nuovo codice degli appalti, in Giustamm.it-Rivista di diritto pubblico – n. 2-2017; M. Lasalvia, Commentario al nuovo codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, Roma, 2016, 357; F. Saitta (a cura di), Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Milano, 2008. (4) Si veda V. Tamburro, Appalti, rischio esclusione anche con irregolarità non definitive, in Ntplusfisco.ilsole24ore.com del 15 settembre 2020.
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Se da un lato, quindi, il citato decreto semplificazioni ha inteso snellire le procedure previste dal codice dei contratti, dall’altro non ha trascurato l’esigenza di estromettere dalla partecipazione alle gare chi non fosse pienamente in regola con i requisiti di ordine generale riguardanti l’affidabilità degli operatori economici, connessi in particolare alle “pendenze fiscali”. È da segnalare, però, che tale previsione era già stata introdotta nell’art. 80, comma 4, con il DL n. 32/2019 (c.d. sblocca cantieri), ma è stata poi eliminata dalla legge di conversione n. 55/2019, con salvezza dei suoi effetti per il periodo di vigenza del decreto (5). Orbene, prescindendo dal fatto che l’intervento “espansivo” sulla causa di esclusione in parola è stato sollecitato dalla Corte di Giustizia Europea e dalla Commissione europea, non possiamo sottacere che ad una prima lettura esso appare non proporzionato rispetto allo scopo di escludere dalle gare operatori non affidabili, nonché di tutelare la libera concorrenza. La notifica di un avviso di accertamento per il quale il contribuente ha proposto impugnazione, infatti, non sempre si traduce in un debito tributario: come risulta dalle statistiche pubblicate dal Ministero dell’Economia, circa la metà degli accertamenti fiscali vengono respinti in misura integrale o parziale dalle Commissioni tributarie. Appare così criticabile ricondurre nell’alveo delle “gravi violazioni” anche quelle contestazioni del Fisco per cui pende un ricorso di fronte al giudice tributario. È così ipotizzabile che un eventuale provvedimento di esclusione per debiti connessi ad accertamenti non definitivi potrebbe indurre opposizioni che fanno leva appunto sulla mancanza del presupposto della sussistenza di una grave violazione tributaria. Quanto rilevato è ancora più evidente nelle ipotesi in cui il Fisco muova contestazioni di tipo interpretativo, con cui disconosce l’inquadramento giuridico delle vicende dichiarate (6); la c.d. evasione interpretativa non è, infatti, di norma sintomatica di una situazione di inaffidabilità dell’imprenditore. Per evitare, quindi, un notevole contenzioso sui provvedimenti di esclusione, nonché il proliferare di richieste risarcitorie nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (7) qualora l’accertamento tributario venga dichiarato
(5) Cfr. R. De Nictolis, Le novità sui contratti pubblici recate dal D.L. n. 32/2019 “sblocca cantieri”, in Urb. app., 2019, 443. (6) Sul tema cfr. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, 130; Id., Evasione fiscale, paradiso e inferno, 2008. (7) Cfr. Antonini P., Appalti, torna l’esclusione per irregolarità fiscali non definitive.
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illegittimo dal giudice (e ciò tenuto conto anche della durata dei processi che potrebbe precludere la partecipazione alle gare per molti anni), appare doveroso quanto meno pretendere che la stazione appaltante adotti il provvedimento di esclusione solo se risulti proporzionato rispetto all’obiettivo perseguito dalla norma attributiva del potere (8). A tale scopo peraltro, è auspicabile che l’ANAC intervenga con delibere contenenti precise direttive in relazione alle quali l’operatore economico possa prevedere, con sufficiente grado di approssimazione, l’attivazione appunto del potere discrezionale di esclusione da parte della stazione appaltante. Ciò posto, con questo lavoro, muovendo dalla ratio dell’art. 80, comma 4, D. Lgs n. 50/2016, tentiamo di ricostruire le problematiche applicative che si sono riscontrate con riguardo alla esclusione degli operatori sulla base di accertamenti tributari definitivi, per poi svolgere specifiche considerazioni relative all’estensione del campo di applicazione della norma ai debiti tributari risultanti da accertamenti non definitivi. Dobbiamo sin d’ora precisare che in questa sede non intendiamo esaminare la possibilità che la violazione tributaria integri gli estremi dell’esclusione dalla gara ai sensi del comma 5, lettera c), dell’art. 80, sul presupposto che l’omesso pagamento di imposte e tasse potrebbe ricondursi ad un illecito professionale grave; né d’altra parte ci prefiggiamo di verificare se la condanna per un reato tributario di cui al D. Lgs. n. 74/2000 possa determinare l’esclusione dell’operatore economico in applicazione dell’art. 80, comma 1, lettera g), posto che la normativa penale tributaria dispone quale pena accessoria l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione (9). 2. La ratio dell’esclusione dalle gare per le violazioni connesse agli obblighi di pagamento di tributi. – Rammentiamo innanzitutto che la normativa previgente in tema di appalti pubblici, attuando la previsione contenuta
Da chiarire l’ambito applicativo, in IPSOA Quotidiano 25 luglio 2020. (8) Sul tema della proporzionalità cfr. A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; D.U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistemica, Torino, 2011. In ambito tributario cfr. G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come giusta misura del potere nel diritto tributario, Padova, 2017. (9) Per questi profili si veda C. Sereni Lucarelli, Esclusione del concorrente non in regola con il Fisco e principio di proporzionalità, in MUNUS. Rivista giuridica dei servizi pubblici, 2019, n. 3, 827 ss.
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nell’art. 45 della Direttiva CEE 2004/18, stabiliva l’esclusione dalla gara per coloro che “hanno commesso violazioni gravi definitivamente accertate rispetto agli obblighi di pagamento delle imposte e tasse” (10). Tale esclusione, ribadita dall’art. 57 della Direttiva 2014/24/UE, ha trovato attuazione nel vigente codice dei contratti pubblici. Come può agevolmente intuirsi, la ratio dell’esclusione contemplata nell’art. 80, comma 4, non ha un fondamento tipicamente tributario; l’estromissione dell’operatore economico che abbia violato gli obblighi di pagamento di imposte e tasse non rappresenta, infatti, uno strumento finalizzato a garantire l’interesse fiscale alla riscossione del tributo non versato dai soggetti che intendono partecipare alle gare. La ratio dell’esclusione dalla procedura è, invero, quella di tutelare l’affidabilità e l’onorabilità del potenziale contraente della P.A. Il principio di libera concorrenza, che legittima la massima partecipazione degli operatori economici alle procedure, potrebbe, peraltro, non essere garantito dalla partecipazione di soggetti che, omettendo il pagamento degli oneri fiscali, hanno la possibilità di presentare offerte economiche più vantaggiose rispetto a quelle provenienti da coloro che hanno puntualmente assolto i debiti tributari. Il principio del favor partecipationis degli operatori economici non può, quindi, essere applicato sino al punto da ammettere alla procedura anche coloro che presentino situazioni debitorie tali da compromettere la solvibilità, l’affidabilità e la solidità finanziaria del potenziale contraente della P.A. (11). Il fatto che il citato art. 80, comma 4, preveda la possibilità per l’operatore economico di evitare l’esclusione qualora, prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande (12), si impegni in modo vincolante
(10) Cfr. art. 38, comma 1, lettere g) ed i), del D. Lgs. n. 163/2006. (11) Cfr. Consiglio di Stato 15 dicembre 2014, n. 6157; Tar Lazio, Roma, sez. II, 28 dicembre 2017, n. 12472, in Foro amm., 2017, 2466. (12) Questa ipotesi di regolarizzazione non può essere applicata qualora la perdita del requisito della regolarità contributiva sia dovuto alla violazione dell’obbligo di pagamento di un debito tributario venuto in scadenza successivamente alla aggiudicazione della gara e prima della stipula del contratto, anche se l’operatore economico sia ancora in tempo per provvedere alla regolarizzazione e vi provveda tempestivamente (cfr. Consiglio di Stato, sez V, 2 luglio 2018, n. 4039). Si segnala sul punto l’esistenza di un disegno di legge (n. 2025 comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica in data 20 novembre 2020) con il quale si propone la modifica dell’art. 80, comma 4, nel senso di consentire la possibilità di pagamento tardivo del tributo anche qualora la violazione fiscale emerga dopo il termine di presentazione delle domande. In particolare, si prevede che “L’esclusione non si applica altresì quando l’operatore sia stato informato dalla stazione appaltante dell’importo dovuto dopo il
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a pagare le imposte dovute, non consente, al fine della individuazione della ratio del provvedimento, di spostare l’ago della bilancia a favore della tutela dell’interesse collettivo alla acquisizione dei tributi a scapito del principio di libera concorrenza. Si tratta, infatti, di una peculiare prescrizione (contenuta anche nella normativa europea) finalizzata ad assicurare la proporzionalità della misura (esclusione dalla gara) rispetto al fine (garantire l’affidabilità del soggetto che contratta con la PA e tutelare la libera concorrenza nel mercato). L’impegno a pagare, formalizzato in un piano di rateazione accordato dal Fisco (13), riduce sensibilmente sia il sentore di inaffidabilità del soggetto, sia il rischio che vi siano offerte economiche che spiazzino ingiustamente la concorrenza (14). Il requisito soggettivo dell’affidabilità dell’operatore economico, in altri termini, può essere accertato anche in presenza di un impegno diligente a saldare i debiti tributari.
termine di presentazione delle domande, a condizione che ottemperi ai suoi obblighi pagando le imposte e i contributi previdenziali dovuti o si impegni in modo vincolante a pagare l’importo dovuto entro trenta giorni dalla comunicazione da parte della stazione appaltante”. (13) Sul punto cfr. Cons. Stato, sez. III, 18 dicembre 2020, n. 8148; Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2013, n. 15; Id., 20 agosto 2013, n. 20. Il Consiglio di Stato ha superato nel contempo sia quell’orientamento più morbido che riteneva sufficiente la sola presentazione dell’istanza entro il termine di presentazione della domanda di partecipazione al bando, sul presupposto di valorizzare il favor partecipationis, sia quell’orientamento eccessivamente restrittivo secondo cui la regolarità fiscale presuppone la conclusione del piano di pagamento rateizzato. L’argomentazione principale prospettata dal Consiglio a sostegno della decisione assunta è che l’effetto novativo del rapporto obbligatorio consegue al provvedimento discrezionale di accoglimento dell’istanza. Ai sensi dell’art. 19, DPR n. 602/73, infatti, la presentazione dell’istanza non determina alcuna conseguenza sulla sorte del debito, salvo l’inibizione dell’attivazione degli strumenti cautelari del fermo e dell’ipoteca. D’altra parte, pur tenendo a mente la tempistica relativa all’esame delle istanze, anticipare l’ammissione alla procedura di gara condizionandola al successivo accoglimento, potrebbe significare una violazione della certezza circa i requisiti di partecipazione, favorendo soggetti che si trovano in difficoltà economica. La presentazione dell’istanza di rateazione è di per sé sintomatica di una situazione di difficoltà economica, sia pur temporanea. Sul punto cfr. Sul tema cfr. A. Guidara, Le dilazioni di pagamento dei tributi, Catania, 2012; F. Manganaro, Esclusione dalle gare di appalto per violazioni tributarie definitivamente accertate, in Urb. app., 2013 1055. (14) Si è discusso, invece, se si debba escludere o meno l’operatore economico che provveda a regolarizzare la sua posizione fiscale beneficiando di un provvedimento di condono. Posto che la legislazione di condono consente una definizione agevolata dell’obbligazione tributaria, non può negarsi la sua rilevanza anche al fine della legittima partecipazione alla gara, a condizione però che il perfezionamento della procedura avvenga entro i termini di presentazione della domanda. Sul punto cfr. CGE, Sez I, 9 febbraio 2006, C-226/04 e 228/04, in Foro amm Cds, 2006, n. 2, 310; TAR Lazio, Roma, sez. I bis, 24 maggio 2006, n. 3840; Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2019 n. 2279.
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L’effetto positivo per le casse erariali connesso allo stimolo al versamento spontaneo, sia pur tardivo, dei tributi che consegue da quest’ultima previsione rappresenta, comunque, un profilo di secondaria importanza rispetto alla precipua finalità di non ostacolare irrimediabilmente la partecipazione alle procedure di appalto. Occorre rammentare ancora che l’esclusione dell’operatore per la violazione degli obblighi di pagamento di debiti tributari risultanti da accertamenti definitivi è di tipo obbligatorio. La comunicazione da parte dell’Agenzia delle entrate in merito alla sussistenza di debiti fiscali definitivi vincola la stazione appaltante ad adottare il provvedimento di esclusione, atteso che si tratta di un atto di certificazione assistito da pubblica fede e facente prova fino a querela di falso (15). Su tale documento – il cui esito sia “soggetto inadempiente” – non può, pertanto, essere svolto alcun apprezzamento da parte della stazione appaltante la quale lo accetta come prova sufficiente della violazione. L’ampliamento della causa di esclusione introdotta con il decreto legge semplificazioni n. 76/2020 anche ai debiti tributari risultanti da accertamenti non definitivi si propone di rafforzare ulteriormente la tutela del principio di libera concorrenza. La relazione di accompagnamento alla norma precisa che l’innovazione è dovuta all’apertura della procedura di infrazione n. 2018/2273 da parte della Commissione europea contro lo Stato italiano, poiché tale eventualità era già prevista dalla Direttiva 24/2014, la quale non sarebbe stata puntualmente recepita dalla normativa italiana del 2016 (16). Sul punto va, tuttavia, rilevato che la disciplina dei motivi di esclusione contenuta nell’art. 57 della citata Direttiva UE non contiene un espresso riferimento alla violazione di obblighi di pagamento di imposte e tasse connessi ad accertamenti non definitivi. Viene, infatti, contemplata un’esclusione obbligatoria, qualora l’amministrazione sia a conoscenza dell’esistenza di debiti relativi ad accertamenti definitivi, ed una esclusione facoltativa se “l’ammini-
(15) Cfr. Consiglio di Stato 17 maggio 2013 n. 2682. (16) La lettera di costituzione in mora inviata al Governo italiano riguarda vari profili di non conformità del nuovo codice dei contratti alle direttive UE ed in particolare quelli relativi ai limiti quantitativi posti al subappalto di opere generali e specialistiche, nonché ad altri aspetti sempre connessi al subappalto. In argomento cfr. G. Veltri, Codice dei contratti pubblici: la lettera di messa in mora della Commissione UE e la replica del legislatore, in Urb. App., 2019, 472. Cfr. P. Antonini, Appalti e irregolarità non definitive: questione senza soluzione?, in IPSOA Quotidiano 11 dicembre 2020, il quale nota che il legislatore tedesco ha recepito la direttiva utilizzando una formulazione normativa che non fa riferimento al concetto di accertamento non definitivo, senza ricevere alcuna procedura di infrazione.
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strazione può dimostrare con qualunque mezzo adeguato che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali”. La linea di demarcazione tra esclusione obbligatoria e facoltativa è data dal fatto che l’amministrazione aggiudicatrice “è a conoscenza”, ovvero “può dimostrare” la violazione degli obblighi di pagamento. Pur ritenendo preferibile la tesi per cui l’espressione “può dimostrare” evochi situazioni di irregolarità fiscali dell’operatore economico conosciute attraverso modalità differenti rispetto alla comunicazione fornita dall’Agenzia delle entrate (17), non può escludersi che la normativa europea non impedisca al legislatore interno di valutare le violazioni di obblighi relativi al pagamento di imposte non risultanti da decisioni giudiziarie o atti amministrativi definitivi, includendo quindi gli accertamenti non definitivi nella prospettiva dell’esclusione dalla gara. Quest’ultima tesi, tuttavia, si presenta debole, in quanto la giurisprudenza europea ha opportunamente affermato che “gli effetti della presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sono strettamente collegati all’esercizio e alla salvaguardia dei diritti fondamentali relativi alla tutela giurisdizionale, il cui rispetto è anch’esso assicurato dall’ordinamento giuridico comunitario. Una normativa nazionale che ignorasse totalmente gli effetti della presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sulla possibilità di partecipare ad una procedura di aggiudicazione di appalto rischierebbe di violare i diritti fondamentali degli interessati” (18). Prescindendo dall’esegesi della normativa europea, dobbiamo notare che la ragionevolezza della modifica introdotta nel 2020 può ricondursi all’esigenza di evitare che le imprese impugnino gli avvisi di accertamento al solo fine di impedire la loro definitività. L’intento della novella sarebbe, quindi, quello di non far dipendere la partecipazione alla gara da una scelta soggettiva dell’operatore economico, quella appunto di impugnare l’atto impositivo. Tuttavia, non si può trascurare che la valorizzazione, ai fini dell’esclusione, dei debiti risultanti da accertamenti non definitivi determina parimenti il rischio di coinvolgere operatori economici che si trovino in una situazione opposta; si allude specificamente a coloro che hanno subito rettifiche fiscali pretestuose, tempestivamente e fondatamente contestate, le quali sono presumibilmente
(17) Potrebbe rilevare il caso di una stazione appaltante che sia venuta a conoscenza di una violazione degli obblighi di pagamento di imposte locali (che non risulta dal certificato rilasciato dall’Agenzia delle entrate), per mezzo dell’esclusione del medesimo operatore economico da una procedura di gara gestita da una differente stazione appaltante. (18) Cfr. CGE, Sez I, 9 febbraio 2006, C-226/04.
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destinate a concludersi con l’annullamento giurisdizionale, se non addirittura in autotutela, dell’atto di accertamento. La criticità dell’estensione della causa di esclusione anche alle violazioni degli obblighi di pagamento connessi ad accertamenti non definitivi è stata comunque colta dal legislatore, il quale – come accennato – ha previsto che un operatore economico “può essere escluso” per l’esistenza di debiti da accertamenti non definitivi e non “è escluso”, configurando così un’ipotesi di esclusione applicabile discrezionalmente dalla stazione appaltante. Ed allora, il punto dolente della norma può ravvisarsi nel fatto di non contenere l’indicazione di parametri che dovrebbero essere valutati dalla stazione appaltante per giungere all’adozione del provvedimento di esclusione; sussiste così il rischio di una applicazione della norma sproporzionata rispetto al fine di assicurare la libera concorrenza e di escludere gli operatori economici inaffidabili. 3. I confini dell’espressione “violazione dell’obbligo relativo al pagamento di imposte e tasse definitivamente accertate”. – Individuata la ratio della normativa in esame, dobbiamo innanzitutto chiarire il significato dell’espressione “violazione dell’obbligo relativo al pagamento di imposte e tasse definitivamente accertate”. Al riguardo va rammentato preliminarmente che, al fine di favorire la massima partecipazione alle procedure di appalto e tutelare l’affidamento dei partecipanti, per le clausole di esclusione vige il principio di tipicità e tassatività, codificato nell’art. 83, comma 8, D. Lgs. 50/2016, secondo cui “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti”. Il principio di tassatività, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, fa sì che “le cause di esclusione dalla gara, in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono essere ritenute di stretta interpretazione, senza possibilità di interpretazione analogica, con la conseguenza che in caso di equivocità delle disposizioni che regolano lo svolgimento, deve essere preferita quell’interpretazione aderente ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza che eviti eccessivi formalismi e restrizioni alla partecipazione” (19). Con riguardo al caso che ci occupa, precisiamo innanzitutto che l’espressione imposte e tasse è usata in senso generico, evocando qualsiasi prestazio-
(19)
Così Consiglio di Stato, sez. V, 2 febbraio 2018, n. 693.
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ne di natura tributaria, comunque denominata dal legislatore (20), per la quale si è registrata una violazione dell’obbligo di pagamento. Rientrano, quindi, anche canoni, diritti, tariffe e altre prestazioni patrimoniali annoverabili nella categoria del tributo, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza costituzionale, e cioè coattività del prelievo e finalizzazione degli introiti al sostenimento della spesa pubblica. Ciò vuol significare in particolare che le violazioni dell’obbligo di pagamento di tributi locali possono determinare l’esclusione dalla gara (21), anche se – va rilevato – sono difficilmente accertabili dalla stazione appaltante posto che le inadempienze rispetto ai tributi locali non risultano dalla comunicazione fornita dall’Agenzia delle entrate tramite il sistema Authority Virtual Company Passport - AVCPass (22). La violazione dell’obbligo di pagamento può, peraltro, riguardare non solo il tributo in sé, ma anche le sanzioni amministrative e gli interessi moratori richiesti dal Fisco in relazione a qualsiasi tipologia di irregolarità tributaria (23). Si è discusso ancora se, ai fini dell’esclusione dalle gare, la violazione tributaria debba attenere esclusivamente agli obblighi di pagamento di imposte dovute dall’operatore economico, ovvero anche alle violazioni tributarie riguardanti personalmente l’amministratore, nonché riguardanti altri operatori economici di cui lo stesso amministratore era in precedenza rappresentante legale. In vigenza del DPR n. 554/1999, l’art. 75 sulle cause di esclusione prevedeva che sono esclusi dalla gara “i soggetti” che abbiano commesso irrego-
(20) Sulla nozione di tributo per tutti si veda L. Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 177; G. Fransoni, La nozione di tributo nella giurisprudenza della corte costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 123; M. Ingrosso, Tributo e sovranità, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 140; L. Del Federico, I tributi paracommutativi e la teoria di Antonio Berliri della tassa come onere nell’attuale dibattito su autorità e consenso, in Riv. dir. fin., 2009, 69; A. Fedele, La definizione del tributo nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. dir. trib., 2018, 1. (21) Così Consiglio di Stato, sez. V, 2 febbraio 2018, n. 693. (22) Occorre, peraltro, evidenziare che gli uffici centrali delle imprese di grandi dimensioni che operano su tutto il territorio nazionale spesso non vengono prontamente a conoscenza delle pretese fiscali avanzate dagli enti locali in relazione a presupposti impositivi correlati alle sedi periferiche, per la mancanza di un sistema centralizzato di ricezione degli atti ad esse notificati. Vi è, quindi, il rischio per tali operatori economici di rilasciare dichiarazioni false in merito all’insussistenza di debiti fiscali. (23) Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 1 febbraio 2017, n. 723.
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larità tributarie. La giurisprudenza ha rilevato che il riferimento normativo a “i soggetti” doveva essere interpretato nel senso di riguardare indistintamente tutti coloro nei cui confronti siano state accertate irregolarità tributarie, ed in particolare di includere anche gli illeciti fiscali commessi dagli amministratori quali rappresentanti di una società diversa rispetto a quella concorrente alla gara (24). La legislazione attuale non utilizza più l’espressione “i soggetti”, bensì gli “operatori economici”, pertanto, in ossequio al criterio di stretta esegesi delle norme sulle cause di esclusione, deve escludersi che il mancato versamento di imposte e tasse possa involgere tributi diversi da quelli dovuti da chi partecipa alla gara; non rileva, quindi, la “posizione fiscale irregolare” dell’amministratore per questioni estranee all’operatore economico che rappresenta. D’altra parte, la valutazione sull’affidabilità e la solidità economica del contraente della PA dovrebbe prescindere da condotte illecite imputabili all’amministratore in relazione a pregresse società rappresentate, di cui egli potrebbe anche non avere avuto consapevolezza (25). Fatte queste precisazioni, evidenziamo che l’art. 80, comma 4, qualifica violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più oggetto di contestazione (26). Si deduce, quindi, che le violazioni non definitivamente accertate siano quelle che risultano da sentenze o da atti amministrativi oggetto di impugnazione. A questo punto dobbiamo rimarcare che, nella prospettiva di un’eventuale esclusione dalla procedura, rileva non la violazione della norma tributaria definitivamente accertata, ma la specifica violazione dell’obbligo di pagamento collegato ad un accertamento definitivo. Bisogna, quindi, tener conto del fatto che vi è un sensibile sfasamento temporale tra il momento in cui viene accertata la violazione da parte del Fisco e il momento in cui sorge l’obbligo del pagamento della maggiore imposta e delle sanzioni.
(24) Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 8 agosto 2003, n. 4599. (25) Nelle grandi aziende le scelte gestionali non sono mai frutto della volontà dell’amministratore, ma sono la risultante del concorso delle volontà di più individui (professionisti, capi area, etc.) o di più centri decisionali. Scelte alle quali l’amministratore può difficilmente sottrarsi. Non a caso il D.l. n. 269/2003 ha stabilito che per le violazioni poste in essere da persone giuridiche le sanzioni sono poste esclusivamente a loro carico, escludendo la responsabilità degli amministratori. (26) Il vecchio codice faceva riferimento ai debiti certi, scaduti ed esigibili.
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Ed allora, di fronte a una violazione contestata in sede di verifica fiscale e risultante dal processo verbale di constatazione, se non è stato ancora notificato l’avviso di accertamento contenente la pretesa a titolo di imposta, sanzioni ed interessi, non sussistono i presupposti di legge per l’esclusione dalla procedura di appalto. Il rilascio della copia del processo verbale di constatazione al contribuente non determina, infatti, obblighi di pagamento. In questa fase, è possibile, tuttavia, regolarizzare spontaneamente la violazione ipotizzata dai verificatori, facendo ricorso agli istituti della dichiarazione integrativa e del ravvedimento operoso (27). Supponiamo ora il caso che, dopo il rilascio del processo verbale di constatazione, l’Ufficio notifichi l’avviso di accertamento, avverso cui l’operatore economico non proponga ricorso giurisdizionale. Per stabilire quando emerge la violazione dell’obbligo di pagamento delle somme dovute a titolo di imposta e sanzioni, bisogna fare una distinzione tra gli “accertamenti esecutivi” riguardanti le Imposte sui redditi, l’Iva e l’Irap (28), nonché di recente anche i tributi locali (29), e quelli “non esecutivi” inerenti ad altri tributi per cui non si applica la “concentrazione della riscossione nell’accertamento”
(27) Sul tema cfr. P. Coppola, La dichiarazione tributaria e la sua rettificabilità, Padova, 2005; G. Ragucci, Gli istituti della collaborazione fiscale, Torino, 2018, 37. (28) Cfr. l’articolo 29 del d.l. n. 78/2010. Tale innovazione è stata oggetto di immediati e puntuali commenti della dottrina e per tutti si segnala F. Tesauro, L’accertamento tributario con efficacia esecutiva, in Giur. it., 2012, 965; S. La Rosa, Riparto delle competenze e concentrazione degli atti nella disciplina della riscossione, in Riv. dir. trib., 2011, I, 577; G. Gaffuri, Aspetti critici della motivazione relativa agli atti d’imposizione e l’esecutività degli avvisi di accertamento, ivi, 597; A. Carinci, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento “esecutivo” ex DL 78/2010, ivi, 159; A. Giovannini, Riscossione in base al ruolo e agli atti di accertamento, in Rass. trib., 2011, 22; E. Marello, L’accertamento tributario esecutivo: ambito di applicazione e profili generali, in Giur. it., 2012, 966; F. Tundo, L’avviso di accertamento quale atto della riscossione, in Corr. trib., 2010, 2653; S. Cannizzaro, Concentrazione della riscossione nell’accertamento: le ricadute sul sistema, in AA.VV., La riscossione dei tributi, Quaderni della Rivista di diritto tributario, 2011, 65; P. Coppola, La concentrazione della riscossione nell’accertamento: una riforma dagli incerti profili di ragionevolezza e coerenza interna, in Rass. trib., 2011, 1421. Va altresì segnalata l’opera collettanea AA.VV, La concentrazione della riscossione nell’accertamento, a cura di V. Uckmar e C. Glendi, Padova, 2011, che raccoglie le relazioni di due convegni dedicati specificamente a questa tematica, tenutisi a Sanremo il 3-4 giugno 2011 ed a Brescia il 15 luglio 2011. (29) Quando l’idea di generalizzare l’accertamento impo-esattivo sembrava tramontata, con l’art. 1, comma 792, legge n. 160/2019, questa nuova qualifica dell’atto di accertamento è stata introdotta anche per i tributi locali, replicando in larga misura la disciplina prevista nel D.L. n. 78/2010. Sul punto cfr. S. Ballo, L’avviso di accertamento esecutivo nel sistema della riscossione dei tributi locali, in Innovazione e diritto, 2020, 1.
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Per gli avvisi di accertamento esecutivi (detti impo-esattivi) divenuti definitivi per mancata impugnazione, le somme dovute devono essere versate dal contribuente entro sessanta giorni dalla ricezione dell’atto, decorsi i quali si può considerare violato l’obbligo di pagamento. Con riguardo, invece, agli avvisi di accertamento non esecutivi, quali ad esempio l’avviso di rettifica e di liquidazione nell’ambito delle imposte di successione e donazione, ovvero l’avviso di accertamento nell’imposta di registro (30), divenuti definitivi per mancata impugnazione, la violazione dell’obbligo di pagamento si manifesta in un momento successivo, rilevando a tal fine la notifica dell’avviso di liquidazione e il decorso di ulteriori sessanta giorni. Pur essendo definitiva e non più contestabile la determinazione del quantum dovuto a titolo di maggiore imposta, occorre che si completi l’iter del procedimento impositivo rappresentato appunto dalla notifica dell’avviso di liquidazione o della cartella di pagamento. Non a caso l’eventuale versamento anticipato da parte del contribuente, cioè l’acquiescenza all’atto, determina la misura premiale della riduzione delle sanzioni ex art. 15, D. Lgs. n. 217/1998, se avviene entro sessanta giorni. Su questo punto, però, la giurisprudenza ha sostenuto che la circostanza per cui all’avviso di accertamento non impugnato non sia seguita la cartella di pagamento (e prima ancora che non vi sia stata iscrizione a ruolo delle somme dovute) non è d’impedimento a ritenere la violazione definitivamente accertata, con conseguente obbligo di escludere l’operatore, in quanto “la cartella è il primo atto della fase di riscossione, che può essere contestata per vizi formali, ma senza che possa più discutersi dell’esistenza del debito tributario che è iscritto a ruolo solo dopo la definitività degli stessi” (31). Questa conclusione è il frutto della mancata considerazione di quanto rilevato in precedenza, e cioè che il presupposto previsto dall’art. 80, comma 4, per l’esclusione dalla procedura è rappresentato dalla violazione degli obblighi di pagamento connessi ad accertamenti definitivi e non dalla mera definitività dell’accertamento. Un problema che si pone per gli accertamenti non esecutivi divenuti definitivi per mancata impugnazione è se l’eventuale opposizione alla consequen-
(30) Disciplinati rispettivamente dagli artt. 34 e 37, D. Lgs. n. 346/1990 e dall’art. 55, Dpr n. 131/1986. Sul tema dell’accertamento officioso delle imposte sui trasferimenti cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2015, 426. (31) Cfr. Cons. Stato, sez. V., 14 aprile 2020, n. 2397; Cons. Stato, sez. V, 3 aprile 2018, n. 2049.
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ziale cartella di pagamento (per vizi propri) possa determinare la non definitività della pretesa fiscale e quindi impedire l’esclusione obbligatoria dalla procedura. Muovendo dal presupposto che l’accoglimento del ricorso per vizi della cartella attinenti ad esempio alla notifica o alla violazione dei termini di decadenza (art. 25, Dpr n. 602/73) renda inesigibile la pretesa fiscale connessa all’accertamento definitivo, può ragionevolmente sostenersi che la violazione dell’obbligo di pagamento non si consideri integrata nell’ipotesi della impugnazione della sola cartella, rendendosi necessario il rigetto dell’opposizione da parte del giudice tributario; e ciò anche in ossequio alla regola della “stretta interpretazione” delle norme sulle cause di esclusione. Analogo ragionamento può essere condotto con riguardo alle cartelle di pagamento o alle intimazioni di pagamento notificate a seguito di sentenze definitive che vedono soccombente il contribuente, per le quali secondo la giurisprudenza non si applica il termine biennale di decadenza, previsto dall’art. 25 citato per gli “accertamenti divenuti definitivi”, ma il termine di prescrizione ordinario previsto per la c.d. actio giudicati, cioè per l’azione diretta a dare esecuzione a una sentenza passata in giudicato, secondo quanto dispone l’art. 2953 c.c. (32): la violazione dell’obbligo di pagamento non può ricondursi alla mera sussistenza della sentenza definitiva, dovendosi attendere l’espletamento del procedimento di riscossione, che potrebbe non andare a buon fine per vizi degli atti di riscossione. La giurisprudenza amministrativa, sul punto, ha discutibilmente affermato che “la pendenza del termine di impugnazione della cartella di pagamento, in quanto atto attinente alla fase della riscossione di un rapporto già accertato non pregiudica la definitività dell’accertamento” e quindi si deve dedurre la possibilità di escludere l’operatore (33). Anche questa affermazione è dovuta ad una confusione sul presupposto rilevante ai fini dell’esclusione dalla procedura ai sensi dell’art. 80, comma 4: non la mera definitività dell’accertamento,
(32) La giurisprudenza, muovendo dal carattere sostitutivo della sentenza rispetto all’atto impositivo, sostiene che l’art. 2953 c.c. prevalga sull’art. 25 dpr n. 602/73, in quanto quest’ultimo riguarda solo gli accertamenti definitivi per mancata impugnazione (Cass., SS.UU., n. 2579/2009; Cass. n. 9076/2017). Questa tesi è criticabile, in quanto secondo la Corte costituzionale il contribuente non può essere esposto per un tempo troppo ampio all’azione esecutiva del Fisco e poco importa se il titolo sia rappresentato da un avviso di accertamento o da una sentenza (sent. n. 280/2005) l’espressione “accertamenti definitivi” deve includere anche l’eventuale intervento di una pronuncia giurisdizionale totalmente o parzialmente favorevole al Fisco. (33) Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 12 febbraio 2018, n. 856.
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ma la violazione degli obblighi di pagamento connessi ad accertamenti definitivi. Al fine di delimitare il campo di applicazione dell’esclusione automatica per debiti connessi ad accertamenti definitivi, dobbiamo altresì precisare cosa accade se al momento di presentazione della domanda di partecipazione alla gara pendano i termini per proporre opposizione, ma ancora il ricorso tributario non sia stato notificato alla controparte. A prescindere dal fatto che non vi è ancora una violazione di obblighi di pagamento, non si può affermare di essere di fronte ad un accertamento definitivo. Il contribuente ha, infatti, diritto di opporsi sino allo scadere del termine di sessanta giorni. In questa misura, non è condivisibile quell’orientamento giurisprudenziale che nega ogni rilevanza alla pendenza dei termini per proporre ricorso e quindi all’astratta impugnabilità dell’atto impositivo (34). D’altra parte, posto che i requisiti soggettivi di onorabilità devono sussistere non solo al momento di presentazione della domanda (35), ma anche per tutta la durata della procedura (36), in mancanza di concreta impugnazione successiva alla presentazione della domanda, la stazione appaltante può, comunque, procedere con l’esclusione obbligatoria dell’operatore. In merito agli atti di contestazione e ai provvedimenti di irrogazione delle sanzioni, va detto che essi possono qualificarsi come atti di accertamento di
(34) In tal senso cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 agosto 2017, n. 3985. Contra cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2013, n. 261. Nel senso della non definitività dell’atto di accertamento qualora alla scadenza di presentazione della domanda ancora pendano i termini per ricorrere si è espressa l’Agenzia delle entrate con la circ. 34/E del 25 maggio 2007. Sul punto si veda R. Codebò, Irregolarità fiscale e violazioni tributarie definitivamente accertate, in Urb. app., 2013, 540. (35) La mancanza di un requisito non può peraltro essere regolarizzata nel corso della procedura, pena la violazione della par condicio tra gli operatori che partecipano alla gara. Sul punto cfr. Cons. Stato, sez. III, 27 dicembre 2004, n. 8215, che ha ritenuto irrilevante la presentazione di una istanza di condono successiva al termine per la presentazione delle offerte; Cons. Stato, sez. V, 10 agosto 2010, n. 5556, che ha escluso ogni rilievo al pagamento tardivo del debito tributario. (36) Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 20 luglio 2015, n. 8; Cons. Stato, Sez. III, 6 marzo 2017, n. 1050. Cons. Stato, sez. III, 18 dicembre 2020, n. 8148. Ove la stazione appaltante venga a conoscenza di una causa di esclusione successivamente all’aggiudicazione della gara, ma prima della stipula del contratto, la stazione appaltante può adottare un provvedimento di annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21 nonies della legge n. 241/90 se la fattispecie escludente era sorta prima dell’aggiudicazione, ovvero un provvedimento di revoca ai sensi dell’art. 21 quinquies della citata legge, se la fattispecie escludente è sorta in un momento successivo all’aggiudicazione. Sul punto si veda E. Romano, L’esclusione dell’operatore, cit., 154.
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un debito fiscale. Ed invero, se la violazione tributaria non determina l’insorgenza di una maggiore imposta e quindi risulta dovuta solo la sanzione amministrativa, l’Ufficio non notifica l’avviso di accertamento, ma l’atto di contestazione tipizzato dall’art. 16, D. Lgs. n. 472/1997 (che in mancanza di produzione di memorie difensive si considera provvedimento di irrogazione di sanzioni), il cui omesso pagamento (entro sessanta giorni dalla notifica) legittima l’esclusione dalla gara. Quanto alle contestazioni mosse dal Fisco con le procedure ex artt. 36 bis e 36 ter del Dpr n. 600/73 (per le Imposte sui redditi), nonché quelle di cui all’art. 54 bis del Dpr n. 633/72 (per l’Iva), cioè di liquidazione e controllo formale della dichiarazione (37), le quali si concludono con la notifica della cartella di pagamento quale primo atto impositivo che può essere oggetto di impugnazione anche per errori nella dichiarazione (38), bisogna coordinare la citata legislazione tributaria con l’art. 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici, che evoca genericamente il termine “accertamento”. Al proposito, non si ritiene che contrasti con la regola della “stretta interpretazione” delle norme che disciplinano le clausole di esclusione, l’affermazione per cui il termine “accertamento” vada inteso non come “avviso di accertamento”, bensì come qualunque atto che contenga una pretesa fiscale compiuta connessa a violazioni del contribuente. Pertanto, anche le cartelle di pagamento aventi funzione impositiva, e non meramente liquidatoria di una pretesa aliunde determinata (39), legittimano l’esclusione della procedura di appalto, qualora l’operatore economico non provveda al pagamento integrale entro sessanta giorni dalla notifica (40). Il pagamento integrale va effettuato anche se è stato proposto ricorso, posto che la riscossione provvisoria nella misura di un terzo vale solo per le somme risultanti da avvisi di accertamento (41).
(37) Cfr. R. Rinaldi, Profili ricostruttivi della liquidazione d’imposta, Lint editoriale, 2000. (38) Sulla possibilità di emendare la dichiarazione in sede di impugnazione della cartella si veda l’art. 2, commi 6 e 8, Dpr n. 322/1998. (39) Sul tema cfr. A. Carinci, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2008, 195 e ss.; M. Basilavecchia, Ruolo di imposta, in Enc. dir., Milano, 1989, vol. XLI, 182. (40) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2019, n. 2279. (41) Nel senso che il pagamento effettuato dal contribuente nelle more del giudizio e per evitare successivi atti esecutivi non comporti acquiescenza alla pretesa e di conseguenza non determini la cessazione della materia del contendere cfr. Cass. n. 20962/2020.
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A differenza di quanto sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa (42), nessun rilievo ai fini dell’esclusione dalla gara può, invece, essere assegnato alle comunicazioni di irregolarità (dette anche avvisi bonari), che, nell’ambito delle citate procedure di liquidazione e controllo formale della dichiarazione, precedono l’iscrizione a ruolo delle somme dovute e la notifica della cartella di pagamento: si tratta, infatti, di atti il cui scopo è quello di stimolare un contraddittorio procedimentale con il contribuente finalizzato a segnalare dati non considerati o “valutati” erroneamente dall’Ufficio e nel contempo di incentivare il pagamento immediato di quanto dovuto, grazie alla concessione del beneficio di una riduzione delle sanzioni (43). Nella prospettiva di delineare il campo di applicazione della norma, dobbiamo svolgere una ulteriore precisazione. Può accadere che l’imprenditore dichiari esattamente quanto dovuto al Fisco, ma non provveda al versamento. In tal caso, la normativa sulla liquidazione della dichiarazione prevede che l’Ufficio fiscale invii una comunicazione di irregolarità finalizzata a stimolare il pagamento spontaneo, a cui fa eventualmente seguito la notifica della cartella di pagamento, quale atto tipico che legittima la riscossione coattiva del dovuto. Ebbene, in tali situazioni bisogna verificare quando la stazione appaltante debba procedere con l’esclusione obbligatoria dalla gara: può rilevare, infatti, lo scadere dei termini di pagamento agganciati alla dichiarazione, ovvero lo scadere dei termini per il pagamento della cartella di pagamento. L’articolo 80, comma 4, richiama il concetto di violazione degli obblighi di pagamento risultanti da un accertamento definitivo (o non definitivo), alludendo quindi ad atti impositivi e sentenze. Per la normativa tributaria, invece, la violazione dell’obbligo di pagamento si consuma nel momento in cui decorrono i termini previsti per effettuare tale adempimento, che peraltro precedono di poco la presentazione della dichiarazione. Vi è, quindi, un mancato coordinamento tra le due normative. Se il termine di scadenza per la partecipazione alla gara si interpone tra i due predetti momenti, sul piano formale, l’operatore economico non ha ricevuto un “accertamento” dal Fisco, ma, sul piano sostanziale, l’obbligo di versamento delle imposte è stato violato. La giurisprudenza si è occupata di
(42) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 aprile 2018, n. 2049. (43) Cfr. G. Ingrao, Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito dell’impugnabilità di avvisi di pagamento, comunicazioni di irregolarità, preavvisi di fermo di beni mobili e fatture), in Rivista di diritto tributario, 2007, I, 1075.
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recente di tale questione ed ha sostenuto che “privilegiando il dato letterale (e indubbiamente molto garantista) dell’art. 80, comma 4, se gli atti del Fisco vengono notificati in epoca successiva al termine di scadenza della domanda di gara, non vi sono in senso stretto i presupposti per escludere il concorrente dalla gara” (44). Questa conclusione, pur essendo frutto di argomentazioni ragionevoli, risulta criticabile. Ed infatti, vero è che l’espressione “debito risultante da accertamento definitivo” evoca principalmente la presenza di un atto dell’amministrazione finanziaria, ma è anche sostenibile che essa non escluda le ipotesi di accertamento del debito collegate ad adempimenti del contribuente ed in particolare alla dichiarazione tributaria. Pertanto, in mancanza di rettifica dell’Ufficio, la dichiarazione può essere considerata un adempimento amministrativo (45) con cui si accerta la fattispecie imponibile e si determinano le imposte dovute. La possibilità di qualificare la dichiarazione come atto di accertamento del debito d’imposta è, peraltro, confermata dal regolamento sull’esercizio del potere di autotutela (Dm n. 37/1977), il quale disciplina, oltre l’annullamento d’ufficio dell’atto impositivo, anche la rinuncia all’imposizione in caso di “autoaccertamento”, alludendo alla possibilità che il Fisco non pretenda o non trattenga somme risultanti dalla dichiarazione o altri adempimenti posti erroneamente dal contribuente (46). Qualora, invece, al momento della partecipazione alla gara l’operatore economico abbia ricevuto la cartella di pagamento connessa all’omesso versamento di quanto esposto nella dichiarazione ed abbia proposto ricorso alla Commissione tributaria, si ricade nella fattispecie di accertamento non definitivo e quindi la stazione appaltante può escludere discrezionalmente il soggetto dalla procedura, sulla base della nuova formulazione dell’art. 80, comma 4. In questo caso, vi sono pochi margini per non adottare il provvedimento di esclusione, salvo quanto si dirà in avanti in merito al rapporto tra debito d’imposta e importo dell’appalto (47).
(44) Cfr. Consiglio di Giustizia amministrativa Sicilia, 16 agosto 2019, n. 758; in senso conforme Consiglio di Stato, Sez. V, n. 59/2018. (45) Cfr. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, 110. (46) Sul tema cfr. D. Stevanato, L’autotutela dell’amministrazione finanziari. L’annullamento di ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996; P. Rossi, Il riesame degli atti di accertamento. Contributo allo studio del potere di annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Milano, 2008. (47) Con la vecchia normativa, invece, non poteva operare l’esclusione obbligatoria per
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Da ultimo è opportuno rilevare che, per gli operatori economici che si trovino in regime di concordato preventivo con prosecuzione dell’attività, l’art. 95 del codice della crisi di impresa (D. Lgs. n. 14/2019) consente la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici, ma la condiziona all’autorizzazione del Tribunale (48). I debiti tributari sorti prima della domanda di ammissione alla procedura, che sono inseriti nel piano che sta alla base del concordato, pertanto, non assumono rilevanza ai fini della situazione di irregolarità fiscale dell’operatore economico. Le violazioni fiscali che hanno determinato il debito tributario pregresso alla presentazione della domanda di concordato (49) non inficiano la regolarità dell’operatore economico anche qualora nel piano non se ne preveda il pagamento integrale (50). 3.1. (segue): e dell’espressione “violazione dell’obbligo relativo al pagamento di tributi non definitivamente accertati”. – Occupiamoci ora del caso in cui l’avviso di accertamento venga impugnato dal contribuente. Come è noto, all’impugnazione consegue, per i tributi erariali, la possibilità per l’Ufficio di riscuotere provvisoriamente un terzo delle somme richieste (art. 15, Dpr n. 602/73), mentre per gli altri tributi, in mancanza di una espressa previsione di legge, la riscossione provvisoria riguarda la totalità dell’importo preteso. Riprendendo la distinzione fatta in precedenza, per gli avvisi di accertamento esecutivi oggetto di impugnazione, le somme dovute a titolo provvisorio devono essere versate dal contribuente entro sessanta giorni dalla ricezione dell’atto, decorsi i quali si può considerare violato l’obbligo di pagamento. Nel caso, invece, di notifica di un avviso di accertamento non esecutivo, la violazione dell’obbligo del pagamento provvisorio presuppone la notifica
mancanza del requisito della definitività dell’accertamento, nonostante il debito risultasse dalla dichiarazione del contribuente. (48) L’art. 80, comma 5, lettera b), del codice dei contratti esclude la possibilità di partecipare alle gare per l’operatore economico sottoposto a liquidazione giudiziale o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o sia in corso nei suoi confronti un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, facendo salvo quanto previsto dall’art. 95 del codice della crisi di impresa. (49) Per i debiti tributari sorti successivamente rilevano i criteri applicati in via ordinaria a tutti gli operatori economici al fine di stabilire l’esclusione automatica o facoltativa dalla procedura. (50) Il codice della crisi di impresa dispone peraltro che l’ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione dei contratti pubblici se il professionista designato dal debitore ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento.
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dell’avviso di liquidazione (o della cartella di pagamento) e il decorso di sessanta giorni. Va ancora precisato che, se il contribuente chiede la sospensione cautelare dell’atto impugnato, fintanto che il giudice non si pronunci sulla istanza cautelare (rigettandola) e comunque per il periodo di centottanta giorni (51) non vi è alcun obbligo di pagamento. In seguito al mancato accoglimento dell’istanza cautelare, o comunque al decorso del predetto lasso temporale, può considerarsi integrato il requisito della violazione degli obblighi di pagamento delle somme dovute in via provvisoria. Analogo ragionamento va fatto nel caso di impugnazione della sentenza favorevole al Fisco, per cui è prevista la riscossione provvisoria nella misura indicata dall’art. 68, D. Lgs. n. 546/1992, con possibilità di sospendere l’esecuzione. 4. L’esercizio del potere discrezionale della stazione appaltante di esclusione dell’operatore economico per violazione dell’obbligo di pagamento connesso ad accertamenti non definitivi: la possibile valutazione della sproporzione tra debito tributario e importo dell’appalto. – A questo punto spendiamo qualche considerazione a proposito della modifica introdotta con il decreto legge n. 76/2020. Come rilevato in precedenza, la norma non indica dei parametri sulla base dei quali la stazione appaltante può procedere con l’esclusione di un operatore economico in presenza di debiti connessi ad accertamenti non definitivi a suo carico. Si è, quindi, paventata l’assegnazione di un potere eccessivamente ampio, che potrebbe determinare l’insorgenza sistematica di un contenzioso amministrativo. L’unico parametro fissato sul piano normativo è di carattere generale (cioè riguarda anche l’esclusione obbligatoria) e attiene alla nozione di grave violazione. È disposto, infatti, che “costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”. La norma tributaria cui rinvia l’art. 80, comma 4, fissa in € 5.000 la soglia di rilevanza del debito tributario del contribuente ai fini della sospensione del pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione nei suoi confronti (52).
(51) (52)
Termine previsto dall’art. 29 del D.L. n. 78/2010. Cfr. M. Basilavecchia, Soggetti passivi e riscossione coattiva, in Corr trib., 2006,
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Sul punto giova innanzitutto evidenziare che la normativa europea non prevede il requisito della gravità della violazione, ritenendo sufficiente che l’operatore non abbia ottemperato agli obblighi di pagamento di imposte e tasse a prescindere dalla loro entità. Ciò vuol significare che l’art. 80 ha adottato un approccio maggiormente garantista della posizione degli operatori economici rispetto a quello che emerge dalla normativa europea. Non è, quindi, sindacabile per violazione del principio di proporzionalità la scelta di aver fissato una soglia così bassa ai fini dell’esclusione automatica o discrezionale dalla gara (53). Ciò posto, occorre evidenziare che le stazioni appaltanti di fronte a debiti connessi ad accertamenti non definitivi non debbano di fatto adottare provvedimenti “automatici” di esclusione, altrimenti finirebbero per risultare spesso sproporzionati. Sussistendo una “pendenza fiscale” che abbia determinato la violazione dell’obbligo di versare le imposte in via provvisoria, bisogna, invece, individuare ragionevoli elementi che le stazioni appaltanti possano valutare per bilanciare l’interesse pubblico alla tutela della libera concorrenza con quello privato alla partecipazione alla gara e quindi garantire la proporzionalità della eventuale decisione di esclusione dell’operatore (54). Il rispetto del principio di proporzionalità è del tutto necessario soprattutto alla luce della natura sostanzialmente sanzionatoria che la dottrina assegna al provvedimento di esclusione, che dovrebbe appunto essere adottato quale extrema ratio (55). In questa prospettiva, è certamente da escludere che la stazione appaltante entri nel merito della fondatezza della pretesa del Fisco e delle eccezioni difensive del contribuente contenute nel ricorso tributario; può, però, sostenersi che, per garantire la proporzionalità del provvedimento di esclusione, potrebbe considerarsi il rapporto tra l’ammontare delle imposte e tasse non versate in via provvisoria e l’ammontare dell’appalto, nonché il rapporto tra il debito tributario provvisorio e il patrimonio dell’operatore economico.
3395. (53) Tale soglia può trovare giustificazione nell’ambito della procedura di sospensione dei pagamenti dei debiti delle pubbliche amministrazioni se il beneficiario è inadempiente ad obblighi tributari risultanti da cartelle di pagamento, ma difficilmente si presta ad essere utilizzata per altri scopi. (54) Cfr. Corte di Giustizia Europea, sez. IV, 19 giugno 2019, C-41/18. (55) Sulla natura sanzionatoria dei provvedimenti di esclusione cfr. A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm., 2014, 627; C. Sereni Lucarelli, Esclusione del concorrente non in regola con il Fisco e principio di proporzionalità, cit., 857.
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Vi è da dire, però, che, nonostante il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa in materia di appalti venga richiamato sia dalla Direttiva europea 24/2014 (considerando 101), sia dalla giurisprudenza (56), esso risulta scarsamente applicato dalle stazioni appaltanti (57), anche con specifico riferimento alle cause di esclusione per debiti fiscali. Tuttavia, se appare discutibile escludere dalla gara un operatore economico per un debito risultante da un accertamento definitivo di modesta entità rispetto all’importo dell’appalto, a maggior ragione appare forzato che l’esclusione finisca per essere una conseguenza “automatica” connessa alla presenza di un debito fiscale provvisorio. Sarebbe stato, pertanto, più ragionevole, quanto meno per i debiti connessi ad accertamenti tributari non definitivi, fissare già sul piano normativo un rapporto percentuale tra debito tributario oggetto di contestazione e importo dell’appalto. Le “carenze” della normativa potrebbero, comunque, essere “compensate” da un‘attenta opera di valutazione del caso concreto da parte delle stazioni appaltanti, le quali dovrebbero adottare il provvedimento di esclusione solo se proporzionato, cioè idoneo (rispetto all’obiettivo da perseguire), necessario (cioè non sostituibile con altro strumento) e adeguato (rispetto alla tutela degli interessi in gioco e tra questi quello di arrecare il minor sacrificio ai soggetti coinvolti). La proporzionalità del provvedimento sussiste solo se la violazione degli obblighi di pagamento di debiti tributari non definitivi comprometta in modo significativo l’affidabilità del concorrente. In questa prospettiva, l’impugnazione dell’atto di accertamento, unitamente alla produzione del bilancio di esercizio dal quale risulta un’adeguata consistenza patrimoniale dell’operatore, potrebbe di per sé rappresentare una prova sufficiente della sua affidabilità. È noto, infatti, che i soggetti “inaffida-
(56) Cfr. Corte di giustizia UE, 26 settembre 2019, C-63/18. (57) In questi termini cfr. C. Sereni Lucarelli, Esclusione del concorrente non in regola con il Fisco e principio di proporzionalità, cit., 853, la quale nota che la frequente confusione tra proporzionalità e ragionevolezza ha indebolito la forza cogente del principio di proporzionalità nella fase di applicazione da parte delle amministrazioni che si sentono “legittimate” ad assumere decisioni arbitrarie, apoditticamente proporzionate. Le stazioni appaltanti, mascherandosi dietro motivazioni di presunta incidenza causale sul rapporto fiduciario, non di rado escludono gli operatori economici anche a fronte di violazioni del tutto irrilevanti dal punto di vista economico, se rapportate al valore dell’opera nel suo complesso, o di illeciti professionali risalenti nel tempo che difficilmente possono avere una incidenza effettiva sul rapporto fiduciario. Sul tema cfr. altresì L. La Rosa, Discrezionalità della P.A. e principio di proporzionalità nell’applicazione delle cause di esclusione, in Urb. app., 2019, 779.
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bili e insolventi”, essendo privi di un patrimonio su cui il Fisco può svolgere la riscossione coattiva, di norma non impugnano gli atti di accertamento; non si preoccupano, cioè, della loro definitività. Va ancora considerato che, qualora nei periodi di imposta precedenti l’imprenditore abbia subito la notifica di avvisi di accertamento su questioni analoghe a quelle per cui pende la controversia che potrebbe determinare l’esclusione, un indicatore di affidabilità è certamente rappresentato dal fatto che i pregressi processi si siano conclusi con l’annullamento degli atti impositivi. Da ultimo, si fa presente che la Direttiva europea prevede un meccanismo di c.d. self-cleaning, secondo cui un operatore, se si trova in una delle situazioni che inverino una causa di esclusione obbligatoria o facoltativa, può fornire prove del fatto che le misure da lui adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità, nonostante l’esistenza di un motivo di esclusione; se esse sono ritenute adeguate non viene escluso dalla procedura di appalto. Le misure adottate dagli operatori economici sono valutate considerando la gravità e le particolari circostanze dell’illecito. Tale meccanismo è stato riprodotto nel comma 7 dell’art. 80, D. Lgs. n. 50/2016, con una discutibile esclusione dal campo di applicazione, tra le altre, delle violazioni di cui al comma 4. 5. Conclusioni. – Tirando le fila del lavoro, possiamo affermare che i provvedimenti di esclusione per irregolarità fiscali adottati dalle stazioni appaltanti non sempre risultano coerenti con la formulazione dell’art. 80, comma 4, D. Lgs. n. 50/2016, che valorizza la violazione dell’obbligo di pagamento di imposte e tasse. Bisogna, infatti, tenere ben distinto il profilo dell’accertamento del debito tributario (definitivo o meno) con quello della violazione dell’obbligo di pagamento. Nella prospettiva dell’esclusione dalla procedura rileva non una grave irregolarità fiscale definitivamente accertata, ma la specifica violazione dell’obbligo di versamento collegato all’accertamento di un debito tributario. A tal fine va considerato lo sfasamento che sussiste tra il momento in cui viene accertata la violazione e il momento in cui sorge l’obbligo del pagamento della maggiore imposta e delle sanzioni. D’altra parte, la scelta del legislatore appare, oltre che in linea con la normativa europea, del tutto ragionevole. Ed infatti, se la ratio dell’art. 80, comma 4, D. Lgs. n. 50/2016, è quella di impedire a soggetti non affidabili dal punto di vista economico/finanziario di stipulare contratti con la Pubblica amministrazione, è evidente che la valutazione della non affidabilità non può dipendere esclusivamente dall’accertamento della violazione di norme tribu-
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tarie. Ciò soprattutto per le imprese di più grandi dimensioni, organizzate in modo pluripersonale, dove il rischio di evasione connesso a occultamenti di incassi o a imputazioni di costi fittizi è di fatto scongiurato dai sistemi di controllo interno, potendosi invece registrare contestazioni di tipo interpretativo, relative al regime giuridico di fatti regolarmente dichiarati, le quali non possono di per sé costituire un indicatore di inaffidabilità economica del soggetto. In ogni caso, l’atteggiamento delle stazioni appaltanti è stato sorprendentemente avallato dalla giurisprudenza (da ultimo cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2020, n. 2397; Cons. Stato, sez. III, 18 dicembre 2020, n. 8148) che addirittura ha ritenuto legittime esclusioni motivate in relazione alla notifica di un avviso di accertamento non esecutivo, divenuto definitivo per mancata impugnazione, nonostante alla data di scadenza della presentazione della domanda non fosse stata notificata all’operatore economico la cartella di pagamento; atto che, come è noto, completa il procedimento di attuazione del tributo e determina la morosità del contribuente qualora non si provveda al versamento delle somme dovute entro sessanta giorni. L’interpretazione della giurisprudenza disattende quanto disposto dal legislatore, e peraltro non risulta coerente con la tesi che assegna al provvedimento di esclusione un connotato sanzionatorio giustificabile quale extrema ratio (58). Quanto alle modifiche apportate con il decreto legge n. 76/2020, l’intento sarebbe, quello di non far dipendere la partecipazione alla gara dalla scelta soggettiva (e strumentalizzata) di impugnare l’atto impositivo. Non si è tenuto conto, però, del rischio di coinvolgere operatori economici che abbiano subito rettifiche fiscali del tutto pretestuose destinate a concludersi con l’annullamento giurisdizionale. In questa prospettiva, sarebbe stato più ragionevole fissare sul piano normativo un rapporto percentuale tra debito tributario oggetto di contestazione e importo dell’appalto. Si auspica, quindi, che le stazioni appaltanti svolgano un‘attenta opera di valutazione caso per caso, adottando il provvedimento di esclusione nei limiti in cui esso risulti proporzionato agli obiettivi perseguiti dalla norma, cioè quando la violazione degli obblighi di pagamento di debiti tributari non definitivi comprometta in modo significativo l’affidabilità del concorrente.
(58) Cfr. A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, cit., 627; C. Sereni Lucarelli, Esclusione del concorrente non in regola con il Fisco e principio di proporzionalità, cit., 857.
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Non si esclude, comunque, che la modifica apportata all’art. 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici resti essenzialmente destinata a fungere da pungolo per il versamento dei tributi dovuti in via provvisoria dagli operatori economici, i quali – in presenza di accertamenti tributari non definitivi – sceglieranno appunto di evitare il rischio di un’eventuale esclusione dalla procedura.
Giuseppe Ingrao
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Cass. civ., sez. VI-T, Ordinanza 08 marzo 2021, n. 6368 – Pres. Antonio Greco, Rel. Filippo D’Aquino Determinazione – Costi deducibili – Costi per spese di sponsorizzazione – Requisito di inerenza – Valutazione di congruità rispetto ai ricavi – Irrilevanza – Prevalenza di giudizio di carattere qualitativo In materia di inerenza occorre considerare la correlazione tra costi e attività imprenditoriale; il giudizio di non inerenza delle spese di sponsorizzazione basato sulla sproporzione del costo sostenuto rispetto al potenziale ritorno commerciale offerto dalle manifestazioni sponsorizzate asside sulla correlazione o corrispondenza tra costi e ricavi e il ritorno dell’investimento, anziché sull’estraneità all’attività imprenditoriale. (1)
(Omissis) Rilevato che La società contribuente S.L. SPA, società operante nel settore del pellame, ha impugnato un avviso di accertamento per IRES, IRAP e IVA relativo ai periodi di imposta degli esercizi 2010 e 2011, con cui venivano recuperati a tassazione costi per spese di sponsorizzazione indebitamente dedotti in quanto non inerenti; la contribuente ha dedotto la nullità dell’accertamento per violazione del contraddittorio endoprocedimentale, nonché la deducibilità dei costi sostenuti. La CTP di Pisa ha rigettato il ricorso e la CTR della Toscana, con sentenza in data 2 maggio 2018, ha rigettato l’appello del contribuente. Ha ritenuto il giudice di appello che, pur essendo desumibile un obbligo di contraddittorio con il contribuente quanto all’IVA, non sono state in concreto indicate le ragioni che si sarebbero potute far valere in sede amministrativa. Nel merito, il giudice di appello ha ritenuto che i costi per sponsorizzazione non sono inerenti, in quanto incongrui rispetto all’attività sponsorizzata, trattandosi di sponsorizzazione di auto di gran turismo; il giudice di appello ha ritenuto, inoltre, che la genericità degli impegni assunti dallo sponsee in relazione alle prestazioni accessorie (disponibilità dei piloti a incontri, accoglienza, partecipazione agli eventi) e agli spazi dedicati al logo riservato allo sponsor denotino antieconomicità manifesta dei costi sostenuti. Propone ricorso per cassazione la società contribuente affidato a due motivi, cui resiste l’Ufficio con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
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La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’articolo 380-bis cod. proc. civ. Considerato che 1.1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 12 I. 27 luglio 2000, n. 212, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto non violato il principio del contraddittorio preventivo per mancato assolvimento della prova di resistenza. Deduce il ricorrente che, quanto all’IVA, il contraddittorio opera anche negli accertamenti a tavolino, indipendentemente dall’accesso presso i locali dell’impresa. Osserva a tale proposito che il disconoscimento della deducibilità dei costi è stato fondato dall’Ufficio sulla antieconomicità dell’attività, la quale non può essere apprezzata sulla base di documenti, dovendo tale giudizio essere condotto sulla base dell’analisi delle «dinamiche gestorie». Deduce, inoltre, che il contraddittorio preventivo dovrebbe estendersi anche ai tributi non armonizzati alla luce di una interpretazione eurounitaria e costituzionalmente orientata della disciplina in vigore. 1.2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 108 e 109 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) e del principio di neutralità dell’IVA, nella parte in cui la CTR ha ritenuto indeducibili i costi di sponsorizzazione per assenza di certezza in quanto attività antieconomiche. Parte ricorrente si richiama al recente orientamento prevalso in questa Corte, secondo cui il principio di inerenza dei costi si ricava dal reddito di impresa, escludendosi ogni valutazione di utilità o di congruità degli stessi, degradando tali apprezzamenti a meri indici sintomatici dell’insussistenza dell’inerenza. Deduce, pertanto, il ricorrente che il giudizio di inerenza va tratto, pertanto, in relazione alla correlazione tra costo e attività di impresa, rispetto alla quale l’antieconomicità assume il ruolo di mero elemento sintomatico. Ritiene, pertanto, erronea la sentenza impugnata nella parte in cui ha dedotto il difetto di inerenza dalla mera antieconomicità. 2. Il primo motivo è infondato. 2.1. Il rispetto, anche nell’ambito delle indagini cd. «a tavolino», del contraddittorio endoprocedimentale in tema di tributi armonizzati comporta – in conformità a quanto statuito dalla giurisprudenza eurounitaria (Corte di Giustizia UE, 3 luglio 2014, C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics, punti 79, 80, 82) – l’invalidità dell’atto solo ove il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass., Sez. VI, 9 ottobre 2020, n. 21900; Cass., Sez. V, 17 marzo 2020, n. 7380; Cass., Sez. V, 21 gennaio 2020, n. 1252; Cass., Sez. V, 19 dicembre 2019, n. 34051; Cass., Sez. V; 18 dicembre 2019, n. 33619; Cass., Sez. V, 11 settembre 2019, n. 22644; Cass., Sez. V, 15 gennaio 2019, n. 701; Cass., Sez. VI, 29 ottobre 2018, n. 27420; Cass., Sez. VI, 27 luglio 2018, n. 20036). Sul punto, correttamente la sentenza impugnata ha rigettato l’eccezione di nullità dell’avviso in tema di tributi armonizzati, stante il mancato assolvimento da parte del
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contribuente della «prova di resistenza», non avendo questi fornito la prova che «in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso» (Corte di Giustizia, Kamino, loc. cit.). La CTR ha, pertanto, fatto buon governo dei principi enunciati. 2.2. Il ricorrente censura, inoltre, la decisione per non avere la CTR apprezzato la circostanza che, nella specie, il giudizio sull’antieconomicità di gestione non si sarebbe potuto trarre sulla base dei soli documenti, in quanto ciò avrebbe richiesto l’analisi delle dinamiche gestorie dell’impresa ricorrente («apprezzamento di come essa attività si è contestualizzata nelle dinamiche gestorie»). Tuttavia il ricorrente non censura specificamente il punto motivazionale secondo cui il ricorrente non avrebbe indicato le ragioni che avrebbero consentito un diverso decorso della fase amministrativa («nel caso di specie la contribuente non indicava le ragioni che avrebbe potuto far valere, allorché il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato»), per cui deve ritenersi passata in giudicato la statuizione che tali ragioni non sono state fornite. In ogni caso, quand’anche le circostanze indicate dal ricorrente possano qualificarsi come omesso esame di un fatto decisivo ai fini della decisione, tali circostanze si sarebbero dovute dedurre nel rispetto degli artt. 360, comma 1, n. 5 e 348-ter cod. proc. civ., stante sussistenza di «doppia conforme», il che non è avvenuto. 2.3. Assorbito, pertanto, risulta, l’esame della questione dell’applicazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale anche per i tributi non armonizzati, in ogni caso pacificamente escluso dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U., 9 dicembre 2015, n. 24823; Cass., Sez. VI, 29 ottobre 2018, n. 27421; Cass., Sez. VI, 11 maggio 2018, n. 11560; Cass., Sez. VI, 13 marzo 2018, n. 6219; Cass., Sez. VI, 25 gennaio 2017, n. 1969; Cass., Sez. VI, 31 maggio 2016, n. 11283). 3. Il secondo motivo è fondato. 3.1. L’orientamento più recente di questa Corte in materia di inerenza dei costi deducibili afferma che deve rinvenirsi una correlazione del costo di cui si tratta non in relazione ai ricavi, bensì in relazione all’attività imprenditoriale nel suo complesso (Cass., Sez. V, 17 gennaio 2020, n. 902), avuto riguardo all’oggetto dell’impresa (Cass., Sez. V, 15 gennaio 2020, n. 559). La ratio di tale impostazione riposa sulla nozione di reddito d’impresa e non sulla correlazione tra costi e ricavi di cui all’art. 109, comma 5, TUIR, escludendosi dal novero dei costi deducibili solo quelli che si collocano in una sfera estranea all’attività imprenditoriale. Conseguenza di questa impostazione è, da un lato, che non assume rilevanza, in quanto tale, la congruità o l’utilità del costo rispetto ai ricavi, dovendosi dare un giudizio di inerenza di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., Sez. V, 21 novembre 2019, n. 30366; Cass., Sez. V, 31 ottobre 2018, n. 27786; Cass., Sez. V, 11 gennaio 2018, n. 450); dall’altro, che l’antieconomicità del costo (rispetto al ricavo atteso) degrada a mero elemento sintomatico della carenza di inerenza (Cass., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 18904). In conseguenza di tale impostazione, sono stati, ad esempio, ritenuti deducibili, in quanto inerenti, costi relativi ad attività di carattere preparatorio (Cass., Sez. V, 3
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ottobre 2018, n. 23994), come anche costi strumentali ad attività future e di potenziale proiezione dell’attività imprenditoriale (Cass., Sez. V, 31 maggio 2018, n. 13882). 3.2. Nella specie il giudice di appello, dopo avere enunciato astrattamente tale principio, non ne ha fatto corretta applicazione. Il giudizio di non inerenza è stato tratto sulla base della sproporzione del costo assunto rispetto al potenziale ritorno commerciale offerto dalle manifestazioni sponsorizzate («le scuderie sponsorizzate dall’appellante animavano l’ambiente delle corse di auto di gran turismo, che era meno ricco ed ove era poco frequente incontrare i vip indicati […] le somme dichiarate come investite in sponsorizzazione erano di gran lunga esorbitanti se comparate alla quantità di prestazioni offerte dallo sponsee e dalla qualità dei prevedibili risultati») e, quindi, avendo come riferimento la correlazione o corrispondenza tra costi e ricavi e il ritorno dell’investimento, anziché l’estraneità all’attività imprenditoriale della società contribuente. 3.3. Con la memoria l’Ufficio ritiene che l’esame della CTR sia stato di natura qualitativa, evidenziando, da un lato «l’inadeguatezza del ritorno economico e di immagine rispetto al costo sostenuto», alla luce delle dimensioni dei loghi applicati sulle vetture e della «atipicità» degli eventi sponsorizzati rispetto all’attività dello sponsor e, dall’altro, la carenza di documentazione a supporto, il che evidenzierebbe – ad avviso del patrono erariale – il fatto che la mera sproporzione tra costo e prestazione sia stata considerata quale mero elemento sintomatico di mancanza di certezza della spesa. 3.4. Le deduzioni del controricorrente non colgono nel segno e, invero, corroborano la fondatezza del motivo di ricorso avverso. In primo luogo, si osserva come è lo stesso controricorrente a rilevare che la non inerenza viene indotta dal giudizio di non adeguatezza dei costi sostenuti rispetto al ritorno dell’investimento e non dal giudizio di estraneità rispetto all’attività di impresa. In secondo luogo, si osserva che il giudizio della CTR (come, del resto, l’atto impositivo, diffusamente riportato da entrambe le parti) è stato incentrato non sulla falsità dei costi sostenuti, bensì sulla non inerenza degli stessi all’attività di impresa. 3.5. Il giudice di appello, nell’avere istituito una correlazione tra costi e ricavi (anziché tra costi ed attività imprenditoriale) e nell’avere fondato su di essa il giudizio di antieconomicità ai fini della esclusione del giudizio di non inerenza ai fini della deducibilità, non ha fatto buon governo di tali principi. 4. Il ricorso va, pertanto, accolto in relazione al secondo motivo, cassandosi la sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla CTR della Toscana, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. (Omissis)
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(1) Inerenza e spese di sponsorizzazione. Sommario: 1. Il caso. – 2. Il quadro normativo di riferimento. – 3. La posizione della giurisprudenza. – 4. L’inerenza delle spese di sponsorizzazione all’attività d’impresa. – 5. Brevi cenni conclusivi.
La Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema della deducibilità delle spese di sponsorizzazione e, richiamando gli orientamenti più recenti formatisi in materia di inerenza, valorizza in modo chiaro e condivisibile il nesso funzionale che lega il sostenimento del costo al programma imprenditoriale. Nell’ordinanza di inizio marzo fa capolino anche un fugace riferimento alla condizione di antieconomicità connessa alla carenza di ritorno commerciale della manifestazione sponsorizzata, condizione da apprezzarsi con estrema cautela attese le molte variabili che influenzano il successo di un investimento pubblicitario. The Supreme Court deals again with the topic of the sponsorship costs deduction and, making reference to its most recent rulings regarding the “inherence” principle, enhances, in a clear and shareable manner, the functional nexus which links the cost to the business plan. In the ruling of the beginning of March also a quick reference to the anti-economic conduct condition connected with the lack of commercial return of the sponsored event peeks out, condition to be appreciated with extreme caution considered the many variables that influence the success of the advertising investment.
1. Il caso. – Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della deducibilità delle spese di sponsorizzazione (1), tema non certo nuovo rispetto al quale in passato si sono registrate, anche a causa di non rare e deprecabili condotte simulatorie, prese di posizione piuttosto discutibili. Non è infatti un mistero che, guardando soprattutto al variegato mondo delle sponsorizzazioni sportive, alcuni contratti possono risultare, quanto ad oggetto e consistenza delle prestazioni previste, sproporzionati ed alieni rispetto alle normali logiche che animano il mercato pubblicitario, ma tale constatazione non può in alcun modo contribuire a giustificare un clima da “cac-
(1) La sponsorizzazione “è un fenomeno da ricondurre al novero delle attività dell’impresa volte alla commercializzazione indiretta dei propri prodotti e servizi” (così, testualmente, F. Pistolesi, Profili fiscali delle sponsorizzazioni sportive, in Dir. e prat. trib., 2017, I, 392; in argomento v. anche M. Procopio, Le spese di sponsorizzazione tra pubblicità e rappresentanza, in Rass. trib., 2002, 1549 ss.). Per un inquadramento del fenomeno nella prospettiva del diritto civile, v. V. Amato, voce Sponsorizzazione, in Enc. giur. Treccani, Vol. XXXIV, Roma, 1993, 1 ss., e M. Bianca, voce Sponsorizzazione, in Dig. comm., Vol. XV, Torino, 1998, 134 ss.
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cia alle streghe” che tocca, sovvertendoli, alcuni dei principi che governano il sistema di determinazione del reddito d’impresa. Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione è presto descritto. Una società operativa nel settore dell’industria conciaria, con riferimento ai periodi d’imposta 2010 e 2011, aveva sponsorizzato una scuderia automobilistica sostenendo costi disconosciuti per difetto di inerenza. Gli avvisi di accertamento venivano tempestivamente impugnati e, avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, veniva proposto appello dinanzi la Commissione tributaria regionale della Toscana. Il Giudice del gravame rigettava il ricorso rilevando, quanto al denunciato difetto di inerenza, che le spese di sponsorizzazione riprese a tassazione “erano di gran lunga esorbitanti se comparate alla quantità di prestazioni offerte dallo sponsee ed alla qualità dei prevedibili risultati” (2). La Corte di Cassazione, investita della questione, richiama gli orientamenti più recenti formatisi in materia di inerenza e censura l’operato del Giudice di appello osservando che “il giudizio di non inerenza è stato tratto sulla base della sproporzione del costo assunto rispetto al potenziale ritorno commerciale offerto dalle manifestazioni sponsorizzate [….] e, quindi, avendo come riferimento la correlazione o corrispondenza tra costi e ricavi e il ritorno dell’investimento, anziché l’estraneità all’attività imprenditoriale della società contribuente” (3). In buona sostanza, il tema della deducibilità delle spese di sponsorizzazione viene affrontato valorizzando, in modo chiaro e seppur con formula sintetica, il nesso funzionale che lega il sostenimento del costo al programma imprenditoriale o, se si preferisce, all’attività d’impresa nel suo complesso considerata, approdo questo che va senz’altro salutato con favore. Si appalesa, invece, meno netto il giudizio sul rilievo del potenziale “ritorno commerciale offerto dalle manifestazioni sponsorizzate”, profilo che ha significativamente caratterizzato lo sviluppo della giurisprudenza dell’ultimo
(2) Così, testualmente, Comm. trib. reg. Toscana, sez. V, sent. 2 maggio 2018, n. 844, reperibile in banca dati ONE Fiscale, ove si aggiunge, in modo invero piuttosto confuso, che “l’antieconomicità manifesta dell’operazione costituisce un indizio di non verità delle spese dichiarate o di non inerenza di queste all’attività d’impresa dell’appellante”, come se inesistenza dell’operazione e difetto di inerenza fossero profili di identico rilievo contenutistico. (3) Per un primo commento ai contenuti dell’ordinanza v. G. Ferranti, Deducibilità ancora incerta per le spese di sponsorizzazione, in Corr. trib., 2021, 405 s., e A. Salvati, Considerazioni in tema di antieconomicità e prospect theory, in Riv. tel. dir. trib., 28 giugno 2021.
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decennio con l’elaborazione di soluzioni piuttosto discutibili che, sebbene appaiano ridimensionate nel caso portato all’attenzione della Suprema Corte, devono essere attentamente scrutinate anche per le ricadute che le stesse possono determinare sul piano della corretta ripartizione dell’onere probatorio. 2. Il quadro normativo di riferimento. – Per meglio comprendere la portata dell’ordinanza che qui si annota giova innanzi tutto ricordare che, fino alla ridefinizione del regime fiscale delle spese di rappresentanza intervenuta con la legge finanziaria per il 2008, risultava estremamente dibattuto il tema della qualificazione delle spese di sponsorizzazione non essendo affatto pacifico se le stesse dovessero essere trattate come spese di pubblicità (4) (deducibili, dunque, integralmente nell’esercizio di sostenimento o, in quote costanti, nell’esercizio stesso e nei successivi quattro) (5) ovvero come spese di rappresentanza (deducibili, di contro, nei soli limiti di un terzo del loro ammontare in quote costanti nell’esercizio di sostenimento e nei successivi quattro) (6). A seguito delle novità recate dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, le spese di rappresentanza sono divenute deducibili, nell’esercizio di sostenimento, se rispondenti ai “requisiti di inerenza stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse” (così, testualmente, il primo periodo del secondo comma del vigente
(4) Muovendo dall’assunto secondo cui il messaggio promozionale nella sponsorizzazione non è affatto attenuato o implicito, E. Della Valle, I costi pluriennali, in AA.VV., Il reddito d’impresa, a cura di G. Tabet, Padova, 1997, vol. I, 271, ritiene che le spese in questione vadano inquadrate tra quelle di pubblicità; nello stesso senso v. anche M. Vantaggio, sub art. 108, in AA.VV., Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, t. III, Testo unico delle imposte sui redditi e leggi complementari, a cura di A. Fantozzi, Padova, 2010, 571. (5) L’art. 13-bis, co. 2, lett. c), n. 2, del d.l. 30 dicembre 2016, n. 244, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della l. 27 febbraio 2017, n. 19, occupandosi della disciplina di coordinamento tra i nuovi principi contabili OIC e le regole di determinazione del reddito d’impresa, ha soppresso il primo periodo del secondo comma del previgente art. 108 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito, per brevità, anche testo unico); ne consegue che le spese di pubblicità, in coerenza con la nuova disciplina contabile, sono deducibili per intero nell’esercizio di competenza (a commento delle novità recate dal d.l. n. 244 del 2016, v. G. Ferranti, Spese di pubblicità e di rappresentanza: tra vecchio e nuovo regime, in il fisco, 2019, 12 ss.). (6) Il tema della corretta qualificazione delle spese di sponsorizzazione rileva, ovviamente, anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non potendosi dimenticare che la lett. h) dell’unico comma dell’art. 19-bis1 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nell’escludere la detrazione dell’imposta relativa alle spese di rappresentanza, rinvia alla definizione valevole ai fini delle imposte sui redditi.
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art. 108 del testo unico) (7). Tali spese sono, inoltre, deducibili nel rispetto di una soglia di congruità legata al volume dei ricavi e proventi della gestione caratteristica, e segnatamente in misura pari: all’1,5% dei ricavi e altri proventi sino a 10 milioni di euro; allo 0,6% per la parte di ricavi e proventi eccedente 10 milioni di euro e sino a 50 milioni di euro e allo 0,4% per la parte eccedente 50 milioni di euro (cfr. il secondo periodo del secondo comma del vigente art. 108 del testo unico). Quanto ai contenuti del decreto di attuazione (d.m. del 19 novembre 2008) (8), è bene ricordare come lo stesso stabilisca che, agli effetti dell’applicazione del citato secondo comma dell’art. 108 del testo unico, si considerano inerenti, sempreché effettivamente sostenute e documentate, “le spese per erogazioni a titolo gratuito di beni e servizi, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni e il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare anche potenzialmente benefici economici per l’impresa” (così, testualmente, il primo comma dell’unico articolo del decreto di attuazione) (9). Si qualificano, dunque, spese di rappresentanza quelle spese che: i) riguardano acquisti volti a generare un ritorno valutabile in termini economici, esaltando la figura e il marchio dell’azienda e, indirettamente, i beni ed i servizi che la medesima offre sul mercato; ii) si innestano in un rapporto negoziale non corrispettivo non essendo prevista una specifica controprestazione (si
(7) In argomento v., diffusamente, G. Fransoni, La Finanziaria 2008 e i concetti di inerenza e congruità, in AA.VV., Finanziaria 2008. Saggi e commenti, a cura di G. Fransoni, Milano, 2008, 152 ss., e G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, XII ed., Padova, 2018, 547 ss. (8) Per un commento ai contenuti del decreto di attuazione, v. la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 34/E del 13 luglio 2009, reperibile in Boll. trib., 2009, 1106. (9) Il regolamento di attuazione fornisce, peraltro, una sorta di decalogo operativo precisando che costituiscono, in particolare, spese di rappresentanza: “a) le spese per viaggi turistici in occasione dei quali siano programmate e in concreto svolte significative attività promozionali dei beni o dei servizi la cui produzione o il cui scambio costituisce oggetto dell’attività caratteristica dell’impresa; b) le spese per feste, ricevimenti e altri eventi di intrattenimento organizzati in occasione di ricorrenze aziendali o di festività nazionali o religiose; c) le spese per feste, ricevimenti e altri eventi di intrattenimento organizzati in occasione dell’inaugurazione di nuove sedi, uffici o stabilimenti dell’impresa; d) le spese per feste, ricevimenti e altri eventi di intrattenimento organizzati in occasione di mostre, fiere, ed eventi simili in cui sono esposti i beni e i servizi prodotti dall’impresa; e) ogni altra spesa per beni e servizi distribuiti o erogati gratuitamente, ivi inclusi i contributi erogati gratuitamente per convegni, seminari e manifestazioni simili il cui sostenimento risponda ai criteri di inerenza indicati nel presente comma”.
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pensi, a titolo esemplificativo, alla distribuzione gratuita ai potenziali clienti di beni mobili di modico valore recanti l’emblema aziendale in occasione delle festività natalizie) (10). Ebbene, guardando alle spese di sponsorizzazione, non sembrano esservi grossi dubbi circa la ricorrenza della funzione promozionale che si esplica, in specie, indirettamente (ed invero, la veicolazione del messaggio pubblicitario ha luogo carpendo, se così si può dire, l’attenzione palesata dai destinatari del messaggio stesso per l’attività svolta dallo sponsee); quanto, invece, alla natura del rapporto negoziale su cui si innestano le prestazioni qui d’interesse, l’indirizzo prevalente tende a ricondurre il contratto di sponsorizzazione nel novero dei contratti a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive. Ragionando allora per esclusione si può ritenere che, difettando la gratuità e non potendo quindi essere ricondotte le spese di sponsorizzazione entro l’alveo delle spese di rappresentanza siccome individuate e qualificate dal secondo comma del vigente art. 108 del testo unico e dal prescritto regolamento di attuazione, non vi sia altra strada oltre quella che porta a qualificare le spese di cui trattasi come spese di pubblicità (11). Conclusione questa che può trovare qualche elemento di conforto anche nella lettura dell’ottavo comma dell’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n.
(10) Cfr., sul punto, F. Pistolesi, Profili fiscali delle sponsorizzazioni sportive, cit., 395. (11) Questa linea argomentativa è sviluppata da F. Pistolesi, Profili fiscali delle sponsorizzazioni sportive, cit., 395 ss. Indicazioni a sostegno di questa ricostruzione si possono cogliere nella risoluzione ministeriale n. 9/204 del 17 giugno 1992, reperibile in banca dati ONE Fiscale, ove si legge che “le spese di sponsorizzazione che [….] possono accomunarsi a quelle di pubblicità sono connesse ad un contratto la cui caratterizzazione è costituita, di regola, da un rapporto sinallagmatico tra lo sponsor e il soggetto sponsorizzato, in base al quale le parti interessate fissano le clausole contrattuali in relazione agli scopi che esse intendono raggiungere”; lungo la stessa direttrice v. anche la successiva risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 356/E del 14 novembre 2002, reperibile in banca dati ONE Fiscale, ove si chiarisce che la “sponsorizzazione è un contratto bilaterale, a prestazioni corrispettive, in base al quale il soggetto sponsorizzato o sponsee si obbliga nei confronti dello sponsor ad effettuare determinate prestazioni pubblicitarie dietro versamento di un corrispettivo che può consistere in una somma di denaro, in beni o servizi, che lo sponsor deve erogare direttamente o indirettamente. Tale qualificazione giuridica, prevalente in dottrina, è condivisa anche dall’Amministrazione finanziaria la quale ha da tempo assimilato le spese di sponsorizzazione a quelle di pubblicità”. Diverso è, invece, l’avviso palesato dalla Corte di Cassazione a giudizio della quale il discrimen tra le spese di pubblicità e quelle di rappresentanza non deve essere individuato nella gratuità della prestazione in favore di soggetti terzi (cfr., in particolare, Cass., Sez. VI, ord. 23 giugno 2014, n. 14252, reperibile in Riv. dir. trib., 2014, II, 546, annotata da F. Peddis, La deducibilità delle spese di sponsorizzazione tra pubblicità e rappresentanza alla luce della giurisprudenza di legittimità).
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289, il quale, occupandosi del regime impositivo delle Associazioni sportive dilettantistiche (A.s.d.), stabilisce che “il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi dell’articolo 74, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi” (12) (13). Ebbene, siamo al cospetto di una previsione che, ancorché faccia espresso riferimento ai soli corrispettivi veicolati nei confronti di soggetti operanti nel mondo dello sport dilettantistico e sebbene non brilli per chiarezza, apre le porte ad una qualificazione legislativa che, a giudizio della stessa Agenzia delle entrate (14), va letta alla stregua “di una presunzione assoluta” circa la natura delle spese sostenute in ordine ai contratti di sponsorizzazione, spese da qualificarsi, per l’appunto, come spese di pubblicità (15). Ora, è ben vero che la disposizione richiamata è caratterizzata da una ratio e da un perimetro applicativo molto peculiari (16), ma è anche vero che
(12) Su questa disposizione v., da ultimo, A.R. Ciarcia, Il regime di deducibilità delle spese di sponsorizzazione a favore delle ASD, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 257 ss. (13) Nell’ambito della recentissima riforma della disciplina degli enti sportivi professionistici e dilettantistici è stata prevista l’abrogazione, a far data dal prossimo 1° gennaio 2022, dell’ottavo comma dell’art. 90 della l. n. 289 del 2002 con la migrazione del suo contenuto nel terzo comma dell’art. 12 del d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 36. (14) Il riferimento è alle indicazioni fornite con la circolare n. 21/E del 22 aprile 2003, par. 8, reperibile in Boll. trib., 2003, 691. (15) Nello stesso senso v. anche Cass., Sez. VI-T, ord. 7 giugno 2017, n. 14235, reperibile in Dir. e prat. trib., 2018, II, 813, con nota di G. Consolo, Note sulla deducibilità dal reddito d’impresa delle sponsorizzazioni erogate a favore di associazioni e società sportive dilettantistiche e, più di recente, Cass., Sez. trib., ord. 16 luglio 2020, n. 15179, reperibile in il fisco, 2020, 3470. (16) Secondo R. Lupi, Una disposizione “assistenziale” per i casi in cui è dubbio il ritorno pubblicitario, in Dialoghi tributari, 2008, fasc. n. 6, 109, “la disposizione, nell’interesse dello sport e dell’associazionismo, voleva far sì che potessero dedurre costi per sponsorizzazioni anche imprese per le quali l’impatto mediatico, il ritorno pubblicitario, poteva essere in concreto messo in discussione”; nella medesima direzione v. anche Cass., Sez. trib., ord. 16 luglio 2020, n. 15179, cit., ove si rileva che “l’interpretazione teleologica e sostanziale della speciale norma in esame induce a ritenere che essa ha in via primaria finalità sociali extrafiscali, che normativamente sancisce come prevalenti sulle finalità fiscali”.
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escludere qualsiasi ricaduta sul fronte della qualificazione delle spese di sponsorizzazione porta a dubitare della ragionevolezza di una scelta legislativa che consentirebbe di trattare in modo diverso spese identiche sul piano del tipo di contratto che le origina e che si differenziano solo per la qualificazione soggettiva dello sponsee e/o, a seconda dei casi, per l’entità del corrispettivo pattuito (17). 3. La posizione della giurisprudenza. – Se il quadro normativo e le indicazioni operative fornite dalla prassi amministrativa possono considerarsi sufficientemente chiare, non altrettanto pare potersi dirsi per gli orientamenti interpretativi palesati dalla giurisprudenza. Per prima cosa, deve darsi conto dell’indirizzo, affermatosi sotto il vigore del previgente art. 108 del testo unico, che tendeva a riqualificare gli oneri di sponsorizzazione da spese, per l’appunto, di pubblicità in spese di rappresentanza (18) e ciò in ragione del fatto che mancherebbe, almeno in alcuni dei casi affrontati, la necessaria connessione tra i costi in commento e la concreta e diretta aspettativa di ritorno commerciale, da intendersi come incremento della vendita di beni e servizi alla cui produzione e scambio è diretta l’attività dell’impresa (19).
(17) A giudizio di M. Leo, Le modifiche al reddito d’impresa nell’era post-COVID, in Corr. trib., 2021, 330, in prospettiva de iure condendo e proprio “per evitare le sempre frequenti contestazioni erariali sulla corretta individuazione delle spese di sponsorizzazione”, dovrebbe essere garantita l’applicazione in via generalizzata della previsione recata dall’art. 90 della legge n. 289 del 2002; lungo la stessa direttrice v. anche G. Ferranti, Le spese per sponsorizzazioni devono risultare effettivamente ‘utili’ per l’impresa che le sostiene, in Corr. trib., 2015, 480. (18) Non sono mancate, peraltro, prese di posizione di segno diverso che hanno ricondotto le spese di sponsorizzazione nel novero delle spese di pubblicità: degna di nota è, in particolare, Cass., Sez. trib., sent. 27 aprile 2012, n. 6548, reperibile in Riv. trim. dir. trib., 2013, 235, con nota di G. Tinelli, Riflessioni su sponsorizzazione, inerenza e onere della prova nella disciplina del reddito d’impresa, ove si legge che “la sponsorizzazione – che, sotto il profilo concernente lo sponsorizzato, si concreta nella commercializzazione del nome e dell’immagine personale del soggetto – si traduce, al contempo, per lo sponsor, in una forma di pubblicità indiretta, consistente nella promozione del marchio o del prodotto che si intende lanciare sul mercato”. (19) Cfr., tra le tante, Cass., Sez. trib., sent. 4 luglio 2014, n. 15318, e Cass., Sez. VI-T, ord. 24 luglio 2014, n. 16812, entrambe reperibili in banca dati ONE Fiscale. Il richiamo alle aspettative di ritorno commerciale è figlio della distinzione operata dalla Corte di Cassazione che, occupandosi dell’individuazione del confine che separa le spese di rappresentanza da quelle di pubblicità e propaganda, ha tradizionalmente avuto modo di osservare che “costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’im-
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Guardando, in particolare, al caso di una società produttrice di ceramiche (con mercati di sbocco su scala globale e fatturato di oltre 200 milioni di euro) la quale aveva stipulato un contratto di sponsorizzazione con una società sportiva di rilievo locale, i Supremi Giudici hanno condiviso l’assunto secondo cui le spese di sponsorizzazione avrebbero dovuto essere annoverate tra quelle di rappresentanza non avendo le iniziative sponsorizzate “una diretta afferenza a fatti economici generatori di ricavi ed essendo volte più ad accrescere l’immagine ed il prestigio dell’impresa che a promuovere i beni dalla stessa prodotti” (20). Alle stesse conclusioni (riqualificazione delle spese di sponsorizzazione in spese di rappresentanza) giunge il Supremo Collegio occupandosi del caso di una società di impiantistica per imballaggi che aveva sostenuto spese di sponsorizzazione per vedere stampigliato il proprio marchio aziendale su un’automobile da corsa: in questa seconda vicenda la luce rossa viene accesa, è il caso di dire, non potendosi riscontrare alcuna “concreta finalità d’incremento commerciale, concernente la produzione d’impiantistica per imballaggi, nel contesto delle corse automobilistiche” (21). Ed è di estremo interesse notare come la censura risulti essere fondata sulla distinzione merceologica tra l’attività dello sponsor e quella dello sponsee: si osserva, in particolare, che nel corso del giudizio la società sponsor “non ha allegato e provato qualsivoglia ‘diretta aspettativa al ritorno commerciale’ che potesse essere ragionevolmente riconducibile all’attività di un pilota professionista e all’apposizione sulla vettura da corsa della scritta”.
magine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta. In definitiva, si ritiene debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali” (così, testualmente, Cass., Sez. trib., sent. 15 aprile 2011, n. 8679, reperibile in banca dati ONE Fiscale). (20) Cfr. Cass., Sez. trib., sent. 30 dicembre 2014, n. 27482, reperibile in il fisco, 2015, 396. (21) Così, testualmente, Cass., Sez. VI-T, ord. 5 marzo 2012, n. 3433, reperibile in Boll. trib., 2013, 143; nella stessa direzione la Sezione tributaria della Suprema Corte si è mossa con le sentenze del 26 novembre 2014 n. 25100, reperibile in Corr. trib., 2015, 487, annotata da G. Ferranti, Le spese per sponsorizzazioni devono risultare effettivamente ‘utili’ per l’impresa che le sostiene, e del 27 maggio 2015 n. 10914, reperibile in Riv. giur. trib., 2015, 857, con nota di M. Busico, Le spese di sponsorizzazione costituiscono spese di rappresentanza se non è dimostrato il loro ritorno commerciale?
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In buona sostanza, nell’ottica della Suprema Corte, la “diretta aspettativa al ritorno commerciale” implica che lo sponsor operi in un settore merceologico identico o al più affine a quello in cui opera lo sponsee di guisa che, ad esempio, un produttore di abbigliamento per motociclisti potrebbe sponsorizzare, deducendone integralmente il relativo costo, un team di MotoGP o di Superbike; una identica opportunità sarebbe, di contro, preclusa ad un produttore di ceramiche o di complementi di arredo. In altre circostanze è, invece, il difetto di inerenza a determinare il disconoscimento della deducibilità delle spese di sponsorizzazione, difetto di inerenza indotto dall’assenza di collegamento tra il luogo in cui si svolge l’evento sponsorizzato e quello in cui risiedono i potenziali clienti dell’impresa. Più in particolare, viene addossato allo sponsor non solo l’onere di dimostrare “la congruità dei costi sostenuti a fini di sponsorizzazione in rapporto all’attività caratteristica e al volume d’affari che ne costituiva il risultato, ma pure la loro idoneità ad ampliare le prospettive di crescita dell’impresa nell’ambito territoriale beneficiato dalle attività di sponsorizzazione, in questa ottica non essendo sufficiente che la spesa fosse debitamente documentata, ma occorrendo altresì che ne fosse comprovata l’inerenza sotto lo specifico profilo del concreto vantaggio che nello specifico contesto territoriale ne avrebbero potuto ritrarre le attività della contribuente in termini di allargamento della clientela e di incremento dei ricavi” (22). La breve rassegna che precede impone almeno due precisazioni. Per prima cosa, emerge una certa confusione nei piani di analisi che, talvolta, porta la Corte ad utilizzare gli stessi moduli argomentativi per affrontare questioni assai diverse tra loro (id est: la qualificazione delle spese di sponsorizzazione e loro inerenza) con conseguenze del tutto illogiche. Emblematica è, da questo punto di vista, la sentenza n. 10914 del 2015 in cui la mancata dimostrazione della “aspettativa di incremento delle vendite” porta ad escludere l’inerenza delle spese di sponsorizzazione ed a riqualificare tali oneri in spese di rappresentanza con applicazione del relativo regime di deduzione, come se le spese di rappresentanza potessero essere dedotte a prescindere dall’inerenza (23).
(22) Così, testualmente, la già citata sentenza n. 10914 del 2015. (23) Cfr. le puntuali osservazioni di G. Consolo, Note sulla deducibilità dal reddito d’impresa delle sponsorizzazioni erogate a favore di associazioni e società sportive dilettantistiche, cit., 824, e F. Pistolesi, Profili fiscali delle sponsorizzazioni sportive, cit., 400.
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In secondo luogo, piuttosto opinabile si appalesa il tentativo di mettere in discussione la deducibilità delle spese di sponsorizzazione facendo leva sulla distinzione merceologica e/o sull’assenza di collegamento territoriale giacché tale tentativo non considera l’essenza stessa del rapporto di sponsorizzazione che, essendo un veicolo pubblicitario indiretto, mira per definizione a sfruttare la visibilità di un certo evento per promuovere un marchio, un prodotto o un servizio a prescindere dalla connessione merceologica e/o dall’ambito territoriale entro cui l’evento stesso si svolge (24). E, soprattutto, risulta totalmente decontestualizzato non tenendo minimamente conto della potenza dei mezzi di comunicazione attraverso i quali, al giorno d’oggi, i messaggi pubblicitari vengono veicolati, mezzi di comunicazione che azzerano le distanze e sterilizzano eventuali disomogeneità sul piano merceologico. Si pensi, solo per fare un esempio, alla connessione territoriale. Il tifoso che partecipa dal vivo ad una competizione sportiva probabilmente non è in grado nemmeno di vedere un adesivo di pochi centimetri collocato sulla carena di una motocicletta che sfreccia ad oltre 300 km orari o sul pantaloncino di un atleta che corre in un campo di calcio a decine di metri dagli spalti; viceversa, lo spettatore televisivo che, in casa sua, comodamente assiste al medesimo evento a distanza, talvolta siderale, dal luogo in cui l’evento stesso si svolge vede perfettamente l’adesivo e percepisce nitidamente il messaggio pubblicitario di cui lo stesso è portatore (25).
(24) La valorizzazione della connessione merceologica e del collegamento territoriale è figlia di una sorta di pregiudizio che confonde i potenziali e indistinti destinatari del messaggio pubblicitario con i soggetti che possono palesare un qualche effettivo interesse per l’oggetto del messaggio stesso, ma, come osserva nitidamente M. Beghin, Spese di pubblicità e requisito dell’inerenza: una lampante svista giurisprudenziale, in Riv. dir. trib., 2008, II, 386 s., “il ragionamento impostato sulla ‘selettività’ dei destinatari del messaggio in ragione del ‘concreto interesse all’acquisizione’ rischia, se portato alle estreme conseguenze, di togliere la patina dell’inerenza a costi che, in presenza delle caratteristiche necessarie per configurarne la natura ‘pubblicitaria’, sono inequivocabilmente armonici rispetto al programma imprenditoriale”. (25) Si tratta di considerazioni abbastanza ovvie che possono essere svolte ed apprezzate anche da chi non è profondo conoscitore delle logiche di marketing strategico che animano le moderne dinamiche gestionali. Considerazioni che, peraltro, trovano riscontro anche in alcune pronunce del Supremo Collegio il quale, occupandosi dell’inerenza delle spese di pubblicità, ha avuto modo di escludere che, “nell’attuale mercato ‘globalizzato’, ai fini della sussistenza del requisito dell’inerenza delle spese di pubblicità debba sussistere un legame territoriale tra l’offerta pubblicitaria e l’area geografica in cui l’impresa svolge la propria attività” (così, testualmente, Cass., Sez. trib., sent. 25 febbraio 2015, n. 3770, reperibile in Riv. giur. trib., 2015, 611, con nota di S. Trettel, Verso una interpretazione ‘evoluta’ del concetto di ‘inerenza’).
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4. L’inerenza delle spese di sponsorizzazione all’attività d’impresa. – Questo è, in estrema sintesi, il quadro che fa da sfondo all’ordinanza in commento la quale, affrontando una questione in materia di deducibilità delle spese di sponsorizzazione di una scuderia automobilistica relativa ai periodi d’imposta 2010 e 2011, non si pone un problema di loro qualificazione, e cioè se le stesse debbano considerarsi spese di pubblicità e propaganda oppure di rappresentanza, ma piuttosto e più correttamente di loro inerenza all’attività d’impresa (26). Quali, più nel dettaglio, le coordinate del ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione? Si richiama, innanzi tutto, l’orientamento di recente consolidamento in seno al Supremo Collegio stando al quale l’inerenza del costo deve essere valutata in relazione all’attività imprenditoriale nel suo complesso considerata (27), orientamento da cui discendono due distinte conseguenze: i) non assume rilevanza, in quanto tale, la congruità o l’utilità del costo rispetto ai ricavi, dovendosi formulare un giudizio di inerenza di carattere qualitativo e non quantitativo (28); ii) l’antieconomicità del costo (rispetto al ricavo atteso) degrada a mero elemento sintomatico della carenza di inerenza (29).
(26) In tema di inerenza, accanto ai recenti lavori monografici di A. Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa, Milanofiori Assago, 2016, passim, e O. Nocerino, Il principio di inerenza nel reddito d’impresa, Milano, 2020, passim, v. G. Tinelli, Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, 437 ss., e G. Zizzo, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone fisiche, nella collana Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 1994, t. II, 556 ss. (27) A commento del nuovo corso giurisprudenziale in materia di inerenza v., tra gli altri e senza pretesa di esaustività, P. Boria, La ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, in Riv. giur. trib., 2018, 768 ss.; G. Ferranti, Cambiamento di rotta della Cassazione sull’inerenza, ma restano gli equivoci, in il fisco, 2018, 907 ss.; Id., Principio di inerenza: serve maggior certezza, in Corr. trib., 2020, 107 ss.; G. Fransoni, Una bella sorpresa: la nouvelle vague della Corte di Cassazione in tema di inerenza, in Riv. dir. trib., supplemento on line, 19 marzo 2018; O. Nocerino, Il principio di inerenza nel reddito d’impresa, cit., 236 ss.; A. Vicini Ronchetti, Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. trib., 2019, I, 551 ss. (28) Cfr., in tema, Cass., Sez. trib., ord. 11 gennaio 2018, n. 450, reperibile in Riv. giur. trib., 2018, 323, ed ivi nota di P. Antonini, La Cassazione sull’inerenza predica bene ma razzola male, e in Dir. prat. trib., 2018, II, 1667, con nota di M. Procopio, Il principio dell’inerenza ed il suo stretto collegamento con quello della capacità contributiva; nella stessa direzione v. le successive Cass., Sez. trib., ord. 9 febbraio 2018, n. 3170; Cass., Sez. trib., ord. 26 settembre 2018, n. 22938; Cass., Sez. trib., sent. 31 ottobre 2018, n. 27786, e Cass., Sez. trib., sent. 21 novembre 2019, n. 30366, tutte reperibili in banca dati ONE Fiscale. (29) Cfr., in argomento, Cass., Sez. trib., sent. 17 luglio 2018, n. 18904, reperibile in Riv.
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Muovendo da tali basi, la Corte non tarda a censurare l’operato del Giudice del gravame che, anziché valutare l’eventuale estraneità del costo all’attività d’impresa, ha tratto un giudizio di non inerenza enfatizzando la sproporzione del costo sostenuto rispetto al potenziale ritorno commerciale (in termini di ricavi) garantito dalle manifestazioni sponsorizzate e, quindi, “avendo come riferimento la correlazione o corrispondenza tra costi e ricavi e il ritorno dell’investimento, anziché l’estraneità all’attività imprenditoriale della società contribuente”. Ad una prima lettura dell’ordinanza sembra potersi evincere che “il ritorno dell’investimento” venga considerato cifra caratteristica della correlazione tra costi e ricavi e che, di conseguenza, lo stesso sia destinato all’irrilevanza in tutti i casi in cui l’inerenza venga apprezzata, in linea con l’orientamento giurisprudenziale formatosi a partire dal 2018, valorizzando la “relazione all’attività imprenditoriale nel suo complesso”. Questa prima opzione ricostruttiva avrebbe conseguenze dirompenti sterilizzando, di fatto, il sindacato di antieconomicità in tutte le ipotesi in cui lo stesso, come sovente accade per le spese di sponsorizzazione, sia basato sulla carenza e/o sull’inadeguatezza del “ritorno commerciale”. Che questa sia, tuttavia, la corretta chiave di lettura dell’ordinanza in commento è tutto da dimostrare giacché la Corte di Cassazione, nel richiamare il suo più recente orientamento in materia di inerenza, non manca di ribadire che consegue alla sua affermazione l’assunto secondo cui “l’antieconomicità del costo (rispetto al ricavo atteso) degrada a mero elemento sintomatico della carenza di inerenza” (30). Come dire, l’antieconomicità ed il “ritorno commerciale”, seppur collocati in una diversa dimensione logico-concettuale, possono venire in rilievo anche nell’ipotesi in cui l’inerenza venga apprezzata correlando costi e attività imprenditoriale (31).
giur. trib., 2018, 767, con nota di P. Boria, La ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione; lungo la stessa direttrice v. Cass., Sez. trib., sent. 6 giugno 2018, n. 14579, reperibile in banca dati ONE Fiscale, e le già citate Cass., Sez. trib., ord. 26 settembre 2018, n. 22938; Cass., Sez. trib., sent. 31 ottobre 2018, n. 27786, e Cass., Sez. trib., sent. 21 novembre 2019, n. 30366. (30) Commentando questo passaggio dell’ordinanza G. Ferranti, Deducibilità ancora incerta per le spese di sponsorizzazione, cit., 406, rileva che “il principio di antieconomicità e la possibilità di sindacare la congruità del corrispettivo pattuito non sono stati travolti dal mutamento interpretativo ma, più semplicemente, ritenuti non riconducibili al concetto di inerenza”. (31) Dando conto del ridimensionamento del filone dell’antieconomicità con riguardo alla deducibilità dei costi, A. Salvati, Considerazioni in tema di antieconomicità e prospect theory, cit., sottolinea che “una scelta antieconomica, con tutte le insidie insite nel differenziare l’an-
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Ad ogni modo, ed in attesa di ulteriori e più articolate prese di posizione da parte della Corte di Cassazione sullo specifico punto (32), non sembrano fuori luogo alcune precisazioni utili a ridimensionare la portata del sindacato di antieconomicità con riferimento alle spese di sponsorizzazione (33). Da questo punto di vista, e fermo il pacifico riconoscimento del fatto che in ogni caso l’antieconomicità del costo degrada a mero elemento sintomatico della carenza di inerenza (34), si deve innanzi tutto prendere atto del fatto che l’azione pubblicitaria, come si è più sopra ricordato, mira per sua natura a sollecitare l’interesse di un pubblico indistinto che in un numero imprecisato di casi e per le ragioni più varie potrebbe mostrarsi, in tutto o in parte, insensibile allo stimolo ricevuto così vanificando il ritorno in termini di incremento dei ricavi (35).
tieconomicità manifesta da quella ‘ragionevole’, può essere considerata al più un sintomo da valutare insieme ad altri in un quadro complesso in cui non è possibile prescindere da un solido impianto probatorio”. (32) Per una corretta ricostruzione del quadro di riferimento giova ricordare che la Corte di Cassazione, affrontando lo scorso anno una vicenda del tutto simile (stesso contribuente, rilievo analogo in materia di ripresa a tassazione di spese di sponsorizzazione e diversa annualità), ha invece valorizzato il profilo dell’antieconomicità rilevando che gli elementi consistenti “nella comparazione tra i costi sostenuti per la sponsorizzazione dalla società contribuente (corsivo nostro), a fronte di quelli sostenuti per prestazioni analoghe da altre società, debitamente identificate nel corso del giudizio [….], inequivocabilmente denunciano una sproporzione del tutto irragionevole, che non può certo trovare giustificazione nel volume d’affari della società” (così, testualmente, Cass., Sez. trib., ord. 26 febbraio 2020, n. 5162, in banca dati ONE Fiscale). (33) Val la pena ricordare che, a giudizio della Suprema Corte, la presunzione di cui all’ottavo comma dell’art. 90 della l. n. 289 del 2002 implica, lato sponsor, anche l’irrilevanza del sindacato di antieconomicità delle spese di sponsorizzazione “in ragione della sproporzione tra l’entità della stessa rispetto al fatturato/utile di esercizio della società contribuente ovvero della ‘inidoneità’ della spesa stessa” (così, testualmente, Cass., Sez. trib., ord. 16 luglio 2020, n. 15179, cit.). (34) Cfr., in argomento, le precisazioni di R. Lupi, Pensieri e parole su antieconomicità e sponsorizzazioni, in Dialoghi tributari, 2008, fasc. n. 6, 116 s., per il quale “l’antieconomicità è sinonimo di irragionevolezza, da cui desumere argomenti contro la versione dei fatti addotta da chi si è comportato in modo, appunto, irragionevole. Quindi, l’antieconomicità non è mai un argomento autosufficiente, che basta a sé stesso, dovendosi invece inserire in un più ampio quadro accusatorio”; in tema v. anche le considerazioni di A. Vignoli, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari, Roma 2012, 121 ss. (35) Ci sembra che nello stesso senso possano essere lette le chiare considerazioni di M. Beghin, Spese di pubblicità e requisito dell’inerenza: una lampante svista giurisprudenziale, cit., 389, a giudizio del quale “non v’è dubbio che, su un piano astratto, la carta dell’aneconomicità possa apparire vincente per l’amministrazione finanziaria e risolutiva per il giudice. Ma nel caso specifico, se per davvero si ragiona sulla funzione delle spese sostenute per la sponsorizzazione del marchio, ci si accorge che il test dell’economicità è improponibile: quelle spese di pubblicità sono sostenute nella prospettiva di aumentare i ricavi, senza la ben che minima garanzia che tale obiettivo sia davvero raggiunto”.
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Parte seconda
Vi è poi un delicato problema di “misurazione” della performance pubblicitaria con la messa a punto di indicatori capaci di rilevare l’effetto positivo o negativo indotto dalle specifiche azioni promozionali (36), problema molto complesso con riferimento alle campagne pubblicitarie tradizionalmente intese e che diventa, se possibile, ancora più complesso in presenza di iniziative pubblicitarie centrate sulla sottoscrizione di contratti di sponsorizzazione. Ebbene, ammesso pure che tale “misurazione” possa avere luogo utilizzando parametri quanto più è possibile oggettivi, non basta di certo assumere che un incremento dei ricavi non c’è stato per fornire un indizio di antieconomicità (37) dovendosi, ad esempio, tener conto del fatto che i ricavi potrebbero finanche ridursi in valore assoluto, magari per effetto di un coevo fenomeno recessivo, senza che con ciò si possa escludere che la campagna pubblicitaria attuata attraverso la stipulazione di un accordo di sponsorizzazione abbia determinato un effetto benefico in termini di una riduzione più contenuta dei ricavi complessivi (38). In buona sostanza, sembra abbastanza chiaro che le contestazioni in termini di antieconomicità per carenza di ritorno commerciale richiedono una attenta analisi del rapporto tra le spese di sponsorizzazione sostenute e le variabili di reazione del mercato, analisi che non può risolversi in quelle che, ben lungi dal potersi qualificare alla stregua di indizi, altro non sono che mere illazioni (si pensi, ad esempio e solo per restare al caso affrontato dall’ordinanza in commento, alla dimensione del logo applicato sulla vettura da corsa che determinerebbe di per sé l’inadeguatezza del ritorno commerciale).
(36) Cfr., sul punto, R.S. Winer-R. Dhar-F. Mosca, Marketing Management, Milano, 2013, II ed., 410 s. (37) Non si deve dimenticare che il sindacato di antieconomicità comunque “presuppone una evidente ed inequivoca contrarietà a criteri generalmente seguiti dagli imprenditori dello specifico settore interessato” (così, testualmente, Cass., Sez. trib., ord. 7 giugno 2017, n. 14082, reperibile in banca dati ONE Fiscale). (38) In materia di ripartizione dell’onere probatorio “l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza od inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa; in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali” (così, testualmente, Cass., Sez. trib., sent. 17 luglio 2018, n. 18904, cit.; in tema di comportamento antieconomico e onere della prova v., tra gli altri e con ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza, D. Canè, Conseguenze del comportamento antieconomico dell’impresa nell’imposta sui redditi e nell’iva, in Dir. prat. trib., 2015, II, 210 ss.).
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5. Brevi cenni conclusivi. – Volendo trarre delle rapide conclusioni dalla rassegna che precede, si deve innanzi tutto segnalare che l’ordinanza in epigrafe è una delle prime pronunce del Supremo Collegio ad affrontare il tema della deducibilità delle spese di sponsorizzazione sotto il vigore delle novità recate dalla legge finanziaria per il 2008 ed è per questa ragione che non si pone, a differenza di quanto accaduto anche nel recente passato, un problema di loro qualificazione (39). Ciò precisato, e fermo comunque il carattere estremamente sintetico della motivazione dell’ordinanza, sembra maturo nell’analisi della Corte di Cassazione il convincimento secondo cui il messaggio pubblicitario veicolato intercettando l’attenzione dei soggetti cui, a vario titolo, si rivolge l’evento e/o l’attività sponsorizzata deve essere collegato, perché evidentemente il relativo costo possa essere considerato inerente, all’attività d’impresa. Riscontrata la presenza di questo collegamento, non vi dovrebbero essere spazi per contestare l’inerenza della spesa di sponsorizzazione né richiamando evanescenti esigenze di connessione merceologica né, tantomeno, invocando altrettanto fumose esigenze di contiguità territoriale (40). Diverso è il discorso da farsi con riferimento ad una eventuale condizione di antieconomicità connessa alla (o indotta dalla) carenza di ritorno commerciale, condizione questa che, ove non si ritenga sussistere una sorta di incompatibilità con gli orientamenti più recenti palesati dalla Corte di Cassazione in materia di inerenza, può al più assurgere a mero elemento sintomatico della
(39) Sul piano della qualificazione delle spese in parola, posto che oggi le spese di rappresentanza sono normativamente caratterizzate dalla gratuità dell’erogazione di beni e servizi, l’antico orientamento giurisprudenziale – che, si ripete, colloca o tenta di collocare proprio nel novero delle spese di rappresentanza le spese di sponsorizzazione cui non è associato un adeguato “ritorno commerciale” – stride con la natura sinallagmatica che distingue il rapporto che lega lo sponsor al sodalizio sponsorizzato e non sembra essere in grado di sopravvivere alla riscrittura del secondo comma dell’art. 108 del testo unico e al successivo varo del decreto recante le disposizioni di attuazione. La questione, peraltro, se può apparire di ridimensionato interesse quanto alle imposte sui redditi attesa la parziale equiparazione sul versante della deducibilità tra le spese di pubblicità e quelle di rappresentanza, resta comunque attuale sul fronte dell’imposta sul valore aggiunto essendo tuttora indetraibile l’imposta relativa alle spese di rappresentanza siccome qualificate ai fini delle imposte sui redditi (cfr., nuovamente, la lett. h) dell’unico comma dell’art. 19-bis1 del d.P.R. n. 633 del 1972). (40) Per l’individuazione di alcune possibili iniziative riformatrici volte a conciliare il contrasto delle condotte illecite con l’esigenza di non prosciugare una fonte di sostentamento vitale per il mondo dello sport (professionistico e non), v. F. Pistolesi, Profili fiscali delle sponsorizzazioni sportive, cit., 404 ss.
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carenza di inerenza e che, in ogni caso, va apprezzata con estrema cautela atteso il gran numero di variabili (tutte, peraltro, di difficile esplicitazione sul piano quantitativo) che influenzano o possono influenzare il ritorno economico di un investimento pubblicitario. Con il che, ovviamente, non si vuole negare che, in talune specifiche circostanze, l’investimento pubblicitario realizzato stipulando un contratto di sponsorizzazione sia a tal punto alieno dalle normali logiche che animano l’implementazione di un sano e razionale programma imprenditoriale da implicare la (ri)qualificazione della corrispondente decurtazione patrimoniale, decurtazione che, ben lungi dal poter essere considerata costo di produzione del reddito, deve essere trattata alla stregua di una erogazione liberale. Così come, del resto, non si vuole né si può escludere che dietro la stipulazione di contratti di sponsorizzazione possano talvolta celarsi abusi consistenti nella simulazione dell’operazione con retrocessione da parte dello sponsee (soggetto che talvolta beneficia di regimi di tassazione di particolare favore) allo sponsor di una cospicua quota del corrispettivo pagato, abusi questi che devono essere contrastati contestando l’inesistenza oggettiva dell’operazione e non il difetto di inerenza (41). Evidente è, dunque, il rischio che si nasconde dietro l’angolo. Frettolose conclusioni in punto di qualificazione dei rilievi mossi in materia di deducibilità delle spese di sponsorizzazione possono determinare, per un verso, una risposta eccessiva nei confronti di condotte genuine e, per un altro, una mancata reazione nei confronti di comportamenti frodatori che andrebbero, invece, efficacemente contrastati e debitamente sanzionati.
Pier Luca Cardella
(41) Considerazioni analoghe sono svolte da R. Lupi, Pensieri e parole su antieconomicità e sponsorizzazioni, cit., 116 s.
Comm. Trib. prov. Reggio Emilia, Sez. 2, 1-18 dicembre 2020, n. 374.02.20, (Ord.) Pres. e Rel. Montanari IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) – Base imponibile – Attività bancaria – Ratio della determinazione forfettaria dei dividendi “da negoziazione” –– Non proporzionalità della forfettizzazione rispetto ai fini perseguiti – Art. 3 Cost. – Questione di illegittimità costituzionale – Non manifesta infondatezza L’art. 6, co. 1, lett. a), d.lgs. 446/1997, che per gli esercenti attività bancaria considera componente positivo della base imponibile irap il “margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi”, non è incompatibile con l’art. 4, parr. 1 e 3 della Direttiva 2011/96/UE del 30 novembre 2011, c.d. “Direttiva Madre-Figlia”, laddove vietano imposizioni in capo alla società “madre” sui dividendi ricevuti da società “figlie” residenti in altri Stati membri dell’UE oltre all’imposta reddituale sul 5% di essi, perché non essendo l’irap inclusa nell’elenco di cui all’allegato 1, parte b) alla suddetta Direttiva, quest’ultima non è applicabile a detto tributo. (1) L’art. 6, co. 1, lett. a), d.lgs. 446/1997 nel prevedere come componente positivo della base imponibile irap per gli esercenti attività bancaria il “margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi” intende assoggettare al tributo i soli dividendi derivanti dall’attività di negoziazione caratteristica delle banche determinandoli forfettariamente come metà di tutti quelli ricevuti, ma poiché tali dividendi da “trading” sono separatamente e precisamente iscritti nella voce 70, lett. A del bilancio bancario, quella determinazione forfettaria, in sé imprecisa, appare irragionevole in quanto non proporzionata rispetto alla finalità perseguita dal legislatore: non è dunque manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione per violazione dell’art. 3 Cost. (2)
(Omissis) …..deduce la Ricorrente, nella richiamata istanza e, poi, in sede di gravame che: in questi anni ha percepito dividendi e dalla propria controllata … S.p.A., per complessivi € 137.982.079,261 (“i Dividendi Interni”), e da altre società, per € 1.621,362 (“i Dividendi da Trading”), questi ultimi essendo iscritti alla voce 70, lett. A.) del bilancio bancario tra le “Attivita’ finanziarie detenute per la negoziazione”; ha fatto concorrere al valore della produzione, rilevante ai fini della determinazione del-
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la base imponibile IRAP, il 50% di tutti i dividendi percepiti nel corso dei predetti esercizi, sia di quelli rivenienti da attività finanziarie detenute per la negoziazione che da quelle non detenute per la negoziazione; ciò, in applicazione dell’art. 6, d.lgs. n°446/1997,(“Decreto IRAP”), in base al quale, il valore della produzione netta delle banche è dato dalla somma algebrica di talune voci del conto economico, ivi incluso il margine di intermediazione, “ridotto del 50% dei dividendi’; dispone, infatti, l’art. 6, 1°comma, lett.a), Decreto IRAP, rubricato “Determinazione del valore della produzione netta delle banche e di altri enti e società finanziari” che “per le banche e gli altri enti e societa’ finanziarie ... la base imponibile è determinata dalla somma algebrica delle seguenti voci del conto economico ... a) margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi;”;); su questi presupposti ha versato, a titolo di IRAP, € 3.842.800,91, in relazione ai Dividendi Interni, di cui è stato chiesto il rimborso e € 45,15, in relazione ai Dividendi da Trading, di cui non è stato chiesto il rimborso; la richiesta di rimborso si basa sulla dedotta illegittimità dell’art. 6, 1° comma, lett.a), Decreto IRAP, nella parte in cui dispone l’assoggettamento a tassazione del 50% di tutti i dividendi, quindi anche dei Dividendi Interni rivenienti da attività finanziarie non detenute per la negoziazione; illegittimità dedotta per il seguente ordine di motivi: a) in via principale, per violazione dell’art. 4, parr.1,3 della Direttiva 2011/96/UE del 30 novembre 2011 (“Direttiva Madre-Figlia”), come interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”)con giurisprudenza,cfr.C-365/16 e C-68/15,assunta come, direttamente, applicabile al diritto interno; infatti l’art. 6, cit., laddove dispone l’assoggettamento ad imposizione dei dividendi europei,vale a dire quelli distribuiti da società figlie residenti in altri stati membri, in misura superiore rispetto alla soglia massima del 5% prevista dalla Direttiva Madre-Figlia, viola quest’ultima direttiva, e, quindi, merita di essere disapplicato in riferimento ai c.d. Dividendi Interni; b)in via subordinata per violazione del diritto di stabilimento di cui agli artt. 49-55 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”), del principio della libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63, TFUE e dei principii di eguaglianza e di capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost.; infatti alla sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 6, 1° comma, lett.a), Decreto IRAP, in relazione ai soli dividendi europei, conseguirebbe un regime di imposizione più oneroso per i dividendi interni, idoneo a disincentivare gli investimenti nelle imprese nazionali rispetto a quelli nelle imprese europee e, in ogni caso, basato su un criterio, l’origine dei dividendi, inadeguato ad esprimere una maggiore o minore capacità contributiva del soggetto percettore; c) in via ulteriormente subordinata, per violazione dell’art. 3, Cost., nella parte in cui l’art. 6, 1° comma, lett.a), prevede l’assoggettamento ad IRAP di un importo forfetario di dividendi, includendo quindi anche dividendi, quali, per l’appunto, quelli interni in esame, che non sono percepiti dalla banca nell’esercizio della sua attività caratteristica e, quindi, non dovrebbero scontare la predetta imposta. 2 - La Ricorrente conclude nel senso che: 1) Il Giudice adito, in applicazione dei principi comunitari espressi nella direttiva madre-figlia, come interpretati dalla giu-
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risprudenza comunitaria, disapplichi il richiamato art. 6, 1° comma, lett. a), Decreto IRAP, per violazione dei suddetti principii ed ordini il richiesto rimborso; vinte le spese; 2) in subordine, qualora questo Giudice ritenesse che le sentenze della CGUE non spieghino un impatto diretto sul regime italiano di tassazione dei dividendi europei e, conseguentemente, dei Dividendi Interni, chiede che venga rimessa, in via pregiudiziale, la questione alla CGUE affinché si pronunci circa la compatibilità dell’art. 6, 1°comma, lett.a), Decreto IRAP nella parte in cui assoggetta alla stessa i dividendi europei in misura pari 50% del loro ammontare, con l’art. 4, parr.1,3, della Direttiva Madre-Figlia; la soluzione di questa questione avendo, infatti, natura pregiudiziale rispetto al presente giudizio, avente ad oggetto i Dividendi interni, essendo quest’ultimo condizionato alla definizione della prima; 3)in ulteriore subordine, e nell’assunto che la norma in esame debba essere disapplicata in relazione ai dividendi europei, per violazione della Direttiva Madre-Figlia, protesta la rilevanza e non manifesta infondatezza, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, 1° comma, lett. a), Decreto IRAP, nella parte in cui continua ad assoggettare a tassazione i Dividendi Interni, per violazione dei principi di eguaglianza e di capacità contributiva, di cui agli artt. 3 e 53 Cost., in quanto, a fronte di un medesimo indice di capacità contributiva, rappresentato dalla percezione di dividendi su partecipazioni di controllo, due soggetti sono trattati diversamente a seconda della provenienza, domestica o estera, dei dividendi stessi, vale a dire sulla base di un criterio, l’origine dei dividendi, assolutamente inidoneo ad esprimere una maggiore o minore capacità contributiva del soggetto percettore e, quindi, per ciò stesso irragionevole; 4) nella, ancora più, denegata ipotesi in cui questo Giudice ritenesse di non condividere quanto sopra rappresentato e, quindi, ritenesse applicabile, “rectius”, non suscettibile di essere disapplicato, né in via autonoma né in via “mediata”, l’art. 6,1° comma, lett. a), Decreto IRAP ai Dividendi Interni, protesta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della citata disposizione, nella parte in cui prevede l’assoggettamento ad IRAP del 50%, anche, dei Dividendi Interni, per violazione del principio di proporzionalità, del mezzo rispetto al fine, sancito all’art. 3, Cost. 3 - L’intimata Agenzia si costituisce in giudizio con controdeduzioni con cui chiede il rigetto del ricorso posto che: la c.d. Direttiva Madre Figlia non sarebbe applicabile all’Irap ma solo all’ Ires con conseguente infondatezza di tutti i motivi di doglianza che presuppongono erroneamente la sua applicabilità all’IRAP; rimarrebbe, comunque, sempre nella discrezionalità del legislatore ordinario la scelta del presupposto impositivo e, dunque, non avrebbero alcun fondamento i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 6, 1°comma, lett.a), cit.; chiede, dunque, il rigetto del ricorso; vinte le spese. 4 - La “DIRETTIVA 2011/96/UE DEL CONSIGLIO del 30 novembre 2011 concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi” dispone nell’allegato 1, parte b) che la stessa si applichi “all’imposta sulle società in Italia”; ne consegue, pertanto, che la stessa non sia applicabile all’IRAP e
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che non abbiano, dunque, alcun fondamento le doglianze della Ricorrente richiamate ai punti 2-1, 2, 3,di cui in narrativa, presupponendo le stesse, tutte, l’applicabilità all’IRAP della suddetta direttiva. 5 - Un esame a parte meritano, invero, le deduzioni della Ricorrente sintetizzate al punto 2,4, di cui in narrativa. A - Secondo l’insegnamento costante della Corte Costituzionale, dall’art. 3, Cost. si ricavano le regole, cogenti, della “proporzionalità” e della “ragionevolezza” delle misure contenute nell’ordinamento giuridico; in base a tali regole, implicite nel principio di eguaglianza, il legislatore, da un lato, è libero di scegliere le finalità, il programma e il principio da sviluppare con le proprie disposizioni, dall’altro lato, una volta scelto il principio, lo deve sviluppare con coerenza, senza escludere dalla fattispecie situazioni in essa ragionevolmente sussumibili, sarebbe una discriminazione irragionevole, e senza includervi situazioni ragionevolmente distinguibili; quando il legislatore deroga a queste regole, la disposizione viola l’art. 3, Cost. B - Per quanto qui rileva, va notato che l’art. 6, 1°comma, lett.a), Decreto IRAP, prevede il parziale assoggettamento ad imposizione dei dividendi percepiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari nella assunzione che una parte di essi, forfettariamente determinata dal legislatore in misura pari al 50 %, derivi dall’attività di negoziazione, attività caratteristica, dei predetti soggetti; la “ratio” della norma appare essere, infatti, quella di “intercettare” ai fini impositivi i soli dividendi che conseguono allo svolgimento di attività di negoziazione, vale a dire, i dividendi da trading; ora, dato che questi ultimi dividendi sono separatamente e precisamente iscritti nella Voce 70, lett. A. del bilancio bancario (“Attività finanziarie detenute per la negoziazione”), quindi, identificabili con assoluta precisione, l’obiettivo di assoggettarli ad imposizione ben avrebbe potuto essere perseguito tramite una specifica previsione di imponibilità degli stessi, senza scomodare meccanismi forfetari, per natura imprecisi; invece, la previsione di una forfettizzazione che quantifica i dividendi da trading in misura pari al 50% di quelli complessivamente rilevati nella Voce 70, pur in presenza delle condizioni per procedere ad una determinazione analitica degli stessi, pare viziare di irragionevolezza la disposizione, in quanto recante una misura non congrua, “rectius”, sproporzionata, rispetto alle finalità peseguite. L’art. 6, 1° comma, lett. a) d. lgs. 446/1997 appare, dunque, violare i canoni di proporzionalità e ragionevolezza che la Corte Costituzionale, nella propria giurisprudenza, assume come dirette conseguenze dell’art.3 della Costituzione e, dunque, appare non manifestatamente infondata la relativa eccezione di legittimità costituzionale per violazione dell’art.3 Costituzione. D- Poiché la Ricorrente, negli anni d’imposta 2013, 2014 e 2016, ha assoggettato ad IRAP, per il 50% del loro ammontare, tutti i dividendi incassati e, poiché nel caso in cui venisse dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.6, 1° comma, lett a) d. lgs. 446/1997, nei sensi di cui sopra, tale imposta risulterebbe dovuta solo in relazione ai Dividendi da Trading, conseguendone dunque il diritto al rimborso dell’IRAP
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corrisposta sulle altre tipologie di dividendi, oltre interessi, ne conseguirebbe che, nell’ambito del presente giudizio, questo Giudice dovrebbe annullare il silenzio-rifiuto formatosi relativamente all’istanza di rimborso dell’IRAP, indebitamente, versata sul 50% dei Dividendi Interni, e condannare l’Agenzia alla restituzione delle somme “de quibus”; ne conseguirebbe, ulteriormente, l’indubitabile rilevanza dell’eccezione di legittimità costituzionale di cui sopra. … (Omissis)
(1-2) Sul concorso dei dividendi all’imponibile irap delle banche. Sommario: 1. Le questioni emergenti dall’ordinanza; l’erronea premessa che la base
imponibile irap per le banche comprenda il 50% di tutti i dividendi. – 1.1. La questione sollevata dall’ordinanza e quelle respinte. – 1.2. L’art. 6, d.lgs. 446/1997, rinviando ai criteri di redazione del bilancio bancario, assoggetta ad irap la metà dei soli dividendi concorrenti al “margine d’intermediazione”, considerandoli derivanti dalla tipica attività bancaria. – 2. Sul problema della compatibilità della tassazione dei dividendi con la Direttiva “madri-figlie”. – 3. Conclusioni: nella speciale disciplina irap delle banche, la tassazione dei dividendi ex art. 6 d.lgs. 446/1997 non appare irragionevole. Secondo la commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, la base imponibile irap dell’attività bancaria comprende il 50% dei dividendi totali ricevuti perché in tal modo verrebbe determinata forfettariamente la quota di essi connessa all’attività di negoziazione e tale regola parrebbe incostituzionale perché irragionevole, in quanto l’importo effettivo di tali proventi da trading è ricavabile dal bilancio. Invece, dalle regole fissate dalla Banca d’Italia per i bilanci bancari, richiamate ai fini della base imponibile irap, risulta che in quest’ultima non rientrano alcune classi di dividendi, specialmente quelli derivanti da società controllate e collegate. Pertanto, i dividendi colpiti dall’irap sono solo quelli iscritti in conto economico come derivanti da attività di intermediazione finanziaria, sicchè quel sospetto di illegittimità costituzionale sulla riduzione al 50% dei dividendi è infondato. Tale riduzione è volta, piuttosto, ad attenuare il peso della doppia tassazione sui proventi derivanti da partecipazioni diverse da quelle in società controllate e collegate. Inoltre, la commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia sostiene che la Direttiva UE n. 2011/96/ UE (c.d. madri-figlie) riguarda solo le imposte sul reddito e perciò non sottrae all’irap i dividendi di società collegate di altri Stati membri Ue, mentre in effetti la Direttiva vieta ogni prelievo su quegli utili, tranne l’imposta sul 5% del reddito. Comunque, l’esonero di dividendi di società collegate estere è coerente con la ratio dell’irap in quanto imposta sul valore aggiunto prodotto in Italia. According to CTP of Reggio Emilia, IRAP tax base for banking includes 50% of all dividends received, as a forfeit assessment of the part of them related to trading business, but such a rule seems unreasonable and therefore unconstitutional, because from the balance sheet can be obtained the exact amount of those dividends. On the contrary, rules set by Banca d’Italia for the balance sheet of banks, which also define IRAP tax base, do not include in the latter some class of dividends, especially from controlled and related companies. Therefore, dividends taxed by IRAP are only those related to financial intermediation
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services, according to balance sheet rules, so the suspect of unconstitutionality about that reduction of 50 % of dividends is wrong. Such a rebate is aimed to reduce the burden of double taxation on revenue coming from participations in companies (others than controlled and subsidiaries). The CTP of Reggio Emilia instead affirms that EU Directive n. 2011/96/UE (s.c. Parents- subsidiaries) concerns only income tax and thus it does not prevent dividends from subsidiaries in other EU member states to be subject to IRAP, but this is not correct. The Directive indeed prohibits every taxation of such dividends, except income tax on 5%; however, the exemption of dividends coming from foreign subsidiaries is consistent with the logic of IRAP as a tax on value added produced only in Italy.
1. Le questioni emergenti dall’ordinanza; l’erronea premessa che la base imponibile irap per le banche comprenda il 50% di tutti i dividendi. 1.1. La questione sollevata dall’ordinanza e quelle respinte. – L’ordinanza annotata sottopone alla Corte Costituzionale una questione riguardante l’art. 6, co. 1, lett. a), d.lgs. 446/1997, laddove prevede che ai fini irap concorra al valore della produzione netta degli intermediari finanziari (1) il “margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi” (2).
(1) Di seguito, per semplificare il discorso, farò riferimento anche semplicemente alle “banche”, considerando come il testo dell’art. 6, co. 1, d.lgs. 446/1997 applicabile ai periodi d’imposta considerati nell’ordinanza riguardasse “le banche e gli altri enti e società finanziari indicati nell’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87”. Tuttavia, nel testo vigente dal 2019, come mod. dall’art. 12, d.lgs. 29 novembre 2018, n. 142, esso si applica agli “intermediari finanziari, salvo quanto previsto nei successivi commi”, così rinviando all’art. 162-bis, co. 1, lett. a), t.u.i.r., inserito dal medesimo art. 12, ai sensi del quale ai fini delle imposte sui redditi e dell’irap si intendono per intermediari finanziari: 1) i soggetti indicati nell’articolo 2, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 38/2005 e i soggetti con stabile organizzazione nel territorio dello Stato aventi le medesime caratteristiche; 2) i confidi iscritti nell’elenco di cui all’articolo 112-bis del d.lgs. 385/1993; 3) gli operatori del microcredito iscritti nell’elenco di cui all’articolo 111 di tale decreto legislativo; 4) i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in intermediari finanziari, diversi da quelli di cui al n 1. (2) Una regola simile, inserita dall’art. 1, co. 50, l. n. 244/2007, si applica al valore della produzione netta delle imprese di assicurazione. Ai sensi dell’art. 7, co. 1, lett. b), d.lgs. 446/1997, per la determinazione della base imponibile irap dell’attività assicurativa, tra le variazioni da apportare alla somma dei risultati del conto tecnico dei rami danni (voce 29) e del conto tecnico dei rami vita (voce 80) del conto economico redatto secondo i criteri, richiamati dal successivo co. 4, applicabili a tali soggetti, vi è l’assunzione nella misura del 50 % dei dividendi di cui alla voce 33 (nel senso che rilevino solo i risultati della gestione dei titoli di trading confluenti nel conto tecnico dei rami vita, Ris. Ag. Entrate 15 marzo 2010 n. 20/E).
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La commissione tributaria di Reggio Emilia ha invece considerato infondate le censure di incompatibilità di tale disciplina con il diritto europeo sollevate dal ricorrente (e rilevate in dottrina) (3) per contrasto con la Direttiva del Consiglio del 30 novembre 2011, n. 2011/96/UE (c.d. “madri-figlie”), la quale vieta (4), tra l’altro, prelievi sui dividendi che una società abbia tratto dalle sue partecipate di un altro Stato membro dell’UE, ulteriori rispetto all’imposta reddituale (nel caso dell’Italia, l’ires) applicata al 5 % di essi. Per motivare tale rigetto l’ordinanza ha affermato che la Direttiva “madri-figlie” sarebbe applicabile solo all’imposta sulle società e quindi non all’irap (5). La censura di illegittimità costituzionale condivisa dall’ordinanza si fonda sull’idea che, avendo rilievo per il valore della produzione netta soltanto i “dividendi da trading”, quella riduzione del cinquanta per cento serva a determinarli forfettariamente, dimezzando il totale dei proventi da partecipazione in società (6). Poiché, però, la precisa entità dei dividendi derivanti dall’attività
(3) Cfr. G. Corasaniti, Il divieto di imposizione dei dividendi intracomunitari ai fini della Direttiva madre-figlia: i chiarimenti della Corte di Giustizia UE e le ricadute sulla legislazione interna, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2017, n. 31, 77 ss., spec. 82 ss. Nei mezzi di informazione al pubblico, si v. D. Settembre, Banche, IRAP sui dividendi a rischio incompatibilità, in Il Sole-24 Ore, 15 agosto 2017 e M. Casagrande, Banche, istituti finanziari e imprese di assicurazione possono chiedere il rimborso IRAP, lo dice l’UE, in Global legal chronicle Italia, October 5, 2017, http://www.globallegalchronicle.com/italia/banche-istituti-finanziarie-imprese-di-assicurazione-possono-chiedere-il-rimborso-irap-lo-dice-lue/. (4) In presenza, s’intende, di alcuni requisiti, concernenti il tipo societario, la quota di partecipazione, la residenza e l’effettiva soggezione a tassazione. Su tale disciplina, precedentemente recata dalla Direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, si v. tra i molti: G. Maisto, Il regime tributario dei dividendi nei rapporti tra “società madri” e “società figlie”, Padova, 1996; Id., Temi attuali sull’interpretazione della Direttiva madre figlia, in G. Maisto (a cura di), La tassazione dei dividendi intersocietari. Temi attuali di diritto tributario italiano, dell’Unione Europea e delle convenzioni internazionali, Quaderno n. 7 di Riv. dir. trib., 2011, 555 ss.; A. Fedele, La direttiva “madre-figlia” e la disciplina attuativa come complesso normativo unitario e sistematico: i criteri interpretativi, in Rass. Trib., 2001, 1256 ss. (5) Già altre commissioni tributarie avevano respinto domande di rimborso fondate sulla Direttiva “madri-figlie”: cfr. A. Fazio, Base imponibile irap degli intermediari finanziari tra giurisprudenza europea e resistenze domestiche, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2020, n. 46, 87 ss., che segnala Comm. Trib. Prov. Roma, 29 novembre 2019, n. 16331 e Comm. Trib. Prov. Milano, 10 settembre 2019, n. 3583 e n. 3584, criticandole laddove negano l’immediata applicabilità della Direttiva “madri-figlie” (per l’ampio margine di discrezionalità da essa lasciato agli Stati membri), il potere del giudice nazionale di disapplicare le norme interne in contrasto con essa e la riferibilità all’irap di precedenti sentenze in materia della Corte di Giustizia UE. (6) Nel senso che, essendo l’attività di intermediazione, ossia di trading, caratteristica delle banche essa produca il valore aggiunto tipico del settore e sia pertanto giustificato tassare i dividendi derivanti dalla stessa, si v. R. Gianelli, Il regime impositivo dei dividendi e i principi
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di negoziazione risulta dal bilancio stesso, tale forfettizzazione sarebbe non proporzionata alla finalità perseguita dal legislatore e quindi irragionevole ed in contrasto con l’art. 3 Cost. Entrambe le affermazioni non mi convincono. In primo luogo, mentre l’ordinanza presuppone la rilevanza ai fini irap di qualsiasi dividendo, dalle regole stabilite dalla Banca d’Italia per la redazione del bilancio delle banche, richiamate dall’art. 6, d.lgs. 446/1997 risulta, a mio avviso, che nel margine d’intermediazione non rientrano gli utili erogati da società controllate (né, tranne quando la partecipazione sia “detenuta per la negoziazione”, da società sottoposte ad influenza notevole, che di seguito indicherò come “collegamento”). In secondo luogo, nella Direttiva “madri-figlie” il riferimento all’ires non riguarda, come si assume nell’ordinanza, la sfera applicativa del limite alla tassazione, bensì la definizione di “società di uno Stato membro”. Cercherò di dimostrarlo e trarne le conseguenze nei prossimi paragrafi. 1.2. L’art. 6, d.lgs. 446/1997, rinviando ai criteri di redazione del bilancio bancario, assoggetta ad irap la metà dei soli dividendi concorrenti al “margine d’intermediazione”, considerandoli derivanti dalla tipica attività bancaria. – Come prevede l’art. 6, co. 1 d.lgs. 446/1997, il “margine d’intermediazione” da considerare nel valore della produzione netta degli intermediari finanziari (dedotto il 50 % dei dividendi) è una delle “voci del conto economico redatto in conformità agli schemi risultanti dai provvedimenti emessi ai sensi dell’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38”. Il successivo co. 6 stabilisce che i componenti di detto valore “si assumono così come risultanti dal conto economico dell’esercizio redatto secondo i criteri contenuti nei provvedimenti della Banca d’Italia 22 dicembre 2005 e 14 febbraio 2006, adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38”. A disciplinare il bilancio delle banche è il primo di questi provvedimenti (7), il quale stabilisce che il bilancio dell’impresa sia redatto (così come quello consolidato) “in conformità dei principi contabili internazionali
contabili internazionali, in G. Maisto (a cura di), La tassazione dei dividendi intersocietari, cit., 220 s., il quale pure intende la riduzione al 50 % come una determinazione forfettaria della parte dei dividendi derivante dalla suddetta attività. (7) Il co. 6 dell’art. 6, d.lgs. 446/1997 specifica che tale provvedimento è stato pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 11 del 14 gennaio 2006 (più esattamente, si tratta del Supplemento n. 12).
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e secondo le istruzioni allegate che costituiscono parte integrante del presente provvedimento”, ossia la Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005 (8). Dunque, gli importi rilevanti ai fini irap sono definiti dall’art. 6, d.lgs. 446/1997 mediante rinvio ai criteri stabiliti dalla Banca d’Italia in quest’ultima circolare, dalla quale risulta che nello schema di conto economico (9) il “margine d’intermediazione” è la voce 120 e tra i componenti positivi e negativi di essa rileva ai nostri fini la voce 70, “Dividendi e proventi simili”. Il riferimento dell’art. 6, d.lgs. 446/1997 alla riduzione dei “dividendi” del 50% ovviamente riguarda solo quelli rilevanti per calcolare detto margine in base ai criteri fissati dalla Banca d’Italia, e non può intendersi nel senso di farne concorrere altri al valore della produzione netta. La stessa Amministrazione finanziaria ha precisato che non assumono rilevanza ai fini irap “i dividendi che, secondo la corretta contabilizzazione IAS/IFRS, sono classificati in voci del conto economico diverse da quella rilevante ai fini IRAP (ad esempio, i dividendi relativi ad azioni valutate con il metodo del patrimonio netto imputati direttamente a riduzione del costo della partecipazione)” (10). Orbene, secondo la Circolare 262/2005, nella voce 70 del conto economico vanno iscritti soltanto “i dividendi relativi ad azioni o quote detenute
(8) La Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005 è stata però ripetutamente aggiornata, fra l’altro modificando la numerazione di alcune voci di bilancio rispetto allo schema originario; di seguito farò riferimento al sesto aggiornamento, consultabile in www.bancaditalia.it (si v. Banca d’Italia, Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005 – 6° aggiornamento, Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione). (9) Si v. Banca d’Italia, Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005 – 6° aggiornamento, cit., Appendice A Schemi del bilancio dell’impresa, par. A.2 conto economico, foglio A.2.1. Nel sistema dei principi contabili internazionali, si v. il principio n. 32, Strumenti finanziari: esposizione nel bilancio, nel testo consolidato del Regolamento (CE) n. 1126/2008 della Commissione del 3 novembre 2008 reperibile in Eur-lex, 02008R1126- 20210101, 271 ss. (10) Cfr. Circ. Ag. Entrate n. 27/E del 26 maggio 2009, par. 3.4, e par. 3.1 per la più generale affermazione che la base imponibile irap sia determinata dalla somma algebrica delle voci di conto economico delle banche espressamente richiamate dall’articolo 6, d.lgs. 446/1997, “a nulla rilevando gli importi indicati a Patrimonio netto” (per converso, secondo questa circolare, la riduzione al 50 % non riguarda gli altri “proventi simili” rientranti nella voce 70 del conto economico, p. es. quelli derivanti da quote di partecipazione in OICR, i quali pertanto concorrono integralmente all’imponibile irap). Si v. G. Molinaro, L’irap per banche, enti finanziari e assicurazioni, in Corr. Trib., 2009, 2068 ss.; M. Piazza - A. Scagliarini, Circolare n. 27/E del 26 maggio 2009 - La nuova base imponibile Irap delle banche, in il fisco, 2009, 1, 4208 ss.; A. Catona - A. Scagliarini, L’irap nelle banche, in F. Acerbis - A. Catona (a cura di), La tassazione delle banche. Guida alla fiscalità diretta, Milano 2011, ed. Il Sole 24 ore, 251 s.; R. Gianelli, Il regime impositivo dei dividendi e i principi contabili internazionali, cit., 219 ss.
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in portafoglio diverse da quelle valutate in base al metodo del patrimonio netto” (11), mentre il “saldo, positivo o negativo, tra i proventi e gli oneri relativi” a partecipazioni in società controllate (12), controllate in modo congiunto o sottoposte ad influenza notevole (13) va indicato nella voce del conto economico 220 “Utili (Perdite) delle partecipazioni” (corrispondente alla voce 210 dello schema originario), la quale pure non rileva ai fini del margine di intermediazione. Nemmeno in quest’ultima voce, comunque, vanno inseriti i dividendi percepiti su partecipazioni valutate in base al metodo del patrimonio netto, i quali figurano invece come variazione negativa della voce 70 “Partecipazioni” (non del conto economico, ma) dell’attivo dello stato patrimoniale (corrispondente alla voce 100 nello schema originario) (14). Per la verità, la Circolare 262/2005 consente di non usare il metodo del patrimonio netto per valutare delle partecipazioni (non di controllo, ma) in società controllate congiuntamente o sottoposte ad influenza notevole, qualora esse siano inserite nella voce 20 dello stato patrimoniale “Attività finanziarie valutate al fair value con impatto a conto economico”, ai sensi dello IAS 28 “Partecipazioni in società collegate” e dell’IFRS 11 “Accordi a controllo congiunto” (15). Essi
(11) Cfr. Banca d’Italia, Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005, cit., foglio 2.3.3. Anche intendendo come fisso il rinvio operato dall’art. 6, d.lgs. 446/1997 ai provvedimenti della Banca d’Italia, comunque l’esclusione dal computo del margine di intermediazione dei dividendi relativi a partecipazioni valutate in base al metodo del patrimonio netto già risultava dalla versione originaria della circolare n. 262/2005. (12) Secondo l’IFRS 10, Bilancio consolidato (nel testo consolidato di cui al Regolamento CE n. 1126/2008, cit., 862 ss.) par. 6, “Un investitore controlla un’entità oggetto di investimento quando è esposto a rendimenti variabili, o detiene diritti su tali rendimenti, derivanti dal proprio rapporto con la stessa e nel contempo ha la capacità di incidere su tali rendimenti esercitando il proprio potere su tale entità”. (13) Il Principio contabile internazionale n. 28, Partecipazioni in società collegate e joint venture, al par. 3, ivi, 253 ss., definisce il controllo congiunto come “la condivisione, stabilita tramite accordo, del controllo di un’attività economica, che esiste unicamente quando per le decisioni relative a tale attività è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo”, e l’influenza notevole come “il potere di partecipare alla determinazione delle politiche finanziarie e gestionali della partecipata senza averne il controllo o il controllo congiunto”; ivi, al par. 5, si chiarisce inoltre che la partecipante si suppone avere un’influenza notevole se possieda, direttamente o indirettamente, almeno il 20 % dei voti esercitabili nell’assemblea della società collegata, qualora non possa essere chiaramente dimostrato il contrario, anche se un’altra partecipante abbia la maggioranza assoluta o relativa. (14) Cfr. Banca d’Italia, Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005, cit., foglio 2.3.8, ove si chiarisce che detta variazione deve essere indicata nella tabella 7.2 della sezione 7 della nota integrativa dello stato patrimoniale. (15) Cfr. Banca d’Italia, Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005, cit., foglio 2.2.4.
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permettono infatti, in determinati casi, di valutare dette partecipazioni secondo il fair value ed inserirle nella suddetta voce 20 (16) , mentre addirittura lo impone il par. 20 dello IAS 28 quando si tratti di azioni o quote che realizzino i requisiti (previsti dall’IFRS 5 - Attività non correnti possedute per la vendita e attività operative cessate) per essere classificate come possedute per la vendita, ossia detenute per la negoziazione (17). Infine, i dividendi relativi ad “attività operative cessate” vanno considerati nella voce del conto economico 290 “Utile (Perdita) delle attività operative cessate al netto delle imposte” (18), che pure non rileva ai fini del margine di intermediazione e quindi della base imponibile irap (19). Non mi sembra che possa modificare tali criteri la normativa in materia di coordinamento tra i principi contabili internazionali e le regole di determinazione della base imponibile irap (20). Infatti, l’art. 6, d.lgs. 446/1997 si riferi-
(16) In particolare, secondo i parr. 13 ss. del principio contabile internazionale n. 28 e l’IFRS 11, se una controllante sia esente dalla redazione del bilancio consolidato ai sensi del par. 4 (a) dell’IFRS 10, in quanto a sua volta controllata, e gli altri azionisti, informati, non obiettino alla non applicazione del metodo del patrimonio netto, ed inoltre i suoi titoli di debito e strumenti rappresentativi di capitale non siano negoziati in un mercato pubblico ed essa non abbia depositato (né stia per depositare) il proprio bilancio presso un organismo di regolamentazione per emettere strumenti finanziari in un mercato pubblico, e la sua controllante rediga un bilancio consolidato per uso pubblico conforme agli IFRS. (17) Cfr. IFRS 5- Attività non correnti possedute per la vendita e attività operative cessate, Regolamento (CE) n. 1126/2008 della Commissione del 3 novembre 2008, cit., 632 ss. (18) Ove appunto “figura il saldo, positivo o negativo, dei proventi (interessi, dividendi, ecc.) e degli oneri (interessi passivi, ecc.) relativi alle ‘attività operative cessate’ e alle ‘passività associate in via di dismissione’, al netto della relativa fiscalità corrente e differita” (cfr. Banca d’Italia, Circolare n. 262 del 22 dicembre 2005, cit., foglio 2.3.9). (19) Secondo la Circ. Ag. Entrate n. 27/E, cit., par. 3.3, la quale fa riferimento alla voce 280 di cui alla versione originaria del conto economico come sede per l’indicazione separata dell’“Utile (Perdita) dei gruppi di attività in via di dismissione al netto delle imposte”, pur confluendo nel computo “componenti che se derivassero da attività classificate come attività correnti potrebbero concorrere alla formazione della base imponibile IRAP, in via generale si ritiene che le componenti reddituali confluite in questa voce non debbano assumere rilevanza ai fini dell’imposta in quanto non espressamente richiamate dall’articolo 6 del d. lgs. n. 446 del 1997”. Pur ricordando detta Circolare che concorrono alla base imponibile irap anche “delle componenti correlate a poste rilevanti ai fini del tributo (cfr. articolo 6, comma 6, del decreto IRAP)”, il principio di correlazione di cui all’art. 5 co. 4 d.lgs. 446/1997, richiamato dall’art. 6, co. 6, d.lgs. 446/1997, non mi sembra abbia comunque riflessi sul problema in esame, in mancanza di collegamenti tra i dividendi non imputati alla voce 70 del conto economico e componenti positivi o negativi del valore della produzione netta di altri periodi d’imposta. (20) Per inciso, in dottrina si dubita dell’applicabilità ai fini irap agli enti creditizi e finanziari di alcune prescrizioni del d.m. 8 giugno 2011, recante disposizioni di coordinamento tra
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sce puntualmente ad alcune voci dello schema delineato dalla Banca d’Italia ed ai criteri da essa fissati, non già agli IAS/IFRS come tali. Quindi, i problemi di compatibilità sorti dalla generica scelta legislativa, di cui all’art. 5, d.lgs. 446/1997, di c.d. “presa diretta dal bilancio” non si presentano rispetto alla disciplina speciale in materia di valore della produzione netta degli intermediari finanziari, potendo quest’ultima ritenersi fondata sulla consapevolezza di tutte le implicazioni di quei riferimenti a singole voci di conto economico (21). Pertanto, dal rinvio ai principi contabili di cui all’art. 6, d.lgs. 446/1997 emerge come la commissione tributaria di Reggio Emilia erri nel presupporre che nel calcolo del “margine d’intermediazione” rientrino tutti i dividendi conseguiti dalle banche, inclusi quelli provenienti da società controllate, giacché proprio questi (e, normalmente, anche quelli di società collegate) sono irrilevanti ai fini irap, in quanto non devono essere ricompresi nella voce 70 del conto economico. A mio avviso, è del tutto ragionevole questo rinvio, al fine di determinare la base imponibile irap delle banche, alle regole sul calcolo del “margine di intermediazione” nello schema di conto economico, in quanto quei criteri hanno la funzione di individuare proprio il risultato della (sola) gestione ordinaria dell’impresa, che con quel tributo si intende colpire (22). Per gli intermediari
i principi contabili internazionali e le regole di determinazione delle basi imponibili ires e irap (cfr. V. Russo, “Titoli atipici”: regime IRAP in cerca di conferme, in Corr. Trib., 2019, 857 ss.); ma nel senso dell’applicabilità si v. Ag. Entrate, Ris. n. 91/E del 29 ottobre 2019. (21) Inoltre, l’art. 2, co. 2, d.m. 8 giugno 2011, laddove prevede il concorso alla base imponibile irap dei componenti fiscalmente rilevanti ai sensi del d.lgs. 446/1997 imputati direttamente a patrimonio netto (ovvero al prospetto delle altre componenti di conto economico complessivo) al momento in cui siano imputati a conto economico o, qualora detta imputazione non sia mai prevista, secondo le disposizioni applicabili ai componenti imputati al conto economico aventi la medesima natura, non mi sembra possa comportare la tassazione dei dividendi non inseriti nella voce 70 di quest’ultimo. Quella norma presuppone infatti una disciplina Irap fondata sui principi contabili nazionali (diversamente da quella dell’attività bancaria) ed impone di risalire alla ratio di ciascuna regola in materia di valore della produzione netta per capire se debba applicarsi anche quando un componente da essa previsto (individuato in base alla sua “natura”) non debba invece essere inserito nel conto economico in forza dei criteri di redazione di questo applicati dall’impresa. Invece, come dirò tra breve, l’irrilevanza per il valore della produzione netta dei dividendi da partecipazioni di controllo e di collegamento dipende proprio, alla luce della ratio dell’irap, dalla natura di essi in quanto non riferibili all’attività di intermediazione finanziaria svolta dalle banche, nella quale rientrano invece i dividendi da trading. (22) Per la rilevanza, in via generale, dei risultati della sola gestione ordinaria nel valore della produzione netta delle imprese commerciali, si v. per tutti R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007, 355 ss., nonché 434 ss. per la
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finanziari è appunto l’attività di intermediazione a generare il valore aggiunto tipico del settore, mentre è ad essa estraneo il possesso di partecipazioni in società controllate e collegate, i dividendi delle quali pertanto non devono concorrere al valore della produzione netta (23). L’individuazione del risultato dei servizi di intermediazione finanziaria, rientranti nella suddetta attività ordinaria, richiede quindi di distinguere tra le partecipazioni produttive di rendimenti collegati semplicemente al possesso delle azioni o quote, rilevanti ai fini del valore della produzione netta, e quelle che, attraverso un rapporto di controllo o un’influenza notevole, consentono alla banca socia di orientare, o almeno concorrere a determinare, le politiche finanziarie e gestionali della società partecipata (generando proventi derivanti, al più, da detta gestione del gruppo societario, non da prestazioni di servizi rese ai clienti). Le regole stabilite dalla Banca d’Italia per determinare le voci 120 e 70 del conto economico, come si è visto, includono criteri intesi a distinguere queste due aree, sicché l’art. 6, d.lgs. 446/1997 definisce rinviando ad essi, e non tramite la riduzione a metà dell’importo tassabile dei dividendi, l’ambito della gestione i risultati della quale rilevano secondo il ricordato aspetto della ratio dell’irap. 2. Sul problema della compatibilità della tassazione dei dividendi con la Direttiva “madri-figlie”. – Quanto ho osservato finora non rende superfluo affrontare il problema della compatibilità dell’art. 6, d.lgs. 446/1997 con la Direttiva “madri-figlie” 2011/96, perché l’art. 3 di quest’ultima ne delimita l’applicazione ai casi in cui una società possieda almeno il 10% del capitale di una società di un altro Stato membro (24), mentre dai principi contabili richiamati dall’art. 6, d.lgs. 446/1997 risulta che l’influenza notevole (la quale, come si è detto, comporta normalmente la non soggezione dei dividendi ad irap) è ricollegata alla disponibilità di almeno il 20 % dei voti, salva la possibilità di dimostrarne nel caso concreto l’assenza o la sussistenza a pre-
base imponibile irap dell’attività bancaria nella disciplina precedente alla l. 244/2007. (23) Cfr. R. Gianelli, Il regime impositivo dei dividendi e i principi contabili internazionali, cit., 220 s., che però mi sembra intendere la riduzione al 50 % come regola per determinare forfettariamente la parte di dividendi derivante dall’attività di trading, senza specificare se essa si applichi ai soli proventi non derivanti da società controllate o collegate. (24) L’art. 3, n. 1, della Direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, prevedeva originariamente una soglia del 20 %, ridotta dal 1° gennaio 2007 al 15% e dal 1° gennaio 2009 al 10%. Per l’autonomia di questo requisito dalla nozione civilistica di controllo/collegamento si v. G. Marino, La relazione di controllo nel diritto tributario. Analisi interdisciplinare e ricostruzione sistematica, Padova, 2008, 171 s.
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scindere da detta soglia (25). D’altra parte, l’art. 89 co. 3-ter t.u.i.r., avvalendosi di una facoltà di limitazione della portata della Direttiva “madri-figlie” concessa dall’art. 3, par. 2, lett. b) della medesima, richiede, per riconoscere l’esclusione dalla base imponibile del 95% dei dividendi, anche la detenzione diretta della partecipazione ininterrottamente per almeno un anno. Pertanto, un conflitto tra la Direttiva e l’art. 6, d.lgs. 446/1997 è ravvisabile laddove si sovrappongono le sfere di applicazione dell’una e dell’altro, cioè con riguardo alle partecipazioni di collegamento, gli utili delle quali rientrino nel margine di intermediazione e per le quali sia invocabile, sussistendone i requisiti, la Direttiva “madri-figlie”. Conviene dunque prendere in esame le censure respinte dall’ordinanza in epigrafe. Anzitutto, quest’ultima non è convincente laddove afferma che tale Direttiva si applicherebbe solo all’ires perché solo questa è indicata nell’allegato 1, parte b) alla stessa. Infatti, in detto allegato sono elencati non già i tributi cui la Direttiva si applica, bensì quelli ai quali una società deve essere assoggettata per rientrare nella definizione di “società di uno Stato membro” (26). Pertanto, secondo Corte di Giustizia UE, 17 maggio 2017, C-365/16 (citata ma non presa in considerazione dall’ordinanza in epigrafe), l’art. 4 par. 1, lett. a) della Direttiva madri‑figlie, laddove prevede che lo Stato membro della società madre si deve astenere dal sottoporre ad imposizione in capo ad essa gli utili distribuiti dalla società figlia non residente, “non limita la propria applicazione a una determinata imposta” (27). In altre parole, tale Direttiva, perseguendo, mediante un regime fiscale comune degli utili, l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli alla formazione di
(25) V. supra, nota 13. (26) L’art. 2, lett. a), punto iii) della Direttiva considera tale, infatti, quella assoggettata “senza possibilità di opzione e senza esserne esentata, a una delle imposte elencate nell’allegato I, parte B, o a qualsiasi altra imposta che venga a sostituire una delle imposte sopraindicate”: cfr. per tutti A. Fedele, La direttiva “madre-figlia”, cit., 1264. (27) Cfr. Corte di Giustizia, 17 maggio 2017, C-365/16, AFEP e altri, punto 33, sulla quale si v. G. Corasaniti, Il divieto di imposizione dei dividendi intracomunitari ai fini della Direttiva madre-figlia, cit., 81 e A. Fazio, op. cit., 93. In quel caso, si trattava di un contributo aggiuntivo all’imposta francese sulle società, previsto dall’art. 235 ter ZCA del Code général des impôts, pari al 3% degli importi distribuiti ai soci: il fatto generatore non era dunque la percezione di dividendi da società figlie, come nell’imposta sulle società, ma la successiva distribuzione di essi ai soci della società madre.
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raggruppamenti fra società di diversi Stati membri (28), proibisce non soltanto l’assoggettamento ad imposte sul reddito, ma l’applicazione di qualsiasi imposizione sui dividendi (a meno che sia riconosciuta in detrazione la quota di imposta estera subita dalla figlia), al di là del prelievo su una percentuale fino al 5 % di essi consentito dall’art. 4, par. 3 (29). Quindi, a mio avviso, è incompatibile con l’art. 4, par. 1 della Direttiva “madri-figlie” la soggezione dei dividendi all’Irap (30). Comunque, tale esonero dei dividendi prodotti da società “figlie” di altri Stati UE dal concorso al valore della produzione netta non mi pare in conflitto con la ratio dell’irap, emergente fin dall’art. 1, d.lgs. 446/1997, laddove fa riferimento alle “attività produttive esercitate nel territorio delle regioni”, di colpire soltanto attività svolte dal soggetto passivo nel territorio italiano. La disciplina del d.lgs. 446/1997 sui profili territoriali del tributo non prevede però una specifica esclusione dei dividendi di fonte estera: l’art. 12 rinvia ai criteri di cui all’art. 4, co. 2 per determinare la quota di valore della produzione netta attribuibile ad attività esercitate fuori d’Italia dai soggetti passivi ivi residenti, quindi, per le banche, si considera quella “proporzionalmente corrispondente … ai depositi in denaro e in titoli verso la clientela, agli impieghi o agli ordini eseguiti … presso gli uffici, ubicati nel territorio di ciascuna regione”. Anche se i dividendi in generale derivano da attività esercitate dalle società partecipate, a mio avviso la rilevanza come criterio di collegamento territoriale di depositi in titoli, impieghi ed ordini riferibili ad uffici siti in Italia comporta che tali forme di gestione da parte essi di partecipazioni produttive
(28) Cfr. A. Fedele, La direttiva “madre-figlia” e la disciplina attuativa, cit., 1259. (29) Ai sensi dell’art. 4, par. 1, Dir. 2011/96/UE, quando una società madre o la sua stabile organizzazione, in virtù del rapporto di partecipazione tra la società madre e la sua società figlia, riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia, lo Stato membro della società madre (così come quello della sua stabile organizzazione) deve astenersi dal sottoporre tali utili a imposizione, nella misura in cui essi non siano deducibili per la società figlia, oppure deve autorizzare la società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla propria imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili pagata dalla società figlia e da una sua sub-affiliata. Il par. 3 consente però agli Stati membri di non considerare deducibili dall’utile imponibile della società madre le minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia e gli oneri relativi alla partecipazione, i quali ultimi possono essere determinati forfettariamente, in misura non superiore al 5 % degli utili distribuiti dalla società figlia. (30) Conf. G. Corasaniti, Il divieto di imposizione dei dividendi intracomunitari ai fini della Direttiva madre-figlia, cit., 83.
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di utili di cui alla voce 70 del conto economico bastino per assoggettarli ad irap. Dunque, l’esclusione dalla base imponibile irap dei dividendi ai quali si applica la disciplina “madri-figlie”, ponendosi come regola speciale rispetto a quelle richiamate dal d.lgs. 446/1997 per individuare situazioni in cui i proventi si considerano frutto di una partecipazione di controllo o di collegamento e quindi estranei all’attività bancaria ordinaria, supera il problema della territorialità di essi, come si può dire dei criteri di cui alla Circolare 262/2005 della Banca d’Italia con riferimento a società controllate o collegate extra-UE o alle quali comunque non si applichi la Direttiva 2011/96. Per converso, queste esigenze di coerenza riguardanti la componente territoriale del presupposto irap rendono a mio avviso non convincente la pretesa (espressa dal ricorrente nella controversia di cui all’ordinanza in epigrafe) che l’applicabilità a detto tributo della Dir. 2011/96/UE comporti come conseguenza anche l’esclusione dal valore della produzione netta dei dividendi di società italiane in situazioni corrispondenti. La ragione addotta per tale estensione è che altrimenti gli investimenti in società nazionali sarebbero disincentivati dal prelievo dell’irap e ciò violerebbe il diritto di stabilimento ed il principio di libera circolazione dei capitali, di cui agli artt. 49-55 e 63 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Inoltre, sarebbero violati gli artt. 3 e 53 Cost., perché la diversa origine dei dividendi non potrebbe esprimere una differenza di capacità contributiva. Osserverei, in primo luogo, che non mi sembra riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE l’idea della contrarietà ai diritti e libertà garantiti dai Trattati di una “discriminazione a rovescio”, consistente in questo caso in una maggiore tassazione dei dividendi provenienti da società figlie residenti nello stesso Stato della società madre (31). Il problema può anche porsi
(31) Si v. da ultimo E. Traversa, Sanzioni tributarie, “discriminazioni a rovescio” ed esigenza di un intervento della Corte Costituzionale, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 964 s. e F. A. Cimino, In tema di imposta sulle transazioni finanziarie relative a strumenti derivati, in Rass. Trib., 2020, 1032 ss. Intendo qui la discriminazione “a rovescio” nel senso di una minore tassazione dei prodotti e dei soggetti di altri Paesi membri rispetto a quelli dello Stato impositore, anch’essa distorsiva (a danno di questi ultimi) ma non vietata dai Trattati europei, in quanto essi non mirano alla parità fiscale tra prodotti nazionali e stranieri, ma solo a contrastare tendenze protezionistiche, vietando trattamenti sfavorevoli dei secondi (cfr. per tutti F. Gallo, Mercato unico e fiscalità: aspetti giuridici del coordinamento fiscale, in Rass. Trib., 2000, 732). La “reversed discrimination” intesa specificamente come trattamento sfavorevole di cittadini dello Stato impositore che risiedano in un altro Stato membro, invece, può essere in contrasto con la libertà di stabilimento
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in termini di interpretazione di una Direttiva, l’attuazione della quale abbia provocato un minore prelievo a favore delle fattispecie rilevanti per il diritto europeo rispetto a quelle interne, non giustificato dalla ratio della medesima (32), ma nel caso della disciplina “madri-figlie”, visti i “considerando” e l’art. 7 par. 2, che “lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi”, non mi sembra sussistere una siffatta situazione. In secondo luogo, è possibile che prelievi su situazioni puramente interne più gravosi rispetto a quelli su fattispecie rilevanti per il diritto europeo, conseguenti al riconoscimento dell’illegittimità della tassazione di queste ultime, siano contrari ai principi di eguaglianza e capacità contributiva della nostra Costituzione (33), ma a mio avviso una differenza siffatta nel caso dell’irap è giustificata dal carattere territoriale di essa. Infatti, se la ratio dell’irap ne comporta l’applicazione soltanto a fattispecie realizzate nella sfera dell’ente impositore, una riduzione dei casi in cui essa gravi su fenomeni con elementi di estraneità non inficia la coerenza della tassazione di situazioni meramente interne, come i flussi di dividendi tra società residenti in Italia. Ci si potrebbe chiedere invece se sia coerente con detta ratio il prelievo su dividendi da inserire nella voce 70 del conto economico, analoghi a quelli cui si applica la Dir. 2011/96/UE, ma provenienti da società extra-UE. Tuttavia, la disparità di trattamento con quelli esonerati da irap in forza della Direttiva “madri-figlie” dipende dalla disciplina speciale di quest’ultima e non da
se riferita all’esercizio di un’attività economica, sicché si può ravvisare un principio di “parità di trattamento tra i cittadini di uno Stato a seconda che investano nel proprio Stato oppure in un altro Stato membro, nella misura in cui tale parità assicuri il pieno esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato” (cfr. G. Melis, Libertà di circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e principio di non discriminazione nell’imposizione diretta: note sistematiche sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Rass. Trib., 2000, 1160 s. e 1172 s.). Quest’ultimo riferimento conferma però che ad essere vietate sono regole tributarie le quali siano di ostacolo alla scelta di investire all’estero e non quelle tali da favorirla: dunque, fermo restando che le libertà garantite dal diritto europeo devono essere rispettate anche nelle situazioni estranee alla Direttiva “madri-figlie” (cfr. per tutti G. Maisto, Temi attuali sull’interpretazione della Direttiva madre figlia, cit., 556), la portata di esse non mi sembra estendersi a situazioni puramente interne, tanto più con riferimento ad imposte non armonizzate. (32) P. Pistone, Uguaglianza,discriminazione a rovescio e normativa antiabuso in ambito comunitario, in Dir. prat. trib., 1998, III, 604 ss. (33) Cfr. G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principii tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, 166 ss.; G. Corasaniti, op. loc. ult. cit.
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un’incoerenza della normativa del d.lgs. 446/1997, laddove distingue i proventi derivanti da una relazione di controllo o di collegamento anziché dal mero possesso di azioni o quote, sia pure di società straniere. 3. Conclusioni: nella speciale disciplina irap delle banche, la tassazione dei dividendi ex art. 6 d.lgs. 446/1997 non appare irragionevole. – Come è noto, fin dall’inizio la base imponibile irap delle banche si è caratterizzata per la sua specialità, in particolare per la rilevanza degli interessi attivi e passivi. Questi ultimi, infatti, sono irrilevanti per il valore della produzione netta delle imprese industriali e commerciali in quanto inseriti nella parte finanziaria del conto economico, e ciò corrisponde alla loro funzione di remunerazione del fattore produttivo capitale (34). Invece, il valore aggiunto prodotto dall’attività bancaria risulta principalmente dalla differenza tra interessi attivi (che in quanto pagati da chi riceve i prestiti misurano i proventi tratti dalla concessione di essi) e passivi (in quanto costi dell’input, ossia dell’ottenimento dai depositanti delle risorse raccolte) (35). L’aderenza di questo metodo di calcolo alla natura dell’intermediazione creditizia ha fatto apparire accettabile la doppia imposizione irap conseguente all’indeducibilità degli interessi nella determinazione del valore della produzione netta dei soggetti che li pagano alle banche per i prestiti ricevuti (36). Nella disciplina originaria del d.lgs. 446/1997, invece, tutti i dividendi ricevuti non erano tassabili, nemmeno in capo alle banche (37) e ciò pareva spiegabile con l’esigenza di evitare una duplicazione rispetto al prelievo sul valore della produzione netta delle società partecipate (38). Però, con la modifica all’art. 6, d.lgs. 446/1997 recata dall’art. 1, co. 50, l. n. 244/2007, il legislatore ha inserito tra i componenti positivi del valore della produzione degli intermediari finanziari i dividendi da iscrivere nella voce 70 del conto
(34) Cfr. per tutti R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 322 ss. e 355 ss. (35) Cfr. per tutti R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 51 e 433 ss. (36) Cfr. per tutti R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 323 ss. e 437 s. (37) Tuttora, in base alla disciplina generale, essi non concorrono al valore della produzione netta delle imprese, ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 446/1997 perché non afferiscono al settore A del conto economico e ai sensi dell’art. 5-bis perché non rientrano tra i componenti positivi in esso indicati. (38) Cfr. per tutti R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 436.
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economico, accettando quindi la suddetta duplicazione (ovviamente ciò non vale se si tratta di utili di società estere non svolgenti attività in Italia). Nei precedenti paragrafi si è cercato di dimostrare che la ratio di tale intervento normativo è di tassare dei proventi dell’attività ordinaria degli intermediari finanziari, riportabile a prestazioni di servizi nei confronti della clientela, individuandoli mediante rinvio ai criteri del bilancio bancario, mentre restano irrilevanti ai fini irap i dividendi non concorrenti al margine di intermediazione, in particolare quelli da partecipazione in società controllate o collegate, nei quali si può eventualmente ravvisare la remunerazione del concorso della banca socia alla gestione di esse, simile all’apporto di un fattore produttivo. Di conseguenza, alla riduzione al 50% dell’importo dei dividendi di cui alla voce 70 si può attribuire la funzione di attenuare il peso dell’irap su di essi, in considerazione della duplicazione con il prelievo sulla partecipata (39). Ipotesi, questa, confortata dalla somiglianza con l’esclusione parziale stabilita ai fini delle imposte sul reddito dagli artt. 59 e 89 t.u.i.r. (benché il co. 2-bis del secondo, per i soggetti IAS, preveda il concorso integrale al reddito degli utili di azioni, quote e strumenti similari detenuti per la negoziazione). In tale prospettiva, la norma sembra acquisire la ragionevolezza negata dall’ordinanza annotata.
Roberto Schiavolin
(39) Diversamente, R. Gianelli, Il regime impositivo dei dividendi e i principi contabili internazionali, cit., 220 s., ricollega proprio alla tassazione al 50% un problema di doppia imposizione, che però nel caso dell’irap del settore creditizio, come si è detto, non sembra avere lo spessore sistematico riconoscibile per le altre attività soggette al tributo.
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Gaetano Ragucci
Cass. civ., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 21696; Pres. Biagio Virgilio, Rel. Giuseppe Fuochi Tinarelli-Ferro vs Agenzia delle Entrate Sanzioni tributarie – Rapporti tra illecito penale e illecito tributario – Assoluzione o proscioglimento per insussistenza del fatto – Non eseguibilità della sanzione amministrativa – Condizioni (art. 21, d.lgs. n. 74/00) Il procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente fatti astrattamente rilevanti sub specie di reati tributari, non è ex se improcedibile in ragione dell’intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione, ancorché pronunciata “perché il fatto non sussiste”; siffatta pronuncia determina invece la definitiva non eseguibilità della sanzione amministrativa, purché, nell’ambito del giudizio avente ad oggetto la riscossione avviata dall’Ufficio, sia accertata l’identità del fatto, attraverso una valutazione concreta esperita in relazione agli elementi costitutivi sia dell’illecito amministrativo tributario, sia di quello penale. (1)
(Omissis) Fatti di causa. - L’Agenzia delle entrate di Latina emetteva nei confronti di F.T., artista e cantante, avviso di accertamento, con cui, in relazione all’omessa presentazione delle dichiarazioni per Iva, Irpef e Irap per l’anno 2008, recuperava le imposte dovute e non versate ed irrogava le conseguenti sanzioni. L’Amministrazione finanziaria riteneva che il formale trasferimento della residenza nel Regno Unito, operato nel corso del 2006 dal contribuente, fosse in realtà fittizio, sicché il medesimo era soggetto all’imposizione fiscale italiana. Con ricorso il contribuente deduceva l’incompetenza dell’Agenzia procedente, l’illegittimità e l’infondatezza della pretesa e, in ogni caso, l’inapplicabilità delle sanzioni. L’impugnazione era rigettata dalla CTP di Latina; la sentenza era confermata dal giudice d’appello. F.T. propone ricorso per cassazione con ventinove articolati motivi, chiedendo, in subordine, rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
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Il contribuente deposita altresì memoria illustrativa, con la quale propone ulteriori questioni, e sentenza penale irrevocabile di assoluzione emessa dal Tribunale di Latina. (…) 29.1. Il regime sanzionatorio, invero, è oggetto di specifica (anche se limitata) censura, con doglianze – motivi 28 e 29 – non inammissibili. La questione dedotta, inoltre, riguarda le sanzioni per violazioni in materia di Iva, tributo di pertinenza unionale, e discende dall’invocata applicazione dei principi di diritto in ordine al diritto fondamentale garantito dall’art. 50 CDFUE (in tema di ne bis in idem), a più riprese affermati dalla Corte di Giustizia (da ultimo v. Corte di Giustizia, 3 aprile 2019, in C-617/17, Powszechny Zaklad Ubezpieczeri na 2ycie S.A.; Corte di Giustizia, 20 marzo 2018, in C524/15, Menci; Corte di Giustizia, 20 marzo 2018, nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma). Infine, la prospettazione del ricorrente accede alla proseguibilità del procedimento di irrogazione della sanzione tributaria, assumendo rilievo la decisione in sede penale (di assoluzione) come causa di estinzione anche in sede amministrativa tributaria e, con riguardo al ricorso, quale sopravvenuta causa di estinzione (o di cessazione della materia del contendere) limitatamente alle sanzioni.
29.2. In tale prospettiva, dunque, è ammissibile, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., interpretato in conformità alle esigenze di effettività del diritto unionale, la produzione della decisione penale di assoluzione ai fini delle sanzioni in materia di Iva, dovendosi affermare il seguente principio di diritto: “in materia tributaria, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, relativa ai medesimi fatti oggetto della sanzione tributaria tuttora controversa, può essere prodotta in cassazione ex art. 372 c.p.c. ove la parte intenda far valere l’improcedibilità, l’improponibilità o, comunque, l’estinzione, in tutto o in parte, del giudizio stesso per la violazione – pur dedotta per la prima volta in sede di legittimità e sempreché pertinente alle questioni ritualmente in giudizio – di principi di ordine pubblico unionale (nella specie, del principio del ne bis in idem)”.
30. Il motivo, pur ammissibile in uno con la produzione della sentenza penale, è, tuttavia, infondato. 30.1. Occorre sottolineare, invero, che l’evoluzione degli orientamenti della Corte EDU, della Corte di Giustizia e della stessa Corte costituzionale ha condotto ad un approdo dove la questione del ne bis in idem, che ha di per sé rilievo sia sostanziale che processuale, trova una sua unitaria composizione, in linea tendenziale, sul piano del procedimento e del processo. Senza ripercorrere l’intero iter della citata giurisprudenza (che trova il suo leading case nella decisione CEDU, 2 marzo 2014, Grande Stevens), va rilevato che la stessa Corte EDU, con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, (poi
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ribadita dalla successiva sentenza Bjarni Armannsson c. Islanda del 16 aprile 2019) ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorché tra i due procedimenti amministrativo e penale - che sanzionano il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto. Un tale legame va ravvisato, in particolare, quando (a) le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta, (b) la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato, (c) esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti, ferma (d) la proporzionalità del cumulo sanzionatorio, che non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato in rapporto alla gravità dell’illecito. In termini sostanzialmente coincidenti si è poi espressa la Corte di Giustizia con tre coeve sentenze del 20 marzo 2018 (in C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri; nelle cause riunite C-596/16 e C597/16, Di Puma; in C-524/15, Menci): non si realizza la violazione dell’art. 50 della Carta se (sentenza Menci, punto 63) la disciplina contestata persegua un “obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, vale a dire la lotta ai reati in materia di imposta sul valore aggiunto, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari, contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti, e preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti” (v. anche la successiva sentenza 3 aprile 2019, in C-617/17, Powszechny, dove esclude la pertinenza del principio in caso di applicazione parallela della duplice normativa sanzionatoria, mancando la “ripetizione di un procedimento conclusosi con una decisione definitiva”). I medesimi principi, infine, ispirano anche la Corte costituzionale che, nel declinare con le sentenze n. 43 del 2 marzo 2018 e n. 222 del 24 ottobre 2019 la questione di legittimità, in riferimento specifico alle sanzioni tributarie. dell’art. 649 c.p.c. (nel primo caso con la restituzione degli atti al giudice remittente, nel secondo con una declaratoria di inammissibilità delle questioni; successivamente v. anche, in termini specifici, O. 12 giugno 2020, n. 114, nonché, con riferimento all’art. 709 ter c.p.c., comma 2, n. 4, in tema di inadempimento degli obblighi di assistenza familiare, la sentenza n. 145 del 10 luglio 2020), ha esplicitamente richiamato le decisioni della Corte EDU e della Corte di Giustizia. La prima decisione ha sottolineato che, nell’interpretazione di tale concetto, “si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata”.
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Tali affermazioni, poi, sono state specificamente arricchite con la sentenza n. 222 del 2019, che ha operato un’accurata ed ampia disamina dei rapporti tra indagine penale e accertamento tributario e dei regimi probatori e di circolazione della prova tra i diversi ambiti. 30.2. Il nucleo del principio del ne bis in idem, dunque, fuori dall’ipotesi dell’avvio di un nuovo giudizio dopo la conclusione del primo, appare riconducibile, con peculiare riguardo alle sanzioni tributarie, al seguente enunciato: la sostanziale simultaneità del procedimento penale e di quello amministrativo-tributario, che assolvono a scopi diversi e complementari in relazione ai parametri normativi che giustificano l’esercizio dell’azione penale e attesa la pacifica circolazione probatoria tra i due giudizi del materiale ritualmente prodotto (v. Cass. n. 17258 del 27/06/2019; Cass. n. 28174 del 24/11/2017; parallelamente nel giudizio penale v. Cass. pen. 50127 del 27/09/2018), non osta alla irrogazione di una duplice sanzione (penale e tributaria), ferma la necessità di una valutazione, in concreto, della complessiva afflittività del cumulo sanzionatorio che deve rispondere a criteri di proporzionalità (in termini v. anche Cass. n. 7131 del 13/03/2019). 30.3. La questione specificamente dedotta in giudizio, peraltro, pur strettamente correlata ai rapporti tra sanzione penale e tributaria e all’applicazione del principio del ne bis in idem, si colloca, in realtà, verso i confini di tale problematica, non essendo, in effetti, neppure contestato che i distinti procedimenti sono stati avviati (e sono proseguiti) in sostanziale contemporaneità. Si deduce, invece, il difforme esito in sede penale come causa impeditiva del procedimento di irrogazione della sanzione tributaria. La denunciata violazione del principio del ne bis in idem, dunque, non attiene alle caratteristiche dei rispettivi giudizi o all’afflittività del complessivo trattamento sanzionatorio ma al diverso esito delle due procedure, l’una (penale) di assoluzione perché il fatto non sussiste, l’altra (amministrativo tributaria) di conferma della sanzione e, dunque, alla (apparente) aporia del sistema in cui convivono esiti opposti. 30.4. Il ricorrente invoca, in questa prospettiva, la decisione della Corte di Giustizia Di Puma cit., che, con riguardo all’irrogazione di sanzioni da parte della CONSOB, ha affermato che “un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non può essere proseguito a seguito di una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha statuito che i fatti che possono costituire una violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, sulla base dei quali era stato parimenti avviato tale procedimento, non erano provati” (Di Puma, punto 46). A tale decisione ha poi fatto seguito la sentenza della Suprema Corte, che aveva sollevato la questione innanzi alla Corte di Giustizia, n. 31632 del 06/12/2018, la quale prendeva atto, per effetto della decisione penale di assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste”, “dell’improseguibilità del giudizio di accertamento dell’illecito amministrativo”, e annullava la sanzione. 30.5. I precedenti invocati, tuttavia, non sono pertinenti alla vicenda in giudizio e alle peculiarità del giudizio tributario.
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Nella fattispecie ivi esaminata, infatti, per l’opposizione avverso la sanzione CONSOB e l’intero successivo giudizio vigono le ordinarie regole del processo civile e, in particolare, esplica appieno la sua efficacia l’art. 654 c.p.p. (“Efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi”), secondo il quale “Nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”. Non a caso, del resto, la stessa sentenza Di Puma fa esplicito riferimento alla “autorità di cosa giudicata che una sentenza penale di assoluzione possiede in forza di una disposizione nazionale quale l’art. 654 del CPP” (punto 35). Nel giudizio tributario, invece, come già sopra si è rilevato, è dallo stesso disposto dell’art. 654 c.p.p. che deriva la non incidenza della statuizione penale ponendo la disciplina tributaria “limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”. Ne deriva che, a differenza di quanto statuito con la sentenza n. 31632/2018, l’intervenuta decisione penale favorevole, pur con la formula “il fatto non sussiste”, non può comportare la sopravvenuta improseguibilità del giudizio di accertamento dell’illecito tributario. 30.6. La questione, per contro, trova – in relazione alla natura del tributo e alle correlate contestazioni per evasione ed omessa dichiarazione – una autonoma e positiva soluzione alla luce della normativa dedicata a regolare i rapporti tra l’illecito penale e l’illecito tributario. Il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 19-21 (che costituiscono il Tit. IV del D.Lgs. cit. sotto la rubrica “Rapporti con il sistema sanzionatorio amministrativo e fra procedimenti”) delineano un quadro normativo idoneo a definire la questione. L’art. 19 introduce nell’ordinamento il principio di specialità tra disposizioni amministrative e penali (“1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale. 2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nel D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 11, comma 1, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato”). L’art. 20 esclude ogni rapporto di pregiudizialità tra processo penale e procedimento amministrativo (“Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”).
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Determinante ai fini che qui rilevano, peraltro, è l’art. 21 (la cui rubrica è “Sanzioni amministrative per le violazioni ritenute penalmente rilevanti”), secondo il quale: “1. L’ufficio competente irroga comunque le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato. 2. Tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicali dall’art. 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In quest’ultimo caso, i termini per la riscossione decorrono dalla data in cui il provvedimento di archiviazione o la sentenza sono comunicati all’ufficio competente; alla comunicazione provvede la cancelleria del giudice che li ha emessi. 3. Nei casi di irrogazione di un’unica sanzione amministrativa per più violazioni tributarie in concorso o continuazione fra loro, a norma del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12, alcune delle quali soltanto penalmente rilevanti, la disposizione del comma 2 del presente articolo opera solo per la parte della sanzione eccedente quella che sarebbe stata applicabile in relazione alle violazioni non penalmente rilevanti”. 30.7. La disposizione, di non pronta esegesi e priva di sostanziali riscontri nella giurisprudenza della Corte, ha natura strumentale e delinea lo stesso contenuto del principio di specialità introdotto con l’art. 19, poiché stabilisce, in termini univoci, che la sanzione tributaria deve, in ogni caso, essere irrogata anche se il medesimo fatto sia di rilievo penale e costituisca oggetto di notizia di reato. Il principio di specialità, infatti, in coerenza con la direttiva enunciata dalla L. delega n. 205 del 1999, art. 9, lett. i) (“prevedere l’applicazione della sola disposizione speciale quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa”), va riferito, in evidenza, alla materiale applicazione della sanzione, senza incidere sulle fasi, anteriori, dell’accertamento, della contestazione e dell’irrogazione, che procedono in autonomia e, anzi, devono necessariamente essere realizzate. Invero, la rara dottrina che si è occupata della questione ha valutato con severità la norma, osservando, principalmente, che il legislatore ha consolidato, sul piano processuale, la liceità della duplicazione dei procedimenti tributario e penale ed ha determinato un rovesciamento del principio della sussidiarietà della sanzione penale, che, in contrasto con l’esigenza di extrema ratio dello strumento penale, finisce per operare come reazione punitiva aggiuntiva rispetto alla sanzione amministrativa. Ed in effetti, la norma, in via di stretta interpretazione, legittima e ratifica a livello di disciplina positiva l’esistenza di un doppio binario procedimentale e processuale: non solo deve ritenersi consentito ma diviene doveroso per l’Amministrazione avviare il procedimento di irrogazione della sanzione ancorché il medesimo fatto sia, al contempo, oggetto di rilievo penale. Va peraltro sottolineato, alla luce dei principi unionali su esposti, che la norma va necessariamente intesa nel senso che l’attività dell’Amministrazione deve svolgersi
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sostanzialmente in simultanea con l’accertamento in sede penale; depone in tale direzione, del resto, lo stesso art. 20 cit., che, nell’escludere qualsiasi (reciproca) sospensione dei procedimenti, postula che essi siano pariteticamente in corso. In conclusione, pertanto, la disciplina in questione non codifica un bis processuale, ossia la liceità di un nuovo procedimento dopo la definizione del primo, ma la necessità che i procedimenti sorgano, e proseguano, in parallelo quali ambiti autonomi, benché coordinati, rendendo palese la ratio dell’intervento normativo fondato su un globale ed unitario apprezzamento legislativo funzionale ad una risposta punitiva articolata e concretamente dissuasiva. 30.8. Il necessario avvio del procedimento sanzionatorio, infatti, trova il suo bilanciamento nella previsione del comma 2, il quale esclude che la sanzione possa essere posta in esecuzione (salvo che per i soggetti solidalmente responsabili non concorrenti nel reato) fino a che il giudizio penale è pendente. Solo la definizione del giudizio penale è suscettibile di attivare la procedura di esecuzione ma in termini selettivi. In particolare: a) se la sentenza è di condanna la sanzione amministrativa resta definitivamente ineseguibile; b) se invece la sentenza penale è favorevole al contribuente la sanzione diviene eseguibile solamente se il procedimento penale è definito “con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto”. La locuzione impiegata dal legislatore, invero informale rispetto alle indicazioni di cui all’art. 530 c.p.p., sembra deporre nel senso che la possibilità di dare corso all’esecuzione della sanzione richieda che il fatto sussista, esclusa solo la “rilevanza penale” dello stesso. Si può ritenere, dunque, che l’assoluzione o il proscioglimento per l’insussistenza del fatto determini, di norma, l’ineseguibilità definitiva della sanzione. In una prospettiva generale, del resto, solo in una tale ipotesi era astrattamente configurabile una potenziale frizione tra gli esiti nei diversi procedimenti, la cui composizione viene risolta nella fase ultima della concreta attuazione della misura. Al tempo stesso, tuttavia, proprio l’impiego di una espressione atecnica e non pienamente collimante con le categorie penalistiche non può comportare l’automatica e ineludibile trasposizione delle formule assolutorie, pur di più ampia latitudine, alla fattispecie sanzionatoria amministrativa. In via meramente esemplificativa, va rilevato che l’orientamento prevalente della Cassazione penale, con riguardo al reato di omesso versamento dell’Iva, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, reputa che la soglia di punibilità configuri “un elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che la sua mancata integrazione comporta l’assoluzione con la formula ‘il fatto non sussiste’” (v. Cass. pen. 35611 del
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16/06/2016) e, dunque, sembra imporsi anche in una simile evenienza una valutazione in concreto, in ispecie per le eventuali evasioni al di sotto della soglia di punibilità. In altri termini, il “fatto” va necessariamente riguardato sotto il versante naturalistico in relazione agli elementi costitutivi vuoi dell’illecito amministrativo vuoi di quello penale. 30.9. Occorre porre in evidenza, infine, che le questioni da ultimo esposte restano comunque estranee alla fase di cognizione poiché investono l’eventuale esecuzione della sanzione. L’ultimo periodo del comma 2, del resto, è esplicito nel riferirsi ai “termini della riscossione”, che decorrono dalla comunicazione all’ufficio competente. Ne deriva che la problematica non è suscettibile di essere sollevata nel corso del giudizio di cognizione promosso avverso l’atto di contestazione. In tale ambito, del resto, la domanda si porrebbe in contrasto con il divieto di ius novorum, neppure venendo in considerazione, alla luce dei principi esposti, una lesione di principi di ordine pubblico unionale. 30.10. È appena il caso di sottolineare, infine, che qualora la condotta sanzionata in via amministrativa-tributaria non sia stata oggetto di parallela imputazione in sede penale o, comunque, abbia una oggettività giuridica diversa e autonoma rispetto a quanto contestato in sede penale, la questione esula dall’applicazione del meccanismo di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 19-21. 30.11. Alla luce dei principi esposti va dunque affermato il seguente principio di diritto: “in materia di Iva e in relazione a fatti oggetto delle disposizioni di cui al Titolo II, D.Lgs. n. 74 del 2000: a) va escluso che il procedimento amministrativo sanzionatorio debba essere dichiarato improcedibile in ragione dell’intervenuta sentenza penale irrevocabile di assoluzione ancorché pronunciata con la formula ‘perché il fatto non sussiste’; b) la sentenza penale irrevocabile di assoluzione con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ determina l’ineseguibilità definitiva della sanzione, ferma la necessità di valutare l’identità del ‘fatto’ in relazione agli elementi costitutivi vuoi dell’illecito amministrativo tributario vuoi di quello penale; il relativo accertamento di fatto va operato, in concreto, nel giudizio avente ad oggetto l’eventuale riscossione avviata dall’Ufficio”. (Omissis)
(1) Divieto di bis in idem e declinazione procedimentale del principio di specialità nel sistema punitivo tributario. Sommario: 1. Il contesto normativo e giurisprudenziale sullo sfondo del quale si
colloca la pronuncia in rassegna. – 2. Il divieto di bis in idem e l’oggetto della sentenza in commento. – 3. La decisione della Cassazione: esclusi l’estensione della giurisprudenza
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De Puma e il richiamo alla regola del ne bis in idem. – 4. (segue): l’art. 21, d.lgs. n. 74/00, e le conseguenze, esplicite ed implicite, del suo disposto. – 5. La norma implicita contenuta all’art. 21, d.lgs. n. 74/00. – 6. Conclusioni. Muovendo da alcune considerazioni in tema di ne bis idem, la Suprema Corte si sofferma sulla possibilità che, pur a fronte del medesimo illecito fiscale, i singoli procedimenti sanzionatori, l’uno amministrativo e l’altro penale, pervengano ad esiti differenti. Tale possibilità, secondo la Cassazione, non comporta una violazione del richiamato divieto né sul piano sostanziale, né su quello procedimentale; al contrario, per certi aspetti, una simile eventualità è la naturale conseguenza dell’applicazione del principio di ne bis in idem nella sua accezione più recente, che impone una oggettiva complementarità tanto delle sanzioni, quanto dei procedimenti volti alla loro applicazione. Starting from some considerations about non bis idem, the Court of Cassation focuses on the possibility that, concerning the same tax violation, the administrative proceeding and the criminal one may have different outcomes. According to the Court, such a circumstance does not determine a violation of the principle, neither from a substantive, nor from a procedural point of view. On the contrary it is the natural consequence of its application, which requires an objective complementarity of both the sanctions and the procedures aimed at their application.
1. Il contesto normativo e giurisprudenziale sullo sfondo del quale si colloca la pronuncia in rassegna. – Con la sentenza in commento la Sezione Quinta della Suprema Corte torna ad occuparsi del divieto di bis in idem e della sua declinazione nell’ambito del sistema punitivo tributario (1), caratterizzato dalla compresenza di sanzioni penali e sanzioni amministrative parapenali (2).
(1) Del tema la giurisprudenza di legittimità si è occupata sia in ambito civile sia in ambito penale. La Sezione tributaria è intervenuta sul punto piuttosto recentemente: Cass. civ., sez. trib., 16 dicembre 2019, n. 33050, in Quot. Giur., 2015, con nota di A.M. Zigrino, Sanzioni tributarie: sì al ne bis in idem nel caso di elementi di fatto connessi all’accertamento penale, e in Dir. Prat. Trib., 2020, 5, 2268, con nota di D. La Ferla, Il principio di ne bis in idem di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 74 del 2000, e Id., 13 marzo 2019, n. 7131, in bancadati dejure. Per quanto riguarda la Cassazione penale v., fra le altre, Cass. pen., sez. III, 22 settembre 2017, dep. 14 febbraio 2018, n. 6993, in Dir. Pen. Cont., 3, 2018, con nota di A.F. Tripodi, Ne bis in idem e sanzioni tributarie: la Corte di Cassazione “sfronda” il test della sufficiently cose connection in substance and time, nonché, in precedenza, Cass. pen., SS.UU., 12 settembre 2013, nn. 37424 e 37425, in Rass. Trib., 2014, 6, 1381, con nota di M.A. Icolari, nonché Cass. pen., sez. III, 20 maggio 2015, n. 20887, in Quot. Giur., 2015, con nota di M. Lombardo, Legittima la riduzione del sequestro per equivalente in misura pari ai ratei versati. (2) Sul sistema sanzionatorio tributario, colto nella sua duplice dimensione,
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È noto, in effetti, come, sulla base di una giurisprudenza ultradecennale e risalente alla decisione Engel della Corte europea dei diritti dell’uomo (3), anche ai fini dell’applicazione di tale fondamentale principio, le sanzioni amministrative previste dai singoli ordinamenti sono di fatto equiparate a quelle penali, allorché, a prescindere dal nomen iuris, presentino determinate caratteristiche, quale, in primis, una elevata afflittività, oltre ad una funzione deterrente e punitiva e alla generalità, da intendersi quale astratta riferibilità a tutti i cittadini (4). Per effetto di tale equiparazione, tenuto conto dell’oggettiva ispirazione penalistica che connota, nel nostro ordinamento, le sanzioni tributarie amministrative (5), non soltanto i Giudici di legittimità, ma altresì i Giudici
amministrativa e penale, v., in generale, D. Coppa, S. Sammartino, voce Sanzioni tributarie, ED, XLI, Milano, 1989, 415 ss.; L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 117 ss., R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, 78 ss. Più di recente si vedano, fra gli altri, i contributi contenuti in A. Giovannini (dir.), Trattato di diritto tributario sanzionatorio, Milano, 2016 (tra i quali, soprattutto: A. Giovannini , Il principio del ne bis in idem sostanziale; G. Melis, Gli interessi tutelati, II, 1293 ss.), nonché D. Coppa, Questioni attuali in tema di sanzioni amministrative, in Rass. Trib., 2016, 1023 ss.; F. Montanari, La dimensione multilivello delle sanzioni tributarie e le diverse declinazioni del principio di offensività – proporzione, in Riv. Dir. trib. online, 4, 2017; G. Ragucci, La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, in C. Glendi, G. Corasaniti, C. Oliva, Per un nuovo ordinamento tributario, Padova, 2019, 1549 ss. (3) Corte EDU, 8 giugno 1976, serie A, n. 22, Engel e a. contro Paesi Bassi, in M. Desalvia, V. Zagrebelsky, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Milano, 2006; in ambito tributario l’equiparazione tra sanzioni amministrative e sanzioni penali è avvenuta per la prima volta nel 2014: v. Corte EDU, 20 maggio 2014, n. 20266, Nykanen contro Finlandia, in Dir. Pen. Cont., 5 giugno 2014, con nota di M. Dova, Ne bis in idem in materia tributaria: prove tecniche di dialogo tra legislatore e giudici nazionali e sovranazionali. (4) Cfr. F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative, tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2014, 3 ss. (5) In ordine alla natura penalistica del modello cui sono ispirate le sanzioni tributarie amministrative v., ex multis, F. Batistoni Ferrara, Il nuovo sistema sanzionatorio: principi generali (legalità, favor rei, imputabilità, colpevolezza, cause di non punibilità), in Fisco, I-11354, 1999; L. Del Federico, Il principio di personalità, in G. Tabet (a cura di), La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, Torino, 2000; G. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie, in Riv. dir. trib., 2004, I, 374; S. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 141 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Milano Assagofiori, XIV, 2016, 316; D. Coppa, Le sanzioni amministrative tributarie: principi e deroghe tra diritto interno ed interpretazioni sovranazionali, in Dir. Prat. Trib. Int., XV, 2, 2018, 990 ss.; S. Sammartino, Il divieto di sospensione del procedimento di accertamento e del processo tributario per la pendenza del processo penale, in M. Garavoglia (a cura di), Scritti in onore di Ivo Caraccioli, Milano, 2020, 636. Sul punto v. anche I. Caraccioli, La progressiva assimilazione tra sanzioni penali e amministrative e l’inevitabile approdo al principio ne bis in
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europei (6) e la Corte costituzionale (7) sono stati chiamati a pronunciarsi circa la conformità al divieto di bis in idem della coesistenza, nel nostro sistema, di differenti strumenti sanzionatori tributari e di distinti procedimenti volti alla loro applicazione (8). Lo stesso divieto ha peraltro subìto, nel corso tempo, un’evoluzione piuttosto peculiare: nell’interpretazione che ne è da ultimo invalsa in seno alla Corte di Strasburgo (9) e, immediatamente dopo, alla Corte di
idem, in Fisco, 2014, I- 2374, che evidenzia la tendenza nel nostro ordinamento di un disegno legislativo volto a “parificare a tutti i costi l’illecito amministrativo a quello penale, con l’estensione al primo di tutte (o quasi) le caratteristiche sostanziali del secondo”; tale disegno, ispirato da “ragioni di maggior tutela della personalità del colpevole”, secondo l’A. ha finito – un po’ paradossalmente - con il rendere “il reato (che storicamente costituiva una realtà di assai maggiore gravità anche sociale) una realtà assimilabile invece quasi in tutto e per tutto all’illecito amministrativo”. (6) La Corte di Giustizia europea – quale interprete, ex art. 267 del Trattato FUE, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, ormai assurta al rango giuridico dei Trattati, in forza dell’art. 6, par. 1, del Trattato sull’Unione europea – si è pronunciata in ordine alla coesistenza, nel nostro ordinamento, di sanzioni penali e amministrative parapenali previste per gli omessi versamenti IVA con la decisione Luca Menci, 20 marzo 2018, ECLI:EU:C:2018:197 (per un commento alla quale v. M. Basilavecchia, La Corte di Giustizia sulle sanzioni tributarie italiane, in Corr. Trib., 24, 2018, 1864 ss.). (7) Corte Cost., 12 maggio 2016, n. 102, in Giur. It., 2016, 7, 1711, con nota di F. Polegri, Il principio del ne bis in idem tra sanzioni amministrative e sanzioni penali Il principio del ne bis in idem al vaglio della Corte costituzionale: un’occasione persa, e Id., 2 marzo 2018, n. 43, in Foro It., 2018, 5, 1, 1475. (8) Particolarmente corposa anche la dottrina sul tema. Si vedano, oltre ai contributi che saranno citati nel prosieguo: A. Kostner, Osservazioni in tema di diritti fondamentali della persona in ambito fiscale e riflessi sul giudicato tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 929; A. Giovannini, Il ne bis in idem per la Corte EDU ed il sistema sanzionatorio tributario domestico, in Rass. trib., 2014, 1164 ss.; A. Poddighe, Il divieto di bis in idem tra processo penale e procedimento tributario secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. trib., 2014, IV, 104; S. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, in Dir.prat. trib., 2015, II, 282; N. Menardo, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia tributaria. Analisi de jure condito e riflessioni de jure condendo, in Dir. Prat. Trib., 2018, 1982 ss.; A. Villani, Doppio binario sanzionatorio e principio di ne bis in idem: in attesa della decisione della Grande Sezione, le conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona, in Riv. dir. trib., 2018, IV, 79. (9) La pronuncia decisiva, ai fini dell’affermazione dell’orientamento attualmente prevalso in materia è Corte EDU, 15 novembre 2016, nn. 24130/11 e 29758/11, A&B contro Norvegia, in Dir. Pen. Cont., 18 novembre 2016, con nota di F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio; nello stesso senso anche la successiva Bjarni Armannsson (Corte EDU, 16 aprile 2019, n. 72098/14, in Dir. Pen. Cont., 7 maggio 2019, con nota di A. Galluccio, Non solo proporzione della pena: la Corte EDU ancora sul bis in idem). È opportuno evidenziare, comunque, come il riferimento ad
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Giustizia (10), prontamente recepita dalle più alte giurisdizioni interne (11), esso pare infatti essersi sensibilmente allontanato dal tenore letterale delle disposizioni che lo istituiscono. L’art. 50 della Carta di Nizza, richiamato dalla pronuncia in commento, prevede come noto che “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”; la norma unionale riprende sostanzialmente i termini impiegati dall’art. 4 del Protocollo 7 aggiuntivo alla Convenzione EDU (12). Sulla scorta di tali previsioni, parrebbe doversi escludere la possibilità non solo di un cumulo di sanzioni penali o parapenali in relazione allo stesso illecito – ciò che integra il profilo sostanziale del divieto – ma altresì, e forse in primo luogo, quella di un cumulo di procedimenti volti alla loro irrogazione – preclusione in cui si sostanzia il profilo formale dello stesso divieto. Detto in altri termini: nella sua formulazione letterale, tanto eurounitaria quanto europea, il divieto di bis in idem non solo esclude che, per la medesima
una sufficiente connessione sul piano temporale e sostanziale tra i procedimenti sanzionatori, al fine di escludere la violazione del divieto di bis in idem, fosse già presente in alcune pronunce antecedenti, per quanto, forse, i Giudici di Strasburgo non fossero mai pervenuti ad una elaborazione tanto articolata e puntuale di tale soluzione ermeneutica. Il riferimento va a decisioni quali: Nilsson c. Svezia (13 dicembre 2005, n. 73661/01); Hakka c. Finlandia (20 maggio 2014, n. 758/11); Nykanen c. Finlandia (20 maggio 2014, n. 11828/11); Shibendra Dev c. Svezia (21 ottobre 2014, n. 7362/10); Lucky Dev c. Svezia (27 novembre 2014, n. 7356/10). Sul punto v. G. Calafiore, La sentenza A&B contro Norvegia della Corte di Strasburgo ridimensiona la portata del principio ne bis in idem, in European Papers, aprile 2017. (10) Significativa sul punto è la già richiamata decisione Luca Menci del 2018. (11) Particolarmente interessante è l’affermazione contenuta nella pronuncia n. 43 del 2018 dalla Consulta, precedentemente citata, secondo cui “la nuova regola della sentenza A e B contro Norvegia rende meno probabile l’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto, ma non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali. Resta perciò attuale l’invito al legislatore a ‘stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni’ che il sistema del c.d. doppio binario ‘genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU’” (sul punto v. M. Basilavecchia, op. cit., 1864). (12) Art. 4 Ne bis in idem. 1. Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.
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violazione, possano essere comminate più sanzioni, l’una formalmente e l’altra sostanzialmente penale; ma preclude altresì la possibilità che, per il medesimo illecito, lo stesso soggetto sia sottoposto a due diversi procedimenti, volti ad irrogare l’uno una sanzione penale e l’altro una sanzione parapenale, e ciò a prescindere dal loro esito concreto; dunque, anche nel caso in cui il procedimento definito per primo non abbia condotto all’applicazione di alcuna sanzione. Nell’interpretazione e nell’applicazione concreta da ultimo affermatasi delle norme appena richiamate si è invece pervenuti a conclusioni sensibilmente differenti (13). La duplicazione, in effetti, è oggi ritenuta sostanzialmente possibile, sul piano tanto formale quanto sostanziale, purché nel rispetto di una serie di condizioni puntualmente delineate dalla giurisprudenza europea (14). Tali condizioni si ricollegano alla necessità di una connessione sufficientemente stretta tra i due procedimenti, sul piano tanto temporale quanto materiale, che è assicurato allorché (15): le due procedure sanzionatorie
(13) Tale sostanziale rielaborazione non ha mancato di suscitare reazioni anche molto critiche; ciò è avvenuto, peraltro, all’interno della stessa Corte EDU: particolarmente interessante, in proposito, è la dissenting opinion espressa dal Giudice Pinto de Albuquerqe nell’ambito della decisione A&B contro Norvegia già richiamata, secondo cui, tale pronuncia avrebbe degradato “il diritto individuale e inalienabile al ne bis in idem” ad un “diritto fluido, angusto, in una parola illusorio”: sul punto v., diffusamente, F. Viganò, La Grande Camera, op. cit.. (14) Nell’ambito, in particolare, della già richiamata decisione A&B contro Norvegia, cui ha fatto seguito, oltre alla già citata Bjarni Armannsson, altresì Corte EDU, 18 maggio 2017, n. 22007, Jóhannesson ed altri c. Islanda, in Dir. Pen. Cont., 22 maggio 2017, con nota di F. Viganò, Una nuova sentenza di Strasburgo su ne bis in idem e reati tributari. (15) Si tratta delle condizioni indicate al par. 132 della stessa decisione A&B contro Norvegia. Nella versione ufficiale in lingua francese: « 132. Les éléments pertinents pour statuer sur l’existence d’un lien suffisamment étroit du point de vue matériel sont notamment les suivants : – le point de savoir si les différentes procédures visent des buts complémentaires et concernent ainsi, non seulement in abstracto mais aussi in concreto, des aspects différents de l’acte préjudiciable à la société en cause ; – le point de savoir si la mixité des procédures en question est une conséquence prévisible, aussi bien en droit qu’en pratique, du même comportement réprimé (idem) ; – le point de savoir si les procédures en question ont été conduites d’une manière qui évite autant que possible toute répétition dans le recueil et dans l’appréciation des éléments de preuve, notamment grâce à une interaction adéquate entre les diverses autorités compétentes, faisant apparaître que l’établissement des faits effectué dans l’une des procédures a été repris dans l’autre ; – et, surtout, le point de savoir si la sanction imposée à l’issue de la procédure arrivée à son terme en premier a été prise en compte dans la procédure qui a pris fin en dernier, de manière à ne pas faire porter pour finir à l’intéressé un fardeau excessif, ce dernier risque étant moins susceptible de se présenter s’il existe un mécanisme compensatoire conçu pour assurer que le montant global de toutes les peines prononcées est proportionné ».
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perseguano obiettivi complementari, e concernano quindi non solo in astratto, ma altresì in concreto, differenti profili della condotta illecita; la duplicazione di procedimenti sia prevedibile, in considerazione tanto delle disposizioni di legge rilevanti, quanto della prassi applicativa; gli stessi procedimenti siano fra loro coordinati, in maniera tale da evitare, nella misura del possibile, ogni ripetizione nella raccolta e nella valutazione degli elementi di prova, attraverso un’adeguata interazione tra le differenti autorità competenti, che garantisca che l’accertamento fattuale stabilito in una sede valga anche nell’altra (16); l’eventuale cumulo sanzionatorio sia comunque rispettoso del principio di proporzionalità, anche grazie a meccanismi compensatori che consentano di tenere conto del carico sanzionatorio complessivamente applicato. Sia detto qui per inciso, nel considerare unitariamente l’insieme di tali condizioni, si percepisce una latente contraddizione, potenzialmente insita nel richiedere, da un lato, che i procedimenti sanzionatori siano volti a perseguire finalità differenti e complementari, afferendo a profili diversi della condotta illecita, e dall’altro, al contempo, che l’accertamento fattuale compiuto in un ambito abbia valore anche nell’altro. Nella prospettiva dei Giudici di Strasburgo, in altre parole, non viola il divieto di bis in idem il legislatore nazionale che adotti un approccio integrato nei confronti di un determinato illecito, reprimendolo nel contesto di procedimenti paralleli e nel perseguimento di finalità distinte (17);
(16) Con riferimento a tale profilo, che assume precipuo rilievo ai fini del presente contributo, particolarmente interessante appare anche la successiva decisione della Corte EDU Bjarni Armannsson, già citata in precedenza. In tale pronuncia i Giudici di Strasburgo hanno negato che sussistesse una sufficiente connessione spaziale tra due procedimenti, l’uno penale e l’altro volto all’applicazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale, in ragione del fatto che la condotta del presunto trasgressore, e la sua responsabilità alla luce delle differenti disposizioni penali e amministrative, erano state esaminate da autorità amministrative e giurisdizionali “largamente indipendenti le une dalle altre” in particolare sul piano della raccolta e della valutazione della prova (nelle parole della Corte: “55. The applicant’s conduct and his liability under the different provisions of tax and criminal law were thus examined by different authorities and courts in proceedings that were largely independent of each other. (…) 57. Having regard to the above circumstances, in particular the lack of overlap in time and the largely independent collection and assessment of evidence, the Court cannot find that there was a sufficiently close connection in substance and in time between the tax proceedings and the criminal proceedings in the case for them to be compatible with the bis criterion in Article 4 of Protocol No. 7”). (17) In questi termini la sentenza A&B contro Norvegia, a più riprese citata, in particolare al suo paragrafo 123: « L’article 4 du Protocole no 7 a pour objet d’empêcher l’injustice que représenterait pour une personne le fait d’être poursuivie ou punie deux fois pour le même comportement délictueux. Il ne bannit toutefois pas les systèmes juridiques qui traitent de manière “ intégrée ” le méfait néfaste pour la société en question, notamment en réprimant celui-ci dans
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ma è inevitabile chiedersi se tale distinzione – cui la legittimità di tale approccio è subordinata dalla stessa Corte – possa essere realmente salvaguardata, in uno scenario in cui una delle autorità coinvolte debba necessariamente adeguarsi alle conclusioni cui perviene l’altra. Si ritornerà sul punto. 2. Il divieto di bis in idem e l’oggetto della sentenza in commento. – Si ritiene sia proprio in ragione di quella (ri)lettura del principio di ne bis idem, di cui si è appena dato conto, che, nell’ambito della decisione in commento, la relativa tematica resta per così dire sullo sfondo, non a caso sotto forma, piuttosto che di indicazione normativa, di acquis giurisprudenziale, orientato, come si è appena precisato, a legittimare la duplicazione dei procedimenti sanzionatori, in presenza di un loro sufficiente coordinamento. Esaminato in tale prospettiva il sistema italiano suscita alcune riflessioni da parte della Cassazione, sulle quali si ritornerà nel prosieguo. Il tema sul quale, in via principale, si concentra l’attenzione dei Giudici di legittimità, in considerazione della questione concretamente dedotta in giudizio dalla parte ricorrente, è piuttosto differente e – per mutuare le parole della stessa Cassazione – “si colloca, in realtà, verso i confini” della problematica afferente ai rapporti tra sanzione penale e tributaria e all’applicazione, nel quadro di tale rapporto, del principio di ne bis in idem. Tale questione attiene, invece, alla potenziale aporia che scaturisce dalla coesistenza possibile – perché pacificamente ammessa dall’ordinamento interno – di due differenti esiti dei singoli procedimenti; in particolare, dalla possibile coesistenza fra l’assoluzione ottenuta in sede penale “perché il fatto non sussiste”, da un lato, e, dall’altro, la conferma, nel processo tributario, della sanzione tributaria amministrativa irrogata dall’amministrazione finanziaria. Il legame tra tale potenziale aporia e il divieto di bis in idem, occorre dire, è istituito nel caso di specie da parte ricorrente, attraverso il richiamo di una recente decisione della Corte di Giustizia europea (18), resa con riguardo ad alcune sanzioni previste dall’ordinamento italiano ed irrogate dalla CONSOB per abuso di informazioni privilegiate (19). Per le ragioni che subito si diranno,
le cadre de phases parallèles menées par des autorités différentes à des fins différentes ». (18) CGUE, 20 marzo 2018, Di Puma contro CONSOB, ECLI:EU:C:2018:192, in www. dirittobancario.it. (19) È noto che l’apparato sanzionatorio previsto per reprimere gli abusi di mercato è l’altro ambito dell’ordinamento italiano, oltre a quello tributario che qui interessa, nel quale il divieto di bis in idem applicato alle sanzioni sostanzialmente penali assume rilievo.
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il richiamo di tale decisione, al fine di istituire siffatto legame, non appare del tutto appropriato e si rivela, in effetti, inefficace; ciò in quanto si risolve nell’utilizzo, quale supporto per la ricostruzione difensiva, di alcune affermazioni parzialmente decontestualizzate rispetto all’ambito nel quale sono state rese. Con la pronuncia Di Puma richiamata da parte ricorrente, in effetti, i Giudici del Lussemburgo hanno focalizzato la propria attenzione soprattutto sull’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6/CE (20): tale disposizione fa salvo il potere degli Stati di sanzionare penalmente gli abusi di mercato, ed al contempo impone loro di adottare misure amministrative “efficaci, proporzionate e dissuasive”, anche di carattere sanzionatorio, a carico dei responsabili delle violazioni delle norme nazionali adottate in attuazione della stessa Direttiva (21). Secondo quanto chiarito dalla Corte di Giustizia, la disposizione di diritto unionale derivato, letta alla luce dell’articolo 50 della Carta di Nizza, ossia del divieto di bis in idem sostanziale e procedimentale, va interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale in forza della quale “un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non può essere proseguito a seguito di una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha statuito che i fatti che possono costituire una violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, sulla base dei quali era stato parimenti avviato tale procedimento, non erano provati”. Con la sentenza Di Puma, in buona sostanza, la Corte ha quindi ammesso – e non ha, invece, imposto – che lo Stato membro preveda il venir meno del procedimento volto all’irrogazione della sanzione amministrativa parapenale, istituita in attuazione del suddetto articolo 14 della direttiva del 2003, in presenza di un giudicato penale di assoluzione, intervenuto sui medesimi fatti oggetto della sanzione amministrativa e fondato sulla loro mancata prova. Ora, che una simile conclusione possa essere ritenuta una sorta di corollario del divieto di bis in idem, nonostante il richiamo di quest’ultimo da parte dei Giudici europei, si ritiene sia opinabile. Il relativo principio, in effetti, è
(20) Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato). (21) Letteralmente prevede il paragrafo 1 dell’art. 14: “1. Fatto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano”, appunto, efficaci, proporzionate e dissuasive.
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volto ad evitare, sul piano formale, un cumulo di procedimenti, e, su quello sostanziale, un cumulo di sanzioni. La conclusione cui perviene la sentenza Di Puma muove dall’oggettivo presupposto della pacifica coesistenza di due procedimenti, e non è funzionale ad evitare una duplicazione di sanzioni, ma, ben oltre, legittima la disapplicazione di entrambe. Detto in altri termini: con tale decisione i Giudici del Lussemburgo non hanno affermato la necessità di interrompere il procedimento di irrogazione della sanzione parapenale, in considerazione della conclusione di quello volto all’applicazione della sanzione propriamente penale sorto per i medesimi fatti, al fine di evitare una duplicazione di procedimenti; essi, data per presupposta tale duplicazione, hanno invece legittimato la norma interna – nella specie, l’art. 654 c.p.p. – che impone al giudice civile o amministrativo di adeguarsi, al ricorrere di determinate condizioni, al giudicato penale avente ad oggetto i medesimi fatti. L’impossibilità di ricondurre tale conclusione, raggiunta in quel contesto, al principio di ne bis idem meglio si coglie laddove si consideri che, nel caso a quo, l’interruzione del procedimento di irrogazione sanzionatoria si era verificato a fronte di una sentenza di assoluzione; ma la medesima norma, prevista dall’ordinamento interno, avrebbe ugualmente imposto al giudice extrapenale di adeguarsi alla pronuncia penale divenuta definitiva, laddove si fosse trattato di una sentenza di condanna (22). In una simile eventualità, come appare evidente, in nessun modo si sarebbe potuto ricondurre tale adeguamento ad un corollario del divieto di bis in idem. Si ritornerà sul punto. Dalla conclusione affermata dalla decisione Di Puma, e dalla sua parziale sovrapposizione al divieto di bis in idem, tanto suggestiva quanto concettualmente imprecisa, la difesa del contribuente, nel caso deciso dalla pronuncia che occupa, ha preso le mosse per sostenere la necessità, in forza dell’art. 50 della Carta di Nizza, del venir meno del procedimento amministrativo di irrogazione della sanzione tributaria, a fronte della sentenza irrevocabile di assoluzione ottenuta per i medesimi fatti dal contribuente sottoposto – anche – a procedimento penale. In tal modo si è tentato dunque di trasformare ciò che la Corte, in quello specifico caso, si è limitata a ritenere ammissibile – ossia il venir meno del procedimento di irrogazione della sanzione amministrativa per abuso di mercato,
(22) Nell’ordinamento italiano, come noto, il divieto di bis in idem è statuito dall’art. 649 c.p.p. unicamente con riferimento ai procedimenti penali strettamente intesi, ossia volti all’irrogazione di sanzioni previste dal codice penale e dalla legislazione formalmente penale.
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in considerazione della sentenza irrevocabile di assoluzione intervenuta per i medesimi fatti, nonostante l’obbligo, in capo allo Stato membro, di garantire che la stessa sanzione amministrativa sia efficace, proporzionata e dissuasiva – in un autentico obbligo imposto al legislatore nazionale; e ciò attraverso il richiamo di un principio europeo – il divieto di bis in idem, appunto – con riguardo al quale, quanto meno in considerazione dell’interpretazione che ormai ne è stata accreditata da parte della giurisprudenza europea e nazionale, si pone più di un dubbio quanto alla effettiva applicabilità a casi come quelli decisi dalla sentenza in rassegna. Come si è detto, sulla base di tale innovativa interpretazione, il vincolo imposto al legislatore nazionale, allorché metta mano al sistema punitivo, si sostanzia nella necessità di un’adeguata connessione, dal punto di vista tanto temporale quanto sostanziale, tra i procedimenti volti ad irrogare, a fronte della medesima condotta, sanzioni diverse, ma connotate dalla medesima natura sostanzialmente penalistica. Per quanto qui maggiormente rileva, tale connessione, volta a garantire la complessiva coerenza del sistema, si sostanzia in primis nella necessaria complementarietà degli scopi perseguiti dai procedimenti sanzionatori, ossia, inevitabilmente, nella loro differenza (23), che si manifesta proprio nell’attenzione prestata a profili diversi della condotta illecita. La stessa connessione si sostanzia altresì nella garanzia di un coordinamento dei procedimenti sul piano probatorio. Tale coordinamento è declinato dai Giudici di Strasburgo innanzitutto in termini di esclusione di duplicazioni nella raccolta degli elementi di prova; ciò che appare del tutto comprensibile, nell’ottica di evitare un ingiustificato aggravio in capo al trasgressore o presunto tale. Ma lo stesso coordinamento, nella prospettiva della Corte EDU, dovrebbe altresì sostanziarsi nell’eliminazione di duplicazioni nella valutazione del materiale probatorio raccolto – ciò che implica, necessariamente, l’adozione di medesimi criteri valutativi da parte delle autorità procedenti (24). (Quasi)
(23) Per definizione non può essere uguale ciò che è complementare. In matematica, “dato un insieme e un suo sottoinsieme, si dice complementare l’insieme formato dagli elementi dell’insieme di partenza che non appartengono al sottoinsieme; per esempio, nell’insieme degli interi naturali, il complementare del sottoinsieme dei numeri pari è l’insieme dei numeri dispari” (cfr. Vocabolario online Treccani). (24) Sul punto v. A. Calzolari, La lunga marcia per il riconoscimento del ne bis in idem nell’ordinamento tributario italiano, in Riv. Dir. Trib. Online 16 settembre 2020, che annovera,
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conseguentemente, una simile eliminazione di duplicazioni, nel valutare gli elementi istruttori, conduce ad escludere che, nell’accertamento dei fatti che su tale valutazione si fonda, si pervenga a conclusioni differenti. Un simile approdo appare meno scontato, e necessita, comunque, di qualche precisazione. Non si può prescindere, in effetti, dall’affrontare e tentare di risolvere la potenziale contraddizione, della quale si è già brevemente dato conto, determinata dalla compresenza di due esigenze differenti e tra loro non agevolmente conciliabili: da un lato, la necessità che i procedimenti sanzionatori, perseguendo scopi complementari e dunque differenti, abbiano ad oggetto profili diversi della medesima condotta illecita; dall’altro, quella di evitare aggravi per il trasgressore, non solo evitando duplicazioni nella raccolta degli elementi di prova, ma imponendo altresì che essi siano valutati in maniera uniforme e conducano a conclusioni omogenee. In effetti, il perseguimento della prima di tali esigenze sembra essere messo in discussione dall’affermazione della seconda, e, in particolare, dall’omogeneità di valutazione e conclusioni richiesta (25). Dei dubbi sorgono, inevitabilmente. Sembra infatti insito nella stessa complementarietà – e dunque diversità – degli obiettivi perseguiti, non solo che i fatti rilevanti ai fini dei due procedimenti possano essere diversi (26); e si tratterebbe di un ostacolo
tra le circostanze che consentono di sostenere la sufficiente connessione, sul piano temporale e sostanziale, tra i due procedimenti volti all’applicazione della sanzione penale e di quella parapenale, il fatto che “le autorità procedenti devono interagire e coordinarsi in modo da evitare la duplicazione della ricerca delle prove e la valutazione delle stesse secondo canoni differenti”. (25) Significativo, in tal senso, è che chi sostiene che sia da escludersi una reale differenza tra i valori tutelati dalle norme sanzionatorie amministrative e quelli garantiti dalle disposizioni penali (S. Sammartino, Il divieto, cit., 636), ritiene al contempo che “La regola del doppio binario favorisce la possibilità di una doppia verità processuale relativa agli stessi fatti che lascia estremamente perplessi” (S. Sammartino, ibid., 638); mentre chi invece ritiene condivisibile la logica del doppio binario, anche con riferimento alla possibile divergenza di esiti dei due procedimenti interessati, che lo stesso può comportare, osserva come lo stesso doppio binario sia da ritenere, piuttosto che un vero e proprio principio, “una necessitata conseguenza della diversità dei valori che rimangono sottesi alle ordinarie discipline tributarie ed alle norme penali” (così S. La Rosa, Orientamenti e disorientamenti in tema di rapporti tra norme penali e tributarie, in Riv. Dir. Trib., I, 2016, 429, e, in particolare, 431) (26) In ordine a tale aspetto v. S. La Rosa, op. cit., 444, il quale retoricamente si chiede se realmente i giudici penali e quelli tributari siano chiamati a pronunciarsi sugli stessi fatti secondo regole diverse, o se, piuttosto, ad essere diversi siano i fatti giuridicamente rilevanti nelle due sedi, e la differenza delle regole che debbono essere applicate non sia che una mera conseguenza di tale diversità, che a monte afferisce, appunto, all’oggetto di quella applicazione.
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verosimilmente superabile, perché, a ben vedere, in un simile contesto sarebbe a priori escluso che siano i medesimi profili fattuali a venire in considerazione ai fini di quella valutazione, con conseguente esclusione della necessità di una loro valutazione omogenea (27). Ma in quella stessa complementarietà di scopi sembra insita altresì la possibilità che il medesimo fatto riceva una diversa valutazione nei due ambiti, assumendo rilievo ai fini dell’irrogazione sanzionatoria in una sede e non nell’altra (28); in tal caso non può evidentemente essere garantita quella omogeneità di valutazioni alla quale pure tanto la decisione A&B, quanto le successive pronunce della Corte di Strasburgo sul punto, condizionano il riconoscimento di un sufficiente grado di connessione sostanziale e temporale tra i procedimenti paralleli. Al contrario, è proprio la possibilità che questi ultimi pervengano a conclusioni differenti che finisce, quasi paradossalmente, per garantire che essi realmente perseguano scopi complementari (29).
Sul punto v. anche T. Rafaraci, Accertamento tributario e accertamento penale. Spunti minimi su una relazione proteiforme, in M. Garavoglia (a cura di), Scritti in onore di Ivo Caraccioli, Milano, 2020, 621, il quale evidenzia come non sempre i fatti rilevanti sul piano tributario lo siano anche sul piano penale, come dimostrano le definizioni – “autonome”, rispetto a quelle tributarie – contenute all’art. 1, d.lgs. n. 74/00. (27) Sul punto E. Marello, Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. Dir. Trib., I, 2013, 269 ss., il quale osserva come l’autonomia dei procedimenti sia coerente allorché i fatti oggetto di prova nei due ambiti sono differenti; tale coerenza viene meno allorché, in ragione di quell’ “avvicinamento delle condotte” che sta progressivamente caratterizzando l’ordinamento tributario e penaltributario, i fatti oggetto dell’accertamento tributario e di quello penale tendono ad essere gli stessi. (28) Cfr. T .Rafaraci, op. cit., ibidem, secondo il quale ciò che “fonda e autorizza” il doppio binario è “la consapevolezza della diversità delle regole stabilite per l’accertamento, rispettivamente, dell’illecito tributario e di quello penale”, cosicché, “anche quando l’illecito tributario e quello penale si fondano sugli stessi fatti storici rilevanti” comunque “diverse sono le regole che presiedono all’accertamento, rispettivamente, dell’uno e dell’altro”. Sul punto v. anche Tesauro, Manuale, cit., 176: “I due processi sono retti da regole probatorie diverse. (…). I due processi possono dunque pervenire a conclusioni difformi”. (29) Sul punto v. ancora le riflessioni di S. La Rosa, op. cit., 429, già richiamate alla nota 25. Cfr. altresì E. Marello, op. cit., 5.2, il quale evidenzia come la coesistenza di due sistemi repressivi non possa che poggiare “sulla capacità della fattispecie penale di differenziarsi, demarcando situazioni che si dimostrano diverse dall’illecito tributario comune”; proprio sull’incapacità che denota in tal senso l’attuale ordinamento penaltributario l’A. fonda le proprie considerazioni circa la necessità di un complessivo ripensamento delle norme che disciplinano, al suo interno, tale coesistenza. In ordine a tale aspetto v. anche S. Sammartino, Il divieto, cit., 636, il quale conclude affermando che “L’unico comune valore tutelato dalle norme che prevedono sanzioni amministrative e penali è l’interesse dell’ente pubblico alla
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3. La decisione della Cassazione: esclusi l’estensione della giurisprudenza De Puma e il richiamo alla regola del ne bis in idem. – Nel caso deciso dalla pronuncia in commento il contribuente ricorrente ha quindi chiesto l’annullamento delle sanzioni amministrative, sulla scorta del divieto di bis in idem, nell’accezione che asseritamente ne emergerebbe dalla sentenza Di Puma. Nel pronunciarsi in ordine a tale domanda, la Suprema Corte ha inquadrato la questione, in primo luogo, escludendo che le conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia in tale sede possano assumere rilievo in ambito tributario. A tale esclusione i Giudici di legittimità sono pervenuti, in particolare, sul presupposto della inapplicabilità alla materia dell’art. 654 c.p.p., pacifica secondo un orientamento, soprattutto giurisprudenziale, senz’altro consolidato (30). Tale inapplicabilità dipende, in particolare, dalla sussistenza di “limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa” previste dalla normativa tributaria (31), in presenza delle quali, secondo quanto previsto dallo stesso art. 654, l’efficacia di giudicato della sentenza penale irrevocabile, nell’ambito del giudizio extrapenale, viene meno (32).
percezione dei tributi”; sulla “moltiplicazione delle reazioni punitive dell’ordinamento nei confronti di un medesimo fenomeno sociale” v. anche G. Ragucci, Note sul ruolo dei modelli di organizzazione e controllo nell’ambito della teoria della colpa nell’illecito amministrativo tributario, in M. Garavoglia (a cura di), Scritti in onore di Ivo Caraccioli, Milano, 2020, 474. (30) V., fra le altre, Cass. civ., sez. trib., 10 settembre 2014, n. 19026, Id., 2 marzo 2012, n. 3268, Id., 5 novembre 2007, n. 5720. Resta naturalmente ferma la possibilità, per il giudice tributario, di avvalersi della sentenza penale – rectius: dell’accertamento dei fatti al suo interno contenuto: v. F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, V ed., 2020, 176 – quale mezzo di prova liberamente valutabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., purché il giudice speciale provveda ad una propria autonoma valutazione del materiale probatorio (v., da ultimo, Cass. civ., sez. trib., 5 luglio 2018, n. 17619), “secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel processo tributario” (cfr. Cass. civ., sez. trib., 12 marzo 2007, n. 5717). (31) Come evidenziato anche da F. Tesauro, Manuale, cit., 176, le limitazioni che si oppongono all’assunzione del valore di prova legale, nell’ambito del processo tributario, degli accertamenti di fatto compiuti nel dibattimento penale, si sostanziano non solo nel divieto di prova testimoniale previsto dall’art. 7, d.lgs. n. 546/92, ma altresì nel ricorso a presunzioni semplici e semplicissime ammesse di fronte alle commissioni, ma inapplicabili avanti al giudice ordinario, oltreché nella preclusione al deposito di alcuni documenti nel giudizio tributario – segnatamente: quelli colpevolmente non prodotti in sede amministrativa – ovviamente superabile in ambito penale. (32) Alcune considerazioni potrebbero formularsi in ordine alla possibilità che tale inefficacia sia circoscritta ai soli casi in cui, in concreto, l’accertamento penale definitivo dei fatti rilevanti anche in sede tributaria sia fondato su una prova non ammessa in tale ambito; e quindi, a contrario, sulla possibilità – o sulla necessità – che tale efficacia sia invece
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Dall’impossibilità di evocare, in ambito tributario, il disposto della norma del codice di procedura penale, la Suprema Corte deriva in maniera diretta la propria decisione, in base alla quale la sopravvenuta assoluzione intervenuta in sede penale “perché il fatto non sussiste”, ancorché divenuta definitiva, non determina né può determinare, ex se, alcuna preclusione al proseguimento del giudizio tributario di accertamento dell’illecito, finalizzato – anche – all’irrogazione delle sanzioni amministrative (33). Una simile preclusione, pertanto, nella prospettiva adottata dalla Cassazione nell’ambito della pronuncia in rassegna, non discende dal divieto di bis in idem sancito in sede convenzionale ed europea, quanto meno nell’accezione che del relativo principio è stata da ultimo accolta dalla giurisprudenza sovranazionale; in caso contrario, in effetti, non vi sarebbe a ben vedere né ragione, né modo, di evitarne in radice l’applicazione in materia tributaria (34).
riconosciuta qualora il giudice penale non abbia reso la propria decisione in considerazione di elementi probatori che non avrebbero potuto essere utilizzati avanti la commissione tributaria (per alcune considerazioni sul tema v. G. Gaffuri, Manuale di diritto tributario, Padova, 2019, 289; N. Mazza, Ancora una pronuncia che neutralizza l’operatività dell’art. 654 del codice di procedura penale, in Riv. Giur. Trib., 2003, 858; A. Vignoli, Efficacia del giudicato penale nel processo tributario: art. 654 del codice di procedura penale e condizioni per la sia applicazione, in Rass. Trib., 1999, 266 s., e, se si vuole, S. Gianoncelli, Procedimento tributario e procedimento penale: oltre il doppio binario, le convergenze parallele, in Riv. dir. fin., 2019, 199 s.). Nella sentenza che si annota, tuttavia, la Cassazione, in conformità al citato ed univoco orientamento giurisprudenziale, ha in concreto negato ogni spazio di applicazione alla disposizione processualpenalistica. (33) Proprio in relazione all’oggetto dell’accertamento rilevante in ambito tributario, una precisazione si rende forse opportuna. Il riconoscimento dell’applicabilità dell’art. 654 c.p.p. anche nei rapporti tra giudice penale e giudice speciale determinerebbe quale conseguenza la sussistenza, al ricorrere dei presupposti individuati dalla disposizione processualpenalistica, di un vincolo in capo alle commissioni non solo nel giudizio concernente l’applicazione delle sanzioni amministrative, ma, più in generale, la stessa esistenza dell’obbligazione tributaria, qualora questa dipendesse dagli stessi fatti oggetto di accertamento in sede penale. Il divieto di bis in idem, invece, anche nella non condivisibile accezione che intende sostenerne il ricorrente nel caso deciso dalla sentenza in commento, esaurisce comunque la propria efficacia nel quadro dei rapporti tra le sanzioni. Sul punto v. S. Sammartino, op. cit., 631, il quale opera tale distinguo tra procedimento di accertamento volto alla determinazione dell’imposta e procedimento di irrogazione sanzioni al fine di delimitare l’ambito di applicazione del divieto di sospensione di cui all’art. 20, d.lgs. n. 74/00. (34) Non è questa la sede per soffermarsi sulle condizioni e sui limiti dell’applicabilità della Carta di Nizza a quegli ambiti – tra i quali, in misura non irrilevante, rientra quello tributario – nei quali gli Stati membri abbiano conservato le proprie competenze. Per quel che qui rileva, comunque, è evidente che, quanto meno con riguardo ai settori della fiscalità in cui
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4. (segue): l’art. 21, d.lgs. n. 74/00, e le conseguenze, esplicite ed implicite, del suo disposto. – Una volta sostanzialmente espunto dall’ambito di indagine il riferimento al principio di ne bis in idem, nella sentenza in rassegna i Giudici di legittimità rivolgono l’attenzione al sistema nazionale; al suo interno, essi rinvengono una “autonoma e positiva” soluzione alla questione posta dalle argomentazioni della parte ricorrente, concernente la possibilità che il procedimento volto all’irrogazione della sanzione penale e quello diretto all’applicazione della sanzione amministrativa pervengano ad esiti difformi ed opposti. Tale soluzione si rinviene nel disposto dell’art. 21, d.lgs. n. 74/00, in forza del quale, come noto, l’ufficio competente per l’accertamento tributario e l’applicazione delle sanzioni amministrative procede comunque alla loro irrogazione in relazione alle violazioni che hanno formato oggetto - anche – di denuncia penale. Le stesse sanzioni, tuttavia, non sono eseguibili nei confronti delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale, salvo che quest’ultimo non sia definito “con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto”. Nella lettura che di tale disposizione fanno propria i Giudici di legittimità, essa “ha natura strumentale e delinea lo stesso contenuto del principio di specialità introdotto con l’art. 19” (35), nella misura in cui assicura l’irrogazione della sanzione tributaria anche per fatti che potenzialmente assumano rilevanza penale e siano oggetto di segnalazione all’autorità giudiziaria. In forza di tale previsione, come precisa la Corte, si evince che il principio di specialità sancito in ambito tributario sia da riferirsi al solo
l’Unione europea è intervenuta ad armonizzare gli ordinamenti nazionali, l’applicazione delle disposizioni della stessa Carta non può essere in alcun modo negata. Le disposizioni della Convenzione europea, invece, assumono come noto natura di norme interposte, la cui violazione da parte del legislatore interno determina quella dell’art. 117 della Costituzione (v. Corte cost., 7 marzo 2011, n. 80, in Giur. It., 2012, 4, 777, con nota di T. Cerruti); l’applicabilità di tali disposizioni al settore tributario, allorché si controverta in materia di sanzioni, ossia del profilo che qui rileva, è da tempo riconosciuta: v. Corte EDU, Janosevic c. Svezia e Vastberga Taxi Aktiebolag c. Svezia, 23 luglio 2002, in www. hudoc.echr.coe.int. (35) Osserva A. Vallini, Sanzioni amministrative per violazioni penalmente rilevanti, in A. Giovannini, (dir.), Trattato di diritto tributario sanzionatorio, Milano, 2016, 304, che la disposizione è volta a conciliare “le logiche della specialità con quelle dell’autonomia reciproca dei procedimenti penale e tributario”, nonché “con le ragioni dell’efficienza ed effettività della reazione punitiva tributaria”.
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profilo materiale, e non a quello procedimentale – inteso nella sua accezione più tradizionale e rigorosa; anzi, in ambito interno, dal punto di vista procedimentale è specificamente prevista – ed anzi è imposta – la coesistenza dei piani amministrativo e penale. Contestualmente, peraltro, i Giudici di legittimità escludono che tale coesistenza, nell’ambito del nostro ordinamento, possa violare il divieto di bis in idem sul piano formale, se si ha riguardo all’accezione che il relativo principio ha assunto nella più recente giurisprudenza europea. A tale conclusione essi pervengono in considerazione dell’art. 20, d.lgs. n. 74/00: in forza di tale disposizione, infatti, l’attività amministrativa si svolge obbligatoriamente “in simultanea con l’accertamento in sede penale”, dal momento che, nell’escludere qualsiasi sospensione dell’uno o dell’altro procedimento, essa dà per presupposto che essi si svolgano contestualmente. In tale prospettiva, l’ordinamento interno non viola, nella valutazione della Suprema Corte, il principio di ne bis idem in senso formale, nella sua più recente ed articolata interpretazione giurisprudenziale (36), dal momento che, attraverso il combinato disposto degli artt. 19, 20 e 21, d.lgs. n. 74/00, viene codificata “la necessità che i procedimenti sorgano, e proseguano, in parallelo quali ambiti autonomi, benché coordinati” e ciò al fine di garantire “una risposta punitiva articolata e concretamente dissuasiva”. Quanto al rispetto del divieto di bis in idem sul piano sostanziale, poi, il sistema esclude, nella prospettiva fatta propria dai Giudici di legittimità, che si verifichino indebite duplicazioni (37); ciò, in primis, escludendo che
(36) In senso contrario v. S. Dorigo, Il doppio binario nella prospettiva penale: crisi del sistema e spunti per una riforma, in Rass. Trib., 2017, 436 ss., il quale evidenzia come, alla luce della giurisprudenza A&B contro Norvegia, è unicamente in presenza di un effettivo coordinamento tra le autorità preposte ai differenti procedimenti sanzionatori – idoneo a superare “la logica del doppio binario” – che risulta garantito il rispetto del principio di ne bis in idem. Di “Contrasto del ne bis in idem – nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza delle Corti europee – con il principio di specialità e col sistema del doppio binario tributario italiano” parla anche N. Cianferotti, Il principio del ne bis in idem tra giurisprudenza nazionale ed europea ed il doppio binario tributario italiano, in Dir. Prat. Trib., 2019, 92 ss. (37) Nella prospettiva fatta propria dai Giudici di legittimità il divieto di bis in idem sostanziale si sovrappone in buona misura al principio di specialità. Sulla correlazione tra il principio di matrice europea ed il criterio di specialità istituito dall’art. 19, d.lgs. n. 74/00, v. A. Vallini, op. cit., 304. Quanto alle differenze tra i due v. A. Giovannini, L. Murciano, Il principio del “ne bis in idem” sostanziale impedisce la doppia sanzione per la medesima condotta, in Corr. Trib., 20, 2014, 1548 ss., ove anche alcuni richiami alle ipotesi di deroga espressa al principio di ne bis in idem sostanziale, nonché alla regola della specialità, quali le
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la sanzione amministrativa possa essere eseguita in pendenza di giudizio penale, e, inoltre, prevedendo che solo la definizione di quest’ultimo determini l’attivazione della loro esecuzione, “ma in termini selettivi”. In virtù di tale selettività, le sanzioni amministrative divengono definitivamente ineseguibili, in caso di condanna: ed è quanto rileva, nel ragionamento dei Giudici di legittimità, ai fini del rispetto del principio di ne bis in idem sul piano sostanziale. Le previsioni successive, relative all’ipotesi in cui la sentenza penale sia “favorevole al contribuente”, attengono con tutta evidenza ad un’ipotesi cui il divieto di bis in idem, nella sua accezione sostanziale, non ha vocazione ad applicarsi, non essendovi una sanzione potenzialmente duplicabile. È precisamente in tale contesto – quello in cui, nella prospettiva fatta propria dalla Cassazione, è irrilevante il richiamo del relativo principio – che parte ricorrente vorrebbe invocarne l’applicazione, al fine di fondarvi la necessaria disapplicazione della sanzione – anche – amministrativa. Nel disattendere la tesi del contribuente, i Giudici di legittimità colgono l’occasione per una precisazione in ordine al significato da attribuire alla previsione di cui all’art. 21; in particolare, l’attenzione della Corte si focalizza sulla previsione dedicata alle ipotesi, ritenute appunto irrilevanti ai fini dell’applicazione del principio di ne bis in idem sostanziale, in cui non sia stata in concreto irrogata alcuna sanzione penale.
previsioni contenute all’art. 13, d.lgs. n. 74/00, nonché le norme che subordinano l’accesso al patteggiamento all’estinzione del debito tributario, comprensivo delle sanzioni amministrative (sul punto v. altresì M.C. Pierro, L’uso premiale delle sanzioni tributarie e la crisi del principio di specialità, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 679 e ss. e, diffusamente, P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., I, 2016, 31 ss., nonché L. Schiavolin, Alcune considerazioni sul contrasto tra CEDU e disciplina italiana dei rapporti tra procedure sanzionatorie amministrative e penali, in Riv. dir. trib., 2017, I, 387 ss.). In senso critico sul principio di specialità introdotto dal suddetto art. 19, inidoneo – specie in combinato disposto con il successivo art. 21 di cui si discorre – a garantire la piena neutralizzazione di duplicazioni sanzionatorie, in particolare in considerazione della disciplina dedicata sul punto al responsabile per la sanzione, di cui all’art. 19, d.lgs. n. 472/97, v. I. Caraccioli, Reati tributari e responsabilità degli enti, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2007, 1, 155. L’A. parla, in proposito, di autentica “mutilazione della regola della specialità”, la cui introduzione – invece – completa, era stata richiesta dal legislatore delegante, con conseguente dubbio di eccesso di delega ai sensi dell’art. 76 Cost. Nel medesimo senso v. anche G. Falsitta, L’aberrante cumulo materiale fra sanzioni penali e sanzioni amministrative tributarie nel Decreto delegato n. 74/2000, in Riv. dir. trib., 2001, 215 ss.
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5. La norma implicita contenuta all’art. 21, d.lgs. n. 74/00. – In altra sede si aveva avuto modo di osservare come, in considerazione della lettera dello stesso art. 21, possa forse sostenersi che, implicitamente, tale disposizione escluda l’esecuzione delle sanzioni amministrative in tutte le ipotesi in cui la sentenza di assoluzione dipenda non dall’irrilevanza penale del fatto, ma dalla sua insussistenza (38). In tale prospettiva, la previsione di cui al d.lgs. n. 74/00 perverrebbe ad istituire una sorta di obbligo, in capo all’amministrazione finanziaria, di adeguarsi al giudicato penale avente ad oggetto i medesimi fatti su cui verte il procedimento amministrativo; obbligo che sarebbe espressione di un più generale principio, che impone alla pubblica amministrazione l’osservanza delle sentenze irrevocabili. La sussistenza di un siffatto obbligo potrebbe essere sostenuta, peraltro, anche in considerazione di altre disposizioni dell’ordinamento, tributario ed extratributario: il riferimento va, quanto al primo, alla norma che esclude che l’amministrazione finanziaria possa agire in autotutela allorché sia intervenuto un giudicato sostanziale favorevole, nel merito, alla stessa amministrazione (39); quanto al secondo, il rimando
(38) Sia consentito rinviare a S. Gianoncelli, op. cit., 204 ss.; nello stesso senso v. anche E. Mastrogiacomo, Art. 21, d.lgs. n. 74/00, in F. Moschetti (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, II, Accertamento e sanzioni, Padova, 2011, 668, secondo il quale, impedendo l’esecuzione delle sanzioni amministrative in tutti i casi in cui l’assoluzione o il proscioglimento siano intervenuti per insussistenza del fatto, la disposizione di cui all’art. 21, d.lgs. n. 74/00, “introduce una parziale deroga al principio di autonomia del procedimento amministrativo” rispetto a quello penale. In senso contrario – pur dando atto che la formulazione della norma consentirebbe una simile conclusione – A. Vallini, op. cit., 306, il quale ritiene che, se così fosse, ne deriverebbe “una puntuale e indiretta eccezione alla regola generale della reciproca autonomia e del divieto di rilevanza esterna del giudicato penale, di cui sfuggirebbe la ratio”, quando invece “l’art. 21 non pare certo pensato per apportare così profonde deroghe all’art. 20 e ad altre regole che connotano il sistema punitivo tributario” (A. Vallini, op. cit., 307). Sui relativi rischi anche P. Russo, op.cit., in Riv. dir. trib., I, 2016, 27, il quale evidenzia come, avallando una simile interpretazione, oltre ad attribuire, di fatto, efficacia di giudicato alla sentenza penale, si perviene a consentire la disapplicazione di entrambe le sanzioni, penali e amministrativa, “e, quindi, per limitare notevolmente gli effetti di deterrenza del sistema sanzionatorio in materia tributaria”. Sul punto v. anche le considerazioni di P. Corso, Fa acqua lo scambio di notizie tra processo penale e Amministrazione finanziaria, in Corr. Trib., 2000, 1855 e S. Maffei, «Inedito obbligo» di comunicazione di pronunce penali, in Corr. Trib., 2000, 3064. (39) Così prevede l’art. 2, comma 2, d.m. 11 febbraio 1997, n. 37: “Non si procede all’annullamento d’ufficio, o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria”.
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è alla risalente e mai abrogata disposizione, in forza della quale la pubblica amministrazione è tenuta a conformarsi alle pronunce dei tribunali (40). Il ragionamento fatto proprio dalla Suprema Corte con la sentenza in commento muove da considerazioni non dissimili. Pur evidenziando il carattere “informale” della locuzione impiegata dall’art. 21, d.lgs. n. 74/00 (41), rispetto alla previsione contenuta all’art. 530 c.p.p. (42), i Giudici di legittimità convengono che la stessa parrebbe legittimare la conclusione per cui l’esecuzione della sanzione amministrativa sia possibile unicamente qualora il fatto sussista, pur non avendo rilevanza penale. Un simile approdo, come ammesso dalla stessa Corte, avrebbe il vantaggio di dissipare l’aporia di cui si diceva sopra, nell’unico caso in cui essa può
(40) Il riferimento va all’art. 4, comma 1, l. n. 2248/1865, all. E. Su tale disposizione F. Tesauro, Manuale, cit., 92, fonda l’obbligo, per l’amministrazione, di rimuovere l’atto impositivo, ancorché definitivo, in considerazione del sopravvenuto giudicato penale; ciò in conformità alle indicazioni provenienti dalla Consulta, che, nell’ambito di due decisioni rese negli anni Novanta (cfr. Corte cost., 18 luglio 1997, n. 264, in Boll. Trib., 1997, 1833, e, in precedenza, Id., 5 marzo 1992, n. 120, in Dir. Prat. Trib., 1993, II, 266 nota di P. Toniolatti), ha statuito che il potere attribuito all’amministrazione finanziaria di “verificare l’eventuale rilevanza fiscale del fatto penalmente accertato, ai fini dei conseguenti provvedimenti” deve essere esercitato in conformità al principio, desumibile dall’art. 4 della L. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, secondo cui la Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di conformarsi al giudicato dei Tribunali. (41) Ove si parla di “formula che esclude la rilevanza penale del fatto”. In senso critico circa la formulazione della disposizione anche S. Corso, op. cit., 1855, e S. Maffei, op. cit., 3066. (42) La disposizione codicistica, rubricata “sentenza di assoluzione”, indica tutte le ipotesi in cui il giudice penale procede alla sua pronuncia. Nessun riferimento vi è contenuto alla “irrilevanza penale del fatto”: a latere delle ipotesi in cui “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” (o manca o è insufficiente o contraddittoria la prova, rispettivamente, della sussistenza e della commissione), vi sono poi i casi in cui “il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato” ovvero “il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione” (o, nuovamente, manca o è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto costituisca reato o che il reato sia stato commesso da un soggetto imputabile), e, infine, le ipotesi in cui “il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione” ovvero “di una causa personale di non punibilità”, ovvero vi sia dubbio circa la concreta esistenza di tali cause. Approssimativamente può ritenersi che il riferimento all’irrilevanza penale del fatto, contenuto all’art. 21, includa le ipotesi in cui il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (sul punto v. anche E. Mastrogiacomo, op. cit., 668); quanto alla non imputabilità o alla non punibilità per altra ragione, o alla sussistenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità, la loro ascrizione alla categoria dei fatti – solo – penalmente irrilevanti rischia di essere riduttiva, dal momento che, in presenza di simili circostanze, verosimilmente anche la sanzionabilità amministrativa della condotta, attiva o omissiva, potrebbe essere messa in dubbio. Si ritornerà sul punto.
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realmente manifestarsi: allorché l’esistenza del fatto, naturalisticamente inteso, che integra gli estremi dell’illecito tanto penale quanto amministrativo, sia esclusa da una sentenza irrevocabile dell’autorità giurisdizionale penale e, al contempo, affermata dall’autorità amministrativa. In simili circostanze, in considerazione del fatto che quest’ultima può eseguire le sanzioni unicamente qualora il procedimento penale sia definito in senso favorevole al trasgressore, in ragione dell’irrilevanza del fatto sub specie di reato tributario, può a contrario affermarsi che le stesse sanzioni amministrative non possano essere eseguite allorché il fatto non sussista. La stessa Corte, tuttavia, proprio in ragione del ricorso, da parte del legislatore del 2000, ad una espressione “atecnica e non pienamente collimante con le categorie penalistiche”, esclude la possibilità di una sistematica “trasposizione delle formule assolutorie, pur di più ampia latitudine, alla fattispecie sanzionatoria amministrativa”. L’esempio riportato al fine di escludere qualsiasi automatismo sul punto è oggettivamente convincente. Secondo la giurisprudenza consolidata, le soglie di punibilità, laddove previste dalle norme del d.lgs. n. 74/00, rappresentano un elemento costitutivo del reato, ed il loro mancato raggiungimento comporta quindi l’assoluzione dell’imputato del delitto fiscale con l’impiego della formula “perché il fatto non sussiste” (43); in simili ipotesi non potrebbe certo sostenersi, tuttavia, che non sia configurabile una dichiarazione fraudolenta, infedele, omessa, ovvero un omesso versamento, o una indebita compensazione, punibile ai – soli – fini amministrativi. In tale scenario, i Giudici di legittimità concludono per la necessità di una valutazione caso per caso, allorché si tratti di accertare l’effettivo significato e rilievo da attribuire all’intervenuto riconoscimento dell’insussistenza del fatto in sede penale, ai fini dell’esecuzione delle sanzioni amministrative. Tale valutazione deve tenere conto del fatto, in relazione, in particolare, agli elementi costitutivi – a seconda dei casi – della fattispecie delittuosa o del fatto illecito punito in sede unicamente amministrativa (44). Si pensi – oltre
(43) In questi termini, ad esempio, Cass. pen., sez. III, 25 gennaio 2016, n. 3098, e, Id., 16 giugno 2016, n. 35611. (44) Cfr., sul punto, A. Vallini, op. cit., 307, secondo il quale, in via generale, gli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi condivisi dal reato e dall’illecito amministrativo devono essere distintamente valutati “ora in sede penale, ora in sede amministrativa o di contenzioso tributario, a seconda che serva appunto per il riconoscimento dell’una o dell’altra forma di responsabilità, senza reciproci vincoli e condizionamenti”.
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all’ipotesi del mancato superamento delle soglie di punibilità penale, già richiamata dalla stessa decisione in rassegna – al caso in cui la condotta sia palesemente colposa, e non dolosa, come tipicamente può accadere laddove il contribuente sia inconsapevolmente coinvolto nella frode IVA posta in essere dal suo fornitore; in sede penale in un simile scenario sarebbe pronunciata un’assoluzione perché il fatto non sussiste, mentre in ambito amministrativo la mera mancanza di diligenza del soggetto passivo, che non abbia verificato con sufficiente attenzione l’affidabilità del proprio fornitore, condurrebbe non solo al recupero dell’imposta, ma altresì all’irrogazione – ed esecuzione – delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 471/92 (45). Quanto alla sede deputata a tale valutazione concreta, la Suprema Corte, nuovamente fondandosi sulla lettera dell’art. 21, d.lgs. n. 74/00, la individua nel “giudizio avente ad oggetto l’eventuale riscossione avviata dall’Ufficio”, successivamente alla pronuncia intervenuta in sede penale e nei termini stabiliti – appunto ai fini della riscossione – dalla norma penaltributaria. In tale prospettiva, è escluso che la relativa questione possa essere sollevata nell’ambito del giudizio di cognizione afferente al provvedimento di irrogazione sanzionatoria, dove costituirebbe una violazione del divieto di nova, non superabile neppure in considerazione del primato del diritto UE, poiché non viene considerazione “una lesione dei principi di ordine pubblico unionale” e, in particolare, una lesione del divieto di bis in idem. Con tale ultima considerazione i Giudici di legittimità chiudono per così dire il cerchio. Essi ribadiscono, infatti, la sostanziale inconferenza del richiamo al principio di matrice europea, al fine di dirimere la questione posta dalla possibile aporia derivante dal diverso esito dei procedimenti che, svolgendosi contestualmente, sono volti all’applicazione, con riguardo alla
(45) Molto significativa sul punto è la recente decisione Cass. civ., sez. trib., 22 ottobre 2020, n. 23080, nella quale la Suprema Corte si è trovata confrontata ad una frode IVA, con riguardo alla quale si era pervenuti, in sede penale, all’assoluzione del soggetto che aveva annotato e utilizzato a fini dichiarativi le fatture soggettivamente inesistenti, per mancanza di dolo. Nel cassare la decisione di appello, che su tale insussistenza aveva fondato l’annullamento dell’intero accertamento, la Suprema Corte ha avuto occasione di evidenziare come, a differenza di quanto avviene allorché si tratti di dare applicazione alle disposizioni del d.lgs. n. 74/00, con riguardo alle sanzioni amministrative la dimostrazione dell’elemento psicologico può dedursi, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che dimostrino che “il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente fornitore”.
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medesima condotta, l’uno di una sanzione amministrativa e l’altro di una sanzione penale. La possibilità di un esito difforme di tali procedimenti, nella prospettiva abbracciata dalla Corte di cassazione, non comporta una violazione del divieto né sul piano sostanziale – posto che proprio tale difformità esclude un cumulo di sanzioni – né su quello procedimentale – rispetto al quale è irrilevante l’esito dei due iter procedimentali, nella misura in cui ne sia stata avallata la coesistenza. Né, secondo la Suprema Corte, il coordinamento sostanziale e temporale imposto dalla giurisprudenza europea agli stessi procedimenti, affinché sia rispettato il principio di ne bis in idem, può risolversi nell’obbligo di assicurare che essi pervengano alla medesima conclusione, foss’anche nella sola ipotesi in cui essa sia favorevole al trasgressore; al contrario, può aggiungersi, come si è avuto modo di osservare, è proprio in ragione della complementarietà che deve caratterizzare tanto le sanzioni afferenti a profili diversi della medesima condotta, quanto i procedimenti di irrogazione, contestualmente condotti, che è tutt’altro che improbabile che essi pervengano ad esiti diversi. 6. Conclusioni. – La conclusione cui pervengono i Giudici di legittimitàcon la decisione in commento si ritiene sostanzialmente condivisibile; né, occorre dire, si ritiene che essa si ponga in contrasto con il principio di ne bis in idem, quanto meno nell’interpretazione che ne è ormai invalsa in seno alle Corti europee. Proprio in ragione di tale richiamo all’opzione ermeneutica da ultimo fatta proprio dai Giudici sovranazionali, una considerazione, peraltro, si impone. Alla luce del tenore letterale delle disposizioni che istituiscono il divieto di bis in idem in ambito europeo, e avallando dello stesso un’interpretazione maggiormente rigorosa – nei confronti dei legislatori nazionali – e garantista – a tutela dei presunti trasgressori – la Corte di cassazione sarebbe potuta pervenire ad una soluzione differente. Applicando la giurisprudenza Grande Stevens, in forza della quale la garanzia del ne bis in idem “entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato” (46), la Suprema Corte avrebbe in
(46) Corte EDU, 4 marzo 2014, ricorsi riuniti 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, in Riv. Dir. Trib., 2014, III, 147, con nota di C. Zaccone, F. Romano, Il concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative: le fattispecie di cui agli artt. 185 e 187 ter, TUF alla luce di una recente sentenza della Corte di Strasburgo.
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effetti potuto concludere per la disapplicazione delle sanzioni amministrative, tenuto conto della definitività della sentenza penale assolutoria. Ma ad un simile approdo i Giudici di legittimità sarebbero dovuti pervenire non tanto in considerazione del concreto esito del processo penale, favorevole al presunto trasgressore; quanto, piuttosto, in ragione della definitività della decisione resa a conclusione dello stesso, a prescindere dal suo contenuto. Una simile precisazione non deve apparire superflua o eccessivamente cavillosa. Si consideri quanto segue. Il presupposto dal quale in concreto ha preso le mosse la Corte EDU nel 2014 è la necessità di escludere in radice che un procedimento sanzionatorio prenda avvio ovvero prosegua, allorché un altro procedimento sanzionatorio, concernente il medesimo fatto, si sia definitivamente concluso, a prescindere dal suo esito. Una volta mutata l’interpretazione del divieto di bis in idem, e legittimata la coesistenza tra i suddetti procedimenti – sia pure in presenza di precise condizioni – la possibilità di invocare tale divieto, al fine di paralizzare l’irrogazione della sanzione amministrativa parapenale, in ragione dell’emissione di una sentenza penale definitiva di assoluzione perché il fatto non sussiste, non può che venire meno. Al contrario, se la ratio sottesa alla pronuncia Grande Stevens – ma, soprattutto, alla successiva decisione Di Puma, che parte ricorrente nel giudizio definito dalla decisione in commento ha ritenuto di richiamare – fosse stata quella di inibire il proseguimento del procedimento sanzionatorio attivato a fronte di un medesimo fatto, dichiarato insussistente nel procedimento parallelo, in considerazione proprio del definitivo accertamento di tale insussistenza, allora forse si sarebbe potuto pervenire ad una conclusione differente. Si sarebbe potuto sostenere, in particolare, che, pur ammettendo la duplicazione dei procedimenti sanzionatori – purché in presenza di un loro sufficiente coordinamento sostanziale e temporale, e nel rispetto dei principi di proporzionalità, complementarietà e prevedibilità delle sanzioni applicabiliil definitivo accertamento, nell’ambito di uno di essi, dell’insussistenza del fatto rilevante in entrambe le sedi, avrebbe necessariamente dovuto condurre all’interruzione dell’altro. Così, tuttavia, non è; e ciò perché la necessità di garantire coerenza, dal punto di vista delle conclusioni raggiunte, ai due procedimenti sanzionatori intrapresi a fronte del medesimo fatto, illecito su più piani, non può rappresentare un corollario del divieto di bis in idem, correttamente inteso, in nessuna delle accezioni che tale principio ha nel tempo assunto per effetto della sua applicazione ed interpretazione da parte delle più alte giurisdizioni.
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Non nel senso sostanziale, perché è proprio il diverso esito dei procedimenti ad escludere una duplicazione delle sanzioni. Non in quello formale, perché, nell’accezione maggiormente garantista del relativo principio, non è certo l’esito uniforme – che, al limite, potrebbe essere negativo per il trasgressore – dei procedimenti a rilevare, ma l’esclusione della loro sovrapposizione; mentre, a voler abbracciare l’accezione meno forte, da ultimo affermatasi nella giurisprudenza europea, l’imposizione di un’uguale valutazione degli elementi probatori e quella dell’uniformità dell’accertamento non possono che annacquare e svilire il fondamentale presupposto su cui poggia la stessa possibilità che coesistano due procedimenti sanzionatori: che essi perseguano, cioè, obiettivi diversi e fra loro complementari. Nel contesto che si è descritto, si ritiene che i legislatori nazionali permangano dunque liberi di disciplinare in autonomia il coordinamento, sul piano degli esiti, fra tali procedimenti – e, al limite, anche di non disciplinarlo affatto. Per quanto attiene all’ordinamento italiano, la scelta del legislatore penaltributario, come si è visto, è contenuta all’art. 21, d.lgs. n. 74/00. Certamente, la formulazione di tale disposizione rende inevitabile uno sforzo ricostruttivo dell’interprete. Come correttamente rilevato dai Giudici di legittimità nella decisione in rassegna, in effetti, ogni automatismo nella trasposizione del giudizio circa l’insussistenza del fatto tra ambito penale e ambito amministrativo non può che essere escluso, tenuto conto delle molteplici ipotesi in cui gli elementi costitutivi dell’illecito nell’uno e nell’altro previsti non sono i medesimi. Sotto altro aspetto, non si può neppure ritenere che il riferimento atecnico – per mutuare l’espressione utilizzata dalla Suprema Corte – alla irrilevanza penale del fatto, sancita nella decisione conclusiva del procedimento penale, sia idoneo a legittimare sic et simpliciter l’esecuzione delle sanzioni amministrative sospese, ogniqualvolta l’assoluzione sia motivata in quei termini. La non imputabilità dell’autore della violazione, ovvero la sussistenza di cause di non punibilità o di cause di giustificazione, accertate in via definitiva (47) in sede penale, sono verosimilmente sussumibili tra le ipotesi
(47) Non è questa la sede per occuparsi approfonditamente del problema, ma la stessa formula impiegata dall’art. 21, d.lgs. n. 74/00, è idonea a ricomprendere ipotesi - quali, in primis, l’emissione di un decreto di archiviazione – nelle quali non può propriamente parlarsi di accertamento in via definitiva. Sul punto v. A. Vallini, op. cit., 305.
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in cui l’archiviazione, l’assoluzione o il proscioglimento sono intervenuti in considerazione della irrilevanza penale del fatto, genericamente intesa; purtuttavia, il relativo accertamento non può essere ritenuto sistematicamente irrilevante, ai fini dell’esecuzione della sanzione amministrativa, in particolare tenuto conto del fatto che anche il d.lgs. n. 472/97 – in considerazione della sua netta ispirazione penalistica, della quale si è dato conto – attribuisce rilievo tanto alla imputabilità del trasgressore (48), quanto alla sussistenza di cause di non punibilità o di cause di giustificazione sostanzialmente, se non formalmente, assimilabili a quelle previste dall’ordinamento penale (49). In un simile contesto, il ruolo dell’interprete nell’attribuire più o meno ampio rilievo – o nel non attribuirne affatto – all’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale, appare di assoluto primo piano. È in tale prospettiva che la conclusione cui perviene la Suprema Corte, volta ad escludere ogni automatismo nell’applicazione concreta dell’art. 21, appare in ultima analisi condivisibile.
Stefania Gianoncelli
(48) V. art. 4 del citato decreto legislativo, che espressamente richiama il codice penale: “Non può essere assoggettato a sanzioni chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, in base a criteri indicati nel codice penale, la capacità di intendere e di volere”. (49) V. art. 6 del medesimo decreto, che espressamente richiama, al comma 5, la forza maggiore come causa di esclusione della punibilità, nonché, al comma 2, esclude la punibilità dell’autore della violazione “quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono”; ma tale seconda previsione è contenuta altresì, come noto, all’art. 15, d.lgs. n. 74/00: “non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione”.
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Corte Giust., sez. I, 15 ottobre 2020 – C-335/19; Pres. L. Bay Larsen – Rel. J.C. Bonichot Rinvio pregiudiziale – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 90 – Riduzione della base imponibile dell’IVA – Mancato pagamento totale o parziale del prezzo – Condizioni imposte da una normativa nazionale ai fini dell’esercizio del diritto alla riduzione – Condizione secondo cui il debitore non deve essere sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione – Condizione secondo cui creditore e debitore devono essere entrambi soggetti passivi dell’IVA La normativa nazionale non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) alla condizione che, alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi nonché al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale volta a beneficiare di tale riduzione, il debitore sia registrato quale soggetto passivo dell’IVA e non sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione e che, al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, il creditore sia anch’esso ancora registrato quale soggetto passivo dell’IVA. (1)
(Omissis) Nella causa C-335/19, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Naczelny Sąd Administracyjny (Corte suprema amministrativa, Polonia), con decisione del 6 dicembre 2018, pervenuta in cancelleria il 24 aprile 2019, nel procedimento E. sp. z o.o. sp. k. contro Minister Finansów, LA CORTE (Prima Sezione), composta da J.-C. Bonichot (relatore), presidente di sezione, L. Bay Larsen, C. Toader, M. Safjan e N. Jääskinen, giudici, avvocato generale: J. Kokott cancelliere: M. Aleksejev, capo unità
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vista la fase scritta del procedimento, considerate le osservazioni presentate: - per la E. sp. z o.o. sp. k., da A. Bartosiewicz, consulente tributario; - per il governo polacco, da B. Majczyna, in qualità di agente; - per la Commissione europea, da J. Jokubauskaitė e M. Siekierzyńska, in qualità di agenti, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 4 giugno 2020, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 90 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1). 2 La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta tra la E. sp. z o.o. sp. k. (in prosieguo: la «E.») e il Minister Finansów (Ministro delle Finanze, Polonia) in merito a pareri tributari dal medesimo rilasciati. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3 L’articolo 63 della direttiva 2006/112 così recita: «Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi». 4 Il successivo articolo 73 così dispone: «Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli articoli da 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni». 5 A termini del successivo articolo 90: «1. In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri. 2. In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1». 6 L’articolo 184 della medesima direttiva così prevede: «La detrazione operata inizialmente è rettificata quando è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto». 7 A termini del successivo articolo 185: «1. La rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’[imposta sul valore aggiunto (IVA)], sono mutati gli elementi presi in
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considerazione per determinare l’importo delle detrazioni, in particolare, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo. 2. In deroga al paragrafo 1, la rettifica non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, in caso di distruzione, perdita o furto debitamente provati o giustificati, nonché in caso di prelievi effettuati per dare regali di scarso valore e campioni di cui all’articolo 16. In caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate e in caso di furto gli Stati membri possono tuttavia esigere la rettifica». 8 Ai sensi dell’articolo 273 di tale direttiva: «Gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera. Gli Stati membri non possono avvalersi della facoltà di cui al primo comma per imporre obblighi di fatturazione supplementari rispetto a quelli previsti al capo 3». Diritto polacco 9 L’articolo 89 bis dell’ustawa o podatku od towarów i usług (legge relativa all’imposta sui beni e sui servizi), dell’11 marzo 2004, nel testo applicabile al procedimento principale (Dz. U. del 2011, n. 177, posizione 1054; in prosieguo: la «legge sull’IVA»), così dispone: «1. Il soggetto passivo può procedere alla rettifica della base imponibile nonché dell’imposta a valle dovuta per la cessione di beni o per la prestazione di servizi effettuata nel territorio nazionale in riferimento ai crediti la cui inesigibilità sia stata plausibilmente dimostrata. La rettifica si applica anche alla base imponibile nonché all’importo dell’imposta relativi alla quota del credito la cui inesigibilità sia stata plausibilmente dimostrata. 1 bis. L’inesigibilità del credito si ritiene plausibilmente dimostrata qualora il credito non sia stato saldato né ceduto in qualsivoglia forma entro 150 giorni dalla data di scadenza del termine di pagamento indicato nel relativo contratto o nella relativa fattura. 2. La disposizione del paragrafo 1 si applica allorché ricorrano le seguenti condizioni: 1) la cessione di beni o la prestazione di servizi sia effettuata a favore di un soggetto passivo di cui all’articolo 15, paragrafo 1, registrato come soggetto passivo dell’IVA, non sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione; (...) 3) al giorno precedente la data di presentazione della dichiarazione fiscale di rettifica di cui al paragrafo 1: a) il creditore e il debitore siano registrati quali soggetti passivi dell’IVA;
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b) il debitore non sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione; (...) 5) non siano trascorsi 2 anni dall’emissione della fattura che documenti il credito, calcolati dalla fine dell’anno di fatturazione. (...) 3. La rettifica di cui al paragrafo 1 può essere effettuata nella dichiarazione fiscale relativa al periodo in cui l’inesigibilità del credito sia stata dimostrata in modo plausibile, a condizione che alla data della presentazione, da parte del creditore, della dichiarazione relativa al periodo medesimo il credito non sia stato saldato né ceduto in qualsivoglia forma. 4. Qualora, successivamente alla presentazione della dichiarazione fiscale di rettifica di cui al paragrafo 1, il credito sia stato saldato o ceduto in qualsivoglia forma, il creditore è tenuto ad aumentare la base imponibile nonché l’importo dell’imposta dovuta nella dichiarazione relativa al periodo in cui il credito sia stato saldato o ceduto. In caso di saldo parziale del credito, la base imponibile e l’importo dell’imposta dovuta sono maggiorati in ragione dell’importo della quota pagata. (...)». 10 A termini del successivo articolo 89 ter: «1. Nel caso di mancato pagamento di una fattura emessa per cessione di beni o prestazione di servizi sul territorio nazionale entro 150 giorni dalla data di scadenza del termine di pagamento indicato nel relativo contratto o nella relativa fattura, il debitore è tenuto a rettificare la detrazione dell’imposta risultante dalla fattura medesima nella dichiarazione relativa al periodo di 150 giorni successivi alla data di scadenza del termine di pagamento indicato nel contratto o nella fattura. 1 bis. Il paragrafo 1 non trova applicazione allorché il debitore abbia provveduto al saldo del credito entro e non oltre l’ultimo giorno del periodo di 150 giorni dalla data di scadenza del termine di pagamento del credito stesso. 2. Nel caso di saldo parziale del credito entro 150 giorni dalla data di scadenza del termine di pagamento indicato nel contratto o nella fattura, la rettifica si applica all’imposta a monte relativa alla quota del credito rimasta insoluta. Le disposizioni del paragrafo 1 bis si applicano mutatis mutandis. (...) 4. Nel caso di saldo del credito successivamente alla rettifica di cui al paragrafo 1, il soggetto passivo ha il diritto di aumentare l’imposta a monte nella dichiarazione relativa al periodo in cui il credito sia stato saldato, in misura dell’importo dell’imposta di cui al paragrafo 1. Nel caso di saldo solo parziale del credito, l’imposta a monte può essere aumentata in ragione del relativo importo. (...)». Procedimento principale e questioni pregiudiziali
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11 La E., società a responsabilità limitata di diritto polacco stabilita in Polonia e soggetto passivo dell’IVA, esercita attività di consulenza tributaria diretta, in particolare, a contribuenti soggetti ad IVA ad essa non collegati. Essa assoggetta le prestazioni di servizi così fornite in Polonia all’aliquota IVA ordinaria. 12 La E. inviava ad uno dei propri clienti una fattura, comprensiva dell’IVA, per servizi di consulenza tributaria imponibili nel territorio polacco. Al momento dell’esecuzione della prestazione di servizi, il cliente era registrato come soggetto passivo dell’IVA e non era sottoposto ad alcuna procedura di insolvenza o di liquidazione. Tuttavia, entro il periodo di 150 giorni dalla scadenza del termine di pagamento, il cliente medesimo veniva posto in liquidazione, pur restando registrato come soggetto passivo dell’IVA. Poiché tale fattura non era stata saldata né ceduta in qualsivoglia forma, la E. rivolgeva al Ministro delle Finanze, anteriormente alla scadenza del periodo di due anni dalla data di emissione della fattura stessa, domanda di parere tributario al fine di accertare se, nonostante la messa in liquidazione del proprio cliente successivamente all’esecuzione della prestazione di servizi in questione, essa potesse beneficiare della riduzione della base imponibile dell’IVA a fronte del mancato pagamento del credito risultante dalla fattura medesima, ricorrendo le altre condizioni imposte dall’articolo 89 bis della legge sull’IVA. 13 Con parere tributario del 12 gennaio 2015, il Ministro delle Finanze rispondeva in senso negativo alla domanda della E, facendo presente, in particolare, che l’articolo 90 della direttiva 2006/112 conferisce ai soggetti passivi il diritto di ridurre la base imponibile dell’IVA solo alle condizioni stabilite da ciascuno Stato membro, condizioni che la Repubblica di Polonia ha stabilito all’articolo 89 bis della legge sull’IVA. Pertanto, laddove una delle condizioni previste da tale articolo non ricorra, il soggetto passivo non sarebbe autorizzato a beneficiare del diritto alla riduzione invocando a tal fine direttamente il diritto dell’Unione. 14 Il giudice del rinvio precisa che la E. ha altresì presentato tre ulteriori domande di parere tributari in merito alla conformità delle condizioni fissate all’articolo 89 bis della legge sull’IVA nelle diverse fattispecie concrete in cui tale articolo può trovare applicazione. Dagli atti di cui dispone la Corte risulta che neppure tali domande hanno ricevuto risposta favorevole. Il giudice del rinvio fa presente di aver riunito per connessione le quattro cause relative ai pareri tributari controversi. 15 La E. contestava invano i pareri tributari medesimi dinanzi al giudice polacco competente in primo grado. Reputando che il giudice di prime cure avesse erroneamente ritenuto le disposizioni della legge sull’IVA, contestate nella specie, conformi alle prescrizioni dettate dal diritto dell’Unione, proponeva quindi ricorso per cassazione dinanzi al giudice del rinvio. 16 Il giudice del rinvio nutre dubbi quanto al margine di discrezionalità concesso agli Stati membri nel determinare, nel proprio ordinamento nazionale, le condizioni di applicazione delle disposizioni dell’articolo 90 della direttiva 2006/112. Alla luce, in particolare, delle sentenze del 15 maggio 2014, Almos Agrárkülkere-
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skedelmi (C‑337/13, EU:C:2014:328), e del 23 novembre 2017, Di Maura (C246/16, EU:C:2017:887), il giudice medesimo s’interroga sulla legittimità delle condizioni previste all’articolo 89 bis, paragrafo 2, della legge sull’IVA. 17 Il giudice del rinvio precisa che il legislatore polacco ha provveduto alla trasposizione dell’articolo 185, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2006/112, per mezzo dell’articolo 89 ter della legge sull’IVA, imponendo al debitore l’obbligo di rettificare l’importo dell’IVA detraibile, come corollario del diritto del creditore di procedere, in presenza delle condizioni previste all’articolo 89 bis della legge sull’IVA, alla riduzione della base imponibile. Le condizioni previste all’articolo 89 bis della legge sull’IVA, in particolare quella relativa allo status di soggetto passivo dell’IVA del creditore e del debitore, garantirebbero la simmetria dei meccanismi fiscali, ai fini di una corretta riscossione dell’imposta. 18 Il giudice del rinvio precisa, inoltre, che la condizione secondo cui, ai sensi dell’articolo 89 bis, paragrafo 2, della legge sull’IVA, il debitore non dev’essere sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione consente di garantire la coerenza del sistema normativo polacco evitando, in particolare, che sia pregiudicato l’ordine di soddisfacimento dei creditori previsto dal diritto fallimentare. Pertanto, nell’ipotesi in cui la Corte dovesse dichiarare che l’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva 2006/112 osta a condizioni come quelle previste all’articolo 89 bis, paragrafo 2, della legge sull’IVA, il giudice del rinvio si chiede se debba statuire disapplicando le norme nazionali applicabili in materia fallimentare. 19 In tale contesto, il Naczelny Sąd Administracyjny (Corte suprema amministrativa, Polonia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se le disposizioni della direttiva 2006/112(...), segnatamente l’articolo 90, paragrafo 2, di tale direttiva, consentano, alla luce dei principi di neutralità fiscale e di proporzionalità, di introdurre nella normativa nazionale limiti alla possibilità di ridurre la base imponibile nel caso di mancato pagamento parziale o totale a causa di un determinato status fiscale del debitore e del creditore. 2) In particolare, se il diritto dell’Unione osti all’adozione, nell’ordinamento nazionale, di una norma che consenta di beneficiare dello “sgravio per i crediti inesigibili” a condizione che, alla data di prestazione del servizio ovvero di effettuazione della cessione di beni nonché al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale ai fini della fruizione di tale sgravio: – il debitore non sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione; – il creditore e il debitore siano registrati come soggetti passivi dell’IVA». Sulle questioni pregiudiziali 20 Con le due questioni pregiudiziali, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 90 della direttiva 2006/112 osti a una normativa nazionale che subordini la riduzione della base imponibile dell’IVA
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alla condizione che, alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi, nonché al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale volta a beneficiare di tale riduzione, il debitore risulti registrato quale soggetto passivo dell’IVA e non risulti sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione e che, al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, il creditore sia anch’esso ancora registrato come soggetto passivo dell’IVA. 21 A tal riguardo, si deve ricordare che l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, riguardante i casi di annullamento, di recesso, di risoluzione, di mancato pagamento totale o parziale o di riduzione del prezzo successivi al momento in cui l’operazione viene effettuata, obbliga gli Stati membri a ridurre la base imponibile e, quindi, l’importo dell’IVA dovuta dal soggetto passivo ogni volta che, successivamente alla conclusione di un’operazione, non viene percepita dal soggetto passivo una parte o la totalità del corrispettivo. Tale disposizione costituisce l’espressione di un principio fondamentale della direttiva 2006/112, secondo cui la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto e il cui corollario consiste nel fatto che l’amministrazione finanziaria non può riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo (sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C‑127/18, EU:C:2019:377 punto 17 e giurisprudenza ivi citata). 22 Inoltre, ai sensi dell’articolo 273 della direttiva 2006/112, gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, gli obblighi che essi ritengano necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera. 23 Posto che, al di fuori dei limiti da esse fissati, le disposizioni dell’articolo 90, paragrafo 1, e dell’articolo 273 della direttiva 2006/112 non precisano né le condizioni né gli obblighi che gli Stati membri possono stabilire, si deve rilevare che tali disposizioni conferiscono a questi ultimi un margine di discrezionalità, segnatamente, per quanto riguarda le formalità che i soggetti passivi devono osservare, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, al fine di procedere a una riduzione della base imponibile (sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C-672/17, EU:C:2018:989, punto 32 e giurisprudenza ivi citata). 24 Risulta, tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte che i provvedimenti diretti ad evitare frodi o evasioni fiscali possono derogare, in linea di principio, al rispetto delle regole relative alla base imponibile dell’IVA soltanto nei limiti strettamente necessari per raggiungere tale specifico obiettivo. Infatti, essi devono incidere il meno possibile sugli obiettivi e sui principi della direttiva 2006/112 e non possono, pertanto, essere utilizzati in modo tale da rimettere in discussione la neutralità dell’IVA (sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C-672/17, EU:C:2018:989, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).
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25 Occorre, di conseguenza, che le formalità che i soggetti d’imposta devono adempiere per esercitare, dinanzi all’amministrazione finanziaria, il diritto di procedere alla riduzione della base imponibile dell’IVA siano limitate a quelle che consentano di dimostrare che, successivamente alla conclusione dell’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non sarà definitivamente percepita. Incombe, al riguardo, ai giudici nazionali verificare che tale limite sia rispettato nel caso delle formalità richieste dallo Stato membro interessato (sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C-672/17, EU:C:2018:989, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). 26 L’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva 2006/112 consente agli Stati membri di derogare, in caso di non pagamento totale o parziale del prezzo dell’operazione, alla norma di cui all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva medesima. 27 Infatti, se il mancato pagamento totale o parziale del prezzo dell’operazione si verifica senza che vi siano stati risoluzione o annullamento del contratto, l’acquirente o il destinatario resta debitore del prezzo convenuto e il venditore o il prestatore dispone sempre, in linea di principio, del proprio credito, che può far valere in giudizio. Non potendo essere escluso, tuttavia, che il credito divenga di fatto definitivamente irrecuperabile, il legislatore dell’Unione ha inteso lasciare a ciascuno Stato membro la scelta di determinare se la situazione di non pagamento del prezzo, la quale, di per sé, contrariamente alla risoluzione o all’annullamento del contratto, non pone nuovamente le parti nella situazione iniziale, attribuisca diritto alla riduzione della base imponibile nell’importo dovuto alle condizioni che esso stabilisce, o se siffatta riduzione non sia ammessa in tale situazione (v., in tal senso, sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C-246/16, EU:C:2017:887, punto 16 e giurisprudenza ivi citata). 28 Come la Corte ha già precisato, tale facoltà di deroga si fonda sull’assunto che, in presenza di determinate circostanze e in considerazione della situazione giuridica esistente nello Stato membro interessato, il mancato pagamento del corrispettivo può essere difficile da accertare o essere solamente provvisorio (sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C‑127/18, EU:C:2019:377, punto 19 e giurisprudenza ivi citata). 29 Ne consegue che l’esercizio di tale facoltà di deroga dev’essere giustificato, affinché i provvedimenti adottati dagli Stati membri ai fini della sua attuazione non compromettano l’obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla direttiva 2006/112 e non può consentire loro, in caso di mancato pagamento, di escludere del tutto la riduzione della base imponibile dell’IVA (sentenza dell’8 maggio 2019, APACK CZ, C-127/18, EU:C:2019:377, punto 20 e giurisprudenza ivi citata). 30 In particolare, sebbene sia opportuno che gli Stati membri abbiano la possibilità di far fronte all’incertezza quanto al mancato pagamento di una fattura o al carattere definitivo di quest’ultimo, tale facoltà di deroga non può estendersi al di là di tale incertezza e, in particolare, alla questione se una riduzione della base imponibile possa non essere effettuata in caso di mancato pagamento (sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18, EU:C:2019:377, punto 21 e giurisprudenza ivi citata).
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31 Inoltre, ammettere la possibilità per gli Stati membri di escludere qualsiasi riduzione della base imponibile dell’IVA sarebbe contrario al principio di neutralità dell’IVA, da cui deriva, in particolare, che, nella sua qualità di collettore d’imposta per conto dello Stato, l’imprenditore dev’essere sgravato interamente dall’onere dell’imposta dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche a loro volta soggette a IVA (sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C‑127/18, EU:C:2019:377, punto 22 e giurisprudenza ivi citata). 32 Nella specie, le condizioni di cui all’articolo 89 bis, paragrafo 2, punto 1, e punto 3, lettere a) e b), della legge sull’IVA vanno intese, al contempo, come determinazione, da parte della Repubblica di Polonia, ai sensi dell’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, delle formalità che i soggetti passivi devono adempiere per poter esercitare il diritto alla riduzione della base imponibile dell’IVA nei casi di mancato pagamento totale o parziale del prezzo e, per quanto riguarda i soggetti passivi che, al pari della E., non soddisfacendo le suddette condizioni, non possono ridurre la base imponibile dell’IVA, come esercizio, da parte della Repubblica di Polonia, della facoltà di deroga prevista all’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva 2006/112. Ne consegue che occorre esaminare se la restrizione derivante da tali condizioni per soggetti passivi quali la E. sia giustificata dalla necessità di tener conto dell’incertezza relativa alla definitività del mancato pagamento. 33 Per quanto riguarda, in primo luogo, la condizione che subordina la riduzione della base imponibile dell’IVA alla circostanza che il debitore risultasse registrato come soggetto passivo dell’IVA alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi, occorre considerare che tale condizione non può essere giustificata dalla necessità di tener conto dell’incertezza quanto alla definitività del mancato pagamento. Infatti, la circostanza che il debitore sia o meno soggetto passivo dell’IVA alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi non consente, di per sé, di ritenere che il credito rischi di non essere recuperato. Ciò vale a maggior ragione in quanto, come rilevato dalla Commissione europea nelle proprie osservazioni scritte, taluni beni possono essere ceduti e taluni servizi prestati a soggetti che non sono soggetti passivi dell’IVA, quali i soggetti esenti da IVA o i consumatori, senza che ciò rilevi ai fini dell’obbligo, per il creditore, di riscuotere l’IVA per conto dello Stato e sul diritto del creditore medesimo di rettificare la base imponibile a posteriori. 34 Per quanto riguarda, in secondo luogo, la condizione che subordina la riduzione della base imponibile dell’IVA alla circostanza che il debitore sia ancora registrato come soggetto passivo dell’IVA il giorno precedente alla data di presentazione della dichiarazione fiscale, si deve sottolineare, oltre alla circostanza ricordata supra al punto precedente, ossia che il debitore non è necessariamente un soggetto passivo, che al punto 28 della sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ (C-127/18, EU:C:2019:377), la Corte ha dichiarato che l’articolo 90 della direttiva 2006/112 osta a una normativa nazionale in base alla quale un soggetto passivo non possa procedere alla riduzione della base imponibile in caso di mancato pagamento totale o parziale,
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da parte del proprio debitore, di una somma dovuta a titolo di un’operazione soggetta ad IVA, nel caso in cui il debitore non sia più un soggetto passivo ai fini dell’IVA. 35 Per quanto riguarda, in terzo luogo, la condizione che subordina la riduzione della base imponibile dell’IVA alla circostanza che il creditore sia ancora registrato come soggetto passivo dell’IVA al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, si deve rilevare che tale condizione non è giustificata dalla necessità di tener conto dell’incertezza quanto alla definitività del mancato pagamento. Infatti, poiché l’esistenza del credito e l’obbligo di adempimento del debitore non dipendono dal mantenimento dello status di soggetto passivo del creditore, il fatto che quest’ultimo sia o meno soggetto passivo dell’IVA al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale non consente, di per sé, di ritenere che il credito rischi di non essere recuperato. 36 Le considerazioni svolte supra ai punti da 32 a 35 non sono inficiate dall’argomento dedotto dal governo polacco nelle proprie osservazioni scritte, secondo cui, alla luce del nesso esistente tra l’articolo 90 della direttiva 2006/112 e i successivi articoli 184 e 185, vale a dire l’interdipendenza tra l’IVA dovuta dal creditore in quanto venditore o prestatore e l’IVA detraibile dal debitore in quanto acquirente o destinatario della prestazione, il requisito relativo allo status di soggetto passivo dell’IVA del creditore e del debitore consente di garantire una riduzione simmetrica del quantum della base imponibile ai fini della determinazione dell’IVA esigibile, prevista all’articolo 89 bis della legge sull’IVA, e dell’importo dell’IVA detraibile, prevista all’articolo 89 ter della legge medesima, nonché, in tal modo, la coerenza e il buon funzionamento del sistema dell’IVA, nel rispetto del principio di neutralità. 37 È ben vero che la Corte ha dichiarato che, mentre l’articolo 90 della direttiva 2006/112 disciplina il diritto del fornitore o del prestatore di ridurre la base imponibile ogniqualvolta, successivamente alla conclusione di un’operazione, non riceva il corrispettivo previsto o ne riceva solo una parte, l’articolo 185 della direttiva medesima disciplina la rettifica delle detrazioni inizialmente operate dall’altra parte della stessa operazione, ove i due articoli rappresentano, pertanto, le due facce di una stessa operazione economica e devono quindi essere interpretati in modo coerente (sentenza del 22 febbraio 2018, T-2, C-396/16, EU:C:2018:109, punto 35). 38 In particolare, uno Stato membro, laddove preveda, in applicazione dell’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, che, a determinate condizioni, un soggetto passivo possa ridurre la base imponibile successivamente alla conclusione di un’operazione, è tenuto ad applicare, al fine di garantire il principio di neutralità fiscale, l’articolo 185, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2006/112 affinché l’altra parte della medesima operazione rettifichi, dal canto suo, l’importo dell’IVA detraibile. È effettivamente quanto ha fatto il legislatore polacco adottando gli articoli 89 bis e 89 ter della legge sull’IVA. 39 Tuttavia, la garanzia di una riduzione simmetrica della base imponibile dell’IVA esigibile e dell’importo dell’IVA detraibile non dipende dal fatto che entrambe le
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parti siano soggetti passivi dell’IVA. Infatti, né il diritto del creditore di ridurre la base imponibile né l’obbligo del debitore di ridurre l’importo dell’IVA detraibile dipendono dal mantenimento dello status di soggetto passivo. 40 Per quanto riguarda, in primo luogo, il creditore, si deve rilevare che, essendo questi soggetto passivo nel momento di effettuazione della cessione di beni o della prestazione di servizi, data alla quale, ai sensi dell’articolo 63 della direttiva 2006/112, il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile, egli rimane debitore dell’IVA riscossa per conto dello Stato, indipendentemente dal fatto che abbia medio tempore perso il proprio status di soggetto passivo. Inoltre, tenuto conto del fatto che, come risulta supra dal punto 21, la base imponibile, quale definita all’articolo 73 della direttiva 2006/112, è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto, il creditore stesso può procedere, anche dopo aver perso lo status di soggetto passivo, alla rettifica della base imponibile di modo che quest’ultima rifletta il corrispettivo realmente ricevuto e che l’amministrazione finanziaria non percepisca a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito dal creditore. Pertanto, il diritto del creditore di ridurre la base imponibile ai fini della rettifica non dipende dal mantenimento del suo status di soggetto passivo. 41 Per quanto riguarda, in secondo luogo, il debitore, va ricordato che chiunque sia soggetto passivo ed agisca in quanto tale allorché acquisti un bene o una prestazione di servizi ha diritto alla detrazione relativamente a tale bene o al servizio prestato e che, in assenza di circostanze fraudolente o abusive, e con riserva di eventuali rettifiche conformemente alle condizioni previste dall’articolo 185 della direttiva 2006/112, il diritto alla detrazione, una volta sorto, resta acquisito (sentenze del 2 giugno 2005, Waterschap Zeeuws Vlaanderen, C-378/02, UE:C:2005:335, punto 32, e del 22 marzo 2012, Klub, C‑153/11, EU:C:2012:163, punto 46). Ciò detto, il quantum dell’IVA detraibile deve poter essere rettificato da chiunque non possieda più lo status di soggetto passivo, pur possedendolo al momento in cui è sorto il diritto a detrazione. Pertanto, l’obbligo del debitore di ridurre l’importo dell’IVA detraibile non dipende dal mantenimento della sua qualità di soggetto passivo. 42 Quanto al fatto che, una volta effettuate le rettifiche della base imponibile e dell’IVA detraibile, l’IVA ormai dovuta dal debitore rischi di non essere versata allo Stato per il fatto che il debitore sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione, è sufficiente rilevare, come sottolineato dall’avvocato generale ai paragrafi da 58 a 60 delle proprie conclusioni, che la correlazione esistente tra la rettifica della base imponibile e quella dell’IVA detraibile non implica necessariamente che le rettifiche stesse debbano avvenire nello stesso momento. Pertanto, tale correlazione non impedisce agli Stati membri, tenuto conto dell’assenza di un criterio temporale nell’articolo 185, paragrafo 2, seconda frase, della direttiva 2006/112, di esigere la rettifica dell’IVA detraibile a partire dal momento in cui il debitore sia in situazione di insolvenza e ancor prima dell’avvio di una procedura di insolvenza o di liquidazione
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nei suoi confronti, in modo da prevenire in tal modo qualsiasi rischio di perdita finanziaria per lo Stato. 43 Peraltro, un requisito, come quello di cui al procedimento principale, relativo allo status di soggetto passivo dell’IVA del creditore e del debitore non può essere giustificato né dalla prevenzione delle irregolarità o degli abusi né alla luce delle disposizioni dell’articolo 273 della direttiva 2006/112. 44 Infatti, occorre rilevare, da un lato, che l’obiettivo della prevenzione delle irregolarità e degli abusi non consente di porsi in contrasto con la finalità e la ratio dell’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva 2006/112, quali esposte supra ai punti da 26 a 30, e di giustificare una deroga all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva stessa per motivi diversi da quelli riconducibili all’incertezza relativa al mancato pagamento o alla sua definitività (v., per analogia, sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18, EU:C:2019:377, punto 25). 45 Dall’altro lato, tenuto conto della giurisprudenza richiamata supra al punto 24 in merito all’articolo 273 della direttiva 2006/112, dagli atti a disposizione della Corte non emerge che il fatto di autorizzare un creditore, quale la E., a ridurre la base imponibile dell’IVA nonostante il venir meno, a posteriori, del proprio status di soggetto passivo ovvero dello status di soggetto passivo del debitore presenterebbe un rischio particolare di frode o di evasione fiscale. Ciò vale a fortiori in quanto, come ricordato ai punti 40 e 41 supra, il diritto di rettificare la base imponibile e l’obbligo di rettificare l’importo dell’IVA detraibile non dipendono dal mantenimento dello status di soggetto passivo tanto del creditore quanto del debitore. In ogni caso, il fatto di escludere qualsiasi possibilità di riduzione della base imponibile in un’ipotesi del genere e di far gravare sul creditore l’onere di un importo dell’IVA dallo stesso non percepita nell’ambito della propria attività economica eccede i limiti di quanto strettamente necessario per conseguire gli obiettivi enunciati all’articolo 273 della direttiva 2006/112 (sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18, EU:C:2019:377, punto 27). 46 Per quanto riguarda, in quarto luogo, la condizione che subordina la riduzione della base imponibile dell’IVA alla circostanza che il debitore non sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi e al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, si deve rilevare che, privando il creditore del proprio diritto alla riduzione a causa dell’impossibilità di accertare la definitiva irrecuperabilità del credito prima dell’esito della procedura d’insolvenza o di liquidazione, tale condizione tiene effettivamente conto dell’incertezza relativa alla definitività del mancato pagamento. 47 Tuttavia, occorre ricordare che, conformemente al principio di proporzionalità, che fa parte dei principi generali del diritto dell’Unione, i mezzi impiegati per l’attuazione della direttiva 2006/112 devono essere tali da consentire la realizzazione degli obiettivi perseguiti da detta direttiva e non devono eccedere quanto è necessario per
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conseguirli (sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C-246/16, EU:C:2017:887, punto 25). 48 Orbene, si deve rilevare che l’incertezza connessa alla definitività del mancato pagamento potrebbe essere parimenti tenuta in considerazione accordando la riduzione della base imponibile dell’IVA allorché il creditore segnali, prima dell’esito della procedura di insolvenza o di liquidazione, l’esistenza di una probabilità ragionevole che il credito non sarà saldato, anche a rischio che tale base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque. Spetterebbe quindi alle autorità nazionali stabilire, nel rispetto del principio di proporzionalità e sotto il controllo del giudice, quali siano le prove della probabile prolungata durata del mancato pagamento che il creditore deve fornire in funzione delle specificità della normativa nazionale applicabile. Un simile modus procedendi sarebbe ugualmente efficace per conseguire l’obiettivo previsto ma, al contempo, meno gravoso per il creditore, il quale assicura l’anticipo dell’IVA riscuotendola per conto dello Stato (v., per analogia, sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C-246/16, EU:C:2017:887, punto 27). 49 Occorre peraltro sottolineare, a tal riguardo, da un lato, che l’articolo 89 bis, paragrafo 1 bis, della legge sull’IVA prevede proprio un criterio temporale in base al quale il credito è considerato verosimilmente irrecuperabile e, dall’altro, che, in forza del paragrafo 4 dello stesso articolo 89 bis, il creditore deve aumentare la base imponibile e l’importo dell’imposta dovuta nel caso in cui, successivamente alla riduzione della base imponibile, il credito venga poi saldato o ceduto. Lette in combinato disposto, tali disposizioni costituiscono, di per sé, una misura adeguata che risponde, come ricordato supra al punto precedente, alle esigenze del principio di proporzionalità. 50 Il rilievo effettuato supra al punto 48 vale, a fortiori, nel contesto di procedure di insolvenza o di liquidazione, nelle quali la certezza della definitiva irrecuperabilità del credito può essere acquisita, in linea di principio, solo al termine di un lungo periodo. Un termine del genere è, in ogni caso, tale da far sopportare agli imprenditori soggetti a tale normativa, nei casi di mancato pagamento di una fattura, uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri manifestamente in grado di compromettere l’obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla direttiva 2006/112 (v., per analogia, sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C-246/16, EU:C:2017:887, punto 28). 51 Quanto al fatto, rilevato dal giudice del rinvio, che la condizione menzionata supra al punto 46 consente di garantire la coerenza del sistema normativo polacco, evitando, in particolare, che venga compromesso l’ordine di soddisfacimento dei creditori nel diritto fallimentare, occorre ricordare che, da un lato, l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2016/112 soddisfa le condizioni necessarie per produrre effetti diretti (sentenza del 15 maggio 2014, Almos Agrárkülkereskedelmi, C-337/13, EU:C:2014:328, punto 34) e, dall’altro, che il principio del primato del diritto dell’Unione, implica che ogni giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi nell’ambito delle proprie competenze, ha, in quanto organo di uno Stato membro, l’obbligo di disappli-
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care qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito (sentenza del 24 giugno 2019, Popławski, C-573/17, EU:C:2019:530, punto 61). 52 Ne consegue che un soggetto passivo quale la E., che non soddisfi le sole condizioni stabilite dalla normativa nazionale, non conformi all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, può far valere tale disposizione contro lo Stato per ottenere la riduzione della propria base imponibile (v., in tal senso, sentenza del 15 maggio 2014, Almos Agrárkülkereskedelmi, C-337/13, EU:C:2014:328, punto 35), mentre spetta al giudice nazionale disapplicare tali condizioni non conformi. Il fatto che, così facendo, risultino pregiudicate altre disposizioni del diritto nazionale resta irrilevante, dato che, in caso contrario, l’obbligo, per i giudici nazionali, di disapplicare una disposizione di diritto interno contraria a una disposizione del diritto dell’Unione munita di effetto diretto sarebbe svuotato di contenuto, pregiudicando così il principio del primato del diritto dell’Unione. 53 Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, si deve rispondere alle questioni sollevate dichiarando che l’articolo 90 della direttiva 2006/112 dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che subordina la riduzione della base imponibile dell’IVA alla condizione che, alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi nonché al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale volta a beneficiare di tale riduzione, il debitore sia registrato quale soggetto passivo dell’IVA e non sia sottoposto a procedura d’insolvenza o di liquidazione e che, al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, il creditore sia anch’esso ancora registrato quale soggetto passivo dell’IVA. Sulle spese 54 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: L’articolo 90 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che subordina la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) alla condizione che, alla data della cessione del bene o della prestazione di servizi nonché al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale volta a beneficiare di tale riduzione, il debitore sia registrato quale soggetto passivo dell’IVA e non sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione e che, al giorno precedente la data di presentazione della rettifica della dichiarazione fiscale, il creditore sia anch’esso ancora registrato quale soggetto passivo dell’IVA.
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(1) Una visione europea sul problema delle variazioni iva in caso di mancato pagamento*. Sommario: 1. Premessa, sintesi della pronuncia e delimitazione delle questioni pregiudiziali. – 2. Il mancato pagamento di cui all’art. 90 della direttiva nell’interpretazione della corte di giustizia UE. – 2.1. il mancato pagamento “definitivo” e “non definitivo” – 2.2. Il mancato pagamento definitivo. Le condizioni formali e sostanziali. – 2.3. (segue) Il mancato pagamento non definitivo. Le deroghe sostanziali non sono compatibili con la direttiva se non rispettano il principio di proporzionalità. – 3. La rilevanza dell’effettuazione della controprestazione per il diritto alla detrazione e la soluzione delle esigenze di gettito. – 3.1. La rettifica della detrazione… – 3.1.1. (Segue)… in caso di mancato pagamento. – 4. Considerazioni conclusive.
Dalla Corte di Giustizia UE provengono di recente chiarimenti assai rilevanti sull’interpretazione dell’art. 90 della Direttiva IVA che, a livello sovranazionale, disciplina la fattispecie della variazione IVA nelle diverse ipotesi in cui l’operazione imponibile venga meno in tutto o in parte. In relazione alla portata di tale previsione sono state pronunciate, negli ultimi anni, numerose sentenze interpretative, che sicuramente contribuiscono a chiarire il funzionamento del meccanismo ed a individuare i limiti che il legislatore deve necessariamente incontrare nel disciplinare a livello domestico il sistema delle variazioni iva, poiché, come è ormai chiaro, l’art. 90 in questione ha efficacia diretta nell’ordinamento interno. Very relevant clarifications have recently come from the EU Court of Justice on the interpretation of art. 90 of the VAT Directive which, at a supranational level, governs the case of the VAT variation in the various situations in which the taxable transaction fails in whole or in part. In relation to the scope of this provision, numerous interpretative judgments have been pronounced in recent years, which certainly contribute to clarifying the functioning of the mechanism and identifying the limits that the legislator must necessarily encounter in regulating the system of VAT variations at domestic level, since, as is now clear, art. 90 in question has direct effect in internal law.
* Mentre il presente contributo era in corso di pubblicazione, l’art. 26 del DPR 633/1972, che contiene la disciplina delle variazioni IVA nel sistema interno, è stato oggetto di modifiche ad opera dell’art. 18 del DL 73/2021. Con tale intervento il legislatore ha recepito normativamente gran parte degli indirizzi della Corte di Giustizia qui esaminati. Per un primo commento si rinvia a G. Andreani - A. Tubelli, Variazioni IVA e crisi d’impresa: “si può fare di più”, Fisco, 2021, 2421 ss.
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1. Premessa, sintesi della pronuncia e delimitazione delle questioni pregiudiziali. – Nella più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia UE oggetto di particolare attenzione è l’ipotesi di mancato pagamento, in relazione alla quale l’articolo 90 (par. 2) della direttiva IVAaccorda agli Stati membri una facoltà di derogare alla regola per cui la variazione può essere effettuata laddove il pagamento del corrispettivo non sia stato effettuato in tutto o in parte. Nel caso di specie, la disciplina interna oggetto di rinvio pregiudiziale è quella vigente in Polonia. Nel sistema iva polacco la rettifica della base imponibile è ammessa solo ove il debitore risulti registrato quale soggetto passivo dell’IVA e non sia sottoposto a procedura di insolvenza o di liquidazione e il creditore sia anch’esso ancora registrato come soggetto passivo fino al giorno precedente la data di presentazione della dichiarazione fiscale. Proprio in ragione del fatto che la rettifica dell’operazione per mancato pagamento è subordinata alla sussistenza di determinate condizioni, il giudice del rinvio palesa dei dubbi di compatibilità. La Corte suprema amministrativa polacca, infatti, solleva le questioni pregiudiziali in relazione alla possibilità di limitare il diritto alla detrazione in ragione dello status fiscale di debitore e creditore e del mancato avvio a carico del debitore di una procedura di insolvenza o liquidazione. Su questo punto la pronuncia in rassegna, consolidando un dato indirizzo, contribuisce ad incrementare le decisioni che definiscono il margine di discrezionalità concesso agli Stati membri per determinare, nel proprio ordinamento, le condizioni di applicazione delle disposizioni dell’articolo 90 della direttiva 2006/112 e consente, come vedremo, di ricondurre a sistema gli orientamenti maturati in relazione alla più ampia questione in esame. Ma la pronuncia appare assai rilevante perché pone in luce un ulteriore problema, ossia su chi debba gravare il rischio del mancato pagamento dell’imposta da parte del cliente insolvente. Su questo punto la Corte UE pare adottare una soluzione che garantisce l’interesse degli Stati all’effettiva riscossione dell’IVA, pur tutelando, in modo proporzionato, anche il soggetto economico che, per conto dello Stato, riscuote indirettamente l’imposta. Tale approccio sembra voler scardinare l’impostazione seguita nei sistemi interni che vede il fornitore come unico “garante dell’insolvenza”. Il giudice unionale propugna al riguardo una soluzione originale, pur attinta da suoi precedenti, facendo leva sull’asimmetria, anche temporale, tra riduzione della base imponibile per il soggetto passivo e corrispondente rettifica della detrazione effettuata dal debitore e giungendo, sotto questo aspetto, a interessanti approdi.
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2. Il mancato pagamento di cui all’art. 90 della direttiva nell’interpretazione della corte di giustizia UE. 2.1. Il mancato pagamento “definitivo” e “non definitivo”. – Come anticipato, nella giurisprudenza unionale, oltre alla sentenza in commento, non mancano le pronunce volte a chiarire quale sia la ratio dell’art. 90 della direttiva (1). Tutte muovono dall’affermazione di un dato principio consolidato e richiamato in molteplici casi, che fonda anche la necessaria distinzione tra la previsione di cui al par. 1 e quella contemplata nel par. 2: la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto da colui che ha emesso fattura e l’Erario non può riscuotere a titolo di Iva un importo superiore a quello effettivamente percepito da tale soggetto (2). Tale principio è declinato in modo particolare nella Direttiva in relazione alle ipotesi del mancato pagamento. Nella richiamata disciplina si distingue l’annullamento, il recesso, la risoluzione, casi nei quali è obbligatoria la variazione, dal “non pagamento” totale o parziale, per cui gli Stati membri possono anche derogare all’obbligo. Ed in effetti il recesso, la risoluzione o l’annullamento incidono sull’esistenza del rapporto e, conseguentemente, anche sulle posizioni giuridiche soggettive di debito/credito che ne derivano. In questi casi l’estinzione del rapporto rende certa e definitiva la rimodulazione della posizione debitoria, con le conseguenze che ne discendono per il creditore (3).
(1)
Sul ruolo e l’importanza della Corte di Giustizia e delle sue prerogative cfr. M. BasL’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2009, I, 366 ss.; R. Miceli-G. Melis, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sull’imposta sui conferimenti e sull’Iva, in Riv. dir. trib., 2003, I, 111 ss. (2) cfr. per tutte sentenza del 3 luglio 1997, Goldsmiths, C-330/95 punto 15 in GT, n. 3, 1998, 226 ss. con nota di A. Comelli, Corrispettivo in natura: rimborso dell’Iva in caso di mancato pagamento totale o parziale. (3) «Per contro, i termini annullamento, recesso e risoluzione, contenuti nell’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA, si riferiscono a situazioni nelle quali, a seguito di un annullamento con effetto retroattivo o di una risoluzione, che produce effetti solo futuri, l’obbligo di un debitore di saldare il suo debito è completamente estinto o bloccato ad un livello definitivamente determinato» sentenza del 12 ottobre 2017, Lombard Ingatlan Lízing, C-404/16 punto 31, in Rivista dir. trib., supplemento on line, 13 ottobre 2017 con nota di Fransoni, La rettifica della fatturazione nell’interpretazione della Corte di Giustizia UE. Cfr. sul punto G. Tabet, Riflessioni in tema di note di variazione Iva per fatture insolute, in Rass. trib., 2015, 785 ss., il quale, riferendosi alla normativa interna, ritrova due diverse tipologie di situazioni che consentono il recupero dell’imposta addebitata ilavecchia,
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Diversamente, il mancato pagamento è apprezzato nella Direttiva quale circostanza di mero fatto che non incide sul rapporto talché l’acquirente resta debitore del prezzo convenuto e il cedente, per quanto non più proprietario del bene, dispone sempre – in linea di principio – del suo credito, che può anche far valere in sede giurisdizionale (4).
in fattura: da un canto, una serie di eventi (dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili) che, successivamente alla nascita, investono il rapporto giuridico sottostante lo scambio, producendo la caducazione del titolo negoziale; dall’altro, quelle in cui il contratto permane con tutti suoi effetti, ma il rapporto risulta squilibrato per mancato pagamento in tutto o in parte; cfr. anche A. Carinci, Le variazioni IVA profili sostanziali e formali, in Riv. dir. trib., 2000, I, 737; G. Tabet., Sull’applicabilità della procedura di variazione in diminuzione ex art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 nei confronti dei clienti morosi, in Rass. trib., 1999, 79 ss. secondo cui nel concorso tra risoluzione per inadempimento e mancato pagamento deve darsi prevalenza all’effetto risolutorio; concorda sul punto G. Fransoni, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2019, 101, che ritiene la soluzione espressiva della diversità del piano su cui operano gli eventi incidenti sul fatto generatore e di quello proprio degli eventi attinenti alla fattispecie dell’esigibilità nonché del ruolo sistematicamente prioritario nel nostro ordinamento dei primi rispetto ai secondi. La fattispecie del “mancato pagamento” è stata inserita nel nostro ordinamento (art. 26, comma 2 DPR 633/1972, in attuazione dell’art. 11, parte C, par. 1, della c.d. VI Direttiva (oggi, art. 90, Direttiva n. 2006/112/CE), che riconosceva la possibilità di prevedere la riduzione anche per il caso di «non pagamento totale o parziale». L’attuazione è avvenuta in senso restrittivo, prevedendosi che il mancato pagamento del corrispettivo di un’operazione imponibile legittimi l’emissione di una nota di variazione solo se consegue a «procedure concorsuali o procedure esecutive rimaste infruttuose». In tema cfr. le trattazioni di M. Basilavecchia, Le note di variazione, in F. Tesauro (diretto da), L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, 633 ss.; Carinci, op.cit.; più di recente Denora, Procedure concorsuali infruttuose e note di variazione IVA: la tutela del creditore a fronte dell’inadempimento del debitore, in Riv. dir. trib., 2016, I, 641 ss.; Santin, Vicende dell’operazione imponibile IVA; profili sostanziali e procedimentali, Milano, 2020, 201 ss.; sulla catalogabilità degli accordi di ristrutturazione nell’ambito delle «procedure concorsuali» cfr. Contrino, Sulla nuova fiscalità degli «accordi di ristrutturazione del debito»: profili d’irragionevolezza, aspetti problematici e questioni aperte, in Dir. e prat. trib., 2013, 187 (4) «la situazione di non pagamento del prezzo di acquisto, ai sensi dell’articolo 90 della direttiva IVA non rimette le parti nella loro situazione iniziale. Infatti, ove il non pagamento totale o parziale del prezzo di acquisto intervenga senza che vi sia stata risoluzione o annullamento del contratto, poiché non può essere escluso, tuttavia, che un siffatto credito divenga di fatto definitivamente irrecuperabile, il legislatore dell’Unione ha inteso lasciare a ciascuno Stato membro la scelta di determinare se la situazione di non pagamento del prezzo di acquisto attribuisca diritto alla riduzione della base imponibile nell’importo dovuto alle condizioni che esso stabilisce» (causa C-404/16, punto 29; causa C-396/16 punto 36). In dottrina rispetto alla disciplina interna si vedano le considerazioni di Basilavecchia, Le note di variazione, cit., 644 ss. che mette in luce come il problema che si intendeva affrontare con l’introduzione della fattispecie del mancato pagamento era quello che deriva al soggetto attivo dell’operazione in caso di inefficacia della rivalsa per insolvenza del committente o dell’acquirente; nonostante in tal caso l’operatività della rivalsa lasci a carico del soggetto che compie l’operazione il peso economico e finanziario dell’IVA, non è possibile accomunare puramente e semplicemente tale ipotesi a quella in cui l’operazione viene
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Si comprende allora come la circostanza di fatto “non pagamento” possa risultare difficile da accertare o soltanto temporanea. Diverse volte la Corte ha affermato in proposito che il non pagamento «è caratterizzato da un’incertitudine implicita nella sua natura non definitiva» (5). La nozione di operazione non pagata presente nell’art. 90 della Direttiva riguarda, dunque, quelle fattispecie ove vi è un’incertezza che può anche rimanere indissolubile. Ed è proprio in relazione a queste ultime ipotesi che si accorda agli Stati membri la facoltà di limitare il diritto alla riduzione della base imponibile ai sensi del par. 2 dell’art. 90. L’esercizio di tale facoltà non è quindi pienamente discrezionale per lo Stato potendo essere esercitata solo ove il mancato pagamento non sia connotato dal carattere della definitività (6). In diversi casi la Corte ha infatti ritenuto incompatibili con la previsione della direttiva le disposizioni interne, che limitavano l’obbligo di rettifica, non giustificate dalla necessità di tener conto dell’incertezza in merito al carattere definitivo dell’inadempimento (7). Inoltre la disciplina domestica, relativa alle deroghe sostanziali all’esercizio del diritto di ridurre la base imponibile deve essere ispirata ad un criterio di “ragionevolezza” e valutata alla luce del principio di proporzionalità e di neutralità del tributo indipendentemente dal fatto che la rimodulazione della posizione debitoria, che dovrebbe dar luogo alla riduzione, sia ancora dubbia. Per «far fronte all’incertezza intrinseca al carattere definitivo del non pagamento di una fattura», la possibilità di limitare il diritto alla detrazione «non può estendersi al di là di tale incertezza», tanto da condurre lo stato membro a negare in toto la
meno, perché l’insolvenza manterrebbe in astratto tassabile l’atto giuridico da cui deriva l’operazione. L’ipotesi di mancato pagamento viene intesa, in definitiva, non già quale espressione di un principio generale di effettiva onerosità delle prestazioni tassabili, ma come temperamento al principio di irrilevanza dell’effettivo esercizio della rivalsa. (5) Sentenza 12 ottobre 2017, Lombard Ingatlan Lízing, causa C-404/16, punto 30 (6) Relazione illustrativa all’articolo 12 (Base imponibile) a pag. 15 nella proposta della Commissione del 20 giugno 1973, COM (73) 950 def, nella quale si legge: it is provided that the price remain unpaid (whether in whole or in part), the taxable amount may be reduced. To avoid abuses, the Memeber States are to lay down the conditions for applying this provision (7) Sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18. punto 23; analogamente, sentenze del 22 febbraio 2018, T-2, C-396/16, punto 40, e del 23 novembre 2017, Di Maura, C-246/16, punto 22 quest’ultima in Rivista di diritto tributario, supplemento on line 19 dicembre 2017, con nota di B. Denora, Dopo dieci anni di mancato pagamento, una variazione in diminuzione ai fini IVA non si nega a nessuno; Giur. Comm., 2018, 791 ss. con nota di P. Santin, Variazioni iva da mancato pagamento e procedure concorsuali: il regime interno al vaglio della compatibilità europea; L’IVA, 2018, 31 ss. con nota di M. Peirolo, Bocciata la procedura di variazione in diminuzione per le procedure concorsuali.
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possibilità di ridurre la base imponibile (8). In altri termini la Corte di Giustizia pare ritenere, su questo fronte, che la rettifica debba comunque essere garantita, cosicché la deroga può giustificarsi, considerarsi proporzionata e conforme al principio di neutralità (9), fintanto che il credito non divenga definitivamente irrecuperabile o comunque fino a quando non vi sia una ragionevole probabilità che il debito non sia più saldato. Nella giurisprudenza più recente, compresa la pronuncia in commento, emerge, da un lato, la tendenza a riconoscere la riduzione della base imponibile ove sussistano situazioni di fatto suscettibili di dimostrare – indipendentemente dal dettato della disciplina interna – non già la certezza, ma la ragionevole probabilità della definitiva irrecuperabilità del credito; dall’altro lato, e in contrappeso, si valorizza le previsioni, già presenti in alcuni ordinamenti (10), che contemplano meccanismi correttivi al rialzo nei casi in cui, dopo la rettifica, intervenga il pagamento anche parziale (11).
(8) Cfr. sentenza 23 novembre 2017, Di Maura C-246/16. (9) Si è affermato sul punto che ammettere la possibilità per gli Stati membri di escludere qualsiasi riduzione della base imponibile dell’IVA sarebbe contrario al principio di neutralità dell’IVA, da cui deriva, in particolare, che, nella sua qualità di collettore d’imposta per conto dello Stato, l’imprenditore dev’essere sgravato interamente dall’onere dell’imposta dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche a loro volta soggette a IVA (sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18, EU:C:2019:377, punto 22 e giurisprudenza ivi citata). (10) Cfr. punto 49 della pronuncia in commento ove si fa riferimento alla disciplina IVA vigente in Polonia. (11) Argomenti che si desumono dalla sentenza del 23 novembre 2017, Di Maura, C-246/16, spec. punto 27.
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2.2. Il mancato pagamento definitivo. Le condizioni formali e sostanziali. – La Corte in proposito afferma chiaramente nella sentenza in commento ed in altre recenti (12) che una situazione caratterizzata dalla riduzione definitiva degli obblighi del debitore nei confronti del suo creditore non può considerarsi come “non pagamento” ai sensi dell’art. 90 par. 2, ma va annoverato fra le ipotesi di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo 90. Il giudice unionale sembrerebbe dunque enucleare la nozione di “non pagamento definitivo” disciplinata dal par. 1 dell’art. 90 e quella di “non pagamento non definitivo” contemplata dal par. 2 dello stesso articolo. Nel primo caso l’irrecuperabilità del credito giustifica il diritto alla riduzione della base imponibile, nella seconda ipotesi lo Stato membro può legittimamente introdurre delle deroghe (nei limiti prima chiariti). Negare, in caso di mancato pagamento definitivo, qualsiasi riduzione della base imponibile IVA sarebbe contrario al principio di neutralità dell’IVA, dal quale risulta in particolare che «l’imprenditore, nella sua qualità di esattore delle tasse per conto dello Stato, deve essere completamente sollevato dall’onere dell’imposta dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche soggette a IVA» (13). Il diritto alla riduzione della base imponibile, dunque, deve essere sempre riconosciuto in caso di inadempimento definitivo anche ove nel sistema interno la fattispecie dei “mancato pagamento” non sia regolata (14). In ogni caso, nell’ipotesi in cui il mancato pagamento presenti i requisiti della definitività gli Stati membri possono subordinare l’esercizio del diritto alla sussistenza di determinate condizioni (15). Emerge dalla lettura di alcune
(12) Ordinanza, 24 ottobre 2019, Porr Építési Kft, C-292/19; sentenza 11 giugno 2020 causa C-146/19 in Rivista di diritto tributario, supplemento on line 27 luglio 2020, con nota di Cannizzaro Fallimento e variazioni IVA: in caso di non pagamento “definitivo” la rettifica è d’obbligo!; cfr. anche sentenza del 22 febbraio 2018, T - 2, C-396/16, punti 44 e 45. (13) Ordinanza del 24 ottobre 2019, Porr Építési Kft., C-292/19, punto 23 e sentenze del 23 novembre 2017, Di Maura, C - 246/16, punto 23, e dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18, punto 22, ordinanza 29 aprile 2020 Ramada Storax SA C-756/19 punto 36, sentenza 11 giugno 2020, SCT d.d. C-146/19 punto 25 (14) Cfr. sul punto ordinanza 24 ottobre 2019, Porr Építési Kft. causa C-292/19. Nel caso di specie la normativa ungherese non contemplava fra le ipotesi per cui era prevista la rettifica della base imponibile il mancato pagamento e il giudice del rinvio chiedeva se tale circostanza potesse intendersi come implicito esercizio della facoltà di deroga di cui all’art. 90 comma 2 della direttiva. (15) L’art. 90 par. 1, tuttavia, prevede testualmente che In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri.
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pronunce che la facoltà di stabilire condizioni per l’esercizio del diritto di rettifica, riconosciuta dall’art. 90, par. 1 in caso di mancato pagamento definitivo, deve considerarsi sostanzialmente circoscritta alla previsione di «talune formalità che consentono di dimostrare in particolare che, successivamente alla conclusione dell’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non è stata definitivamente percepita dal soggetto passivo e che quest’ultimo poteva invocare una delle situazioni previste all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva» (16). Per quanto riguarda, inoltre, i criteri da applicare ai fini della valutazione del carattere definitivo o meno di un credito, i giudici europei ricordano che la presa in considerazione della realtà economica e commerciale costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA (17). Ciò dovrebbe significare che gli Stati membri da un lato possono stabilire, in base alle condizioni economiche e commerciali del loro Paese, quando il mancato pagamento possa considerarsi definitivo; per altro verso possono comunque subordinare l’esercizio del diritto alla rettifica all’espletamento di determinate formalità. In relazione al secondo aspetto, l’esame dei precedenti può risultare assai utile. Un primo gruppo di pronunce si occupa infatti di valutare la compatibilità rispetto all’art. 90 comma 1 delle “formalità” imposte dagli Stati membri laddove il mancato pagamento risulti definitivo. Conforme alle prescrizioni della direttiva e ai principi di neutralità e proporzionalità è stata considerata la previsione domestica che subordina la riduzione della base imponibile, quale risulta da una fattura iniziale, al possesso, da parte del soggetto passivo, di una conferma di ricevimento di una fattura rettificata rimessa dal destinatario dei beni o dei servizi (18). In egual modo
(16) C-337/13 del 15 maggio 2014 punto 40 della sentenza citata; cfr. anche sentenza C-404/16 del 12 ottobre 2017. (17) Sentenza 22 febbraio 2018, causa C-396/16, punto 43 che richiama sentenze del 7 ottobre 2010, Loyalty Management UK e Baxi Group, C-53/09 e C-55/09, punto 39, nonché del 20 giugno 2013, Newey, C 653/11, punto 42. (18) Sentenza 26 gennaio 2012, Kraft Foods Polska Sa, causa C588/10, p.q.m: «Un requisito che subordina la riduzione della base imponibile, quale risulta da una fattura iniziale, al possesso, da parte del soggetto passivo, di una conferma di ricevimento di una fattura rettificata rimessa dal destinatario dei beni o dei servizi rientra nella nozione di condizione di cui all’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto. I principi di neutralità dell’IVA nonché di proporzionalità non ostano in linea di principio
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conforme è stata considerata la condizione simile, imposta da un altro Stato membro, in base alla quale la riduzione della base imponibile, non può essere effettuata dal soggetto passivo fintantoché quest’ultimo non abbia previamente comunicato il proprio intento di annullare in tutto o in parte l’IVA all’acquirente del bene o del servizio, se quest’ultimo è un soggetto passivo, ai fini della rettifica della detrazione (19). Ed in effetti il meccanismo correttivo della base imponibile costituito dalla modifica della fatturazione è stato considerato idoneo a consentire l’esercizio del diritto alla rettifica della base imponibile anche nell’ipotesi in cui tale diritto sia stato negato per effetto di un atto di accertamento definitivo recante il debito d’imposta, così come risultava dalla fattura iniziale (20). Nella visione della Corte di Giustizia, dunque, le formalità di fatturazione e di rettifica della stessa, unitamente agli obblighi di informazione delle controparti contrattuali, si devono considerare condizioni compatibili con la previsione dell’art. 90 comma 1 della direttiva e conformi ai principi di neutralità e proporzionalità. I giudici unionali non mancano tuttavia di ribadire che tali formalità non sono le uniche idonee a certificare la circostanza che giustifica la variazione della base imponibile. Infatti, qualora risultasse impossibile o eccessivamente difficile per il soggetto passivo, adempiere, anche in tempi ragionevoli, alle prescrizioni interne, non può comunque essergli negato di dimostrare con altri mezzi dinanzi alle autorità fiscali nazionali di aver dato
ad un requisito siffatto. Tuttavia, qualora risultasse impossibile o eccessivamente difficile per il soggetto passivo, fornitore di beni o di servizi, farsi rimettere, in un termine ragionevole, una siffatta conferma di ricevimento, non può essergli negato di dimostrare con altri mezzi dinanzi alle autorità fiscali nazionali, da una parte, che ha dato prova della diligenza necessaria, nelle circostanze del caso di specie, per assicurarsi che il destinatario dei beni o dei servizi sia in possesso della fattura rettificata e che ne abbia preso conoscenza e, dall’altra, che l’operazione in parola è stata effettivamente realizzata conformemente alle condizioni enunciate nella suddetta fattura rettificata». (19) Cfr. sentenza 6 dicembre 2018, Tratave – Tratamento de águas residuais do ave Sa, C-672/17. (20) Cfr. sentenza 3 luglio 2019, «UniCredit Leasing» EAD, C-242/18 punto 43 «l’articolo 90, paragrafo 1, della direttiva IVA dev’essere interpretato nel senso che consente, in caso di risoluzione di un contratto di leasing finanziario, la riduzione della base imponibile dell’IVA determinata forfettariamente mediante avviso di rettifica sull’insieme dei canoni dovuti per tutta la durata del contratto, sebbene tale avviso di rettifica non sia più impugnabile e costituisca quindi un “atto amministrativo definitivo” che accerta un debito d’imposta ai sensi del diritto nazionale».
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prova, da una parte, della diligenza richiesta dalle previsioni interne e, dall’altra, che l’operazione sia effettivamente conforme alle risultanze formali (21). Circa l’altro aspetto considerato, invece, la pronuncia in rassegna offre uno spunto interessante. La disciplina polacca prevede infatti un criterio temporale in base al quale il credito è considerato presumibilmente irrecuperabile e dispone l’obbligo di aumentare la base imponibile e l’importo dell’imposta dovuta nel caso in cui, successivamente alla rettifica, il credito venga poi saldato. L’approccio del legislatore interno è stato considerato di per sé adeguato e conforme al principio di proporzionalità anche nell’ottica di non gravare l’operatore economico dell’IVA non riscossa in caso di mancato pagamento del corrispettivo da parte del suo cliente. In altri termini la definitività del mancato pagamento, che dà diritto alla rettifica della base imponibile, si può presumere laddove non intervenga il pagamento del corrispettivo in un ragionevole lasso di tempo. 2.3. (segue) Il mancato pagamento non definitivo. Le deroghe sostanziali non sono compatibili con la direttiva se non rispettano il principio di proporzionalità. – La previsione polacca sulla quale si appuntano i dubbi di compatibilità, tuttavia, pone delle ulteriori condizioni per operare la rettifica, ossia, come si è accennato, richiede, fra l’altro, che il debitore non si trovi in stato di insolvenza. La limitazione imposta dalla disciplina domestica comportando l’esclusione della possibilità di ridurre la base imponibile, non si può considerare meramente formale, ma si traduce in deroga sostanziale e, dunque, ne deve essere valutata la compatibilità con l’art. 90 par 2, che si salda in simmetria complementare con l’art. 90 par. 1 (22). Ciò val quanto dire che la deroga sostanziale deve necessariamente giustificarsi alla luce della necessità di tener conto della non definitività del mancato pagamento. Sebbene in alcuni suoi precedenti la Corte non abbia mancato di sottolineare che la sottoposizione ad una procedura d’insolvenza, piuttosto che un elemento attestante l’incertezza in ordine alla definitiva irrecuperabilità del credito, rappresenta circostanza che avvalora la definitività dell’inadempi-
(21) Cfr. sentenza 26 gennaio 2012, Kraft Foods Polska Sa, C-588/10, p.q.m. (22) L’art. 90 par. 2 prevede testualmente: In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1.
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mento (23), nel caso di specie si esprime per la compatibilità della deroga posta dalla disciplina nazionale con la previsione dell’art. 90 par. 2. La Corte ammette, infatti, che la condizione «tiene effettivamente conto della incertezza relativa alla definitività del mancato pagamento». Ma il riconoscimento della conformità della disciplina interna alla previsione sovranazionale, non pare elemento sufficiente a garantire la sua applicabilità. Il giudice unionale, infatti, si interroga sulla proporzionalità della condizione cui lo stato membro subordina la rettifica della base imponibile. Il medesimo approccio qui seguito, è stato propugnato in tempi relativamente recenti in un’altra pronuncia che interessava la disciplina Italiana e si riferiva alla previsione in base alla quale l’amministrazione finanziaria ricava la necessità di attendere la chiusura della procedura concorsuale al fine di operare la variazione IVA. In quella sede la CGUE, pur in presenza di una norma interna volta al riconoscimento del diritto alla riduzione della base imponibile solo al verificarsi di una data condizione espressiva della definitiva irrecuperabilità del credito, ha affermato «che lo stesso fine potrebbe essere perseguito accordando parimenti la riduzione allorché il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque». «Una simile modalità sarebbe ugualmente efficace per raggiungere l’obiettivo previsto ma, al contempo, meno gravosa per il soggetto passivo, il quale assicura l’anticipo dell’IVA riscuotendola per conto dello Stato» (24). Anche in quell’arresto emergeva dunque l’idea che la “ragionevolezza” della disciplina domestica, che imponga deroghe sostanziali all’esercizio del diritto di ridurre la base imponibile, debba essere valutata alla luce del principio di proporzionalità e di neutralità del tributo. Vale la pena in proposito ricordare che, nelle conclusioni relative a quella pronuncia, l’Avvocato generale (25), muovendo dal presupposto che l’IVA colpisce il consumo finale e non l’operatore economico, aveva condivisibilmente sottolineato che l’anticipo del tributo non incassato da parte dell’impresa si traduce in una limitazione di diritti e libertà riconosciuti anche a livello sovranazionale (la libertà d’impresa e il diritto fondamentale di proprietà)
(23) Sentenza dell’8 maggio 2019, A-PACK CZ, C-127/18, punti 23 e 24; ordinanza 24 ottobre 2019, Porr Építési Kft. causa C-292/19 punto 26. (24) CGUE, 23 novembre 2017, causa C-246/16, punto 27. (25) Conclusioni avvocato generale Kokott presentate l’8 giugno 2017, Causa C-246/16, punti 45-52.
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comportando, in definitiva, un prelievo sul patrimonio. L’avvocato generale sottolineava, in proposito, che il fattore temporale non può risultare indifferente in tale valutazione di proporzionalità, cosicché il riconoscimento del diritto alla riduzione della base imponibile in un momento anteriore a quello individuato nella normativa interna, sulla base, non già della certezza dell’inadempimento, ma della sua ragionevole probabilità, può consentire di salvaguardare l’interesse all’integrità patrimoniale dell’operatore economico quale declinazione del principio di neutralità del tributo. In definitiva si è fatta spazio l’impostazione secondo cui i limiti al diritto alla rettifica, pur giustificati dalla necessità di tener conto dell’incertezza dell’inadempimento, devono rispondere al canone della proporzionalità, tenendo conto del carattere di imposta sui consumi dell’IVA, del principio di neutralità e dei diritti fondamentali dell’impresa (26). Ed in effetti tale approccio è stato recepito nella pronuncia Di Maura – cui si è fatto fin qui riferimento – e ripresa nella sentenza in commento. L’arresto qui in esame aggiunge un ulteriore tassello nella ricostruzione del quadro. Nel valutare coerente e proporzionata la disciplina interna (corredata anche da un meccanismo “al rialzo”), la Corte consente allo stato membro di disapplicare la previsione comportante conseguenze più gravose per il soggetto passivo/creditore. Si attesta, così, la soluzione che privilegia l’adozione di una misura più semplice ma parimenti efficace basata su una presunzione di definitivo inadempimento e sulla tassazione del corrispettivo (anche gradualmente ma) effettivamente pagato. Il principio di neutralità del tributo assume dunque assoluta prevalenza nella valutazione della “ragionevolezza” delle condizioni previste dagli Stati membri. Ma non solo. In base all’interpretazione giurisprudenziale, il diritto alla rettifica della base imponibile non può mai essere sacrificato laddove il sog-
(26) Sul principio di proporzionalità in dottrina cfr. A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2013, passim; A. Fornieles Gil, Il principio di proporzionalità, in Di Pietro-Tassani (a cura di), I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013, 160 ss. Sulla lettura del principio di proporzionalità quale criterio di ragionevolezza Fontana, Deducibilità fiscale di donazioni provenienti da patrimoni aziendali, restrizioni discriminatorie della libera circolazione dei capitali per motivi imperativi di interesse generale e violazioni del principio di proporzionalità, in Riv. dir. trib., 2011, 233 ss.; P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, 191 ss.
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getto passivo sia in grado comunque di comprovare l’irrecuperabilità del credito (27). L’art. 90 par. 1 in questione, infatti, ha una particolare forza cogente, già ribadita in varie occasioni (28). Nel caso in cui non sia possibile interpretare le previsioni interne conformemente al diritto sovranazionale, le prescrizioni della direttiva devono essere applicate direttamente anche in deroga alla disciplina domestica. Ne consegue che lo spazio d’azione per il legislatore interno, in sostanza, risulta assai esiguo e limitato all’individuazione delle formalità per l’esercizio della rettifica, essendo l’an del diritto stesso legato fondamentalmente alla possibilità di provare che il credito è divenuto inesigibile (29). La sentenza in commento ribadisce tale principio già consolidato, anche precisando che, in forza del primato del diritto dell’Unione, ogni giudice nazionale ha l’obbligo di disapplicare, non solo le previsioni della disciplina IVA interna, ma qualsiasi disposizione nazionale che risulti in contrasto con la direttiva, comprese quelle che impongono un ordine di soddisfacimento dei creditori nell’ambito del diritto fallimentare.
(27) «L’articolo 90 della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro deve consentire la riduzione della base imponibile IVA se il soggetto passivo può dimostrare che il debito è definitivamente irrecuperabile, il che spetta ai tribunali nazionali verificare» ordinanza del 24 ottobre 2019, Porr Építési Kft., C-292/19 punto 29; in tema cfr. anche, ordinanza 29 aprile 2020, Ramada Storax SA, causa C-756/19 secondo la quale «gli articoli 90 e 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto devono essere interpretati nel senso che ostano alla regolamentazione di uno Stato membro in base al quale il diritto alla riduzione dell’imposta sul valore aggiunto pagata e relativa a debiti considerati irrecuperabili al termine di una procedura fallimentare è rifiutata al soggetto passivo quando l’irrecuperabilità dei debiti in questione è stata stabilita da un giudice di un altro Stato membro sulla base della legge in vigore in quest’ultimo Stato». (28) Cfr per tutte sentenza 15 maggio 2014, Almos Agrárkülkereskedelmi, C-337/13 punto 34. (29) In questo senso si veda G. Fransoni, La rettifica della fatturazione nell’interpretazione della Corte di Giustizia UE, cit.
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3. La rilevanza dell’effettuazione della controprestazione per il diritto alla detrazione e la soluzione delle esigenze di gettito. – Ma ammettere la possibilità per il creditore di rettificare la base imponibile anche in costanza della procedura di insolvenza o liquidazione del debitore e prima della chiusura della stessa, non risolve tutti i problemi che in casi simili si pongono allo Stato Membro. Sollevare il soggetto economico/creditore dall’“onere dell’insolvenza” significa, in sostanza, spostare tale onere sullo Stato (30). Con la variazione della base imponibile da parte del creditore, infatti, viene necessariamente in considerazione la parallela necessità di rettificare la detrazione già operata dallo stesso debitore. Più volte la Corte di giustizia ha affermato, in proposito, che la variazione della base imponibile e della correlativa detrazione costituiscono “due facce della stessa medaglia” da interpretare in modo coerente (31). Nel caso di specie, limitando il diritto di rettifica della base imponibile in ragione della sottoposizione del debitore ad una procedura di insolvenza, il legislatore polacco intendeva evidentemente prevenire il rischio di perdita del gettito fiscale per ridotta solvibilità del destinatario. In casi simili, infatti, non sono più disponibili risorse finanziarie sufficienti per rimborsare allo Stato l’importo della detrazione già fatta valere. La rettifica della base imponibile, cui sarebbe conseguita la rettifica della detrazione, anche secondo il giudice del rinvio, avrebbe inciso «in modo inaccettabile sullo svolgimento della procedura fallimentare». Il creditore fallimentare sarebbe stato soddisfatto a spese dell’erario e, come si è anticipato, l’onere dell’insolvenza sarebbe rimasto a carico dello Stato.
(30) Si era già notato che il sistema, anche nella sua dimensione interna, essendo stati fissati presupposti tali da rendere inverosimile la diminuzione dell’imposta detratta dal cessionario o committente moroso, rischiava di accollare l’insolvenza sull’erario cfr. Basilavecchia, op. cit., 645, e nello stesso senso Carinci, op. cit., 739; in precedenza A. Berliri, Appunti per una ricostruzione giuridica dell’IVA, individuazione dell’obbligazione tributaria e delle obbligazioni connesse, in L’imposta sul valore aggiunto studi e scritti vari, Milano, 1971, 238239 segnalava l’importanza della scelta normativa di gravare l’erario o il cedente dell’onere dell’insolvenza del cessionario. (31) Cfr. sentenza del 22 febbraio 2018, T‑2, C‑396/16, punto 35; in tema si veda Barabino, Le variazioni dell’Iva e il concordato preventivo: rapporti tra fonti e principi europei, in Riv. trim dir. trib., 2018, spec. 54 secondo il quale l’interpretazione della disciplina europea elaborata con l’ausilio della giurisprudenza ha permesso una lettura congiunta degli artt. 184 e 90 della Direttiva IVA, quali “due facce di una stessa operazione economica”: così come il principio di neutralità dell’imposta è garantito dai due istituti della rivalsa e della detrazione, così l’esistenza di una procedura concorsuale deve consentire di attuare tempestivamente le rispettive variazioni dell’imponibile e dell’imposta.
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Il punto di maggiore interesse della pronuncia esaminata riguarda proprio la soluzione proposta per ovviare all’eventuale perdita di gettito fiscale, rischio che si prospetta in tutti i casi simili a quello posto all’attenzione della CGUE. Il giudice unionale pare infatti consapevole che i limiti al diritto di rettifica siano generalmente volti, in tali ipotesi, ad evitare che l’emissione di una nota di variazione in diminuzione da parte del fornitore di beni e servizi al fallito determini un credito nei confronti dell’Erario, senza garanzia, per effetto della procedura intervenuta, dell’incasso della corrispondente variazione in aumento. Al riguardo si deve ricordare che l’articolo 90 qui in esame, non è l’unica previsione della direttiva che consente l’esercizio di un margine di discrezionalità per l’introduzione di condizioni volte a garantire il corretto funzionamento del sistema IVA. Infatti, anche in virtù dell’articolo 273, gli Stati membri possono prevedere obblighi necessari per assicurare l’esatta riscossione del tributo e per evitare le evasioni, a condizione che tale facoltà non venga utilizzata per incrementare le formalità relative alla fatturazione (32). Nei casi esaminati dalla Corte i piani spesso si sovrappongono, ossia le condizioni cui è subordinato l’esercizio del diritto alla rettifica sono prevalentemente finalizzate ad evitare l’evasione o a preservare il gettito già acquisito (33). Ed è su questo punto che i giudici sovranazionali molto chiaramente richiamano i principi cui è ispirato l’intero impianto del tributo per fornire delle coordinate agli Stati membri funzionali all’esercizio dei propri poteri discrezionali nell’ambito delle previsioni prima richiamate. Le misure idonee ad evitare evasioni o elusioni fiscali possono in via di principio derogare al rispetto delle norme relative alla base imponibile soltanto entro i limiti strettamente necessari per raggiungere tale obiettivo specifico. Esse, infatti, devono incidere il meno possibile sulle finalità e sui principi della direttiva IVA e non possono comportare una violazione del principio di neutralità (34).
(32) Le disposizioni dell’articolo 90, paragrafo 1, e dell’articolo 273 della direttiva IVA non precisano le condizioni né gli obblighi che gli Stati membri possono stabilire, tali disposizioni conferiscono a questi ultimi un margine di discrezionalità, segnatamente, per quanto riguarda le formalità che i soggetti passivi devono soddisfare di fronte alle autorità tributarie al fine di procedere ad una riduzione della base imponibile, cfr. sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C-672/17 , punto 32 e la giurisprudenza ivi citata. (33) Cfr. sentenza 11 giugno 2020, SCT d.d. C-146/19 punti 34-35. (34) Sentenza 11 giugno 2020, SCT d.d. C-146/19 punti 34-35; sentenza del 6 dicembre 2018, Tratave, C-672/17, punto 33 e la giurisprudenza ivi citata.
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Non è possibile, dunque, sovrapporre il piano delle cautele necessarie al fine di evitare frodi e abusi con quello relativo alle condizioni poste all’esercizio del diritto alla riduzione della base imponibile. Le formalità di cui all’art. 90 par. 1 devono risultare unicamente funzionali ad attestare che una parte o la totalità della controprestazione non è stata percepita. D’altro canto, le condizioni che esprimono una deroga sostanziale ai sensi dello stesso art. 90 par. 2, si giustificano solo ove siano dirette a tenere conto dell’incertezza dell’inadempimento. Per contro i vincoli imposti ai soggetti passivi ai sensi dell’art. 273 della direttiva devono essere limitati a quelli necessari al raggiungimento della finalità cui sono diretti, senza possibilità di intaccare minimamente la neutralità quale principio cardine del sistema IVA. Conseguentemente, la disciplina interna che, perseguendo la finalità di evitare frodi, abusi o, più in generale, perdita di gettito, preveda a carico del soggetto passivo oneri tali da escludere il diritto alla variazione della base imponibile, pur se sia possibile provare che il credito è divenuto definitivamente irrecuperabile, non può risultare compatibile con l’art. 90, par. 1 e 2 della Direttiva, violando appunto il principio di neutralità (35). In definitiva le esigenze di preservare il gettito o di evitare frodi e abusi, pur considerate rilevanti nel sistema della Direttiva, non possono mai inibire il meccanismo delle rettifiche volto a garantire la neutralità del tributo. Ed è proprio su questo punto che si coglie lo snodo più importante della pronuncia in commento rispetto anche ai precedenti. La Corte di giustizia va infatti oltre il recente trend che mira a riconoscere la riduzione della base imponibile ove sussistano situazioni di fatto suscettibili di dimostrare la ragionevole probabilità della definitiva irrecuperabilità del credito, per adottare una soluzione che in concreto induca gli Stati membri ad abbandonare le prassi adottate che penalizzano gli operatori economici e falsano la concorrenza senza risolvere i problemi di gestione del gettito.
(35) Specialmente in sentenza 11 giugno 2020, SCT d.d. C-146/19 punti 34-35 in tal caso la Corte pur riconoscendo che l’obbligo di insinuazione al passivo, imposto dalla disciplina slovena, contribuisce a garantire la corretta riscossione dell’IVA evitando l’evasione ed il rischio di perdita di entrate fiscali, la Corte di Giustizia afferma che ove l’adempimento non sia stato posto in essere non può presumersi una frode ai danni dello Sato e non può negarsi sistematicamente il diritto alla variazione dell’imponibile. Ciò comporterebbe un travalicamento dei limiti strettamente necessari per raggiungere l’obiettivo posto. Per non incorrere nella violazione del principio di proporzionalità è necessario dunque garantire al soggetto passivo la facoltà di provare che, pur rispettando la condizione imposta dallo Stato membro, il mancato pagamento sarebbe comunque divenuto definitivo.
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Per far ciò la Corte si concentra sull’altra faccia della medaglia. 3.1. La rettifica della detrazione… – Nel sistema della direttiva, in particolare in base all’art. 167, il diritto di detrarre il tributo del destinatario del bene o del servizio è legato al sorgere del debito d’imposta per il prestatore. Al committente/debitore viene dunque riconosciuto il diritto alla detrazione dell’imposta già prima del pagamento. Ciò ha portato a ritenere che il meccanismo di applicazione dell’imposta non assicuri né richieda che la neutralità, sotto il profilo economico, sia rispettata. L’imputazione temporale delle operazioni è slegata dal pagamento del corrispettivo e, conseguentemente, dalla corresponsione dell’IVA in via di rivalsa da parte del cliente (36). Più precisamente la giurisprudenza unionale ha ritenuto sul punto che per effettuare la detrazione non è necessario il previo pagamento dell’imposta, essendo sufficiente che questa risulti dalla fattura ricevuta (37). La giurisprudenza afferma infatti che, in base alle previsioni della direttiva, i soggetti passivi hanno diritto di detrarre l’IVA «dovuta o assolta» per i beni che sono stati o saranno ceduti, conseguentemente il diritto a detrazione dell’imposta di cui beneficia il soggetto passivo riguarda non soltanto l’IVA che ha versato, ma anche l’IVA dovuta, vale a dire quella che deve essere ancora pagata. Il termine «dovuta» dovrebbe riferirsi ad un debito tributario esigibile implicando quindi che il soggetto passivo sia obbligato al versamento dell’importo dell’IVA che intende detrarre. Conseguentemente l’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA non risulterebbe subordinato al pagamento del corrispettivo e dell’imposta dovuti (38). Tuttavia, già nelle conclusioni relative alla pronuncia in cui si è affermato il principio appena esaminato, l’Avvocato generale, pur sottolineando che «la direttiva considera inevitabile il vantaggio di cassa che …deriva al titolare del diritto a deduzione» (39) dall’applicazione di questo sistema, poneva l’ac-
(36) Cfr. per tutti Salvini, L’imposta sul valore aggiunto, in Salvini (a cura di), Diritto tributario delle attività economiche, Torino, 2019, 283. (37) Sentenza 29 marzo 2012, Véleclair SA, C-414/10 punto 19; sentenza del 12 gennaio 2006, Optigen e a., C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Racc. pag. I-483, punto 54 (38) Sentenza 29 marzo 2012, Véleclair SA, C-414/10 punti 20 e 22. (39) Conclusioni dell’Avvocato generale Juliane Kokott presentate il 17 novembre 2011 Causa C-414/10 Véleclair, Punto 30.
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cento sul momento a partire dal quale «si decide a titolo definitivo se esiste effettivamente il diritto a deduzione fatto valere dal soggetto passivo» (40). Dunque, se da un lato il diritto a detrazione risulta esercitabile indipendentemente dall’immediato pagamento del corrispettivo e dell’iva dovuta in via di rivalsa, d’altro canto, occorre comprendere se l’operazione possa considerarsi effettuata e se (e per quanto tempo) si possa consentire il mantenimento della detrazione a monte anche in assenza dell’adempimento di una delle parti. A parere dell’Avvocato generale Kokott, che si esprime sul punto nelle conclusioni relative alla pronuncia in rassegna (41), la regola della detrazione “immediata” si fonderebbe sulla presunzione per cui il pagamento del corrispettivo e del tributo relativo avvenga, anche se non immediatamente, in un breve termine. L’adempimento, che è effetto fisiologico del vincolo sinallagmatico, infatti, allinea l’operazione e consente il corretto funzionamento di rivalsa e detrazione nell’ottica della neutralità del tributo anche sotto il profilo economico. Il meccanismo della detrazione non sarebbe tarato, dunque, su ipotesi “patologiche” nelle quali il vincolo giuridico valido ed efficace, che costituisce titolo delle obbligazioni reciprocamente assunte, non sia rispettato da una delle parti contrattuali e non dia luogo all’adempimento. Secondo l’Avvocato generale, infatti, la tesi per cui la detrazione operata rimarrebbe ferma pur in assenza del pagamento si basa su una interpretazione meramente letterale dell’art. 167 della direttiva e prescinde, dunque, da una visione teleologica del diritto a detrazione, volto a “sgravare” l’operatore economico dall’onere del tributo. Anche in altri casi gli avvocati generali Kokott (42) e Sanchez Bordona (43) avevano avuto modo di sottolineare che la detrazione dell’IVA non è totalmente slegata dal pagamento del corrispettivo e del tributo su esso dovuto. Lo “sgravio” dell’operatore economico, cui è finalizzata la detrazione implica che il destinatario della prestazione sia effettivamente “gravato” dall’IVA. Conseguentemente, di diritto a detrazione sarebbe possibile parlare,
(40) Conclusioni dell’Avvocato generale Juliane Kokott presentate il 17 novembre 2011 Causa C-414/10 Véleclair, Punto 54. (41) Conclusioni dell’Avvocato Generale J. Kokott presentate il 4 giugno 2020, C-335/19, E. Sp. z o.o. Sp. k., punto 55 e ss. (42) Conclusioni dell’avvocato generale J. Kokott presentate il 30 novembre 2017, Causa C-8/17. (43) Conclusioni dell’avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona presentate il 26 ottobre 2017, Causa C533/16 Volkswagen AG.
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pur ammettendo la detraibilità immediata (basata su una presunzione), non solo a seguito dell’esecuzione della prestazione, ma anche per effetto del pagamento della controprestazione e dell’IVA in essa inclusa, sulla base di una fattura che ne esponga l’importo. Dell’approccio descritto si trovano echi anche nella giurisprudenza meno recente. Da un lato si afferma infatti che l’esercizio del diritto alla deduzione presuppone che, in linea di principio, i soggetti passivi non effettuino pagamenti e, quindi, non versino l’IVA a monte prima della ricezione della fattura, o di un altro documento considerato ad essa equivalente, ma per altro verso si sottolinea chiaramente come «non si possa ritenere che l’IVA gravi su una data operazione prima di essere stata versata» (44). In altri termini, la fattura al cui possesso l’art. 178 della direttiva collega l’esercizio del diritto a detrazione, documenterebbe il rapporto giuridico sottostante indicando l’importo della controprestazione e del tributo dovuto, di talché il destinatario non potrebbe dedurre né versare l’IVA al prestatore prima del suo ricevimento. Ma, nel sistema della direttiva, secondo la prospettata tesi, pur essendo sufficiente per la nascita del diritto a detrazione e per il suo legittimo esercizio che la prestazione sia eseguita e fatturata, è essenziale che sia effettuata anche la controprestazione al fine di mantenere il medesimo diritto. Il “mancato pagamento” (definitivo), in quest’ottica, verrebbe trattato alla stregua di una “condizione risolutiva”, non del rapporto, ma dell’operazione IVA. 3.1.1. (Segue)… in caso di mancato pagamento. – La cartina di tornasole, relativamente all’indirizzo assunto dall’Avvocato Generale, è rappresentata dall’interpretazione dell’art. 185, sposata dalla Corte di Giustizia. Consolidato in giurisprudenza, infatti, è il principio secondo cui, con riserva di eventuali rettifiche conformemente alle condizioni previste dall’articolo 185 della direttiva 2006/112, il diritto alla detrazione, una volta sorto, resta acquisito (45) Ai sensi dell’articolo 184 della direttiva IVA la detrazione operata inizialmente deve essere rettificata quando è inferiore o superiore a quella a cui il soggetto passivo ha diritto. L’articolo 185, paragrafo 1, della direttiva IVA
(44) Sentenza della corte (Quinta Sezione) 29 aprile 2004, Terra Baubedarf-Handel GmbH, C-152/02, punto 35. (45) Sentenze del 2 giugno 2005, Waterschap Zeeuws Vlaanderen, C-378/02 UE:C:2005:335, punto 32, e del 22 marzo 2012, Klub, C-153/11, EU:C:2012:163, punto 46.
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precisa, inoltre, che la rettifica deve essere operata in particolare quando, successivamente alla dichiarazione dell’IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinarne l’importo. Per il caso di mancato pagamento, l’art. 185 (46) par. 2, primo periodo, della direttiva non prevede di regola la rettifica del diritto a detrazione, salvo stabilire al secondo periodo dello stesso par. 2, la possibilità per lo Stato membro di esigere, nel medesimo caso, la variazione. Per comprendere la portata dell’art. 185 par. 2 bisogna ricordare che la Corte di giustizia ha ritenuto che la nozione di «non pagamento», e le circostanze che fondano la il diritto alla rettifica della base imponibile e le relative deroghe secondo la ricordata interpretazione dell’articolo 90 della direttiva IVA, giustificano anche la rettifica della detrazione ai sensi dell’articolo 185, paragrafo 2 (47). La variazione, dunque, non deve essere effettuata in caso di mancato pagamento non definitivo, mentre può essere richiesta dallo stato membro nel caso in cui il mancato pagamento risulti definitivo rilevando, quindi, quale circostanza che muta gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni. Il ragionamento seguito dalla Corte porta dunque a confermare l’impostazione dell’Avvocato generale. In quanto fondato sulla “presunzione” che l’adempimento avverrà in ragione del vincolo giuridico che avvince il debitore e lo obbliga ad effettuare la controprestazione e a corrispondere la relativa IVA, il sistema delle rettifiche della detrazione si basa sulla circostanza che il mancato pagamento non sia, di regola, definitivo e non determini dunque una variazione. Il mancato pagamento definitivo, nei termini prima chiariti, è apprezzato, di contro, anche per la rettifica della detrazione, quale circostanza che è idonea a mutare gli elementi presi originariamente in considerazione, ossia è atta a
(46) L’articolo 185 di detta direttiva prevede quanto segue: «1.La rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni, in particolare, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo. 2. In deroga al paragrafo 1, la rettifica non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, in caso di distruzione, perdita o furto debitamente provati o giustificati, nonché in caso di prelievi effettuati per dare regali di scarso valore e campioni di cui all’articolo 16. In caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate e in caso di furto gli Stati membri possono tuttavia esigere la rettifica». (47) Sentenza 22 febbraio 2018, T-2, causa C-396/16, punto 41.
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superare la “presunzione” di adempimento, in ragione della quale il diritto a detrazione nasce ed è esercitabile senza che sia richiesto il previo o contestuale pagamento del corrispettivo e del relativo tributo. La lettura congiunta degli articoli 184 e 185, paragrafo 1, della direttiva IVA ha portato la giurisprudenza a ritenere che quando, a causa del mutamento di uno degli elementi inizialmente assunti per il calcolo delle detrazioni, si rende necessaria una rettifica, il calcolo dell’importo di tale rettifica deve far sì che la detrazione operata corrisponda infine a quello che il soggetto passivo avrebbe avuto diritto di operare se tale mutamento fosse stato considerato inizialmente (48). Ciò significa, semplificando al massimo, che se l’adempimento non dovesse considerarsi rilevante per il riconoscimento della detrazione e, dunque, se non fosse elemento dell’operazione considerata nel suo complesso, il mancato pagamento “definitivo” non potrebbe essere considerato circostanza che muta la situazione iniziale obbligando all’azzeramento della detrazione originariamente effettuata. Il giudice unionale, nella sentenza in commento, parrebbe compiere un ulteriore passo in avanti nella direzione appena illustrata. Se il (mantenimento) della detrazione effettuata dal cliente non dipende solo dall’effettuazione della prestazione e dalla relativa fatturazione, ma anche dall’esecuzione della controprestazione, benché vi sia correlazione, non c’è necessaria interdipendenza tra le rettifiche in diminuzione e in aumento. La mera correlazione «non impedisce agli Stati membri, tenuto conto dell’assenza di un criterio temporale nell’articolo 185, paragrafo 2, seconda frase, della direttiva 2006/112, di esigere la rettifica dell’IVA detraibile a partire dal momento in cui il debitore sia in situazione di insolvenza e ancor prima dell’avvio di una procedura di insolvenza o di liquidazione nei suoi confronti, in modo da prevenire in tal modo qualsiasi rischio di perdita finanziaria per lo Stato» (49). Sul punto la Corte richiama espressamente le conclusioni dell’Avvocato generale (punti 58-60), secondo cui la scadenza di un periodo d’imposta dovrebbe considerarsi un periodo ragionevole per verificare se la presunzione posta alla base della detrazione immediata dell’imposta a monte, si sia verificata, ossia se l’adem-
(48) Sentenza del 16 giugno 2016, Kreissparkasse Wiedenbrück, C‑186/15, EU:C:2016:452, punto 47 sentenza 22 febbraio 2018, T-2 causa C-396/16. (49) Cfr. sentenza in commento punto 42.
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pimento sia effettivamente intervenuto (50). Al momento della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo all’esercizio del diritto a detrazione, sarà chiaro se la detrazione sia stata operata correttamente o meno. Sganciata la rettifica della detrazione da quella della base imponibile, pur possibile in caso di mancato pagamento definitivo, il rischio sistemico di perdite delle entrate fiscali verrebbe meno, ciò ovviamente laddove la rettifica venga imposta dallo Stato membro, non già quando l’operatore economico versi in uno stato di palese insolvenza, ma in un momento in cui l’adempimento, pur possibile, sia ragionevolmente improbabile in ragione del tempo trascorso. Ma questo pare l’effetto, non già la ragione per cui le variazioni in aumento e in diminuzione possono considerarsi autonome, quantomeno temporalmente. 4. Considerazioni conclusive. – Dalle statuizioni della Corte pare emergere, infatti, una interessante prospettiva. La rettifica della detrazione sembra possibile indipendentemente dalla variazione della base imponibile innanzitutto per una determinante circostanza che ribalta una certa prospettiva. La variazione è giustificata perché manca un elemento dell’operazione, ossia la controprestazione, a cui è ancorato il mantenimento del diritto alla detrazione a sua volta diretto a sgravare l’operatore economico dall’onere del tributo. In definitiva prestazione e controprestazione sembrerebbero entrambe segmenti dell’unica operazione in relazione alla quale deve essere garantita la neutralità del tributo. Dunque non sarebbe necessaria la previa rettifica della fattura, che costituisce esercizio della rivalsa e impone l’obbligo di assolvere l’iva a chi l’ha indicata, perché il diritto alla detrazione non si fonderebbe (solo) su questo meccanismo giuridico-formale. Anzi, in base a questo approccio, la connessione e l’interdipendenza tra le due tipologie di variazione (dell’imponibile e della detrazione) potrebbe risultare rovesciata. Se l’operazione difetta di uno dei due segmenti, e in ragione di ciò viene rettificata la detrazione, neppure l’emittente della fattura può considerarsi debitore dell’iva ivi indicata. I giudici unionali ritengono, infatti, che l’obbligo di assolvere l’iva imposto a chi la indichi in una fattura non deve eccedere quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione del
(50) Conclusioni dell’Avvocato generale J. Kokott, presentate il 4 giugno 2020, Causa C-335/19, E. Sp. z o.o. Sp. k., punto 59.
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rischio di perdita di gettito fiscale e, in particolare, non deve arrecare un pregiudizio eccessivo al principio di neutralità dell’iva (51), cosicché se sia stato completamente eliminato, in tempo utile, il rischio di perdita di gettito fiscale, prevale la necessità di garantire il principio di neutralità e, dunque, di non ritenere più gravato il fornitore dell’iva indicata in fattura (52). Come sottolinea, in un’ottica sostanzialista, l’avvocato generale, nelle conclusioni relative alla pronuncia esaminata «nel caso di inadempimento del destinatario, l’impresa che eroga la prestazione non è neanche sostanzialmente debitrice dell’IVA. Il fatto generatore dell’IVA fa difetto: l’imprenditore non ha operato, in definitiva, alcuna cessione o altra prestazione a titolo oneroso nel senso di cui all’articolo 2 della direttiva IVA» (53). Nell’ottica europea, perché si possa configurare un’operazione rilevante ai fini dell’applicazione del tributo è necessario che la cessione o la prestazione trovi giustificazione nella controprestazione, che vi sia, dunque, interdipendenza tra le obbligazioni dei contraenti. La valorizzazione dell’interdipendenza tra le prestazioni cui sono tenuti i soggetti dell’operazione è funzionale al raggiungimento dell’obiettivo di garantire che l’imposta venga calcolata sul corrispettivo effettivamente percepito dal cedente o prestatore, non inteso, dunque, come somma per cui detto soggetto vanti un diritto di credito suscettibile di tutela giudiziale, bensì come pagamento effettivamente ricevuto dal cessionario o committente in adempimento di detto obbligo. Sull’interdipendenza delle prestazioni e sulla loro essenzialità ai fini dell’identificazione dell’operazione si fonda anche il corretto e effettivo funzionamento del meccanismo della rivalsa e della detrazione. In conclusione la rilevanza crescente riconosciuta alla fattispecie del “mancato pagamento” si giustifica nell’ottica dell’attuazione, con assoluta preminenza, del principio di neutralità e dunque nel perseguimento dell’obiettivo della detassazione dei soggetti passivi in senso formale, per garantire, in definitiva, l’incisione del solo consumo finale. In questa prospettiva le rettifiche a monte e valle contribuiscono, in effetti, nel caso di mancato pagamento, non già a far emergere elementi che modificano l’operazione compiutamente effettuata, ma a consentire la riconciliazione tra gli effetti prodotti dal mec-
(51) Corte giust. 8 maggio 2019, causa C-712/17, Srl EN.SA, punti 33-35. (52) Corte giust. 13 marzo 2014, causa C-107/13, Firin OOD, punto 55. (53) Conclusioni dell’Avvocato generale J. Kokott, presentate il 4 giugno 2020, Causa C-335/19, E. Sp. z o.o. Sp. k., punto 27.
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canismo giuridico-formale di applicazione del tributo e quelli rilevanti ai fini della realizzazione del presupposto (54).
Susanna Cannizzaro
(54) Già G. Falsitta (Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 1997, 409 nt 21 e 415), assegnava all’introduzione della fattispecie del mancato pagamento nel sistema interno una rilevanza notevole ai fini della qualificazione come imposta di consumo dell’IVA, ponendosi nella prospettiva della prevalenza assoluta della neutralità quale detassazione dei soggetti in senso formale. L’impossibilità di esercitare la rivalsa, in quest’ottica, non poteva che comportare un venir meno dell’imponibilità. Sono note le ricostruzioni della dottrina italiana in ordine al presupposto del tributo. L’obbligatorietà della rivalsa ed il fatto che, dunque, il legislatore non ha ritenuto di affidarsi alla traslazione economica del tributo costituiscono, per una parte rilevante della dottrina, un elemento decisivo per ritenere che la capacità contributiva colpita dall’IVA debba identificarsi con il consumo (ovvero con l’immissione in consumo) e che essa sia manifestata dal consumatore finale. Altra parte della dottrina privilegiando gli aspetti giuridico-formali del tributo e ritendendo la rivalsa oggetto di un rapporto privatistico del tutto estraneo al rapporto d’imposta che intercorre tra soggetto passivo di diritto ed erario, affermano che la capacità contributiva colpita dall’IVA sia manifestata proprio dal soggetto passivo e che, dunque, l’IVA sia una imposta che colpisce l’effettuazione delle attività economiche. Nel primo senso si vedano per tutti Berliri, op. cit., 298; F. Gallo, Profili di una teoria dell’imposta sul valore aggiunto, Roma 1974,17 ss., G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2018, 837; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte Speciale (aggiornata da Contrino e Fregni), Milano, 2019, 231; per la seconda opzione interpretativa A. Fantozzi, Presupposto e soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. e prat. trib., 1972, I, 727 ss.; A. Fedele, Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’IVA e nell’imposta di registro, in AA.VV., La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Padova, 1981, 146 ss.
Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto
Cass. civ., sez. V, 08 ottobre 2020, n. 21693 – Pres. Manzon, Rel. Triscari Tributi - Accertamento - Stabile organizzazione di società estera Configurazione - Requisiti – Valutazione Ai fini dell’individuazione di una stabile organizzazione materiale, è necessario verificare che, mediante la sede fissa di affari, la società con sede all’estero svolge nel territorio italiano una attività economicamente rilevante per il soggetto cui la stessa è riferibile, da intendersi, peraltro, in senso ampio, fino a ricomprendervi anche lo svolgimento di una prestazione di servizi, o, in generale, qualunque attività di impresa, purchè riferibile, appunto, al soggetto che la esercita. Laddove si accerti che una sede fissa di affari svolge contemporaneamente attività preparatorie e accessorie e attività che possono configurare l’esistenza di una stabile organizzazione, la sede fissa non può non essere considerata quale stabile organizzazione per l’intero; allo stesso tempo, ai fini dell’esclusione della considerazione delle attività svolte quali meramente preparatorie o accessorie, è necessario che le stesse siano rivolte esclusivamente all’impresa, sicchè, ove la sede fissa presti servizi contemporaneamente in favore di altre imprese, anche se facenti parte del gruppo in cui si colloca la casa madre, la sede fissa non svolge, in questo caso, una funzione meramente preparatoria o ausiliaria della casa madre di appartenenza, ma, per l’appunto, un’attività di impresa che, seppure riferibile alla casa madre, si tratteggia in termini economicamente autonomi, in quanto di per sé produttiva di un autonomo risultato economico. Ai fini della valutazione circa la sussistenza di una stabile organizzazione personale di cui al comma 6 dell’art. 162, d.P.R. n. 917/1986, il giudice di merito deve prendere in considerazione la pluralità di attività svolte dalla persona fisica nel territorio dello stato, in particolare il fatto che lo stesso emettesse le fatture per conto della società; conservasse la documentazione nell’interesse della società; perfezionasse contratti di vendita, apponendo la propria firma/sigla su tutte le fatture, curasse i rapporti con gli intermediari bancari nazionali presso cui erano accessi conti correnti societari, esteri e in valuta, pagasse i fornitori emettendo assegni tratti su conti correnti societari ma anche su conti intestati a persona fisica, desse disposizioni agli intermediari bancari di incassare le fatture. (1)
(Omissis) Rilevato che – dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a G. S. & T.C. Ltd Inc. diversi avvisi di accertamento, relativi agli anni di imposta dal 1999 al 2006, contestando un reddito imponibile non dichiarato, avendo accertato, a seguito di indagini della Guardia di Finanza, che la suddetta società aveva una stabile organizzazione in Italia con la quale svolgeva
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l’attività di commercio di materiali da costruzione; avverso i suddetti atti impositivi la società aveva proposto separati ricorsi che erano stati parzialmente accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara, la quale, in particolare, aveva rideterminato parzialmente il reddito imponibile in relazione alle sole operazioni di vendita di materiale lapideo a clienti italiani; avverso la pronuncia del giudice di primo grado aveva proposto appello l’Agenzia delle entrate; la Commissione tributaria regionale della Toscana ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: la società aveva svolto un completo processo produttivo solo nei riguardi dei clienti italiani; la sussistenza di una molteplicità di conti correnti, intestati in parte alla società ed in parte al sig. A.M.M. (identificato quale amministratore di fatto dall’amministrazione finanziaria), sebbene fossero indicativi di rilevanti movimentazioni finanziarie, non consentiva, tuttavia, di individuare la giustificazione causale degli stessi e la natura delle operazioni; non risultava dimostrato, inoltre, che le suddette movimentazioni costituissero una fase terminale di un processo produttivo; non era indicativa, al fine di provare l’esistenza di una stabile organizzazione, la circostanza che la società avesse operato quale casa madre di una holding di un gruppo societario; la società, pertanto, aveva svolto un completo processo produttivo unicamente nei riguardi dei clienti italiani; avverso la pronuncia del giudice del gravame ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a due motivi di censura; la società è rimasta intimata; Considerato che – con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 162, d.P.R. n. 917/1986, per avere ritenuto, da un lato, che la società aveva svolto un completo processo produttivo solo nei riguardi dei clienti italiani, e dall’altro, che tale circostanza non fosse idonea a configurare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia; con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per insufficiente e contraddittoria motivazione, per non avere considerato diverse circostanze, evidenziate dalla ricorrente in sede di giudizio di appello, relative alla esistenza di una stabile organizzazione; i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto riguardano la questione della esistenza di una stabile organizzazione e della conseguente imponibilità del reddito di impresa prodotto, sono fondati; la questione centrale della fattispecie in esame attiene alla configurabilità di una stabile organizzazione in Italia della società G. S. & T.C. Ltd Inc., la quale, secondo la prospettazione dell’amministrazione finanziaria, avrebbe svolto nel territorio italiano un’attività di impresa per mezzo di A.M.M., il quale avrebbe compiuto una pluralità di attività per conto della suddetta, realizzando, in tal modo, una stabile organizzazione; in primo luogo, va osservato che, per quanto concerne la disciplina normativa da applicare in materia di stabile organizzazione, poiché le condotte di cui alle pretese impositive risultano essere state poste in essere in un arco temporale che va dal 1999 al 2006, per le condotte anteriori al 2004 il riferimento è costituito dall’art. 20, d.P.R. n. 917/1986, ratione temporis vigente, e, quindi, poiché la suddetta previsione normativa non forniva alcuna specifica
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definizione del concetto di stabile organizzazione, dall’art. 5, del modello di Convenzione OCSE; mentre, per quelle successive, occorre fa riferimento alla previsione di cui all’art. 162, d.P.R. n. 917/1986, introdotto con il decreto legislativo n. 344/2003; ai nostri fini, va precisato che l’art. 5 del modello di convenzione OCSE, definiva la “stabile organizzazione” quale una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività (...), ma al contempo escludeva, in ogni caso, che sussistesse una stabile organizzazione in diverse ipotesi specifiche caratterizzate, in sostanza, dall’utilizzo di installazioni insuscettibili di produrre reddito autonomo o, più precisamente, autonomamente accertabile secondo criteri oggettivi, in quanto aventi carattere preparatorio o ausiliario; la suddetta definizione era stata, peraltro, sostanzialmente riprodotta dal legislatore interno con la previsione di cui all’art. 162, d.P.R. 917/1986, nel testo ratione temporis vigente, sicchè è a quanto in essa contenuto, oltre nella previsione dell’art. 5, del modello di convezione OCSE, che deve essere fatto riferimento ai fini della verifica della corretta applicazione della disciplina normativa in esame nel caso di specie; va quindi precisato che, alla luce del suddetto quadro normativo, secondo questa Corte, per l’imponibilità del reddito d’impresa del soggetto non residente, è necessaria: una presenza che sia incardinata nel territorio dell’altro Stato e dotata di una certa stabilità; una sede di affari capace, anche solo in via potenziale, di produrre reddito; un’attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre, dovendo aggiungersi che, ai fini dell’applicazione delle imposte dirette, la relativa indagine deve essere condotta non solo sul piano formale, ma anche, e soprattutto, su quello sostanziale (Cass. civ., 6 giugno 2018, n. 14573; Cass. civ., 21 novembre 2018, n. 30033); ciò precisato, va in primo luogo considerato che, stando alla nozione di “stabile organizzazione” sopra delineata, quel che è necessario verificare è il fatto che, mediante la sede fissa di affari, la società con sede all’estero svolge la propria attività nel territorio italiano, cioè una attività economicamente rilevante per il soggetto cui la stessa è riferibile, da intendersi, peraltro, in senso ampio, fino a ricomprendervi anche lo svolgimento di una prestazione di servizi, o, in generale, qualunque attività di impresa, purchè riferibile, appunto, al soggetto che la esercita; d’altro lato, va altresì considerato che vanno escluse dal concetto di stabile organizzazione, come già evidenziato, quelle attività non suscettibili di produrre un reddito autonomo, quindi, di converso, possono rientrarvi solo quelle consistenti in un ciclo completo di attività imprenditoriale con un proprio risultato economico autonomo rispetto a quello conseguito dalla “casa madre”: in sostanza, non può ragionarsi in termini di stabile organizzazione quando non sussista un collegamento con l’attività produttiva dell’impresa; va quindi osservato che, laddove si accerti che una sede fissa di affari svolge contemporaneamente attività preparatorie e accessorie e attività che possono configurare l’esistenza di una stabile organizzazione, la sede fissa non può non essere considerata quale stabile organizzazione per l’intero; d’altro lato, ai fini dell’esclusione della considerazione delle attività svolte quali meramente preparatorie o accessorie, è necessario che le stesse siano rivolte esclusivamente all’impresa, sicchè,
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ove la sede fissa presti servizi contemporaneamente in favore di altre imprese, anche se facenti parte del gruppo in cui si colloca la casa madre, la sede fissa non svolge, in questo caso, una funzione meramente preparatoria o ausiliaria della casa madre di appartenenza, ma, per l’appunto, un’attività di impresa che, seppure riferibile alla casa madre, si tratteggia in termini economicamente autonomi, in quanto di per sé produttiva di un autonomo risultato economico; sotto tale profilo, la sentenza censurata è incorsa nella violazione di legge laddove ha ritenuto, in primo luogo, che non potesse configurarsi una stabile organizzazione se non per un processo produttivo limitato nei confronti dei clienti italiani (la società contribuente ha svolto un completo processo produttivo soltanto nei riguardi di clienti italiani): in realtà, la stabile organizzazione, come detto, sussiste per il solo fatto che si sia accertato che siano state realizzate attività di impresa dalla stabile organizzazione, essendo irrilevante il fatto che, unitamente ad esse, siano state, altresì, svolte attività accessorie o preparatorie in relazione ad ulteriori attività; in secondo luogo, va aggiunto che la norma in esame prevede che la sede fissa d’affari, per essere considerata una stabile organizzazione, deve essere utilizzata dall’impresa non residente per l’esercizio, in tutto o in parte, della “sua attività”, il che non implica necessariamente che l’attività da svolgere per mezzo della sede debba appartenere a quelle esercitate nel complesso dalla casa madre, essendo requisito necessario, invece, che sia svolta una qualunque attività di impresa, sia essa comparabile con taluna delle attività già esercitate sia di tipo diverso rispetto alle altre attività, purchè riconducibili al soggetto che la esercita; la pronuncia censurata, in realtà, con specifico riferimento alla natura di holding della società, ha genericamente prospettato una pluralità di possibili attività che la stessa avrebbe potuto esplicare (direzione, coordinamento, preparazione della operatività delle proprie controllate, intermediazione, tesoreria del gruppo) escludendo, genericamente ed in assoluto, proprio sulla base di tali pluralità di funzioni, la riconducibilità della fattispecie alla fattispecie della stabile organizzazione; in realtà, poiché le attività meramente preparatorie o ausiliarie sono quelle che, da un lato, non consentono di attribuire un reddito alla sede fissa d’affari mediante la quale sono esercitate, e, d’altro lato, sono rivolte esclusivamente in favore dell’impresa, ove la suddetta attività si traduce, di fatto, in una funzione di finanziamento ovvero in una prestazione di servizi in favore di altre imprese, anche se facenti parte del gruppo in cui si colloca la casa madre, non può, allora, ragionarsi in termini di ruolo svolto con finalità meramente preparatorie o ausiliarie della casa madre di appartenenza, essendo ipotizzabile il perseguimento di un autonomo risultato economico rispetto a quello conseguito dalla sede centrale mediante lo svolgimento di attività che non sono rivolte esclusivamente in funzione del ciclo produttivo dell’attività di impresa della casa madre; la pronuncia censurata, come detto, non ha provveduto ad una specifica valutazione delle singole e diverse attività che, sulla base degli elementi di fatto dedotti dall’amministrazione finanziaria, avrebbero potuto condurre a sussumere la fattispecie concreta nell’ambito della previsione normativa astratta, come più sopra delineata, incorrendo, anche sotto
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questo profilo, nel vizio di violazione di legge; d’altro lato, è parimenti fondato il secondo motivo di censura, attinente al vizio di insufficiente motivazione; nella stessa sentenza censurata si dà atto del peculiare ruolo assunto da A.M.M., secondo l’assunto posto a fondamento degli avvisi di accertamento il quale avrebbe compiuto per conto della società, nell’ambito della stabile organizzazione dallo stesso gestita, una pluralità di attività, consistenti nel perfezionamento di contratti di acquisto e vendita, nel reimpiego di denaro ottenuto dall’attività caratteristica in investimenti, finanziamenti, mutui a garanzia a beneficio suo o di terze persone fisiche e giuridiche, avvalendosi anche dell’apporto di terzi; questo quadro ricostruttivo, cui parte ricorrente fa riferimento riproducendo uno degli avvisi di accertamento notificati ed oggetto di impugnazione, non è stato specificamente analizzato dal giudice del gravame, che, proprio con riferimento al ruolo concretamente assunto da A.M.M. ed ai rapporti con la società, si è limitata a evidenziare la possibile commistione dell’attività dello stesso rispetto a quello della società, senza quindi valutare, ai fini dell’applicazione della previsione di cui al comma 6, dell’art. 162, d.P.R. n. 917/1986) le pluralità di attività dallo stesso svolte, evidenziate dalla ricorrente a pag. 12, punto 2), del ricorso, in particolare il fatto che lo stesso: emetteva le fatture per conto della società; conservava la documentazione nell’interesse della società; perfezionava contratti di vendita, apponendo la propria firma/sigla su tutte le fatture, curava i rapporti con gli intermediari bancari nazionali presso cui erano accessi conti correnti societari, esteri e in valuta, pagava i fornitori emettendo assegni tratti su conti correnti societari ma anche su conti intestati a persona fisica, dava disposizioni agli intermediari bancari di incassare le fatture; in particolare, quindi, non è stato specificamente analizzato, sulla base della documentazione a disposizione, il peculiare rapporto esistente tra la società e A. e il ruolo dallo stesso svolto per conto della stessa; inoltre, non è stata specificamente analizzata la pluralità di attività concretamente esercitate, in particolare l’attività di acquisto per conto delle consociate e la circostanza che i corrispettivi venivano inviati direttamente sui conti correnti accesi in Italia e l’eventuale natura di intermediazione della medesima ovvero la specifica funzione di finanziamento svolta, ovvero ancora, ai fini dell’inquadramento della fattispecie nell’ambito della previsione di cui all’art. 162, comma 6, d.P.R. n. 917/1986, dell’attività di reimpiego del denaro; si tratta, in particolare, di fatti rilevanti e decisivi non sufficientemente esaminati dal giudice del gravame, ai fini della valutazione della natura dell’attività svolta e dell’inquadramento degli stessi nella fattispecie della stabile organizzazione; in conclusione, i motivi sono fondati, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio. P.Q.M. accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
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(1) La stabile organizzazione tra presente e futuro. Sommario: 1. La stabile organizzazione nella dimensione tradizionale. – 2. La
digitalizzazione dell’economia e il rinnovato dibattito sulla stabile organizzazione. – 3. La vicenda controversa e la posizione della Cassazione. – 4. La definizione di stabile organizzazione materiale e la rilevanza della lista negativa. – 5. Il perimetro della stabile organizzazione materiale secondo la Cassazione: punti fermi e profili critici. – 6. Spunti sulla stabile organizzazione personale. – 7. Qualche considerazione conclusiva (ma non troppo). La stabile organizzazione è un concetto in rapido divenire, sebbene a livello internazionale non si sia ancora raggiunto un accordo su come esso debba essere modificato nel nuovo contesto dell’economia digitalizzata. Tuttavia, vi sono ancora ampi settori nei quali la materialità dell’insediamento dell’impresa in un altro ordinamento resta decisiva e, con essa, la definizione tradizionale di stabile organizzazione. La sentenza della Cassazione in commento si occupa proprio di uno di questi casi e conferma la perdurante vitalità di una nozione che manifesta continui profili problematici. La sentenza si sofferma sia sulla stabile materiale che su quella personale: rispetto alla prima, essa consente di valorizzare a fini definitori la lista negativa di cui all’art. 162, comma 4, del TUIR; rispetto alla seconda, introduce – pur senza risolverla – la questione del ruolo dell’agente nella stipula di contratti per la casa madre. The concept of permanent establishment is evolving rapidly, although there is still no international agreement on how it should be modified in the new context of the digital economy. However, there are still large areas where the materiality of the establishment of the enterprise in another jurisdiction remains decisive and, with it, the traditional definition of permanent establishment. The Italian Supreme Court’s judgment under review deals with just one of these cases and confirms the enduring vitality of a notion that shows continuous problematic profiles. The judgment deals with both material and personal permanent establishments: with respect to the former, it allows the negative list set forth in Article 162(4) of the TUIR to be enhanced for definitional purposes; with respect to the latter, it introduces – though without resolving it – the issue of the agent’s role in entering into contracts for the parent company.
1. La stabile organizzazione nella dimensione tradizionale. – La stabile organizzazione è un concetto antico del diritto tributario internazionale; ciò nonostante essa conserva, in seno ad esso, un ruolo estremamente attuale (1).
(1) Così si esprime C. Garcìa Novoa, Permanent Establishment. New Concept, in European Financial Law in Times of Crisis of the European Union, a cura di Hulkó e Vybíral,
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La nozione di stabile organizzazione figura già in talune convenzioni internazionali stipulate alla fine del secolo XIX ed è stata presente, poi, nei modelli di convenzione bilaterale elaborati dalla Società delle Nazioni nel 1928 (2). Con l’apparizione del Modello OCSE, ad essa viene dedicata sin dalla prima versione del 1963 un’apposita definizione, l’art. 5, nonché una disposizione volta a delinearne la funzione, ovvero l’art. 7. Si può dire, dunque, che la consapevolezza della rilevanza della stabile organizzazione abbia da sempre accompagnato la riflessione sui modi di regolamentazione della imposizione internazionale; e che, in particolare, l’intera parabola del diritto tributario internazionale moderno, che in qualche modo può essere fatta coincidere con lo sviluppo dell’attività dell’OCSE nel secondo dopoguerra, sia in qualche modo ad essa legata. La funzione della stabile organizzazione, quella di collegare ad un certo ordinamento il reddito prodotto da un’impresa non residente, emerge dall’art. 7 del Modello OCSE -così come riprodotto in un numero elevatissimo di convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni- e realizza un’eccezione al principio secondo il quale il reddito d’impresa è imponibile unicamente nello Stato di residenza dell’impresa. Tale eccezione, a sua volta, si giustifica, di fatto, con l’esigenza di tutelare il principio di territorialità e di consentire, pertanto, all’ordinamento nel quale viene prodotta parte di quel reddito di portare ad esecuzione la propria legittima pretesa impositiva (3). Coerentemente con tale funzione, la definizione di stabile organizzazione, quale emersa per l’appunto nel corso del secolo scorso, oscilla tra una dimensione materiale ed una personale, le quali tuttavia altro non sono che due distinte manifestazioni di un fenomeno unitario: quello della presenza concreta, non solo economica ma anche organizzativa e funzionale, dell’impresa estera nel contesto di un certo mercato. Si può dire che il successo della nozione di stabile organizzazione si connette all’affermazione di forme di imposizione personale del reddito, lega-
Budapest, 2019, 445 ss. (2) Cfr. G. Fransoni, La stabile organizzazione: nihil sub sole novi?, in Rivista di diritto tributario, 2015, 123 ss. Per un ampio inquadramento storico di questo istituto, si vedano J. Bellemare, Evolution of the Permanent Establishment Concept, in Canadian Tax Journal, 2017, 725 ss.; e J. Sasseville, The History of the Permanent Establishment Concept: Two Questions, in New Trends in the Definition of Permanent Establishment, a cura di Maisto, Amsterdam, 2019, 3 ss. (3) Sulla territorialità, in generale, si veda R. Cordeiro Guerra, I limiti alla potestà impositiva ultraterritoriale, in Rivista trimestrale di diritto tributario, 2012, 31 ss.
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te cioè alla residenza fiscale e quindi in una certa misura insensibili al luogo dove quel reddito viene prodotto, e manifesti l’esigenza che sia comunque preservata la sovranità fiscale dello Stato della fonte in presenza di un inserimento qualificato dell’attività del soggetto non residente nel suo territorio (4). L’affermazione di una simile regolamentazione sul piano internazionale ha costituito, poi, il volano per la sua penetrazione anche nei sistemi fiscali nazionali, i quali molto spesso si sono dotati di norme interne ricalcanti il modello proveniente dall’OCSE. È questo il caso dell’ordinamento italiano nel quale, come ricorda anche la sentenza che si commenta, dapprima si è fatto integrale riferimento alla nozione internazionale di stabile organizzazione (5), salvo poi prevedere una definizione interna – l’art. 162 del TUIR introdotto con la riforma Tremonti del 2003 – comunque quasi integralmente costruita sul modello internazionale (6). Si tratta di un fenomeno, questo, che ribadisce ancora una volta l’ampia condivisione di vedute sulla definizione e sulla funzione della stabile organizzazione e che, allo stesso tempo, ha consentito un arricchimento dei termini del dibattito intorno ad essa. Il caso italiano è, anche al riguardo, emblematico. Qui il tema è assai vivo, sia sul versante della funzione della nozione, sia su quello delle sue interrelazioni con la residenza fiscale. Dal punto di vista definitorio, prevale l’orientamento che riconduce la stabile organizzazione nell’alveo della tematica dei criteri di collegamento, riguardando essa la localizzazione dell’ente all’interno di un ordinamento tributario senza che ad essa possa essere attribuita una autonoma soggettività passiva (7). Vi è ancora, tuttavia, un indirizzo che interpreta la stabile organizzazione quale mero elemento qualificatorio del reddito d’impresa, nel senso
(4) In merito all’interazione sempre più stretta, nei moderni sistemi fiscali, tra criteri di collegamento territoriali e criteri di collegamento personali, cfr. G. Fransoni, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2000. Una interazione che manifesterebbe una crisi della nozione di residenza (Sacchetto, L’evoluzione del principio di territorialità e la crisi della tassazione mondiale nel paese di residenza, in Rivista di diritto tributario internazionale, 2001, 35 ss.). (5) La prassi di riferirsi, prima dell’introduzione dell’art. 162 del TUIR, all’art. 5 del Modello OCSE è ricordata da E. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo TUIR, in Rassegna tributaria, 2004, 1597 ss., 1598. (6) Lo osserva, sulla base dell’esame dei lavori preparatori della novella, P. Arginelli, Italian Supreme Court deals with the notion of preparatory and auxiliary activities for the purpose of establishing the existence of a permanent establishment in Italy and determining its taxable profits, in Rivista telematica di diritto tributario, 16/12/2020. (7) Cfr. F. Paparella, Stabile organizzazione, in Enciclopedia giuridica Treccani. Diritto Online, 2016.
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che la presenza di una stabile organizzazione di ente commerciale estero nel territorio dello Stato consente di attrarre nell’alveo del reddito d’impresa i proventi attraverso quella conseguiti (8). L’incertezza dei confini del concetto di stabile organizzazione induce la dottrina a interrogarsi sulle relazioni con altri istituti di localizzazione dei soggetti passivi, in particolare quello di residenza fiscale. Ciò anche alla luce di una serie di pronunce della Cassazione che evidentemente confondono le due nozioni, sostenendo che la presenza di una stabile organizzazione sarebbe elemento idoneo a manifestare la localizzazione ivi della residenza fiscale dell’ente (9). Viene quindi sostenuto che la stabile organizzazione sia un “quasi-soggetto”, il quale ha sì una prevalente funzione di localizzazione del reddito ma manifesta allo stesso tempo, e proprio per effetto di una rivisitazione degli elementi costitutivi della residenza, caratteri propri della soggettività passiva (10). Insomma, la stabile organizzazione -concetto antico ed ormai sedimentato a livello internazionale ed interno- sembrerebbe essere un punto fermo nel contesto del diritto tributario internazionale odierno. Eppure, come si accennava poco sopra, essa si colloca oggi al cuore del dibattito sul nuovo modo di essere della materia al tempo dell’economia digitale e delle imprese multinazionali capaci, come “repubbliche digitali”, di competere con gli Stati per forza economica e controllo della disciplina normativa. Appare evidente come tali forme di business possano svolgersi (e, di fatto, si svolgano) senza che vi sia alcun inserimento materiale dell’impresa non residente nell’ordinamento nel quale risiedono gli utenti. Ciò significa che la definizione tradizionale di stabile organizzazione non può in questi casi essere invocata, con conseguente impossibilità per lo Stato di avanzare alcuna pretesa impositiva sul reddito che pure, in qualche modo, affonda le sue radici nel suo mercato (11).
(8) Si veda la tesi di recente ribadita da L. Perrone, Reddito d’impresa di società non residenti prive di stabile organizzazione, in Rassegna tributaria, 1/2014, 37 ss. (9) Effettua una panoramica critica di tale non condivisibile orientamento della Cassazione G. Melis, Le interrelazioni tra le nozioni di residenza fiscale e stabile organizzazione: problemi ancora aperti e possibili soluzioni, in Diritto e pratica tributaria, 1/2014, 29 ss. (10) Cfr. ancora G. Melis, op. ult. cit., 44. (11) Il tema della stabile organizzazione nell’era digitale è esplorato da P. Pistone, Permanent Establishment and the Digital Economy, in New Trends in the Definition of Permanent Establishment, a cura di Maisto, cit., 199 ss.
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2. La digitalizzazione dell’economia e il rinnovato dibattito sulla stabile organizzazione. – Questa situazione ha iniziato a destare preoccupazione nel momento in cui ci si è resi conto della mole di ricchezza generata dalle multinazionali (anche digitali) nel territorio di molti Stati e dell’ammontare assolutamente esiguo di imposte ivi pagate: il più delle volte, infatti, esse mantengono fuori dallo Stato di residenza delle stabili organizzazioni materiali che si occupano di svolgere funzioni del tutto secondarie (ad esempio di assistenza tecnica o post-vendita) e che quindi dichiarano e tassano nello Stato dove si collocano un imponibile di entità trascurabile. La parte preponderante del reddito, che pure deriva da attività digitali svolte in quello Stato e coinvolgenti utenti ivi residenti, sfugge alle maglie delle norme interne per essere convogliato verso altre giurisdizioni e, verosimilmente, del tutto sottratto ad una imposizione secondo le regole ordinarie. Allo stesso tempo, lo spezzettamento delle funzioni del gruppo multinazionale rende particolarmente complessa la ricostruzione della catena del valore, ponendo ostacoli all’individuazione del luogo ove effettivamente si crea il valore, come tale legittimato a sottoporre a imposizione la ricchezza prodotta dall’impresa non residente (12). Rispetto a questo contesto così sfuggente, il tema del nexus e, quindi, del modo con cui uno Stato può intercettare la ricchezza prodotta entro i suoi confini da un’impresa non residente costituisce il fulcro del dibattito, che pure ad oggi non è riuscito a pervenire ad esiti condivisi. Per quanto riguarda l’OCSE, il progetto BEPS (13) ha sì dedicato una specifica azione alle sfide fiscali dell’economia digitale; tuttavia, gli Stati partecipanti non sono riusciti a concordare una nuova forma di nexus per l’individuazione di una stabile organizzazione nel caso di presenza dematerializzata in un dato ordinamento (14). Una situazione di stallo mantenuta anche nei
(12) La natura sfuggente della nozione di luogo dove il valore è creato, nell’ambito dell’economia digitale, è messa in evidenza da W. Schön, Ten Questions About Why and How to Tax the Digitalized Economy, in Bulletin for international taxation, 2018, 280 ss. (13) Il progetto BEPS, acronimo di base erosion and profit shifting, è stato sviluppato dal Comitato Affari Fiscali dell’OCSE e condiviso dal G20 nella sua riunione del settembre 2013. Dopo un biennio di lavori, che hanno visto coinvolti gli Stati membri dell’OCSE e quelli partecipanti al G20, nel novembre 2015 sono state approvate le 15 azioni del c.d. BEPS Package. La letteratura, specie internazionale, sul BEPS è amplissima e non se ne può ovviamente dar conto in modo dettagliato. Per un inquadramento generale del progetto e dei suoi esiti, si può tuttavia rinviare a Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) (a cura di Lang, Pistone, Rust, Schuch e Staringer), Vienna, 2016. (14) In effetti, il rapporto finale del progetto BEPS non raccomanda alcuna delle poten-
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successivi sviluppi e che rende piuttosto dubbio il rispetto del ruolino di marcia che l’organizzazione si è data per pervenire al varo del nuovo regime. In ogni caso, i lavori del BEPS e dell’Interim Framework, istituito proprio per completare gli obiettivi del progetto, devono essere tenuti in considerazione, dal momento che tra le soluzioni in astratto proposte per sottoporre a giusta imposizione i redditi delle multinazionali digitali si trova contemplata anche la possibilità di un adattamento della nozione di stabile organizzazione (15). Si fa riferimento a questo riguardo ad una stabile organizzazione “virtuale” o “digitale”, già in qualche misura preconizzata dalla dottrina internazionale (16), attraverso la quale l’inserimento dell’impresa non residente in uno Stato verrebbe manifestato da indici di carattere economico ma anche digitale. Sul primo versante, l’OCSE suggerisce di valorizzare l’entità dei redditi generati in uno Stato attraverso transazioni digitali poste in essere dall’impresa non residente da remoto, quindi avvalendosi di un sito internet o di una piattaforma digitale. In questo caso, vi è l’esigenza che siano previste delle soglie quantitative, in modo da evitare di coinvolgere imprese di piccole dimensioni per le quali i costi per gli adempimenti conseguenti al riconoscimento di una stabile organizzazione sarebbero antieconomici (17). Tale profilo, senz’altro necessario, non è però considerato sufficiente. Secondo l’action 1 del progetto BEPS l’esistenza di un flusso reddituale proveniente da uno Stato per effetto di transazioni digitali non basta per riconoscere in modo univoco una presenza imponibile dell’impresa non residente in esso. Pertanto, al reddito devono collegarsi ulteriori elementi che sono idonei a rivelare un collegamento con l’ordinamento straniero. Si fa riferimento, a titolo esemplificativo, ad un dominio internet locale – ad esempio con il suffisso rappresentato dalla sigla dello Stato ospite –, ad un sito tradotto nella lingua locale ovvero alla possibilità per l’utente di utilizzare mezzi di pagamento propri del suo ordinamento per effettuare la transazione. In aggiunta, l’OCSE
ziali soluzioni individuate, lasciando ad una successiva elaborazione il compito di trovare una sintesi. (15) J.A. Gómez Requena, S. Moreno González, Adapting the Concept of Permanent Establishment to the Context of Digital Commerce: From Fixity to Significant Digital Economic Presence, in Intertax, 2017, 732 ss. (16) P. Hongler, P. Pistone, Blueprints for a New Nexus to Tax Business Income in the Era of the Digital Economy, in IBFD Working Paper, 2015. (17) Si veda quanto esposto nell’Action 1 Final Report Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, 2015, 107 ss.
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richiama il numero di contratti conclusi digitalmente con utenti locali ovvero l’entità dei dati digitali raccolti in uno Stato attraverso utenti ivi digitalmente presenti. Pur trattandosi pur sempre di caratteristiche immateriali, esse paiono indicative di un effettivo collegamento dell’impresa non residente nel tessuto economico e sociale di un dato ordinamento: esse, in sostanza, consentono di qualificare il flusso reddituale, ancorandolo a quello e pertanto giustificando il suo assoggettamento ad imposizione. Insomma, non è chiaro se nelle intenzioni degli Stati partecipanti ai lavori del BEPS vi sia o meno quella di superare la nozione di stabile organizzazione; in ogni caso, viene ribadita l’esigenza che l’esercizio della potestà impositiva da parte di uno Stato diverso da quello di residenza dell’impresa si giustifichi con un collegamento non transitorio tra questa e quello, in continuità dunque con la “filosofia” che da sempre ha contraddistinto la nozione di stabile organizzazione. Non dissimile, quanto meno nelle premesse, la posizione assunta dalla Commissione UE, sebbene anche in questo caso gli Stati membri non siano fino ad ora riusciti a raggiungere una sintesi, preferendosi attendere gli esiti dei lavori dell’Inclusive Framework. Nella proposta di direttiva 147, presentata dalla Commissione nel marzo 2018 (18), viene fatto espresso riferimento all’obiettivo di “ampliare il concetto di stabile organizzazione” (19), allo scopo di sottoporre gli utili d’impresa al regime fiscale dello Stato nel quale il valore è effettivamente creato (20). La proposta di direttiva introduce, così, la nozione di “presenza digitale significativa” quale nesso imponibile rilevante con un ordinamento: essa si manifesta in presenza dello svolgimento, da parte di un’impresa non residente, di
(18) Sul pacchetto relativo alla tassazione dell’economia digitale, presentato dalla Commissione UE nel marzo 2017, si rinvia a A. Tomassini, A. Sandalo, L’iniziativa della Commissione UE sulla tassazione dell’economia digitale, in Corriere tributario, 2018, 1395 ss. (19) L’art. 1 della Proposta di direttiva COM (2018) 147 final del 21 marzo 2018 stabilisce che “la presente direttiva stabilisce norme intese ad ampliare il concetto di stabile organizzazione, applicabile ai fini dell’imposta sulle società in ciascuno Stato membro, allo scopo di includere una presenza digitale significativa attraverso la quale è esercitata, in tutto o in parte, un’attività”. Nell’illustrazione della proposta, ad essa allegata, si legge altresì che tale concetto “dovrebbe essere considerato un’integrazione dell’attuale concetto di stabile organizzazione”. (20) Nel sesto considerando introduttivo della proposta di direttiva è specificato che “le soglie applicabili dovrebbero rispecchiare l’importanza della presenza digitale per diversi tipi di modelli d’impresa e tener conto dei diversi gradi di contributo al processo di creazione di valore”.
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servizi digitali dematerializzati, ovvero resi senza l’impiego di attività umana, laddove sia superata una delle tre soglie individuate dall’art. 4. Si tratta dei ricavi (maggiori di € 7 milioni), del numero di utenti “situati” nello Stato (oltre 100.000) ovvero dei contratti commerciali ivi stipulati (oltre 3.000). Come reso palese dalla stessa Commissione, la presenza digitale significativa mira a “catturare” un nesso imponibile tra un’impresa non residente ed un ordinamento in assenza di un collegamento di tipo materiale, valorizzando a tale scopo il ruolo degli utenti come strumenti di creazione del valore (21). Si tratta di una posizione assimilabile a quella proposta in seno all’action 1 del BEPS, anche se in quel caso parrebbe che il flusso reddituale sia sempre richiesto, in aggiunta a qualche altro elemento di connessione digitale con lo Stato. Nel sistema delineato dalla proposta di direttiva 147, invece, il reddito diviene solo uno degli indicatori rilevanti, che potrebbe in certi casi mancare (nel senso di non raggiungere la soglia) senza che ciò pregiudichi il riconoscimento di una presenza digitale significativa. Il focus della proposta europea è, quindi, centrato come detto sull’utente, che rappresenta un collegamento economico rilevante non solo in quanto acquirente di un prodotto o servizio, quanto piuttosto come asset irrinunciabile dell’attività economica dell’impresa digitale, essendo titolare di dati profilabili ed utilizzabili per generare utili (22). La discussione sulla correttezza di un simile approccio è aperta e non mancano le voci contrarie a ritenere che la collocazione dell’utente non sia, di per sé, sintomatica della creazione del valore per l’impresa digitale (23). Non è certo questa la sede per analizzare tali critiche, ciò che tra l’altro non rileva ai fini dell’esame che si sta svolgendo. Quel che vale la pena sottolineare è che anche l’Unione europea auspica come soluzione a regime quella che, senza rinnegare i fondamenti del diritto tributario internazionale “classico”, rinno-
(21) Si veda, ancora, l’illustrazione dell’art. 4 della proposta, secondo la quale i criteri “che consentono di determinare l’impronta digitale di un’impresa in una giurisdizione sulla base di determinati indicatori di attività economica (…) dovrebbero tener conto della dipendenza delle imprese digitali da un’ampia base di utenti, dalla partecipazione degli utenti e dai loro contributi, nonché del valore creato dagli utenti per tali imprese”. (22) Secondo due autori, “insofar as the role of users becomes that of active customers of a digitalized business, attracting at least a portion of such income to the country of the users is, in our view, reasonable” (Y. Brauner, P. Pistone, Some Comments on the Attribution of Profits to the Digital Permanent Establishment, in Bulletin for international taxation, 2018). (23) Si tratta della posizione, tra gli altri di J. Englisch, Taxing Where Value Is Created: What’s ‘User Involvement’ Got to Do With It?, in Intertax, 2019, 161 ss.
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va la nozione di stabile organizzazione, provando a individuare nuove forme di collegamento tra impresa e ordinamento rese possibili dalle caratteristiche dell’economia digitale. Si tratta, in ogni caso, di un’elaborazione che mira a creare una nuova species del genus “stabile organizzazione” applicabile al caso di completa dematerializzazione del business svolto dall’impresa nello Stato diverso da quello di residenza. L’impasse che si è verificata, fino ad ora, sui progetti relativi alla nuova nozione di stabile organizzazione a livello internazionale ed europeo ha sollecitato l’adozione di misure unilaterali da parte di taluni Stati. L’Italia è stata in questo ambito particolarmente attiva: la discussione circa l’introduzione di una imposta sulle transazioni digitali è risalente e la prima proposta di legge è stata formalizzata nel 2013 (24), sebbene nessuna disposizione sia stata approvata fino alla legge n. 205 del 2017. Nel contesto attuale, il nostro ordinamento prevede una serie di istituti che sembrano, in astratto, idonei a sottoporre a giusta imposizione il reddito delle multinazionali digitali: una imposta sui servizi digitali, disciplinata dalla legge di bilancio per il 2019 e ricalcata sulla proposta di direttiva 148/2018 della Commissione (25); ed una nuova ipotesi di stabile organizzazione, oggi prevista dalla lettera f-bis) dell’art. 162, comma 2, del TUIR, introdotta dalla sopra citata legge del 2017. Sembrerebbe, addirittura, che l’ordinamento italiano abbia realizzato una piena conformazione al complessivo disegno configurato dalla Commissione UE, dando attuazione in modo coordinato tanto alla misura transitoria (imposta sui ricavi delle grandi multinazionali digitali) quanto a quella a regime (la presenza digitale significativa). La sentenza che si commenta, dunque, riguarda una tematica estremamente attuale e complessa. Essa si colloca in un filone ormai risalente di forte attivismo giudiziario sul tema della stabile organizzazione, non sempre peraltro condotto con lucidità e rigore (come dimostrano le sentenze, ormai numerose,
(24) Per una ricognizione delle numerose proposte di legge presentate sul tema e non tradotte in norma, cfr. S. Mayr, G. Fort, La nuova definizione di stabile organizzazione (art. 162 del Tuir), in Bollettino tributario d’informazioni, 2018, 487 ss. (25) Lo aveva notato correttamente, ancor prima dell’intervento legislativo domestico, A. Tomassini, L’incerta corsa alla tassazione dell’economia digitale, in Corriere tributario, 2018, 169 ss. Sui limiti dell’iniziativa unilaterale italiana, si veda l’analisi (ampiamente critica) di L. del Federico, La via italiana alla tassazione del Web: un intervento poco meditato, ma dalle condivisibili finalità, in Rivista trimestrale di diritto tributario, 2014, 913 ss.
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che sovrappongono residenza fiscale e stabile organizzazione (26)), ed appare utile anche per effettuare talune puntualizzazioni sull’evoluzione del concetto di stabile organizzazione. La vicenda oggetto della pronuncia, come subito si dirà, si pone a cavallo dell’introduzione dell’art. 162 del TUIR nel 2003, mettendo così in evidenza la sostanziale continuità interpretativa tra il periodo antecedente alla riforma e quello successivo, centrata sulla rilevanza del modello internazionale; allo stesso tempo, essa viene pronunciata in un contesto storico, come quello appena tratteggiato, di sostanziale crisi della nozione, come tale denso di incertezze per l’interprete così come per l’operatore pratico. La sentenza della Cassazione, allora, può contribuire a focalizzare, anche in ambito evolutivo e diacronico, i punti fermi e le caratteristiche mobili di un istituto in via di rapido mutamento. 3. La vicenda controversa e la posizione della Cassazione. – La vicenda dalla quale scaturisce la sentenza in commento non emerge con chiarezza dalla lettura di quest’ultima. Risulta che una società extraeuropea (27) operasse in Italia acquistando materiale lapideo presso imprese estrattrici e poi rivendendolo sia in Italia che all’estero. Figura centrale di tale attività era una persona fisica, indicata dall’Agenzia delle Entrate quale “amministratore di fatto” della stabile organizzazione, la quale avrebbe agito per conto della società non residente svolgendo una pluralità di funzioni, dalla stipula di contratti all’emissione delle fatture e alla tenuta dei rapporti con operatori locali come ad esempio gli intermediari finanziari. Rispetto a tale situazione, l’amministrazione finanziaria ha ritenuto che fosse ravvisabile una stabile organizzazione in Italia del soggetto estero, ma non è di immediata comprensione il modo con cui tale struttura sia stata qualificata, se cioè si sia trattato di una SO materiale oppure di una stabile personale facente capo alla suddetta persona fisica. Si vedrà, peraltro, come l’approccio interpretativo della Cassazione consenta di superare le incertezze, essendosi essa occupata tanto del profilo materiale quanto di quello personale. Nei due gradi di merito del giudizio originato dall’impugnazione degli avvisi di accertamento – relativi ad un arco temporale che va dal 1999 al 2006 – era stata data alla vicenda una soluzione intermedia. Le ragioni della
(26) Per una interpretazione critica di tale indirizzo, si veda E. Della Valle, Residenza e stabile organizzazione, in Rassegna tributaria, 2016, 871 ss. (27) Secondo P. Arginelli, op. cit., si tratterebbe di una società di diritto panamense.
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società estera erano, infatti, state parzialmente accolte sulla base della ritenuta sussistenza in Italia di una stabile organizzazione solo in relazione alle attività di acquisto dei materiali lapidei e successiva rivendita a clienti italiani. Tale impostazione si trova chiarita nella sentenza di secondo grado, per la quale – come si legge nella pronuncia della Cassazione – la società non residente “aveva svolto un completo processo produttivo solo nei riguardi dei clienti italiani”. Quel che sul piano della ricostruzione teorica dell’istituto della SO emerge dalla fase di merito della vicenda processuale è, dunque, che la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia deve essere apprezzata sul piano della qualità delle attività attraverso di essa poste in essere. Ciò nel senso che occorre che l’ente non residente svolga in Italia l’intero ciclo industriale o commerciale che le è proprio, essendo invece irrilevanti quelle situazioni nelle quali la presenza operativa o commerciale sia solo parziale. Tale interpretazione è stata oggetto del primo motivo di impugnazione della sentenza della CTR da parte dell’Ufficio, riguardante l’asserita violazione dell’art. 162 TUIR ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3, c.p.c. Tuttavia, dalla lettura del secondo motivo di ricorso per cassazione, si evince un secondo ordine di argomenti, più direttamente afferente la SO personale. A fronte di elementi di fatto addotti dall’Ufficio medesimo e relativi proprio alle attività poste in essere direttamente dalla persona fisica nell’interesse della società estera, l’amministrazione finanziaria ha contestato l’insufficiente e contraddittoria motivazione – ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5, c.p.c. – per non avere i giudici di seconde cure considerato siffatti elementi ai fini del giudizio di sussistenza di una stabile organizzazione. Quest’ultimo profilo, pertanto, evoca una verifica relativa alla SO personale che, secondo l’Ufficio, sarebbe mancata. La Cassazione ha, innanzitutto, dato atto che la vicenda si era dipanata a cavallo dell’introduzione nel nostro ordinamento, nel 2003 come detto, di una autonoma definizione interna di stabile organizzazione. Essa ha, correttamente, evidenziato come prima dell’introduzione dell’art. 162 del TUIR si dovesse far riferimento alla nozione di SO elaborata in ambito OCSE; e che, anche successivamente, il riferimento all’art. 5 del Modello OCSE fosse imposto dalla sostanziale natura della norma interna quale riproduzione del modello internazionale. Su tale base, essa ha accolto il primo motivo di ricorso, concernente la violazione dell’art. 162 del TUIR. Facendo riferimento al primo comma della disposizione e, quindi, alla stabile organizzazione materiale, la Corte – richiamati gli elementi fondamentali che concorrono a definire tale concetto – ha
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affermato l’esigenza di leggere tali elementi positivi in coordinamento con la lista negativa di cui al comma 4. L’esclusione dal novero della SO di una certa presenza organizzata di un ente non residente in Italia va quindi, per la sentenza, affermata solo laddove tale presenza non superi il confine proprio delle attività ausiliarie e preparatorie. In questo senso, la sentenza della CTR viene censurata per aver escluso la sussistenza di una stabile organizzazione laddove l’attività svolta in Italia non assurgesse a ciclo economico completo dell’impresa, senza tuttavia verificare se la quota parte di attività esercitata in Italia si limitasse a mero ausilio o preparazione dell’attività principale ovvero, superando tale limite, fuoriuscisse dall’eccezione contemplata, per l’appunto, dal predetto quarto comma. Come meglio si dirà in seguito, questa parte della sentenza è di interesse nella misura in cui postula che la verifica concernente una SO materiale sia condotta sia in positivo, valutando la sussistenza degli elementi definitori di cui al primo comma dell’art. 162 del TUIR, sia in negativo, per escludere che nel caso specifico si versi in una delle situazioni contemplate dalla lista negativa. Allo stesso tempo, due sono i passaggi di maggior rilievo del ragionamento della Suprema Corte: il primo, che laddove un certo insediamento ponga in essere tanto attività chiaramente economiche quanto funzioni ausiliarie o preparatorie, esso deve essere considerato nella sua interezza quale stabile organizzazione; il secondo, che il giudizio circa la natura di certe attività quali ausiliarie o preparatorie non può essere compiuto esclusivamente sul piano oggettivo, ma deve riguardare anche i destinatari delle stesse. Ciò nel senso che la natura ausiliaria o preparatoria può sussistere solo laddove l’attività sia rivolta alla casa madre e non nel caso in cui di essa (si pensi ad esempio ad una indagine di mercato) avvantaggi soggetti diversi, seppure appartenenti al medesimo gruppo. Anche il secondo motivo è stato accolto dalla Cassazione, la quale ha in effetti riconosciuto l’esigenza che il giudice del merito valuti il ruolo assunto dalla persona fisica amministratrice di fatto della SO, in particolare verificando se le molteplici attività da questa realizzate per conto dell’impresa non residente siano sufficienti per radicare in Italia una SO personale ai sensi del sesto comma dell’art. 162 del TUIR. Pur mancando un approfondimento su questo profilo – come è del resto ovvio trattandosi di una verifica in fatto preclusa al giudice di legittimità – anche questa parte della sentenza manifesta almeno due spunti meritevoli di interesse: da un lato, vengono elencate una serie di funzioni svolte dalla persona fisica nel caso concreto, la cui attitudine a provare una SO personale può essere valutata anche alla luce della più recen-
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te evoluzione normativa di tale nozione; dall’altra, si afferma il principio secondo cui, laddove non sia possibile provare l’esistenza di una SO materiale, è opportuno – per escludere qualsiasi pretesa fiscale dello Stato nei confronti dei redditi prodotti dall’impresa estera – effettuare una verifica concernente la sussumibilità della fattispecie nei parametri della SO personale. Così riassunta la vicenda e la pronuncia della Cassazione, si tratta adesso di entrare nel dettaglio delle due parti che contraddistinguono quest’ultima – quella sulla SO materiale e quella concernente la SO personale – in modo da valutare la coerenza dell’interpretazione della Suprema Corte sia con riferimento al modello tradizionale di SO, sia con riguardo all’evoluzione più recente (e controversa) di tale istituto, del quale si è accennato nel corso del paragrafo introduttivo. 4. La definizione di stabile organizzazione materiale e la rilevanza della lista negativa. – Si è detto che un primo profilo di interesse della sentenza in commento riguarda i contorni della SO materiale. Come è noto, la lettura del primo comma dell’art. 162 TUIR individua quattro elementi caratteristici della stabile organizzazione: l’installazione d’affari, la sua stabilità, la connessione di essa con il normale esercizio dell’impresa e l’idoneità della stessa a produrre reddito (28). La Cassazione individua correttamente tali elementi costitutivi, sebbene valorizzi in aggiunta anche la circostanza che la sede fissa debba aver riguardo a “un’attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre”, in tal modo confondendo la definizione di SO con la metodologia di determinazione del reddito ad essa attribuibile. In effetti, dal punto di vista definitorio non esiste alcuna “autonomia” della SO rispetto alla casa madre: essa è semplicemente un’articolazione operativa di quest’ultima, la modalità attraverso l’impresa non residente svolge attività commerciale in uno Stato diverso da quello al cui ordinamento appartiene. L’autonomia viene presunta, secondo la metodologia della functionally separate entity (29), solo allo scopo di calcolare la frazione del reddito complessivo dell’impresa non residente imputabile alla stabile organizzazione, ma si tratta – per l’appunto – di una
(28) Così R. Cordeiro Guerra, Le norme tributarie italiane relative a fattispecie con elementi di estraneità, in Diritto tributario internazionale. Istituzioni, a cura di Cordeiro Guerra, Milano, 2016, 485 ss., 518. (29) Sulla quale cfr. F. Tundo, Stabile organizzazione personale e determinazione del reddito secondo le recenti direttive OCSE, in Rassegna tributaria, 2011, 305 ss.
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finzione rispetto ad un soggetto che va considerato per tutti gli altri profili unitariamente. Piuttosto, l’aspetto convincente della pronuncia della Cassazione riguarda, come si è accennato, la considerazione del ruolo della lista negativa di cui al quarto comma al fine di delimitare la definizione di stabile organizzazione. Di fatto, la sentenza sostiene che non si può comprendere la stabile organizzazione materiale se non leggendo nello stesso momento la descrizione generale del primo comma e la serie di esclusioni di cui al comma 4, dal momento che entrambe concorrono – per quanto l’una in positivo e l’altra in negativo – a delineare i confini della fattispecie (30). In effetti, la SO rappresenta in primo luogo un criterio di collegamento (31). I quattro elementi in precedenza evocati indicano l’inserimento dell’attività svolta in un’organizzazione che ha legami stabili con l’ordinamento che la ospita e la funzionalizzazione di tale organizzazione alla produzione del reddito proprio della casa madre. Essa manifesta, quindi, un connotato dinamico, nel senso che l’organizzazione non riguarda beni considerati nella loro staticità, ma l’attività che attraverso di essi il soggetto non residente svolge nel territorio estero. Allo stesso tempo, questa “organizzazione di attività” – secondo la felice espressione utilizzata in dottrina (32) – non è fine a se stessa, nell’ottica appunto della pretesa autonomia della stabile organizzazione, ma realizza un obiettivo strumentale, che è quello di consentire alla casa madre attraverso la struttura decentrata di produrre un reddito (33). L’organizzazione, a sua volta, deve riguardare almeno una parte dell’attività di impresa esercitata dalla casa madre, come chiarito dalla stessa definizione di cui al primo comma dell’art. 162, secondo cui l’impresa non residente esercita la sua attività, “in tutto o in parte”, attraverso la SO nel territorio estero. Va, quindi, respinta la tesi sostenuta, nella vicenda che ci occupa, dai giudici di merito, secondo la quale per aversi SO occorre che attraverso di
(30) Il par. 58 del Commentario all’art. 5 del Modello OCSE, nella versione del 2017, afferma che la lista negativa, se letta in contemporanea con quanto sancito nel par. 1, “provide[s] a more selective test by which to determine what constitutes a permanent establishment”. (31) Lo osserva P. Boria L’individuazione della stabile organizzazione, in Rivista di diritto tributario, 2014, 3 ss., 5, il quale parla della stabile organizzazione “come vero e proprio criterio di collegamento del reddito ad una giurisdizione tributaria”. (32) Ancora P. Boria, op. cit., 11. (33) In tal senso si esprime A. Fantozzi, La stabile organizzazione, in Rivista di diritto tributario, 2013, 99 ss., 101.
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essa sia compiuto un intero ciclo produttivo proprio della casa madre non residente. Il profilo organizzativo prevale, quindi, sull’estensione delle attività che attraverso tale apparato vengono svolte: queste possono infatti rappresentare solo una parte del programma imprenditoriale dell’impresa non residente, purché tale parte fornisca un contributo essenziale – e misurabile economicamente – ad esso (34). Qui si inserisce la rilevanza della lista negativa, che correttamente è valorizzata a fini definitori dalla Cassazione. Questa elencazione di ciò che non è stabile organizzazione materiale ha subito, come noto, modificazioni all’esito delle elaborazioni del progetto BEPS che non a caso ha dedicato una delle proprie azioni al contrasto alle forme di approfittamento basate sull’uso della SO (35). Si assiste ad un progressivo restringimento della lista negativa, a favore di un più ampio margine di manovra per gli Stati di dichiarare esistente una sede fissa di affari e quindi assoggettare ad imposizione una fetta del reddito dell’impresa non residente. Così, mentre nella previgente versione si riteneva che alcune fattispecie escludessero comunque la stabile organizzazione, a prescindere dalla verifica in concreto circa la natura ausiliaria o preparatoria delle attività attraverso esse svolte, oggi è opinione diffusa che questo carattere – quello cioè dell’ausiliarietà o preparatorietà di certe attività – sia diventato decisivo e caratterizzi tutte le fattispecie elencate nel comma 4 (36). In verità, già in precedenza non erano mancate voci che avevano sostenuto la pervasività della qualifica di una certa attività quale ausiliaria o preparatoria ai fini dell’inclusione nella lista negativa; una pervasività che avrebbe in ogni caso imposto di verificarne la sussistenza in concreto per ciascuno dei casi inseriti in tale lista (37). Si trattava di una posizione condivisibile, nella misura in cui riconosceva che una organizzazione di attività, per essere ritenuta idonea a realizzare una stabile organizzazione, deve comunque essere valutata in relazione al programma imprenditoriale del soggetto non residente, con la
(34) Così M. Grandinetti, La stabile organizzazione nelle imposte sui redditi, in Principi di diritto tributario europeo e internazionale, (a cura di Sacchetto), Torino, 2016, 67 ss., 76. (35) “OECD 2015 Action 7 Final Report: Preventing the Artificial Avoidance of Permanent Establishment Status”, pubblicato il 5 ottobre 2015. (36) Si veda, al riguardo, l’analisi giurisprudenziale effettuata da C. Garbarino, Permanent Establishment and BEPS Action 7: Perspectives in Evolution, in Intertax, 2019, 365 ss. (37) Cfr. A.M. Gaffuri, Le ipotesi negative di stabile organizzazione. Spunti problematici e sviluppi interpretativi, in Diritto e pratica tributaria, 2015, 1025 ss.
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conseguente esclusione della SO laddove si sia al cospetto di situazioni troppo distanti da tale programma. La sentenza in commento sembra porsi in linea con quest’ultimo orientamento interpretativo, dal momento che si riferisce alla lista negativa e la caratterizza tout court come elenco di situazioni puramente ausiliarie o preparatorie rispetto allo svolgimento dell’attività propria dell’impresa non residente. Quel che appare rilevante, peraltro, è che sia prima che dopo le modifiche introdotte nel 2017 la lista negativa conferma la rilevanza della SO come complesso organizzato di attività e beni funzionale allo svolgimento di una attività di impresa ad opera della società non residente: nel momento in cui si riconosce che certe situazioni non superano la soglia prevista per dar vita ad una stabile organizzazione, si ammette che tale soglia rappresenta quel minimum di organizzazione di attività capace di realizzare gli obiettivi imprenditoriali del soggetto non residente e, perciò, di contribuire in modo visibile e calcolabile alla realizzazione di un reddito (38). Si ha così, insomma, la conferma che la lista negativa è parte integrante della definizione di stabile organizzazione materiale, se non altro perché essa segna il confine verso il basso di tale concetto, consentendo la distinzione tra organizzazione di attività – intesa come detto in senso dinamico e funzionale – e mera organizzazione di beni o rapporti, che costituisce un corredo statico incapace di contribuire in modo significativo al programma dell’impresa non residente (39). Correttamente, dunque, la Cassazione individua le forme minori di inserimento di un’impresa in uno Stato estero, come tali escluse dal concetto di stabile organizzazione, in quelle “non suscettibili di produrre un reddito autonomo”. In tal modo, viene enfatizzato il discrimine tra quelle forme di presenza dell’impresa estera che risultano “economicamente distanti” (40) dall’attività
(38) E. Reimer, Permanent Establishment in the OECD Model Tax Convention, in Permanent Establishments, A Domestic Taxation, Bilateral Tax Treaty and OECD Perspective, edited by: Reimer, Schmid, Orell, Kluwer, 2015. (39) Così P. Boria, op. cit., 21, il quale osserva che nelle fattispecie della lista negativa “manca il collegamento con l’installazione materiale di una attività significativa e rilevante del programma imprenditoriale perseguito dal soggetto non residente”. (40) Secondo il par. 58 del Commentario 2017 (peraltro rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle precedenti versioni), “it is recognised that such a place of business may well contribute to the productivity of the enterprise, but the services it performs are so remote from the actual realisations of profits that it is difficult to allocate any profit to the fixed place of business in question”.
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che produce reddito e quell’inserimento stabile che, invece, contribuisce in modo immediato e decisivo al buon esito del programma imprenditoriale più volte evocato. 5. Il perimetro della stabile organizzazione materiale secondo la Cassazione: punti fermi e profili critici. – Alcune conseguenze che la Cassazione trae dalla descritta impostazione meritano una qualche riflessione critica. Sebbene riconosca l’importanza del contributo economico che la stabile organizzazione deve poter addurre all’attività d’impresa della casa madre, secondo un’impostazione ampiamente condivisa dalla dottrina, pure la sentenza aggiunge che un’attività non può dirsi ausiliaria o preparatoria laddove non sia “rivolta esclusivamente in favore dell’impresa”. Detto altrimenti, un’attività di ricerca di mercato o una di mera pubblicità non possono rientrare nella lista negativa nel caso in cui beneficiaria delle stesse sia una diversa impresa, ancorché appartenente al medesimo gruppo. Quanto alla motivazione di tale asserzione, la pronuncia non appare del tutto coerente: essa, infatti, ancora una volta si abbandona all’equivoco dell’autonomia della stabile organizzazione, sostenendo che laddove una attività della lista negativa sia svolta a favore di soggetti terzi sarebbe “ipotizzabile il perseguimento di un autonomo risultato economico rispetto a quello conseguito dalla sede centrale mediante lo svolgimento di attività che non sono rivolte esclusivamente in funzione del ciclo produttivo dell’attività di impresa della casa madre”. Si perde qui l’aggancio alla nozione di stabile organizzazione quale mera modalità di svolgimento di una attività che resta propria del soggetto non residente e che, come tale, non può manifestare alcuna autonomia rispetto ad essa. Tuttavia, ed al netto di questo misunderstanding, resta la tesi della Cassazione secondo cui un’attività può essere ausiliaria o preparatoria, o meno, in base alla direzione della stessa. Si tratta di una interpretazione che appare in linea con un orientamento univoco ed ormai risalente. Essa si trova infatti affermata nel commentario all’art. 5 del Modello OCSE (41) e su di essa la dottrina ha sempre manifestato condivisione (42). Da questo punto di vista, la sentenza deve essere ap-
(41) Si veda l’attuale par. 61 del Commentario all’art. 5. (42) Si sostiene che “dalla citata previsione residuale si ricava il principio che l’esercizio di un’attività avente carattere preparatorio od ausiliario per il tramite di una sede fissa d’affari non integra gli estremi della stabile organizzazione materiale a condizione che tale attività venga svolta solo per l’impresa cui appartiene la sede fissa d’affari e non anche in favore di soggetti terzi” (E. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo TUIR, cit., 1638).
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prezzata nella misura in cui dimostra l’inserimento della Cassazione in taluni circuiti ermeneutici esistenti in ambito internazionale. Ci si può, tuttavia, chiedere se una soluzione così tranchant non possa essere in qualche modo ammorbidita. In effetti, come si è osservato, la natura di una attività va valutata anche con riferimento alla possibilità di individuare un reddito ad essa riconducibile, al punto che quelle ausiliarie o preparatorie sono proprio le attività per le quali tale riconduzione appare maggiormente problematica. Non è quindi detto che lo svolgimento di una di queste attività a favore non della casa madre ma di un ente terzo, pur fuoriuscendo oggettivamente dal novero della lista negativa, consenta di determinare un reddito attribuibile alla sede fissa di affari, secondo i criteri dell’art. 7 del Modello OCSE e, sul versante interno, dell’art. 152 del TUIR. La questione, insomma, si sposta dall’esistenza di una stabile organizzazione a quella dell’attribuzione del reddito ad essa, ma resta la sensazione che sia possibile per questa via circostanziare l’affermazione fin troppo generale che si trova nella sentenza in commento. Occorre in definitiva, come è tipico della nozione di stabile organizzazione, prendere atto della natura casistica di tale concetto, plasmato dalle circostanze concrete di ciascuna fattispecie e, quindi, refrattario a forme di inquadramento assoluto come quella qui in discussione. Appare, invece, pienamente condivisibile la posizione della Cassazione in merito al perimetro della stabile organizzazione in presenza di una sede fissa attraverso la quale vengano poste in essere sia attività immediatamente produttive di reddito per la casa madre, sia attività ausiliarie o preparatorie. Secondo l’impostazione seguita dai giudici di legittimità, in continuità peraltro con le elaborazioni internazionali (43), in questo caso si è in presenza di una stabile organizzazione materiale sotto il cui cappello rientrano tanto le une quanto le altre. Si tratta di una soluzione coerente, tra l’altro, con l’approccio di fondo sotteso alla recente introduzione dell’anti-fragmentation rule, accolta anche dal legislatore italiano (44). Peraltro, non è detto che la regola posta dalla Cassazione sia immediatamente produttiva di effetti pratici. L’affermazione secondo cui la stabile organizzazione comprende sia le attività preparatorie ed
(43) Il Commentario all’art. 5, al par. 77, sostiene che “where paragraph 4 does not apply because a fixed place of business used by an enterprise for activities that are listed in that paragraph is also used for other activities that go beyond what is auxiliary or preparatory, that place of business constitutes a single permanent establishment of the enterprise and the profits attributable to the permanent establishment with respect to both types of activities may be taxed in the State where that permanent establishment is situated”. (44) Si veda l’art. 162, comma 7-bis, introdotto dalla legge n. 205/2017.
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ausiliarie, sia quelle direttamente produttive del reddito, pur corretta sul piano teorico, appare irrilevante ai fini pratici, dal momento che, come ricordato, le attività del primo tipo non sono in grado di rivelare alcun autonomo reddito tassabile in capo alla casa madre. 6. Spunti sulla stabile organizzazione personale. – La sentenza, sebbene nel contesto dell’accoglimento di un motivo di ricorso fondato sull’asserito difetto di motivazione, si sofferma anche sulla stabile organizzazione personale. Si tratta di un cenno che, sebbene non rilevante ai fini della controversia (essendo rimessa alla Commissione tributaria regionale remittente la soluzione in sede di riassunzione), risulta di interesse perché consente di focalizzare i contorni di una nozione in via di profondo mutamento. Sul punto, la Cassazione censura la motivazione della sentenza impugnata, per non aver motivato in merito alla possibilità di ravvisare nell’organizzazione in Italia dell’impresa non residente, pur in assenza degli elementi tipici della SO materiale, una stabile organizzazione personale. Sul piano metodologico, come si è già osservato, si tratta di una posizione condivisibile. Pur non essendovi alcun rapporto di complementarietà necessaria tra stabile materiale e stabile personale, non vi è dubbio che esse rappresentano due facce di un fenomeno altrimenti unitario. La stabile organizzazione è, lo si è già ricordato, una nozione che manifesta il radicamento minimo che un’impresa non residente deve avere in un ordinamento estero per consentire a quest’ultimo di attrarre ad imposizione parte del suo reddito. Da questo punto di vista, non vi è differenza tra stabile materiale e stabile personale, mutando invero tra l’una e l’altra solo la tipologia dell’elemento di collegamento rilevante (45). Nella SO materiale, l’elemento umano (ad esempio, i dipendenti) anche quando sussiste non rileva in sé ma nel contesto di una più ampia organizzazione di attività attraverso la quale si realizza una parte del progetto industriale o commerciale dell’impresa; nella SO personale, al contrario, l’elemento individuale è essenziale, nel senso che il soggetto agente – che può essere una persona fisica ma anche una persona giuridica – riassume in sé ed esaurisce sia l’organizzazione che l’attività. Correttamente, quindi, la sentenza in commento propone una sorta di approccio a scorrimento, secondo il quale se si ravvisano, nel caso concreto, gli estremi della stabile materiale, ciò è (ovviamente) sufficiente, mentre se tale
(45) Così ancora A. Fantozzi, op. cit., 103.
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verifica non dà esito positivo, prima di concludere per l’inesistenza tout court di una sede di attività, occorre effettuare una verifica circa l’eventuale sussistenza degli elementi caratteristici di una stabile personale (46). Dal punto di vista del contenuto della SO personale, si sta assistendo ad una rapida evoluzione a seguito dei lavori del progetto BEPS. La figura dell’agente dipendente, che tipicamente incarna tale nozione, era caratterizzata dalla sussistenza del potere dell’agente di concludere contratti in nome e per conto della casa madre. Tale attività, peraltro, veniva a sostanziarsi ulteriormente sotto due profili: i contratti in questione dovevano rientrare nell’ambito ordinario di azione commerciale della casa madre; e l’intervento dell’agente non si doveva esaurire in una o poche occasioni, essendo invece essenziale l’abitualità dell’esercizio della sua autorità in merito. In questo senso, riprendendo i termini del ragionamento compiuto dalla Cassazione, si sarebbe davvero al cospetto di un “ciclo completo” di attività, essendo ricompreso nel ruolo dell’agente sia la negoziazione che la materiale conclusione dei contratti, con effetto giuridicamente vincolante per la casa madre in settori strategici del proprio business ordinario. Si trattava di una tipizzazione da un lato certa nei suoi elementi costitutivi, ma dall’altra esposta al rischio di abusi. Era infatti sufficiente che l’agente avesse l’accortezza di definire tutti i termini del contratto, lasciando però agli amministratori della società non residente la materiale sottoscrizione, per sfuggire alla qualificazione dell’insediamento personale come stabile organizzazione. La consapevolezza di tale situazione ha quindi spinto l’OCSE, nel contesto dei lavori del BEPS dedicati alle forme di abuso incentrate proprio sulla SO, a proporne una nuova nozione dai contorni assai più stringenti. Secondo tale nuova definizione, introdotta nel Modello OCSE nel 2017 e presente altresì nell’art. 13 del Multilateral Instrument (47), l’agente dipendente è ravvisabile in tutti i casi nei quali questi, agendo in nome dell’impresa non residente, abbia rivestito il ruolo principale nel corso della negoziazione di contratti relativi alla cessione di beni della casa madre o alla prestazione di servizi da parte di quest’ultima, anche se la firma è stata apposta dall’impresa senza significative modifiche al
(46) Viene sostenuto che “the recharacterization of a certain situation as an agency PE covers all actions of a dependent agent for the principal, and if there is a material PE, there is no need to apply the agency PE test” (C. Garbarino, op. cit., 333). (47) Sulla Convenzione multilaterale attuativa di alcune azioni del progetto BEPS, si veda l’analisi di D. Kleist, The Multilateral Convention to Implement Tax Treaty Related Measures to Prevent BEPS. Some Thoughts on Complexity and Uncertainty, in Nordic Tax Journal, 2018, 31 ss.
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testo in questione (48). Si tratta di una modifica che fa giustamente prevalere la sostanza sulla forma, con evidenti finalità antielusive, e che conferma la rilevanza – già sottolineata in relazione alla stabile organizzazione materiale – della valutazione dell’apporto che l’agente deve dare alla realizzazione dell’attività dell’impresa non residente: un apporto che, pur dovendo collocarsi al di sopra del limite minimo rappresentato dalle attività ausiliarie e preparatorie, non necessariamente deve investire l’intero ciclo commerciale proprio della casa madre per dar vita ad un insediamento stabile. Nella sentenza in commento, emergono elementi che sembrano poter fondare un giudizio positivo in merito alla sussistenza di una SO personale ai sensi dell’art. 162, comma sesto, del TUIR. In particolare, si legge che la persona fisica incaricata di gestire l’attività in Italia avrebbe “perfezionato” i contratti di acquisto e vendita. Non risulta specificato cosa la Corte intenda per perfezionamento di un contratto, ciò che sarà il giudice del rinvio a dover chiarire in fatto. Le conseguenze giuridiche potrebbero peraltro non essere univoche: se tale attività presuppone la sottoscrizione del contratto in nome della casa madre, allora saremmo senza dubbio in presenza di una stabile personale (laddove, ovviamente, il contratto riguardi il progetto imprenditoriale della casa madre), anche secondo la versione tradizionale di questa nozione. Se, al contrario, il perfezionamento si lega alla pattuizione del testo dell’accordo, che poi sarà la casa madre a firmare, allora la riconduzione della fattispecie ad una SO personale potrebbe essere preclusa, non essendo la definizione medio tempore applicabile capace di coprire anche siffatta fattispecie. Non va, peraltro, dimenticato che – anche nella versione anteriore alle modifiche del 2017 – non mancavano indicazioni favorevoli a riconoscere una stabile personale anche nel caso di contratti solo negoziati dall’agente e poi conclusi di routine senza modifiche dalla casa madre, sebbene ciò riguardasse solo fattispecie puntualmente individuate e non avesse quindi una portata generale (49). 7. Qualche considerazione conclusiva (ma non troppo). – La sentenza esaminata conferma la perdurante vitalità dell’istituto della stabile organizzazione nella prassi applicativa, nonché le incertezze che continuano a circon-
(48) Sull’innovazione in esame, si rinvia a P. Blessing, Concluding Contracts and Playing the Principal Role in Concluding Contracts, in New Trends in the Definition of Permanent Establishment, (a cura di Maisto), cit., 139 ss. (49) Si veda, ad esempio, il par. 32.1 del Commentario all’art. 5 del 2014.
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darlo in conseguenza di un approccio casistico che – probabilmente – rappresenta l’inevitabile portato di una nozione che necessita di essere calata nello specifico contesto organizzativo di ciascuna impresa non residente. La posizione espressa dalla Cassazione appare in questo contesto metodologicamente apprezzabile, nella misura in cui insiste su una ricostruzione unitaria della stabile organizzazione, entro la quale la versione materiale e quella personale rappresentano due varianti, e ne tenta di delineare in termini il più possibile rigorosi i caratteri generali tramite la valorizzazione della lista negativa e delle fattispecie ausiliarie e preparatorie ivi elencate. Uno sforzo, questo, che si rivela singolare in un momento storico nel quale il futuro della stabile organizzazione nel contesto del diritto tributario internazionale appare quanto mai incerto. In effetti, come si è accennato all’inizio di questo commento, l’avvento dell’economia digitale ha posto in evidenza i limiti dell’istituto, così come tradizionalmente inteso, aprendo una riflessione sulla sua perdurante idoneità ad esprimere in modo adeguato quel radicamento che consente ad uno Stato di intercettare il reddito prodotto da un’impresa non residente ed assoggettarlo a prelievo. Non è detto che all’esito di tale riflessione la stabile organizzazione mantenga il proprio ruolo attuale (50). In effetti, a fianco di proposte che prevedono un adattamento di tale nozione al mutato contesto economico e tecnologico e che – come si è accennato in precedenza – sollecitano di affiancare al collegamento materiale e personale anche quello puramente economico (51), ve ne sono altre che, sul presupposto dell’avvenuta digitalizzazione dell’intera economia, sostengono l’esigenza di riscrivere in modo integrale la definizione di stabile organizzazione in modo da tener conto di questo sviluppo. Fino a giungere a posizioni, ben più radicali, che suggeriscono di mutare approccio, rinunciando ad individuare un collegamento significativo tra l’impresa e un ordinamento diverso da quello di residenza, ora introducendo formule di apportionment dell’utile complessivamente realizzato dall’impresa (52), ora prevedendo forme di prelievo pe-
(50) A. Hemmelrath, E. Wilcox, AOA, E-Commerce. Permanent Establishemnt in Flux, in Practical Problems in European and International Tax Law, a cura di Jochum, Essers, Lang, Winkeljohann e Wilman, Amsterdam, 2016, 115 ss. (51) Si vedano E. Della Valle, La stabile organizzazione ‘da remoto’: la lett. f-bis) dell’art. 162 del T.U.I.R. e l’approccio OCSE, in Rassegna tributaria, 2019, 470 ss.; e P. Pistone, Y. Brauner, Some Comments on the Attribution of Profits to the Digital Permanent Establishment, in Bullettin for International Taxation, 2018. (52) Si tratta di un approdo delineato da L. Carpentieri, “La crisi del binomio diritto-
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requativo sui ricavi delle imprese multinazionali (equalisation levy) (53). Secondo queste ultime proposte, il legame di un’impresa non residente con un certo ordinamento cessa di essere centrato su elementi organizzativi propri dell’impresa medesima, e si concentra piuttosto sugli esiti della sua attività, in termini di quote mercato e -in definitiva- di utenti dei servizi offerti. Occorrerà certamente attendere gli indirizzi che sia l’OCSE che l’UE riusciranno a formulare in questa materia (54), tenendo anche conto dell’influenza che sulle elaborazioni in corso potrà avere la crisi pandemica ancora in corso. Quel che l’esperienza giurisprudenziale insegna – come mostra la sentenza qui commentata – è che sussiste ancora un vasto ambito di situazioni nelle quali la nozione di stabile organizzazione mantiene la propria rilevanza. L’economia brick e mortar, come la Commissione UE ha definito l’ambito delle imprese non digitalizzate (55), occupa ancora uno spazio notevole e, quindi, sembra opportuno non tralasciare il tema della definizione, più precisa e certa possibile, della stabile organizzazione anche nel mentre la riflessione per il futuro si appunta su nuovi e talvolta insidiosi fenomeni di completa dematerializzazione (56).
Stefano Dorigo
territorio e la tassazione delle imprese multinazionali”, in Rivista di diritto tributario, 2018, p. 351 ss., p. 380. (53) Su tale soluzione si veda l’ampio studio di L. Del Federico, La tassazione nell’era digitale. Genesi, diffusione ed evoluzione dell’equalisation levy, in corso di pubblicazione in Diritto e pratica tributaria internazionale. (54) V. Dhuldhoya, The Future of Permanent Establishment Concept, in Bullettin for International Taxation, 2018. (55) “Time to establish a modern, fair and efficient taxation standard for the digital economy”, Communication from the Commission to the European Parliament and the Council, COM (2018) 146 final del 21 marzo 2018. (56) Si tratta della posizione condivisa da S. Gadžo, Nexus Requirements for Taxation of Non-Residents’ Business Income. A Normative Evaluation in the Context of the Global Economy, Amsterdam, 2018, partic. 320.