Rivista Diritto Tributario 5/2020

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Vol. XXX - Ottobre

Rivista di

Diritto Tributario FONDATORI: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

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Rivista bimestrale

www.rivistadirittotributario.it

Vol. XXX - Ottobre 2020

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DIREZIONE SCIENTIFICA Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2020

In evidenza: Case Note on Supreme Court case Cass. 2618-2020 – National Westminster Bank Plc as Trustee of the Baring Global Growth Trust v Italian Revenue Agency Philip Baker Rimborso del credito d’imposta sui dividendi e trust nel Trattato Italia-Regno Unito: questioni in punto di soggettività convenzionale, beneficiario effettivo e subject to tax clause Angelo Contrino Spunti per una riforma della giustizia tributaria Giuseppe Tinelli Crisi aziendale e omesso versamento Iva e ritenute Irpef nel quadro della concezione tripartita del reato Giuseppe Ingrao Conferimento di azienda, cessione delle partecipazioni in pex ed esercizio dell’attività commerciale della partecipata tra dottrina del Fisco e predeterminazioni normative Mauro Beghin

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

COMPONENTI ONORARI: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni in pex fra norme antielusive specifiche e sviste interpretative Francesco Pedrotti

Pacini



Indici DOTTRINA

Philip Baker

Case Note on Supreme Court case Cass. 2618-2020 – National Westminster Bank Plc as Trustee of the Baring Global Growth Trust v Italian Revenue Agency........ V, 85 Paolo Barabino

La “salute” nel diritto tributario tra agevolazioni e regimi fiscali ........................... I, 421 Mauro Beghin

Conferimento di azienda, cessione delle partecipazioni in pex ed esercizio dell’attività commerciale della partecipata tra dottrina del Fisco e predeterminazioni normative (postilla alla nota di Francesco Pedrotti) (nota a Cass., sez. civile, 8 maggio 2019, n. 12138).............................................................................................. II, 293 Filippo Castagnari

Neutralità dell’IVA ed operazioni intracomunitarie. Il «neoformalismo» dei recenti sviluppi normativi comunitari in parziale deregulation al substantial approach della Corte di Giustizia dell’U.E. ....................................................................... I, 455 Angelo Contrino

Rimborso del credito d’imposta sui dividendi e trust nel Trattato Italia-Regno Unito: questioni in punto di soggettività convenzionale, beneficiario effettivo e subject to tax clause.................................................................................................... V, 98 Paolo De Quattro

L’incostituzionalità del divieto di falcidia dell’IVA nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento: un effetto indotto della giurisprudenza della Corte di Giustizia (nota a Corte cost., n. 245/2019)......................................... II, 243 Giuseppe Ingrao

Crisi aziendale e omesso versamento Iva e ritenute Irpef nel quadro della concezione tripartita del reato.............................................................................................. III, 129 Andrea Purpura

Legittimità del diritto alla esenzione IVA per prevalenza della sostanza sulla forma (nota a Corte Giust. UE, sez. X, 17 ottobre 2019, C-653/18)............................. IV, 132 Francesco Pedrotti

Conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni in pex fra norme antielusive specifiche e sviste interpretative (nota a Cass., sez. civile, 8 maggio 2019, n. 12138).......................................................................................................................... II, 275


II

indici

Giuseppe Tinelli

Spunti per una riforma della giustizia tributaria........................................................ I, 399 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Gaetano Ragucci.......................................................................................... III, 129 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 121 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 85

Gli articoli e le note pubblicati nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR e sono stati valutati positivamente dai proff. Basilavecchia, Gaffuri, Giovannini, Logozzo, Marello, Nussi, Salvini. Il contributo di Philip Baker non è stato sottoposto a revisione esterna per decisione della Direzione, in considerazione dell’autorevolezza dell’Autore.

INDICE ANALITICO IMPOSTE SUI REDDITI IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ (IRES) Conferimenti di azienda - Conferimento di azienda e successiva vendita delle quote emesse dalla società conferitaria in sede di conferimento – Applicabilità del regime di esenzione ex art. 87 del TUIR – Non sussiste – Requisito di carattere temporale di cui all’art. 87, comma 2, del TUIR – Non sussiste – Applicabilità dell’art. 176, comma 4, del TUIR – Sussiste (Cass., sez. civ., 8 maggio 2019, n. 12138, con nota di Francesco Pedrotti e postilla di Mauro Beghin)........................ II, 259 IMPOSTE INDIRETTE IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (IVA) Direttiva 2006/112/CE – Articolo 146 – Esenzioni all’esportazione – Nozione di “cessione di beni” – Articolo 131 – Condizioni stabilite dagli Stati membri – Principio di proporzionalità – Principio della neutralità fiscale – Prove – Frode – Prassi di uno Stato membro consistente nel negare il diritto all’esenzione qualora l’acquirente dei beni esportati non sia identificato (Corte giustizia UE, sez. X, 17 ottobre 2019, C-653/18, con nota di Andrea Purpura).............................................. IV, 121 Fallimento e procedure concorsuali – Divieto di falcidia dell’Iva nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento - Art. 7, comma 1, terzo


indici

III

periodo, della legge n. 3 del 2012 – Illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost. (Corte cost., 22 ottobre 2019 - 29 novembre 2019, n. 245, con nota di Paolo De Quattro)................................................................................................... II, 217

INDICE CRONOLOGICO Corte giustizia UE, sez. X 17 ottobre 2019, causa C-653/18............................................................................... IV, 121 *** Corte costituzionale 22 ottobre 2019 - 29 novembre 2019, n. 245............................................................ II, 217 *** Cassazione, sez. civ. 9 aprile 2019 - 8 maggio 2019, n. 12138................................................................... II, 259

Elenco dei revisori esterni Nicolò Abriani - Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Mario Bertolissi - Andrea Carinci - Alfonso Celotto – Marco Cian - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Giuseppe Corasaniti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico Eugenio Della Valle - Vittorio Domenichelli - Mario Esposito - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Gian Luigi Gatta - Emilio Giardina - Andrea Giovanardi - Alessandro Giovannini - Giuseppe Ingrao - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Alberto Marcheselli - Enrico Marello Giuseppe Marini - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Sebastiano Maurizio Messina - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Paolo Patrono - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Maria C. Pierro - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone – Barbara Randazzo - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Giovanni Strampelli - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Mauro Trivellin - Antonio Uricchio - Arianna Vedaschi - Paolo Veneziani - Marco Versiglioni - Antonio Viotto - Giuseppe Zizzo.



Dottrina

Spunti per una riforma della giustizia tributaria* Sommario: 1. Premessa. – 2. L’accertamento del fatto nell’attuazione della norma tributaria. – 3. Aspetti critici dell’accertamento del fatto nel processo tributario. – 4. I progetti di riforma della giustizia tributaria ed il loro silenzio sul tema della prova. – 5. Linee di una possibile riforma della giustizia tributaria.

In questo studio, l’Autore esamina gli aspetti problematici della giustizia tributaria in Italia, con particolare attenzione alla disciplina dell’istruzione probatoria, che ancora si fonda su una visione riduttiva della prova del fatto controverso nella dinamica attuativa del tributo. Tra le soluzioni proposte per migliorare la qualità della giustizia viene illustrata una possibile differenziazione dei regimi probatori per le controversie di rilevanti dimensioni e, in ogni caso, una modifica dell’approccio del giudice all’esame delle liti fiscali, che ponga il principio comunitario della prevalenza della sostanza sulla forma quale regola di giudizio, anche nella valutazione della legittimità dell’azione amministrativa. In this study, the Author examines the problematic aspects of tax justice in Italy, with a particular focus on the discipline of proof collection, which is still based on a reductive view of the evidence of the controversial fact in the implementation of the tax. Proposed solutions to improve the quality of justice include a possible differentiation of evidentiary regimes for large disputes and, in any case, a change in the court’s approach to examining litigation. It is also important to assess the legitimacy of administrative action.

1. Premessa. – Il tema di una ampia riforma della giustizia tributaria è da tempo all’attenzione degli operatori del diritto tributario, rappresentando la garanzia di una seria tutela giurisdizionale dei diritti del contribuente lo strumento migliore per contrastare l’evasione fiscale e restaurare la legalità

*

Il presente lavoro è destinato agli Studi in memoria del Prof. Francesco Tesauro


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Parte prima

nell’imposizione (1). Certamente l’aspirazione ad una giustizia tributaria di qualità contrasta con i ripetuti provvedimenti di clemenza che, nelle forme dei condoni, delle definizioni agevolate delle liti e delle “rottamazioni”, hanno, anche di recente, caratterizzato il nostro ordinamento giuridico. La ciclicità di tali provvedimenti, imposti non solo dall’esigenza del gettito straordinario prodotto, ma anche dal previsto effetto deflattivo delle controversie tributarie (2), fa dubitare se la qualità della giustizia tributaria rappresenti un valore cui puntare, oppure se un basso livello di tale pubblica funzione costituisca un mezzo attraverso il quale far fronte a problemi finanziari pubblici e risulti, in ultima analisi, accettato dalla politica. Se poi il dibattito si sposta sulla percezione del problema da parte del non addetto alla materia tributaria, sorge spontaneo il dubbio circa la stessa funzione della giustizia nell’imposizione tributaria. La persona comune, estranea alla quotidianità delle vicende fiscali, osserverebbe molto probabilmente che in un ordinamento civile non dovrebbero esistere controversie tributarie, in quanto l’adempimento del dovere fiscale rientra tra i doveri primari connessi all’appartenenza del singolo alla comunità, come pure l’intervento pubblico di recupero dell’imposta indebitamente sottratta deve conformarsi alla rigorosa verifica della sussistenza dei presupposti legali. Per cui la sanzione rappresentata dalla riprovevolezza sociale del comportamento dell’evasore e, parimenti, della pretesa fiscale priva di fondamento sarebbe sufficiente a prevenire liti sull’applicazione delle leggi tributarie: il contribuente onesto non avrebbe nulla da temere dal fisco, mentre l’evasore sarebbe cosciente dell’insostenibilità sociale del proprio comportamento. Ciò potrebbe essere vero in presenza di un prelievo tributario a gettito irrisorio o diretto a colpire manifestazioni economiche semplici, di facile constatabilità fattuale. Se, infatti, dalla teoria si passa alla realtà, si deve prendere atto della virtuale ineliminabilità delle controversie tributarie per effetto di una serie di concause che concorrono a ritenere difficilmente comprimibile

(1) V., da ultimo, F. Gallo, La “Sezione tributaria” della Corte di cassazione e la crisi della giustizia tributaria, in Rass. Trib., 2020, 9 ss. (2) Sull’impatto negativo di tali misure, che, se da un lato hanno contribuito alla riduzione del numero delle controversie tributarie, dall’altro hanno finito per incentivare il ricorso alla giustizia tributaria spesso all’esclusivo fine di procrastinare la definizione di una lite e contare sui prospettici effetti favorevoli di una nuova misura di clemenza, v. A. Marcheselli, Giustizia tributaria e la sfida della tutela dei diritti fondamentali: la “road map” di un possibile intervento riformatore, in Riv.dir.trib., 2019, I, 281


Dottrina

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la notoriamente elevata dimensione della litigiosità in materia tributaria, al punto da doversi ritenere fisiologica la necessità di un intervento risolutorio della controversia rimesso ad un soggetto terzo rispetto alle parti del rapporto obbligatorio. Una prima causa è rappresentata dalla contrapposizione di interessi alla base del prelievo tributario, che vede contrapposto l’interesse all’integrità patrimoniale del contribuente con quello alla massimizzazione del gettito dell’amministrazione finanziaria. Ma tale contrapposizione si dimostra anche di tipo ideologico ed involge le diverse concezioni alla base del tributo, che da alcuni viene visto come strumento di redistribuzione economica e da altri quale ostacolo al normale svolgersi dell’economia, se non quale vessazione dell’apparato burocratico pubblico sul singolo. Tale ultima visione, se da un lato dimostra una mancanza di sensibilità di una non isolata fascia di cittadini circa le finalità redistributive del sistema tributario, trova sostegno anche nella sovraesposizione mediatica di alcuni eccessi impositivi, spesso derivanti dalla pressione della politica sul fronte delle entrate tributarie. Pressione politica che deriva dall’incapacità nella gestione moderata della spesa pubblica, dando luogo all’attribuzione di centralità del ruolo della p.a. nell’attuazione dei tributi, all’enfasi sulle dimensioni dell’evasione fiscale e alla conseguente invasività dei poteri esecutivi riconosciuti dalla legge. Inoltre, la litigiosità in materia tributaria deriva anche dall’ampia diffusione della normativa tributaria, che occupa ogni aspetto dell’economia e della vita civile, con prelievi spesso di tipo periodico, come tale idonei a moltiplicare le occasioni di contrasto di vedute tra fisco e contribuente in considerazione dell’autonomia giuridica dei periodi d’imposta (3). Contrasto cui contribuisce anche la complessità del fatto economico considerato dal legislatore e la naturale limitatezza della definizione giuridica, che finisce per riservare l’interpretazione della norma impositiva, e del relativo precetto, agli specialisti della

(3) Tale caratteristica delle principali imposte attualmente vigenti in Italia, combinandosi con la rigorosità dell’apparato sanzionatorio predisposto per garantire la spontanea attuazione da parte del contribuente, finisce per creare situazioni di insostenibile carico economico derivante da una diversa visione da parte del fisco del fatto economico alla base del tributo, generando liti il cui peso in termini finanziari, calcolando il recupero dell’imposta, degli interessi e delle sanzioni, finisce in molte occasioni a superare le dimensioni stesse della base imponibile del tributo. Se a ciò si unisce anche la possibile rilevanza penale del fatto e l’applicazione di sanzioni anche reali in conseguenza dell’accertata responsabilità, si vede come il ricorso alla giustizia tributaria rappresenti un’opzione inevitabile per l’operatore economico che ritenga di avere posto in essere un comportamento rispettoso della legge.


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Parte prima

materia e non consente al comune contribuente una piena consapevolezza della giustificazione economica del prelievo. Come pure, la caduta della qualità tecnica della normativa tributaria e la conseguente incertezza applicativa, derivante anche da orientamenti amministrativi che non riescono a cogliere la corretta interpretazione, portano ad una abituale ricerca in sede giurisdizionale della corretta portata della stessa (4). 2. L’accertamento del fatto nell’attuazione della norma tributaria. – Ma la litigiosità di fondo propria della materia tributaria deriva anche dalle caratteristiche del fatto a rilevanza tributaria e dalla posizione di inferiorità conoscitiva della p.a. rispetto alle fonti informative sul fatto stesso, che è a diretto contatto con il contribuente, cioè del soggetto meno interessato ad una fedele rappresentazione, derivando da ciò una inevitabile diminuzione patrimoniale. L’accertamento del fatto assume un ruolo fondamentale nella dinamica attuativa della norma tributaria, in quanto consente di fondare il prelievo su una corretta ricostruzione della fattispecie concreta, attuando in questo modo la volontà della legge e commisurando il prelievo all’effettiva capacità contributiva. In tale ottica, la serietà della amministrazione del tributo rappresenta un presidio contro la distorsione dei principi inerenti la materia tributaria che devono porsi alla base di uno Stato di diritto e rappresenta un dovere degli organi amministrativi a ciò deputati. La normativa tributaria deve tenere conto in modo adeguato della complessità della ricostruzione del fatto ignoto da parte del soggetto creditore del tributo, che si trova in una posizione di inferiorità conoscitiva sui supporti dimostrativi del proprio credito e deve fare affidamento, in via di principio, sulla doverosa collaborazione del contribuente, che però è il soggetto meno interessato ad una fedele rappresentazione della sua effettiva situazione economica. Da ciò la previsione di forme di compressione di posizioni giuridicamente tutelate del debitore dell’imposta e di conseguenti poteri istruttori amministrativi, ma anche di regole di attenuazione degli oneri dimostrativi della p.a. in materia tributaria, idonei a bilanciare la limitatezza della prospettiva conoscitiva pubblica del fatto fiscalmente rilevante e ad agevolare la prova della sottrazione della materia imponibile.

(4) In tal senso v. A. Marcheselli, Giustizia tributaria e la sfida della tutela dei diritti fondamentali: la “road map” di un possibile intervento riformatore, cit., 290


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In ogni caso, però, tale disciplina normativa deve sempre indirizzarsi verso la ricostruzione dell’oggettività del fatto fiscalmente rilevante e non può subire deviazioni derivanti dalla cura di interessi diversi da quelli tutelati dalla norma primaria. In quest’ottica, l’utilizzo dei poteri amministrativi e delle attenuazioni probatorie previste dalla legge non potrà mai essere finalizzato alla tutela di un interesse specifico della p.a., seppur rientrante tra i pubblici interessi. Pertanto una distorsione applicativa di tali strumenti finalizzata alla cura del gettito tributario, pur risultando tale interesse riconosciuto a livello ordinamentale tra le funzioni dell’autorità deputata alla cura delle entrate fiscali (5), rappresenterebbe una violazione delle norme su cui si fonda l’azione amministrativa stessa, imponendo la restaurazione della legalità. Da ciò la funzione essenziale della giustizia tributaria, di un sistema, cioè, chiamato a ribadire la primarietà della legge nella disciplina dell’azione amministrativa, ristabilendo, nel caso concreto, l’ordine giuridico violato da un’azione pubblica, formalmente rispettosa della normativa ed indirizzata alla cura di un pubblico interesse, ma sostanzialmente contrastante con la preventiva valutazione normativa che ha dato luogo al bilanciamento degli

(5) In tale ottica, la scelta ritenuta dal funzionario maggiormente rispondente alla giustizia sostanziale può presentarsi potenzialmente fonte di responsabilità contabile, come emerge dalle direttive sul punto della stessa Agenzia delle Entrate, che, richiamando gli indirizzi di coordinamento della Corte dei Conti (prot. n. I.C./2 del 27 maggio 1996, n. I.C./6 del 19 ottobre 1996 e n. I.C./16 del 28 febbraio 1998), secondo cui, a parte i casi di dolo, costituito dalla previsione e volizione dell’evento dannoso da parte dell’agente come conseguenza della propria azione od omissione, la responsabilità contabile può derivare anche dalla colpa grave dell’agente, che è caratterizzata da una azione od omissione in relazione alla quale l’evento anche se preveduto non è voluto e si verifica per grave negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per grave inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ha individuato alcune fattispecie tipiche di responsabilità contabile del funzionario. Infatti, in alcuni orientamenti ufficiali (Direttiva Dir. Reg. Entrate Toscana, n. 72483/T1 dell’11 ottobre 2000 Circ. Dir. Reg. Entrate Lombardia n. 11/28093 del 7 aprile 2000) sono elencati alcuni casi di sussistenza della colpa grave, quali l’annullamento di un atto per motivi che, in una circolare amministrativa non contraddetta successivamente, sono stati ritenuti non idonei a giustificarlo; oppure l’annullamento di un atto, quando in precedenza è intervenuto un giudicato favorevole all’Amministrazione sui medesimi motivi per cui si è disposto l’annullamento; o anche l’annullamento di un atto, nonostante il contrario parere preventivo obbligatorio della Direzione regionale delle entrate, espresso in applicazione dell’art. 4, comma 1, del D.M. n. 37/1997 ovvero nonostante un contrario parere comunque espresso dalla Direzione regionale. Sulla delibazione incidentale del merito del rapporto tributario ai fini del riscontro di profili di responsabilità del funzionario da parte della Corte dei Conti, v. P. Russo, Il riparto della giurisdizione fra giudice tributario e giudice amministrativo e contabile, in Riv.dir.trib., 2009, I, 20.


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Parte prima

interessi pubblici con quelli privati nella formulazione della fattispecie legale. Una simile valutazione, infatti, è già contenuta nella normativa primaria e non può trovare amplificazione nella disciplina attuativa se non nel rispetto degli altri principi costituzionali che regolano i rapporti tra privato e pubblica autorità (6). 3. Aspetti critici dell’accertamento del fatto nel processo tributario. – Nell’attuale sistema processuale tributario manca una disciplina concernente la prova dei fatti controversi e, in particolare, una sistematica regolamentazione dell’attività giudiziale diretta all’acquisizione o alla formazione della prova, come pure al controllo di quella formata fuori dal processo. La disciplina dell’attività istruttoria delle Commissioni tributarie trova la sua base normativa nell’art. 7 del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che si limita a prevedere, nell’ambito delle “Disposizioni generali”, alcuni poteri istruttori delle Commissioni e ad escludere dal novero delle prove ammissibili nel processo il giuramento e la prova testimoniale (7). Tale impostazione della disciplina dell’istruzione probatoria del processo tributario deriva con tutta evidenza dalle scorie della superata concezione del

(6) Come non ricordare le riflessioni di Allorio a proposito dello smantellamento della giustizia tributaria nella Germania nazionalsocialista, che sottolineava il particolare contesto storico ed istituzionale nell’ambito del quale tali riforme erano state prospettate e che costituiscono l’oggetto di un paragrafo della Parte Prima delle Ricerche introduttive dell’edizione del 1962, dedicata ad una “Digressione sulla giurisdizione tributaria nello Stato autoritario, con speciale riferimento ai passati ordinamenti italiano e tedesco”, in cui si prende atto del diverso approccio italiano rispetto alla concentrazione nella p.a. delle funzioni giustiziali tributarie. Ciò è derivato, secondo Allorio, dalle fondamentali istanze di carattere liberale e civile, prevalenti in Italia, pressoché ininterrottamente, contro il fanatismo autoritario, che avevano impedito l’abolizione dei giudici tributari ed avevano visto, già nell’immediato dopoguerra, l’ampliamento delle imposte cui veniva attribuita tutela avanti organi giurisdizionali (E. Allorio, Diritto processuale tributario, IV ed., Torino, 1962, 19 ss.). Per una rimeditazione sistematica del contributo alloriano nello studio dei rapporti tra autorità e giustizia, v. F. Moschetti, I valori dello Stato di diritto nel pensiero di Enrico Allorio, in AA.VV., Il contributo di Enrico Allorio allo studio del diritto tributario, a cura di G. Ragucci, Milano, 2015, 59 ss. (7) La collocazione della norma e la sua stessa intitolazione “Poteri delle commissioni tributarie” appaiono discutibili, in quanto si prevedono nello stesso corpo normativo sia poteri istruttori, che avrebbero dovuto essere collocati nella disciplina del processo avanti la commissione tributaria provinciale, sia poteri decisori, come quello contenuto nell’ultimo comma, che avrebbe visto una sua collocazione migliore insieme ai poteri decisori previsti dall’art. 2, comma terzo, e dall’art. 8, in tal senso v. A. Comelli, Commento all’art. 7, in AA.VV., Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di C. Consolo e C. Glendi,


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processo avanti le Commissioni tributarie quale revisione di una istruttoria amministrativa, per di più rimessa ad un giudice non tecnico in vista di una preferibile definizione consensuale della controversia, nel cui contesto, la prova sarebbe comunque raggiunta per effetto della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo impugnato (8). Inoltre, la previsione di poteri di impulso probatorio attribuiti al giudice e l’espressa esclusione di alcuni mezzi di prova previsti dal diritto comune avevano portato parte della dottrina non soltanto ad affermare la natura inquisitoria del processo, ma anche a mettere in discussione l’applicabilità della regola generale dell’onere della prova (9). La riforma portata dal D.lgs. n. 546 del 1992 ha nettamente ribadito la natura dispositiva del processo e, seppur implicitamente, la vigenza della regola di cui all’art. 2697 C.C., ridimensionando la rilevanza dei poteri istruttori attribuiti alle Commissioni tributarie, che devono, quindi, ritenersi poteri sussidiari e meramente integrativi dell’iniziativa probatoria delle parti e di certo

IV ed., Padova, 2017, 89 ss.. Inoltre la disciplina istruttoria non viene trattata esaustivamente ed in modo sistematico dall’art. 7, in quanto il D.lgs. n. 546 del 1992 tratta in altre norme dell’attività istruttoria delle Commissioni, come rilevato da F. Paparella, I poteri istruttori del giudice tributario, in AA.VV., Il processo tributario, a cura di E. Della Valle, V. Ficari e G. Marini, Padova, 2008, 203 ss. (8) V. i rilievi, anche storici, di A. Giovannini, Giustizia civile e giustizia tributaria: gli archetipi e la riforma, in Rass.trib., 2014, 11 ss., secondo cui i limiti dell’attività istruttoria delle Commissioni derivano anche dalla originaria visione dell’attività di tali organi come un “prolungamento”, seppure in sede contenziosa, dell’attività di amministrazione attiva. (9) Tale impostazione di fondo era propria già della previgente disciplina del processo tributario contenuta nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, ove all’art. 35, che regolava l’“Istruzione del processo”, si leggeva una disposizione dal tenore letterale piuttosto ambiguo, che non rendeva chiaro se l’istruttoria tributaria fosse improntata al principio dispositivo o a quello inquisitorio. In particolare, i poteri istruttori riconosciuti ai giudici tributari erano finalizzati alla conoscenza dei “fatti rilevanti per la decisione” ma, nonostante l’utilizzo di tale espressione, che, per la sua vaghezza, poteva ingenerare dubbi, la dottrina maggioritaria è sempre stata sicura del fatto che il processo tributario dovesse ritenersi improntato al principio dispositivo e che, quindi, spettasse alle parti processuali individuare ed allegare i fatti in giudizio. V. in proposito i richiami in G.Tinelli, Voce “Prova (Dir. trib.), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1991. Sull’onere della prova nel processo tributario e sul ruolo dell’iniziativa istruttoria del giudice, v. Cass. Sez. Trib., 26 gennaio 2006, n. 1134, in Rass. trib., 2006, 594, con nota di G. Cipolla, Sulla ripartizione degli oneri probatori nel processo tributario tra nuovi (quanto, forse, tardivi) sviluppi giurisprudenziali e recenti modifiche normative.


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Parte prima

non sostitutivi (10). Come ha rilevato la Corte Costituzionale (11), l’art. 7, del D.lgs. n. 546/1992, anche a seguito della modifica della norma avvenuta nel 2005 (12), deve ritenersi espressione del principio dispositivo del processo tributario per cui le Commissioni tributarie possono acquisire d’ufficio le prove, a fronte del mancato assolvimento del soggetto onerato, solo ove per la parte sia impossibile o estremamente difficile fornire la prova stessa (13), non

(10) In tal senso si veda F. Paparella, I poteri istruttori del giudice tributario, cit., 207; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2013, 166. In giurisprudenza, ex multis, v. Cass., sez. trib., 29 agosto 2001, n. 11321; Cass., sez.trib., 1 ottobre 2007, n. 20643; Cass., sez.trib., 12 settembre 2007, n. 19123; Corte Cost., 29 marzo 2007, n. 109, tutte in Banca dati Fisconline. In senso parzialmente diverso C. Glendi, Prova testimoniale, principio dispositivo, onere della prova e oggetto del processo tributario, cit., 741, il quale afferma che il processo tributario ha natura dispositiva riguardo all’oggetto ed all’allegazione dei fatti, mentre ha natura di processo inquisitorio riguardo all’attivazione dei mezzi istruttori “perché il giudice tributario, come emerge nitidamente dalla semplice lettura dell’art. 7 del D.lgs. n. 546/1992, per avvalersi di uno dei mezzi istruttori quivi previsti, non è minimamente condizionato da un’apposita iniziativa di una delle parti”. Attualmente il dibattito suddetto sembra definitivamente superato dall’intervento della Corte costituzionale, che con la sentenza n. 109/2007, ha definitivamente affermato che i poteri istruttori attribuiti al giudice tributario ex art. 7 D.lgs. n, 546/1992 sono “meramente integrativi dell’onere probatorio principale e sono utilizzabili solo qualora sia impossibile o sommamente difficile fornire, da parte di chi vi era tenuto, le prove richieste”. (11) Corte Cost., 29 marzo 2007, n. 109, in Banca dati Fisconline, con cui la Consulta ha ribadito che il processo tributario è improntato al principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., al principio dispositivo, nonché al principio di terzietà del giudice chiamato a verificare, in sede impugnatoria, sia la legittimità dell’atto sia la fondatezza della pretesa tributaria. Sull’argomento si veda il commento di M. Fanni, Il carattere dispositivo del processo tributario nel pensiero della Corte Costituzionale, in Giur. It., 2007, 2612 ss. (12) Il comma 3 dell’art 7, D.lgs. n. 546/1992, è stato abrogato in modo espresso dall’art. 3 bis, comma 5, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito dalla Legge 2 dicembre 2005, n. 248. (13) V., da ultima, Cass., sez. trib., 20 gennaio 2016, n. 955, in Banca dati Fisconline, che, nell’interpretazione dell’art. 7 del D.lgs. n. 546 del 1992, rileva “la portata di tale norma, che attribuiva alle commissioni tributarie la facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia, anche prima della sua abrogazione per effetto dell’art. 3-bis, comma 5, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, è stata reiteratamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità alla luce del principio di terzietà del giudice e del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost., nonché del principio dispositivo di cui all’art.115 c.p.c., avendo avuto più volte la Cassazione modo di puntualizzare che l’esercizio dei poteri di acquisizione d’ufficio da parte del giudice tributario non può sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova che grava comunque sulle parti in base all’art. 2697 C.C. e che pertanto si tratta di un potere meramente integrativo, non esonerativo, dell’onere probatorio principale da esercitare solo per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra”.


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potendosi sovvertire in sede giudiziale la ripartizione degli oneri probatori connessi alle posizioni sostanziali delle parti (14). La riforma del 1992 non ha avuto il coraggio di superare uno dei tradizionali totem del processo tributario, quello cioè del divieto della prova testimoniale (15). Tale singolarità della giustizia tributaria, avallata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (16), sembra ormai priva di una reale base logica (17), in quanto sembra fondarsi su una presunta inattendibilità della dichiarazione del terzo, di regola portatore di un interesse favorevole a contribuente piuttosto che alla tutela delle ragioni erariali, trascurando di considerare l’importanza della corretta ricostruzione storica del fatto ai fini dell’affermazione della volontà della legge nella fattispecie concreta e della garanzia effettiva della tutela giurisdizionale (18).

(14) Cass., sez. trib., 24 gennaio 2018, n. 1728, in Banca dati Fisconline. (15) Nel testo originario dell’art. 35 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, che disciplinava le prove nel revisionato sistema delle Commissioni tributarie, non esisteva un espresso divieto di prova testimoniale, ed anzi l’ammissibilità della prova testimoniale trovava conferma nelle norme che prescrivevano, in alcuni casi, la natura documentale della prova a carico del contribuente (es. art. 61 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). Il divieto di prova testimoniale venne invece inserito nell’art. 35, comma 5, ad opera del D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739. Il divieto di prova testimoniale, in dottrina, è stato definito un “relitto storico duro a morire” (P. Russo, Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del tempo, in Rass. trib., 2000, 567) e un “anacronistico feticcio del passato” (F. Paparella, Le dichiarazioni di terzi e la prova testimoniale, in AA.VV., Il processo tributario, a cura di E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Padova, 2008, 213). (16) Corte Cost. 12 marzo 1998, n. 35, in Rass. trib., 1998, 787; Corte Cost. 12 gennaio 2000, n. 18, in Rass. trib., 2000, 557, con nota di P. Russo, Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del tempo. Sul divieto di prova testimoniale quale limite emblematico all’attuazione del contraddittorio nel processo tributario, v., da ultimo, L. Sabbi, Il contraddittorio nel processo tributario, Padova, 2019, 211 ss. (17) Ma anche giuridica, se si considera il disposto dell’art. 2729, comma 2, C.C., che prevede che “Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni” e che si pone in evidente contrasto con l’utilizzo generalizzato di presunzioni semplici nel diritto tributario. Sul punto, v. C. Gobbi, Il processo tributario, Milano, 2011, 313, che sottolinea la violazione del diritto di difesa derivante dalla posizione differenziata delle parti processuali in relazione all’adempimento dell’onere della prova. Da ultimo, sul tema, v. A. Comelli, Dichiarazioni di terzi, inammissibilità della prova testimoniale e presunzioni semplici, ai fini del processo tributario, in Corr. trib., 2019, 434. (18) Sullo stretto rapporto tra effettività della tutela giurisdizionale e libertà di prova, nell’ottica costituzionale del giusto processo, v. F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. trib., 2003, 11; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 11 ss.; F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 11.


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Infatti, sgombrato il campo da una inattuale presunzione di legittimità dell’azione amministrativa (19), come pure il siderale riferimento al carattere scritto e documentale dell’accertamento tributario e del suo controllo di legittimità (20), appare evidente come la formazione del convincimento giudiziale sui fatti controversi rappresenta un momento fondamentale della vicenda contenziosa tributaria, specie nei casi in cui tali fatti siano posti al centro dell’azione di accertamento e fondati su acquisizioni probatorie amministrative o, in considerazione del tipo di iniziativa contenziosa, manchi del tutto un’istruttoria amministrativa da rivedere. Con riferimento al primo aspetto si pensi alle problematiche nate in relazione all’utilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali acquisite dalla polizia tributaria e trasfuse nel processo verbale di constatazione, difficilmente controvertibili dal privato, se non a seguito di un contraddittorio istruttorio, e potenzialmente idonee a formare il pieno convincimento giudiziale sul fatto a rilevanza tributaria. Sul punto è da richiamare la posizione interpretativa della giurisprudenza di legittimità, che ha dovuto ammettere l’utilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali contenute negli atti della p.a. formati fuori dal processo, ma ha ritenuto di ridurre a spazi trascurabili il ricorso a dichiarazioni di terzi (21), pur ritualmente versate in atti, anche nella forma della consulenza

(19) L’affermazione dell’irrilevanza della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo nel processo tributario si deve già ad Allorio (Diritto processuale tributario, Torino, IV ed., 1962, 368 ss.), che vedeva nella previsione di una serie di disposizioni in materia tributaria che attribuivano alla p.a. specifiche presunzioni la implicita dimostrazione dell’esistenza di un onere probatorio a suo carico. Tale impostazione è stata poi accolta dalla giurisprudenza di legittimità con numerose pronunce (di cui la prima è Cass., sez. I, 23 maggio 1979, n. 2990, in Foro It., 1979, I, 172), che portano a ritenere principio giurisprudenziale pacifico quello dell’onere della prova a carico della p.a. nei casi in cui la pretesa tributaria sia azionata a seguito di uno specifico atto di accertamento, trovando in ciò pieno consenso nella coeva dottrina (V. in proposito, A. E. Granelli, Presunzione di legittimità dell’atto amministrativo e onere della prova: un altro mito giuridico finisce in soffitta, in Giur.it., 1979, I, 1, 1773; C. Bafile, Presunzione di legittimità dell’accertamento tributario e onere della prova, in Rass. Avv. Stato, 1980, I, 377) ed in quella più recente (V. per tutti, G. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 574 ss.). (20) Richiamo contenuto in Corte Cost. 12 gennaio 2000, n. 18, cit., per rilevare la “specificità” del processo tributario. (21) Si è ammessa l’utilizzabilità della scienza del terzo nel caso di furto della documentazione (Cass., sez. trib., 27 gennaio 2010, n. 1650), incolpevole smarrimento della contabilità (Cass., sez. trib., 15 maggio 2008, n. 12201) o distruzione a causa di incendio (Cass., sez.trib., 4 marzo 2011, n. 5182). Su tali temi, in dottrina, v. R. Marchetto, L’incendio non ‘brucia’ i risultati delle indagini finanziarie ma autorizza la prova testimoniale, in Dir. Prat.


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tecnica di parte. Eppure, la particolare complessità del fatto controverso può manifestarsi in controversie ad elevato impatto economico, tali da imporre iniziative istruttorie nell’ambito delle quali dovrebbe essere garantito adeguatamente il diritto al contraddittorio, in coerenza con i principi generali alla base della stessa funzione giurisdizionale. Vi sono poi controversie nelle quali l’istruttoria amministrativa manca del tutto, come avviene nel caso di ricorso proposto avverso il diniego tacito della restituzione di tributi, in cui il ricorrente, onerato della prova della pretesa azionata, deve dimostrare non soltanto l’avvenuto versamento, ma anche le situazioni di fatto che ne dimostrano la natura indebita. E pensare che la prova documentale possa costituire, in tali casi, l’unico mezzo di prova, vuol dire perdere di vista la varietà di situazioni che possono giustificare l’esigenza della tutela giurisdizionale del credito da indebito tributario. Si consideri, a tal fine, la possibile indisponibilità, per cause di forza maggiore, del documento provante il versamento o la ricorrenza di un comportamento doloso o colposo del terzo, che non consente all’interessato di disporre del supporto documentale del pagamento non dovuto. In tali casi, l’unica prova utilizzabile sarebbe quella testimoniale, non potendosi ritenere sufficiente la limitata portata probatoria attribuita dalla giurisprudenza alla dichiarazione extraprocessuale del terzo (22). Ulteriore aspetto problematico dell’accertamento del fatto controverso nel processo tributario è rappresentato da un approccio restrittivo della giurisprudenza, anche di legittimità, nella valutazione delle prove addotte dal contribuente per superare l’efficacia dimostrativa delle presunzioni legali. In molte pronunce si nota una diffidenza nell’attribuire portata inferenziale a fatti, astrattamente impeditivi dell’operare della presunzione legale relativa, ove non supportati da una rigorosa prova, andando così al di là della volontà della

Trib., 2010, II, 1279 ss.; S. Muleo, È ammessa la prova per testimoni e presunzioni nel caso di perdita della contabilità, in Corr.trib., 2010, 745 ss.; A.E. La Scala, Prova testimoniale, diritto di difesa e giusto processo tributario, in Rass. trib., 2012, 90 ss. (22) Va richiamato il consolidato orientamento interpretativo della Corte di Cassazione, secondo cui, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti previsti dal nuovo art. 111 della Costituzione, il contribuente può introdurre, nel giudizio davanti alle Commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (quale la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà), che hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali possono essere liberamente valutate dal Giudice tributario, non potendo, di per sé, assurgere a prova del fatto ignoto (Cass., sez. trib., 10 febbraio 2006, n. 2940, da ultima Cass. n. 29546/2018).


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legge, che, disciplinando la presunzione e non disponendo regole sul livello della prova contraria, ha ritenuto di lasciare ampia libertà di prova contraria, da valutarsi secondo il prudente apprezzamento giudiziale. Ben diversa, invece, sembra la posizione della giurisprudenza nella valutazione delle presunzioni semplici utilizzate dal fisco per la dimostrazione del fatto ignoto sottostante a recuperi a tassazione (23), in cui la ricorrenza dei presupposti civilistici di attendibilità della dimostrazione presuntiva forma oggetto di un apprezzamento troppe volte non sorretto da una comparazione oggettiva di tutti gli argomenti versati in atti se non sfociante nella creazione di vere e proprie presunzioni giurisprudenziali (24), il più delle volte prive di collegamento con la realtà fattuale e contrastanti con scelte sistematiche del legislatore (25). Ma, a parte tali rilievi, propri della dinamica processuale tributaria, l’esigenza di un ripensamento circa l’attualità della scelta riduttiva in materia di prova riproposta dal D.lgs. n. 546 del 1992 nasce alla luce della generalizzazione della giurisdizione delle Commissioni, che ha comportato l’estensione

(23) Secondo la giurisprudenza di legittimità ai fini dell’attribuzione di attendibilità dimostrativa ad una presunzione semplice non è necessaria la ricorrenza della gravità, della precisione e della concordanza, cioè di più elementi, essendo sufficiente anche un elemento solo, purché grave e preciso (in tal senso, da ultima, Cass.,sez. trib., 27 luglio 2018, n. 19987); in tal caso, quindi, il requisito della “concordanza” non si applica, essendo meramente eventuale (Cass., sez. trib., 26 marzo 2003, n. 4472; Cass., sez .trib., 13 giugno 2005, n. 12671, entrambe in Banca dati Fisconline). (24) Un’altra corrente interpretativa si fonda sulla creazione della presunzione in sede giurisprudenziale, attribuendo, ad esempio, rilevanza probatoria ai fini della dimostrazione dell’inesistenza di un’operazione ai fini IVA, a dichiarazioni di terzi, acquisite dalla p.a. e trasfuse in un processo verbale di constatazione, che vengono ritenute idonee a spostare l’onere probatorio sul contribuente, che però non potrà assolverlo richiamando solo la documentazione contabile o la prova delle movimentazioni bancarie sottostanti, ma rappresentando situazioni oggettive dimostranti l’effettività della transazione economica. In tali casi, la base del ragionamento giurisprudenziale risiede nell’intrinseca affidabilità della dichiarazione del terzo circa l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto con cui ha avuto un contatto conoscitivo tale da consentirne la percezione e la successiva ricostruzione storica. In dottrina, sull’argomento, si veda M. Cicala, La funzione creativa delle presunzioni nella giurisprudenza tributaria della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2004, 6467, il quale ritiene tali requisiti un “modesto freno” alla ricostruzione fattuale che può compiere il giudice di merito sulla base delle sue personali sensazioni. (25) Come nella presunzione giurisprudenziale di distribuzione ai soci degli utili extrabilancio delle società di capitali a ristretta base azionaria, evidentemente contrastante con il regime della trasparenza espressamente disciplinato, ai fini IRES, dagli artt.115 e 116 del TUIR n. 917/1986. Su tale tematica, v. A. Contrino, Ristretta base sociale e prova mediante presunzione semplice della distribuzione occulta di utili, in GT-Riv. giur. trib., 2014, 701.


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della competenza giurisdizionale del giudice speciale a materie tributarie già attribuite alla cognizione del giudice ordinario e come tali caratterizzate dalla più ampia disponibilità di mezzi di prova e delle competenze proprie di un giudice istruttore. Alcune materie si vedono ora private di quegli spazi istruttori, quale, principalmente, il ricorso alla prova testimoniale, che in alcuni casi si dimostrano insostituibili ai fini della corretta ricostruzione del fatto a rilevanza tributaria. Si pensi alle controversie in tema di accise, derivanti dall’impugnazione dell’avviso di liquidazione del tributo a seguito dell’immissione involontaria in consumo di un prodotto schiavo d’imposta, nelle quali l’interessato deve provare il fatto doloso del terzo che consente l’abbuono dell’imposta ai sensi dell’art. 4, comma 1, del D.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504. In tali casi, pensare ad una prova documentale o presuntiva di tale situazione appare puramente teorico, per cui l’esclusione della prova testimoniale verrebbe a privare il contribuente di un mezzo di tutela già riconosciuto dall’ordinamento, derivando così un aggravamento della posizione processuale a seguito dell’attribuzione di tali controversie al giudice speciale tributario (26). Ulteriore aspetto critico della disciplina probatoria propria del processo tributario è la tradizionale lettura restrittiva riservata ai poteri istruttori attribuiti alle Commissioni tributarie dai primi due commi dell’art. 7 del D.lgs. n. 546 del 1992. Ai sensi del primo comma di tale norma, le Commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta, mentre, ai sensi del secondo comma, quando occorra acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di Finanza, ovvero disporre consulenza tecnica. Nell’applicazione di tali istituti, sottolineando la loro inidoneità a superare la regola dell’onere della prova incombente sulle parti e la non utilizzabilità per integra-

(26) Con riferimento a questo tipo di tributi, destinati a finanziare l’Unione Europea, si pone inoltre il problema della possibile contrarietà ai principi comunitari, alla luce della nota giurisprudenza CEDU (sent. 23 novembre 2006, n. 75053/01, causa Jussila c. Finlandia), su cui v. M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della CEDU (il caso Jussila), in Rass. trib., 2007, 216 e, da ultimo, A. Di Pietro, Il giudice tributario come giudice europeo: dall’interpretazione all’attuazione delle norme europee, in Rass. trib., 2020, 19 ss.


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re l’inerzia probatoria (27), si è trascurata la specifica funzione di strumento pensato per riequilibrare la posizione delle parti in presenza di limiti legali all’acquisizione della prova. In quest’ottica, la norma, specialmente quella di cui al primo comma, consente al giudice tributario, a seguito di una motivata richiesta della parte privata, di utilizzare quei poteri istruttori di cui dispone la parte pubblica e non la parte privata per acquisire la certezza probatoria di un fatto rilevante ai fini della decisione, come avviene, specularmente, nel processo amministrativo (28). Tali rilievi dimostrano come la disciplina della prova del fatto controverso rappresenti un aspetto problematico dell’attuale sistema della giustizia tributaria e meriti un ripensamento, da attuarsi nell’ambito del più ampio programma di revisione del processo tributario. 4. I progetti di riforma della giustizia tributaria ed il loro silenzio sul tema della prova. – Il tema della riforma del processo tributario è da tempo all’attenzione degli operatori del diritto tributario, lamentandosi da più parti i diversi difetti del sistema delineato dalla riforma del 1992 e la sua inidoneità a garantire una giustizia tributaria rispondente ai principi del giusto processo (29). Si è evidenziata la mancanza di quelle fondamentali garanzie di serietà e professionalità nella selezione dei giudici, che, specialmente nei gradi di merito, crea una disparità di trattamento nella valutazione di questione di complessa interpretazione, condizionando la prevalenza della tesi fiscale, di regola ritenuta quella espressiva di una visione “pubblica” e, come tale, più facilmente motivabile, pur nell’intimo dubbio del giudice. Tale atteggiamento di appiattimento sulla visione fiscale della controversia verrebbe meno in presenza di un giudice formato al diritto tributario e capace di valutare con appropriati mezzi tecnici la soluzione più adatta. A ciò si aggiunge la dipendenza, per quanto solo formale, dei giudici tributari di merito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che rappresentando, di regola, una delle parti litiganti non dovrebbe disporre di un potere idoneo a condizionare la sereni-

(27) V. i riferimenti in M. Fanni, I poteri istruttori e la prova nel processo tributario (Art. 7, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), in AA.VV., Codice commentato del processo tributario, a cura di F. Tesauro, II ed., Torino, 2016, 115. (28) In tal senso, v. A. Police, I mezzi di prova e l’attività istruttoria, in AA.VV., Diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Torino, 2017, 399 ss. (29) Per una sintesi dei diversi progetti di riforma, v., da ultimo, M. Basilavecchia, La riforma del giudice e del processo tributario, in Rass. trib., 2020, 55 ss.


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tà di giudizio di chi è chiamato ad amministrare la giustizia tributaria. Tale dipendenza diventa anzi organica con riferimento al personale di segreteria delle Commissioni tributarie, inserito nei ruoli della carriera ministeriale ed operante nel rispetto delle direttive gerarchiche amministrative (30). Ma si critica anche la scarsa attenzione al risultato in termini di giustizia dell’attuale sistema, evidenziandosi la presenza di preclusioni processuali nei confronti della parte privata, cui corrispondono comminatorie formali non certo finalizzate alla tutela delle posizioni soggettive coinvolte nella dinamica processuale. C’è da dire, però, che tali aspetti di criticità del sistema della giustizia tributaria sfuggono alla percezione del cittadino, restando il più delle volte confinati nell’ambito della stampa specialistica, se non nelle discussioni accademiche. Manca, d’altronde, nel nostro paese una coscienza popolare della centralità della giustizia tributaria, che anzi viene il più delle volte vista come un intralcio alla lodevole attività di caccia agli evasori fiscali condotta dagli organi amministrativi. Questa situazione, non possiamo nasconderlo, è anche conseguenza della perdita di credibilità della giustizia, che viene realizzata sempre di più sui mass media e non nelle aule giudiziarie, ma deriva anche dalla non corretta rappresentazione della delicatezza del tema della giustizia tributaria nelle aule della politica. Non che siano mancati, anche di recente, i progetti per una ampia riforma della giustizia tributaria, anche se in questi, regolarmente passati nel dimenticatoio, il tema della prova e dell’istruzione probatoria non hanno mai formato oggetto di interesse. In alcuni casi, dai progetti approdati a vere modifiche normative è sembrata emergere una visione dello stato attuale della giustizia tributaria totalmente scollegata dalla realtà. Si pensi alla c.d. Delega fiscale (L. 11 marzo 2014, n. 23), che, parlando ancora di contenzioso tributario, sembrava scritta da chi era fuori della realtà del processo tributario e interveniva su aspetti tutt’altro che problematici della vigente disciplina. In particolare, la delega si concentrava su aspetti di dettaglio o di interesse specifico di alcuni soggetti, quali l’attribuzione e la durata incarichi direttivi, il trattamento economico dei giudici, la

(30) Aspetto questo che finisce per condizionare, quanto meno dal punto di vista pratico, l’indipendenza del giudice, come rilevato da M. Basilavecchia, La riforma del giudice e del processo tributario, cit., e da A. Marcheselli, Giustizia tributaria e la sfida della tutela dei diritti fondamentali: la “road map” di un possibile intervento riformatore, cit., 297.


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disciplina del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e il contenuto della nota informativa sull’attività, evitando accuratamente di trattare questioni di più ampia portata. E l’attuazione della delega (Art. 9, D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156) non ha fatto che confermare la visione del processo tributario quale intralcio all’attività impositiva della p.a., da ciò le misure dirette alla prevenzione del contenzioso o all’eliminazione consensuale della lite in appello. Alcuni interventi su cui si è concentrata la normativa delegata, come quelli in materia di sospensione dell’esecuzione in appello (31) e di spese, erano già accolti dalla giurisprudenza, quindi alla riforma non può attribuirsi una vera e propria portata innovativa. Si è provveduto, invece, ad aumentare il numero dei difensori abilitati al patrocinio avanti le Commissioni, mortificando ancor di più la professionalità della difesa tecnica e confermando la visione del processo tributario quale processo puramente virtuale e di secondario interesse nell’attuazione dei tributi I più recenti progetti di riforma del processo tributario (32), tutti ad oggi decaduti, pur ribadendo le istanze che la dottrina e gli operatori del diritto tributario da sempre rivolgono al legislatore, si sono mossi secondo linee diverse, ma in nessuno di essi sembra sia stata prospettata una seria riforma della prova e dell’istruzione probatoria del processo tributario (33).

(31) Su cui v., da ultima, L. Salvini, La sospensione dell’esecutività della sentenza e dell’esecuzione dell’atto impugnato nel processo tributario, in Rass. trib., 2020, 182 ss. (32) V., a titolo esemplificativo, il Disegno di legge n. 319, presentato al Senato il 26 marzo 2013, predisposto dal CNEL, il Disegno di legge n. 988, presentato al Senato il 1° agosto 2013, ad iniziativa del Sen. Giorgio Pagliari ed altri, la Proposta di legge n. 1936, presentata alla Camera il 9 gennaio 2014, ad iniziativa dell’On. Sandra Savino, il Disegno di legge n. 1593 presentato al Senato il 6 agosto 2014, ad iniziativa della Sen. Gambaro, la Proposta di legge n. 3734, presentata alla Camera l’8 aprile 2016, a firma degli On.li Ermini, Ferranti e Verini (Attribuzione delle controversie tributarie a sezioni specializzate dell’AGO), il Disegno di legge n. 2438, trasmesso alla Presidenza del Senato il 9 giugno 2016 ad iniziativa del Sen. Naccarato, intitolato “Attribuzione alla Corte dei Conti in materia di contenzioso tributario”, la Proposta di legge n. 4755 del 17 novembre 2017 ad iniziativa dell’On. Rocco Palese e il Disegno di legge del 23 gennaio 2019 ad iniziativa dell’On. Bitonci. (33) Un interessante spunto sembra derivare dal Disegno di legge n. 2438, richiamato nella nota che precede, che fa propria l’originale tesi dell’attribuzione delle controversie tributarie alla Corte dei Conti, ma non certo per sostenerne la praticabilità, alquanto problematica, quanto invece per stimolare una riflessione circa l’allargamento dei poteri del giudice tributario, fino a prevedere la possibilità di condannare personalmente il funzionario responsabile di un abuso, anche colposo, nell’applicazione delle norme tributarie. Un simile potere potrebbe avere la funzione di bilanciare la responsabilità per danno erariale, molto spesso addotta quale


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5. Linee di una possibile riforma della giustizia tributaria. – Una seria riforma della giustizia tributaria dovrebbe certamente passare per una revisione dell’attuale sistema ordinamentale delle Commissioni tributarie, che le trasformi in giudici a tempo pieno del diritto tributario, prevedendone il reclutamento in base a concorso pubblico nel quale si accerti la padronanza, anche teorica, della materia che sono chiamati ad applicare e prevedendo quelle imprescindibili garanzie di terzietà e di indipendenza insite nella funzione giurisdizionale (34). Ci si rende conto delle complessità di un simile progetto, non soltanto di ordine finanziario, conseguenti al significativo impatto sulla spesa pubblica, che oggi non avverte il costo di una giustizia tributaria di tipo onorario, ma anche di tipo organizzativo, dovendo disciplinarsi il passaggio dagli attuali organi, che, seppur con i limiti segnalati, garantiscono un livello accettabile di giustizia tributaria. In ogni caso, i tempi sarebbero maturi per un salto di qualità e per una scelta, anche attraverso passaggi progressivi, verso un sistema di professionalizzazione del giudice tributario. La recente generalizzazione del processo tributario telematico (35) ha consentito un rilevante snellimento dell’attività delle Commissioni tributarie, specialmente di quella di segreteria, ma non ha toccato la struttura portante del processo, che nella moderna veste telematica trova in una disciplina non più adeguata alla funzione la sua base giuridica (36). Per questo, un maggior coraggio della politica avrebbe potuto portare ad abbinare l’ammodernamento del funzionamento della giustizia tributaria con una più ampia riforma della tutela giurisdizionale in materia di tributi, che a nostro avviso rappresenta un’iniziativa non più rinviabile. Ma, in una simile iniziativa riformatrice, anche la disciplina processuale andrebbe rivista, a partire dalla predeterminazione degli atti impugnabili, che rappresenta oggi, alla luce della giurisprudenza demolitoria della Cassazio-

giustificazione di atteggiamenti di esagerato fiscalismo, pur contrari allo spirito della norma o alla realtà dei fatti. Sull’impraticabilità di una soluzione diretta ad attribuire la cognizione delle controversie alla Corte dei Conti, v. M. Basilavecchia, La riforma del giudice e del processo tributario, cit. (34) Su tale aspetto insistono i diversi progetti di riforma del processo tributario, ma anche la dottrina sembra unanime, v., per tutti, F. Gallo, La “Sezione tributaria” della Corte di Cassazione e la crisi della giustizia tributaria, cit. (35) Art. 16 e ss. del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, conv., con mod. in L. 17 dicembre 2018, n. 136. (36) Senza arrivare alle prospettive tecnologiche auspicate da C. Sacchetto, Processo tributario telematico e giustizia predittiva, in Rass. trib., 2020, 41 ss.


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ne (37), un residuato storico, al pari della previsione di un termine decadenziale per adire la giustizia tributaria (38). Potrebbe valutarsi, infatti, l’abbandono sia del sistema degli atti impugnabili, con un possibile ritorno ad un interesse ad agire di stampo processualcivilistico (39), sia del termine decadenziale per l’esercizio dell’iniziativa processuale. La previsione di un richiamo, anche tacito, all’art. 100 c.p.c. si realizzerebbe semplicemente mediante l’eliminazione della prima parte del terzo comma dell’art. 19 del D.lgs. n. 546 del 1992 (40), trovando così applicazione la regola civilistica a garanzia dell’economia processuale fondata sull’interesse ad agire, che consentirebbe di devolvere al giudice speciale tutte le controversie tributarie, sia caratterizzate dalla presenza di un atto impugnabile, sia dalla ricorrenza di una situazione non qualificata di bisogno di tutela giuridica. Più complessa si presenterebbe, invece, una rimeditazione sull’attualità della previsione di un termine decadenziale per la devoluzione di una controversia tributaria, tra quelle caratterizzate dalla presenza di un atto impugnabile, all’esame delle Commissioni tributarie. Potrebbe obiettarsi, in contrario, l’effetto perverso derivante dall’eliminazione del termine decadenziale, che consentirebbe un’indefinita dilatazione dei termini di stabilizzazione della pretesa tributaria, ben potendo il contribuente rinviare nel tempo la proposizione

(37) Su cui v. il recente saggio di L. Perrone, Profili critici degli atti impugnabili nel processo tributario, in Rass. trib., 2020, 79 ss. (38) La previsione del termine di decadenza entro il quale presentare il ricorso alla Commissione Provinciale si risolve in molti casi in un vero diniego di giustizia, specie ove la notifica dell’atto amministrativo sia avvenuta attraverso modalità che, nel caso concreto, non abbiano consentito l’effettiva conoscenza dell’atto stesso (es. notifica tramite PEC), in quanto in tali casi, pur in presenza di solidi argomenti di contrasto nel merito dell’azione accertativa, lo strumento dell’autotutela si dimostra difficilmente percorribile, attesa la virtuale insindacabilità del diniego (espresso o tacito) di riesame amministrativo affermata dalla giurisprudenza di legittimità e la sostanziale remissione di tale iniziativa ad una non controllabile discrezionalità dell’ufficio. Sui profili problematici connessi al mutamento della giurisprudenza di legittimità in tema di sindacato giudiziale del diniego di autotutela, v. M. Procopio, Il contrasto in tema di autotutela tra i principi costituzionali ed i poteri autoritativi riconosciuti all’Amministrazione finanziaria, in Rass. trib., 2019, 92. (39) Impostazione adottata anche nel processo amministrativo, che, nella riforma che lo ha caratterizzato, è andato trasformandosi da processo demolitorio di provvedimento a giudizio di conseguimento del “bene della vita”, come rilevato da G. Montedoro, Le azioni nel processo amministrativo riformato nel prisma dell’interesse ad agire, in AA.VV., Diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Torino, 2017, 157. (40) O la sua interpretazione costituzionalmente orientata, come proposto da G. Fransoni, L’impugnabilità degli interpelli, in Rass. trib., 2020, 102 ss.


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dell’azione giudiziaria e quindi mantenere “aperto” il rapporto d’imposta in vista di possibili futuri condoni o altri provvedimenti di clemenza. Tuttavia, tale pericolo ben potrebbe prevenirsi mediante la previsione di un’immediata, integrale, esecutorietà dell’atto di accertamento, rimediabile soltanto a seguito di una misura cautelare di sospensione disposta dal giudice adito, che sarebbe inoltre chiamato a pronunciarsi nel merito entro termini brevi (41). Ma l’eliminazione del termine per ricorrere metterebbe fine al segnalato abuso nella gestione dell’autotutela amministrativa, che non può ridursi ad una concessione discrezionale della p.a., ma deve essere tale da consentire quel costante adeguamento dell’azione amministrativa alla realtà dei fatti che è alla base della legalità dell’agire pubblico nell’attuazione della norma tributaria. La possibilità di una devoluzione, per quanto tardiva o derivante da colpa del contribuente, di una dimostrazione fattuale all’esame di un giudice, rappresenterebbe lo stimolo per un vero riesame dell’azione accertativa finalizzato alla prevenzione di una soccombenza giudiziale. Ma è il tema della prova nel processo tributario quello cui dovrebbe porsi particolare attenzione per risolvere i problemi sopra segnalati circa la qualità della giurisdizione delle Commissioni. Anzi, un intervento in questo settore potrebbe essere anche sganciato da una più ampia riforma del sistema della giustizia tributaria. Una prima forma di intervento riformatore, che lascerebbe immodificata l’attuale disciplina processuale, potrebbe realizzarsi attraverso una revisione del D.lgs. n. 546 del 1992 nei soli articoli disciplinanti la prova seguendo l’esempio del processo amministrativo. Nella riforma del processo amministrativo di cui al D.lgs 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo) (42), l’artt. 63, ultimo comma, ha previsto, per le materie rimesse alla giurisdizione del giudice amministrativo, l’applicabilità di tutti i mezzi di prova previsti dal C.P.C., con esclusione soltanto dell’interrogatorio formale e del giuramento, e la previsione della figura del giudice delegato all’istruzione probatoria della causa. Ciò dimostra come altri sistemi di tutela

(41) Al fine di non pregiudicare la tutela giurisdizionale in presenza di decadenze connesse a cause di forza maggiore potrebbe dimostrarsi utile la previsione della possibilità di una rimessione in termini, fondata sulla preventiva delibazione giudiziale dei fatti addotti per la giustificazione dell’evento. (42) Su cui v. G.P. Cirillo, Le fonti del processo amministrativo, in AA.VV., Diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Torino, 2017, 3 ss.; A. Police, I mezzi di prova e l’attività istruttoria, ivi, 399 ss.


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giurisdizionale, non meno influenzati nella loro disciplina da esigenze di cura dell’interesse pubblico, si siano dimostrati maggiormente attenti alla garanzia dell’effettività della giustizia offerta, garanzia che trova un significativo momento di emersione proprio nella disciplina della prova. Tale esempio potrebbe guidare una revisione della disciplina vigente, diretta ad adeguare il processo avanti le Commissioni tributarie ai principi del giusto processo, dando attuazione a quel canone di effettività della tutela giurisdizionale che non può trovare deroga in un settore così centrale dell’ordinamento giuridico. Con specifico riferimento al divieto della prova testimoniale, una soluzione intermedia potrebbe passare per la limitazione del divieto alla testimonianza orale, acquisita cioè con le formalità di cui al codice di rito, ammettendo per esclusione la testimonianza scritta, in coerenza a quanto emerge nei sopra richiamati orientamenti della giurisprudenza di legittimità (43). Certo l’eliminazione del divieto della prova testimoniale, pur limitatamente a quella orale, non rappresenterebbe la soluzione di tutti i problemi della prova nel processo tributario, dovendosi anche rafforzare l’utilizzo dei poteri istruttori del giudice tributario nei casi di limiti giuridici al potere di disposizione della prova. In ogni caso, la riforma dovrebbe anche tener conto della natura eccezionale dell’istruttoria nel processo tributario, che, in effetti, normalmente si dirige verso una revisione dell’atto amministrativo impugnato, per cui la fase istruttoria dovrebbe essere prevista come facoltativa, accessibile solo su istanza di una delle parti, in tutti quei casi in cui l’accertamento del fatto si dimostri centrale nella dinamica processuale e si dimostri necessario giungere all’acquisizione di documenti o all’esperimento di prove non precostituite. Una simile previsione avrebbe il pregio di garantire lo svolgimento dell’udienza di trattazione tendenzialmente riservato all’inquadramento giuridico di fatti ormai provati, evitando così la prassi del rinvio a nuovo ruolo per adempimenti istruttori, garantendosi, in tal modo, una concentrazione del processo medesimo. Dal punto di vista organizzativo, inoltre, le risorse di personale non mancherebbero nelle Commissioni, alla luce del rilevante ridimensionamento

(43) In tal senso, v. A. Giovannini, Giustizia civile e giustizia tributaria: gli archetipi e la riforma, cit., secondo cui tale soluzione potrebbe desumersi anche da una interpretazione giurisprudenziale dell’art. 7 del D.lgs. n. 546/1992 coerente con i principi costituzionali di tutela del diritto di difesa e del giusto processo, pur rilevando come una interpretazione costituzionalmente orientata rappresenti la strada stretta rispetto a quella maestra di una riforma della disciplina processuale tributaria.


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delle pendenze del contenzioso tributario derivante dall’introduzione dei noti istituti deflativi e dalle ricorrenti definizioni agevolate delle controversie, che hanno notevolmente ridotto il carico di lavoro dei magistrati tributari, ove confrontato con quello di alcuni anni fa. Una diversa prospettiva di riforma, a più elevato impatto innovativo, potrebbe, invece, passare per la previsione di un livello alternativo di tutela giurisdizionale in materia tributaria, fondato sulle dimensioni economiche della lite. Questa prospettiva si fonda sulla premessa che non possono essere messe sullo stesso piano di rilevanza giuridica controversie di minimo valore e controversie di valore significativo o involgenti questioni, pur di valore indeterminabile, ma di significativo rilievo ai fini della formazione di orientamenti giurisprudenziali. Una simile differenziazione è già implicita nel codice di rito, ai fini dell’attribuzione delle controversie civili alla competenza del giudice di pace (44). Per questo non si vedono ostacoli per pensare ad una differenziazione del giudice competente a decidere le controversie tributarie, stabilendo un limite di valore determinato dal petitum. Per le controversie di valore non rilevante resterebbe in vigore il sistema attuale avanti le Commissioni tributarie (45), accentuandosi il ruolo della mediazione preventiva, che svolgerebbero, eventualmente in forma monocratica nel giudizio di primo grado, un’attività giurisdizionale assimilabile a quella del giudice di pace. Per le controversie di maggior valore e per quelle di valore non determinabile, dovrebbero istituirsi sezioni specializzate tributarie nei Tribunali e presso le Corti d’appello, che applicherebbero le norme del C.P.C., anche in materia istruttoria (46). Il giudizio di legittimità sarebbe in ogni caso affidato alla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, che conoscerebbe delle impugnazioni delle sentenze delle Commissioni tributarie regionali e delle Corti d’appello. Si tratta, come è ovvio, di linee guida, la cui attuazione, però, non sembra particolarmente complessa, specie ove anche l’amministra-

(44) Art. 7 e ss. C.P.C. (45) Tale valore ben potrebbe essere allineato a quello attualmente previsto dall’art. 17 bis del D.lgs. n. 546 del 1992 ai fini dell’accesso obbligatorio alle procedure di reclamo e mediazione. (46) Questa soluzione consentirebbe di risolvere il problema relativo all’ammissibilità nel processo tributario dell’accertamento tecnico preventivo, che troverebbe nella disciplina processual-civilistica la propria base normativa, consentendo l’acquisizione della prova del fatto a rilevanza tributaria anche prima dell’insorgenza della lite.


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zione finanziaria desse il proprio contributo nello studio e nella programmazione delle iniziative di tipo organizzativo. In ogni caso, anche ove si riuscisse a sensibilizzare la politica circa la necessità di un intervento sulla giustizia tributaria, ciò che deve restare chiaro, sia nell’ipotesi di una revisione del sistema attuale, sia nella differenziazione della giurisdizione nelle controversie tributarie più rilevanti, è la necessità di un cambio di mentalità del giudice tributario, sia professionista che di pace, che passi per l’affermazione di un principio di fondo proprio della giurisprudenza comunitaria, quello della prevalenza della sostanza sulla forma (47). Il giudice tributario deve ricostruire il fatto a rilevanza tributaria utilizzando i canoni probatori previsti dalla legge, moderando gli eccessi impositivi privi di collegamento con la realtà economica. Il giudice tributario deve attuare la legge, rifuggendo da una visione spettacolistica dell’imposizione tributaria. Il tributo, infatti, come una pianta affonda le proprie radici nell’economia e attraverso la sapiente opera del politico, dell’economista e del giurista consente di attribuire i propri frutti alla politica, all’economia ed al diritto. La politica beneficerà di un tributo che colpisce i propri elettori nel minimo possibile, consentendo una vita dignitosa, ma anche il giusto profitto dell’investimento. L’economia vedrà premiate le scelte virtuose con una minore tassazione, selezionando in tal modo i percorsi di crescita e di sviluppo economico globale. Il diritto, infine, potrà apprezzare la giusta composizione delle finalità proprie del tributo, prendendo atto della riduzione della litigiosità e dell’incremento dell’affidamento del cittadino derivante dalla certezza delle norme.

Giuseppe Tinelli

(47) V., sul punto, A. Di Pietro, Il giudice tributario come giudice europeo: dall’interpretazione all’attuazione delle norme europee, cit., che rileva come all’interpretazione giudiziale debba attribuirsi una particolare importanza nell’attuazione del diritto europeo, utilizzandosi a tal fine non un approccio formale, bensì uno di tipo sostanziale finalizzato a privilegiare criteri o parametri interpretativi europei, tali da garantire l’attuazione dei modelli europei, anche quando le scelte nazionali non appaiano conformi alle fonti o all’interpretazione europea.


La “salute” nel diritto tributario tra agevolazioni e regimi fiscali Sommario: 1. Introduzione: l’assenza di una definizione di “salute” nel diritto

tributario. – 2. Norme fiscali a tutela della salute, in senso stretto. – 2.1. Le “disposizioni sottrattive” a tutela della salute: le deduzioni e le detrazioni Irpef per le spese sanitarie. – 2.2. L’esenzione Iva delle prestazioni sanitarie. – 2.3. Le “disposizioni impositive” a tutela della salute: dalla recente sugar tax alla tassazione delle sigarette elettroniche, del tabacco e dei giochi. – 2.4. Norme fiscali a tutela della salute, in senso lato: i regimi fiscali degli enti del terzo settore che effettuano prestazioni sanitarie. – 3. Una diversa qualificazione delle disposizioni “sottrattive” e “impositive” per una “fiscalità della salute”: il principio della capacità contributiva e il rapporto spesa pubblica/spesa sanitaria. – 4. La compatibilità europea delle misure fiscali sulla salute. Le possibili evoluzioni del principio “chi inquina paga”: dal “chi si nutre male paga” al “chi si cura non paga”?

Constatata l’assenza di una definizione di “salute” nel diritto tributario si vuole fornire una riclassificazione delle principali norme fiscali collegate alla tutela della salute suddividendo quelle “in senso stretto” da quelle “in senso lato”, nonché quelle “sottrattive” da quelle “impositive” rivolte al medesimo fine. Successivamente, la compatibilità costituzionale delle suddette norme è stata affrontata sviluppando l’interpretazione funzionale del principio della capacità contributiva e valorizzando il rapporto “spesa pubblica/spesa sanitaria”, mentre quella europea è stata declinata parafrasando il principio “chi inquina paga” nell’ipotetico “chi si nutre male paga” e, specularmente, “chi si cura non paga” al fine di delineare una legittima giustificazione all’interno del regime degli aiuti di Stato. The absence of a definition of “health” in tax law has suggested a reinterpretation of the rules for the protection of health by dividing those “in a strict sense” from those “in a broad sense”, those “subtractive” from those “imposed”. Subsequently, the constitutional compatibility of the rules was developed on the functional interpretation of the principle of fiscal capacity and on the “public expenditure/health expenditure” ratio, while European compatibility was developed starting from the “polluter pays” principle to arrive at the State aid system.


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1. Introduzione: l’assenza di una definizione di “salute” nel diritto tributario. – In un periodo storico nel quale si riscopre la centralità della “salute”, si possono ipotizzare differenti forme di tutela utili a migliorare uno scenario che spesso appare non adeguato e in crisi (1). Premesso che nel diritto tributario non esiste un concetto di “salute”, ma ritenendo che esso sia implicito nel nostro Ordinamento, le riflessioni che seguono vogliono, innanzitutto fornire una diversa prospettiva che inquadri le disposizioni in tale ottica: si è pensato, pertanto, di elaborare una riclassificazione delle principali norme fiscali collegate alla tutela della salute suddividendo quelle “in senso stretto” da quelle “in senso lato” (in ragione del collegamento diretto o indiretto con la salute), distinguendo inoltre le “disposizioni sottrattive” a tutela della salute dalle “disposizioni impositive” rivolte al medesimo fine. Successivamente, occorre valutare la compatibilità costituzionale ed europea delle suddette norme i) apprezzando una interpretazione funzionale e interna al principio stesso della capacità contributiva che valorizzi il concetto di “spesa pubblica” e si “spesa sanitaria” a carico dello Stato e delle Regioni (2), ii) tenendo conto del regime europeo degli aiuti di Stato e delle recentissime aperture in tal senso mostrate dalla Commissione europea con la Comunicazione del 19 marzo 2020 (“Quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del Covid-19”).

(1) Da ultimo vedasi il D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, conv. L. n. 27 del 24 aprile 2020, sul “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.” ove si prende atto degli “effetti negativi che l’emergenza epidemiologica Covid-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale, prevedendo misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale, della protezione civile e della sicurezza, nonché di sostegno al mondo del lavoro pubblico e privato ed a favore delle famiglie e delle imprese”. (2) Nel Rapporto n. 6 “Il monitoraggio della spesa sanitaria”, pubblicato a luglio 2019, dal Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato (MEF), avente ha lo scopo di illustrare il processo di implementazione del quadro normativo e gestionale del settore sanitario, si approfondisce il quadro della spesa sanitaria corrente affermando (in particolare a p. 117 e ss.): “A partire dall’anno 2000, la sede di definizione del sistema di governance nel settore sanitario è stata individuata nelle Intese Stato-Regioni (art. 8, co. 6, della L 131/2003 in attuazione dell’art. 120 della Cost.). In tali Intese, ordinariamente triennali, lo Stato e le Regioni convengono sul livello di finanziamento del SSN per il periodo di vigenza dell’Intesa, al fine di garantire alle regioni le risorse finanziarie necessarie alla programmazione di medio periodo; con esse si definiscono anche le regole del governo del settore e le modalità di verifica degli adempimenti a carico delle regioni.”


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Il principio della tutela della salute, sancito dall’art. 32 Cost., viene affidato all’art. 117 Cost. in ragione di un riparto delle competenze che vede una legislazione concorrente Stato/Regioni (secondo comma) in base alla quale a queste ultime spetta la potestà legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata al primo (3). Tale assetto si è tradotto in un complesso e difficile equilibrio dei bilanci regionali, con differenze importanti a livello territoriale (4), in una complessiva e tendenziale riduzione della spesa sanitaria (5). Emerge, così, una chiara questione di bilanciamento da calibrare su un riparto di competenze Stato/Regioni che impongono al legislatore di effettuare periodicamente delle valutazioni sulle spese sacrificabili in presenza di esigenze finanziarie non adeguate (6).

(3) “Il diritto alla salute può essere definito, nello stesso tempo, come il più importante e il più fragile tra tutti i diritti sociali” così L. Antonini, Il diritto alla salute e la spesa costituzionalmente necessaria: la giurisprudenza costituzionale accende il faro della Corte, in federalismi.it, n. 22/2017, 2 e ss. Per una visione d’insieme e di principi cfr. B. Caravita, La disciplina costituzionale della salute, in Diritto e società, 1984, 41 ss.; M. Luciani, Salute, I, Diritto alla salute – Diritto costituzionale, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, 2 ss.; R. Ferrara, Salute (diritto alla), in Digesto delle Discipline pubblicistiche, 1997; M. Cocconi, Il diritto dalla tutela della salute, Milano, 1998; AA.VV., Il diritto alla salute alle soglie del terzo millennio. Profili di ordine etico, giuridico ed economico, a cura di L. Chieffi, Torino, 2003. (4) Così G. G. Carboni, Il diritto alla salute e l’eguaglianza territoriale, in AA.VV., Salute, sanità e benessere: un approccio multidisciplinare, a cura di A. Ezza e G. Ruiu, Udine, 2019, 29 e ss., l’A. evidenzia inoltre che i dati dei livelli essenziali di assistenza (LEA) nel periodo 2010-2017 confermano che il sistema sanitario è caratterizzato da un rilevante divario territoriale nei servizi sanitari. (5) Cfr. Ufficio parlamentare di bilancio, La revisione della spesa pubblica: il caso della sanità, Focus tematico n. 9, 21 dicembre 2015, 10 e ss. Così come dimostrato dai dati OCSE 2015 “Health at a glance” ove l’Italia ha ridotto la spesa sanitaria pubblica e privata pro capite dell’1,6 per cento in media tra il 2009 e il 2013. Nello stesso rapporto si sottolinea che la relazione tra spesa sanitaria e Pil in Italia è inferiore a quello della Grecia e analogo a quello del Messico. Più di recente, vedasi nel Rapporto n. 6 “Il monitoraggio della spesa sanitaria”, pubblicato dalla Ragioneria generale dello Stato, op. cit., l’aggiornamento sul piano di rientro delle Regioni con disavanzo sulle spese sanitarie (cap. 5) e l’andamento della spesa sanitaria corrente (cap. 4) con il relativo piano di razionalizzazione e il condizionamento su di essa dell’invecchiamento della popolazione. (6) Sulla necessità di distinguere i diversi tipi di spesa sui quali il legislatore dovrebbe intervenire nel rispetto dei c.d. limiti invalicabili per tutelare la salute, vedasi la sentenza della Corte costituzionale n. 169/2017: deve restare salva la necessità costituzionale di distinguere le spese attinenti ai diritti sociali da quelle che costituzionalmente necessarie non sono. In tal senso L. Antonini, Il diritto alla salute e la spesa costituzionalmente necessaria, cit., 8. Sul punto vedasi anche L. Carlassare, Bilancio e diritti fondamentali: i limiti “invalicabili” alla


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I momenti di crisi economica e sanitaria dovrebbero suggerire, in maniera stringente, alla responsabilità in capo al legislatore di compiere delle scelte, d’ordine fiscale, utili a incentivare lo svolgimento di azioni a tutela della salute ma anche di prevenzione, a vantaggio della contabilità pubblica (7). Il punto di vista che si vuole offrire tende a dimostrare che è possibile dare una lettura congiunta degli artt. 32 e 53 della Costituzione (8): il diritto alla salute può essere garantito dallo Stato anche attraverso una modulazione del prelievo e l’interesse della collettività alla tutela della salute, riconosciuto dal primo, può essere “parafrasato” in un buon funzionamento del sistema sanitario in virtù anche dell’uso del tributo rivolto a disincentivare o, specularmente, a favorire determinati comportamenti in relazione agli effetti che oggettivamente si possono produrre sulla salute (9). Si anticipa sin da subito che studiare le disposizioni sottrattive e impositive aventi una tutela diretta o indiretta della salute dovrebbe consentire di porre tale finalità in posizione centrale per valutare se i mezzi siano funzionali all’obiettivo, in una prospettiva di opportuno ripensamento delle norme agevolative riqualificandole in regimi ordinari differenziati per conferire connotati strutturali e riconoscere le peculiarità soggettive che possano differenziare le manifestazioni di capacità contributiva. 2. Norme fiscali a tutela della salute, in senso stretto. – Da un primo punto di vista, nel diritto tributario esistono delle norme direttamente finalizzate alla tutela della salute che riducono l’imposta dovuta dal soggetto bi-

discrezionalità del legislatore, in Giur. cost., n. 6/2016, 2340. (7) “Se salute, dinamicamente, non è soltanto lo stato di assenza di malattia o di infermità, ma uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, allora diventa rilevante direttamente tutta l’attività preventiva, sia quella strettamente sanitaria (...) sia quella extrasanitaria”. Così R. Balduzzi, Salute (diritto alla), in Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, vol. VI, Milano, 2006, 5395 e ss. (8) Ci si riferisce al primo comma dell’art. 32 della Costituzione il quale recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” (9) Nel diritto pubblico, l’art. 32 della Costituzione esprime al suo interno un necessario bilanciamento tra la posizione individuale e il bene collettivo. Sul punto cfr. A. Giovannini, Un “fil di fumo”: la tassazione delle sigarette elettroniche e la tutela della salute, in Corr. trib., n. 9/2014, 716: “L’interesse della collettività, però, viene in considerazione anche da un diverso punto di vista, alla cui luce si può leggere la stessa tutela della salute: il punto di vista della spesa pubblica e della sua entità, e il punto di vista dell’allocazione delle risorse, che trovano presidi negli artt. 53 e 81”.


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sognoso di cure sanitarie o, specularmente, che assoggettano a tassazione il consumo di beni potenzialmente lesivi della salute personale. Siffatte osservazioni possono, inoltre, prescindere dalla qualifica attribuita alla specifica agevolazione, esenzione o esclusione valutando, invece, la sostanziale esistenza di una natura agevolativa/derogatoria o di una coerenza con la disciplina del singolo tributo (10). Pur rinviando al paragrafo 3 le osservazioni sulla compatibilità costituzionale e sugli sviluppi del principio della capacità contributiva rapportato all’esigenza della tutela della salute, di seguito verranno innanzitutto evidenziate le norme che direttamente o indirettamente (in senso stretto o in senso lato) manifestano un nesso di collegamento con il valore sotteso all’art. 32 della Costituzione. 2.1. Le “disposizioni sottrattive” a tutela della salute: le deduzioni e le detrazioni Irpef per le spese sanitarie. – La disciplina di un tributo può essere modulata all’interno degli schemi del regime impositivo ovvero dell’agevolazione, in una logica costruttiva della base imponibile o delle relative agevolazioni/deroghe. Si ricorda l’utilità della distinzione dei connotati di una disciplina ordinaria del tributo, composta da norme impositive ed esclusioni, e le esenzioni le quali sottendono una natura agevolativa/derogatoria (11); indispensabile è un richiamo anche al criterio funzionale in ragione del quale le esclusioni possiedono uno scopo interno alla logica del tributo, mentre le esenzioni si contraddistinguono per una finalità extrafiscale (12).

(10) M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni (diritto tributario), in Rass. trib., n. 2/2002, 421: “numerose detrazioni, diversi crediti d’imposta non hanno natura agevolativa in quanto destinati a completare la disciplina del tributo realizzandone l’assetto e la natura”. Dello stesso A. vedasi le risalenti ma sempre valide osservazioni in Aspetti della limitazione della detrazione in presenza di operazioni esenti nell’imposta sul valore aggiunto: profili sostanziali e procedimentali, in Giur. it., n. 3/1986, 2 ss. Sia consentito rinviare al paragrafo 3 del presente lavoro per ulteriori riferimenti bibliografici sul tema delle agevolazioni e della capacità contributiva. (11) Cfr. F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 32 e ss.; S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, Padova, 1994, 410 e ss. (12) Cfr. A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, in particolare a 146 ove si afferma che le esclusioni incidono sulla ratio e sulla struttura del tributo, delimitando il presupposto nel rispetto di un ragionevole criterio di riparto. S. La Rosa, Eguaglianza tributaria e esenzioni fiscali, Milano, 1968, 125 e ss., il quale in maniera del tutto simile al Fedele differenzia le esclusioni dalle esenzioni in quanto le prime caratterizzano la


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Più nel dettaglio le deduzioni e le detrazioni Irpef per spese sanitarie rappresentano senza dubbio delle “disposizioni sottrattive” (13), tra le quali occorre indagare sulle finalità agevolative/derogatorie o meno. In particolare, l’art. 10 Tuir, primo comma, lett. b), consente di dedurre dal reddito complessivo Irpef le spese mediche e quelle di assistenza specifica necessarie nei casi di grave e permanente invalidità con l’effetto di ridurre il livello di tassazione in ragione del minor “peso” della aliquota marginale (14). Siffatta deduzione, diminuendo la base imponibile, attribuisce un vantaggio maggiore ai possessori di redditi elevati creando un effetto contrario a quello redistributivo tipico della progressività: infatti – fatto salvo il principio sotteso al secondo comma dell’art. 53 Cost. in base al quale il sistema tributario deve essere informato a criteri di progressività – la deduzione delle spese mediche e assistenziali tipizzate nell’art. 10 Tuir dal reddito imponibile comporta un risparmio di imposta maggiore a vantaggio di quelle persone fisiche che scontano una aliquota marginale Irpef elevata. A parità di spesa medica sostenuta da due persone, l’effetto premiale a favore del soggetto che possiede un reddito complessivo più elevato non è giustificato da ulteriori esigenze di tutela della salute dato che non sussisterebbe una correlazione (né

struttura dei tributi in quanto indici dei criteri di valutazione della capacità contributiva, mentre le seconde attengono ad interessi esterni alla norma impositiva. (13) Cfr. F. Fichera, Agevolazioni fiscali, bilancio delle tax expenditures e politica tributaria: il caso italiano, in Rass. trib., n. 4/2012, 11 e ss.; l’A. in relazione al c.d. approccio positivo per lo studio delle agevolazioni osserva che “ai fini di definire e individuare le agevolazioni, il problema che si pone è quello di distinguere tra le discipline sottrattive quelle che concorrono al trattamento ordinario e quelle che, invece, costituiscono trattamenti agevolativi.”…“tra i trattamenti sottrattivi sono considerati agevolativi solo quelli che, a un tempo, sono in deroga rispetto al trattamento ordinario (i), comportano un trattamento più favorevole per determinate fattispecie (ii) e svolgono una funzione promozionale (iii). Come si vede, la distinzione rispetto al trattamento ordinario non dipende dall’impiego di determinati istituti e meno ancora dalle denominazioni che si trovano nella legislazione: esenzioni, esclusioni, deduzioni, detrazioni, esoneri, aliquote ridotte, tassazione separata, discipline sostitutive e così via, ma dal considerare se nei casi concreti queste determinazioni negative siano partecipi del trattamento ordinario o siano agevolative. Se ne ricava che il trattamento ordinario non deriva solo da un modello di partenza, ma risulta anche dalle discipline adottate nei singoli ordinamenti.” Dello stesso A. cfr. Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 32 e ss., 108 e ss., 234 e ss. (14) G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2014, 126, effettua un esempio pratico per dimostrare il suddetto principio: “dedurre mille euro dal reddito complessivo di un soggetto che ha un’aliquota marginale del 50% comporta un risparmio d’imposta di 500 euro; lo stesso importo dedotto da un soggetto con un’aliquota marginale del 25% determina un risparmio d’imposta di 250 euro)”.


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un incentivo) tra il sostenimento di una spesa sanitaria dovuta a gravi malattie e il posizionamento in un più alto scaglione di reddito (15). Ad ogni modo, la deduzione per spese sanitarie collegate a patologie gravi del soggetto passivo Irpef è qualificabile quale esclusione avente una finalità interna alla logica del tributo: in particolare, il principio della personalità dell’imposizione tipica dell’Irpef viene coerentemente applicato in tale tipologia di deduzione che tiene conto del livello reddituale posseduto e dichiarato da una determinata persona fisica, senza mostrare un carattere agevolativo/ derogatorio (16). L’art. 15, primo comma, lett. c) Tuir consente di detrarre dall’imposta lorda le spese sanitarie, mediche e specialistiche ammettendo una riduzione diretta dell’imposta, a prescindere dal proprio livello reddituale. La detrazione per spese sanitarie mediche e chirurgiche sembra, pertanto, ispirarsi al principio di uguaglianza in funzione del valore di riduzione dell’imposta lorda, ignorando il livello reddituale della persona fisica: tuttavia, a ben vedere, tale meccanismo risponde maggiormente al criterio della progressività in virtù della rilevanza più significativa del valore della detrazione per i possessori di redditi bassi (17). Si osserva, inoltre, che l’imposta lorda viene ridotta, in ragione della detrazione graduata al 19% della spesa sostenuta e al netto di una predeterminata franchigia, attraverso un bilanciamento rivolto, da un lato a contenere il mancato introito nel bilancio statale, dall’altro lato a “calibrare” l’effetto qualitativo (sopra citato) a favore dei redditi più bassi. In tali tipologie di detrazioni, la natura dell’esclusione emerge dal rapporto col soggetto passivo, alla luce della spesa sostenuta per la cura della propria persona, senza che vengano alterati i principi ispiratori dell’Irpef, tra i quali quello della personalità del tributo.

(15) Tale effetto, illogico, è stato calmierato dalla L. n. 80 del 7 aprile 2003 che prevedeva una trasformazione, mai attuata fino in fondo, delle deduzioni in detrazioni. (16) M. Basilavecchia, op. cit., 421 e ss. sottolinea infatti che al di là della qualificazione formale attribuita ad una deduzione o a una detrazione occorre valutare, caso per caso, la natura agevolativa/derogatoria o la coerenza con i principi informatori del tributo in questione. (17) G. Falsitta, op. cit., 127 osserva l’effetto della detrazione a favore dei redditi bassi portando il seguente esempio: “lo stesso onere di mille euro consente un risparmio di 190 euro (19%) uguale per tutti, ma sicuramente più significativo per chi è titolare di un reddito basso rispetto a un contribuente con un reddito elevato”.


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In definitiva, sia le deduzioni che le detrazioni per spese sanitarie sono definibili quali esclusioni, avendo riconosciuto un collegamento con la logica di funzionamento del tributo e valorizzando una ricostruzione sistematica a siffatte misure “sottrattive” in ragione del loro nesso di collegamento con la “salute” dell’individuo: quest’ultima caratteristica raffigura così una peculiarità immanente al soggetto, anche dal punto di vista reddituale e, dunque, fiscale (18). 2.2. L’esenzione Iva delle prestazioni sanitarie. – In ambito Iva, invece, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, n. 18), del D.P.R. 633/1972, sono esenti le prestazioni sanitarie di diagnosi, cura e riabilitazione rese alla persona nell’esercizio delle professioni e arti sanitarie soggette a vigilanza e, in ragione del n. 19), le prestazioni di ricovero e cura rese da enti ospedalieri o da cliniche e case di cura convenzionate, nonché da società di mutuo soccorso con personalità giuridica e da enti del terzo settore (ETS) di natura non commerciale compresa la somministrazione di medicinali, presidi sanitari e vitto, come pure le prestazioni di cura rese da stabilimenti termali (19). Così, il soggetto-consumatore finale che richiede simili prestazioni sanitarie non sarà gravato e inciso dall’Iva, a differenza di quanto accade normalmente rivestendo la qualifica di soggetto passivo di fatto di tale tributo (20). Le operazioni esenti rappresentate dalle suddette prestazioni sanitarie alterano il meccanismo naturale di applicazione del tributo, interrompendo anche l’ordinaria catena di detrazione dell’imposta (21): infatti, al loro interno sussi-

(18) Sebbene, le suddette deduzioni e detrazioni possano rappresentare politiche a favore della sanità e il loro perseguimento attraverso lo strumento fiscale costituiscano delle agevolazioni in quanto deroga ai principi del sistema impositivo. Così F. Fichera, Agevolazioni fiscali, bilancio delle tax expenditures e politica tributaria: il caso italiano, cit., 12. (19) Cfr. F. Moschetti, G. Moschetti, L’adeguamento al diritto europeo deve avvenire nel rispetto del principio di legalità: a proposito della “rilettura” dell’Agenzia delle Entrate in tema di disciplina Iva delle prestazioni di medicina legale, in Riv. dir. trib., n. 4/2005, 357 e ss., ove si sottolineava la difficoltà e la correlata incertezza ad individuare le categorie soggettive a cui fosse riferibile l’esenzione delle prestazioni sanitarie indicate nell’art. 10 del D.p.r. 633/1972, ancor più in presenza delle differenti traduzioni della Direttiva Iva; vi si auspicava inoltre un aggiornamento, mai avvenuto ma lungimirante, del punto 18 dell’art. 10 del D.p.r. per esplicitare il “fine di tutela della salute”. (20) La neutralità del tributo è infatti garantita per i soggetti passivi di diritto, imprenditori ed esercenti arti e professioni, in ragione degli istituti della rivalsa e della detrazione disciplinati dagli artt. 18 e 19 del D.P.R. n. 633/1972. (21) Caratteristica tipica dell’imposta sul valore aggiunto che deve contraddistinguere tutte le discipline dei diversi Paesi UE. Cfr. E. Traversa, Le régime TVA des soins de senté, in Revue Généréle de fiscalité, n. 11/2005, 16 e ss., l’A. evidenzia le criticità della disciplina Iva


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stono tutti gli elementi fondamentali del presupposto impositivo ma vengono qualificate come esenti per ragioni di politica legislativa (22). Siffatte operazioni, tra cui anche quelle per prestazioni sanitarie, assumono dei connotati di generalità e costituiscono un “regime ordinario promozionale”, ovverosia differente rispetto al regime di imponibilità ordinario sebbene già contemplato dai principi informatori dell’imposta sul valore aggiunto quale modello alternativo adoperabile per le suddette finalità (23). Pertanto, l’esenzione Iva per le prestazioni sanitarie deve essere qualificata alla stregua di una esclusione in quanto facente parte della logica di funzionamento dell’Iva, mettendo in secondo piano la finalità extrafiscale dell’operazione. Si osserva che l’interruzione della “catena” dell’Iva e dell’applicazione del regime di neutralità, che coinvolge tipicamente il soggetto passivo di diritto, pur essendo finalizzata a non incidere sul consumatore finale (soggetto passivo di fatto), committente della prestazione sanitaria (24), rischia di dare luogo ad una traslazione implicita dell’Iva, già divenuta un costo per il prestatore (25).

attuata in Belgio con riferimento alle prestazioni sanitarie rispetto alla Direttiva Iva. (22) Così A. Fantozzi, Operazioni imponibili, non imponibili ed esenti nel procedimento di applicazione dell’IVA, in Riv. dir. fin. Sc. Fin., n. 1/1973, 141; G. Marongiu, Disciplina delle esclusioni e delle esenzioni, in Rass. dir. tec. Dog., 1972, 913; M. Giorgi, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, 46. A. Fedele, Esclusioni ed esenzioni nella disciplina dell’Iva, in Riv. dir. fin. sc. Fin., n. 1/1973, 146 e ss. (23) Questa è la tesi ricostruttiva riassunta da F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, 45. L’A. afferma infatti che le operazioni esenti costituiscono dei “microsistemi autonomi e derogatori rispetto al regime di imponibilità ordinario, ma perfettamente inseriti nell’ambito del meccanismo naturale di applicazione del tributo…le limitazioni al diritto di detrazione in capo al soggetto passivo non possono essere l’elemento caratterizzante e qualificatorio di tali tipologie di operazioni, costituendo solamente l’effetto di una precisa scelta legislativa”. (24) Più volte è emersa una disparità di trattamento tra prestazioni sanitarie in base allo status del prestatore, secondo modalità cassate dalla Corte di Cassazione e dalla Corte di Giustizia le quali hanno consolidato l’irrilevanza del profilo soggettivo, privilegiando l’unitarietà delle prestazioni a tutela della salute. Così rileva F. Montanari, op. cit., 176 e ss., citando CGE 10 giugno 2010, causa C-86/09; CGE, 8 giugno 2006, causa C-106/05. La CGE si spinge oltre equiparando e qualificando quali esenti anche le prestazioni che abbiano simili caratteristiche sebbene provenienti da attività illecite. Cfr. CGE, 7 luglio 2010, causa C-381/09, commentata da M. Peirolo, Principio di neutralità fiscale e riflessi IVA nelle operazioni illecite, in Corr. trib., n. 33/2010, 3423 e ss. (25) Osserva infatti A. Comelli, Iva comunitaria e nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 370: le operazioni esenti impediscono


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2.3. Le “disposizioni impositive” a tutela della salute: dalla recente sugar tax alla tassazione delle sigarette elettroniche, del tabacco e dei giochi. – La disciplina di un tributo può essere finalizzata ad “incidere” sul consumo di sostanze potenzialmente dannose per la salute attraverso un incremento del costo complessivo per l’acquisizione delle stesse da parte del consumatore finale: esempio di tale modus operandi è individuabile nella recentissima sugar tax. La c.d. sugar tax (26) è stata istituita quale “imposta sul consumo di bevande con zuccheri aggiunti” con l’intento di perseguire un duplice obiettivo: i) disincentivare l’assunzione di bevande edulcorate attraverso la leva fiscale, ii) riducendo in prospettiva i costi che il servizio sanitario nazionale dovrebbe affrontare in relazione alle patologie connesse all’elevato tasso di obesità infantile e malattie diabetiche (27). Il tributo può così orientare le scelte del consumatore incrementando il costo dei cibi dannosi per la salute e, viceversa, diminuire l’onere per quelli che contribuiscono a mantenere un buon stato di salute.

“una traslazione palese dell’Iva in capo al consumatore medesimo”. Sul punto anche G. Falsitta, op. cit., 871 fa notare che l’operazione di esenzione risulta meno vantaggiosa rispetto a quella non imponibile anche per il consumatore finale “perché l’iva indetraibile è un costo, che influisce sul prezzo del bene o servizio”. Siffatta traslazione occulta è in ogni caso compatibile con la disciplina europea e nazionale dell’Iva, così L. Salvini, La detrazione IVA nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, in Riv. dir. trib., n. 1/1998, 137 e ss. (26) L’entrata in vigore del tributo (già ritardata per consentire un adattamento dei processi produttivi e ora ulteriormente sotto esame per valutare un ulteriore rinvio a causa del lockdown da Covid-19) dovrebbe avvenire ad ottobre 2020 e consiste in un prelievo su tutte le bevande edulcorate analcoliche, che abbiano un limite alcolometrico inferiore all’1,2 per cento e un contenuto complessivo di edulcoranti che superi soglie prestabilite. La disciplina è contenuta nella legge di Bilancio 2020, l. 160/2019, art. 1, c. 661 e ss. La base imponibile è individuata dal comma 665: “L’imposta di cui al comma 661 è fissata nelle misure di: a) euro 10,00 per ettolitro, per i prodotti finiti; b) euro 0,25 per chilogrammo, per i prodotti predisposti ad essere utilizzati previa diluizione.” I soggetti passivi del tributo sono indicati dal comma 664: “Sono obbligati al pagamento dell’imposta di cui al comma 661: a) il fabbricante nazionale ovvero il soggetto nazionale che provvede al condizionamento, per la fattispecie di cui al comma 663, lettera a); b) l’acquirente, per la fattispecie di cui al comma 663, lettera b); c) l’importatore, per la fattispecie di cui al comma 663, lettera c). (27) Uno dei punti chiave delle Conclusioni del Consiglio UE per contribuire a fermare l’aumento del sovrappeso e dell’obesità infantili (2017/C 205/03) afferma che occorre analizzare “le conseguenze economiche del sovrappeso e dell’obesità negli adulti e nei bambini (per esempio, i costi sanitari e sociali e l’onere per il bilancio pubblico e per i bilanci familiari nei diversi gruppi della popolazione)”.


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Tali principi possono essere applicati anche a fattispecie analoghe, quali la tassazione delle sigarette elettroniche, del tabacco e dei giochi, al fine di perseguire un “doppio dividendo” (28): reperire risorse finanziarie e premiare comportamenti “salutistici” attraverso un ragionevole e proporzionale bilanciamento di interessi (29). Il testo unico delle accise è stato di recente modificato al fine di attuare una variazione del livello di tassazione del tabacco e dei suoi derivati, nonché delle c.d. sigarette elettroniche. Inizialmente, infatti, esisteva una sostanziale equiparazione tra il livello di imposizione dei “tabacchi lavorati” rispetto a quello dei “prodotti succedanei dei prodotti da fumo”, mentre, gradualmente, si è giunti ad una netta differenziazione tra le due tipologie secondo una logica ispirata alla tutela della salute.

(28) Cfr. F. Gallo, Giustizia sociale e giustizia fiscale nella prospettiva dell’unificazione europea, in Dir. prat. trib., n. 1/2014, 1 ss., il quale richiama il concetto del doppio dividendo esposto nel sempre attuale rapporto Delors: Comunicazione della Commissione del 13 aprile 2011, n. COM (2011) 168 (Un’imposizione fiscale più intelligente dell’energia nell’UE: proposta di revisione della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici), ove si precisa che la revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia nei termini proposti dalla commissione ristrutturerà il regime fiscale attualmente applicabile all’energia, al fine di renderlo più efficiente e coerente. Oltre a migliorare il funzionamento del mercato interno, creando pari condizioni di concorrenza per le imprese, che saranno trattate su un piano di parità sia che consumino petrolio, gas naturale o biomassa, produrrà soprattutto incentivi positivi in campo ambientale e concorrerà quindi alla realizzazione degli obiettivi della strategia Europa 2020. Sul punto vedasi anche O.E. De Falco, Il tributo regionale sui rifiuti solidi in discarica alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea, in Riv. dir. trib., n. 4/2011, 72 ss.; A. Zatti, Tassazione ambientale e federalismo fiscale: potenzialità e sviluppi recenti con riferimento al caso italiano, in Riv. dir. fin., n. 3/2012, 352 ss. (29) Il depotenziamento del prelievo tributario comporta una diminuzione della tassazione pur mantenendo in equilibrio i cardini dell’Ordinamento interno, ovverosia l’interesse fiscale e la capacità contributiva. In tal senso P. Boria, I principi costituzionali dell’ordinamento fiscale, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Milano, 2012, 115. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al paragrafo 3 e alla dottrina che ha trattato i principi generali delle agevolazioni: S. La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1966; F. Fichera, Le agevolazioni tributarie, Padova, 1992; M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, 421 e ss.


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Il legislatore ha innalzato con la legge di Bilancio 2020 le accise che gravano sui tabacchi lavorati (30) mentre le accise sulle sigarette elettroniche, contenenti o meno nicotina, hanno beneficiato di una netta riduzione (31). Precedentemente, l’art. 62 quater del Tua, D.Lgs. n. 504/1995, prevedeva un livello di tassazione sovrapponibile a quello delle sigarette tradizionali, con evidenti incoerenze sul piano della tutela della salute: la norma stabiliva che i prodotti contenenti nicotina o altre sostanze idonee a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici atti all’uso di tali sostanze, sono tassati al 58,5 per cento del loro prezzo di vendita al pubblico. Anche la disciplina fiscale del gioco d’azzardo mostra una volontà del legislatore ispirata alla ragionevolezza e al bilanciamento di interessi, perse-

(30) È stata fissata ad esempio al 59,8 per cento l’aliquota di base delle sigarette tradizionali. Riprendendo la classificazione contenuta nell’art. 39 bis del Dlgs n. 504/1995, il comma 659 dell’art. 1 della L. 160/2019 ha fissato le seguenti aliquote di base: sigari 23,5%, sigaretti 24%, sigarette 59,8%, tabacco trinciato a taglio fino da usarsi per arrotolare le sigarette 59%, altri tabacchi da fumo 56,5%, tabacco da fiuto e da mastico dal 25,28%. Per un approfondimento sulla struttura dell’accisa sui prodotti derivati dal tabacco cfr. C. Verrigni, Accise non armonizzate sul consumo di sigarette elettroniche, in Corr. trib., n. 2/2014, 141 e ss. Dello stesso A. per una panoramica sulle accise cfr. Le accise nel sistema dell’imposizione sui consumi, Torino, 2017. (31) È previsto un assoggettamento all’imposta di consumo in misura pari, rispettivamente, al dieci per cento e al cinque per cento dell’accisa gravante sull’equivalente quantitativo di sigarette L’art. 62 quater del Tua prevede dal primo gennaio 2019, al comma 1 bis: “I prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, contenenti o meno nicotina, esclusi quelli autorizzati all’immissione in commercio come medicinali ai sensi del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, e successive modificazioni, sono assoggettati ad imposta di consumo in misura pari, rispettivamente, al dieci per cento e al cinque per cento dell’accisa gravante sull’equivalente quantitativo di sigarette, con riferimento al prezzo medio ponderato di un chilogrammo convenzionale di sigarette rilevato ai sensi dell’articolo 39-quinquies e alla equivalenza di consumo convenzionale determinata sulla base di apposite procedure tecniche, definite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in ragione del tempo medio necessario, in condizioni di aspirazione conformi a quelle adottate per l’analisi dei contenuti delle sigarette, per il consumo di un campione composto da almeno dieci tipologie di prodotto tra quelle in commercio, di cui sette contenenti diverse gradazioni di nicotina e tre con contenuti diversi dalla nicotina, mediante tre dispositivi per inalazione di potenza non inferiore a 10 watt. Con provvedimento dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli è indicata la misura dell’imposta di consumo, determinata ai sensi del presente comma. Entro il primo marzo di ogni anno, con provvedimento dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli è rideterminata, per i prodotti di cui al presente comma, la misura dell’imposta di consumo in riferimento alla variazione del prezzo medio ponderato delle sigarette”.


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guendo esigenze di gettito ma anche di contrasto al fenomeno della ludopatia (32), ugualmente oggetto di attenzione a livello europeo (33). 2.4. Norme fiscali a tutela della salute, in senso lato: i regimi fiscali degli enti del terzo settore che effettuano prestazioni sanitarie. – Da un secondo punto di vista, tra le norme fiscali riconducibili indirettamente alla tutela della salute, si osserva che il legislatore ha previsto dei regimi che consentono un alleggerimento dell’onere tributario a favore di determinati soggetti, ad es. quelli del terzo settore (ETS) (34) e delle imprese sociali, i quali possono svol-

(32) Più nel dettaglio, la c.d. Manovra correttiva 2017, D.L. n. 50/2017, conv. con mod. l. n. 96/2017, la misura del PREU sull’ammontare delle somme giocate è stata aumentata: le giocate con gli apparecchi AWP (Amusement With Prize) dal 7,5 al 9%; le giocate con apparecchi VLT (Video Lottery Terminal) dal 5,5 al 6%. Il prelievo sulla parte della vincita eccedente 500 euro è stato raddoppiato dal 6 al 12%. Detta percentuale del 12% si applica anche ai giochi, ancorché a distanza, relativi alle lotterie nazionali ad estrazione istantanea “Vinci per la Vita”, “Vinci Tutto Superenalotto”, Enalotto, Superstar. Così e per approfondimenti cfr. S. Capolupo, Aumentato il prelievo sui giochi, in Corr. trib., n. 30/2017, 2381 e ss. Di recente si ha avuto un ulteriore incremento del livello di tassazione attraverso il cosiddetto Decreto Dignità (L. n. 96/2018, articoli 5-5 quinquies) che ha modificato il comma 6 disponendo l’aumento del prelievo erariale unico sugli apparecchi (di cui all’articolo 110, comma 6, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773). Il prelievo erariale unico su slot machine e videolottery aumenta nel modo seguente: dal primo settembre 2018, l’aliquota di tassazione passa, rispettivamente, dal 19 al 19,25% e dal 6 al 6,25%. Un ulteriore incremento di 0,25 punti percentuali è avvenuto dal primo maggio 2019, al 19,5% per le slot e al 6,5% per le VLT. (33) Recenti sentenze delle CGE hanno manifestato la necessità di contrastare la ludopatia, cfr. M. Martis, Brevi note sul regime impositivo dei proventi derivanti dalle vincite da gioco realizzate sul territorio nazionale. La C.G.U.E. conferma la natura discriminatoria della normativa domestica, nota a CGUE sez. III 22 ottobre 2014 (cause riunite C-344/13 e C-367/13), in Riv. dir. trib. inter., n. 1/2014, 167 e ss. L’A. auspica una progressiva e una più stretta collaborazione tra gli Stati membri, volta alla previsione di comuni standard di garanzia e all’introduzione di una direttiva quadro. Su fattispecie analoga vedasi G. Beretta, Il regime impositivo delle vincite conseguite da residenti presso case da gioco straniere, in Rass. trib., n. 2/2016, 507 e ss. È discriminatoria la normativa italiana che da un lato assoggetta a tassazione le vincite da giochi d’azzardo ottenute nei casinò di altri Stati membri, e dall’altro lato, esonera le vincite realizzate in Italia: si ha una limitazione della libera prestazione dei servizi, non giustificato dalla lotta contro il riciclaggio di capitali e la ludopatia. (34) Il primo comma dell’art. 4 del Codice del Terzo settore, istituito con il D.Lgs. n. 117/2017 e modificato dal D.lgs. 105/2018, stabilisce che “Sono ETS le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività


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gere attività di “interesse generale”, anche a tutela della salute: nell’art. 5 del Codice del terzo settore (CTS) sono tipizzati infatti alla lett. a) i servizi sociali, alla lett. b) le prestazioni sanitarie e alla lett. c) le prestazioni socio-sanitarie. In tale contesto, per le imprese sociali l’art. 18 del D.Lgs. n. 112/2017 stabilisce la non imponibilità delle riserve anche con riferimento a quelle che non derivano dallo svolgimento di un’attività di interesse generale, come pure l’adozione di alcuni incentivi fiscali a favore di quanti decidano di investire nelle imprese sociali prevedendo, in particolare, per le persone fisiche la detrazione dall’Irpef di una somma pari al 30 per cento di quella investita nel capitale sociale dell’impresa sociale e per i soggetti Ires una deduzione dalla base imponibile sempre pari al 30 per cento dell’investimento nel capitale dell’impresa sociale. Più in generale, il CTS ha previsto le seguenti misure di favore: i) non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni, né alle imposte ipotecarie e catastali, tutti i trasferimenti a titolo gratuito di beni utilizzati nel perseguimento delle finalità istituzionali, effettuati a favore degli ETS; ii) agli atti costitutivi, alle modifiche statutarie e alle operazioni straordinarie degli ETS, comprese le cooperative sociali e le imprese sociali diverse da quelle costituite in forma societaria, si applicano le imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa; iii) applicazione in misura fissa delle imposte di registro, ipotecaria e catastale per i trasferimenti di immobili a titolo oneroso a favore di tutti gli ETS; iv) le Regioni e le Prov. Aut. di Trento e Bolzano possono riduzione l’IRAP a favore degli ETS. 3. Una diversa qualificazione delle disposizioni “sottrattive” e “impositive” per una “fiscalità della salute”: il principio della capacità contributiva e il rapporto spesa pubblica/spesa sanitaria. – Si è già osservato che sia le deduzioni che le detrazioni Irpef riconosciute a fronte del sostenimento di spese sanitarie siano qualificabili come esclusioni, e non quali esenzioni, avendo individuato un collegamento con i principi ispiratori dell’imposta; inoltre, sif-

di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”. Per un approfondimento sulla riforma del terzo settore che ammette la non tassazione dei proventi di una impresa commerciale di interesse generale nel rispetto di precise condizioni soggettive e oggettive anche per gli enti commerciali non societari, cfr. V. Ficari, Prime osservazioni sulla fiscalità degli enti del terzo settore e delle imprese sociali, in Riv. trim. dir. trib., n. 1/2018, 57 e ss.


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fatte misure “sottrattive” del tributo, in ragione del nesso di collegamento con la “salute” dell’individuo, assumono dei connotati personalistici sia dal punto di vista reddituale che, dunque, da quello fiscale (35). Il richiamo al principio della personalità dell’imposizione, tipico dell’Irpef, avviene in ragione della spesa sostenuta dal soggetto passivo per curare la propria salute e consente di escludere una natura agevolativa/derogatoria (36). Siffatte riduzioni del prelievo, in virtù della diminuzione del reddito complessivo o (rispettivamente) dell’imposta lorda, non si attuano in deroga al principio della capacità contributiva ma in armonia e nel pieno riconoscimento della stessa: una forza economica modulata sul soggetto passivo in ragione della spesa effettuata per la propria salute (37). Secondo una diversa chiave di lettura, il legislatore potrebbe elaborare delle agevolazioni fiscali che pongano quale fine la tutela della salute, operando in deroga rispetto alla ordinaria manifestazione di capacità contributiva di un determinato soggetto. In tal caso, emergerebbe una funzione extrafiscale del tributo che consentirebbe una eccezione al principio contenuto nel primo comma dell’art. 53 Cost., e quindi alla consueta tassazione del soggetto passi-

(35) Sebbene, le suddette deduzioni e detrazioni possano rappresentare politiche a favore della sanità e il loro perseguimento attraverso lo strumento fiscale costituiscano delle agevolazioni in quanto deroga ai principi del sistema impositivo. Così F. Fichera, Agevolazioni fiscali, bilancio delle tax expenditures e politica tributaria: il caso italiano, cit., 12. (36) M. Basilavecchia, op. cit., 421 e ss. sottolinea infatti che al di là della qualificazione formale attribuita ad una deduzione o a una detrazione occorre valutare, caso per caso, la natura agevolativa/derogatoria o la coerenza con i principi informatori del tributo in questione. (37) Un esempio della diversa manifestazione del concetto di capacità contributiva da quello di forza economica è rappresentato da quelle norme agevolative che il legislatore ha elaborato a favore delle sopravvenienze attive ex art. 55 vecchio Tuir. Tali situazioni sono state interpretate quale esistenza di forza economica, di idoneità al pagamento ma non idoneità al concorso alle spese pubbliche, sostanziandosi in una ridotta capacità contributiva voluta dal legislatore per fini promozionali immanenti alla distribuzione del contributo stesso. Così M. Beghin, I contributi e le liberalità a favore delle imprese. Nel sistema delle imposte sul reddito e nell’Iva, Milano, 1997, 144. L’esistenza di regimi fiscali differenziati è ammissibile a parità di indici di forza economica in quanto la diversità rappresenta la manifestazione di elementi individuati dal legislatore per perseguire degli obiettivi promozionali di rango costituzionale. Così afferma G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2008, 155. Come a voler richiamare il concetto della discriminazione qualitativa dei redditi: questione evidenziata da A. Giovannini, Equità impositiva e progressività, in Dir. prat. trib., 5/2015, 10675 e ss., il quale, ricordando che la distinzione ha antiche origini (gli averi dell’art. 25 dello Statuto Albertino), porta quale esempio di equità orizzontale i diversi trattamenti tra redditi d’impresa normale e quelli d’impresa cooperativa.


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vo, in ragione del fine garantito a livello costituzionale dall’art. 32 Cost. della tutela della salute (38). Tuttavia, seguendo le più recenti evoluzioni del principio contenuto nell’art. 53 Cost. che vogliono interpretare tale valore costituzionale in base alle questioni più attuali (39), è possibile individuare un concetto di capacità contributiva più ampio che riconosca lo status di determinati soggetti (come, per quanto qui d’interesse, negli ETS) o includa il consumo di beni dannosi per la salute da assoggettare a tassazione (come nella sugar tax) (40).

(38) Concependo quali agevolazioni esclusivamente quelle disposizioni aventi carattere derogatorio rispetto al principio della capacità contributiva, alla ratio del singolo tributo Cfr. F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 32 e ss.; S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, Padova, 1994, 410 e ss.; M. Basilavecchia, op. cit., 421, in merito alle detrazioni Irpef, per negarne la natura agevolativa: “espressione di principi che informano la stessa configurazione essenziale del tributo”. In siffatta prospettiva, vedasi A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., in particolare a 146 ove si afferma che le esclusioni incidono sulla ratio e sulla struttura del tributo, delimitando il presupposto nel rispetto di un ragionevole criterio di riparto. S. La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968, 125 e ss., il quale in maniera del tutto simile al Fedele differenzia le esclusioni dalle esenzioni in quanto le prime caratterizzano la struttura dei tributi in quanto indici dei criteri di valutazione della capacità contributiva, mentre le seconde attengono ad interessi esterni alla norma impositiva. (39) Per un recente contributo vedasi V. Ficari, Nuovi elementi di capacità contributiva e ambiente: l’alba di un nuovo giorno… fiscalmente più verde?, in AA.VV., I nuovi elementi di capacità contributiva. L’ambiente, cit., 215 e ss.; A. Giovannini, La Consulta dichiara illegittima l’imposta sulle sigarette elettroniche, commento alla sent. Corte Cost. n. 83/2015, in Corr. trib., n. 30/2015, 2341 e ss., afferma: “l’art. 81 pone al legislatore un vincolo che non è soltanto finanziario o economico, ma è anche valoriale, nel senso che lo obbliga a scelte di raccolta delle risorse che siano ordinate alla razionalità e dunque a scelte che non colleghino un aumento di gettito immediato a scapito della prevenzione, con l’inevitabile, conseguente aumento delle spese pubbliche future e dei “costi sociali” connessi. È uno scenario nuovo, che ci porterà a dover reinterpretare il principio di capacità contributiva anche rispetto ad altri beni ai quali si può guardare per la tassazione futura: i cibi o le sostanze alimentari “spazzatura”, ad esempio. Per ora, però, fermiamoci qui.” Cfr. A. Uricchio, La tassazione sugli alimenti tra capacità contributiva e fini extrafiscali, in Rass. trib., n. 6/2013, 1268 e ss., sottolinea la nuova prospettiva della fiscalità rivolta ad alcuni alimenti non più per questioni di gettito ma per orientare i comportamenti dei contribuenti. (40) A. Uricchio, op. cit., 1268: “Invero, è proprio il perseguimento dei fini di tutela della salute che suggerisce la sottomissione a prelievo di situazioni o attività considerate perniciose che possono, a loro volta, dare luogo ad un aggravio di spese pubbliche, qualificando così la capacità contributiva manifestata dalla fattispecie tassata”. Nel richiamare i “beni capacità” che possono essere oggetto di valutazione da parte della legislazione fiscale e rappresentare una capacità contributiva differenziata, F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, cit., 14, menziona l’ambiente, la salute, l’accesso ai servizi sanitari, il tenore di vita personale, famigliare e sociale.


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Risulta allora legittima e costituzionalmente orientata (41) la differenziazione qualitativa dell’imposta sulla base di elementi oggettivi o soggettivi della fattispecie, secondo una modulazione del riparto collegata a principi costituzionalmente tutelati (42). In generale, l’individuazione di uno specifico regime fiscale conseguenza del rapporto tra la capacità contributiva e la soggettività è già emersa in relazione agli enti non commerciali (43): qui, lo scopo istituzionale di utilità sociale può incidere sulla manifestazione della capacità contributiva ammet-

(41) Cfr. Corte costituzionale n. 10/2015 con commento di P. Boria, L’illegittimità costituzionale della “Robin Hood Tax” e l’enunciazione di alcuni principi informatori del sistema di finanza pubblica, in GT., 5/2015, 384 e ss., nella quale si afferma che “la diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione”. A. Fedele, Principio di eguaglianza ed apprezzamento delle “diverse situazioni dei contribuenti” in tema di legittimità costituzionale della c.d. Robin Hood Tax, in Riv. dir. trib., n. 1/2015, 4 e ss. Similmente cfr. Corte cost. 341/2000, 223/2012. La discriminazione settoriale dei redditi è ammessa dando vita a una differenziazione del sistema impositivo per aree economiche o per tipologia di contribuente purché supportata da adeguate giustificazioni per evitare una arbitraria discriminazione. Così il punto 6.2 della citata sentenza della Corte Cost. n. 10/2015, commentata in tal senso da G. Bizioli, L’incostituzionalità della Robin Hood Tax fra discriminazione qualitativa dei redditi ed equilibrio di bilancio, in Rass. trib., n. 5/2015, 1079 ss., sottolinea che si tratta di una discriminazione fondata sulla differente forza economica dei diversi soggetti. A ciò consegue la necessità di misurare oggettivamente la diversità reddituale a cui far corrispondere una diversità impositiva. Dello stesso A. cfr. G. Bizioli, Eguaglianza tributaria e discriminazione soggettiva dei redditi, in Quaderni cost., n. 3/2015, 723. Sul commento e sugli effetti in ordine al principio della capacità contributiva vedasi anche L. Antonini, Il principio di stretta proporzionalità nel sindacato costituzionale delle leggi tributarie: potenzialità e limiti, in Rass. trib., n. 5/2015, 1064 ss., F. Gallo, Il diritto e l’economia, Costituzione, cittadini e partecipazione, in Rass. trib., n. 2/2016, 287 ss. (42) Vedasi, diffusamente, L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996; P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002; A. Fedele, La funzione fiscale e la capacità contributiva, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone, C. Berliri, Napoli, 2006; F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Perrone, C. Berliri, Napoli, 2006; G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008; F. Gallo, Le ragioni del Fisco, Bologna, 2007; AA.VV., Diritto costituzionale tributario e statuto del contribuente, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di G. Falsitta, Padova, 2011. (43) Cfr. per una analisi di compatibilità con l’Ordinamento interno ed europeo C. Sacchetto, La tassazione internazionale degli enti non commerciali: un problema aperto, in Rass. trib., 3/2012, p. 563 e ss.


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tendo regimi fiscali specifici (44). Una simile rilevanza soggettiva è stata osservata anche nelle imprese sociali (45), capaci di consentire lo svolgimento di un’attività commerciale che, in buona sostanza, genera una riduzione delle spese sociali o assistenziali normalmente a carico dello Stato (46). Il caso della sugar tax rappresenta, invece, un’imposta istituita al fine di disincentivare l’assunzione di bevande con zuccheri aggiunti: l’obiettivo principale perseguito dal legislatore consta nella tutela della salute, in via preventiva (47), degli individui che saranno così meno soggetti a patologie quali l’obesità e le malattie diabetiche (48). Il perseguimento del fine della tutela della salute ammette allora la tassazione di fattispecie considerate in tal senso lesive e potenzialmente adatte a creare, oltretutto, un aggravio delle spese pubbliche necessarie per le cure sanitarie, qualificando così una capacità contributiva manifestata dalla fattispecie tassata.

(44) V. Ficari, Prime osservazioni sulla fiscalità degli enti del terzo settore e delle imprese sociali, cit., 68 osserva che il regime fiscale degli ETS, la differenziazione tributaria rispetto alle società soggettivamente lucrative, consegue una giustificazione nella “rilevanza costituzionale dell’interesse pubblico extratributario e nella circostanza che il meccanismo agevolativo costituisca, come strumento finanziario, una modalità alternativa di perseguimento e realizzazione della finalità pubblica”. (45) Recentemente il legislatore è intervenuto con la L. 106 del 6 giugno 2016, pubblicata in G.U. 141 del 18 giugno 2016, rubricata, “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”, all’art. 9, comma 1, lett. m), prevede la “revisione della disciplina riguardante le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, in particolare prevedendo una migliore definizione delle attività istituzionali e di quelle connesse, fermo restando il vincolo di non prevalenza delle attività connesse e il divieto di distribuzione, anche indiretta, degli utili o degli avanzi di gestione e fatte salve le condizioni di maggior favore relative alle organizzazioni di volontariato, alle cooperative sociali e alle organizzazioni non governative”. (46) Per ulteriori approfondimenti su impresa sociale, equità e capacità contributiva cfr. A. Giovannini, Ripensare la capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 1/2016, 10015 e ss. (47) Presumendo ragionevolmente che chi acquista una bevanda edulcorata ne consumi il contenuto e, quindi, sia maggiormente a rischio di contrarre determinate patologie. Cfr. Conclusioni del Consiglio UE per contribuire a fermare l’aumento del sovrappeso e dell’obesità infantili (2017/C 205/03), cit. paragrafo 2.3 del presente lavoro. (48) La tutela della salute, quindi, non è comprensiva soltanto delle cure e dell’assistenza per malattie o infermità manifeste: sotto il suo cappello è giocoforza ricondurvi anche la prevenzione ed è compito dello Stato, per questo motivo e in aderenza, proprio, all’art. 32, rimuovere o attenuare i fattori di rischio delle patologie. Così A. Giovannini, Un “fil di fumo”: la tassazione delle sigarette elettroniche e la tutela della salute, cit., 716 e ss.


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La tassazione del tabacco e dei suoi derivati prevede un prelievo tributario parametrato su tale sostanza, componente del prodotto finito, quale forma di imposizione attuata tramite le accise (49). La disciplina fiscale delle accise sui tabacchi è modulata quale prelievo adatto ad incidere sul consumo di tale tipologia di beni e la cornice normativa europea non ha previsto la fissazione di aliquote proprio per consentire agli Stati membri l’autonomia decisionale e la possibilità di perseguire obiettivi di tutela della salute (50). Così come avviene nella sugar tax (quantità di zuccheri aggiunti) anche per i prodotti che contengono tabacco o nicotina il presupposto del tributo è la presenza di una sostanza dannosa per la salute e un conseguente innalzamento del costo che dovrà sostenere il consumatore finale (51).

(49) Come osservato da A. Uricchio, op. cit., 1268 e ss., per la tassazione dei “cibi spazzatura” e l’ipotesi delle “fat taxes”. L’A. ha infatti affermato che “Ove introdotte, le fat taxes si aggiungerebbero, quindi, alle attuali accise armonizzate di cui alla Direttiva UE 2008/118/CE, attuata in Italia con il Decreto Legislativo 29 marzo 2010, n. 48come quelle su prodotti energetici ed energia elettrica (direttiva 2003/96/CE), tabacchi lavorati (cfr. direttive 95/59/CE, 92/79/CEE e 92/80) ed alcol e bevande alcoliche (direttive 92/83/CEE e 92/84). Va, tuttavia, evidenziato che mentre le accise gravano sulla quantità dei beni prodotti con aliquote rapportate all’unità di misura del prodotto, le fat taxes dovrebbero essere applicate in funzione degli effetti sulla salute (si pensi ai modelli richiamati ove il tributo viene modulato in funzione della quantità ed il peso dei grassi saturi contenuti negli alimenti).” (50) Cfr. C. Verrigni, Accise non armonizzate sul consumo di sigarette elettroniche, in Corr. trib., n. 2/2014, 141 e ss., l’A. illustra inoltre la differenza tra le accise armonizzate da quelle non armonizzate, le quali rispondono ad esigenze di finanza pubblica, per conseguire obiettivi di politica ambientale o di salute pubblica, ma il rispetto dei principi europei è ovviamente elemento indiscutibile e giudicabile dalla CGE. (51) La configurazione del danno da fumo attivo stenta a trovare in Italia un riconoscimento e l’indagine deve svolgersi nel seguente modo: “Gli elementi fondamentali per l’analisi della fattispecie, devono quindi essere individuati i) nella produzione di sigarette, attività di per sé lecita; ii) nella condotta abituale del fumatore, in chiave di possibile concorso nella determinazione dell’evento lesivo (art. 1227 c.c.) – dovendosi ad ogni modo tenere in conto anche la possibile assuefazione data dalle sostanze contenute nella sigaretta – iii) e nell’individuazione (o meno) di un nesso causale tra tali elementi e la patologia, vale a dire il danno, verificatosi nella sfera giuridica del fumatore medesimo.” Così e per approfondimenti sul piano civilistico, cfr. A. Spangaro, Danno da fumo e nuovi prodotti. Il danno da prodotto conforme: dai derivati del tabacco ai telefoni cellulari, in Giur. it., n. 6/2019, 1312 e ss. L’A. sottolinea che gli stessi principi potrebbero essere applicati a fattispecie ove la eziopatogenesi non è ancora emersa quale l’inquinamento elettromagnetico prodotto dai telefoni cellulari. Sul piano fiscale in futuro sarebbe possibile ugualmente ipotizzare un prelievo parametrato su tale fonte di inquinamento dannosa per la salute della persona.


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All’interno di siffatta categoria di prodotti da fumo occorre distinguere, tuttavia, fattispecie apparentemente similari ma in realtà differenti, suscettibili di essere censurate in base all’art. 3 Cost. a causa di una irragionevole equiparazione: si pensi alla sentenza n. 83/2015 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della tassazione delle sigarette elettroniche parificata a quella del tabacco; in tal caso, condivisibilmente, il giudice delle leggi ha sottolineato il vizio di disuguaglianza tra una normativa finalizzata a scoraggiare il consumo del tabacco, nocivo per la salute, e l’altra applicata ad un bene, quale le sigarette elettroniche, nato per creare un’alternativa meno dannosa (grazie ad un contenuto di nicotina ridotto o assente) (52). Si comprende immediatamente come, con la citata decisione, il giudice delle leggi evidenzi la capacità del diritto alla salute di “entrare” nel diritto tributario attraverso il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.: tuttavia, a ben vedere, il valore contenuto nell’art. 32 Cost. è già immanente all’art. 53 Cost., essendo connaturato nella struttura del principio della capacità contributiva in ragione dell’apprezzamento delle spese pubbliche (53). Nella più recente sentenza della Corte Costituzionale n. 240/2017, da un lato si nota la natura necessitata della decisione causata dal crescente uso delle sigarette elettroniche a discapito dei tradizionali prodotti derivati dal tabacco (con le correlate consegue sul rispettivo gettito), da altro lato permane la tutela della salute, condizione tuttavia non esclusiva per la legittimità della tassazione della fattispecie: in buona sostanza, sebbene meno nocive le sigarette elet-

(52) La sent. n. 83/2015 della Corte Costituzionale affema che “il regime fiscale dell’accisa sui tabacchi sarebbe giustificato dal disfavore nei confronti di un bene universalmente riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, l’inesistenza di un tale presupposto in relazione alle sigarette elettroniche renderebbe manifestamente inapplicabile il medesimo regime amministrativo e tributario a beni che con il consumo del tabacco non hanno nulla in comune. L’irragionevolezza sarebbe evidenziata anche dal contrasto con la direttiva 2014/40/UE, adottata il 3 aprile 2014, la quale ha consentito l’assoggettamento della sigaretta elettronica alle disposizioni previste per la lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco solo nel caso in cui la sigaretta elettronica comporti consumo di nicotina.”. La Corte prosegue sostenendo che il presupposto di limitare il consumo di sostanze dannose per la salute “non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti «altre sostanze», diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo.” (53) La percezione e la preferenza per la seconda via interpretativa è stata già manifestata da A. Giovannini, La Consulta dichiara illegittima l’imposta sulle sigarette Elettroniche, commento alla sent. Corte Cost. n. 83/2015, in Corr. trib., n. 30/2015, 2341 e ss.


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troniche rappresentano un bene voluttuario, con manifestazione di adeguata capacità contributiva (54). Pur non trascurando quella interpretazione che consente di cogliere nella sugar tax, nelle accise sulle bevande alcoliche e sui tabacchi lavorati una natura extrafiscale (55) in ragione della tutela della salute prevista nelle rispettive discipline, tuttavia appare meritevole di attenzione una chiave di lettura che conferisca a tali forme di imposizione una tassazione di manifestazione di capacità contributiva dovuta dal consumo di beni nocivi e di potenziale incremento delle spese pubbliche, in particolare di quelle sanitarie per far fronte alle correlate patologie. Infatti, approfondendo ora la nozione di spese pubbliche citata nell’art. 53, primo comma, della Costituzione, si osserva che essa può ammettere al suo interno anche quelle necessarie per finanziare le prestazioni sanitarie: dunque, una ulteriore finalità della disciplina dei suddetti tributi è costituita dalla tendenziale riduzione del fabbisogno necessario per il servizio sanitario nazionale, prestatore delle cure utili a fronteggiare le patologie collegate, ad esempio, ad una assunzione eccessiva di zuccheri (v. sugar tax). Si individua così una relazione biunivoca tra capacità contributiva e spese pubbliche (56) tale per cui se i) il concorso alle spese pubbliche deve avvenire

(54) Cfr. la nota di C. Verrigni, La tassazione delle sigarette elettroniche e la natura giuridica delle accise, in Giur. cost., n. 6/2017, l’A. osserva che in linea generale le accise fanno parte del sistema di tassazione del consumo, assieme all’Iva, e rappresentano tale natura in ragione della traslazione dell’imposta sul prezzo finale di vendita corrisposto dal consumatore finale. Con riferimento alla sentenza citata, osserva la coerente riconduzione operata dalla Corte delle accise sulle sigarette elettroniche nella parte in cui vengono assoggettati i liquidi aromatici alla medesima aliquota dei liquidi contenenti nicotina. Criticamente, invece, F. Campodonico, La Corte costituzionale torna sulle sigarette elettroniche: scollamento teorico o tentativo di aggiustamento?, in Dir. prat. trib., n. 3/2018, 1298 e ss. (55) Cfr. F. Fichera, Le penalizzazioni fiscali, in Rass. trib., n. 3/2017, 589 e ss., l’A. riconosce natura extrafiscale alle accise sulle bevande alcoliche e sui tabacchi lavorati, a tutela della salute, al pari di quanto avviene per i tributi ambientali, in senso proprio o in senso funzionale. Similmente, sulla natura di istituti additivi, che quindi non generano penalizzazioni fiscali e di trattamenti ordinari cfr. G. Falsitta, L’imposizione delle imprese in Italia tra corretti principi contabili ed ‘estrogeni tributari, in Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 397 ss. e G. Zizzo, Abuso di regole volte al “gonfiamento” della base imponibile ed effetto confiscatorio del prelievo, cit., 39 ss. (56) Cfr. F. Gallo, Disuguaglianze, giustizia distributiva e principio di progressività, in Rass. trib., 2/2012, 287 e ss.; sulla esistenza della correlazione è d’accordo alche F. Moschetti, il quale tuttavia non può concepire un tale collegamento in assenza di una forza economica in


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in ragione della capacità contributiva, è anche vero che ii) laddove le spese pubbliche non vengano incrementate (57) in ragione di comportamenti virtuosi questi devono manifestare una ridotta capacità contributiva, la cui conseguenza si traduce in agevolazioni fiscali o regimi ordinari differenziati rivolti a sostenere siffatto rapporto (58). Emerge così l’opportunità di ampliare la nozione di spesa pubblica, comprendendovi anche quelle necessarie per finanziare il servizio sanitario nazionale che dovrà far fronte alle patologie collegate al consumo di sostanze dannose per la salute, secondo una prospettiva che associa la prevenzione (sanitaria) alla imposizione (fiscale) (59). Seguendo tale percorso logico, il soggetto che assuma alimenti “sani”, non dannosi per la salute, terrebbe un comportamento meritevole di un alleggerimento dell’onere fiscale in virtù della indiretta riduzione del fabbisogno necessario a finanziare l’assistenza sanitaria e, dunque, una parte di quelle spese pubbliche citate nell’art 53 Cost. La riduzione del carico fiscale potrebbe avvenire in svariati modi, attraverso una esclusione dalla disciplina del tributo (come avviene nella sugar tax), o, per ipotesi, quale detrazione fiscale dall’Irpef riconoscibile in ragione

capo al contribuente soggetto passivo, secondo un equilibrio circolare tra presupposto e finalità, tra capacità contributiva e spese pubbliche e viceversa; cfr. F. Moschetti, op. cit., 199. (57) A. Uricchio, op. cit., 1268 e ss.: “Deve, quindi, ritenersi che i tributi sugli alimenti possano non solo insistere su manifestazioni sicure di capacità contributiva, come la produzione o il consumo, ma possano esprimere una sorta di “capacità contributiva qualificata”, consistente nel risparmio, pur se futuro ed eventuale, di spesa pubblica (come quella sanitaria)”. (58) Similmente a quanto in tema di project financing si è ipotizzato osservando un effetto “sostitutivo” della società di progetto che realizza direttamente una opera pubblica e in quanto tale è meritevole di un regime ordinario differenziato. Sul punto si rinvia a P. Barabino, Il bilanciamento tra la capacità contributiva, le spese pubbliche e il tempo nel “project financing”: un regime “ordinario differenziato”, in Riv. trim. dir. trib., n. 2/2017, pp. 285 e ss. (59) A. Giovannini, La Consulta dichiara illegittima l’imposta sulle sigarette elettroniche, cit., 2341 e ss. afferma che “L’interesse della collettività (e la tutela della salute) deve essere considerato anche dal punto di vista della spesa pubblica e dell’allocazione delle risorse. La Costituzione pone al legislatore un vincolo che non è soltanto finanziario o economico, ma è anche valoriale, nel senso che lo obbliga a scelte di raccolta delle risorse che non colleghino un aumento di gettito immediato a scapito della prevenzione, con l’inevitabile, conseguente aumento delle spese pubbliche future e dei ‘costi sociali’ connessi. È uno scenario nuovo, che porterà a dover reinterpretare il principio di capacità contributiva anche rispetto ad altri beni ai quali si può guardare per una futura tassazione (bevande o cibi ‘spazzatura’)”.


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dell’acquisto di quei beni il cui consumo è dimostrato essere capace di incrementare il livello di buona salute. Un’alimentazione sana, capace di non incrementare l’indebitamento per spese pubbliche, si mostra aderente ai principi di equilibrio e di efficienza finanziaria sanciti a livello costituzionale (60) e consente di perseguire più facilmente il vincolo del pareggio di bilancio (61), creando inoltre un ampliamento della protezione verso le generazioni future (62). In definitiva, si potrebbe dire che una siffatta “fiscalità della salute” si “allontani” da una compatibilità costituzionale in ragione della giustificabilità extrafiscale per “avvicinarsi” ad una ammissibilità in virtù della propria componente fiscale “ritrovata” nella nozione ampia di spesa pubblica/spesa sanitaria. Se una fiscalità della salute nel breve periodo potrebbe essere erroneamente percepita quale ulteriore incremento della pressione fiscale, da evitare in periodi di crisi, stagnazione o persino recessione come quello attuale, tuttavia, a ben vedere, nel medio periodo si tradurrebbe in scelte a favore della collettività: infatti, così come eventi eccezionali, calamitosi o pandemici, destano attenzione e concentrano in poco tempo gli effetti di rilevanti problematiche, così la normalità rischia di nascondere fenomeni, che seppur diluiti nel tempo, possano tradursi in danni alla salute e in corrispondenti costi elevati per il sistema sanitario e per il bilancio statale. In futuro infatti, inevitabilmente, la collettività dovrà sostenere i costi di un sistema sanitario che dovrà gestire le

(60) Così osserva A. Uricchio, op. cit., 1268 e ss. (61) Il pareggio di bilancio è contenuto nell’art. 81 Cost. il quale, in realtà, innovato dalla Legge costituzionale 1/2012, prevede il principio di equilibrio tra le entrate e le spese, con effetti sia nell’Ordinamento interno che in quello comunitario. Per approfondimenti storici e interpretativi anche sulla effettiva efficacia della norma si rimanda a C. Golino, Il principio del pareggio di bilancio. Evoluzioni e prospettive, Padova, 2013. Tale principio è stato recentemente oggetto di attenzione da parte della dottrina in relazione ad alcune sentenze emanate dalla Corte costituzionale (in particolare le più note sono la n. 10/2015 sulla c.d. Robin Hood Tax e la n. 70/2015 sulla perequazione pensionistica), evidenziando la flessibilità della gestione della finanza pubblica in virtù dell’equilibrio e non del pareggio. In tal senso cfr. E. De Mita, Il conflitto tra capacità contributiva ed equilibrio finanziario dello Stato, in Rass. trib., 3/2016, 561 e ss. Sull’applicazione del principio di pareggio del bilancio quale limite alle spese sociali cfr. F. Gallo, Il diritto e l’economia. Costituzione, cittadini e partecipazione, in Rass. trib., 2/2016, 287 e ss. (62) Il collegamento tra le spese pubbliche e le generazioni future beneficiarie di opere infrastrutturali, educative, sanitarie, ect. è stato evidenziato da G. Fransoni, Stato di diritto, diritti sociali, libertà economica e principio di capacità contributiva (anche alla luce del vincolo del pareggio di bilancio), in Riv. dir. trib., 11/2016, 1049 e ss.


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patologie che comportamenti pregressi hanno lentamente ma inesorabilmente danneggiato la salute di tutti. Ruolo del legislatore è allora compiere scelte che se da un lato possono essere impopolari, dall’altro rappresentano un’assunzione di responsabilità in piena attuazione dei precetti costituzionali posti a tutela della salute (art. 32 Cost.), del bilancio (art. 81 Cost.) e della ragionevole imposizione per sostenere le spese pubbliche (tra le quali anche quelle sanitarie, presenti e future, art. 53 Cost.) (63). E in tale prospettiva, una “fiscalità della salute” potrebbe orientare i comportamenti dei consumatori verso scelte che rispettino la propria salute e dunque quella collettiva, tassando comportamenti potenzialmente dannosi e agevolando quelli più sani come a voler delineare una capacità contributiva, per così dire, più “salutistica”. 4. La compatibilità europea delle misure fiscali sulla salute. Le possibili evoluzioni del principio “chi inquina paga”: dal “chi si nutre male paga” al “chi si cura non paga”? – In via di principio, un prelievo fiscale che abbia a presupposto l’uso di sostanze potenzialmente dannose per la salute dell’uomo dovrebbe essere conforme ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità, richiesti in sede europea, nel rispetto dei principi di non discriminazione e delle libertà fondamentali del Trattato (64). Sul piano della compatibilità europea sia le disposizioni sottrattive che quelle impositive devono rispettare il regime degli aiuti di Stato disciplinato dall’art. 107 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) in

(63) Per ulteriori spunti e una trattazione multidisciplinare sul benessere e, in particolar sulla salute, vedasi AA.VV., Salute, sanità e benessere: un approccio multidisciplinare, a cura di A. Ezza e G. Ruiu, Udine, 2019; AA.VV., Diritto ed economia del mercato, a cura di G. Lemme, Padova, 2014. (64) Recenti studi economici effettuati dall’Università di Chicago su alcune esperienze di sugar tax hanno dimostrato gli effetti sulle vendite dell’introduzione di un tributo su bibite con zuccheri o dolcificanti aggiunti: è stato osservato che nell’anno successivo all’istituzione del prelievo si ha avuto una riduzione fino al 37% dei consumi; inoltre, talvolta, si è conseguito un incremento delle vendite delle bevande meno tassate in quanto prive di zuccheri aggiunti. Cfr, L.M. Powell, J. Leider, The impact of Seattle’s Sweetened Beverage Tax on beverage prices and volume sold, in Economics & Human Biology, n. 37/2020, gli AA. studiano la Sweetened Beverage Tax (SBT), imposta pari a 1,75 centesimi per oncia sulle bevande edulcorate aventi almeno 40 calorie per 12 once. Cfr. L.M. Powell, J. Leider, P.T. Léger, The Impact of a Sweetened Beverage Tax on Beverage Volume Sold in Cook County, Illinois, and Its Border Area, in Annals of Internal Medicine, 19 march 2020.


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ragione del quale sono vietati aiuti selettivi che favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. Pertanto, le scelte normative effettuate dal legislatore nazionale dovranno essere conformi ai principi europei che garantiscono la libera concorrenza tra gli Stati membri, in armonia d’altronde con l’integrazione positiva che l’Ordinamento sovranazionale sta tentando di stimolare. A livello di politica europea, la tutela della salute si articola, in buona sostanza, in tre macroaree quali i) l’alimentazione e l’attività fisica, ii) l’alcool e iii) il tabacco (65). Nel primo ambito il Consiglio invita i Paesi membri e la Commissione ad incidere su aspetti quali la riduzione della commercializzazione destinata a bambini e adolescenti di alimenti che non rispettano gli orientamenti nazionali o internazionali in materia di nutrizione. Si tratta di un tentativo di incentivare, in maniera tendenzialmente armonizzata, l’intrapresa di azioni volte a scoraggiare la commercializzazione di taluni prodotti come accade nella disciplina della sugar tax: in un settore ove il Consiglio europeo suggerisce l’adozione principalmente di azioni di informazione e marketing, anche il tributo potrebbe trovare un proprio ruolo incidendo sul prezzo di vendita di bevande edulcorate e incrementando così il costo di acquisto per il consumatore finale. Quanto al tabacco, la Direttiva UE (66) disciplina fondamentalmente aspetti in materia di lavorazione, presentazione e vendita (di sigarette, trinciati per sigarette, tabacco da pipa, sigari, sigaretti, tabacco non da fumo, sigarette elettroniche e prodotti da fumo a base di erbe) mentre la disciplina sulle accise lascia libertà agli Stati che in linea generale innalzano sempre più il livello di tassazione per incrementare il costo finale di acquisto per disincentivare e ridurre il consumo: infatti, negli ultimi dieci anni ad un

(65) https://eur-lex.europa.eu/summary/chapter/29.html al capitolo “sanità pubblica”, la sottovoce “promuovere la buona salute” annovera i seguenti ambiti 1) Alimentazione e attività fisica (Promozione dell’attività fisica salutare per tutti; Affrontare l’epidemia dell’obesità infantile; Promuovere una dieta sana e l’attività fisica in Europa; Alimentazione, sovrappeso e obesità: la strategia dell’Unione europea); 2) Alcol (Strategia dell’Unione europea in materia di alcol); 3) Tabacco (Pubblicità e sponsorizzazione a favore dei prodotti del tabacco; Norme più rigide sul tabacco nell’UE; Prevenzione del fumo; Protezione dall’esposizione al fumo di tabacco). (66) Direttiva 2014/40/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e che abroga la direttiva 2001/37/CE Testo rilevante ai fini del SEE GU L 127 del 29.4.2014.


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aumento del prezzo è corrisposta una diminuzione dei volumi di vendita, presumibilmente anche in virtù della componente fiscale (67). Sul fronte delle misure fiscali che uno Stato membro può istituire per perseguire i suddetti obiettivi, occorre sempre verificare la compatibilità con i vincoli europei di misure a favore delle imprese che svolgono una attività a tutela della salute, sia quali agevolazioni fiscali, che, viceversa, come non imposizione all’interno di una disciplina che sottoponga a tassazione soggetti che attuano comportamenti dannosi per la salute. Una prima ipotesi di compatibilità degli aiuti che uno Stato può distribuire nel settore sanitario attiene a quelli c.d. compensativi, ovverosia aiuti per Servizi di Interesse Economico Generale (SIEG) ex art. 106 TFUE: somme rivolte a compensare i costi sostenuti da imprese che erogano i suddetti servizi di pubblica utilità, che la stessa Commissione ritiene non vietate dall’art. 107 TFUE in ragione della mera retribuzione del costo reale necessario per assolvere al servizio (68). Più nel dettaglio, il c.d. test Altmark individua una sovvenzione statale alla stregua di una compensazione di servizi economici generali, senza configurare un aiuto di Stato da autorizzare preventivamente se: i) l’impresa beneficiaria è stata effettivamente incaricata dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico e detti obblighi sono stati definiti in modo chiaro; ii) i parametri sulla base dei quali viene calcolata la compensazione sono stati previamente definiti in modo obiettivo e trasparente; iii) la compensazione non eccede i costi originati dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico; iv) quando la scelta dell’impresa non venga effettuata nell’ambito di una procedura di appalto pubblico e il livello della necessaria compensazione è stato determinato sulla base di un’analisi dei costi per una impresa media (69).

(67) L’Organizzazione mondiale della Sanità osserva che se si vuole ridurre la domanda di tabacco “l’opzione più potente ed efficace rispetto ai costi, per qualunque governo al mondo, è il semplice aumento dei prezzi del tabacco tramite le accise”. Si stima che ad ogni 10 per cento di aumento ci sia una riduzione di 4 punti percentuali dei consumi. Così e per approfondimenti ENSP – European Network for Smoking Prevention, http://ensp.network/wpcontent/uploads/2019/08/Taxation-factsheet-2019.pdf. (68) Così anche C. Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, Torino, 2012, 199 e ss. (69) Corte di Giustizia, sentenza 24 luglio 2003, causa C-226/01, “Altmark Trans”. Diversamente, l’assenza di uno solo dei suddetti presupposti configura un aiuto di Stato ex art. 107 TFUE. Così osserva, portando ad esempio il caso dell’Ente Poste Italiane, esentato dal pagamento dell’imposta sul patrimonio netto in ragione della legge n. 71/1994; AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009. G.


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Altre misure fiscali potrebbero assumere la forma prevista dall’art. 107, par. 2, lett. b) TFUE, il quale ammette aiuti di Stato finalizzati ad ovviare ai danni subiti da calamità naturali o da altri eventi eccezionali. Tuttavia, tale norma sottende una questione di sostanza che riguarda la nozione di “eventi eccezionali”: locuzione tutta da interpretare considerando che la Commissione UE, al momento, ha circoscritto sostanzialmente l’ambito operativo agli eventi naturali (70). Occorrerebbe consentire agli Stati membri di interpretare la norma in un senso tale per cui nella nozione di eventi eccezionali possa rientrare anche una ipotesi di tutela della salute, ad esempio in occasione di una pandemia che naturalmente esula dai connotati della ordinarietà. Tale ammissione consentirebbe una distribuzione di aiuti di Stato anche in assenza di preventiva autorizzazione seppur limitati ad ovviare ai danni subiti dall’evento stesso. Nel caso in oggetto, ad esempio, potrebbero ottenere una misura risarcitoria quelle imprese che dimostrino sulla base di prestabiliti parametri oggettivi la riduzione del volume dei ricavi rispetto alla media degli ultimi anni. Pensando quindi alla relazione salute/pandemia e volendo immaginare un percorso dalla ampia portata a supporto delle imprese colpite dall’evento, si potrebbe configurare un aiuto di Stato che consenta uno stimolo alla crescita economica attraverso l’uso della leva finanziaria, ad esempio, modulando una riduzione dei tributi collegati all’attività produttiva per un predeterminato e limitato arco temporale (3 o 5 anni). In tal caso occorrerebbe senz’altro una preventiva autorizzazione da parte della Commissione europea allo Stato membro: verosimilmente si potrebbe configurare una misura selettiva dal punto di vista soggettivo (non tutti gli imprenditori hanno subito una riduzione dei ricavi), come pure sarebbe improbabile evitare l’influenza sugli scambi tra

Pepe, Le deroghe al divieto di aiuti di Stato, 270 e ss. Per ulteriori approfondimenti cfr. M. Pellecchia, I servizi di interesse economico generale, in AA.VV., Aiuti di stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007, 273 e ss. (70) La Corte di Giustizia ha più volte espresso un’interpretazione restrittiva dell’art. 107, par. 2, lett. b) TFUE limitando agli eventi naturali la condizione per poter istituire un siffatto aiuto. Cfr. CGE, causa C-278/00, Grecia c. Commissione, 29 aprile 2004, punto 81; cause riunite C-346/03 e C-529/03, Atzeni e altri c. Regione autonoma della Sardegna, 23 febbraio 2006, punto 79; causa C-301/96, Germania c. Commissione, 30 settembre 2003, punto 66. Così e per approfondimenti cfr. O. Lombardi, Aiuti fiscali per calamità naturali: condizioni e limiti alla luce dei recenti orientamenti europei, in AA.VV., Interventi finanziari e tributari per le aree colpite da calamità tra norme interne e principi europei, a cura si M. Basilavecchia, L. Del Federico, A. Pace, C. Verrigni, Torino, 2016, p. 133.


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Stati membri (per di più in ragione dell’interpretazione della UE che difficilmente riuscirebbe ad individuare e differenziare la portata nazionale, europea o extraUE di un aiuto) (71). Più nel dettaglio, il regime degli aiuti di Stato previsto dall’art. 107 TFUE non prevede espressamente una fattispecie a tutela della salute, ma quest’obiettivo può indirettamente essere perseguito, nel rispetto della comunicazione preventiva da indirizzare alla Commissione europea. In tale panorama occorre tenere in considerazione anche la recentissima Comunicazione della Commissione UE sul “Quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del COVID-19” del 19 marzo 2020 con la quale si riassumono le diverse chances a disposizione degli Stati membri per far fronte all’emergenza in corso, attraverso agevolazioni fiscali, garanzie su prestiti e tassi d’interesse agevolati per prestiti. In particolare, sul fronte delle sovvenzioni e delle agevolazioni fiscali concedibili, la Commissione “promette” una rapida autorizzazione degli aiuti di Stato notificati in ragione dell’art. 107, paragrafo 3, lett. b) ma a condizione che siano limitati quantitativamente alla soglia di ottocentomila euro, siano predeterminabili nell’entità complessiva e non siano erogati a imprese già in difficoltà (72).

(71) Così sulla selettività e sull’incidenza sugli scambi G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, cit., 15 e ss. (72) Il Punto 22 della Comunicazione in oggetto afferma che: “a. l’aiuto non supera 800 000 EUR per impresa sotto forma di sovvenzioni dirette, anticipi rimborsabili, agevolazioni fiscali o di pagamenti; tutti i valori utilizzati sono al lordo di qualsiasi imposta o altro onere; b. l’aiuto è concesso sulla base di un regime con budget previsionale; c. l’aiuto può essere concesso a imprese che non erano in difficoltà (ai sensi del regolamento generale di esenzione per categoria 15) al 31 dicembre 2019; può essere concesso a imprese che non erano in difficoltà al 31 dicembre 2019 e/o che hanno incontrato difficoltà o si sono trovate in una situazione di difficoltà successivamente, a seguito dell’epidemia di Covid-19; d. l’aiuto è concesso entro e non oltre il 31 dicembre 2020; e. gli aiuti concessi a imprese operanti nella trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli 17 sono subordinati al fatto di non venire parzialmente o interamente trasferiti a produttori primari e non sono fissati in base al prezzo o al quantitativo dei prodotti acquistati da produttori primari o immessi sul mercato dalle imprese interessate.” Mentre per il settore dell’agricoltura, della pesca e dell’acquacoltura al punto 23 afferma che “a. l’aiuto non supera 120 000 EUR per impresa operante nel settore della pesca e dell’acquacoltura18 o 100 000 EUR per impresa operante nel settore della produzione primaria di prodotti agricoli19; tutti i valori utilizzati sono al lordo di qualsiasi imposta o altro onere; b. gli aiuti concessi alle imprese operanti nella produzione primaria di prodotti agricoli non devono essere stabiliti in base al prezzo o al volume dei prodotti immessi sul mercato; c.


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La Comunicazione della Commissione si traduce in una sorta di soft law con la quale viene mostrata una certa sensibilità all’emergenza da Covid-19 (73) tentando da un lato di “snellire” la procedura di autorizzazione (che resta obbligatoria) degli aiuti di Stato, dall’altro di svolgere una armonizzazione positiva suggerendo una risposta coordinata degli Stati membri a vantaggio dell’economia dell’Unione nel suo complesso. L’occasione sarebbe propizia per quegli Stati che volessero approfittare dell’autorizzazione “rapida” suggerita dalla Commissione per istituire degli aiuti di Stato che possano tutelare, seppur in maniera indiretta, la salute: in base ad un recentissimo studio della Harvard University (74) sembrerebbe

gli aiuti alle imprese operanti nel settore della pesca e dell’acquacoltura non riguardano alcuna delle categorie di aiuti di cui all’articolo 1, punto 1, lettere da a) a k), del regolamento (UE) n. 717/2014 della Commissione20; d. se un’impresa opera in diversi settori ai quali si applicano importi massimi diversi conformemente al punto 22, lettera (a) e al punto 23, lettera (a), lo Stato membro interessato garantisce, con mezzi adeguati, quali la separazione contabile, che per ciascuna di tali attività sia rispettato il massimale pertinente e che in totale non sia superato l’importo massimo possibile; e. si applicano tutte le altre condizioni di cui al punto 22”. (73) L’emergenza consiste nel contrastare la crisi economica conseguente alla pandemia scatenata dalla diffusione di quella tipologia di coronavirus, denominata SARS-CoV-2 e alla conseguente malattia Covid-19. Nella prima metà del mese di febbraio 2020 l’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV) ha assegnato al nuovo coronavirus il nome definitivo di “Sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2” (SARS-CoV-2); l’11 febbraio 2020 l’OMS ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus è stata chiamata Covid-19, sintesi dei termini CO-rona VI-rus D-isease e dell’anno d’identificazione, 2019. Così e per approfondimenti www.salute.gov.it. (74) Un piccolo aumento dell’esposizione a lungo termine di un soggetto a PM2.5 porterebbe ad un grande aumento del tasso di mortalità Covid-19. Così X. Wu, R. C. Nethery, M. B. Sabath, D. Braun, F. Dominici, Exposure to air pollution and Covid-19 mortality in the United States, in https://projects.iq.harvard.edu/covid-pm, 5 aprile 2020. Lo studio prende spunto dalle seguenti considerazioni: “United States government scientists estimate that Covid-19 may kill between 100,000 and 240,000 Americans. The majority of the pre-existing conditions that increase the risk of death for Covid-19 are the same diseases that are affected by long-term exposure to air pollution. We investigate whether long-term average exposure to fine particulate matter (PM2.5) increases the risk of Covid-19 deaths in the United States”. La ricerca giunge al seguente risultato: “We found that an increase of only 1 g/m3 in PM2.5 is associated with a 15% increase in the Covid-19 death rate, 95% confidence interval (CI) (5%, 25%). Results are statistically significant and robust to secondary and sensitivity analyses”, per concludere che “A small increase in long-term exposure to PM2.5 leads to a large increase in Covid-19 death rate, with the magnitude of increase 20 times that observed for PM2.5 and all cause mortality. The study results underscore the importance of continuing to enforce existing air pollution regulations to protect human health both during and after the Covid-19 crisis. The data and code are publicly available”.


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infatti che l’inquinamento atmosferico possa avere una correlazione con la diffusione di simili virus. In tale prospettiva si potrebbe ipotizzare un insieme di agevolazioni fiscali che incentivi la ripresa economica attraverso la leva fiscale, ad esempio, in quelle aree maggiormente inquinate del Paese per far sì che non venga meramente ripristinata la situazione antecedente alla pandemia ma si tenda ad un assetto produttivo maggiormente eco-sostenibile, con evidenti connotazioni di prevenzione dei danni alla salute in future ipotetiche ed analoghe epidemie. L’obiettivo della tutela della salute per essere legittimamente invocabile innanzi all’Ordinamento europeo dovrebbe essere intrinseco alla struttura di quella che si potrebbe definire “fiscalità della salute” (75), in altre parole, provvedimenti impositivi o agevolativi ove la finalità della tutela della salute non è esterna alla disciplina. Ad esempio, il presupposto di un tributo dovrebbe essere costituito da una attività nociva per la salute o dal consumo di un bene dannoso per la salute della persona: la sopra citata sugar tax, introdotta nel nostro ordinamento con la natura di imposta (76), è stata disciplinata ponendo a presupposto l’acquisto

(75) Quale ramo della fiscalità ancor più ampio dispetto a quello della “fiscalità nutrizionale” opportunamente definita quale strumento di educazione a corretti stili di vita: così, cfr. A. Uricchio, La tassazione sugli alimenti tra capacità contributiva e fini extrafiscali, in Rass. trib., n. 6/2013, 1268 e ss. I connotati di un siffatto ambito di fiscalità può prendere spunto dalla modulazione del prelievo attuto nella fiscalità ambientale sotto la guida del principio “chi inquina paga” per discernere le agevolazioni e i tributi ambientali legittimi. Osservazioni analoghe ma nell’ambito dell’ambiente cfr. P. Selicato, Aspetti internazionali e comunitari della fiscalità ambientale. La tassazione ambientale: nuovi indici di ricchezza, razionalità del prelievo e principi dell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. trib. int., n. 2-3/2004, 257 e ss. La tutela ambientale ha caratterizzato gli studi di molti autori, tra i quali cfr. M. Cecchetti, La materia «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» nella giurisprudenza costituzionale: lo stato dell’arte e i nodi ancora irrisolti, in Federalismi.it, n. 7/2009; M. Cecchetti, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, in Federalismi.it, n. 25/2006; Id., Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano, 2000; Id., Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano, 2000; B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2005; P. Maddalena, L’ambiente e le sue componenti come beni comuni in proprietà collettiva della presente e delle future generazioni, in Questa rivista, n. 25/2011; B. Caravita, A. Morrone, La giurisprudenza costituzionale in materia ambientale nel 1994, in Riv. giur. amb., n. 2/1996, 355 e ss. (76) Imposta anziché tassa, quale rappresentazione di una volontà disincentivante e non di mero risanamento del danno alla salute. Così coerentemente con quanto già osservato nella fiscalità ambientale dato che il presupposto della tassa ambientale consisterebbe nella «richiesta e nell’utilizzo del servizio di risanamento del danno ambientale» sarebbe come legittimare il danno e non applicare correttamente in principio “chi inquina paga” (il quale


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(e quindi si presume il consumo) di bevande con zuccheri aggiunti, mostrando dunque una natura di “tributo salutistico”, tributo a tutela della salute in senso stretto in virtù della oggettiva correlazione tra assunzione di dosi eccessive di zucchero e l’insorgere di patologie quali il diabete e l’obesità (anche infantile) (77). Così, prendendo spunto dal principio “chi inquina paga” (78) si potrebbe elaborare una espressione mutuata nel “chi si nutre male paga” quale riconoscimento di una responsabilità verso la collettività a carico di chi tiene comportamenti dannosi per la salute (79); trattasi di “differenziazione” soggettiva

dovrebbe avere funzione disincentivante e non (solo) di risanamento); inoltre, si correrebbe il rischio di qualificare come danno ambientale solo quello tipizzato dal legislatore, solo quello risanato dalla tassa ambientale. In tal senso, cfr. F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1/1999, 115 e ss. (77) Siffatto ragionamento ripercorre quanto osservato per i tributi ambientali. Cfr., ad esempio, A.E. La Scala, L’applicazione della disciplina sul divieto di aiuti di Stato in materia ambientale, in AA. VV., I nuovi elementi di capacità contributiva. L’ambiente, a cura di V. Ficari, Roma, 2018, 27 e ss. In ambito ambientale il favor del principio “chi inquina paga” ha mostrato i suoi effetti anche nella nota tassa c.d. sul tubo, dichiarata incompatibile dalla CGE (cfr. sentenza 21 giugno 2007, causa C-173/05, sul punto vedasi A.E. La Scala, Il carattere ambientale di un tributo non prevale sul divieto di introdurre tasse ad effetto equivalente ai dazi doganali, nota a CGCE sez. II 21 giugno 2007 (causa C-173/05), in Rass. trib., n. 4/2007, 1317 e ss. Sulla correlazione scientificamente dimostrata tra assunzione di zucchero e le suddette patologie si rimanda a Conclusioni del Consiglio UE per contribuire a fermare l’aumento del sovrappeso e dell’obesità infantili (2017/C 205/03). (78) Nato all’interno del Trattato di Maastricht grazie al riferimento allo sviluppo ecosostenibile presente nell’art. 130R, successivamente ripreso dal Consiglio Europeo, a seguito della Raccomandazione Ocse, stabilendo il principio di “causalità” tra soggetto responsabile dell’inquinamento e costo da sostenere per ridurre lo stesso. B. Caravita, L. Cassetti, La comunità europea, in B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2005, 71 e ss. ricostruiscono le origini dell’attività comunitaria nella materia ambientale a partire dall’art. 2 del Trattato di Amsterdam nel quale si esplicitava il ruolo della comunità europea nella promozione dello sviluppo armonioso con una espansione continua ed equilibrata, contrastando gli inquinamenti e incentivando la protezione dell’ambiente. Sulla prima comunicazione in materia di ambiente della Commissione al Consiglio il 22 luglio 1971 con la quale si affermava la necessità di ricomprendere la tutela dell’ambiente nell’ambito degli obiettivi della Comunità pur in assenza di un’esplicita norma contenuta nei Trattati cfr. M. Cecchetti, La dimensione europea delle politiche ambientali: un acquis solo apparentemente scontato, in Federalismi.it, n. 16/2012. Attualmente è esplicitato nell’art. 191 del TFUE ed assume una ampia portata tale da elevarsi a criterio generale di imputazione dei costi della protezione dell’ambiente. Vedasi O.E. De Falco, Il tributo regionale sui rifiuti solidi in discarica alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea, nota a Corte giustizia C.E., 25/02/2010, n. 172, sez. II, in Riv. dir. trib., n. 4/2011, 72 e ss. (79) Analogamente al principio di “causalità” espresso nella fiscalità ambientale tra soggetto responsabile dell’inquinamento e costo da sostenere per ridurre lo stesso. Per simile


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in ragione delle azioni poste in essere quale consumatore di bevande con zuccheri aggiunti o meno (80). L’autorizzazione europea verrebbe concessa dalla Commissione facendo leva sulla delimitazione del presupposto oggettivo attorno ai “consumatori salutistici” proprio grazie alla tutela della salute mediate acquisti “virtuosi”. Ulteriore sviluppo del ragionamento porterebbe a concepire una discriminazione tra consumatori da negativa a positiva, in applicazione (inversa) del principio della tutela della salute (o del suddetto e ipotizzabile “chi si nutre male paga”), giungendo ad una elaborazione sintetizzabile nel “chi si cura non paga”: il soggetto che acquista bevande non edulcorate e quindi “sane”, non svolgendo un’attività lesiva per la propria salute non dovrà essere assoggettato a tassazione (81).

ricostruzione storica cfr. G. Tarantini, Il principio “chi inquina paga” tra fonti comunitarie e competenze regionali, in Riv. giur. ambiente, 1990, 728. Sulla individuazione del principio di causalità cfr. M.T. Meli, Le origini del principio “chi inquina paga” e il suo accoglimento da parte della Comunità Europea, in Riv. giur. ambiente, n. 2/1989, 217 e ss. Sulle origini e sull’evoluzione delle norme europee cfr. F. Picciaredda-P. Selicato, op. cit., 49 e ss. Riflessioni analoghe ma nell’ambito dei prelievi ambientali sono state effettuate con riferimento alla tassa ambientale da G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010, 36 ss., in relazione alle imposte ambientali da P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, in Rass. trib., n. 4/2005, 1165 ss.; Id., I tributi e l’ambiente, a cura di F. Picciaredda, P. Selicato, 1996, 112 ss. (80) La differenziazione che ricorda quanto sostenuto nella fiscalità ambientale ove la si ritrova nel momento in cui il regime tributario speciale si deve attribuire all’imprenditore che svolge una attività green oriented, secondo una modulazione della normativa fiscale non rivolta all’istituzione di agevolazioni derogatore ma di puntuali discipline fiscali che sappiano riconoscere tale differente status. Per approfondire tale nuova visione della fiscalità ambientale di rinvia a AA.VV., I nuovi elementi di capacità contributiva. L’ambiente, Roma, 2018. Sulla tassazione ambientale si richiamano senza pretesa di esaustività F. Gallo, F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., n. 115/1999; R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in AA.VV. Trattato di diritto tributario, a cura di A. Amatucci, Padova, 2001, 123 ss.; C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga”, in Rass. trib., n. 4/2005, 4 ss.; F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, in Rass. trib., n. 2/2010, 30 ss.; R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, Torino, 2012; R. Alfano, Capacità contributiva e limiti europei in tema di agevolazioni fiscali per finalità ambientali. Il caso della riqualificazione energetica, in AA.VV., L’evoluzione del sistema fiscale e il principio della capacità contributiva, a cura di L. Salvini, G. Melis, Padova, 2014, 610 ss.; S. Dorigo, P. Mastellone, La fiscalità per l’ambiente, Roma, 2013. (81) L’ipotesi delle suddette espressioni poste a tutela della salute si troverebbero in sintonia con la più recente ed innovativa interpretazione del principio della capacità contributiva, la quale richiama concetti di relatività e di compartecipazione nella responsabilità sociale; in particolare, evidenziando i rapporti tra il principio contenuto nell’art. 53 Cost. e il “non fare” (e


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La natura tributaria e “preventiva” (82) di un siffatto prelievo evidenzia la funzione diretta della tutela della salute in base al nesso “attività espletata” (acquisto di bevande con zuccheri aggiunti) vs “nocumento alla salute” (maggiore esposizione a patologie) in un rapporto di causa/effetto (83), che faccia leva su una relazione necessariamente reversibile (84) al fine di scongiurare meri effetti sanzionatori. Alla luce delle considerazioni qui svolte si osserverebbe una certa simmetria tra valori e interessi di portate generale, tra il principio di tutela della salute (nell’ipotesi del “chi si nutre male paga”) già oggetto di attenzione da parte della UE e il principio costituzionale della capacità contributiva, quale criterio di riparto delle esternalità negative rappresentate dalle spese sanitarie, parte di una nozione più ampia di spese pubbliche (85). In sintesi, il tributo può rispondere ad esigenze di tutela della salute esperibili con l’istituzione di aiuti di Stato giustificabili in una prospettiva di “fiscalità della salute” così modulata: i) “chi si nutra male paga”, individuando quale soggetto passivo chi pone in essere dei comportamenti che nuocciono alla salute (come per il consumo di bevande edulcorate o di tabacco), ii) “chi si cura non paga”, alleggerendo l’onere fiscale per quei soggetti “meritevoli”,

gli ulteriori collegamenti con lo status del soggetto, ad es. della green economy e dell’impresa sociale). Per tali ultimi aspetti vedasi A. Giovannini, Il Re fisco è nudo, Milano, 2016, 126 ss. Sulla evoluzione della normativa che sia in futuro capace di delineare uno statuto fiscale dei soggetti green oriented cfr. V. Ficari, Nuovi elementi di capacità contributiva ed ambiente: l’alba di un nuovo giorno … fiscalmente più verde?, in Riv. trim. dir. trib., n. 4/2016, 827 ss. il quale auspica “una distinzione fisiologica tra soggetti passivi in ragione della diversa relazione con il bene ambiente”. (82) Sull’applicazione preventiva del principio europeo nell’ambito del “chi inquina paga”, cfr. M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, 1-2/2012, in Riv. quadr. di dir. dell’amb., 62 e ss. (83) Tale rapporto è già emergo parlando di prelievi coattivi ecologici, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2008, p. 36. (84) Così come è stato apprezzato in altra sede ove l’esser irreversibile del danno ambientale non sarebbe concepibile o compatibile con la funzione del tributo, piuttosto rientrerebbe nell’area sanzionatoria. Così C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. trib., 1/2003, 1614 e ss., l’A. richiama a tal fine la Comunicazione CE 97/C emanata dalla Commissione europea per coordinare le tasse e le imposte ambientali nell’UE. (85) F. Gallo, Profili critici della tassazione ambientale, in Rass. trib., 2/ 2010, 303 e ss. Il quale definisce il prelievo ambientale come tributo in quanto «previsione di situazioni di fatto al cui verificarsi il soggetto passivo è tenuto a una corrispondente misura di concorso alle pubbliche spese».


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Parte prima

ovverosia consumatori di beni che non provocano dei danni alla salute o, addirittura, possono migliorarne la qualitĂ .

Paolo Barabino


Neutralità dell’IVA ed operazioni intracomunitarie. Il «neoformalismo» dei recenti sviluppi normativi comunitari in parziale deregulation al substantial approach della Corte di Giustizia dell’U.E. Sommario: 1. La neutralità dell’IVA e il suo meccanismo applicativo. Il caso delle

operazioni intracomunitarie. – 2. La salvaguardia del principio di neutralità del tributo attraverso la preminenza ermeneutica attribuita agli «elementi sostanziali» sugli «aspetti formali» nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E. – 3. (Segue) La posizione della giurisprudenza di legittimità nazionale e le indicazioni di prassi amministrativa in materia. – 4. La Direttiva UE 4 dicembre 2018, n. 1910 e la novellata posizione della Commissione europea sull’implementazione del regime definitivo delle operazioni intracomunitarie. – 5. Riflessioni conclusive sulla reviviscenza di un «neoformalismo comunitario» con finalità di preservazione dell’effettività dei controlli fiscali in materia di IVA.

The VAT neutrality principle represents the essential element of the legal structure of the tax thereof and it consequently touches the operational profiles related to «Tax Collectors» who require to be eligible for gain the benefits connected to the implementation of intra-EU transactions. The Directive 4th December 2018, Nr. 1910 focuses on the European comprehensive process of enacting laws due to redefine the evidential pre-eminence of substantial elements of the Intra-EU transactions, instead of the violation of any «formal requirements» related to the same matter, established by the case law released by the European Court of Justice and the Italian Supreme Court. The safeguard of VAT neutrality principle will be subjected to the hold by the «Tax Collector» of a VAT registration number, not in dependence with the event that the latter has been conducting a business, especially an independent economic activity, in the State of destination. A sort of «renewed formalistic approach» which points out an evident contrast to the series of judgements aforementioned and seems to be adopted – by the European Institutions – because of declared urgent necessities of quick and actual fiscal collection of taxes in order to maximise tax revenues. Differently, there are no clues that allow to verify the definition of legal instruments which through the Tax Collector is able to bring documental evidence and proof of all constitutive elements of the Intra-EU transactions.


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Parte prima

Il principio di neutralità dell’IVA risulta il fondamento essenziale della struttura giuridica del tributo e permea, di conseguenza, i profili applicativi dell’imposta in capo ai soggetti passivi per fruire dei benefici connessi all’effettuazione di operazioni intracomunitarie. La Direttiva 4 dicembre 2018, n. 1910 focalizza il processo di produzione normativa in àmbito comunitario volto a ridefinire la preminenza probatoria attribuita dalla consolidata giurisprudenza comunitaria e di legittimità nazionale agli «elementi sostanziali» dell’operazione intracomunitaria, in luogo della mancata osservanza di taluni «obblighi formali». La salvaguardia del principio della neutralità dell’IVA sarà pertanto subordinata al necessario possesso da parte del cessionario/committente del numero di registrazione ai fini IVA, a nulla rilevando l’effettivo e comprovato esercizio di un’attività economica indipendente da parte di costui nello Stato di destinazione. Un approccio che denota un atteggiamento decisamente «neoformalistico» da parte del legislatore comunitario e in asserito contrasto con l’interpretazione maggioritaria e consolidata avallata dal diritto vivente. Una «rivoluzione copernicana» che sembra essere dettata da impellenti ragioni di interesse erariale alla massimizzazione del gettito fiscale, piuttosto che dall’approntamento a priori di strumenti attraverso cui il soggetto passivo possa addivenire alla prova documentale certa del concorso dei requisiti sostanziali dell’operazione intracomunitaria.

1. La neutralità dell’IVA e il suo meccanismo applicativo. Il caso delle operazioni intracomunitarie. – La salvaguardia della corretta operatività del principio di neutralità dell’IVA (1)

(1) «Il principio del sistema comune d’IVA consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero delle operazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase d’imposizione. A ciascuna operazione, l’IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo. Il sistema comune d’IVA è applicato fino allo stadio del commercio al minuto incluso». In questi termini l’art. 1, § 2, Direttiva CE 28 novembre 2006, n. 112 (c.d. «rifusione» della Direttiva CEE 17 maggio 1977, n. 388, i.e. «sesta direttiva»), corroborando l’indiscutibile primato assiologico da attribuire, nell’interpretazione sistematica del tributo, al principio in parola. La casistica giurisprudenziale europea prodromica all’individuazione delle caratteristiche essenziali e distintive dell’IVA al fine di preservare la neutralità del prelievo in capo ai soggetti passivi è rintracciabile in Corte giust., 3 ottobre 2006, c. 475/03, Banca popolare di Cremona Soc. coop. a r.l. c. Agenzia delle Entrate Ufficio di Cremona, p.to n. 28. Sul consolidamento del filone interpretativo ivi segnalato, al fine di cogliere la dinamica evolutiva temporale dell’orientamento in commento, v. Corte giust., 8 giungo 1999, cause riunite c. 338/97, c. 344/97 e c. 390/97, Erna Pelzl e a., p.to n. 21; Id., 13 marzo 2008, c. 437/06, Securenta Göttinger Immobilienanlagen und Vermögensmanagement AG e Finanzamt Göttingen, p.to n. 30; Id., 15 gennaio 2009, c. 502/07, K-1 sp. z o.o. v Dyrektor Izby Skarbowej w Bydgoszczy, p.to n. 17; Id., 12 ottobre 2017, c. 549/16, Agenzia delle Entrate – Direzione provinciale Ufficio controlli di Bolzano c. Palais Kaiserkron Srl, p.to n. 19; Id., 7


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in capo ai c.dd. Tax Collectors (2) implica l’accoglimento nell’ordinamento interno di un profilo soggettivo a composizione complessa e, più in dettaglio, a carattere «combinatorio». Infatti, il soggetto passivo che pone in essere operazioni attive (i.e. operazioni di cessione di beni e/o prestazione di servizi) è debitore nei confronti dell’Erario dell’IVA ad esse relativa (secondo la modulazione delle aliquote sancita all’art. 16, d.P.R. n. 633 del 1972), ma al tempo stesso costui acquisisce ope legis l’obbligo – legislativamente stabilito ex art. 18, d.P.R. n. 633 del 1972 in attuazione del combinato disposto degli artt. 168 e 226, § 1, n. 10 Direttiva CE n. 112 del 2006 (3) – di rivalersi di siffatta imposta nei confronti del cessionario/committente il bene/servizio oggetto di scambio (4). A parti invertite, qualora il Tax Collector perfezioni la realizzazione un’operazione passiva ai fini IVA (acquisto beni/servizi rilevanti ai fini del tributo)

agosto 2018, c. 475/17, Viking Motors AS and Others v Tallinna linn and Maksu- ja Tolliamet, p.to n. 39. (2) Sulla nozione di Tax Collector, coincidente con la figura del c.d. «soggetto passivo di diritto» dell’IVA (i.e. l’operatore economico) cfr. P. Centore, L’imposta sul Valore Aggiunto, cit. Falsitta, Manuale di diritto tributario – parte speciale, Padova, 2016, 823 ss. in commento a Corte giust., 20 ottobre 1993, c. 10/92, Maurizio Balocchi v. Ministero delle Finanze dello Stato, p.to n. 25. (3) «La rivalsa, strumento per la ripartizione dell’imposta tra i soggetti coinvolti nell’operazione, non è contemplata espressamente dalla sesta direttiva, laddove il legislatore comunitario si limita ad obbligare l’addebito in fattura dell’imposta, e ad individuare il soggetto passivo ai fini IVA; comunque è presente nel sistema comunitario dell’imposta in oggetto, e la si desume dagli artt. 168 ss. della direttiva 2006/112/CE, e dall’art. 226 della stessa» osserva attentamente L. Strianese, Debita riduzione dell’imponibile tra potere discrezionale interno, principio di neutralità dell’IVA e principio di proporzionalità, in Riv. dir. trib., 2012, II, 51. Sul punto, cfr. altresì i preziosi contributi di F. Randazzo, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, 144 ss. e Id., La rivalsa successiva nella disciplina dell’Iva, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 4, 903 ss. (4) «Il diritto di detrazione dell’IVA gravante sull’operazione è attivato, in linea di principio, dall’esercizio della rivalsa da parte del fornitore del bene o del servizio» (cfr. AIDC, Norma di comportamento n. 179 del 6 dicembre 2010, Milano, p.to n. 1.2). Come osservato in dottrina «tale neutralità è assicurata dal meccanismo della detrazione per cui l’IVA corrisposta per l’acquisto di beni o servizi nell’àmbito di un’attività d’impresa viene detratta da quella dovuta […] Se l’IVA versata dal cedente corrisponde a quella detratta dal cessionario, l’Erario non subisce alcuna perdita dal meccanismo della rivalsa e della detrazione in relazione all’indicazione di un prezzo piuttosto che un altro. In relazione cioè al fatto che questo sia superiore o inferiore a quello di mercato» B. Aiudi, La neutralità dell’IVA e l’utilità del contraddittorio anticipato, in Boll. trib. inf., 2017, VIII come ribadito da P. Scarioni, Il principio di neutralità dell’IVA nella nazionale, ivi, 2009, VII e da A. Colombo e V. Cristiano, Il periodo di inattività non preclude la detraibilità dell’IVA, ivi, 2019, VI. A corroborazione del rilievo dogmatico non solo insito nella legislazione comunitaria


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subisce l’addebito di rivalsa dell’imposta dovuta dal cedente/prestatore del bene/servizio oggetto di scambio e a sua volta soggetto passivo del tributo, ma matura altresì il diritto di detrarre – dall’ammontare del «debito IVA» nei confronti dell’Erario – il quantum in tal modo addebitatogli (art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972). Di talché, l’esposizione debitoria del soggetto passivo verso l’Erario risulterà, in definitiva, determinata dalla somma algebrica tra l’importo «a debito» – coincidente con l’ammontare delle operazioni imponibili realizzate nel periodo d’imposta – e il corrispondente valore rilevato «a credito» connesso alle operazioni passive dallo stesso poste in essere nello stesso periodo d’imposta. A ben vedere, l’estrinsecazione congiunta di un tale meccanismo noto come «detrazione-rivalsa» e risultante dal combinato disposto degli artt. 18 e 19, d.P.R. n. 633 del 1972 – nel solco delle indicazioni comunitarie contenute negli artt. 167 ss. Direttiva CE n. 112 del 2006 (5) – appare la massima

e nazionale derivata, ma anche transnazionale del principio di neutralità ai fini IVA, un interessante excursus sulla dinamica evolutiva dell’imposta sul consumo cinese in termini di progressivo avvicinamento della struttura di tale tributo al meccanismo impositivo tipico dell’IVA è elaborato da W. Weng, La riforma attuale dell’IVA in Cina, in Riv. dir. trib., 2015, I, 11 ss. (5) A maggior evidenza della centralità del meccanismo suesposto nella dinamica strutturale dell’IVA, la C.g.u.e. ha financo recentemente precisato come «occorre parimenti sottolineare che il diritto a detrazione costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni (sentenze del 15 luglio 2010, Pannon Gép Centrum, C-368/09, EU:C:2010:441, p.to 37, e del 26 aprile 2017, Farkas, C-564/15, EU:C:2017:302, p.to 42)» (cfr. Corte giust., 11 aprile 2019, c. 691/17, PORR Építési Kft. contro Nemzeti Adó- és Vámhivatal Fellebbviteli Igazgatósága, p.to n. 32). In dottrina, cfr. ex multis L. Baroni, Il regime IVA per il commercio «intracomunitario»: i principali rilievi normativi e giurisprudenziali, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 3-4, 775 ss. spec. § 2; R. Rizzardi, La fiscalità di impresa: l’evoluzione nel corso del 2012 in vista della nuova delega, in Riv. dott. comm., 2012, 4, 817 ss. e, con particolare focus sulla funzionalizzazione del principio di neutralità ai fini IVA alla minimizzazione del rischio di surrettizie asimmetrie sia nell’allocazione della ricchezza che in potenziali perdite di gettito fiscale in capo ai vari Stati membri dell’U.E. coinvolti nel suo meccanismo applicativo, v. le analisi svolte da E. D’Agosto, M. Marigliani e S. Pisani, Asimmetrie territoriali nel gap IVA, in Riv. dir. fin., 2013, 2, 183 ss. Recentemente, il tema della crescente interdipendenza del sistema legislativo nazionale – in relazione ad input e scelte di «politica del diritto» espresse in sede eurounionale – è stato efficacemente declinato in riferimento al principio di neutralità vigente in materia di IVA, sicché «anche dopo l’avvento della Carta dei diritti di Nizza, in campo tributario la scala di valori è ancora quella economica, propria dei sistemi di libero scambio e della neutralità esterna e interna del fattore fiscale, in cui la fiscalità – sia quella delle imposte indirette necessariamente armonizzate che quella delle imposte dirette – è prevalentemente considerata in funzione dell’unità del mercato interno e delle quattro libertà fondamentali della tradizione europea; delle libertà, cioè, di circolazione


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e miglior realizzazione del principio di neutralità sinora compulsato. Sicché, la posizione giuridica soggettiva del Tax Collector è suscettibile di integrare alternativamente «profili creditori» nei confronti dell’Erario, ovvero assumere una «situazione debitoria» verso il medesimo Ente impositore (6). A corroborazione della valenza ermeneutica del meccanismo anzidetto, la neutralità sortisce una decisa affermazione – a mente dell’art. 18, comma 4, d.P.R. n. 633 del 1972 – attraverso l’espressa comminatoria di nullità di ogni patto contrario all’esercizio dell’obbligo di addebitare l’IVA di rivalsa nei confronti del cessionario/committente delle operazioni imponibili realizzate da soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato. Tuttavia, salvaguardare la neutralità del tributo in capo ai Tax Collectors non comporta un assorbente offuscamento delle molteplici problematiche di rilievo applicativo che discendono dal procedimento di sussunzione, nel novero delle operazioni idonee a generare l’insorgenza del debito d’imposta, di talune fattispecie particolari e sintomatiche di un coacervo di rapporti giuridici di difficile

dei capitali, delle persone, delle merci e dei servizi» come osservato da F. Gallo, Il diritto tributario italiano in Europa: coerenza o resilienza?, in Giur. comm., 2019, 6, 973 ss. (6) Il concreto avvicendarsi delle situazioni giuridiche supra descritte tratteggia la naturale conseguenza, quoad effectum, dello schema applicativo del tributo (cfr. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, 2016, Padova, p. 232 ss.). Posizione accolta e sviluppata, con tensione evolutiva, anche dalla giurisprudenza comunitaria, con particolare attenzione alla garanzia di effettività del diritto di detrazione in caso di imposizione di termini decadenziali da parte dei singoli ordinamenti nazionali al fine del suo esercizio. «Per quanto riguarda le “formalità” previste dagli Stati membri, in applicazione dell’art. 18, n. 1, lett. d, della sesta direttiva, che devono essere assolte dal soggetto passivo per poter esercitare il diritto a detrazione […] La Commissione delle Comunità europee afferma che la detrazione dovrebbe essere esercitata rispettando le normali scadenze fiscali. Il suo esercizio non potrebbe quindi essere differito sine die. Essa ne deduce che la fissazione di termini di decadenza per l’esercizio del diritto a detrazione non sarebbe incompatibile con gli obiettivi perseguiti dalla sesta direttiva, a condizione che tali termini non siano meno favorevoli rispetto a quelli previsti per l’esercizio di analoghi diritti in materia fiscale (principio di equivalenza) e che essi non siano tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)» (cfr. Corte giust. 8 maggio 2008, cause riunite c. 95/07 e 96/07, Ecotrade SpA c. Agenzia delle Entrate – Ufficio di Genova 3, p.ti nn. 28 e 32 con nota di R. Miceli, L’effettività della disciplina nazionale sull’esercizio del diritto di detrazione Iva in caso di accertamento tributario, in Riv. dir. trib., 2008, IX, p. 238 ss.). Recentemente, ex multis, Corte giust., 14 dicembre 2016, c. 378/15, Mercedes Benz Italia SpA contro Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale Roma 3, p.ti nn. 38, 39 e 40; Id., 14 giugno 2017, c. 38/16, Compass Contract Services Limited c. Commissioners for Her Majesty’s Revenue & Customs, p.to n. 33; Id., 26 aprile 2018, c. 81/17, Zabrus Siret SRL contro Direcţia Generală Regională a Finanţelor Publice Iaşi – Administraţia Judeţeană a Finanţelor Publice Suceava, p.to n. 32).


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soluzione, o quantomeno di soluzione non univoca. Il riferimento corre ad alcune ipotesi di deroga a siffatto principio, attraverso «attenuazioni» del meccanismo di «detrazione-rivalsa», motivate ora da ragioni di certezza del rapporto fiscale e/o d’inibizione di eventuali fattispecie integranti un fenomeno di doppia imposizione, ora da finalità di incentivazione di determinati impieghi del capitale, ora da espresse scelte normative finalizzate – in chiave comunitaria – a favorire l’implementazione di un mercato unico europeo (artt. 3 e 111 T.f.u.e.) (7).

(7) A titolo meramente esemplificativo non appare di particolare ottusità collegare ai ragionamenti espressi nel testo la non obbligatorietà dell’esercizio della rivalsa (pertanto, non un’esclusione totale dall’azionamento del diritto de quo), contemplata all’art. 18, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972 per le cessioni di beni e prestazioni di servizi ivi elencate, presumendovi l’assenza di un vincolo sinallagmatico e dell’onerosità (rectius, economicità) delle operazioni cosí sussumibili nell’attività economica realizzata dal soggetto passivo (exemplum di trasposizione interna dei princípi e delle definizioni di attività economica, sinallagmaticità ed onerosità delle operazioni rilevanti ai fini IVA risultanti dal combinato disposto degli artt. 2, § 1 e art. 9, Direttiva CE n. 112 del 2006). La declinazione del meccanismo di «detrazione-rivalsa» a guisa di instrumentum regni del principio di neutralità dell’IVA riflette un aspetto largamente attenzionato dalla dottrina tributaristica (sin da F. Bosello, L’imposta sul valore aggiunto. Aspetti giuridici, Bologna, 1979, 89 ss.), soprattutto avendo riguardo alle categorie di fattispecie che presentino profili di potenziale «deviazione» dallo «schema standard» di sussunzione delle operazioni astrattamente rilevanti ai fini del tributo, in termini di effettiva applicazione del prelievo fiscale a valle. «Dovrebbe reputarsi contrario al principio di neutralità (e, pertanto, asistematico) il mancato riconoscimento della detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti effettuati in vista dell’attività gestionale, giustificato in base al fatto che tale attività, non ancóra in concreto avviata, non avrebbe dato luogo a proventi di alcun genere. Per le stesse ragioni dovrebbe reputarsi distorsiva rispetto al principio di neutralità la mancata applicazione dell’IVA su cessioni di beni che, una volta entrati, siano stati successivamente espulsi dal circuito fiscale dell’impresa, per esempio a causa di una inaspettata cessazione dell’attività» osserva M. Beghin, L’esercizio di impresa nell’IVA, in Riv. dir. trib., 2009, X, 800; similmente, L. Carpentieri, Il principio di territorialità nell’imposta sul valore aggiunto, ivi, 2002, I, 25 ss. in tema di fictio iuris delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi che non si considerano effettuate nel territorio dello Stato e R. Miceli, Gli effetti della incompatibilità comunitaria del condono IVA e della relativa sentenza di inadempimento sul sistema giuridico nazionale, ivi, 2010, V, 587 ss. circa l’impossibilità da parte dello Stato membro di attrarre l’IVA nel novero dei tributi suscettibili di fattispecie condonistiche (c.d. «condoni impuri»), in commento alla sentenza Corte giust., 17 luglio 2008, c. 132/06, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana; ancóra, P. Pistone, Rassegna critica della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di imposta sul valore aggiunto, ivi, 2001, X, p. 152 ss. il quale mette in evidenza come «nel caso Abbey National (ndr, Corte giust., 22 febbraio 2001, c. 408/98, p.to n. 34) la Corte però chiarisce che nell’ipotesi eccezionale in cui il soggetto ceda un’universalità di beni, sopportando costi per usufruire di servizi inerenti all’attività economica e relativi alla cessione stessa, è necessario garantire a tale soggetto il diritto alla detrazione, giacché ogni altra interpretazione sarebbe in contrasto con lo spirito di neutralità della sesta direttiva».


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Parimenti, un elemento d’imprescindibile complementarietà dell’impianto assiologico prodromico alla neutralità dell’IVA deve rintracciarsi nel vincolo di inerenza sussistente tra operazioni imponibili realizzate dal soggetto passivo, integranti il dovere di esercitare la rivalsa nei confronti del cessionario/committente, ed operazioni passive compiute nell’esercizio delle attività di cui agli artt. 4 e 5, d.P.R. n. 633 del 1972, idonee ad ingenerare il diritto di detrarre l’imposta corrisposta sulle medesime ed addebitata in sede di rivalsa. In altri termini, non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggètte al tributo (art. 19, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972), salvo deroghe espressamente stabilite dalla legge (8). Orbene, il requisito dell’inerenza poc’anzi descritto sostanzia il necessario legame teleologico e funzionale che deve sussistere in capo ai Tax Collectors tra attribuzione del diritto di detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti e la tendenziale attitudine di quest’ultimi a confluire all’interno dei beni/servizi prodotti dall’operatore economico e, a sua volta, destinati alla realizzazione di operazioni imponibili ai fini del tributo (i.e. scambio sul «mercato»). Vale a dire, il meccanismo di «detrazione-rivalsa» in tanto esiste, in quanto le operazioni passive realizzate dal Tax Collector siano destinate alla realizzazione obiettiva, verificabile e misurabile di operazioni imponibili ai fini IVA (9).

(8) Ex multis, l’IVA corrisposta sulle operazioni non imponibili – ex artt. 8, 8 bis e 9, d.P.R. n. 633 del 1972 – effettuate nell’àmbito di cessioni di beni o prestazioni di servizi insistenti tra soggetti passivi stabiliti in territori di differenti Stati membri dell’U.E. ex artt. 40 e 41 d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con modif. in l. 29 ottobre 1993, n. 427). (9) Il riferimento contenuto nel testo si rivolge alla categoria di operazioni suscettibili di generare un rapporto giuridico debitorio del soggetto passivo IVA nei confronti dell’Erario. Di talché, il concreto atteggiarsi del principio di inerenza in commento risulta connotato da un vincolo di maggior cogenza rispetto al medesimo canone rintracciabile ai fini reddituali (art. 109, comma 5, d.P.R. n. 917 del 1986), caratterizzato da una generale attrazione al reddito di impresa di ciascun componente positivo o negativo suscettibile di ingenerare un incremento patrimoniale nel periodo d’imposta (in argomento v. A. Vicini Ronchetti, Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. trib., 2019, V, 552 ss.). Sul punto, è stato osservato in dottrina che, in termini di declinazione causale del requisito dell’inerenza degli elementi che concorrono alla formazione del prezzo finale dei beni/servizi suscettibili di realizzare operazioni economiche, «la Cassazione non parla di necessarietà, bensì di utilità, che è sicuramente un concetto meno tranchant, ma si tratta, pur sempre, dell’inserimento, all’interno dell’inerenza, di un elemento che opera rigidamente, implicante una logica causale, deterministica» (cfr. P. Tarigo, Il giudizio d’inerenza dei costi d’impresa in alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione, in Riv. dir. fin., 2016, III, 423 ss.). Inoltre,


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Parte prima

Sicché, appare ragionevole e pressoché necessaria la previsione normativa

«sussistendo il requisito dell’inerenza, l’esercizio del diritto di detrazione, come peraltro riconosciuto dalla Cassazione sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia, è limitato alle imposte corrispondenti alle operazioni effettivamente intervenute e soggette ad IVA, e ciò a prescindere dall’esistenza della fattura» sostiene M. Logozzo, IVA e fatturazione per operazioni inesistenti, in Riv. dir. trib., 2011, III, 405 ss., e Id., Temi di diritto tributario, Pisa, 2019, 275 ss. Del pari, è stato rilevato «come il concetto di inerenza sia un concetto di relazione, che impone il raffronto tra la singola operazione passiva posta in essere dal soggetto Iva e la sua attività, la quale costituisce, appunto, il “parametro di inerenza”. Orbene, mentre nel caso di imprese individuali tale parametro è, per definizione, dato dall’attività concretamente svolta, nel caso delle società commerciali ove non si ritenga applicabile la presunzione di commercialità occorre invece stabilire se a tale fine rilevi l’oggetto sociale (inteso come la specifica attività economica indicata nell’atto costitutivo che con la società ci si propone di esercitare), ovvero l’attività effettivamente svolta» (v. F. Pepe, La presunzione di commercialità ex art. 4, comma 2, n. 1 d.P.R. n. 633 del 1972 quale causa di incoerenza del “sistema Iva” ed i suoi riflessi sull’evoluzione della normativa interna, in Riv. dir. trib., 2004, XI, 1271 ss. e G.M. Cipolla, L’accertamento contabile e l’accertamento extracontabile negli artt. 54 e 55 d.P.R. n. 633 del 1972, ivi, 2000, VI, 615 ss.). Ciò detto, la giurisprudenza di legittimità nazionale con molteplici e polivalenti arresti sul punto ha contribuito a riempire di significato esegetico la portata applicativa del principio di inerenza testé discusso. L’emersione in superficie di tale «vincolo di correlazione» necessariamente insistente tra le operazioni attive e passive compiute dal singolo Tax Collector, rispettivamente, a valle e a monte dell’attività produttiva posta in essere, al fine di procacciare piena realizzazione della neutralità del tributo, subisce una declinazione in parte qua autonoma e distinta rispetto al corrispondente principio operativo nel sistema delle imposte sui redditi. Vale a dire, «la base imponibile IVA non può essere quantificata alla stregua dei criteri che, nel settore delle imposte sui redditi, presiedono la ricostruzione del reddito d’impresa, ossia deducendo i costi sostenuti per l’esercizio dell’attività dell’impresa dai corrispettivi derivanti dall’effettuazione di operazioni, imponibili ai fini del tributo sul valore aggiunto, senza tuttavia tenere conto dell’indetraibilità dell’imposta sulle operazioni passive non documentate o non inerenti all’attività d’impresa» afferma M. Peirolo, Irrilevanza della ricostruzione del reddito d’impresa nella determinazione della base imponibile dell’IVA, in Boll. trib. inf., 2003, XII in commento alla sentenza Cass., 4 febbraio 2003, n. 1633 e, mutatis mutandis, in materia di indetraibilità dell’imposta addebitata in rivalsa per operazioni non soggette v. C. Cipollini, È indetraibile l’IVA addebitata in rivalsa per operazioni non soggètte all’applicazione dell’imposta, ivi, 2008, XX in commento alla sentenza Cass., 25 gennaio 2008, n. 1607. Piú di recente, la Suprema Corte ha avuto modo di riaffermare il principio secondo cui «il diritto alla detrazione può essere negato solo ove sia dimostrato dall’amministrazione finanziaria, alla luce di elementi oggettivi, che esso è invocato dall’imprenditore fraudolentemente o abusivamente (Corte giust., sent. 21 giugno 2012, nelle cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahageben e David, p.to 42 e giurisprudenza ivi citata)» (cfr. Cass., sentenza 3 febbraio 2017, n. 2875). Di converso, «premesso che un costo è deducibile in quanto inerente all’attività d’impresa, questa Corte ha affermato che il “principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”, esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche


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ex art. 19, comma 4, d.P.R. n. 633 del 1972 volta ad escludere la detrazione per i beni e i servizi in parte utilizzati per operazioni non soggètte all’imposta e limitatamente alla quota riferibile alle operazioni anzidette (10), da individuarsi

solo potenziale o indiretta) o congruità, perché “il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo” (Cass. n. 450 del 11/1/2018; Cass. n. 18904 del 17/7/2018). Si è inoltre rilevato che “il giudizio quantitativo o di congruità non è, però, del tutto irrilevante” ed accede al diverso piano logico e strutturale dell’onere della prova dell’inerenza del costo e ciò perché “l’oggetto del giudizio di congruità, a differenza di quello sull’inerenza, indica il rapporto tra lo specifico atto d’acquisto (l’atto d’impresa) di un diritto o di una utilità con la decurtazione: è un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito”» (cfr. Cass., ordinanza 14 giugno 2019, n. 16010, p.to n. 9.2; ad vocem, Id., sentenza 28 dicembre 2018, n. 33574; Id., sentenza 28 dicembre 2018, n. 33572 e Id., ordinanza 22 ottobre 2018, n. 26579). (10) Analoghe considerazioni non sembrano subire rilevanti distorsioni qualora ad un’indetraibilità oggettiva ed analitica si sostituisca un criterio di determinazione forfetario, determinato da ragioni di certezza tanto del rapporto tributario, quanto dei traffici giuridici e previsione anticipata del carico fiscale delle operazioni economiche poste in essere dagli operatori di mercato (cfr. ex multis Corte cost., sentenze 4 aprile 1990, n. 155 e 15 luglio 1994, n. 315). Con ciò riferendosi ai regimi di determinazione noti come «pro rata», per acquisiti di beni non ammortizzabili e prestazioni di servizi (si noti che, ai fini IVA, gli acquisti di beni immateriali siano equiparate alle prestazioni di servizi ai sensi dell’art. 3, comma 2, n. 2, d.P.R. n. 633 del 1972), ovvero di «pro rata temporis» circa gli acquisti di beni ammortizzabili (rispettivamente, art. 19, comma 5 ed artt. 19 bis e 19 bis.2, commi 4,5 e 6, d.P.R. n. 633 del 1972). Ed invero, «la percentuale di detrazione di cui all’articolo 19, comma 5, è determinata in base al rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto a detrazione, effettuate nell’anno, e lo stesso ammontare aumentato delle operazioni esenti effettuate nell’anno medesimo. La percentuale di detrazione è arrotondata all’unità superiore o inferiore a seconda che la parte decimale superi o meno i cinque decimi» (art. 19 bis, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972). A completamento del quadro ordinamentale testé tratteggiato si pone il disposto dell’art. 19 bis.1, d.P.R. n. 633 del 1972 riportante un’enucleazione casistica delle fattispecie oggettive segnatamente individuate dal legislatore, il cui perfezionamento comporta, con presunzione iuris et de jure, una compressione più o meno accentuata del diritto di detrazione dell’IVA assolta in sede di rivalsa su tali categorie di operazioni. Ciò è indissolubilmente collegato al particolare meccanismo di neutralità dell’IVA per il soggetto passivo del tributo che richiede una disamina analitica della colleganza, dell’allacciamento, del «verbunden» insistente tra l’operazione imponibile realizzata e la legittimità dell’esercizio del diritto di «detrazionerivalsa» financo esposto (cfr. Corte giust., 21 febbraio 2013, c. 104/12, Finanzamt Köln-Nord contro Wolfram Becker, p.to n. 23). Sicché «per poter beneficiare di tale diritto, occorre, da un lato, che l’interessato sia un “soggetto passivo” ai sensi della direttiva in parola e, dall’altro, che i beni o i servizi addotti a fondamento del diritto alla detrazione dell’IVA siano utilizzati a valle dal soggetto passivo ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta e che, a monte, detti beni siano ceduti o che siffatti servizi siano forniti da un altro soggetto passivo (v., in tal senso, sentenze del 15


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secondo criteri oggettivi e coerenti con la natura dei beni/servizi acquistati (11). Quindi, appare altresì comprensibile come lo schema applicativo della neutralità dell’IVA collimi con l’insorgenza del meccanismo di «detrazionerivalsa» all’atto dell’esigibilità del tributo, secondo le modulazioni descritte dall’art. 6, d.P.R. n. 633 del 1972, non rivelandosi all’uopo esclusivamente determinante il momento dell’effettivo incasso/pagamento della fattura emessa a fronte dell’operazione (imponibile, non imponibile ovvero esente) realizzata (12).

settembre 2016, Senatex, C-518/14, EU:C:2016:691, p.to 28 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 19 ottobre 2017, Paper Consult, C-101/16, EU:C:2017:775, p.to 39)» cfr. Corte giust., 21 marzo 2018, c. 533/16, Volkswagen AG contro Finančné riaditeľstvo Slovenskej republiky, p.to n. 41 e Id., 8 maggio 2019, c. 727/17, EN.SA. Srl contro Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale Lombardia Ufficio Contenzioso, p.to n. 23 a mente del quale «il soggetto passivo può detrarre l’IVA di cui sono gravati i beni e i servizi impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta. In altri termini, il diritto a detrarre l’IVA gravante sull’acquisto di beni o servizi a monte presuppone che le spese effettuate per acquistare questi ultimi facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle (v., in tal senso, sentenza del 6 settembre 2012, Portugal Telecom, C-496/11, EU:C:2012:557, p.to n. 36)». Limitatamente ad un’analisi esegetica della latitudine innovativa del pronunciamento da ultimo citato v. L. Costanzo, Suggestioni evolutive della buona fede nel diritto tributario europeo, in Riv. dir. trib. suppl. online, 9 dicembre 2019. (11) Le rettifiche conseguenti all’applicazione dei regimi testé enucleati appaiono fisiologiche a garantire che la neutralità del tributo per i soggetti passivi IVA non conduca a sperequazioni in relazione alla corretta individuazione della capacità contributiva del Tax Collector, giacché è precipuo interesse dell’Erario operare una livellazione del carico fiscale rispondente a criteri di effettività, attualità e ragionevolezza nell’individuazione della base imponibile del tributo (come desumibile in via implicita dal combinato disposto degli artt. da 63 a 66 e da 73 a 77 Direttiva CE n. 112 del 2006). Cfr. P. Boria, Il sistema tributario in A. Fantozzi (a cura di), Diritto tributario, cit., 31 ss. e L. Carpentieri, Le fonti del diritto tributario, cit., 192 ss. A ciò non risultando di alcuna preclusione la matrice comunitaria dell’IVA e la sua elevazione a risorsa propria dell’U.E., poiché – secondo il costante insegnamento della Corte di Giustizia U.E. – i cittadini dell’Unione non possono avvalersi abusivamente delle disposizioni e delle norme comunitarie per raggiungere risultati in contrasto con lo spirito e la ratio delle norme medesime (cfr. Corte giust., 21 febbraio 2006, c. 255/02, Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd e County Wide Property Investments Ltd contro Commissioners of Customs & Excise e, tra i pronunciamenti piú risalenti pare doveroso ricordare in questa sede Id., 3 dicembre 1974, c. 33/74, Johannes Henricus Maria van Binsbergen v Bestuur van de Bedrijfsvereniging voor de Metaalnijverheid, p.ti nn. 14, 15 e 16; Id., 14 dicembre 2000, c. 110/99, Emsland-Stärke GmbH v Hauptzollamt Hamburg-Jonas, p.to n. 51 e Id., 6 luglio 2006, cause riunite c. 439/04 e c. 440/04, Axel Kittel c. Stato belga e Stato belga c. Recolta Recycling SPRL (C-440/04), p.ti nn. 54 e 55). (12) È doveroso puntualizzare che il regime ordinario dell’IVA e con esso lo «schema standard» di attuazione della neutralità del tributo per il Tax Collectors di cui si è discusso,


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Un rilievo particolare in materia di neutralità dell’IVA meritano le determinazioni relative a particolari regimi contabili adottabili dal contribuente, in relazione alle cessioni/acquisti intracomunitari. A tal riguardo, il meccanismo di inversione contabile o reverse charge (artt. 46 e 47 d.l. n. 331 del 1993), rilevabile nell’àmbito dei rapporti tra soggetti passivi del tributo (c.dd. operazioni Business to Business – B2B) (13), consente al cedente il bene o al

ammette sì talune deroghe ed altrettanti correttivi vòlti ad evitare che il meccanismo della «detrazione-rivalsa» si risolva in un indebito vantaggio fiscale (rectius, indebita manipolazione del regime concorrenziale di «mercato»), ma il loro «raggio d’azione» è soggetto ad interpretazione asseritamente restrittiva. «Secondo una giurisprudenza costante della Corte, le esenzioni dall’IVA devono essere interpretate restrittivamente, in quanto costituiscono una deroga al principio generale secondo cui tale imposta è riscossa su ogni cessione di beni e su ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo (v., in particolare, sentenze del 26 giugno 1990, Velker International Oil Company, C-185/89, EU:C:1990:262, p.to 19; del 16 settembre 2004, Cimber Air, C-382/02, EU:C:2004:534, p.to 25; del 14 settembre 2006, Elmeka, da C-181/04 a C-183/04, EU:C:2006:563, p.ti 15 e 20, nonché del 19 luglio 2012, A, C-33/11, EU:C:2012:482, p.to 49)» cfr. Corte giust., 29 giugno 2017, c. 288/16, ‘L.Č.’ IK v Valsts ieņēmumu dienests, p.to n. 22 e passim Id., 29 marzo 212, c. 414/10, Véleclair SA contro Ministre du Budget, des Comptes publics e de la Réforme de l’État. In tema, si rammenta che la giurisprudenza nazionale in sede di ricognizione degli orientamenti comunitari collegati alla materia de qua: «ai sensi degli artt. 17 e 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione, interpretati in coerenza con quanto prescritto dagli artt. 17 e 20 della sesta direttiva del Consiglio CEE. del 17 maggio 1977, n. 77/388 CEE., e del principio affermato dalla Corte di giustizia delle Comunità con la sentenza 13 dicembre 1989, (c. 342/87), l’esercizio del diritto di detrazione è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’IVA o versate in quanto dovute, e non si estende all’imposta che sia stata pagata per il semplice fatto di essere stata indicata in fattura» cfr. Cass., sentenza 5 giugno 2003, n. 8959. (13) Come specificato dal Reg. U.E. 15 marzo 2011, n. 282 al considerando n. 18 «la corretta applicazione delle norme che disciplinano il luogo delle prestazioni di servizi dipende principalmente dallo status del destinatario, soggetto passivo o non soggetto passivo, e dalla qualità in cui egli agisce. Al fine di determinare lo status di soggetto passivo del destinatario, è opportuno stabilire gli elementi giustificativi che il prestatore deve ottenere dal destinatario». A tal uopo, l’art. 18 del Reg. de quo dispone che il prestatore, salvo che disponga di informazioni contrarie, possa considerare ex lege che un destinatario stabilito nella Comunità abbia lo status di soggetto passivo qualora: a) il destinatario gli ha comunicato il proprio numero individuale di identificazione IVA (una volta verificato nell’elenco VIES (di cui v. infra); b) se il destinatario non ha ancóra ricevuto un numero individuale di identificazione IVA, ma lo informa che ne ha fatto richiesta, qualora ottenga qualsiasi altra prova attestante che quest’ultimo è un soggetto passivo o una persona giuridica non soggetto passivo tenuta all’identificazione ai fini dell’IVA e effettui una verifica di ampiezza ragionevole dell’esattezza


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prestatore del servizio (artt. 7 ter ss., d.P.R. n. 633 del 1972) di emettere una fattura recante l’annotazione «inversione contabile» (ex art. 21, comma 6 bis, lett. a d.P.R. n. 633 del 1972) che sarà integrata con indicazione dell’aliquota dell’imposta e dell’ammontare dell’IVA dovuta dal cessionario/committente in relazione alle disposizioni normative vigenti nel Paese membro di destinazione al consumo dei beni/servizi scambiati. Il regime dell’inversione contabile risulta così prodromico all’implementazione dell’«unione doganale» del territorio U.E. e, al tempo stesso, appresta una forma di tutela effettiva degli scambi tra diversi soggetti passivi stabiliti in differenti Stati membri, al fine di salvaguardare la condizione di libera concorrenza e di garantire l’esercizio delle libertà fondamentali sancite dal T.f.u.e. (ex artt. 28 ss. del Trattato) in capo ai cittadini (sedes materiae, operatori economici) dell’U.E. È altresì chiaro che, nell’ottica di instaurazione di un mercato unico comunitario – armonizzato nel processo di individuazione di aliquote, presupposto impositivo, soggetti passivi e soggetti attivi del tributo in commento – il momento di perfezionamento delle componenti funzionali all’insorgenza del relativo debito d’imposta si manifesta nel luogo di origine del Tax Collector che effettua la cessione di beni e/o la prestazione di servizi in rilievo. Il regime dell’IVA intracomunitaria, e con esso il meccanismo applicativo del reverse charge, è stato introdotto come regime transitorio «e sarà sostituito da un regime definitivo fondato in linea di massima sul principio dell’imposizione, nello Stato membro d’origine, delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi» (art. 402, § 1, Direttiva CE n. 112 del 2006) (14). Pertanto,

delle informazioni fornite dal destinatario applicando le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di pagamento. Parimenti, ai fini della determinazione della qualità di soggetto passivo del cessionario/ committente dei beni/servizi scambiati il successivo art. 19 del Reg. in esame così recita: «ai fini dell’applicazione delle norme relative al luogo della prestazione di servizi di cui agli articoli 44 e 45 della direttiva 2006/112/CE, un soggetto passivo o un ente non soggetto passivo assimilato a un soggetto passivo che riceve servizi destinati esclusivamente ad un uso privato, ivi compreso l’uso da parte dei suoi dipendenti, è considerato un soggetto non passivo. Salvo che disponga di informazioni contrarie, ad esempio sulla natura dei servizi forniti, il prestatore può considerare che i servizi sono destinati all’attività economica del destinatario se, per tale operazione, costui gli ha comunicato il suo numero individuale di identificazione IVA». (14) Come adeguatamente formulato nei considerando alla Direttiva CE n. 112 del 2006 «Nel corso di tale periodo transitorio, occorre tassare nello Stato membro di destinazione, alle sue aliquote e condizioni, le operazioni intracomunitarie effettuate da soggetti passivi che non siano soggetti passivi esentati», sicché «al fine di facilitare gli scambi intracomunitari nel settore


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l’odierno apparato impositivo è fondato sul principio di tassazione nel Paese di destinazione, dimodoché le cessioni di beni e/o prestazioni di servizi realizzate tra soggetti passivi IVA all’interno dell’U.E. non concorrono a tassazione nello Stato di origine (i.e. a carico del cedente/prestatore) ma in quello dove si verificherà o si presume legalmente debbasi verificare il consumo del bene/ servizio scambiato (i.e. nello Stato del cessionario/committente) (15). A tal fine, la complementare esigenza di preservare l’interesse fiscale dei singoli Stati membri e, lato sensu, delle istituzioni europee alla corretta e sollecita riscossione del tributo, evitando la possibilità di attecchimento di fenomeni abusivi delle disposizioni comunitarie, è alla base dell’istituzionalizzazione di un sistema celere ed efficace di scambio di informazioni tra le Amministra-

dei lavori relativi a beni mobili materiali, è opportuno stabilire le modalità d’imposizione di tali operazioni quando esse sono eseguite a favore di un destinatario identificato ai fini dell’IVA in uno Stato membro diverso da quello nel quale l’operazione è materialmente eseguita» (rispettivamente, considerando nn. 10 e 15 Direttiva CE n. 112 del 2006). Parimenti, si osserva in dottrina come «il cosiddetto regime definitivo dell’Iva, che sarebbe dovuto entrare in vigore nel 1993 ma la cui attuazione è stata per ora accantonata (per cui il regime varato nel 1993 continua ad essere definito transitorio), comporta l’applicazione del principio di origine sia per i beni che per i servizi [...] si può ritenere che il regime transitorio abbia consolidato il principio di destinazione, per cui difficilmente nel futuro si registrerà il passaggio integrale al principio di origine» (G. Vitaletti, Principi fiscali ed economia globale, in Riv. dir. fin., 2010, 2, 117 ss. spec. § 3.2). Sulla medesima falsariga, v. altresì E.M. Simonelli e M. Marconi, L’estensione dell’obbligo di inversione contabile del “reverse charge”, in Riv. dott. comm., 2010, 1, 155 ss. e, per cogliere i profili squisitamente ricostruttivi e sistematici della materia, B. Santamaria, Diritto tributario. Parte speciale. Fiscalità nazionale ed internazionale, 4 ed., Milano, 2009, 181-187. Parimenti, l’art. 40, Direttiva CE n. 112 del 2006 stabilisce che «è considerato luogo di un acquisto intracomunitario di beni il luogo in cui i beni si trovano al momento dell’arrivo della spedizione o del trasporto a destinazione dell’acquirente», in conformità alla nozione di «acquisto intracomunitario» ex art. 2, § 1, lett. b, Direttiva CE n. 112 del 2006 ed alle specificazioni offerte agli artt. 20 ss. Direttiva de qua. (15) Concordemente, l’art. 68 Direttiva CE n. 112 del 2006 dispone che «il fatto generatore dell’imposta si verifica al momento dell’effettuazione dell’acquisto intracomunitario di beni. L’acquisto intracomunitario di beni è considerato effettuato nel momento in cui è considerata effettuata la cessione di beni analoghi nel territorio dello Stato membro». Sul punto, i rilievi dottrinali riconoscono che «coerentemente con quanto previsto dall’art. 21 della VI Direttiva e ripreso, anche in termini più ampi dagli artt. 193 ss. della Direttiva 2006/112/CE […] La generalizzazione del ricorso al meccanismo del reverse charge a tutte le operazioni (cessioni di beni e prestazioni di servizi) effettuate da un soggetto non stabilito nasce dall’esigenza di evitare il moltiplicarsi di posizioni IVA aperte in Italia da parte di soggetti non stabiliti, quando gli adempimenti possono essere assolti da soggetti stabiliti in Italia» (cfr. M. Spera, Il debitore dell’imposta, in A. Dragonetti, V. Piacentini e A. Sfondrini (a cura di), Manuale di fiscalità internazionale, Milano, 2016, 2375 ss.).


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zioni fiscali nazionali (c.d. VAT Information Exchange System – VIES) (16), unitamente all’adempimento trimestrale di comunicazione delle transazioni effettuate con imprese di altri Paesi dell’U.E. (c.dd. «elenchi Intrastat») (17). Di conseguenza, la fattura emessa dal cedente/prestatore sarà annotata sia nel registro dei corrispettivi che in quello degli acquisti (rispettivamente artt. 24 e 25, d.P.R. n. 633 del 1972), producendo conseguentemente un impatto neutrale del tributo in relazione all’operazione in commento e derivante dall’annullamento per somma algebrica dei medesimi importi registrati «a debito» e «a credito» nei confronti dell’Erario (18).

(16) Tale sistema informatico, apprestato per la registrazione degli operatori economici situati all’interno dell’U.E. ed intenzionati a realizzare operazioni intracomunitarie, è stato istituito dal Reg. U.E. del 7 ottobre 2010, n. 904 e segnatamente disciplinato dagli artt. 17 ss. In Italia, la trasposizione degli obblighi comunitari conseguenti è stata attuata attraverso l’art. 27, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 che modifica l’art. 35, d.P.R. n. 633 del 1972. Del resto, come emerso anche da taluni contributi della dottrina di matrice internazionale, «an enterprise that carries out economic activities is not automatically subject to taxation. To fall within the scope of VAT, the company must register with the tax authorities for VAT. The status of VAT is obtained from a certain level of turnover, very small businesses choosing, usually do not pay VAT (which is not always to their advantage, since VAT is borne by enterprises, but only collected postconsumer)» (cfr. D. Vlad, Value Added Tax - Generalized Method of Consumption Taxation. Comparative Approaches, in Soc. Ec. Deb., 2016, 5, 37 e R. Millar, Limitations on the Right to Credit Input Tax: Rio Tinto Services Limited v Commissioner of Taxation, in World J. VAT/ GST L., 2016, 5, 42-47). (17) Dal 1° gennaio 1993 devono essere compilati gli elenchi riepilogativi (modello Intrastat) delle cessioni e degli acquisti intracomunitari di beni effettuati e registrati. La normativa di riferimento attualmente è contenuta nella Direttiva CE n. 112 del 2006. Per effetto della Direttiva CE 12 febbraio 2008, n. 8 e della Direttiva CE 16 dicembre 2008, n. 117 la disciplina è stata modificata per le operazioni con periodo di riferimento decorrente dal 1° gennaio 2010. In particolare devono essere compresi negli elenchi anche alcune prestazioni di servizi effettuate o acquistate nei confronti di soggetti passivi comunitari. La normativa è stata recepita in Italia con il d.lg. 11 febbraio 2010, n. 18 e i modelli degli elenchi sono stati approvati con Determinazione del Direttore dell’Agenzia delle Dogane n. 22778 del 22 febbraio 2010, risultando suddivisi come segue: 1) modello «INTRA 1» relativo alle cessioni intracomunitarie di beni e dei servizi resi; 2) modello «INTRA 2» relativo agli acquisti intracomunitari di beni e dei servizi ricevuti (soppresso a decorrere dal 31 dicembre 2017 ex art. 13, commi 4 ter e 4 quinquies, d.l. 30 dicembre 2016, n. 244). (18) «Va tuttavia precisato che questo meccanismo, definito reverse charge, in realtà non attua un ribaltamento della soggettività passiva d’imposta, bensì si limita ad addossare il debito in capo ad un soggetto diverso (il cliente). Viene così confermata la sussistenza di una duplicità di posizioni tra soggetto passivo (che rimane sempre colui che realizza il presupposto d’imposta) e debitore d’imposta» afferma M. Spera, Il debitore d’imposta, cit., 2376. Gli adempimenti documentali ivi descritti non sono risultati oggetto di modifica a causa


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2. La salvaguardia del principio di neutralità del tributo attraverso la preminenza ermeneutica attribuita agli «elementi sostanziali» sugli «aspetti formali» nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E. – La salvaguardia del principio di neutralità dell’IVA per i Tax Collectors che pongano in essere operazioni intracomunitarie ha richiesto una declinazione ad hoc del meccanismo di «detrazione-rivalsa», rispetto al funzionamento ordinariamente operante nelle fattispecie disciplinate in toto dal diritto interno. Il reverse charge acquista, pertanto, un rilievo assiologico e conseguentemente applicativo di ragguardevole importanza, poiché esposto all’evanescente linea di demarcazione rappresentata dai profili interpretativi di talune fattispecie (astrattamente integranti il presupposto) assoggettate ad inversione contabile, o a contrariis da considerarsi abusive del diritto o viziate da errore qualificatorio e dunque sanzionabili in sede amministrativa (ed eventualmente penale) con il disconoscimento, tra l’altro, dei benefici del regime in parola. Ciò detto, tanto in sede comunitaria quanto in occasione della trasposizione della disciplina IVA in norme di diritto interno, è stato definito un sistema di adempimenti pósti in capo ai soggetti passivi e vòlti ad apprestare «a mon-

dell’introduzione dell’obbligo di «fatturazione elettronica» delle operazioni rilevanti ai fini IVA (art. 1, d.lg. 5 agosto 2015, n. 127 di trasposizione delle indicazioni comunitarie contenute nella Direttiva UE 13 luglio 2010, n. 45), poiché ai sensi del comma 3 bis del citato decreto «i soggetti passivi trasmettono telematicamente all’Agenzia delle entrate i dati relativi alle operazioni di cessione di beni e di prestazione di servizi effettuate e ricevute verso e da soggetti non stabiliti nel territorio dello Stato, salvo quelle per le quali è stata emessa una bolletta doganale e quelle per le quali siano state emesse o ricevute fatture elettroniche secondo le modalità indicate nel comma 3. La trasmissione telematica è effettuata entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello della data del documento emesso ovvero a quello della data di ricezione del documento comprovante l’operazione» (c.d. «esterometro»). A fini di completezza espositiva, si segnala che a decorrere dal 1° gennaio 2016 – a mezzo del d.lg. 24 settembre 2015, n. 158 – è stato rivisitato il sistema delle sanzioni amministrative in materia tributaria. Per quanto d’interesse in relazione alla repressione delle violazioni IVA inerentemente alle operazioni intracomunitarie, è stato novellato l’art. 6, d.lg. 18 dicembre 1997, n. 471, da un lato apportando talune modifiche, dirette sostanzialmente ad alleggerire l’ammontare delle sanzioni e dall’altro sostituendo il precedente comma 9 bis, attraverso una parcellizzazione delle disposizioni nei «nuovi» commi 9 bis, 9 bis.1, 9 bis.2 e 9 bis.3, con la finalità dichiarata di rendere più chiaro l’àmbito applicativo delle sanzioni connesse alle fattispecie integranti fenomeni di reverse charge (per approfondimenti sul punto, cfr. F. Montanari, Le violazioni di obblighi formali, documentali e contabili nelle imposte dirette e nell’IVA, in A. Di Martino e E. Marzaduri, Trattato di diritto sanzionatorio tributario, Tomo II, Milano, 2016, 1760 ss. e P. Maspes, Gli scambi intracomunitari in F. Tesauro (diretta da), L’imposta sul valore aggiunto. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, 2001, Torino, 867 ss.).


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te» un corredo documentale idoneo a giustificare sul piano causale l’adozione del regime in commento e, per l’effetto, l’avvenuto concorso degli elementi costitutivi dell’operazione intracomunitaria. Il «bagaglio informativo» poc’anzi tratteggiato si palesa funzionalmente orientato a munire il Tax Collector di una «sufficiente base documentale» onde evitare che, in fase di successivo controllo, le operazioni in precedenza contabilmente registrate avvalendosi del reverse charge possano sortire una diversa qualificazione (i.e. operazioni imponibili tout court) e, di converso, ne risulti in parte qua intaccato il principio di neutralità del tributo. Ed invero, in ordine al riconoscimento di detto principio in capo al soggetto passivo, sono stati previsti alcuni obblighi «documentali» (19) – tra cui la registrazione nello Stato di stabilimento del contribuente quale «soggetto passivo IVA» (art. 213 ss. Direttiva CE n. 112 del 2006 e art. 35, d.P.R. n. 633 del 1972), l’obbligo di fatturazione delle operazioni rilevanti compiute (art. 226 ss. Direttiva CE n. 112 del 2006 e art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972), la registrazione delle stesse (art. 242 ss. Direttiva CE n. 112 del 2006 e art. 22 ss., d.P.R. n. 633 del 1972) e, in ultimo, la dichiarazione annuale IVA (art. 250 ss. Direttiva CE n. 112 del 2006 e art. 8, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322) – che assumono diversa natura in merito all’insorgenza e all’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA relativa ad operazioni passive. Difatti, alcuni di questi sono indispensabili e comunemente definiti «obblighi sostanziali», mentre talaltri possono essere considerati «accessori» ed ipso facto normalmente identificati come «obblighi formali», i quali sono diretti non solo ad agevolare il controllo e l’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria della posizione fiscale del soggetto passivo, ma anche a determinare correttamente la pretesa impositiva (20).

(19) Si precisa sin d’ora che la normativa comunitaria non prevede alcun impianto sanzionatorio, ma stabilisce la vigenza del principio di proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della violazione. Parimenti, si riscontra nella normativa interna un sistema sanzionatorio amministrativo strutturato e puntuale che, talvolta, non sembra rispettare i parametri indicati dalla Corte di giustizia europea in merito all’applicazione del principio appena richiamato. Detti parametri si prefiggono lo scopo dichiarato di non compromettere il diritto a detrazione attraverso la sanzione irrogata, sicché qualora la misura di questa dovesse risultare uguale (o addirittura superiore) all’importo dell’imposta da detrarre, il relativo diritto sarebbe talmente compresso da risultare esautorato (Cfr. F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto U.E. e il diritto internazionale in A. Di Martino e E. Marzaduri, Trattato, cit., 1367 ss.). (20) È stato recentemente osservato da attenta dottrina che «un settore in cui è,


Dottrina

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Al riguardo, la Corte di giustizia U.E. è stata investita negli anni da molte-

tradizionalmente, avvertita una forte tensione tra forma e sostanza è, certamente, quello dell’IVA: esso, infatti, è caratterizzato da una “miriade” di obblighi formali, documentali e contabili, sia sul piano delle operazioni effettuate in Italia, sia per quelle che coinvolgono soggetti esteri e che sovente si “intrecciano” con i complessi adempimenti di natura doganale […] tuttavia, in detto contesto il principio di prevalenza della sostanza sulla forma ha anche una diversa valenza: cioè quella di strumento per far prevalere il diritto europeo, nonché le categorie create dalla Corte di Giustizia su quelle puramente domestiche» cfr. F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Milano, 2019, 285 ss. e, in uniformità di vedute, P. Pistone, Diritto tributario Internazionale, Torino, 2019, 165. Limitatamente agli aspetti di tutela giurisdizionale del contribuente in materia di accentuazione dei profili sostanziali in luogo dell’insorgenza di decadenze dettate dalla mancata osservanza di adempimenti formali non ostativi alla verifica della fondatezza nel merito della condotta del contribuente, cfr. F. Tesauro, Tutela del contribuente nel sistema CEDU in F. Bilancia, C. Califano, L. Del Federico e P. Puoti (a cura di), Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria italiana, Torino, 2014, 369 ss. La questione è risultata altresì di precipuo interesse per la giurisprudenza comunitaria, la quale ha in punta di diritto avallato un’interpretazione sostanzialistica della disciplina degli adempimenti IVA ed in linea con i ragionamenti testé enucleati ed avanzati dalla dottrina al riguardo. Sicché, «la Corte ha in passato affermato che, nell’àmbito del regime dell’inversione contabile, il principio di neutralità fiscale esige che la detrazione dell’IVA a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche se taluni obblighi formali sono stati omessi dai soggetti passivi» (cfr. Corte giust., 6 febbraio 2014, c. 424/12, SC Fatorie SRL contro Direcţia Generală a Finanţelor Publice Bihor, p.to n. 35). Piú in dettaglio, «si deve precisare che i requisiti sostanziali del diritto a detrazione sono quelli che stabiliscono il fondamento stesso e l’estensione di tale diritto, quali previsti all’articolo 17 della sesta direttiva, intitolato «Origine e portata del diritto a detrazione» (v., in tal senso, sentenze Commissione/Paesi Bassi, C-338/98, EU:C:2001:596, p.to 71; Dankowski, C-438/09, EU:C:2010:818, p.ti 26 e 33; Commissione/ Ungheria, C-274/10, EU:C:2011:530, p.to 44, nonché Kopalnia Odkrywkowa Polski Trawertyn P. Granatowicz, M. Wąsiewicz, C-280/10, EU:C:2012:107, p.ti 43 e 44). Per contro, i requisiti formali del diritto a detrazione disciplinano le modalità e il controllo dell’esercizio del diritto medesimo nonché il corretto funzionamento del sistema dell’IVA, quali gli obblighi di contabilità, di fatturazione e di dichiarazione. Tali requisiti sono contenuti negli articoli 18 e 22 della sesta direttiva (v., in tal senso, sentenze Commissione/Paesi Bassi, EU:C:2001:596, p.to 71; Collée, EU:C:2007:549, p.ti 25 e 26; Ecotrade, EU:C:2008:267, p.ti da 60 a 65; Nidera Handelscompagnie, EU:C:2010:627, p.ti da 47 a 51; Kopalnia Odkrywkowa Polski Trawertyn P. Granatowicz, M. Wąsiewicz, EU:C:2012:107, p.ti 41 e 48, nonché Tóth, EU:C:2012:549, p.to 33)» come affermato da Corte giust., 11 dicembre 2014, c. 590/13, Idexx Laboratories Italia Srl contro Agenzia delle Entrate, p.ti nn. 41 e 42 con nota di P. Murgo, Gli adempimenti strumentali nel modello di applicazione delle operazioni comunitarie e la rilevanza della fattura, in Riv. dir. trib., 2014, XI, p. 162 ss. Del pari, cfr. Corte giust., 8 novembre 2018, c. 495/17, Cartrans Spedition Srl contro Direcţia Generală Regională a Finanţelor Publice Ploieşti – Administraţia Judeţeană a Finanţelor Publice Prahova e Direcţia Regională a Finanţelor Publice Bucureşti – Administraţia Fiscală pentru Contribuabili Mijlocii, p.ti nn. 39 ss. e Id., 6 luglio 2017, c. 392/16, Marcu Dumitru v Agenţia Naţională de Administrare Fiscală (ANAF) and Direcţia Generală Regională a Finanţelor Publice Bucureşti, p.to n. 27.


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plici rinvii pregiudiziali da parte degli organi giurisdizionali degli Stati membri, al fine di delineare e circoscrivere l’àmbito entro cui incasellare la natura degli adempimenti poc’anzi annoverati. Di talché, una copiosa giurisprudenza è emersa in relazione alla possibilità di attribuire o meno la natura di adempimenti sostanziali a prescrizioni vòlte a garantire all’Amministrazione finanziaria la facoltà di raccogliere una serie di informazioni preliminari sull’«identità fiscale» e sul volume d’affari realizzato dal singolo Tax Collector, ai fini del perfezionamento dei requisiti necessari per qualificare l’operazione come intracomunitaria con le relative conseguenze in termini di funzionamento del meccanismo di «detrazione-rivalsa». All’uopo, l’identificazione del soggetto passivo attraverso l’attribuzione del «numero di partita IVA» è stata attenzionata dai giudici europei, addivenendo alla conclusione che quest’ultimo coincida con un adempimento formale. Vale a dire, qualora le condizioni sostanziali siano state ottemperate e realizzate (oltreché provate) nel caso di specie, la sua inosservanza può al più causare l’applicazione di sanzioni amministrative previste dalla normativa nazionale, ma non può implicare il disconoscimento della «non imponibilità» in caso di operazione intracomunitaria o del diritto a detrazione, qualora ricorrano i presupposti per il suo esercizio e la sua insorgenza (21).

(21) «Benché, quindi, il numero d’identificazione IVA fornisca la prova dello status fiscale del soggetto passivo ed agevoli il controllo delle operazioni intracomunitarie, si tratta tuttavia soltanto di un requisito formale che non può rimettere in discussione il diritto all’esenzione dall’IVA qualora ricorrano le condizioni sostanziali di una cessione intracomunitaria (v. sentenza del 6 settembre 2012, Mecsek-Gabona, C-273/11, p.to 60)» statuisce Corte giust., 27 settembre 2012, c. 587/10, Vogtländische Straßen-, Tief- und Rohrleitungsbau GmbH Rodewisch (VSTR) c. Finanzamt Plauen, p.to n. 51. D’altronde «una volta che l’Amministrazione fiscale dispone delle informazioni necessarie per dimostrare che il soggetto passivo, in quanto destinatario della prestazione di servizi di cui trattasi, è debitore dell’IVA, essa non può imporre, riguardo al diritto di quest’ultimo di detrarre tale imposta, condizioni supplementari che possono avere l’effetto di vanificare l’esercizio dello stesso (v. citate sentenze Ecotrade, p.ti 63 e 64, Nidera Handelscompagnie, p.to 42, nonché del 22 dicembre 2010, Dankowski, C-438/09, Racc. pag. I-14009, p.to 35)» cfr. Id., 12 luglio 2012, c. 284/11, EMS-Bulgaria Transport OOD contro Direktor na Direktsia «Obzhalvane i upravlenie na izpalnenieto» Plovdiv, p.to n. 62. Sullo stesso filone interpretativo, cfr. Id., 6 settembre 2012, c. 324/11, Gábor Tóth contro Nemzeti Adó- és Vámhivatal Észak-magyarországi Regionális Adó Főigazgatósága, p.ti nn. 31, 32 e 33; Id., 14 marzo 2013, c. 527/11, Valsts ieņēmumu dienests contro Ablessio SIA, p.to n. 33; Id., 9 luglio 2015, c. 183/14, Radu Florin Salomie e Nicolae Vasile Oltean contro Direcția Generală a Finanțelor Publice Cluj, p.ti nn. 58 e 59 e Id., 22 ottobre 2015, c. 277/14, PPUH Stehcemp sp. j Florian Stefanek, Janina Stefanek, Jaroslaw Stefanek contro Dyrektor Izby Skarbowej w Łodzi, p.to n. 23.


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Le medesime considerazioni si innestano nel caso in cui il Tax Collector – al soddisfacimento dei requisiti sostanziali dell’operazione intracomunitaria realizzata – manifesti un’intervenuta carenza nell’ottemperanza agli obblighi contabili di tenuta dei c.dd. «registri IVA» e/o all’esatto adempimento della presentazione della dichiarazione annuale ai fini della liquidazione del tributo in debenza (22). Ceteris paribus, in relazione agli obblighi di fatturazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA va sviluppato un ragionamento differente. Infatti, dall’analisi critica degli arresti giurisprudenziali della Corte di Giustizia U.E. poc’anzi enucleati è possibile inferire essenzialmente la degradazione ad «obblighi formali» del mancato assolvimento della tipologia di adempimenti summenzionati, in virtù della carenza in questi di un «collegamento diretto» con quei requisiti idonei, invece, a stabilire il fondamento e l’estensione del diritto di detrazione e, a monte, la corretta operatività del principio di neutralità dell’IVA per gli operatori economici. In altri termini, la fruizione del regime di inversione contabile inerentemente alla realizzazione di operazioni intracomunitarie è soggetta alla puntuale e specifica verificazione, in relazione al caso di specie, del concorso di tutte le caratteristiche materiali e concrete dell’operazione stessa, al fine di ripercorre a ritroso il procedimento di sussunzione della fattispecie particolare nel prototipo generale ed astratto contemplato dalle norme comunitarie (artt. 167 ss. Direttiva n. 112 del 2006). Nel caso in cui non sia riscontrato nessun «impedimento», ovvero alcuna «deviazione sistematica» in tale procedimento logico e deduttivo, allora risulterà inibito il potere di rettifica della posizio-

(22) «A tal riguardo, si deve precisare che i requisiti sostanziali del diritto a detrazione sono quelli che stabiliscono il fondamento stesso e l’estensione di tale diritto, come quelli previsti nel capo 1 del titolo X della direttiva IVA, intitolato “Origine e portata del diritto a detrazione”, mentre i requisiti formali del suddetto diritto disciplinano le modalità e il controllo dell’esercizio del diritto medesimo nonché il corretto funzionamento del sistema dell’IVA, come nel caso degli obblighi di contabilità, di fatturazione e di dichiarazione (v., in tal senso, sentenza dell’11 dicembre 2014, Idexx Laboratories Italia, C-590/13, EU:C:2014:2429, p.ti 41 e 42 e la giurisprudenza ivi citata)» cfr. Corte giust., 28 luglio 2016, c. 332/15, Procedimento penale a carico di Procura della Repubblica, p.to n. 47. Sul punto, v. altresí Id., 29 luglio 2010, c. 188/09, Dyrektor Izby Skarbowej w Białymstoku v Profaktor Kulesza, Frankowski, Jóźwiak, Orłowski sp. j., p.to n. 21; Id., 29 marzo 2012, c. 500/10, Ufficio IVA di Piacenza contro Belvedere Costruzioni Srl, p.to n. 22; Id., 20 giugno 2013, c. 259/12, Teritorialna direktsia na Natsionalnata agentsia za prihodite – Plovdiv contro Rodopi-M 91 OOD, p.to n. 32; Id., 13 febbraio 2014, c. 18/13, Maks Pen EOOD contro Direktor na Direktsia «Obzhalvane i danachno-osiguritelna praktika» Sofia, p.to n. 47.


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ne fiscale del soggetto passivo IVA da parte dell’Amministrazione finanziaria alla constatazione di inadempimenti di natura formale, pena l’irrimediabile alterazione dello «schema standard» di attuazione del tributo, facendone venir meno la neutralità per i Tax Collectors (23). Da questa disamina consegue che l’adempimento dell’obbligo di fatturazione (come finora delineato) delle operazioni rilevanti ai fini IVA costituisce il punto di congiunzione tra il concorso dei profili sostanziali anzidetti e la necessaria «tracciabilità documentale» dell’attività economica realizzata dal soggetto passivo. Sicché, la giurisprudenza comunitaria ha individuato nel possesso della copia dell’originale della fattura il requisito documentale sostanziale per l’esercizio del diritto a detrazione, dal momento che il suo contenuto rappresenta un requisito formale nella misura in cui non permette il disconoscimento della detrazione operata dal soggetto passivo, qualora sia possibile evincere dal documento il soddisfacimento delle condizioni sostanziali dell’operazione realizzata (24).

(23) Diversamente disputando, si ingenererebbe una violazione del principio di proporzionalità da rilevarsi necessariamente tra gravità della violazione e misura afflittiva della sanzione irrogata; come osservato in dottrina «il diritto comunitario non vieta agli Stati membri di irrogare, se del caso, un’ammenda o una sanzione pecuniaria “proporzionata alla gravità” dell’infrazione, allo scopo di sanzionare l’inosservanza degli obblighi formali» (cfr. A. Milone, Reverse charge: violazioni (formali) in cerca della giusta sanzione, in Riv. dir. trib., 2010, IV, 253 ss. e F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie, cit., 1373 ss.). Financo recentemente, la Corte di Giustizia U.E. ha avuto modo di intervenire nuovamente sul rapporto incidente tra potestà dei singoli Stati membri di sanzionare la violazione di obblighi formali e la salvaguardia del principio di proporzionalità poc’anzi enucleato. In particolare, con riferimento alla fatturazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, è stato puntualizzato che «quando colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale, il principio di neutralità dell’IVA impone che l’IVA indebitamente fatturata possa essere rettificata, senza che gli Stati membri possano subordinare siffatta regolarizzazione alla buona fede del soggetto che ha emesso la fattura. Tale rettifica non può dipendere dal potere discrezionale dell’amministrazione tributaria (sentenza dell’11 aprile 2013, Rusedespred, C-138/12, EU:C:2013:233, punto 27 e giurisprudenza ivi citata)» (cfr. Corte giust., 2 luglio 2020, c. 835/18, SC Terracult SRL c. Direcţia Generală Regională a Finanţelor Publice Timişoara – Administraţia Judeţeană a Finanţelor Publice Arad – Serviciul Inspecţie Fiscală Persoane Juridice 5, p.to n. 28). (24) «Per quanto concerne le modalità di esercizio del diritto alla detrazione, che sono assimilabili a requisiti o a condizioni di natura formale, l’articolo 178, lettera a), della direttiva 2006/112 prevede che il soggetto passivo debba essere in possesso di una fattura emessa conformemente agli articoli da 220 a 236 e agli articoli da 238 a 240 della direttiva stessa» osserva candidamente Corte giust., 12 settembre 2018, c. 69/17, Siemens Gamesa Renewable Energy România SRL v Agenţia Naţională de Administrare Fiscală – Direcţia Generală de Soluţionare a Contestaţiilor, p.to n. 33.


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Diversamente, è chiaro che il preponderante concorso di molteplici violazioni di adempimenti c.dd. «formali» – oltre ad esporre il soggetto passivo alla comminazione delle relative sanzioni amministrative (ovvero, penali) secondo le disposizioni accolte nell’ordinamento di ciascun Stato membro – è suscettibile di incidere sul diritto a detrazione dell’IVA inerente ad operazioni intracomunitarie qualora «impediscano di fornire la prova certa del soddisfacimento dei requisiti sostanziali» ai fini dell’osservanza del principio di neutralità del tributo (25). 3. (Segue) La posizione della giurisprudenza di legittimità nazionale e le indicazioni di prassi amministrativa in materia. – Le risultanze giurisprudenziali raggiunte dalla Corte di Giustizia U.E. conducono alla rilevazione di un approccio essenzialmente rivolto a valorizzare e preservare la neutralità del tributo per i soggetti passivi, attraverso l’adozione di un metodo interpretativo delle disposizioni legislative comunitarie regolatrici del c.d. «sistema IVA» incentrato sulla prevalenza della sostanza sulla forma (26). Vale a dire, l’av-

Più in dettaglio, «la Corte ha affermato che il principio fondamentale di neutralità dell’IVA esige che la sua detraibilità a monte sia riconosciuta qualora gli obblighi sostanziali siano soddisfatti, anche quando taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi. Conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria non può negare la detraibilità dell’IVA per il solo motivo che una fattura non risponda a tutti i requisiti dettati dall’articolo 226, p.ti 6 e 7, della direttiva IVA, qualora disponga di tutti gli elementi per verificare la sussistenza dei requisiti sostanziali relativi a tale diritto (sentenza del 15 settembre 2016, Barlis 06 – Investimentos Imobiliários e Turísticos, C516/14, EU:C:2016:690, p.ti 42 e 43)» Corte giust., 21 novembre 2018, c. 664/16, Lucreţiu Hadrian Vădan contro Agenţia Naţională de Administrare Fiscală – Direcţia Generală de Soluţionare a Contestaţiilor e Direcţia Generală Regională a Finanţelor Publice Braşov – Administraţia Judeţeană a Finanţelor Publice Alba, p.to n. 41. Sul punto cfr. altresí Id., 29 aprile 2004, c. 152/02, Terra Baubedarf-Handel GmbH v Finanzamt OsterholzScharmbeck, p.ti nn. 31, 32 e 33 e Id., 1 marzo 2012, c. 280/10, Kopalnia Odkrywkowa Polski Trawertyn P. Granatowicz, M. Wąsiewicz spółka jawna contro Dyrektor Izby Skarbowej w Poznaniu, p.ti nn. 41, 42 e 43. (25) Cfr. Corte giust., 7 marzo 2018, c. 159/17, Întreprinderea Individuală Dobre M. Marius contro Ministerul Finanţelor Publice – A.N.A.F. – D.G.R.F.P. Galaţi – Serviciul Soluţionare Contestaţii e A.N.A.F - D.G.R.F.P. Galaţi – A.J.F.P. Constanţa – Serviciul Inspecţie Fiscală Persoane Fizice 2 Constanţa, p.to n. 35; similmente, Id., c. 533/16, cit., p.to n. 40; Id., c. 332/15, cit., p.to n. 46; Id., 20 ottobre 2016, c. 24/15, Josef Plöckl v Finanzamt Schrobenhausen, p.to n. 46; Id., c. 284/11, cit., p.to n. 71 e Id., 30 settembre 2010, c. 392/09, Uszodaépítő kft v APEH Központi Hivatal Hatósági Főosztály, p.to n. 46. (26) «La giurisprudenza di legittimità ha preso sempre maggiore consapevolezza dei vincoli europei e, gradualmente, stanno divenendo recessivi e minoritari gli orientamenti “iper formalisti” caratterizzati, non da un approccio bilanciato, ma esclusivamente pro fisco» cfr.


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venuto concorso dei requisiti sostanziali è condizione necessaria e sufficiente a garantire in capo al Tax Collector l’effettivo esercizio del diritto a detrazione dell’imposta assolta sulle operazioni passive realizzate, sebbene costui sia incorso nell’inosservanza e nell’inadempimento di taluni obblighi formali di registrazione, di contabilizzazione delle fatture emesse e ricevute, ovvero di dichiarazione e liquidazione, annuale e periodica, del tributo (27). Ciò in quanto, un atteggiamento di maggior «intransigenza» finirebbe per ledere il principio cardine della neutralità dell’IVA per i soggetti passivi operatori economici; inoltre, si ingenererebbe un vulnus dell’altrettanto generale principio di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione applicata, poiché alla violazione di un obbligo documentale meramente facciale, inidoneo di per sé solo ad impedire all’Amministrazione finanziaria la conoscenza diretta della sostanza dell’operazione, conseguirebbe una caducazione ex abrupto dai benefici assiemati dalla qualifica di Tax Collector. Tuttavia, se dal case law della Corte di Giustizia U.E. emergono con equipollente chiarezza d’intenti le modalità attraverso cui possa dirsi assolto, da parte del soggetto passivo, l’onere probatorio relativo alla dimostrazione dell’avvenuto concorso di tali «profili sostanziali» dell’operazione intracomunitaria di cessione di beni (28), altrettanto non può sostenersi con pari grado di certezza per ciò che concerne il caso della prestazione di servizi.

F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 286 e, in parte qua, R. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, 51 ss. (27) Posizione avallata financo recentemente dalla giurisprudenza di vertice nazionale la quale afferma icasticamente che «il principio fondamentale di neutralità dell’IVA esige che la detrazione dell’imposta a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche se taluni obblighi formali sono stati omessi dai soggetti passivi» (Cass., Ordinanza 12 settembre 2019, n. 22744). (28) «l’acquisto intracomunitario di un bene si perfeziona e l’esenzione della cessione intracomunitaria diviene applicabile solo quando il potere di disporre del bene come proprietario è stato trasmesso all’acquirente e quando il fornitore prova che tale bene è stato spedito o trasportato in un altro Stato membro e che, in seguito a tale spedizione o trasporto, esso ha lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione» come affermato da Corte giust., 27 settembre 2007, c. 409/04, The Queen, on the application of Teleos plc and Others v Commissioners of Customs & Excise, p.ti nn. 26 e 42 con nota di F. Cerioni, Cessioni intracomunitarie: non imponibilità e prova dell’uscita della merce dal territorio dello Stato, in Boll. trib. inf., 2009, XI. Senza soluzione di continuità cfr. Id., 18 novembre 2010, c. 84/09, X v Skatteverket, p.to n. 27; Id., 9 ottobre 2015, c. 492/13, Traum EOOD contro Direktor na Direktsia «Obzhalvane i danachno-osiguritelna praktika» Varna pri Tsentralno upravlenie na Natsionalnata agentsia za prihodite, p.to n. 24; Id., 9 febbraio 2017, c. 21/16, Euro Tyre BV contro Autoridade Tributária e Aduaneira, p.to n. 25.


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È in tale ultima ipotesi, infatti, che risulta decisamente più sfuggente il potenziale reperimento dei mezzi di prova inerenti alla sussistenza dei requisiti sostanziali dell’operazione intracomunitaria, stante la natura immateriale ed intangibile del quantum oggetto di scambio tra le parti. Di conseguenza, in caso di esperimento di azioni di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria che censurino il corretto esercizio del diritto a detrazione collegato alle operazioni anzidette, l’onere della prova posto in capo al Tax Collector sarebbe suscettibile di assumere i connotati di una «probatio diabolica». Infatti, è inibita al soggetto passivo la dimostrazione del concorso dei requisiti sostanziali dell’operazione in argomento, secondo una modulazione del corredo probatorio apprestata, per analogia, sulla falsariga dei documenti ritraibili in caso di cessione di beni intracomunitaria. Ad onor del vero, la presunzione di cui all’art. 7 ter, comma 1, lett. a, d.P.R. n. 633 del 1972 ammette il Tax Collector a qualificare la prestazione di servizi come «non soggetta ad IVA» qualora realizzata nei confronti di un soggetto passivo non stabilito nel territorio dello Stato e, conseguentemente, il prestatore può considerare che i servizi sono destinati all’attività economica del committente e che quest’ultimo possiede lo status di soggetto passivo se, per tale operazione, ha ricevuto comunicazione del suo numero individuale di identificazione IVA (artt. 18 e 19, Reg. U.E. n. 282 del 2011). Quid iuris qualora il soggetto passivo destinatario della prestazione eserciti effettivamente un’attività economica nello Stato membro di stabilimento, ma non sia in possesso di un numero di partita IVA? La giurisprudenza comunitaria in precedenza analizzata contiene già una risposta al presente quesito, qualificando l’adempimento di registrazione dell’operatore economico ai fini IVA come «obbligo formale», la cui inosservanza non produce effetti caducanti in ordine al regime proprio dell’operazione intracomunitaria, sotto il vincolo della prova dell’avvenuto concorso dei requisiti sostanziali dell’operazione medesima. Di talché, si palesa la potenziale «spirale viziosa» entro cui risulterebbe avvinghiato il Tax Collector: al mancato reperimento del numero di identificazione IVA, ovvero alla non tempestiva verifica della sua validità ai fini del compimento di operazioni intracomunitarie, il soggetto passivo verterebbe in una situazione di obiettiva difficoltà nel reperire diversamente un «bagaglio informativo e documentale» adeguato a dimostrare l’avvenuto concorso dei requisiti sostanziali dell’operazione, indipendentemente dal fatto che il com-


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mittente della prestazione di servizi eserciti effettivamente un’attività economica nel Paese di origine (29). A tal riguardo, sembrerebbe opportuno rammentare il valore ermeneutico attribuibile alla fatturazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA. Difatti, attraverso la fattura, l’operazione realizzata subisce una trasposizione dalla realtà fattuale in quella documentale, consentendo all’operatore economico di riportare in dettaglio e su supporto durevole i dati essenziali al fine di individuare non solo le parti tra cui è avvenuto lo scambio, ma anche e soprattutto la natura, la qualità, il numero e la quantificazione economica delle prestazioni rese. Sicché, con precipuo riferimento al valore probatorio della fatturazione, la giurisprudenza di legittimità nazionale contribuisce ratione materiae a corroborare le considerazioni poc’anzi formulate, specificando che «la fattura commerciale fa parte degli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistente nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito. Pertanto, quando tale rapporto non è contestato, la fattura può costituire un valido elemento di prova e non un mero indizio quanto alla prestazione ivi eseguita» (30). Diverso sarebbe il caso – affrontato tanto in sede comunitaria, quanto nazionale – della contestazione dell’inesistenza oggettiva o soggettiva ai fini

(29) Si precisa che a mente dell’art. 9, Direttiva CE n. 112 del 2006 la condicio sine qua non per ottenere la qualifica di soggetto passivo ai fini IVA è l’esercizio effettivo di un’attività economica. «Si considera “attività economica” ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate. Si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità». (30) Cass., Sez. III civile, 15 maggio 2018, n. 11736 e, con statuizioni più risalenti ma inquadrabili nel solco delle considerazioni poi riprese dalla giurisprudenza nazionale, cfr. Corte giust., 5 dicembre 1996, c. 85/95, John Reisdorf v Finanzamt Köln-West, p.to n. 30, secondo cui «in mancanza di norme specifiche relative alla prova del diritto a detrazione, gli Stati membri hanno il potere di prescrivere la produzione dell’originale della fattura per comprovare tale diritto, nonché quello di ammettere, se il soggetto passivo non ne è più in possesso, altre prove attestanti che l’operazione oggetto della domanda di detrazione è realmente avvenuta». Del resto, l’allegazione delle scritture contabili obbligatorie è la fonte documentale per eccellenza dell’avvenuto concorso di tutti gli elementi costitutivi e sostanziali dell’effettuazione dell’operazione, qualora l’attendibilità delle stesse non sia stata posta in discussione. Difatti, a norma dell’art. 59, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972 «i contribuenti obbligati alla tenuta di scritture contabili non possono provare circostanze omesse nelle scritture stesse o in contrasto con le loro risultanze».


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IVA delle operazioni realizzate, poiché si manifesterebbe un’effettiva censura sulla validità del rapporto sottostante, con la conseguente rimodulazione dell’onere probatorio tra le parti (31). Cionondimeno, la Corte di Cassazione non tralascia di specificare – nel solco dei pronunciamenti espressi in sede comunitaria (32) – che «l’adempi-

(31) Sul punto, v. per tutti A. Giovanardi, Le frodi IVA. Profili ricostruttivi, Torino, 2013, 169 ss.; M. Logozzo, Iva e fatturazione per operazioni inesistenti, in Riv. dir. trib., 2011, 3, 287 ss.; passim P. Valente, I. Caraccioli, A. Nastasia e M. Querqui, Controlli alle imprese. Profili critici nelle attività estere, Milano, 2015, 495 e recentemente G.M. Garegnani, L. Troyer e G. Galli, Giurisprudenza e attualità in materia di diritto penale d’impresa le nuove norme in tema di reati tributari ed il loro impatto sulla responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001, in Riv. dott. comm., 2020, 1, 107 ss. spec. § 2 «In tema d’IVA, ove l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’àmbito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche in via indiziaria, non solo l’inesistenza del fornitore, ma anche, sulla base di elementi oggettivi e specifici, che il cessionario sapeva (o avrebbe potuto sapere), con l’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta; incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di detta consapevolezza e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi» (Cass., ord. 24 agosto 2018, n. 21104 con nota di P. Piantavigna, Note a margine di una pronuncia della Cassazione sulla rilevanza della buona fede del cessionario nelle operazioni soggettivamente inesistenti, in Riv. dir. fin., 2019, I, 60 ss.). Mutatis mutandis, «secondo una giurisprudenza altrettanto costante della Corte, l’accertamento della sussistenza di una pratica abusiva richiede, da una parte, un elemento oggettivo, che si manifesta in un insieme di circostanze oggettive da cui risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da detta normativa non è stato raggiunto (v. in tal senso, in particolare, sentenze Emsland-Stärke, C‑110/99, EU:C:2000:695, p.to 52, nonché SICES e a., C‑155/13, EU:C:2014:145, p.to 32)» (cfr. Corte giust., 14 aprile 2016, c. 131/14, Malvino Cervati and Società Malvi Sas di Cervati Malvino v Agenzia delle Dogane and Agenzia delle Dogane – Ufficio delle Dogane di Livorno, p.to n. 33 con nota di A. Albano, Riflessioni sistematiche e profili innovativi in materia di contrasto alle frodi IVA alla luce della sentenza Italmoda: il complesso «equilibrio dinamico» tra tutela del contribuente e fattispecie repressive «impropriamente» sanzionatorie, in Riv. dir. trib., 2015, II, 59 ss.). (32) Declinazione del più ampio principio di «primazia del diritto dell’Unione» che coinvolge gli ordinamenti degli Stati membri e trova il suo fondamento legislativo nell’art. 4, § 3, T.u.e. a mente del quale «in virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione».


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mento degli obblighi di tenuta, registrazione e conservazione delle fatture, con

Prescrizioni parimenti accolte nella Carta costituzionale e, segnatamente, agli artt. 11 e 117, comma 1; quest’ultimo nel porre la ripartizione della potestà legislativa tra Stato e regioni, individua un limite generale «nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Sull’argomento, in dottrina, cfr. A. Celotto, Le “modalità” di prevalenza delle norme comunitarie sulle norme interne: spunti ricostruttivi, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1999, VI, 1473 ss.; G. Vosa, “Nuovi elementi essenziali”, ovvero del posto della normativa delegata nella sistematica delle fonti del diritto europeo, ivi, 2014, III-1V, 681 ss.; G. Bergonzini, Diritti fondamentali del contribuente, discrezionalità del legislatore tributario e sindacato di costituzionalità, in Riv. dir. fin., 2018, III, 327 ss. e, con maggior attenzione al profilo fiscale di interessenza della materia, M. Basilavecchia, L’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2009, IV, 362 ss. D’altronde, già in tempi risalenti la giurisprudenza comunitaria ha affermato il principio di diritto in base al quale «il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’àmbito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» Corte giust., 9 marzo 1978, c. 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato e S.p.A. Simmenthal , con sede in Monza, p.to n. 24. Ad vocem, cfr. Id., 10 aprile 1984, c. 14/83, Sabine von Colson and Elisabeth Kamann v Land Nordrhein-Westfalen; Id., 13 novembre 1990, c. 106/89, Marleasing SA contro La Comercial Internacional de Alimentación SA; Id., 14 luglio 1994, c. 91/92, Paola Faccini Dori contro Recreb Srl; Id., 23 febbraio 1999, c. 63/97, Bayerische Motorenwerke AG (BMW) e BMW Nederland BV contro Ronald Karel Deenik; Id., 27 giugno 2000, cause riunite da c. 240/98 a c. 244/98, Océano Grupo Editorial SA contro Roció Murciano Quintero (C-240/98) e Salvat Editores SA contro José M. Sánchez Alcón Prades (C-241/98), José Luis Copano Badillo (C-242/98), Mohammed Berroane (C-243/98) e Emilio Viñas Feliú (C-244/98); Id., 23 ottobre 2003, c. 408/01, Adidas-Salomon AG e Adidas Benelux BV contro Fitnessworld Trading Ltd; Id., 9 dicembre 2003, c. 129/00, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana e Id., 5 ottobre 2004, cause riunite da c. 397/01 a c. 403/01, Bernhard Pfeiffer (C-397/01), Wilhelm Roith (C-398/01), Albert Süß (C399/01), Michael Winter (C-400/01), Klaus Nestvogel (C-401/01), Roswitha Zeller (C-402/01) e Matthias Döbele (C-403/01) contro Deutsches Rotes Kreuz, Kreisverband Waldshut eV. Di conseguenza, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha condotto alla disapplicazione di numerose norme c.dd. «clemenziali» (o «condonistiche») per contrarietà al principio di neutralità del tributo, in quanto inidonee a consentire la riscossione integrale dell’imposta nel territorio dello Stato (in conformità a Corte giust., 15 luglio 2015, c. 82/14, Agenzia delle Entrate c. Nuova Invincibile, p.to n. 26). Segnatamente, taluni esempi del modus operandi anzidetto possono essere rintracciati in Cass., 16 dicembre 2015, n. 25278 (nel prevedere a beneficio delle persone colpite dal terremoto nelle province di Catania, Ragusa e Siracusa una riduzione del 90 per cento dell’IVA normalmente dovuta per gli anni 1990, 1991 e 1992, ne riconosce il diritto al rimborso, in tale proporzione, delle somme già corrisposte a tale titolo); Id., Sez. un., 17 febbraio 2010, n. 3674 e Id., 7 febbraio 2013, n. 2915 (in tema di condono fiscale, nella parte in cui consente al contribuente, che abbia omesso di presentare le dichiarazioni IVA negli esercizi d’imposta coinvolti dal condono, di fruire per questa imposta della definizione agevolata).


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le modalità, le forme e i tempi stabiliti dal d.P.R. n. 633 del 1972, pur potendo per eventuali violazioni comportare l’applicazione di sanzioni amministrative, non costituisce conditio sine qua non per il riconoscimento del diritto alla detrazione dell’imposta, ove si acquisisca, anche altrimenti, la prova certa dell’avvenuto effettivo versamento di quanto dovuto» (33). In altri termini, ciò che governa (rectius, dovrebbe governare) la discrezionalità decisoria del giudice nel prudente apprezzamento e valutazione della fattispecie concreta coincide con l’effettività dell’operazione, nella misura in cui «in ordine al diritto della detrazione, le condizioni “sostanziali” devono prevalere sempre su quelle “formali”: il principio di neutralità fiscale esige che, in assenza di frodi o pratiche palesemente elusive, il diritto di detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti sia, comunque, accordato se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche se taluni obblighi formali siano stati omessi. Conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria, una volta che disponga delle informazioni necessarie per accertare che i requisiti sostanziali siano stati soddisfatti, non può imporre, riguardo al diritto del soggetto passivo di detrarre tale imposta, condizioni supplementari che possano produrre l’effetto di vanificare l’esercizio del diritto medesimo» (34). In chiave diametralmente opposta, la prassi dell’Amministrazione finanziaria italiana attribuisce alla registrazione del soggetto passivo ai fini IVA una rilevanza sostanziale in ordine all’accesso ai benefici connessi all’acquisizione di tale qualità (35), facendo così trapelare un manifesto contrasto non solo

(33) Cass., 25 novembre 2011, n. 24912 con nota di E. Artuso, Mancata conservazione della fattura e detraibilità della relativa imposta: un’interpretazione sostanzialistica a tutela del principio di neutralità dell’IVA, in Riv. dir. trib., 2012, V, 327 ss. Le medesime considerazioni risultano avallate e confermate da successivi arresti della Suprema Corte: ex pluribus, Cass., 24 settembre 2015, n. 18924; Id., 4 maggio 2016, n. 8853, p.to n. 3.1; Id., ord. 31 gennaio 2019, n. 2906 e Id., 12 maggio 2017, n. 11828 laddove si ribadisce che «questa Corte […] con la sentenza n. 22747/2016, ha precisato che il diritto vantato dal contribuente non può essere negato laddove sia data la prova dei relativi requisiti sostanziali, dimostrazione peraltro “che può essere fornita mediante la produzione delle fatture o di altra documentazione contabile”». (34) Cfr. Cass., 11 agosto 2017, n. 20042, p.to n. 3.3 la cui analisi sistematica è stata adeguatamente sviscerata da F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma, cit., 287 ss. Parimenti, cfr. Cass., 21 maggio 2014, n. 11168; Id., 8 ottobre 2014, n. 21183; Id., 24 febbraio 2016, n. 3586 con nota di C. Scaglione, Reverse charge nelle operazioni intracomunitarie IVA detraibile in caso di violazioni formali, in Riv. trim. dir. trib., 2017, I, 239 ss. e Cass., 27 luglio 2018, n. 19938. Un’interessante rassegna critica di giurisprudenza comunitaria sul punto è elaborata altresí da L. Sabbi, Reverse charge, violazioni formali e diritto di detrazione nell’IVA, in Boll. trib. inf., 2016, IX. (35) «Nella relazione illustrativa dell’art. 27 del d.l. n. 78 del 2010 viene chiarito che, a


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con gli «approdi interpretativi» suffragati dalla giurisprudenza comunitaria e di legittimità nazionale, ma anche con le recenti finalità legislative di riforma in materia fiscale elaborate dal Parlamento (36). Alla luce di ciò, non sembra peregrino individuare nelle anodine elaborazioni di prassi amministrativa nazionale un atteggiamento quantomeno ricalcitrante al mutamento di prospettiva nella valutazione e controllo del c.d. «rischio di evasione IVA» da parte degli operatori economici. L’introduzione di un sistema eccessivamente formalistico e, dunque, volto ad ottenere una «giustificazione documentale» dell’attività economica, anziché addentrarsi nel dettaglio dell’operazione attenzionata onde coglierne gli aspetti sostanziali, determina un’incessante proliferazione di meccanismi di

far corso dalla manifestazione della volontà di effettuare operazioni intracomunitarie contenuta nella dichiarazione di inizio attività, “sarà sospesa la soggettività attiva e passiva ad effettuare operazioni intracomunitarie” fino al trentesimo giorno successivo alla data di attribuzione della partita IVA. La voluntas legis è dunque chiara: l’assenza dall’Archivio VIES determina il venire meno della possibilità di effettuare operazioni intracomunitarie e di applicare il regime fiscale loro proprio, in quanto il soggetto non può essere considerato come soggetto passivo IVA italiano ai fini dell’effettuazione di operazioni intracomunitarie» (cfr. Agenzia delle Entrate, circ. 1 agosto 2011, n. 39/E, § 6, con risultanze riprese – in materia di applicabilità delle sanzioni del sistema dell’inversione contabile – in Id., circ. 11 maggio 2017, n. 16/E). Parimenti, anche inerentemente alle modalità di assolvimento dell’onere probatorio circa il concorso dei requisiti sostanziali dell’operazione di cessione di beni intracomunitaria, l’Amministrazione finanziaria denota un atteggiamento altalenante, dove all’enunciazione di principio coerente con l’approccio sostanzialistico della giurisprudenza comunitaria, segue un modello operativo «iperformalistico» ed «ingessante» nell’esecuzione degli adempimenti formali IVA ai fini del riconoscimento del diritto a detrazione dell’imposta e, conseguentemente, alla permanenza del regime di neutralità del tributo in capo ai Tax Collectors (da ultimo, cfr. Agenzia delle Entrate, risp. interpello 8 aprile 2019, n. 100; in precedenza, Id., ris. 28 novembre 2007, n. 345/E; Id., ris. 15 dicembre 2008, n. 477/E; Id., ris. 6 maggio 2009, n. 123/E; Id., ris. 25 marzo 2013, n. 19/E e Agenzia delle Dogane, Nota 7 settembre 2011 prot. n. 54819/RU). (36) Infatti, la valutazione dello stato di implementazione dell’ultima legge di delega «recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita» (i.e. l. 11 marzo 2014, n. 23) enuncia chiaramente, tra gli obiettivi programmatici e di lungo periodo indicati in sede europea relativamente all’attività normativa e di accertamento tributaria, che «nella Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012 […] Gli Stati membri vengono dunque incoraggiati a inserire nella legislazione nazionale una clausola: volta a ignorare una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro “sostanza economica”» (cfr. Camera dei Deputati della Repubblica Italiana – XVII Legislatura, Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita. Lo stato di attuazione al 27 gennaio 2015, Roma, 60).


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inversione dell’onere della prova in capo al contribuente soggetto a verifica fiscale. Dimodoché, dinanzi ad una maggior sensibilità del dato formale ad una «manipolazione surrettizia» da parte dei «detentori originari» delle informazioni all’uopo rilevanti (i.e. Tax Collectors coinvolti nell’operazione), la risposta legislativa si innesta nella traslazione dell’onere probatorio dall’Amministrazione finanziaria al soggetto passivo, dal quale viene pretesa la prova del soddisfacimento dei requisiti sostanziali dell’operazione realizzata senza che di ciò sia fornito un benché stringato «schema di riferimento» in sede normativa. 4. La Direttiva UE 4 dicembre 2018, n. 1910 e la novellata posizione della Commissione europea sull’implementazione del regime definitivo delle operazioni intracomunitarie. – La tendenziale stabilità decisionale ed interpretativa risultante dalla rassegna giurisprudenziale analizzata nei precedenti paragrafi è destinata a subire un notevole ridimensionamento sistematico. L’attenzione volta ad attribuire efficacia preminente alla rilevazione del dato sostanziale, piuttosto che all’inosservanza di taluni obblighi formali in capo al Tax Collector, al fine di rinsaldare il principio di neutralità del tributo, sembra un approccio in via di esaurimento, stanti i recenti sviluppi normativi perseguiti dal legislatore comunitario (37). Tale filone normativo – inaugurato in misura più pregnante dalla Direttiva UE n. 1910 del 2018 – si innesta nel solco di un ripensamento generale dell’assetto istitutivo dell’IVA. La valorizzazione della natura di imposta generale percepita in dipendenza dell’«immissione al consumo» del bene o

(37) Un’interessante disamina dell’evoluzione normativa europea in materia di IVA è offerta da P. Centore, L’imposta sul Valore Aggiunto, cit., 817. Si segnala, altresì che la novella normativa ivi in commento risulta corroborata dal mutamento del regime probatorio richiesto, a livello comunitario, in ordine alla piena e legittima fruizione dei benefici conseguenti alla circolazione di beni tra operatori economici intracomunitari (i.e. cessioni intracomunitarie di beni) approntata dall’art. 1, Reg. UE 4 dicembre 2018, n. 1912, «che modifica il regolamento (UE) n. 282/2011 per quanto riguarda talune esenzioni connesse alle operazioni intracomunitarie». Tale fonte normativa sostanzialmente conferma ed avvalora il corredo probatorio il cui possesso e reperimento risulta suggerito dai numerosi interventi della prassi amministrativa nazionale sul punto (v. supra nota n. 35). Per completezza espositiva, si indica in aggiunta l’emanazione del Reg. UE 4 dicembre 2018, n. 1909 «che modifica il regolamento (UE) n. 904/2010 per quanto riguarda lo scambio di informazioni ai fini del monitoraggio della corretta applicazione del regime di call-off stock». Su tali profili si è, da ultimo, espressa l’Assonime con la circ. 29 dicembre 2019, n. 29 – La riforma degli scambi intracomunitari, le «quattro soluzioni rapide» (Quick files), p. 30.


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del servizio, mette in discussione il principio di tassazione all’origine (ex art. 402, Direttiva CE n. 112 del 2006) in virtù dell’introduzione di una generalizzata imposizione delle operazioni nel luogo di destinazione (coincidente con il consumo effettivo o presunto), attraverso l’implementazione di un meccanismo differenziato in ragione della qualifica del destinatario, sia esso un soggetto privato (consumer – B2C transactions) ovvero un soggetto passivo dell’IVA (business – B2B transactions) (38).

(38) Sul tema v. il Documento di lavoro della Commissione europea sull’introduzione del regime IVA definitivo per le operazioni intracomunitarie (doc. SWD n. 338 final del 29 ottobre 2014), che fissa i princípi indicati nel c.d. «Libro Bianco» (doc. COM, n. 851 final del 6 dicembre 2011), concernente la «Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato Economico e Sociale europeo sul futuro dell’IVA – Verso un sistema dell’IVA piú semplice, solido ed efficiente adattato al mercato unico» (in dottrina, cfr. P. Centore, L’Imposta sul Valore Aggiunto, cit., 816). Recentemente, la Commissione europea (doc. COM n. 566 final del 4 ottobre 2017) ha avuto modo di evidenziare gli àmbiti di intervento privilegiato che formeranno oggetto di specifica attenzione normativa da parte delle istituzioni comunitarie, con l’obiettivo di rendere il «sistema comune d’IVA» un effettivo elemento corroborante e distintivo della progressiva integrazione europea, in termini di costituzione di un mercato unico interno tra gli Stati membri. Più in dettaglio, si ribadisce che «in its Action Plan on VAT (the “VAT Action Plan”) of 7 April 2016 […] A set of key measures to be adopted in the short and medium term were announced in order to modernise the EU VAT system and make it simpler, more fraud-proof and businessfriendly. These measures respond to several objectives: adapting the VAT system to the global, digital and mobile economy, supporting the needs of SMEs, providing for an adequate rates policy, putting an end to cross-border fraud and helping Member States closing the VAT gap». Segnatamente, le misure pianificate dalla Commissione si condensano nelle seguenti «direttrici fondamentali»: «a legislative package on the definitive VAT system for intra-Union business-to-business (B2B) trade (hereafter the “definitive VAT system”); a proposal on the reform of the VAT rates; a proposal to reinforce the existing instruments for VAT Administrative Cooperation; and a proposal to simplify the VAT rules for SMEs». Senza soluzione di continuità rispetto agli obiettivi programmatici già enucleati nel doc. COM n. 148 final del 7 aprile 2016, la Commissione conferma che «as announced in its VAT Action Plan, the Commission proposes to replace the current transitional arrangements for the taxation of trade between Member States by definitive arrangements. In line with requests of the European Parliament and the Council, this definitive VAT system will be based on the principle of taxation in the Member State of destination». Del resto, il principio testé indicato è accreditato anche in sede OCSE come avente le migliori caratteristiche funzionali ai fini di preservare la neutralità dell’IVA in capo ai soggetti passivi; in sintesi, «the application of the destination principle in VAT achieves neutrality in international trade. According to this principle, which is the international norm, exports are exempt with refund of input taxes (that is, free of VAT) and imports are taxed on the same basis and with the same rates as local supplies […] The destination principle contrasts with the origin principle, according to which each jurisdiction would levy the VAT on the value created within its own borders […] This would run counter to one of the core features of VAT: as a tax on consumption, the revenue should


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Mentre per i primi troverebbe tendenziale conferma l’attuale sistema di assoggettamento ad IVA della cessione di beni o della prestazione di servizi nel luogo di stabilimento del Tax Collector, le operazioni «B2B» sortirebbero un mutamento di prospettiva, attraverso l’adozione definitiva del reverse charge quale regime proprio e naturale delle operazioni intracomunitarie (39).

accrue to the jurisdiction where the final consumption takes place. Under the origin principle these revenues are shared amongst jurisdictions where value is added. In addition, as a neutral tax the total amount of VAT collected should not be influenced by the economic or geographical structure of the value chain. However, under the origin principle this amount reflects the various rates applicable in countries where value is added» (cfr. OECD, International VAT/GST guidelines. Guidelines on neutrality, Paris, 2011, 4 e 5, nonché con identità di conclusioni raggiunte la versione updated del presente documento e rilasciata nel 2017). (39) Il condizionale impiegato nella qualificazione dei contenuti espressi nel testo è opportuno dal momento che ai sensi dell’art. 288, § 3, T.f.u.e. «la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi». Pertanto, le prescrizioni normative financo commentate risulteranno immediatamente precettive nei confronti degli operatori economici italiani a far data dal loro effettivo recepimento all’interno dell’ordinamento. La deadline a tal fine individuata dall’art. 2, direttiva UE n. 1910 del 2018 è fissata al 31 dicembre 2019. Ciononostante, alla data di chiusura in redazione del presente contributo, l’Italia non ha ancóra provveduto all’effettivo recepimento, come invece già adempiuto da parte di Belgio, Bulgaria, Danimarca, Germania, Estonia, Irlanda, Francia, Croazia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Paesi Bassi, Austria, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia (cfr. eur-lex.europa.eu/legal-content/it/NIM/?uri=CELEX:32018L1910). Tuttavia, non dev’essere sottaciuta la possibile sussunzione delle disposizioni veicolate dalla Direttiva UE n. 1910 del 2018 tra quelle qualificabili quali «self-executing» (in dottrina, l’argomento è stato efficacemente affrontato da M.P. Iadicicco, Integrazione europea e ruolo del giudice nazionale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2011, 2, 393 ss. spec. § 3; R. Chieppa, Le nuove forme di esercizio del potere e l’ordinamento comunitario, ivi, 2009, 6, 1319 ss. e G. Tesauro, Costituzione e norme esterne, in Dir. un. eur., 2009, 2, 195 ss. spec. § 4). Difatti, la diretta applicabilità delle prescrizioni contenute in direttive comunitarie non tempestivamente trasposte in atti normativi di diritto interno da parte degli Stati membri destinatari richiede la sussistenza, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168 e, conformemente, Id., 2 febbraio 1990, n. 64) e della C.g.u.e. (cfr. Corte giust., 22 giugno 1989, c. 103/88, Fratelli Costanzo S.p.A. v. Comune di Milano, p.to n. 29; conformemente, Id., 13 novembre 1990, c. 106/89, Marleasing SA contro La Comercial Internacional de Alimentación SA, p.to n. 8 e Id., 25 maggio 1993, c. 193/91, Finanzamt München III v Gerhard Mohsche, p.to n. 17), di alcuni presupposti sostanziali: disposizioni «incondizionate», cioè non sussiste alcun margine di discrezionalità posto in capo agli Stati membri in ordine alla loro attuazione; normativa «sufficientemente precisa», nel senso che dev’essere determinata con «compiutezza» e, pertanto, non si necessita di ulteriori «puntualizzazioni di dettaglio»; «inadempienza» da parte dello Stato membro destinatario della direttiva, nei cui confronti il singolo faccia valere la disposizione comunitaria, alla trasposizione nazionale della normativa comunitaria.


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Parte prima

A tal riguardo, un ruolo centrale dovrà attribuirsi all’identificazione dei profili soggettivi del c.d. «C.T.P. – Certified Taxable Person» (40), coincidente con un «soggetto passivo certificato» ritenuto affidabile dalle Amministrazioni finanziarie al fine di assommare su di sé i benefici del regime IVA connesso alle operazioni intracomunitarie, posta la verifica di conformità e tempestività nell’adempimento degli obblighi ad esso imposti dalla legge. Ciò detto, l’art. 1, n. 3, Direttiva UE n. 1910 del 2018 – al fine di implementare canali giuridici idonei al raggiungimento degli obiettivi anzidetti – dispone una modifica dell’art. 138, § 1, Direttiva CE n. 112 del 2006, sostituendone la precedente formulazione con la seguente: «gli Stati membri esentano le cessioni di beni spediti o trasportati, fuori del loro rispettivo territorio ma nella Comunità, dal venditore o dall’acquirente o per loro conto, se sono soddisfatte le condizioni seguenti: a) i beni sono ceduti a un altro soggetto passivo, o a un ente non soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso da quello in cui la spedizione o il trasporto dei beni ha inizio; b) il soggetto passivo o un ente non soggetto passivo destinatario della cessione è identificato ai fini dell’IVA in uno Stato membro diverso da quello in cui la spedizione o il trasporto dei beni ha inizio e ha comunicato al cedente tale numero di identificazione IVA» (41).

È chiaro che, la questionabilità della qualificazione anzidetta sarà oggetto di analisi critica nel momento in cui, in sede di controllo, gli Uffici finanziari si avvarranno delle prescrizioni anzidette (in difetto di apposite «norme di trasposizione» adottate medio tempore dallo Stato membro) ai fini della contestazione in capo al Tax Collector della sussistenza di tutti gli elementi prodromici alla fruizione del regime IVA applicabile alle operazioni intracomunitarie. (40) Il testo di proposta di modifica della Direttiva CE n. 112 del 2006 da parte della Commissione europea (doc. COM n. 569 final del 4 ottobre 2017), poi confluito nella Direttiva n. 1910 del 2018, indica puntualmente come «di norma, i soggetti passivi sono identificati ai fini IVA mediante un numero di identificazione IVA […] Il concetto di soggetto passivo certificato consente di attestare che una particolare impresa può essere nel complesso considerata un contribuente affidabile […] Inoltre, il concetto di soggetto passivo certificato sarà uno degli elementi essenziali della prima tappa del sistema dell’IVA definitivo per gli scambi B2B intraunionali. Tale sistema definitivo sostituirà, mediante un’unica cessione imponibile di beni collocata ai fini IVA nello Stato membro di destinazione (la c.d. cessione intraunionale di beni), l’attuale regime transitorio che prevede una cessione esente di beni nello Stato membro di partenza e un acquisto intracomunitario tassato nello Stato membro di destinazione, per il quale l’acquirente è la persona tenuta al versamento dell’IVA». (41) La Direttiva ivi attenzionata dispone altresì l’introduzione del § 1 bis all’art. 138, Direttiva CE n. 112 del 2006 a mente del quale «l’esenzione prevista al paragrafo 1 non si applica qualora il cedente non abbia rispettato l’obbligo, di cui agli articoli 262 e 263, di presentare


Dottrina

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La prescrizione addotta alla lett. b summenzionata determina, in effetti, l’istituzionalizzazione di un «sistema IVA» in cui il soddisfacimento del requisito formale del possesso del numero di registrazione ai fini del tributo subisce un’«elevazione a potenza» sino ad acquisire il rango di elemento costitutivo ed ostativo all’accesso al regime in commento, in caso di mancata ottemperanza. Una sorta di «sostanzialità rovesciata» rispetto alle ricostruzioni sistematiche elaborate in materia e consolidatesi icasticamente nella giurisprudenza comunitaria (e nazionale) nel corso dell’ultimo decennio. Sicché il complessivo e complesso processo iterativo di distaccamento dal dato formale, al fine di conferire rilevanza assorbente all’analisi degli elementi sostanziali della fattispecie concreta, procacciato nelle sedi giurisdizionali anzidette e volto a salvaguardare l’effettivo legame covalente tra principio di neutralità dell’IVA e corrispondenza di questo con le condizioni di esercizio di un’attività economica, pare considerevolmente lesionato. È chiaro che, un rilievo applicativo immediato va certamente attribuito alla novella di cui sopra: la facilitazione delle operazioni di controllo e quindi (auspicabilmente) la maggior incisività delle azioni di contrasto e contenimento del c.d. «VAT gap» (42) beneficerà di uno strumento immediato e diretto di verifica della conformità dell’operazione realizzata al quadro regolatorio di riferimento. Sicché, in difetto, dovrà ritenersi non applicabile il regime del

un elenco riepilogativo o l’elenco riepilogativo da lui presentato non riporti le informazioni corrette riguardanti tale cessione come previsto dall’articolo 264, a meno che egli non possa debitamente giustificare la sua mancanza secondo modalità ritenute soddisfacenti dalle autorità competenti». (42) Obiettivi programmatici asseritamente affermati dal Comitato economico e sociale europeo nel parere (p.ti nn. 1.2 e 1.3) alla COM (2017) final n. 569. Parimenti, le precipue finalità di contrasto a fenomeni di elusione ed evasione fiscale dell’IVA che sorreggono l’adozione delle soluzioni normative risultanti nella Direttiva in commento (cfr. considerando n. 7) emergono chiaramente dai «General and Specific Objectives» presi in considerazione dalla Commissione europea in sede di analisi di impatto della regolamentazione (i.e. Impact Assessment). Segnatamente, «the general objectives of the initiative are: to contribute to fiscal consolidation within the EU – by ensuring that taxes due are collected to feed national and EU budgets; the smooth functioning of the internal market – by reducing obstacles to intraEU cross-border trade; to ensure fair taxation – so that all businesses are treated equally in order to avoid distortions of competition. The specific objectives of the initiative are: to make the EU VAT system more robust – by addressing the endemic weakness of the current transitional VAT system linked to the break in the fractional collection of VAT; to make the EU VAT system simpler – by addressing the complexities of the current transitional VAT system and by providing a level playing field for businesses whether engaged in domestic or cross-border transactions» (cfr. SWD n. 325 final del 4 ottobre 2017, p.ti nn. 4.1 e 4.2).


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Parte prima

reverse charge, considerando l’intera fattispecie interamente assoggettata ad imposizione nel territorio dello Stato membro di stabilimento del cedente/ prestatore. 5. Riflessioni conclusive sulla reviviscenza di un «neoformalismo comunitario» con finalità di preservazione dell’effettività dei controlli fiscali in materia di IVA. – È rilevabile, a séguito dei ragionamenti e delle considerazioni espresse nel presente scritto, una precisa «presa di posizione» da parte del legislatore comunitario nell’àmbito dell’inesauribile percorso normativo volto a conformare i poliedrici profili applicativi dell’IVA all’indefettibile salvaguardia del principio generale di neutralità del tributo per i Tax Collectors. Ed invero, la scelta compiuta in sede comunitaria non dev’essere necessariamente soggetta alla chiave di lettura derivante dalla giustapposizione tra «forma e sostanza» del modo di essere delle situazioni giuridiche soggettive financo attenzionate. Il principio della substance over form assume un rilievo «logico-sistematico» di assoluta centralità nella corretta esegesi delle disposizioni normative, determinando allo stesso tempo la naturale insorgenza della necessità da parte delle istituzioni pubbliche di apprestare validi ed efficaci strumenti di controllo prodromici a verificare l’effettivo concorso di tutti i requisiti richiesti dalla legge per il trattamento delle operazioni rilevanti (e non) ai fini IVA, oltreché al contrasto dei fenomeni di abuso del diritto dell’U. E (43).

(43) Il tema enucleato nel testo non è scevro di ragguardevoli contributi da parte della dottrina di matrice internazionale, la quale pone in evidenza con icastica efficacia come «a taxpayer invoking the substance over form principle is seeking to have taxed what the Actual Transaction Principle insists on-the actual occurrence» (R.T. Smith, Substance and form: a taxpayer’s right to assert the priority of substance, in Tax Lawyer, 1990, 44, 142). Di conseguenza, «the doctrine of substance over form has more than one meaning; at one level it is a legal doctrine of construction, (or in more general terms it is a question of categorisation); at another it is an equitable concept employed by those charged with administering generalised rules in a hostile environment. Taxation is a rule-governed activity; tax law represents the rules by which tax policy is administered» osserva G. Macdonald, Substance, Form and Equity in Taxation and Accounting, in Modern L. Rev., 1991, 6, 830. Del pari, il richiamo al substance over form principle risulta un aspetto diffusamente discusso anche in seno alle dinamiche «eurounionali dell’IVA. Cogliendo la tematica dal punto di vista del confronto diacronico tra “vertical and horizontal issues”, «vertical questions concern only the potential case for central coordination between member states, since the central EU institutions have no direct financial interest in the revenues raised. Although the EU budget is, in part, financed by what is known as the ‘VAT resource’, this is based on hypothetical revenues


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In tal senso, la scelta compiuta dal legislatore comunitario di attribuire una posizione privilegiata al dato formale si risolve nella valorizzazione dei profili procedimentali di attuazione del tributo. L’elevazione a condicio iuris del requisito di iscrizione al registro VIES ai fini della fruizione da parte dei Tax Collectors dei benefici connessi alla realizzazione di operazioni intracomunitarie, non denota un asfittico «neoformalismo» teso ad attribuire importanza assorbente e definitiva alla registrazione del soggetto passivo IVA ai fini del godimento del regime di inversione contabile e, conseguentemente, del corretto e ponderato funzionamento del principio di neutralità del tributo. A ben vedere, l’obiettivo ultimo sembrerebbe la predisposizione di un «minimo comun denominatore» la cui verificazione è necessaria «a monte», affinché «a valle» l’attività di controllo e di repressione di pratiche abusive e/o fraudolente possa risultare efficacemente perseguita. Di talché, la tensione ermeneutica ravvisata tra prevalenza del dato sostanziale e soddisfazione degli «obblighi formali» anzidetti, sfocia nella sussunzione in parte qua del «formalismo» nella categoria giuridica del «procedimento»: strumento giuridico, quest’ultimo, idoneo a preservare l’integrità e la controllabilità dell’intervenuta concorrenza dei profili applicativi della neutralità del tributo in capo ai soggetti passivi IVA. L’iter «forma-procedimento-controllo» rileva, purtuttavia, una parziale deregulation rispetto alla produzione giurisprudenziale avente rilievo maggioritario (ed oggetto di compiuta analisi supra), la quale propende decisamente per una conversione dell’inosservanza dei profili formali in «mere irregolarità», qualora non risulti pregiudicata in via irredimibile la produzione della «prova certa» dell’avvenuto soddisfacimento degli aspetti sostanziali dell’operazione, inibendo la riqualificazione dell’intera fattispecie come inidonea ad essere sussunta nella categoria generale ed astratta attributiva del diritto a detrazione dell’imposta assolta in capo ai Tax Collectors. Le cause di codesta inversione di tendenza sono miscellanee e multiformi; essenzialmente, non sembra potersi sottacere che un contributo determinante in tal senso sia profuso dalle recenti prospettive di stagnazione economica

from a common VAT system, unrelated to actual VAT receipt [...] A central VAT may then be one of the more attractive options for the future financing of the E.U.» (cfr. M. Keen, S. Smith, R.E. Baldwin e V. Christiansen, The Future of Value Added Tax in the European Union, in Ec. Policy, 1996, 11, 377. Sul punto v. altresì D.P. Hariton, Sorting out the tangle of economic substance, in Tax Lawyer, 1999, 2, 235-273 e H.J. Aaron, The Value-Added Tax: Sorting through the Practical and Political Problems, in Brookings Rev., 1988, 10, 10-16.


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Parte prima

della c.d. «area Euro», oltreché dal crescente fabbisogno finanziario da parte della P.A. per far fronte alla crescente domanda di «welfare» proveniente dalle fasce economicamente e redditualmente più fragili della popolazione. In ciò, i recenti studi della Commissione europea hanno stigmatizzato il c.d. «VAT gap» come la fattispecie di evasione fiscale più diffusa nel territorio dell’U.E. (44), seppur con trend decrescente negli ultimi anni. Sicché, la necessità – presunta impellente – di attribuire ai controlli fiscali un’efficacia diretta, immediata e celere di emersione della materia imponibile, si è risolta nell’approntamento di adempimenti formali «sostanzializzati»: cioè dotati di capacità preclusiva di per sé soli all’accesso ai benefici IVA, qualora non osservati. È in questi termini che, la categoria del «neoformalismo» ivi citata subisce una sorta di «mutazione genetica» rispetto alla sua funzione primordiale, apprestata ab origine dalle medesime istituzioni comunitarie nell’àmbito della tutela del consumatore. Difatti, in ragione della riconosciuta «debolezza strutturale» di codesta parte contrattuale nel mercato delle prestazioni di servizi e/o cessioni di beni da parte di un professionista (art. 3, comma 1, lett. a e c, d.lg. 6 settembre 2005, n. 206) «un ruolo decisivo è attribuito alla veste che assume e con la quale è veicolata l’informazione dovuta al consumatore/ utente e, più ampiamente, nella quale è concluso il contratto: la forma scritta; sì che anche nel diritto comunitario si discorre di “rinascita” del formalismo o di “neoformalismo”» (45).

(44) «In nominal terms, in 2017, the VTTL increased to EUR 1,223 billion (2.9 percent), whereas VAT revenue amounted to EUR 1,086 billion (increase by 4.1 percent). As a result, the VAT Gap fell from EUR 145.4 billion in 2016 to EUR 137.5 billion in 2017. In relative terms, the EU-wide Gap dropped to 11.2 percent, down from 12.2 percent in 2016. Fast estimates indicate that the VAT Gap will likely continue its downward trend and fall below EUR 130 billion and 10 percent of the VTTL in 2018» EU Commission, Study and Reports on the VAT Gap in the EU-28 Member States: 2019 Final Report TAXUD/2015/CC/131, Warsaw, 2017, 16. (45) Cfr. C. Dionisi, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale in P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, cit., 452. Con riferimento alla fisionomia ricostruttiva dell’imprenditore commerciale colto nell’essenza della tensione esistente tra mutevolezza e rapidità cangiante delle «regole positive» di conduzione degli affari E. Gliozzi, L’imprenditore commerciale. Saggio sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998, p. 28 ss. coglie la «dialettica dei princípi del positivismo giuridico e del conseguente modo formalista di interpretare ed applicare la legge positiva […] Se si esclude la possibilità di una delimitazione razionale dell’àmbito di validità del principio di autorità e dunque del postulato della sovranità della legge, lungi dal garantire la certezza del diritto, si finisce invece per legittimare l’arbitro mascherato come applicazione del diritto positivo che finisce in realtà per legittimare decisioni soggettive ed arbitrarie perché fondate su una manipolazione dei fatti per adattarli alle norme o su una manipolazione delle


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La forma è, pertanto, strumento di implementazione effettiva e tutela a priori della c.d. «parte debole» del rapporto negoziale (46), laddove nessun interesse ulteriore e diverso di potenziale stravolgimento dei profili sostanziali è preso in considerazione dal legislatore comunitario. La forma è elevata a mezzo per disvelare la sostanza del regolamento di interessi contrattuale (47) e non come mezzo essenzialmente subordinato alla funzione di sollecito e massivo rastrellamento del gettito fiscale, anche prescindendo in toto dalla caratterizzazione sostanziale del rapporto sottostante (48).

forme per adattarle, di volta in volta, a interessi di fatto». Il fenomeno è stato oggetto, financo recentemente, di numerosi contributi della dottrina civilistica, soprattutto declinato nella sua accezione di «neoformalismo negoziale», ex pluribus cfr. P. Gaggero, La forma dei contratti aventi ad oggetto servizi assicurativi commercializzati a distanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, I, 34 e E. Gabrielli, Sulla nozione di consumatore, ivi, 2003, IV, 1149 ss. Mutatis mutandis, la reviviscenza del «neoformalismo contrattuale», volto essenzialmente a colmare l’asimmetria informativa esistente ontologicamente tra le parti, acquisisce un ruolo preponderante anche in materia di contratti bancari e finanziari come evidenziato da A. Luberti, Intermediazione finanziaria, assicurazione e concorrenza, in Giust. civ., 2012, VI, 267 ss.; G. Gobbo, La disciplina dell’informazione nei contratti di investimento: tra responsabilità (pre)contrattuale e vizi del consenso, in Giur. comm., 2007, I, 102 ss. e J. Espinoza, La tutela giuridica del consumatore di fronte alla responsabilità civile ed amministrativa della Banca, in Resp civ. e prev., 2007, III, 688 ss. (46) Il tema è sviluppato alacremente da N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 2003; l’Autore correlativamente all’inquadramento della nozione di mercato affronta la tematica della dimensione solidaristica della libertà di iniziativa economica e, di converso, della sua corretta e «giusta» estrinsecazione nell’àmbito del mercato. «il discorso ha messo capo alla radicale incompatibilità tra mercato e liberalità, ovvero – che è il medesimo – alla risoluzione del mercato in un insieme di fenomeni di scambio. E potrebbe dirsi concluso, solo avvertendo che, in linea di fatto, la liberalità è in grado di incidere sul mercato, o col ridurre l’interesse ad ottenere un dato bene (interesse soddisfatto dalla liberalità, e non mediante lo scambio); o con l’accrescere il volume della domanda (ad esempio, con l’aumento di disponibilità monetaria in taluni soggetto); e col sollecitare e promuovere atti a titolo oneroso». (47) Per una visione sistematica cfr. N. Irti, Il salvagente della forma, Bari, 2007, 99 ss. dove l’Autore rileva la necessità di un bilanciamento sapiente e ponderato tra forma e sostanza, dimodoché l’una non degeneri in un ostacolo impeditivo e totalizzante all’esercizio dell’attività economica da parte degli operatori giuridici (e, lato sensu, all’esercizio dei diritti fondamentali della persona riconosciuti e garantiti dalla Costituzione) e l’altra non conduca all’estremo opposto del c.d. «nichilismo giuridico». Per un confronto storico ed evolutivo del dibattito giuridico intorno alla tematica dei limiti tra formalismo e dogmatica nelle figure di qualificazione giuridica v. Id., L’età della decodificazione, Milano, 1999, 21 ss. e A.E. Cammarata, Formalismo e sapere giuridico, Milano, 1963, 345 ss. (48) Di nuovo, il fine giurista N. Irti, La cultura del diritto civile, Torino, 1990, p. 114 così si esprime: «si hanno due modi o prospettive di collegare attività e formalismo […] La prima linea muove, per così dire, dall’esterno verso l’interno del diritto. S’immagina l’uomo in una sorta di originaria e nativa socialità: capace, come tale, di stringere accordi, soddisfare


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Parte prima

L’evoluzione legislativa «neoformalistica» in auge trasuda altresì un ontologico arretramento verso le tralatizie posizioni avallate dalla prassi amministrativa nazionale e da isolati pronunciamenti della Corte di Cassazione (49) sulla rilevanza sostanziale della registrazione ai fini IVA. La novella normativa operata dalla Direttiva UE n. 1910 del 2018 travolge inopinatamente una

bisogni, disciplinare interessi. Creatore inesauribile di atti, egli incontrerebbe, su questo cammino, le regole di diritto. Utili, di certo, quando riconoscono e proteggono quelle spontanee e naturali azioni; ma fastidiose e irritanti, se vanno di là da giusto confine, e suggeriscono o prescrivono forme. Viste dal di fuori, le forme sembrano comprimere l’originaria libertà, e sovrapporre schemi e moduli artificiali all’agire dei singoli. I quali si rivoltano allora contro il formalismo; e lo restringono a radi e limitati casi; e si sforzano di eluderlo o di aggirarlo. Ogni forma si configura come un onere. In questa prospettiva, le forme appaiono esterne ed arbitrarie: esterne all’azione, quale genuinamente si svolgerebbe; arbitrarie, siccome imposte dall’alto alla spontanea fisionomia del fare». (49) Il riferimento corre, in primis, al pronunciamento Cass., 13 febbraio 2009, n. 3603 laddove si sottolineava che «la mancata utilizzazione della procedura di controllo esclude il requisito della buona fede, la quale non può ipotizzarsi quando, come nella specie, non siano state rispettate le norme che garantiscono la legittimità degli scambi». Tale orientamento fu prontamente ribaltato e smantellato da successivi arresti della Suprema Corte sul punto, sicché nel 2014 (v. Cass., ord. 29 luglio 2014, n. 17254) è stato affermato che «ai fini del riconoscimento della non imponibilità ai fini IVA delle cessioni intracomunitarie, la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario, pur rimanendo centrale ai fini della sussumibilità dell’operazione nell’àmbito di quelle regolate dagli artt. 41 e 50 del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito in l. 29 ottobre 1993, n. 427, non può determinare, se mancante, il venir meno della possibilità di inquadrare la cessione nell’àmbito di quelle intracomunitarie, allorché l’operatore provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali della normativa di settore, sulla base degli elementi ritualmente prodotti nel corso del procedimento» (conformemente, v. Id., 27 settembre 2013, n. 22127 e Id., 8 ottobre, 2014, n. 21183). Il ragionamento decisorio dei giudici di legittimità si appunta sul rilievo assorbente che il d.m. 28 gennaio 1993 recante norme per la disciplina della «conferma, da parte degli uffici IVA, della validità del numero di identificazione dei soggetti d’imposta residenti in altro Stato membro della Comunità economica europea» (GU Serie Generale n. 26 del 2 febbraio 1993) individua l’adempimento relativo alla richiesta di conferma di validità del codice identificativo IVA attribuito al cessionario estero non alla stregua di un obbligo cogente a norma di legge, bensí come una facoltà del fornitore residente. L’orientamento interpretativo – poi definitivamente accantonato dalla giurisprudenza di legittimità – in linea con le risultanze del 2009 è stato successivamente rinnovato in due sentenze del 2015 laddove, tuttavia, il fondamento giuridico di tale assunto viene alternativamente rintracciato ora in una presunta coerenza con il sistema «eurounitario» della verifica della «capacità del soggetto passivo di applicare l’imposta nel Paese di appartenenza secondo il principio della tassazione nei luogo di destinazione dei beni in ragione della tendenziale imponibilità nello Stato membro in cui la merce giunge al consumo finale» (Cass., 20 marzo 2015, n. 5632), ora in una lesione del principio di condotta diligente ed avveduta ex art. 1176, comma 2, c.c. del fornitore che non proceda alla verifica di cui all’art. 50, comma 2, d.l. n. 331 del 1993 (Cass., 24 luglio 2015, n. 15639).


Dottrina

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consolidata giurisprudenza, sia comunitaria che nazionale, formatasi negli anni sulla differenziazione qualificatoria degli adempimenti sostanziali e formali, con una prevalenza assiologica attribuita ai primi rispetto agli ultimi. Una soluzione di maggior organicità e continuità con il case law elaborato nelle sedi giurisdizionali anzidette avrebbe potuto (e dovuto) coinvolgere la specificazione del valore probatorio attribuibile alla fattura, strumento idoneo a costituire quell’irrinunciabile fil rouge tra forma e sostanza, tra realtà effettuale e tracciabilità documentale dell’attività, tra economicità delle operazioni realizzate e tempestività nel controllo degli elementi essenziali il cui concorso determina la fruizione dei benefici riconosciuti in capo al Tax Collector in ordine al meccanismo applicativo dell’IVA (50). Inoltre, la spinta riformatrice così condensatasi avrebbe potuto rappresentare un’importante occasione per delineare in maniera più particolareggiata le modalità di assolvimento dell’onere della prova in capo ai soggetti passivi inerentemente alla realizzazione di prestazioni di servizi intracomunitarie. Categoria, quest’ultima, avvolta da un alone di imperscrutabilità limitatamente al profilo attenzionato, quando non deturpata – in sede di controllo – dalla grossolana estensione del regime probatorio prescritto per le cessioni intracomunitarie di beni, ontologicamente inconferente data l’assorbente carenza della tangibilità dell’oggetto di scambio nel caso delle prestazioni di servizi. D’altro canto, sarebbe stato sufficiente che in sede «euro-unitaria» si fosse sollecitato un dibattito intorno al differente, seppur affine, istituto del ne bis in idem (art. 4, prot. n.7, C.e.d.u.) volto a tutelare il contribuente colpito da sanzioni amministrative e penali sostanzialmente replicanti sul medesimo fatto commesso (51). In tal caso la granitica interpretazione del disposto con-

(50) Osserva attentamente M. Basilavecchia, La neutralità dell’IVA tra effettività e cautele, in Rass. trib., 2016, IV, 905 ss. che «se dai presupposti sostanziali della detrazione ci si sposta ai requisiti formali, la prevalenza delle esigenze di effettività diventa un vero e proprio dominio: le esigenze formali, per quanto non irrilevanti al fine di evitare abusi, sono agevolmente superate ogni volta che la mancanza di un adempimento non metta in dubbio l’esistenza delle condizioni per la sussistenza della detrazione». (51) Il punto è stato oggetto di notevoli ed approfondite disamine da parte della dottrina, tra cui si ritiene di considerare in breve per il valore assiologico A. Vallini, Il principio di specialità e A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo in A. Di Martino e E. Marzaduri, Trattato, cit. 271 ss. e 1408 ss. Similmente, M.C. Fregni, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e tassazione, in Riv. dir. fin., 2014, II, 210 ss.; G. Melis, Vincoli internazionali e norma tributaria interna, in Riv. dir. trib., 2004, X, 1083 ss.; S.F. Cociani, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, ivi, 2015, V, 405 ss. e F. Pepe, Sistema sanzionatorio tributario e ne bis in idem


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Parte prima

venzionale si risolve in un discernimento della fattispecie concreta e personale diretto a conferire pregnanza all’emersione della sostanza effettiva del caso di specie, indipendentemente dall’inosservanza di taluni obblighi formali. Un costante insegnamento che, dinanzi alla monolitica attrazione gravitazionale esercitata dalla «ragion fiscale» (52) sull’attività di produzione normativa dei tempi recenti, sembra essere stato obliterato – più o meno consapevolmente – anche dal legislatore comunitario.

Filippo Castagnari

CEDU: la dimensione antropologica di un (irriducibile?) conflitto, ivi, 2015, VI, 490 ss. Parimenti, l’approccio sostanzialistico basato sull’analisi puntuale della fattispecie concreta, in ordine alla rilevazione dei criteri guida dell’«idem factum» (anziché «idem legale») e della «sufficiently close connection in time and space» idonei ad escludere la sussistenza della violazione del principio de quo, emerge candidamente dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ex multis, cfr. Corte EDU Sentenza 4 marzo 2014 – Ricorso n. 18640/10 – Grande Stevens e altri c. Italia; Sentenza 15 novembre 2016 (Grande Camera) CASO A. e B. contro Norvegia – Ricorso n. 24130/11 e 29758/11; Corte EDU, Nykänen c. Finlandia, Sentenza 20 maggio 2014 Ricorso n. 11828/11. Da ultimo, la Corte EDU, Sentenza Bjarni Ármannsson c. Islanda 16 aprile 2019, ricorso n. 72098/14 statuisce che «lo svolgimento di due procedimenti – uno amministrativo e l’altro penale – per questioni legate a dichiarazioni fiscali sbagliate, non presenta quella connessione temporale e sostanziale (ndr. close connection in time and space) sufficientemente stretta se, malgrado il primo procedimento possa essere qualificato, in base ai parametri della Convenzione europea, come penale e se malgrado una breve sovrapposizione temporale, nei due procedimenti le prove, seppure in parte coincidenti, sono raccolte e valutate in modo indipendente. Lo svolgimento di procedure in gran parte indipendenti l’una dall’altra, in cui si realizza solo una breve sovrapposizione temporale, comporta che non si verifichi quella connessione sufficientemente stretta da far ritenere che non si tratti di un doppio procedimento. In questi casi, quindi, si configura una violazione del principio del “ne bis in idem”». Di conseguenza, la Corte costituzionale italiana ha recepito ed interiorizzato nella propria giurisprudenza i princípi anzidetti, financo recentemente ribaditi dalle sentenze Corte cost., 2 marzo 2018, n. 43 e Id., 24 ottobre 2019, n. 222. Del pari, la stessa Corte di Giustizia U.E. non ha esitato nel condividere e riaffermare quanto avvalorato dai giudici di Strasburgo e segnatamente in Corte giust., 20 marzo 2018, c. 524/15, Procedimento penale a carico di Luca Menci, p.to n. 44 e Id., 20 marzo 2018, c. 596/16, Enzo Di Puma v Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) and Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) v. Antonio Zecca, p.to n. 26. (52) Sul tema cfr. M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 151 ss. e P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, passim; Id., Il sistema tributario in A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 48 ss. e G. Falsitta, Manuale di diritto tributario – Parte Generale, Padova, 2015, 159.


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Corte costituzionale, 22 ottobre 2019 – 29 novembre 2019, sent. n. 245; pres. Lattanzi – Red. Barbera Iva – Fallimento e procedure concorsuali – Divieto di falcidia dell’Iva nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento - Art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012 – Illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 cost. È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, l’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), limitatamente alle parole: “all’imposta sul valore aggiunto” (laddove dunque prevede il divieto di falcidia dell’Iva nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento). (1)

(Omissis) Ritenuto in fatto. – 1. Con ordinanza depositata il 14 maggio 2018 (reg. ord. n. 171 del 2018), il Tribunale ordinario di Udine, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), limitatamente alle parole «all’imposta sul valore aggiunto». 2. Il rimettente premette che il giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere l’ammissione e la successiva omologazione di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, proposto ai sensi dell’art. 6, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012. L’incidente di legittimità costituzionale, in particolare, interviene nella fase di valutazione dell’ammissibilità del ricorso, prevista dall’art. 10 della legge n. 3 del 2012, nel corso della quale occorre verificare la presenza dei requisiti pregiudiziali previsti dagli artt. 7, 8 e 9 della stessa legge. 3. Con riguardo ai presupposti soggettivi del relativo ricorso, il rimettente chiarisce che il ricorrente non è assoggettabile a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dalla legge n. 3 del 2012. In particolare, si sottolinea nell’ordinanza che il ricorrente non esercita attività d’impresa commerciale e che il relativo sovraindebitamento deriva principalmente dalla condizione di responsabile solidale (art. 38 del codice civile) per le obbligazioni contratte da una associazione sportiva (nel cui nome


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ha agito in passato e di cui è stato legale rappresentante), a sua volta non soggetta a procedure concorsuali diverse da quelle disciplinate dalla legge n. 3 del 2012, perché comunque estranea ai requisiti di cui all’art. 1, comma secondo, del regio decreto 16 maggio 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; da ora in avanti: legge fallimentare). 4. In ordine agli ulteriori presupposti legittimanti il ricorso oggetto del giudizio principale, il giudice a quo evidenzia che : a) il ricorrente è soggetto sovraindebitato, non avendo la possibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni alla luce della complessiva situazione che lo riguarda, considerati i debiti scaduti, i beni patrimoniali suscettibili di liquidazione e i flussi finanziari positivi prospettabili, con cadenza annua, nel quinquennio a venire, coincidente con il periodo di tempo compreso nel piano proposto ai creditori; b) che il piano prevede il pagamento integrale dei creditori prededucibili e in quota parte dei crediti concorsuali, tutti collocati al chirografo, compresi i privilegiati, attesa l’incapienza totale dei beni gravati; c) che al ricorso sono allegati tutti i documenti prescritti dall’art. 9, comma 2, della legge n. 3 del 2012 e che il ricorrente non ha mai fatto ricorso in precedenza alle procedure previste da detta legge, né risulta aver compiuto atti in frode ai creditori nel quinquennio pregresso; d) che il professionista designato per svolgere le funzioni di organismo di composizione della crisi, ai sensi dell’art. 15, comma 9, della legge n. 3 del 2012, ha attestato la fattibilità del piano elaborato nonché la veridicità dei dati contenuti nel ricorso e nei documenti allegati, avuto riguardo, in particolare, al profilo della incapienza dei beni sui quali i creditori privilegiati potrebbero far valere la loro collocazione preferenziale in caso di liquidazione forzata, beni caratterizzati da un valore di molto inferiore alla misura della soddisfazione che potrebbe risultare garantita dalla relativa liquidazione. 5. Ciò precisato, il rimettente rimarca che tra le poste di credito privilegiate, oggetto della falcidia proposta dal debitore, figura anche l’obbligo di pagare all’erario somme a titolo di imposta sul valore aggiunto (d’ora in poi: IVA), garantite dal privilegio generale mobiliare di cui all’art. 2752, terzo comma, cod. civ. Previsione del piano, questa, che, tuttavia, sarebbe in immediato conflitto con quanto imposto dalla norma censurata, secondo la quale, avuto riguardo a siffatta pretesa tributaria, il piano «può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». 6. Il giudice a quo evidenzia che nel ricorso si sollecita, in prima battuta, la non applicazione della disposizione censurata perché assertivamente non conforme con quanto prevede, in materia di IVA, l’ordinamento dell’Unione europea; in subordine, sempre nel ricorso, se ne rimarca l’illegittimità costituzionale, per la ritenuta violazione dell’art. 3 Cost. 7. Quanto al primo profilo, il rimettente non trascura di valutare criticamente alcune pronunce, rese da altri giudici di merito, attraverso le quali si è ritenuto di poter accedere alla soluzione della non applicazione o comunque di dover procedere ad


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un’interpretazione conforme della norma censurata alla luce dei principi dettati, nella materia in oggetto, dalla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 7 aprile 2016, in causa causa C-546/14, Degano Trasporti sas; decisione, questa, assunta in esito al rinvio pregiudiziale disposto dallo stesso Tribunale rimettente con riguardo all’analoga tematica della falcidiabilità dell’IVA nell’affine procedura di concordato preventivo. 7.1. Segnala il giudice a quo che dette pronunce muovono dalla condivisa riconducibilità della disciplina dell’IVA all’interno della sfera di competenza dell’Unione. Ruotano, in particolare, intorno al ruolo da ascrivere all’art. 273 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (da ora in avanti: direttiva IVA); disposizione, questa, in forza del quale, secondo la costante interpretazione che di tale norma ha offerto la CGUE, ogni Stato membro è obbligato ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitarne le evasioni, nel rispetto della parità di trattamento, beneficiando tuttavia di una certa libertà circa l’individuazione dei mezzi a sua disposizione, ma sempre senza mettere in discussione l’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea. In questa cornice, sottolinea il rimettente, nella giurisprudenza della CGUE, normative interne che portavano ad una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA sono state ritenute contrarie all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’imposta in esame nel proprio territorio, nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea; per altro verso, senza smentire il precedente assunto, proprio con la citata sentenza Degano Trasporti sas, è stato ritenuto che non dà luogo ad una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, la possibilità, garantita da una norma interna agli imprenditori commerciali in stato di insolvenza, di pagare solo parzialmente il debito IVA, qualora ciò avvenga nel quadro di una procedura seria, rigorosa e garantita, quale quella del concordato preventivo di cui agli artt. 160 e seguenti della legge fallimentare, che consenta di riscontrare il maggior vantaggio della relativa proposta rispetto alla alternativa liquidatoria del patrimonio posto a garanzia delle obbligazioni da soddisfare. 7.2. Pur muovendo da tali argomentazioni, ritiene il rimettente che l’ostacolo offerto dal tenore letterale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012 non possa essere superato attraverso la non applicazione della norma interna, perché ritenuto conflitto con la disciplina comunitaria o, in alternativa, per il tramite della interpretazione della stessa conforme alle indicazioni di principio provenienti dagli orientamenti dettati, nella materia in oggetto, dalla CGUE. 7.2.1. Sotto il primo versante, ad avviso del rimettente, per procedersi alla non applicazione di una norma interna in forza di una norma contenuta in una direttiva, occorre che questa sia caratterizzata da un contenuto precettivo chiaro, preciso e incondizionato. Tanto sarebbe da escludere con riguardo all’art. 273 della direttiva IVA, così come interpretato dalla sentenza Degano Trasporti sas: ad avviso del rimettente,


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infatti, il portato di tale statuizione, se legittima pagamenti parziali dell’IVA all’interno di determinati meccanismi procedurali, non esprime, al contempo, un precetto chiaro, preciso ed incondizionato che imponga agli Stati membri di consentire, a parità di condizioni, la falcidia dell’IVA ad un debitore insolvente. Ciò in quanto rimane, in via di principio, libera l’individuazione dei modi attraverso i quali perseguire l’obiettivo della effettiva riscossione del dovuto per tale risorsa. 7.2.2. Per altro verso, ad avviso del rimettente, l’interpretazione conforme al diritto dell’Unione sarebbe impedita dal tenore letterale della disposizione censurata, la quale, escludendo «[i]n ogni caso» la falcidia dell’IVA, rende ardua la possibilità di accedere a siffatta soluzione interpretativa. 7.3. Il rimettente perviene a valutazioni di segno positivo quanto al denunziato contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost. 7.3.1. Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo rimarca che la prevista falcidiabilità dell’IVA costituisce l’unico profilo ostativo alla ammissibilità della proposta. 7.3.2. In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che la previsione portata allo scrutinio di questa Corte riproduce un principio identico a quello vigente, all’epoca della introduzione della norma censurata, nell’affine procedura del concordato preventivo (art. 182-ter, comma primo, periodo primo, ultima parte, della legge fallimentare). In sostanza, all’epoca della introduzione della norma censurata, i soggetti legittimati ad avvalersi delle procedure previste dalla legge n. 3 del 2012, alla stessa stregua delle imprese fallibili, potevano proporre, ai creditori, in alternativa alla liquidazione complessiva del relativo patrimonio, un pagamento parziale dei crediti privilegiati, purché nei limiti della capienza dei beni gravati. Il credito privilegiato per IVA (assieme ad altre specifiche poste di credito di matrice tributaria, estranee al perimetro delimitato dall’oggetto del giudizio principale) faceva tuttavia eccezione a tale regola generale: andava infatti soddisfatto sempre per intero, essendo al più consentita una dilazione dei relativi tempi di adempimento. Il tutto secondo un assetto complessivo che questa stessa Corte (è citata la sentenza n. 225 del 2014) aveva ritenuto conforme a Costituzione (anche se esclusivamente in relazione al versante della disciplina dettata per il concordato preventivo dalla legge fallimentare). 7.3.3. Il quadro interpretativo e normativo di riferimento, si sottolinea nell’ordinanza di rimessione, è mutato all’indomani della più volte citata sentenza della CGUE, all’esito della questione pregiudiziale sollevata dallo stesso tribunale di Udine. In forza dell’interpretazione del diritto unionale offerta da tale sentenza, le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 27 dicembre 2016, n. 26988, e sentenza 13 gennaio 2017, n. 760) hanno mutato il precedente orientamento interpretativo proprio della giurisprudenza di legittimità, ritenendo possibile la falcidia dell’IVA, anche se limitatamente ai soli concordati preventivi proposti senza avvalersi della disciplina dettata dall’art. 182-ter della legge fallimentare per la “transazione fiscale”.


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Successivamente, sempre sulla scia tracciata dal quadro interpretativo emerso dalla citata sentenza Degano Trasporti sas, è intervenuto il legislatore nazionale, procedendo ad una riscrittura dell’art. 182-ter della legge fallimentare tramite l’art. 1, comma 81, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019). In virtù di siffatta novella la disciplina di riferimento, attualmente dettata dalla legge fallimentare, impone al debitore, che intenda proporre un concordato preventivo (o che miri alla stipula di un accordo di ristrutturazione) e che debba soddisfare anche obbligazioni tributarie, di avvalersi dello strumento della transazione fiscale disciplinata dal citato art. 182-ter della legge fallimentare. Disposizione quest’ultima che, per quanto rimarcato dal giudice a quo, consente ora il pagamento parziale dei tributi, dei contributi previdenziali e dei relativi accessori, senza distinzioni di sorta; e ciò sempre che la soddisfazione offerta a tali crediti privilegiati non sia inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione e purché vengano rispettate le altre prescrizioni procedimentali previste dal detto art. 182-ter della legge fallimentare. 7.4. Il tribunale rimettente osserva che una evoluzione simile non si è invece manifestata nel settore delle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, giacché la disposizione dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, a suo tempo quasi identica sul piano letterale rispetto a quella dell’art. 182-ter, comma primo, ultima parte, della legge fallimentare (vigente all’epoca dell’introduzione della disciplina sul sovraindebitamento), è rimasta immutata malgrado il diverso tenore assunto dalla norma che ebbe ad ispirarne il contenuto. 8. Tale assetto normativo, ad avviso del giudice a quo pone in dubbio la tenuta costituzionale della disposizione censurata 8.1. In primo luogo, perché in asserito contrasto con l’art. 3 Cost. Il rimettente sottolinea che la regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati, purché pagati in misura corrispondente al valore ricavabile in via di esecuzione forzata dai beni destinati per legge alla loro soddisfazione, è ormai comune in tutte le procedure concorsuali che consentano una soluzione negoziata di un’insolvenza qualsiasi, prescindendo dai profili di soggettivo accesso all’uno o all’altra procedura: coloro che hanno a disposizione solo le procedure concorsuali negoziate previste dalla legge n. 3 del 2012, tuttavia, sono tenuti a pagare sempre e per intero quella particolare categoria di crediti privilegiati rappresentata dal credito IVA; per contro, gli imprenditori soggetti a fallimento possono invece gestire il medesimo credito con falcidia (nei limiti indicati), al pari di tutti gli altri crediti muniti di causa di prelazione. 8.1.1. Una tale soluzione non sarebbe compatibile con l’art. 3 Cost., che esige dalla legge uguaglianza di trattamento nei confronti di tutti i soggetti (persone fisiche, giuridiche, enti collettivi in generale) che si trovino nelle medesime condizioni. Condizioni che nella fattispecie consistono in uno stato di crisi economica, comune a tutti i debitori posti in rassegna, coinvolgente anche un debito per IVA.


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Né rileva al fine il fatto che i soggetti che possono accedere solo a quanto stabilito dalla legge n. 3 del 2012 hanno in genere dimensioni economiche meno rilevanti (e dunque un impatto della loro insolvenza sull’economia generale inferiore, compresa la probabilità di sussistenza di crediti IVA) rispetto a coloro cui è applicabile la legge fallimentare: in tal caso, infatti, sarebbe più razionale un trattamento di maggior favore per i debitori «non commerciali e piccoli», e non invece deteriore come nei fatti accade. 8.1.2. La disciplina contestata, inoltre, conclama, secondo il rimettente, una discriminazione su base censitaria fra gli stessi imprenditori commerciali, favorendo quelli assoggettabili al fallimento, i quali possono prospettare ai creditori il pagamento parziale di ogni pretesa garantita da prelazione, compresa quella legata all’IVA. Ad avviso del tribunale di Udine, tuttavia, la dimensione dell’impresa commerciale in tal caso non pare essere criterio discretivo sufficiente, anche perché essa è mutevole nel tempo sì che un soggetto, nel corso della sua attività economica, potrebbe o meno essere soggetto alle disposizioni della legge fallimentare a seconda di mere contingenze. Parimenti sarebbe a dirsi per gli imprenditori agricoli, che possono trattare con l’erario per farsi approvare una falcidia del credito IVA nell’ambito di un accordo di ristrutturazione ex artt. 182-bis e 182-ter della legge fallimentare, ma non possono ottenere lo stesso risultato laddove intendano accedere all’accordo di ristrutturazione dei debiti previsto dalla legge n. 3 del 2012. E ciò a prescindere dalle dimensioni della relativa attività di impresa, sicché lo stesso soggetto paradossalmente può godere o no dei vantaggi correlati alla falcidiabilità dell’IVA a seconda dello strumento (pur omologo) che egli stesso scelga di impiegare. 8.1.3. Del resto, sottolinea il rimettente, alla stessa stregua del concordato preventivo, l’accordo disciplinato dalla legge n. 3 del 2012, è una procedura concorsuale avente un base negoziale: non diversamente dalla affine procedura prevista dalla legge fallimentare, anche quella oggetto del giudizio principale è sottoposta al controllo giurisdizionale e risulta filtrata da valutazioni espresse da esperti indipendenti, ritualmente contestabili dagli interessati. Nelle procedure negoziate per la gestione del sovraindebitamento, dunque, sono rinvenibili le medesime connotazioni procedurali che hanno indotto la CGUE, nella sentenza Degano Trasporti sas, a ritenere che il pagamento parziale di un credito IVA in tal caso non contrasta con l’ordinamento dell’Unione europea; il che vale a rendere ancora più evidente la diseguaglianza prospettata a sostegno della addotta violazione dell’art. 3 Cost. 8.2. Sotto altro profilo, la norma in esame sarebbe in contrasto anche con l’art. 97 Cost., secondo il quale la legge deve organizzare i pubblici uffici in modo da assicurarne il buon andamento. È ben vero che questa Corte, con la sentenza n. 225 del 2014, ha già dichiarato insussistente il contrasto fra la regola dell’infalcidiabilità dell’IVA (all’epoca in vigore per tutte le procedure concorsuali negoziate) e tale parametro costituzionale. Ad


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avviso del tribunale rimettente, tuttavia, in quell’occasione il presupposto fondante del giudizio speso dalla Corte era offerto dall’idea in forza della quale l’obbligo di pagamento integrale dell’IVA, inteso in maniera assoluta e inderogabile, fosse conseguenza della ritenuta indisponibilità del tributo in quanto risorsa propria dell’Unione europea. 8.2.1. Tale considerazione non sarebbe più attuale ora che la CGUE ha meglio definito l’ambito degli obblighi imposti, nella materia de qua, agli Stati membri, ritenendo compatibile con la disciplina dell’Unione la legge fallimentare italiana anche quando prevede un pagamento parziale dell’IVA, se inserita nel quadro di un piano controllato e controllabile che dimostri come tale soluzione porti un beneficio non inferiore a quello che si otterrebbe all’esito di una liquidazione forzata dei beni del debitore. 8.2.2. Ciò, ad avviso del rimettente, dovrebbe portare ad una rivalutazione delle considerazioni esposte a sostegno della suddetta sentenza della Corte costituzionale, n. 225 del 2014. La disposizione oggetto di censura, quando rende necessariamente inammissibile la proposta di accordo che non preveda il pagamento integrale dell’IVA, priva la pubblica amministrazione del potere di valutare autonomamente ed in concreto se la proposta (al di là delle attestazioni di corredo e del primo vaglio giudiziale) è davvero in grado di soddisfare tale credito erariale in misura pari o addirittura superiore al ricavato ottenibile nell’alternativa liquidatoria. Non le consente, dunque, di determinarsi nel caso concreto al voto favorevole o contrario (con facoltà di successiva opposizione e reclamo) a seconda delle prospettive di effettivo recupero del dovuto, mettendo in crisi il principio costituzionale del buon andamento, perché preclude in radice criteri di economicità e di massimizzazione delle risorse nel caso concreto. 8.3. Considerazioni, queste, che ad avviso del giudice a quo portano nuovamente al centro del discorso la prospettata violazione dell’art. 3 Cost. Il rimettente dubita anche della razionalità del diverso trattamento cui la norma censurata sottopone, da un lato, la pubblica amministrazione che gestisce il credito IVA e, dall’altro, gli ulteriori creditori privilegiati. Questi ultimi, infatti, mantengono la piena possibilità di valutare liberamente se prestare assenso ad un piano che, pur tramite la falcidia del relativo diritto, in ipotesi ne consenta una realizzazione effettiva e non inferiore rispetto all’alternativa liquidatoria; per altro verso, l’amministrazione finanziaria, invece, è espropriata di tale potere, anche in caso di manifesta convenienza. 9. Né, ad avviso del rimettente, sono infine possibili interpretazioni della norma che possano ovviare ai vizi denunziati, considerati il tenore letterale della stessa e la sua ratio. Preclusa, dunque, anche la via dell’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, se ne imporrebbe in coerenza la declaratoria di illegittimità co-


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stituzionale, con conseguente ablazione del riferimento all’IVA tra le poste di credito non suscettibili di falcidia. 10. Nel giudizio è intervenuta la parte privata K. D., ribadendo la fondatezza delle argomentazioni spese dal rimettente nel ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, laddove esclude la falcidiabilità dell’IVA in caso di accordo proposto ai sensi del medesimo art. 7, comma 1. In data 9 ottobre 2019 la parte privata ha quindi depositato una memoria integrativa. Considerato in diritto. – 1. Con ordinanza depositata il 14 maggio 2018 (reg. ord. n. 171 del 2018), il Tribunale ordinario di Udine, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovra-indebitamento), limitatamente alle parole «all’imposta sul valore aggiunto». 2. Giova premettere che il giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere l’ammissione e la successiva omologazione di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, proposto ai sensi dell’art. 6, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012. L’incidente di legittimità costituzionale, in particolare, interviene nella fase di valutazione dell’ammissibilità del ricorso, prevista dall’art. 10 della legge n. 3 del 2012, nel corso della quale occorre verificare la presenza dei requisiti previsti dagli artt. 7, 8 e 9 della stessa legge, ostativi della successiva fase di omologazione della proposta. 2.1. Così come evidenziato dal tribunale rimettente, il piano proposto ai creditori prevede la soddisfazione solo parziale dei crediti concorsuali, tutti indistintamente collocati al chirografo, compresi quelli privilegiati, attesa l’incapienza dei beni sui quali dovrebbe gravare la relativa prelazione, tale da non consentire prospettive liquidatorie di maggior favore. Tra le poste di credito privilegiate – che il piano propone di soddisfare solo parzialmente – figura anche l’obbligo di pagare all’erario somme a titolo di imposta sul valore aggiunto (da ora in poi: IVA), garantite dal privilegio generale mobiliare di cui all’art. 2752, terzo comma, del codice civile. Ed è siffatta previsione del piano che provoca il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Tribunale di Udine: essa si pone, infatti, in immediato contrasto con la regola dettata dall’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, pregiudicando l’ammissibilità del ricorso. 2.2. In forza del citato articolo 7, comma 1, infatti, il piano nel quale si sostanzia l’accordo di ristrutturazione dei debiti proposto ai creditori può prevedere una soddisfazione non integrale dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca «allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al


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valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi». Il medesimo comma 1 del citato articolo 7, al terzo periodo, precisa tuttavia che «[i]n ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell’unione europea, all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». A differenza delle altre ragioni di credito tributarie, in genere soggette a possibile falcidia alla stessa stregua delle altre poste di credito privilegiate, l’adempimento legato all’IVA (oltre che dei tributi che costituiscono risorse proprie dell’Unione e delle ritenute non versate dal sostituto d’imposta), può dunque essere oggetto solo di dilazione, mai di parziale decurtazione. 3. Di qui la ritenuta non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012. 3.1. Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, nella parte in cui nega al debitore sovraindebitato la possibilità di prospettare il pagamento parziale dell’IVA, a pena di inammissibilità del relativo ricorso, viola l’art. 3 Cost., sotto diversi profili. Per un verso, perché a fronte di situazioni omogenee tra loro, discrimina i debitori soggetti alla procedura prevista dal citato art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, trattati diversamente da quelli legittimati a proporre il concordato preventivo, rispetto ai quali la falcidia del credito IVA è consentita dal combinato disposto di cui agli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; da ora in avanti: legge fallimentare). Per altro verso, la norma censurata discrimina la pubblica amministrazione (da ora in poi: PA) chiamata all’esazione del relativo tributo, rispetto agli altri creditori muniti di prelazione, giacché, a differenza di questi ultimi, non consente alla stessa, a monte, la possibilità di aderire alla proposta del debitore, ottimizzando le prospettive di soddisfazione del relativo credito a fronte di un patrimonio di riferimento che, in caso di liquidazione, non garantisce un grado di adempimento maggiore rispetto a quello proposto dal relativo piano. 3.2. La disposizione censurata sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 97 Cost., perché l’inammissibilità del ricorso che non preveda il pagamento integrale dell’IVA priva l’amministrazione finanziaria del potere di valutare, in concreto, la proposta quanto al grado di soddisfazione del credito IVA che la stessa garantisce in alternativa alla prospettiva liquidatoria, precludendole di informare la relativa azione a criteri di economicità e massimizzazione delle risorse, in contrasto con il principio del buon andamento sancito dal parametro evocato. 4. Lo scrutinio delle questioni prospettate dal rimettente rende imprescindibile una preliminare descrizione del quadro normativo all’interno del quale si colloca la norma sottoposta all’esame di questa Corte. Ciò avuto riguardo non solo all’insieme


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di disposizioni contenute nella legge n. 3 del 2012, ma anche in riferimento alla disciplina del concordato preventivo prevista dalla legge fallimentare. Sotto quest’ultimo versante, in particolare, assumono un rilievo fondamentale le vicende giuridiche che hanno interessato nel tempo l’istituto della “transazione fiscale” previsto dall’art. 182-ter della legge fallimentare. Disposizione, quest’ultima, che nella specie, per un verso funge, in relazione al tema della falcidia dell’IVA, quale tertium comparationis della disparità di trattamento denunziata ai sensi dell’art. 3 Cost.; e che, per altro verso, ha ispirato il contenuto della norma indubbiata, che ne replicava sostanzialmente i contenuti vigenti all’epoca di introduzione della stessa. 5. La legge n. 3 del 2012, radicalmente innovata già nel corso dello stesso anno di introduzione dall’art. 18 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha messo a disposizione dei soggetti non fallibili, in crisi perché gravemente indebitati o già insolventi, strumenti che consentano in via preventiva una composizione della crisi da indebitamento o, in alternativa, una liquidazione, organizzata e complessiva, del relativo patrimonio. Il tutto in termini di evidente alternatività rispetto alla disciplina comune del codice civile ed alle regole dell’esecuzione individuale dettate dal codice di procedura civile, attraverso le quali, in precedenza, venivano esclusivamente regolati i profili di responsabilità patrimoniale del debitore non fallibile, titolare o no di attività di impresa. 5.1. Si tratta, all’evidenza, di strumenti di chiara matrice concorsuale, strutturati, in esito alle modifiche apportate dal citato d.l. n. 179 del 2012, in chiave concordataria o meramente liquidatoria ed in termini sostanzialmente analoghi agli affini istituti contenuti nella legge fallimentare. Disciplina, quest’ultima, rispetto alla quale la normativa sul sovraindebitamento, nel suo attuale tenore normativo, mantiene autonomia sistematica, pur replicandone la filosofia di fondo, individuata nella esigenza di garantire anche ai soggetti non fallibili, connotati da gravi situazioni debitorie, l’accesso a misure di carattere esdebitatorio, alternative alla liquidazione o conseguenziali alla stessa, tali da consentire loro di potersi ricollocare utilmente all’interno del sistema economico e sociale, senza il peso delle pregresse esposizioni, pur a fronte di un adempimento solo parziale rispetto al passivo maturato; e ciò alla stessa stregua di quanto riconosciuto dall’ordinamento agli imprenditori assoggettabili a fallimento. 5.2. La disciplina del sovraindebitamento appare chiaramente dominata dalla posizione di favore riconosciuta al debitore, che resta l’unico legittimato ad attivare le procedure in questione, fatta salva l’ipotesi della conversione di una delle procedure di composizione preventiva in liquidazione, giusta l’art. 14-quater, comma 1, della legge in esame. Impostazione, questa, del resto coerente con l’obiettivo di compensare le distonie di sistema venutesi a creare, nel raffronto comparativo con i debitori legittimati ad accedere alle procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare, all’indomani della riforma di tale ultima disciplina, avviata dal decreto legislativo


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9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80). Per quel che qui immediatamente interessa, tra le novità all’epoca apportate all’impianto originario della legge fallimentare, assumono un rilievo decisivo l’implementazione dei rimedi preventivi di carattere prevalentemente non liquidatorio e natura non necessariamente concorsuale; ancora, l’avvenuta introduzione, in luogo della riabilitazione, del procedimento di esdebitazione (art. 142 e seguenti della legge fallimentare), tale da consentire al fallito di ottenere la liberazione dai debiti residui all’esito della relativa procedura. Elementi di novità, questi, che se, da un lato, hanno permesso di riconsiderare la fallibilità in termini di vera e propria opportunità, dall’altro hanno marcato la differenza con il debitore non assoggettabile a fallimento, all’epoca privo della possibilità di godere di uno strumento di esdebitazione similare a quello ora previsto dalla legge fallimentare, oltre che di avvalersi di strumenti concordati di definizione anticipata della crisi da indebitamento. Di qui l’esigenza di introdurre nel sistema procedure che, alla stessa stregua di analoghe esperienze sovranazionali, in alternativa alla esecuzione individuale ed in deroga al principio secondo il quale delle obbligazioni si risponde con i propri beni attuali e futuri, attraverso forme concorsuali di soddisfacimento dei creditori destinate a garantire la par condicio (art. 2741 cod. civ.), fossero in grado di permettere al debitore civile di conseguire il beneficio dell’esdebitazione. 6. La legge n. 3 del 2012, nel suo attuale assetto, prevede due procedure alternative alla liquidazione complessiva del patrimonio del debitore (art. 14-ter e seguenti), segnatamente identificate nell’accordo di composizione dei debiti con i creditori e nel piano del consumatore, entrambe previste dall’art. 6, comma 1. 6.1. Sotto il versante dei requisiti soggettivi di legittimazione, la relativa disciplina risulta destinata ad una ampia e variegata categoria di soggetti interessati, tutti legati da un comune denominatore, vale a dire la non assoggettabilità al fallimento o ad altra procedura concorsuale prevista dalla legge fallimentare. Gli strumenti previsti dalla legge in oggetto sono, dunque, destinati ad operare sia in favore dell’impresa commerciale la cui attività si attesta sotto le soglie di fallibilità; sia dell’imprenditore agricolo, cui si riferisce espressamente l’art. 7, comma 2-bis, della stessa legge; sia dei titolari di attività professionale; nonché, in termini generali e di chiusura, dei debitori che contraggono obbligazioni prescindendo da una attività di impresa o professionale (definiti “consumatori”, nel delimitato perimetro di riferibilità della relativa disciplina, ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera b). 6.2. Dal punto di vista oggettivo, i rimedi previsti dalla legge n. 3 del 2012, quale che sia la connotazione tipologica del debitore che intende avvalersene, presuppongono la medesima situazione di sovraindebitamento, descritta dall’art. 6, comma 2, della medesima legge n. 3 del 2012 in termini di «perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità


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di adempierle regolarmente». Definizione, questa, che con gli aggiustamenti del caso (determinati dalla presenza, tra i debitori coinvolti, anche di soggetti estranei ad attività di impresa) non si distanzia da quelle (di crisi e insolvenza) che legittimano, per gli imprenditori commerciali, l’accesso alle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare. 6.3. Le caratteristiche soggettive del debitore recuperano un rilievo dirimente con riguardo ai profili di accesso alle diverse procedure previste dalla legge n. 3 del 2012. Mentre il debitore imprenditore (anche agricolo) e il professionista possono attivare esclusivamente l’accordo di ristrutturazione e la liquidazione totale dei beni, il consumatore è legittimato ad attivare anche un piano avente il contenuto previsto dall’art. 8 della citata legge n. 3 del 2012, che prescinde dalla deliberazione favorevole dei creditori. 7. Il rimettente giudica dell’ammissibilità di un ricorso volto alla omologazione di un accordo di composizione della crisi. L’oggetto del giudizio principale delimita, dunque, lo scrutinio della disciplina di riferimento alle connotazioni proprie di siffatta procedura. 7.1.– L’accordo con i creditori è strutturato ribadendo, nei suoi tratti essenziali, la struttura del concordato preventivo previsto dalla legge fallimentare. L’iniziativa sottesa al piano, alla stessa stregua di quanto è previsto per la domanda di concordato preventivo, non ha contenuti necessariamente predeterminati dal legislatore (art. 8) ed è compatibile con la divisione dei creditori in più classi, cui accordare trattamenti differenziati (art. 7, comma 1). Sempre in ragione di un evidente parallelismo con la disciplina del concordato preventivo dettata nella legge fallimentare, l’intervento giurisdizionale si scompone in una preventiva fase di ammissibilità della proposta, cui segue quella di omologazione, sempre che il piano proposto dal debitore sia stato approvato dalla maggioranza qualificata dei creditori, pari al 60 per cento dei crediti ammessi al voto. Approvata dalla maggioranza dei creditori e omologata dal giudice, anche la proposta resa dal debitore non fallibile vincola tutti i creditori, compresi quelli dissenzienti e preclude la possibilità di aggredire i beni del debitore ai creditori titolari di crediti posteriori alla data in cui è stata effettuata la pubblicità del decreto di ammissione (art. 12, comma 3). 7.2. Da quanto sopra evidenziato, emerge con chiarezza come entrambe le procedure abbiano una base negoziale (giacché passano imprescindibilmente da una deliberazione di assenso, anche tacito, dei creditori) che non le pone, tuttavia, al di fuori dell’area delle procedure concorsuali: risultano, infatti, pervase dal principio della parità di trattamento dei creditori concorsuali; prevedono il blocco delle iniziative esecutive individuali in danno del patrimonio del proponente (ex art. 168, comma 1, della legge fallimentare e art. 10, comma 2, lettera c, della legge n. 3 del 2012); impongono, sin dall’ammissione e sino all’omologazione, un parziale spossessamento della capacità di disporre dei beni (art. 167 della legge fallimentare e art. 10, comma


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3-bis, della legge n. 3 del 2012), nonché la cristallizzazione degli accessori (ex artt. 55, cosi come richiamato dall’art. 169, comma 1, della legge fallimentare e 9, comma 3-quater, della legge n. 3 del 2012); infine le procedure suddette risultano sottoposte alla verifica giurisdizionale, in sede di ammissione e di successiva omologa, dalla quale ultima promana la vincolatività della decisione per tutti creditori, anche quelli contrari alla approvazione. Sia l’accordo proposto dal debitore non fallibile sia la proposta di concordato, inoltre, si muovono lungo le direttrici comuni ad entrambi della fattibilità (intesa come effettiva possibilità di realizzare il programma predisposto dal debitore per giungere all’adempimento prospettato) e della convenienza della proposta rispetto alla possibile alternativa liquidatoria; convenienza che diviene regola di giudizio imprescindibile e non solo momento di valutazione rimesso alla scelta ponderata della maggioranza dei creditori, allorquando vi sia una contestazione specifica da parte di un creditore dissenziente in sede di omologa o laddove sia previsto il pagamento in percentuale di crediti muniti di prelazione. Soprattutto, pur nella loro autonomia di sistema, le due procedure in questione sono caratterizzate da una identica ratio finalistica: limitare il ricorso a procedure esclusivamente demolitorie, garantendo, in via anticipata, ai creditori una soddisfazione anche solo parziale governata dalla par condicio nonché, al contempo, al debitore di godere della esdebitazione senza attendere il corso della liquidazione. 8. In questa complessiva cornice di riferimento assume un rilievo essenziale, nell’ottica che immediatamente interessa lo scrutinio di legittimità sollecitato dal rimettente, il tema della falcidia dei crediti privilegiati. 8.1. In entrambe le procedure viene lasciata al proponente la più ampia libertà nel predisporre il contenuto della proposta, compresa la parziale soddisfazione dei crediti favoriti da prelazione e, tra questi, anche di quelli tributari. L’accordo di composizione, al pari del concordato preventivo, prevede infatti la possibile falcidiabilità dei crediti privilegiati in deroga al principio dettato dall’art. 2741 cod. civ., giacché l’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012 riproduce, in parte qua, il contenuto dell’art. 160, comma 2, della legge fallimentare. In particolare, il pagamento parziale dei crediti risulta condizionato al positivo riscontro del favor che la proposta del debitore deve accordare alla soluzione di definizione preventiva della crisi rispetto alla alternativa liquidatoria, secondo indicazioni valutative che il legislatore rimette all’attestazione resa da un terzo, il quale, al di là del profilo relativo alla relativa nomina, deve comunque svolgere la propria attività in modo indipendente. Mentre nel concordato preventivo (art. 160, comma 2, della legge fallimentare) siffatta attività viene demandata ad un professionista terzo che rivesta i requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lettera d), della stessa legge, nella procedura di accordo, qui considerata, il medesimo ruolo, ai sensi del secondo periodo dell’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, viene svolto dagli organismi di composizione della crisi di cui al successivo art. 15.


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8.2. Le due procedure si disallineano, invece, in relazione al trattamento dei debiti tributari, pur se entrambe, in linea di principio, consentono la falcidia anche di queste poste di credito. 8.2.1. Nel concordato preventivo, la disciplina di riferimento è attualmente dettata, in forza delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 81, legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), dall’art. 182-ter della legge fallimentare (la cui rubrica è oggi denominata «Trattamento dei crediti tributari e contributivi» e non più «Transazione fiscale»). Prendendo le distanze dal precedente assetto normativo, così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (sul punto, Corte di cassazione, sezioni unite, 27 dicembre 2016, n. 26988 e 13 gennaio 2017, n. 760, che hanno mutato l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione, sezione prima, 4 novembre 2011, n. 22931 e n. 22932), la legge fallimentare nel suo vigente tenore legittima domande di concordato preventivo che prevedano la falcidia dei crediti tributari esclusivamente se proposte attraverso il meccanismo procedurale definito dal citato art. 182-ter della legge fallimentare. In questa cornice, le proposte di concordato possono prevedere «il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori», senza imporre deroghe di sorta quanto alle tipologie delle poste di credito falcidiabili. Infine, come nel passato, l’ammissibilità di tali proposte risulta condizionata alla previsione di un grado di soddisfazione del credito falcidiato «in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione», nonché al rispetto del rango di riferimento, laddove il relativo credito sia assistito da privilegio. 8.2.2. Anche la normativa dettata per l’accordo di composizione della crisi del debitore non fallibile prevede la generale falcidiabilità dei crediti tributari, privilegiati e chirografari, ma, a differenza della legge fallimentare, la esclude in riferimento al regime dell’IVA (oltre che per gli altri crediti descritti dalla disposizione censurata). 8.3. Ferma dunque la regola comune della generale falcidiabilità delle pretese tributarie, anche se privilegiate, le due discipline trovano un tratto di differenziazione, per quel che immediatamente interessa, proprio nel regime previsto per l’IVA. 8.4. Per meglio comprendere il tenore di tale differenziazione, tuttavia, occorre soffermarsi sull’evoluzione che nel tempo ha assunto l’art. 182-ter della legge fallimentare, alla luce della stratificazione normativa che ne ha riguardato il disposto, nonché delle letture interpretative che di tale previsione normativa sono state offerte nel tempo dalla giurisprudenza, anche di questa Corte, proprio con riferimento al tema della deroga al principio della generale falcidiabilità delle pretese tributarie all’interno della procedura di concordato preventivo.


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8.4.1. La disposizione di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare è stata inserita all’interno della legge fallimentare in forza di quanto previsto dall’art. 146, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2006. È stata poi novellata più volte: in primo luogo dall’art. 32, comma 5, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito con modificazioni nella legge 28 gennaio 2009, n. 2; successivamente dall’art. 29, comma 2, lettera a), del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito con modifiche nella legge 30 luglio 2010 n. 122; da ultimo, per quanto già evidenziato, dall’art. 1, comma 81, della legge n. 232 del 2016, tramite il quale si è pervenuti all’attuale versione, evocata dal rimettente quale tertium comparationis della denunziata violazione dell’art. 3 Cost. 8.4.2. Nella sua originaria versione, la falcidia dei debiti tributari prevista dalla transazione fiscale vedeva un limite espresso nelle sole risorse proprie dell’Unione europea, senza alcun specifico riferimento all’IVA. Ciò malgrado, secondo la giurisprudenza di legittimità, qualunque concordato preventivo, anche quello modulato avvalendosi della transazione fiscale, non poteva comunque prevedere la falcidia dell’IVA; ciò sull’assunto che si trattasse di un tributo costituente risorsa propria dell’Unione europea (sul punto, le già citate sentenze della Corte di cassazione, sezione prima, n. 22931 e n. 22932 del 2011). La novella apportata dal d.l. n. 185 del 2008 risolse ogni dubbio sotto questo versante, introducendo espressamente il divieto di falcidia dell’IVA. Come chiarito dai relativi lavori preparatori, tale previsione venne giustificata della necessità di non contravvenire alla normativa comunitaria che vieta «allo Stato membro di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica» (Camera dei Deputati, XVI Legislatura, Relazione illustrativa al disegno di legge n. 1972), secondo i principi contenuti nella direttiva 2006/112/CE del Consiglio 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (da ora in avanti: direttiva IVA). Con la novella del 2010, inoltre, il divieto della falcidia previsto per l’IVA e per i tributi costituenti risorse dell’Unione europea è stato esteso alle ritenute fiscali. 8.4.3. Da tale excursus normativo emerge, dunque, che la disciplina prevista per il concordato preventivo, quanto alle deroghe inerenti al principio generale della falcidiabilità dei crediti di matrice tributaria, recava, alla data di introduzione della norma censurata, intervenuta con il d.l. n. 179 del 2012, contenuti sostanzialmente identici a quelli che ancora oggi connotano il portato dell’art. 7, comma 1 della legge n. 3 del 2012. Sia per il concordato preventivo, sia per l’accordo proposto ai creditori in forza della legge n. 3 del 2012, la falcidia dei crediti tributari era dunque consentita con l’esclusione di quanto dovuto per IVA, per altri tributi costituenti risorse dell’Unione europea, per il versamento delle ritenute fiscali.


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Una tale coincidenza di contenuti trovava ragion d’essere nella chiave tipicamente concordataria assunta dai rimedi preventivi offerti dalla disciplina dettata dalla legge n. 3 del 2012 in esito alla riforma apportata dal citato d.l. n. 179 del 2012 (Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Relazione illustrativa al disegno di legge n. 3533); muoveva a conferma, inoltre, della comune ratio che fondava le due discipline in parte qua, legata alla natura dell’IVA quale risorsa dell’Unione europea, in quanto tale intangibile in ordine alla sua integrale riscossione da parte di ciascun Stato membro. 8.5. Siffatto assetto normativo è stato ritenuto conforme alla Costituzione da questa Corte (sentenza n. 225 del 2014 e ordinanza n. 232 del 2015). Sollecitata al sindacato di legittimità costituzionale degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, nel contenuto vigente all’epoca, in riferimento all’asserita violazione dei medesimi parametri evocati dall’ordinanza in esame, in ragione del divieto di falcidia dell’IVA che tali disposizioni comportavano, questa Corte ha ritenuto non fondate le relative questioni muovendo, per l’appunto, dalla «natura dell’IVA come imposta la cui disciplina è fortemente armonizzata a livello comunitario in quanto “risorsa propria” dell’Unione europea», tale da giustificare «i vincoli derivanti per gli Stati membri nell’accertamento e nella riscossione dell’imposta in esame» (sentenza n 225 del 2014). Nelle citate decisioni di questa Corte è stato dato fondamentale rilievo alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in relazione ai limiti imposti al legislatore nazionale dalla normativa unionale di riferimento e, in particolare, alla direttiva IVA. Si è così rimarcata l’indisponibilita della relativa disciplina da parte degli stati membri e dunque «l’incompatibilità con la disciplina comunitaria dell’IVA» di normative interne dirette a prevedere la «rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi imposta» (citata sentenza n. 225 del 2014). Di qui la scelta di negare la fondatezza sia all’addotta violazione dell’art. 97 Cost., perché «la previsione legislativa della sola modalità dilatoria in riferimento alla transazione fiscale avente ad oggetto il credito IVA deve essere intesa come il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo»; sia alle denunziate discriminazioni di trattamento tra le categorie di creditori ammessi a partecipare al concordato preventivo, in presenza di una «disciplina eccezionale attributiva di un “trattamento peculiare e inderogabile”» quale quella prevista per l’IVA, tale da deprivare di rilievo anche la questione prospettata in riferimento all’art. 3 Cost. (così, la medesima sentenza n. 225 del 2014). 8.6. Rispetto a siffatto consolidato quadro interpretativo, ha assunto una valenza decisiva la decisione della CGUE, sentenza 7 aprile 2016, in causa C-546/14, Degano Trasporti sas, resa peraltro in esito ad un rinvio pregiudiziale sollevato dallo stesso odierno tribunale rimettente. Nell’occasione, il Tribunale ordinario di Udine si trovava a delibare sull’ammissibilità della proposta di un concordato preventivo che, per quanto proposto senza


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transazione fiscale, prevedeva comunque la falcidia dei crediti tributari e tra questi dell’IVA, sul presupposto della convenienza della proposta rispetto alla alternativa liquidatoria. Ritenendo coerente una lettura del dato normativo interno con i termini di tale proposta, il tribunale interrogò la Corte di Lussemburgo in ordine alla compatibilità di una siffatta normativa con l’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 (da ora in poi: TUE), nonché gli artt. 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA, dai quali emerge che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio. La CGUE, dopo aver ricordato che, nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri beneficiano di una certa autonomia di intervento, ha altresì ribadito che «[t]ale libertà è tuttavia limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme dei medesimi». Muovendo da tale indicazione di principio, la Corte di Lussemburgo ha quindi ritenuto che «l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo come prevista dalla normativa nazionale di cui al procedimento principale, non debba ritenersi contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione». Con la decisione in oggetto, la CGUE, in particolare, ha attribuito rilievo alle connotazioni della procedura nel corso della quale viene vagliata tale proposta di parziale soddisfazione del credito IVA, rimarcando che il concordato preventivo è soggetto «a presupposti di applicazione rigorosi, allo scopo di offrire garanzie per quanto concerne, in particolare, il recupero dei crediti privilegiati e pertanto dei crediti IVA. In tal senso, anzitutto, la procedura di concordato preventivo comporta che l’imprenditore in stato di insolvenza liquidi il suo intero patrimonio per saldare i propri debiti. Se tale patrimonio non è sufficiente a rimborsare tutti i crediti, il pagamento parziale di un credito privilegiato può essere ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento del debitore. La procedura di concordato preventivo appare quindi tale da consentire di accertare che, a causa dello stato di insolvenza dell’imprenditore, lo Stato membro interessato non possa recuperare il proprio credito IVA in misura maggiore» (paragrafi 23 e 24). Per altro verso, la decisione in questione mette in evidenza che la proposta di concordato preventivo è soggetta al voto di tutti i creditori ai quali il debitore non proponga un pagamento integrale del loro credito e «che deve essere approvata da tanti creditori che rappresentino la maggioranza del totale dei crediti dei creditori ammessi al voto» (paragrafo 8): nell’assunto argomentativo seguito dalla Corte di Lussemburgo, la relativa procedura offre, dunque, allo Stato membro interessato «la possibilità


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di votare contro una proposta di pagamento parziale di un credito IVA qualora, in particolare, non concordi con le conclusioni dell’esperto indipendente» (paragrafo 26); laddove, poi, la proposta venga omologata con il voto contrario dell’amministrazione, consente comunque allo Stato membro interessato di contestare ulteriormente, mediante opposizione, un concordato che preveda un pagamento parziale di un credito IVA, favorendo il controllo giudiziale sul punto. La CGUE ha quindi concluso ritenendo che «l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo […] non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio, nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione» (paragrafo 28). 8.6.1. Conclusione, questa, ribadita anche nelle relative argomentazioni della successiva decisione, Corte di Giustizia dell’Unione europea, 17 marzo 2017, in causa C-493/15, Agenzia delle entrate contro Marco Identi, resa in esito alla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte di cassazione, sezione quarta, con ordinanza del 1° luglio 2015, n. 13542, relativa alla compatibilità con il diritto dell’Unione europea delle norme dettate dalla legge fallimentare (artt. 142 e seguenti) in tema di esdebitazione, nella parte in cui consentono la liberazione del fallito anche con riferimento alla parziale soddisfazione del debito IVA. 8.7. Tali decisioni della Corte di Lussemburgo hanno determinato un radicale cambio di tendenza quanto al quadro normativo e interpretativo di riferimento sul tema della falcidia del credito IVA all’interno della procedura di concordato preventivo. In particolare, hanno costituito la ragione fondante dell’attuale tenore dell’art. 182-ter della legge fallimentare, così come modificato dall’art. 1, comma 81, della legge n. 232 del 2016, in forza del quale, con riguardo alle procedure promosse dal 1° gennaio 2017 (data di vigenza della novella apportata dalla legge n. 232 del 2016), le domande di concordato preventivo non trovano più limiti quanto al tipo di tributi possibile oggetto di falcidia: l’odierna previsione legislativa di riferimento (l’art. 182ter della legge fallimentare, per l’appunto), l’unica che attualmente risulta chiamata a regolare proposte di concordato destinate ad incidere sulle prospettive di soddisfazione del credito tributario, non riproduce più le originarie deroghe. 8.8. Giova infine segnalare che, con il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155; da ora in avanti: CCII), il legislatore ha da ultimo operato una revisione complessiva della disciplina relativa alle procedure concorsuali, all’interno della quale risulta anche ridisegnata la normativa relativa alle crisi da sovraindebitamento, attualmente disciplinata dalla legge n. 3 del 2012. Sono diverse le novità offerte dal CCII, comunque estranee al giudizio principale (e dunque anche all’odierno incidente di illegittimità costituzionale), perché operative


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solo per le procedure instaurate dopo il 15 agosto 2020 (artt. 389, comma 1, e 390, commi 1 e 2, del citato d.lgs. n. 14 del 2019). Tra queste, per quel che qui direttamente interessa, va rimarcato che le nuove disposizioni sul sovraindebitamento contenute nel CCII, sia con riferimento al concordato minore (ovverosia il vecchio accordo di composizione, ora disciplinato dagli artt. 74 e seguenti del citato decreto), sia in relazione alla procedura di “ristrutturazione dei debiti del consumatore” (l’originario piano del consumatore, oggi regolato dagli artt. da 67 a 73), prevedono, una volta entrata in vigore, il possibile pagamento parziale dei crediti privilegiati e tra questi anche di quelli tributari, senza più riprodurre il divieto di falcidia, attualmente previsto dalla norma censurata. Ciò sempre che la proposta sia maggiormente favorevole rispetto alla prospettiva liquidatoria, in termini non diversi da quanto previsto dall’attuale disciplina del concordato preventivo relativamente alla falcidia dei crediti privilegiati (attualmente ai sensi degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, destinati ad essere sostituiti dagli artt. 85 e 88 del CCII). 9. Venendo allo scrutinio delle censure prospettate dal rimettente, giova in primo luogo evidenziare che tale disamina non risulta nel caso impedita da pregiudiziali profili di inammissibilità. 9.1. Le argomentazioni spese dal rimettente sulle connotazioni del giudizio principale, destinate ad incidere sulla rilevanza della questione, sono da ritenersi compiute e plausibili. In particolare, il rimettente si è soffermato adeguatamente sulle condizioni di ammissibilità del ricorso, ricavabili dal complessivo tenore degli artt. 7, 8 e 9 della legge n. 3 del 2012, approfondendo in particolare i termini afferenti le precondizioni previste dal comma 2 dell’art. 7, negandone la ricorrenza. In questa ottica, il giudice a quo rimarca con puntualità il rilievo ostativo che deriva dall’applicabilità della disposizione censurata rispetto all’ulteriore corso della procedura posta al suo giudizio. 9.2. Sempre preliminarmente, va altresì rimarcato che il rimettente ha provveduto ad un pregiudiziale scrutinio di compatibilità della disposizione censurata con il diritto dell’Unione europea e, in particolare, con l’art. 273 della direttiva IVA; ciò in adesione alla giurisprudenza di questa Corte, in forza della quale il giudizio sulla compatibilità della norma censurata con il diritto dell’Unione europea costituisce un prius logico e giuridico rispetto al sindacato di legittimità costituzionale in via incidentale, poiché ne mette in discussione la stessa applicabilità nel giudizio principale, così da incidere sulla rilevanza della questione (ex multis, da ultimo, ordinanza n. 47 del 2017). 9.2.1. Nell’ordinanza, dopo un puntuale confronto con gli orientamenti maturati nella giurisprudenza interna successivamente alle sentenze Degano Trasporti sas e Agenzia delle entrate contro Marco Identi della Corte di Lussemburgo, si esclude che dall’art. 273 della direttiva IVA, così come interpretata dalla CGUE, possa emergere un principio chiaro e incondizionato, suscettibile di applicazione diretta, che si ponga


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in immediata antinomia con la norma censurata tale da portare alla non applicazione della stessa. 9.2.2. Le motivazioni spese dal rimettente in parte qua non solo non possono ritenersi implausibili, ma rivelano anche una condivisibile ricostruzione del dato normativo di riferimento. Con la sentenza Degano Trasporti sas, la Corte di Lussemburgo non ha affermato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione in ambito IVA dell’allora vigente art. 182ter della legge fallimentare, nella parte in cui imponeva il divieto di falcidia dell’IVA; piuttosto, ha ritenuto la compatibililità con tale diritto di una disposizione interna (l’art. 160, comma 2, della legge fallimentare), che tale falcidia finiva per consentire (nella lettura che ebbe a darne il giudice che sollevò la questione pregiudiziale). Il quadro normativo offerto dalla disciplina dell’Unione europea in tema di IVA conseguente alle letture che ne hanno dato le sentenze soprarichiamate non mette, peraltro, in discussione il principio fondamentale che si ricava in parte qua dalla direttiva IVA, ovverosia l’esigenza di perseguire l’obiettivo di una riscossione effettiva e integrale dell’IVA; né, ancora, intacca la discrezionalità lasciata agli stati membri nell’individuare gli strumenti più funzionali al fine in oggetto. Da tali decisioni, piuttosto, emerge che non sono incompatibili con l’esigenza di garantire una riscossione effettiva dell’IVA norme interne che, al verificarsi di determinati presupposti procedurali, consentano una parziale riscossione del dovuto, così da garantire una maggiore soddisfazione degli interessi dell’Unione europea rispetto alla alternativa liquidatoria. Tanto porta a ritenere compatibile con il diritto dell’Unione l’attuale disposizione dettata in materia di concordato preventivo, come ora formulata in esito alla novella apportata nel 2016, senza che ciò determini, al contempo, l’incompatibilità della scelta, di segno opposto, assunta dal legislatore nazionale nella procedura di sovraindebitamento: quest’ultima, infatti, ben potrebbe costituire una delle vie attraverso il quale lo Stato membro intende perseguire l’obiettivo della piena riscossione del tributo imposto dal diritto dell’Unione europea. 9.3. Il giudice a quo ha anche escluso di poter accedere ad una interpretazione orientata del dato censurato conforme al diritto dell’Unione, in ragione della chiara ed univoca lettera dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, che non permetterebbe una simile lettura. 9.3.1. Anche questa valutazione deve ritenersi condivisibile nel merito. Sul piano letterale, l’uso della locuzione «in ogni caso» non consente all’interprete alcun margine di manovra, precludendo la via dell’interpretazione conforme della disposizione interna ai principi e agli obiettivi espressi nella direttiva di riferimento, non praticabile senza stravolgerne il significato letterale. Ciò in linea, del resto, con la giurisprudenza della CGUE, in forza della quale «l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova un limite nei principi generali del


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diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale» (Corte di Giustizia dell’Unione europea, 24 gennaio 2012, Grande Sezione, in causa C-282/10, Maribel Dominguez). 9.4. Non diversamente, il tenore letterale della norma censurata, nel suo radicale rigore, preclude a monte, la possibilità sia di accedere a soluzioni interpretative costituzionalmente orientate; sia a letture alternative del complessivo quadro normativo di riferimento che, in una ottica di sistema, consentano di estendere, alle procedure di definizione preventiva del sovraindebitamento del debitore non fallibile, la specifica disciplina attualmente prevista per il concordato preventivo. 10. Nel merito, le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Udine devono ritenersi fondate in riferimento all’art. 3 Cost. 10.1. Si è più volte ribadito il parallelismo che corre tra l’accordo di composizione della crisi da indebitamento, previsto dalla normativa censurata e il concordato preventivo disciplinato dalla legge fallimentare. Il primo riproduce i tratti sostanziali della seconda procedura, ma soprattutto ne ribadisce la filosofia di fondo. Pur a fronte di una chiara disomogeneità di interessi, quanto ai soggetti che possono accedervi, in entrambe le procedure viene consentita l’esdebitazione di chi è gravemente indebitato, evitando l’azione liquidatoria, frazionata o complessiva, del relativo patrimonio e favorendo, al contempo, una immediata ricollocazione del debitore all’interno del circuito economico e sociale, senza il peso delle esposizioni pregresse. 11. In questo quadro di chiara assonanza, assumono importanza primaria le previsioni che attengono al regime previsto per i crediti privilegiati e tra questi, per quelli di matrice tributaria. La regola che domina le due procedure è quella della falcidiabilità di tali poste creditorie: la pretesa alla soddisfazione integrale del credito munito di prelazione, anche di natura tributaria, può recedere sull’altare della minor convenienza della alternativa liquidatoria del relativo patrimonio di riferimento. Infatti, gli artt. 160, comma 2, e 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, per un verso, e l’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, per altro verso, riproducono pedissequamente lo stesso schema: si deroga al principio di cui all’art. 2741 cod. civ. e si determina il conseguenziale sacrificio della posizione del creditore solo perché, nel realizzare la finalità esdebitatoria, viene dato comunque rilievo imprescindibile alle prospettive di effettiva soddisfazione del credito munito di prelazione, che devono essere maggiori rispetto a quella potenzialmente derivante dalla liquidazione dei beni coperti dalla prelazione. Il tutto all’interno di percorsi procedurali comunque rimessi alla scelta deliberativa e decisiva dei creditori, subordinati a valutazioni estimative di assoluta serietà quanto alla incapienza dei beni da liquidare a garanzia del dovuto; soggetti al controllo giurisdizionale, utile a verificare la fattibilità della proposta e a definire anche i possibili conflitti concernenti la convenienza della stessa.


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11.1. La falcidia delle posizioni garantite da prelazione, del resto, costituisce un passaggio essenziale sul versante della funzionalità delle procedure preventive che mirano alla esdebitazione: il pagamento integrale dei crediti privilegiati, compresi quelli tributari, finirebbe infatti per vanificare il vantaggio legato alla definizione preventiva della crisi per quelle situazioni che, come ordinariamente accade, non risultano garantite da una capienza patrimoniale che consenta un integrale ripianamento delle esposizioni favorite dalla prelazione. Di qui il rilievo che occorre ascrivere, in tali ambiti procedurali, alla regola afferente alla falcidia dei crediti privilegiati. 11.2. Trasferendo le precedenti argomentazioni allo specifico settore delle pretese tributarie, non può non rimarcarsi, inoltre, che, in questo ambito, la possibilità di operare la falcidia, compensata dalla maggiore soddisfazione garantita rispetto alla alternativa liquidatoria, costituisce diretta espressione dei canoni di economicità ed efficienza ai quali deve conformarsi, ai sensi dell’art. 97 Cost., l’azione di esazione della PA. La possibilità di prospettare un pagamento anche parziale dell’obbligazione tributaria, pur se assistita da prelazione, a fronte della grave situazione debitoria del proponente, non adeguatamente supportata da un patrimonio tale da assicurare l’effettività della riscossione anche coattiva della relativa pretesa, garantisce il male minore, sia per il privato debitore, sia per l’amministrazione finanziaria: il primo, attraverso tale decurtazione, può evitare azioni liquidatorie complessive, se del caso anche protraendo l’attività economica sino a quel momento svolta, acquisendo anche il diritto alla esdebitazione; la seconda realizza il miglior risultato possibile alla luce della condizioni patrimoniali e finanziarie del contribuente, evitando di far ricadere sulla comunità l’onere delle conseguenze finanziarie correlate ad una escussione fortemente posta in dubbio quanto alle effettive possibilità di recuperare il credito in termini più favorevoli rispetto al quantum proposto dal debitore. 12. Rispetto alla generale falcidiabilità dei crediti privilegiati e tra questi anche dei crediti di natura tributaria, il trattamento dell’IVA, per quel che qui direttamente interessa, crea un immediato ed ingiustificato disallineamento tra le procedure in discorso, come rimarcato dal giudice rimettente. 12.1. Vale ribadire, peraltro, che in origine le disposizioni di riferimento coincidevano. Anzi, proprio il parallelismo tra le due procedure era stata la ragione fondante della disposizione censurata: ricostruite in chiave concordataria, le procedure preventive di definizione della crisi e dell’insolvenza del debitore civile non potevano che riprodurre il divieto di falcidia dell’IVA, alla stessa stregua dell’allora vigente ed identica norma dettata dall’art. 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, per il concordato preventivo. Diversamente si sarebbe creata una irrazionale distonia comportante una illegittimità costituzionale opposta a quella qui denunciata.


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12.2. La ratio della deroga, rispetto alla regola generale della falcidiabilità delle poste di credito privilegiate, contenuta nella disposizione censurata, può dunque essere ricostruita solo guardando alla norma che ne ha ispirato il contenuto: anche per la norma censurata, dunque, assumono valenza dirimente gli effetti attribuiti alla qualificazione dell’IVA come risorsa propria dell’Unione europea. Secondo una prima impostazione, asseverata anche da questa Corte (con la citata sentenza n. 225 del 2014) in relazione al tenore originario dell’art. 182-ter della legge fallimentare, il legislatore interno, tenuto al prelievo integrale di detta risorsa tributaria, non avrebbe potuto introdurre disposizioni destinate ad incidere su tale obiettivo. La falcidiabilità, dunque, doveva ritenersi consentita, nelle procedure concorsuali con finalità esdebitatorie, in via generale per tutti i tributi di esclusiva rilevanza interna; ciò non valeva, invece, per i tributi costituenti risorse dell’Unione (come previsto nell’originaria formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare), e tra questi, per l’IVA (come precisato successivamente con la novella apportata dal d.l. n. 185 del 2008), rispetto alla quale era consentita la sola dilazione del relativo adempimento, per scelta imposta da obblighi sovrannazionali, non derogabili dal legislatore italiano. Il tutto alla luce di una interpretazione del diritto dell’Unione europea in forza della quale anche la falcidia concorsuale del credito IVA altro non avrebbe rappresentato se non una indebita rinuncia integrale al prelievo di una risorsa propria dell’Unione europea, così da replicare i vizi che, sotto tale profilo, avevano portato l’Italia a patire il giudizio di incompatibilità rispetto alle indicazioni derivanti dal diritto dell’Unione europea, con riferimento ad altre disposizioni di legge sempre incidenti sull’IVA (valga, a tal fine, il riferimento a Corte di Giustizia dell’Unione europea, 17 luglio 2008, in causa C-132/06, Commissione della comunità europea contro Repubblica italiana, relativa al condono “tombale” previsto dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato», resa a ridosso della modifica normativa apportata nel 2008 all’art. 182-ter della legge fallimentare) 12.3. Con la citata sentenza Degano Trasporti sas, la Corte di Lussemburgo ha mutato, però, tale presupposto interpretativo di riferimento, ritenendo compatibile una norma interna (l’art. 160, comma 2, della legge fallimentare) che, inserita in un percorso sottoposto al sindacato giurisdizionale, consenta un pagamento parziale del credito IVA qualora sia accertato giudizialmente che tale soddisfazione garantisca comunque una acquisizione di risorse maggiore rispetto alla alternativa liquidatoria e venga consentito all’amministrazione interessata di esprimere parere contrario alla proposta del debitore oltre che di opporsi giudizialmente alla stessa, contestandone la convenienza. 12.4. Tale decisione, come già evidenziato, ha costituito la ratio ispiratrice della novella apportata dalla legge n. 232 del 2016 alla disciplina del trattamento dell’IVA nel concordato preventivo, in forza della quale oggi la falcidiabilità delle pretese tributarie, anche garantite da prelazione, non vede più deroghe espresse.


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Per altro verso, assume rilievo anche in relazione all’odierno scrutinio di legittimità costituzionale, perché, a posteriori, ha tolto ragionevolezza alla scelta adottata dal legislatore con la norma censurata nel definire l’IVA intangibile all’interno delle procedure alternative alla liquidazione prevista dalla legge n. 3 del 2012. 13. La differenza di disciplina che oggi caratterizza il concordato preventivo e l’accordo di composizione dei crediti del debitore civile non fallibile dà luogo ad una ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tale da concretare l’addotta violazione dell’art. 3 Cost. In particolare, le modifiche da ultimo citate, innovando solo in relazione alla disciplina del concordato preventivo, hanno determinato quella discrasia di sistema che in origine il legislatore aveva inteso evitare ricostruendo il contenuto della norma dettata per il sovraindebitamento del debitore non fallibile in termini sostanzialmente riproduttivi della disciplina all’epoca vigente dettata dall’art. 182-ter della legge fallimentare. 13.1. Disparità, questa, che tocca in primo luogo i debitori interessati dalle procedure in questione, giacché non v’è motivo per trattare diversamente, sotto questo profilo, i debitori legittimati ad avvalersi della procedura di concordato preventivo in quanto assoggettabili a fallimento: la ragione di fondo che giustifica la falcidia dell’IVA, al pari di quella di tutte le altre poste di credito privilegiate e tributarie, non può porsi in termini differenziati per tutte le categorie di debitori legittimati ad avvalersi di una procedura concorsuale esdebitatoria. E ciò a prescindere dal tipo di attività esercitata, imprenditoriale o no, nonché dalle dimensioni di tale attività ed all’incidenza economica che ad esse si correla, trattandosi di elementi indifferenti rispetto all’obiettivo perseguito dalle relative procedure di definizione della crisi. Semmai, sotto quest’ultimo versante, l’ordinamento dovrebbe dare il giusto rilievo al fatto che l’intera normativa dettata in tema di sovraindebitamento è stata costruita in termini di beneficio riconosciuto a tale vasta categoria di debitori, che non raramente maturano la relativa esposizione in una posizione di debolezza o comunque di asimmetria negoziale con i titolari delle relative poste creditorie. 13.2. Del resto, la differenza di trattamento sottolineata dal rimettente, trova conferma inequivoca nella normativa prevista per gli imprenditori agricoli gravemente indebitati. Questi ultimi, in ragione di quanto previsto dall’art. 23, comma 43, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito con modificazioni nella legge 15 luglio 2011, n. 111, sono legittimati ad avvalersi degli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182-bis della legge fallimentare, ai quali risulta estesa l’applicabilità del successivo art. 182-ter della legge fallimentare, con conseguente possibile falcidiabilità dei debiti tributari, compresa l’IVA. Al contempo gli stessi soggetti possono attivare anche l’accordo di composizione della crisi oggetto della odierna censura (art. 7, comma 2-bis, della legge n. 3


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del 2012), rispetto al quale, tuttavia, la norma censurata impone il divieto di falcidia dell’IVA. A fronte dunque di una situazione oggettiva sostanzialmente simile (perché il sovraindebitamento non si distanzia in termini decisivi dai concetti di crisi e insolvenza che legittimano lo strumento di cui all’art. 182-bis della legge fallimentare), gli stessi soggetti possono o no avvalersi della falcidia IVA a seconda della procedura che scelgono di attivare. 13.3. Piuttosto, la ragionevole sostenibilità della differenza di trattamento in questione va misurata guardando alla ratio sottesa al divieto di falcidia dell’IVA; ratio, come più volte ribadito, ascritta alla ritenuta indisponibilità del relativo gettito da parte del legislatore interno, siccome assertivamente imposta dal diritto dell’Unione europea. Siffatto assunto di partenza, tuttavia, è stato decisamente posto in discussione dalla più volte richiamata sentenza Degano Trasporti sas con considerazioni che, seppur rivolte alla disciplina del concordato preventivo (nel suo assetto antecedente alla riforma apportata dalla legge n. 232 del 2016), possono trasporsi in direzione della norma censurata, considerate le più volte rimarcate affinità che connotano le due procedure di riferimento: una volta chiarito che la normativa euro unitaria non impone sempre e comunque l’integrale riscossione della risorsa, anche nell’accordo di composizione della crisi previsto dalla legge n. 3 del 2012 perde coerenza quel giudizio di intangibilità del credito IVA che, in origine, ha rappresentato la ratio del divieto di falcidia della relativa pretesa tributaria. Di qui l’attuale ingiustificata dissonanza di disciplina che sussiste, in parte qua, tra le due procedure, non essendovi motivi che, secondo il canore della ragionevolezza, legittimino il trattamento differenziato cui risultano assoggettati i debitori non fallibili rispetto a quelli che possono accedere al concordato preventivo. 13.4. L’attuale assetto normativo, inoltre, crea diseguaglianze ingiustificate a caduta anche con riferimento agli stessi creditori che partecipano all’accordo di composizione della crisi del debitore non fallibile. Se per un verso – come evidenziato anche da questa Corte con la sentenza n. 225 del 2014 – prima di tale assetto, era l’indisponibilità dell’IVA, determinata dalla riconducibilità del tributo alle risorse proprie dell’Unione europea, che finiva per porre questa imposta in una posizione di assoluta intangibilità rispetto a tutte le altre voci di credito privilegiate (le quali, anche se di rango poziore, finivano per risultare posposte a siffatta pretesa tributaria); per altro verso, oggi, a seguito del richiamato orientamento della CGUE, tale situazione di preferenza non ha più ragion d’essere. 13.5. Né pare che la violazione dell’art. 3 Cost. possa ritenersi esclusa muovendo dall’assunto in forza del quale la regola della falcidiabilità dell’IVA, ora ricavabile dall’art. 182-ter della legge fallimentare, costituirebbe un beneficio accordato ai debitori fallibili in deroga al principio generale dell’indisponibilità della obbligazione tributaria. Ciò al fine di richiamare, in ragione di tale condizione presupposta, la giu-


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risprudenza di questa Corte in forza della quale un trattamento diverso di situazioni analoghe non è di per sé illegittimo allorquando quello più favorevole, evocato quale momento di comparazione nell’ottica della denunziata disparita di trattamento, assuma i caratteri della eccezionalità (ex plurimis, da ultimo, sentenze n. 177 e n. 153 del 2017 e n. 111 del 2016). 13.5.1. Tale assunto non è condivisibile. Non convince l’affermazione di principio che assegna natura eccezionale alla regola della falcidiabilità dell’IVA, attualmente prevista dall’art. 182-ter della legge fallimentare, anche in sede di concordato preventivo (sul punto, le sentenze della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 760 del 2017 e n. 26988 del 2016). A ben vedere tale ultima disposizione non prevede letteralmente la possibilità di procedere ad una soddisfazione parziale dell’IVA; piuttosto, non replica più l’originale divieto di falcidia previsto, tra gli altri, per tale tributo, in un quadro di generale falcidiabilità dei crediti tributari, chirografari e privilegiati. L’art. 182-ter della legge fallimentare non detta, dunque, una specifica regola che possa, in via di eccezione, derogare ad un principio generale. Costituisce, per contro, diretta espressione di una indicazione generale, altro non rappresentando che una diretta declinazione, in relazione alle pretese tributarie, della regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati, prevista dall’art. 160, comma 2, della stessa legge in tema di concordato preventivo. Principio, quest’ultimo, che, come già rimarcato, deve ritenersi espressione tipica delle procedure concorsuali, maggiori o minori, con finalità esdebitatoria, tanto da risultare replicato anche per gli strumenti di definizione anticipata delle situazioni di sovraindebitamento prevista dalla legge n. 3 del 2012. 14. Di qui la fondatezza della questione posta in riferimento all’art. 3 Cost. Resta assorbita la censura riferita all’art. 97 Cost. 15. L’accoglimento della questione porta, in coerenza, all’ablazione delle parole «all’imposta sul valore aggiunto» dal terzo periodo del comma 1 dell’art. 7 della legge n. 3 del 2012. P.Q.M. La corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), limitatamente alle parole: «all’imposta sul valore aggiunto». (Omissis)


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(1) L’incostituzionalità del divieto di falcidia dell’IVA nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento: un effetto indotto della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Sommario: 1. La sentenza della Corte Costituzionale. – 2. Il trattamento del credito IVA negli accordi di composizione delle crisi da sovraindebitamento e nel concordato preventivo. – 3. La pregiudiziale impossibilità di un’interpretazione comunitariamente orientata della disciplina. – 4. La “transazione fiscale” quale tertium comparationis nel giudizio di costituzionalità. – 5. Il revirement della Consulta come effetto indotto della sentenza della Corte di Giustizia. – 6. Falcidia dei crediti privilegiati ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria. – 7. Osservazioni a margine sugli effetti e sulla portata della sentenza. – 8. Conclusioni e prospettive alla luce del nuovo “codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza”. Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia (C-546/14, Degano Trasporti) in cui è stata riconosciuta l’ammissibilità di una procedura che preveda la facoltà, in capo all’imprenditore, di proporre a determinate condizioni il pagamento frazionato dell’IVA, si è aperta una divaricazione tra la procedura di concordato preventivo e la procedura di composizione delle crisi da sovra-indebitamento: nella prima lo stesso Legislatore ha riconosciuto tale facoltà, nella seconda, invece, è rimasto inalterato il divieto di falcidia. Con la sentenza in commento la Corte Costituzionale, concludendo per l’incostituzionalità di tale divieto, ha eliminato una disparità di trattamento ormai del tutto ingiustificata. By decision of the Court of Justice of the European Union (C-546/14, Degano Trasporti) a partial payment of a VAT claim by an insolvent trader can be proposed in the framework of an agreement among creditors in insolvency procedures. In the same way, Constitutional Court of Italy lifted the prohibition of the presentation of a partial payment of this claim in the settlement procedure to remedying situations of over-indebtedness. Therefore, the unjustified difference in treatment between these two procedures has finally been removed.

1. La sentenza della Corte Costituzionale. – Per effetto della riforma operata dalla legge di bilancio per il 2017 (1), il “nuovo” art. 182-ter della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 26; di seguito l. fall.) consente all’imprenditore in crisi di proporre all’Amministrazione finanziaria, nel concordato preventivo, il pagamento frazionato del credito IVA, all’esito di un

(1) Cfr. art. 1, comma 81, l. 11 dicembre 2016, n. 232.


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procedimento interinale un tempo denominato “Transazione fiscale” ed oggi rubricato “Trattamento dei crediti tributari e contributivi” (2). La novella – come è noto – è intervenuta a seguito della pronunzia della Corte di Giustizia (3) in cui venne riconosciuta l’ammissibilità di una disciplina che prevedesse, nel rispetto di determinate condizioni, una proposta di concordato avente ad oggetto il pagamento parziale del credito IVA. I due interventi – giurisprudenziale e normativo – non hanno però inciso sistematicamente sul quadro generale, essendo i relativi effetti limitati al solo alveo delle procedure previste e disciplinate dalla legge fallimentare (concordato preventivo ed anche accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. (4)). In particolare, il divieto di falcidia previsto per gli imprenditori c.d. “sotto-soglia” dall’art. 7, comma 1, l. 27 gennaio 2012, n. 3 è rimasto, sino ad oggi, inalterato. Con la sentenza in commento la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo divieto, eliminando, di conseguenza, l’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti c.d. “fallibili” – ai sensi dall’art. 1, comma 2, l. fall. – che possono proporre, in seno al concordato ed agli accordi di ristrutturazione, anche il pagamento frazionato dell’IVA ed i soggetti “non fallibili”, cui invece tale facoltà era (fino ad oggi) preclusa. La sentenza della Consulta è, quindi, apprezzabile per diverse ragioni. Senza dubbio importante è – come si vedrà – l’avere individuato nel concordato preventivo il tertium comparationis per riconoscere sussistente la violazione dell’art. 3 Cost. È poi importante perché tale pronuncia rappresenta per la Corte un vero e proprio revirement rispetto all’orientamento da essa assunto alcuni anni prima; revirement il cui effetto indotto – come riconosce proprio la Consulta – promana dalla sentenza Degano della Corte di Giustizia.

(2) Per un quadro generale sull’argomento si rinvia a Paparella, Il nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter l.f.: dalla transazione fiscale soggettiva e consensuale alla retrogradazione oggettiva, in Rass. Trib., 2018, 317 ss. (3) Corte Giust. 7 aprile 2016, Degano Trasporti, C-546/14, di seguito richiamata come sentenza Degano. Diversi i commenti in merito, tra i quali si richiamano: Boria, La pronuncia europea sulla falcidia dell’IVA, in Riv. Dir. Trib., 2016, 461 ss.; Ficari, La Corte UE ammette la riduzione dell’IVA mediante la transazione fiscale, in Corr. Trib., 2016, 1549 ss.; Ferro, Falcidia del credito IVA nel concordato preventivo senza transazione fiscale, in Fallimento, 2017, 143 ss. (4) Si vedano infatti i commi 5 e 6 dell’art. 182-ter, l. fall.


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La sentenza in commento conserva, inoltre, la propria attualità pur collocandosi in una fase di transizione il cui termine finale coinciderà con l’entrata in vigore delle nuove disposizioni previste in materia dal nuovo codice delle crisi d’impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14). Da un lato, infatti, l’entrata in vigore del codice originariamente prevista per il 15 agosto 2020 è stata – per quanto interessa in questa sede – rinviata al 1° settembre 2021 (5). Inoltre, ai sensi dell’art. 390, commi 1 e 2, d.lgs. 14/2019, le procedure concorsuali – incluse le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento – instaurate e pendenti alla data di entrata in vigore del codice, saranno disciplinate dalla vigente legge fallimentare: di conseguenza, per tali procedure resterà inalterata l’importanza e resteranno impregiudicati gli effetti della sentenza della Consulta. In ogni caso, dal momento che la riforma delle procedure concorsuali inciderà profondamente sulla materia oggetto della sentenza in commento, al termine del presente contributo si darà brevemente conto delle ricadute del d.lgs. 14/2019 sulla disciplina del sovraindebitamento: si segnala, comunque, sin da ora, che le norme di tale decreto potrebbero essere soggette ad ulteriori modificazioni ed integrazioni in corso d’opera (6). 2. Il trattamento del credito IVA negli accordi di composizione delle crisi da sovraindebitamento e nel concordato preventivo. – La disciplina del sovraindebitamento è stata introdotta a fronte della dilagante crisi economica che ha visto coinvolti non solo i settori produttivi – su tutti i livelli – ma anche i soggetti “comuni” (scilicet, i “consumatori”).

(5) Ai sensi dell’art. 5, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, che modifica l’art. 389, d.lgs. 14/2019. Come si legge nella relazione illustrativa, la posticipazione dell’entrata in vigore della riforma si è resa necessaria a causa dell’«attuale emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19». (6) Dispone l’art. 1, l. 8 marzo 2019, n. 20 che «Il Governo, con la procedura indicata al comma 3 dell’articolo 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, entro due anni dalla data di entrata in vigore dell’ultimo dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega di cui alla medesima legge n. 155 del 2017 e nel rispetto dei principi e criteri direttivi da essa fissati, può adottare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi medesimi». Si legge, inoltre, nella relazione illustrativa all’art. 5, d.l. 23/2020 che, a seguito della posticipazione dell’entrata in vigore del codice al 1° settembre 2021, «tutti gli operatori avranno avuto a disposizione un anno di tempo in più per procedere all’approfondimento degli aspetti più innovativi del Codice, come eventualmente modificato dal Decreto Correttivo».


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L’esigenza che ha ispirato la nuova disciplina (7) era quella di elaborare un comparto di procedure che si discostassero dal paradigma dell’esecuzione individuale per allinearsi a quella concorsuale, anche per quei soggetti che, per ragioni oggettive (art. 1, comma 2, l. fall.) o soggettive (art. 1, comma 1, l. fall.) erano esclusi non solo dal fallimento ma anche dalle procedure alternative quali, appunto, il concordato preventivo (e quindi la transazione fiscale). Tra le tre procedure introdotte dalla l. 3/2012 (8) quella che assume rilevanza nella sentenza della Consulta è l’accordo di composizione della crisi, previsto dal comma 1 dell’art. 7. Si tratta, in buona sostanza, di una proposta che l’imprenditore od il consumatore (9) possono presentare ai creditori al fine di ristrutturare i propri debiti mediante diverse modalità (dalla dilazione di pagamento al pagamento parziale dei crediti, anche privilegiati); nel caso di raggiungimento dell’accordo, è previsto, ai fini dell’omologazione, l’intervento del giudice. Come già anticipato, però, la legge prevedeva, come limite invalicabile, per i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea (10), per le ritenute operate e non versate e per l’IVA la sola possibilità, in capo al debitore, di proporre al creditore-Amministrazione una dilazione di pagamento con un implicito, ma chiarissimo, divieto di falcidia. Un divieto che ricalcava – testualmente – il testo dell’art. 182-ter l. fall. come risultante a seguito della novella operata dall’art. 32, comma 5, l. 29 novembre 2008, n. 185, che eliminò, a sua volta, ogni dubbio circa l’infalcidiabilità dell’IVA nel concordato preventivo (11).

(7) Sulle ragioni che hanno condotto all’approvazione della l. 3/2012 si vedano MasSovraindebitamento (procedure di composizione delle crisi da), in Dig. Disc. Priv., sez. Comm., Torino, 2015, 522 ss.; Soldati, Il sovraindebitamento alla prova della riforma del diritto fallimentare, in Contratti, 2016, 628 ss.; Rispoli Farina, La nuova disciplina del sovraindebitamento del consumatore, in Dir. Fall., 2014, 643 ss. Si veda anche Pacchi, La composizione del sovraindebitamento nell’ordinamento italiano, in Sarcina, Il sovraindebitamento civile e del consumatore. Sistemi giuridici europei alla prova del dialogo, Milano, 2014, 61 ss. (8) Oltre a quella di cui al testo, la l. 3/2012 disciplina pure il piano del consumatore (alternativo alla procedura di composizione) e la liquidazione del patrimonio. (9) Si veda l’incipit del comma 1-bis. (10) Per il “catalogo” delle risorse proprie dell’Unione si veda l’art. 2 della decisione del Consiglio dell’Unione Europea 2014/335/UE-Euratom. (11) Sulle ragioni dell’introduzione di questo divieto si rinvia alla estesa trattazione di Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, Padova, 2017. turzi,


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In effetti, poiché l’accordo di composizione era stato concepito secondo la medesima filosofia che ispirava il concordato, la previsione del divieto di pagamento parziale era, a suo tempo, agevole da giustificare, dal momento che le esigenze che tale divieto perseguiva erano le medesime tanto nel concordato preventivo quanto nelle procedure previste per il sovraindebitamento. Tuttavia, i problemi di coordinamento tra le due procedure emersero sin da subito, poiché a differenza di quanto si verificava per il sovraindebitamento, per l’imprenditore “fallibile” che avesse inteso comunque proporre un piano di concordato con falcidia dei crediti IVA si prospettava una possibile alternativa alla transazione fiscale. Si riteneva, infatti, che la procedura di cui all’art. 182-ter l. fall. non rappresentasse una via obbligata per il trattamento dei crediti fiscali, potendo l’imprenditore predisporre un piano, al di fuori della transazione, in applicazione delle regole generali che la disciplina del concordato preventivo dedica al pagamento parziale dei crediti privilegiati, in modo da evitare l’applicazione del divieto di falcidia. Sulla legittimità di questo procedimento “alternativo” e, quindi, sulla “facoltatività” della (allora denominata) transazione fiscale, a lungo si era discusso (12). Il dibattito, però, trovò una battuta d’arresto in due articolate pronunzie della Corte di Cassazione (13) in cui si concluse che anche al di fuori della transazione fiscale – ed al di là delle regole generali sulla falcidiabilità dei crediti privilegiati – operasse il divieto di disporre il pagamento frazionato dell’IVA. Tanto ciò è vero che la sentenza Degano della Corte di Giustizia prendeva le mosse proprio da un concordato preventivo privo di transazione fiscale, sicché il giudice europeo, in definitiva, finì per pronunziarsi (non già sull’art. 182-ter l. fall. ma) sull’art. 160, l. fall., quale norma generale sulla falcidia dei crediti privilegiati. 3. La pregiudiziale impossibilità di un’interpretazione comunitariamente orientata della disciplina. – Da quanto sopra rilevato è possibile ricavare, in via preliminare, le ragioni per le quali la pronuncia di incostituzionalità

(12) Si vedano, ad esempio, Stasi, Obbligatorietà o facoltatività della transazione fiscale?, in Fallimento, 2011, 85 ss.; Verna, La transazione fiscale quale sub-procedimento facoltativo nel concordato preventivo, ivi., 2010, 142 ss.; Attardi, Inammissibilità del concordato preventivo in assenza di transazione fiscale, 2009, 6435 ss. (13) Cass. sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931 e n. 22932.


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del divieto di falcidia fosse, negli accordi di composizione delle crisi, l’unica soluzione possibile. La Consulta – e, prima ancora, il giudice rimettente – pregiudizialmente ha escluso la possibilità di procedere ad un’interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 7, comma 1, l. 3/2012. Ciò alla luce del mutato quadro normativo a seguito della pronunzia Degano e delle riforme che hanno interessato, di conseguenza, il concordato preventivo. Si tratta in effetti di una conclusione cui già la dottrina era pervenuta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia, sottolineando il fatto che il divieto di falcidia previsto nell’art. 7, l. 3/2012 fosse chiaro ed incondizionato e, quindi, insuperabile in via ermeneutica (14). È proprio la Consulta a riconoscere l’impossibilità d’interpretare la norma se non nel senso in cui depone il testo, poiché, diversamente opinando, si finirebbe per “stravolgere il significato letterale” della disposizione. Trattasi di una conclusione perfettamente in linea con la giurisprudenza costituzionale in materia di interpretazione conforme (15) e direttamente riconducibile alla struttura della sentenza Degano. Infatti – e come risulta pure dal dispositivo della pronunzia europea – in quella sentenza la Corte di Giustizia non si è mai espressa per l’incompatibilità europea del divieto di falcidia. Al contrario, il giudice europeo ha soltanto riconosciuto come la falcidiabilità dell’imposta non fosse contraria ai parametri invocati dal giudice rimettente e, principalmente, all’interesse finanziario dell’Unione (16). D’altra parte, come già anticipato, nel sovraindebitamento non esiste una procedura alternativa per procedere alla ristrutturazione dei crediti tributari, onde in nessun caso era possibile sostenere che – fermo il divieto – la possi-

(14) G. Selicato, Composizione delle crisi da sovraindebitamento e transazione fiscale, in Dir. Fall., 2017, 1401 ss.; D’Orazio, Il nuovo appeal delle procedure da sovraindebitamento nella riforma in itinere, in Fallimento, 2016, 1122 ss. (15) Su tali problematiche si rinvia alla trattazione di Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte Costituzionale, oggi, e l’interpretazione “conforme a”, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe Floridia, Napoli, 2009, 413 ss. (16) I parametri erano, in effetti, diversi e di diversa estrazione (art. 4 TUE, artt. 2, 250, par. 1 e 273 della direttiva 2006/112/CE, c.d. direttiva IVA) ma è la struttura stessa della sentenza a confermare come il punto di partenza fosse proprio l’obbligo, in capo agli Stati membri, “di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione” (punto 21 della sentenza).


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bilità di proporre il pagamento frazionato potesse essere ricercata in un’altra sede. 4. La “transazione fiscale” quale tertium comparationis nel giudizio di costituzionalità. – Accertata l’impossibilità di risolvere la questione di costituzionalità per via interpretativa, la Consulta procede ad esaminare la prospettata violazione dell’art. 7, comma 1, l. 3/2012 con l’art. 3 Cost. (17). Sotto tale profilo, la lettura della sentenza è interessante proprio per la progressione “geometrica” attraverso cui si snodano i passaggi fondamentali per la ricerca del tertium comparationis. Questo parametro viene individuato dalla disciplina della “transazione fiscale” (18) di cui all’art. 182-ter l. fall., nel testo risultante a seguito della riforma del 2017. La Corte reputa quindi necessario verificare se l’accordo di composizione sia riconducibile, quanto alla natura giuridica, al concordato preventivo: solo in caso d’esito positivo di tale esame è possibile infatti concludere per l’esistenza di una disparità di trattamento tra i debitori “sovraindebitati” e quelli “fallibili”. Premessa la riconducibilità dell’accordo di composizione al topos delle procedure concorsuali (19), il giudice delle leggi conclude per la soluzione

(17) La Corte reputa, in conclusione, assorbita la questione relativa il prospettato contrasto con l’art. 97 Cost. In ogni caso, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, almeno incidentalmente la Consulta si pone pure il problema di verificare in che termini il divieto di falcidia finisca con l’incidere pure sulla possibilità, per l’A.f., di valutare la convenienza economica di una proposta di falcidia rispetto all’alternativa liquidatoria e, di conseguenza, con il vulnerare i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. (18) Malgrado la disposizione richiamata nel testo abbia mutato la sua rubrica, si continuerà a far utilizzo di questo sintagma. Del resto, il nuovo codice delle crisi d’impresa ricorre proprio alla nozione “Transazione fiscale” nella rubrica dell’art. 63, d.lgs. 14/2019 e dalla bozza del decreto correttivo al codice – approvato dal Governo, in esame preliminare, il 13 febbraio 2020 – si evince l’intenzione del Legislatore di preservare se non il termine “fiscale”, quantomeno il termine “transazione” [cfr. art. 9, comma 3, lett. b) e c) della bozza di decreto correttivo]. (19) In ciò quindi superando il dibattito sorto in dottrina su tale aspetto. Favorevoli alla natura concorsuale della procedura di composizione erano, ad esempio, Masturzi, op. cit., 631; Di Marzio, Introduzione alle procedure concorsuali in rimedio del sovraindebitamento, in Di Marzio (a cura di), La “nuova composizione della crisi da sovraindebitamento, Milano, 2013; Guiotto, Nuove modifiche alla disciplina delle crisi da sovraindebitamento, in Fallimento, 2012, 1277 ss.; Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono una “procedura concorsuale”: la cassazione completa il percorso, in Fallimento, 2018, 984 ss. Per l’orientamento


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positiva, nel senso che la natura dell’accordo è comparabile a quella del concordato preventivo. Diverse sono le caratteristiche comuni tra le due procedure (20) ma su una di esse è opportuno soffermarsi in questa sede: in entrambe è, infatti, previsto l’intervento di un soggetto indipendente (21) che assicuri, con una valutazione comparativa di stampo prognostico, che il pagamento falcidiato dei crediti privilegiati rappresenti la migliore alternativa rispetto al trattamento cui andrebbero soggetti tali crediti in sede di liquidazione, quale conseguenza del mancato perfezionamento dell’accordo. Questa circostanza è fondamentale, oltre che per il giudizio di comparabilità tra le due procedure, anche per ragioni eminentemente procedurali. Infatti già la Corte di Giustizia, nella sentenza Degano, riconobbe l’ammissibilità di un piano che prevedesse il pagamento integrale solo a condizione che un soggetto terzo ed indipendente attestasse che il credito non avrebbe ricevuto un trattamento migliore in sede di liquidazione. Questa valutazione comparativa assolve al fondamentale scopo di consentire ai creditori privilegiati di verificare se la proposta concordataria sia, o meno, più conveniente di quella liquidatoria. Con specifico riguardo ai crediti tributari, peraltro, la valutazione comparativa è lo strumento che consente all’Amministrazione di verificare, in via

contrario cfr., ad esempio, Lo Cascio, Composizione della crisi da sovraindebitamento, in Fallimento, 2013, 802 ss., peraltro assai critico sulla configurazione della procedura così come prospettata dal Legislatore; nello stesso senso si veda anche il commento all’art. 7, l. 3/2012, in Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 2030 ss., in cui si avanza la tesi che la procedura di composizione sarebbe configurabile come un tertium genus tra la procedura esecutiva individuale e le procedure concorsuali, proprio per i suoi connotati negoziali. (20) Le affinità sono sia funzionali (limitare ed evitare il ricorso ad una soluzione demolitoria qual è la liquidazione) sia strutturali (entrambe le procedure sono compatibili con la separazione in classe dei creditori e, comunque, non hanno ad oggetto un contenuto predeterminato dal legislatore; così come entrambe le procedure sono sottoposte al controllo giurisdizionale) sia procedimentali (in entrambe le procedure l’intervento giurisdizionale si scompone in una preventiva fase di ammissibilità ed in una successiva fase di eventuale omologazione) sia effettuali (entrambe le procedure comportano il blocco delle azioni esecutive, impongono un parziale spossessamento della capacità di disporre dei beni, comportano la cristallizzazione degli accessori). (21) Come già anticipato, nella procedura di composizione tale soggetto è l’organismo di composizione delle crisi. Nel concordato preventivo, invece, è un professionista che soddisfi i requisiti richiesti dalla legge fallimentare per la nomina a curatore ex art. 67, comma 3, lett. d) l. fall.


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prognostica, quale delle due alternative (concordato o liquidazione) sia quella economicamente più conveniente per il creditore-fisco. In buona sostanza, la valutazione del professionista, rappresentando il fondamento della decisione amministrativa finale, consente di ricondurre l’operato dell’Amministrazione nell’ambito dell’art. 97 Cost. e, principalmente, dei principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, oltre che di quello di trasparenza (22). L’affinità tra la procedura di sovraindebitamento ed il concordato preventivo è, quindi, sia funzionale che strutturale: se, infatti, la Corte di Giustizia aveva ritenuto, a suo tempo, decisiva la presenza di un soggetto che svolgeva una funzione di attestazione e se nel sovraindebitamento un simile soggetto è, comunque, identificabile negli organi di composizione della crisi, ecco trovata, in definitiva, la quadratura del cerchio. 5. Il revirement della Consulta come effetto indotto della sentenza della Corte di Giustizia. – Il secondo tema d’indagine della Corte riguarda l’esame della propria pregressa giurisprudenza sulla costituzionalità del divieto di falcidia previsto dall’art. 182-ter l. fall. formatasi antecedentemente alla sentenza della Corte di Giustizia. Nell’arresto del 2014 (23), infatti, la Consulta ritenne esente dalle censure di incostituzionalità l’art. 182-ter l. fall. proprio in ragione del principio di intangibilità del credito IVA, ricavato direttamente dalla natura dell’imposta. All’esito di un articolato excursus normativo, infatti, la Corte riconobbe, in quella sede, che l’IVA rappresentava per lo Stato un tributo “indisponibile”, in quanto costituente risorsa propria dell’Unione, tale da giustificare “i vincoli derivanti per gli Stati membri nell’accertamento e nella riscossione dell’imposta in esame”. La costituzionalità dell’infalcidiabilità dell’IVA trovava quindi la propria (unica?) giustificazione proprio sulla natura dell’imposta quale “risorsa pro-

(22) Ovviamente l’ultima parola spetta pur sempre all’Amministrazione, che non sarà vincolata alle risultanze della valutazione comparativa. Tuttavia, è chiaro che essa dovrà pur sempre motivare le ragioni per le quali ha inteso discostarsene: sul punto, cfr. Ficari, La Corte, cit., 1553 ss. (23) Corte Cost. 15 luglio 2014, n. 225. In argomento cfr. Mauro, L’intangibilità del credito IVA nel concordato preventivo: la criticabile decisione della Corte Costituzionale e l’opportunità del rinvio alla Corte di Giustizia, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2014, 85 ss.


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pria” dell’Unione (24), da cui doveva ricavarsi un generale principio di intangibilità dell’imposta. La sentenza del 2014 poteva prestarsi a diverse letture: così, si ritenne che la costituzionalità del divieto di falcidia non precludeva all’imprenditore la facoltà di ricorrere al concordato senza transazione, non essendo estensibile il ragionamento della Corte Costituzionale anche a tale fattispecie (25). Come già anticipato, tuttavia, era proprio la giurisprudenza della Corte di Cassazione a precludere l’accesso a tale alternativa (supra, par. 2). In ogni caso, anche a volerla ritenere ammissibile, questa soluzione non poteva comunque giovare ai debitori che accedessero alla procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento; tanto ciò è vero che, all’indomani della riforma che ha eliminato il divieto di falcidia nella “transazione fiscale”, parte della dottrina auspicò un revirement della Corte Costituzionale alla luce della innegabile disparità di trattamento che derivava dalla permanenza del divieto in tali procedure (26). Così è stato. Nella sentenza in commento la Consulta riconosce come il comparto argomentativo della Corte di Giustizia espresso nella sentenza Degano ed in via di consolidamento nella giurisprudenza europea (27) rappresenti il “punto di svolta”, dal momento che: da un lato il giudice europeo ha riconosciuto la compatibilità con l’esigenza di garantire una riscossione effettiva dell’IVA norme che consentano una parziale riscossione del dovuto in presenza di presupposti procedurali che garantiscano comunque la miglior soddisfazione dell’interesse finanziario dell’Unione rispetto all’alternativa liquidatoria;

(24) L’inquadramento dell’IVA come “risorsa propria” dell’Unione è tuttora oggetto di dibattito in dottrina, essendo controverso se tale natura vada riconosciuta all’imposta in quanto tale o soltanto alla quota-parte del tributo destinato al bilancio unionale. In argomento, cfr. Del Federico-Ariatti, Esdebitazione ed IVA: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo nel concordato preventivo, in Fallimento, 2016, 448 ss., e Cardillo, La transazione fiscale, Roma, 2016, 80 ss. (25) Stasi, L’infalcidiabilità dell’iva nel concordato preventivo alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale, in Fallimento, 2015, 33 ss. (26) Del Federico-Ariatti, L’irragionevole infalcidiabilità dell’IVA nella composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Fallimento, 2018, 1299 ss. (27) Come testimonia anche la sentenza della Corte di Giustizia del 17 marzo 2017, Identi, C-493/15, avente ad oggetto l’istituto della c.d. esdebitazione ex artt. 142 ss., l. fall.


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dall’altro – e di conseguenza – la Corte di Giustizia ha posto in discussione quello che la stessa Consulta considerava, nel 2014, un principio generale ed insuperabile e, cioè, l’indisponibilità dell’IVA, ritenuta in precedenza di diretta derivazione dalla natura di finanziamento europeo dell’imposta. Sulla base di queste premesse ed attestata l’affinità tra il concordato preventivo e l’accordo di composizione, la presenza del divieto di falcidia in quest’ultima procedura ha perduto ogni giustificazione. 6. Falcidia dei crediti privilegiati ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria. – Ferma, da un lato, la riconducibilità dell’accordo di ristrutturazione al concordato preventivo e, dall’altro, la sussistenza dei presupposti per superare il proprio pregresso orientamento, la Corte affronta un’ulteriore circostanza virtualmente ostativa all’incostituzionalità del divieto di falcidia per violazione dell’art. 3 Cost. Si potrebbe infatti sostenere che, essendo il riconoscimento della possibilità di falcidiare l’IVA una deroga al principio generale dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, non sarebbe possibile lamentare alcuna disparità di trattamento. Ciò in quanto mentre l’art. 7, comma 1, l. 3/2012 contempla la regola (infalcidiabilità), il “nuovo” testo dell’art. 182-ter, l. fall., contemplerebbe l’eccezione (falcidiabilità), in quanto tale, di stretta interpretazione. Il “timore” di una simile chiave di lettura non rappresenta solo uno scrupolo teorico avanzato dalla Corte o, al limite, una excusatio non petita (28). Al contrario, è un dato di fatto che, in passato, specie la prassi (29) e parte della dottrina (30) avevano fatto leva, sia pure con sfumature diverse, proprio sul principio dell’indisponibilità per escludere l’ammissibilità di un piano che avesse ad oggetto trattamento dei crediti tributari al di fuori del perimetro della transazione fiscale.

(28) La stessa Consulta, in effetti, nel precedente n. 225 del 2014 fece riferimento al principio dell’indisponibilità. (29) Cfr. le circolari dell’Agenzia delle Entrate n. 40/E del 18 aprile 2008 e n. 3/EV del 5 gennaio 2009. (30) Gaffuri, Aspetti problematici della transazione fiscale, in Rass. Trib., 2011, 1115 ss. Attardi, Inammissibilità del concordato preventivo in assenza di transazione fiscale, in Fisco, 39/2009, 6435 ss.; La Croce, La transazione fiscale nell’intreccio di norme generali, norme speciali e norme costituzionali: è possibile uscire dal labirinto?, in Fallimento, 2008, 1408 ss.


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La Corte reputa comunque di poter superare tale obiezione sulla base della circostanza che la falcidiabilità dell’IVA, prevista ad oggi dal nuovo testo dell’art. 182-ter, l. fall., non rappresenta un’eccezione (31) ma il corollario della regola prevista dall’art. 160, l. fall. in relazione alla generale falcidiabilità dei crediti privilegiati, quale è, appunto, il credito IVA. Per cui, dal momento che anche nella procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento è prevista, come regola generale, la falcidiabilità di tali crediti, non sarebbe corretto evocare il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria (32). 7. Osservazioni a margine sugli effetti e sulla portata della sentenza. – Le conclusioni cui la Corte è pervenuta sono senza dubbio condivisibili ma emergono dalla sentenza alcuni aspetti problematici che meritano di essere evidenziati. 7.1. Come prima illustrato (supra, par. 2), la l. 3/2012 disciplina tre procedure per i soggetti (imprenditore e consumatore) considerati “non fallibili”. La Consulta, in coerenza con l’oggetto della questione pregiudiziale sollevata dal giudice rimettente, prende in considerazione esclusivamente l’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, di cui al comma 1 dell’art. 7, senza, al contempo, esaminare la medesima problematica con rife-

(31) In effetti, altra parte della dottrina riteneva che, fermo restando il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, era proprio il carattere eccezionale dell’art. 182-ter l. fall. a giustificarne una deroga nello specifico ambito della transazione fiscale; cfr., p. es., Giordano, Effetti della transazione fiscale “fuori” e “dentro” il concordato preventivo, in Dir. Fall., 2011, 5 ss. (32) Va rilevato come la Corte non prenda alcuna posizione circa l’esistenza, o meno, del principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nel nostro ordinamento, limitandosi a precisare che, nella specie, tale principio non poteva essere invocato. Tale aspetto merita di essere evidenziato, alla luce degli indirizzi dottrinari svalutativi dell’effettiva utilità di tale principio (cfr. Trivellin, Prime riflessioni sul prefigurato “consolidato triennale preventivo”, in Riv. Dir. Trib., 2002, 373 ss.; Lupi, Insolvenza, fallimento e disposizione del credito tributario, in Dialoghi Trib., 2006, 457 ss.). Sembrerebbe, invece, che – sia pure tra le righe – la Corte abbia confermato l’esistenza e la portata del principio di indisponibilità (qualificandolo, sia pure in un’affermazione dal contenuto esemplificativo, come un “principio generale”). In effetti – come è stato osservato – la chiave di lettura, alla luce del principio dell’indisponibilità, poteva essere un’altra: non è infatti da escludersi che la generale falcidiabilità dei crediti tributari rappresenti essa stessa una deroga rispetto a tale principio. In argomento, cfr. Costanzo, Il trattamento concorsuale dei debiti IVA nel concerto tra giurisdizioni, in Riv. Dir. Trib., Supp. Online del 31 gennaio 2020.


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rimento al piano del consumatore, procedura per certi versi affine alla prima e disciplinata nel comma 1-bis dell’art. 7 (33). In particolare, questa procedura, prevista esclusivamente per il consumatore (34) è alternativa alla prima, nel senso che il consumatore sovraindebitato può decidere o di ricorrere ad un accordo di composizione oppure, appunto, ad un piano che, ai sensi dell’art. 7, comma 1-bis, l. 3/2012, contiene “le previsioni di cui al comma 1”, cioè dell’accordo. Orbene, è evidente che il rinvio “al comma 1” presuppone anche il rinvio al divieto di pagamento frazionato dell’IVA, così come previsto dal comma 1 prima della dichiarazione di incostituzionalità. Tanto è confermato dal fatto che in base all’art. 12-bis, comma 3, della medesima l. 3/2012, la verifica della fattibilità del piano del consumatore ha ad oggetto, tra l’altro, anche il pagamento dei crediti “di cui all’articolo 7, comma 1, terzo periodo”, vale a dire l’IVA, i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea e le ritenute operate e non versate. Tuttavia, poiché l’oggetto della sentenza in commento è limitato, ratione materiae, alla procedura di composizione, è necessario chiedersi se questo divieto sia “caduto” anche per il piano del consumatore. Potrebbe al riguardo sostenersi che questo sia solo un “falso” problema, dal momento che il “consumatore”, nel senso inteso dalla l. 3/2012, è un soggetto estraneo all’attività di impresa od all’esercizio di arti e professioni e non è, quindi, soggetto passivo IVA ai sensi degli artt. 4 e 5, DPR 26 ottobre 1972, n. 633. Tale obiezione non coglierebbe, tuttavia, nel segno. La Suprema Corte di Cassazione, infatti – al termine di un articolato esame delle disposizioni della l. 3/2012 – ha riconosciuto come nell’ambito del piano del consumatore ben possano rientrare anche i debiti fiscali, in forza, peraltro, del disposto dell’art. 12-bis, comma 3, l. 3/2012 (35).

(33) Su tale procedura si vedano Lucci, Piano del consumatore e sovraindebitamento: alcuni profili problematici, in Fallimento, 2016, 1281 ss.; Crivelli, Profili applicativi delle procedure di accordo e piano del consumatore, in Dir. Fall., 2017, 526 ss. (34) Definito, dall’art. 6, comma 2, lett. b), l. 3/2012, come “il debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. (35) In buona sostanza, l’ipotesi esaminata dalla Corte è quella di un soggetto che o sia stato soggetto passivo IVA (e non lo sia più al momento della redazione del piano) oppure sia ancora soggetto passivo IVA ma il piano riguarda sia debiti estranei all’esercizio dell’impresa sia, appunto, debiti fiscali. Cass. sez. I, 1° febbraio 2016, n. 1869, con commenti di Cerri, La


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D’altra parte, al fine di superare un eventuale contrasto, si potrebbe pure sostenere che per il piano del consumatore continui a valere il divieto di falcidia, dal momento che tale procedura, pur presentando un’affinità contenutistica con l’accordo di composizione, è pur sempre strutturalmente diversa e non è assimilabile, come l’altra, al tertium comparationis, cioè al concordato preventivo (36). Così opinando, però, si prospetterebbe per il consumatore una peculiare alternativa: o proporre ai creditori un accordo di ristrutturazione (con falcidia) o proporre al giudice un piano (senza falcidia), ciò che sembra poco coerente non solo con lo spirito organico della legge, ma anche con la stessa interpretazione che la Corte Costituzionale fornisce del dato normativo (37).

Suprema Corte definisce la nozione di consumatore nella composizione della crisi da sovraindebitamento, in Fallimento, 2016, 1257 ss.; Trubiani, Gli angusti orizzonti della nozione di consumatore nella disciplina della crisi da sovraindebitamento, in Nuova Giur. Civ., 2016, 989 ss.; Capoccetti, La nozione di “consumatore” nella disciplina della crisi da sovraindebitamento, in Giur. It., 2016, 817 ss. (36) Se non altro perché mentre la procedura di composizione si sostanzia in un accordo tra il debitore ed i creditori, il piano del consumatore è una procedura che si svolge direttamente dinanzi al giudice; inoltre, in presenza di determinati presupposti, tale procedura può condurre ad un vero e proprio cram down, che consente di prescindere, ai fini dell’omologazione, dall’opposizione di uno dei creditori. Tanto ciò è vero che, secondo la dottrina, il piano del consumatore si configurerebbe come un concordato c.d. “coattivo” (Manente, Gli strumenti di regolazione della crisi da sovraindebitamento dei debitori non fallibili. Introduzione alla disciplina della l. 27 gennaio 2012, n. 3, dopo il “Decreto Crescita-bis”, in Dir. Fall., 2013, spec. 593 ss.). (37) Basti pensare allo “spazio” che la Corte dedica in sentenza all’analisi della posizione in cui versavano gli imprenditori agricoli prima della dichiarazione di incostituzionalità. Costoro – giusta il disposto dell’art. 1, l. fall. – non sono soggetti alle disposizioni del fallimento e, quindi, sono – in forza dell’art. 7, comma 2-bis, l. 3/2012 – soggetti alla disciplina del sovraindebitamento. Tuttavia, ai sensi dell’art. 23, comma 43, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, agli imprenditori agricoli è pure riconosciuta la facoltà di ricorrere, in caso di insolvenza, alla redazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis, l. fall.; tale norma, a seguito della riforma ad opera della legge di bilancio 2017, prevede, al pari dell’art. 182-ter l. fall., la possibilità di richiedere il pagamento frazionato del tributo. Per cui, gli imprenditori agricoli si trovavano dinanzi ad un’alternativa (composizione delle crisi senza falcidia / accordi di ristrutturazione con falcidia) alquanto paradossale, tanto è vero che proprio la Corte Costituzionale ha ritenuto di stigmatizzarla. Se però il ragionamento della Consulta è corretto – e tutto sembra deporre per la sua correttezza – è anche da sottolineare che gli accordi di ristrutturazione sono certamente connotati dalla falcidiabilità dell’IVA ma hanno comunque una natura giuridica diversa rispetto alla procedura di composizione della crisi che è – differentemente dagli accordi – assimilabile al concordato preventivo. Per cui, se il confronto vale tra gli accordi e la procedura di composizione, ben potrebbe valere pure tra la procedura di composizione ed il piano del consumatore.


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7.2. La pronuncia di incostituzionalità del comma 1 dell’art. 7 riguarda soltanto l’IVA; è, quindi, da ritenere, in linea di principio, che il pagamento dilazionato rappresenti l’unica possibilità per il soggetto sovraindebitato, tuttora, con riferimento ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione e per le ritenute operate e non versate. Una simile soluzione sembra però prospettabile solo per le risorse proprie, che sono, del resto, spesso soggette dal Legislatore ad un regime derogatorio rispetto all’operatività di un particolare istituto, come nel caso del reclamo nel processo tributario (38) o nell’ipotesi della c.d. “rottamazione” delle cartelle (39). Pur trattandosi di deroghe non aventi valenza sostanziale (nel caso del reclamo) o, comunque, connotate da un carattere straordinario e non di sistema (come nel caso della rottamazione), denotano comunque l’intenzione del Legislatore di preservare incisivamente e specificamente l’interesse finanziario dell’Unione con riferimento alle “proprie” risorse. Un discorso diverso deve, invece, essere svolto per le ritenute operate e non versate, dove il divieto di falcidia, originariamente introdotto dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78 per il concordato preventivo e pedissequamente ripreso dalla l. 3/2012 era motivato da una (peraltro del tutto ambigua) affinità di tali crediti rispetto all’IVA (40). Essendo venuto meno questo divieto con riferimento all’IVA, quindi, la ratio dell’infalcidiabilità delle ritenute sarebbe ardua da ricercare, anche – ed anzi, a maggior ragione – a volerne sostenere, al contrario, la diversa natura giuridica rispetto all’imposta sul valore aggiunto: in tal caso, infatti, il divieto sarebbe del tutto estraneo al canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Sotto tale profilo, sarebbe stato quindi molto più coerente, da parte della Corte, enunciare, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, l. 11 marzo 1953, n. 87, l’incostituzionalità derivata del divieto di falcidia per le ritenute, al fine di fugare ogni dubbio in proposito.

(38) L’art. 17-bis, comma 1-bis, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 esclude dall’ambito di applicazione del reclamo/mediazione le controversie inerenti le risorse proprie di cui all’art. 2, par. 1, lett. a) della richiamata decisione del Consiglio 2014/335. (39) Si veda l’art. 5, lett. e), d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, per la previsione di un regime parzialmente derogatorio, rispetto alla disciplina generale della rottamazione, per le risorse proprie dell’Unione. (40) Come nota Allena, La transazione, cit., 95-96, riportando peraltro i passi della relazione di accompagnamento al d.l. 78/2010 in cui si evidenzia chiaramente l’approccio del Legislatore volto a valorizzare tale analogia.


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8. Conclusioni e prospettive alla luce del nuovo “codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza”. – Almeno in prospettiva, i diversi problemi sopra evidenziati sono in via di superamento, quantomeno per le procedure concorsuali che saranno instaurate successivamente all’entrata in vigore del codice delle crisi d’impresa. L’art. 65, comma 2, del codice nel disciplinare le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento non prevede alcuna preclusione in ordine al trattamento dei crediti fiscali. In base ai primi orientamenti dottrinari in materia, ciò dovrebbe implicare il riconoscimento dell’ammissibilità, anche per tali crediti, del pagamento in forma frazionata (41). Tuttavia, tali conclusioni possono valere senza dubbio per l’IVA e, in base alle osservazioni sopra svolte, per le ritenute operate e non versate. Quanto ai tributi costituenti risorse proprie, unitamente agli aiuti di Stato illegittimi, la questione, specie alla luce degli orientamenti della Commissione europea, è destinata, per il momento, a rimanere dubbia (42) e questo vale sia per il concordato preventivo, sia per gli accordi di ristrutturazione, sia – e di conseguenza – per gli accordi di composizione delle crisi da sovraindebitamento. In ogni caso, tali questioni si pongono, ad oggi, entro una cornice de jure condendo, in attesa che a seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni del codice – eventualmente modificate in itinere – si formino i primi indirizzi giurisprudenziali che consentiranno di affrontare ed esaminare le linee ermeneutiche della nuova disciplina.

Paolo De Quattro

(41) D’Orazio, Il sovraindebitamento nel codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2019, 697 ss. (42) Stasi, Falcidiabilità dell’IVA nella vecchia e nella nuova disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, in Fallimento, 2020, 81 ss.


Corte di Cassazione, Sez. Civile, 8 maggio 2019, n. 12138, Pres. Cirillo – Rel. D’Orazio Ires – Conferimento di azienda e successiva vendita delle quote emesse dalla società conferitaria in sede di conferimento – Applicabilità del regime di esenzione ex art. 87 del Tuir – Non sussiste – Requisito di carattere temporale di cui all’art. 87 comma 2 del Tuir – Non sussiste – Applicabilità dell’art. 176 comma 4 del Tuir – Sussiste In caso di conferimento, in una società neocostituita, di un ramo di azienda “non commerciale”, seguìto dopo tre mesi dalla vendita, da parte del soggetto conferente, delle quote emesse dalla società conferitaria, la plusvalenza realizzata in sede di cessione della partecipazione non soddisfa il requisito di commercialità ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 87, comma 1, lett. d) e comma 2 del Tuir. Questo essenzialmente perché, in forza dell’art. 176, comma 4, del Tuir, in base al quale “Le aziende acquisite in dipendenza dei conferimenti effettuati con il regime di cui al presente articolo si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente. (…)”, discende il principio secondo cui le nuove entità legali, originanti da soggetti precedentemente esistenti, ereditano da questi ultimi anche le caratteristiche rilevanti ai fini della valutazione dei requisiti di commercialità e residenza.

(Omissis) Sentenza sul ricorso iscritto al n. 10980/2017 R.G. proposto da Cros Città Mercato s.r.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Tommaso Oberdan Scozzafava, elettivamente domiciliata presso il suo studio, in Roma, Via Marcello Prestinari n. 15, giusta delega a margine del ricorso contro Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, Via dei Portoghesi, n. 12 è domiciliata avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, n. 996/2016 depositata il 25 ottobre 2016. Fatti di causa 1. La (Omissis), promotrice di centri commerciali, deliberava il 5-1-2008 di conferire alla (Omissis), società di nuova costituzione (sorta l’11-3- 2008), a socio unico, il proprio ramo di azienda costituito dal Centro Commerciale Itaca sito in Formia, con struttura realizzata dalla contribuente nel 1995, snodantesi in una pluralità di eserci-


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zi commerciali concessi a terzi operatori con specifici contratti di affitto di rami di azienda. Il conferimento veniva effettuato in regime di neutralità fiscale, ai sensi dell’art. 176 d.p.r. 917/1986, per un valore di C 71.500.000,00. In data 26-6-2008 la (Omissis) cedeva alla Investimenti Commerciali Formia l’intera partecipazione al capitale della (Omissis) per il corrispettivo di C 71.511.734,36, reputando non concorrente alla formazione del reddito la plusvalenza realizzata ai sensi dell’art. 87 d.p.r 917/1986, nella misura del 95 °h (C 62.295.348), in quanto sussisteva il requisito dello svolgimento effettivo della impresa commerciale da parte della partecipata (Omissis). 2. La contribuente, quindi, propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione regionale dell’Abruzzo, che ha respinto l’appello articolato dalla società contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale, che aveva rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate, che aveva ritenuto inapplicabile il regime di esenzione di cui all’art. 87 d.p.r. 917/1986. 3. Resiste l’Agenzia delle entrate, proponendo anche ricorso incidentale. Ragioni della decisione. – 1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “Nullità della sentenza per mancanza di motivazione, con violazione dell’art. 111 comma 6 Cost., nonché degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., 118 comma 1, disp. att. c.p.c., 36, comma 2, d.lgs. 546/1992, in violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.”, in quanto la Commissione regionale si sarebbe limitata alla fedele riproduzione di un articolo di dottrina, diffondendosi per quasi l’intera motivazione nella mera ricopiatura del medesimo, e lasciando solo alle ultime 32 righe l’effettiva portata argomentativa del ragionamento, con una motivazione solo apparente o inesistente, del tutto slegata dai fatti di causa. 1.1. Tale motivo è infondato. Invero, la Commissione regionale ha reso una adeguata e compiuta motivazione che, pur se fondata su articoli di dottrina e sul contenuto delle varie circolari emesse dalla Agenzia delle entrate sul tema della participation exemption (c.d. Pex), ha valutato in modo analitico i fatti di causa, tanto che nello svolgimento del processo sono indicati i quattro motivi di appello formulati dalla società e, dopo un’ampia digressione, tutta incentrata sulla sussistenza dei requisiti per beneficiare della esenzione della plusvalenza ai sensi dell’art. 87 d.p.r. 917/1986, ed in particolare sullo svolgimento di effettiva impresa commerciale ai sensi dell’art. 55 d.p.r. 917/1986, si concentra proprio sulla vicenda in esame (cfr. pagina 12 “Tornando al caso che ci occupa”). Tra l’altro, si rileva che per questa Corte, a sezioni unite, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica dì redazione non


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può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato (Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642; Cass., sez. v, 9334/2015). 2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia, con violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. 546/1992 e degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.”, non avendo la Commissione regionale risposto a tre delle domande formulate con l’atto di appello dalla contribuente. In particolare, il giudice di appello non avrebbe pronunciato in ordine alla infondatezza della tesi sostenuta dalla Agenzia delle entrate, per cui, in caso di cessione di partecipazione di società, che esercita attività commerciale, costituita per effetto di conferimento di azienda, da meno di tre anni, la verifica di commercialità di cui all’art. 87 comma 1 lettera d) d.p.r. 917/1986, deve essere effettuata in capo alla conferente. Inoltre, non sarebbe fornita risposta alla doglianza per cui la presunzione assoluta di non commercialità di cui alla norma prima citata non poteva essere applicata in caso di strumentalità degli immobili “per natura”. La sentenza, poi, non avrebbe tenuto conto della circostanza che la Cros ha direttamente utilizzato gli immobili del centro commerciale, quale “immediata conseguenza della loro enucleazione in specifici rami di azienda”. 2.1. Tale motivo è infondato. Invero, il giudice di appello, nella sua ampia motivazione, sia nella parte dedicata allo svolgimento del processo, che nella analisi della normativa applicabile e delle varie circolari emesse dalla Agenzia delle entrate, sia, ancora, nella parte appositamente dedicata alla fattispecie concreta, ha sostanzialmente rigettato, anche implicitamente, le tre doglianze palesate dalla società nell’atto di appello. In particolare, in relazione alla ritenuta erronea tesi della Agenzia delle entrate circa la doverosità di verificare la sussistenza della commercialità in capo alla conferitiaria, anche per il periodo di possesso delle aziende conferite, la Commissione regionale ha riportato, non solo il motivo di appello (numero 1, a pagina 2 del ricorso), ma anche le obiezioni sollevate sul punto dalla Agenzia delle entrate nelle controdeduzioni in appello (pagina 3 del ricorso), per poi chiarire in motivazione che non vi era stata prova della pretesa attività di “gestione” svolta dalla contribuente con riferimento ai servizi offerti agli affittuari dei locali, mentre tale attività era stata svolta prima dal Consorzio e successivamente, a seguito di mandato da parte di questi, dalla società (Omissis), e solo dal 2008 da parte della contribuente. Il ragionamento complessivo del giudice di appello, porta inevitabilmente al rigetto del motivo di appello proposto dalla ricorrente. Le medesime osservazioni valgono anche per i residui due motivi, laddove proprio la stretta interpretazione della nozione di commercialità di cui all’art. 87 comma


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1 lettera d) d.p.r. 917/1986, fatta propria dalla Commissione regionale, ha determinato il rigetto implicito anche delle ulteriori due doglianze. È evidente che laddove si afferma che la nozione di commercialità di cui all’art. 87 Tuir non può essere legata al mero godimento degli immobili ed al loro mero affitto a terzi, cade ogni validità e persuasività dei motivi fondati sulla “strumentalità per natura” degli stessi e sulla loro “diretta” utilizzabilità seppure mediante contratti di affitto di rami di azienda a terzi. 3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione degli articoli 87, primo comma, lettera d) e secondo comma , nonché 176 Tuir in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto erroneamente la Commissione regionale ha ritenuto che, non avendo la (Omissis) (partecipata) svolto attività nel triennio precedente la cessione, il requisito dello svolgimento di attività di una impresa commerciale ai sensi dell’art. 55 d.p.r. 917/1986 non poteva che essere valutato in capo alla società conferente, quindi alla contribuente (Omissis). In realtà, però, è pacifico che la (Omissis) ha svolto attività commerciale, relativa alla gestione dei servizi comuni del Centro commerciale a partire dall’11-3-2008 e sino alla cessione della partecipazione dalla (Omissis) alla Investimenti Commerciali Formia in data 26-6-2008, sicché per tre mesi la partecipata (Omissis) ha sicuramente svolto attività commerciale. Per la ricorrente, invece, nel caso in cui l’esercizio di attività commerciale da parte della partecipata abbia avuto una durata inferiore ai tre anni, non è necessario attendere il decorso del triennio per consentire alla cedente di usufruire della esenzione da plusvalenza ai sensi dell’art. 87 comma 1 lettera d d.p.r. 917/1986 (pex), essendo sufficiente verificare la condizione della “commercialità” anche con riferimento al minor periodo in cui questa è stata “in vita”, come previsto dalla Circolare della Agenzia delle entrate 36 e del 4-8- 2004 punto 2.3.4.. Inoltre, il giudice di appello avrebbe mal interpretato l’art. 176 d.p.r. 917/1986, relativo al conferimento di azienda, in quanto erroneamente ha ritenuto che se vi è stato un conferimento di azienda nel triennio anteriore alla cessione della partecipazione, il requisito della “commercialità” va valutato in capo alla società “conferente”. In tal modo, però, secondo la ricorrente, l’art. 176 Tuir, che è norma di favore per il contribuente, verrebbe, invece, interpretato come compressione di un diritto pacificamente riconosciuto. Non avrebbe alcun senso, quindi, ritenere come principio generale che l’esenzione da plusvalenza spetti alla cedente anche se la partecipata è stata costituita da meno di tre anni, senza necessità quindi della verifica di commercialità triennale, mentre, in caso di conferimento di azienda (o di altra operazione straordinaria a carattere straordinario), sarebbe necessario verificare la sussistenza del requisito di “commercialità” per il triennio in capo alla società conferente. Non sarebbe condivisibile la tesi per cui proprio l’operazione di conferimento di azienda di cui all’art. 176 Tuir, la cui ratio è quella di non penalizzare la circolazione indiretta dei complessi aziendali, darebbe luogo ad un uso distorto ed elusivo del regime di “pex”.


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4. Con il quarto motivo di impugnazione la società deduce “violazione dell’art. 87, comma 1, lettera d), dell’art. 87, secondo comma e dell’art. 43 del Tuir, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello non avrebbe considerato che gli immobili facenti parte del Centro Commerciali Itaca erano “strumentali per natura”, ai sensi dell’art. 43 Tuir, sicché non era applicabile né nei confronti della cedente (Omissis) né nei confronti della partecipata (Omissis) s.r.I., la presunzione assoluta di non commercialità di cui all’art. 87 comma 1 lettera d d.p.r. 917/1986. L’intero complesso immobiliare Itaca, quindi, proprio perché costituito da immobili strumentali “per natura” non poteva che essere considerato come “direttamente utilizzato nell’esercizio dell’impresa”. La strumentalità “per natura” comporterebbe che tali immobili sono intrinsecamente idonei ad essere utilizzati in modo diretto nell’esercizio dell’impresa. La verifica fattuale di “commercialità” non può concernere i beni immobili strumentali “per natura” che ontologicamente sono da ritenere utilizzati in modo diretto per l’esercizio dell’impresa, a prescindere dall’utilizzo che, in concreto, la società proprietaria intenda farne. La presunzione assoluta di non commercialità si riferirebbe, allora, solo alle società di gestione immobiliare, il cui patrimonio sia costituito prevalentemente da immobili-patrimonio e immobili strumentali per destinazione (società-cassaforte). 5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “ulteriore violazione dell’art. 87, primo comma, lettera d, e secondo comma del Tuir in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, i fabbricati del centro commerciale erano stati, comunque, utilizzati dalla Cros nel diretto esercizio dell’impresa nel corso del triennio anteriore alla cessione della partecipazione, trattandosi di immobili oggetto di specifici contratti di affitto di rami di azienda, rappresentati questi ultimi dai singoli esercizi commerciali presenti. Gli immobili, quindi, erano impiegati in funzione “servente” e, dunque, strumentale all’esercizio delle imprese relative ad ogni singolo ramo aziendale. Nessun rilievo avrebbe la circostanza che gli immobili fossero oggetto di contratti di affitto di azienda a terzi. 5.1. I motivi tre, quattro e cinque che, per ragioni di stretta connessione, vanno trattati congiuntamente, sono infondati. Deve premettersi che tali motivi non sono nuovi, come eccepito dalla controricorrente, in quanto la società si è limitata ad aggiungere argomentazioni giuridiche, sia per contrastare quanto stabilito dalla sentenza della Commissione provinciale che aveva rigettato il ricorso, sia per meglio inquadrare giuridicamente i medesimi fatti oggetto del ricorso introduttivo del giudizio. 5.2. Invero, i fatti di causa sono pacifici tra le parti, le cui tesi divergono soltanto sulla interpretazione delle norme applicabili alla complessa fattispecie in esame, costituita da un conferimento di azienda ad una newco e da una successiva cessione della partecipazione alla newco ad altra società, con la richiesta di esenzione della plusvalenza ai sensi dell’art. 87 comma 1 lettera d d.p.r. 917/1986.


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In particolare, la (Omissis), proprietaria e costruttrice del centro commerciale, delibera il 5-1-2008 di conferire ad una newco (poi (Omissis)) a socio unico il proprio ramo di azienda costituito dal Centro commerciale Itaca. Pertanto, I’ll-3-2008 viene costituita la (Omissis) (la newco) alla quale viene conferita l’azienda in regime di neutralità fiscale ai sensi dell’art. 176 Tuir per un valore di C 71.500.000,00. La (Omissis) provvede alla gestione del Centro commerciale, esercitando sicuramente attività imprenditoriale per circa tre mesi dalla sua costituzione (dal marzo al giugno del 2008). Dopo circa tre mesi, infatti, in data 26-6-2008, la (Omissis) cede le sue integrali partecipazioni in (Omissis) (la (Omissis) era socio unico) alla Investimenti commerciali Formia per un corrispettivo di C 71.511.734,36. La plusvalenza realizzata attraverso la cessione ammontante ad 62.295.348,00 veniva esposta dalla (Omissis) sotto la voce E.20.B “proventi ed oneri straordinari” del conto economico del bilancio al 31-12-2008, indicando al rigo RF46 del modello Unico 2009, una variazione in diminuzione di C 60.232.814,00 corrispondente al 95 % della plusvalenza realizzata che era, appunto, esente ai sensi dell’art. 87 comma 1 lettera d Tuir. 5.3. Per comprendere la fattispecie è opportuno riportare il contenuto dell’art. 87 comma 1 lettera d del Tuir, in quanto le “plusvalenze esenti” derivanti da cessioni di partecipazioni (participation exemption – pex) devono avere la concorrenza di quattro requisiti: a) un ininterrotto possesso delle partecipazioni per un anno; b) la classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso; c) la residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato (black list); d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale, secondo la definizione di cui all’art. 55 Tuir. La ratio della esenzione della plusvalenza derivante da cessioni di partecipazioni origina proprio dalla finalità con cui si è provveduto alla modifica del Tuir nel 2004. Infatti, la riforma fiscale di cui alla legge delega 80/2003 è caratterizzata da un nuovo assetto dei rapporti tra fiscalità delle società e fiscalità dei soci che si basa sul criterio di tassazione del reddito al momento della “produzione” e non all’atto della sua “distribuzione”. Pertanto, la disciplina della cessione delle partecipazioni è stata assimilata a quella dei dividendi societari, anche se a differenza dei primi, per i quali il beneficio è generalizzato, per le plusvalenze il beneficio (riconoscimento della pex nella misura del 95 %) vale solo per le imprese “meritevoli”, in presenza quindi delle quattro condizioni di cui all’art. 87 Tuir. Si è sottolineato, quindi, che è stata prevista l’irrilevanza reddituale dei dividendi distribuiti e l’esenzione delle plusvalenze realizzate in occasione della cessione delle partecipazioni, pur se in presenza di determinati e specifici requisiti. In tal modo sono parzialmente esclusi i dividendi distribuiti ai soci (nella misura del 95 %), così come


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sono considerate esenti le plusvalenze da cessioni di partecipazioni (nella misura del 95 %), con indeducibilità delle minusvalenze e dei relativi costi. Dalla relazione illustrativa al disegno di legge delega emerge che le finalità perseguite erano quelle di armonizzare il nostro sistema fiscale con quello degli altri Paesi membri dell’Unione Europea, eliminando lo svantaggio competitivo delle imprese residenti, e di incentivare i trasferimenti di complessi aziendali con la cessione delle partecipazioni societarie, in alternativa alla cessione diretta, quest’ultima scoraggiata con l’abrogazione dell’imposta sostitutiva del 19 %. La riforma, quindi, intende tassare il reddito esclusivamente presso il soggetto che lo ha realmente prodotto, con l’esclusione da imposizione dei dividendi, se non in minima percentuale, spostando il baricentro del prelievo dal socio all’impresa (dividendi) e dalla cedente alla partecipata ceduta, considerando fiscalmente neutre tutte le manifestazioni reddituali successive alla produzione di tali redditi. 5.4. L’art. 87 comma 1 Tuir prevede che “non concorrono alla formazione del reddito imponibile in quanto esenti nella misura del 95% le plusvalenze realizzate e determinate ai sensi dell’articolo 86, commi 1, 2 e 3 relativamente ad azioni o quote di partecipazioni in società ed enti indicati nell’articolo 5, escluse le società semplici e gli enti alle stesse equiparate, e nell’articolo 73, comprese quelle non rappresentate da titoli, con i seguenti requisiti: a)ininterrotto possesso dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta cessione...; b) classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso; c) residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato...; d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’articolo 55. Senza possibilità di prova contraria si presume che questo requisito non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa, dagli impianti e dai fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio d’impresa. Si considerano direttamente utilizzati nell’esercizio di impresa gli immobili concessi in locazione finanziaria e i terreni su cui la società partecipata svolge attività agricola”. La questione, nella specie, attiene alla sussistenza o meno del requisito della natura “commerciale” dell’impresa, in quanto la (Omissis) non ha svolto attività di gestione dei servizi comuni del centro commerciale, affidata dapprima al Consorzio, costituito da tutti gli affittuari dei rami di azienda siti all’interno del centro commerciale e, successivamente, dalla (Omissis), in forza di contratto di mandato, e solo dal 2008 direttamente dalla società partecipata (Omissis). La (Omissis), invece, è proprietaria degli immobili, tutti affittati a terzi all’interno del centro commerciale. Deve, poi, tenersi conto che la natura commerciale dell’attività deve avere durata triennale (art. 87 comma 2 Tuir “i requisiti di cui al comma 1, lettera c) e d) devono


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sussistere ininterrottamente, al momento del realizzo, almeno dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso”). Il requisito della commercialità è legato alla nozione di cui all’art. 55 Tuir, espressamente richiamato, quindi con una estensione della nozione di impresa commerciale più ampia di quella contenuta nell’art. 2195 c.c., in quanto ricomprendente anche le attività agricole e quelle degli enti che svolgono le attività commerciali di cui all’art. 2195 c.c., ma in forma non organizzata. L’art. 55 Tuir, infatti, prevede che “sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’articolo 2195 del codice civile, e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’articolo 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa... sono inoltre considerati redditi di impresa: c) i redditi dei terreni, per la parte derivante dall’esercizio delle attività agricole di cui all’articolo 32 ...”. Peraltro, anche ai fini Iva, costituiscono prestazioni di servizi, ai sensi dell’art. 3 d.p.r. 633/1972, se effettuate verso corrispettivo, fra l’altro, “le concessioni di beni in locazione, affitto, noleggio e simili”. Per gli enti commerciali, poi, l’art. 4 secondo comma del d.p.r. 633/1972, prevede che le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, dagli stessi poste in essere, si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio di imprese e, come tali, rientranti nel campo di applicazione dell’Iva. Le plusvalenze realizzate ai sensi dell’art. 87 Tuir sono quelle indicate nel comma 1 dell’art. 86 (“Le plusvalenze dei beni relativi all’impresa ... concorrono a formare il reddito ...: a) se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso ...”) e, quindi, nel caso in esame, la cessione delle partecipazioni. Vi è, poi, nell’art. 87 comma 1 lettera del Tuir una presunzione assoluta, che non ammette prova contraria (iuris et de iure) di esclusione della natura commerciale dell’attività imprenditoriale svolta nel caso in cui vi sia partecipazione in società il cui valore del patrimonio è costituito prevalentemente da beni immobili. La valutazione del patrimonio da assumere al fine di verificare la prevalenza degli immobili deve essere effettuata a valori correnti e non valori contabili, sicché il confronto da operare è tra valore corrente degli immobili e il totale dell’attivo patrimoniale anch’esso valutato a valori correnti (in tal senso circolare Agenzia delle entrate 7E del 29 marzo 2013). Pertanto, la ratio del legislatore è quella di concedere il beneficio dell’esenzione da imposta delle plusvalenze derivanti da cessioni di partecipazioni purché la società partecipata svolga effettivamente ed in concreto attività commerciale, seppure nella nozione allargata di cui all’art. 55 Tuir, ma comunque, non una attività limitata alla gestione dei beni immobili, costituenti in misura prevalente il valore del patrimonio, concessi in locazione o in affitto di azienda. Insomma, l’art. 87 comma 1 lettera d Tuir prevede, limitatamente alle società “immobiliari”, una nozione più ristretta di impresa commerciale rispetto a quella pre-


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vista dall’art. 55 Tuir e dagli artt. 3 e 4 d.p.r. 633/1972, i quali richiamano, non solo la nozione di imprenditore commerciale di cui all’art. 2195 c.c., ma anche quella di imprenditore di cui all’art. 2083 c.c. Vi è, dunque, nell’art. 87 comma 2 lettera d Tuir una presunzione assoluta di non commercialità per le società “immobiliari”, che reca una cesura netta rispetto alla nozione di impresa commerciale di cui agli artt. 55 Tuir e 4 d.p.r. 633/1972, limitatamente all’applicazione dell’istituto del pex. La società partecipata non deve, quindi, svolgere attività di mero godimento dei beni, essendo escluse per presunzione assoluta le società di gestione immobiliare. La finalità dell’istituto è quella di favorire la circolazione, sotto forma di partecipazioni, di complessi patrimoniali che abbiano natura di vere e proprie aziende funzionali all’esercizio di attività di impresa, dotate di una capacità, anche potenziale, al concreto svolgimento di un’attività produttiva (in tal senso anche circolare Agenzia delle entrate 7E del 29-3-2013). La participation exemption si applica solo se il patrimonio sottostante alla società partecipata si configura come azienda, utilizzata nell’esercizio di attività di impresa. Le società “immobiliari”, però, per presunzione assoluta, non hanno il carattere della commercialità. La norma va interpretata nel senso che si vuole disincentivare la costituzione di società-contenitore, da utilizzare per trasferire singoli cespiti immobiliari plusvalenti, sfruttando l’esenzione prevista per le plusvalenze relative alle partecipazioni. Si vuole, insomma, impedire che la cessione della partecipazione nella società immobiliare si ponga su un piano di teorica equivalenza rispetto alla cessione degli immobili (in questo senso anche Circ. Agenzia entrate 15-12-2004, n. 152). La titolarità in via prevalente di immobili nel patrimonio della società partecipata può consentire lo svolgimento di una attività imprenditoriale ai fini della esenzione delle plusvalenze, solo nel caso in cui l’attività dell’impresa è diretta proprio alla produzione o allo scambio degli stessi immobili. Vi è attività commerciale della società partecipata anche quando gli impianti ed i fabbricati sono utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa. Si chiarisce anche che sono “direttamente” utilizzati nell’esercizio dell’impresa gli immobili concessi in locazione finanziaria e i terreni su cui la società partecipata svolge l’attività agricola. In tal senso non svolgono attività commerciale per presunzione assoluta ai sensi dell’art. 87 Tuir le società il cui patrimonio è costituito prevalentemente da immobili “patrimoniali”, mentre sono considerate società con attività commerciale quelle che hanno un patrimonio costituito prevalentemente da immobili-merce e immobili strumentali. Vi è, invece, esclusione del requisito della “commercialità” nel caso in cui gli immobili della partecipata siano oggetto di locazione o di affitto di azienda. Del resto questa conclusione si ricava anche, a contrariis, proprio perché il legislatore per gli immobili concessi in locazione finanziaria ha espressamente ammesso la sussistenza della natura commerciale dell’attività svolta dalla società partecipata.


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L’art. 87 comma 1 lettera d Tuir contiene, dunque, una disposizione antielusiva in base alla quale il requisito della commercialità, per presunzione assoluta, non ricorre qualora il valore del patrimonio della società partecipata sia prevalentemente costituito da beni immobili. Dal novero degli immobili a tal fine rilevanti sono esclusi: gli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa, nonché gli impianti e i fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio d’impresa (in tal senso anche circolare della Agenzia delle entrate 4-8-2004 n. 36 E al paragrafo 2.3.4.). 5.5. La nozione di “commercialità”, particolarmente ristretta, in questa materia, rispetto alla a quella più ampia, utilizzata in via generale dagli artt. 55 Tuir e 4 d.p.r. 633/1972, non può ravvisarsi nello svolgimento da parte della società partecipata di lavori di ristrutturazione per adibire l’immobile alla funzione alberghiera (cfr. in tal senso anche la risoluzione n. 323/E del 9-11-2007); né vi è commercialità nel caso di concessione in affitto dell’unica azienda posseduta e nella mera percezione di un canone di affitto (cfr. in tal senso anche la risoluzione della Agenzia delle entrate 163/E del 25-11-2005); né vi è commercialità nel mero godimento della royalties su marchi (cfr. in tal senso anche la risoluzione n. 226/E del 18-8-2009) e neppure nell’attività svolta dall’assuntore del concordato fallimentare diretta al pagamento dei debiti di cui all’accollo, con il soddisfacimento dei creditori; né vi è commercialità nella locazione dell’unico edificio costruito (cfr. in tal senso anche la risoluzione 152/E della Agenzia delle entrate del 15-12-2004). Non v’è dubbio che nel triennio precedente alla cessione delle partecipazioni della (Omissis), la (Omissis) non ha svolto attività imprenditoriale “commerciale” nella nozione “ristretta” di cui all’art. 87 comma 1 lettera d Tuir, mentre la (Omissis) ha svolto attività prettamente commerciale solo dal marzo del 2008 (11-3-2008), data della sua costituzione e per tre mesi successivi, fino alla cessione delle partecipazioni in data 26-6-2008. 5.6. Con riferimento alla titolarità di partecipazioni in società già costituite ed esistenti, quindi senza l’intervento di un conferimento di azienda da parte della futura cedente le partecipazioni, il termine del triennio può anche essere più breve, dovendosi considerare il periodo intercorso (minore di tre anni) tra la data della costituzione della società partecipata e la data di cessione della partecipazione (in tal senso anche nella circolare delle Agenzia delle entrate n. 36/E del 4-8-2004). Infatti, la previsione dell’esercizio dell’attività commerciale per un triennio è una tipica norma antielusiva, volta ad impedire che, attraverso il cambiamento, in prossimità della cessione della partecipazione, del tipo di attività svolta dalla società partecipata (da non commerciale a commerciale), si possano artificiosamente far valere i presupposti della participation exemption (in tal senso anche la circolare delle Agenzia delle entrate n. 36/E del 4-8-2004). In tal caso, il requisito temporale precedentemente indicato deve essere verificato in capo alla società partecipata, sicché resta irri-


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levante, a tal fine, che la partecipazione sia stata posseduta, nel periodo di riferimento, dallo stesso soggetto che realizza la plusvalenza ovvero dal suo dante causa. 5.7. Va, però, rilevato che la questione diviene più complessa ed articolata nel caso in cui la società cedente le partecipazioni (nel nostro caso la (Omissis)), dapprima costituisca una newco, interamente partecipata (nel caso in esame la (Omissis)), poi gli conferisca il proprio ramo aziendale, e dopo tre mesi proceda alla cessione a terzi della propria partecipazione totalitaria. Il regime della participation exemption si intreccia con l’istituto del conferimento di azienda di cui all’art. 176 Tuir, il quale al primo comma prevede che “i conferimenti di aziende effettuati tra soggetti residenti nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese commerciali, non costituiscono realizzo di plusvalenze o minusvalenze. Tuttavia il soggetto conferente deve assumere, quale valore delle partecipazioni ricevute, l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita e il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione della dichiarazione dei redditi i dati esposti in bilancio e i valori fiscalmente riconosciuti”. Ciò significa che tale operazione, escludendo la formazione di plusvalenze, si inserisce tra le operazioni straordinarie sul capitale societario (con le fusioni e le scissioni), connotate da “neutralità fiscale”. Inoltre, la conferitaria ha la facoltà di ottenere il riconoscimento fiscale dei maggiori valori civilistici iscritti in bilancio a titolo di immobilizzazioni materiali ed immateriali come frutto del conferimento ed a beneficio delle successive vicende sui medesimi beni, attraverso il pagamento di una imposta sostitutiva (affrancamento dei plusvalori latenti). Infatti, si può verificare un disallineamento tra il profilo civilistico e quello fiscale, in quanto l’operazione può comportare plusvalenze civilistiche (con valori iscritti a bilancio), ma non ai fini fiscali. La conferitaria può, però, assoggettare ad imposta sostitutiva ai sensi dell’art. 176 comma 2 ter Tuir i maggiori valori attribuiti in bilancio agli elementi dell’attivo costituenti immobilizzazioni materiali ed immateriali relativi all’azienda ricevuta. Pertanto, il conferimento del ramo aziendale da (Omissis) alla (Omissis) è avvenuto, appunto, in regime di neutralità fiscale per un valore di C 71.500.000,00. Ai sensi del comma 3 dell’art. 176 Tuir, poi, si disciplina espressamente, ai fini delle imposte dirette, l’ipotesi del conferimento d’azienda in regime di neutralità fiscale, seguito dalla cessione delle partecipazioni ricevute dal conferente nella società conferitaria beneficiando del regime di participation exemption ex art. 87 Tuir (art. 87 Tuir “non rileva ai fini dell’art. 37-bis del d.p.r. 600/1973, il conferimento dell’azienda secondo i regimi di continuità dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell’esenzione di cui all’art. 87...”).


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Parte seconda

Il comma 4 dell’art. 176 d.p.r. 917/1986, poi, dispone che “Le aziende acquisite in dipendenza dei conferimenti effettuati con il regime di cui al presente articolo si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente. Le partecipazioni ricevute dai soggetti che hanno effettuato i conferimenti di cui al periodo precedente o le operazioni di cui all’art. 178, in regime di neutralità fiscale, si considerano iscritte come immobilizzazioni finanziarie nei bilanci in cui risultavano iscritti i beni dell’azienda conferita o in cui risultavano iscritte, come immobilizzazioni, le partecipazioni date in cambio”. Proprio, l’applicazione del principio di neutralità fiscale comporta che l’azienda ricevuta dalla società conferitaria si considera posseduta da quest’ultima anche per il periodo di possesso del conferente. Si tratta della applicazione del principio della “successione universale” in ambito fiscale del conferimento nelle posizioni soggettive del conferente. Pertanto, il principio della continuità nel possesso del complesso aziendale conferito, esteso ai beni oggetto del conferimento (comprese le partecipazioni), porta a ritenere che il soggetto conferitario deve verificare la sussistenza del requisito temporale tenendo conto anche del periodo di detenzione già maturato in capo al conferente (cfr. in tal senso anche la circolare n. 36E della Agenzia delle entrate 4-8-2004). Nell’ipotesi in cui una conferente abbia, dapprima, creato una newco e, poi, abbia conferito in essa un ramo di azienda deve applicarsi il principio per cui le nuove entità legali, che originano da soggetti precedentemente esistenti, ereditano da questi anche le caratteristiche rilevanti ai fini della valutazione dei requisiti di commercialità e residenza; sicché proprio come per l’ipotesi della beneficiaria neocostituita a seguito di scissione, la partecipazione detenuta nella conferitaria risulta assistita dal requisito della commercialità rilevante ai fini dell’applicazione del regime pex, solo se la conferitaria “eredita” il ramo commerciale di una società che sia prevalentemente commerciale, a condizione che detta attività venga ininterrottamente svolta anche dalla conferitaria fino alla data di cessione della partecipazione e nel rispetto del requisito temporale ai sensi dell’art. 87, comma 2, del Tuir (cfr. in tal senso anche la risoluzione della Agenzia delle entrate 227/E del 18-8-2009). Inoltre, proprio in applicazione del principio di “continuità” e di quanto riportato al comma 4 seconda parte dell’art. 176 Tuir, la conferitaria non può modificare la classificazione della partecipazione così come risultante nel bilancio della conferente. 5.8. Pertanto, poiché la conferitaria ha esercitato attività commerciale solo per tre mesi, mentre la conferente non ha mai svolto attività commerciale, in quanto semplice proprietaria di immobili affittati a terzi, quindi nella posizione di “income passive”, quale beneficiaria del pagamento dei canoni di affitto di azienda, non risulta integrato il requisito dell’esercizio triennale di attività commerciale. Né si può sostenere una contraddizione con quanto affermato in relazione alla sussistenza del requisito della triennale attività commerciale in caso di società parteci-


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pata che ha svolto la sua attività commerciale per meno di tre anni, in quanto dall’atto costitutivo alla cessione delle partecipazioni era decorso un tempo inferiore. Infatti, in quell’ipotesi si tratta di società, già costituita, partecipata dalla controllante, che poi decide di cedere il valore della sua partecipazione. Nel caso, in esame, invece, la conferente, prima costituisce una nuova società di cui è interamente socia, poi conferisce il proprio ramo di azienda e, quindi, procede alla cessione a terzi delle partecipazioni. Per questa ragione, proprio l’ulteriore operazione del conferimento, impone l’applicazione del comma 4 dell’art. 176 Tuir, con la successione della conferitaria alla conferente, e con continuità dell’azienda posseduta, sicché è inevitabile che il requisito del triennio debba essere considerato in capo alla conferente nel caso in cui la conferitaria abbia esercitato attività commerciale per un periodo inferiore a tre anni. Non si fa applicazione, quindi, della disposizione antielusiva di cui all’art. 37 bis del d.p.r. 600/1973, ma si deve tenere conto della effettiva attività commerciale svolta o dalla conferitaria per tre anni oppure, se questa ha operato per un tempo minore, aggiungendo l’attività commerciale svolta dalla conferente. Si tratta, allora, di rispettare i presupposti di cui all’art. 87 Tuir, espressamente richiamato proprio dal comma 3 dell’art. 176 Tuir. Proprio l’esistenza del richiamo espresso all’art. 37 bis d.p.r. 600/1973, da parte dell’art. 176 Tuir, con riferimento in generale all’operazione di conferimento di azienda collegata alla pex, induce a ritenere che il requisito di cui all’art. 87 comma 2 lettere d Tuir abbia natura antielusiva. 6. L’attività della (Omissis) nel triennio, però, è limitata alla ricezione dei canoni di affitto di azienda, senza alcun tipo di gestione dei servizi del centro commerciale, affidata, invece, prima al Consorzio e, poi, alla società (Omissis), mentre solo dal 2008 la gestione è stata concretamente svolta proprio dalla conferente (Omissis). 7. Invero, l’attività della conferente poteva essere considerata come attività commerciale, trattandosi di società proprietaria degli immobili di un centro commerciale, solo nel caso in cui l’attività di gestione del centro fosse stata di significativa rilevanza. Si ritiene, quindi, che si ha gestione “attiva” degli immobili di un centro commerciale solo nel caso in cui la società proprietaria dei beni concessi in locazione o in affitto di azienda si occupa anche dei servizi del complesso, come per esempio della richiesta e della gestione delle autorizzazioni amministrative per lo svolgimento delle attività dei singoli negozi, della promozione e pubblicità, della pulizia e della manutenzione delle aree comuni, della organizzazione di spazi destinati all’intrattenimento dei clienti (in tal senso anche interrogazione parlamentare e risposta 5-03920 del 9-22005), dell’utilizzo di mezzi di trasporto volti a favorire i potenziali clienti, dell’attività di animazione, di vigilanza dei parcheggi (cfr. anche circolare della Agenzia delle entrate 7E del 29-3-2013). In tal senso è indispensabile paragonare i ricavi derivanti dagli affitti di azienda con quelli relativi alla attività di gestione.


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Parte seconda

Non è necessario che i ricavi provenienti dall’attività di gestione siano superiore a quelli derivanti dai canoni di affitto di azienda o di locazione, ma anche se inferiori ai secondi, è necessario che la contribuente fornisca la prova della “significatività” dei servizi prestati con i mezzi di prova più opportuni (in tal senso anche Circolare Agenzia delle entrate 7/E del 29-3-2013). Se, infatti, vi è un “significativo” svolgimento dei servizi comuni al centro commerciale, rispetto alla locazione di beni, gli immobili che fanno parte del compendio immobiliare, a cui i servizi ineriscono, possono essere classificati tra i beni utilizzati direttamente nell’esercizio d’impresa. 8. Né è risolutiva l’obiezione per cui gli immobili di cui è proprietaria la conferente (Omissis) sono, in realtà, “strumentali per natura” ai sensi dell’art. 53 Tuir e, quindi, “per natura” destinati in via diretta all’esercizio dell’impresa commerciale. La distinzione tra beni strumentali “per natura” e per “destinazione”, non rileva nella fattispecie in esame, in quanto ciò che conta è che l’attività dell’impresa sia diretta proprio alla produzione o allo scambio di tali beni immobili. Pertanto, ciò che conta, per evitare di incorrere nella presunzione assoluta di non commercialità dell’attività di impresa il cui valore del patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili, è che i beni siano destinati alla immediata rivendita a terzi. Invero, la finalità della disposizione è quella di impedire che, cedendo la partecipazione nelle società immobiliari, siano ceduti in esenzione i beni immobili che sono sottesi alla partecipazione stessa (cfr. in tal senso anche le circolari delle Agenzia delle entrate sia la norma di comportamento n. 166 della Associazione Italiana Dottori Commercialisti). Nelle società immobiliari di costruzione e di compravendita il complesso immobiliare costituisce il bene alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa; sicché, per tali tipologie di società immobiliari, gli immobili rappresentano “beni merce” e come tali trovano evidenza, sotto il profilo civilistico, nell’attivo circolante dello stato patrimoniale, tra le rimanenze. In tali casi la locazione avrà sempre carattere occasionale o strumentale al miglior realizzo degli stessi immobili. Nel caso, come quello in esame, in cui, invece, gli immobili sono utilizzati solo per gli affitti di azienda a terzi, l’attività della società perde la qualità di attività commerciale ed incorre nella presunzione assoluta di non commercialità. La stipulazione dei contratti di azienda con i terzi, quindi, non fa ritenere che la conferente abbia svolto attività commerciale ai sensi dell’art. 87 comma 1 lettera d d.p.r. 917/1986. 9. Né rileva la circostanza che il mandato relativo alla gestione dei servizi comuni, intercorso tra Consorzio, mandante, e (Omissis), mandataria, dovesse essere svolto “per conto della proprietà”. Infatti, da nessun elemento di fatto risulta che la (Omissis) ha compiuto attività di gestione né ha partecipato in alcun modo a tale attività, neppure sotto il profilo del coordinamento della stessa. Al contrario, se è vero che la società conferente può esternalizzare il servizio di gestione dei servizi comuni del centro commerciale ad una società terza, è, però, necessario, per configurare una vera e propria attività di gestione da parte della confe-


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rente, che la titolare del complesso immobiliare svolga, appunto, un’effettiva attività di coordinamento dei servizi eventualmente affidati all’esterno. Deve, quindi, sussistere all’interno della società locatrice una struttura organizzativa e operativa propria, funzionale alla prestazione di servizi o al coordinamento di quelli affidati all’esterno. 10. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione degli articoli 87, primo comma, lettera d, e secondo comma Tuir, nonché art. 1723 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello avrebbe mal interpretato il contenuto del mandato stipulato dal Consorzio alla (Omissis), in quanto quest’ultima si era impegnata a gestire il centro commerciale “per conto della Proprietà” e, quindi, per conto della (Omissis), trattandosi di mandato “per conto di terzo”, con ripercussione al terzo sia degli effetti sfavorevoli che di quelli favorevoli. Il consorzio era, quindi, parte del contratto di mandato in qualità di mandante, ma non era il beneficiario dell’attività gestoria esercitata dalla mandataria (Omissis), incanalandosi il beneficio in favore della terza (Omissis), pur se estranea al contratto di mandato. 10.1. Tale motivo è inammissibile. Invero, l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma – nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti (Cass., 14 luglio 2016, n. 14355). Nella specie, la ricorrente non ha in alcun modo indicato le regole di ermeneutica contrattuale eventualmente violate, incorrendo, quindi, nella inammissibilità del ricorso. Infatti, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli arti. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., sez. 3, 28 novembre 2017, n. 28319; Cass., sez. 3, 10 maggio 2018, n. 111254). 11. L’Agenzia delle entrate propone ricorso incidentale deducendo con il primo motivo “violazione degli artt. 36 d.lgs. 546/1992, 112 c.p.c., 1346 e 1418 c.c., in


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relazione all’articolo 360, comma 1, n. 4 c.p.c.”, in quanto la società ha conferito la procura al difensore in data anteriore alla notifica dell’avviso di accertamento, ma la Commissione regionale non ha pronunciato sulla domanda riproposta dalla Agenzia in appello, dopo il rigetto della stessa in primo grado. La data della sottoscrizione, diversamente da quanto sostenuto dalla sentenza di primo grado, che ha rigettato l’eccezione, non è un mero errore materiale. 11.1. Con il secondo motivo di impugnazione incidentale la controricorrente deduce “violazione degli artt. 36 d.lgs. 546/1992 e 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.”, nell’ipoteso in cui si volesse ritenere che la Commissione regionale, con la formula del dispositivo della sentenza “ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa e rigettata”, abbia inteso respingere tale eccezione. In tal caso la motivazione sarebbe assente. 11.2. Con il terzo motivo di ricorso incidentale la controricorrente deduce “Violazione degli art. 83 c.p.c. e 1346 e 1418 c.c., in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 4 c.p.c.” la scrittura privata farebbe prova, fino a querela di falso ai sensi dell’art. 2702 c.c., contro il soggetto che l’ha sottoscritta, se questi non ne disconosce la sottoscrizione. 11.3. Il ricorso incidentale proposto dalla Agenzia delle entrate deve ritenersi inammissibile. Infatti, l’Agenzia delle entrate era stata interamente vittoriosa nel giudizio di appello e l’eccezione è stata implicitamente rigettata dalla Commissione regionale. Pertanto, costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, anche alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, secondo cui fine primario di questo è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita (ove quest’ultima sia possibile) da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale (Cass., sez. un., 6 marzo 2009, n. 5456; Cass., 14 marzo 2018, n. 6138; Cass., sez. un., 25 marzo 2013, n. 7381). 12. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della società e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta i motivi primo, secondo, terzo, quarto e quinto; dichiara inammissibile il sesto motivo; dichiara inammissibile il ricorso incidentale.


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Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi C 35.000,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13 (Omissis)

(1) Conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni in Pex fra norme antielusive specifiche e sviste interpretative. Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le motivazioni della Corte di Cassazione. – 3. Condi-

visione in merito alla conclusione raggiunta dalla Corte di Cassazione e obiezioni circa il percorso argomentativo seguito dai Supremi giudici. – 3.1. L’applicazione al caso di specie dell’art. 87 comma 2 del Tuir in conformità alla sua natura di norma antielusiva specifica. – 3.2. La non applicabilità al caso di specie dell’art. 176 comma 4 del Tuir.

Nell’eventualità di un conferimento, in una società neocostituita, di un ramo di azienda “non commerciale”, cui ha fatto seguito, dopo breve tempo, la vendita, da parte del soggetto conferente, delle quote emesse dalla società conferitaria, la plusvalenza realizzata in sede di cessione della partecipazione non soddisfa il requisito di commercialità ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 87, comma 1, lett. d) e comma 2 del Tuir. Al riguardo, è da ritenere che la non applicabilità del regime di esenzione non derivi dall’art. 176, comma 4, del Tuir, in base al quale “Le aziende acquisite in dipendenza dei conferimenti effettuati con il regime di cui al presente articolo si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente. (…)”, bensì direttamente dalla ratio dell’art. 87, comma 2, del Tuir, la quale, in linea con la propria natura antielusiva, mira ad evitare che, mediante il mutamento, a ridosso della cessione della partecipazione, del tipo di attività di fatto svolta dalla società partecipata (da non commerciale a commerciale), il soggetto cedente fruisca indebitamente del regime della participation exemption. In case of a contribution, in a newco, of a “non-commercial” branch of business, followed, after a short period of time, by the sale of the shareholding issued by the transferee company, the capital gain realized on the occasion of the transfer of the named shareholding does not meet the commercial requirement pursuant to art. 87, par. 1, lett. d) and par. 2 of the Italian Tax Code. In our opinion the non-applicability of the exemption regime does not arise from art. 176, par. 4, of the Italian tax Code, according to which “Going concerns acquired on the occasion of contributions made by the regime provided by this article are deemed to be owned by the transferee company also for the holding period of the transferor company”, but it directly arises from the rationale of art. 87, par. 2, of the Italian Tax Code, which, in line with own anti-avoidance nature, aims at avoiding that, by the change, close to the sale of the shareholding, of the type of the activity actually performed by the subsid-


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iary (from commercial to non-commercial), the transferor unduly enjoy the participation exemption regime.

1. Introduzione. – La sentenza qui annotata riguarda il caso di una società di capitali residente in Italia (di seguito “la Conferente”), esercente, essenzialmente, attività di locazione di beni immobili, la quale ha conferito, in un’altra società di capitali italiana (di seguito “la Conferitaria”), un ramo di azienda consistente in un centro commerciale costituito da una pluralità di esercizi commerciali concessi a terzi mediante appositi contratti di affitto di ramo di azienda. Dopo alcuni mesi successivi al conferimento, effettuato in regime di neutralità fiscale ex art. 176 del Tuir, la Conferente ha venduto la partecipazione nella Conferitaria realizzando una plusvalenza assoggettata al regime di esenzione di cui all’art. 87 del Tuir. L’Agenzia delle Entrate ha emesso un avviso di accertamento con il quale ha affermato la tesi, in seguito avallata dai giudici di prime e seconde cure, in merito all’inapplicabilità del predetto regime di esenzione e questo perché la Conferitaria, a mente dell’art. 87, comma 1, lett. d) e comma 2 del Tuir, non avrebbe posseduto il requisito di commercialità, ininterrottamente, almeno dall’inizio del terzo periodo di imposta antecedente il realizzo, tenendo conto, al riguardo, anche del periodo di possesso, del ramo aziendale conferito, maturato in capo alla Conferente. Venendo direttamente alla sentenza di secondo grado, i giudici, nel confermare la posizione erariale, hanno sostenuto, per quanto di interesse, che: – non avendo la Conferitaria integrato il requisito dello svolgimento di attività commerciale, ininterrottamente, nel triennio precedente la cessione (ricavabile dal combinato disposto dell’art. 87, comma 1, lett. d) e comma 2 del Tuir), detto requisito non poteva che essere valutato in capo alla Conferente. Si nota, in proposito, che la Conferitaria ha svolto attività commerciale, rappresentata dall’effettuazione di servizi comuni nei confronti dei soggetti affittuari dei locali all’interno del centro commerciale, dalla sua costituzione,


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avvenuta a marzo 2008, sino al momento della sua cessione, da parte della Conferente, avvenuta a giugno 2008 (1); Quanto, invece, alla Conferente, essa si è limitata a svolgere l’attività economica di gestione del complesso immobiliare concesso a terzi mediante contratti di locazione o di affitto di ramo di azienda, la quale attività, ai fini della participation exemption, non è tendenzialmente considerata attività “commerciale”. D’altro canto, la Conferente non è stata in grada di dimostrare l’esercizio, prima e dopo il conferimento in parola, della predetta attività commerciale e questo perché, prima del conferimento, l’attività di cui si discorre è stata esercitata da un consorzio appositamente costituito tra i vari affittuari dei rami di azienda e da soggetti terzi in forza di contratti di prestazione di servizi e, dopo il conferimento, la citata attività è stata posta in essere direttamente dalla Conferitaria; – in caso di conferimento di azienda nel triennio anteriore alla cessione della partecipazione, la sussistenza del requisito di commercialità di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir deve essere valutato, in ossequio all’art. 176, comma 4, del Tuir, anche in capo alla Conferente. La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha respinto il ricorso della Conferente, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale, adducendo le motivazioni esposte nel successivo paragrafo. 2. Le motivazioni della Corte di Cassazione. – Il percorso motivazionale seguito dalla Corte di Cassazione, in conseguenza del quale è stato respinto il ricorso presentato dalla Conferente, può essere sintetizzato nei seguenti punti. In primo luogo, i giudici si sono premurati di illustrare contenuto e finalità del requisito di applicabilità del regime di esenzione di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir, osservando, al riguardo, come, al fine di soddisfare il requisito medesimo, sia necessario che la società partecipata “svolga effettivamente ed in concreto attività commerciale, seppure nella nozione allargata di cui

(1) Nella risposta all’interrogazione parlamentare dell’8 febbraio 2005, n. 5-03920, citata da M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2006, 1311, il Governo ha chiarito che costituisce esercizio d’impresa commerciale, ai fini dell’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir, la concessione in uso di fabbricati in cui la locazione non rileva autonomamente, ma è in connessione funzionale con una serie di servizi collegati volti ad incidere in maniera significativa sulla determinazione del corrispettivo (richiesta e gestione di autorizzazioni amministrative, promozione e pubblicità pulizia e manutenzione di spazi comuni, ecc.).


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all’art. 55 Tuir, ma comunque, non una attività limitata alla gestione dei beni immobili, costituenti in misura prevalente il valore del patrimonio, concessi in locazione o in affitto di azienda” (2). Quanto, invece, alla finalità propria del requisito di cui si discorre, i giudici, rinvenendone ratio antielusiva, hanno affermato, più in dettaglio, che “La finalità (…) è quella di favorire la circolazione, sotto forma di partecipazioni, di complessi patrimoniali che abbiano natura di vere e proprie aziende funzionali all’esercizio di attività di impresa, dotate di una capacità, anche potenziale, al concreto svolgimento di un’attività produttiva (…) (3). Le società “immobiliari”, però, per presunzione assoluta, non hanno il carattere della commercialità. La norma va interpretata nel senso che si vuole disincentivare la costituzione di società-contenitore, da utilizzare per trasferire singoli cespiti immobiliari plusvalenti, sfruttando l’esenzione prevista per le plusvalenze relative alle partecipazioni. Si vuole, insomma, impedire che la cessione della partecipazione nella società immobiliare si ponga su un piano di teorica equivalenza rispetto alla cessione degli immobili” (4).

(2) La sentenza in oggetto ha precisato, in proposito, che “(…) l’art. 87 comma 1 lettera d Tuir prevede, limitatamente alle società “immobiliari”, una nozione più ristretta di impresa commerciale rispetto a quella prevista dall’art. 55 Tuir e dagli artt. 3 e 4 d.p.r. 633/1972, i quali richiamano, non solo la nozione di imprenditore commerciale di cui all’art. 2195 c.c., ma anche quella di imprenditore di cui all’art. 2083 c.c. Vi è, dunque, nell’art. 87 comma 1 lettera d Tuir una presunzione assoluta di non commercialità per le società “immobiliari”, che reca una cesura netta rispetto alla nozione di impresa commerciale di cui agli artt. 55 Tuir e 4 d.p.r. 633/1972, limitatamente all’istituto del pex. La società partecipata non deve, quindi, svolgere attività di mero godimento dei beni, essendo escluse per presunzione assoluta le società di gestione immobiliare”. (3) Sul punto si veda anche Circ. Ag. Entr. 29 marzo 2013, n. 7/E e Risp. Ag. Entr. 28 novembre 2019, n. 502. (4) In questo senso anche Circ. Ag. Entr. 15 dicembre 2004, n. 152. La norma in questione pare, in realtà, confliggere con la finalità prevalente del regime della participation exemption, la quale, secondo la dottrina maggioritaria, non è di natura agevolativa, bensì di natura strutturale volta all’eliminazione del fenomeno della doppia imposizione economica sugli utili societari (circa la natura strutturale del regime della participation exemption si veda, inter alia, L. Carpentieri, Le prospettive evolutive dell’Ires: la participation exemption, in Riv. dir. trib., 2006, 372; R. Lupi, Participation exemption, classificazioni di bilancio e norma antielusiva, in Dial. dir. trib., 2004, 902; P. Pistone, Profili internazionali e comunitari, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), a cura di F. Tesauro, Bologna, 2007, 87-88; A. Simoni, La nuova imposta sulle società, in Atti del convegno “I cento giorni e oltre”, Bari, 2002, in Rass. trib., 142-143; F. Tesauro, La Participation exemption e i suoi corollari, Trib. Imp., 2003, 12; A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, Torino, 2013, 17 ss.; G. Zizzo, Participation exemption e riorganizzazioni societarie, in Fisco, 2002, 10572. In senso conforme si consenta il rinvio anche a F. Pedrotti, Cessioni


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In secondo luogo i Supremi giudici si sono concentrati sull’art. 87, comma 2, del Tuir distinguendo i casi in cui la società partecipata, al momento della cessione, sia, oppure no, costituita almeno dall’inizio del terzo periodo di imposta anteriore alla cessione. Nel primo caso, la società partecipata soddisfa il requisito di commercialità ove il medesimo permanga lungo l’arco del predetto triennio. Nel secondo caso, ossia in quello in cui tra la stipula dell’atto costitutivo della società partecipata e la cessione della relativa partecipazione intercorrano meno di tre anni, i giudici enucleano due ulteriori ipotesi: quella in cui la società partecipata non sia, prima della cessione, destinataria di alcun trasferimento di azienda e quella in cui la società partecipata riceva, prima della cessione, un conferimento di azienda da parte del futuro cedente della partecipazione nella società stessa. Nella prima ipotesi il possesso ininterrotto del requisito della commercialità deve essere monitorato lungo il periodo intercorso tra la data dell’atto costitutivo della società partecipata e la data di cessione della partecipazione in quest’ultima (5), mentre nella seconda ipotesi il possesso ininterrotto del requisito della commercialità deve essere valutato tenendo conto anche del

di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito di impresa ai fini dell’Ires, Milano, 2010, 112. A favore, invece, della natura agevolativa del regime della participation exemption, si veda A. Fantozzi, La nuova disciplina Ires: i rapporti di gruppo, in Riv. dir. trib., 2004, 489 ss.; A. Fedele, La nuova disciplina Ires: i rapporti fra soci e società, in Riv. dir. trib., 2004, 465 ss.). Il predetto conflitto è dovuto alla circostanza per cui, poiché i redditi conseguiti dalle società immobiliari c.d. di gestione sono soggetti, al pari di quelli prodotti da imprese operanti in settori economici differenti, ad imposizione ordinaria, l’esclusione della pex, nel caso di cessioni di partecipazioni nelle società immobiliari in parola, comporta il rischio di una doppia imposizione economica sugli utili societari che, in teoria, il regime di esenzione dovrebbe eliminare (al riguardo si consenta il rinvio a F. Pedrotti, Cessioni di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito di impresa ai fini dell’Ires, cit.,119. Nello stesso senso si veda anche M. Beghin, Gli immobili nell’impresa e le imposte sul reddito (tra l’opprimente regime della fiscalità dei privati, le società “di famiglia” e le occasioni dell’evasione, in AA.VV. Atti del convegno “La fiscalità immobiliare”, tenutosi a Siena il 12 febbraio 2010, a cura di F. Pistolesi, Milano, 2011, 56). Alle stesse conclusioni giunge anche G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. Falsitta, Estratto dal Manuale di Diritto Tributario, Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, XII ed., 2019, 251, il quale motiva poi la scelta adottata dal legislatore con l’intento di introdurre una norma antielusiva quale “disincentivo alla costituzione di società contenitore da utilizzare per trasferire singoli cespiti plusvalenti, in particolare immobili, sfruttando l’esenzione prevista per le plusvalenze relative alle partecipazioni”. Sul punto si veda anche A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, cit., 324 e 339-343. (5) A questo proposito si veda anche la Circ. Ag. Entr. 4 agosto 2004, n. 36, par. 2.3.4.


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lasso temporale in cui l’azienda era in possesso del soggetto dante causa (nel caso di specie la Conferente). In merito a quest’ultima ipotesi, quella rinvenibile nel caso di cui si discorre, la Corte di Cassazione ha sostenuto come “[i n.d.a.]l regime della participation exemption si intrecci con l’istituto del conferimento di azienda di cui all’art. 176 Tuir” e in particolare con il relativo comma 4 (6), il quale è espressione del principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti che connota il regime di neutralità fiscale previsto dal Tuir per le operazioni straordinarie d’impresa. Pertanto, l’applicazione, ad avviso dei Supremi giudici, dell’art. 176, comma 4, del Tuir, farebbe sì, nel caso in questione, che “poiché la conferitaria ha esercitato attività commerciale solo per tre mesi, mentre la conferente non ha mai svolto attività commerciale, in quanto semplice proprietaria di immobili affittati a terzi (…) non risulta integrato il requisito dell’esercizio triennale di attività commerciale”. A quest’ultimo proposito, è stato osservato, più in dettaglio, quanto segue: 1. “il principio della continuità nel possesso del complesso aziendale conferito, esteso ai beni oggetto del conferimento (comprese le partecipazioni), porta a ritenere che il soggetto conferitario deve verificare la sussistenza del requisito temporale tenendo conto anche del periodo di detenzione già maturato in capo al conferente”; 2. le società neocostituite, destinatarie di rami di azienda, “ereditano da questi [dal soggetto conferente n.d.a.] anche le caratteristiche rilevanti ai fini della valutazione dei requisiti di commercialità e residenza; sicché (…) la partecipazione detenuta nella conferitaria risulta assistita del requisito della commercialità rilevante ai fini dell’applicazione del regime pex, solo se la conferitaria “eredita” il ramo commerciale di una società che sia prevalentemente commerciale, a condizione che detta attività venga ininterrottamente svolta anche dalla conferitaria fino alla data di cessione della partecipazione e nel rispetto del requisito temporale ai sensi dell’art. 87, comma 2, del Tuir (…)”.

(6) La norma in parola dispone che “Le aziende acquisite in dipendenza di conferimenti effettuati con il regime di cui al presente articolo si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente. Le partecipazioni ricevute dai soggetti che hanno effettuato i conferimenti di cui al periodo precedente o le operazioni di cui all’articolo 178, in regime di neutralità fiscale, si considerano iscritte come immobilizzazioni finanziarie nei bilanci in cui risultavano iscritti i beni dell’azienda conferita o in cui risultavano iscritte, come immobilizzazioni, le partecipazioni date in cambio”.


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3. Condivisione in merito alla conclusione raggiunta dalla Corte di Cassazione e obiezioni circa il percorso argomentativo seguito dai Supremi giudici. – Si vuole, innanzitutto, esprimere il nostro consenso in merito alla summenzionata conclusione espressa dalla Suprema Corte secondo cui “poiché la conferitaria ha esercitato attività commerciale solo per tre mesi, mentre la conferente non ha mai svolto attività commerciale, in quanto semplice proprietaria di immobili affittati a terzi (…) non risulta integrato il requisito dell’esercizio triennale di attività commerciale”. Il nostro consenso muove, tuttavia, essenzialmente da ragioni attinenti la ratio dell’art. 87, comma 2, del Tuir, senza quindi chiamare in causa, come avvenuto nella sentenza qui commentata, l’art. 176, comma 4, del Tuir. Come segue. 3.1. L’applicazione al caso di specie dell’art. 87 comma 2 del Tuir in conformità alla sua natura di norma antielusiva specifica. – Riprendendo il filo del discorso interrotto alla fine del precedente paragrafo, si nota, più in particolare, come l’insussistenza, in capo alla Conferitaria, del requisito di svolgimento di impresa commerciale ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir sia ricavabile dall’interpretazione dell’art. 87, comma 2, del medesimo testo unico, il quale, in linea con la propria natura antielusiva (7), parrebbe consentire, con l’ausilio di un approccio sostanzialistico, l’intercettazione dei comportamenti dei contribuenti tendenti a violare lo spirito del menzionato art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir. E si ritiene sia stata proprio un’interpretazione in chiave sostanzialistica a condurre l’Agenzia delle Entrate (8) e la sentenza in commento all’afferma-

(7) La natura dell’art. 87, comma 2, del Tuir è rinvenibile dall’art. 11, comma 2, della L. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto del Contribuente), il quale annovera, indirettamente, tra le norme antielusive specifiche quelle che “allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti di imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario (…)”. In merito alla natura antielusiva della norma in parola si veda, tra gli altri, V. Ficari, La cessione delle partecipazioni e l’imposizione delle plusvalenze, in Boll. Trib., 2005, 1774, A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, cit., 358. (8) Cfr. Circ. Ag. Entr. n. 36/2004, par. 2.3.4. In dottrina si veda G. Zizzo, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. Falsitta, Estratto dal Manuale di Diritto Tributario, Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, cit., 248. Include l’art. 87, comma 2, del Tuir tra le norme c.d. di cautela fiscale M. Beghin, Diritto tributario, Quarta edizione, Padova, 2018, 632-633.


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zione secondo cui la finalità antielusiva dell’art. 87, comma 2, del Tuir è tesa essenzialmente ad evitare che, mediante il mutamento, a ridosso della cessione della partecipazione, del tipo di attività svolta dalla società partecipata (da non commerciale a commerciale), il soggetto cedente fruisca indebitamente del regime della participation exemption. È bene rilevare che, nel caso in questione, il comportamento del contribuente, siccome consistente nella violazione diretta di una norma antielusiva specifica, ossia l’art. 87, comma 2, del Tuir, è annoverabile tra quelli evasivi e non tra quelli elusivi (9). In forza della ravvisata finalità antielusiva dell’art. 87, comma 2, del Tuir, l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate – secondo cui “il possesso ininterrotto del requisito della commercialità, nel caso in cui la società partecipata sia costituita da meno di tre anni, debba riferirsi al minor periodo intercorso tra l’atto costitutivo e la cessione della partecipazione” – non può, quindi, ritenersi sempre operante, dovendosi previamente controllare se, tra il

(9) Autorevole dottrina si è posta il problema di valutare se, al fine di “impedire la strumentalizzazione dell’operazione (onde permettere l’applicazione del regime di esenzione in situazioni in cui non sarebbe applicabile)”, sia possibile il ricorso all’art. 10 bis della L. n. 212/2000, ove il conferimento di azienda e la cessione di partecipazioni fossero espressivi di un disegno unitario (cfr. G. Zizzo, Esercizio di impresa commerciale, conferimento di azienda e pex, nota a Cass. 8 maggio 2019, n. 12138, Rass. Trib., 2019, 859). La stessa dottrina ha tuttavia sostenuto come una siffatta ipotesi troverebbe un ostacolo nell’art. 176, comma 3, del Tuir e ciò in quanto la norma da ultimo nominata non si limiterebbe ad escludere dalla portata applicativa dell’art. 10 bis della L. n. 212/2000 le mere cessioni indirette di azienda, ma anche “l’alternativa tra cessione della partecipazione nella conferente e (previo conferimento dell’azienda) cessione della partecipazione nella conferitaria”. In realtà, un’interpretazione letterale dell’art. 176, comma 3, del Tuir non sembrerebbe consentire l’estensione della portata applicativa della norma stessa oltre le cessioni indirette di azienda. Quest’ultima affermazione parrebbe essere supportata, inoltre, dalla finalità della norma stessa, la quale, attesa la disparità di trattamento fiscale tra vendita e conferimento di azienda, pare recuperare sul piano sistematico la piena fungibilità economica (e anche fiscale) tra le due predette operazioni (in proposito si veda anche la Relazione governativa di accompagnamento al D.Lgs. n. 344/2003, il quale ha introdotto, a partire dal 1° gennaio 2004, l’art. 176 del Tuir). La norma in parola ha, inoltre, accordato piena legittimità fiscale, fornendo così certezza ai contribuenti, ad una sequenza di operazioni che, prima dell’introduzione della norma stessa, era spesso considerata elusiva dalla prassi dell’amministrazione finanziaria (cfr. A. Turchi, Conferimenti e apporti nel sistema delle imposte sui redditi, Torino, 2008 376-377). Quindi, tanto la lettera quanto la richiamata finalità dell’art. 176, comma 3, del Tuir, indurrebbero a ritenere che la “liberatoria” offerta dalla norma stessa riguardi solamente l’alternativa tra cessione diretta e indiretta dell’azienda e non anche l’alternativa tra cessione della partecipazione nella conferente e (previo conferimento dell’azienda) cessione della partecipazione nella conferitaria.


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momento della costituzione della società partecipata e quello in cui la stessa è oggetto di cessione, si siano verificati o meno eventi idonei ad incidere sulla natura commerciale dell’attività esercitata dalla società medesima (10). Ci si riferisce, in particolare, all’eventualità in cui una società avente quale oggetto sociale l’esercizio di un’attività commerciale, ceduta prima del decorso di tre anni dalla sua costituzione, abbia partecipato, come soggetto incorporante, beneficiario o conferitario, ad eventi, quali fusioni, scissioni o conferimenti di azienda o ramo aziendale, atti a condurre ad una compenetrazione tra attività facenti capo a diversi soggetti. In tal caso, la sussistenza del requisito di commercialità andrà verificato, su proiezione triennale retroattiva, anche tenendo conto dell’attività di fatto precedentemente esercitata, rispettivamente, dal soggetto incorporato, scisso o conferente (11). Più in dettaglio, nell’ipotesi in cui la società partecipata sia stata costituita in concomitanza, oppure appena prima, dell’operazione di fusione, scissione o conferimento e in cui la partecipazione in tale società sia ceduta appena dopo il perfezionamento di tali operazioni, senza quindi il tempo materiale per la società ceduta di esercitare la propria attività commerciale e di aver conseguentemente incrementato la consistenza del patrimonio registrato in sede di costituzione, la sussistenza del requisito di commercialità di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir dovrà essere valutata prendendo unicamente a base l’attività esercitata, nel triennio precedente l’operazione, dalla società incorporata, scissa o conferente (12).

(10) Tra questi eventi non possono figurare il semplice cambiamento dell’oggetto sociale, oppure il mutamento dell’attività in fatto esercitata, avvenuti dopo la costituzione della società, volti alla trasformazione di attività cui si è fatto cenno nel testo. Il caso potrebbe essere quello in cui una società svolgente attività non commerciale ai sensi del requisito di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir – ad esempio in quanto esercente attività di mera locazione immobiliare – la quale, in procinto della cessione della partecipazione, da parte dei soci, nel proprio capitale, mutasse l’attività economica di fatto svolta in quella di compravendita immobiliare. In tale eventualità il “test” di commercialità retroagirebbe, partendo dalla data di cessione della partecipazione, non oltre la data di costituzione della società partecipata e da esso emergerebbe il mancato soddisfacimento ininterrotto, dalla data di costituzione al momento della cessione della partecipazione, del requisito di commercialità. (11) In senso analogo, con particolare riferimento all’operazione di conferimento di azienda, si veda la Ris. Ag. Entr. 25 novembre 2005, n. 163/E e, più in generale, la Circ. Ag. Entr. n. 36/2004, par. 2.3.6.4. (12) Ibidem.


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Ove, invece, la società partecipata – costituita in concomitanza, oppure appena prima, dell’operazione di fusione, scissione o conferimento – sia stata ceduta prima del decorso di tre anni dalla data di costituzione, ma, tuttavia, dopo un lasso temporale sufficiente ad uno sviluppo profittevole della propria attività commerciale dal quale sia scaturito un incremento della consistenza del patrimonio netto effettivo registrato al momento dell’operazione riorganizzativa, allora – nel caso in cui, evidentemente, la società incorporata, scissa o conferente svolgesse, prima dell’operazione, attività non commerciale (si pensi al caso delle società immobiliari di pura gestione) – la sussistenza del requisito di commercialità di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir dovrà essere determinata comparando il predetto incremento patrimoniale con il valore effettivo del patrimonio “apportato” dalla società incorporata, scissa o conferente al momento dell’operazione. È da ritenere che, ai fini del predetto confronto, al valore effettivo dell’incremento di patrimonio netto generato dalla società ceduta dopo l’operazione riorganizzativa debba essere aggiunto il valore dell’eventuale avviamento generato dalla stessa società nel medesimo lasso temporale e che, per omogeneità, al valore effettivo del patrimonio “apportato” dalla società incorporata, scissa o conferente, rispettivamente, al momento dell’operazione di fusione, scissione o conferimento debba essere aggiunto il valore dell’eventuale avviamento prodotto da dette società fino al momento dell’operazione straordinaria. L’inclusione del valore di avviamento nelle due grandezze oggetto di confronto si rende doverosa a motivo del fatto che tale valore, così come quello del patrimonio netto effettivo della società ceduta, è, come noto, suscettibile di influenzare il corrispettivo di vendita della partecipazione e quindi l’ammontare della plusvalenza realizzata e ciò, per quanto qui più rileva, al fine ultimo di determinare la prevalenza tra la quota parte di detto provento maturata in ambito “commerciale” e la quota parte di esso maturata in ambito “non commerciale” e conseguentemente stabilire l’esenzione o l’imponibilità del componente positivo realizzato. A tal punto, il requisito di cui si discorre è soddisfatto solo nel caso in cui il valore effettivo dell’incremento del patrimonio netto della società ceduta registrato dopo l’operazione riorganizzativa sommato al valore di avviamento generato nello stesso periodo è superiore al valore effettivo del patrimonio “apportato” dalla società incorporata, scissa o conferente al momento dell’operazione di fusione, scissione o conferimento sommato al valore di avviamento prodotto da dette società fino al momento dell’operazione straordinaria.


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Venendo ora al caso di specie, poiché la Conferitaria è stata destinataria, dopo la sua costituzione e prima della sua cessione, di un conferimento di azienda per effetto del quale si è realizzata una compenetrazione tra l’attività svolta dalla Conferitaria e quella esercitata dalla Conferente, la sussistenza del requisito di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir è stato correttamente verificato dall’Agenzia delle Entrate e dai giudici, retroattivamente, a partire dal terzo periodo di imposta anteriore al realizzo, tenendo conto anche dell’attività di fatto svolta dalla Conferente. Da tale verifica è emerso come la Conferente non abbia mai svolto – in assenza, da quanto risulta dal testo della sentenza, di significative prove contrarie del contribuente – attività commerciale e quindi, come necessaria conseguenza, è stata dichiarata la violazione dell’art. 87, comma 1, lett. d) e comma 2 del Tuir (13).

(13) Si nota come la Suprema Corte abbia, indirettamente, considerato il complesso di beni trasferito dalla Conferente alla Conferitaria come un “ramo di azienda” ai fini dell’applicazione dell’art. 176 del Tuir, sostenendo al contempo la sua “non commercialità” ai fini dell’applicazione dell’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir. Questa apparente contraddizione è stata ricomposta dalla Suprema Corte alla luce della diversità tra la nozione di impresa commerciale contenuta nell’art. 55 del Tuir e quella, più ristretta, relativa alle società immobiliari, racchiusa nell’art. 87, comma 1, lett. d), Tuir (si veda pag. 13 del testo della sentenza). L’attività di locazione immobiliare – se svolta, come nel caso vagliato dai giudici di legittimità nella sentenza in commento, da una società di capitali – dà luogo ad un’impresa commerciale ai sensi art. 55, comma 2, lett. a), del Tuir. Pertanto, il complesso di beni riconducibile a tale impresa parrebbe, nel ragionamento della Cassazione, integrare il concetto di azienda di cui all’art. 2555 c.c. e, di conseguenza, rientrare nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 176 del Tuir (tale ragionamento sembrerebbe comunque discutibile alla luce del pensiero di quella dottrina, la quale, in occasione del commento della sentenza in discorso, ha avuto modo di osservare che il richiamo, effettuato dall’art. 176 del Tuir, alla nozione di “esercizio di imprese commerciali”, operi “come semplice criterio di qualificazione del reddito (quale reddito d’impresa), e non come rinvio all’effettivo svolgimento di una delle attività di cui all’articolo 55” (cfr. G. Zizzo, Esercizio di impresa commerciale, conferimento di azienda e pex, cit., 853) (va inoltre rilevato come, in altre occasioni, un complesso immobiliare locato sia stato assimilato ad un’azienda o ad un ramo aziendale: si veda, in proposito, l’art. 8, comma 1-bis, del D.L. 25 settembre 2001, n. 351, il quale prevede che l’apporto – ad un OICR immobiliare – di una pluralità di immobili locati sia da considerarsi compreso, ai fini Iva, nelle operazioni di cui all’art. 2, comma 3, lett. b), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 (ossia cessioni e conferimenti di aziende). La Circ. Ag. Entr. 19 giugno 2006, n. 22/E ha poi precisato, a commento della norma da ultimo nominata, che nel concetto di “pluralità di immobili” sia da ricomprendere l’ipotesi del centro commerciale, il quale, sebbene accatastato come unica unità immobiliare, è composto da porzioni suscettibili di produrre reddito in via autonoma. L’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir, dal canto suo, contiene la presunzione assoluta secondo cui non svolge impresa commerciale la società partecipata il cui valore patrimoniale è


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Parte seconda

A dire il vero, siccome la Conferitaria, prima della cessione delle partecipazioni nel suo capitale, ha comunque svolto, seppure brevemente, attività commerciale, i Supremi giudici avrebbero dovuto, più correttamente, motivare la propria tesi considerando come necessario in via preventiva, al fine della verifica in merito alla sussistenza o meno del requisito di commercialità, il predetto confronto – si intende il confronto tra il valore effettivo dell’eventuale incremento di patrimonio netto registrato dalla Conferitaria dopo la sua costituzione sommato al valore di avviamento generato nello stesso periodo e il valore effettivo del patrimonio “apportato” dalla Conferente al momento del conferimento sommato al valore di avviamento prodotto da quest’ultima società fino al momento dell’operazione straordinaria – a seguito del quale concludere, molto probabilmente, in linea con la prima delle due differenti

prevalentemente costituito da beni immobili, diversi da quelli alla cui produzione o scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa e dagli impianti e dai fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa. Pertanto, ove il valore del patrimonio della società – nel caso di specie il valore del patrimonio della Conferente – sia costituito prevalentemente da beni immobili locati, la società partecipata non è considerata svolgere un’impresa commerciale, con la conseguenza che, atteso il mancato soddisfacimento del requisito di cui alla lett. d), del comma dell’art. 87 del Tuir, l’istituto della participation exemption non è applicabile. Premesso quanto sopra, dai fatti di causa non emerge con precisione quali siano le caratteristiche della complessiva entità conferita; non è cioè del tutto chiaro se i beni immobili concessi in godimento abbiano costituito l’oggetto principale del negozio di conferimento, con funzione prevalente ed assorbente rispetto a tutti gli altri elementi desumibili dall’atto, ovvero tali beni abbiano fatto parte di un complesso più articolato i cui elementi fossero legati da un vincolo di complementarietà ed interdipendenza per il conseguimento di un fine imprenditoriale (tale differenziazione è stata desunta dalla già citata Risposta all’Interrogazione Parlamentare n. 5-03920 del 2005). Ancora più in dettaglio, non è chiaro se nell’entità conferita fosse possibile distinguere i beni immobili locati (negozi relativi ai punti vendita all’interno della “galleria commerciale”) dai singoli rami di azienda rappresentati dalle licenze per l’esercizio di attività commerciale all’interno dei singoli punti vendita (per questa differenziazione si veda la Risp. Ag. Entr. 7 novembre 2019, n. 469). Quello che emerge, a questo riguardo, dalla sentenza è solo che sia l’amministrazione finanziaria sia i giudici hanno considerato l’entità conferita come rientrante nella prima delle ipotesi testé formulate, ossia carente di quel requisito di “commercialità” idoneo a consentire alla Conferitaria di soddisfare il requisito di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir. Detto questo, va comunque rilevato come non si tratti della prima volta in cui, da un lato, il conferimento di un complesso di beni immobili, unitamente a rapporti di lavoro dipendente funzionali alla gestione di tale complesso, è stato considerato alla stregua di un conferimento di “ramo di azienda” ai fini dell’applicazione dell’art. 176 del Tuir, e, dall’altro lato, la plusvalenza derivante dalla successiva cessione della partecipazione nella conferitaria, in cui è stato trasferito il complesso immobiliare, è stata considerata imponibile per mancanza del requisito di commercialità di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir (cfr. Ris. Ag. Entr. n. 163/E/2005).


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ipotesi sopra formulate, circa l’impossibilità per la Conferitaria, nei soli tre mesi intercorrenti tra la sua costituzione e la sua cessione, di sviluppare la propria attività economica in modo da ottenere incrementi della consistenza del proprio patrimonio netto effettivo e/o del proprio avviamento. Da siffatto confronto sarebbe quindi emersa, al fine di verificare la sussistenza o meno del requisito di commercialità, la necessità di attribuire tutto il plusvalore registratosi sulla Conferitaria, dalla sua costituzione alla sua cessione, all’“apporto” effettuato dalla Conferente in sede di conferimento, con la conseguenza che, attesa l’asserita attività non commerciale svolta da quest’ultima società, al fine dell’applicazione del regime pex, durante tutto il periodo di osservazione di cui all’art. 87, comma 2, del Tuir (14), l’intera plusvalenza

(14) Come già osservato nella precedente nota, durante tale periodo la Conferente pare abbia svolto la mera attività di locazione a soggetti terzi di beni immobili di proprietà, la quale, ai fini dell’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir, è considerata, tanto dalla sentenza in commento quanto dalla prassi consolidata dall’Agenzia delle Entrate, non commerciale (la plusvalenza realizzata nel caso di specie avrebbe, invece, probabilmente soddisfatto il requisito di cui alla norma da ultimo nominata ove la Conferente avesse svolto una “gestione attiva” della “galleria commerciale”, la quale sussiste, in conformità al contenuto della citata risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-03920/2005, “se la locazione dell’immobile rappresenta uno degli elementi che compongono un coacervo di servizi resi assieme, ad esempio, alla richiesta e gestione delle autorizzazioni amministrative (licenze commerciali) per lo svolgimento delle attività nei singoli negozi, alla promozione (…) degli spazi pubblicitari, alla pulizia e manutenzione degli spazi e dei servizi accessori interni al centro commerciale (…)” ecc.). A questo proposito si rammenta come l’Agenzia abbia avuto modo di affermare che “(…) nel quadro della disciplina dettata dall’art. 87 del Tuir, il criterio formale di qualifica del reddito di cui al citato articolo 55 costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente ad individuare il requisito della commercialità, che va invece definito sulla base di un criterio sostanziale, secondo il quale non tutti i redditi prodotti nell’esercizio dell’impresa sono riferibili a un’attività commerciale nel senso richiesto dalla disciplina in esame. La finalità del regime pex, infatti, è quella di favorire la circolazione – sotto forma di partecipazioni – di complessi patrimoniali che abbiano natura di vere e proprie aziende funzionali all’esercizio di attività di impresa, dotate di una capacità, anche potenziale, al concreto svolgimento di un’attività produttiva” (cfr. Circ. Ag. Entr. n. 7/E/2013, par. 1.1. e, più di recente, Risp. Ag. Entr. n. 502/2019). A questa prassi dell’Agenzia delle Entrate è possibile obiettare che, poiché la participation exemption non si caratterizza, come si è già avuto modo di notare nel corso del presente lavoro, tanto per una funzione agevolativa, quanto per una funzione strutturale, tesa ad evitare la doppia imposizione economica degli utili societari, il divieto posto alle società immobiliari “di gestione”, dall’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir, di beneficiare del regime di esenzione si pone in contrasto con la predetta funzione strutturale e questo, essenzialmente, perché i redditi conseguiti dai soggetti poc’anzi nominati sono soggetti, al pari di quelli conseguiti da società operanti in altri settori, a imposizione ordinaria.


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Parte seconda

realizzata sarebbe stata da ritenersi imponibile per mancanza del requisito di cui all’art. 87, comma 1, lett. d), del Tuir. 3.2. La non applicabilità al caso di specie dell’art. 176 comma 4 del Tuir. – Come già notato, la Corte di Cassazione ha sostenuto l’assenza di commercialità dell’attività svolta dalla Conferitaria – e quindi l’imponibilità della plusvalenza su partecipazioni realizzata dalla Conferente – non già invocando, come sarebbe stato ragionevole attendersi, la ratio dell’art. 87, comma 2, del Tuir, bensì lamentando la violazione dell’art. 176, comma 4, del medesimo testo unico. Si è sopra osservato come l’applicazione, al caso di specie, della norma da ultimo nominata sia stata motivata dai Supremi giudici sostenendo essenzialmente che dall’intreccio del regime della participation exemption con l’art. 176, comma 4, del Tuir scaturirebbe quanto segue: 1. “il principio della continuità nel possesso del complesso aziendale conferito, esteso ai beni oggetto del conferimento (comprese le partecipazioni), porta a ritenere che il soggetto conferitario deve verificare la sussistenza del requisito temporale tenendo conto anche del periodo di detenzione già maturato in capo al conferente”; 2. le società neocostituite, destinatarie di rami di azienda, “ereditano da questi [dal soggetto conferente n.d.a.] anche le caratteristiche rilevanti ai fini della valutazione dei requisiti di commercialità e residenza; sicché (…) la partecipazione detenuta nella conferitaria risulta assistita del requisito della commercialità rilevante ai fini dell’applicazione del regime pex, solo se la conferitaria “eredita” il ramo commerciale di una società che sia prevalentemente commerciale, a condizione che detta attività venga ininterrottamente svolta anche dalla conferitaria fino alla data di cessione della partecipazione e nel rispetto del requisito temporale ai sensi dell’art. 87, comma 2, del Tuir (…)”. Il nostro dissenso in merito alla predetta tesi giurisprudenziale è sintetizzabile nei termini che seguono. Con riferimento al motivo addotto dalla Cassazione nel sunnominato punto 1., si osserva come il medesimo riguardi la fattispecie, diversa da quella risultante dai fatti di causa, attinente il periodo di possesso degli elementi patrimoniali conferiti, il quale, per effetto del combinato disposto dell’art. 176, comma 4, primo periodo e 176, comma 1, secondo periodo, del Tuir, è ottenuto dalla somma tra il periodo di possesso maturato presso il soggetto conferente e quello maturato in capo al soggetto conferitario.


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Sul punto si vuole osservare che, mentre il combinato disposto cui si è fatto cenno poc’anzi assume rilevanza sul mero piano oggettivo e cioè al fine di regolare le vicende connesse al trasferimento degli elementi patrimoniali attivi e passivi, in regime di neutralità fiscale, dal soggetto conferente a quello conferitario, detta combinazione normativa non è invece idonea a regolare la vicenda qui in oggetto, la quale attiene il diverso piano soggettivo costituito dall’attività svolta dalla società conferente prima del conferimento e dall’attività svolta dalla Conferitaria dopo l’operazione (15). Di qui l’evidente forzatura posta in essere dall’Agenzia delle Entrate e dai Supremi giudici, i quali, confondendo il piano soggettivo riguardante l’attività, commerciale o non, svolta dai contribuenti con il piano oggettivo concernente il periodo di possesso dei beni oggetto di conferimento, hanno imbastito una tesi, condivisibile, come abbiamo visto, quanto a conclusione, invocando però una norma – rectius: l’art. 176, comma 4, del Tuir – inconferente al fine di contrastare il comportamento evasivo tenuto dal contribuente. Venendo ora al motivo addotto dalla Cassazione nel sunnominato punto 2, si nota come, anche in questo caso, il tenore testuale dell’art. 176 del Tuir non legittimi l’interpretazione in base alla quale la norma da ultimo richiamata consente la trasmissione, dal soggetto conferente a quello conferitario, non solo delle posizioni fiscali relative agli elementi attivi e passivi conferiti, ma anche delle caratteristiche attinenti l’attività svolta dal soggetto conferente. A dimostrazione di ciò vale notare come anche la norma contenuta nell’art. 176, comma 4, secondo periodo, del Tuir si limiti a classificare le azioni o quote emesse in sede di conferimento tra le immobilizzazioni finanziarie e a ribaltare su dette partecipazioni l’“anzianità”, ai fini fiscali, dei beni dell’azienda conferita. Anche la norma in parola, in altri termini, si limita a fissare delle regole riguardanti beni giuridicamente sorti in occasione del conferimento (le azioni o quote emesse dalla società conferitaria) e non a regolare vicende concernenti l’attività svolta dal soggetto conferente prima del conferimento medesimo.

(15) A dimostrazione della svista in cuoi sono incorsi i Supremi giudici si riporta nel seguito il passo della sentenza in base al quale “Proprio (…) l’applicazione del principio di neutralità fiscale comporta che l’azienda ricevuta dalla società conferitaria si considera posseduta da quest’ultima anche per il periodo di possesso del conferente. Si tratta della applicazione del principio della “successione universale” in ambito fiscale del conferimento nelle posizioni soggettive del conferente”.


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Posto quanto sopra, sembra di poter rilevare come la sentenza in commento tenda a considerare il conferimento di azienda in società alla stregua di un’operazione “sui soggetti”, nella quale il soggetto conferitario subentra, non solo nelle posizioni fiscali degli elementi attivi e passivi patrimoniali oggetto di conferimento, ma anche nelle posizioni concernenti, più propriamente, la “persona” del conferente. Merita invece osservare come, a nostro avviso, il conferimento di azienda non sia annoverabile, al pari di fusioni e scissioni, tra le operazioni “sui soggetti”, bensì tra le operazioni “sui beni”. Invero, il regime dell’operazione di cui si discorre condivide con quello inerente fusioni e scissioni principalmente la neutralità fiscale del trasferimento degli elementi attivi e passivi patrimoniali all’avente causa (art. 176, commi 1 e 4 primo periodo, del Tuir per i conferimenti di azienda, art. 172, comma 1, del Tuir per le fusioni e art. 173, comma 1, del Tuir per le scissioni) e la continuità fiscale, corollario del predetto regime di neutralità, relativa alle partecipazioni attribuite dall’avente causa per effetto dell’operazione (art. 176, comma 4, secondo periodo, del Tuir per i conferimenti di azienda, art. 172, comma 3, per le fusioni e art. 173, comma 3, per le scissioni) (16). Nondimeno, mentre sussiste condivisione sul piano oggettivo, concernente cioè gli elementi attivi e passivi patrimoniali coinvolti nelle suddette operazioni, non sussiste (né potrebbe sussistere come vedremo tra breve) condivisione sul piano soggettivo e significativa in proposito pare la circostanza per cui nell’art. 176 non sia stata prevista una norma, simile a quelle contenute

(16) Si vuole notare, per inciso, che il predetto regime di neutralità fiscale e quello di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, suo corollario, sono previsti dall’art. 176 del Tuir, a differenza di quanto avviene per fusioni e scissioni, non in ottica strutturale, ma in funzione prettamente incentivante. Per approfondimenti sul punto si consenta il rinvio a F. Pedrotti, Cessioni di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito di impresa ai fini dell’Ires, cit., 178, ss. e 190, ss. Sulla stessa linea si veda anche A. Turchi, Conferimenti e apporti nel sistema delle imposte sui redditi, cit., 126, ss. La tesi testé esposta non è, tuttavia, pacifica. Sussiste infatti un altro filone dottrinale secondo cui il conferimento di azienda in società costituisce un’operazione strutturalmente neutrale non suscettibile di per sé di generare componenti positivi e negativi di reddito fiscalmente rilevanti; in proposito si veda, inter alia, R. Esposito, Profili sostanziali e funzionali dei conferimenti in natura. Analogia con le c.d. operazioni straordinarie ed esigenza di una disciplina comune, in Riv. dir. trib., 1997, I, 434, R. Lupi, Sostanza economica dei conferimenti e loro estraneità concettuale rispetto alla produzione di nuova ricchezza, in AA.VV., La fiscalità delle operazioni straordinarie d’impresa, a cura di R. Lupi e D. Stevanato, Milano, 2002, 89 e 93.


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nell’art. 172, comma 4, del Tuir (per le fusioni) e nell’173, comma 4, del medesimo testo unico (per le scissioni), volta a prevedere un subentro, dalla data in cui ha effetto l’operazione, da parte dell’avente causa negli obblighi e nei diritti relativi alle imposte sui redditi del dante causa (17). A quest’ultimo proposito, il legislatore dell’art. 176 del Tuir non avrebbe potuto, a ben vedere, spingersi oltre, giacché il regime di neutralità fiscale ivi contenuto, ispirato ad una logica di tipo prettamente incentivante, ha quali obiettivi precipui – a differenza di quello racchiuso, ad esempio, nell’art. 172 del Tuir, ispirato ad una logica di tipo strutturale, necessariamente discendente dalla continuità o sopravvivenza degli organismi produttivi nella fusione vista sul piano civilistico (18) – l’eliminazione degli ostacoli di natura tributaria alle riorganizzazioni d’impresa (19), nonché quello, a nostro avviso più

(17) Lo stesso ragionamento è essenzialmente riscontrabile nel lavoro di G. Zizzo, Esercizio di impresa commerciale, conferimento di azienda e pex, cit., passim, 857-859, e, in particolare, nella nota 14. Sul punto si veda anche A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, cit., 368. (18) Sul punto si veda G. Falsitta, Studi sulla tassazione delle plusvalenze, Milano, 1991, 44, il quale ha affermato, più precisamente, che la neutralità della fusione “non deriva dalla disposizione del primo comma dell’art. 123 [ora art. 172 n.d.a.], avente portata meramente dichiarativa ed esplicativa, ma è la conseguenza necessaria di quel principio di continuità o di sopravvivenza degli organismi produttivi e dei soggetti coinvolti nell’operazione, che contrassegna la vicenda in questione sul piano della disciplina del diritto commerciale. La neutralità discende, a guisa di corollario, del teorema del diritto societario secondo cui la fusione è simbiosi (e sopravvivenza) di organismi ed organizzazioni sociali”. Della tesi testé esposta si trova traccia anche nei lavori preparatori al Tuir, nei quali è stato notato che la fusione “conserva nel sistema delle imposte dirette le caratteristiche che le sono proprie nell’ambito del diritto civile: si tratta di operazioni che non attenendo la gestione dell’impresa ma esclusivamente allo status del soggetto imprenditore lasciano inalterati i rapporti giuridici esterni, compresi quelli tributari, incidono in un momento diverso e in certo senso preliminare a quello della produzione, e quindi non costituiscono, di per sé, fatti generatori di redditi e di perdite” (cfr. Note illustrative ministeriali al progetto di testo unico delle imposte sui redditi). Anche autorevole dottrina civilistica ha osservato che nella fusione “Sotto il profilo sostanziale (…) si ha perciò continuazione e non estinzione del contratto sociale, anche se l’attuazione dello stesso prosegue per tutti in un’unica società ed attraverso una rinnovata ed unitaria struttura organizzativa” (cfr. G.F. Campobasso, Diritto commerciale 2. Diritto delle società, VIII ed., a cura di M. Campobasso, Torino, 2012, 655). (19) In proposito la Relazione governativa di accompagnamento al D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358 (il quale ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 4 poi abrogato e sostituito, con modificazioni, nell’attuale art. 176 del Tuir) ha affermato che la ratio del regime di neutralità fiscale di cui si discorre sarebbe riconducibile alla “rimozione degli ostacoli di carattere tributario all’assunzione, da parte dei comparti produttivi nazionali, della struttura aziendale e giuridica


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corretto, di favorire la riallocazione di aziende sul territorio nazionale (20) giustificata da esigenze di rafforzamento dell’apparato produttivo del nostro Paese in conformità al criterio direttivo contenuto nell’art. 2, n. 16, della legge 9 ottobre 1971, n. 825 (legge delega per la Riforma tributaria del 1971) e ai principi ispiratori della Direttiva UE 23 luglio 1990, n. 434 poi sostituita dalla Direttiva 17 febbraio 2005, n. 2005/19/CE (21). È evidente come, attesa la finalità ultima dell’art. 176 del Tuir, la norma medesima si limiti a rendere fiscalmente irrilevanti i passaggi di beni tra soggetto conferente e soggetto conferitario in quanto atti, in assenza del predetto regime di neutralità, alla creazione, in caso di conferimenti di aziende plusvalenti, di materia imponibile considerata dal legislatore un ostacolo agli obiettivi suddetti.

Francesco Pedrotti

più soddisfacente in relazione agli obiettivi imprenditoriali da conseguire”. (20) In tal senso si veda M. Beghin, Le operazioni di riorganizzazione delle attività produttive, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria. I decreti legislativi di attuazione delle deleghe contenute nell’art. 3 della legge 26.12.1996, n. 662, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 336. (21) Per approfondimenti al riguardo si consenta ancora il rinvio a F. Pedrotti, Cessioni di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito di impresa ai fini dell’Ires, cit., passim, 71-95.


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Conferimento di azienda, cessione delle partecipazioni in PEX ed esercizio dell’attività commerciale della partecipata tra dottrina del Fisco e predeterminazioni normative (postilla a Francesco Pedrotti) 1. La nota di Francesco Pedrotti costituisce un’ottima base per qualche osservazione sul contenuto della sentenza in rassegna e, in particolare, per un approfondimento sulla portata della disposizione che si occupa, all’interno della disciplina sul reddito d’impresa, della participation exemption. Il caso esaminato dalla Corte è cristallino, pur collocandosi a monte di una pronuncia che noi reputiamo corretta quanto alle conclusioni raggiunte ma non condivisibile sul versante delle argomentazioni giuridiche dispiegate. Vediamo i fatti. Si trattava di stabilire, sullo sfondo dell’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR, se dovesse essere espunta dalla base imponibile IRES della società cedente la plusvalenza realizzata attraverso la vendita di partecipazioni in una società costituita qualche mese prima mediante conferimento di azienda in regime di neutralità fiscale ex art. 176 Tuir. Si noti come la società conferente-cedente non avesse svolto, sino al momento del suddetto realizzo, alcuna attività commerciale, essendosi limitata alla pura e semplice gestione di un certo numero di contratti di affitto di beni immobili. Per contro, l’impresa commerciale era stata esercitata dalla società conferitaria, sia pure per il breve lasso di tempo (circa tre mesi) intercorrente tra la data della sua costituzione e la data della cessione delle partecipazioni. Entra perciò in gioco l’art. 87 cit., stando al quale, ai fini del riconoscimento della PEX, va dimostrato che la società partecipata ha ininterrottamente esercitato un’impresa commerciale, “al momento del realizzo, almeno dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso”. Il linguaggio è univoco. L’espressione “dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso” individua invero un presupposto cronologico della fattispecie, per sua natura impermeabile a stime, congetture o valutazioni e dunque, da un certo punto di vista, oggettivo e certo. Non c’è spazio per improvvisazioni o acrobazie interpretative. Per conseguenza, di fronte ad una plusvalenza realizzata – come è accaduto nel caso concreto – nella giornata del 26 giugno 2008, il periodo di osservazione avrebbe dovuto inesorabilmente decorrere dal primo giorno del 2005, senza che tale indicazione potesse essere dilatata o ridotta (ma si potrebbe dire storpiata o alterata) per via ermeneutica.


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L’ampiezza del periodo di osservazione, come richiesto dall’art. 87 cit., costituisce il punto di snodo dell’intera vicenda processuale: la legge chiede che, ai fini del riconoscimento della PEX, la società partecipata abbia esercitato un’attività commerciale per un arco temporale abbastanza lungo, oscillante tra i tre e i quattro anni, e che tale attività sia stata svolta, all’interno di quel segmento cronologico, senza soluzione di continuità (22). Piaccia o non piaccia, la risposta al problema giuridico era a portata di mano. Si sarebbe potuto sostenere, nell’abbracciare uno schema di ragionamento assai stringato, che nel caso concreto le partecipazioni alienate si riferivano ad una società di recentissima costituzione, proprio per questo incapace di soddisfare il presupposto cronologico previsto dalla norma. Pertanto, in virtù di un’interpretazione dell’art. 87 cit. perfettamente aderente all’enunciato normativo, la plusvalenza non poteva beneficiare dell’esclusione da IRES. 2. Sorprende che l’amministrazione finanziaria, attraverso alcune interpretazioni ufficiali (23), abbia sostenuto – con riguardo al presupposto di cui all’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR – che, “nel caso in cui la società partecipata sia costituita da meno di tre anni”, la PEX può essere riconosciuta anche qualora l’impresa commerciale sia stata svolta per il “minor periodo intercorso tra l’atto costitutivo e la cessione della partecipazione”. In questo modo non ci si limita ad accogliere la regola giuridica, ma ci si spinge alla sua creazione. La disposizione viene in sostanza addomesticata e, in definitiva, stravolta, facendole dire ciò che la stessa legge, in base al dato testuale, non poteva e non voleva dire. L’affermazione non è di poco conto, perché sul primo piatto della bilancia troviamo una disposizione molto rigorosa quanto alla durata del periodo di osservazione, mentre nell’altro piatto troviamo una norma scaturente da una palese forzatura argomentativa, la quale finisce per manipolare il testo di legge, colorando di indeterminatezza la previsione legale (24).

(22) Per una compiuta analisi della disciplina di participation exemption si veda il volume di A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, Torino, 2013, passim. (23) Così Circ. Ag. Entr., 29-3-2013, n. 7, § 1.1., che in sostanza riproduce il § 2.3.4 della Circ. Ag. Entr., 4-8-2004, n. 36. (24) Sull’efficacia meramente interna delle circolari e, segnatamente, sul fatto che l’Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte, si rinvia a Cass., sez. V trib., 10 novembre 2000, n, 14619, in Dir. Prat. Trib, 2001, II, fasc. 3, 482, con nota di R. Succio, Sulla natura giuridica e rilevanza ai fini dell’interpretazione delle


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‘Indeterminatezza’, abbiamo detto. Ed infatti, nel riprendere il contenuto della circolare, potremmo domandarci cosa si intenda, in concreto, con l’espressione “società costituita da meno di tre anni” e, più precisamente, di quanto possa essere accorciato, sul sentiero dell’interpretazione creativa, il periodo di osservazione previsto dall’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR. Ed ancora: se le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate riguardino anche ai casi nei quali la vendita delle partecipazioni sia avvenuta a distanza di qualche giorno dalla costituzione della società partecipata. Pare che la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria sia stata condizionata dalla funzione antielusiva della disposizione della quale ci si sta occupando (25). In effetti, Francesco Pedrotti rammenta – e la posizione è da noi condivisa – come il requisito di cui all’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR miri ad evitare che, attraverso oculate modifiche dell’attività societaria, scientemente attuate a ridosso della vendita delle azioni o delle quote, il cedente, che fino a quel momento disponeva di partecipazioni in una società ‘senza impresa’, riesca a garantirsi l’applicazione della PEX, tradendone, in sostanza, lo spirito (26). È

risoluzioni e circolari ministeriali, in Diritto e pratica tributaria. Si veda anche, più di recente, Cass., sez. V, 31/10/2017, n. 25905 in Leggi d’Italia legale. È chiaro che, così come la circolare non può costituire la fonte genetica dell’obbligazione, essa non può prevedere la revoca di agevolazioni e nemmeno può essere fonte genetica della mancata applicazione del regime PEX. (25) Sulla funzione antielusiva dell’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR convergono, in effetti, le circolari richiamate sopra. Si veda altresì, sullo stesso punto, la Relazione governativa al d.lgs. 12-12-2003, n. 344. In dottrina, senza pretesa di esaustività, P. Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, 397-398; V. Ficari, La cessione delle partecipazioni e l’imposizione delle plusvalenze, in Boll. Trib., 2005, 1774; Zizzo, L’imposta sul reddito delle società, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2018, 440-442; A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze, cit., 323 ss.; A. Taccani, La participation exemption, in AA.VV., La nuova imposta sul reddito delle società, Milano, 2004, 14-15. (26) Il ragionamento va sviluppato nel contesto della c.d. ‘Riforma Tremonti’, che ha modificato lo schema di raccordo tra la fiscalità della società e la fiscalità del socio. Eliminata la preesistente disciplina del credito d’imposta, si è in effetti preferito tassare il reddito presso il soggetto produttore (la società), collocando nell’area di sostanziale irrilevanza tributaria i redditi circolanti in testa ai soci sotto forma di dividendi e di partecipazioni. In altre parole, un’imposizione in capo alla partecipata e una corrispondente detassazione in capo al partecipante. Questo schema impositivo entra tuttavia in crisi qualora ci si trovi al cospetto di c.d. ‘società senza impresa’. In effetti, in assenza di ricchezza prodotta da parte dell’ente, è difficile giustificare il riconoscimento della PEX in capo al socio, perché tale riconoscimento si colloca in una situazione nella quale la società, spolpata della materia imponibile, di regola non procede al versamento dell’IRES. La cessione di partecipazioni potrebbe perciò rappresentare, in tale


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chiaro che siffatto mutamento dell’attività può verificarsi anche in occasione di un conferimento aziendale, perché nulla impedisce – e, a quanto pare, nel caso esaminato dalla sentenza le cose sono andate proprio così – che il trasferimento del complesso produttivo dalla conferente alla conferitaria segni una discontinuità quanto alle modalità di impiego dei beni: dalla situazione di puro godimento in testa alla conferente (con partecipazioni fuori PEX) a quella di esercizio d’impresa commerciale presso da parte della conferitaria (con partecipazioni in PEX). In altre parole – e lo diciamo provocatoriamente, anche per testare la tenuta logica dello schema di ragionamento –, attraverso il comportamento qui sopra descritto e alla luce delle indicazioni dell’Agenzia delle Entrate, il venditore delle azioni o delle quote potrebbe beneficiare della exemption per le plusvalenze riguardanti partecipazioni in società esercenti da pochissimo tempo l’attività commerciale, le quali abbiano acquisito l’azienda, per conferimento, da una società che non svolgeva alcuna attività economica. Il presupposto dell’ininterrotto esercizio dell’attività commerciale al momento del realizzo della plusvalenza e per tutto il tempo indicato dalla legge è pertanto funzionale alla precisazione del contesto all’interno del quale è ragionevole che la PEX produca i propri effetti. Si tratta, se vogliamo, della predeterminazione del comportamento non elusivo (27). Certamente: il periodo di osservazione è molto ampio. Ma sembra che tale ampiezza sia stata voluta allo scopo di scoraggiare le strumentalizzazioni e gli abusi consistenti nell’artificiosa fabbricazione del presupposto PEX in prossimità della cessione delle partecipazioni (28). Ma nel diritto, come del resto nella vita, c’è anche l’altra faccia della medaglia. La configurazione legale di un così ampio periodo di osservazione consente di tracciare, secondo uno schema di residualità, l’area delle situazio-

contesto, lo strumento giuridico funzionale al trasferimento dei beni di primo grado (per loro natura generatori di plusvalenze tassabili), non necessariamente qualificabili come ‘azienda’, attraverso la cessione dei beni di secondo grado in regime PEX. La previsione di un ampio periodo di osservazione della partecipata tende ad evitare risultati di tal genere. Al riguardo, F. Padovani, Investimenti in società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2009, passim; Id., Dividendi (dir. Trib.), in Treccani Diritto on line; A. Viotto, op. cit., 324. (27) In generale, su questo argomento si veda, per tutti, L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano,1999, passim. (28) In questo senso, A. Viotto, op. cit., 358.


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ni in odore di abuso, includendovi tutte le fattispecie nelle quali difetti, anche per un solo giorno, l’ininterrotto esercizio di un’impresa commerciale. 3. Siamo arrivati al punto focale del nostro ragionamento. La predeterminazione normativa del comportamento elusivo, ottenuta mediante l’inserimento, tra i presupposti applicativi della PEX, di un periodo di osservazione decisamente ampio, oscillante tra i tre e i quattro anni, potrebbe condurre, in alcuni casi, alla tassazione di plusvalenze realizzate in contesti societari che non presentano, in concreto, alcuna curvatura abusiva. Si tratta di una conseguenza (non inusuale) della tecnica legislativa di predeterminazione. Per esempio, nel muovere in questa direzione, potrebbero essere considerate abusive (e quindi estranee al regime PEX) situazioni nelle quali ci sia stata una pur breve interruzione dell’attività, dovuta all’esigenza di ristrutturare gli impianti, di riparare un macchinario o alla stagionalità dell’impresa o all’improvviso licenziamento di un certo numero di dipendenti. Oppure situazioni nelle quali l’impresa commerciale sia stata ininterrottamente svolta sin dalla costituzione della società, senza arrivare però al pieno raggiungimento del periodo di osservazione stabilito dalla legge. L’operatore del diritto viene così a trovarsi ad un bivio: da una parte, la giustizia secondo la legge; dall’altra, la giustizia secondo le caratteristiche del caso concreto (29). La giustizia secondo legge passa attraverso l’enfasi dell’enunciato normativo e la valorizzazione, mediante quello stesso enunciato, dell’uguaglianza formale. L’argomento ricorrente si condensa nelle seguenti espressioni: “così sta scritto nell’articolo di riferimento”; “così ha voluto il legislatore”; “se la legge avesse voluto distinguere una situazione dall’altra, lo avrebbe detto”. E non c’è nulla da fare. Dura lex, sed lex. Quando ci si colloca su quest’ultimo binario argomentativo, la regola viene applicata con rigidità a tutte le situazioni rientranti nel suo spettro di applicazione, con la conseguenza – paradossale, se indagata nella prospettiva della ‘giustizia’ – che giammai la PEX potrebbe essere applicata ad una plusvalenza

(29) Il tema della “giusta imposta” si accompagna al tema della giustizia nell’alleggerimento dei metodi di tassazione. Si rinvia, per tutti, a G. Falsitta, Considerazioni conclusive, in M. Beghin-F. Moschetti-R. Schiavolin-L. Tosi-G. Zizzo, Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 275. La giustizia tributaria è argomento affrontato da G. Falsitta anche nel volume Per un Fisco “civile”, Milano, 1996, passim, e nel volume Il principio della capacità contributiva, Milano, 2014, passim.


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realizzata in occasione della vendita di partecipazioni in una società costituita da poco più di tre mesi. Ed è proprio questo – lo rammentiamo – il caso affrontato dalla sentenza in rassegna. Per contro, quando l’idea di ‘giustizia’ è filtrata dalla sostanza delle cose e c’è la propensione al (o forse, in modo più esatto, la sensibilità verso il) travalicamento di questo o di quell’orpello normativo (30) – quale potrebbe essere il periodo di osservazione fissato dall’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR –, l’operatore riesce a far leva sull’uguaglianza sostanziale. Forgia la regola senza trascurare la consistenza del fatto economico sottostante. Di questo passo, gli riesce persino di affermare quanto è stato sostenuto nelle circolari dell’amministrazione finanziaria richiamate nelle note precedenti. Vale a dire che, in alcune fattispecie concrete, il periodo di osservazione può incredibilmente – ma giustificatamente – ridursi al di sotto di quello esattamente individuato dalla legge. Non c’è niente di cui stupirsi perché la norma, intesa come risultato dell’interpretazione, finisce per dipendere non soltanto dall’enunciato, ma anche dalla ragion giustificatrice della legge e dai princìpi generali. Deve però trattarsi di una disposizione che, in virtù della sua conformazione, consenta un qualche margine di manovra all’interprete. C’è quindi un aspetto che il lettore non può trascurare. L’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR contiene una disposizione antielusiva che si colloca nel contesto di una predeterminazione normativa particolarmente rigida: infatti il periodo di osservazione dell’attività commerciale è indicato attraverso un linguaggio univoco, insuscettibile di manipolazione (‘l’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore’), e il mancato esercizio dell’attività commerciale in quel segmento cronologico è considerato un sicuro indice di elusione perpetrata mediante l’aggiramento di uno dei presupposti della PEX. Ciò significa che, qualora ci si trovi di fronte a situazioni nelle quali, in virtù di un’indagine sul caso concreto, sia da escludere l’esistenza di una fattispecie abusiva, l’individuazione di una regola di giustizia sostanziale, calata sull’operazione economica realizzata, non possa avvenire sul terreno dell’interpretazione del diritto, ma soltanto su quello della sua disapplicazione. È questa la via di uscita. In termini più semplici: la norma esprime una determinata regola in funzione antielusiva ma quella stessa regola può essere disappli-

(30) Questi temi fanno capolino nel bel volume di P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007, passim.


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cata proprio in considerazione della consistenza della fattispecie, qualora essa difetti, appunto, di offensività sul versante dell’abuso del diritto. È proprio questa la direzione presa dal collega Francesco Pedrotti, il quale, con riguardo alla funzione antielusiva dell’art. 87 cit. e alla posizione assunta dalla nostra amministrazione finanziaria, rileva quanto segue: “In forza della ravvisata finalità, l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate – secondo cui ‘il possesso ininterrotto del requisito della commercialità, nel caso in cui la società partecipata sia costituita da meno di tre anni, debba riferirsi al minor periodo intercorso tra l’atto costitutivo e la cessione della partecipazione’ – non può, quindi, ritenersi sempre operante, dovendosi previamente controllare se, tra il momento della costituzione della società partecipata e quello in cui la stessa è oggetto di cessione, si siano verificati o meno eventi idonei ad incidere sulla natura commerciale dell’attività esercitata della società medesima”. La conclusione è chiara. L’A. sta sostenendo che, in taluni casi, l’interpretazione dell’art. 87 cit. non può adagiarsi sullo schema argomentativo espresso dall’Agenzia delle entrate. Schema che può essere perciò di volta in volta abbandonato. Il punto è proprio questo: non c’è un’interpretazione da correggere, ma una disapplicazione da azionare, perché nel caso in discussione la consistenza della norma non può dipendere dall’accertamento di un fatto del quale non c’è traccia nell’enunciato normativo (la mancanza dell’elusione). In breve: spetta alla norma regolare il fatto, senza che sia il fatto ad implementare, dall’esterno, la norma. Se non ci si muove su questo piano, tenendo ben separata la funzione dell’interpretazione dalla funzione della disapplicazione, si rischia di incappare nell’errore nel quale sembra essere caduta anche la sentenza in rassegna. La linea ermeneutica espressa nelle circolari dell’Agenzia delle entrate è divenuta una sorta di ‘Moloch giuridico’, cosicché la dottrina del fisco si è trasformata nel punto di partenza per la decisione della controversia. Movendo da qui, resasi conto della concreta possibilità di un aggiramento della regola dedicata al periodo di osservazione dell’attività commerciale, la sentenza ha cercato di porvi rimedio intervenendo sul risultato interpretativo. È un caso – con un gioco di parole – di interpretazione antielusiva della disposizione antielusiva di cui all’art. 87, comma 1, lettera d), Tuir. Su questi aspetti non è il caso di dilungarsi. Basti rilevare – ma lo ha fatto bene Francesco Pedrotti – come l’art. 176, comma 4, TUIR, nello stabilire che l’azienda introdotta nella sfera patrimonia-


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le della conferitaria si considera posseduta da quest’ultima società anche per il periodo di possesso della conferente, è espressione della regola di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti. La citata regola, a sua volta, si innesta nella disciplina di neutralità dell’operazione di conferimento aziendale (31). Nulla a che vedere, pertanto, con la funzione antielusiva. L’art. 176 cit. si riferisce invero al trasferimento del complesso aziendale ed opera, per questo, sul piano esclusivamente oggettivo. Non agisce, per contro, sul piano soggettivo, e di certo non comporta il ribaltamento sulla conferitaria dell’attività economica oppure della situazione di mero godimento ascrivibili al conferente. Nel bene e nel male (32). Del resto, qualora, in luogo dell’azienda, il conferimento avesse riguardato una somma di denaro (33), dipoi impiegata dalla conferitaria per acquistare l’azienda della conferente e per utilizzarla, soltanto dal quel momento, per svolgere attività d’impresa, la situazione non sarebbe per nulla cambiata. Anche qui ci saremmo posti il problema dell’eventuale connotazione elusiva dell’operazione in ragione della modifica dell’attività societaria avvenuta a ridosso della cessione delle partecipazioni. Anche qui, nel valorizzare la lettera dell’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR, avremmo ragionevolmente concluso nel senso della irrilevanza del regime PEX, senza tuttavia scomodare, sul piano argomentativo, l’art. 176, comma 4, TUIR. 4. Siamo alle conclusioni. Nell’interpretazione della legge, i giudici e l’amministrazione finanziaria dovrebbero tenere conto delle imperfezioni dell’enunciato normativo, dei princìpi generali dell’ordinamento e dei principi settoriali che si riferiscono al settore tributario di riferimento (le imposte sul reddito, il reddito d’impresa, l’Iva e così via).

(31) F. Pedrotti, Cessioni di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito d’impresa ai fini dell’IRES, Milano, 2010, 190. Sull’argomento anche G. Corasaniti, Profili tributari dei conferimenti in natura e degli apporti in società, Padova, 2008, 253. (32) Piena adesione alla posizione di A. Turchi, Conferimenti e apporti nel sistema delle imposte sui redditi, Torino, 2008, 371, per il quale il principio della neutralità «si applica soltanto quando si tratta di riferire i requisiti dell’azienda alla partecipazione che la sostituisce, e non vale invece a trasmettere alla conferitaria requisiti (quali la residenza e la commercialità) propri dell’impresa conferente più che dell’azienda, la cui sussistenza e la cui anzianità di possesso non paiono poter essere influenzate dal regime fiscale applicato al conferimento». (33) Operazione strutturalmente neutrale sul versante del realizzo di plusvalenze o di minusvalenze.


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All’interprete va pertanto riconosciuto uno spazio di manovra al fine di evitare tassazioni paradossali, stridenti con le caratteristiche dell’operazione economica sottostante e con le finalità della legge. Tuttavia, quando ci si trova di fronte a disposizioni antielusive specifiche le quali, come nel caso della sentenza in rassegna, non consentono, in ragione della loro peculiare conformazione, di usufruire dei suddetti spazi di manovra perché incentrate su di un linguaggio univoco, il solo modo per portare giustizia nello svolgimento della funzione impositiva consiste nell’attivazione del procedimento di disapplicazione. Procedimento, quest’ultimo, che mette radici nelle determinazioni del contribuente, non nell’iniziativa dei funzionari o dei giudici. In assenza di disapplicazione, può essere pericoloso demandare alla fase dell’interpretazione (34) l’esigenza di tassazione secondo giustizia. Infatti, nel muovere in tale direzione, si corre il rischio di sovradimensionare la norma, facendo dire alla legge ciò che essa non dice, evocando regole (come la regola di continuità dei valori fiscali nel conferimento ex art. 176 TUIR) che nulla hanno a che vedere con il fatto del quale ci si sta occupando.

Mauro Beghin

(34) Infatti A. Viotto, op. cit., 362-363, evoca l’immagine, per la verità ambigua, dell’interpretazione “elastica”, riconoscendo dipoi che, nel caso dell’art. 87, comma 1, lettera d), TUIR, si potrebbe agire sul versante della disapplicazione quale correttivo rispetto alle distorsioni derivanti dalla rigida applicazione della norma.



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Gaetano Ragucci

Crisi aziendale e omesso versamento Iva e ritenute Irpef nel quadro della concezione tripartita del reato Sommario: 1. Crisi aziendale, omesso versamento di tributi e utilizzo delle risorse

finanziarie residue per il pagamento dei dipendenti. – 2. Le ragioni dell’inserimento nel D.Lgs. n. 74/2000 dei reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef. – 3. L’impossibilità di considerare la crisi economica quale causa di forza maggiore. – 4. Inapplicabilità dell’esimente dello “stato di necessità” dovuto al pericolo attuale di un “bisogno economico”. – 5. Il convincimento della necessità di pagare le retribuzioni per il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie non determina la mancanza di dolo, ma rappresenta un movente che può essere apprezzato quale circostanza attenuante. – 6. L’omesso versamento dei tributi nel contesto di una crisi economica imprevista ed imponderabile: impossibilità oggettiva di adempiere e mancanza di colpevolezza. – 7. Conclusioni.

La questione dell’incidenza della crisi aziendale sui reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef non è ancora giunta, nel dibattito giurisprudenziale, ad una soluzione compiuta. Inizialmente si è polarizzata l’attenzione sul mancato accantonamento delle somme dovute all’erario per negare che la crisi economica e di liquidità possa costituire una causa di forza maggiore. Più di recente si è discusso se il pagamento delle retribuzioni – finalizzato al sostentamento dei dipendenti e delle loro famiglie – possa rappresentare un’esimente per stato di necessità, ovvero faccia venire meno il dolo. Nel lavoro vengono esaminate le conclusioni della giurisprudenza alla luce della teoria tripartita del reato. The question of the impact of the economic crisis on the crime of omitted VAT payment and withholding income tax has not yet reached a complete solution in the jurisprudential debate. Initially, attention was polarized on the failure to set aside the sums due to the tax authorities to deny that the economic and liquidity crisis could be a cause of force majeure. More recently, it has been discussed whether the payment of wages – aimed at supporting the employees and their families – could represent an exemption due to a state of necessity, that is to say, it would cause malice. The work examines the conclusions of the jurisprudence in the light of the tripartite theory of the crime.


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1. Crisi aziendale, omesso versamento dei tributi e utilizzo delle risorse finanziarie residue per il pagamento dei dipendenti. – Sul tema della rilevanza della crisi aziendale ai fini della “non punibilità” delle condotte di omesso versamento di ritenute Irpef e di Iva (sanzionate penalmente dagli artt. 10 bis e 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000), come è noto, si è sviluppato un interessante e a volte confuso dibattito giurisprudenziale (1). Nonostante l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con le sentenze n. 37424 e n. 37425 del 2013 (2), negli ultimi anni si sono susseguite numerose pronunce che sono approdate a soluzioni non sempre uniformi, anche se prevalentemente orientate a ritenere configurato il reato in tutti i suoi elementi. Segnaliamo in particolare due recenti pronunce che si sono occupate del caso in cui l’imprenditore o l’amministratore con le residue somme di denaro disponibili abbia provveduto a corrispondere la retribuzione ai dipendenti, lasciando appunto insoddisfatto il debito verso l’erario (3). La prima sentenza – Cass. n. 6737/2018 – afferma che il convincimento dell’amministratore della società di dover pagare i dipendenti per consentire il loro sostentamento possa escludere il dolo; la seconda – Cass. n. 50007/2019 – sostiene, invece, che la corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti non faccia venir meno la rappresentazione e la volontà di omettere il versamento del tributo (e quindi il dolo), né tanto meno possa essere invocata quale causa di forza maggiore che esclude la punibilità.

(1) Per un’ampia disamina delle questioni trattate in giurisprudenza si veda cfr. I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, in Riv. dir. trib., 2013, III, 253; V. Ficari, Crisi di liquidità, omessi versamenti e forza maggiore, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 823; A. Pace, I reati di omesso versamento di ritenute certificate e di indebita compensazione, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 233; O. Mazza, Crisi di liquidità e crisi di legalità nell’accertamento dei reati di omesso versamento dei tributi, in Rass. trib., 2015, 415; S. Cannizzaro, Omesso versamento di tributi e crisi di liquidità: l’orientamento della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 249; A. Perini, Crisi di liquidità e reati tributari: l’omesso versamento dell’Iva alla vigilia dell’entrata i n vigore del codice della crisi, in Riv. dir. trib., 2020. (2) Per un’analisi critica di queste pronunce cfr. I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, cit., 253. (3) Le ragioni per cui questa condotta si verifica molto spesso sono abbastanza chiare: il mancato pagamento dei dipendenti determina con elevata probabilità un danno immediato all’attività di impresa, perché potrebbe incidere sulla prosecuzione dell’attività lavorativa; mentre il mancato pagamento dei debiti fiscali determina conseguenze negative solo nel lungo periodo in ragione delle lungaggini del procedimento di riscossione coattiva dei tributi.


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Queste pronunce ci danno lo spunto per proporre un inquadramento sistematico degli argomenti oggetto di discussione alla luce della concezione tripartita della struttura del reato, ossia la tipicità, l’antigiuridicità e la colpevolezza (4). Si deve segnalare, però, che la concezione tripartita è stata avversata da parte della dottrina penale in quanto, pur rappresentando un notevole sforzo per la sistemazione razionale degli elementi del reato, innanzitutto trascurerebbe il fatto che “la vera essenza del reato non è nei singoli componenti di esso e neppure nella loro addizione, ma nel tutto e nella sua intrinseca unità” (5). In questa prospettiva, si è rilevato che converrebbe tornare alla bipartizione fra elemento oggettivo ed elemento soggettivo, la quale “oltre ad avere una base logica granitica risponde, e nel miglior modo, alle esigenze della scienza del diritto, perché consente di esaminare in modo completo ed ordinato la materia che costituisce il contenuto del reato” (6). Anche autori contemporanei hanno avvertito che “la formula più adatta ad esprimere il necessario equilibrio tra approccio analitico e immanenza della complessiva cifra di disvalore del reato sia quella che distingue il profilo oggettivo dal profilo soggettivo dell’illecito” (7). In ogni caso, senza indugiare sulle differenti teorie relative alla struttura del reato (8), riteniamo che la concezione tripartita sia quella più idonea a soddisfare le esigenze di indagine per i reati che ci occupano. Non a caso anche i sostenitori della teoria bipartita “non intendono mettere in discussione i meriti garantistici di razionalità trasparenza e controllabilità che si attribuiscono alla teoria tripartita” (9), ma “si sono soprattutto limitati a sostituire il termine

(4) Questa teoria si è sviluppata in Germania all’inizio del Novecento ed è stata recepita in Italia tra gli altri da F. Alimena, Appunti di teoria generale del reato, Milano, 1938, 35; G. Marinucci, Il reato come azione, 1971, 37; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, Bologna, 1989, 138. (5) Così F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1960, 148. In tal senso cfr., altresì, F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Palermo, 1933, 72; U. Giuliani Balestrino, Sull’intima crisi della concezione tripartita del reato, in Indice pen., 1984, 465; A. Fiorella, voce Teoria generale del reato, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1987, 771. (6) Cfr. ancora F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., 148. (7) Cfr. G. De Vero, Corso di diritto penale, Torino, 2020, p. 377. (8) Deve, invero, darsi conto anche della teoria quadripartita: fatto (umano), antigiuridicità (del fatto), colpevolezza (del fatto antigiuridico) e punibilità (del fatto antigiuridico e colpevole). Per la concezione quadripartita si veda G. Marinucci-E. Dolcini-G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, parte generale, 2019, Milano, 209 e ss. (9) Cfr. G. De Vero, Corso di diritto penale, cit., 388.


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aspetti a quello di elementi ed hanno finito sempre per procedere ad un esame logico analitico dei vari aspetti del reato” (10). In definitiva, i fautori della concezione bipartita hanno seguito lo stesso procedimento di coloro che sostengono che alla sintesi unitaria si possa pervenire solo dopo una analisi. Ciò posto, con questo scritto, muovendo dall’esistenza del fatto umano (l’omesso versamento dell’Iva dichiarata per un importo superiore alle soglie di punibilità previste dalla norma), verificheremo innanzitutto se la crisi aziendale economica e finanziaria possa di per sé integrare gli estremi di una causa di forza maggiore; successivamente, qualora l’amministratore di un’impresa che attraversi una crisi aziendale economica e di liquidità paghi le retribuzioni ai lavoratori dipendenti, se si possa configurare un’esimente per “stato di necessità”, ovvero se sia ipotizzabile la mancanza del dolo. La forza maggiore, lo stato di necessità e la mancanza di dolo, come diremo meglio in avanti, incidono rispettivamente sulla tipicità, sulla antigiuridicità e sulla colpevolezza, determinando in ogni caso l’impunità dell’agente. Ci preme, infine, evidenziare preliminarmente che la giurisprudenza pronunciatasi sul tema ha spesso esaminato le argomentazioni difensive con un approccio poco attento alla struttura del reato. Ed invero – limitando l’attenzione alle predette sentenze – si afferma che “se vengono inseriti argomenti difensivi quali la forza maggiore e lo stato di necessità, il motivo sfocia comunque nell’asserita carenza dell’elemento soggettivo” (Cass. n. 6737/2018), quando invece la forza maggiore e lo stato di necessità, come accennato, incidono su elementi differenti del reato. I giudici aggiungono poi che “la Suprema Corte ha riconosciuto che l’omesso versamento in uno stato di crisi può non integrare il reato, o sotto il profilo dell’elemento soggettivo o sotto il profilo della esimente rappresentata dalla forza maggiore”, con ciò smentendo quanto rilevato in precedenza, in quanto si ammette che la forza maggiore potrebbe non incidere sull’elemento soggettivo. È, tuttavia, comprensibile che i giudici non si preoccupino oltremodo di proporre un esatto inquadramento teorico delle argomentazioni esaminate: la funzione del processo, infatti, è quella di risolvere una controversia e non certo di sistematizzare la materia trattata. Le ambiguità riscontrabili nella giurisprudenza sono, peraltro, ancor più giustificabili quando già in dottrina, come accennato, si avversano differenti ricostruzioni teoriche.

(10) Così F. Mantovani, Diritto penale, Padova 1992, 136


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2. Le ragioni dell’inserimento nel D.Lgs. n. 74/2000 dei reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef. – Prima di soffermarci sul tema dell’incidenza della crisi aziendale sui reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef, è opportuno richiamare brevemente la ratio dell’inserimento di tali fattispecie nel decreto legislativo n. 74/2000 in un’epoca successiva alla sua approvazione. Al proposito occorre evidenziare che, nell’ottica di disporre la sanzione penale quale extrema ratio, con la riforma di fine anni Novanta (Legge delega n. 205/1999) si è ritenuto di circoscrivere la reazione punitiva alle ipotesi di mancata presentazione della dichiarazione tributaria ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, ovvero di presentazione della dichiarazione con indicazioni di imponibili inferiori a quelli effettivi, in presenza di condotte fraudolente o di tributi evasi di ammontare molto elevato. Tali condotte risultavano, infatti, fortemente offensive per gli interessi erariali. L’omesso versamento dei tributi connesso a fatti imponibili regolarmente dichiarati, invece, non era ritenuto socialmente deplorevole al punto tale da legittimare una reazione penale, ritenendosi sufficiente la sanzione amministrativa (11). Sennonché la crescita del fenomeno dell’omesso versamento di ritenute fiscali Irpef da parte di sostituti di imposta, che spesso nel volgere di poco tempo “sparivano” agli occhi del Fisco (c.d. imprese apri e chiudi), ha inizialmente indotto il legislatore ad intervenire con la legge n. 311/2004, inserendo (12) la fattispecie di cui all’art. 10 bis (13).

(11) Prima delle innovazioni apportate al D.Lgs. n. 74/2000, con particolare riguardo all’omesso versamento di ritenute fiscali, si era, tuttavia, ipotizzata l’applicazione del reato di appropriazione indebita di cui all’art. 649 c.p. La sussistenza di questa fattispecie di reato è stata opportunamente esclusa dalla giurisprudenza, in quanto le somme che il datore di lavoro è tenuto a versare a titolo di ritenuta fanno parte del suo patrimonio e quindi non vi può essere una appropriazione indebita (cfr. Cass. n. 1327/2005). (12) La previgente legislazione penale tributaria prevedeva nell’ambito delle condotte penalmente rilevanti l’omesso versamento di “ritenute effettivamente operate” (art. 2, comma 2, D.l. n. 429/1982, convertito dalla legge n. 516/1982). (13) Cfr. P.M. Corso, Costituisce nuovamente delitto l’omesso versamento di ritenute, in Corr. trib., 2005, 263, il quale evidenzia che, anche per gli effetti della sanatoria fiscale disposta dalla legge n. 289/2002, il nuovo sistema penale tributario non aveva visto una completa attuazione, favorendo l’emersione di indici sintomatici di una grave compromissione degli interessi erariali a cui si è posto rimedio con il ricorso alla sanzione penale non tanto quale modalità repressiva, quanto come controspinta psicologica.


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Essendo in quegli anni venuti alla ribalta numerosi casi di omesso versamento dell’Iva dichiarata connessi ad operazioni di c.d. frodi carosello (14), il legislatore nel 2006 ha, altresì, introdotto il reato di omesso versamento dell’Iva di cui all’art. 10 ter (15). Posto che gli omessi versamenti di tributi non dichiarati, ovvero di quelli scaturenti dalla rettifica degli imponibili dichiarati (cioè il mancato versamento di tributi richiesti con gli avvisi di accertamento), possono determinare la configurazione dei reati dichiarazione omessa, nonché infedele o fraudolenta, le disposizioni introdotte dopo qualche anno dall’entrata in vigore della riforma sono qualificabili come “norme di chiusura”, la cui logica è quella di far rientrare nell’area penale quelle condotte di omesso versamento particolarmente riprovevoli (Iva e ritenute fiscali Irpef) in relazione alle quali la presentazione della dichiarazione appariva un adempimento posto in essere proprio per evitare conseguenze penali. Il problema emerso sin dalle primissime applicazioni degli art. 10 bis e 10 ter è stato, tuttavia, quello di coinvolgere soggetti le cui condotte poco avevano a che fare con gli intenti fraudolenti che la normativa intendeva scoraggiare e reprimere (16). La gran parte dei procedimenti penali, infatti, ha riguardato amministratori di imprese che svolgevano un’attività economica effettiva, per nulla collegata ad operazioni di frodi carosello, o comunque senza che vi fosse una precostituita intenzione di chiudere l’attività al fine di sottrarsi al versamento delle ritenute Irpef. In questi casi, invero, l’omesso versamento dei tributi era connesso ad una crisi di liquidità, dovuta ad un perdurante ciclo economico negativo, che gravava sull’azienda.

(14) Sul tema cfr. A. Giovanardi, Le frodi Iva, Torino, 2013. (15) Cfr. G. Checcacci, I reati con condotta di omesso adempimento all’obbligo tributario, in A. Giovannini-E. Marzaduri-A. Di Martino (a cura di), Trattato di diritto sanzionatorio tributario, Milano, 2016, vol. I, 754. Con specifico riguardo alla violazione del principio del ne bis in idem conseguente al cumulo delle sanzioni amministrative previste dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 e quelle penali cfr. A. Giovannni, Le sanzioni per omesso versamento Iva davanti alla Corte di Giustizia, in Corr. trib., 2016, 439, il quale nota che non vi è sovrapposizione tra principio di specialità e ne bis in idem, in quanto di fronte a fatti che sono in sostanza gli stessi la sentenza assolutoria penale non costituisce impedimento per la prosecuzione del procedimento amministrativo avente ad oggetto l’irrogazione della sanzione. Il ne bis in idem non guarda ai tratti di specializzazione della norma, ma al procedimento con finalità afflittive che si conclude per primo, il quale, anche se fa registrare un esito favorevole per il trasgressore, una volta avviato produce effetti preclusivi con riguardo all’altro procedimento. (16) Cfr. G. Checcacci, I reati con condotta di omesso adempimento all’obbligo tributario, cit., 765.


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Il notevole numero di processi che si è registrato con riguardo a questa tipologia di reati, è, peraltro, dovuto al fatto che l’omesso versamento di tributi dichiarati, a differenza delle condotte di dichiarazione fraudolenta, infedele od omessa, è agevolmente accertabile dal Fisco mediante procedure telematiche di controllo. È evidente che, ove il campo di applicazione delle norme fosse stato circoscritto ai casi di omessi versamenti di Iva e ritenute Irpef caratterizzati da condotte fraudolente, le questioni su cui si è dibattuto in giurisprudenza in questi anni non sarebbero emerse. Ed infatti, la crisi economica e di liquidità può incidere solo su aziende che svolgono un’attività effettiva (e non su “società cartiere”) e parimenti il problema del pagamento dei dipendenti si presenta solo nel caso in cui sussiste un’attività imprenditoriale. 3. L’impossibilità di considerare la crisi economica quale causa di forza maggiore. – Ciò posto, come anticipato, la prima riflessione che occorre svolgere è se la crisi finanziaria dell’azienda possa qualificarsi come causa di forza maggiore che determina la non punibilità del soggetto secondo quando prevede l’art. 45 del codice penale. Mancando una definizione normativa, si è sostenuto che la forza maggiore evoca un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile che determina l’assoluta (e non la semplice difficoltà) ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando (vis cui resisti non potest). Un simile evento annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti (non agit sed agitur) (17). In sostanza, la causa forza maggiore impedisce di considerare l’azione criminosa come opera propria di un determinato soggetto; la persona è costretta a comportarsi in modo difforme da quanto voluto. Se la volontà dell’agente è coartata in maniera assoluta, non sussiste alcun margine di scelta in merito al comportamento da seguire (18). In questa prospettiva, se sussiste una causa di forza maggiore viene meno la tipicità della condotta (primo elemento del reato), cioè la corrispondenza tra

(17) Cfr. A. Pecoraro Albani, Caso fortuito e forza maggiore (dir. pen.) in Enc. dir., VI, 1960, 390; A. Santoro, Caso fortuito e forza maggiore, in Noviss. Dig. it., II, Torino, 1958, 992; G. Fiandaca, Caso fortuito e forza maggiore nel diritto penale, in Dig. disc. pen., II, Torino, p. 107. In giurisprudenza cfr. Cass. 21 aprile 1980, in Riv. pen., 1980, p. 815. (18) Sul tema, con specifico riguardo alle sanzioni amministrative, cfr. M. Logozzo, Le cause di non punibilità, in A. Giovannini-E. Marzaduri-A. Di Martino (a cura di), Trattato di diritto sanzionatorio tributario, Milano, 2016, vol. II, 1461.


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il fatto umano e lo schema legale di una specifica figura di reato. Peraltro, come opportunamente notato, il fatto stesso che l’art. 45 c.p. sia inserito all’interno della struttura del reato, prima dell’errore e delle scriminanti, conferma l’assunto che la forza maggiore incida sulla tipicità del fatto (19). Vi è, comunque, in dottrina chi riconduce la forza maggiore al tema del dolo o della colpa e quindi alla colpevolezza, terzo elemento del reato. Secondo questa visione, se si configura una causa di forza maggiore, “manca già in partenza la precondizione di un addebito a titolo di dolo o di colpa; precondizione cioè rappresentata dalla possibilità di considerare l’azione criminosa come opera propria di un determinato soggetto” (20). Tralasciando la questione dell’inquadramento teorico della forza maggiore, anche perché essa, unitamente al caso fortuito, è stata definita “istituto senza patria” per la sua controversa collocazione sistematica (21), notiamo che la giurisprudenza penale pronunciatasi con riguardo ai reati tributari, pur affermando che la crisi economica possa integrare un’ipotesi di forza maggiore (22), ha assunto una posizione estremamente rigida in merito alla dimostrazione che tale crisi abbia determinato l’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando (23). Si è rilevato, in particolare, che la crisi economica elimina il carattere illecito dell’omesso versamento solo se preesista rispetto al momento in cui l’imprenditore è chiamato a versare il tributo. Pertanto, nessun rilievo è stato dato ad una crisi di liquidità (inesistenza di somme depositate sul conto corrente alla data di scadenza del pagamento dei debiti tributari) di carattere temporaneo.

(19) Cfr. I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, cit., 265, il quale nota che con tale istituto siamo in una fase strutturalmente antecedente sia rispetto alla verificazione dell’elemento psicologico (dolo o colpa), sia alla presenza di una non punibilità determinata dalla presenza di una scriminante. (20) Così G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 168 (21) Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., 187 (22) Va segnalato che la giurisprudenza in merito ad altri reati ha affermato la sussistenza di una causa di forza maggiore con riguardo a eventi imprevisti di natura economica, come nel caso dell’omesso versamento dei contributi previdenziali da parte del presidente di una azienda municipalizzata motivato dall’impossibilità di reperire le risorse finanziarie a causa dell’inadeguatezza delle entrate rispetto alle spese (Cass. pen., 13 ottobre 1981, in Foro it., 1982, II, 369). (23) Sul punto la giurisprudenza penale è copiosa e per tutte si veda Cass., n. 5905/2014; Cass., n. 15416/14; Cass., n. 15176/14; Cass., n. 8352/2015; Cass., n. 25317/2015; Cass., n. 18501/2015; Cass., n. 30397/2016; Cass., n. 15235/2017


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In quest’ultimo caso, per fare fronte alla assenza di denaro, si potrebbe cedere un elemento dell’attivo patrimoniale, ovvero ricorrere al credito bancario ovvero ad un finanziamento dei soci o del titolare. Se, invece, la carenza di liquidità ha origine in una crisi economica risalente nel tempo, vi sarebbero margini per dimostrare la non imputabilità all’imprenditore medesimo della crisi, nonché la circostanza che detta crisi non poteva essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure. Sul punto, tuttavia, le Sezioni Unite con le sentenze n. 3724 e 37525 del 2013 e la successiva giurisprudenza di cassazione (24) hanno affermato che il mancato accantonamento (25) dell’Iva incassata o delle ritenute Irpef operate rende di fatto irrilevante quanto effettuato per porre rimedio alla crisi aziendale. Grazie all’accantonamento, l’imprenditore evita di trovarsi in una situazione di impossibilità ad assolvere il debito fiscale alla scadenza. La tesi giurisprudenziale che teorizza l’obbligo di accantonare l’Iva addebitata in fattura, ovvero le ritenute fiscali Irpef operate, è stata oggetto di accese critiche. Si è detto in particolare che la struttura del reato omissivo si concreta nel semplice mancato adempimento dell’obbligo, essendo richiesta esclusivamente la condotta del “non fare” nel momento di consumazione del reato; non interessa, quindi, la condotta del soggetto precedente al momento di scadenza dell’obbligo di pagamento (26). Si è rilevato ancora che un simile addebito troverebbe fondamento in un comportamento colposo più che doloso, in quanto frutto di una gestione aziendale imprudente, ed in ogni caso si sposterebbe in un momento antecedente rispetto alla scadenza del termine per il versamento, con il rischio di rimproverare al contribuente una condotta inesigibile (27). A ciò possiamo aggiungere che – pur ammettendo che l’accantonamento eviti la confusione tra la liquidità “sostanzialmente” nella titolarità dell’impresa (il cui ipotetico azzeramento va considerato come conseguenza del rischio di

(24) Da ultimo Cass. pen., n. 30688/2019. (25) Il termine accantonamento non va inteso in senso tecnico-contabile, ma materiale, cioè ad esempio mediante deposito delle somme in un apposito conto corrente bancario o postale. (26) Cfr. I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, cit., 259; A. Perini, Crisi di liquidità e reati tributari: l’omesso versamento dell’Iva alla vigilia dell’entrata i n vigore del codice della crisi, in Riv. dir. trib., 2020. (27) Cfr. G. Checcacci, I reati con condotta di omesso adempimento all’obbligo tributario, cit., 768.


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impresa), e la liquidità di cui essa è titolare solo “formalmente”, in quanto proveniente dai clienti o di spettanza dei sostituiti e specificamente destinata ad essere riversata all’erario (sulla quale invece non possono ricadere le conseguenze di una crisi finanziaria) – affermare l’obbligo di accantonamento dell’Iva e delle ritenute Irpef significa escludere automaticamente la possibilità che una crisi economica preesistente e non dovuta ad una cattiva gestione dell’impresa possa configurare gli estremi di una causa di forza maggiore (o comunque escludere il dolo per involontarietà della condotta). Vi è, però, da considerare che a volte l’imprenditore o l’amministratore non ha nulla da accantonare, come nel caso di mancato incasso delle fatture per le operazioni attive effettuate; ipotesi in cui permane, comunque, l’obbligo del versamento all’erario di quanto addebitato in fattura a titolo di rivalsa. Rileva poi il fatto che è del tutto improbabile che al momento di incasso della fattura sia possibile quantificare l’importo da accantonare, poiché l’entità dell’Iva da versare periodicamente dipende non solo da quanto addebitato a titolo di rivalsa, ma anche dall’ammontare degli acquisiti per i quali può essere esercitato il diritto di detrazione dell’Iva dovuta ai fornitori. Ed allora, sarebbe stato più ragionevole che la giurisprudenza avesse affermato che la crisi economica non possa mai rappresentare una causa di forza maggiore, in quanto quest’ultima – come detto – si ricollega ad un evento (o un’energia esterna) così radicale per cui, nonostante l’apparente conformità al tipo, la condotta dell’agente non può ritenersi configurata. Evento che, a nostro avviso, non può concretamente ricondursi ad una crisi economica (28). Dobbiamo sottolineare poi che assumere l’esistenza dell’obbligo di accantonamento in un apposito conto corrente delle somme dovute al Fisco a titolo di Iva e ritenute Irpef potrebbe precludere irragionevolmente ab origine la possibilità di invocare altre ipotetiche situazioni meno radicali della forza maggiore, ma che comunque consentono di giungere all’impunità dell’agente, quali un’eventuale causa di giustificazione, nonché la mancanza del dolo. 4. Inapplicabilità dell’esimente dello “stato di necessità” dovuto al pericolo attuale di un “bisogno economico”. – Assunta l’impossibilità di ricondurre la crisi economica ad un evento che annulli la signoria del soggetto sui propri comportamenti (forza maggiore), ed esclusa la sussistenza di un

(28) In termini analoghi cfr. G. Checcacci, I reati con condotta di omesso adempimento all’obbligo tributario, cit., 766.


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dovere preventivo di accantonamento delle somme da versare a titolo di Iva e ritenute Irpef, la non punibilità di tale condotta potrebbe ricondursi alla sussistenza di cause di giustificazione (c.d. esimenti) che fanno venir meno la sua antigiuridicità. L’antigiuridicità (secondo elemento del reato) si risolve nella verifica che il fatto tipico non sia coperto da cause di giustificazione connesse al complesso delle norme del sistema penale e dell’intero ordinamento giuridico (29). In questa prospettiva, la presenza di un’esimente annulla l’antigiuridicità di un comportamento indiziato dalla semplice conformità al tipo, rendendolo giustificato o consentito (30). La valutazione dell’inesistenza di antigiuridicità ha carattere oggettivo (a differenza della colpevolezza che si sviluppa sul piano soggettivo), e questa caratteristica trova riscontro nell’art. 59 c.p., il quale appunto dispone che le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute. Occorre, tuttavia, precisare che in dottrina vi è anche chi intende il termine antigiuridicità non quale mero elemento costitutivo dell’illecito, ma quale essenza stessa del reato, poiché esso si caratterizza per l’opposizione col diritto. L’antigiuridicità (o illiceità) è frutto di una valutazione su un fatto, riconoscendolo contrario all’ordinamento giuridico; valutazione che attiene a tutti i fattori sia quelli oggettivi, sia quelli soggettivi (31). Si segnala ancora che altra parte della dottrina nega che l’antigiuridicità rappresenti un elemento autonomo del reato, qualificando le cause di giustificazione come elementi negativi del fatto (32). Tali cause, in questa visione, integrerebbero le fattispecie criminose, nel senso che la loro presenza produrrebbe gli stessi effetti della mancanza degli elementi essenziali del reato.

(29) Per una critica a questa impostazione cfr. G. De Vero, Corso di diritto penale, cit., 388, il quale nota che l’unica sede in cui vanno sistemate le cause di giustificazione è quella dei limiti di applicabilità della norma penale incriminatrice, e non la teoria generale del reato, né tantomeno la sua analisi. (30) Cfr. G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 143. (31) Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., 1960, 136. (32) Cfr. A. Pagliaro, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 142. Per una critica a questa impostazione cfr. G. De Vero, Corso di diritto penale, cit., 385, per il quale essa, nel tentativo di esorcizzare l’antigiuridicità come requisito autonomo dell’illecito penale, è foriera di inconvenienti non meno rilevanti.


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In ogni caso, la disputa circa il differente modo di considerare l’antigiuridicità è un riflesso della differente concezione (tripartita o bipartita) del reato (33). Orbene, pur consapevoli che “le cause di giustificazione più frequentemente applicate sul terreno dei reati di azione non accedono altrettanto facilmente alla realizzazione di un reato omissivo: lo possono solo in presenza di circostanze assai particolari suscettive forse più di essere immaginate che non di verificarsi nella realtà” (34), riteniamo di dovere verificare se lo “stato di necessità” possa rappresentare una circostanza che trovi applicazione ai reati tributari di omesso versamento Iva e ritenute Irpef. Secondo quanto dispone l’art. 54 c.p., lo stato di necessità si configura quando l’agente pone in essere la condotta indiziata come criminosa per sottrarsi dal pericolo attuale e inevitabile di un danno grave alla persona. Assunto che la caratteristica di questa causa di giustificazione è data dal coinvolgimento di un soggetto estraneo alla situazione che ha determinato l’azione necessitata, la sua ratio si rinviene nel venir meno dell’interesse a punire quando il fatto sia commesso per soddisfare un bene di valore equiparabile a quello sacrificato (35). Ciò posto, potrebbe, invero, sostenersi che, in una situazione di liquidità ridotta dovuta alla crisi economica che attraversa l’azienda, il mancato pagamento dell’Iva dichiarata, causato dall’utilizzo delle risorse per il pagamento dei lavoratori dipendenti, configuri un’azione caratterizzata dallo stato di necessità, poiché finalizzata ad evitare che i lavoratori dipendenti si trovino senza risorse economiche per il sostentamento loro e delle loro famiglie (36). Sul punto, tuttavia, non si può trascurare che la giurisprudenza ha da tempo affermato che lo stato di necessità non sia applicabile nei casi di “bisogno economico”, in quanto quest’ultimo può essere fronteggiato dalla moderna organizzazione sociale con i suoi vari istituti (37). La necessità di assicurare ai dipendenti il sostentamento immediato con la corresponsione della retribuzione,

(33) Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., 139. (34) Così G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 456. (35) Cfr. G. Panebianco, Lo stato di necessità, in G. De Vero (a cura di), La legge penale, il reato, il reo, la persona offesa, Torino, 2010, 404. (36) Analoghe esigenze di sostentamento economico potrebbero sorgere in capo all’imprenditore o ai soci (nel caso di una piccola società a ristretta base sociale), qualora il mancato pagamento delle retribuzioni determini la cessazione dell’attività d’impresa. (37) Cfr. Cass., 17 luglio 1981, in Riv. pen., 1982, 538.


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ma anche nel futuro mirando alla prosecuzione dell’attività aziendale, non può rappresentare, quindi, “un pericolo attuale di un danno grave alla persona” (38). Vero è che vi sono recenti sollecitazioni della giurisprudenza di legittimità per un’interpretazione evolutiva dell’art. 54 c.p. finalizzate ad includere nel suo campo di applicazione qualsiasi “grave danno dei diritti inviolabili della persona umana”, e che tali input hanno indotto i giudici di merito a scriminare anche condotte di occupazione abusiva di immobili e di abusivismo edilizio in ragione della tutela del diritto di abitazione (39), ma allo stato ci sembra che, con specifico riguardo ai reati tributari, risulti molto difficile configurare l’inevitabilità del pericolo connesso al bisogno economico. 5. Il convincimento della necessità di pagare le retribuzioni per il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie non determina la mancanza di dolo, ma rappresenta un movente che può essere apprezzato quale circostanza attenuante. – Di fronte ad un omesso versamento Iva o di ritenute Irpef in presenza di una crisi economica preesistente, “motivato” dal fatto di aver pagato i dipendenti (40), al fine di escludere la punibilità non resta che indagare l’eventuale mancanza del dolo dell’agente, il quale rappresenta, come è noto, l’elemento che consente l’imputazione personale del fatto di reato all’autore (41). La sussistenza del dolo rientra nel giudizio di colpevolezza (terzo elemento del reato), il quale valuta quelle circostanze idonee ad alterare la capacità di autodeterminazione del soggetto, circoscrivendo la responsabilità penale nei limiti di ciò che è prevedibile ed evitabile (42).

(38) In senso conforme cfr. I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, cit., 259, il quale aggiunge che il pericolo attuale di un danno grave alla persona non ricorre nemmeno nel caso di danno all’impresa (e non ai lavoratori), tant’è che tutti gli esempi che si trovano nella manualistica riguardano ipotesi di pericolo fisico strettamente personale. Si veda anche G. Checcacci, I reati con condotta di omesso adempimento all’obbligo tributario, cit., 767. (39) Cfr. G. Panebianco, Lo stato di necessità, cit., 409. (40) Presupponendo come detto l’insussistenza di un dovere preventivo di accantonamento delle somme da versare e ritenendo non configurabile una causa di forza maggiore e la scriminate dello stato di necessità. (41) Cfr. G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 261. (42) Sul punto cfr. G. De Vero, Corso di diritto penale, cit., 391, il quale evidenzia che il più recente approdo della teoria tripartita attribuisce al dolo e alla colpa una doppia posizione nella struttura del reato: elementi soggettivi della tipicità, da un lato, e fondamentali requisiti della colpevolezza, dall’altro, ma questa doppia posizione è sconcertante in termini di plausibilità dogmatica. Non vi è, invero motivo per non ribadire che il dolo e la colpa


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L’art. 43 del c.p. specifica che il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso è dall’agente “preveduto” e “voluto” come conseguenza della propria azione od omissione. La dottrina penalistica osserva che il dolo consta di due componenti psicologiche: la “rappresentazione” e la “volontà” di realizzare gli elementi costitutivi di un reato (43). Rappresentazione e volontà hanno punti di riferimento diversi, pertanto il dolo non è semplice previsione di realizzare gli elementi costitutivi della fattispecie penale (44), ma anche volontà consapevole di attuare in concreto la condotta. La volontà si deve, quindi, tradurre in atti concreti, e non sussiste quando tutto permane in uno stato ideale. Nei reati omissivi propri, sia dove sussista un evento naturalistico percepibile (i.e. l’omissione di soccorso di un ferito), sia dove la situazione tipica rifletta una fattispecie di pura creazione legislativa (i.e. l’omesso versamento di Iva o di ritenute Irpef), la ricostruzione degli aspetti contenutistici del dolo è leggermente differente rispetto a quella proposta per i reati commissivi. In merito ai reati omissivi si è, in particolare, rilevato che la “consapevolezza” di dovere agire non va riferita alle specifiche modalità di realizzazione dell’azione doverosa, ma alla implicita o generica possibilità di adempiere al dovere di condotta, e che la “volontà” è data dalla decisione di non compiere l’azione doverosa idonea e possibile (45). Orbene, senza addentrarci nel complesso dibattito sulla colpevolezza, evidenziamo che i reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef (46)

costituiscono esclusivamente il profilo soggettivo della tipicità, deputato ad esprime il disvalore soggettivo di azione che rappresenta la componente teleologicamente orientata all’attuazione del principio di personalità della responsabilità penale. (43) I concetti di “coscienza” e “volontà” dell’azione nei reati dolosi evocano un coefficiente psicologico effettivo, mentre nei reati colposi richiamano un atto controllabile dalla volontà, che può essere impedito utilizzando lo standard ordinario di diligenza richiesto nella situazione concreta. Sul punto cfr. M. Gallo, voce Colpa penale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 634. (44) Cfr. G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 265-266, il quale precisa che lo stato di dubbio in ordine agli elementi della fattispecie penale è sufficiente a integrare il dolo. (45) Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., 324; G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 459. (46) Il reato di omesso versamento Iva in realtà si compone di due condotte: una prima di carattere attivo, rappresentata dalla presentazione della dichiarazione, ed una seconda di natura omissiva, rappresentata dal mancato versamento del tributo. Per questi motivi in dottrina (cfr. A. Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Milano, 2017, p. 346) si è sostenuto che si tratti di una condotta mista.


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presuppongono il dolo inteso in senso generico, che peraltro rappresenta la nozione tipica di dolo. Mancando nella fattispecie normativa l’espressione “al fine di evadere le imposte” (che caratterizza il dolo specifico), il dolo si configura quando l’agente si rappresenta e vuole realizzare gli elementi tipici del reato a nulla rilevando ulteriori finalità. In questa misura, il dolo si ritiene integrato con la consapevolezza e la volontà del contribuente di non versare alle scadenze le imposte dovute (47). Ed allora, essendo stata presentata la dichiarazione con un debito tributario superiore alle soglie di punibilità e non essendo effettuato il versamento alle scadenze allargate, non può dubitarsi che esista la piena rappresentazione e la volontà concreta (e non meramente ideale) di realizzare tutti gli elementi della condotta tipica del reato. Sul punto, tuttavia, un orientamento della giurisprudenza (Cass. n. 6737/2018) afferma che, se un’impresa attraversi uno stato di crisi economica ed abbia una residua liquidità che destini a saldare il debito verso i dipendenti piuttosto che verso l’erario, potrebbe mancare il dolo da parte dell’amministratore. La Cassazione ha prospettato l’argomentazione secondo cui, qualora venisse accertata la sussistenza del dolo, si configurerebbe un contrasto con la carta costituzionale; si sancirebbe la punibilità del soggetto che omette di versare le ritenute fiscali, nonostante egli intendeva far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione con particolare riferimento al diritto al lavoro e alla conseguente retribuzione. Nella misura in cui il pagamento degli stipendi non avviene per assicurare la continuità aziendale, ma per dotare i lavoratori dei mezzi necessari per il sostentamento personale e delle loro famiglie, secondo i giudici potrebbe venir meno il dolo, poiché esso non può essere scisso dalla “consapevolezza della illiceità della condotta che viene investita dalla volontà”. Secondo la citata giurisprudenza quando si afferma che “la scelta di non pagare prova il dolo” significa che il dolo viene integrato non dall’omesso pagamento di per sé, ma da una scelta consapevole della illiceità della condotta rappresentata dall’omesso pagamento. In questa prospettiva, la “scelta” di saldare il debito verso i dipendenti è tale solo in apparenza, in quanto il pagamento delle retribuzioni può essere frutto di una convinzione mentale per cui i lavoratori hanno bisogno dell’immediata

(47) Cfr. Cass. SS.UU. pen. n. 37424 e 37425/2013; Cass. n. 25317/2015; Cass. pen. n. 18680/2016.


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corresponsione di somme di denaro necessarie per il sostentamento personale e delle loro famiglie. L’imprenditore, pertanto, viene a trovarsi di fronte ad un’impossibilità assoluta di adempiere il debito d’imposta, mancando quindi “la decisione di non compiere”. E tutto ciò non sarebbe compatibile con il dolo. Pur ammettendo la suggestività delle argomentazioni e del ragionamento sviluppato dal citato orientamento giurisprudenziale, che potrebbe di primo acchito far apparire plausibile il nesso tra convincimento mentale di pagare i dipendenti e assenza del dolo per l’omesso versamento di tributi, da una lettura più attenta emerge, invece, che il fatto di esser convinti di dover pagare i dipendenti è idoneo ad essere apprezzato quale mero “movente”. Ed il dolo come volontà del fatto “non va confuso col motivo o movente dell’azione delittuosa” (48). Pertanto, il pagamento dei dipendenti, pur se frutto di un convincimento mentale circa il loro bisogno di sussistenza, nulla toglie alla consapevolezza di illiceità della condotta ed alla sua volontà di attuarla; sussiste, quindi, la “decisione di non compiere”. Ribadiamo che se il soggetto ha presentato la dichiarazione Iva o quella dei sostituti di imposta con l’indicazione di tributi da versare superiori alle soglie di punibilità, e non provvede a versare le imposte entro il termine “allargato” rispetto alle scadenze ordinarie previste dalla legge tributaria, ha la piena consapevolezza di commettere il fatto e agisce volontariamente per la sua realizzazione. Sussiste, quindi, sia l’elemento della rappresentazione che quello della volontà di cui si compone il dolo. La sussistenza del dolo è stata affermata, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, dalla più recente sentenza Cass. pen. n. 50007/2019, per cui esso sarebbe provato dalla presentazione della dichiarazione annuale da cui emerge un debito di imposta, non essendo richiesta l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto; la scelta di pagare i dipendenti attiene ai motivi a delinquere e non può minimamente escludere la sussistenza del dolo. Quest’ultimo profilo, peraltro, rientra nell’ordinario rischio di impresa che non comporta l’inadempimento dell’obbligazione contratta con l’erario. Orbene, sulla base di quanto esposto, possiamo evidenziare che il fatto di aver pagato i dipendenti può rappresentare esclusivamente una circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62 bis del codice penale.

(48) Cfr. G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 266.


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Al riguardo, l’entità della riduzione della pena può essere graduata dal giudice in relazione al fatto che il pagamento delle retribuzioni avvenga per salvaguardare la prosecuzione dell’attività aziendale, e quindi gli “interessi egoistici” dell’imprenditore, ovvero per assicurare il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie. In quest’ultimo caso, invero, l’attenuazione della pena dovrebbe essere ben più corposa. Ed allora, se si condivide questa conclusione, emerge il problema di dimostrare la sussistenza della convinzione in capo all’amministratore che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione di “mezzi di sostentamento”. Ciò può, a mio avviso, ragionevolmente desumersi dalla situazione aziendale in cui opera l’amministratore: un conto è pagare “lauti” stipendi a lavoratori dipendenti di una piccola società della cui florida situazione economica egli non può non esserne a conoscenza; altro è pagare “ordinari” stipendi sia nel contesto di una piccola realtà aziendale con pochi dipendenti dove vi è un rapporto diretto tra amministratore e lavoratori, sia nell’ambito di aziende con centinaia di dipendenti la cui situazione economica è del tutto oscura all’amministratore. In questi ultimi casi, infatti, la prova circa la sussistenza del convincimento che la mancata percezione della retribuzione esponga i dipendenti e le loro famiglie a gravi conseguenze può ritenersi fornita con un ragionamento presuntivo del tutto ragionevole e convincente (ovvero grave, preciso e concordante). 6. L’omesso versamento dei tributi nel contesto di una crisi economica imprevista ed imponderabile: impossibilità oggettiva di adempiere e mancanza di colpevolezza. – Considerando che il periodo congiunturale economico negativo insiste quanto meno dalla seconda metà del 2000 (non a caso in quel periodo furono emanati i primi provvedimenti definiti “anticrisi” qual è ad es. il D.L. n. 78/2009), è comprensibile che in questi anni i giudici, di fronte ad argomentazioni difensive incentrate sulla esistenza di una causa di forza maggiore o sulla mancanza di dolo, abbiano affermato la punibilità della condotta, salvo la possibilità di concedere le attenuanti generiche. L’orientamento giurisprudenziale “restrittivo” sull’incidenza della crisi di liquidità sui reati di omesso versamento Iva e ritenute Irpef va comunque contestualizzato alle vicende trattate, non essendo suscettibile di essere applicato a una crisi economica di matrice differente rispetto a quella di cui si è in concreto discusso. Al proposito, va precisato innanzitutto che si deve escludere la possibilità di ipotizzare che una crisi economia imprevista e imponderabile – qual è


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quella connessa all’emergenza sanitaria pandemica che si sta manifestando nel 2020 – possa configurare una causa di forza maggiore, in quanto un imprenditore, nonostante la sospensione dello svolgimento dell’attività per un periodo temporale ampio (c.d. lockdown), può avere ancora risorse finanziarie disponibili per il pagamento dell’Iva e delle ritenute Irpef (49). D’altra parte però, in presenza di inadempimenti dovuti ad una crisi improvvisa, diviene sproporzionata l’applicazione della tesi giurisprudenziale secondo cui le imprese avrebbero dovuto adottare un atteggiamento iperprudenziale, accantonando le somme relative alle ritenute Irpef ed all’Iva da versare. Se un’azienda finanziariamente sana, si trovi ad essere travolta da un evento improvviso che determina un’irrimediabile crisi non congiunturale, appare del tutto irragionevole pretendere che nel passato l’imprenditore o l’amministratore avrebbe dovuto accantonare le somme relative all’Iva incassata ed alle ritenute Irpef operate. È, invece, plausibile che il naturale sviluppo dei flussi di cassa, quando già da qualche anno si prospettava una ripresa economica, avrebbe assicurato la possibilità di adempiere le obbligazioni tributarie alle future scadenze. Per utilizzare una metafora, assolutizzare l’obbligo dell’accantonamento è come imporre al conducente di un’autovettura con le gomme nuove di adottare la stessa prudenza richiesta quando viaggia con le gomme usurate. Ed allora, per evitare di assistere a sentenze di condanna non coerenti con la ratio della normativa, ci sembra sostenibile che per l’eventuale omesso versamento dell’Iva e delle ritenute Irpef in scadenza nel 2020 si valuti con la giusta ponderazione la sussistenza di un’oggettiva impossibilità di adempiere e quindi la mancanza di colpevolezza; colpevolezza intesa non nella concezione psicologica, cioè della relazione fatto-autore in termini di dolo o colpa, ma nella concezione normativa, secondo cui si valutano le circostanze dell’agire alla luce della rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico dell’autore (50).

(49) Su questo specifico punto di veda G. Ingrao, Omesso versamento di tributi e crisi di liquidità da coronavirus: quali conseguenze sanzionatorie amministrative e penali?, in Riv. tel. dir. trib., 27 aprile 2020. (50) Sulla concezione normativa della colpevolezza cfr. G. Findaca-E. Musco, Diritto penale, cit., 243. Gli autori evidenziano che “la concezione normativa oggi dominante afferma che è colpevole un soggetto imputabile, il quale abbia realizzato con dolo o colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da rendere necessitata l’azione illecita. I presupposti della colpevolezza in senso normativo sono riassumibili nell’imputabilità, nel dolo


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La mancanza della colpevolezza, in presenza di un’impossibilità assoluta di porre in essere il versamento, è stata affermata nelle ipotesi in cui il soggetto, abbia patito ritardi per l’incasso di crediti di importo ingente vantati nei confronti della Pubblica amministrazione od enti pubblici (51). 7. Conclusioni. – Tirando le fila del lavoro, possiamo affermare che i margini per evitare una condanna penale per le condotte di omesso versamento Iva e ritenute Irpef connesse a crisi aziendali economiche e di liquidità non imputabili ad una cattiva gestione dell’impresa, ma connesse ad una congiuntura economica negativa sono del tutto ristretti. Non può evocarsi, infatti, la forza maggiore, lo stato di necessità o la mancanza del dolo. Al di fuori dell’impossibilità oggettiva ad adempiere, per l’omesso versamento di Iva e ritenute Irpef connesso a una crisi aziendale non imputabile all’imprenditore può profilarsi l’applicazione delle attenuanti generiche. E ciò in particolare qualora l’imprenditore o l’amministratore dimostri di aver attivato tutti gli strumenti ragionevolmente praticabili per fronteggiare la crisi economica e per non trovarsi senza liquidità al momento della scadenza del pagamento dei tributi. Rileva, inoltre, la circostanza per cui con le poche risorse disponibili l’imprenditore o l’amministratore provveda al pagamento dei lavoratori dipendenti e ciò nella duplice e differente prospettiva di assicurare la continuazione dell’attività imprenditoriale, ovvero di garantire il sostentamento loro e delle rispettive famiglie. L’impossibilità di giungere ad una impunità in siffatte situazioni risulta, però, una conclusione difficile da accettare: si finisce, invero, per applicare una sanzione penale a soggetti che non hanno posto in essere condotte fraudolente per ottenere vantaggi economici dal mancato versamento delle imposte; né d’altra parte la condanna penale riguarda soggetti che non hanno versato l’Iva o le ritenute Irpef nonostante avessero congrue disponibilità finanziarie. Le ragioni che avevano indotto il legislatore ad intervenire (dopo un quinquennio) sul decreto legislativo n. 74/2000 per approntare una tutela penale

o colpa, nella conoscibilità del divieto penale e nell’assenza di cause di giustificazione”. (51) Cfr. Cass., n. 5467/2014; Cass., n. 25317/2015; Cass., n. 49666/2015; Cass., n. 45197/2016. Sul punto cfr. A. Toppan-L. Tosi, Lineamenti di diritto penale dell’impresa, Padova, 2017, 231, i quali evidenziano che in alcuni casi la giurisprudenza sia di legittimità che di merito ha ricondotto l’oggettiva impossibilità materiale della condotta nell’ambito di applicazione della forza maggiore, ovvero alla mancanza del dolo per involontarietà della condotta.


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agli omessi versamenti di Iva e di ritenute Irpef erano collegate alla repressione delle frodi carosello, ovvero al fenomeno delle società “apri e chiudi”, ma la formulazione letterale degli art. 10 bis e ter, ha consentito l’incriminazione di soggetti la cui condotta non presenta carattere fraudolento. Volendo usare un’espressione molto forte, si è introdotta una sorta di “arresto per debiti” tributari, laddove, invece, per gli omessi versamenti di tributi dichiarati era sufficiente una reazione sanzionatoria di tipo amministrativo, nonostante le peculiarità che si riscontrano con riguardo all’Iva e alle ritenute Irpef. Con la riforma tributaria del 2015, la quale si è posta l’obiettivo di adeguare il sistema sanzionatorio penale al criterio di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, rafforzando l’idea delle sanzioni penali tributarie quale extrema ratio, si è persa l’occasione per abrogare le fattispecie di reato prive dei connotati della fraudolenza ed in particolare i reati di infedele dichiarazione e quelli di omesso versamento (52). L’innalzamento delle soglie di punibilità previste per detti reati attuato con il decreto legislativo n. 158/2015, pur se sostanzioso, risulta comunque una misura inadeguata a riportare il sistema sanzionatorio penale su binari di proporzionalità e ragionevolezza (53). È da auspicare, quindi, che un meditato progetto di riforma del sistema sanzionatorio penale tributario possa finalmente prevedere l’abrogazione dei reati di cui si discute. Non possiamo sottacere, comunque, che la nuova normativa sulla crisi di impresa (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) prevede peculiari obblighi di segnalazione a carico di creditori pubblici qualificati, e tra questi l’Agenzia delle entrate; segnatamente i creditori pubblici devono avvisare il debitore/ contribuente di aver superato importi rilevanti di debito (54) ed in conseguenza avvertire che segnaleranno la situazione all’Organismo di composizione della crisi di impresa qualora egli non provveda entro novanta giorni dalla ricezione dell’avviso al pagamento delle somme, ovvero alla presentazione di un’istanza di composizione assistita della crisi, nonché di accesso ad un procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza.

(52) Sul punto cfr. D. Terracina, Riflessi penali dell’evasione fiscale, Roma, 2012, 210, per cui il principio di sussidiarietà del diritto penale pone un preciso obbligo al legislatore di verificare le ragioni per cui la norma extrapenale non risulta idonea a contrastare il fenomeno. (53) Cfr. L. Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: luci ed ombre di una riforma appena varata, in Riv. dir. trib., III, 2015, 61. (54) Per la quantificazione della rilevanza dell’importo si vedano i criteri fissati dall’art. 15 del D.Lgs. n. 14/2019.


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Atteso che l’Agenzia delle entrate deve attivarsi con gli alert in tempi molto rapidi rispetto all’emersione dell’omesso versamento (anche periodico) dei tributi, si dovrebbe determinare una loro sensibile riduzione ed in ogni caso una netta erosione dell’area di rilevanza penale delle condotte di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000 (55). Infine, è sostenibile che, superando la tesi giurisprudenziali della sussistenza di un rapporto di progressione tra illecito amministrativo e penale con riguardo ai reati di omesso versamento Iva (56), l’applicazione del principio del ne bis in idem, dovrebbe condurre alla prevalenza delle sanzioni amministrative, nella misura in cui esse vengano irrogate prima della celebrazione del processo penale (57).

Giuseppe Ingrao

(55) Cfr. sul punto A. Perini, Crisi di liquidità e reati tributaria, cit., 19. (56) Cfr. Cass. n. 20266/2014. (57) Cfr. A. Giovannini, Le sanzioni per omesso versamento Iva, cit., 439, il quale evidenzia che, pur in presenza di condotte plurime (omessi versamenti infrannuali ed a saldo), muovendo dal carattere unitario, cumulativo e annuale dell’obbligazione d’imposta Iva, il fatto è sostanzialmente lo stesso; l’interesse protetto (quello alla riscossione) è il medesimo; il disvalore del comportamento sanzionato penalmente (omesso versamento a saldo) è assorbito nella reazione punitiva già consumata per gli omessi versamenti infrannuali.



Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte Giust. UE, sez. X, 17 ottobre 2019, C-653/18 – Pres. e rel. I. Jarukaitis, Giud. M. Ilešič e C. Lycourgos Rinvio pregiudiziale – Fiscalità – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112/CE – Articolo 146 – Esenzioni all’esportazione – Nozione di “cessione di beni” – Articolo 131 – Condizioni stabilite dagli Stati membri – Principio di proporzionalità – Principio della neutralità fiscale – Prove – Frode – Prassi di uno Stato membro consistente nel negare il diritto all’esenzione qualora l’acquirente dei beni esportati non sia identificato In tema d’imposta sul valore aggiunto, conformemente a quanto statuito dagli artt. 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e l’articolo 131 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, oltreché dai principi di neutralità fiscale e di proporzionalità, devono considerarsi legittimamente configurate sia la cessione di beni sia il relativo beneficio dell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA) ogniqualvolta i beni che hanno formato oggetto della cessione siano stati esportati fuori dell’Unione europea e, in un secondo momento, le autorità tributarie nazionali abbiano constatato una divergenza di natura formale tra il nominativo dell’acquirente dei medesimi beni richiamato all’interno della fattura redatta dal soggetto passivo e l’ente dimostratosi l’effettivo percettore degli stessi. L’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b) della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, infatti, impone la negabilità del beneficio dell’esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto soltanto laddove l’assenza di identificazione dell’effettivo acquirente non consenta di dimostrare che l’operazione in questione costituisca una cessione di beni ovvero sia stato dimostrato che il suddetto soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione in questione rientrasse nell’ambito di una frode commessa a danno del sistema comune dell’IVA. (1)

(Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e dell’articolo 131 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L. 347, p. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»), alla luce segnatamente dei principi di neutralità fiscale e di proporzionalità.


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Parte quarta

2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Unitel sp. z oo. e il Dyrektor Izby Skarbowej w Warszawie (direttore dell’ufficio delle imposte di Varsavia; in prosieguo: il «direttore dell’ufficio delle imposte»), in merito a un diniego di esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA) per esportazioni di beni al di fuori dell’Unione europea effettuate nel 2007. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3. L’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva IVA, così dispone: «Costituisce “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario». 4. A termini dell’articolo 131 della medesima direttiva: «Le esenzioni previste ai capi da 2 a 9 si applicano [fatte salve] le altre disposizioni [dell’Unione] e alle condizioni che gli Stati membri stabiliscono per assicurare la corretta e semplice applicazione delle medesime esenzioni e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso». 5. L’articolo 146 della direttiva in parola, contenuto nel capo 6 della stessa, intitolato «Esenzioni all’esportazione», al paragrafo 1, lettere a) e b), prevede quanto segue: «Gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: a) le cessioni di beni spediti o trasportati, dal venditore o per suo conto, fuori dell[’Unione]; b) le cessioni di beni spediti o trasportati da un acquirente non stabilito nel loro rispettivo territorio, o per conto del medesimo, fuori dell[’Unione], ad eccezione dei beni trasportati dall’acquirente stesso e destinati all’attrezzatura o al rifornimento e al vettovagliamento di navi da diporto, aerei da turismo o qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato». 6. L’articolo 168, lettera a), della direttiva IVA dispone che, nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo. In forza dell’articolo 169, lettera b), della stessa direttiva, il soggetto passivo ha il diritto di detrarre l’IVA nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini di sue operazioni esenti conformemente all’articolo 146 della direttiva succitata. Diritto polacco 7. L’articolo 2, punto 8, dell’ustawa o podatku od towarów i usług (legge in materia di imposta sui beni e sui servizi), dell’11 marzo 2004 (Dz. U. del 2011, n. 177,


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posizione 1054), nella versione applicabile al procedimento principale (in prosieguo: la «legge sull’IVA»), così dispone: «Agli effetti della presente legge si intende per: (…) esportazione di beni – la cessione di beni spediti o trasportati dal territorio dello Stato fuori dell’Unione europea: a) dal fornitore o per suo conto, oppure b) dall’acquirente stabilito al di fuori del territorio dello Stato o per suo conto, ad eccezione dei beni esportati dall’acquirente stesso e destinati all’attrezzatura, al rifornimento e al vettovagliamento di navi da diporto, aerei da turismo o qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato, se l’esportazione di beni fuori dell’Unione europea sia confermata dall’autorità doganale competente, come definita dalle disposizioni in materia doganale». 8. A norma dell’articolo 7, paragrafo 1, della legge succitata, «costituisce cessione di beni, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, punto 1, il trasferimento del potere di disporre di un bene come proprietario». 9. L’articolo 41 della medesima legge prevede quanto segue: «(…) 4) L’aliquota d’imposta sull’esportazione di beni di cui all’articolo 2, punto 8, lettera a), è pari allo 0%. (…) 6) L’aliquota dello 0% si applica alle esportazioni di beni di cui ai paragrafi 4 e 5, a condizione che, prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione fiscale per un determinato periodo d’imposta, il soggetto passivo abbia ricevuto il documento attestante l’esportazione dei beni al di fuori del territorio dell’Unione europea. (…) 11) Le disposizioni dei paragrafi 4 e 5 si applicano mutatis mutandis all’esportazione di beni di cui all’articolo 2, punto 8, lettera b), qualora il soggetto passivo, prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione fiscale per il periodo d’imposta nel corso del quale ha effettuato la cessione di beni, abbia ricevuto il documento di cui al paragrafo 6, dal quale sia possibile individuare i beni oggetto di cessione e di esportazione. (…) (…)». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 10. Dal gennaio al maggio 2007, la Unitel, società con sede in Polonia, ha venduto telefoni cellulari a due enti ucraini. In seguito a un accertamento di cui la medesima società è stata oggetto, l’amministrazione tributaria ha constatato che era stata effettuata la procedura di esportazione di tali telefoni cellulari al di fuori del territorio dell’Unione, ma che i beni in questione erano stati acquistati non già dagli enti menzionati nelle fatture, bensì da altri enti che non sono stati identificati. La suddetta amministrazione ha quindi ritenuto, con decisione confermata da una decisione del


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Parte quarta

direttore dell’ufficio delle imposte del 29 agosto 2014, che non fosse avvenuta alcuna cessione di beni, ai sensi dell’articolo 2, punto 8, della legge sull’IVA e che, pertanto, la Unitel non aveva il diritto di applicare l’aliquota IVA dello 0%, prevista all’articolo 41, paragrafo 4, della legge citata. 11. Investito di un ricorso avverso la decisione del direttore dell’ufficio delle imposte, il Wojewódzki Sąd Administracyjny w Warszawie (Tribunale amministrativo del voivodato di Varsavia, Polonia) ha rilevato che dagli accertamenti effettuati risultava che uno dei due enti ucraini era una società di comodo, finalizzata a occultare l’effettivo destinatario nonché a commettere una frode fiscale nei confronti delle autorità tributarie sia polacche sia ucraine, e che l’altro ente non era l’operatore economico che aveva acquistato i telefoni presso la Unitel. Il giudice summenzionato ha ritenuto che non si fosse configurata alcuna cessione di beni giacché l’amministrazione tributaria aveva dimostrato che gli acquirenti dei beni menzionati nelle fatture non erano entrati in possesso degli stessi, non ne avevano disposto come proprietari e non esercitavano alcuna attività economica, sicché le operazioni di cui trattasi non potevano essere qualificate come «esportazione di beni», ai sensi dell’articolo 2, punto 8, della legge sull’IVA. Lo stesso giudice ha dichiarato, inoltre, che la Unitel non aveva dato prova della diligenza richiesta nell’effettuare le operazioni in questione. Esso ha in particolare rilevato, al riguardo, che tale società aveva redatto le proprie fatture basandosi su dati presentati da enti i cui incarichi non erano validi o che non possedevano veri indirizzi professionali né validi documenti attestanti la contabilizzazione dell’IVA. 12. La Unitel ha impugnato la sentenza del Wojewódzki Sąd Administracyjny w Warszawie (Tribunale amministrativo del voivodato di Varsavia) dinanzi al Naczelny Sąd Administracyjny (Corte suprema amministrativa, Polonia), giudice del rinvio. A sostegno dell’impugnazione, l’Unitel deduce un’interpretazione e un’applicazione erronee dell’articolo 131 della direttiva IVA, in combinato disposto con l’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della medesima, in quanto l’applicazione dell’aliquota dello 0% è stata subordinata al rispetto di requisiti formali nonostante fossero soddisfatti tutti i requisiti sostanziali per l’applicazione di tale aliquota, nonché un errore di interpretazione e di applicazione dell’articolo 41, paragrafi 4 e 11, della legge sull’IVA, in combinato disposto con l’articolo 41, paragrafo 6, l’articolo 2, punto 8, e l’articolo 7, paragrafo 1, della stessa legge. Detto errore consisterebbe nell’aver ritenuto che la cessione di beni sia effettiva solo quando l’operatore menzionato nella fattura come acquirente è identico all’operatore che partecipa effettivamente in tale qualità all’operazione di cui trattasi, nel rifiutarsi di conseguenza di qualificare la stessa operazione come esportazione di beni e di applicare l’aliquota dello 0%, e nel ritenere nondimeno che l’operazione in questione costituisca una cessione assoggettabile all’aliquota nazionale. 13. Il giudice del rinvio sottolinea che ai fini della soluzione della controversia di cui al procedimento principale è necessario interpretare la direttiva IVA e, anzitutto,


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la nozione di «cessione di beni», ai sensi dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della medesima. Esso riferisce che le autorità tributarie nazionali ritengono che detta nozione debba essere interpretata conformemente all’articolo 7, paragrafo 1, della legge sull’IVA, che ha recepito l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva IVA, ossia come il trasferimento del potere di disporre del bene di cui trattasi come proprietario. Pertanto, secondo le suddette autorità, le due parti dell’operazione devono effettivamente esistere ed essere identificate, il che non avviene quando l’acquirente designato nella fattura o nei documenti doganali è un ente fittizio o quando l’acquirente dei beni al di fuori del territorio dell’Unione è un altro soggetto non identificato. Tale interpretazione sarebbe altresì quella condivisa dalla maggior parte dei giudici amministrativi polacchi. 14. Il giudice del rinvio nutre nondimeno dubbi quanto alla questione se, per constatare che una cessione di beni al di fuori del territorio dell’Unione abbia realmente avuto luogo, allorché l’esportazione dei medesimi beni non è stata contestata in quanto tale, sia effettivamente necessario che l’ente designato nella fattura del fornitore e nei documenti doganali come acquirente dei beni in questione coincida con il destinatario effettivo degli stessi. Esso si chiede se, in una situazione del genere, non vi sia trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva IVA. Il giudice del rinvio rileva in particolare che, nella sentenza del 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading (C‑563/12, EU:C:2013:854), la Corte ha dichiarato che, in una fattispecie in cui le condizioni per l’esenzione all’esportazione previste all’articolo 146, paragrafo 1, lettera b), della direttiva IVA, segnatamente l’uscita dei beni in questione dal territorio doganale dell’Unione, sono soddisfatte, nessuna IVA è dovuta per una tale cessione e che, in simili circostanze, non esiste più, in linea di principio, alcun rischio di frode fiscale o di perdite fiscali che possa giustificare l’assoggettamento a imposta dell’operazione di cui trattasi. 15. Premesso ciò, secondo il giudice del rinvio, occorre poi stabilire in che misura un’eventuale frode avvenuta nel territorio dello Stato terzo, in cui è stato preso in consegna il bene esportato da un soggetto diverso da quello indicato nei documenti doganali, incida sull’applicazione dell’esenzione con diritto a detrazione dell’IVA. Esaminando la giurisprudenza della Corte secondo la quale gli Stati membri sono tenuti a negare il beneficio dei diritti previsti dalla direttiva IVA in caso di frode commessa dal soggetto passivo stesso o allorché quest’ultimo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con l’operazione di cui trattasi, esso partecipava a un’operazione rientrante nell’ambito di una frode in materia di IVA, il giudice del rinvio si chiede se l’obbligo in questione, che mira a tutelare il mercato interno, si applichi quando la frode è commessa unicamente nel territorio di uno Stato terzo, Stato di destinazione e di consumo dei beni esportati. 16. Infine, il giudice del rinvio si chiede se, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, sia corretta la prassi nazionale consistente nell’applicare


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l’IVA all’operazione di cui trattasi come se questa costituisse una cessione nazionale, laddove la constatazione dell’assenza di cessione di beni dovrebbe indurre a ritenere che essa non sia assoggettata all’IVA e non dia diritto a detrazione dell’IVA assolta a monte. 17. Stante quanto precede, il Naczelny Sąd Administracyjny (Corte suprema amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, alla luce degli articoli 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e 131, della direttiva [IVA], nonché dei principi di tassazione dei consumi, di neutralità e di proporzionalità, la corretta prassi nazionale debba consistere nell’applicazione dell’esenzione con diritto a detrazione (in Polonia, l’aliquota dello 0%), ogniqualvolta siano soddisfatte cumulativamente due condizioni: a) l’esportazione di beni sia avvenuta nei confronti di un destinatario non identificato stabilito fuori dell’Unione europea, e b) sussistano chiare prove del fatto che i beni hanno lasciato il territorio dell’Unione europea e tale circostanza non sia contestata. 2) Se le disposizioni degli articoli 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e 131 della direttiva [IVA], nonché i principi di tassazione dei consumi, di neutralità e di proporzionalità, ostino ad una prassi nazionale consistente nel ritenere non avvenuta una cessione – con la conseguenza che le autorità tributarie negano l’applicazione ad una siffatta operazione dell’esenzione con diritto a detrazione (in Polonia, l’aliquota dello 0%) – qualora dei beni siano stati incontestabilmente esportati fuori dell’Unione europea e, successivamente all’esportazione, le suddette autorità tributarie abbiano constatato, nell’ambito di un accertamento da esse condotto, che l’acquirente effettivo dei beni non era il soggetto indicato nella fattura, emessa dal soggetto passivo, attestante la cessione, bensì un soggetto diverso, non identificato dalle autorità. 3) Se, alla luce degli articoli 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e 131, della direttiva [IVA], nonché dei principi di tassazione dei consumi, di neutralità e di proporzionalità – nell’ipotesi in cui vi siano chiare prove del fatto che i beni hanno lasciato il territorio dell’Unione europea, ma le autorità, in assenza di un destinatario identificato, ritengano non avvenuta la cessione di beni – la corretta prassi nazionale debba consistere nell’applicazione alla cessione di beni dell’aliquota nazionale, o se invece si debba ritenere che in una situazione del genere non sussista alcuna operazione imponibile ai fini dell’IVA, con la conseguenza che il soggetto passivo non ha diritto, ai sensi dell’articolo 168 della direttiva [IVA], a detrarre l’imposta pagata a monte sull’acquisto dei beni esportati». Sulle questioni pregiudiziali Sulle questioni prima e seconda 18. Con le questioni prima e seconda, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e


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l’articolo 131 della direttiva IVA nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità debbano essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale, come quella di cui al procedimento principale, consistente nel ritenere in tutti i casi che non si configuri una cessione di beni, ai sensi di questa prima disposizione, e nel negare di conseguenza il beneficio dell’esenzione dall’IVA qualora i beni interessati siano stati esportati fuori dell’Unione e, successivamente alla loro esportazione, le autorità tributarie abbiano constatato che l’acquirente dei medesimi beni era non già il soggetto menzionato nella fattura redatta dal soggetto passivo, bensì un ente diverso che non è stato identificato. Ciò posto, il giudice del rinvio si interroga sull’incidenza che può avere un’eventuale frode commessa nel territorio di uno Stato terzo quanto all’applicazione del diritto all’esenzione dall’IVA. 19. A tale riguardo, occorre ricordare, in primo luogo, che, in forza dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, gli Stati membri esentano le cessioni di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto, oppure da un acquirente o per suo conto, fuori dell’Unione. Tale disposizione deve essere letta in combinato disposto con l’articolo 14, paragrafo 1, della suddetta direttiva, ai sensi del quale si considera «cessione di beni» il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario (sentenze del 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading, C‑563/12, EU:C:2013:854, punto 23, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 22). 20. Tale esenzione è volta a garantire l’assoggettamento a imposta delle cessioni di beni interessate presso il luogo di destinazione di queste ultime, ossia il luogo in cui i prodotti saranno consumati (sentenza del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 23 e giurisprudenza ivi citata). 21. Come la Corte ha già in più occasioni rilevato, dalle disposizioni di cui al punto 19 della presente sentenza e, in particolare, dal termine «spediti» impiegato all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA deriva che l’esportazione di un bene si perfeziona e l’esenzione della cessione all’esportazione diviene applicabile quando il potere di disporre di tale bene come proprietario è stato trasmesso all’acquirente, il fornitore prova che detto bene è stato spedito o trasportato al di fuori dell’Unione e il bene, in seguito a tale spedizione o trasporto, ha lasciato fisicamente il territorio dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading, C‑563/12, EU:C:2013:854, punto 24 e giurisprudenza ivi citata, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 24). 22. La Corte ha altresì già dichiarato che la nozione di «cessione di beni» ha un carattere obiettivo e si applica indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi, senza che l’amministrazione tributaria sia obbligata a procedere a indagini per accertare la volontà del soggetto passivo in questione o di tener conto dell’intenzione di un operatore, diverso da tale soggetto passivo, che intervenga nella stessa catena di cessioni (v., in tal senso, sentenza del 21 novembre 2013, Dixons Retail, C‑494/12, EU:C:2013:758, punto 21 e giurisprudenza ivi citata).


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23. Ne consegue che operazioni come quelle oggetto del procedimento principale costituiscono cessioni di beni, ai sensi dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, se soddisfano i criteri oggettivi sui quali è fondata la nozione in esame, ricordati al punto 21 della presente sentenza. 24. Orbene, il fatto che beni esportati siano acquistati fuori dell’Unione da un ente che non è quello menzionato nella fattura e che non è identificato non esclude che i summenzionati criteri oggettivi siano soddisfatti. 25. Di conseguenza, la qualificazione di un’operazione come cessione di beni, ai sensi dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, non può essere subordinata alla condizione che l’acquirente sia identificato. 26. Tuttavia, in secondo luogo, spetta agli Stati membri, conformemente all’articolo 131 della direttiva IVA, fissare le condizioni in presenza delle quali essi esentano le operazioni di esportazione per assicurare la corretta e semplice applicazione delle esenzioni previste dalla direttiva in parola e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso. Nell’esercizio dei loro poteri, gli Stati membri devono nondimeno rispettare i principi generali del diritto che fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione, tra i quali figura, in particolare, il principio di proporzionalità (v., in tal senso, sentenza del 28 febbraio 2018, Pieńkowski, C‑307/16, EU:C:2018:124, punti 32 e 33). 27. Per quanto attiene al summenzionato principio di proporzionalità, occorre ricordare che una misura nazionale eccede quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta nel caso in cui subordini essenzialmente il diritto all’esenzione dall’IVA al rispetto di obblighi formali, senza che siano presi in considerazione i requisiti sostanziali e, in particolare, senza porsi la questione se questi ultimi siano stati soddisfatti. Le operazioni devono infatti essere tassate prendendo in considerazione le loro caratteristiche oggettive (sentenze dell’8 novembre 2018, Cartrans Spedition, C‑495/17, EU:C:2018:887, punto 38, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 29). 28. Inoltre, qualora i requisiti sostanziali siano soddisfatti, il principio di neutralità fiscale esige che l’esenzione dall’IVA sia concessa anche se determinati requisiti formali sono stati omessi da parte dei soggetti passivi (sentenza dell’8 novembre 2018, Cartrans Spedition, C‑495/17, EU:C:2018:887, punto 39). 29. Secondo la giurisprudenza della Corte, esistono due sole fattispecie nelle quali l’inosservanza di un requisito formale può comportare la perdita del diritto all’esenzione dall’IVA (sentenze dell’8 novembre 2018, Cartrans Spedition, C‑495/17, EU:C:2018:887, punto 40, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 32). 30. Da un lato, la violazione di un requisito formale può portare al diniego dell’esenzione dall’IVA se tale violazione ha come effetto d’impedire che sia fornita la prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali (sentenze dell’8 novembre 2018, Cartrans


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Spedition, C‑495/17, EU:C:2018:887, punto 42, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 35). 31. Pertanto, se l’assenza di identificazione dell’effettivo acquirente impedisce, in un determinato caso, di dimostrare che l’operazione in questione costituisce una cessione di beni, ai sensi dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, tale circostanza può portare a negare il beneficio dell’esenzione all’esportazione previsto dal medesimo articolo. Per contro, esigere in tutti i casi che l’acquirente dei beni nello Stato terzo sia identificato, senza indagare se siano soddisfatte le condizioni sostanziali di tale esenzione, in particolare l’uscita dei beni di cui trattasi dal territorio doganale dell’Unione, non rispetta né il principio di proporzionalità né il principio di neutralità fiscale. 32. Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio risulta che è pacifico che i beni di cui trattasi nel procedimento principale sono stati venduti, sono stati spediti al di fuori dell’Unione e hanno fisicamente lasciato il territorio dell’Unione, cosicché, fatta salva la verifica di tali fatti che incombe al giudice nazionale, il soddisfacimento dei criteri che un’operazione deve soddisfare per costituire una cessione di beni, ai sensi dell’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, risulta dimostrato, nonostante il fatto che gli effettivi acquirenti dei beni in questione non siano stati identificati. 33. Dall’altro lato, il principio di neutralità fiscale non può essere invocato, ai fini dell’esenzione dall’IVA, da un soggetto passivo che abbia partecipato intenzionalmente a una frode fiscale mettendo a repentaglio il funzionamento del sistema comune dell’IVA. Secondo la giurisprudenza della Corte, non è contrario al diritto dell’Unione esigere che un operatore agisca in buona fede e adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare a una frode fiscale. Nell’ipotesi in cui il soggetto passivo di cui trattasi sapesse o avrebbe dovuto sapere che l’operazione da esso effettuata rientrava in una frode posta in essere dall’acquirente e non avesse adottato tutte le misure ragionevoli a sua disposizione per evitare la frode medesima, dovrebbe essergli negato il beneficio dell’esenzione (sentenze dell’8 novembre 2018, Cartrans Spedition, C‑495/17, EU:C:2018:887, punto 41, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 33). 34. Il fornitore non può invece essere considerato responsabile del pagamento dell’IVA indipendentemente dal suo coinvolgimento nella frode commessa dall’acquirente. Infatti, sarebbe manifestamente sproporzionato imputare a un soggetto passivo i mancati introiti tributari causati dai comportamenti fraudolenti di terzi sui quali esso non ha alcuna influenza (v., in tal senso, sentenza del 21 febbraio 2008, Netto Supermarkt, C‑271/06, EU:C:2008:105, punto 23). 35. Nella sentenza del 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading (C‑563/12, EU:C:2013:854), richiamata dal giudice del rinvio, la Corte ha rilevato, al punto 40 della medesima, che, in una fattispecie in cui le condizioni per l’esenzione all’espor-


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tazione previste all’articolo 146, paragrafo 1, lettera b), della direttiva IVA, segnatamente l’uscita dei beni in questione dal territorio doganale dell’Unione, sono soddisfatte, nessuna IVA è dovuta per una tale cessione e che non esiste più, in linea di principio, alcun rischio di frode fiscale o di perdite fiscali che possa giustificare l’assoggettamento a imposta dell’operazione di cui trattasi. 36. Nel caso di specie, il giudice del rinvio, senza fornire precisazioni sulla natura della frode nell’ambito della quale rientrerebbero le operazioni di cui al procedimento principale, riferisce che i beni oggetto di tali operazioni sono usciti dal territorio dell’Unione e rileva che la frode in questione è stata commessa unicamente nel territorio di uno Stato terzo, Stato di destinazione e del luogo di consumo dei beni medesimi. 37. Atteso che la circostanza che gli atti fraudolenti siano stati commessi in uno Stato terzo non può essere sufficiente a escludere l’esistenza di qualsiasi frode commessa a danno del sistema comune dell’IVA, il giudice nazionale è tenuto a verificare che le operazioni di cui trattasi nel procedimento principale non rientrassero nell’ambito di una simile frode e, se così fosse, a valutare se il soggetto passivo lo sapesse o avrebbe dovuto saperlo. 38. Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alle questioni prima e seconda dichiarando che l’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e l’articolo 131 della direttiva IVA nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale, come quella di cui al procedimento principale, consistente nel ritenere in tutti i casi che non si configuri una cessione di beni, ai sensi di questa prima disposizione, e nel negare di conseguenza il beneficio dell’esenzione dall’IVA, qualora i beni interessati siano stati esportati fuori dell’Unione e, successivamente alla loro esportazione, le autorità tributarie abbiano constatato che l’acquirente dei medesimi beni era non già il soggetto menzionato nella fattura redatta dal soggetto passivo, bensì un ente diverso che non è stato identificato. In simili circostanze, il beneficio dell’esenzione dall’IVA prevista all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva in parola deve essere negato se l’assenza di identificazione dell’effettivo acquirente impedisce di dimostrare che l’operazione in questione costituisce una cessione di beni, ai sensi della medesima disposizione, o se è dimostrato che il suddetto soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione in questione rientrava nell’ambito di una frode commessa a danno del sistema comune dell’IVA. Sulla terza questione 39. Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva IVA debba essere interpretata nel senso che, qualora, in circostanze come quelle descritte nelle questioni prima e seconda, sia negato il beneficio dell’esenzione dall’IVA previsto all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, occorre applicare all’operazione in questione l’IVA applicabile alle cessioni di beni effettuate nel territorio nazionale o se si debba ritenere che tale operazione non costituisca un’o-


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perazione imponibile e che, pertanto, essa non conferisca il diritto al beneficio della detrazione dell’IVA assolta a monte. 40. A tale riguardo, è sufficiente constatare che, in assenza di cessione di beni effettuata nel territorio nazionale e di operazione esente conformemente all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, non esiste alcuna operazione imponibile né alcun diritto a detrazione ai sensi dell’articolo 168 o dell’articolo 169 della medesima direttiva. 41. Di conseguenza, occorre rispondere alla terza questione dichiarando che la direttiva IVA deve essere interpretata nel senso che, qualora, in circostanze come quelle descritte nelle questioni prima e seconda, sia negato il beneficio dell’esenzione dall’IVA prevista all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva IVA, si deve giudicare che l’operazione in questione non costituisce un’operazione imponibile e che, pertanto, essa non conferisce il diritto al beneficio della detrazione dell’IVA assolta a monte. Sulle spese 42. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara: 1. L’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), e l’articolo 131 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale, come quella di cui al procedimento principale, consistente nel ritenere in tutti i casi che non si configuri una cessione di beni, ai sensi di questa prima disposizione, e nel negare di conseguenza il beneficio dell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA), qualora i beni interessati siano stati esportati fuori dell’Unione europea e, successivamente alla loro esportazione, le autorità tributarie abbiano constatato che l’acquirente dei medesimi beni era non già il soggetto menzionato nella fattura redatta dal soggetto passivo, bensì un ente diverso che non è stato identificato. In simili circostanze, il beneficio dell’esenzione dall’IVA prevista all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva in parola deve essere negato se l’assenza di identificazione dell’effettivo acquirente impedisce di dimostrare che l’operazione in questione costituisce una cessione di beni, ai sensi della medesima disposizione, o se è dimostrato che il suddetto soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione in questione rientrava nell’ambito di una frode commessa a danno del sistema comune dell’IVA. 2. La direttiva 2006/112 deve essere interpretata nel senso che, qualora, in simili circostanze, sia negato il beneficio dell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA) prevista all’articolo 146, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2006/112, si


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deve giudicare che l’operazione in questione non costituisce un’operazione imponibile e che, pertanto, essa non conferisce il diritto al beneficio della detrazione dell’IVA assolta a monte. (Omissis)

(1) Legittimità del diritto alla esenzione IVA per prevalenza della sostanza sulla forma. Sommario: 1. Fatti di causa, contestazioni e questione pregiudiziale. – 2. Inquadramento giuridico del concetto di “cessione di beni” ai fini IVA. – 3. Preminenza del carattere sostanziale su quello formale nella cessione di beni infraUE. – 4. Principi di neutralità fiscale e proporzionalità nell’imposta sul valore aggiunto. – 4.1. Principio di neutralità fiscale. – 4.2. Principio di proporzionalità. – 5. Abbandono del territorio europeo e “assenza di rischio fiscale” – 6. Conclusioni. La sentenza in studio accede al ricco e complesso quadro giurisprudenziale unionale in tema d’imposta sul valore aggiunto, facendosi portatrice di uno spirito garantista dei diritti sorgenti in capo al contribuente in materia di esenzione IVA. Più precisamente, il provvedimento in esame, articolandosi in un percorso argomentativo lineare, puntuale e giuridicamente fondato, pone nelle condizioni di affermare “apertis verbis” come i principi fondamentali attorno ai quali si dispiega il corretto funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto fungano da usbergo non soltanto avverso la negazione del diritto ad esenzione dal versamento IVA, ma anche innanzi all’affermazione del principio di “prevalenza della forma sulla sostanza” ogniqualvolta il contribuente sia incorso in un errore meramente formale inidoneo ad impedire la dimostrazione certa che i requisiti sostanziali del rapporto negoziale fiscalmente rilevante siano stati pienamente soddisfatti. The judicial measure analyzed accesses the rich and complex EU jurisprudential framework regarding the value added tax becoming the bearer of a spirit that guarantees the rights of taxpayers in the matter of VAT exemption. The provision examined is divided into a linear, punctual and juridically founded argumentative path, so much so as to put in the conditions to affirm “apertis verbis” that the fundamental principles around which the correct functioning of the value added tax is articulated act as a hauberk not only against the denial of the right to exemption from VAT payment but also against the affirmation of the principle of “prevalence of form over substance” whenever the taxpayer has made a formal error unsuitable to prevent the certain demonstration that the substantive requirements of the contractual relationship (fiscally relevant) have been fully satisfied.


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1. Fatti di causa, contestazioni e questione pregiudiziale. – Il tema che forma oggetto di studio sorge da una recente sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (1). Le questioni emergenti dall’analisi dell’arresto giurisprudenziale in parola sono molteplici e tutte accomunate dall’interpretazione della normativa resa dal legislatore comunitario con riferimento ai limiti previsti in tema di esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto. Prima di procedere allo scrutinio dei profili giuridici maggiormente rilevanti della sentenza in commento, occorre ripercorrere brevissimamente il dispiegamento fattuale alla stessa sotteso. Orbene, tra il gennaio e il maggio dell’anno 2007, la Unitel, società polacca, nell’esercizio della propria attività di impresa intratteneva rapporti economici con due enti ucraini, ai quali, durante il lasso di tempo indicato, cedeva degli apparecchi di telefonia mobile. A seguito di attività accertativa, tuttavia, l’amministrazione tributaria polacca constatava che, con specifico riferimento alle operazioni di cui sopra, si fosse sì conclusa la procedura di esportazione di tali telefoni cellulari al di fuori del territorio dell’Unione, ma che i beni in questione fossero stati acquistati non tanto dai soggetti menzionati nelle fatture, quanto da altri enti non correttamente identificati dalla società polacca. Più precisamente, dagli accertamenti effettuati sarebbe emerso che uno dei due enti ucraini richiamati all’interno delle fatture emesse dalla Unitel, fosse una semplice società di comodo (2) e che l’altro ente non fosse l’operatore economico acquirente dei telefoni dalla società polacca. In un quadro così delineato, quest’ultima vedeva contestarsi da parte dell’Amministrazione Finanziaria nazionale l’assenza di un’effettiva cessione di beni, perdendo così il diritto all’applicazione dell’aliquota IVA dello 0%. A fondamento dell’impostazione condivisa dall’Ufficio polacco, si porrebbe la considerazione per la quale i soggetti formalmente richiamati in fattura non fossero quelli entrati, in effetti, in possesso dei beni ceduti, e che, conseguentemente, non avessero disposto di questi come proprietari e ancora, in termini più generali, non avessero esercitato alcuna attività economica. In tal senso, le operazioni di cui trattasi non si sarebbero potute qualificare come “esportazione di beni”.

(1) CGUE, 17 Ottobre 2019, C-653/18. (2) Avente quale scopo quello di occultare l’effettivo destinatario della cessione dei beni nonché la commissione di una frode fiscale nei confronti dell’Erario polacco ed ucraino.


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Inoltre, a parere del Giudice unionale, la Unitel non avrebbe fornito alcuna prova della diligenza richiesta nell’effettuare le operazioni contestate, perché le fatture erano state redatte sulla base di dati presentati da enti i cui incarichi non erano validi in quanto non possedevano veri indirizzi professionali né validi documenti attestanti la contabilizzazione dell’IVA. Innanzi alle contestazioni mosse dall’Amministrazione Polacca, l’Unitel deduceva le seguenti opposizioni. In primis, a fronte della contestazione di irregolarità formali da quest’ultima avanzate, si asseriva che fossero stati rispettati tutti i requisiti sostanziali necessari ai fini dell’applicazione dell’aliquota IVA dello 0%. In secundis, ulteriore errore operato dall’Amministrazione e dai Giudici sarebbe risieduto, a parere della Società, nell’aver ritenuto che la cessione di beni si sarebbe dovuta considerare effettiva soltanto laddove l’operatore menzionato nella fattura come reale acquirente fosse coinciso con quello concretamente coinvolto nell’operazione. Muovendo da detti presupposti, il giudice del rinvio ha sottoposto al Collegio unionale una questione interpretativa articolata in tre punti distinti ma connessi. In primo luogo, si è interrogato in merito alla necessità o meno della coincidenza tra l’ente designato nella fattura del fornitore e nei documenti doganali come acquirente dei beni in questione e il destinatario effettivo degli stessi o se, di contro, non vi sia trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario al fine di considerare come effettiva una cessione di beni. In secondo luogo, a parere del giudice del rinvio, sarebbe opportuno stabilire in che misura un’eventuale frode avvenuta nel territorio dello Stato terzo, in cui è stato preso in consegna il bene esportato da un soggetto diverso da quello indicato nei documenti doganali, incida sull’applicazione dell’esenzione con diritto a detrazione dell’IVA (…) e se l’obbligo in questione, che mira a tutelare il mercato interno, si applichi quando la frode è commessa unicamente nel territorio di uno Stato terzo di destinazione e di consumo dei beni esportati. In ultimo, il giudice del rinvio si è chiesto se possa o meno considerarsi compatibile con il diritto europeo (3) una prassi nazionale (come quella polacca) consistente nell’applicare l’IVA all’operazione di cui trattasi come se questa costituisse una cessione nazionale, laddove la constatazione dell’assenza

(3) Oltreché con i principi dettati dal legislatore unionale in materia tributaria.


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di cessione di beni dovrebbe indurre a ritenere che essa non sia assoggettata all’IVA e non dia diritto a detrazione dell’IVA assolta a monte. 2. Inquadramento giuridico del concetto di “cessione di beni” ai fini IVA. – Primo profilo giuridico sul quale occorre soffermarsi attiene al corretto inquadramento del concetto di “cessione di beni” ed, in particolare, all’interpretazione di questo attraverso i principi dettati dal legislatore comunitario. Occorre, infatti, appurarsi in via preliminare quando – in conformità con il dettato regolamentare unionale – una cessione di beni possa ritenersi pienamente perfezionata, chiedendosi anche se, ai fini del riconoscimento del diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto sorgente in ragione della realizzazione d’una determinata operazione economica rilevante ai fini IVA, sia sufficiente il soddisfacimento dei requisiti sostanziali sottesi all’operazione medesima, o se di contro, a tal scopo, la venuta ad esistenza della cessione soggiaccia innanzi alla necessità di adempiere obblighi di natura formale tra i quali, come nel caso di specie, la corrispondenza tra il nominativo, o denominazione, del soggetto formalmente indicato all’interno della fattura e l’ente che abbia effettivamente partecipato alla cessione. Si proceda con ordine. Sul punto, si ritiene che potrebbe considerarsi pienamente dirimente un’interpretazione letterale dell’articolo 14, paragrafo 1, della Direttiva IVA (4). La norma in parola, infatti, prevede espressamente che si configuri una “cessione di beni” ogniqualvolta si sia verificato un passaggio del potere di disporre di un bene materiale come proprietario, anche in assenza del trasferimento giuridico del bene ceduto. La disposizione è chiara e non impone, dunque, il ricorso ad una complessa attività di ermeneutica. L’approccio del legislatore europeo alla materia in studio si traduce, infatti, nella cristalizzazione del principio generale per il quale, ai fini della configurabilità della cessione di un bene, sarebbe sufficiente la mera sussistenza degli elementi tipici del trasferimento di una res, ovvero il trasferimento del diritto ad atteggiarsi sulla cosa sulla cosa mobile oggetto del negozio “uti dominus” (5).

(4) Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto. (5) Cfr. Corte giustizia Unione Europea Sez. VIII, del 10 luglio 2019, n. 273/18, SIA «Kuršu zeme» contro Valsts ieņēmumu dienests, ove i Giudici europei hanno chiarito che Il fatto che si riceva un bene direttamente da colui che emette la fattura non è necessariamente la con-


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In altri termini, ai fini della configurabilità della cessione del bene, risulta necessario il riconoscimento in capo al soggetto cessionario del diritto ad atteggiarsi nei confronti della cosa come proprietario una volta conseguita la disponibilità materiale del bene dal cedente (6), senza che assuma rilievo la forma nella quale sia stato acquisito un diritto di proprietà su detto bene (7). Provando ad applicare le premesse considerazioni al caso di specie, può ben evidenziarsi che tra la Società Unitel ed i due enti ucraini sia intercorso, almeno sotto il profilo sostanziale, un rapporto correttamente inquadrabile entro i confini della “cessione di beni”. La società polacca, infatti, nel trasferire agli enti ucraini i beni mobili richiesti da quest’ultimi e, più precisamente, nell’atto di privazione dei beni oggetto di cessione attraverso il trasferimento degli stessi, ha perso qualunque potere di disporre liberamente della cosa, ponendo, di contro, i cessionari extracomunitari nelle condizioni di disporre degli stessi come proprietari. In tal senso, i requisiti strutturali richiesti dal legislatore europeo, oltreché da quello polacco (8), ai fini della configurabilità di una “cessione di beni mobili” ex art. 14 della Direttiva IVA, sarebbero correttamente integrati. A sostegno dell’impostazione metodologica fin qui proposta si pone, peraltro, il dettato di cui all’articolo 5, paragrafo 1, della Sesta Direttiva (9), disposi-

seguenza di un occultamento fraudolento del reale fornitore e non costituisce necessariamente una pratica abusiva, ma può avere altre motivazioni (…). Inoltre, non è necessario che il primo acquirente sia divenuto proprietario dei beni in parola al momento di tale trasporto, posto che l’esistenza di una cessione ai sensi di tale disposizione non presuppone il trasferimento della proprietà giuridica del bene. Detto principio era già stato reso dalla giurisprudenza comunitaria già in tempi risalenti. In tal senso, si vd. Cosi, CGUE, Sez. VI, dell’8 febbraio 1990, Staatssecretaris van Financiën vs. Shipping and Forwarding Enterprise Safe BV, in C-320/88, a parere della quale il concetto di “cessione di beni” comprenderebbe qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l’altra a disporre di fatto del bene come se ne fosse il proprietario. Si vd. anche Corte di giustizia del’8 febbraio 1990, C-320/88, cit.; Id., 4 ottobre 1995, C-291/92, Finanzamt Uelzen contro Dieter Armbrecht, C-185/01, Auto Lease Holland BV e Bundesamt für Finanzen. (6) In tal senso, Cfr. Cass., dell’11 settembre 2001, n. 11604. (7) CGUE, Sez. V, del 12 febbraio 1998, Blasic vs. Finanzamt Munchen, in C-346/95 (8) A norma dell’articolo 7, par. 1, della Legge polacca in materia di imposta sui beni e sui servizi dell’11 marzo 2004 (Dz. U. del 2011, n. 177, posizione 1054) «costituisce cessione di beni, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, punto 1, il trasferimento del potere di disporre di un bene come proprietario». (9) Sesta Direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977 in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (77/388/CEE).


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zione con cui il legislatore unionale aveva già ribadito – proprio come fatto in sede di redazione del sopracitato articolo 14, paragrafo 1, della Direttiva IVA – il principio per il quale dovrebbe considerarsi integrare una “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario. Le norme citate sono pienamente sovrapponibili e, come adeguatamente sottolineato da recente giurisprudenza europea, dal punto di vista interpretativo condividerebbero una nozione estremamente ampia – per quanto attiene all’inquadramento giuridico – del concetto di “cessione di beni”, potendosi ben ricondurre entro i confini di detto negozio qualsiasi operazione concretizzatasi in un trasferimento d’un bene materiale effettuato da una parte che abbia autorizzato l’altra a disporre, di fatto, di tale bene come se ne fosse il proprietario (10) una volta perfezionatasi la cessione, ovvero al momento della consegna della res. 3. Preminenza del carattere sostanziale su quello formale nella cessione di beni infraUE. – Il sindacato di merito circa l’avvenuta verificazione o meno d’una cessione di beni non può essere subordinata a requisiti di natura soggettiva. L’atto di cessione (11), infatti, riferendosi a tutte quelle fattispecie alle quali si collega l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale su di un bene (12), non può che sottostare alla presenza di requisiti oggettivi obiettivamente verificabili (13) e non può che essere valutato, in ogni caso, a prescindere dagli scopi e dai risultati che al negozio si associano (14). Sicché, ai fini del riconoscimento del diritto ad esenzione o meno dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto sorto in ragione d’una cessione di beni effettuata all’interno del mercato unico europeo, sarà necessario che il

(10) CGUE, Sez. VIII, del 15 maggio 2019, V.I.C. GmbH vs. Dyrektor Izby Skarbowej w Warszawie in C-235/18. (11) A prescindere dal fatto che abbia o meno natura infraeuropea. (12) Sia questo mobile, immobile o un’azienda. Sul punto, Cfr. G. Melis, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2017, 580. (13) Come ad esempio l’esistenza di un movimento fisico dei beni fra Stati membri [Cosi, F. Capello, La giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di IVA (1977-2014). Parte prima, in Dir. e Prat. Trib., 2014, 1, richiamando Corte di giustizia del 27 settembre 2007, in C-409/04, Teleos plc e altri contrto Commissioners of Customs & Excise], o la puntuale individuazione dei beni materiali che formano oggetto della cessione [CGUE del 21 febbraio 2006, Grande sezione, BUPA Hospitals Ltd. e Goldsborough Developments Ltd vs. Commissioners of Customs & Excise, in C-419/02]. (14) In questi termini, CGUE, Sez. III, del 12 gennaio 2006, Optigen Ltd – Fulcrum Electronics Ltd - Bond House Systems Ltd. contro Commissioners of Customs & Excise., in cause riuniteC-354/03, C-355/03 e C-484/03).


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giudice di merito nazionale, di volta in volta adito, verifichi la sussistenza dell’oggettività dell’operazione sulla base del caso concretamente prospettatogli così da appurare se in capo al contribuente sia effettivamente sorto o meno il summenzionato diritto (15). In altre parole, sarà necessario accertare che la cessione (16) sia stata effettivamente realizzata (17). L’ancoraggio dell’avvenuta cessione ad un sindacato d’oggettiva esistenza della medesima sortisce, tra gli altri effetti, proprio uno svilimento di eventuali elementi formali che possano andare a ledere, almeno in potenza, il diritto ad esenzione IVA del contribuente a fronte di un negozio di cessione già perfezionatosi. Dunque, in relazione all’interrogativo prospettato, l’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente in seno al Collegio europeo ha più volte ribadito che un provvedimento nazionale che subordini il diritto all’esenzione di una cessione intracomunitaria al rispetto di obblighi di forma, senza prendere in considerazione i requisiti sostanziali, eccede quanto è necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta, a meno che la violazione dei requisiti formali abbia l’effetto di impedire la dimostrazione certa che i requisiti sostanziali erano stati soddisfatti (18). Nel medesimo senso, peraltro, sembra essersi orientato, ormai da tempo, anche il nostro Supremo Collegio (19), statuendo più volte - in termini diversi

(15) Cfr. CGUE, Sez. III, del 21 giugno 2012, Mahagében kft vs. Nemzeti Adó- és Vámhivatal Dél-dunántúli Regionális Adó Főigazgatósága, in C-80/11 e P. Dávid contro Nemzeti Adó- és Vámhivatal Észak-alföldi Regionális Adó Főigazgatósága, in C- 142/11. (16) O la prestazione di servizi. (17) Pertanto, in mancanza dell’effettiva cessione di beni o della prestazione di servizi, non può sorgere alcun diritto a detrazione. In tal senso, CGUE, Sez. I, dell’8 maggio 2019, E. Srl c. vs. Agenzia delle Entrate, in C-712/17. (18) In tal senso, CGUE del 21 ottobre 2010, Nidera Handelscompagnie BV vs. Valstybine˙ mokesèicˇu¸ inspekcija prie Lietuvos Respublikos finansu¸ ministerijos, in C-385/09; CGUE del 22 dicembre 2010, Bogusław Juliusz Dankowski contro Dyrektor Izby Skarbowej w Łodzi, in C-438/09. Per approfondimento, Cfr. A. Giovanardi, Le Frodi IVA, Torino, 2013, 118. (19) In questi termini, Cass., Sez. Trib., del 9 ottobre 2009, 21457. In detta occasione i Giudici di legittimità hanno statuito che debba essere riconosciuto il rimborso derivante da una fattura di acquisto per la quale, in conseguenza della mancata registrazione del documento ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. n. 633/1972, il contribuente non abbia esercitato il diritto di detrazione in sede di liquidazione periodica, se la dichiarazione annuale, nella quale inizialmente tale detrazione neppure veniva esercitata, viene rettificata mediante dichiarazione correttiva con la contestuale presentazione di istanza di rimborso. Sul tema, in dottrina, M. Miceli, Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA, in Riv. Trim. Dir. Trib., 3, 2012, 763; P. Centore, La sindrome del rimborso IVA, in GT-Riv.


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ma unidirezionali – che non possa non accordarsi il diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto laddove i requisiti sostanziali dell’operazione contestata dall’Amministrazione Finanziaria al contribuente siano soddisfatti, e ciò anche laddove – ed è questo il profilo di maggior interesse ai nostri fini – siano stati omessi alcuni requisiti formali (20). Dall’analisi degli orientamenti richiamati, emerge in modo chiaro come la relazione intercorrente tra rilevanza degli obblighi sostanziali e formali sia racchiudibile essenzialmente entro due ramificazioni così sintetizzabili. Anzitutto, il fatto che la presenza di eventuali deficienze formali possa viziare il diritto all’esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto soltanto laddove detti vizi siano tali da non consentire l’accertamento dei requisiti sostanziali, si traduce, più concretamente, nell’attribuzione a dette mancanze d’un valore squisitamente sussidiario, laddove non eccezionale, ai fini della corretta interpretazione circa la veridicità ed effettività del rapporto giuridico-economico posto in essere dal cedente e dal cessionario. In secondo luogo, il discrimine tra rilievo ed irrilevanza che si affiancherebbe all’eventuale violazione di obblighi formali non potrebbe non venire a coincidere con la funzione – e, si potrebbe aggiungere, con l’incidenza – probatoria che l’adempimento dell’obbligo formale riveste ai fini dell’accertamento delle condizioni essenziali richieste per l’esercizio del diritto ad esenzione (21). In altri termini ancora, il diritto ad esenzione dall’IVA potrebbe essere negato soltanto ove l’inadempimento degli obblighi formali prescritti dal legislatore europeo e da quello statuale sia tale da non consentire un pieno ed esaustivo sindacato di merito circa il soddisfacimento dei requisiti sostanziali richiesti ai fini del “venire ad esistenza” dell’operazione realizzata tra le parti e del conseguente diritto ad esenzione (22).

Giur. Trib., 2013, 10, 767; F. Randazzo, Questioni intorno al rimborso IVA da dichiarazione, in GT-Riv. Giur. Trib., 2015, 4, 351; E. Artuso, Brevi note sulla sospensione del rimborso IVA, in Riv. Dir. Trib., 2013, 6, 329; R. Mistrangelo, L’imposta sul valore aggiunto: rivalsa, detrazione e rimborso, (2006-2016), in Dir. e Prat. Trib., 2017, 2, 837. (20) Negli stessi termini sopraesposti, si vd. anche Cass., Sez. Trib., dell’11 settembre 2013, n. 20774; Cass., Sez. Trib., del 5 maggio 2010, n. 10819; Cass., Sez. Trib., del 228 luglio 2010, n. 17588. (21) O anche di quello a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto. In tal senso. Cass., Sez. Trib., del 24 settembre 2015, n. 18924. (22) Viceversa come osservato in dottrina, “se la regola è che l’imposta dovuta è quella prevista ex lege per le singole operazioni effettuate, una norma che prevede, invece, la debenza dell’imposta secondo le indicazioni della fattura e cioè prescinde dal fatto reale per attribuire


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Provando ad applicare quanto fin qui detto al caso di specie, l’Amministrazione Finanziaria polacca avrebbe legittimamente compresso il diritto della ricorrente Unitel ad esentarsi dal preteso versamento dell’imposta sul valore aggiunto soltanto nel caso in cui l’entità della violazione formale posta in essere da quest’ultima fosse tale da non consentire d’appurare se il negozio di cessione regolarmente intercorso con i soggetti ucraini si fosse effettivamente verificato o se, ancor peggio, fosse ricomprendibile all’interno di un più ampio disegno fraudolento comune alle parti (23). Ciononostante, ad esito del giudizio che ci interessa, è emerso come la contribuente polacca fosse sostanzialmente e completamente estranea al disegno criminoso posto in essere dagli acquirenti ucraini e che soltanto quest’ultimi fossero portatori di interessi frodatori. Quanto detto, inoltre, risulterebbe ancor più avvalorato dal fatto che i beni oggetto della cessione fossero stati venduti e spediti non fittiziamente al di fuori dell’Unione lasciando “fisicamente” il territorio della stessa (24), facendo sì che alcun dubbio potesse sorgere in merito ad un’eventuale fittizietà del negozio di cessione. Alla luce delle considerazioni che precedono, fermo restando che le operazioni realizzate dagli operatori economici all’interno del mercato unico europeo necessitino d’essere tassate prendendo in considerazione le loro caratteristiche oggettive (25) e posto che il diritto all’esenzione IVA non possa

rilevanza al fatto rappresentato è una norma che sembra non conforme allo schema impositivo dell’IVA”: così, M. Logozzo, L’obbligo di fatturazione nell’IVA, Milano, 2004, 165. (23) Per approfondimento, CGUE, Sez. V, del 22 ottobre 2015, PPUH Stehcemp sp. j. Florian Stefanek, Janina Stefanek, Jaroslaw Stefanek vs. Dyrektor Izby Skarbowej w Łodzi, in C-277/14 come citata da A. Colantonio, Operazioni soggettivamente inesistenti, indebita detrazione iva ed onere della prova: l’Amministrazione finanziaria deve provare anche la “malafede” del soggetto, in Dir. e Prat. Trib., 2019, 2. In caso di operazione fittizia all’Amministrazione spetterà indicare gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione, avendo riguardo anche all’elemento soggettivo del contribuente, ossia alla conoscenza/conoscibilità che lo stesso ha circa la fittizietà dell’operazione, al contribuente spetta dimostrare la fonte legittima della detrazione nonché la sua buona fede, ossia la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad una operazione fraudolenta. (24) Si vd. Cass. civ., Sez. V, del 17 febbraio 2016, n. 3099 ove i Giudici di legittimità hanno sancito che, in tema di IVA, la cessione di beni esistenti sul territorio nazionale eseguita dal cedente residente nello Stato italiano nei confronti di cessionario extracomunitario (…) non costituisce una cessione all’esportazione, non essendo i beni usciti dal territorio comunitario. Ne discende che, viceversa, laddove i beni ceduti siano stati trasferiti in altro territorio extracomunitario, la cessione possa ben ritenersi pienamente perfezionata. (25) Così, CGUE, Sez. III, del 27 settembre 2007, Albert Collée vs Finanzamt Limburg an der Lahn, in C-146/05.


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subire indebite compressioni a fronte del mancato rispetto di meri obblighi formali (26), fatte salve le ipotesi strettamente derogatorie di cui sopra, l’arresto giurisprudenziale reso dalla Corte europea, stando alle argomentazioni addotte, non potrà non ritenersi giuridicamente corretto, oltreché coerente. 4. Principi di neutralità fiscale e di proporzionalità nell’imposta sul valore aggiunto. 4.1. Principio di neutralità fiscale. – La linea giurisprudenziale in studio potrebbe trovare ulteriore fondamento guardando alla questione che ci occupa nella prospettiva dataci dall’applicazione al caso de qua dei principi di neutralità fiscale dell’imposta sul valore aggiunto e di proporzionalità, canoni attorno ai quali ruota il corretto funzionamento del sistema giuridico ed economico europeo. Il principio di neutralità fiscale (27), in una prospettiva di europeizzazione finanziaria (28) e di edificazione d’un mercato unico comune (29), assurge a canone generale il cui obiettivo principale coincide con l’evitare che gli operatori economici che effettuano le medesime operazioni entro i confini unionali non subiscano trattamenti differenti in materia di riscossione dell’IVA (30), rimanendo, di contro, liberi di prendere qualsiasi decisione senza che vi sia interferenza alcuna della variabile fiscale (31). Il principio di neutralità fiscale, in altri termini, garantisce l’imparzialità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, purché queste, in ra-

(26) In tal senso, anche P. Centore, IVA: guide e soluzioni, Milano, 2014, 603. (27) Per approfondimento sul tema, L. Salvini, L’imposta sul valore aggiunto, in L. Salvini, (a cura di) Diritto tributario delle attività economiche, Torino, 2019 445 e ss.; F. Tesauro, Il principio europeo di neutralità dell’IVA e le norme nazionali non compatibili in materia di rimborso dell’indebito, in Giur. It., 2011, 9, 1942; M. Basilavecchia, La neutralità dell’IVA tra effettività e cautele, in Rass. Trib., 2016, 901; A. Mondini, Il principio di neutralità nell’IVA, tra mito e (perfettibile) realtà, in A. Di Pietro, T. Tassani (a cura di), I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013; E. Artuso, Mancata conservazione della fattura e detraibilità della relativa imposta: un’interpretazione sostanzialistica a tutela del principio di neutralità dell’IVA, in Riv. dir. trib., 2012, 5, 327 e ss. (28) Si vd. L. Di Renzo, R. Perrone Capano (a cura di), Diritto della finanza pubblica europea, Napoli, 2008, 8-9. (29) Così, C. Buzzacchi, La concorrenza ed il principio comunitario di neutralità fiscale, 2012, Milano, 2012, 516. (30) ) In tal senso, di recente, A. Purpura, Principio di neutralità fiscale e rimborso degli interessi derivanti da eccedenza IVA, in Corr. Trib., 2018, 19, 1490. (31) Così G. Novoa, Tax Neutrality in the Exercise of the Right of Establishment within


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gione della loro venuta ad esistenza nel mondo economico, siano potenzialmente assoggettabili ad imposta sul valore aggiunto (32). Sicché, ben si comprende che il requisito operativo del summenzionato principio sia da identificarsi, a prescindere dalla tipologia di operazione che gli agenti economici abbiano posto in essere, nella concreta verificazione del presupposto impositivo sotteso all’applicazione dell’imposta stessa (33). In tal senso, ai fini dell’operatività del regime di neutralità, occorre che l’operazione posta in essere dall’agente – a prescindere dal fatto che questa si sia tradotta sul piano fattuale in una cessione di beni o in una prestazione di servizi – possa essere qualificata come “economicamente rilevante” (34) perché connotata dalla partecipazione ad una delle fasi della produzione o dello scambio di beni o servizi (35), rientrando nelle delineate ipotesi non soltanto quelle attività economiche assoggettate all’imposta sul valore aggiunto, ma

the EU and Funding of Companies, in Intertax, 2010, 38, 11, 568. Per altro approfondimento internazionale sul tema, Cfr. W. Schon, Neutrality and Territoriality – Competing or Converging Concepts in European Tax Law?, in Bull.Int.Tax. (IBFD), April-May 2015, dove l’Autore evidenzia che il concetto di neutralità fiscale è di natura squisitamente economica che si collega al processo decisionale degli attori economici. In altri termini, Una tassa in quanto tale, o una disposizione fiscale particolare, può essere neutrale se non esercita alcuna influenza sulla decisione di una persona ad agire in un modo specifico. Per una prospettiva statunitense sul principio di neuralità fiscale, si vd. D. Weisbach, The Use of Neutralities in International Tax Policy, Univ. of Chicago, Work Paper, n. 697, 2014, 9, ove il principio di neutralità fiscale internazionale viene definito come una “rules of thumb” (lettaralmente “regola del pollice”), ovvero un principio di portata generale sul quale fondare le politiche fiscali internazionali in una prospettiva globalizzata e semplificata, perché ideale per fornire una guida ragionevole in un ambiente politico complesso (…) e fornire un punto focale per il coordinamento di più nazioni; R. Niemann, C. Sureth, Tax neutrality under irreversibility and risk aversion, in Economic Letters, Vol. 84, Issue 1, 2004, 43-47, M.S. Knoll, Reconsidering international tax neutrality, in Tax Law Review, 64, 99-129, 2011. (32) Sul punto, sia consentito rinviare ad A. Purpura, Ammissibile la detrazione IVA ove sussistano i requisiti sostanziali previsti dalla Direttiva, in Corr. Trib., 2018, 43, 3311. (33) M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, 2010, Tomo I, Milano, 2642, il quale focalizza la propria attenzione sull’operatività del principio di neutralità fiscale in caso di fusione aziendale. (34) Si vd. CGUE, Sez. V, del 12 maggio 2016, Gemeente Borsele vs. Staatsecretaris van Financien in C-520/14, con commento di B. Denora, Attività economica e “partecipazione al mercato” ai fini IVA, in Riv. Dir. Trib. (supp. online), del 6 giugno 2016. O ancora, B. Denora, Spunti sulla nozione di attività economica degli enti pubblici in ambito IVA, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2014, 325; A. Amatucci, Identificazione dell’attività di impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. Dir. Trib., 2009, 1, 781. (35) In questi termini, Cfr. A. Catricalà, G. Cassano, R. Clarizia, Concorrenza, mercato e diritti dei consumatori, Torino, 2018.


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anche quelle esenti dal versamento dell’imposta, negozi che presentano tutti gli elementi tipici del presupposto impositivo (36). Ciò premesso, appare doveroso sottolineare che l’applicazione di dette coordinate metodologiche al caso di specie imponga il richiamo a quanto disposto dall’articolo 146, paragrafo 1, lett. b), della Direttiva IVA. Con detta disposizione (37) il legislatore europeo ha precisato, infatti, che debbano considerarsi esentate le cessioni di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto, oppure da un acquirente o per suo conto, fuori dell’Unione. È chiaro che, ai fini dell’applicazione della disposizione, il negozio presupposto debba avere concretamente trovato la vita. In tal senso, non è casuale che nell’arresto in commento i Giudici europei invitino a consultare in termini risolutivi proprio l’articolo 146 della Direttiva IVA alla luce dell’articolo 14, paragrafo 1, in quanto il diritto ad esenzione fatto eventualmente valere dal contribuente impone la valutazione, a monte, dell’effettività dell’operazione posta in essere o meno dalle parti del negozio. Dal punto di vista pratico, quanto detto non può che tradursi nella considerazione per la quale in caso di cessione all’esportazione il diritto ad esenzione sorgerà soltanto quando il potere di disporre del bene ceduto sarà trasmesso all’acquirente (cessionario), ovvero nel momento in cui la res sarà stata spedita o trasportata al di fuori dell’Unione e il bene, in seguito a tale spedizione o trasporto, avrà lasciato fisicamente il territorio europeo (38).

(36) “E che sono tali solamente in base a norma apposita dettata da considerazioni di politica legislativa”. In questi termini, Cfr. F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA (Exemptions in the VAT system), 2013, Torino, 43, e bibliografia ivi citata. In particolare, per autorevole approfondimento si vd. A. Fedele, Esclusioni ed esenzioni nella disciplina dell’IVA, in Riv. Dir. Fin., 1972, 146; S. La Rosa, Esclusioni tributarie, in Enc. Giur., Roma, 1989, 1; A. Fantozzi, Operazioni imponibili, non imponibili ed esenti nel procedimento di applicazione dell’IVA, in Riv. Dir. Fin., 1973, 141. Si vd. anche, A. Fantozzi, Realtà e prospettive in materia di IVA, in Rass. Trib., 1988, I, 501; A. Fantozzi, Presupposti e soggetti passivi dell’IVA, in Dir. e Prat. Trib., 1972, I, 725; A. Comelli, Il principio di neutralità dell’Iva nell’ipotesi di effettuazione di operazioni esenti, in Riv. Dir. trib., 1995, 2, 954. (37) Recante disciplina in tema di “esenzioni all’esportazione”. (38) CGUE, Sez. V, del 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading Kft. vs. Nemzeti Adóés Vámhivatal Közép-magyarországi Regionális Adó Főigazgatóság, in C-563/12 come richiamata da N. Forte, Il nuovo manuale dell’IVA, Pisa, 2015, 403. E ancora, si vd. anche CGUE del 27 settembre 2007, Teleos e a., in C-409/04; CGUE del 7 dicembre 2010, in C-285/09 e CGUE del 6 settembre 2012, Mecsek-Gabona, C-273/11.


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Applicando quanto argomentato al caso di specie, il diritto ad esenzione esperito dalla Società Unitel potrebbe ben trovare, a parere dello scrivente, fondamento proprio nel fatto che – una volta esclusa la natura patologica dell’operazione (39) – la condotta posta in essere dalla contribuente polacca avesse rispettato quanto richiesto dal legislatore europeo ai fini della corretta realizzazione del negozio di cessione, atteso che i beni ceduti dalla stessa agli enti ucraini fossero fuoriusciti dalla propria sfera giuridica venendo, di contro, attratti in quella dei destinatari ucraini e, infine, all’interno di un territorio extracomunitario (40). In questa prospettiva, in applicazione del principio di neutralità fiscale, a fronte dell’effettivo compimento dell’operazione voluta dalle parti e realizzata, almeno dalla parte del cedente, in ossequio alla normativa europea che ne regola i profili, deve considerarsi corretto il riconoscimento del diritto ad esenzione operato dai Giudici unionali in favore della Società polacca. Laddove si ragionasse a contrario, peraltro, ne uscirebbe illegittimamente compromessa non soltanto la corretta portata applicativa del principio di neutralità fiscale nei termini prima definiti, ma risulterebbe, altresì, indebitamente compresso il diritto del contribuente europeo all’esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto, redutio che, in conformità con un orientamento ormai consolidatosi in seno alla Corte europea, potrà trovare fondamento soltanto in via del tutto eccezionale (41) e, dunque, non laddove si sia incorsi, come nel caso di specie, in un errore squisitamente formale (42) non

(39) Non trattandosi, ad esempio, d’un caso in cui il cedente avesse cognizione del disegno fraudolento pianificato dal cessionario. In tal senso, CGUE, Sez. V, del 31 maggio 2018, Finanzamt Dachau c. Achim Kollroß (in C-660/16) e Finanzamt Goppingen c. Erich Wirtl (in C-661/16), ove i Giudici hanno sancito che il diritto a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto riguardante il versamento di un acconto non può essere negato al potenziale acquirente dei beni in questione, in una situazione in cui tale acconto è stato versato e riscosso e, al momento di tale versamento, si poteva considerare che tutti gli elementi rilevanti della futura cessione erano noti a tale acquirente e la cessione di tali beni sembrava in quel momento certa. Un siffatto diritto potrà, tuttavia, essere negato qualora si accerti, alla luce di elementi oggettivi, che, al momento del versamento dell’acconto, l’acquirente sapeva, o non poteva ragionevolmente ignorare, che la realizzazione di tale cessione era incerta. Cfr., sul tema, A. Purpura, Ammissibile la detrazione iva anche in caso di operazione non perfezionata, in Dir. e Prat. Trib., 2019, 4, 1771-1788. (40) Ulteriore profilo d’interesse ai fini dello studio odierno e sul quale ci si soffermerà di qui a breve. (41) Sul punto, cfr. sentenze dell’8 novembre 2018, Cartrans Spedition, in C‑495/17, EU:C:2018:887, punto 40, e del 28 marzo 2019, Vinš, C‑275/18, EU:C:2019:265, punto 32). (42) In tal senso, Cfr. CGUE, Sez. III, del 30 settembre 2010, Uszodaépítő kft. vs. APEH


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idoneo a pregiudicare, data la propria esiguità, i tratti sostanziali del negozio realizzato. 4.2. Principio di proporzionalità. – Procedendo lungo la medesima linea argomentativa fin qui adottata, a sostegno della bontà dell’arresto giurisprudenziale in esame potrebbe, in ogni caso, porsi il principio di proporzionalità ex art. 5 del TUE (43). Con detta disposizione il legislatore europeo si è proposto di conseguire un duplice risultato: i) regolare e delimitare la totalità delle competenze esercitabili dall’Unione; ii) inquadrare le azioni delle istituzioni dell’UE entro

Központi Hivatal Hatósági Főosztály, in C-392/09; CGUE, Sez. III, del 21 ottobre 2010, Nidera Handelscompagnie vs. Valstybinė mokesčių inspekcija prie Lietuvos Respublikos finansų ministerijos in C-385/09; CGUE del 12 luglio 2012, Sez. II, EMS-Bulgaria Transport vs. Direktor na Direktsia «Obzhalvane i upravlenie na izpalnenieto» Plovdiv, in C-284/11; CGUE del 6 febbraio 2014, Sez. II, SC Fatorie SRL vs. Direcţia Generală a Finanţelor Publice Bihor, in C-424/12. (43) Come evidenziato in dottrina, “La genesi di tale principio è da attribuirsi al diritto tedesco che individuava tre requisiti (livelli o gradini) della proporzionalità: idoneità (Geeignet­ heit), necessarietà (Erforderlichkeit) e proporzionalità (Verhaltnismabig­keit). Idoneità del mezzo rispetto all’obiettivo perseguito; necessarietà che la misura adottata sia conforme, appunto, a controllo di proporzionalità e, pertanto, non esista un altro mezzo efficace nella medesima misura (insostituibilità del mezzo); proporzionalità in senso stretto da intendersi come una legittima proporzione fra la limitazione dei diritti dei cittadini e le finalità pubbliche perseguite e, dunque, come contemperamento tra interesse pubblico e posizione dei privati”. In questi termini, Cfr. M.V. Serranò, Il rispetto del principio di proporzionalità e le garanzie del contribuente, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2014, 4, 1 e ss. Con riferimento al principio di proporzionalità, copioso è il contributo fornito dalla dottrina. Per tutti, cfr. Pistone, Il processo di armonizzazione in materia di IVA ed i limiti alla derogabilità della normativa comunitaria, in Riv. Dir. Trib., 1997, 2, 805; A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2012; G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario, Padova, 2017; G. Vanz, I principi della proporzionalità e della ragionevolezza nelle attività conoscitive e di controllo dell’amministrazione finanziaria, in Dir. e Prat. Trib., 2017, I, 1912; F. Moschetti, Diniego di detrazione per consapevolezza nel contrasto alle frodi IVA: alla luce dei principi di certezza del diritto e proporzionalità, Padova, 2012; A. Comelli, I principi di neutralità fiscale e proporzionalità ai fini della disciplina dell’iva europea e nazionale: dagli studi di settore agli indici sintetici di affidabilità fiscale, in Dir. e Prat. Trib., 2019, 3, 1061; C. Monaco, Neutralità fiscale, ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri e prevenzione dell’evasione: la difficile opera di bilanciamento della Corte di Giustizia – Rassegna di giurisprudenza (luglio-dicembre 2007), in Riv. Dir. Fin. e Sc. Fin., 2008, 1, 126; F. Vismara, Disciplina doganale e sanzioni tra elettività, dissuasività e proporzionalità, in Nov. Fisc., 2016, 6, 39; D.U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998.


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certi limiti normativamente previsti. In virtù di tale regola (…) il contenuto e la forma dell’azione devono porsi in rapporto con la finalità perseguita (44). Dal punto di vista interpretativo, il principio di proporzionalità si atteggia non soltanto quale parametro di legittimità dell’operato dei legislatori nazionali – oltreché di quello europeo – rispetto ai fondamentali principi sovrannazionali ai quali l’ordinamento giuridico unionale è informato (45), ma anche quale strumento di bilanciamento tra interesse erariale e tutela del contribuente (46) , ponendo in capo al legislatore, all’autorità giudiziaria ed all’amministrazione finanziaria statuale il dovere di seguire un criterio di normalità al quale si affianchi il minor aggravio e la minor compressione possibile sul bene giuridico di volta in volta tutelato dalle norme. Detta triplice valenza della nozione di proporzionalità (47), se applicata al diritto tributario e, asseritamente, alla relazione intercorrente tra il summenzionato principio e l’imposta sul valore aggiunto, configurerà sia uno strumento di salvaguardia della stabilità del mercato unico, sia una garanzia per il non superamento di quanto necessario ai fini dell’esatta riscossione (48). In termini più concreti, il principio di proporzionalità impone che l’azione europea in tema di riscossione dell’imposta sul valore aggiunto si concretizzi in quanto necessario, e non eccedente, il conseguimento di tal fine, senza che ciò comporti la lesione dei diritti dei contribuenti. In questa prospettiva, i diritti di quest’ultimi che si collegano all’imposta sul valore aggiunto – quali, ad esempio, il diritto a detrazione o ad esenzione dal versamento dell’imposta medesima – potranno essere soggetti a compressione, sempreché questa

(44) https://eur-lex.europa.eu/summary/glossary/proportionality.html?locale=it. (45) Per approfondimento, G. Scaccia, Il controllo di proporzionalità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in F. Caggia, G. Resta (a cura di), I diritti fondamentali in Europea e il diritto privato, Roma, 2019, 89. (46) In questi termini, si vd. M. Greggi, Frodi Fiscali e neutralità del tributo nella disciplina dell’Iva, in Dir. prat. trib., n. 1, 2016, 1015, nonché M. Logozzo, Detrazione, rimborso e rettifica della dichiarazione IVA tra recenti orientamenti della giurisprudenza e nuove disposizioni, in Boll. Trib., 2017, 14, 1069. (47) Alla quale fa riferimento G. Petrillo, L’osservanza del principio di proporzionalità UE nell’individuazione di criteri presuntivi ‘ragionevoli’, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2013, 2, 1. (48) Sul punto, si vd. CGUE, Sez. VI, del 17 luglio 2014, Equoland vs. Agenzia delle Dogane, in C-272/13; CGUE, Sez. II, del 19 luglio 2012, Ainars Redlihs vs. Valsts ieņēmumu dienests, in C-263/11. come richiamate da F. Farri, Sanzioni IVA e principio di proporzionalità: nuove prospettive dalla cassazione, in Riv. Dir. Trib. (supp. online), del 13 settembre 2016. Sul tema Cfr. anche S. Armella, Diritto doganale dell’Unione Europea, Milano, 2017.


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avvenga in modo proporzionato rispetto alla gravità della condotta posta in essere dal contribuente, ed a condizione che ci si trovi innanzi ad una reale operazione sottostante la cui prova certa possa essere acquisita dai dati risultanti dalle fatture o da altro documento equivalente (49), essendo, invece, a tal fine poco rilevante l’osservanza degli obblighi dichiarativi (50). Ma v’è di più. Il profilo appena richiamato, infatti, riveste un ruolo centrale ai fini della completezza dello studio che si intende, in questa sede, portare avanti. Sulla base delle considerazioni che si sono formulate fin qui, infatti, non può che essere immediatamente apprezzabile la strettissima relazione intercorrente tra diritto ad esenzione dell’imposta sul valore aggiunto e principio di proporzionalità. Se è vero com’è, infatti, che gli Stati membri debbano considerarsi legittimati a quantificare l’entità delle sanzioni in caso di inosservanza delle condizioni formali relative all’esercizio del diritto a detrazione (o ad esenzione) dell’IVA (51), allo stesso tempo l’amministrazione finanziaria, ove disponga delle informazioni necessarie per accertare che i requisiti sostanziali ai fini del perfezionamento dell’operazione siano stati soddisfatti, non potrà imporre condizioni supplementari che possano produrre l’effetto di vanificare l’esercizio del diritto medesimo (52) eccedendo quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare evasioni (53).

(49) Come, ad esempio, la documentazione contabile. (50) In questi termini, si vd. Cass., SS.UU., 8 settembre 2016, n. 17757, nonché CGUE, Sez. IV, del 15 settembre 2016, in C-518/14, con commento di B. Denora, Omesse dichiarazioni e fature “generiche” non impediscono la detrazione IVA, in Riv. Dir. Trib. (supp. online), del 25 ottobre 2016. (51) CGUE, Sez. VII, del 9 luglio 2015, Salomie et Oltean vs. Direcția Generală a Finanțelor Publice Cluj, in C‑183/14, ove i Giudici europei evidenziarono come il fatto di sanzionare l’inosservanza degli obblighi contabili e di dichiarazione con un diniego del diritto a detrazione eccedesse chiaramente quanto necessario per conseguire l’obiettivo di garantire il corretto adempimento di tali obblighi, posto che il diritto dell’Unione non vieta agli Stati membri di irrogare, se del caso, un’ammenda o una sanzione pecuniaria proporzionata alla gravità dell’infrazione. (52) Adducendo, ad esempio, quale motivo della negazione del diritto a detrazione o esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto, la sola motivazione che una fattura non rispetta i requisiti previsti dall’articolo 226, punti 6 e 7, della direttiva 2006/112, qualora essa disponga delle informazioni per accertare che i requisiti sostanziali relativi a tale diritto sono stati soddisfatti. (53) Sul punto, si vd. CGUE, Sez. VII, dell’8 novembre 2018, Cartrans Spedition vs. Direcţia Generală Regională a Finanţelor Publice Ploieşti – Administraţia Judeţeană a


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Laddove si ragionasse in termini opposti a quelli appena delineati, unico scenario in cui non si potrebbe non sfociare sarebbe quello – peraltro verificatosi proprio nel caso in studio – d’una palese violazione del principio di proporzionalità. Ulteriore argomentazione a sostegno della linea inferenziale che si è inteso, fin qui, condividere, risiederebbe nella considerazione per la quale nel caso in cui ad una lieve violazione realizzata dal contribuente si affiancasse una sanzione sproporzionata, si rischierebbe d’incorrere in un effetto non desiderato né dai legislatori nazionali, né, tantomeno, da quello europeo. Non potrebbe che uscirne svilito, infatti, l’intero sistema sanzionatorio tributario atteso che i contribuenti sanzionati non avrebbero la possibilità di comprendere a pieno il disvalore sociale e l’aggravio economico conseguente alla sanzione eventualmente subita (54). D’altra parte, quale valore preventivo-rieducativo si potrebbe riconoscere ad una sanzione che non tenga conto della reale offensività della condotta contro cui la misura punitiva medesima sarebbe indirizzata? Quale funzione potrebbe attribuirsi ad una sanzione che sortisca effetti pregiudizievoli nei

Finanţelor Publice Prahova,, in C-495/17, ove il Collegio unionale ha statuito che per quanto attiene al principio di proporzionalità, una misura nazionale eccede quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta nel caso in cui subordini essenzialmente il diritto all’esenzione dall’IVA al rispetto di obblighi formali, senza che siano presi in considerazione i requisiti sostanziali e, in particolare, senza porsi la questione se questi ultimi siano stati soddisfatti. Sul punto, in tempi più recenti, può essere utile richiamare, altresì, CGUE, Sez. III, del 28 marzo 2019, Milan Vinš vs. Odvolací finanční ředitelství, in C-275/18, ove i Giudici europei hanno espresso un principio di diritto sostanzialmente sovrapponibile a quello che si è appena richiamato (si vd. pt. 38). (54) In questa prospettiva potrebbe assumersi come pienamente dirimente un risalente arresto reso dalla Corte Costituzionale con sentenza del 30 luglio 1997, n. 291. In detta occasione, infatti, il Giudice delle leggi, muovendo dalla considerazione per la quale in tema di sanzioni tributarie “il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della non arbitrarietà o palese irragionevolezza delle scelte”, evidenziava che il sindacato di legittimità e ragionevolezza d’una misura sanzionatoria fosse da effettuarsi proprio sulla base dell’eventuale arbitrarietà della stessa. Dunque, sulla base di detto presupposto, occorre che l’operatore del diritto si ponga il seguente quesito: quale criterio utilizzare per effettuare una valutazione di questo tipo? Ebbene, essendo il sistema comunitario riguardante l’imposta sul valore aggiunto integralmente ispirato al principio di proporzionalità, potrà ben dirsi, a nostro parere, che debba essere proprio quest’ultimo il criterio guida sulla base del quale valutare l’eventuale irragionevolezza ed illegittimità di un provvedimento sanzionatorio – come la negazione del diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto pur in presenza dei requisiti sostanziali richiesti ai fini del legittimo esperimento di detto diritto – rivolto verso il contribuente.


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confronti di un contribuente la cui condotta, però, non abbia dato luogo a violazione d’una prescrizione di legge ovvero ad una lesione altrui? Se è vero, infatti, che ai fini della propria sussistenza logico-giuridica ogni sanzione (55) necessiti d’essere parametrata al fatto storico al quale si ricollega ed alle circostanze concrete in cui si è dispiegato il fatto, sarà necessaria una valutazione del quantum della colpevolezza della singola persona, sia questa fisica o giuridica (56), che tenga conto proprio di detti fattori (57). Applicando dette coordinate al caso di specie, potrà bene evidenziarsi che la condotta posta in essere dalla Società Unitel, anche nell’eventualità in cui si volesse qualificare come negligente per non aver formalmente riportato all’interno delle fatture contestate l’esatta denominazione degli enti extracomunitari beneficiari della cessione, non potrebbe, in ogni caso, costituire ragione giustificatrice della negazione del diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto. Ed infatti, pur potendosi attendere che la società ricorrente, a fronte della cessione dei beni, provvedesse ad identificare correttamente i cessionari degli stessi, rimarrebbe comunque il fatto che la contestazione del diritto ad esenzione IVA presentata dall’Amministrazione Finanziaria polacca risulti ugualmente sproporzionata rispetto all’entità dell’errore commesso dalla Unitel, atteso che l’Ufficio aveva subordinato l’esperibilità del diritto all’esenzione dall’IVA al rispetto degli obblighi formali, senza prendere, tuttavia, in considerazione la sussistenza dei requisiti sostanziali e l’avvenuto o meno soddisfacimento di questi. Ragionando per assurdo, e provando ad immaginare di potere considerare legittimo e concretamente conforme al dettato normativo europeo il principio

(55) Sia questa tributaria, penalistica, amministrativa o civilistica. (56) Sul punto, Cfr. L. Cornacchia, Funzione della pena nello statuto della Corte Penale Internazionale, in Quaderni di Dir. Pen. Comp. Int. ed Eur., Milano, 2009, 96. (57) In caso contrario, la sanzione tributaria perderebbe il proprio valore afflittivo-sanzionatorio, prestandosi ad essere interpretata dal soggetto destinatario dalla medesima come una misura applicata senza discrimine e – profilo che più rileva ai nostri fini – senza alcuna proporzione. Per approfondimento sul tema, si rimanda a D. Coppa, S. Sammartino, Analisi e proposte per la revisione delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. Trib., 1994, I, 1210; L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993; D. Coppa, S. Sammartino, Sanzioni tributarie, in Enc. dir., Milano, 1989, Vol. XLI, 415; nonché, R. Cordeiro Guerra, La pena pecuniaria tributaria: evoluzione positiva e problematica, in Riv. Dir. Trib., 1991, I, 111; C. Fava, Sanzioni tributarie e persone giuridiche tra modelli penalistici e specificità di settore, Milano, 2006, 6-32.


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avanzato dall’Amministrazione Finanziaria polacca (58), si approderebbe ad una situazione in cui non soltanto il contribuente si vedrebbe costretto a verificare di volta in volta lo status di soggetto passivo dell’acquirente anche “mediante mezzi non ben specificati” (59), ma sarebbe, altresì, fatto destinatario di un trattamento concretamente sproporzionato perché fondato sull’erronea convinzione che egli possa essere chiamato a rispondere dei mancati introiti tributari causati dai comportamenti fraudolenti di terzi sui quali esso, però, non ha alcuna influenza (60). In altre parole, significherebbe attendersi che il contribuente, per esser certo che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad una frode fiscale, adotti misure che vadano oltre ogni ragionevolezza (61). E ciò, chiaramente, anche laddove abbia adempiuto diligentemente i propri obblighi relativi alla prova di una cessione intracomunitaria ed alla spedizione (o trasporto) dei beni fuori dallo Stato membro di cessione. Purtuttavia, alla luce del dispiegamento fattuale alla base della sentenza esaminata, non è emerso alcun coinvolgimento della Società Unitel all’interno del disegno criminoso riconducibile ai due soggetti ucraini. Ma deve dirsi di più. Sembra che l’Amministrazione Finanziaria polacca non abbia neppure tenuto in considerazione un ulteriore, ed altrettanto importante, profilo ovvero la mancanza di una correlazione, anche soltanto parziale o minimale, tra la condotta posta in essere dalla contribuente polacca, la qualificazione giuridica di questa come “frode” e la concreta inoffensività della stessa nei confronti dell’Erario nazionale. L’assenza di un potenziale pregiudizievole della condotta posta in essere dalla Unitel nei confronti dell’Erario polacco emerge chiaramente, a nostro avviso, sulla base di almeno due fattori. In primo luogo, l’oggettiva effettività dell’esportazione e, dunque, in termini più semplicistici, la reale esistenza di una cessione potrebbe già rappre-

(58) Attribuendo, dunque, valore escludente all’errata individuazione del soggetto cessionario verso il diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto. (59) In questi termini, F. Cannas, Certezza del diritto e applicabilità della direttiva IVA da parte della Corti nazionali, in Rass. Trib., 1, 2016, 251. (60) Così si esprimono i Giudici europei richiamando altra CGUE, Sez. IV, del 21 febbraio 2008, Netto Supermarkt GmbH vs. Finanzamt Malchin, in C‑271/06. (61) Sul tema, Cfr. CGUE, Sez. III, del 27 settembre 2007, Teleos plc vs. Commissioners of Customs & Excise, in C-409/04, nonché CGUE, Sez. III, dell’11 maggio 2006, Commissioners of Customs & Excise vs. Federation of Technological Industries, in C-384/04.


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sentare, di per sé, una ragione escludente il carattere pregiudizievole della condotta posta in essere dalla contribuente polacca. Ed infatti, se un’operazione v’è stata e l’ordinamento nazionale vi ha associato l’applicabilità di un’aliquota specifica (nel caso di specie pari allo 0%), allora, già in ragione della mera venuta ad esistenza della prestazione l’Amministrazione Finanziaria polacca avrebbe dovuto riconoscere la natura di cessione esente ai fini IVA in favore dell’Unitel. Si tratta, in buona sostanza, di riconoscere ad un evento economicamente, giuridicamente e fiscalmente rilevante il trattamento tributario che l’ordinamento ha ritenuto applicabile al concorrere di una serie di presupposti – primo tra tutti il rispetto delle norme tributarie da parte della contribuente – che, nel caso in studio, sono stati integralmente rispettati. In secondo luogo, anche laddove volesse ammettersi che una frode v’è stata, il cedente polacco ne sarebbe, da ogni prospettiva, sia questa fattuale o psicologica, estraneo. Più precisamente, potrebbe dirsi che la frode, essendo stata realizzata soltanto dagli enti ucraini, non possa che considerarsi a natura unilaterale ed unidirezionalmente orientata, riverberando, così, i propri effetti esclusivamente nei confronti del proprio Stato di appartenenza e non, come erroneamente ritenuto dall’Ufficio polacco, nei confronti dell’Erario a tutela del quale quest’ultimo agisce. Ragionando in tal senso, al venir meno d’una correlazione tra la frode posta in essere unicamente dagli enti ucraini ed ordinamento giuridico polacco, parrebbe venir meno la sussistenza del negozio fraudolento medesimo o, in ogni caso, la rilevabilità di questo da parte dell’Erario nazionale il quale, dal rapporto negoziale tra la Unitel e gli enti ucraini non si è visto destinatario di alcun pregiudizio (62). Da ciò non può non discendere, dunque, il venir meno della pretesa dell’Amministrazione Finanziaria polacca (63) la quale aveva giustificato l’assoggettamento a imposta dell’operazione posta in essere dalla contribuente nazionale proprio sulla base dell’esistenza di una frode realizzata a discapito dell’Erario. A sostegno delle affermazioni fin qui formulate si pone, peraltro, un recentissimo arresto maturato in seno alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea a parere del quale il fatto che l’IVA sulle operazioni fittizie “a valle” sia stata assolta e l’operazione non abbia causato, quindi, alcun danno erariale impone il riconoscimento all’emittente della fattura del diritto di recuperare l’IVA addebitata al

(62) Da valutarsi, questo, in termini di eventuale diminuzione del gettito fiscale. (63) Richiesta che, alla luce delle considerazioni formulate, non soltanto si discosta da una corretta applicazione del principio di proporzionalità ma appare giuridicamente infondata.


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cliente (64) e rende sproporzionata l’eventuale sanzione commisurata all’ammontare dell’imposta “a monte” indebitamente detratta (65). Infine, quale ulteriore controprova dell’oggettiva effettività della cessione posta in essere dalla contribuente polacca nei confronti degli enti ucraini potrebbe porsi anche l’avvenuta applicazione del tributo all’importazione intervenuta in territorio ucraino. A tal riguardo, infatti, urge evidenziare che alla movimentazione della merce ad opera della contribuente polacca in favore degli enti ucraini ha fatto, naturalmente, seguito il sorgere della doverosità del tributo all’importazione (66) e, in definitiva, la concreta applicazione di questo. Detta circostanza è tutt’altro che contingente e si pone, anzi, quale ulteriore ragione escludente la sussistenza della qualificazione giuridica della cessione intercorsa tra la contribuente polacca e gli enti ucraini come fraudolenta. Ragionando diversamente, infatti, si rischierebbe non soltanto di privare di rilevanza giuridica e tributaria una cessione (67) al verificarsi della quale sono sorti diritti e doveri in capo ai soggetti che vi hanno preso parte, ma anche di qualificare come fraudolento un negozio concretamente oggettivizzatosi nel mondo esterno ed in relazione al quale la contribuente polacca ha assolto tutti gli obblighi necessari per esperire legittimamente il proprio diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto. Un’ultima considerazione. Non accogliere le valutazioni che si sono fin qui formulate potrebbe condurre ad ammettere l’assunto, errato, per il quale una medesima operazione di cessione di beni (intercorsa, nel caso di specie, tra la contribuente polacca e gli enti ucraini) possa essere sottoposta ad impo-

(64) La sentenza fa riferimento ad un emittente della fattura che “non sia in buona fede”. A maggior titolo, se i Giudici hanno affermato che il diritto a recuperare l’IVA addebitata al cliente debba riconoscersi a chi si trovi in una posizione di mala fede, non potrà non affermarsi che il medesimo diritto debba essere arrogato a chi, come la Unitel, si trovasse in buona fede al momento della realizzazione del negozio fraudolento da parte degli enti ucraini. (65) In questi termini, M. Antonini, P. Piantavigna, Nelle operazioni fittizie l’assenza di un danno erariale consente la rettifica iva ed esclude le sanzioni, in Corr. Trib., 2019, 786 e ss., commentando CGUE, Sez. I, dell’8 maggio 2019, Ensa Srl vs. Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale Lombardia Ufficio Contenzioso, in C-712/17. Per ulteriore approfondimento, si vd. M. Peirolo, Detrazione IVA in caso di operazioni inesistenti senza danno erariale, in Il Fisco, 2019, 2164 e ss. (66) Per approfondimento, per tutti, C. Verrigni, Il controverso rapporto tra il contrabbando doganale e l’evasione dell’iva all’importazione, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2015, 319 e ss.; L. Del Federico, IVA all’importazione e ravvedimento operoso, in Riv. giur. trib., 1995, 378; A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Diritto penale dell’economia, Milano, 2019. (67) Qualificata come esente dall’ordinamento giuridico d’origine ed in relazione alla quale è stato corrisposto un tributo all’importazione.


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sizione sia nel paese di origine che di destinazione ovvero in Polonia ed Ucraina. Tuttavia, come ben evidenziato in dottrina, l’ipotesi di un duplice prelievo in capo alla medesima operazione, darebbe luogo ad una compressione delle libertà fondamentali di circolazione riconosciute dall’ordinamento europeo, pregiudicando e, di fatto, dissuadendo gli operatori economici dall’effettivo esercizio di tali libertà (68). In aggiunta, a nostro avviso, potrebbe, altresì, configurarsi una grave lesione dei fondamentali principi di certezza del diritto e del legittimo affidamento. Ed infatti, in breve, nel caso in cui un operatore economico abbia agito conformandosi alle previsioni normative interne mosso dalla fondata consapevolezza che ad una data condotta economica avrebbe fatto seguito un altrettanto certo trattamento tributario, nel caso in cui, poi, vedesse disattese tali previsioni, si scontrerebbe con un’indebita lesione dei canoni sopra marginati, principi che, come si è avuto modo di evidenziare in altra sede, costituiscono strumenti di salvaguardia della stabilità e dell’equità tanto dell’ordinamento giuridico europeo quanto di quello nazionale (69). Alla luce delle considerazioni che precedono, volendo tracciare una linea conclusiva, potrebbe dirsi che dallo studio del caso giurisprudenziale in esame sia possibile enucleare una natura, almeno, triplice del principio di proporzionalità i) In primis, si tratta di un solido usbergo di cui il contribuente è chiamato a far uso ogniqualvolta si trovi a dover fronteggiare l’assunzione di un provvedimento dell’Amministrazione Finanziaria sprovvisto di fondamento giuridico o che, in ogni caso, sia volto ad incidere nella sfera giuridica e patrimoniale di quest’ultimo in assenza di proporzione tra l’entità della condotta

(68) Nel senso che il soggetto, innanzi all’eventualità d’essere sottoposto ad una doppia imposizione, sarà indotto a rimanere entro i confini del proprio ordinamento di origine senza avvalersi della facoltà concessagli dal diritto dell’Unione che, nel caso di specie, finirebbe per penalizzarlo. Una circostanza, questa, che si pone in evidente contraddizione con le finalità proprie dell’ordinamento europeo, proteso com’è alla realizzazione di uno spazio comune. In questi termini, Cfr. S. Dorigo, Doppia imposizione internazionale e diritto dell’Unione Europea, in Riv. Trim. di Dir. Trib., 2013, 23 e ss. (69) In tal senso, sia consentito rimandare ad A. Purpura, Riflessioni in tema di operazioni esenti da IVA, a margine di un recente “chiarimento” di prassi e della giurisprudenza europea su cui si fonda: il caso delle “lezioni di scuole guida”, in Riv. Dir. Trib. (supp. online), del 17 ottobre 2019, ove si richiamano, per tutti, L. Perrone, Certezza del diritto, affidamento e retroattività, in Rass. Trib., 2016, 933; M. Bacci, L’evoluzione del principio del legittimo affidamento nel diritto dell’Unione Europea e degli Stati Membri, in Collana di Diritto Privato Europeo, 2015; E. Castorina, Certezza del diritto e ordinamento europeo: riflessioni attorno ad un principio «comune», in Riv. Dir. Pub. Comp., 1998, 1194 e ss.; nonché L. Pennesi, Brevi note in tema di buona fede e sanzioni amministrative tributarie, in Dir. e Prat. Trib., 2019, 424.


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eventualmente negligente posta in essere dal medesimo e la portata della sanzione considerata erroneamente applicabile da parte dell’Ufficio. ii) In secundis, quale corollario delle considerazioni appena formulate, la corretta applicazione del principio di proporzionalità deve considerarsi un presidio di portata generale per la tutela dei diritti dei contribuenti. Il Giudice europeo ha più volte evidenziato, infatti, che il principio de qua rappresenti il criterio per mezzo del quale garantire che il perseguimento degli obiettivi di diritto interno dia luogo al minor sacrificio possibile rispetto alle finalità europee (70). Da ciò discende che il principio di proporzionalità debba considerarsi espressivo del bisogno di assicurare una tutela ai cittadini in ordine ai diritti di fonte europea, al fine di evitare che le norme nazionali vadano a determinare oneri ed adempimenti tali da rendere eccessivamente oneroso l’esercizio di detti diritti fondamentali (71). iii) In ultima istanza, ci sia consentito affermare che il principio di proporzionalità – al pari di altri principi (72) – si ponga come ago della bilancia dei rapporti tra Fisco e contribuente, rappresentando una linea guida non soltanto di natura interpretativa della realtà giuridica, ma anche di risposta concreta alla stessa da parte delle Amministrazioni Finanziarie nazionali. Il criterio di pro-

(70) CGUE, Sez. V, del 18 dicembre 1997, Garage Molenheide BVBA vs. Stato belga nei procedimenti riuniti C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, nonché CGUE del 21 marzo 2000, Gabalfrisa SL vs. Agencia Estatal de Administración Tributariacause in cause riunite C110/98 a C147/98, ove il giudice europeo, seppur a più d’un ventennio di distanza dall’emanazione del provvedimento oggi in esame, chiariva che i provvedimenti che gli Stati membri possono adottare (…) per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare le frodi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine. Essi non possono quindi essere utilizzati in modo tale da rimettere sistematicamente in questione il diritto alla detrazione – ed ovviamente anche quello ad esenzione – dell’IVA, il quale è un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA istituito dalla normativa comunitaria in materia. (71) In questi termini, G. Petrillo, Il principio di proporzionalità e diniego di detrazione per “consapevolezza” nelle frodi IVA, 5, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2017, 2. Per ulteriori approfondimenti, Cfr. A. Mondini, Coerenza fiscale e principio di proporzionalità: crisi del sistema o dell’armonizzazione?, in Riv. dir. trib., 2007, 73; P. Adonnino, La tutela dei diritti dell’Uomo in campo fiscale, in Il Fisco, 1999, 60. Si vd. anche M. Greggi, Neutrality and Proportionality in VAT: Making Sense of an (Apparent) Conflict’, 127, in Intertax, 48, (1), 2020. L’Autore, esaminando il principio di proporzionalità da diverse prospettive, giunge ad affermare che detto criterio costituisca un principio generale di natura generale e fiscale, usato (probabilmente) in tutto il mondo da collegi e tribunali costituzionali al fine di controllare se le decisioni politiche assunte dal legislatore possano considerarsi coerenti con la logica e sono intese come preliminari condizioni per l’esercizio del potere di legiferare o di governare. (72) Si pensi, ad esempio, a quello della buona fede nei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, ovvero ancora al principio del legittimo affidamento o alla certezza del diritto.


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porzionalità, infatti, assurgendo a parametro di quantificazione dell’entità della sanzione tributaria destinata al contribuente (73), costituisce il mezzo attraverso cui gli Uffici, quali primari strumenti della giustizia tributaria, possano sia rimediare alle condotte fiscalmente negligenti poste in essere dai contribuenti, sia, allo stesso tempo, non incidere nelle sfere giuridiche e patrimoniali di chi, come nel caso in studio, abbia commesso un errore di natura squisitamente formale non idoneo a pregiudicare l’effettività e la rilevanza economica (e dunque tributaria) del substrato sostanziale del negozio di cessione. Ragionando in questi termini, il principio di proporzionalità non rappresenterebbe esclusivamente un parametro di quantificazione sanzionatoria, ma diverrebbe sia strumento di discrimine tra chi debba essere sanzionato e chi, invece, abbia agito conformandosi al dettato normativo, sia chiave di lettura della relazione intercorrente tra adempimento degli obblighi sostanziali e formali oltreché dell’eventuale sindacato di prevalenza dei primi sui secondi (74). 5. Abbandono del territorio europeo ed “assenza di rischio fiscale”. – In ultimo, occorre evidenziare che, dall’esame della questione in studio, emerge come il problema sottoposto ai Giudici europei dalla Corte polacca ben sarebbe stato risolvibile – ab origine – utilizzando quale presupposto inferenziale l’avvenuto trasferimento dei beni che hanno formato oggetto di cessione all’esterno del mercato unico europeo. Il Collegio europeo ha ben rammentato, infatti, che laddove ci si trovi innanzi ad una fattispecie in cui le condizioni per l’esenzione all’esportazione

(73) Sempreché vi siano i presupposti applicativi di questa e non ci si trovi, come nel caso di specie. (74) Principio che in ambito IVA svolge un ruolo pregnante, stante il fatto che la regolarità degli aspetti contabili e documentali possa incidere in modo significativo proprio sul riconoscimento o meno del diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto Sul tema, Cfr. F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario, Milano, 2019, ove l’Autore evidenzia come in tema di imposta sul valore aggiunto il principio di prevalenza della sostanza sulla forma abbia un valore ancor più peculiare rispetto ad altri ambiti applicativi, divenendo, infatti, strumento attraverso cui dar prevalenza al diritto europeo (e con esso, anche alle categorie create dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea), sugli schemi puramente nazionali. Più precisamente, si evidenzia che l’IVA, in quanto tributo armonizzato, dia luogo a minori problematiche rispetto ai settori sprovvisti d’armonizzazione. Sicché, nel momento in cui il giudice o l’Amministrazione Finanziaria ravvisano una norma interna in contrasto con il diritto europeo, devono disapplicarla e – ove possibile – applicare direttamente la Direttiva: o meglio, devono fare riferimento all’interpretazione che ne viene data dalla Corte di Giustizia la quale, nel settore dell’IVA, è il vero “artefice” del diritto europeo.


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Parte quarta

previste all’articolo 146, paragrafo 1, lettera b), della direttiva IVA siano state soddisfatte (75), allora nessuna IVA sarà dovuta per una tale cessione e non esisterà più alcun rischio di frode fiscale o di perdite fiscali che possa giustificare l’assoggettamento a imposta dell’operazione di cui trattasi. Ragionando in termini più concreti, posta la fuoriuscita dei beni ceduti dal territorio dell’Unione, il “locus commissi delicti”, sarebbe unicamente identificabile nel territorio dello Stato all’interno del quale la frode sia stata eventualmente realizzata ed ove sia avvenuto il consumo dei beni ceduti. Sotto il profilo giuridico-tributario, dunque, potrà dirsi che la condotta fraudolenta posta in essere dal cessionario non produca alcun effetto né in termini che potremmo definire “generali” – ovvero rivolti verso la stabilità ed integrità del mercato unico europeo – né, tantomeno, “particolari” – ovvero nei confronti del diritto del cedente/contribuente ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto. Anche in detta ipotesi, si ritiene che risulti pienamente dirimente quanto disposto dall’art. 146, par.1, lett. a) e b) (76) della Direttiva IVA (77). Se è vero com’è, infatti, che funzione della disposizione in parola sia quella di esentare le cessioni di beni spediti o trasportati fuori dall’Unione in tutti i casi in cui vi sia stato un trasferimento del potere di disporre uti dominus del bene ceduto al cessionario, e se è corretto, altresì, affermare che una cessione possa considerarsi perfezionata nel momento in cui sia stata effettuata la “spedizione” o, in ogni caso, il passaggio del bene dal cedente al cessionario (78),

(75) Ovvero la fuoriuscita dei beni in questione dal territorio doganale dell’Unione. (76) Disposizione con cui il legislatore comunitario ha sancito che gli Stati membri esentano le operazioni seguenti: a) le cessioni di beni spediti o trasportati, dal venditore o per suo conto, fuori della Comunità; b) le cessioni di beni spediti o trasportati da un acquirente non stabilito nel loro rispettivo territorio, o per conto del medesimo, fuori della Comunità, ad eccezione dei beni trasportati dall’acquirente stesso e destinati all’attrezzatura o al rifornimento e al vettovagliamento di navi da diporto, aerei da turismo o qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato. (77) Ai sensi della quale le esenzioni previste ai capi da 2 a 9 si applicano, salvo le altre disposizioni comunitarie e alle condizioni che gli Stati membri stabiliscono per assicurare la corretta e semplice applicazione delle medesime esenzioni e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso. (78) Trasferimento di cui il cedente, comunque, potrebbe essere chiamato a fornire prova circa l’effettività Sul punto Cfr. Corte di Cassazione, sez. trib., 24 giugno 2010, ord. n. 15256, per le quale l’esenzione dall’Iva per le cessioni di beni destinati all’esportazione (…) postula l’effettivo perfezionamento di tutte le operazioni di esportazione, delle quali assume per intero la responsabilità il cedente, a carico del quale incombe, nell’ipotesi di mancato perfezionamento dell’esportazione stessa, l’onere della prova dell’avvenuta presentazione delle merci alla dogana di destinazione, che peraltro può essere fornita con ogni mezzo, purché abbia carattere di certez-


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in tal modo, fornendo prova dell’avvenuto spossessamento e della contestuale spedizione oltre i confini unionali del bene oggetto del negozio, non potrà porsi questione alcuna circa la configurabilità di una frode a fronte di una cessione conclusasi in territorio extraeuropeo. Inoltre, laddove si intendesse condividere – ragionando a contrario – l’impostazione adottata dall’amministrazione polacca, bisognerebbe, contestualmente, accettare (tacitamente) che la Società Unitel ricorrente fosse a conoscenza degli scopi fraudolenti che gli acquirenti ucraini avevano intenzione di perseguire facendosi identificare attraverso errate denominazioni. In alternativa, in conformità con costante giurisprudenza europea, pur non ammettendo che la polacca Unitel fosse a conoscenza del disegno fraudolento, sarebbe stato sufficiente appurare che la ricorrente non sapesse che la condotta posta in essere dai due enti ucraini s’iscrivesse in una frode IVA (79). 6. Conclusioni. – L’arresto giurisprudenziale al quale i Giudici europei sono approdati applicando correttamente ed esaustivamente i principi fondanti il diritto tributario europeo – quali, per tutti il principio di neutralità fiscale e di proporzionalità – hanno posto un ulteriore tassello in tema di tutela dei diritti dei contribuenti, ribadendo un principio di ragionevolezza in tema di esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto fondato sul criterio di prevalenza della sostanza del negozio realizzato tra le parti rispetto alle formalità sottese al rapporto giuridico economico medesimo, laddove quest’ultimi obblighi, se non adempiuti, non abbiano inficiato i predetti elementi sostanziali. Inoltre, occorre rilevare che al Collegio europeo debba riconoscersi l’ulteriore merito d’aver scongiurato che l’ordinamento tributario unionale effettuasse un passo indietro sul tema del riconoscimento (o della negazione) del diritto ad esenzione dal versamento dell’imposta sul valore aggiunto, evitando la tacita ricognizione d’una sorta di responsabilità oggettiva in capo al cedente

za e incontrovertibilità, quale può essere l’attestazione di pubbliche Amministrazioni del Paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana, mentre i documenti di origine privata, come la documentazione bancaria dell’avvenuto pagamento, non possono costituire prova idonea allo scopo, con brevissima nota di S. Salvatores in Boll. Trib. On-line, del 22 ottobre 2012); negli stessi termini, seppur in tempi più risalenti, si vd. Cass., Sez. Trib., del 3 maggio 2002, con nota di M. Peirolo, La prova dell’esportazione nel regime del transito comunitario, in GT-Riv. Giur. Trib., 2002, 9, 814 e ss.; e P. Bertini, Le frodi carosello, Pisa, 2016, 67. (79) In tal senso A. Giovanardi, Le frodi IVA (Profili ricostruttivi), Torino, 2013, 139.


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Parte quarta

inconsapevolmente coinvolto all’interno di un negozio poi dimostratosi connotato da scopi fraudolenti (80). Se così non fosse, infatti, significherebbe accogliere un’impostazione orientata verso l’aprioristica negazione dell’applicazione del fondamentale principio di esenzione IVA, trasformando l’eccezione della negazione di detto fondamentale diritto in regola. L’illogicità – oltreché l’antigiuridicità – d’una impostazione metodologica così orientata trova, nel caso di specie, un ulteriore profilo di contrasto dettato dal fatto, già evidenziato, che la fraudolenza fosse strettamente univoca, in quanto unicamente imputabile al cessionario. Sicché, proprio in tal senso, non vi sarebbe ragione fondante la negazione del diritto ad esenzione operata, erroneamente, dall’Amministrazione Finanziaria polacca, diritto, quello all’ esenzione IVA, rientrante tra quelle situazioni giuridiche soggettive “innegabili” ed “inviolabili”, comprimibili soltanto innanzi ad obiettivi profili di coimputabilità ai partecipanti al negozio di cessione.

Andrea Purpura

(80) D. Peruzza, L’indetraibilità dell’IVA per il committente che ‘sapeva o avrebbe dovuto sapere’, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2014, 3. L’Autore ricorda come sia ormai pacificamente accolto dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che «l’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario». Per tutte, CGUE, sez. III, del 21 giugno 2012, Mahagében kft vs Nemzeti Adó- és Vámhivatal Dél-dunántúli Regionális Adó Főigazgatósága Mahagébenkft, in C-80/11, nonché Pétér Dàvid Nemzeti Adó- és Vámhivatal Dél-dunántúli Regionális Adó Főigazgatósága Mahagébenkft, in C-142/11.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Case Note on Supreme Court case Cass. 26182020 – National Westminster Bank Plc as Trustee of the Baring Global Growth Trust v Italian Revenue Agency* The decision of the Italian Supreme Court (la Corte Suprema di Cassazione) of 5th February 2020 in the case of National Westminster Bank Plc as trustee of the Baring Global Growth Trust v Italia Revenue Agency has been drawn to my attention. (1) That case discusses a claim by the trustee of a trust in the United Kingdom to the benefit of the double taxation convention between the United Kingdom and Italy (“the Convention”), (2) and I have been asked to comment on this case, particularly from the perspective of UK taxation of the trust. For reasons explained below, and with the greatest respect for the Supreme Court, the case should have been decided in the opposite way in my view, and the decision is problematic for collective investment vehicles (“CIVs”) investing in Italy.

* Il saggio non è stato eccezionalmente sottoposto a revisione anonima dalla Direzione scientifica della Rivista in considerazione del prestigio internazionale e della riconosciuta autorevolezza dell’Autore (1) Cass. 2618/2020, deposited in the registry on 5th February 2020. Sadly, the author does not speak Italian but has been supplied with an unofficial translation of this case and has benefitted substantially from discussion of this case with Professor Guglielmo Maisto, to whom he is very grateful for the opportunity to discuss and to comment on this case. (2) Convention between the Government of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland and the Government of the Italian Republic for the avoidance of double taxation and the prevention of fiscal evasion with respect to taxes on income, signed on 21st October 1988.


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The background facts The decision of the Supreme Court says little about the factual background, but the basic facts can be discerned from the judgment. The appellant, National Westminster Bank Plc, was acting as trustee of a trust referred to in the judgment as the “Baring Global Growth Trust”. In the years 1994-2001 the trustee held shares in Italian companies on which it received dividends; it is pretty clear that these were small, portfolio holdings in the relevant companies. The trustee made various claims for reimbursement of the Italian tax credit on the dividends under the provisions of Article 10(4) of the Convention (the text of which is set out and discussed further below). For the years 1994-1997, the Italian Revenue Agency initially reimbursed a sum slightly in excess of €240,000. However, the Agency subsequently changed its position, refused the reimbursement claims for later years and demanded repayment of the sums already reimbursed. The total amount of the claim for all the years from 1994-2001 amounted to slightly more than €2.3 million. The Italian Revenue Agency refused the claim on the basis that the trustee was not recognised as a legal entity entitled to the benefits of the Convention because the Italian domestic legal system did not recognise the status of the trust; consequently, the trust could not be either a “resident” of the United Kingdom or “the beneficial owner” of the dividends. NatWest as trustee appealed that decision before the Provincial Tax Court of Pescara which in 2011 rejected its appeal. It then appealed on to the Regional Tax Court of Abruzzo which again rejected the appeal. It appears from the decision of the Supreme Court that the Regional Tax Court considered that the Convention was inapplicable because the trust was not entitled to the benefit of the Convention. Additionally, it had not been proven that the trust was the beneficial owner of the dividends or that they have been subjected to taxation. The trustee appealed against that decision to the Supreme Court. There were five grounds on which the trustee challenged the judgment of the Regional Tax Court. Two of the five grounds related to the ten-year limitation period under Italian law; those aspects of the judgment of the Supreme Court are not discussed further here. It is notable, however, that these claims related to reimbursement of the tax credit for years from 1994 to 2001, and that a final resolution of this dispute was only concluded in 2019. This, of itself, should raise alarm bells for those who are concerned about CIVs investing in Italy.


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The Baring Global Growth Trust Nothing further is said in the judgment of the Supreme Court about the Baring Global Growth Trust, and (as one will see) one of the grounds of the judgment was the failure to disclose the nature of the trust in the litigation. However, this is really rather surprising. A 1-minute search on the internet discloses information about this trust, including a copy of the Annual Report and Audited Financial Statements for the year ended 15th November 2017. (3) I am not acquainted with Italian court procedure, but I would be surprised if the Supreme Court could judge a case based on its own, internet-based research. Nevertheless, I find it hard to imagine that these Financial Statements (or similar documents) were not placed before the Italian courts at some point in the litigation. From the documents that are easily accessible from the internet, it is easy to see the nature of the trust. (4) The internet documents confirm that this was an authorised unit trust, established in conformity with UK legislation, (5) and established as an Undertaking for Collective Investment in Transferrable Securities (“UCITS”) in accordance with the UCITS Directive. (6) This was a collective investment vehicle (“CIV”) in the form of an authorized unit trust (“AUT”). Further information about the AUT can be gleaned from the documents on the internet. This CIV was launched in 1986. It was a relatively small fund – at the time that it was closed in 2017 it held investments slightly in excess of £11,500,000. (7) At that time it also had 1.893 million units in issue. There is no reason to think that these units were not widely held by a variety of investors. The AUT was established to achieve long-term capital growth by investing in any country and in any economic sectors of the world through a wide range of international markets. (8) The fund invested primarily for cap-

(3) https://www.barings.com/assets/user/media/baring-global-growth-trust-annual-report-en.pdf (accessed 27th April 2020). (4) In fact, putting it slightly higher, anyone seeing that the trustee of this trust was NatWest Bank, recognising the name “Barings” and that this was a “global growth trust”, could have made a pretty educated guess as to the nature of the trust in question. (5) Section 243 of the Financial Services and Markets Act 2000 (previously it would have been Section 78 of the Financial Services Act 1986). (6) Council Directive of 20th December 1985 on the coordination of laws, regulations and administrative provisions relating to undertaking for collective investment in transferrable securities (UCITS) Directive 85/611/EEC. (7) So the claim to an Italian tax repayment of €2.3 million was not insignificant. (8) See the “investment objective and policy” in the Audited Financial Statement.


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Parte quinta

ital growth and not for income. The financial statements confirm that the limited amount of income received was distributed regularly to unitholders. The fund was wound up in November 2017 because it had become uneconomical to administer. While it existed, National Westminster Bank Trustee and Depositary Services functioned as the trustee and depositary. The manager of the fund was Baring Fund Managers Limited, and the investment manager was Baring Asset Management Limited. Incidentally, the existence of an Italian tax repayment claim was also mentioned in the Audited Financial Statements for the year ended 15th November 2017 (signed off in January 2018) but written down to zero, presumably because the managers had given up all hope of ever recovering the tax in Italy. Authorised Unit Trusts (“AUTs”) and their Taxation The fact that the trust was an AUT is absolutely critical from a UK tax perspective. The form of an authorized unit trust is, like any other trust, that the assets in the trust fund are held by the trustee for the benefit of the beneficiaries. A defining feature is that the interest of the beneficiaries is divided into a number of units (1.893 million at the time of the closure of the fund) and that these units can be bought and sold, usually with an option to sell to the manager of the fund for a price based upon the net asset value of the trust fund. Units may also be quoted on a public exchange. Throughout the period to which the tax claims related, AUTs were subject to a specific tax regime in the UK. (9) For income tax purposes, an AUT was treated as a company resident in the United Kingdom, and the rights of the unit holders were treated as shares in this company. (10) As a company resident in the United Kingdom, an AUT was subject to corporation tax on its income, but at a rate which, at the time, was lower than the normal corporation tax rate (and was, instead, the lower rate of income tax for the year in question). (11) Throughout the period in question, all of the income of an AUT available for distribution was treated as distributed to the unitholders, who were treated as if they held shares in a company. These “dividend distributions” were subject

(9) This regime applies to unit trust schemes which are classified as AUTs. The notion of a unit trust scheme elides the trustee with the trust and treats “the scheme” as a company (and, in the case of an AUT, that company is resident in the UK). (10) See Section 468 of the Income and Corporation Taxes Act 1988 (“ICTA 1988”). (11) See Section 468E ICTA 1988.


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to tax in the hands of individual unit holders, with a tax credit (when that existed under UK tax law) in the same way as other dividends. Thus, so far as tax on income was concerned, all of the income was taxable in the hands of the AUT, and individual unitholders resident in the UK were subject to tax on distributions equal to all the distributable income of the AUT. Though it is not particularly relevant to the claim under the tax treaty, for capital gains tax purposes an AUT was also treated as a company resident in the United Kingdom and its units treated as shares in a company. (12) AUTs were exempt from capital gains tax, however, on gains accruing to the trustee, (13) though of course an individual unitholder would be liable to CGT on any gain on disposal of the units. AUTs are a common form of CIV established in the UK and increasingly popular as an investment vehicle. With professional managers, and a pooling of funds from different investors, these AUTs are able to diversify investments in a way that would be difficult for an individual investor. The UK taxation of AUTs could have been explained to the Italian courts in about 5 minutes. It would have been immediately obvious that all AUTs were treated for taxes on income and on capital gains as companies resident in the United Kingdom, and their units treated as shares held by the unitholders. AUTs were taxable on all their income, though at a rate lower than the usual corporation tax rate. The provisions of the Convention Let us turn now to the provisions of the Convention. Like any tax treaty based upon the OECD Model, the Convention applies to persons who are residents of the UK or Italy. The term “person” is defined in Article 3(1) of the Convention as follows: Article 3 General Definitions 1. For the purposes of this Convention, unless the context otherwise requires: …

(12) See Section 99 Taxation of Chargeable Gains Act 1992 (“TCGA 1992”). (13) See Section 100 TCGA 1992.


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Parte quinta

(d) the term “person” comprises an individual, a company and any other body of persons, but does not include partnerships which are not treated as bodies corporate for tax purposes in either Contracting State; (e) the term “company” means any body corporate or any entity which is treated as a body corporate for tax purposes; [emphasis added]

In the Italian version of the Convention this is as follows:

Articolo 3 Definizioni generali 1. Ai fini della presente Convenzione, a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione: d) il termine “persona” comprende le persone fisiche, le società ed ogni altra associazione di persone, ma non comprende le società di persone le quali non sono considerate persone giuridiche ai fini dell’imposizione in ciascuno Stato contraente; e) il termine “società” designa qualsiasi persona giuridica o qualsiasi ente che è considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione;

Looking at these definitions, it should have been immediately obvious that an AUT was a person. Throughout the period under review, UK tax legislation treated an AUT as a company resident in the UK for tax purposes. Thus it would clearly have fallen within the terms “any entity which is treated as a body corporate for tax purposes”. End of question: no debate. Discussed below is how the Supreme Court dealt with this issue. The second requirement for benefitting from a tax treaty is that the person should be a resident of a contracting state. Residence is defined in terms of liability to tax. This requirement of residence does not appear to have attracted much attention during the litigation in Italy. However, if there had been an issue, it is absolutely clear from the description of the UK taxation of an AUT explained above that an AUT is treated as a company resident in the UK, and liable to corporation tax (albeit at a reduced rate) on all of its income wherever arising. Before turning to the provisions in the Convention that related to beneficial ownership, it might be of interest just to take a short excursus and mention the position of other forms of trust established under English law. As explained above, the trust in this case was an AUT, and there are special rules that apply to the taxation of AUTs. As readers will be aware, trusts are a highly flexible institution of common law countries, and many trusts are not CIVs or AUTs. In the case of a trust for a narrow class of individual beneficiaries – such as


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a discretionary trust for members of the settlor’s family – these are neither CIVs nor AUTs. However, the trustees of such a trust will always need to be capable of holding the legal ownership of assets in the trust fund, so they, of themselves, will always be persons (whether individuals or companies). More specifically, under current UK tax law the trustees of a trust are defined as “a single and continuing body of persons (distinct from the persons who may from time to time be the trustees)”. (14) There are also rules for determining when this single and continuing body of persons is regarded as resident in the UK. Thus, even if a particular double taxation convention does not explicitly include a trust as a “person”, under any treaty based on the wording in the OECD Model; it is clear that a trust as a “body of persons” would be a “person” for tax purposes. That, however, is by way of a short excursus on the side: now to return to the Supreme Court decision in this case. The claim to reimbursement of the Italian tax credit was made under Article 10(4) of the Convention. This provided as follows: Article 10 Dividends 4. (a) A resident of the United Kingdom who receives dividends from a company which is a resident of Italy shall – subject to the provisions of sub-paragraph (b) of this paragraph – be entitled, if he is the beneficial owner of the dividends, to the tax credit in respect thereof to which an individual resident in Italy would have been entitled had he received those dividends, subject to the deduction of the tax provided for in sub-paragraph (b) of paragraph 2 of this Article. This provision shall not apply if the recipient of the dividend and of the tax credit is not subject to United Kingdom tax in respect thereof.

In the Italian version of the Convention this is as follows: Articolo 10 Dividendi 4. a) Un residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia – fatte salve le disposizioni del sub-paragrafo b) del presente paragrafo – ha diritto, se è il beneficiario effettivo dei dividendi, al credito d’im-

(14) See for the current rules, su Section 474 of the Income Tax Act 2007 and Section 69, TCGA 1992. Technically, this was always the rule for capital gains tax, but only the income tax rule since 2006.


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posta con riguardo a tali dividendi cui una persona fisica residente dell’Italia avrebbe avuto diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista nel sub-paragrafo b) del paragrafo 2 del presente articolo. Questa disposizione non si applica se la persona che percepisce i dividendi ed il credito di imposta non è a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito.

Immediately apparent from this is that there were two requirements to claim the benefit of the repayment of the dividend tax credit: the recipient of the dividends had to be the “beneficial owner” of the dividends (“beneficiario effettivo”) and the recipient of the dividend had to be subject to United Kingdom tax in respect of the dividend and of the tax credit (“soggetta al’imposta del Regno Unito”). The latter point is not found in the OECD Model; in the Convention the benefit of this sub-paragraph had a “subject to tax” limitation. Was the trustee of the Baring Global Wealth Trust the beneficial owner of the dividends paid by the Italian companies? And was it subject to tax in the UK on those dividends? Simply from the information given above about the taxation of AUTs in the UK, the answer to both of these questions was a resounding yes. NatWest as the trustee of the AUT was liable to corporation tax on all the worldwide income of the unit trust scheme, and was clearly the beneficial owner of the dividends (on which see the discussion in relation to the OECD Commentary below). There should have been absolutely no question about this, and NatWest should have been entitled to the repayment of the dividend tax credit that it sought. The decisions of the Italian Courts Now let us turn to the decisions of the Italian courts. As explained above, both the Provincial Tax Court and the Regional Tax Court rejected the appeal on the grounds that a trust was not included as one of those eligible to benefit from the Convention. The lower courts also held that the trust had not proved that it was the beneficial owner of the dividends nor that it had been subject to tax in the UK. The trustee appealed on five grounds, the latter three of which related to the eligibility to the benefits of the Convention (i.e. whether it was a “person”; on the beneficial ownership issue; and on the subject to tax issue). “Person” So far as the first of these three grounds was concerned – whether the trust was a “person” – the Regional Court seems to have maintained that a trust could not be regarded as an entity unless and until trusts became taxable


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persons for the purposes of Italian income tax, which only happened in 2007. The Supreme Court concluded that the reasoning of the Regional Tax Court was incorrect on this point, and that reasoning required to be amended (though it did not alter the final outcome of the case). The Supreme Court approached the matter by considering that the definition of a “person” could be interpreted in an ambulatory fashion, that it was an “open-structured legal container” capable of adapting to the economic context and changing fiscal needs. This could be derived, in part, from the Commentary to Article 3 of the OECD Model, which, at paragraph 2, indicated that the definition of “person” was not exhaustive and could extend to include new entities. So far so good. However, the Supreme Court appears to have followed the Regional Tax Court in concluding that a new entity could be regarded as a “person” provided it was recognised by the legal systems of both Contracting States. For trusts, this was not a problem because they have been recognised in the Italian legal system through the ratification of the Hague Convention on the Law of Trusts which entered into force in Italy on the 10th January 1992. Additionally, trusts have been the subject matter of a number of court cases in Italy during the 1990s. This is really puzzling, however, and slightly worrying. It has, so far as the author is aware, never been a requirement for a form of legal entity to be recognised as a “person” that it is somehow recognised under the law of both Contracting States. Rather, it is enough that it is a person under the law of either Contracting State, whatever the other State thinks of it. To take a counter-example: foundations under Italian law have no equivalent institution under the law of any part of the United Kingdom. We would probably equate them to a form of company, but not a form of company known to the law of any part of the United Kingdom. Does that mean that an Italian foundation is not a “person” for the purposes of the Convention? Clearly not. On this point, if the author has correctly understood the decision of the Supreme Court, that Court appears to have fallen into the same error as the Regional Tax Court, at least in regard to its approach, though not to its conclusion. As explained above, the position of an AUT as in this case is absolutely clear. It is true that a “trust” was not expressly included within the definition of “persons” in Article 3(1)(a) of the Convention. However, as explained above, since the trust was an AUT it is indisputable that it was a person because it was treated as a body corporate for tax purposes. Even if it had not been an AUT, the trustee(s) itself would have been a person. There was no question whatsoever that the trustee of the AUT and the unit trust scheme itself was both a


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“person” and a “resident” of the United Kingdom. As such, it was completely entitled to benefit from the Convention. “Beneficial owner” So far as beneficial ownership is concerned, the Supreme Court dealt with this in a single paragraph, on the basis that the trustee had failed to provide evidence of the structure of the trust, of the restraints placed on the trustee, and the possibility of identifying the beneficiaries. If the Supreme Court considered that inadequate evidence had been put forward, then it is impossible to fault this part of the decision. However, as explained above, a five-minute examination of documents on the internet immediately explains the form of the trust and that it was an AUT. It is really hard to imagine that the nature of this trust was never explained at any point in the litigation in Italy. The issue of beneficial ownership is discussed further below in relation to the OECD Commentary. “Subject to tax” The third issue was whether the AUT was subject to tax in the UK. Article 10(4) contained an express “subject to tax” requirement. Again, a five-minute explanation of the taxation of AUTs in the UK would have answered this question. However, the Supreme Court appears to have decided this on the point that there was no evidence that the dividends had been actually subject to tax in the United Kingdom. Again, quite astonishing to think that there was not evidence or explanation sufficient to satisfy this point. If one pauses for a moment, however, one has to ask oneself the question: is it really conceivable that a major bank such as NatWest, acting as trustee of a trust established under UK law and recognised as a UCITS, would not have paid tax on dividends received? One has to ask oneself what sort of level of evidence would have had to be produced to satisfy the Italian Revenue that the dividends were subject to tax in the UK. (15) There are many worrying aspects of this decision. While the Supreme Court concluded, correctly, that the trust was a “person”, and that the reasoning of the Regional Tax Court was incorrect, the underlying reasoning for that conclusion seems doubtful. On beneficial ownership and the “subject to tax”

(15) The author probably ought to declare an interest here, having banked with NatWest for over half a century. It is inconceivable that these dividends were not subject to tax in the UK.


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limitation, if the case turned on the absence of evidence, one has to express very real surprise at these conclusions. The OECD Commentary One of the puzzling aspects of this case is – like the dog that failed to bark in the night (16) – the absence of references to the OECD Commentary. Between 2006 and 2010 the OECD carried out a project on the granting of treaty benefits with respect to the income of collective investment vehicles. This resulted in a report adopted by the OECD Committee on Fiscal Affairs in April 2010, and consequential amendments to the Commentary to Article 1 of the OECD Commentary in 2010. (17) The relevant paragraphs are quoted below because they answer conclusively the issue of whether an AUT is a “person” and is the “beneficial owner” of dividends. The paragraphs are as follows: Application of the Convention to CIVs 6.9 The primary question that arises in the cross-border context is whether a CIV should qualify for the benefits of the Convention in its own right. In order to do so under treaties that, like the Convention, do not include a specific provision dealing with CIVs, a CIV would have to qualify as a “person” that is a “resident” of a Contracting State and, as regards the application of Articles 10 and 11, that is the “beneficial owner” of the income that it receives. (Added on 22 July 2010; see HISTORY) 6.10 The determination of whether a CIV should be treated as a “person” begins with the legal form of the CIV, which differs substantially from country to country and between the various types of vehicles. In many countries, most CIVs take the form of a company. In others, the CIV typically would be a trust. In still others, many CIVs are simple contractual arrangements or a form of joint ownership. In most cases, the CIV would be treated as a taxpayer or a “person” for purposes of the tax law of the State in which it is established; for example, in some countries where the CIV is commonly established in the form of a trust, either the trust itself, or the trustees acting collectively in their capacity as such, is treated as a taxpayer or a person for domestic tax

(16) See Sir Arthur Conan Doyle, The Memoirs of Sherlock Holmes; “The Adventure of Silver Blaze”. (17) The original amendments were in the form of the addition of paragraph 6.8 through to 6.34 of the Commentary to Article 1. These provisions are now found in paragraphs 22 to 48 of the Commentary to Article 1 in the 2017 version of the OECD Model.


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law purposes. In view of the wide meaning to be given to the term “person”, the fact that the tax law of the country where such a CIV is established would treat it as a taxpayer would be indicative that the CIV is a “person” for treaty purposes. … (Added on 22 July 2010; see HISTORY) 6.11 Whether a CIV is a “resident” of a Contracting State depends not on its legal form (as long as it qualifies as a person) but on its tax treatment in the State in which it is established. … (Added on 22 July 2010; see HISTORY) 6.14 Some countries have questioned whether a CIV, even if it is a “person” and a “resident”, can qualify as the beneficial owner of the income it receives. Because a “CIV” as defined in paragraph 6.8 above must be widely-held, hold a diversified portfolio of securities and be subject to investor-protection regulation in the country in which it is established, such a CIV, or its managers, often perform significant functions with respect to the investment and management of the assets of the CIV. Moreover, the position of an investor in a CIV differs substantially, as a legal and economic matter, from the position of an investor who owns the underlying assets, so that it would not be appropriate to treat the investor in such a CIV as the beneficial owner of the income received by the CIV. Accordingly, a vehicle that meets the definition of a widely-held CIV will also be treated as the beneficial owner of the dividends and interest that it receives, so long as the managers of the CIV have discretionary powers to manage the assets generating such income (unless an individual who is a resident of that State who would have received the income in the same circumstances would not have been considered to be the beneficial owner thereof). [emphasis added]

Where are references to this Commentary in the decision of the Supreme Court? As explained, these amendments were adopted in 2010, and they were available at every level of litigation in Italy. Even more than that, if the Italian Revenue Agency refused the reimbursement in April 2010, then that Agency must surely have known that the OECD had adopted this position on CIVs. (18) Italy has expressed no reservation to the Commentary on CIVs. One is entitled to ask: what is the point of the OECD spending four years clar-

(18) In fact, the OECD Report was adopted on the 23rd April 2010, and, according to the Supreme Court judgment, the reimbursement was refused on the 29th April 2010.


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ifying the application of double taxation conventions to CIVs if those changes – which would have been fundamentally helpful here – are ignored? If it is argued that the changes to the Commentary came in 2010, and the UK-Italy Convention dates from 1988, that is a pretty unconvincing argument. These new paragraphs added into the Commentary were clearly intended to clarify and explain the meaning of existing conventions. Only the most doctrinaire of approaches would have excluded all reference to these changes to the Commentary on the grounds that they post-dated the conclusion of the Convention. These paragraphs would have provided clear guidance in answering the issues of whether the trust was a “person” and the “beneficial owner” of the dividends. Concluding comments There are many worrying aspects of this decision. On the positive side, it appears to confirm that trusts or their trustees are “persons” and to that extent entitled to the benefits of double taxation conventions (at least since the 1990s). If it is a decision based on the absence of evidence with regard to beneficial ownership and the subject to tax limitation, then one cannot say that the decision is wrong, only very, very puzzling. Above all, the outcome of this case is not the outcome that should have resulted. On that, one can be absolutely dogmatic. This was a CIV in the form of an AUT recognised as a UCITS in the UK. It invested in shares in Italian companies, and it received dividends. With 100% certainty, one can say that it should have been entitled to the repayment of the dividend tax credit under the Convention. That this was not the outcome, and that it took twenty-five years from the date of the first payment of the first dividend to reach that incorrect conclusion, is really worrying. It would be very nice if the author of this note received in the next couple of months a press release or a letter assuring him that a similar outcome would not arise at the present time.

Philip Baker


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Rimborso del credito d’imposta sui dividendi e trust nel Trattato Italia-Regno Unito: questioni in punto di soggettività convenzionale, beneficiario effettivo e subject to tax clause Sommario: 1. La peculiarità del caso di specie: il trust quale “soggetto” richiedente il rimborso convenzionale del credito d’imposta sui dividendi e il conseguente, triplice banco di prova della soggettività convenzionale e delle clausole relative al beneficiario effettivo e alla “subject to tax”. – 2. Alcune “singolarità” della fattispecie vagliata: la mancata documentazione della tipologia di trust (decisiva per la soggettività e la clausola del beneficiario effettivo) e dell’effettiva tassazione dei dividendi nel Regno Unito (decisiva per la “subject to tax clause”). – 3. Il trust può essere “persona” ai fini convenzionali quale “body of persons”, come ha concluso la Suprema Corte, ma anche quale “ente considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione” o, meno preferibilmente, per il tramite del trustee. – 3.1. Il riconoscimento della soggettività convenzionale richiede, oltre alla qualità di “persona”, la residenza e l’assoggettamento a imposizione in modo “illimitato”, requisiti trascurati nell’ordinanza ma che comunque non sarebbero stati accertabili insieme. – 3.2. Diversamente da quanto ha mostrato di ritenere la Suprema Corte, l’esistenza della “persona” in senso convenzionale è subordinata non al riconoscimento giuridico-fiscale del soggetto interessato nei due Stati contraenti, ma solo alla soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi nello Stato di residenza. – 4. La qualità di beneficiario effettivo dei dividendi può essere accertata solo attraverso la documentazione dell’assetto del trust e l’assoggettamento a imposizione dei dividendi va intesa “in concreto”, come ha correttamente concluso la Cassazione ma con una motivazione in parte discutibile. A margine di una recente ordinanza della Corte di Cassazione, nel saggio si analizza la questione peculiare del rimborso convenzionale del credito d’imposta sui dividendi di fonte italiana a favore di un trust di diritto anglosassone, che ha posto i giudici di legittimità di fronte al banco di prova della soggettività del trust ai fini convenzionali, nonché dei termini di applicazione al trust delle clausole del beneficiario effettivo e del c.d. “assoggettamento a imposizione” dei dividendi previste dal Trattato Italia-Regno. Il risultato della disamina è la condivisione della soluzione finale raggiunta dalla Suprema Corte (che, dopo aver riconosciuto “in astratto” la soggettività del trust ai fini convenzionali, ha negato il diritto al rimborso sul presupposto che il contribuente non avesse provato i requisiti del Trattato Italia-Regno Unito del beneficiario effettivo e dell’effettivo assoggettamento a imposizione dei dividendi nello stato di residenza), ma non anche di taluni passaggi del percorso motivazionale seguito in relazione a ciascuna delle tre questioni che ne costituiscono tappe intermedie, argomentandosi le ragioni del dissenso e le possibili letture alternative nel contesto attuale del diritto tributario internazionale e alla luce degli orientamenti della stessa giurisprudenza di legittimità, intensamente impegnata, in tempi recenti, sulle tematiche esaminate.


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This article deals with a recent judgment of the Italian Supreme Court concerning various claims, filed by the trustee of a British trust, for the reimbursement under Article 10(4) of the convention between United Kingdom and Italy of the Italian tax credit on the Italian-sourced dividends received by the trust. This judgment seems, indeed, quite interesting because it brought to the attention of the Court some relevant issues as to when trusts can be recognized as “person” entitled to the benefits of Conventions and as to the applicability to trusts of the “beneficial owner” and “subject to tax” clauses. Although the Author finds the final solution to the case provided by the Supreme Court to be correct, the underlying reasoning for this solution seems doubtful in light of both the international tax law principles and of the Italian Supreme Court’s case law on the same issues.

1. La peculiarità del caso di specie: il trust quale “soggetto” richiedente il rimborso convenzionale del credito d’imposta sui dividendi e il conseguente, triplice banco di prova della soggettività convenzionale e delle clausole relative al beneficiario effettivo e alla “subject to tax”. – L’ordinanza Cass., sez. trib., 5 febbraio 2020, n. 2618, che si commenta (1), affronta la questione “classica” del rimborso convenzionale del credito d’imposta sui dividendi di fonte italiana a favore di un percettore residente nel Regno Unito, che è previsto dalla relativa Convenzione fiscale (disposizione analoga – com’è noto – si trova anche in quella italo-francese). Classica perché, pur essendo i relativi casi in esaurimento a seguito della riforma fiscale del 2003 (2), negli ultimi anni essa ha impegnato intensamente le corti di merito e il giudice di legittimità, con una copiosa produzione giurisprudenziale che, sia pur attraverso percorsi motivazionali diversi e non sempre condivisibili, risulta sostanzialmente orientata, salve poche eccezioni (3), nel senso di negare il riconoscimento del predetto rimborso convenzionale al soggetto estero richiedente (analoga sorte per i rimborsi richiesti da soggetti residenti in Francia) (4).

(1) E che è gemella dell’ordinanza Cass., sez. trib., 5 febbraio 2020, n. 2167. (2) Perché tale riforma ha notoriamente abolito il credito d’imposta sui dividendi, che è stato sostituito dall’esenzione quale metodo di eliminazione della doppia imposizione economica, rendendo inefficaci le norme convenzionali che prevedevano il rimborso del credito d’imposta sui dividendi transnazionali, le quali erano condizionate alla permanenza di tale meccanismo all’interno degli ordinamenti tributari dei due Paesi contraenti. (3) V. Cass., sez. trib., 19 ottobre 2018, nn. 26375 e 26377. (4) Cfr., fra le più recenti, Cass., sez. trib., 15 febbraio 2019, n. 4568; Cass., sez. trib., 6 febbraio 2019, n. 3392; Cass., sez. trib., 20 dicembre 2018, n. 32991; Cass., sez. trib., 12 dicembre 2018, n. 32087; Cass., sez. trib., 6 ottobre 2017, n. 23367; Cass., sez. trib., 24 febbraio 2017, n. 4771; Cass., sez. trib., 23 settembre 2016, n. 18628; Cass., sez. trib., 25 maggio 2016, n. 10792; ma, più in là nel tempo, v. anche Cass., sez. trib., 20 febbraio 2013, nn. 4164 e 4165.


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Questo caso è tuttavia particolare. E la particolarità è rappresentata dal fatto che a richiedere il rimborso, quale percettore dei dividendi di fonte italiana, era un trust di diritto anglosassone. Per decidere la sorte della richiesta di rimborso, ciò ha sottoposto i giudici di merito e di legittimità al banco di prova della soggettività del trust ai fini convenzionali, nonché dei termini di applicazione al trust delle clausole del beneficiario effettivo e del c.d. “assoggettamento a imposizione” previste nell’art. 10, comma 4, lett. a) del Trattato Italia-Regno Unito. In merito, la Suprema Corte si è così pronunciata. Quanto al primo profilo, è stata riconosciuta l’erroneità della conclusione dei giudici di appello secondo cui la Convenzione fra l’Italia e il Regno Unito non sarebbe stata applicabile perché il trust non poteva essere incluso nella sfera soggettiva tracciata dal relativo art. 3: la lettura di tale disposizione, anche con la lente del Commentario al Modello Ocse, ha condotto il giudice di legittimità a correggere la motivazione della sentenza di secondo grado, riconoscendo in astratto la sussumibilità dei trust fra le “persone” ammesse a beneficiare della Convenzione. Quanto al secondo profilo, è stato ritenuto non provato il requisito del beneficiario effettivo da parte del contribuente-ricorrente, argomentandosi che non sarebbe stato riversato in giudizio alcun riscontro “della struttura del trust, dei vincoli posti in capo al trustee, della possibilità di identificazione del beneficiario, a sua volta palese oppure occulto. Spettava a questo punto al trustee ricorrente chiarire la dimensione giuridica del trust, illustrarne la sua appartenenza al modello trasparente oppure opaco. Ciò al fine di far comprendere e far identificare, ove possibile, il beneficiario effettivo dei dividendi percepiti (…). Ciò non è avvenuto, venendo meno dunque la possibilità di riscontro di un requisito richiesto per il riconoscimento del credito d’imposta”. Quanto all’ultimo profilo, è stata confermata la correttezza della conclusione dei giudici di appello circa la mancata prova dell’effettivo assoggettamento a tassazione dei dividendi nel Regno Unito, rigettandosi la tesi della ricorrente secondo cui sarebbe stato sufficiente che i dividendi percepiti fossero assoggettabili a tassazione; a tale conclusione la Suprema Corte è giun-

Con riguardo all’art. 10 della Convenzione fiscale fra l’Italia e la Francia, cfr., fra le altre, Cass., sez. trib., 30 ottobre 2019, n. 27807; Cass., sez. trib., 14 giugno 2019, n. 16004; Cass., sez. trib., 24 maggio 2019, n. 14205; Cass. sez. trib., 17 aprile 2019, n. 10706; Cass., sez. trib., 27 dicembre 2018, n. 33407; Cass., sez. trib., 19 ottobre 2018, n. 26412; Cass., sez. trib., 3 ottobre 2018, n. 24020.


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ta richiamando, con il dichiarato intento di darne continuità, l’orientamento giurisprudenziale formatosi in relazione alla normativa italiana di attuazione della Direttiva “madre-figlia” che “richiede, quale necessario presupposto, la produzione della certificazione, rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato estero relativamente alla soggezione non in astratto, ma in concreto, della società ad uno dei tributi nella direttiva 435/90/CEE del Consiglio”. 2. Alcune “singolarità” della fattispecie vagliata: la mancata documentazione della tipologia di trust (decisiva per la soggettività e la clausola del beneficiario effettivo) e dell’effettiva tassazione dei dividendi nel Regno Unito (decisiva per la “subject to tax clause”). – Nell’ordinanza oggetto di commento, la descrizione della fattispecie – in ordine sia alle circostanze di fatto, sia ai profili giuridici della contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, ma anche con riguardo agli elementi di prova in giudizio – risulta alquanto oscura, consegnando al lettore un caso giurisprudenziale alquanto singolare. È, infatti, anomalo e curioso che il ricorrente non abbia illustrato la natura del trust richiedente il rimborso convenzionale, né fornito alcun documento, interno o esterno, che ne spiegasse l’assetto strutturale e l’inquadramento nel contesto dell’ordinamento giuridico e tributario inglese; circostanze minime ma essenziali, queste, per l’immediata risoluzione non solo – com’è stato affermato dalla Suprema Corte – della seconda questione, ma anche della prima. E ciò lo è ancora di più se si considera che – com’è stato lumeggiato nel precedente commento del Prof. Baker – i documenti pubblici ottenibili da una semplice ricerca su internet, che non competeva fare – per ragioni del tutto evidenti – ad alcuno dei giudici tributari dei vari gradi di giudizio, conducono univocamente a qualificare il trust in questione fra quelli riconosciuti dalla legislazione inglese e rientrante, addirittura, nella sfera di applicazione della normativa introdotta in attuazione della Direttiva n. 86/611/CEE, in materia di organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (O.I.C.V.M.), configurandosi quale veicolo di investimento collettivo (c.d. CIV) nella specie di un “Authorized Unit Trust” (AUT). Come illustrato sempre nel precedente commento, cui si rinvia per i dettagli, negli anni oggetto della richiesta di rimborso (1994-2001) questo tipo di trust era fiscalmente equiparato nel Regno Unito a una società residente e le relative “Unit” in mano agli investitori erano assimilate alle partecipazioni societarie. Con le seguenti conseguenze sul piano fiscale: il trust era soggetto passivo ai fini della “Corporation Tax”, secondo le regole ordinarie, sia pur


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con un’aliquota agevolata; le erogazioni effettuate dal trust ai possessori delle suddette “Unit” erano trattate alla stregua di una distribuzione di dividendi, con riconoscimento, quando esistente, del credito d’imposta previsto in generale per i dividendi societari. Ma vi è un’altra circostanza particolare. Seppur attraverso il richiamo (improprio) della giurisprudenza di legittimità in tema di dividendi rientranti nella Direttiva “madre-figlia”, i giudici di legittimità hanno ritenuto non provato (di nuovo) anche l’ulteriore requisito dell’effettivo assoggettamento a imposizione nel Regno Unito dei dividendi in relazione ai quali il trust aveva chiesto il rimborso del credito d’imposta, ancorché, quanto meno per una parte, la prova potesse essere fornita in termini obiettivi (in questo caso, tuttavia, una spiegazione è forse possibile, ma sul punto si dirà infra). Svolte queste considerazioni di carattere generale, è possibile ripercorrere e valutare i passi compiuti della Suprema Corte per giungere alle conclusioni, sopra sintetizzate, in relazione a ciascuna delle tre questioni. 3. Il trust può essere “persona” ai fini convenzionali quale “body of persons”, come ha concluso la Suprema Corte, ma anche quale “ente considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione” o, meno preferibilmente, per il tramite del trustee. – Va senza dubbio condivisa la prima conclusione secondo cui “non è corretta la decisione [n.d.a.: di secondo grado] laddove ha ritenuto che la Convenzione tra Italia e Regno Unito non potesse trovare applicazione ai trust, non rientrando nella definizione dell’art. 3”, argomentandosi, fra le altre cose, che “una interpretazione estensiva della nozione di «persona», come definita dall’art. 3, può supportare l’inclusione dei trust. Si è infatti sostenuto che essa possa essere assimilata ad «ogni altra associazione di persone» (riprodotta sostanzialmente nel paragrafo 1, lett. d della Convenzione Italia-Regno Unito). Tanto più – continua la Suprema Corte – che, è stato sempre sottolineato in dottrina, l’articolo del modello va letto in combinato disposto con il paragrafo 1 del Commentario ad esso relativo, secondo cui l’elencazione dei soggetti non è esaustiva e va interpretata in senso lato” (5).

(5) Riferimenti essenziali ma imprescindibili sul tema: J.A. Avery Jones et al., The treatment of trusts under OECD Model Convention – I, in British Tax Review, n. 2/1989, 41 ss. e Id. The treatment of trusts under OECD Model Convention – II, in British Tax Review, n. 3/1989, 65 ss.; P. Baker, The application of the Convention to partnership, trusts and other non-corporate entities, in Gray’s Inn Tax Chamber Review, 2002, 15 ss.; I. Koele, Trust and


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Rispetto a tale conclusione, una postilla merita comunque di essere effettuata. In effetti, nella sistematica del “Modello OCSE” il termine “persona” costituisce un ampio genus costituito dalle species di “persona fisica”, “società” ed “ogni altra associazione di persone” (body of persons), fattispecie – quest’ultima – che funge da clausola residuale di chiusura. Tuttavia, per quanto essa sia il veicolo prediletto in dottrina per incasellare i trust all’interno dell’art. 3, non è il solo utilizzabile. Vi sarebbe, infatti, la via – sicuramente meno preferibile per le strumentalizzazioni a fini elusivi cui si presta – di personificare il trust nella figura del trustee, il quale – essendo, di norma, una “persona fisica” (o un board di persone fisiche) o una “società” – rientrerebbe in una delle altre species enumerate dalla citata disposizione convenzionale. E vi è anche la possibilità di qualificare il trust come “persona” ex art. 3, paragrafo 1, con la mediazione della fattispecie “società”, posto che la relativa lett. b) chiosa che “il termine ‘società’ designa qualsiasi persona giuridica o qualsiasi ente considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione”, permettendone la sussunzione ogniqualvolta il trust abbia la soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi. Nel caso di specie, nella denunciata assenza di qualsivoglia informazione sul trust interessato, la Suprema Corte ha prescelto – dichiaratamente sulla scia della dottrina in effetti maggioritaria – la personificazione del trust attraverso la fattispecie della “body of persons”. La conclusione non sarebbe stata tuttavia diversa se si fosse fatto ricorso alla mediazione delle altre due ipotesi illustrate. E infatti, il trustee del trust interessato era una banca inglese a forma societaria, informazione, questa, oggettivamente risultante dalle carte

the application of the OECD model convention, in AA.VV., The trust. Bridge or abyss between common and civil law jurisdiction?, a cura di Sonneveldt-Van Mens, Boston, 1992, pp. 91 ss.; R.J. Danon, Conflicts of attribution of income involving trusts under the OECD Model Convention: the possibile impact of the OECD Partnership Report, in Intertax, 2004, 210 ss.; J. Prebble, Trusts and double taxation agreements, in EJournal of Tax Research, 2004, 192 ss. e, più di recente, M. Brabazon, International Taxation of Trust Income, Cambridge, 2019, 188 ss.; quanto alla dottrina italiana, per tutti, C. Garbarino, La soggettività del trust nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in Dir. prat. trib., 2000, III, 378 ss.; C. Sacchetto, Brevi note sui trusts e le convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito, in Trusts, 2000, 64 ss.; G. Corasaniti, Il Modello Ocse di convenzione bilaterale contro la doppia imposizione e i trusts, in V. Uckmar, Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2002, 445 ss.; A. Salvati, Il trust nel diritto tributario internazionale, in Riv. dir. trib., 2003, I, 50 ss. e G. Maisto, L’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni ai trusts, in Trusts, 2009, 89 ss.


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processuali e, dunque, utilizzabile per percorrere la via della personificazione per il tramite del trustee; dall’altro lato, e come si è evidenziato in apertura, il trust in esame era fiscalmente equiparato nel Regno Unito a una società, con susseguente soggettività passiva ai fini della “Corporation tax”, donde la possibilità di qualificarlo come “persona” anche per questa via. L’assenza di dati e informazioni sul trust non rende quest’ultima ipotesi meramente astratta, se è vero – come dichiarato dalla Suprema Corte nella parte in fatto – che, sia pur ai fini della possibilità di qualificare il trust come beneficiario effettivo dei dividendi, vi sarebbe stata la produzione da parte del ricorrente di una “certificazione allegata [che] proverebbe il suo assoggettamento ad imposta nel Regno Unito e la sua residenza fiscale”. Quest’ultima circostanza, ignorata a ogni fine in sede di decisione, offre l’occasione per soffermarsi brevemente su due questioni che rischiano di rimanere in ombra, ma che sono invero importanti. 3.1. Il riconoscimento della soggettività convenzionale richiede, oltre alla qualità di “persona”, la residenza e l’assoggettamento a imposizione in modo “illimitato”, requisiti trascurati nell’ordinanza ma che comunque non sarebbero stati accertabili insieme. – La prima è che la qualità di “persona” ex art. 3 del “Modello OCSE” (così come dei Trattati fiscali che si omologano) è condizione necessaria ma non sufficiente per il riconoscimento della soggettività ai fini convenzionali necessaria per accedere ai relativi benefici: il trust – al pari di ogni altro soggetto non espressamente menzionato – deve essere altresì residente convenzionalmente nello Stato contraente interessato in base alla legislazione interna e in esso assoggettato a imposizione in modo “illimitato”, ossia secondo il principio della c.d. worlwide taxation (artt. 1 e 4 del “Modello OCSE”), circostanza, quest’ultima, che notoriamente non è implicata dall’esistenza della residenza fiscale. Questi due requisiti sono stati oscurati dalla denunciata assenza di informazioni sul trust e non sono stati vagliati dalla Suprema Corte, ancorché ciò fosse necessario per concludere – com’è stato concluso in modo implicito, avendo la decisione valorizzato, per negare il diritto al rimborso, l’impossibilità di accertare sia la qualità di beneficiario effettivo sia l’avvenuta tassazione in concreto dei dividendi – che il trust poteva essere ammesso ai benefici convenzionali e, dunque, in astratto anche al rimborso del credito d’imposta per i dividendi di fonte italiana percepiti. Entrambi i requisiti in questione sarebbero stati immediatamente accertabili se – come evidenziato anche nel precedente commento – il ricorrente


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avesse dimostrato che nel caso di specie si era in presenza di un veicolo di investimento collettivo (c.d. CIV), nella specie di un “Authorized Unit Trust” (AUT), da cui l’equiparazione normativa del trust alle società residenti e la soggezione alla “Corporation Tax” secondo le regole ordinarie, sia pur con aliquota agevolata. Ma sarebbero stati obiettivamente accertabili anche se fosse stata vagliata – in quanto, come narra la stessa Suprema Corte nella parte in fatto, prodotta dal contribuente-ricorrente – “la certificazione allegata [che secondo il contribuente-ricorrente] proverebbe il suo assoggettamento ad imposta nel Regno Unito e la sua residenza fiscale”, ma ciò non è avvenuto. In mancanza della suddetta prova e del vaglio del certificato prodotto, la verifica del primo requisito, la residenza convenzionale, sarebbe dovuta incentrarsi sulla residenza fiscale del trust in base alla legislazione interna, con accertamento che differisce in relazione alla diversa species utilizzata per collocarlo all’interno della nozione di “persona” di cui all’art. 3: se indagato, il requisito sarebbe risultato in ogni caso integrato. Se, infatti, il trust si considera come “persona” nella veste della “associazione di persone” – come l’ha considerato la Suprema Corte nel caso di specie – la residenza ai fini dei Trattati fiscali va accertata per il tramite delle persons che compongono il body of persons, il che significa fare riferimento – escludendosi per ragioni diverse la rilevanza, fra le figure in astratto vagliabili, di settlor, protector e beneficiari (6) – alla posizione del trustee e, dunque, considerare il trust alla stregua di un body of trustees, coerentemente col fatto che i trustees hanno la titolarità del trust fund e il potere/dovere di amministrarlo. In questa ipotesi, a prescindere dal fatto che si fosse avuto riguardo ai trustees nella loro “individualità” o nell’esercizio del loro “ufficio”, il risultato sarebbe

(6) Quanto al settlor, la rilevanza ai fini della determinazione della residenza fiscale del trust discende dal fatto che egli “esce di scena” (si passi l’espressione poco giuridica) nel momento stesso in cui esegue il trasferimento della titolarità dei beni che andranno a formare il trust fund. Quanto al protector, l’irrilevanza in via ordinaria si ricollega alla duplice circostanza che non è figura essenziale ai fini della valida esistenza di un trust e, per altro verso, svolge un ruolo di mero controllo dell’attività di amministrazione del trustee secondo le attribuzioni specifiche risultanti dal negozio istitutivo, le quali non possono e non devono mai essere invasive della sfera operativa istituzionale del trustee. Quanto infine ai beneficiari, la valorizzazione della loro posizione allo scopo in esame significherebbe affermare la “trasparenza” del trust ai fini tributari e, dunque, negare quella soggettività fiscale che costituisce presupposto indefettibile per qualificare il trust come “persona” in senso convenzionale: in questa ipotesi, la richiesta di applicare e beneficiare delle Convenzioni – per le fattispecie reddituali prodotte dal trust fund – non può che essere di pertinenza dei beneficiari.


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stato lo stesso (a differenza di quanto normalmente accade): il trust si sarebbe dovuto considerare fiscalmente residente nel Regno Unito, e dunque residente anche convenzionalmente, essendo il trustee una banca di diritto inglese residente ai fini fiscali nel Regno Unito ed essendo localizzabile in questo Paese l’esercizio delle funzioni di amministrazione e gestione del trust. Se, invece, il trust è considerato “persona” nella veste di “ente considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione” – e, dunque, sussumibile nella species della “società”, a cui, a livello interno, il trust in esame era in effetti assimilato – la residenza ai fini dei Trattati fiscali va accertata per il tramite dei criteri che nell’ordinamento tributario dello Stato contraente individuano la nozione di residenza fiscale delle società dotate di “personalità giuridica”, valendo di norma tali criteri anche per i soggetti passivi diversi che sono assimilati ai fini delle imposte sui redditi a tali società. In questa seconda ipotesi, la conclusione per il caso di specie sarebbe stata identica a quella raggiunta nella prima ipotesi: il trust si sarebbe dovuto considerare fiscalmente residente nel Regno Unito, e dunque residente anche convenzionalmente, essendo collocabile nel Regno Unito – come si detto – il c.d. place of management and control. Per altro verso, la verifica del secondo requisito, ossia l’assoggettamento a imposizione in modo “illimitato”, sarebbe dovuta passare per l’accertamento della soggettività passiva “illimitata” del trust, ai fini delle imposte sui redditi, secondo la normativa tributaria interna dello Stato della residenza: se effettuata, l’indagine non avrebbe tuttavia potuto dare alcuna risposta con riferimento al caso di specie. E infatti, mentre in relazione al primo requisito le informazioni e la documentazione del processo avrebbero offerto – come si è visto – la possibilità di accertare la residenza fiscale interna quale viatico di quella convenzionale, non altrettanto può dirsi in relazione a questo secondo requisito, posto che l’assetto dei trust è multiforme e da esso dipende la possibilità di qualificare internamente il trust come opaco, trasparente o misto, con riconoscimento della “piena” soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi integralmente, nel primo caso, e parzialmente, nell’ultimo, com’è, ad esempio, nel nostro ordinamento tributario. Nella dichiarata assenza di dati ed elementi sull’assetto del trust, la Suprema Corte non sarebbe tuttavia stata in grado di accertare alcunché, a meno di non vagliare e valorizzare la certificazione menzionata in fatto, che, secondo il contribuente-ricorrente, dimostrava l’assoggetto a imposizione (illimitata?) del trust nel Regno Unito, oltre alla sua residenza fiscale.


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3.2. Diversamente da quanto ha mostrato di ritenere la Suprema Corte, l’esistenza della “persona” in senso convenzionale è subordinata non al riconoscimento giuridico-fiscale del soggetto interessato nei due Stati contraenti, ma solo alla soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi nello Stato di residenza. – La seconda questione riguarda il percorso motivazionale con cui la Suprema Corte ha confutato l’assunto del giudice di appello secondo cui, non provenendo da una fonte del diritto, le indicazioni del Commentario al Modello Ocse – che avrebbero potuto consentire, come in effetti hanno consentito al giudice di legittimità, di includere il trust fra le “persone” in senso convenzionale – sarebbero state rilevanti “solo a seguito di intese recettizie fra gli Stati contraenti di convenzioni o al momento in cui si avvera una condizione di reciprocità prima inesistente, ciò che, per quanto riguarda l’Italia, sarebbe avvenuto solo con l’inserimento del trust tra i soggetti passivi Ires, a partire dalla legge finanziaria 2007 (l. n. 296/2006)”. Senza giustamente entrare nel merito del dibattito circa la rilevanza giuridica del Commentario, essendo dibattuta la possibilità di ricondurlo all’interno degli artt. 31 e 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, la Suprema Corte vi ha fatto comunque riferimento per interpretare l’art. 3 della Convenzione interessata, con la mediazione della “clausola modello” contenuta nello schema Ocse, e concludere a favore dell’astratta riconducibilità del trust in seno a tale disposizione. E ciò in modo del tutto condivisibile, se si considera che – a prescindere dal suo rilievo giuridico – il Commentario è discusso e approvato dagli esperti nominati dagli Stati membri in sede Ocse, con possibilità di esprimere riserve, e che gli aggiornamenti periodici che lo riguardano sovente esplicitano proprio le modalità di adattamento delle disposizioni pattizie a nuove fattispecie inesistenti al momento della conclusione delle Convenzioni fiscali (così è accaduto proprio per i trust, dopo la loro diffusione conseguente all’emanazione della Convenzione dell’Aja, 1 luglio 1985, relativa alla legge applicabile ai trust e al loro riconoscimento). Tanto che, anche in Italia, il ricorso al Commentario per ricostruire il significato delle disposizioni convenzionali è, oramai, una vera e propria prassi interpretativa sia dell’Amministrazione finanziaria sia della stessa giurisprudenza di legittimità (7).

(7) Cfr., fra le molte, Cass., sez. trib., 17 aprile 2019, 10706; Cass., sez. trib., 19 dicembre 2018, n. 32842; Cass., sez. trib., 7 settembre 2018, n. 21865; Cass, sez. trib., 12 dicembre 2018, n. 32078; Cass., sez. trib., 24 novembre 2016, n. 23984; e, più in là nel tempo, Cass., sez. trib., 17 ottobre 2008, n. 25374; Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17206.


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Ciò che desta invece perplessità è la parte della motivazione in cui, dando per scontata la rilevanza giuridico-fiscale del trust nell’ordinamento inglese, la Suprema Corte si diffonde a dimostrare che – contrariamente a quanto affermato dai giudici di secondo grado – il trust era figura rilevante nel nostro ordinamento già prima del riconoscimento della soggettività passiva ai fini Ires, avvenuto a partire dal 2007, e ciò per effetto della ratifica nel nostro ordinamento della citata Convenzione dell’Aja e della pregressa riconduzione per via interpretativa del trust, da parte della stessa Amministrazione finanziaria, all’interno dei soggetti passivi Irpeg. La circostanza è innegabile, ma la relativa dimostrazione non era necessaria. E infatti, così facendo, la Suprema Corte ha finito – come sottolineato anche dal Prof. Baker – col seguire il giudice di appello su una strada errata, quella di ritenere che il riconoscimento di una “persona” in senso convenzionale sia subordinato all’esistenza di un riconoscimento giuridico-fiscale del soggetto interessato in entrambi gli Stati contraenti. In realtà, per la sussunzione nell’art. 3 delle Convenzioni è sufficiente che chi richiede l’applicazione dei relativi benefici sia soggetto passivo ai fini delle imposte sui redditi nello Stato contraente di residenza, circostanza, questa, che è stata assunta dalla Suprema Corte – in quanto non risulta indagata – come dato di fatto per il trust interessato, e che inconsapevolmente era vera, essendo il predetto trust – come si è già evidenziato – un veicolo di investimento collettivo (CIV), nella specie di un “Authorized Unit Trust” (AUT), equiparato alle società residenti e soggetto alla disciplina della “Corporation Tax” secondo le regole ordinarie. Non a caso, nel Commentario all’Art. 1 del Modello Ocse, versione 2010, proprio in relazione ai veicoli di investimento collettivo, dopo l’evidenziazione che essi possono assumere nei diversi Stati forme giuridiche differenti (società, trust, joint partnership), si afferma che “in view of the wide meaning to be given to the term ‘person’, the fact that the law of the country where such a CIV is established would treat it as a taxpayer would be indicative that the CIV is a ‘person’ for treaty purpose” (così paragrafo 6.10). 4. La qualità di beneficiario effettivo dei dividendi può essere accertata solo attraverso la documentazione dell’assetto del trust e l’assoggettamento a imposizione dei dividendi va intesa “in concreto”, come ha correttamente concluso la Suprema Corte ma con una motivazione in parte discutibile. – Passando alle altre due conclusioni rassegnate dalla Suprema Corte, e par-


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tendo dalla prima riguardante la clausola del beneficiario effettivo (8), è nel giusto il giudice di legittimità quando afferma che in assenza di informazioni e documenti relativi all’assetto del trust non è possibile accertare se esso fosse beneficiario effettivo dei dividendi percepiti. Tanto è evidente se si considera che la giurisprudenza di legittimità qualifica come beneficiario effettivo del reddito ai fini convenzionali colui che ha la disponibilità economica e giuridica del provento formalmente percepito o, valorizzando il Commentario (9), l’uso e il godimento del reddito oggetto di tassazione, ponendosi come destinatario finale (owner dominus), e non come semplice intermediario, agente o fiduciario, con collocazione del fuoco dell’indagine sul trattenimento e l’autonomo impiego del reddito in questione (10): in assenza di dati sul trust interessato, perché non riversati nel processo dal contribuente-ricorrente, la Suprema Corte era oggettivamente impossibi-

(8) Sul tema, fra gli altri, A. Rowland, Beneficial Ownership in Corporate Context: Wath Is It? When It Lost? Where Does It Go, in British Tax Review, n. 3/1997, 178 ss.; C. Du Toit, Beneficial Ownership in Bilateral Tax Treaties, Amsterdam, 1999, passim; AA.VV., Beneficial Ownership, in Bullettin for International taxation, 2000, 310 ss.; R. Vann, Beneficial Ownership: What does History (and Maybe Policy) Tell Us, in M. Lang et al. (editors), Beneficial Ownership: Recent Trends, Amsterdam, 2013, 281 ss.; F. Vallada, Beneficial Ownership under Article 10, 11 e 12 of the 2014 OECD Model Convention, in M. Lang et al. (editors), The OECD Model Conventions and its Update 2014, Vienna, 2014, 39 ss.; A. Meindl-Ringler, Beneficial Ownership in International Tax Law, Kluwer Law International, 2016, passim; quanto alla dottrina italiana, C. Perrone, Brevi note sul significato convenzionale del concetto di beneficiario effettivo, in Rass. trib., 2003, 151 ss.; A. Ballancin, La nozione di beneficiario effettivo nelle convenzioni internazionali e nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. trib., 2006, 209 ss.; E. Della Valle, Conduit companies e beneficiario effettivo dei dividendi in uscita, in GT – Riv. giur. trib., 2013, 51 ss.; G. Escalar, La nuova definizione OCSE di Beneficiario effettivo, in Corr. trib., 2107, 3685 ss.; E. Artuso-I. Bisinella, Brevi note in tema di holding, beneficiario effettivo, valore dei certificati di residenza: “incroci pericolosi” in un recente arresto giurisprudenziale, in Dir. prat. trib., 2019, II, 768 ss. (9) Com’è noto, nella versione 1977 del Commentario era stata inserita una nozione “in negativo”, escludendo che potessero essere qualificati come beneficiario effettivo: (a) l’agente, il fiduciario e l’intermediario, in quanto percettori formali dei redditi, e non anche possessori sostanziali ai fini impositivi; (b) le conduit companies, in quanto meri “veicoli di transito” dei redditi dalla fonte all’effettivo beneficiario finale. Nel corso del tempo questa definizione “in negativo” ha ceduto il passo a una nozione “in positivo”: nelle più recenti versioni del Commentario il beneficiario effettivo è, infatti, sostanzialmente definito come il soggetto che – oltre alla titolarità formale – ha anche un autonomo potere dispositivo e un effettivo reale godimento in relazione ai redditi interessati, in quanto non vincolato da obblighi legali o contrattuali di ritrasferimento dei flussi reddituali a terzi soggetti. (10) Cfr., fra le più recenti, Cass., sez. trib., 19 dicembre 2018, nn. 32840, 32841 e 32842, nonché, in modo particolare, Cass., sez. trib., 28 dicembre 2016, n. 27113.


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litata a riscontrare le relative circostanze, senza peraltro considerare che ciò avrebbe potuto tradursi in un indagine sul fatto, in quanto tale preclusa nel giudizio di legittimità. Non solo. Poiché non è stato spiegato e dimostrato che il trust in questione era un veicolo di investimento collettivo (CIV), nella specie di un “Authorized Unit Trust” (AUT), la Suprema Corte non è stata neanche messa nelle condizioni di valorizzare il Commentario nella versione del 2010 – e dunque già esistente al momento della decisione assunta in sede di legittimità (11) – ove espressamente si riconosce che “a vehicle that meets the definition of a widelyheld CIV will also be treated as the beneficial owner of dividends and interest that it receives, so long as managers of the CIV have discretionary powers to manage the assets generating such income” (così, paragrafo 6.14 del Commentario all’Art. 1). Chiosa, questa, che sarebbe stata indubbiamente valevole anche ai fini dell’interpretazione delle regole recate dalla Convenzione ItaliaRegno Unito, ancorché anteriore, essendo finalizzata – come tutti gli emendamenti nel tempo apportati al Commentario – a chiarire il contenuto delle disposizioni convenzionali in rapporto ai nuovi fenomeni economici e sociali. Non rimane che valutare l’ultima delle tre conclusioni, ossia quella riguardante il requisito del c.d. “assoggettamento a imposizione” dei dividendi nel Regno Unito (12), che è stata nel senso di ritenere tale requisito non provato,

(11) Ma anche – com’è stato evidenziato nel precedente commento – al momento del diniego di rimborso da parte dell’Amministrazione finanziaria, che risaliva al 29 aprile 2010, posto che le integrazioni al Commentario, fra cui quella subito riportata nel testo, sono state adottate il 23 aprile 2010. L’illustre Autore giustamente si chiede come sia possibile che l’Amministrazione finanziaria non ne abbia tenuto conto nel caso di specie, considerato anche che l’Italia non ha apposto alcuna riserva alle predette integrazioni e che è irrilevante la preesistenza alle predette integrazioni della Convenzione fra l’Italia e il Regno unito, che è del 1998, trattandosi di integrazioni volte proprio a chiarire il contenuto delle Convenzioni vigenti. In merito, se nessuna informazione è stata fornita dal contribuente nel corso del giudizio, non è inverosimile ipotizzare che anche nella fase procedimentale non sia stata fornita alcuna informazione in ordine al fatto che si trattava un veicolo di investimento collettivo (CIV) nella specie di un “Authorized Unit Trust” (AUT). (12) Sul requisito del c.d. “assoggettamento a imposizione” in generale, nel contesto della residenza convenzionale, e con specifico riferimento a singoli requisiti, v., fra gli altri, S. Van Weeghel, The Improper Use of Tax Treaties, Londra, 1998, 20 e 280 ss.; M. Lampe, General Subject-to-Tax Clauses in Recent Tax Treaties, in European Taxation, 1999, 183 ss.; M. Lang, Double Non-Taxation, General Report, in Cah. Dr. Fisc. Int., Vol. 89a, IFA, Rotterdam, 2004, 85 ss.; C. Marchgraber, The Avoidance of Double Non-taxation in Double Tax Treaty Law: A Critical Analysis of the Subject-To-Tax Clause Recommended by the European Commission, in EC Tax Review, 2014, 293 ss.; A. Scapa-L.a. Henie, Avoidance of Double Non-Taxation under


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mancando la dimostrazione della tassazione in concreto dei dividendi nel Regno Unito. La conclusione è ineccepibile, ma non altrettanto può dirsi per la motivazione addotta a sostegno. L’adesione e il dissenso sul punto possono essere argomentate in modo unitario, muovendo dal fatto che, a differenza del requisito dell’assoggettamento a imposta richiesto dalle Convenzioni fiscali ai fini della residenza, che va inteso “in astratto” (13), la locuzione “a condizione che la società la quale riceve i dividendi ed il credito d’imposta sia a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito” – recata dall’art. 10, comma 4, lett. a) del Trattato ItaliaRegno Unito – è una tipica “subject to tax clause” (14), che, in quanto tale, impone la prova che i dividendi incassati dal soggetto residente nel Regno Unito siano stati “in concreto” sottoposti a prelievo in tale Paese. Per ciò, è corretta la conclusione della Suprema Corte in merito al requisito in esame. E infatti, era errata l’argomentazione giuridica addotta dal con-

the OECD Model Tax Convention, in Intertax, 2005, 266 ss.; quanto alla dottrina italiana, G. Maisto, Temi attuali sull’interpretazione della Direttiva Madre-Figlia, in G. Maisto (cura di), La tassazione dei dividendi intersocietari, Milano, 2011, 577 ss.; P. Arginelli-G. Cuzzolaro, Sull’applicabilità delle Convenzioni contro le doppie imposizioni in assenza di un’effettiva duplicazione d’imposta, in Riv. dir. trib. – Online, 6 dicembre 2018; N. Sartori, Doppia non imposizione e Convenzioni internazionali: note a margine di una recente e ineccepibile decisione della Cassazione, in Riv. dir. trib. – Online, 2 ottobre 2019. (13) Per la giurisprudenza di legittimità, cfr., fra le altre, Cass., sez. trib., 17 aprile 2019, n. 10706; Cass., sez. trib., 29 dicembre 2011, n. 29576; Cass., sez. trib., 19 novembre 2010, n. 23431; Cass., sez. trib., 8 marzo 2002, n. 3410; Cass., 29 gennaio 2001, n. 1231; e, con riferimento a un caso di esenzione di una plusvalenza su partecipazione qualificata in una società italiana ai sensi della Convenzione Italia-Germania, Cass., sez. trib., 11 ottobre 2018, n. 25219. Per la prassi amministrativa, che richiama sul punto il Commentario all’art. 4 del Modello di Convenzione Ocse, v. Ris. Ag. Entr., 21 aprile 2008, n. 167/E, nonché, più in là nel tempo, Ris. Min., 6 maggio 1997, n. 104. Sia pur in altro contesto, un’analoga interpretazione si ritrova nella Circ. Ag. Entr., 21 maggio 2009, n. 26/E e Circ. Ag. Entr., 8 luglio 2011, n. 32/E. (14) Concordemente il Prof. Baker nel precedente commento. Fra le prime sentenze di legittimità a riconoscerlo, cfr. Cass., sez. trib., 20 febbraio 2013, nn. 4164 e 4165, le quali sono state seguite dalla giurisprudenza successiva chiamata specificamente a pronunciarsi sul citato art. 10, comma 4, lett. a) del Trattato fiscale Italia-Regno Unito, e in particolare, partendo dalla più recente, Cass., sez. trib., 15 febbraio 2019, n. 4568; Cass., sez. trib., 6 ottobre 2017, n. 23367; Cass., sez. trib., 24 febbraio 2017, n. 4771; Cass., sez. trib., 23 settembre 2016, n. 18628; Cass., sez. trib., 25 maggio 2016, n. 10792. Ha analoga natura la clausola contenuta nell’art. 15 del Protocollo alla Convenzione Italia-Francia, ove si afferma che “Nei casi in cui, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione, un reddito deve essere esentato da parte di uno dei due Stati, lesenzione viene accordata se e nei limiti in cui detto reddito è imponibile nell’altro Stato”: cfr. Cass., sez. trib., 6 ottobre 2017, n. 23367, par. 2.4.


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tribuente-ricorrente secondo cui la citata disposizione non avrebbe richiesto l’assoggettamento “in concreto”, ma solo “in astratto”; e, per altro verso, era insufficiente avere dato prova in fatto che i dividendi erano stati regolarmente contabilizzati nel Regno Unito e che per tale via avevano concorso a formare il reddito imponibile, perché – ma la circostanza non è stata invero opposta dalla Suprema Corte – il Regno Unito adottava un regime interno di esenzione dei dividendi mediante riconoscimento di una detrazione della relativa imposta inglese dovuta per effetto dell’inserimento in base imponibile. E sempre per ciò, non è corretto motivare la conclusione rassegnata – com’è stato in effetti motivato – mediante il richiamo dell’orientamento giurisprudenziale di legittimità relativo alla normativa italiana di attuazione della Direttiva “madre-figlia” che “richiede, quale necessario presupposto, la produzione della certificazione, rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato estero relativamente alla soggezione non in astratto, ma in concreto, della società ad uno dei tributi nella direttiva 435/90/CEE del Consiglio”; e, per escludere la rilevanza della giurisprudenza invocata dal contribuente-ricorrente (la quale verosimilmente riguardava il requisito dell’assoggettamento a imposta previsto dalla clausola sulla residenza), mediante l’affermazione che essa “riguarda rapporti pattizi instaurati dall’Italia con Paesi estranei ai rapporti eurocomunitari, e d’altronde una diversa interpretazione condurrebbe a effetti distorsivi nell’ambito della concorrenza del mercato, incidendo e violando principi e normative comunitarie” (la cui invocazione è, in verità, totalmente fuori bersaglio). In fine, una circostanza curiosa che si aggiunge alle altre già rilevate in apertura. Da quanto risulta dalla narrazione in fatto, la richiesta di rimborso convenzionale del credito d’imposta era stata avanzata per i dividendi incassati dal trust negli anni 1994-2001 e per un importo complessivo di Euro 2.319.951,10: in relazione agli anni 1994-1997, la richiesta era stata inizialmente accolta dall’Agenzia delle Entrate, con rimborso di Euro 240.891,32; il 29 aprile 2010 l’Agenzia emanava, però, un provvedimento di diniego col quale era disconosciuto il rimborso del credito d’imposta per tutte le annualità e richiedeva la restituzione delle somme già rimborsate (incrementate degli interessi). Il contribuente-ricorrente ha tentato di provare l’assoggettamento a imposizione dei dividendi in modo indiretto, attraverso la dimostrazione dell’avvenuta contabilizzazione nel Regno Unito, anziché in modo diretto, mediante la produzione delle dichiarazioni dei redditi relative a tutti gli anni interessati. Poiché il regime di esenzione dei dividendi mediante detrazione è stato intro-


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

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dotto nel 1999, la produzione delle dichiarazioni dei redditi relative, quanto meno, agli anni pregressi sarebbe stata risolutiva a favore del contribuente. Perché non è stato fatto? La risposta si trova, forse, nei numeri. L’importo complessivamente chiesto a rimborso era di Euro 2.319.951,10; quello relativo gli anni 1994-1997 ammontava a Euro 240.891,32, e considerando anche l’anno 1998 sarebbe stato certamente superiore ma verosimilmente non troppo. Assumendo che a partire dall’anno di introduzione, il 1999, l’esenzione sui dividendi sia stata applicata (15), la produzione delle dichiarazioni relative agli anni pregressi, con cui era possibile recuperare poco più di 240.000 Euro, avrebbe obbligato – per evidenti ragioni – alla produzione delle dichiarazioni dei redditi degli anni successivi, recanti il concorso dei dividendi alla formazione dell’imponibile ma anche la detrazione, col risultato di “confessare” per tali anni, e in relazione a un importo dieci volte superiore a quello recuperabile per gli anni pregressi, l’assenza del requisito della subject to tax. Circostanza, questa, che forse spiega, in ottica meramente strategico-defensionale, la scelta compiuta.

Angelo Contrino

(15) Diversamente, la mancata produzione delle dichiarazioni dei redditi risulta assurda.







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