Rivista Diritto Tributario 6/2019

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Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

Rivista bimestrale

Vol. XXIX - Dicembre 2019

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Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

In evidenza: • La nozione di tributo nel pensiero di Euclide Antonini

Andrea Fedele • L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra

ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici Franco Paparella • Donazioni estere: l’apoditticità di una tesi, parzialmente condivisibile, dell’Agenzia delle

Entrate Gianfranco Gaffuri • La nuova legittima difesa (art. 52 c.p.): applicazioni in materia di reati tributari ed

economici Ivo Caraccioli • Alcune riflessioni su accollo esterno dei debiti tributari e compensazione

Stefano Fiorentino

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini


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Diritto Tributario Coordinamento della parte prima: Loredana Carpentieri Coordinamento della parte seconda: Francesco d’Ayala Valva Coordinamento della parte terza: Ivo Caraccioli Coordinamento della parte quarta: Piera Filippi Coordinamento della parte quinta: Guglielmo Maisto Comitato di redazione: Susanna Cannizzaro - Daniela Conte - Barbara Denora - Francesco Farri - Antonio Guidara - Giuseppe Ingrao - Rossella Miceli - Giovanni Moschetti - Francesco Pedrotti - Paola Rossi - Costantino Scalinci - Mauro Trivellin

Segreteria di redazione: Gloria Giacomelli ggiacomelli@pacinieditore.it Phone +39 050 31 30 243 - Fax +39 050 31 30 300 Supplemento online: www.rivistadirittotributario.it Responsabili delle sezioni: - Diritto Costituzionale: Valeria Mastroiacovo - Questioni generali e processo: Francesco Farri - Accertamento e Riscossione: Costantino Scalinci - Singoli tributi: Barbara Denora - Diritto Europeo e Internazionale: Paolo Arginelli - Sanzioni amministrative: Marco Di Siena - Sanzioni penali: Ivo Caraccioli


Indici DOTTRINA

Ivo Caraccioli

La nuova legittima difesa (art. 52 c.p.): applicazioni in materia di reati tributari ed economici.................................................................................................................... III, 75 Francesco Farri

L’imposta ipotecaria non si applica sulle ipoteche volontarie iscritte a garanzia di tributi erariali (nota a Commissione Tributaria Provinciale di Latina, 31 ottobre 2017, n. 1253/V/2017)................................................................................................ II, 239 Andrea Fedele

La nozione di tributo nel pensiero di Euclide Antonini ........................................... I, 575 Stefano Fiorentino

Alcune riflessioni su accollo esterno dei debiti tributari e compensazione ............ I, 621 Gianfranco Gaffuri

Donazioni estere: l’apoditticità di una tesi, parzialmente condivisibile, dell’Agenzia delle Entrate (nota a Risposta a interpello 24 luglio 2019, n. 310)............... II, 228 Gabriele Giusti

La riforma dell’art. 20 del TUR: un’occasione persa? ............................................. I, 711 Franco Paparella

L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici ............................................................................................................ I, 587 Mario Ravaccia

Fatture per operazioni inesistenti senza danno erariale: alcune conferme e una violazione per eccesso di sanzioni della normativa italiana (nota a Corte Giustizia UE, sez. I, 8 maggio 2019, causa C-712/17)............................................................. IV, 147 Claudio Sciancalepore

Appunti sulla tassazione dell’economia digitale come nuova risorsa propria europea ............................................................................................................. I, 685 Giuseppe Vanz

“Interest limitation rule”, principi europei della proporzionalità e dell’uguaglianza e principi costituzionali della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria ................................................................................................................ I, 649


II

indici

Rubrica di diritto penale europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 139 Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR.

INDICE ANALITICO

IMPOSTE INDIRETTE Imposta ipotecaria – Transazione fiscale – Ipoteca volontaria – Formalità eseguita nell’interesse dello Stato – Non sussiste – Applicabilità imposta ipotecaria – Sussiste (Commissione Tributaria Provinciale di Latina, sez. V, 25 settembre 2017 - 31 ottobre 2017, n. 1253/V/2017, con nota di Francesco Farri).................. II, 237 Imposta sulle successioni e le donazioni - Donazione di denaro con bonifico da conto estero - Articolo 2 d.lgs. 346/1990 - art. 55 d.lgs. 346/1990 – Territorialità del tributo (Risposta a interpello 24 luglio 2019, n. 310, con nota di Gianfranco Gaffuri)........................................................................................................................ II, 225

IVA (imposta sul valore aggiunto) Rinvio pregiudiziale – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Operazioni fittizie – Impossibilità di detrarre l’imposta – Obbligo, per l’emittente di una fattura, di assolvere l’IVA in essa indicata – Sanzione di importo pari a quello dell’IVA indebitamente detratta – Compatibilità con i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità (Corte Giustizia UE, sez. I, 8 maggio 2019, causa C-712/17, con nota di Mario Ravaccia)............................................................................................. IV, 139

INDICE CRONOLOGICO Corte Giustizia UE, sez. I 8 maggio 2019, causa C-712/17................................................................................. IV, 139 ***


indici

III

Commissione Tributaria Provinciale di Latina, sez. V 25 settembre 2017 - 31 ottobre 2017, n. 1253/V/2017............................................. II, 237

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

La nozione di tributo nel pensiero di Euclide Antonini*

1. Ringrazio innanzi tutto gli organizzatori di questo convegno per il gentile invito ad intervenire. È comunque l’iniziativa stessa di un ricordo del prof. Antonini che va segnalata e sostenuta: il suo contributo all’elaborazione scientifica ed allo sviluppo del diritto tributario è stato invero rilevante. Oggi i riferimenti al suo pensiero non sono però frequenti nei contributi teorici ed in genere nei lavori dei cultori della materia. Ritengo che gli scritti di questo autore, la sua capacità di razionale sistemazione teorica che sempre prende le mosse dal dato normativo e dalla specifica casistica applicativa, debbano invece essere presenti nella formazione di chiunque oggi affronti, in una prospettiva giuridica, i temi della fiscalità. In realtà tutti gli studiosi della mia generazione, ed anche di quelle immediatamente successive, si sono imbattuti nei lavori e si sono confrontati con le elaborazioni critiche e ricostruzioni sistematiche di Euclide Antonini, molte delle quali risultano ancor oggi attualissime, anche in relazione a problemi evidenziati dalla più recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale. Questo breve intervento vuole fornire una testimonianza del mio incontro con i contributi del nostro autore su di una tematica che mi ha sempre coinvolto: la definizione del tributo e quindi dei confini stessi della nostra materia. 2. Fin dall’inizio dei miei studi, nei primi anni sessanta del secolo passato, ho particolarmente apprezzato i due saggi su la tassa come onere e la condizione nel diritto tributario che costituiscono il volumetto intitolato “La formu-

* Lo scritto riproduce il mio intervento al Convegno in onore del prof. Euclide Antonini, tenutosi a Roma il 21 febbraio 2019.


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Parte prima

lazione della legge e le categorie giuridiche”, a mio avviso il più elegante e raffinato contributo di Antonini alla teoria generale del diritto tributario. L’inerenza del primo saggio al tema del mio intervento non abbisogna di particolari dimostrazioni. Si tratta di una serrata critica, di una confutazione, della tesi che riduceva la tassa a mero onere, dunque a prestazione non doverosa, elaborata da Antonio Berliri (che peraltro, pur non sconfessando la sua costruzione, ha scritto la Prefazione al libro, molto elogiativa). Metterei in evidenza, di questo scritto, alcuni tratti, ancor oggi di grande interesse. L’autore prende le mosse dall’individuazione dell’interesse tutelato nei singoli assetti disciplinari, ponendolo a fondamento della ricostruzione del tessuto normativo e degli effetti giuridici conseguenti al verificarsi delle fattispecie previste dalla legge. Conseguentemente, l’eventuale prospettazione in termini di sanzione (afflittiva?) del “mancato conseguimento” del risultato per “ inosservanza dell’onere” è giustamente rigettata e l’insussistenza dei relativi effetti (legittimazione di atti od attività, emanazione di provvedimenti o prosecuzione di procedimenti, ecc.) imputata alla mancata integrazione della fattispecie legale. Di questa impostazione potrebbero farsi utili applicazioni a problemi già emersi all’epoca od evidenziati dalla successiva evoluzione normativa, ad esempio: a) circa il senso della qualificazione di taluni interpelli come “ obbligatori”, che non ha nulla a vedere con assetti doverosi posti dalla legge a carico di chi li propone, ma esprime la “necessità” del procedimento quale unico tramite per ottenere un risultato (non applicazione – od, alternativamente, applicazione – di determinate regole, discipline od istituti) che il contribuente percepisce come a lui favorevole; come è noto, il tema è assai dibattuto, soprattutto in ordine alla spettanza di rimedi giurisdizionali quando l’esito dell’interpello è negativo; sull’ultima riforma della disciplina di questi istituti ha molto influito l’esigenza dell’Agenzia delle entrate di ridurre le ipotesi di interpello “obbligatorio”: nel caso degli interpelli disapplicativi di norme antielusive specifiche, ad es., il risultato è stato ottenuto, ma con l’effetto, forse non previsto, di trasformare, implicitamente, tali norme (la cui individuazione non è pacifica) in mere “presunzioni relative” di abuso del diritto, risultato forse non del tutto coerente con la disciplina del procedimento e dell’onere della prova prevista nell’attuale art. 10 bis L. n. 212/2000;


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b) in ordine alla possibilità di assetti doverosi alla cui inosservanza l’ordinamento reagisce con “sanzioni” inidonee a soddisfare l’interesse tutelato dalla regola di comportamento, ma caratterizzate piuttosto da funzione e valenza “afflittive”; ricordo che proprio nel decennio successivo alla pubblicazione del libro fu elaborata, in relazione alla disciplina dell’I.G.E. (Maffezzoni), ed ampiamente utilizzata dalla dottrina, la categoria dell’ “obbligo” avente ad oggetto la prestazione tributaria, ma non assistito da azione esecutiva giacché l’inadempimento determinava solo l’applicazione di sanzioni pecuniarie; c) più in generale, con riguardo alla possibilità che la disciplina di alcuni tributi possa presentare anche assetti od articolazioni idonei a soddisfare interessi dello stesso contribuente, come può rilevarsi nella fiscalità connessa all’esercizio di funzioni o alla prestazione di servizi pubblici. 3. Il saggio giunge alla conclusione che non è possibile configurare l’ “onere” come autonoma situazione giuridica soggettiva, in particolare con riguardo agli istituti tributari generalmente classificati fra le tasse, ma, più in generale, in ogni altro analogo contesto normativo: ogni effetto giuridico, come anche l’emanazione di atti doverosi per la P. A., è condizionato dal perfezionarsi della fattispecie prevista dalla legge per la produzione dell’effetto e/o la doverosa emanazione dell’atto; se la fattispecie legale è integrata anche dal versamento di un tributo, questo potrà altresì rilevare come adempimento della relativa obbligazione, non del preteso onere, se considerato alla stregua di una situazione giuridica soggettiva passiva. Trova quindi conferma la tradizionale definizione del tributo, di ogni tributo, come obbligazione ex lege nascente al verificarsi del presupposto, nel caso delle tasse identificato con l’emanazione degli atti o provvedimenti (ovvero con lo svolgimento dell’attività) per i quali il tributo è richiesto, o anche con la sola domanda (nelle tasse di domanda). Le argomentazioni dell’autore sembrano più agevolmente riferibili ai tributi che hanno a presupposto l’emanazione di atti o provvedimenti, o anche la sola domanda dell’emanazione stessa. Andrebbe però notato che in questi casi il versamento del tributo potrebbe essere considerato come modalità di esercizio di un potere propulsivo dei relativi procedimenti, con un accostamento alla figura dell’onere (procedimentale) come situazione giuridica soggettiva attiva, secondo la prospettazione, fra gli altri, di Gian Antonio Micheli, cui Antonini dichiara però di non aderire.


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Qualche dubbio potrebbe poi sorgere per le tasse relative allo svolgimento, da parte del contribuente, di determinate attività, altrimenti non consentite dalla legge; nel saggio parrebbe in questi casi assunto a presupposto del tributo lo stesso svolgimento dell’attività, che si assume come certo già al momento del versamento della tassa. Si potrebbe però sostenere (si veda il contributo di La Rosa nella raccolta di saggi sul procedimento tributario pubblicata nel 1971) che presupposto di questi tributi è lo stesso effetto di legittimazione allo svolgimento dell’attività, prodotto da una fattispecie alla cui perfezione concorre il versamento della somma prevista dalla legge, secondo uno schema assimilabile a quello del contratto reale, in cui l’effettuazione della prestazione integra la fattispecie negoziale, non costituisce adempimento di un’obbligazione. 4. Una volta ricondotte anche le tasse allo schema generale dell’obbligazione pecuniaria nascente, per legge, al verificarsi di una fattispecie assunta a presupposto del tributo stesso l’ Antonini coglie esattamente il vero tratto distintivo della maggior parte degli istituti fiscali connessi all’esercizio di funzioni, poteri od attività pubbliche: l’ anticipazione della prestazione tributaria rispetto al perfezionarsi della fattispecie imponibile. Il tema è affrontato con rigore metodologico e ricchezza di riferimenti ad istituti che presentano affinità strutturali (significativo, a mio avviso, il richiamo al c. d. contratto per automatico; ma interessante anche l’accostamento al contratto concluso mediante apprensione della merce esposta sugli scaffali e successivo pagamento alla cassa, che in qualche modo evoca il versamento del tributo con effetto “legittimante”). La soluzione individuata, ancor oggi accolta dalla dottrina dominante per tutte le forme di “anticipazione” del tributo, risolve il fenomeno in versamento cauzionale, mutuando dalla tipologia civilistica del pegno irregolare (che è contratto – o negozio unilaterale – reale) la produzione di un’obbligazione del percipiente a restituire, destinata ad estinguersi, per compensazione, al sopravvenire dell’obbligazione tributaria conseguente al perfezionarsi della fattispecie imponibile. A prescindere dalla forse eccessiva complessità dell’assetto effettuale così ipotizzato, che personalmente non mi ha mai convinto, rileverei che la costruzione risulta sostanzialmente inutile laddove si ammettano ipotesi in cui il presupposto del tributo si perfeziona contestualmente al versamento, quindi tutti gli affermati effetti obbligatori si estinguerebbero al momento stesso della loro nascita e per effetto del medesimo evento che dovrebbe determinarla.


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Le tesi elaborate nel saggio sulla tassa si segnalano comunque per il razionale coordinamento e la piena congruenza con la concezione di fondo del tributo come obbligazione ex lege, cui l’autore presta esplicita adesione. 5. Alla configurazione del tributo come obbligazione ex lege fornisce un valido contributo anche l’ulteriore saggio, nel medesimo volume, volto a negare la possibilità stessa di obbligazioni tributarie “condizionate”. La linea argomentativa è chiara: trattandosi di effetto legale, l’obbligazione tributaria viene in essere, ed è vincolante, al perfezionarsi della fattispecie imponibile; in carenza di qualsiasi elemento della fattispecie stessa, l’obbligazione manca totalmente. Non sono ipotizzabili aspettative o pendenze. Quanto alle esenzioni fiscali, nella cui disciplina si identificavano tradizionalmente ipotesi di rapporti “condizionati”, la fattispecie prevista dalla legge per il loro operare viene ricondotta alla categoria dei fatti impeditivi, la cui efficacia giuridica si esprimerebbe, appunto, nell’impedire la produzione degli effetti di altre fattispecie. Realizzandosi le circostanze previste per l’esenzione, l’obbligazione tributaria non nasce, pur essendosi perfezionata la fattispecie assunta a presupposto del tributo; altrimenti, l’obbligazione stessa viene in essere, pura e semplice, al verificarsi del presupposto: non vi è spazio per ipotizzare rapporti obbligatori soggetti a condizione. La ricostruzione delle esenzioni che identifica nei requisiti richiesti dalla legge fatti impeditivi è tuttora dominante in dottrina (La Rosa). Personalmente non sono mai riuscito ad apprezzare razionalmente la nozione stessa di effetto impeditivo, che a me parrebbe risolversi essenzialmente in inefficacia del “fatto costitutivo”. È certo però che si possono identificare articolazioni normative che escludono il prodursi di un determinato effetto giuridico e sono volte alla tutela di interessi diversi da quelli sottesi alla disciplina “tipica” delle fattispecie. Appunto alla diversa valutazione degli interessi in gioco dovrebbe essere ricondotta la distinzione tra fatti costitutivi ed impeditivi, sicuramente rilevante ai fini della distribuzione dell’onere della prova, ma forse non del tutto idonea a rappresentare la dinamica degli effetti giuridici (Allorio). D’ altronde, gli esiti, non sempre condivisibili, della giurisprudenza della Cassazione in tema di riparto dell’onere della prova nel processo tributario dimostrano che è sempre l’apprezzamento degli interessi in gioco ad influire sul giudizio circa l’assolvimento dell’onere stesso, anche se, molto spesso, più della valutazione comparativa si manifesta il riconoscimento di un’assoluta prevalenza all’ “interesse fiscale” identificato con la esigenze finanziarie dell’apparato pubblico.


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In quest’ottica, le esenzioni (ma l’argomento vale per tutte le agevolazioni fiscali) si caratterizzano in quanto assetti normativi che, pur concorrendo alla disciplina del tributo, sono orientati al sostegno, alla tutela, alla realizzazione ed alla soddisfazione di valori, interessi e bisogni socialmente rilevanti e per lo più con riconoscimento costituzionale, ma estranei alla funzione tipica del tributo, cioè all’attuazione del concorso alle pubbliche spese in ragione di un determinato indice di capacità contributiva. Si torna dunque al già accennato tema della possibile coesistenza, nel medesimo istituto tributario, di norme direttamente ordinate alla ratio del tributo e di altre che tutelano interessi diversi, spesso costituzionalmente rilevanti, incidendo anche sull’an e sul quantum del concorso alle pubbliche spese. Appunto a questo diverso collegamento funzionale con valori e principi coinvolti nella disciplina dei tributi ha riguardo la distinzione fra le norme, od articolazioni normative, di esclusione (che adeguano la disciplina delle fattispecie imponibili e dei loro effetti all’indice di capacità contributiva caratterizzante il tributo) e quelle di esenzione (che limitano il concorso alle pubbliche spese per promuovere attività o situazioni meritevoli di sostegno e valorizzazione). Si noti, peraltro, e questo è un ulteriore segno dell’attualità dei temi affrontati dal nostro autore, che questo approccio alla materia delle discipline fiscali “sottrattive” quanto ai loro effetti sul gettito è decisamente contestata da chi ammette tali discipline solo se ordinate ad adeguare il prelievo alla misura (in ipotesi ridotta) della capacità contributiva in concreto manifestata dal contribuente, giacché, in ogni altro caso, sussisterebbe una violazione dell’art. 53, c. 1, cost.. Il saggio sulla condizione giunge comunque ad un punto critico laddove affronta il tema delle esenzioni subordinate ad eventi (di regola comportamenti dei contribuenti) che devono verificarsi successivamente al porsi in essere del presupposto del tributo e la cui mancanza entro un dato termine determina la “decadenza” dall’agevolazione. L’autore ricostruisce la vicenda secondo lo schema del fatto impeditivo, cui deve riconoscere, nel caso, un’efficacia retroattiva, a mio avviso difficilmente predicabile nei confronti di un effetto, l’obbligazione tributaria, la cui fattispecie si sarebbe già in precedenza perfezionata. Parrebbe più semplice e ragionevole ipotizzare l’insussistenza di qualsiasi rapporto obbligatorio sino a che, scaduto il termine in mancanza dell’evento “condizionante”, la “decadenza” dall’agevolazione comporterà la nascita dell’obbligazione al pagamento del tributo, eventualmente maggiorato a titolo sanzionatorio.


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Va riconosciuto, peraltro, che la ricostruzione in termini di vicenda effettuale di questa categoria di agevolazioni resta sicuramente controvertibile ed incerta; basti pensare alle difficoltà che incontra l’Agenzia delle entrate nel giustificare la decadenza dalle agevolazioni per l’acquisto della prima casa causata dal mancato porsi in essere di un fatto successivo all’acquisto, come il trasferimento della residenza nel comune in cui si trova l’abitazione: appare evidente, nelle risoluzioni e circolari sull’argomento, la propensione ad inquadrare il comportamento del contribuente nello schema della “falsa dichiarazione” (valido per altri requisiti, attinenti, ad es., alle caratteristiche oggettive dell’alloggio, non per gli eventi successivi alla dichiarazione stessa). 6. La nozione di tributo delineata dal nostro autore nella sua prima monografia è chiara e coerente con la fondamentale distinzione fra obbligazioni nascenti dall’esercizio dell’autonomia negoziale e prestazioni imposte per legge od atto amministrativo, senza il concorso della volontà dell’obbligato. Essa comporta, in primo luogo, il definitivo abbandono dei criteri definitori e classificatori dei tributi derivanti dalla tradizione degli studi di economia pubblica e scienza delle finanze. In particolare, anche in relazione all’oggetto specifico dei saggi, l’irrilevanza, ai fini della configurazione strutturale e della disciplina giuridica dei tributi tradizionalmente classificati fra le tasse, della correlazione fra prelievo fiscale ed attività dell’apparato pubblico specificamente rivolte al contribuente. Una chiara manifestazione dell’orientamento dell’Antonini su questo tema è data dall’articolo (pubblicato nel 1960) su “Il mito dei tributi cosiddetti “corrispettivi” (a proposito della pretesa assoggettabilità all’ I.G.E. della tassa di occupazione di suolo pubblico)”, il cui contenuto risulta con evidenza dal titolo stesso. La necessità di una netta distinzione tra il fenomeno fiscale, tutto risolto nella nascita (al verificarsi di fattispecie previste dalla legge) ed estinzione di obbligazioni pecuniarie, ed il più tipico e caratterizzante assetto negoziale costituito dallo scambio di prestazioni giuridicamente collegate, comporta però la fissazione di confini, ancor oggi oggetto di dubbi e contestazioni, fra l’area della fiscalità e quella di istituti, di grande rilevanza economica e sociale, ad essa contermini. Nel secondo dei volumi pubblicati dall’Antonini, intitolato “Studi di diritto tributario” (1959) e con presentazione di Allorio (per me di grande rilievo, perché in essa il tributo è qualificato “istituto giuridico”), è compreso uno scritto sulla natura giuridica del contributo INAIL. Il problema in concreto affrontato è quello dell’operatività anche per queste prestazioni del solve et re-


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pete, ma il presupposto di tutto lo sviluppo argomentativo è la negazione della natura tributaria di tali contributi. Il tema risulta oggi di grande attualità con riferimento ai contributi previdenziali, cui dottrina e giurisprudenza dominanti negano la natura di tributi, pur riconoscendo trattarsi di prestazioni imposte. L’argomento addotto risale sempre all’originaria natura “assicurativa” (quindi ai residui di struttura negoziale) del sistema di sicurezza sociale e ad esso è in qualche modo correlata anche la formula del “circuito solidaristico previdenziale” di recente utilizzata dalla Corte costituzionale. Per altro verso, gli istituti ricondotti all’area della fiscalità non possono, per Antonini, manifestare implicazioni strutturali con assetti tipicamente negoziali. Da qui l’esigenza di un più approfondito esame della disciplina di alcuni tributi per chiarirne l’estraneità ad ogni “ibridazione” con veri e propri contratti. Sempre negli Studi di diritto tributario si trova un saggio sui monopoli fiscali, dei quali è stata spesso contestata l’appartenenza alla categoria dei tributi. L’autore conferma la natura tributaria dei monopoli fiscali, ma si trova così nella necessità di individuare quello che ritiene imprescindibile elemento caratterizzante qualsiasi tributo, cioè un rapporto obbligatorio di esclusiva fonte legale. Egli deve quindi prendere in considerazione, della complessa vicenda del passaggio al consumo dei generi di monopolio, le fasi che precedono i passaggi ai rivenditori e da questi ai consumatori, che configurano contratti di scambio, e risalire al rapporto fra Stato ed Azienda dei monopoli, nella sua articolazione costituita dai “depositi” in cui vengono raccolti i generi di monopolio da trasferire poi a uffici e magazzini di vendita e quindi alle rivendite. È appunto ai “depositi” che Antonini ritiene faccia capo l’obbligazione legale costituente l’imposta (definita “di fabbricazione”) il cui gettito è iscritto nel bilancio dello stato. Il relativo importo verrebbe “recuperato” a carico dei consumatori (per traslazione; non si ipotizzano obbligazioni di rivalsa). Questa ricostruzione corrisponde sostanzialmente a quelle tuttora fornite dalla dottrina dominante in ordine alla struttura giuridica del tributo. Essa è evidentemente determinata dalla convinzione (fatta propria dalla maggior parte della dottrina) che un tributo non possa mai attuarsi nell’ambito degli effetti prodotti da un negozio giuridico in quanto tale. Non sembra aver molto seguito la diversa prospettazione, che ha riscontri nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale l’imposizione di prestazioni patrimoniali può avvenire anche tramite interventi autoritativi (artt. 1339, 1374 c.c.), idonei, integrando la disciplina civilistica, a conformare in parte gli effetti di contratti, che tali ri-


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mangono (ed in realtà la disciplina del monopolio fiscale determina la misura del concorso alle pubbliche spese stabilendo autoritativamente il prezzo della vendita del prodotto al consumatore). La tesi di fondo, strenuamente difesa dall’autore, che identifica necessariamente il tributo con un’autonoma obbligazione ex lege, non consentiva però altra soluzione; piuttosto, l’Antonini si preoccupa di giustificare la sussistenza dell’obbligazione tributaria relativa al monopolio fiscale sotto un diverso profilo: secondo la sua ricostruzione il rapporto obbligatorio si instaurerebbe fra lo Stato (all’epoca Ministero delle finanze) ed il “deposito”, organo dell’ Azienda dei monopoli, concepita come articolazione strutturale dello Stato stesso. Qui l’analisi poteva arrestarsi alla considerazione che vi sono altri esempi di applicazione di imposte erariali a carico di singoli organi dello stato (eventualmente nell’ottica di una distinta soggettivazione degli organi stessi); l’autore (forse tenendo presente che, nella sua ricostruzione, l’Azienda dei monopoli risultava essere l’unico soggetto passivo del tributo) preferisce invece fare ricorso allo schema logico del rapporto giuridico unisoggettivo. In altra occasione, lo stesso Antonini ha in verità criticato, nel noto articolo di Pugliatti sul tema, il riferimento alla sentenza della Cassazione che, in materia di imposta comunale di consumo sui materiali utilizzati per la costruzione di un fabbricato di proprietà dello stesso Comune, ha sancito la sussistenza del rapporto tributario sol perché, nel relativo contratto di appalto, l’appaltatore si era assunto l’onere dell’imposta. Anche nella suaccennata ricostruzione del tributo sui beni di monopolio il rapporto obbligatorio (che si assume unisoggettivo) avente ad oggetto il tributo sussisterebbe solo in funzione del successivo trasferimento al consumatore del relativo onere. Per differenziare i due casi si potrebbe sostenere che, nel monopolio fiscale, è la stessa legge, sia pur regolando la misura del prezzo al consumo, ad individuare il soggetto cui deve in definitiva far carico l’onere del tributo, ma ciò potrebbe riaprire il problema dei criteri per l’identificazione dei soggetti passivi dei tributi. 7. Nei suoi primi scritti l’Antonini delinea quindi una nozione di tributo che riprende e chiarifica le definizioni della risalente dottrina portandole al massimo livello di razionalità e coerenza, cosicché ancor oggi le sue conclusioni possono costituire termini di riferimento per l’identificazione delle categorie e dei principi generalmente richiamati dai cultori della materia. Ad un decennio dalla pubblicazione degli Studi, nel volume su “I regimi fiscali sostitutivi” (1969), egli si trova a riprendere il tema della definizione degli istituti fiscali come categorie giuridiche per interpretare formule legisla-


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tive che individuavano l’area di operatività dell’effetto “sostitutivo” di taluni di quei regimi. All’epoca la riforma tributaria degli anni settanta del secolo passato era ancora in via di elaborazione, il sistema tributario cui fa riferimento la monografia e buona parte dei regimi sostitutivi considerati erano notevolmente diversi da quelli attuali; l’approfondita analisi e l’inquadramento sistematico delle molteplici forme di imposizione sostitutiva forniscono comunque un contributo tuttora rilevante alla conoscenza di un fenomeno che la successiva evoluzione del sistema e dei singoli istituti ha reso sempre più imponente. Forse nell’evoluzione storica della disciplina dei tributi sostitutivi è ormai venuta meno proprio l’utilizzazione di termini riferibili a definizioni generali e classificazioni dei tributi, cui invece facevano spesso ricorso le leggi in vigore prima della riforma tributaria per individuare i tributi “sostituiti”. Si poneva dunque il problema di dare significato a termini come “tributi”, “imposte e tasse”, “imposte dirette”, “imposte indirette” ecc.. In quegli anni era emerso in dottrina un orientamento volto ad attribuire un maggior peso ai principi costituzionali nella teoria generale del diritto tributario ed, in particolare, a ricostruire, sulla base di tali principi, la nozione stessa di tributo. Antonini ha ben chiaro che tale impostazione, soprattutto laddove ricalca la definizione degli istituti della fiscalità sul dovere di concorrere alle pubbliche spese di cui all’art. 53, c. 1, cost., riduce la rilevanza dello schema logico – giuridico dell’obbligazione ex lege come forma necessaria del tributo. Egli critica dunque quella tesi (sostenuta da Micheli, ed anche da me) sulla base di un argomento ancor oggi condiviso in dottrina: se si desume la definizione del tributo dalla norma costituzionale, si rende impossibile la dichiarazione di incostituzionalità delle norme che violano la norma stessa; un’imposizione non correlata alla capacità contributiva di chi la subisce darebbe luogo ad un non tributo, dunque le norme che la prevedono non potrebbero essere dichiarate incostituzionali per contrasto con l’art. 53 cost.. Non è questo il luogo per una confutazione dell’argomento, in cui sembra evidente la confusione tra la parte della disposizione costituzionale che definisce la funzione fiscale ed i relativi istituti e quella ove si dispone che il concorso avvenga “in ragione della loro capacità contributiva”. Se si vuole, il principio di capacità contributiva trova nella prima parte l’indicazione della fattispecie, nella seconda la disciplina. D’altra parte, la stessa giurisprudenza costituzionale ha da ultimo avvertito l’esigenza di una definizione della categoria dei tributi, elaborando una formula, costantemente ripetuta nelle sentenze più recenti, che fa chiaramente riferimento agli artt. 23 e 53, c. 1,


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cost.. Anche i dubbi circa la possibilità di includere le tasse nella previsione dell’art. 53 cost., emersi in sentenze della Corte costituzionale in materia di tasse processuali risalenti ai primi anni sessanta del secolo passato, sembrano oggi superati nelle recenti sentenze in tema di contributo unificato. In realtà la posizione di Antonini, come anche di buona parte dei tributaristi italiani, sembra ancora influenzata dalla costruzione di un diritto delle (sole) imposte (che in Germania ha solide basi legislative), in cui ha peso determinante il tratto della coattività, nel diritto costituzionale italiano, a mio avviso, fortemente stemperata nella figura della prestazione imposta. Va però rilevato che, sul punto specifico dell’interpretazione delle disposizioni che delimitano l’area di operatività dei regimi sostitutivi, il nostro autore attenua notevolmente la rigidità delle sue assunzioni teoriche aderendo ad orientamenti che riconoscono la possibilità di attribuire, caso per caso, ed in funzione della ratio ispiratrice dei diversi istituti ed articolazioni disciplinari, significati diversi ai termini che designano l’area della fiscalità e le sue tradizionali ripartizioni. Si tratta di tesi anche attualmente sostenuta in dottrina, con applicazione proprio alle ipotesi di non congruenza fra la concezione di fondo della fiscalità accolta dai singoli autori ed il portato di singole norme o principi costituzionali. 8. Le osservazioni, necessariamente sommarie, esposte in questo intervento riguardano solo un limitato aspetto del contributo teorico ed anche una parte temporalmente ridotta dell’attività scientifica di Euclide Antonini. Gli ulteriori interventi potranno illuminare altri, e forse più rilevanti profili del suo apporto allo sviluppo del diritto tributario. Come ho già accennato, il mio intento era anche quello di fornire una testimonianza del mio incontro con quegli scritti, dell’influsso che, in termini di adesione o reazione, essi hanno esercitato su di un giovane ancora alle prime fasi del suo approccio alla materia. Più in generale spero di aver posto in luce, negli scritti in questione, la capacità di riformulare, in modo compiuto e razionale, i concetti fondamentali del diritto tributario, in buona parte già rinvenibili nell’elaborazione dei fondatori della materia, ma portati al massimo possibile livello di intrinseca coerenza e raffinati dal confronto con i contributi all’epoca più avanzati della teoria generale del diritto. La capacità di approfondimento e di chiarificazione razionale manifestate nell’affrontare i temi più disparati fanno si che ancor oggi gran parte delle conclusioni cui l’autore giungeva trovino accoglienza in dottrina. Ma anche se si intende porre in discussione qualche aspetto della costruzione teorica


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generalmente accolta è proprio dalle sue argomentazioni che occorre prendere le mosse, perché la “chiarificazione” dei concetti meglio evidenzia i principi e valori che in essi si esprimono, le eventuali intrinseche contraddizioni, l’esigenza di dare spazio ad ulteriori e diversi principi e valori. In conclusione, se è vero che oggi non sono frequenti i riferimenti ai contributi scientifici di Euclide Antonini, vi sono ottime ragioni per tornare a studiarli e diffonderne la conoscenza anche tra i più giovani cultori della materia.

Andrea Fedele


L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici Sommario: 1. Note introduttive. – 2. Il diritto tributario ed i rapporti con le altre

materie giuridiche: il superamento del risalente contrasto tra le tesi autonomistiche e quelle antiautonomistiche. – 3. Brevi cenni sulla relatività del concetto di autonomia delle materie giuridiche. – 4. Ulteriori precisazioni sul concetto di autonomia del diritto tributario. – 5. Cenni sulle tecniche di produzione legislativa e sulle regole dell’interpretazione. – 6. L’esperienza sull’utilizzo nel diritto tributario degli istituti appartenenti ad altre discipline giuridiche: note introduttive. – 6.1. Segue: l’autonomia dei valori, degli interessi e delle scelte del legislatore tributario rispetto alle soluzioni adottate negli altri settori del diritto. – 6.2. Segue: la recente esperienza legislativa orientata all’adozione di regole comuni alle altre materie giuridiche. – 7. Conclusioni.

L’autonomia del diritto tributario è un tema risalente che merita di essere aggiornato e rivalutato non solo per verificare lo stato della riflessione scientifica ma, soprattutto, per rifiutare con fermezza le ipotesi recenti di semplificazione dei settori scientifico-disciplinari. Dopo aver illustrato le indicazioni provenienti dal passato, l’autore si sofferma sul concetto di autonomia, evidenziando che esso andrebbe indirizzato non sul modo di intendere il rapporto con le altre materie giuridiche bensì sull’ampiezza e sulla configurazione dei principi generali che permeano ontologicamente il fenomeno tributario in quanto l’opinione dottrinale largamente maggioritaria ormai riconduce l’autonomia del diritto tributario al criterio ordinatore della materia espresso da propri ed autonomi principi sovraordinati, costituzionali e non, che lo rendono agevolmente distinguibile dalle altre materie giuridiche. Tale decisiva connotazione, tuttavia, non esclude la possibilità di combinare razionalmente aree giuridiche contigue – e, segnatamente, nozioni ed istituti che traggono origine da settori del diritto diversi – ed in questa prospettiva occorre coniugare razionalmente l’interesse pubblico all’acquisizione delle entrate con quello individuale alla tutela della rispettiva sfera patrimoniale ed al rispetto delle garanzie procedimentali. Su queste basi si fonda la relatività del concetto di autonomia e le inevitabili conseguenze sull’attività dell’interprete, in ragione della tecnica utilizzata di volta in volta dal legislatore nella formulazione della norma, anche perché il diritto tributario ha assunto nel tempo una connotazione più interdisciplinare al punto che l’esperienza recente conferma una varietà di assetti legisla-


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tivi ove possono prevalere indifferentemente le esperienze maturate negli altri settori del diritto oppure obbligano al loro adattamento – e, nei casi più estremi, alla loro integrale riformulazione – per assicurare il corretto esercizio della funzione impositiva. Essa, pertanto, conferma l’impossibilità di individuare un principio ordinatore assoluto sul rapporto tra il diritto tributario e gli istituti, le nozioni e le regole degli altri settori del diritto nonché un criterio di prevalenza univoco ai fini interpretativi. The autonomy of tax law is a dating issue that deserves to be updated and re-evaluated not only to verify the state of scientific reflection but, above all, to firmly reject the recent hypotheses of simplification of the scientific-disciplinary sector. After depicting the indications coming from the past, the author focuses on the concept of autonomy, highlighting that it should be addressed not on how to understand the relation with other areas of the law but on the breadth and configuration of the general principles that ontologically permeate the tax phenomenon. And this is due to the fact that the mainstreamdoctrinal opinion now brings the autonomy of tax law back to the underlying criterion of the law expressed by its own and autonomous superior constitutional and non-constitutional principles, which make it easily distinguishable from other areas of the law. This crucial feature, however, does not exclude the possibility of rationally combining contiguous areas of the law – and, in particular, notions and institutions that originate from different areas – and in this perspective it is necessary to rationally combine the public interest in acquiring revenues with the individual interest in protecting the respective patrimonial sphere and respecting the procedural guarantees. The relativity of the concept of autonomy and the inevitable consequences on the activity of the interpreter, by reason of the technique used from time to time by the legislator in the formulation of the rule is based on this principle. And this is also due to the fact that the tax law has taken on a more interdisciplinary connotation over time to the point that recent evidence confirms a variety of legislative frameworks where the experience gained in other areas of the law can prevail or require their adaptation - and, in the most extreme cases, to their complete reformulation - to ensure the correct exercise of tax function. Therefore, it confirms the impossibility of identifying an absolute underlying principle on the relation between tax law and institutions, notions and rules of the other areas of the law as well as an unambiguous prevalence criterion for interpretative purposes.

1. Note introduttive. – Anzitutto desidero ringraziare l’Università di Padova, il Dipartimento ospitante e, soprattutto, l’amico e collega Roberto Schiavolin per avermi invitato in una sede ed in una circostanza così prestigiose per discutere su un tema che ho avuto occasione di indagare nel passato e sul quale sono tornato volentieri per aggiornare le riflessioni. Peraltro, nonostante le numerose sfaccettature dell’autonomia del diritto tributario, è agevole cogliere dal programma del convegno una successione delle relazioni chiara e razionale e questa impostazione mi consente di limitare all’essenziale


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le precisazioni preliminari al fine di circoscrivere le considerazioni successive (1). Infatti, nell’esaminare il rapporto del diritto tributario rispetto agli istituti ed alle regole appartenenti agli altri settori dell’ordinamento anzitutto trascurerò le implicazioni provenienti dal diritto comunitario (vista anche la specifica sessione pomeridiana) e la complessa relazione tra le scienze giuridiche e quelle economiche (oggetto dell’intervento di Dario Stevanato); inoltre, poiché la sessione è circoscritta al diritto tributario sostanziale in senso stretto, indirizzerò le considerazione successive sull’insieme delle regole che individuano le manifestazioni di ricchezza da sottoporre a tassazione e che esprimono i criteri di riparto delle spese pubbliche e, dunque, sulle norme che dettano la disciplina dei presupposti, delle basi imponibili, dei soggetti passivi e delle aliquote dei tributi. Alla luce delle relazioni precedenti, quindi, l’unica vera precisazione di metodo impone di distinguere, in estrema sintesi, due profili di indagine principali (2). Il primo, sistematicamente sovraordinato, opera sul piano dei valori e dei principi ed in questa prospettiva è decisiva l’influenza dell’art. 53 della Costituzione perché si riflette sulla stessa nozione di tributo; in questa direzione mi limito a precisare che l’aspetto più delicato è riconducibile alla concezione privilegiata in ordine al complesso rapporto tra esercizio della funzione impositiva (o del potere secondo un’altra prospettiva) e garanzie del contribuente. Il secondo, invece, riguarda il sistema di diritto positivo e risente della tecnica di produzione legislativa utilizzata per disciplinare in ambito tributario fenomeni ed istituti di provenienza da altri settori dell’ordinamento e dai

(1) Per un’indagine orientata anche sulle indicazioni emerse nel corso del convegno cfr. S. Cipollina, Origini e prospettive dell’autonomia scientifica del diritto tributario, in Riv. dir. fin., 2018, I, 163, mentre un altro contributo recente è stato fornito, con la consueta limpidezza, da G. Falsitta, Per l’autonomia del diritto tributario, in Rass. Trib., 2019, 257, nel solco dei numerosi lavori precedenti (principalmente G. Falsitta, Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia, in Rass. Trib., 2000, 353, e Saggio dialettico sullo svolgimento della ricerca e sull’insegnamento del diritto tributario in Italia, in Riv. dir. trib., 2006, I, 1281). (2) A mio avviso, un profilo comune ai due piani di indagine riguarda le regole dell’interpretazione in quanto, sebbene traggano origine dal sistema di diritto positivo e dalla formulazione delle norme, è indiscussa l’influenza che esercitano i precetti costituzionali al fine di assicurare che i relativi principi o valori meritevoli di tutela siano adeguatamente riflessi e garantiti nei precetti di diritto positivo anche in forza dell’attività dell’interprete.


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quali potrebbe attingersi la disciplina applicabile oltre alla relativa esperienza giuridica (3). Su questo versante indirizzerò principalmente le considerazioni successive in quanto nella prima parte mi soffermerò sul risalente dibattito sul concetto di autonomia, se non altro perché le distinte declinazioni possono fornire indicazioni proficue anche sul piano metodologico; nella seconda parte, invece, attingerò dall’esperienza più recente per verificare, ove possibile, le possibili tendenze evolutive senza alcuna pretesa di completezza. Fatta questa doverosa premessa è possibile definire i termini essenziali della questione. Com’è noto, per individuare la fattispecie imponibile ed i suoi elementi costitutivi spesso il legislatore si avvale di termini, nozioni e regolamentazioni appartenenti ad altri settori dell’ordinamento, i quali sono concepiti per disciplinare assetti di interessi e soddisfare finalità diverse da quelle della nostra materia. Tale riferimento può risultare di diversa ampiezza in ragione della formulazione del testo legislativo, può escludere l’autosufficienza della norma tributaria e può implicare concetti diversi da quelli propri del settore in cui trovano una disciplina compiuta (4); in ogni caso, richiede valutazioni tra esperienze legislative ispirate a rationes non coincidenti. Il tema, quindi, comprende anche le modalità di produzione normativa dal momento che il legislatore tributario è libero di scegliere la soluzione più adeguata per perseguire finalità meritevoli di tutela; la varietà delle tecniche adottate dal legislatore può riflettersi sui criteri interpretativi in quanto soprattutto nel diritto tributario sostanziale è più avvertita l’esigenza di coniugare la ratio della singola norma con i principi generali che governano la nostra materia. Estremizzando per semplicità il discorso, ed a prescindere per adesso dalle soluzioni intermedie, in via di principio, potrebbero astrattamente privilegiarsi due impostazioni opposte e cioè:

(3) Sul tema, oltre alla dottrina che sarà richiamata in seguito, cfr. F. Bosello, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. e Prat. Trib., 1981, I, 1434. Sull’utilizzo delle qualificazioni civilistiche desumibili dalla materia dei contratti cfr. G. Tremonti, Autonomia contrattuale e normativa tributaria. Il problema dell’elusione tributaria, in Riv. dir. fin., 1986, I, 369, nonché, più recentemente, A. Carinci, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi, Padova, 2003. (4) Tra i tanti, cfr. G.A. Micheli - G. Tremonti, Obbligazioni (dir. trib.), in Enc. del dir., XXIX, Milano, 1979, 446, che sottolineano l’esistenza di “aree estese di regolamentazione normativa particolare, differenziata da quella comune”.


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a) orientare l’interpretazione nel diritto tributario sostanziale e nel diritto tributario nel suo complesso ai concetti ed ai principi delle altre materie giuridiche secondo il modello del collegamento intraistituzionale o interno (5), soprattutto in presenza di un “rinvio” nelle sue diverse configurazioni che richiamerò in seguito; in questa concezione spesso si invoca l’esigenza di preservare la certezza del diritto (6) e l’unità dell’ordinamento giuridico ed, inoltre, secondo coloro che hanno sviluppato questa prospettiva, tale collegamento sarebbe filtrato dalla necessità di riferirsi (non già al settore del diritto di riferimento bensì) al “diritto comune” non sempre di agevole individuazione (7); b) oppure rivendicare una sorta di autonomia ed indipendenza del diritto tributario in ragione di un complesso di principi propri ed esclusivi che lo rendono ontologicamente peculiare rispetto alle altre discipline giuridiche e che sono destinati a prevalere in ogni caso con il limite dovuto al principio di ragionevolezza. La preferenza nei confronti dell’uno o dell’altro modello determina conseguenze rilevanti rispetto ad altri temi contigui che non è possibile nemmeno enunciare in questa sede; mi limito a sottolinearne uno in coerenza con la riflessione promossa dall’Associazione che ha organizzato il convegno e, cioè, che la scelta, in realtà, può risolversi altresì in un metodo di indagine (nonché

(5) Su tale tecnica di produzione legislativa, tra i tanti, cfr. F. Bassi, La norma interna, Milano, 1963. Sulla concezione dell’ordinamento giuridico come sistema e sui relativi tratti qualificanti cfr. R. Guastini, Il diritto come linguaggio, Torino, 2006, 123, mentre sulla distinzione tra sistema “interno” ed “esterno” si veda N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1979, 182. (6) Sull’ampio e complesso tema della certezza del diritto, per tutti, cfr. AA. VV., La certezza del diritto, Milano, 1993; C. Luzzati, L’interprete e il legislatore. Saggio sulla certezza del diritto, Milano, 1999, nonché, più recentemente, P. Grossi, Sull’odierna “incertezza” del diritto, in Giust. Civ., 2014, 921. (7) Nel passato tale concezione è stata sostenuta da E. Vanoni, L’unità del diritto ed il valore del diritto per il diritto tributario degli istituti giuridici di altri campi, in Opere Giuridiche, I, Milano, 1961, 252; Id., Natura ed interpretazione delle norme tributarie, ivi, 141, sulla base della nota premessa sul “fatto della vita” dal quale traggono origine gli istituti elaborati nei diversi settori del diritto; essa ha portato a concludere che all’identità terminologica dovesse conseguire anche l’identità concettuale trattandosi “di concetti che appartengono al patrimonio comune del diritto e che per ragioni storiche sono stati formulati in precedenza facendo riferimento alle necessità del diritto privato o dei diversi campi del diritto”. Per una indagine successiva, ricca di riferimenti dottrinali, cfr. M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 148 e 238.


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di insegnamento) che riguarda indistintamente tutti gli ambiti del sapere giuridico con inevitabili effetti sulla qualità della formazione del giurista. Pertanto, in una fase governata dalla tendenza a valutare la ricerca sulla base di standards quantitativi comuni (a scapito di quelli settoriali e qualitativi), già solo questo profilo consente di cogliere l’utilità della perdurante riflessione sull’autonomia del diritto tributario in quanto non esprime solo un indice di vivacità del dibattito al nostro interno e di verifica del progresso della riflessione scientifica ma è essenziale in prospettiva futura soprattutto alla luce della “ventilata possibilità che il diritto tributario perda la sua autonomia di autonomo settore dell’ordinamento giuridico e ritorni, per così dire, a confluire nel campo e nei settori giuridici di carattere amministrativistico” (8). 2. Il diritto tributario ed i rapporti con le altre materie giuridiche: il superamento del risalente contrasto tra le tesi autonomistiche e quelle antiautonomistiche. – Com’è noto, l’utilizzo degli istituti e delle nozioni appartenenti ad altri settori dell’ordinamento ai fini della specificazione della fattispecie imponibile è un tema di origine risalente ed imporrebbe una ricostruzione compiuta in termini storici. Per esigenze di tempo mi limiterò all’essenziale ed in questa prospettiva, per grandi linee, è possibile distinguere tre fasi (9). Superate le tesi più datate che consideravano le norme tributarie espressione di un potere sovrano non soggetto a limitazioni al punto che l’autonomia, nella formulazione più estrema, si risolveva in un criterio ordinatore dell’attività legislativa (10), i primi tentativi orientati ad una visione indipendente del diritto tributario sono riconducibili al rifiuto dei condizionamenti dovuti ad assunzioni metagiuridiche (principalmente economiche) a vantaggio del cosiddetto “metodo giuridico” sostenuto dalla dottrina tedesca (11). In questa

(8) Su questo versante si vedano le acute e condivisibili indicazioni di G. Falsitta, Per l’autonomia del diritto tributario, cit., 257. (9) Per una indagine approfondita in questa direzione, tra i saggi recenti, cfr. S. Cipollina, Origini e prospettive dell’autonomia scientifica del diritto tributario, cit., 163. (10) Per un sintesi compiuta cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, in Riv. dir. fin., 1941, 97. (11) Sull’accentuazione del processo di autonomizzazione della nostra materia per effetto dell’affermazione del cosiddetto “metodo giuridico” cfr. P. Boria, Sistema tributario, in Dig. IV, Sez. Comm., XIV, Torino, 1997, 61, ove ulteriori riferimenti dottrinali. In generale, sulla esigenza di esaminare il sistema normativo senza subire i condizionamenti dovuti alle nozioni economiche si veda G. Santoro Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1942, I, 378, che evidenzia “se il metodo dell’economia suppone nel giurista,


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prima fase, tuttavia, trattandosi di una scienza in via di sviluppo, l’assenza di un tessuto normativo compiuto non agevolava l’individuazione e l’elaborazione di principi generali autonomi, sicché il riferimento più ricorrente era alle categorie civilistiche in quanto il diritto comune era notevolmente influenzato dal diritto privato essendo il settore con maggiore tradizione giuridica dal quale era fisiologico attingere i modelli e gli schemi da porre alla base del fenomeno impositivo (12). Il superamento di tali impostazioni è dovuto principalmente all’evoluzione del sistema normativo, all’approvazione della carta costituzionale, al contributo della giurisprudenza ed alla elaborazione dottrinale in quanto hanno favorito l’individuazione di principi generali seppur riferiti a singoli tributi (13). In particolare, in dottrina si è affermata la prospettiva che ha anteposto il dato di diritto positivo a qualsiasi elemento metagiuridico ed ha esteso

instauratore ed interprete del diritto, la conoscenza dei fenomeni economici e delle leggi cui obbediscono, non è da credere che nozioni economiche possano passare nella disciplina e nel linguaggio del diritto senza quelle determinazioni, e, occorrendo, quelle trasformazioni, soltanto grazie alle quali è possibile che la forma giuridica corrisponda alla sostanza economica”. Infine, per un’indagine orientata sull’ordinamento tedesco cfr. L. Osterloh, Il diritto tributario ed il diritto privato, in A. Amatucci, diretto da, Tratt. di dir. trib., I, 1, Padova, 1994, 113. (12) In questi termini si veda M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, cit., 101, ove si legge “lo studio del diritto tributario è assurto assai tardi – da mezzo secolo – a dignità scientifica, costituendo per l’innanzi un insieme di conoscenze slegate ed eterogenee, non riunibili in quel minimo di sistema occorrente perché si possa parlare di scienza del diritto”. Peraltro, la dipendenza dal diritto civile ha caratterizzato anche le discipline pubblicistiche ed, in particolare, il diritto amministrativo come ben evidenziato da G. Morbidelli, Il diritto amministrativo tra particolarismo e universalismo, Napoli, 2012, 16; A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1966, 58. (13) Per una sintesi esaustiva delle diverse fasi che hanno caratterizzato il dibattito sull’autonomia del diritto tributario cfr. A. Fantozzi, Diritto tributario, II Ed., Torino, 1998, 10.


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gli schemi di riferimento ad altre materie giuridiche (principalmente il diritto amministrativo (14) ed il diritto processuale (15)) oltre al diritto privato (16). Il periodo successivo è stato probabilmente quello più ricco di progressi in quanto l’autonomia del diritto tributario ha assunto diverse configurazioni nei rapporti con le altre materie giuridiche (17) in contrapposizione alle tesi orientate ad apprezzare il contenuto economico del rapporto (18). In partico-

(14) La collocazione del diritto tributario nell’ambito del diritto amministrativo è da tempo l’impostazione prevalente in dottrina; tra i tanti, cfr. A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 2; le numerose opere di G.A. Micheli e tra esse Corso di diritto tributario, VIII Ed., Torino, 1989, 38, nonché i riferimenti di A. Fedele, Diritto tributario ed evoluzione del pensiero giuridico, in Studi in memoria di Gian Antonio Micheli, Napoli, 2000, 16; A. Berliri, Principi di diritto tributario, I, Milano, 1967, 5; L. Rastello, Diritto tributario. Principi generali, III Ediz., Padova, 1987, 68 e 71. (15) Su questo versante sono fondamentali le opere di Allorio (a partire da Diritto processuale tributario, Torino, 1969) e di Capaccioli (l’esigenza di assumere come riferimento costante i principi costituzionali è una pietra miliare dell’impostazione del Maestro ed in questo senso un’opera fondamentale è Diritto e processo, saggi vari di diritto pubblico, Padova, 1978). Successivamente, tra i tanti, cfr. P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, 95. (16) Per conferma cfr. A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 10, che evidenzia “il problema della prospettazione dell’autonomia … si risolve nel superamento di ogni contrapposizione tra la necessità di integrazione interdisciplinare di un dato normativo che si riferisce alle più varie esperienze della vita e rifiuto di ogni processo conoscitivo fondato su assunzione diverse da quelle giuridiche”; in senso analogo, inoltre, si vedano i saggi di Pugliatti richiamati da G. Falsitta, Saggio dialettico sullo svolgimento della ricerca, cit., 1334, ove si legge “con grande finezza argomentativa il “civilistica” Pugliatti respinge ogni apriorismo civilistico e la semplice suggestione della prevalenza della regolamentazione racchiusa nel codice civile”. (17) Tra i tanti autori favorevoli all’impostazione “autonomista”, indirizzata cioè ad apprezzare le finalità del diritto tributario in sede di interpretazione delle norme fiscali, cfr. E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, cit., 135, ove si legge “l’affermazione del diritto finanziario come indipendente porta con sé l’affermazione dell’indipendenza, rispetto agli altri campi del diritto pubblici, del diritto tributario” e che “conseguenza dell’indipendenza del diritto finanziario, e, quindi, del diritto tributario, è l’indipendenza della norma tributaria rispetto alle altre norme giuridiche”; Id., Unità del diritto ed il valore per il diritto tributario degli istituti giuridici in altri campi, cit., 437; in senso raffinato ma decisamente contrario, invece, si veda L.V. Berliri, Interpretazione e integrazione delle leggi tributarie, in Riv. dir. fin., 1942, II, 16, la cui critica suscitò una replica puntigliosa ed immediata da parte del futuro ministro. In epoca successiva, per una impostazione meno rigida, tra i tanti, si consulti principalmente E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: questioni costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, I, 145. (18) È la nota tesi sincretica (o autonomistica) della Scuola di Pavia, autorevolmente sostenuta principalmente da B. Griziotti, Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della legge di registro, in Riv. dir. fin., 1939, II, 202; Id., Il teorema della prevalente natura economica degli atti oggetto delle imposte di registro, ivi, 1941, II, 93, e da Vanoni nelle opere


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lare, inizialmente l’autonomia è stata rivendicata come “specialità” del diritto tributario ed in questa prospettiva è stata declinata secondo due significati diversi ovvero: a) come particolare connotazione dei poteri che assistono la funzione impositiva, rendendola peculiare anche rispetto ad altre attività pubblicistiche aventi comunque ad oggetto il denaro pubblico; b) oppure come esigenza di rielaborare i risultati raggiunti nell’esperienza giuridica allorquando il diritto tributario utilizza istituti disciplinati da altre materie; in questi termini l’aggettivo “tributario” è stato spesso abbinato all’istituto di volta in volta richiamato per sottolineare la possibile deformazione del significato desumibile dal settore di origine dovuta appunto alla “specialità” della nostra materia (19). In un secondo momento, invece, è stato rivendicato il “particolarismo” di origine francese (20), il quale determinava implicazioni analoghe nonostante la differenza sul piano concettuale perché la specialità esprime un’incompatibilità totale mentre il particolarismo indica una divergenza parziale che non esclude l’integrazione in forza delle regole e dei principi del settore di provenienza (21). Tuttavia, anche queste due impostazioni possono considerarsi superate e con esse: a) la risalente nozione di potere tributario inteso come espressione della “sovranità dello Stato”, della supremazia pubblica e della prevalenza della “ragion fiscale”. Tramite tale concezione, infatti, una parte della dottrina e della giurisprudenza giustificava la “specialità” del diritto tributario e la prevalenza dell’interesse fiscale ma da tempo sono stati evidenziati i limiti dovuti all’accoglimento di una nozione ampia di “potere fiscale” e

richiamate alla nota precedente. (19) Per conferma si veda A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 12, che evidenzia come tale prospettiva “configuri il diritto tributario come un pendolo che oscilla tra esigenza di giustizia, espressa dal principio costituzionale di capacità contributiva, ed esigenza di controllo, espressa da tutte le norme che deformano il primo principio in favore dell’interesse del fisco”. (20) La formula è generalmente attribuita a F. Geny, Le particularisme du droit fiscal, in Revue trimestrielle de droit civil, 1931, 797, ma è stata ripresa in seguito da M. D’amelio, L’autonomia dei diritti – in particolare del diritto finanziario – nell’unità del diritto, in Riv. dir. fin., 1941, I, 11. (21) In termini conformi si veda A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 8.


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la necessità di distinguere la potestà normativa tributaria dal potere amministrativo di imposizione (22); b) la tesi che ravvisava la natura eccezionale o speciale delle norme tributarie e la necessità di adottare criteri interpretativi diversi da quelli applicati in via ordinaria (23). Superata la fase della specialità e del particolarismo, il dibattito dottrinale che si è sviluppato nei decenni successivi non è stato privo di conseguenze teoriche, anche nella lodevole prospettiva di orientare la produzione legislativa futura, ma la crescente complessità del sistema di diritto positivo ha favorito l’abbandono di molte divergenze del passato anche perché nel corso tempo non sembra che abbiano prevalso le impostazioni pubblicistiche o privatistiche: si è così sviluppata una materia che è ricca di formule normative che depongono in un senso o nell’altro, rendendo oggettivamente difficile il tentativo di individuare un elemento di sintesi oppure un criterio gerarchico di prevalenza ai fini interpretativi (24). In particolare, pare che i risultati raggiunti dalla riflessione scientifica consentano di indirizzare il dibattito sull’autonomia del diritto tributario non sul modo di intendere il rapporto con le altre materie giuridiche bensì sull’ampiezza e sulla configurazione dei principi generali che permeano ontologi-

(22) Su questo profilo, per tutti, cfr. A. Fedele, Diritto tributario ed evoluzione del pensiero giuridico, in AA. VV., Studi in memoria di Gian Antonio Micheli, Napoli, 2010, 11, che evidenzia il “merito indiscusso di Micheli l’aver dissolto … una nozione indifferenziata di “potere tributario”, come giustificazione e criterio fondante della “specialità” del diritto tributario, risolta essenzialmente in prevalenza dell’“interesse fiscale” (si veda, tra i tanti, G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà d’imposizione, in Riv. dir. fin., 1964, I, 3); L. Rastello, Diritto tributario, cit., 70, che ha evidenziato “non esiste una caratterizzazione specifica del potere finanziario, quale elemento di distinzione degli altri poteri dello Stato nei confronti di coloro che sono soggetti alla sua potestà d’impero”. (23) In senso contrario alla natura eccezionale (o speciale) delle leggi tributarie cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, cit., 122, e l’ulteriore dottrina citata alla nota 1 di pag. 124. Inoltre, è maturata una tendenziale convergenza di posizioni sulla inesistenza di regole ermeneutiche particolari nella nostra materia. Tra i tanti, cfr. E. Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, cit., 128; M. Trimeloni, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 1979; A. Amatucci, L’interpretazione della legge tributaria, in A. Amatucci, a cura di, Trattato di dir. trib., I, t. II, Padova, 1994, 547. (24) Tra gli autori che nel passato hanno negato l’autonomia del diritto tributario, si veda A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, in Riv. dir. fin., 1940, I, 57; Id., I concetti fondamentali del diritto tributario, cit., 16; A. Berliri, Principi di diritto tributario, I, cit., 5; G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino 1979, 40; C. Bafile, Introduzione al diritto tributario, Padova, 1978.


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camente il fenomeno tributario nella prospettiva di assicurare una razionale composizione dell’interesse pubblico all’acquisizione delle entrate con quello individuale alla tutela della rispettiva sfera patrimoniale (25); per questa ragione, anche nelle elaborazioni più recenti, è ricorrente la rivendicazione dell’autonomia del diritto tributario – nel senso di criterio ordinatore della materia sulla base di propri ed autonomi principi sovraordinati, che lo rendono agevolmente distinguibile dalle altre scienze giuridiche (26) – ma, al tempo stesso, non si esclude la possibilità di combinare razionalmente aree contigue e, segnatamente, nozioni ed istituti che traggono origine da settori del diritto diversi (27). Su queste basi si può dunque riconoscere al diritto tributario una propria collocazione nell’ordinamento giuridico in quanto il processo di autonomizzazione dalle altre discipline è da tempo compiutamente realizzato, nonostante qualche difficoltà nel tentativo di affermare una prospettiva unitaria sulla considerazione dei singoli principi caratterizzanti il diritto tributario (28) per

(25) Sulla necessità di connotare il diritto tributario in base ad un nucleo di principi e di concetti compresi in un disegno sistematico di razionalità cfr. M. Trimeloni, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 115; M. Ingrosso, Diritto, sistema e giustizia tributaria, in Rass. Trib., 1990, 183. (26) Sulla controversa nozione di “scienza giuridica” e sulle principali teorie che indicano i diversi modi di intendere la categoria, per tutti, si veda R. Guastini, Il diritto come linguaggio, Torino, 2006, 209. Sull’“unitarietà del diritto come scienza sociale delle varie funzioni istituzionali”, invece, cfr. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, 5, che specifica “Come scienza sociale delle istituzioni il diritto è unitario, mentre sono le specializzazioni tecniche a dividerlo in comparti” (p. 7). (27) Tra i tanti, cfr. A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 8, ove si legge “nella successiva elaborazione si giunge all’affermazione dell’autonomia del diritto tributario, fondata sulla sussistenza di specifici principi cui si ispira tutta la disciplina del fenomeno fiscale e che, al tempo stesso, consentono la composizione e la combinazione fra nozioni ed istituti di natura ed origine diversa” ed in precedenza G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1970, 8, che ha evidenziato “il carattere strumentale della norma tributaria si manifesta proprio nella esigenza che le è connaturata di dover fare di frequente riferimento a fatti od atti, già disciplinati dal diritto, talché la regola di diritto tributario deve essere coordinata con quella che è classificata in altri rami del diritto”. In senso analogo, inoltre, tra i tanti cfr. P. Russo, L’obbligazione tributaria, in A. Amatucci, diretto da, Tratt. di dir. trib., II, Padova, 1994, 3. (28) Ad esempio, G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, cit., 6, evidenzia che “la ricostruzione di un sistema delle norme tributarie si prospetta estremamente difficile, per la difficoltà di individuare dei principi generali, validi per il diritto tributario e talora divergenti da quelli vigenti in altri campi dell’ordinamento positivo … Queste difficoltà sono, in pratica, destinate ad accrescersi, anche per la mancanza di un corpo organico di leggi tributarie o quantomeno di norme generali valide, almeno per un certo numero di tributi”.


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soddisfare l’esigenza di individuare di volta in volta una composizione razionale tra l’interesse generale all’esercizio della funzione impositiva, dalla spiccata connotazione autoritativa, e la giustizia distributiva ovvero, se si preferisce, sul rapporto tra “ragion fiscale” e l’interesse individuale. A questi fini è generalmente riconosciuta la funzione di riequilibrio assicurata dalle garanzie costituzionali (ad esempio, l’uguaglianza tributaria, la certezza e la razionalità dell’imposizione) anche se in qualche caso possono riscontrarsi divergenze sulla loro specificazione, sull’ampiezza e sul relativo giudizio di valore in ragione della concezione privilegiata in merito al principio di capacità contributiva. Queste brevissime note, quindi, potrebbero rivelarsi sufficienti per escludere la prospettiva che rifiuta pregiudizialmente l’applicazione nella nostra materia delle regole e delle nozioni delle altre scienze giuridiche, dovendosi piuttosto valutare analiticamente le singole proposizioni normative per individuare la gerarchia dei valori e degli interessi tutelati allo scopo di individuare la disciplina applicabile in concreto (29). Ma prima di procedere oltre è proficuo riservare qualche breve considerazione al concetto di autonomia quantomeno per precisare in che termini dovrebbe essere intesa. 3. Brevi cenni sulla relatività del concetto di autonomia delle materie giuridiche. – Per definire il concetto di autonomia sono stati utilizzati numerosi aggettivi per sottolineare una connotazione particolare della nostra materia, che, ad esempio, è stata considerata eccezionale, particolare (30), strumen-

(29) Sulla libertà del legislatore di utilizzare “istituti giuridici elaborati rispetto a norme di diverse branche giuridiche, ma considerando la realtà economica che ne costituisce il sostrato e che può andare anche al di là delle forme giuridiche che il fatto rilevante ha assunto nel mondo del diritto, ad effetti diversi da quelli tributari” si veda il chiaro indirizzo di G.A. Micheli, Diritto tributario e diritto finanziario, in Enc. del dir., Milano, XII, 1964, 1125, mentre sui rischi connessi al criterio che tende ad individuare il significato degli enunciati normativi a seguito della selezione dei “valori” meritevoli di tutela e del grado di protezione riconosciuto dall’ordinamento cfr. L. Perfetti, Interpretazione costituzionale e costituzionalità dei valori nell’interpretazione, in Jus, 1993, 171; S. Basile, “Valori superiori”, principi costituzionali fondamentali ed esigenze primarie, in Giur. Cost., 1993, 2201. (30) Si veda E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1991, XIV.


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tale (31), un settore del diritto derivato o di secondo grado (32), connotato da elementi intrinseci ed estrinseci ed è stata persino evidenziata la relativa autonomia scientifica in contrapposizione a quella assoluta del diritto finanziario (33). Tuttavia, non può essere trascurato che nel passato è stata negata la possibilità di ravvisare elementi di autonomia in senso stretto nel mondo del diritto (34), trattandosi di un concetto declinabile con varie modalità al quale si rischia di attribuire “una miracolosa efficacia risolutiva delle più varie questioni, impedendone l’analisi concreta ed approfondita” (35). Se non si intende incorrere nell’eccessiva genericità, quindi, è evidente che la considerazione del diritto tributario come disciplina autonoma risente del significato che si attribuisce a tale concetto ed, attingendo dall’esperienza precedente, a me pare che, in prima analisi, è possibile rivendicare l’autonomia del diritto tributario almeno sotto un duplice profilo. In primo luogo, come scienza giuridica sul piano della didattica e delle opere dichiaratamente indirizzate a tali scopi (36) ed, anzi, nel solco della

(31) Per conferma cfr. G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, cit., 8, ma il carattere della strumentalità è stato richiamato anche da A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 10, per descrivere il significato polisenso che ha assunto nella nostra materia e per sottolineare che non si tratta di un connotato esclusivo del diritto tributario. (32) Ad esempio, cfr. E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: questioni costituzionali, cit., 146; L. Paladin, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Riv. dir. trib., 1997, I, 314. (33) Per conferma si veda A. Amatucci, La questione metodologica tra teorie vecchie e nuove e l’autonomia scientifica del diritto tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2005, I, 285. (34) Principalmente da M.S. Giannini, Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. del dir., IV, Milano, 1959, 356, che ha sottolineato come il termine autonomia “esprime qualcosa che è definibile più che per caratteri propri, per la negazione di tratti che contengono l’idea di un limite o di un vincolo: quindi non tanto la indipendenza, quanto la non dipendenza; non l’autodeterminazione ma la eterodeterminazione; non la libertà, ma la soggezione; non l’originarietà, ma la non derivazione; non la suità, ma la non implicazione; e così via”. (35) Si tratta dell’opinione di A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, cit., 57, che richiamava i rischi evidenziati dal Geny seppur nella prospettiva del particolarismo ritenuta ugualmente imprecisa al pari dell’autonomia (retro alla nota 20); L. Rastello, Diritto tributario. Principi generali, III Ed., Padova, 1987, 65, ove si legge “non si può parlare di autonomia di un ramo del diritto se prima non si stabilisce che cosa si intenda con tale termine, dato che, tra l’altro, nel mondo del diritto il termine autonomia non ha lo stesso significato lessicale d’indipendenza, cioè, di separazione netta, assoluta”. (36) Sulla nascita del diritto tributario come materia di insegnamento autonoma rispetto alle altre discipline giuridiche ed economiche, per tutti, si veda G. Falsitta, Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia, in Rass. Trib., 2000, 353, ove


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progressiva specializzazione dei saperi giuridici, è agevole riscontrare una proliferazione degli insegnamenti universitari riguardanti settori particolari della materia, i quali favoriscono l’individuazione di sub materie autonome soprattutto per gli aspetti comunitari ed internazionali. Questo aspetto, tuttavia, non può essere sopravvalutato per evitare che “suddetta qualificazione valga ad imprimere al diritto tributario una caratteristica intrinseca, uno specifico connotato, che si riscontri in esso a differenza che negli altri rami del diritto” (37). Invece, ricca di implicazioni teoriche e di effetti concreti è una seconda prospettiva che consente di ricondurre l’autonomia del diritto tributario alla possibilità di considerarla una scienza giuridica ontologicamente assistita da propri principi che possono anche prevalere rispetto a quelli degli altri settori del diritto o dello ius comune secondo la nota tesi di Allorio (38); essi sono individuabili principalmente (ma non solo) nei principi costituzionali e nei Trattati europei, essendo quelli più adeguati e qualificati per contemperare l’interesse generale della collettività con quelli individuali di ciascun consociato. Questo modo di intendere il concetto di autonomia influenza il rapporto tra il diritto tributario e le altre scienze giuridiche perché impone di stabilire una gerarchia di valori ai fini della definizione della fattispecie imponibile e nella stessa direzione mi accingo ad aggiungere qualche considerazione con la prudenza che s’impone ogniqualvolta si affrontano temi di antica tradizione. In primo luogo, è un dato assodato che uno degli elementi più qualificanti del diritto tributario è la sua ampiezza e la sua spiccata interdisciplinarietà (o trasversalità) in quanto il legislatore tributario tende ad utilizzare gli istituti aventi una precisa dimensione giuridica come schemi di riferimento per disciplinare gli interessi perseguiti dalla legge fiscale con maggior frequenza ri-

ulteriori riferimenti ai saggi di D’Amati ed Amatucci, nonché, più recentemente, S. Cipollina, Origini e prospettive dell’autonomia scientifica del diritto tributario, cit., 163, per la letteratura destinata alla formazione universitaria. (37) Anche in questo caso si tratta del pensiero di A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, cit., 59, che identifica questo profilo con “la più esatta classificazione (del diritto tributario) nel quadro delle scienze giuridiche”, ritenendo che l’autonomia del diritto tributario si atteggi negli stessi termini di qualsiasi altra disciplina giuridica e possa ricondursi, in termini relativi, alla possibilità di distinguerlo dal diritto amministrativo. (38) Per conferma si veda E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 42.


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spetto al passato (39). Tale interdisciplinarietà attraversa l’intero ordinamento tributario – perché comprende sia l’esercizio di funzioni e dei poteri necessari per il funzionamento dello Stato in una prospettiva moderna e più orientata alla partecipazione del privato ed alla parità delle parti (40), che i rapporti di natura privatistica soprattutto se funzionali al corretto esercizio della funzione impositiva – ed implica l’osmosi e la coesistenza di un assetto autoritativo con un complesso di rapporti e di vicende che nel diritto tributario possono assumere rilievo negli stessi termini con i quali soddisfano altri interessi meritevoli di tutela (41). Se dunque il diritto tributario non è una materia autosufficiente – nel senso che attinge alle altre esperienze giuridiche e si sovrappone a fenomeni già disciplinati nell’ordinamento (42) – il carattere dell’autonomia opera essenzialmente sulle regole dell’interpretazione – come ormai evidenziato dalla quasi generalità della dottrina a prescindere dalla concezione preferita sulla sua ampiezza – in quanto tali criteri, in prima analisi, devono attuare il complesso di principi propri ed esclusivi del diritto tributario che sono alla base del fenomeno impositivo sostanziale (43) ma, come già ho avuto occasione di rilevare

(39) Tale aspetto è ben evidenziato da S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, 14. (40) In questo senso, ad esempio, si veda l’evoluzione intervenuta nel diritto amministrativo limpidamente descritta da G. Morbidelli, Il diritto amministrativo tra particolarismo ed universalismo, Napoli, 2012, 22. (41) Per conferma si veda G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, cit., 8, che sottolinea come il principale carattere della norma tributaria “si manifesta proprio nella esigenza che le è connaturata di dover fare di frequente riferimento a fatti od atti, già disciplinati dal diritto, talché la regola di diritto tributario deve essere coordinata con quella che è classificata in altri rami del diritto”; E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., XV, che evidenzia “La particolarità del diritto tributario non sta in una sua odiosa irrazionalità, ma nella predisposizione di regole e istituti funzionali al suo scopo che non consiste nell’imporre comunque le somme da pagare, ma nel fare in modo che tali somme pervengano, secondo criteri sostanziali e formali stabiliti dalla legge, nelle casse dello Stato perché possa far fronte alle sue esigenze di bilancio”. (42) Conforme G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 154. (43) Tale conclusione è ricorrente nella nostra materia ma, in termini più generali, si veda U. Breccia, Discorsi sul diritto, Pisa, 2019, 267, che evidenzia “Le branche del diritto … presuppongono un’analisi separata soprattutto quando sia dato ravvisare un’autonomia reciproca la quale sia fondata in maniera nitida sulla presenza di principi qualificanti di contenuto difforme. … L’autonomo rilievo delle singole partizioni del diritto è tanto più evidente quanto più i principi di ciascun settore siano espressi testualmente al vertice costituzionale <rigido> dell’ordinamento o comunque per il tramite di quelle disposizioni che – sebbene siano comprese nella cornice di una regolamentazione delle linee fondamentali del diritto in


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nel passato (44), il riferimento ad una categoria giuridica estranea alla nostra materia obbliga ad una ponderazione di valori tra l’assetto degli interessi tutelati dal diritto tributario e quello delle altre discipline anche in ragione della tecnica legislativa utilizzata caso per caso (45). Diversamente, ove si prospetti una prevalenza in astratto dell’una o dell’altra categoria di interessi, si rischia di incorrere in una semplificazione eccessiva in quanto la certezza del diritto e l’unità dell’ordinamento (46) sono valori meritevoli di tutela che impongono di riferirsi alle altre esperienze giuridiche in assenza di un fenomeno di polisemia e sempre che non sia ravvisabile un’alterazione irrazionale dei concetti (47).

generale – chiaramente sono ascrivibili, in maniera univoca, a un ramo intero del diritto ”. (44) Sia consentito di rinviare principalmente ai nostri Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 244, e L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2008, 287. (45) Per un’impostazione analoga, in precedenza cfr. A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, cit., 64, ove si legge che la questione dell’utilizzo degli istituti e dei termini appartenenti ad altre materia giuridiche “è un problema che non può essere risolto con un criterio unico, dovendosi di volta in volta penetrare, con i sussidi dell’interpretazione giuridica, il contenuto delle varie norme tributarie; tanto meno, poi, può essere risolto col criterio della maggiore o minore autonomia del diritto tributario, che si risolve … in una espressione equivoca e perturbatrice”; G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, cit., 7, che rileva “quanto precede, conferma il carattere alquanto eterogeneo della materia disciplinata dal diritto tributario, e come debba procedersi cautamente nel costruire e generalizzare principi, validi rispetto a tutti i momenti dell’attività impositiva. Occorre invece distinguere, a seconda del contenuto della norma, definendo la posizione della norma tributaria, rispetto alla norma comune, la quale può infatti già disciplinare una data situazione ad altri effetti, per tutelare un interesse nei riguardi di altri interessi”; A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 185, che distingue nettamente la questione dell’autonomia del diritto tributario dal rapporto con gli istituti delle altre materie giuridiche. (46) Cfr. A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, I, 911. Sulla necessità che le differenze tra i settori giuridici siano ricondotte ad un principio costituzionale per preservare l’unità del sistema cfr. G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 149; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, 94 e 96, ove si legge “la separazione tra diversi rami del diritto non deve far dimenticare la sostanziale unità che lega i rami stessi, in virtù della comune appartenenza ad uno stesso ordinamento. … Ogni ordinamento giuridico, ed in particolare dello Stato, non risulta da un accozzamento di parti giustapposte, ma costituisce invece un organismo in cui ognuna di questa deve armonizzarsi e fondersi con le altre, così da giungere alla formazione di un sistema in sé coerente”. Tra gli studiosi della nostra materia una posizione decisamente favorevole all’unità del diritto è stata di recente sostenuta da A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014. (47) Questa eventualità è ben sottolineata da F. Bosello, La fiscalità fra crisi del sistema e crisi del diritto, in Riv. dir. trib., 1998, I, 1083.


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4. Ulteriori precisazioni sul concetto di autonomia del diritto tributario. – Se il tratto più qualificante dell’autonomia del diritto tributario sostanziale è riconducibile al complesso di principi propri ed esclusivi della nostra materia, è possibile approfondire ulteriormente il discorso. Infatti, l’individuazione dei fatti indice di capacità contributiva, dei soggetti passivi dei tributi ed il criterio ordinatore della misura del concorso alle spese pubbliche devono essere essenzialmente conformi all’art. 53 della Cost. in quanto l’esercizio della funzione impositiva non può essere in alcun modo subordinato ai valori tutelati negli altri settori del diritto. Il sistema dei valori derivanti dai principi costituzionali (ma non solo) e la conseguente idoneità a condizionare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva, tuttavia, non consentono di ravvisare un tratto generalizzato di autonomia in senso stretto se non nei limiti (relativi) che ho evidenziato in precedenza. Tale prospettiva, infatti, si risolve nell’affermazione di una indimostrata prevalenza assoluta delle regole della nostra materia rispetto alla esperienza degli altri settori dell’ordinamento, con il rischio di compromettere il delicato rapporto tra autorità e libertà, ed in questo senso nel passato spesso è stato richiamato l’interesse fiscale (48). Ma, anche a prescindere dal suo significato polisenso e dalle possibili declinazioni – che possono addirittura deporre in senso opposto se è costituzionalmente orientato a garantire la parità di trattamento degli interessi dei contribuenti – l’esperienza concreta non consente di elevarlo a fondamento costituzionale assoluto, idoneo a giustificare il particolarismo della nostra materia, in quanto la sua potenziale attitudine espansiva trova un limite invalicabile nel principio della ragionevolezza e della razionalità dell’imposizione nel solco di una equilibrata ponderazione tra interessi di diversa natura (49).

(48) Al riguardo, cfr. P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, che alla nota 71 di p. 156 precisa “è bene peraltro puntualizzare che non esiste una relazione biunivoca tra interesse fiscale ed attitudine derogatoria della normativa tributaria rispetto alla disciplina ordinaria, poiché è ben possibile che quest’ultima risponda ad altri valori dell’ordinamento costituzionale (ed in particolare alla capacità contributiva)”. (49) In termini diversi si è orientato E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., XV, in quanto, dopo aver precisato “L’interesse fiscale non può essere insomma la comodità del fisco, l’arbitrio, l’irragionevolezza”, rappresenta che “l’interesse fiscale agisce da parametro per legittimare o meno sul piano costituzionale la <particolarità del diritto tributario> che, diversamente, non troverebbe giustificazione nell’ordinamento giuridico”; in termini lievemente diversi, invece, si è espresso P. Boria, L’interesse fiscale, cit., 153, che sembra rievocare le tesi “autonomiste” nel punto in cui conclude “sono tipicamente i valori


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D’altro canto, una concezione esasperata dell’autonomia – intesa nel senso di autodeterminazione e non nel significato di “non dipendenza” o di “non subordinazione” – rischia di risolversi nella prevalenza degli interessi erariali a danno dei contribuenti, con la conseguenza che, oltre ad essere compromesso il corretto esercizio della funzione impositiva, i privilegia fisci potrebbero assumere il rango di regole generali in contrasto con la tendenza degli ultimi decenni orientata a tutelare le garanzie del contribuente (in primis lo Statuto dei diritti del contribuente e, più in generale, il sistema delle cosiddette garanzie procedimentali). All’opposto è ugualmente impreciso ritenere che il diritto tributario sostanziale sia una materia dipendente dalle altre discipline giuridiche per il solo fatto che da esse attinge istituti, nozioni ed assetti normativi più o meni ampi. A tacer d’altro, tale conclusione è contraddetta sul piano logico ancora prima che giuridico dal momento che la disciplina prevista in altri settori dell’ordinamento regola assetti di interessi secondo rationes diverse da quelle proprie del diritto tributario e già solo questa circostanza non consente di mutuarla acriticamente ma impone una accorta verifica di adattamento e di compatibilità che non necessariamente esclude le nozioni ed i concetti propri dei contesti da cui provengono e nei quali sono abitualmente utilizzati (50). In questo senso è proficua la distinzione tra gli elementi di fatto e gli effetti giuridici degli istituti richiamati e quelli propri delle norme fiscali in quanto così come la norma fiscale non può incidere sui tratti qualificanti e sulla rilevanza riconosciuta alla norma extratributaria, negli stessi termini, il legislatore fiscale è libero di qualificare autonomamente un qualsiasi fenomeno noto agli altri settori giuridici anche per introdurre regole difformi allo scopo di

presenti nel sistema tributario che forniscono i criteri di giudizio delle fattispecie impositive, non certamente i valori propri di differenti sistemi normativi rispondenti ad un distinto assetto di interessi”. Per un’impostazione critica, invece, si veda F. Moschetti, “Interesse fiscale” e “ragioni del fisco” nel prisma della capacità contributiva, in M. Beghin - F. Moschetti - R. Schiavolin - L. Tosi - G. Zizzo, a cura di, Studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 157. (50) Anche in questo caso è proficuo ricordare il pensiero di Pugliatti richiamato da G. Falsitta, Saggio dialettico sullo svolgimento della ricerca, cit., 1334, ove sottolinea “Egli afferma che la regolamentazione offerta dagli altri campi e quindi anche dal diritto civile <va sempre adattata ai vari istituti, in rapporto alla loro speciale natura e alla ratio che può giustificare il concreto richiamo>”, nonché L.V. Berliri, Interpretazione ed integrazione delle leggi tributarie, in Riv. dir. fin., 1942, II, 16.


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perseguire più efficacemente le proprie finalità (51). Donde l’impossibilità di enunciare una regola netta sui rapporti tra diritto tributario e le altre discipline giuridiche in quanto è necessario coniugare caso per caso i valori che caratterizzano ontologicamente la fattispecie impositiva con l’esigenza di preservare la certezza del diritto, la completezza del sistema ed, ove possibile, l’unità dell’ordinamento (52). Dall’impossibilità di individuare una regola generale consegue che anche il riferimento qualificato ad un istituto di altra materia non mette al riparo il legislatore tributario da censure d’incostituzionalità se la scelta è inidonea a colpire determinate manifestazioni di capacità contributiva o, più genericamente, se si rivela irrazionale (53) mentre, all’opposto, non sembra che possano opporsi limiti all’applicazione, in una logica di integrazione, dell’esperienza del settore di provenienza se non determina problemi di adattamento rispetto alla corretta attuazione del riparto. Vale a dire che, ove sia garantita l’osservanza dei principi a presidio della nostra materia ed a prescindere dalla compatibilità delle rispettive rationes, la soluzione più ragionevole impone di riferirsi alle norme, ai principi ed agli istituti del diritto privato, amministrativo, sanzionatorio, processuale e così via per individuare la disciplina applicabile nel diritto tributario, previa un’ac-

(51) Sia consentito di rinviare al nostro Possesso di redditi ed interposizione fittizia, cit., 248, ma in senso analogo si veda A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 263. (52) Conforme A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, cit., 65; M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, cit., 189, ove si legge “la soluzione varia appunto a seconda della portata della legge tributaria da applicare: questa può, per le sue particolari ragioni, disporre che il soggetto che dovrà applicarla non turbi l’ordine delle qualificazioni private, o, viceversa, imporre che la realtà economica vinca la forma disposta dall’autonomia privata”; M. Trimeloni, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 179 e 181. Con formula più ampia, invece, ha argomentato G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 187, in quanto “le interrelazioni che si sviluppano tra disposizioni aventi la loro fonte in ordinamenti giuridici distinti, tra disposizioni tributarie e altre branche dell’ordinamento giuridico statale e tra disposizioni tributarie appartenenti ad imposte diverse” … “rende in primis difficile pervenire alla individuazione di un sistema organico, per la difficoltà di rintracciare chiari nessi relazionali tra le disposizioni tributarie e una corrispondenza a vincoli gerarchici ed ordinatori e, in secondo luogo, di escludere sia l’assoluta interdipendenza del diritto tributario dagli altri rami del diritto, sia di ravvisare, a motivo di tale mancanza di autosufficienza, una piena autonomia del diritto tributario”. (53) In senso analogo si veda E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., 152.


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corta verifica sulla compatibilità e sull’adeguamento delle norme extratributarie scevra da assunzioni pregiudiziali e da assiomi dogmatici (54). Tale conclusione è largamente accolta in dottrina a proposito delle norme che attengono all’attuazione dei tributi (soprattutto nella fase della riscossione) – sia sul versante dell’attività dei privati, che sul piano delle obbligazioni a carico dell’ente impositore – ma non sembra irragionevole estenderla al diritto tributario sostanziale se la disciplina del settore di provenienza non altera la corretta attuazione del riparto dei carichi pubblici ma introduce garanzie per i privati non previste dalla legge tributaria. D’altro canto, i risultati raggiunti nelle altre materie giuridiche sono un fattore di arricchimento e possono anche contribuire all’evoluzione dei modelli teorici della nostra materia alla luce della maggiore complessità dei fenomeni giuridici (55), della crescente influenza del diritto comunitario e delle

(54) Tale conclusione può ormai considerarsi quella prevalente in dottrina. Per conferma, tra gli altri, si veda G.A. Micheli, Appunti sull’interpretazione e l’integrazione della legge tributaria, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Milano, 1974, 3717, ove si legge “direi anzi che l’interprete della norma tributaria debba partire proprio dal dato … che la parola usata nella norma stessa sia stata impiegata nello stesso significato in cui è impiegata nell’altro ramo del diritto, per indicare un istituto giuridico. Solo se da un’interpretazione sistematica della norma tributaria risulta che l’istituto è stato indicato dalla norma stessa come fattispecie al cui verificarsi conseguono determinati effetti tributari (cioè nel campo dell’imposizione) allora è possibile che l’istituto contrassegnato con il nome usato dal legislatore in altri campi del diritto abbia invece un contenuto ed una disciplina in tutto o in parte differenti da quelli propri in quei campi”; A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, I, 913; A. Fantozzi, Diritto tributario, cit., 186, che sottolinea “in linea generale il richiamo, implicito o esplicito, di istituti appartenenti ad altri settori dell’ordinamento è fatto con riguardo al significato ad essi attribuito nel settore di provenienza”; M. Trimeloni, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 201, che richiama la regola del concorso con riferimento alle norme extratributarie; F. Bosello, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, cit., 1436; A. Amatucci, L’interpretazione della norma di diritto finanziario, Napoli, 1965, 124. In senso analogo, in precedenza si veda A. Berliri, Principi di diritto tributario, I, cit., 63, ove si legge “è ovvio come una definizione, quale che sia la legge che la contiene, debba valere per tutto il diritto, a meno che il legislatore non abbia espressamente limitato a determinati effetti l’efficacia di quella definizione o, al contrario, abbia escluso che possa trovare applicazione in un determinato settore”. (55) In questi termini si veda E. Vanoni, L’unità del diritto ed il valore per il diritto tributario degli istituti giuridici di altri campi, cit., 257, che, muovendo dai vincoli derivanti dal sistema unitario costituito dalle norme dell’ordinamento giuridico e dopo aver precisato che “l’elemento sistematico non può arrivare ad eliminare la particolarità della disciplina giuridica dei singoli rapporti, che è ispirata, come si è visto, alle necessità proprie dell’oggetto disciplinato”, conclude evidenziando la necessità che “nell’interpretazione delle leggi d’imposta (e correlativamente in quella, in genere di tutte le altre leggi) bisogna fondamentalmente tener


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profonde trasformazioni che intervengono in tutti i settori del sapere giuridico mentre, se fosse privilegiato un atteggiamento di chiusura, il rischio concreto è che il diritto tributario, più di altre discipline giuridiche, si isoli in una sorta di specialismo autoreferenziale senza cogliere l’evoluzione degli assetti istituzionali e dei rapporti economici e sociali (56). 5. Cenni sulle tecniche di produzione legislativa e sulle regole dell’interpretazione. – Alla luce delle fattispecie che richiamerò in seguito, un cenno merita l’attività ermeneutica ed i criteri utilizzabili dall’interprete anche perché le conclusioni della dottrina sono in larga misura convergenti. Ad esempio, è consolidata la conclusione che relega nell’irrilevanza il nomen juris per privilegiare l’interpretazione della legge tributaria più rispondente alla tutela degli interessi costituzionali al punto che il riferimento ad un istituto di un altro ramo del diritto può ridursi a semplice omonimia (57). Negli stessi termini spesso si evidenzia che l’attività dell’interprete è condizionata dalla tecnica di produzione normativa ed un elemento favorevole ai collegamenti interdisciplinari è individuato nel “rinvio” – nelle sue diverse configurazioni accomunate dall’effetto di integrare un dato sistema normativo con norme o disposizioni prodotte in un altro sistema – dal momento che nei rapporti tra norme appartenenti allo stesso ordinamento non si pone il problema della diversa efficacia della fonte rinviante e di quelle richiamata a differenza delle fonti comunitarie o internazionali (58). Infatti, ad eccezione dei casi nei quali è il rinvio stesso a determinare incertezze (59), spesso si traggono conseguenze più o meno vincolanti dalla distinzione tra:

conto delle speciali esigenze dell’ordinamento del tributo, espresse dalla legge tributaria o dal sistema di essa”. Sulla “sostanziale unitarietà dell’esperienza giuridica” e sulla “apertura e collegamento con le esperienze ed i risultati raggiunti negli altri <rami> del diritto” quali aspetti caratterizzanti l’attività scientifica del Prof. Micheli, cfr. A. Fedele, Diritto tributario ed evoluzione del pensiero giuridico, cit., 11. (56) In termini analoghi si veda A. Fedele, Diritto tributario ed evoluzione del pensiero giuridico, cit., 11. (57) Sul rilievo dell’omonimia nei processi argomentativi cfr. A. Costanzo, L’argomentazione giuridica, Milano, 2003, 116. (58) Sul rinvio, tra i tanti, cfr. A. Bernardini, Produzione di norme giuridiche mediante rinvio, Milano, 1966, 153; S. Fois, Rinvio, recezione e riserva di legge, in Giur. Cost., 1966, 578; L. Piccardi, La pluralità degli ordinamenti giuridici e il concetto di rinvio, in Studi vari di diritto pubblico, Milano, 1968, 47. (59) Ad esempio, A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, cit., 261, sottolinea che uno degli aspetti più problematici è quello di “stabilire se il rinvio comporti


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1) il rinvio esplicito (che può esprimersi nella forma del rinvio in senso stretto o della presupposizione (60)) ed implicito 2) oppure tra il rinvio ricettizio o materiale (fisso) e quello non ricettizio o formale (mobile), secondo che la norma richiamata è inserita ed assorbita nella norma rinviante con effetto novativo oppure se il rinvio non riguarda un’altra norma bensì la fonte di produzione sicché le modifiche future si applicano e producono effetti diretti sulla norma rinviante. Trattandosi di temi di teoria generale meritevoli di ben altro approfondimento, in questa sede mi limito a qualche cenno a partire da una considerazione di carattere generale sull’influenza esercitata dalla tecnica legislativa utilizzata per richiamare un istituto di un altro settore del diritto; infatti, l’individuazione di eventuali vincoli all’interprete oppure, all’opposto, di un ambito di autonomia nell’individuazione della regola più appropriata assume nel diritto tributario una dimensione più complessa perché non è affatto scontato che la conclusione raggiunta con riferimento ad un tributo possa essere sic et simpliciter estesa ad altri (ad esempio, si pensi all’esperienza della nozione di attività commerciale ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, della stabile organizzazione oppure alla diversa rilevanza del contraddittorio nei tributi armonizzati e non). In particolare, specifici condizionamenti possono derivare dalla ratio del tributo, dai vincoli che influiscono sulla relativa disciplina (ad esempio, quelli comunitari per i tributi “armonizzati”) ed, in definitiva, da una pluralità di fattori difficilmente traducibili in una regola applicabile indistintamente a tutte le fattispecie ed in questa prospettiva, a mio avviso, deve essere valutata anche la distinzione, dalle diverse implicazioni teoriche, tra interpretazione ed integrazione delle norme tributarie (61).

l’assunzione della fattispecie piuttosto che degli effetti (o viceversa) o se il recepimento converga su singoli elementi del fatto o della fattispecie complessa oppure se esso possa coinvolgere, sulla base delle finalità di volta in volta perseguite, diverse elementi della proposizione legale”. (60) Il rinvio per presupposizione è tendenzialmente ritenuto una particolare modalità del rinvio formale essendo richiamata una disciplina solo per individuare un elemento particolare o un suo presupposto che assume rilievo come fatto con valore giuridicamente vincolante per l’interprete. In proposito cfr. A. Fedele, Profilo dell’imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, Napoli, s. d., 176. (61) In materia cfr. M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, cit., 97; A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, cit., 63; G.A. Micheli, Diritto tributario e diritto finanziario, in Enc. del dir., Milano, XII, 1964, 1127, nonché, più recentemente, G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 151.


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D’altro canto, il problema della portata del riferimento ad un istituto di un’altra disciplina giuridica non è limitato alle norme contraddistinte da un rinvio ma si estende, anche se con una connotazione diversa, a quelle dal testo non autosufficiente ed in questi casi l’integrazione può sfociare nell’analogia perché occorre completare la disciplina di un fenomeno impositivo con quella di un altro tributo oppure di un altro settore del diritto (62). Donde la difficoltà di distinguere l’interpretazione estensiva dall’integrazione analogica (63) con i relativi dubbi nel caso di possibile violazione dell’art. 23 della Cost. come risulta dall’esperienza in materia di abuso del diritto (64). Rispetto a questi complessi profili, in estrema sintesi, a me pare che si debba distinguere il diritto tributario sostanziale dalla disciplina di attuazione e che, quanto al primo ambito, non possa affermarsi l’applicazione diretta della disciplina e degli istituti delle altre materie giuridiche con riferimento all’insieme delle regole e dei principi che esprimono i criteri di riparto delle spese pubbliche e, dunque, alle norme che disciplinano il presupposto, la base imponibile, i soggetti passivi e le aliquote dei tributi. In questi casi, infatti, occorre valutare di volta in volta la norma tributaria, in ragione degli eventuali rinvii o delle tecniche di presupposizione, per verificare la coerenza dei suoi effetti rispetto ai principi costituzionali della nostra materia. Invece, al di fuori di tale ambito l’applicazione diretta delle regole e degli istituti delle altre materie giuridiche dovrebbe essere sistematicamente la regola e non l’eccezione se esprime assetti di maggiore tutela per i privati fatti

(62) In questa prospettiva è proficua la distinzione tra gli elementi “intrinseci” ed “estrinseci” al diritto tributario utilizzata da E. Allorio, Diritto processuale tributario, cit., 42. (63) In generale, sui limiti dell’integrazione analogica, tra i tanti, si veda V. Frosini, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1998, 10; C. Luzzati, L’interprete e il legislatore. Saggio sulla certezza del diritto, cit., 45; G. Alpa, L’analogia e la finzione, in R. Sacco, diretto da, Tratt. di dir. civ., Torino, 1999, 298. (64) Tra i tanti cfr. A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 65; G. Falsitta, Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario, in Riv. dir. trib., 2018, I, 334, che muove dall’impianto concettuale della nozione di abuso per evidenziare le conseguenti patologie di carattere legislativo; F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. Trib., 2015, 1332, ove si legge “Se certezza del diritto vuol dire regole lineari e perentorie, capaci di imprimere sicurezza alle umane relazioni e inattaccabilità degli effetti e, in ultima analisi, il rispetto del principio di legalità (in materia fiscale di stretta legalità), è difficile dire che questo obiettivo sia agevolmente raggiungibile con la normativa in esame”. Invece, sulla specialità della nozione di abuso nella nostra materia cfr. A. Giovannini, L’abuso del diritto tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2016, I, 897.


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ovviamente salvi eventuali problemi di adattamento rispetto alla ratio ed agli elementi costitutivi del tributo (65). Su questi temi la giurisprudenza della Corte Costituzionale non si è indirizzata in modo univoco nel corso del tempo in quanto in una prima fase è stato privilegiato un approccio che ha portato a ritenere integralmente applicabili nella nostra materia le regole e la disciplina delle altre materie giuridiche a prescindere da una ponderazione dei valori rispetto alla ratio del singolo tributo o del sistema tributario nel suo complesso; in questo senso, ad esempio, sono orientate le note sentenze n. 42 del 26 marzo 1980, che ha utilizzato i principi civilistici per distinguere il lavoro autonomo dall’impresa commerciale ai fini ILOR (66), e la n. 13 del 28 gennaio 1986, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della mancata parificazione del figlio adottivo con quello legittimato ai fini dell’imposta sulle successioni (67). Invece, nel periodo successivo la Consulta ha privilegiato il modello fondato sulla “polisistematicità” che riguarderebbe non solo i rapporti tra il diritto tributario e le altre materie giuridiche ma altresì la disciplina del singolo tributo rispetto agli altri. Tale approccio ha inevitabilmente prodotto una frammentazione del sistema in quanto si fonda sulla considerazione che ciascun tributo costituisca un sub sistema autonomo rispetto al quale il legislatore sarebbe libero di esercitare la propria discrezionalità con il limite della ragionevolezza (68); di tale opinabile visione è agevole trovare una chiara conferma nella sentenza n. 225 del 25 luglio 2014, in tema di transazione fiscale, che ha aval-

(65) Sulla distinzione tra il diritto tributario sostanziale e la disciplina di attuazione dei tributi ai fini della compatibilità e della applicazione diretta oppure tramite formule di rinvio o di presupposizione delle norme e degli istituti del diritto privato si veda A. Fedele, Autonomia negoziale e regole privatistiche nella disciplina dei rapporti tributari, in S. La Rosa, a cura di, Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 121. (66) In E. De Mita, Fisco e Costituzione, I, Milano, 1984, 535; al riguardo si veda A. Fedele, La “discriminazione” dei redditi di lavoro autonomo, cit., 1797; G. Tabet, L’ILOR e il lavoro autonomo, in Giur. Cost., 1980, 288. (67) In Corr. Trib., 1986, 797. (68) Per una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale e per condivisibili considerazioni critiche nei confronti del modello della “polisistematicità” cfr. G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 146 e 186. Nell’ambito della prima, anche per l’interesse che ha suscitato in dottrina, merita di essere segnalata la sentenza n. 283 del 23 luglio 1987, in E. De Mita, Fisco e Costituzione, Milano, 1993, 112, in tema di presunzioni nell’accertamento induttivo, ove si legge che “la materia tributaria per la sua particolarità e per il rilievo che assume l’interesse dello Stato alla percezione dei tributi, giustifica discipline differenziate rispetto alla disciplina generale delle presunzioni”.


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lato la scelta del legislatore di derogare al sistema dei privilegi e di riservare un favor al debito tributario ai fini IVA rispetto a quello degli altri tributi in forza di soluzioni legislative mutevoli nel tempo (69). 6. L’esperienza sull’utilizzo nel diritto tributario degli istituti appartenenti ad altre discipline giuridiche: note introduttive. – A partire dalla riforma degli anni Settanta, l’utilizzo di moduli non riconducibili ad un unico criterio ordinatore trova conferma nell’esperienza di diritto positivo, essendo estremamente variegata, comprende il rapporto tra il diritto tributario e quasi tutti gli altri settori dell’ordinamento ed, all’opposto, in qualche caso le categorie sorte nella nostra materia sono state recepite in altre discipline (70). Allo stato, quindi, in aggiunta agli istituti che sono considerati patrimonio comune per tutti i settori del diritto (con le dovute distinzioni a proposito del concetto di obbligazione (71)), può ritenersi consolidata una esperienza intermedia rispetto alle due impostazioni più radicali e, cioè, da un lato, l’utilizzo degli istituti con la stessa dimensione concettuale che assumono nel settore di provenienza e, dall’altro, con un significato autonomo e più funzionale all’esercizio della funzione impositiva. Ad esempio, tra gli istituti che nella nostra materia hanno subito una elaborazione diversa dal settore di provenienza è ricorrente il riferimento alla nozione di “possesso” (dei redditi) mentre per il modello opposto è agevole richiamare la nozione di residenza (fondata espressamente sui criteri civilistici della residenza e della dimora), quella di lavoro

(69) La pronuncia è stata pubblicata in Riv. Dir. Fin., 2014, II, 77, con nota critica di M. Mauro, L’intangibilità del credito IVA nel concordato preventivo: la criticabile decisione della Corte costituzionale e l’opportunità del rinvio della questione alla Corte di Giustizia., ma per ulteriori considerazioni e riferimenti dottrinali si veda, se si vuole, F. Paparella, Considerazioni sistematiche sul nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare: dalla transazione fiscale soggettiva e consensuale alla retrogradazione oggettiva, in Rass. Trib., 2018, 317. (70) È il caso della distinzione tra cessione di beni e prestazione di servizi di derivazione IVA che trova ormai larga applicazione in altre materie giuridiche. Al riguardo, si veda A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, II Ed., Padova, 2019, 4. (71) In proposito, tra i tanti, anche per le distinte impostazioni sommariamente distinguibili tra quelle privatistiche e quelle pubblicistiche, cfr. A.D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937; G.A. Micheli - G. Tremonti, Obbligazioni (diritto tributario), cit., 445; P. Russo, L’obbligazione tributaria, in A. Amatucci, diretto da, Tratt. di dir. trib., II, Padova, 1994, 12; F. Batistoni Ferrara, Obbligazioni nel diritto tributario, in Dig. Comm., X, Torino 1994, 297; M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, cit., 173.


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dipendente (che è analoga alla nozione civilistica nonostante la formulazione diversa) nonché le modalità di estinzione delle obbligazioni (compensazione e accollo). In altre ipotesi, invece, il recepimento è stato parziale ed ha prodotto una duplicazione dei significati – in questo senso è emblematica l’esperienza della nozione di impresa e di attività commerciale - mentre in altri casi ancora il legislatore tributario ha codificato categorie giuridiche sconosciute agli altri settori del diritto (penso, ad esempio, alla clausola residuale di cui al comma 2 dell’art. 73 del TUIR in merito ai soggettivi passivi dell’IRES) (72). Anche questa brevissima esemplificazione, dunque, conferma la libertà del legislatore fiscale di individuare in autonomia le fattispecie imponibili e gli oggetti dell’imposizione ricorrendo agli altri settori giuridici per mutuarne integralmente le nozioni oppure per adattarle allo scopo di perseguire in maniera più appropriata le proprie finalità in osservanza dell’art. 53 della Cost. In questi termini, peraltro, si indirizza anche l’esperienza più recente, che ugualmente non consente di cogliere un indirizzo univoco in grado di indirizzare la riflessione in un senso o nell’altro, e per tale ragione mi limito a richiamare talune fattispecie ispirate a modelli distinti. 6.1. Segue: l’autonomia dei valori, degli interessi e delle scelte del legislatore tributario rispetto alle soluzioni adottate negli altri settori del diritto. – Un settore cruciale della nostra materia caratterizzato da un approccio diverso del legislatore tributario rispetto all’esperienza del diritto commerciale attiene alla nozione di impresa e di attività commerciale; esso ha favorito un’ampia riflessione sulla razionalità della regola che considera sufficiente la forma giuridica per qualificare le attività esercitate in forma societaria a scapito di qualsiasi schema organizzativo e di autoregolamentazione. Com’è noto, tale impostazione è da tempo oggetto di critiche anche perché assume un modello opposto a quello civilistico sul rapporto tra forma e qualificazione degli effetti dell’attività (difforme anche dall’esperienza comunitaria) (73): l’art. 2247 del Cod. Civ. richiede l’esercizio di un’attività economica mentre secondo la legge tributaria è sufficiente la forma societa-

(72) Per tutti si consulti G.A. Micheli, Soggettività e formule civilistiche, in Riforma tributaria e diritto commerciale. Atti del convegno di Macerata del 12-13 novembre 1976, Milano, 1978, 34. (73) Tra i più recenti si veda V. Ficari, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, 27.


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ria essendo ritenuta idonea ad attribuire la natura commerciale all’attività ed a condizionare la natura del reddito prodotto. Tuttavia, anche a prescindere dalle perplessità che solleva questa impostazione, la materia ha subito una notevole frammentazione a seguito di una ricca legislazione speciale, riservata a particolari fattispecie, ove il criterio formale non sempre ha avuto un’applicazione coerente a partire dal fenomeno della società senza impresa, trattandosi di una disciplina ispirata all’impostazione opposta perché disconosce lo statuto dell’impresa nonostante la forma societaria. Al contrario, sono intervenute altre esperienze di esercizio collettivo di attività economiche (dalla natura non commerciale o non imprenditoriale) che soggiacciono allo statuto fiscale dell’impresa in ragione della sola adozione del modello societario con adattamenti di diversa natura ed in questo senso è sufficiente richiamare l’esperienza delle società agricole di cui all’art. 2 del D. Lgs. n. 99 del 29 marzo 2004 (alle quali è tuttavia riservata la facoltà di determinare il reddito su base catastale), delle società (di persone, di capitali e cooperative) multidisciplinari tra professionisti ai sensi della legge n. 183 del 12 novembre 2011 (che producono un reddito d’impresa salvo particolari fattispecie), delle società (di persona, di capitali e cooperative) tra avvocati (i cui redditi sono ora tendenzialmente considerati d’impresa dopo un’iniziale avviso dell’Amm. Fin. a considerarli redditi di lavoro autonomo (74)) e di quelle partecipate da soci di capitale (entrambe riconosciute con la legge n. 124 del 4 agosto 2017) nonché, per concludere, delle società sportive dilettantistiche di capitali senza fine di lucro (di cui alla legge n. 289 del 27 dicembre 2002) nonché quelle con scopo di lucro (introdotte dalla legge n. 205 del 27 dicembre 2017 ma rapidamente abolite con la legge n. 96 del 9 agosto 2018) che ugualmente producono un reddito d’impresa. Infine, non possono essere trascurate le ipotesi nelle quali il tipo societario non è stato considerato un ostacolo per il riconoscimento di benefici fiscali concepiti per i soggetti di altra natura (principalmente gli enti) a conferma dell’insufficienza della forma per qualificare l’attività ed al riguardo si può

(74) Cfr. Ris. Ag. Entrate n. 118 del 28 maggio 2003, in Boll. Trib., 2003, 925, ma soprattutto la recente Ris. Ag. Entrate n. 35 del 7 maggio 2018, che distingue le società tra avvocati costituite ai sensi del D. Lgs. n. 96 del 2 febbraio 2001 (che producono un reddito di lavoro autonomo ai fini IRPEF) da quelle costituite ai sensi della legge n. 124 del 4 agosto 2017 (che, invece, producono un reddito d’impresa ai fini IRES).


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richiamare l’ampio fenomeno della società e dell’impresa sociale (75) disciplinata dal recente D. Lgs. n. 112 del 3 luglio 2017. L’insieme di queste fattispecie ha reso più variegato il rapporto tra forma giuridica, modelli organizzativi e natura dell’attività (oltre che dei relativi risultati economici) in quanto sono ispirate a rationes diverse che rendono più complessa l’individuazione di un modello generale (76). Nondimeno, da tale esperienza è agevole individuare un aspetto deteriore riconducibile alla qualità della produzione legislativa: infatti, con maggior frequenza rispetto al passato, è intervenuta una frammentazione asistematica del tessuto normativo ed una analiticità disorganica della disciplina che mortifica l’individuazione dei principi generali ovvero la base teorica sulla quale dovrebbe fondarsi l’autonomia del diritto tributario. 6.2. Segue: la recente esperienza legislativa orientata all’adozione di regole comuni alle altre materie giuridiche. – Un tema che ha tradizionalmente sollevato un ampio dibattito sul rapporto (e sul concorso) tra le norme tributarie e quelle del Codice civile riguarda la regola generale che presidia la determinazione del reddito d’impresa. Trattasi, in particolare, del principio di derivazione di cui all’art. 83 del TUIR, il quale è stato oggetto di una recente evoluzione che ha favorito diverse declinazioni – in termini di derivazione o di derivazione rafforzata – fondate sul parametro dimensionale delle imprese e sul sistema contabile utilizzato (77). Prima delle modifiche normative la formulazione del principio era affidata al comma 1 che disponeva la seguente regola “il reddito complessivo è determinato sulla base dell’utile o della perdita risultante dal conto economico”; essa ha favorito un vasto dibattito sul rapporto tra norme fiscali e norme civilistiche che sintetizzerei in due tesi principali: a) da un lato, quella sostenuta dal Prof. Falsitta e dai suoi allievi, favorevoli ad un “rinvio formale” di natura intraistituzionale sicché il collegamento con il conto economico previsto dall’art. 83 determina un rinvio alla

(75) Sul tema si veda S. Gianoncelli, Fiscalità di impresa e utilità sociale, Torino, 2013. (76) Ad esempio, sulla scelta tra forme giuridiche e modelli organizzativi per l’esercizio della professione di avvocato si veda C. Ibba, Società tra avvocati e tipi societari, in L. De Angelis, a cura di, La società tra avvocati, Milano, 2013. (77) In proposito sia consentito di rinviare al Cap. V del volume A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, II Ed., cit., 113.


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relativa disciplina con l’effetto che le regole civilistiche assumono piena rilevanza in funzione integrativa delle regole fiscali (78); b) dall’altro l’impostazione che ravvisa un “rinvio per presupposizione” in quanto il sistema delle imposte sui redditi si limiterebbe a recepire il risultato del conto economico ma le relative regole civilistiche resterebbero estranee al diritto tributario essendo rilevante solo la loro applicazione (79). In questo contesto si collocano le ripetute modifiche all’art. 83 del TUIR che hanno portato al nuovo comma 1-bis ed alle regole indirizzate rispettivamente ai soggetti IAS, ai soggetti OIC ed alle cosiddette micro imprese; esse hanno compromesso l’unità sistematica del principio di derivazione in quanto la determinazione del reddito d’impresa è ora affidata ad un complesso di principi assistiti da proprie rationes (soprattutto per le micro imprese) che si aggiungono alle fattispecie destinatarie di una disciplina in deroga (ad esempio, le imprese sottoposte ad una procedura fallimentare o equiparata) ed ai numerosi regimi speciali o sostitutivi (80). A tacer d’altro, il nuovo sistema di diritto positivo impone di aggiornare le riflessioni del passato senza trascurare che esse sono state sviluppate assumendo il (solo) rapporto tra diritto tributario e disciplina civilistica del bilancio mentre adesso interviene un terzo riferimento e, cioè, quello ormai solitamente definito “diritto contabile” le cui fonti di produzione sono affidate a organismi privati o pubblichi (IAS o OIC) talché la copertura primaria può sollevare rilevanti perplessità sotto il profilo dell’art. 23 della Cost. anche in ragione dell’utilizzo disinvolto del decreto ministeriale per coordinare la regole contabili con la disciplina primaria del reddito d’impresa. In merito al rapporto tra la norma generale espressa dal primo periodo del comma 1 dell’art. 83 del TUIR e le regole particolari riservate alle diverse categorie di soggetti, il principio riservato alle imprese che applicano i

(78) La tesi è stata poi completata con la nota teoria della pregiudizialità/dipendenza o della dipendenza rovesciata ed è stata compiutamente argomentata in numerosi lavori tra i quali G. Falsitta, Concetti fondamentali e principi ricostruttivi in tema di rapporti tra bilancio civile e bilancio fiscale, in Giur. Comm., 1984, I, 876; Id., Il bilancio di esercizio delle imprese, Milano, 1985. (79) Per una sintesi aggiornata del dibattito cfr. M. Grandinetti, Il principio di derivazione nell’Ires, Padova, 2016, ove ulteriori riferimenti di dottrina. (80) Anche in questo caso sia consentito di rinviare al Cap. VI del volume A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, II Ed., cit., 137.


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principi contabili nazionali ed internazionali (diversi dalle microimprese) trae origine da una norma che presenta la struttura tipica di quelle in deroga; essa opera in favore delle regole contabili – che sono destinate a prevalere rispetto alle regole fiscali limitatamente a taluni ambiti impositivi individuati in via tassativa (trattasi dei criteri di qualificazione, di imputazione temporale e di classificazione in bilancio) – mentre al di fuori dello stretto ambito delle deroghe permane la prevalenza delle norme fiscali. Il rapporto tra i due complessi normativi, dunque, non è più definibile in modo univoco. Tuttavia, l’applicazione diretta dei principi contabili nazionali ed internazionali e la loro oggettiva portata derogatoria depone adesso, ancora più che nel passato, in favore dello schema del “rinvio formale” in quanto si tratta di un rinvio integrale alla fonte di produzione; tale soluzione è stata una scelta quasi obbligata ed è anche quella più razionale perché il diritto contabile è in continua evoluzione ed impone di recepire automaticamente qualsiasi modifica o aggiornamento che interviene nel suo ambito ai fini della determinazione del reddito d’impresa. Nonostante il maggior rilievo delle regole contabili, tuttavia, non è possibile ritenere che l’autonomia fiscale dei criteri di determinazione della base imponibile sia stata definitivamente sacrificata se non altro perché al di fuori dell’ambito delle deroghe continuano a prevalere le norme fiscali. È stata sicuramente limitata rispetto al passato ma si è ancora lontani dal modello della cosiddetta dipendenza piena ovvero dalla determinazione della ricchezza imponibile secondo regole ed i principi applicabili ai fini della redazione del bilancio dell’esercizio. Invece, tra gli esempi recenti di norme fiscali che hanno accolto integralmente le regole ed i principi degli altri settori del diritto una menzione deve essere riservata alla transazione fiscale di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare in quanto, al termine di una tormentata esperienza legislativa e giurisprudenziale (interna e comunitaria), la novella legislativa di fine 2016 ha segnato il passaggio da un modello connotato da più elementi di specialità e di eccezionalità (rispetto al diritto tributario e fallimentare) (81) ad un altro che privilegia le regole concorsuali senza alterare la gerarchia dei valori espressa dal sistema dei titoli di preferenza.

(81) Secondo le indicazioni della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 225 del 22 luglio 2014 richiamata alla nota 69, e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le sentenze n. 26988 del 27 dicembre 2016, e n. 760 del 13 gennaio 2017, in Boll. Trib., 2017, 320.


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Infatti, la regola della retrogradazione opera indistintamente in base al valore di mercato dei beni e dei diritti - ed, in definitiva, secondo il principio del valore massimo oggettivamente realizzabile - talché il nuovo modello non può essere considerato pregiudizievole per l’Erario anche nel caso di incapienza conclamata in quanto la gerarchia degli interessi resta garantita dal sistema dei titoli di preferenza; il venir meno di una situazione di favor dovuta ad una impostazione speciale ed eccezionale ha pertanto determinato quello che in altra sede ho definito il passaggio dalla falcidiabilità soggettiva alla retrogradazione oggettiva (82). 7. Conclusioni. – Per completare discorso ed avviarmi alla conclusione un cenno finale meritano le prospettive future ed in questa direzione un fattore decisivo continua ad essere la qualità della produzione legislativa perché dovrebbe adeguatamente riflettere il sistema dei valori e dei principi generali, costituzionali e non, nel rapporto tra il diritto tributario e le altre materie giuridiche. In proposito è noto che da tempo la dottrina segnala un drastico peggioramento, sotto diversi aspetti, con intuibili conseguenze rispetto al tema in esame (83). Ad esempio, permane un problema di produzione legislativa esagerata non giustificabile con la maggiore complessità dei fenomeni tributari, con l’aggravante che il ricorso alla norma anche per aspetti di dettaglio caratterizza in misura più intensa la nostra materia rispetto alle altre discipline giuridiche spesso nel timore che venga meno la copertura legislativa richiesta dall’art. 23 della Cost. Inoltre, il continuo sovrapporsi di modifiche, novità e ripensamenti determina con frequenza problemi di coordinamento e, comunque, una spiccata instabilità dei riferimenti normativi, alla quale hanno notevolmente contribuito negli ultimi anni i vincoli di fonte europea ed internazionale i quali possono favorire una nozione di autonomia di altra dimensione essendo ispirati a principi e valori di fonte diversa (84).

(82) Si veda, se si vuole, F. Paparella, Considerazioni sistematiche sul nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare, cit., 317. (83) Sul rapporto tra teoria e sistema di diritto positivo, tra i tanti, cfr. E. Antonini, L’utilità della teoria del diritto tributario e il suo insegnamento, in Riv. dir. fin., 1988, I, 202. (84) Sul tema si veda S. Cassese, Il diritto globale, Torino, 2009, che ammonisce sui rischi del diritto globale a causa della difficoltà di individuare regole idonee a presiedere il complesso policentrico di fonti di livello sovranazionale che incidono sugli ordinamenti degli Stati. Peraltro, nel dibattito all’interno delle comunità dei costituzionalisti e degli amministrativisti è


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Aggiungasi che la qualità della produzione legislativa ha subito un peggioramento generale al punto che gli studiosi di altre discipline hanno evocato la trappola (85) o la oscurità della legge (86) o, addirittura, un possibile problema di carenza di democraticità (87) in aggiunta al vulnus alla certezza del diritto (88); si tratta, dunque, di un fenomeno che attraversa l’intero ordinamento giuridico ma che assume inevitabilmente una dimensione più complessa nel diritto tributario trattandosi di una materia governata dal principio del consenso. Né sono stati compiuti passi in avanti sul piano della tecnica legislativa che resta ispirata pervicacemente al metodo casistico nonostante la lodevole esperienza dello Statuto dei diritti del contribuente. Tale impostazione non è giustificabile con le peculiarità della nostra materia, né consente di ravvisare un’evoluzione nel senso della polisistematicità; si tratta, più semplicemente, di una tendenza a privilegiare regole analitiche e di dettaglio spesso concepite in maniera irrazionale ed avulse da qualsiasi contesto sistematico. Sono consapevole che, in via di principio, il metodo casistico può garantire meglio la certezza del diritto, attenuare l’ampiezza, la genericità o l’imprecisione delle formule definitore e delle clausole generali ed, in definitiva, evitare soluzioni irrazionali del legislatore e dell’interprete (89). Resto però

sempre più ricorrente il riferimento al carattere aperto del sistema giuridico, non gerarchizzato nelle fonti ed intriso di intersezioni tra ordinamenti nazionali ed ultranazionali, nonché alla crisi della teoria delle fonti per la difficoltà di organizzare in una scala di valori l’operare di norme ordinarie, valori inespressi, soft law, diritto internazionale pattizio (incluso quello enunciato dalle sentenze), convenzioni costituzionali ed altro ancora. (85) Per conferma si veda B.G. Mattarella, La trappola delle leggi, Bologna, 2011. (86) Cfr. M. Ainis, La legge oscura, Roma-Bari, 2007. (87) In questi termini si veda M.S. Giannini, Le incongruenze della formazione amministrativa e la scienza dell’amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, 286; F. Vassalli, La missione del giurista nella elaborazione delle leggi, in Studi Giuridici, III, 2, Milano, 1960, 737; M. Longo, Per la fondazione di una scienza della legislazione, in Il diritto dell’economia, 1960, 583. Sullo scadimento della produzione legislativa nel diritto tributario, tra i tanti, cfr. G. Tremonti, Scienza e tecnica della legislazione, in Riv. dir. fin., 1992, I, 51; E. De Mita, La legalità tributaria, Milano, 1993; A. Fantozzi, È ora di dire basta!, in Riv. dir. trib., 1992, I, 1; M. Bosello, La fiscalità tra crisi del sistema e crisi del diritto, cit., 1073. (88) Per tutti, cfr. P. Grossi, Sull’odierna “incertezza” del diritto, cit., 921. (89) È noto, infatti, che la legislazione per principi ma, soprattutto, le clausole generali assumono una fattispecie relativamente indeterminata sicché la loro applicazione impone quella che è generalmente definita “integrazione valutativa” dell’interprete, il che può tradursi nel riconoscimento di un potere in capo a coloro che sono chiamati ad applicarla in concreto (principalmente l’Amm. Fin. nella nostra materia). Sul tema di veda K. Engisch, Introduzione


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convinto che la rinuncia alla legislazione per principi e l’esasperazione del metodo casistico favoriscono le lacune “infrasistematiche” (90) ed esasperano il ricorso all’integrazione (91) senza trascurare che “la definizione serve … a giustificare la stessa casistica, altrimenti questa diventa del tutto arbitraria, con conseguente disparità di trattamento” (92); in ogni caso, l’auspicata trasformazione della tecnica di produzione legislativa sarebbe più funzionale alla specificazione ed alla selezione dei principi generali della nostra materia senza nemmeno richiamare i tentativi di codificazione di Vanoniana memoria oppure l’esigenza di una legge generale sul procedimento impositivo dei tributi inutilmente perseguita a partire dalla riforma degli anni Settanta (93). Da ultimo, anche il contributo della giurisprudenza di legittimità non sempre è stato apprezzabile perché spesso ha rinunciato alla funzione nomofilattica per privilegiare il modello tipico dei Paesi di common law ove domina l’argomentazione per casi e sottocasi piuttosto che quella in termini di regola generale ed eccezione sicché l’operare congiunto di questi fattori ha prodotto una crisi del diritto tributario ed un arretramento del sistema senza nemmeno assecondare le esigenze di equità, di redistribuzione e di giustizia sociale (94). In questa situazione, quindi, è necessario uno sforzo maggiore di elaborazione scientifica per riaffermare e consolidare i principi generali della nostra materia in chiave moderna ed in una visione orientata alle evoluzioni che attraversano l’ordinamento giuridico vista anche la scarsa sensibilità del legislatore tributario di cogliere i mutamenti che intervengono negli altri

al pensiero giuridico, trad. it., Milano, 1970, e più recentemente M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 346; E. Fabiani, Clausole generali, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, 180. (90) Su questa categoria giuridica cfr. C. Luzzati, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990, 416. (91) I limiti dovuti all’integrazione delle norme tributarie sono ben delineati da E. De Mita, La legalità tributaria, cit., 17. (92) Si tratta del pensiero di E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., XVI. (93) In proposito cfr. A. Fedele, Diritto tributario (principi), in Enc. del dir., Annali, II, 2, 447, che sottolinea “il coordinamento dei principi evidenzia un sistema normativo unitario che rappresenta, nella sua totalità, la funzione fiscale”. (94) In generale, detta tendenza è stata lucidamente colta da tempo da G. Tarello, Sul problema della crisi del diritto, Torino, 1957, 23, mentre tra i tributaristi, tra i tanti, si veda R. Braccini, Mutamenti nelle basi del diritto tributario: la crisi dell’iter di sistema, in AA. VV., Giuristi e legislatori, Atti del convegno di Firenze del 25-28 settembre 1997, Milano, 1997, 214.


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settori del diritto (95); spetta dunque principalmente alla dottrina rafforzare l’aspirazione all’autonomia del diritto tributario con l’auspicio che riesca ad orientare sapientemente la produzione legislativa futura (96), come è accaduto nel periodo a cavallo della riforma degli anni Settanta, ed a respingere con fermezza le recenti ipotesi di semplificazione dei settori scientifico disciplinari. Infatti, l’eventuale loro irragionevole perseguimento determina una regressione dell’ordinamento ed un livello inaccettabile di imbarbarimento della cultura giuridica nel segno di un processo di semplificazione, approssimativo e dannoso, che trascura una storia secolare e che, in forza di una irrazionale assimilazione dei saperi giuridici, ignora i principi riflessi nella carta costituzionale a presidio del funzionamento dello Stato e dei rapporti economici e sociali (97) al punto che un autorevole Maestro ha avvertito di recente la necessità di ribadire che il diritto tributario “più che un diritto autonomo (...) è elemento essenziale per l’esistenza di tutto l’ordinamento giuridico generale e dello stato” (98).

Franco Paparella

(95) In questa prospettiva è proficuo richiamare il pensiero di A.D. Giannini, Intorno alla c.d. autonomia del diritto tributario, cit., 61, il quale, dopo aver evidenziato “la fascia di mistero che ha circondato finora il diritto tributario, per la scarsa attenzione ad esso rivolta dai giuristi”, ammoniva dal rischio di “fantasticare di una sua particolare natura … che lo collocherebbe in una zona appartata, pressoché inaccessibile ai principi generali ed alla comune dommatica”. (96) Su questo aspetto si veda A. Fedele, Cultura giuridica e politica legislativa nel diritto tributario, in Jus, 1998, 76; G. Falsitta, Osservazioni sulla nascita e sullo sviluppo scientifico del diritto tributario, cit. 353. (97) Per chi voglia ampliare la riflessione cfr. U. Breccia, Discorsi sul diritto, cit., 271, che rileva “Quasi non c’è bisogno di aggiungere, dunque, che una teoria delle teorie generali di ogni autonoma branca del diritto, del loro mutamento, del loro comune declino, delle loro residue e fondate ragioni attuali, dischiuderebbe orizzonti critici e costruttivi di grande importanza; ma una sintesi non velleitaria non potrebbe prescindere da una convergenzadivergenza di apporti plurimi e contestuali ascrivibili a chi possa avvalersi di un’approfondita e aggiornata conoscenza dello stato dell’arte settore per settore”. (98) Per conferma, si veda G. Falsitta, Per l’autonomia del diritto tributario, cit., 258.


Alcune riflessioni su accollo esterno dei debiti tributari e compensazione* Sommario: 1. Premessa. – 2. La risoluzione n. 140/E del 15-11-17: il ragionamento

e le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate. – 3. Definizione del tema d’indagine. – 4. Accollo esterno e stipulazione a favore del terzo: cenni alla disciplina civilistica. – 5. Accollo esterno del debito d’imposta: ruolo (marginale) dell’eventuale adesione dell’Amministrazione e suo possibile rifiuto. – 5.1. Critica alla tesi che nega “ogni” rilievo giuridico/tributario inter partes al debito fiscale accollato in ragione della fonte negoziale e non legale dell’obbligazione. – 6. Le norme sulla compensazione fiscale quali norme eccezionali recanti attuazione atipica del principio generale di compensazione. – 6.1. Conferme e coerenti implicazioni derivanti dalla precisata natura eccezionale delle norme tributarie sulla compensazione. – 7. La compensazione ex art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241: la “tassatività” non preclude l’applicazione dell’istituto ai debiti fiscali accollati. – 8. Conclusioni L’articolo si sofferma sulla compensabilità del debito fiscale accollato, analizzandone le questioni problematiche, con particolare riguardo alla paventata “invalidità generale” di tale ipotesi. Percorrendo tale linea d’indagine, l’accollo esterno del debito fiscale è delineato in linea con i consolidati orientamenti della dottrina e della giurisprudenza civilistica: esso va quindi ricondotto alla stipulazione a favore del terzo, qualificabile in termini di

* Quando il presente lavoro era già avviato alla fase di stampa, è stato emanato l’art. 1 del DL 26 ottobre 2019 n. 124, che recita testualmente: (comma 1) “Chiunque, ai sensi dell’art. 8, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, si accolli il debito d’imposta altrui, procede al relativo pagamento secondo le modalità previste dalle diverse disposizioni normative vigenti”; (comma 2) “Per il pagamento, in ogni caso, è escluso l’utilizzo in compensazione di crediti dell’accollante”; omissis. Il contenuto dell’elaborato non considera l’entrata in vigore di tale disposizione che introduce, in virtù di espressa indicazione “legislativa”, un divieto generale di compensazione dei debiti fiscali accollati. Ciò nondimeno, non si reputano venute meno le ragioni del lavoro così come concepito. Tutte le questioni sorte prima dell’emanazione della recentissima norma, infatti, non essendo regolate dalla nuova disposizione, dovranno essere risolte “interpretando” la normativa precedente, così come esaminata nell’elaborato. Per altro verso, con rilievo ancora maggiore ai fini di una pubblicazione di tipo scientifico, l’indagine così come svolta si reputa utile per rimarcare la differenza tra i compiti del legislatore, cui competono le scelte di politica fiscale e la relativa responsabilità, e quelli dell’interprete, i cui assunti di “verità giuridica” acquistano “forza” solo in quanto “effettivamente” legati a principi e rigore metodologico.


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pattuizione bilaterale tra accollante e accollato, rispetto alla quale l’adesione del creditore (Amministrazione) non rappresenta né elemento perfezionativo né requisito di efficacia, determinando essenzialmente l’irrevocabilità del patto nei suoi confronti. Rapportando tale ricostruzione all’ambito tributario, si è altresì chiarito che la fonte negoziale e non legale del debito fiscale accollato non può interferire con prerogative spiccatamente pubblicistiche, per un verso limitandole nei confronti del soggetto passivo accollato (esclusione del beneficium ordinis), per altro verso estendendole nei confronti dell’accollante (esclusione dei poteri di accertamento e riscossione amministrativa per il debito accollato). Da tali assunti, peraltro, non è coerentemente ricavabile alcuna preclusione generale alla compensazione spontanea del debito fiscale accollato. Né tale preclusione generale discende, ex se, dal carattere eccezionale della normativa fiscale sulla compensazione; questa, infatti, correttamente intesa quale normativa recante attuazione atipica del “principio generale” di compensazione, implica che le disposizioni de quibus non possono essere integrate con norme e principi estranei al proprio ambito (segnatamente con norme di derivazione codicistica); mentre all’interno di esso, sono interpretabili ordinariamente. Ciò chiarito, applicando gli ordinari criteri di interpretazione alla normativa sulla compensazione tributaria c.d. spontanea non si rileva alcuna preclusione generale alla compensabilità del debito fiscale accollato. The article deals with the study of the possibility to compensate the accrued tax debt, exploring the problematic issues, with particular regard to the dreaded “general disability” of this hypothesis. Going through this line of investigation, the external taking on of the tax debt is outlined in line with the consolidated guidelines of the doctrine and the civil jurisprudence: it must therefore be traced back to the stipulation in favor of the third party, in terms of bilateral agreement between the accosdating and accosted, with respect to which the creditor’s membership (Administration) is neither a perfection nor a requirement of effectiveness, essentially determining the irrevocability of the agreement with him. In the tax discipline, it has also been clarified that the negotiating and non-legal source of the accured tax debt cannot interfere with distinctly publicity prerogatives, on the one hand limiting them to the accused taxable person (exclusion of beneficium ordinis), on the other hand extending them towards of the attendant (exclusion of the powers of assessment and administrative collection for the accured debt). From these assumptions, moreover, no general foreclosure on the spontaneous compensation of the accrued tax debt can be deduced. This general foreclosure does not derive, ex se, from the exceptional nature of the tax legislation on compensation; this, in fact, correctly understood as a law containing atypical implementation of the “general principle” of compensation, implies that the provisions in question cannot be integrated with rules and principles extraneous to its own sphere (in particular with rules of code-based derivation); while within it, they can be routinely interpreted. This clarified, applying the ordinary criteria of interpretation to the legislation on tax compensation c.d. spontaneously there is no general foreclosure of the compensation of the tax debt taken.

1. Premessa. – Come è noto, l’art. 8 della L. n. 212/2000 (statuto dei diritti del contribuente) sancisce, al comma 1, che “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione” ed al comma 2, che “è ammesso


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l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario”. La disposizione statutaria de qua, tuttavia, anche in ragione dell’assenza di disposizioni applicative, pur rappresentando un’importante indicazione sul piano dei principi della materia tributaria, non ha risolto le questioni interpretative in tema di compensazione e accollo di debiti tributari, a tutt’oggi estremamente controverse (1). Ferme le problematiche interpretative di compensazione e accollo del debito d’imposta in sé considerati, la possibilità per l’accollante di compensare il debito tributario accollato, ha dato luogo ad una specifica questione applicativa, legata all’operatività dell’accollo esterno nel diritto tributario, particolarmente controversa. Quale esempio emblematico di un perdurante e specifico “disagio” applicativo degli istituti di accollo esterno e compensazione nell’ordinamento tributario, può essere richiamata la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 140 del 15-11-17. In tale documento di prassi, infatti, l’Agenzia, nel palesare espressamente complessità e incertezza sulla questione, ha scelto una soluzione “interpretativa” tranchant, che risolvesse ogni dubbio eliminando “in radice” il problema: ha finito così col negare in via generale la “validità tributaria” di una tale operazione e, cioè, la possibilità di estinguere un debito fiscale attraverso l’accollo esterno di questo da parte di un soggetto accollante e successiva compensazione con crediti fiscali dell’accollante stesso. Come si cercherà di dimostrare, ferma la difficoltà applicativa nonché la possibile riconducibilità di talune ipotesi concrete a fenomeni di tipo “fraudolento”, una soluzione che neghi “in termini generali” la compensabilità di debiti tributari accollati, si reputa confliggente con le scelte vigenti del legislatore fiscale, come tale non percorribile sul piano interpretativo. Diversamente, sono certamente utili ulteriori riflessioni sul tema che, partendo inevitabilmente dalla disamina civilistica, nonché precisando le “effettive” esigenze pubblicistiche sottese all’attuazione fiscale di tali istituti,

(1) Tali difficoltà, del resto, hanno tradizionalmente accompagnato la convivenza di istituti civilistici concernenti le vicende delle obbligazioni, propriamente calati nel sistema delle libertà negoziali, in un contesto caratterizzato dalla pregnante finalità economico-pubblicistica, quale è quello tributario.


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contribuiscano a definire un percorso di “consolidamento sistematico” della tematica in oggetto. Prima ancora di indicare compiutamente le linee d’indagine del presente lavoro, tuttavia, si reputa utile esaminare funditus la soluzione interpretativa proposta nella Risoluzione n. 140/2017, già peraltro coinvolta nel dibattito dottrinale (2) e giurisprudenziale (3): tale scelta, essenzialmente per la necessità di valutare col dovuto rilievo gli argomenti ivi utilizzati contra la compensabilità dei debiti tributari accollati; ciò, al di là delle indubbie ricadute operative legate all’opinione “ufficiale” dell’Agenzia manifestata in un proprio atto di prassi, anche perché le tesi ivi contenute sono “problematicamente” presentate dall’Agenzia come implicate e/o in qualche modo correlate a “principi” dell’ordinamento tributario, piuttosto che ricavate da espresse indicazioni normative. 2. La risoluzione n. 140/E del 15-11-17: il ragionamento e le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate. – Dopo aver effettuato una doverosa ricognizione della normativa di cui ai commi 1 (compensazione) e 2 (accollo) dell’art. 8, la risoluzione in parola, perviene ad una soluzione interpretativa che nega, in termini generali, la legittimità di operazioni di accollo (cumulativo esterno) di debiti tributari e successiva compensazione, esponendo essenzialmente i seguenti argomenti: a) con riguardo all’accollo “… come chiarito anche dalla giurisprudenza …, assumere volontariamente l’impegno di pagare le imposte dovute dall’iniziale debitore non significa «assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale», tanto che l’Amministrazione finanziaria non

(2) Su tale questione, con specifico riferimento alla citata opinione di prassi, N. Zanotti, Brevi considerazioni in merito alla configurabilità della compensazione tra debiti tributari accollati e crediti tributari, in Dir. Prat. Trib., 2019, I, 9 ss. (3) Cfr. in particolare Cass. sez. pen., sent. n. 1999/2018, ove, con riferimento al reato di indebita compensazione previsto dall’art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000, sebbene come obiter dictum, i Supremi Giudici richiamano espressamente l’orientamento manifestato nella Risoluzione n. 140 del 2017, desumendo da essa che la normativa “… allo stato attuale, non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti. … Dunque, non essendo tale modalità consentita dalla legge, l’operazione è illecita e, nei casi come quello qui esaminato, assume anche rilevanza penale” (così, testualmente, Cass., sez. pen., sent. n. 1999/2018, cit.; analogamente Cass., sez. pen., sent., n. 55794/2017 cit. e n. 6945/2018 cit.).


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può esercitare nei confronti degli accollanti «i propri poteri di accertamento e di esazione, che possono essere esercitati solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale» (con queste parole Cass. S.U. n. 28162 del 2008)”. Un tale assunto, e cioè la circostanza che l’accollante sia coobbligato (del debito tributario accollato) in forza di titolo negoziale, ad opinione dell’Agenzia “... pone il conseguente dubbio se, nell’accollo … possano trovare applicazione in favore dell’accollante le norme che prevedono modalità peculiari di soddisfazione di tale credito, quali la compensazione” (cfr. Ris. n. 140/E del 2017 - primo argomento). Ovviamente il dubbio interpretativo nasce dalla conclamata assenza di disposizioni normative che “affermino e regolino” esplicitamente la compensabilità di debiti tributari assunti mediante accollo cumulativo esterno ai sensi dell’art. 8, comma 2, L. n. 212/2000. Ciò premesso, l’Agenzia reputa di risolvere negativamente il dubbio in questione, sulla base di due ulteriori argomenti: b) la compensazione in ambito tributario si connoterebbe a tutt’oggi quale normativa di tipo “eccezionale”, nel senso che la “tassatività” delle previsioni e dei limiti con i quali è esplicitamente regolata la compensazione tributaria “... dimostrano che la regola è la non compensabilità (...)”; per cui le norme che consentono la compensazione dei debiti tributari, non essendo idonee a consolidare un principio generale di compensazione, ma recando piuttosto “eccezione” a un “principio” contrapposto, vanno interpretate in senso “ideologicamente restrittivo” (secondo argomento); c) assumendo carattere eccezionale nel senso descritto, le previsioni contenute nell’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, indicata quale normativa applicativa “di riferimento” sulla compensazione tributaria, si applicherebbero quindi “....solo per i debiti (e i contrapposti crediti) in essere tra i medesimi soggetti e non tra soggetti diversi, con esclusione dei debiti “altrui” accollati (terzo argomento). È bene precisare che l’Agenzia, riferisce tali ulteriori argomenti alla giurisprudenza tributaria, con particolare riferimento alla sentenza n. 15123 del 2006 della Corte di Cassazione, cui la Risoluzione fa espresso e pressoché pedissequo rinvio. Alla stregua degli argomenti complessivamente indicati, l’Agenzia, reputa dunque che il dubbio interpretativo sulla compensabilità dei debiti tributari accollati si debba risolvere in senso negativo, escludendo quindi “....in via


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generale, che il debito oggetto di accollo possa essere estinto utilizzando in compensazione crediti vantati dall’accollante nei confronti dell’Erario” (4). 3. Definizione del tema d’indagine. – È a questo punto necessario precisare il percorso d’indagine che si intende seguire. In primo luogo, esso si fonda sull’assunto, innegabile, che il riferimento agli istituti “civilistici” di accollo e compensazione ex art. 8 commi 1 e 2, sia altresì espressamente “realizzato” dal Legislatore fiscale al fine di “tutelare” gli interessi patrimoniali del contribuente/debitore (5); finalità, anch’essa, di chiara ispirazione privatistica.

(4) Pur se estraneo al tema della presente indagine, è possibile evidenziare sin d’ora un palese vulnus del ragionamento esposto nel documento di prassi in questione, sul piano della intrinseca (in)coerenza tra alcuni assunti affermati dall’Agenzia e le conseguenze giuridiche da essi concretamente ritratta. Come è noto, i documenti di prassi dell’Agenzia non assumono il ruolo di fonti normative ma unicamente quello di opinioni interpretative. Tenendo nel dovuto conto quanto appena affermato, è utile soffermarsi sull’assunto ove l’Agenzia riconosce espressamente l’esistenza di “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni richiamate”; nonché, immediatamente dopo, sulla conseguente affermazione ove la medesima Risoluzione ribadisce testualmente che devono “considerarsi validi e non sanzionabili i pagamenti dei debiti accollati, effettuati tramite compensazione, prima della pubblicazione del presente documento di prassi”. Ebbene, l’aver espressamente considerato “valida” la compensazione dei debiti altrui accollati e compensati con propri crediti, se effettuata prima dell’emanazione della Risoluzione, ed al contrario “invalida”, in via generale, se posta in essere dopo la pubblicazione della stessa, è affermazione che contraddice gli effetti giuridici tributari coerentemente correlati alla sussistenza di una condizione di “obiettiva incertezza” interpretativa in ambito tributario; pur esulando dalla presente indagine un approfondimento del tema, può dirsi del tutto pacificamente, infatti, che la condizione di oggettiva incertezza conduce “linearmente” all’inapplicabilità delle sanzioni (art. 10, comma 3, dello Statuto del contribuente e art. 8 del D.lgs. n. 546 del 31/12/1992); essa, cioè, non consente di convalidare la compensazione di un debito tributario, laddove “effettivamente” effettuata contra legem, esprimendo (solo) una causa di non punibilità del trasgressore (art. 6, comma 2, del Dlgs n. 472/1997). Né tantomeno un tale effetto “convalidante” può scaturire da una mera opinione interpretativa dell’Agenzia delle Entrate, qual è appunto quella manifestata nel documento di prassi in questione. Delle due l’una. Se l’estinzione dei debiti accollati mediante compensazione era validamente effettuata prima che l’Agenzia pubblicasse la propria opinione, come da essa stessa affermato, lo stesso comportamento non può reputarsi invalido dopo la pubblicazione di essa. Così come, se la compensazione di debiti accollati si reputa contra legem, come ritenuto dall’Agenzia, gli effetti di tale invalidità non possono scaturire solo dopo la pubblicazione della Risoluzione, ferma l’eventuale non applicabilità delle sanzioni ai pagamenti “invalidi”, già incolpevolmente effettuati in virtù di un’oggettiva incertezza interpretativa. (5) Come è noto, infatti, l’art. 8 è rubricato testualmente “Tutela dell’integrità patrimoniale”. Per l’affermazione di tale profilo “generalissimo” della normativa statutaria de


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Ferma cioè la difficoltà di ricavare precise indicazioni sistematiche da tale formula in un contesto pubblicistico (6), pare tuttavia inevitabile riconoscerne un concreto rilievo “valoriale”; nel senso, quantomeno, di un favor legislativo rilevante sul piano dei principi tributari, sia pure solo tendenziale e per certi versi operativamente vago, volto a “valorizzare” modalità di adempimento (estinzione) del debito d’imposta che tengano conto, accanto alla pregnante finalità pubblicistica del creditore, delle esigenze patrimoniali “privatistiche” del contribuente/debitore. L’obiettivo dell’indagine sarà quindi rivolto, in primo luogo, a verificare in che misura un tale generico “favor” possa essere consolidato in “principi” sistematicamente rilevanti per l’applicazione di accollo e compensazione nell’ordinamento tributario. In secondo luogo, e conseguentemente, si sceglie di concentrare la riflessione sull’operatività degli istituti in questione all’interno del “microsistema” relativo all’adempimento “spontaneo” del tributo. In quest’ambito, infatti, i modi e le attività del contribuente per adempiere e/o estinguere l’obbligazione tributaria, già riflettono “tendenzialmente” i principi civilistici, sia pure di volta in volta conformati e limitati, ove specifiche esigenze della legge d’imposta lo richiedano (7). Il percorso argomentativo del presente lavoro, nell’ambito della scelta metodologica assunta, potrà quindi coerentemente operare, in primo luogo, una “ricognizione” della qualificazione di accollo e compensazione secondo i principi civilistici; per poi verificare le eventuali e specifiche esigenze di adeguamento implicate dalla loro operatività, anche sinergica, nella riscossione “spontanea” del tributo.

qua, tra i tanti, con riferimento all’accollo ex art. 8, comma 2, si veda F. Paparella, L’accollo del debito d’imposta, Milano, 2003, 239 ss.; per l’art. 8, comma 1, cfr. S.M. Messina, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006, 132 ss.; G. Girelli, La compensazione tributaria, Milano, 2010, passim e 197 ss.; M. Mauro, Compensazione tributaria, in Dig. Disc. Priv. diretto da Sacco, Aggiornamento, 2016, 27 ss. (6) Cfr. A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 883 ss., che mette in rilievo il contrasto e l’incongruenza tra il contenuto dell’art. 8, che richiama istituti civilistici, originariamente calati in una visione sostanzialmente paritaria tra le parti, rapportandoli “staticamente” al debito d’imposta, ed il termine “tutela” contenuto nella rubrica, che invece evoca la soggezione del contribuente (e del suo patrimonio) ai poteri pubblicistici (e sovraordinati) del creditore erariale. (7) Per autorevoli osservazioni in tal senso, cfr. ancora A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, op. cit., 910.


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4. Accollo esterno e stipulazione a favore del terzo: cenni alla disciplina civilistica. – Come è noto, ai sensi dell’art. 1273 c.c., l’accollo è l’accordo tra un debitore (accollato) e un terzo (accollante), in forza del quale quest’ultimo assume il debito che il primo ha nei confronti del creditore (8). L’accollo richiede, in sé, dunque, l’elemento dell’altruità del debito: non deve esservi alcuna contitolarità originaria del debito che viene accollato. L’assunzione del debito altrui mediante accollo, come è noto, può avvenire civilisticamente attraverso due diversi tipi di accordo: accollo interno (o semplice) che deriva da una convenzione interna tra debitore e terzo; in tal caso l’accollo è caratterizzato dal fatto che il rapporto si esaurisce tra accollante ed accollato, senza produrre alcun effetto giuridico nei confronti del terzo creditore. L’accollo avrà, dunque, solo efficacia “interna”. Diversamente da questa prima ipotesi, nell’ordinamento civile vi può essere anche l’accollo esterno, che deriva cioè da una convenzione che produce i suoi effetti anche nei confronti del creditore, il quale ha conseguenzialmente il diritto di agire nei confronti dell’accollante che è, per converso, nei suoi confronti direttamente obbligato. Secondo la disciplina del codice civile, l’accollo con efficacia esterna può essere cumulativo ovvero liberatorio, a seconda che il debitore originario rimanga, oppure no, obbligato in solido con l’assuntore del debito altrui. Il prevalente ed oramai consolidato orientamento, sia della dottrina che della giurisprudenza civile, riconduce tale accordo allo schema generale della stipulazione a favore di terzo (art. 1411 c.c.) (9), ritenendo sussistenti l’interesse del debitore stipulante ed il favor per il terzo (10); ciò consente, al debi-

(8) In argomento cfr., tra i tanti, in termini generali e più recentemente B. Troisi, Accollo, in Dig. Disc. Priv. Diretto da Sacco (Aggiornamento), Utet, 2012, 45 ss.; B. Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, in Il cod. civ. comm., diretto da Busnelli, Milano, 2011; U. La Porta, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu e Messineo, continuato da Schlesinger, Milano, 2009, 207 ss. (9) In questo senso B. Troisi, op. cit., 47; B. Grasso, op. cit., 208 ss.; U. La Porta, op. cit., 207 ss.; G.F. Campobasso, Accollo, in Enc. Giur., I, Roma, 1988, 2 ss.; R. Cicala, Saggi, Napoli, 2001, 15 ss.; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1955, 107. Per la giurisprudenza cfr. tra le tante, Cass. 11.4.2000, n. 4604. Contra A. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947, 301 ss.; P. Rescigno, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 9 ss. e 203 ss. (10) G.F. Campobasso, op. cit., 3, che evidenzia, in particolare, come l’interesse del debitore accollato si sostanzia in una “...causa solvendi alla deviazione in testa al creditore (terzo) dell’effetto obbligatorio a carico dell’accollante (promittente) posto dalla convenzione di accollo”.


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tore accollato ed all’accollante, di attribuire un diritto al creditore senza la sua partecipazione alla stipulazione del contratto di accollo. L’adesione del creditore non assume quindi elemento costitutivo della fattispecie, né tantomeno requisito di efficacia (11), ma rileva piuttosto quale “..dichiarazione di voler profittare e di rendere stabile l’incremento patrimoniale già prodotto a suo favore” (12). Fino a quando il terzo creditore non aderisce alla convenzione, questa può dunque essere revocata o modificata. Se invece il creditore aderisce all’accollo, accetta implicitamente il nuovo debitore nel ruolo di obbligato principale, con la degradazione del debito originario da principale a sussidiario (c.d. beneficium ordinis) (13). È altresì possibile che il creditore rifiuti di aderire alla convenzione stipulata a suo favore; tale scelta dovrà essere manifestata con atto unilaterale, recettizio, eliminativo dell’efficacia esterna della stipulazione e, con essa, dei diritti/obblighi in tal senso scaturiti. Con l’esercizio del potere di rifiutare l’accollo esterno, il creditore consuma altresì il suo potere di aderire alla convenzione, la quale conserva, tendenzialmente, i suoi effetti tra accollato e accollante, quale accollo interno (14). Così fissate, sia pure per estrema sintesi, le indicazioni sistematiche ricavabili dall’ordinamento civile, può ribadirsi che esse sono in sé “tendenzialmente” rilevanti per le attività “privatistiche” rimesse dalla legge d’imposta al contribuente per l’adempimento spontaneo del tributo, ivi compreso l’accollo del debito d’imposta di cui all’art. 8, co. 2. Ciò detto, occorre dunque volgere la riflessione alla normativa tributaria ed ai suoi principi, al fine di valutare le eventuali esigenze di conformazione/ limitazione dell’accollo “civilistico”, da essi specificamente implicate.

(11) Così invece R. Cicala, Accollo, Enc. Dir., 1, Milano, 1958, 291. (12) G.F. Campobasso, op. cit., 4. In tale scritto è chiarito espressamente che tale accezione è conforme all’opinione dominante in tema di stipulazione a favore del terzo; cfr. anche B. Troisi, op. cit., 47 e 48. Per la giurisprudenza, in questo senso, tra le tante, v. Cass., 2 dicembre 2011, n. 25863; Cass., 8 febbraio 2012, n. 1758; Cass., 24 febbraio 2014, n. 4383. (13) Sicché egli, prima di potersi rivolgere all’accollato, avrà l’onere di chiedere preliminarmente l’adempimento all’accollante. In tal senso, tra i tanti, cfr. P. Rescigno, op. cit. 66 ss.; G.F. Campobasso, op. cit. 5; in giurisprudenza, Cass. 24.2.2010, n. 4482; Cass. 24.5.2004, n. 9982. (14) B. Troisi, op. cit., 48; U. La Porta, op. cit., 296 ss.


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5. Accollo esterno del debito d’imposta: ruolo (marginale) dell’eventuale adesione dell’Amministrazione e suo possibile rifiuto. – L’accollo “esterno” è stato introdotto nell’ordinamento tributario ad opera dell’art. 8, co. 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, che recita: “È ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui”, precisando, “senza liberazione del contribuente originario”. Sarebbe assolutamente pleonastica, infatti, tale ultima locuzione legislativa, se si intendesse che l’accollo rilevante in ambito tributario fosse solo l’accollo interno, come tale pacificamente già ammesso da anni (15). In virtù di tale disposizione legislativa, dunque, è oggi ampiamente riconosciuta la possibilità di stipulare un accollo esterno del debito d’imposta altrui (16); senza possibilità, ovviamente, come legislativamente ribadito nell’art. 8, che vi sia la liberazione dell’accollato: questi, infatti, resta in ogni caso soggetto passivo dell’obbligazione tributaria sorta ex lege nei confronti del Fisco. Ebbene, orientando una prima esegesi della norma in esame nell’ambito delle coordinate sistematiche sinora tracciate, può essere ricavata una preliminare operatività dell’accollo esterno in ambito tributario nei termini seguenti. L’accollo esterno del debito d’imposta è “valido” solo se “cumulativo”: il debitore originario (accollato), precisamente, continuerà a rispondere del debito nella sua specifica veste di soggetto passivo dell’obbligazione tributaria e, come tale, rimarrà assoggettato a obblighi e poteri amministrativi previsti dalle leggi d’imposta. Ciò discende dalla specifica indicazione normativa di cui all’art. 8 co. 2, ma è altresì implicato dai principi di capacità contributiva e responsabilità ex lege nell’adempimento del tributo, spiccatamente pubblicistici, nonché costituzionalmente delimitati (art. 23 Cost.); come tali, non derogabili da pattuizioni private.

(15) Sulla consolidata applicabilità dell’accollo “interno” del debito d’imposta, anche prima dell’emanazione dello statuto, cfr. per tutti F. Paparella, op. cit., 211 ed ivi ampi riferimenti bibliografici. (16) F. Paparella, op. cit., 260 ss.; E. De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2002, 93; F. Batocchi, L’accollo del debito d’imposta altrui, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi - A. Fedele, Milano, 2005, 445; N. Zanotti, op. cit., 12 ss. Per la giurisprudenza cfr. Cass. S.U. n. 28162 del 2008. Contra A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, cit., 897.


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È quindi da ritenere “sistematicamente” preclusa l’operatività del beneficium ordinis all’accollo esterno del debito d’imposta, pur in assenza di espresse indicazioni normative; in quanto la degradazione da “principale” a “sussidiaria” della responsabilità del contribuente accollato, in virtù di scelta negoziale dei privati, non è compatibile con i principi che sorreggono la qualificazione di soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, così come stabilita dalla legge d’imposta (17). Accanto alla “naturale” responsabilità di origine pubblicistica del “soggetto passivo dell’obbligazione tributaria”, prevista e delimitata ex lege, si affiancherà quindi una responsabilità solidale “civilistica” dell’accollante, direttamente rilevante nei confronti del creditore Fisco in ragione della stipula di un accollo esterno, nonché giuridicamente “limitata” al debito così come scaturente dalla medesima pattuizione di accollo (18). In tal senso, preferibilmente, è da ritenere altresì coerentemente precluso non solo l’esercizio dei poteri amministrativi di controllo dell’obbligazione accollata rispetto al presupposto del tributo, ma anche di quelli amministrativi di riscossione coattiva nei confronti dell’accollante (19), ovviamente in assenza di norma tributaria che ne legittimi specificamente l’esercizio (20).

(17) Contra, sia pure in termini problematici, F. Paparella, op. cit., 336 e 343; sembra dare per scontata l’applicazione del beneficium ordinis all’accollo esterno del debito d’imposta, svilendo peraltro l’importanza pratica di una tale conseguenza, N. Zanotti, op. cit., 14 e 15. (18) La responsabilità dell’accollante, cioè, non si estende all’eventuale ulteriore ammontare del debito d’imposta, eventualmente contestato in capo all’accollato in seguito all’esercizio dei poteri amministrativi di controllo. (19) L’Amministrazione, cioè, dovrà “…agire in via ordinaria per l’accertamento e l’adempimento dell’obbligo contrattuale..” assunto dall’accollante del debito d’imposta (così Cass. S.U. n. 28162 del 2008, su cui ampiamente infra nel paragrafo seguente). In tal senso, sia pure in una prospettiva più generale concernente la responsabilità per i debiti tributari assunta in base a fonte negoziale, si veda S. La Rosa, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, in Riv. Dir. Fin., 2008, I, 331 ss., nonché precedentemente all’emanazione dell’art. 8 dello Statuto, M. Nussi, La solidarietà dipendente da fonte civilistica: problemi procedimentali e di giurisdizione, in Rass. Trib., 1999, 1559; sullo specifico argomento dell’accollo esterno, sempre a favore dell’applicabilità dei rimedi civilistici, cfr. M. Miscali, Il diritto di restituzione, Milano, 2004, 223; F. Batocchi, L’accollo del debito d’imposta altrui, cit., 446. Privilegia invece un’applicazione “estensiva o analogica” dei poteri di riscossione amministrativa nei confronti dell’accollante esterno, pur dando analiticamente conto di una molteplicità di prospettive nonché ribadendo che l’accollante non acquista la veste giuridica di “soggetto passivo” dell’obbligazione tributaria ma quella di coobbligato in base a titolo negoziale, F. Paparella, op. cit., 338 ss., 343 e 354 ss. (20) Per un’ampia ricognizione e disamina delle ipotesi normative concernenti la riscossione di debiti fiscali nei confronti del “garante”, anche al fine di ulteriori indicazioni


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È possibile a questo punto tirare le fila del discorso sin qui condotto, per un verso applicando all’accollo esterno del debito d’imposta le indicazioni ritratte dall’ordinamento di provenienza di tale istituto; per altro verso, conformandone l’utilizzo fiscale in virtù delle esigenze insopprimibili dell’ordinamento tributario, espressamente manifestate ovvero sistematicamente ricavabili. Occorre precisare, in tale guisa, che l’assunzione del debito fiscale in capo all’accollante, con le relative conseguenze in termini di responsabilità patrimoniale di costui nei confronti del Fisco, è effetto scaturente direttamente dalla stipulazione del patto di accollo esterno, in linea con la prevalente dottrina e giurisprudenza civilistica in argomento. L’eventuale adesione dell’Amministrazione creditrice all’accordo, infatti, come già rilevato in termini generali, avrà unicamente l’effetto di rendere stabile e irrevocabile l’incremento patrimoniale già prodotto a suo favore (21). Laddove invece l’Amm. Fin. intenda eliminare l’efficacia nei suoi confronti dell’accollo esterno, come similmente già chiarito sul piano civilistico, dovrà manifestare il proprio rifiuto con atto unilaterale e recettizio (22). Ciò implica che la medesima Amm. Fin., ove intenda procedere in tal senso, dovrà farlo necessariamente in modo espresso, non scaturendo alcun effetto, in questo caso, dal silenzio di essa a fronte dell’avvenuta conoscenza di un accollo esterno del debito d’imposta (23).

bibliografiche, cfr. A. Guidara, La riscossione dei tributi nei confronti del garante, in Riv. Dir. trib., 2005, I, 679 ss. (21) Non si reputa pertanto condivisibile quanto sostenuto in F. Paparella, op. cit., 313, ove è affermato, in base alla ricostruzione civilistica dell’istituto, che “….l’adesione.. [dell’Amm. Fin. all’accollo esterno]….è la fonte che determina gli effetti previsti dalla legge in termini di responsabilità solidale e di rafforzamento della garanzia a tutela della pretesa erariale”. Una tale prospettiva con riferimento al ruolo dell’adesione del creditore nell’accollo esterno, infatti, essendo superata da anni dalla prevalente dottrina e giurisprudenza civilistica (come rilevato nel paragrafo precedente), determina un’applicazione dell’accollo esterno del debito d’imposta “disallineata” da quella consolidata in ambito civilistico, in assenza di specifiche ragioni che la supportino. Nel senso criticato, v. anche N. Zanotti, op. cit., 21. (22) Sulla natura “discrezionale” del diniego di accollo esterno e sui profili problematici di impugnabilità F. Paparella, op. cit., 382 ss. (23) Contra F. Paparella, op. cit., 382 ss. che, probabilmente muovendo dalla (criticata) prospettiva che attribuisce all’adesione dell’Amministrazione valenza perfezionativa o quantomeno requisito di efficacia dell’accollo esterno, attribuisce specifica rilevanza giuridica, anche in termini di lesività, al rifiuto “tacito” dell’Amm. Fin. di aderire al patto di accollo esterno.


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Come già chiarito, infine, non si avrà alcuna degradazione della responsabilità dell’accollato da principale a sussidiaria, non essendo applicabile in ambito fiscale il beneficium ordinis. Nei termini descritti, l’accollo esterno del debito d’imposta, coerentemente inserito negli schemi (essenzialmente privatistici) della riscossione “spontanea” del tributo, pur manifestando alcune peculiarità, può conservare le caratteristiche fondamentali della stipulazione a favore del terzo codificate sul piano civilistico (favor per il creditore terzo, nonché interesse del debitore accollato - causa solvendi), conformandone unicamente gli aspetti spiccatamente pubblicistici, non rimessi alla libertà negoziale. Ferme, infatti, le prerogative pubblicistiche nei confronti del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, rimane preservato, da un lato, il favor per il terzo creditore, che acquista ulteriori diritti nei confronti dell’accollante, senza perdere alcuna prerogativa (pubblicistica) scaturente ex lege nei confronti dell’accollato (24); dall’altro lato, pur con le limitazioni descritte, assume altresì rilievo l’interesse del debitore accollato a gestire nel modo patrimonialmente più appropriato l’assolvimento dell’obbligazione tributaria, così come sistematicamente rilevabile, sia pure vagamente, nella rubrica dell’art. 8. 5.1. Critica alla tesi che nega “ogni” rilievo giuridico tributario inter partes al debito fiscale accollato in ragione della fonte negoziale e non legale. – La qualificazione (civilistica e tributaria) dell’accollo esterno, ex art. 8 co. 2 sin qui delineata, va ora confrontata con i primi argomenti addotti per negare, in via generale, la “compensabilità tributaria” del debito fiscale accollato. Nella risoluzione n. 140/E dell’Agenzia delle Entrate, come già ricordato, è affermato in particolare che la natura di “obbligato negoziale” dell’accollante non consente, di per sé, di considerare tale obbligazione un debito “in essere” tra costui e la parte pubblica sul piano giuridico tributario, come tale compensabile nell’ambito della disciplina recata dall’art. 17, comma 1, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241. A tal proposito la Risoluzione richiama la sentenza Cass. S.U. n. 28162 del 2008 ove si enuncia che “assumere volontariamente l’impegno di pagare le imposte dovute dall’iniziale debitore non significa «assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità

(24) Si è già detto che le esigenze pubblicistiche delle leggi d’imposta inducono a ritenere non applicabile il beneficium ordinis all’accollo esterno del debito d’imposta, diversamente dalla prospettiva codicistica.


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di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale», tanto che l’Amministrazione finanziaria non può esercitare nei confronti degli accollanti «i propri poteri di accertamento e di esazione, che possono essere esercitati solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale» (con queste parole Cass. S.U. n. 28162 del 2008)”. A ben vedere, la Risoluzione sovrappone due concetti ben distinti: un conto, cioè, è affermare che la soggezione al potere amministrativo di controllo dell’obbligazione fiscalmente dovuta e di riscossione coattiva della medesima, intimamente legata ad obblighi tributari sorti ex lege, è aspetto non rimesso all’autonomia negoziale (25); altro è negare tout court, in base a tale assunto, ogni rilievo giuridico “tributario” nei confronti del creditore Fisco, all’obbligazione sorta in virtù di accollo esterno del debito d’imposta, posta in essere ai sensi dell’ art. 8 co. 2. Una tale interpretazione, invero, non discende né dalla ricostruzione civilistica dell’accollo esterno, né tantomeno dalle esigenze di conformazione dell’ordinamento tributario, siano esse espresse ovvero rilevabili sul piano dei principi. Tra l’altro, una simile implicazione interpretativa, diversamente da quanto affermato nella risoluzione n. 140/E, non è manifestata nella sentenza della Cassazione richiamata, né tantomeno pare desumibile dall’iter logico seguito dai giudici. Nella sentenza, infatti, quando si afferma che la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario è attribuibile, ex art. 23 Cost., “… solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale”, lo si fa con chiaro ed univoco riferimento all’esercizio dei poteri (pubblicistici) di accertamento e riscossione dell’obbligazione accollata. È vero, cioè, che dopo aver ribadito la natura di “obbligato (o coobbligato)” verso il Fisco dell’accollante, la sentenza opportunamente precisa “in forza di titolo negoziale”; ma una tale precisazione è lucidamente e specificamente indicata per circoscrivere, all’ambito delimitato ex lege, i poteri pubblicistici cui soggiace il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, sottraendo da essi l’accollante con specifico riferimento alla responsabilità patrimoniale per il debito accollato negozialmente (26); nulla peraltro è detto dai giudici sulla compensabilità di tale debito.

(25) (26)

Assunto condivisibile e già espressamente affermato nelle pagine precedenti. Quanto detto è opportunamente e chiaramente affermato dalla sentenza, ove si


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Conclusivamente sul punto, la fonte negoziale del debito accollato non può interferire con prerogative spiccatamente pubblicistiche, per un verso limitandole nei confronti del soggetto passivo accollato, per altro verso estendendole nei confronti dell’accollante. Da tali assunti, peraltro, non è coerentemente ricavabile alcuna preclusione generale alla compensazione spontanea del debito fiscale accollato. 6. Le norme sulla compensazione fiscale quali norme eccezionali recanti attuazione atipica del principio generale di compensazione. – Dall’indagine sin qui condotta in tema di accollo esterno del debito d’imposta, non sono quindi emersi argomenti idonei a sorreggere una preclusione “generale” alla compensabilità del debito d’imposta accollato, con particolare riguardo alle ipotesi riconducibili all’adempimento spontaneo del tributo. Occorre verificare, a questo punto, se una tale preclusione discenda invece dalla disciplina concernente la compensazione dei debiti tributari. Coerentemente con la linea d’indagine indicata, si premettono alcuni brevissimi cenni all’istituto civilistico. È utile ricordare che l’istituto della compensazione quale modalità estintiva dell’obbligazione, trova generale disciplina nel diritto comune ai sensi degli articoli 1241 e seg. del c.c. “Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono” (27). Presupposto essenziale perché vi sia compensazione, come già accennato, è dunque la coesistenza e reciprocità di debiti e crediti fra le parti (28). Tale istituto, riconducibile ai modi satisfattori di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, rivolge tradizionalmente la sua funzione eco-

sottolinea che “l’amministrazione non poteva esercitare nei loro confronti (nei confronti cioè degli accollanti) i propri poteri di accertamento e di esazione….: essa avrebbe, invece, dovuto agire in via ordinaria per l’accertamento e l’adempimento dell’obbligo contrattuale.” (27) In argomento cfr. G. Ragusa Maggiore, Compensazione, b) Diritto Civile, in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, 17 ss.; P. Perlingieri, Modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in Comm. cod. civ. Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1978; G. Zuddas, Compensazione, in Enc. Giur., VII, 1998; C. Cicero, Compensazione, in Dig. Disc. Priv., Aggiornamento, diretto da Sacco, 2012, 162 ss. (28) G. Ragusa Maggiore, op. cit. 23; G. Zuddas, op. cit., 2. Nel senso che la reciprocità non implica la dualità dei soggetti ma piuttosto quella dei patrimoni cfr. P. Perlingieri, op. cit., 257 ss.; C. Cicero, op. cit., 163.


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nomica “ad esigenze di speditezza e di semplicità, giacché con essa si evitano inutili spostamenti di moneta” (29). Conclusivamente sul punto, sia pur con la dovuta semplificazione, può dirsi assodato nel diritto civile un principio che riconosce la compensazione (legale) quale modalità di estinzione, ampia ed “applicativamente” generalizzata (30), delle obbligazioni di crediti (e debiti) reciproci che siano certi, liquidi ed esigibili (31), di natura satisfattoria pur se diversa dall’adempimento (32). Ferme le line concettuali della compensazione così come definite nella disciplina codicistica, è peraltro significativamente diverso il ruolo e l’operatività di tale istituto nell’ordinamento tributario, in ragione delle sottese esigenze pubblicistiche (33). In un approccio tradizionale, infatti, antecedente all’emanazione dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, la tendenziale inapplicabilità della compensazione ai debiti fiscali è stata essenzialmente affermata in ossequio ad un approccio “rigidamente” fondato sulla natura pubblica ed indisponibile dell’obbligazione tributaria (34). Si negava cioè “radicalmente” l’esistenza di un principio generale di compensazione in ambito tributario, in speculare contrapposizione con i principi vigenti nel codice civile. Su tale assunto si è dunque inizialmente radicata la natura eccezionale delle norme che prevedono la compensazione di crediti e debiti tributari (35),

(29) G. Zuddas, op. cit., 1. (30) È tendenzialmente esclusa la compensazione delle obbligazioni indivisibili (cfr. P. Perlingieri, op. cit., 263). (31) G. Zuddas, op. cit., 3 ss. (32) P. Perlingieri, op. cit., 273; C. Cicero, op. cit., 165 ss.. (33) Per una trattazione generale dell’argomento, anche al fine di ulteriori indicazioni bibliografiche, si rinvia a S.M. Messina, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006; G. Girelli, La compensazione tributaria, Milano, 2010, nonché, più recentemente, a M. Mauro, Compensazione tributaria, in Dig. Disc. Priv. Diretto da Sacco, Aggiornamento, 2016, 27 ss. (34) A.D. Giannini, Circa l’inderogabilità delle norme tributarie, in Riv. Dir. Fin., 1953, II, 291; G.A. Micheli - G. Tremonti, Obbligazioni, (dir trib.), in Enc. Dir., XXIX, Milano, 1979, 453. (35) Da ritenere, cioè, insuscettibili di integrazione analogica nonché di strettissima interpretazione ed inidonee a consolidare principi.


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quali deroghe, cioè, ad un principio dell’ordinamento tributario esattamente contrapposto (36). La prospettiva del dibattito è inevitabilmente mutata con l’entrata in vigore dell’art. 8 co. 1, della L. n. 212/2000, laddove tale disposizione afferma espressamente una “generale” compensabilità dell’obbligazione tributaria (37). La medesima norma, tuttavia, come è noto, ha rimesso la disciplina di dettaglio a successive norme esecutive, mai emanate (38). La discussione si è dunque essenzialmente incentrata sulla natura “programmatica” della disposizione recata dall’art. 8 co. 1 (39), come tale recante un principio sostanzialmente “inattuale” fintantoché non siano emanate le disposizioni esecutive; ovvero sull’immediata precettività della medesima disposizione, essenzialmente nel senso di una possibile integrazione analogica della disciplina tributaria in tema di compensazione con le disposizioni del codice civile, in quanto compatibili (40). Tale incertezza ha coinvolto anche la giurisprudenza, con orientamenti della Cassazione che, talvolta, hanno affermato la piena e generalizzata applicazione dei principi civilistici sulla compensazione in ambito tributario (41); talaltra, pronunciandosi in senso radicalmente diverso, hanno ribadito la ri-

(36) Cfr. M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1988, 429 ss. (37) Per spunti favorevoli ad una più ampia applicazione della compensazione dei debiti d’imposta, anche prima dell’emanazione dell’art. 8 dello Statuto, v. già M.S. Giannini, Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, 66; A. Fantozzi, Premesse per una teoria della successione nel procedimento tributario, in Aa.Vv., Studi sul procedimento amministrativo tributario, Milano, 1971, 98; P. Russo, L’obbligazione tributaria, in Trattato di diritto tributario diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, II, 22. (38) Cfr. di recente M. Mauro, op. cit., 29. (39) P. Russo, La compensazione in materia tributaria, in Rass. Trib., 2002, 1855. (40) A favore dell’immediata precettività dell’art. 8 dello Statuto è l’orientamento nettamente maggioritario della dottrina. Cfr. tra i tanti, sia pure nell’ambito di opinioni non esattamente coincidenti: S.M. Messina, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006, 132 ss.; G. Girelli, La compensazione tributaria, cit., 197 ss. e p, 217 ss.; A. Fantozzi, Corso di diritto tributario, Milano, 2004, 243; A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 907; R. Cordeiro Guerra, La compensazione, in Aa.Vv., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di G. Marongiu, Torino, 2004, 27; A. Guidara, Gli accordi nella fase della riscossione, in Aa.Vv., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2007, 372 ss.; M. Mauro, op. cit., 31; N. Zanotti, Brevi considerazioni, cit., 17 ss. (41) Cass. 25-10-2006, n. 22872 in Corr. Trib., 2007, p. 35 ss. con nota di M. Basilavecchia, Applicabilità immediata della compensazione tributaria.


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gorosa tassatività ed eccezionalità delle norme tributarie sulla compensazione (42). Non è possibile, per le finalità del presente lavoro, esaminare funditus tutte le implicazioni e le problematiche sulla compensazione tributaria (43). È invece opportuno consolidare alcuni assunti sul piano dei principi, direttamente rilevanti per l’argomento qui indagato. Ferma la relatività del concetto di norma eccezionale (44), è importante stabilire se la normativa sulla compensazione dei debiti tributari sia ancora oggi effettivamente qualificabile come “...norma che non sia riconducibile ai principi generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma anzi che faccia eccezione ai principi, o sia in contrasto con essi” (45). È (solo) in tale accezione, infatti, che il concetto di “norma eccezionale”, al di là del divieto di interpretazione analogica contenuto nell’art. 14 delle Preleggi, è abitualmente utilizzato quale argomento per sostenere interpretazioni restrittive della littera legis (46), trattandosi di norme tendenzialmente “inidonee” a consolidare principi (47). Sensibilmente diversa è, invece, sul piano dei principi generali del diritto, l’ipotesi in cui la norma, pur se definibile eccezionale, non lo è in quanto opera in difformità e contrasto con il principio generale, ma in quanto ne regola un’attuazione atipica. In questa accezione, infatti, la norma eccezionale è strettamente legata al contesto attuativo di riferimento; per cui, pur essendo preclusa la sua integrazione analogica per il tramite di norme o disposizioni poste fuori da esso, la medesima norma “eccezionale” è al contempo ordinariamente interpretabile

(42) Cass. 30-6-2006, n. 15123; Cass. 25-5-2007, n. 12262; Cass. 9-7-2013, n. 17001. (43) Per approfondimenti si rinvia alla dottrina citata nelle precedenti note. (44) Per alcune indicazioni generali su tali profili, nella prospettiva delle agevolazioni fiscali, cfr. G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 432. (45) C. cost. n. 487/1989, espressiva cioè di una regola “che deroga ad una norma generale (valevole per la generalità dei casi)...” (N. Bobbio, Analogia, in Noviss. Dig. It., Torino, I, 1957, 605). (46) Così come sostenuto nella Ris. n. 140/E, con specifico riferimento all’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241. (47) Cfr. R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, in Trattato di diritto privato (a cura di G. Iudica e P. Zatti), Milano, 1993, 440, nonché E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano, 1949, 88, entrambi citati in G. Melis, op. cit., 432, nota 378.


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all’ “interno” del proprio ambito, persino estensivamente o analogicamente (48). Ebbene, una volta chiarita tale distinzione, la natura delle norme tributarie sulla compensazione pare chiaramente riferibile a quest’ultima tipologia di norme eccezionali, piuttosto che alla prima. Un tale assunto, in effetti, è desumibile già dalla formulazione letterale dell’art. 8 L. n. 212/2000, se apprezzata in ragione della strutturazione complessiva di tale disposizione, con particolare riguardo ai co. 1 e 8 in tema di compensazione. In primo luogo, attribuendo il giusto rilievo al disposto del co. 1, formulazione espressiva della chiara volontà di introdurre un “principio” immediatamente vigente nell’ordinamento tributario, coerentemente con le finalità dell’intero art. 8 dello Statuto, piuttosto che avente natura meramente programmatica (49). In secondo luogo, cogliendo la ratio sottesa all’indicazione contenuta nel co. 8 (50), piuttosto che discettare sulle conseguenze della sua specifica esecuzione o meno; quale espressa manifestazione legislativa, cioè, dell’esigenza che il principio di compensazione stabilito in via generale dal co. 1 (anche) per l’obbligazione tributaria, sottenda necessariamente un’attuazione “atipica” in tale ambito, nel senso precisato sul piano dei principi generali del diritto. 6.1. Conferme e coerenti implicazioni derivanti dalla precisata natura eccezionale delle norme tributarie sulla compensazione. – Una volta tendenzialmente ricondotta la normativa tributaria sulla compensazione alla tipologia di norme eccezionali recanti attuazione atipica al principio generale di compensazione, possono essere esaminati i diversi argomenti formulati sulla

(48) Su tali profili generalissimi cfr. lucidamente P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli, 1997, 11 ss. (49) Sottolinea efficacemente tali aspetti, anche sul piano sistematico, con particolare riguardo alla già accennata valorizzazione di tale istituto quale strumento di “tutela” dell’integrità patrimoniale del contribuente, S.M. Messina, op. cit., 132 ss. (50) “Ferme restando, in via transitoria, le disposizioni vigenti in materia di compensazione, con regolamenti emanati ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, è disciplinata l’estinzione dell’obbligazione tributaria mediante compensazione, estendendo, a decorrere dall’anno d’imposta 2002, l’applicazione di tale istituto anche a tributi per i quali attualmente non è previsto” (art. 8, co. 8, L. n. 212/2000).


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questione, per consolidare la ricostruzione prospettata, nonché per derivarne le coerenti implicazioni sul piano della compensabilità dei debiti accollati. In tal senso, affermare che il “principio di compensazione” è “...vigente nell’ordinamento tributario...” ai sensi dell’art. 8 co. 1, non implica affatto la diretta applicabilità della disciplina codicistica per consentire tramite essa l’integrazione analogica delle norme tributarie sulla compensazione (51). Una tale opinione, infatti, pure se coglie condivisibilmente la valenza della compensazione quale principio generale “vigente” nell’ordinamento tributario, non pare tuttavia compatibile con le esigenze di attuazione atipica di esso, che sorreggono nel senso già chiarito la tassatività della disciplina prevista in tale ambito. Tale implicazione, coerentemente ritratta dalla prospettata qualificazione sul piano dei principi generali e dall’art. 8 nel suo insieme, è altresì confortata dalle “cautele” legate all’acquisizione/gestione di somme immediatamente rilevanti sul piano pubblicistico, le cui movimentazioni sono tra l’altro esponenzialmente moltiplicate nell’ambito di una fiscalità di massa (52). Le accennate cautele, probabilmente, sono alla base del revirement della medesima Suprema Corte, che, modificando l’opinione più aperta all’ingresso dei criteri civilistici per colmare le “lacune” della disciplina tributaria, ha espresso un diverso orientamento a favore della “tassatività” delle ipotesi di compensazione dei debiti tributari, attualmente maggioritario (53).

(51) Così invece, per la giurisprudenza, cfr. Cass. civ. 25-10-2006, n. 22872; analogo principio è stato poi riaffermato anche da Cass. civ., sent., 24-11-2010, n. 23787. Tendenzialmente in questo senso, pur ribadendo opportunamente che la disciplina prevista dal codice civile può essere applicata solo se compatibile, cfr. S.M. Messina, op. cit., 139 ss.; M. Mauro, op. cit., 31. A favore di un’ampia applicazione della disciplina civilistica sulla compensazione in ambito tributario, anche al fine di integrare e ampliare le specifiche disposizioni tributaria sulla compensazione, v. in particolare G. Girelli, La compensazione tributaria, Milano, 2010, 198 ss.; N. Zanotti, op. cit., 18. (52) Sottolinea l’esigenza di un opportuno raccordo, sul piano applicativo, tra l’operatività della compensazione in ambito tributario e l’acquisizione di somme nell’ambito della contabilità di Stato P. Russo, op. cit., 1855 ss. (53) In esso si afferma espressamente che: “in materia tributaria, la compensazione è ammessa, in deroga alle comuni disposizioni civilistiche, soltanto nei casi espressamente previsti, non potendo derogarsi al principio secondo cui ogni operazione di versamento, di riscossione e di rimborso ed ogni deduzione è regolata da specifiche, inderogabili norme di legge. Nè tale principio può ritenersi superato per effetto della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8, comma 1, che, nel prevedere in via generale l’estinguibilità dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato ferme, in via transitoria, le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato.”


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Il più recente orientamento giurisprudenziale, per le ragioni già dette, si reputa essenzialmente condivisibile per le conclusioni cui giunge; ciò, peraltro, nel limitato senso di negare l’integrazione analogica delle norme sulla compensazione tributaria con le regole del diritto civile, in quanto estranee all’ambito di attuazione (atipica) di tale principio, che è appunto strettamente rimesso al contesto tributario. Ma, è bene ribadirlo, da una tale affermazione non discende, sul piano sistematico, né la negazione della compensazione quale “principio generale” attualmente vigente nell’ordinamento tributario, degradando da precettiva a meramente programmatica la disposizione di cui all’ art. 8 co. 1, L. n. 212/2000 (54). Né tantomeno, conseguentemente, la qualificazione della disciplina tributaria come “eccezionale” nel senso di norma in contrasto con un principio generale contrapposto, come tale da interpretare restrittivamente anche all’interno del proprio ambito. Una tale denegata accezione, a mio avviso, condurrebbe infatti l’orientamento in questione non solo chiaramente contra legem rispetto all’art. 8, ma bensì in contrasto con consolidati assunti di teoria generale del diritto. Conclusivamente sul punto, va esclusa la diretta applicazione dei criteri civilistici per ampliare analogicamente la normativa che regola le modalità di compensazione tributaria, in quanto espressiva di ipotesi “applicative eccezionali”, recanti attuazione atipica di tale principio all’interno del proprio specifico contesto. Coerentemente con tale qualificazione, peraltro, a tale normativa andranno applicati gli ordinari criteri di interpretazione, ivi compreso, eventualmente, quello di integrazione analogica, purché coerentemente consolidati all’interno del proprio peculiare ambito applicativo. Tutto ciò rilevato, dalla tassatività delle disposizioni sulla compensazione tributaria, una volta correttamente qualificata l’“eccezionalità” delle medesi-

(così, testualmente, Cass. civ., Ord. 07-02-2018, n. 2925 e, analogamente, Cass. civ., Ord., 0907-2013, n. 17001; Cass. civ. sent., 28-01-2010, n. 1851; Cass. civ. Sent. 10-02-2010, n. 2957; Cass. n. 12262 del 25-05-2007; Cass. 15123/06; Cass. n. 22872 del 2006). (54) Come invece “sembrerebbe” trasparire da alcuni obiter dicta della medesima Corte, in cui è affermato che: “in attesa della emanazione del regolamento … la normativa statuaria non poteva ritenersi applicabile, con conseguente applicazione della disciplina anteriore, in cui la compensazione è consentita solo ove espressamente prevista” (così Cass. civ. sent 05-072017, n. 16532).


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me, non si ricava alcun argomento in sé idoneo a sostenere un “divieto generale” di compensazione dei debiti fiscali accollati (55). Precisamente, un tale divieto potrà essere desunto solo ove le modalità di compensazione “tassativamente” previste dalla normativa tributaria vigente, interpretate ordinariamente all’interno del proprio peculiare ambito applicativo, precludano, ex se e specificamente, la compensazione dei debiti fiscali accollati. L’indagine sin qui svolta, quindi, andrà conclusivamente riferita a tale disciplina applicativa, con particolare riferimento all’art. 17 comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, quale norma di riferimento sulla compensazione nell’ambito della riscossione spontanea del tributo. 7. La compensazione ex art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241: la “tassatività” non preclude l’applicazione dell’istituto ai debiti fiscali accollati. – Con riguardo all’operatività dell’istituto della compensazione in ambito tributario, sono numerose le disposizioni specifiche che ne hanno via via concretamente disciplinato una sempre più ampia applicabilità (56). Tra le specifiche disposizioni in tema di compensazione, indubbiamente, merita particolare attenzione l’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, ipotesi di ampissima applicazione pratica (57). Con tale norma, come è noto, il legislatore tributario, nell’intento di semplificare e razionalizzare il sistema dei versamenti spontanei delle imposte dirette e dei contributi previdenziali, ha previsto la possibilità per il contribuente di eseguire “versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali,

(55) Un tale argomento è utilizzato nella Ris. n. 140/E per negare la compensabilità dei debiti accollati, laddove si definiscono, come si è dimostrato erroneamente, le norme sulla compensazione dei debiti fiscali, quali deroghe “eccezionali” ad un principio generale che vieta la compensazione in ambito fiscale. (56) Cfr. ad es. art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997; art. 28-ter, dpr 602/1973; art. 73 del dpr n. 633/1972 per la liquidazione dell’Iva di gruppo; etc. (57) A tale norma, infatti, la Risoluzione si richiama espressamente, sia per affermare la condivisibile esigenza di “applicare” la compensazione nell’ambito delle ipotesi tassative previste dalla normativa tributaria, sia per ricavarne, come si vedrà invece apoditticamente, una preclusione generale alla compensabilità dei debiti fiscali accollati. Per approfondimenti generali su tale disposizione, anche al fine di ulteriori indicazioni bibliografiche, si rinvia a S.M. Messina, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006; G. Girelli, La compensazione tributaria, Milano, 2010.


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con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti”. Si è rilevato che l’Agenzia nella Ris. n. 140/E ravvisa nell’espressione normativa “…nei confronti dei medesimi soggetti” un argomento contrario alla compensabilità dei debiti accollati, in quanto debiti “altrui” (58). Già ad una mera lettura testuale, peraltro, si rileva che l’assunto “nei confronti dei medesimi soggetti” denota una specifica delimitazione dei “soggetti pubblici” delle obbligazioni debitorie e creditorie (Stato, regioni ed enti previdenziali) nei confronti dei quali è ammessa la compensazione ex art. 17, e non certo uno specifico limite alla compensabilità di debiti fiscali accollati dai soggetti “privati”. In tale specifica accezione, tra l’altro, come ampiamente ribadito in dottrina (59), la formulazione in questione non esprime una restrizione “atipica” rispetto all’attuazione della compensazione secondo i criteri civilistici, ma piuttosto un “peculiare” ampliamento (60). Al di là dell’interpretazione letterale e preliminare già data, l’assenza di preclusione alla compensabilità dei debiti accollati può essere confermata anche dalla ratio complessiva di tale disposizione, con particolare riferimento alle “cautele” che caratterizzano il consolidamento applicativo del principio di compensazione ivi rinvenibile. Da una disamina dell’art. 17 e della normativa ad esso collegata, tralasciando i vincoli “strettamente” procedurali (61), si rilevano: - per i “debiti ed i crediti fiscali,” una tassativa elencazione delle ipotesi tipologiche (imposte sui redditi e relative addizionali, Iva, ecc.) per le quali può essere utilizzata questa procedura (e con essa la compensazione ivi prevista), estesa anche a debiti verso enti previdenziali (comma 2); - per i (soli) “crediti” utilizzabili in compensazione, ulteriori e stringenti limitazioni:

(58) Cfr. retro par. 2. (59) Cfr. G. Girelli, La compensazione tributaria, cit., 176; A. Fedele, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, cit., 886; S.M. Messina, La compensazione nel diritto tributario, cit., 49; M. Mauro, op, cit., 29; N. Zanotti, op. cit., 23 (60) Per tale limitato profilo, infatti, la compensazione fiscale va oltre la stretta reciprocità prevista ex art. 1241 e ss. c.c. tra i soggetti delle diverse posizioni debitorie e creditorie, laddove consente, ad es., la compensazione di crediti tributari verso lo Stato (es. irpef o Iva) con debiti verso enti locali (es. addizionali). (61) Ad es. utilizzo del modello F24 e canali telematici Entratel/Fisconline messi a disposizione dall’Agenzia delle Entrate.


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o quantitative (“qualora il credito di imposta utilizzato in compensazione risulti superiore all’importo previsto dalle disposizioni che fissano il limite massimo dei crediti compensabili ai sensi del presente articolo, il modello F24 è scartato”) – art. 17, comma 2-ter); o temporali (a decorrere dal giorno 10 successivo a quello di presentazione della dichiarazione ex art. 17, comma 1 D.lgs. n. 241/97); o formali (visto di conformità sulla dichiarazione dalla quale emerge il credito da utilizzare in compensazione ex art. 1, comma 574, l. n. 147/13). Al di là di ogni ulteriore approfondimento, per il quale si rinvia alla dottrina citata nelle precedenti note, può quindi affermarsi che le regole di “attuazione atipica” proprie dell’istituto della compensazione fiscale ex art. 17, si caratterizzano essenzialmente nei termini seguenti: in primo luogo, una puntuale specificazione tipologica dei debiti e crediti ammessi (fiscali, previdenziali, ecc), da cui deriva l’esclusione di tutte le tipologie non ammesse; in secondo luogo, stringenti limitazioni quantitative e procedurali concernenti i “crediti” utilizzabili dal contribuente per compensare i debiti tipologicamente ammessi. È il caso di precisare, peraltro, che neppure rispetto alle “posizioni creditorie” utilizzabili in compensazione, destinatarie di stringenti e peculiari limitazioni, sussiste un limite assoluto e generale all’utilizzo in compensazione, ex art. 17, di crediti acquisiti da altri soggetti, purché effettuata nel rispetto della normativa tributaria vigente (62). Non è dunque rilevabile, da tale disciplina, né espressamente né in base alla ratio, alcun criterio interpretativo da cui desumere una “restrizione” della compensazione fiscale ai soli rapporti obbligatori sorti originariamente in capo al contribuente, con conseguente preclusione generale alla compensabilità “spontanea” dei debiti fiscali accollati (63).

(62) Sul punto si veda già risoluzione della medesima Agenzia delle Entrate, n. 286 del 22 dicembre 2009 e Circolare n. 56/E/2009, nonché per la giurisprudenza Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 17-04-2018) 30-05-2018, n. 1363. Del resto l’art. 1, comma 990, L. n. 27.12.2017 (legge di bilancio 2018), che ha aggiunto il comma 49-ter all’art. 37 del D. L. 223 del 2006 (a decorrere dal 1° gennaio 2018) recante la possibilità per l’Amministrazione di sospendere “….l’esecuzione delle deleghe di pagamento di cui agli articoli 17 e seguenti del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, contenenti compensazioni che presentano profili di rischio, al fine del controllo dell’utilizzo del credito”, considera pacificamente la possibilità di utilizzo del credito in compensazione da parte di un soggetto diverso dal titolare del credito stesso (cfr. relazione di accompagnamento). (63) Pur pronunciandosi in senso favorevole alla compensabilità dei debiti accollati, vi


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8. Conclusioni. – I risultati dell’’indagine sin qui condotta, consentono di formulare le seguenti sintetiche conclusioni. L’accollo esterno del debito d’imposta, cui è riferibile la disposizione di cui all’art. 8 co. 2 dello Statuto, è validamente applicabile nell’ordinamento tributario. Tale istituto, ammesso dal Legislatore tributario solo nella forma di accollo cumulativo, trova la propria giustificazione nella finalità di valorizzare, accanto alla “pregnante” e tradizionale finalità pubblicistica del creditore, le esigenze patrimoniali (privatistiche) del contribuente. In tal senso, l’istituto è essenzialmente riconducibile alle attività rimesse al medesimo contribuente per l’adempimento spontaneo del tributo, ambito nel quale trovano infatti maggiore applicazione i principi civilistici, fatte salve esigenze specifiche di adeguamento alla finalità pubblica. Percorrendo tale linea d’indagine, si è delineato l’accollo esterno del debito fiscale in linea con i consolidati orientamenti della dottrina e della giurisprudenza civililistica: esso va quindi ricondotto alla stipulazione a favore del terzo, qualificabile in termini di pattuizione bilaterale tra accollante e accollato, rispetto alla quale l’adesione del creditore non rappresenta né elemento perfezionativo né requisito di efficacia, determinando essenzialmente l’irrevocabilità del patto nei suoi confronti. Il rapporto obbligatorio tra accollante e creditore (Fisco), viene quindi in essere in seguito alla stipulazione bilaterale tra accollato e accollante, a prescindere dall’adesione dell’Amministrazione. Laddove invece l’Amministrazione intenda negare l’efficacia nei suoi confronti dell’accollo, dovrà manifestare espressamente il proprio diniego con

è chi ha sostenuto una diretta operatività dell’istituto solo ove l’Amministrazione abbia prestato la propria adesione all’accollo, laddove in mancanza di essa, la possibilità di compensazione sarebbe “variamente” concedibile dall’Amministrazione all’accollante in base al principio di proporzionalità (così N. Zanotti, op. cit., 21). A ben vedere, una tale prospettiva non pare condivisibile. Come già detto, infatti, se si ricostruisce l’accollo esterno in ossequio alla prevalente dottrina civilistica (stipulazione a favore del terzo), l’adesione del creditore non costituisce né elemento perfezionativo né requisito di efficacia per l’assunzione del debito altrui nei confronti del creditore, laddove tali profili sono compiutamente riferibili all’accordo tra accollante e accollato (profilo ben diverso assume invece l’eventuale atto unilaterale di rifiuto del creditore, eliminativo dell’efficacia esterna dell’accollo). Ciò chiarito, una volta posto in essere l’accollo esterno, a prescindere dall’adesione dell’amministrazione, l’accollante è obbligato nei confronti del Fisco e tale debito, in quanto già esistente nei rispettivi patrimoni, è da ritenere estinguibile per compensazione, sia pure nei modi e limiti stabiliti dalle disposizioni tributarie a ciò dedicate.


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atto unilaterale recettizio, non assumendo specifico rilievo giuridico l’eventuale silenzio. Non si reputa invece applicabile all’accollo del debito fiscale il c.d. beneficium ordinis, laddove le prerogative pubblicistiche sorte ex lege nei confronti del soggetto passivo del tributo, poi debitore accollato, non paiono limitabili in ossequio a finalità negoziali dei privati, pur se perviene l’adesione dell’Amministrazione. Così definito l’istituto in questione, sono stati esaminati i principali argomenti utilizzati per negare, in termini generali, la compensabilità dei debiti fiscali accollati. 1o argomento: l’accollante è coobbligato verso il fisco in virtù di titolo negoziale e non ex lege; si è chiarito che la fonte negoziale del debito accollato non può interferire con prerogative spiccatamente pubblicistiche, per un verso limitandole nei confronti del soggetto passivo accollato, per altro verso estendendole nei confronti dell’accollante. Da tali assunti, peraltro, non è coerentemente ricavabile alcuna preclusione generale alla compensazione spontanea del debito fiscale accollato. 2o argomento: in ambito tributario è tuttora vigente un divieto generale di compensazione, rispetto al quale le ipotesi applicative vanno interpretate tassativamente e restrittivamente, alla stregua di norme eccezionali che derogano un principio generale contrapposto; diversamente si è rilevato che un tale assunto, ove neghi la vigenza, anche nell’ordinamento tributario, del principio generale di compensazione, si pone inevitabilmente in contrasto con le previsioni recate dall’art. 8 co. 1 e 8, L. n. 212/2000; è invece sistematicamente compatibile la vigenza del principio di compensazione, anche in ambito tributario, con la tassatività delle modalità applicative ivi previste; in tal senso, la normativa fiscale sulla compensazione va intesa quale normativa eccezionale recante attuazione atipica del “principio generale” di compensazione. Ciò implica che le disposizioni de quibus, in linea con i principi generali del diritto, non possono essere integrate con norme e principi estranei al proprio ambito; mentre all’interno di esso, sono interpretabili ordinariamente. Ciò detto, dalla delineata eccezionalità delle norme sulla compensazione tributaria non si ricava, ex se, alcun divieto alla compensabilità dei debiti accollati. Un tale divieto, cioè, potrà essere affermato solo ove discenda dall’interpretazione “ordinaria” delle norme sulla compensazione tributaria. 3o argomento: l’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, quale norma di riferimento per la compensazione in ambito tributario, esprime una stringente limitazione della compensazione sul piano soggettivo, che esclude


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l’applicabilità di tale istituto ai debiti accollati in quanto debiti altrui; diversamente, si è dimostrato che le limitazioni specifiche e la ratio di tale normativa, al di là della tassatività “tipologica” di debiti e crediti ammessi, sono essenzialmente incentrati sui crediti tributari compensabili e non sui debiti, non sussistendo, neppure per tale verso, preclusioni alla compensazione dei debiti accollati, purché tipologicamente ammessi. Conclusivamente, fermi i profili di complessità della questione, si reputa che la compensazione dei debiti tributari accollati ex art. 8, comma 2, L. n. 212/2000, fatto salvo il rifiuto espresso dell’Amministrazione, è “validamente” effettuabile dall’accollante, purché realizzata nel rispetto delle modalità previste dalla normativa civilistica e tributaria di riferimento. Al di là, ovviamente, come già detto sin dalle premesse, di ipotesi “concretamente” riconducibili a fenomeni simulatori o fraudolenti, eventualmente rilevanti anche al fine di integrare il reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater D.Lgs. n. 74/2000, al cui approfondimento non è stata indirizzata la presente indagine.

Stefano Fiorentino



“Interest limitation rule”, principi europei della proporzionalità e dell’uguaglianza e principi costituzionali della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria Sommario: 1. Il nuovo art. 96 Tuir. – 2. Il mancato esercizio delle opzioni relative alle clausole “de minimis” e “standalone” previste dalla direttiva Atad. – 3. Clausola “standalone” e principio europeo della proporzionalità. – 4. Principio della proporzionalità e gruppi di società esclusivamente nazionali. – 5. Principio della proporzionalità e necessità di una generale clausola “escape”. – 6. Problematiche nazionali di legittimità costituzionale: necessità di una generale clausola “escape” anche in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione italiana. – 7. Art. 4 Atad e “controlimiti” costituzionali italiani. – 8. Segue:...con riferimento all’uguaglianza tributaria. – 9. Segue: ...e con riferimento agli ulteriori contenuti del principio della capacità contributiva. – 10. Osservazioni conclusive. Lo scritto riguarda il recepimento in Italia - mediante la riformulazione dell’art. 96 Tuir - dell’art. 4 della direttiva Atad, concernente il regime di deduzione degli interessi passivi nella determinazione del reddito di impresa delle società di capitali ed enti assimilati. In particolare, muovendo dalla constatazione della mancata adozione delle clausole “de minimis” e “standalone” da parte del legislatore italiano, ci si interroga sulla conformità dell’attuale art. 96 Tuir (ma anche, a monte, dell’art. 4 Atad) con i principi europei e/o costituzionali della proporzionalità, della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria. Si pongono infine in evidenza alcune implicazioni che ne possono derivare sul piano dei rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento europeo, anche alla luce della più recente giurisprudenza in materia della Corte costituzionale italiana e della Corte di giustizia Ue. The paper concerns the implementation in Italy - through a new formulation of the art. 96 Tuir - of the art. 4 Atad, concerning the regime for the deduction of interest in determining the business income of corporations and similar entities. In particular, starting from the failure to adopt the “de minimis” and “standalone” clauses by the Italian legislator, we examine the compliance of the current art. 96 Tuir (but also of art. 4 Atad) with the European and/or constitutional principles of proportionality, of the ability to pay and of tax equality. Finally, there are some implications that may arise in terms of the relationship


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between Italian and European legal systems, also in light of the most recent case-law on the subject of the Italian Constitutional Court and of the EU Court of Justice.

1. Il nuovo art. 96 Tuir. – La direttiva (Ue) del Consiglio n. 2016/1164 del 12-4-2016 (c.d. “Atad – Anti-tax avoidance directive”) contiene all’art. 4 un’apposita “Norma relativa ai limiti sugli interessi” (1), che è stata recepita in Italia con l’art. 1 del D.Lgs. 142/2018, il quale ha dal 2019 (2) interamente sostituito l’art. 96 del D.P.R 917/1986 (Tuir), contenente la disciplina della deduzione degli interessi passivi nella determinazione del reddito di impresa delle società di capitali ed enti commerciali residenti nel territorio dello Stato italiano ai fini dell’imposta sui redditi delle società (Ires). La struttura del nuovo art. 96 Tuir ricalca quella del precedente art. 96, con le modifiche rese necessarie dalla direttiva Atad. Non siamo quindi in presenza di una disciplina del tutto nuova per l’Italia, ma di una revisione della disciplina introdotta in Italia a decorrere dal 1° gennaio 2004. Il che trova una sua spiegazione nella circostanza che il vecchio art. 96 era stato costruito

(1) Sull’art. 4 Atad, sui relativi atti di recepimento in vari Stati dell’Unione, sui fenomeni contrastati da questa normativa e sulle problematiche che si pongono sia sul piano internazionale ed europeo, sia sul piano nazionale, possono vedersi i vari contributi presenti nel volume Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion. New Perspectives on the EU Anti-Tax Avoidance Directive (ATAD) (edited by G. Bizioli, M. Grandinetti, L. Parada, G. Vanz e A. Vicini Ronchetti), in corso di pubblicazione presso Walter Kluwer International. Il presente scritto trae spunto dal contributo dell’autore (cap. 6: Italy) a tale volume. In precedenza, tra i molti lavori pubblicati sul tema, possono ad es. vedersi: D. Gutmann et al., The Impact of the ATAD on Domestic Systems: A Comparative Survey, in European Taxation, 57(1), 2017, par. 2; G. Bizioli, Taking EU Fundamental Freedom Seriously: Does the AntiTax Avoidance Directive Take Precedence over the Single Market?, in EC Tax Review, 26(3), 2017, 167 s.; G. Ginevra, The EU Anti-Tax Avoidance Directive and the Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) Action Plan: Necessity and Adeguacy of the Measures at EU level, in Intertax, 45(2), 2017, 121-125; M. Barassi, Le regole tributarie degli interessi passivi, in Fiscalità della internazionalizzazione delle imprese – Studi sul D.Lgs. 14 settembre 2015 n. 147, a cura di A. Vicini Ronchetti, Torino, 2018, 277 s.; M. Petutschnig-M. Rechbauer-S. Rünger, International - Assessment of the Interest Barrier Rule of Article 4 of the EU Anti-Tax Avoidance Directive for a Sample of European Firms, in World Tax Journal, 11(3), 2019. (2) Più precisamente, l’art. 1 del D.Lgs. n. 142/2018, e quindi il nuovo art. 96 Tuir, si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31-12-2018. Una disciplina transitoria è poi presente all’art. 13, commi 2-5, D.Lgs. n. 142/2018.


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sul modello già allora previsto nell’ordinamento tedesco (3), che più tardi ha costituito anche il modello di riferimento dell’art. 4 Atad (4). Vediamo, in estrema sintesi, il contenuto dell’attuale art. 96 Tuir: - gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati sono deducibili in ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza dell’ammontare complessivo (i) degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di competenza del periodo d’imposta e (ii) degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati riportati da periodi d’imposta precedenti; - l’eccedenza è deducibile nel limite dell’ammontare risultante dalla somma tra (i) il 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica del periodo d’imposta e (ii) il 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica eventualmente riportato da precedenti periodi d’imposta. In relazione a queste regole, l’art. 96 detta le seguenti definizioni: - gli interessi passivi e attivi e gli oneri e proventi finanziari assimilati che vengono in rilievo sono quelli qualificati come tali dai principi contabili adottati dall’impresa e derivanti da un’operazione o da un rapporto contrattuale aventi causa finanziaria oppure da un rapporto contrattuale contenente una componente di finanziamento significativa; - per risultato operativo lordo della gestione caratteristica (c.d. “Rol”) si intende la differenza tra il “valore della produzione” e i “costi della produzione” del conto economico (5), assunti nella misura risultante dall’applicazione delle disposizioni volte alla determinazione del reddito di impresa. Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali si assumono le voci di conto economico corrispondenti.

(3) Si può in proposito vedere la circolare Assonime n. 46 del 18-11-2009, 17. Sulle ragioni dell’introduzione in Germania della regola limitativa della deducibilità degli interessi passivi, può vedersi: N. Herzig - U. Lochmann - B. Liekenbrock, Impact Study of the New German Interest Capping Rule, in Intertax, 36(12), 2008, 577 s. (4) Un esame delle novità apportate dal nuovo art. 96 Tuir, rispetto al precedente art. 96, è presente, tra gli altri, in L. Miele - V. Russo, La nuova disciplina degli interessi passivi di attuazione della direttiva ATAD, in La gestione straordinaria delle imprese, 5/2018, 87 s. Su alcuni specifici aspetti può vedersi: R. Michelutti, L’ambito oggettivo del nuovo art. 96 del T.U.I.R.: i tre requisiti concorrenti, in Corr. trib., 2019, 744 s.; Id., Art. 96 del T.U.I.R.: imponibilità degli interessi attivi, ROL fiscale ed esclusione del project financing, ivi, 847 s. (5) Di cui, rispettivamente, alle lettere A) e B) dell’art. 2425 del codice civile. Con esclusione, però, dell’ammortamento delle immobilizzazioni immateriali e materiali, nonché dei canoni di locazione finanziaria di beni strumentali.


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Gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati che per effetto delle predette regole risultano indeducibili in un determinato periodo d’imposta sono deducibili in sede di determinazione del reddito dei successivi periodi d’imposta, senza limiti temporali, sempre che in un successivo periodo vi sia una “quota” di deducibilità non sfruttata con i componenti di competenza di quel periodo. Sono riportabili in avanti anche le eventuali eccedenze sia di interessi attivi e proventi finanziari, sia di Rol, rispetto al fabbisogno del periodo (compreso quanto riportato da precedenti periodi), nei seguenti termini: - nel caso di eccedenza di interessi attivi e proventi finanziari, tale eccedenza è riportabile in avanti senza limiti temporali; - nel caso di eccedenza di Rol, tale eccedenza può essere portata ad incremento del 30 % del Rol dei successivi cinque periodi d’imposta (6).

2. Il mancato esercizio delle opzioni relative alle clausole “de minimis” e “standalone” previste dalla direttiva Atad. – Nel recepire la direttiva Atad con il descritto art. 96 Tuir, lo Stato italiano ha ritenuto di non esercitare alcune rilevanti opzioni espressamente previste nell’art. 4 Atad. In particolare, il nuovo art. 96 non contempla: - la clausola “de minimis” prevista dall’art. 4, paragrafo 3, comma 1, lett. a), Atad, in base al quale lo Stato membro poteva concedere al contribuente il diritto di dedurre in ogni caso (cioè a prescindere dal rispetto o meno dei limiti previsti) gli oneri finanziari eccedenti fino a € 3.000.000 (7);

(6) Più precisamente, nel comma 7 dell’art. 96 si dice, non senza ambiguità, che “la quota eccedente può essere portata ad incremento del risultato operativo lordo dei successivi cinque periodi d’imposta”. Con locuzione che letteralmente parrebbe imputare la quota eccedente ad aumento del ROL dell’esercizio (prima del calcolo del 30%) anziché ad aumento del 30% del ROL dell’esercizio (cioè ad aumento dell’importo che segna il limite di deducibilità nel periodo degli interessi eccedenti). Mi sembra tuttavia che ragioni di coerenza logica ed esigenze di uniformità delle grandezze in gioco impongano la lettura indicata sopra nel testo. In tal senso si veda la Relazione illustrativa del Ministero dell’economia e delle finanze, in data 10-8-2018, allo schema di decreto legislativo di attuazione delle direttiva Atad, ed in particolare il commento al comma 5 dell’art. 2 dello schema. (7) Come si legge nel “considerando” n. 8 della direttiva Atad: “Per ridurre gli oneri amministrativi e di adempimento delle norme senza attenuarne in maniera significativa gli effetti a livello fiscale, potrebbe essere opportuno prevedere una norma «porto sicuro», di modo che gli interessi netti siano sempre deducibili fino a un determinato importo qualora ciò comporti una deduzione maggiore rispetto alla percentuale stabilita sulla base dell’EBITDA”.


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la clausola “standalone” prevista dall’art. 4, paragrafo 3, comma 1, lett. b), Atad, in base al quale lo Stato membro poteva concedere al contribuente il diritto di dedurre integralmente gli oneri finanziari eccedenti qualora il contribuente fosse un’entità indipendente, cioè “un contribuente che non è parte di un gruppo consolidato a fini di contabilità finanziaria e non ha alcuna impresa associata o stabile organizzazione” (8). Se il mancato esercizio della prima opzione appare insindacabile (tutt’al più criticabile sul piano dell’opportunità), perplessità sul piano giuridico suscita invece il mancato esercizio della seconda opzione. Sulla prima opzione (clausola “de minimis”), la stessa direttiva Atad, nel “considerando” n. 8, la prospettava come una soluzione esclusivamente finalizzata a “ridurre gli oneri amministrativi e di adempimento delle norme senza attenuarne in maniera significativa gli effetti a livello fiscale”. Evidentemente lo Stato italiano ha ritenuto che non sussistesse in concreto un’esigenza di tal genere o, forse più probabilmente, che la semplificazione non giustificasse la corrispondente perdita di gettito. Ben diverso è il tenore delle spiegazioni contenute nella direttiva Atad con riferimento alla seconda opzione (clausola “standalone”). Si legge infatti nel “considerando” n. 8: “Poiché in linea di principio il Beps (9) avviene mediante pagamenti di interessi eccessivi tra entità che sono imprese associate, è opportuno e necessario consentire l’eventuale esclusione delle entità indipendenti dall’ambito di applicazione della norma relativa ai limiti sugli interessi, visto il rischio limitato di elusione fiscale”. La direttiva Atad considera dunque l’introduzione della clausola “standalone” non solo opportuna, ma addirittura necessaria. Stupisce quindi che, nella formulazione del relativo precetto (art. 4, paragrafo 3, Atad), sia stata poi assegnata agli Stati membri una semplice facoltà. In proposito, può suscitare dei dubbi la formulazione in lingua italiana della direttiva Atad, laddove si dice che nel caso di entità indipendenti, in deroga alla regola generale di limitazione della deducibilità degli interessi, “il contribuente può ottenere il diritto... di dedurre integralmente gli oneri finanziari eccedenti” (art. 4, paragrafo 3, lett. b). Ciò a differenza di altre parti

(8) Specificazione contenuta al comma 3 dello stesso art. 4, par. 3, Atad. La definizione di “impresa associata” è contenuta nell’art. 2, n. 4, Atad. (9) Cioè il fenomeno “Base erosion and profit shifting” che è descritto, quanto agli interessi passivi, nell’ “Action 4: 2015 final report” elaborato dall’Ocse e approvato dal G20.


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dello stesso art. 4 Atad, dove l’attribuzione di una semplice facoltà agli Stati membri è contrassegnata in termini molto più chiari e precisi mediante espressioni come “gli Stati membri possono trattare come un contribuente anche...” (art. 4, paragrafo 1, comma 2) oppure “gli Stati membri possono escludere dall’ambito di applicazione del paragrafo 1...” (art. 4, paragrafo 4, comma 1). Una formulazione – quella in lingua italiana dell’art. 4, paragrafo 3, lett. b) (10) – che astrattamente potrebbe anche essere letta (in correlazione con quanto affermato nel “considerando” n. 8) nel senso che gli Stati debbano prevedere la clausola “standalone”, potendola però condizionare alla sussistenza di presupposti che la rendano fruibile solo in ben precise e delimitate situazioni (11). Questa ipotetica lettura è tuttavia contrastata dalle altre versioni linguistiche della direttiva Atad, dove l’attribuzione agli Stati membri del potere di decidere se attribuire o meno il diritto in deroga ai contribuenti indipendenti emerge con maggiore chiarezza (12). Nonostante l’esplicita indicazione contenuta nel “considerando” n. 8 nel senso della “necessità” della clausola “standalone”, è pertanto ben difficile sostenere che l’art. 4, paragrafo 3, Atad imponesse di per sé stesso agli Stati membri l’introduzione di una siffatta clausola. Di conseguenza, è altrettanto difficile sostenere che l’Italia, omettendo di prevedere la clausola “standalone”, abbia con ciò violato la direttiva Atad (13).

(10) Peraltro presente, nei medesimi termini, anche al par. 5 dello stesso art. 4 Atad, con riferimento ai contribuenti membri di gruppi consolidati. (11) Il che, in questa ipotetica lettura, spiegherebbe la formulazione “il contribuente può ottenere il diritto” anziché “il contribuente ha il diritto”. (12) Così ad es. si legge, nella versione tedesca: “kann dem Steuerpflichtigen Folgendes gewährt werden”; nella versione francese: “le contribuable peut se voir autoriser à”; nella versione spagnola: “se podrá otorgar al contribuyente el derecho a”; nella versione inglese: “the taxpayer may be given the right”. Nel senso indicato nel testo, può vedersi: M. Barassi, Le regole tributarie degli interessi passivi, cit., 289, n. 43. (13) Oltre a quanto esposto sopra nel testo, osserviamo che il “considerando n. 5 della direttiva Atad contiene un’indicazione nel senso che le norme in essa previste, tra cui la norma limitativa della deducibilità degli interessi passivi, “dovrebbero… mirare non solo a contrastare le pratiche di elusione fiscale, ma anche a evitare la creazione di altri ostacoli al mercato, come la doppia imposizione” (in proposito si vedano le Conclusioni presentate il 29-7-2006 dall’Avvocato generale L.A. Geelhoed nella causa C-524, Test Climants in the Thin Cap Group Litigation, punto 69). Conseguentemente si dice, sempre al “considerando recital n. 5, che “Ove l’applicazione di tali norme dia luogo a una doppia imposizione, i contribuenti dovrebbero beneficiare di uno sgravio tramite una detrazione dell’imposta versata in un altro Stato membro o in un paese terzo…”. In tale contesto, la locuzione “doppia imposizione” va evidentemente


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3. Clausola “standalone” e principio europeo della proporzionalità. – Se la lettera dell’art. 4, paragrafo 3, Atad non sembra lasciare spazio ad un’interpretazione nel senso della “necessità” della clausola “standalone”, ci si deve al tempo stesso chiedere se questo sia legittimo a livello di diritto europeo. La direttiva Atad è infatti esplicita nel proporsi di contrastare le “pratiche di elusione fiscale” (14) ed in particolare, con riferimento agli interessi passivi, l’uso improprio che ne fanno i “gruppi di società”. Oltre al brano del “considerando” n. 8 che si è trascritto nel precedente paragrafo, può ad esempio vedersi l’inizio del “considerando” n. 6, dove si legge: “Nel tentativo di ridurre il proprio onere fiscale globale, i gruppi di società ricorrono sempre più di frequente al Beps attraverso pagamenti di interessi eccessivi. La norma relativa ai limiti sugli interessi è necessaria per scoraggiare tali pratiche in quanto limita la deducibilità degli oneri finanziari eccedenti dei contribuenti”. D’altra parte, la direttiva Atad dichiara apertamente di essere strumento di attuazione delle conclusioni dell’Ocse (fatte proprie dal G20) sugli strumenti di contrasto a livello di Unione europea del fenomeno “Base erosion and profit shifting” (Beps) (15), tra cui le conclusioni contenute nell’ “Action 4: 2015 final report” avente ad oggetto “Limiting base erosion involving interest deductions and other financial payments”: conclusioni dirette essenzialmente a contrastare l’improprio uso degli interessi passivi a livello di gruppi multinazionali. Tant’è che la descrizione delle pratiche che si vogliono contrastare ed i relativi esempi, contenuti nell’ “Action 4: 2015 final report”, si riferiscono ai gruppi multinazionali (16). E sempre dall’ “Action 4: 2015 final report” emer-

intesa nel senso di indeducibilità degli interessi passivi nello Stato del pagatore e contestuale tassazione degli stessi interessi, come interessi attivi, nello Stato del percettore. Si tratta tuttavia di un’indicazione estremamente vaga. Non viene tra l’altro chiarito se si tratti di doppia imposizione solo giuridica o anche economica, e quale ne sia l’ambito dei destinatari. Ma soprattutto si tratta di un’indicazione che non ha trovato alcun riscontro, di carattere precettivo, nell’art. 4 Atad (si vedano in proposito le osservazioni critiche di F. A. Garcia Prats, The EU ATAD Rule and BEPS Action 4, cap. 10 del volume Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion, cit., spec. par. 4). Dato questo contesto, l’Italia ha deciso, anche a questo proposito, di non dare alcun seguito all’indicazione contenuta nel “considerando” n. 5 della direttiva Atad, e nell’art. 96 Tuir non troviamo nulla al riguardo (si veda F. Pitrone, Italy, Branch Report, Cahier de Droit Fiscal International, Vol. 104, IFA, 2019, digital version, par. 4.1 e 4.2). (14) In tal modo si esprime la stessa intestazione della direttiva Atad. (15) Si vedano in particolare i “considerando” n. 1, 2 e 3 Atad. (16) Si vedano ad es. i par. 1-3 dell’ “Action 4: 2015 final report”. Come si dirà meglio


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ge che è esclusivamente sulla base di statistiche riferite ai gruppi multinazionali, che è stato fissato il limite di “non elusività” del 30% fatto proprio dalla direttiva Atad (17), cioè il limite entro il quale gli interessi passivi eccedenti si assumono come “fisiologici” e quindi non diretti a pratiche Beps (18). Le pratiche Beps che si volevano contrastare con l’art. 4 Atad erano dunque quelle attuate dai gruppi di società e, più in particolare, dai gruppi multinazionali. Dato questo obiettivo, il principio europeo della proporzionalità impone che lo strumento di attuazione si limiti a quanto strettamente necessario e sufficiente per raggiungerlo. A stretto rigore, l’art. 4 Atad avrebbe pertanto dovuto circoscrivere il proprio ambito di applicazione ai gruppi di società (multinazionali in particolare) o quantomeno prevedere come obbligatoria l’introduzione di una clausola “standalone”. Ecco perché il più volte menzionato “considerando” n. 8 della direttiva Atad indica come “necessaria” tale clausola (salvo poi non darne riscontro nel testo dell’art. 4). Sotto questo profilo, il modo in cui è stato costruito l’art. 4 Atad appare di assai dubbia rispondenza al principio europeo della proporzionalità (19).

sopra nel testo, in tale documento si contempla la possibilità di estendere la soglia di deducibilità degli interessi passivi anche ai gruppi nazionali e alle entità indipendenti. Non viene tuttavia spiegato come le pratiche elusive contro cui è diretta la “Action 4” (facenti essenzialmente leva sulle diversità di regime presenti nei diversi Stati) possano realizzarsi nell’ambito di un gruppo esclusivamente nazionale o da parte di entità indipendenti. E tantomeno questo viene esemplificato. Qualche accenno è presente nel par. 52 (e per rinvio nei par. 171-182) con riferimento alle entità indipendenti, ma risulta circoscritto ad ipotesi nelle quali si sia in presenza di parti correlate. Si tratta cioè di situazioni nelle quali sussiste comunque un legame qualificato tra soggetti, che se formalmente non dà vita ad un vero e proprio rapporto di gruppo, sostanzialmente vi si avvicina molto, dando luogo ad un rapporto comunemente definito di associazione. Si tratta insomma di entità non del tutto (o solo relativamente) indipendenti. Tanto è vero che, se l’“Action 4: 2015 final report” definisce “indipendenti” le entità che non fanno parte di un gruppo (par. 52) ed elabora poi a parte la nozione di “parti correlate” al fine di giustificare l’inclusione di talune entità indipendenti nel regime limitativo della deducibilità degli interessi passivi (par. 51 e 171-182), per contro la direttiva Atad, ai fini della clausola “standalone”, definisce più direttamente l’ “entità indipendente” come il soggetto che non fa parte di un gruppo e non ha alcuna impresa associata (art. 4, par. 3, comma 3, Atad), ricomprendendo nella definizione di impresa associata molte delle indicazioni presenti nei par. 175-182 dell’ “Action 4: 2015 final report”. (17) Di cui si è detto nel precedente par. 2 del presente scritto. (18) Par. 96-97 dell’ “Action 4: 2015 final report”. (19) Tra gli altri, ravvisano nell’art. 4 Atad la violazione del principio europeo della proporzionalità sotto diversi profili: A. Navarro - L. Parada-P. Schwarz, The Proposal for


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Né mi sembra che sposti di molto i termini del problema la circostanza che l’ “Action 4: 2015 final report” elaborato dall’Ocse, nel prevedere i gruppi multinazionali come destinatari della soglia alla deducibilità degli interessi passivi, contempli al tempo stesso la possibilità di estenderla ai gruppi nazionali e alle entità indipendenti. Per quanto in particolare riguarda l’ipotizzata estensione alle entità indipendenti (20), lo stesso “Action 4: 2015 final report” precisa al paragrafo 52: - che in molti casi le entità indipendenti (21) sono soggetti di piccole dimensioni, posseduti direttamente da persone fisiche e privi di relazioni di controllo con altri soggetti: tutti casi in cui i rischi di “Base erosion and profit shifting” – peraltro non meglio precisati né esemplificati con specifico riferimento alle entità indipendenti – sarebbero relativamente bassi; - che in altri casi le entità indipendenti sono soggetti di grosse dimensioni, posseduti tramite complesse strutture di controllo (coinvolgenti anche trust e società di persone), che coinvolgono anche il controllo su altri soggetti: casi in cui i rischi Beps sarebbero analoghi a quelli propri e tipici dei gruppi societari. Risulta allora chiaro che un’unica e indistinta regola, valevole per qualunque tipologia di soggetto, sia esso a basso o alto rischio Beps, non può che porsi in contrasto con il principio europeo della proporzionalità. E’ una regola,

an EU Anti-avoidance Directive: Some Preliminary Thoughts, in EC Tax Review, 25(3), 2016, 118-119; A.P. Dourado, The Interest Limitation Rule in the Anti-Tax Avoidance Directive (ATAD) and the Net Taxation Principle, in EC Tax Review, 26(3), 2017, par. 10; A.E. La Scala, Gli interessi passivi nella determinazione del reddito di impresa, Canterano (RM), 2016, 661 s.; R. Iaia, La “Interest Limitation Rule” della direttiva “antielusione” (“ATAD”), in Diritto e pratica tributaria, 2018, parr. 7-7.5; J. Carmona Lobita, European Union – The Atad’s Interest Limitation Rule – A Step Backwards?, in European Taxation, 59(2/3), 2019, parr. 2.6-2.7. Sotto un diverso profilo, si veda anche G. Bizioli, Taking EU Fundamental Freedom Seriously: Does the Anti-Tax Avoidance Directive Take Precedence over the Single Market?, cit., 172, secondo il quale “it is sufficiently clear that the Atad overcomes the purpose of preventing tax abuse within the Single Market since it is an attempt to coordinate the different corporate income tax systems against the most common practice of aggressive tax planning. From this perspective, the Directive is unlikely to be considered proportionate to this objective, since it imposes a (minimum) common discipline for the prevention of aggressive tax planning to all the Member States before (and independently from) the introduction of a (minimum) common discipline harmonizing the Member States’ corporate income taxes”. (20) Sulla estensione riguardante i gruppi “nazionali”, ci soffermeremo invece più oltre, nel par. 4 del presente scritto. (21) Intendendosi per tali le entità che non fanno parte di un gruppo, come meglio precisato nella precedente nota 16.


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per così dire, che “spara nel mucchio” ed ha perciò una elevata probabilità di “colpire” (anche) dei soggetti del tutto estranei ai fenomeni Beps (22). Una regola, oltretutto, che comporta non solo il differimento temporale della deduzione degli interessi passivi eccedenti (con il conseguente onere finanziario), ma che di fatto può comportare la “perdita” definitiva di tali costi, qualora la società non riesca in futuro a generare sufficienti interessi attivi o un sufficiente Rol per poterli dedurre. Con conseguenti ricadute sull’entità del debito tributario e, quindi, con effetti d’ordine economico, che possono risultare anche di notevole entità (23). Sotto il profilo del rispetto del principio europeo della proporzionalità, si pone pertanto un problema di invalidità dell’art. 4 Atad (nella parte in cui non ha previsto come obbligatoria la clausola “standalone”) e comunque dell’art. 96 Tuir (nella parte in cui non è stata inserita la clausola “standalone”). Nonostante l’Italia non abbia recepito la clausola “standalone” nel nuovo art. 96 Tuir, è peraltro indiscutibile che in sede di applicazione del diritto europeo l’Italia debba rispettarne i principi generali, tra cui vi è in posizione preminente (trovando puntuale affermazione nell’art. 5, paragrafo 4, Tue) il principio della proporzionalità. Può pertanto sostenersi, in via interpretativa ed al fine di superare la prospettata invalidità, che il principio della proporzionalità integri direttamente il precetto contenuto nell’art. 96, con l’ulteriore previsione che esso non possa trovare applicazione oltre quanto strettamente necessario e sufficiente per raggiungere la finalità perseguita dalla direttiva Atad, come appunto nel caso dei soggetti indipendenti (24). Con l’immediata conseguenza che le istituzioni italiane (in particolare amministrazione finanziaria e giudici) siano tenute a

(22) Si veda in proposito Corte di giustizia Ue, 3-10-2013, C-282/12, Itelcar, spec. punto 42. Cfr. anche Corte di giustizia Ue, 12-12-2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst, punto 37. (23) A questo proposito, non mi sembra rilevante la possibilità che in generale hanno le società di capitali di trasformarsi in società di persone, relativamente alle quali (i) l’art. 96 Tuir non si applica e (ii) non è prevista altra analoga regola limitativa della deducibilità degli interessi passivi. La forma della società di persone, soprattutto in termini di governance e di responsabilità patrimoniale, può risultare del tutto inadatta alla tipologia e dimensione dell’attività svolta e al profilo dei soci. Né mi sembra corretto mettere i soci di fronte all’alternativa di subire una norma tributaria (nel loro caso ritenuta) “ingiusta” oppure adottare una forma societaria inadeguata. Se il problema sta nella norma tributaria, è lì che si deve intervenire, lasciando la scelta della forma societaria a parametri e valutazioni di stampo prettamente commercialistico. (24) Cfr., in termini generali, R. Iaia, La “Interest Limitation Rule” della direttiva “antielusione” (“ATAD”), cit., par. 14.


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considerare eventuali “istanze di disapplicazione” dell’art. 96 Tuir presentate dai contribuenti indipendenti (25), se non addirittura la “disapplicazione” in autotassazione dell’art. 96 direttamente da parte dei medesimi contribuenti (26). Ciò anche considerato che una siffatta interpretazione non si pone in contrasto con gli obiettivi della direttiva Atad nella misura in cui: - la stessa direttiva Atad prevede la possibilità per gli Stati membri di includere nell’atto di recepimento la clausola “standalone”, quantomeno consigliandola “caldamente”, dato che nel “considerando” n. 8 ciò è indicato come “opportuno e necessario”; - il successivo “considerando” n. 16 della direttiva Atad puntualizza che essa si limita a quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito “in ottemperanza al principio di proporzionalità”. Va da sé che, se questa interpretazione non fosse ritenuta possibile, non resterebbe che investire la Corte di giustizia Ue della questione di invalidità dell’art. 4 Atad per violazione del principio generale della proporzionalità. 4. Principio della proporzionalità e gruppi di società esclusivamente nazionali. – Ci si deve poi chiedere se il problema del rispetto del principio della proporzionalità riguardi, oltre ai contribuenti indipendenti, anche i grup-

(25) Muovendo dalla qualificazione, desumibile dalla direttiva Atad, della “interest limitation rule” in termini di regola a finalità antielusiva, potrebbe sostenersi l’applicabilità in Italia, rispetto alla disposizione che l’ha recepita (art. 96 Tuir), dell’art. 11, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, in forza del quale il contribuente può interpellare l’amministrazione finanziaria “per la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi”. Disposizione la quale inoltre prevede che “Nei casi in cui non sia stata resa risposta favorevole, resta comunque ferma la possibilità per il contribuente di fornire la dimostrazione… anche ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa”. (26) Ciò anche tenuto conto che non si tratterebbe comunque di una vera e propria disapplicazione, ma più semplicemente dell’applicazione della “clausola di salvezza”, conseguente al diretto operare del principio europeo della proporzionalità, che integra e completa il precetto contenuto nell’art. 96 Tuir. Articolo che pertanto dovrebbe essere letto, sotto questo profilo, nel seguente modo: “salvo che il contribuente sia un’entità indipendente, sono indeducibili gli interessi passivi eccedenti…”.


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pi societari a composizione esclusivamente nazionale (privi cioè di componenti in altre nazioni). Le pratiche cui hanno riguardo le misure anti-Beps elaborate dall’Ocse nell’ “Action 4: 2015 final report” (quali richiamate nei “considerando” nn. 1, 2 e 3 della direttiva Atad), basandosi sullo sfruttamento delle difformi regole impositive presenti nei diversi ordinamenti, sono essenzialmente riconducibili ai gruppi multinazionali (27). Tant’è che, molto chiaramente, il “considerando” n. 5 della direttiva Atad, nel sintetizzare il contenuto precettivo della direttiva stessa, precisa – come già si è visto – che “È necessario stabilire norme contro l’erosione della base imponibile nel mercato interno e il trasferimento degli utili al di fuori del mercato interno. Per contribuire al conseguimento di tale obiettivo sono necessarie disposizioni nei seguenti settori: limiti sulla deducibilità degli interessi, ...”. Non si vede quindi ragione, sempre alla stregua del principio della proporzionalità, perché le limitazioni alla deducibilità degli interessi passivi debbano necessariamente trovare applicazione anche in casi in cui, pur essendosi in presenza di un gruppo societario, non possono tuttavia, neanche potenzialmente, verificarsi quelle “pratiche di elusione fiscale” che la direttiva Atad dichiara di voler contrastare (28). Né mi sembra possa utilmente invocarsi un’esigenza di non discriminazione tra gruppi nazionali e gruppi multinazionali. Se l’obiettivo è realmente quello di colpire gli “elusori”, eccede certamente quanto necessario un prov-

(27) Si vedano in particolare i “considerando” n. 1, 2 e 3 Atad. (28) Non a caso, il già citato “Action 4: 2015 final report” elaborato dall’Ocse, al par. 49, per giustificare l’eventuale estensione ai gruppi esclusivamente nazionali della soglia di deducibilità degli interessi passivi (senza peraltro fornire alcuna spiegazione o esemplificazione circa le modalità attraverso le quali un gruppo esclusivamente nazionale potrebbe attuare le descritte pratiche elusive a stampo sovranazionale), si limita a dire che questo (i) potrebbe far parte di un più ampio (e non meglio precisato) approccio per affrontare i fenomeni Beps (nel qual caso varrebbe quanto si è detto più sopra nel testo circa lo “sparare nel gruppo”); oppure (ii) potrebbe rispondere al fine di raggiungere altri obiettivi politici, come evitare problemi di concorrenza tra gruppi nazionali e multinazionali, ridurre la preferenza dei contribuenti nei confronti dei finanziamenti a scapito degli apporti di capitale oppure ottemperare ad obblighi costituzionali in ordine alla parità di trattamento dei contribuenti (ipotesi sulle quali ci soffermeremo sopra nel testo ma che appaiono sin da ora sintomatiche di una consapevolezza dei redattori dell’“Action 4: 2015 final report” circa la debolezza, rispetto ai gruppi esclusivamente nazionali, della giustificazione consistente nel contrasto ai fenomeni Beps). Sulle criticità dell’estensione della norma limitativa degli interessi passivi ai gruppi nazionali, cfr. A.P. Dourado, The Interest Limitation Rule in the Anti-Tax Avoidance Directive (ATAD) and the Net Taxation Principle, cit., 118.


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vedimento che sia configurato in modo tale da colpire indifferentemente “elusori” e soggetti che non lo sono né possono esserlo. Può anzi osservarsi che in tal modo, lungi dall’evitare una possibile discriminazione, la si compie in pieno, trattando in modo uguale casi opposti (“elusori” e non) (29). Somministrare una medicina a persone che non sono malate, dubito comporti non discriminazione dei malati. In proposito, l’art. 4 Atad è formulato in termini generali (idonei a ricomprendere nel suo ambito di applicazione indistintamente tutti i soggetti passivi dell’imposta sulle società) e non prevede alcuna possibilità di deroga per i gruppi societari (a differenza di quanto previsto per le entità indipendenti). Non mi sembra pertanto che vi sia molto spazio per un’interpretazione (ancorché orientata dal principio della proporzionalità) che possa condurre alla non applicazione a livello nazionale dell’art. 4 Atad e della norma italiana di recepimento nei confronti dei gruppi societari di rilevanza esclusivamente nazionale. Non resta, quindi, che investire la Corte di giustizia Ue della questione di invalidità dell’art. 4 Atad per violazione del principio generale della proporzionalità. Ciò anche tenuto conto che la giurisprudenza della Corte di giustizia è costante nell’affermare che “una normativa nazionale, per essere proporzionata all’obiettivo di prevenire l’evasione e l’elusione fiscali, in tutti i casi in cui l’esistenza di transazioni artificiose non può essere esclusa, deve dare la possibilità al soggetto passivo, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione è stata conclusa” (30). Ma se ciò vale per la legislazione nazionale, a maggior ragione deve valere per una direttiva europea, dato che il diritto derivato dell’Unione europea deve per primo adeguarsi ai principi generali dell’ordinamento europeo (31).

(29) Si vedano al riguardo le Conclusioni presentate il 29-6-2006 dall’Avvocato generale L.A. Geelhoed nella causa C-524, Test Climants in the Thin Cap Group Litigation, punto 68. (30) Da ultimo, Corte di giustizia Ue, Grande sezione, 26-2-2019, C-135/17, X, punto 87, dove richiami dei precedenti. (31) Tanto più al principio della proporzionalità, in quanto espressamente previsto e valorizzato dall’art. 5, par. 4, Tue.


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5. Principio della proporzionalità e necessità di una generale clausola “escape”. – Questo stesso ordine di idee porta infine a chiedersi se il principio europeo della proporzionalità non imponesse l’introduzione nell’art. 4 Atad di una generale clausola “escape”, cioè una clausola che, al di fuori delle specifiche ipotesi “de minimis” e “standalone”, consentisse indistintamente a tutti i contribuenti, compresi i gruppi multinazionali, di sottrarsi al regime limitativo della deducibilità degli interessi passivi mediante dimostrazione dell’insussistenza nel caso concreto degli effetti di “Base erosion e profit shifting” contrastati dalla norma. La circostanza che nel caso dei gruppi multinazionali sussista un’elevata propensione alle pratiche Beps attuate attraverso gli interessi passivi, può certamente giustificare l’introduzione di una norma limitativa della deducibilità degli interessi. Ma anche ammesso, in via di ipotesi, che si potesse dimostrare che il 90% dei gruppi multinazionali pongano in essere pratiche Beps attraverso gli interessi passivi (cosa a mio avviso alquanto improbabile), resta il fatto che non troverebbe alcuna giustificazione l’applicazione della limitazione (anche) a quel 10% che non pone in essere tali pratiche. Eccede quanto necessario una norma che è strutturata in modo tale da colpire la totalità dei contribuenti, quando solo una parte di essi (grande o piccola non importa) realizza quei comportamenti che la norma vuole evitare. Rispetta invece il principio della proporzionalità, in tali circostanze, una norma costruita sul modello delle presunzioni legali relative. Una norma, cioè, che in prima battuta si applica a tutti i contribuenti, ma che al tempo stesso consente ai contribuenti interessati di dimostrare l’insussistenza nei loro confronti dei presupposti che ne giustificherebbero l’applicazione. Come appunto sarebbe, nell’ipotesi dell’art. 4 della direttiva Atad, qualora fosse presente una generale clausola “escape” (32). A ben vedere, quindi, la questione di invalidità dell’art. 4 della direttiva Atad per violazione del principio generale della proporzionalità, di cui investire la Corte di giustizia Ue, non dovrebbe limitarsi alla posizione dei gruppi societari a rilevanza esclusivamente nazionale (e dei soggetti indipendenti ove

(32) In proposito si veda anche A. Vicini Ronchetti, The Interest Limitation Rule in the ATAD (Section II), cap. 3 del volume Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion, cit., spec. par. 2.3 e 7.


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necessario), ma riguardare in termini più ampi la mancanza nell’art. 4 di una clausola “escape” valevole per tutti i contribuenti (33). 6. Problematiche nazionali di legittimità costituzionale: la necessità di una generale clausola “escape” anche in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione italiana. – Se il problema sollevato non dovesse trovare soluzione a livello europeo – come in primo luogo dovrebbe essere – si porrebbe in Italia una questione di legittimità costituzionale dell’art. 96 Tuir (34). Così come è strutturato (cioè senza una generale clausola “escape”) l’art. 96 può inevitabilmente portare alla “perdita” di interessi passivi effettivamente sostenuti e relativi all’attività di impresa. Lo spostamento in avanti della deduzione, pur previsto dall’art. 96, presuppone infatti che la società contribuente sia in grado di produrre sufficienti interessi attivi o un sufficiente Rol. Se ciò non accade (il che può essere del tutto indipendente dalla volontà del contribuente) gli interessi passivi in eccesso sono, di fatto, persi (35). Il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. richiede, per ogni forma di tassazione, che vi sia una capacità economica concreta ed

(33) Cfr. R. Iaia, La “Interest Limitation Rule” della direttiva “antielusione” (“ATAD”), cit., par. 14, il quale peraltro sostiene che la questione di invalidità dell’art. 4 Atad sarebbe direttamente superabile in via interpretativa e, solo in via subordinata, prospetta l’eventualità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue ai sensi dell’art. 267 Tfeu. (34) Con riferimento al vecchio art. 96 Tuir, ma anche nella prospettiva della sua modifica in forza della direttiva Atad, può vedersi, se si vuole, G. Vanz, The Italian Interest Limitation Rule: Constitutional Issues, in European Taxation, 58(4), 2018, 173 s., ove sono presenti alcune argomentazioni riprese e approfondite in questa sede. Come noto, nel 2015 la questione di legittimità costituzionale della norma tedesca limitativa della deducibilità degli interessi passivi, che ha costituito il modello di riferimento dell’art. 4 della direttiva Atad, è stata sollevata dinanzi alla Corte costituzionale tedesca: Bundesfinanzhof, 14-10-2015, I R 20/15, disponibile in lingua tedesca al seguente indirizzo http://juris.bundesfinanzhof.de/ cgi-bin/rechtsprechung/druckvorschau.py?Gericht=bfh&Art=en&nr=32731, su cui possono vedersi: S. Lampert - T. Meickmann - M. Reinert, Article 4 of the EU Anti Tax Avoidance Directive in Light of the Questionable Constitutionality of the German “Interest Barrier” Rule, in European Taxation, 2016, 323 s.; A. Navarro L. Parada-P. Schwarz, The Proposal for an EU Anti-avoidance Directive: Some Preliminary Thoughts, cit., 119-120. Il caso è attualmente ancora pendente. Ritiene tuttavia infondata la questione: D. Reicht, Germany, cap. 5 del volume Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion, cit., par. C.2. (35) In generale possono vedersi: G. Zizzo, Abuso di regole volte al “gonfiamento” della base imponibile ed effetto confiscatorio del prelievo, in Rass. trib., 2010, par. 6; F. Fichera, Le penalizzazioni fiscali, ivi, 2017, par. 2.4.


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attuale (36). Nell’ambito di un’imposta sui redditi, qualunque sia la nozione di reddito accolta, deve pertanto esserci un incremento di ricchezza. L’esclusione totale o parziale della deducibilità di un costo può quindi giustificarsi solo nella misura in cui tale esclusione costituisca una corretta modalità di determinazione dell’incremento di ricchezza tassabile: cioè nella misura in cui venga escluso un costo che non ha concorso alla formazione del reddito (37), come ad esempio un costo non inerente all’attività (38). Diversamente, si viene a tassare un incremento di ricchezza inesistente, vale a dire la quota di “reddito” corrispondente al costo non dedotto, in violazione del principio della capacità contributiva (39). L’incoerenza logica, e quindi l’irragionevolezza, di negare la deduzione di un costo effettivo nell’ambito di un sistema di determinazione del reddito tassabile incentrato sulla differenza tra “ricavi” e “costi” (com’è nel reddito di impresa) è palese e non richiede pertanto una particolare dimostrazione (40). Va invece chiarito che l’esclusione della deducibilità di un costo non può essere giustificata neppure richiamandosi ad esigenze di carattere extra-fiscale (ad es. favorire la capitalizzazione) (41), neanche se ritenute costituzionalmente rilevanti.

(36) Ci permettiamo in proposito di rinviare a I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, 2^ ed., Torino, 2008, 35-42. (37) La Corte costituzionale italiana (sentenza 22-4-1997, n. 111, par. 8) ritiene di dover verificare, con riferimento all’art. 53 Cost., “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”. In generale, può vedersi G. Falsitta, giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 403. Con specifico riferimento alla precedente formulazione dell’art. 96 Tuir: D. Stevanato, Prime considerazioni sui limiti generalizzati alla deducibilità degli interessi passivi introdotta dalla manovra finanziaria 2008 – L’indeducibilità degli interessi passivi tra utilizzo extrafiscale dell’imposta ed esigenze di misurazione della capacità economica individuale, in Dial. trib., 2007, 1022; G. Escalar, Dubbi di costituzionalità sul regime degli interessi passivi per banche ed assicurazioni, in Corr. trib., 2009, 1238 s. (38) Ma anche l’esclusione di un costo relativo ad un ricavo esente può giustificarsi, se si assume una nozione di reddito tassabile quale differenza tra ricavi tassabili e relativi costi: soluzione non necessitata, ma di per sé non irragionevole. (39) Il che vale anche se si interpreta l’art. 53 Cost. quale semplice criterio di razionalità (o non irragionevolezza) delle scelte del legislatore, cioè negli stessi termini direttamente evincibili dall’art. 3 Cost.: è certamente irrazionale un’imposta sui redditi che colpisca un non reddito. (40) Si veda al riguardo la sentenza della Corte costituzionale n. 111/1997 citata nella precedente nota 37. Sul c.d. “Net taxation principle”, può tra gli altri vedersi A.P. Dourado, The Interest Limitation Rule in the Anti-Tax Avoidance Directive (ATAD) and the Net Taxation Principle, cit., par. 4-5. (41) Come viene precisato nel par. 49 del citato “Action 4: 2015 final report”.


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Le finalità extrafiscali costituzionalmente rilevanti possono infatti giustificare una minore tassazione rispetto a quella ordinaria (42). È il caso delle esenzioni (43), ma anche delle agevolazioni dirette alla capitalizzazione che operano sull’aliquota di imposta, come l’abrogata Dual income tax (Dit). Oppure, all’opposto, le finalità extrafiscali possono giustificare l’apprensione dell’intera capacità contributiva disponibile senza alcuna riduzione (come ad esempio un’imposta particolarmente onerosa su consumi ritenuti dannosi per la collettività) (44); ma non oltre. Le finalità extrafiscali non possono cioè mai giustificare una tassazione in assenza di capacità contributiva, come appunto nel caso della tassazione di un “reddito” insussistente, nella parte corrispon-

(42) In tal senso, con specifico riferimento alle esenzioni oggettive ed ai tributi c.d. extrafiscali, può tra gli altri vedersi I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 84-99, secondo il quale “È ben vero che la capacità contributiva non può essere concepita e valutata se non nei limiti della situazione economica del soggetto e che solo così è possibile dare concreto contenuto al disposto costituzionale; ma questo non necessariamente preclude la possibilità d’intervento, in tale ambito, di ulteriori e diversi fattori, che giocherebbero come dirimenti od attenuanti, e mai come aggravanti, della capacità resa manifesta dall’elemento economico. Come è dimostrato con evidenza proprio dall’accoglimento del principio d’esenzione del minimo vitale, la Costituzione vieta che possa essere assunta a capacità contributiva una grandezza superiore a quella risultante dalla complessiva capacità economica del soggetto, ma non esclude che — in tali limiti — possa essere assunta a capacità contributiva una grandezza inferiore. Il limite rappresentato dalla capacità economica verrebbe perfettamente rispettato: solo si consentirebbe al legislatore di non utilizzare in pieno tale capacità” (p. 86). (43) Oppure una deduzione dalla base imponibile, com’è attualmente previsto in Italia dall’art. 1 del D.L. 6-12-2011, n. 201, istitutivo dell’Ace (Aiuto alla crescita economica). (44) Cfr. ancora I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 99-107, il quale afferma che “Se… le misure d’esenzione, operando riduzioni e detrazioni nell’ambito delle disponibilità economiche individuali, necessariamente rispettano il limite rappresentato da tali disponibilità (traducendosi, in ultima analisi, in un giudizio di minor capacità contributiva), potrebbe per contro dubitarsi della possibilità di perseguire effetti dissuasivi o repressivi — cioè effetti opposti a quelli delle misure d’esenzione — pur rimanendo nell’ambito della capacità economica del soggetto. La risposta, a nostro avviso, appare evidente, ove si consideri che l’effetto voluto può essere conseguito non già mediante un aumento o aggravamento del giudizio di capacità contributiva oltre i limiti della capacità economica del soggetto, ma semplicemente mediante giudizi di capacità contributiva differenziati nell’ambito di situazioni economiche quantitativamente uguali. La misura dissuasiva opera in altre parole come «non applicazione» di qualsiasi riduzione o detrazione. Essa tende a considerare come suscettibile di prelievo tributario tutta la capacità economica del soggetto, là dove la misura agevolativa tende invece a sottrarre al prelievo tutta o parte di tale capacità. Il limite rappresentato dalla capacità economica appare anche in questo caso perfettamente rispettato” (p. 104).


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dente ad un costo non dedotto (45). Il che vale, esattamente negli stessi termini, anche se la finalità extra-fiscale consiste in una finalità “sanzionatoria”: se tale finalità è perseguita tramite un tributo, siamo comunque in presenza di un tributo, e non può quindi che applicarsi, nella sua interezza, l’art. 53 della Costituzione (46). In questa prospettiva, la totale o parziale indeducibilità di un costo per finalità anti-elusive o anti-evasive può senz’altro giustificarsi, perché l’obiettivo è quello di determinare in modo appropriato la ricchezza tassabile. Ciò avviene molto spesso, nel nostro ordinamento, tramite delle forfettizzazioni, cioè ammettendo in deduzione solo una percentuale dei costi oppure ammettendo in deduzione i costi entro un limite massimo, come appunto nell’art. 96 Tuir. Si tratta di una tecnica basata sul meccanismo delle presunzioni legali. Il legislatore ad esempio presume, nel caso di beni o servizi ad utilità promiscua, che una certa percentuale sia utilizzata per fini imprenditoriali e la restante parte no; oppure presume che, fino ad un certa soglia, l’indebitamento e i relativi interessi passivi siano “fisiologici”, oltre siano sintomatici di finalità elusive o evasive. Il ricorso alle presunzioni legali, nel nostro ordinamento costituzionale, è ammesso, ma a due tassative condizioni (47): - che la presunzione risponda a ciò che capita nella normalità o generalità dei casi (risponda cioè all’id quod plerumque accidit): la presunzione dev’essere – come oggi si tende a dire – ragionevole e proporzionata; - che sia ammessa la prova contraria (48): sia cioè consentito anche a quell’unico contribuente che non rientra nella normalità dei casi di dimo-

(45) Cfr. in proposito, con specifico riferimento al previgente art. 96 Tuir, M. Beghin, La nuova disciplina degli interessi passivi: dagli incentivi alla capitalizzazione (indicati dalla Commissione Biasco) al contrasto al finanziamento (previsto nella Legge Finanziaria per il 2008), in Saggi sulla riforma dell’Ires. Dalla relazione Biasco alla Finanziaria 2008, a cura di M. Beghin, Milano, 2008, 126-127. (46) Anche se non con specifico riferimento alle finalità “sanzionatorie”, può al riguardo vedersi I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 102 ed ivi nota 60, dove viene richiamato G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1963, I, 27, nota 61. (47) Per più ampie indicazioni, può vedersi, se si vuole, I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, cit., 42-44 e 400-405. (48) Nel senso indicato sopra nel testo, si veda in particolare, in termini molto chiari, Cort. cost., 28-7-1976, n. 200, par. 3. La giurisprudenza costituzionale non è tuttavia unanime.


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strare che il bene o servizio è stato interamente utilizzato nell’esercizio dell’impresa o che l’indebitamento non risponde ad alcuna finalità elusiva o evasiva (49). Soffermiamoci, per ora, sulla seconda condizione. La possibilità della prova contraria è fondamentale, perché il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. si applica a “tutti”, senza eccezioni (50). La garanzia riguarda cioè la generalità dei contribuenti, nessuno escluso: quindi ciascuno, e non il 51% o il 99% dei contribuenti. Non è questione di statistiche, ma di garanzie individuali. Né soccorrono, per le ragioni sopra esposte, eventuali finalità extra-fiscali (quali ad esempio favorire la capitalizzazione) che si volessero aggiungere a quelle anti-elusive esplicitamente dichiarate in sede di direttiva Atad e di recepimento in Italia. Date queste premesse, ne consegue che l’art. 96 Tuir vìola anzitutto il principio costituzionale della capacità contributiva, in quanto non ammette la prova contraria: non prevede cioè una generale clausola “escape”, che consenta a società di capitali ed enti commerciali di ogni genere, appartenenti o meno a gruppi nazionali o multinazionali, di dimostrare che gli eventuali interessi passivi eccedenti non sono stati sostenuti con finalità elusive o evasive, ma nell’ordinario esercizio della propria attività commerciale. Ciò anche tenuto conto che la stessa Corte costituzionale italiana, sulla scia tracciata dalla giurisprudenza europea, tende sempre più spesso ad effettuare il proprio sindacato sulla base del c.d. “test di proporzionalità”, affermando (51): - che è compito della Corte costituzionale “verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con

(49) Ciò nel rispetto del principio di effettività: le condizioni alle quali è ammessa la prova contraria non devono essere tali da rendere di fatto impossibile o comunque molto difficoltoso l’esercizio del diritto alla prova contraria. (50) Per tutti: I. Manzoni, Imposizione fiscale, diritti di libertà e garanzie costituzionali, in Giur. cost., 1987, spec. 2318-2319. (51) Corte cost., 13-1-2014, n. 1, par. 3 della motivazione in diritto. Con decisione confermata da numerose sentenze successive, tra le quali, da ultimo, Corte cost., 21-22019, n. 20, par. 3 della motivazione in diritto, ove richiami ai precedenti della Corte. Sulla proporzionalità quale principio del nostro ordinamento costituzionale, può ad es. vedersi, con specifico riferimento alla materia tributaria, G. Moschetti, Il principio di proporzionalità come “giusta misura” del potere nel diritto tributario, Milanofiori Assago (MI), 2017, spec. 107 s.


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modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale”; - che “Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti»...”; - che “Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ...richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi”. Proporzionalità che è certamente assente nell’art. 96 Tuir, per le ragioni sopra esposte. 7. Art. 4 Atad e “controlimiti” costituzionali italiani. – Quanto sopra esposto non cambia per il solo fatto che dietro l’art. 96 Tuir vi sia una direttiva europea (52). Sin dal 1973, la Corte costituzionale italiana ha affermato di avere il potere dichiarare incostituzionale la legge nazionale di ratifica dei trattati sull’Unione europea – all’epoca trattati istitutivi delle Comunità economiche europee – nella parte in cui consentano l’introduzione nel nostro ordinamento di norme contrastanti con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano, sviluppando così la teoria dei “controlimiti”, in base alla quale l’ordinamento italiano, pur essendosi aperto all’ordinamento europeo in base all’art. 11 Cost. (accettandone in via generale il primato e la diretta applicabi-

(52) In senso contrario, con riferimento all’ordinamento tedesco e alla giurisprudenza della Corte costituzionale federale tedesca, si veda : D. Reicht, Germany, cit., par. C.3., secondo il quale “The Federal Constitutional Court would… withdraw its’ jurisdiction in accordance with its’ Solange-II jurisdiction and reject future constitutional complaints and review procedures as inadmissible. To this extent, constitutional review will then no longer take place at the Federal Constitutional Court, but at the European Court of Justice”.


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lità), nondimeno si oppone a norme europee contrastanti con i principi fondamentali (ivi compresi i diritti inalienabili della persona) del nostro Stato (53). Più di recente, sempre la Corte costituzionale italiana, mediante l’ordinanza di rinvio pregiudiziale 26-6-2017, n. 24, ritendendo che la regola fissata dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco del 2015 (la c.d. “regola Taricco”, cioè l’inapplicabilità ai reati in materia di IVA della prescrizione prevista dal codice penale italiano) (54) si ponesse in contrasto con il principio della legalità in materia penale (principio presidiato dall’art. 25, comma 2, Cost. e ritenuto dalla Corte costituzionale principio fondamentale del nostro ordinamento) (55), ha tra le altre cose chiesto “conferma” alla Corte di giustizia Ue (56) circa la correttezza delle seguenti affermazioni: - “il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale” (57);

(53) Corte costituzionale, 18-12-1973, n. 183, par. 9; Id., 5-6-1984, n. 170, par. 7; Id., 21-4-1989, n. 232, par. 3.1; Id., 18-4-1991, n. 168, par. 4; Id., 13-7-2007, n. 284, par. 3; Id., 22-10-2014, n. 238, par. 3.2. Sul tema, di particolare interesse, per la ricchezza e varietà dei contributi, è l’opera I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi italiani, a cura di A. Bernardi, Napoli, 2017. Tra i tributaristi, si veda tra gli altri: P. Boria, Diritto tributario europeo, 3^ ed., Milano, 2017, 69 s. (54) Corte di giustizia Ue, Grande sezione, 8-9-2015, C-105/14, Taricco. (55) Contrasto ravvisato dalla Corte costituzionale, più in particolare, sotto il duplice profilo della retroattività e della indeterminatezza della “regola Taricco”. (56) In termini di richiesta di “conferma”, sono introdotti dalla Corte costituzionale i brani della ordinanza n. 24/2017 letteralmente trascritti sopra nel testo. Il che viene ribadito dalla Corte nella successiva sentenza n. 115/2018, punto 5 della motivazione in diritto. (57) Par. 6 della motivazione dell’ordinanza n. 24/2017. Ciò in quanto, secondo la Corte costituzionale, “In base all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE)… i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza. Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali. Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art.


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- il diritto dell’Unione “è applicabile solo se è compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro” e “spetta alle competenti autorità di quello Stato farsi carico di una siffatta valutazione” (58); - “Nell’ordinamento italiano ciò può avvenire attraverso l’iniziativa del giudice che, chiamato ad applicare la regola, chiede a questa Corte [cioè la Corte costituzionale italiana: n.d.r.] di saggiarne la compatibilità con i principi supremi dell’ordine costituzionale. È poi dovere di questa Corte accertare, se del caso, l’incompatibilità, e conseguentemente escludere che la regola possa avere applicazione in Italia” (59). La Corte di giustizia Ue ha emesso la relativa decisione alla fine del 2017 (sentenza della Grande sezione, 5-12-2017, C-42/17, M.A.S.), ma ha evitato di rispondere alle suddette richieste (60), che sono rimaste per ciò aperte, quantomeno dal punto di vista italiano (61). Da ultimo, a conclusione (forse) di quella che nel frattempo è stata definita la “saga Taricco” (62), la Corte costituzionale italiana, con la sentenza 31-5-2018, n. 115, ha anzitutto ribadito quanto prospettato nella precedente ordinanza n. 24/2017, e cioè che (63):

4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri”. (58) Par. 7 della motivazione dell’ordinanza n. 24/2017. (59) Par. 7 della motivazione dell’ordinanza n. 24/2017, corsivo aggiunto. (60) Richieste peraltro non esplicitamente riprodotte nei quesiti finali oggetto del rinvio pregiudiziale, ma chiaramente evincibili dal terzo quesito, se letto – come doveroso – in correlazione con i punti 6 e 7 della motivazione dell’ordinanza n. 24/2017, dai quali sono appunto tratti i brani trascritti sopra nel testo. In proposito, nella successiva sentenza n. 115/2018 (di cui daremo conto subito appresso nel testo), la Corte costituzionale, nel punto 12 della motivazione in fatto, rileva che “La Corte di giustizia si è pronunciata con la sentenza della Grande sezione 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A. S. e M. B., ritenendo assorbito il terzo quesito in forza delle risposte date ai primi due…”. (61) Pur avendo evitato nella sentenza M.A.S. di rispondere alle più pregnanti domande formulate dalla Corte costituzionale italiana con l’ordinanza n. 24/2017, la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue sembrerebbe tuttavia orientata in senso contrario a quello prospettato in tale ordinanza: si veda in particolare Corte di giustizia Ue, Grande sezione, 26-2-2013, C-399/11, Melloni, punti 55-64. (62) Può a tal riguardo vedersi: G. Piccirilli, The ‘Taricco Saga’: the Italian Constitutional Court continues its European journey, in European Constitutional Law Review, 14(4), 2018, 814-833. (63) Sentenza successivamente confermata, con la forma breve dell’ordinanza, da Corte cost., 21-12-2018, n. 243/2018.


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- “Secondo questa Corte l’eventuale applicazione della ‘regola Taricco’ [cioè l’inapplicabilità ai reati in materia di IVA della prescrizione prevista dal codice penale italiano: n.d.r.] nel nostro ordinamento violerebbe gli artt. 25, secondo comma, e 101, secondo comma, Cost., e non potrebbe perciò essere consentita neppure alla luce del primato del diritto dell’Unione” (64); - “L’autorità competente a svolgere il controllo... è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona” (65). La Corte costituzionale ha quindi concluso nel senso che: - “...il giudice comune non può applicare... la ‘regola Taricco’, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost.” (66); - “Fermo restando che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che... un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento” (67). Con la sentenza n. 115/2018, la Corte costituzionale ha dunque fatto concreta applicazione dei “controlimiti” costituzionali italiani (68), fino ad allora evocati in più occasioni ma mai in concreto applicati nei confronti del diritto europeo, rilevando l’incostituzionalità della “regola Taricco” elaborata dalla Corte di giustizia e dichiarando conseguentemente la sua inapplicabilità

(64) Par. 7 della motivazione in diritto della sentenza n. 115/2018, corsivo aggiunto. (65) Par. 8 della motivazione in diritto della sentenza n. 115/2018. (66) Par. 10 della motivazione in diritto della sentenza n. 115/2018. Ciò in quanto “… una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso, diversamente da quanto accade con la ‘regola Taricco’” (par. 12 della motivazione in diritto). (67) Par. 12 della motivazione in diritto della sentenza n. 115/2018, corsivo aggiunto. (68) Nonostante la Corte costituzionale, in diversi passaggi della motivazione in diritto (ad es. nei par. 12 e 14), dichiari di non porsi in contrasto (ed anzi di porsi in linea) con la sentenza M.A.S. della Corte di giustizia, emerge con sufficiente chiarezza (in particolare dai passaggi della motivazione in diritto – par. 10 – in cui la Corte dichiara l’incostituzionalità della “regola Taricco” e da ciò fa discendere l’inapplicabilità della stessa nell’ordinamento italiano), che con la sentenza n. 115/2018 la Corte ha per la prima volta fatto applicazione dei “controlimiti” nei riguardi del diritto europeo: così, tra i molti, E. Cannizzaro, Il diritto dell’integrazione europea. L’ordinamento dell’Unione, 2^ ed., Rist. agg., Torino, 2018, 319.


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nell’ordinamento italiano (69). Ciò, oltretutto, senza pronunciare l’incostituzionalità in parte qua della legge italiana di ratifica dei trattati sull’Unione europea (come inizialmente prefigurato dalla giurisprudenza costituzionale), ma più direttamente e semplicemente stabilendo che “la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della ‘regola Taricco’ nel nostro ordinamento” (70): facendo così applicazione ad una norma europea, del trattamento (disapplicazione) fino ad allora riservato alle norme nazionali contrastanti con il diritto europeo direttamente applicabile. Si noti, oltretutto, che, per come era stata formulata ed argomentata dalla Corte di giustizia Ue la sentenza M.A.S. (cioè la più recente sentenza della Corte di giustizia nella “saga Taricco”), l’applicazione dei “controlimiti” non era una scelta necessitata per la Corte costituzionale italiana. La stessa Corte di giustizia, infatti, aveva concluso nel senso che, se la Corte costituzionale

(69) “Controlimiti” di cui, peraltro, la Corte costituzionale aveva già fatto concreta applicazione alcuni anni prima nei confronti di una norma generalmente riconosciuta del diritto internazionale di cui all’art. 10 Cost., accomunabile al diritto europeo per quanto riguarda la diretta applicabilità nell’ordinamento italiano: così Corte cost., 22-10-2014, n. 238, confermata dalla successiva ordinanza 3-3-2015, n. 30 (in precedenza, nella prospettiva in parte diversa della legittimità costituzionale delle leggi nazionali di ratifica degli accordi internazionali stipulati dall’Italia con la Chiesa cattolica ai sensi dell’art. 7 Cost., cfr. anche Corte cost., 2-2-1982, n. 18, spec. par. 5 e 6 della motivazione in diritto). Con riferimento al diritto europeo, si veda anche Corte cost., 2-3-2017, n. 48 (ord.), dove la Corte, dopo aver ricordato il generale obbligo di non applicazione delle norme nazionali in contrasto con il diritto europeo, precisa “che la non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite – sindacabile unicamente da questa Corte – del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (ex plurimis, sentenze n. 238 del 2014, n. 284 del 2007 e n. 168 del 1991)”: ciò, peraltro, come obiter dictum, senza fare applicazione dei “controlimiti” nel caso concreto. (70) Par. 14 della motivazione in diritto della sentenza n. 115/2018. Con una soluzione già “collaudata” nella sentenza n. 238/2014 (citata nella nota che precede), dove tra l’altro si legge (par. 3.2 della motivazione in diritto): “Non v’è dubbio, …ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)”.


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avesse ravvisato l’indeterminatezza della “regola Taricco”, già in forza del diritto europeo tale regola non sarebbe stata applicabile nell’ordinamento italiano (71). Per cui, almeno in linea teorica, la Corte costituzionale avrebbe potuto limitarsi a rilevare che non vi era alcuna norma europea potenzialmente applicabile nel nostro ordinamento della cui costituzionalità occuparsi. La scelta di occuparsene appare pertanto frutto di una decisione di “politica giudiziaria” (72), in quanto tesa (anche) ad affermare il proprio ruolo di garante dei valori della Costituzione italiana nei confronti della Corte di giustizia Ue e dell’ordinamento europeo (73).

(71) Quanto alla denunciata violazione del divieto di retroattività in materia penale (di cui si è detto nella precedente nota 55), la stessa Corte di giustizia aveva già direttamente stabilito nella sentenza M.A.S. che la “regola Taricco” non poteva essere applicata retroattivamente, superando così definitivamente questo profilo di contrasto (ulteriore rispetto all’indeterminatezza) con il principio della legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost. (72) Parla di una “ricerca di compromesso, che ha ispirato la sentenza M.A.S.” della Corte di giustizia e, all’opposto, di una “scelta della Corte costituzionale di aprire uno scontro con la Corte di giustizia”: E. Cannizzaro, Il diritto dell’integrazione europea. L’ordinamento dell’Unione, cit., 167, secondo il quale “la vicenda Taricco ha rappresentato una occasione persa per l’avvio di un sereno confronto sulle difficoltà create dalla coesistenza fra sistemi diversi di tutela dei diritti fondamentali, e sull’esigenza di rinvenire un equilibrato meccanismo per la soluzione dei conflitti”; si vedano inoltre le più generali considerazioni svolte dall’Autore alle pagine 318-321. Perplesso sulla sussistenza nel caso di specie dei presupposti per attivare una procedura come quella dei “controlimiti” (a prescindere dalla sua stessa ammissibilità), si era dimostrato anche l’Avvocato generale Y. Bot nelle conclusioni (punti 169-187) presentate il 18-7-2017 nella causa M.A.S., dove tra l’altro si legge: “non sono convinto del fatto che l’applicazione immediata di un termine di prescrizione più lungo, derivante dall’esecuzione dell’obbligo stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco e a., sia tale da pregiudicare l’identità nazionale della Repubblica italiana” (punto 178). (73) Anche se, a ben vedere, tra i molti passaggi di “apertura” alle argomentazioni della Corte costituzionale e di ricerca di un “compromesso” indubbiamente presenti nella sentenza M.A.S., non mancavano dei passaggi molto meno “rassicuranti”. Intendo in particolare riferirmi ai punti 44 e 45 della sentenza M.A.S., dove la Corte di giustizia ha condizionato la propria decisione alla circostanza che “Nella fattispecie, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione, armonizzazione che è successivamente avvenuta, in modo parziale, solo con l’adozione della direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale... La Repubblica italiana era quindi libera, a tale data, di prevedere che, nel suo ordinamento giuridico, detto regime ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse a questo titolo soggetto, come queste ultime norme, al principio di legalità dei reati e delle pene”. In questo modo la Corte di giustizia sembra essersi riservata per il futuro una diversa decisione, nell’ipotesi in cui la stessa Corte interpretasse la citata direttiva


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La Corte costituzionale sembra così aver introdotto una sorta di sussidiarietà “di ritorno”. Se normalmente è l’ordinamento europeo a riservarsi di intervenire laddove l’attività degli Stati membri appaia inadeguata (74), attraverso i “controlimiti” è l’ordinamento italiano (per il tramite della Corte costituzionale) che a sua volta si riserva di intervenire se e quando la disciplina europea non risulti satisfattiva (meglio: risulti lesiva) dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano (75). 8. Segue:...con riferimento all’uguaglianza tributaria. – È ora sufficientemente chiaro, pertanto, che la Corte costituzionale italiana ritiene di non poter (e non dover) applicare il diritto europeo, ogniqualvolta questo si ponga in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano (76). Il principio dell’uguaglianza (art. 3 Cost.) è certamente uno di questi principi fondamentali e, al tempo stesso, il principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.) costituisce la specificazione del principio dell’uguaglianza in campo tributario (77). Sotto questo profilo (uguaglianza tributaria), il principio della capacità contributiva può pertanto essere considerato un principio fondamentale dell’ordinamento italiano (78).

(Ue) 2017/1371 nel senso che la disciplina della prescrizione in essa prevista non appartenga al diritto penale sostanziale ma a quello processuale. Non può quindi escludersi che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 115/2018, abbia voluto definire una volta per tutte la propria posizione in materia, con una decisione destinata a valere anche per il futuro. (74) Con riferimento alle competenze concorrenti dell’Unione europea e degli Stati membri. (75) Con riferimento, peraltro, non soltanto alle competenze concorrenti dell’Unione europea con gli Stati membri, ma anche a quelle esclusive dell’Unione. In senso favorevole alla svolta della Corte costituzionale, può tra gli altri vedersi M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, cit., 63 s. (76) Cfr. D. Gallo, La Corte costituzionale chiude la “Saga Taricco”: tra riserva di legge, opposizione de facto del controlimite e implicita negazione dell’effetto diretto, in European Papers, 3(2), 2018, p. 875 s. (spec. 893-894). (77) Per più analitiche indicazioni, ci permettiamo di rinviare a I. Manzoni - G. Vanz, Il diritto tributario. Profili teorici e sistematici, cit., p. 30-32. (78) Tra gli altri, può vedersi sul punto F. Gallo, I principi di diritto tributario, in Rass. trib., 2008, 919 s., secondo il quale (par. 2) “ci si può... domandare quali dei principi dell’ordinamento tributario nazionale possano teoricamente avere le caratteristiche dei principi fondamentali opponibili, quali contro-limite, all’ordinamento comunitario. A mio avviso,


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Nella misura in cui l’art. 96 Tuir introduce in Italia una regola che, attraverso una generale e indiscriminata indeducibilità (parziale) degli interessi passivi, viene a tassare in modo differente uguali situazioni di capacità contributiva o a tassare in modo uguale situazioni differenti di capacità contributiva, la legge italiana di recepimento della direttiva Atad (in particolare l’art. 1 D.Lgs. 142/2018 che ha introdotto il nuovo art. 96 Tuir) e la legge italiana di ratifica dei trattati istitutivi dell’Unione europea dovrebbero pertanto essere dichiarate incostituzionali dalla Corte costituzionale; oppure, conformemente allo schema applicato nella più recente sentenza n. 115/2018, la Corte dovrebbe disporre la disapplicazione in Italia dell’art. 4 della direttiva Atad e dichiarare incostituzionale l’art. 1 D.Lgs. 142/2018 (79). Sulla base dell’art. 96 Tuir, infatti, a parità di utile prodotto, due società, di cui una con interessi passivi eccedenti (ma effettivi, inerenti ed estranei ai fenomeni Beps) e l’altra no, si trovano attribuiti redditi imponibili diversi. Per contro, due società con diverso utile prodotto possono trovarsi attribuito un reddito imponibile identico, quale conseguenza della indeducibilità a fini fiscali di interessi passivi eccedenti, ma effettivi, inerenti ed estranei ai fenomeni Beps. Né mi sembra possa assumere un peso decisivo, a sanare il vulnus, la possibilità concessa di riporto “in avanti” delle varie eccedenze (di interessi passivi, di interessi attivi e di Rol) (80). A parte l’onere finanziario che il rinvio della deduzione di un costo inevitabilmente comporta (dovuto al pagamento “anticipato” delle corrispondenti imposte), già di per sé fonte di discriminazione tra chi lo deve sostenere e chi no; a parte questo, vi è l’ulteriore circostanza, difficilmente superabile, che il rinvio, anche se privo di scadenze, non dà alcuna certezza che arriverà il giorno in cui il costo potrà essere dedotto. Anche il contribuente con le migliori intenzioni, che si sforzi di “assecondare” i requisiti richiesti dall’art. 96 Tuir, non è detto che riesca a realizzarli. Non basta dire al contribuente: “aumenta i ricavi così aumenti il Rol”. Tutti gli operatori economici lo vorrebbero; altra cosa è riuscirci. L’art. 96 Tuir è dunque strutturato in modo tale da (poter) generare degli interessi “definitivamente” indeducibili. Basti in proposito chiedersi: avrebbe

l’unico principio che potrebbe qualificarsi tale è quello di uguaglianza tributaria”. (79) Fatta salva l’eventualità di un ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 Tfeu da parte della Corte costituzionale italiana. (80) Si rinvia, in proposito, a quanto più dettagliatamente esposto nel precedente par. 1 del presente scritto.


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senso opporre a un contribuente che per dieci anni abbia vanamente riportato “in avanti” degli interessi passivi l’ulteriore possibilità di riporto? E a un contribuente che sia stato dichiarato fallito senza riuscire a dedurre dei pregressi interessi passivi, come potrebbe seriamente opporsi che l’art. 96 Tuir non sia norma suscettibile di determinare la perdita definitiva di un costo? Interrogativi che, oltretutto, si pongono in relazione a una garanzia “di risultato” come l’uguaglianza tributaria sancita dall’art. 53 Cost. (81). Proprio perché norma suscettibile di determinare la perdita definitiva di un costo con effetti discriminatori (oltre che per il discriminatorio onere finanziario che normalmente comporta), l’art. 96 Tuir va pertanto ritenuto lesivo del principio dell’uguaglianza tributaria. Le varie ipotesi di riporto in esso previste ne attenuano certamente l’impatto, ma non eliminano il vizio di fondo. Ciò anche tenuto conto che, ai fini del giudizio di conformità all’uguaglianza tributaria, non conta il numero dei casi coinvolti, né la maggiore o minore entità della disparità (salvo che si tratti di disparità talmente irrisoria da risultare priva di effetti sostanziali). Basta anche un solo caso, perché sufficiente a dimostrare il deficit strutturale della norma. 9. Segue: ...e con riferimento agli ulteriori contenuti del principio della capacità contributiva. – Il principio della capacità contributiva non si esaurisce però in quello dell’uguaglianza tributaria. Vero è che l’uguaglianza tributaria ne costituisce parte rilevante; ed è pure vero che normalmente la violazione del principio della capacità contributiva comporta una violazione dell’uguaglianza tributaria. Ma la capacità contributiva mantiene una propria autonomia e un proprio ambito di operatività indipendentemente dall’uguaglianza tributaria (82). Per questa ragione si tende generalmente a parlare al

(81) Cfr. I. Manzoni, Imposizione fiscale, diritti di libertà e garanzie costituzionali, cit., spec. 2322-2325, secondo il quale “Solo un giudizio di legittimità che tenga conto di tutti i vari aspetti del fenomeno impositivo, sia formali che sostanziali, può... assicurare la concreta attuazione dei princìpi costituzionali e rendere effettivamente operanti le garanzie da questi espresse” (2325). (82) Sull’opportunità di non limitare il sindacato di legittimità costituzionale al solo profilo dell’uguaglianza (cioè con ricorso ad un tertium comparationis), ma di condurre il sindacato anche (e ancor prima) sulla base di una diretta e immediata valutazione di conformità della norma primaria con il precetto costituzionale (diverso dall’art. 3 Cost.) che di volta in volta entra in gioco (senza quindi ricorso al tertium comparationis), può di recente vedersi, con riferimento alla proporzionalità delle sanzioni, Corte cost., 10-5-2019, n. 112, spec. par. 8.1.2, 8.1.3 e 8.1.4. In proposito, rileva tuttavia “il frequente asservimento dell’art. 53 Cost. all’art. 3


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plurale dei principi della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria: volendosi con ciò sottolineare che non sono esattamente la stessa cosa, pur trattandosi di principi strettamente correlati, in quanto legati da un rapporto di genere (capacità contributiva) e specie (uguaglianza tributaria). Se si accetta l’idea che la capacità contributiva costituisce presupposto, limite e parametro di ogni forma di concorso alle spese pubbliche (83), se ne può poi ricavare che, nella parte in cui costituisce parametro del concorso alle spese pubbliche (cioè criterio di confronto tra situazioni al fine di verificare la parità o disparità di trattamento), la capacità contributiva si afferma quale principio dell’uguaglianza tributaria, cioè come specificazione in campo tributario del generale principio dell’uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. In quanto tale, il principio della capacità contributiva comporta sempre un giudizio relativo, cioè di comparazione tra situazioni. Ma nella parte in cui costituisce presupposto e limite del concorso alle spese pubbliche, la capacità contributiva prescinde di per sé da un confronto tra situazioni e si afferma in termini assoluti, cioè indipendentemente da qualsiasi comparazione e giudizio relativo. E’ questa una valutazione da farsi isolatamente: deve cioè stabilirsi se una certa situazione, in sé considerata, sia o no espressiva di capacità contributiva ed in quali limiti. Sotto questo profilo, la capacità contributiva dà contenuto al (e circoscrive il) dovere di concorso alle spese pubbliche e si pone così quale specificazione in materia tributaria del più generale dovere di solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art.

Cost.” da parte della stessa Corte costituzionale, E. Marello, Considerazioni sugli argomenti logici e retorici adoperati dalla Corte costituzionale in materia tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2019, I, 115 s. Sul tema, cfr. anche D. Stevanato, Fondamenti di diritto tributario, Firenze, 2019, 99-103. (83) In questi termini si esprime, tra gli altri, I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 13-15, secondo il quale la capacità contributiva è “presupposto” dell’imposizione perché “non può sussistere imposizione tributaria in assenza di capacità contributiva”; è “limite” all’imposizione perché “in presenza di capacità contributiva, non può richiedersi al soggetto un concorso superiore a quello che la sua capacità contributiva gli consente”; ed è “parametro” dell’imposizione “operando... come misura unitaria di riferimento nella determinazione del concreto carico tributario che deve gravare sui vari soggetti” e venendo così “ad affermarsi anche come principio dell’«uniformità» o dell’uguaglianza tributaria: intesa questa non già nel senso che tutti debbano contribuire in uguale misura, il che sarebbe assurdo, ma nel senso che dev’essere assicurata uniformità di trattamento a parità di condizioni”.


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2 della Costituzione (84). Ai fini del concorso alle spese pubbliche, il dovere sussiste solo se vi è capacità contributiva e nel limite massimo di questa (85). Anche sotto questo profilo (logicamente distinto da quello dell’uguaglianza), il principio della capacità contributiva viene pertanto a connotarsi quale principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, in quanto specificazione di un principio – quello solidaristico enunciato all’art. 2 Cost. – che certamente è tale. E non può che esserlo con i contenuti e i limiti precisati dalle altre disposizioni costituzionali che ne danno specifica attuazione e concreta applicazione, tra cui appunto l’intero art. 53 Cost. (86). Non avrebbe molto senso, a mio avviso, che il dovere di solidarietà economica e sociale fosse principio fondamentale in astratto e non lo fosse invece nella sua principale manifestazione d’indole costituzionale, cioè nel dovere di concorso alle spese pubbliche basato sulla capacità contributiva. Questo comporta:

(84) Anche in correlazione – come ben noto – con il principio dell’uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Cost., il quale contempla tra i compiti primari della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti (i lavoratori) all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. (85) Sottolineano, tra i molti, la stretta correlazione tra art. 2 e art. 53 Cost.: I. Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 20 s.; F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 59 s.; C. Sacchetto, Il dovere di solidarietà nel diritto tributario: l’ordinamento italiano, in Il dovere di solidarietà, a cura di B. Pezzini e C. Sacchetto, Milano, 2005, spec. 181 s. (86) In senso contrario, si veda tuttavia F. Gallo, I principi di diritto tributario, cit., il quale considera l’uguaglianza tributaria “come l’unico principio caratterizzante in senso identitario l’ordinamento tributario italiano e l’altro principio fiscale di diritto interno, la capacità contributiva, come un principio importante, ma non fondamentale e comunque riassorbito in quello di uguaglianza. È evidente che questa scelta è coerente con la nozione di capacità contributiva quale mero criterio di riparto e non quale capacità economica qualificata. Definendo in tal modo la capacità contributiva tendo, infatti, a sganciarla dal principio fondamentale di solidarietà – che rileverebbe solo come obiettivo perseguibile e non come dato coessenziale al concetto di capacità contributiva –, a negare la funzione garantista dell’art. 53 della Costituzione, e a riconoscere, in definitiva, la possibilità di una tassazione avulsa da quel bagaglio di concetti sull’effettivo arricchimento patrimoniale del contribuente che, solo, potrebbe giustificare la collocazione della capacità contributiva tra i principi e i valori fondamentali che tutelano i diritti inviolabili dell’individuo” (par. 2). Concetti, questi, ribaditi dall’Autore anche nel più recente: F. Gallo, Il futuro non è un vicolo cieco. La stato tra globalizzazione, decentramento ed economia digitale, Palermo, 2019, 75-77. Più in generale, in senso contrario alla rilevanza dell’intero principio della capacità contributiva come “controlimite”, sembra orientato P. Boria, Diritto tributario, 2^ ed., Torino, 2019, 152-153.


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- che l’art. 96 Tuir si pone in contrasto non solo con il principio dell’uguaglianza tributaria (in quanto può portare a tassare in modo differente situazioni uguali e viceversa), ma ancor prima perché può condurre alla tassazione di un reddito inesistente (la quota di “reddito” corrispondente agli interessi passivi indeducibili) e, quindi, ad una tassazione in assenza di capacità contributiva; - che il “controlimite” costituzionale italiano, rispetto alla normativa europea, è costituito non soltanto dall’uguaglianza tributaria, ma dal principio della capacità contributiva nella sua interezza, in tutte le sue diverse e complementari declinazioni di presupposto, limite e parametro di ogni forma di imposizione. 10. L’irragionevolezza di un unico e indistinto limite alla deducibilità degli interessi passivi. – Rispetto ai profili di illegittimità prospettati nei due precedenti paragrafi, una modifica dell’art. 4 Atad o una dichiarazione di invalidità dello stesso da parte della Corte di giustizia Ue (con i conseguenti riflessi sull’art. 96 Tuir), nel senso auspicato della necessità di una generale clausola “escape”, se strutturata e applicata in modo tale da consentire effettivamente e senza eccessivi aggravi la “prova contraria”, dovrebbe consentire di superare i prospettati dubbi di costituzionalità dell’art. 96 Tuir. Resterebbe però un’ulteriore problematica di legittimità costituzionale. Come accennato in precedenza (87), perché una presunzione legale – come quella che sta alla base dell’art. 96 Tuir – possa ritenersi conforme ai principi della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria di cui agli artt. 2, 3 e 53 Cost., è non solo necessario che sia ammessa la prova contraria (cioè la clausola generale “escape” di cui si è detto), ma è altresì richiesto che la presunzione risponda a quel che normalmente capita nella realtà. Un unico limite di deducibilità degli interessi passivi, come quello previsto dall’art. 96 Tuir, applicabile a tutte le società di capitali ed enti commerciali, senza alcun riguardo alle caratteristiche strutturali e al settore di attività, valevole tanto per i gruppi societari quanto per i soggetti indipendenti e indifferentemente applicabile ai gruppi sia multinazionali che nazionali, non può rispecchiare quel che normalmente capita nella realtà: non è ragionevole pensarlo (88).

(87) Nel par. 6 del presente scritto. (88) Con riferimento al vecchio art. 96 Tuir, si può vedere G. Zizzo, Abuso di regole


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Tanto è vero che dall’ “Action 4: 2015 final report” elaborato dall’Ocse emerge che è esclusivamente sulla base di statistiche riferite ai gruppi multinazionali, che è stato fissato il limite (fatto proprio dalla direttiva Atad) entro il quale gli interessi passivi eccedenti si assumono come “fisiologici” e quindi non diretti a pratiche Beps (89). Si profila pertanto la violazione degli artt. 2, 3 e 53 della Costituzione, per la manifesta inadeguatezza dell’art. 96 Tuir a cogliere e trattare le diversità delle varie situazioni su cui viene ad incidere (limitandosi ad estendere a tutti i casi una regola calibrata su un singolo caso (90) e, quindi, per la sua irragionevolezza e sproporzione.

volte al “gonfiamento” della base imponibile ed effetto confiscatorio del prelievo, cit., par. 7. Cfr. anche A.E. La Scala, Gli interessi passivi nella determinazione del reddito di impresa, cit., 399-401. (89) Limite di cui si è detto nel par. 2 del presente scritto. Quanto alla sua origine, si vedano in particolare i par. 96-97 dell’ “Action 4: 2015 final report” dell’Ocse. (90) Con l’unica eccezione degli “intermediari finanziari” (la cui definizione è stata introdotta nel Tuir contestualmente al nuovo art. 96 ad opera dell’art. 12 del D.Lgs. 142/2018), delle imprese di assicurazione e delle società capogruppo di gruppi assicurativi, relativamente ai quali il nuovo art. 96 Tuir non si applica e viene disposto che gli interessi passivi sono forfettariamente deducibili nei limiti del 96% del loro ammontare (si veda in proposito F. Pitrone, Some Reflections on Interest Limitation Rules and Financial Institutions, cap. 13 del volume Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion, cit.). È peraltro evidente che quest’unica differenziazione non fa venir meno l’inadeguatezza dell’art. 96 Tuir a cogliere e trattare tutte le diversità delle restanti e varie situazioni su cui viene ad incidere (cfr. G. Melis, Conclusions, cap. 14 del predetto volume). Va inoltre rilevato che, in sede di recepimento dell’art. 4 Atad, il legislatore italiano, mediante l’art. 14, comma 2, D.Lgs. 142/2018, aveva coerentemente disposto l’abrogazione di una specifica disposizione (contenuta nell’art. 1, comma 36, della L. 24-12-2007, n. 244, come modificato dall’art. 4, comma 4, D.Lgs. 149-2015, n. 147) che, nei confronti delle società svolgenti in via effettiva e prevalente attività immobiliare, escludeva l’applicazione del vecchio regime limitativo della deducibilità degli interessi passivi (quello cioè previsto dalla precedente versione dell’art. 96 Tuir), relativamente agli interessi passivi derivanti da finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati alla locazione. Anche per tali società si sarebbero pertanto dovuti applicare nella loro interezza i limiti di deducibilità degli interessi passivi contenuti nel nuovo art. 96 TUIR. Il successivo art. 1, comma 7, L. 30-12-2018, n. 145, nonostante la notevole ambiguità che lo caratterizza, sembrerebbe tuttavia aver disposto in via provvisoria, in attesa di una generale revisione della normativa sulla fiscalità delle imprese immobiliari, la “sopravvivenza” della suddetta disposizione derogatoria concernente le società immobiliari. Secondo la vigente normativa nazionale, nei confronti di tali società, non dovrebbe pertanto operare il nuovo art. 96 TUIR, relativamente agli interessi passivi derivanti da finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati alla locazione. Si tratta tuttavia di una disposizione che si pone in contrasto con l’art. 4 Atad, il quale non prevede alcuna deroga al riguardo. Salvo quanto diremo nel testo nei successivi paragrafi in ordine al rispetto del principio della proporzionalità, lo Stato italiano


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Prima ancora che a livello costituzionale italiano, la questione dovrebbe tuttavia porsi – anche a questo proposito – a livello europeo. A prescindere dalla sussistenza o meno della possibilità di dare la prova contraria, sussistono infatti serie ragioni per dubitare della conformità al principio europeo della proporzionalità (91), ma anche al principio europeo dell’uguaglianza (92), di una normativa con le caratteristiche sopra descritte, obiettivamente inidonea a distinguere le particolarità dei singoli casi (anche solo per tipologie) e che in prima battuta pone indistintamente tutti i contribuenti nel suo ambito di applicazione. Quanto all’uguaglianza, è appena il caso di ricordare che ormai da tempo la Corte di giustizia Ue ha affermato la sussistenza a livello europeo di un generale principio di uguaglianza che trascende il più specifico divieto di discriminazione in ragione della nazionalità o residenza (93); principio che ha poi trovato conferma negli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Un principio che, come tale, ben potrebbe assumere rilevanza nel caso in esame. Non mi sembra invece che allo stato attuale possa parlarsi della “capacità contributiva” (nel senso che si è sopra precisato con riferimento all’or-

potrebbe pertanto essere indotto ad eliminarla. (91) Indicazioni in tal senso sono presenti in Corte di giustizia Ue, 3-10-2013, C-282/12, Itelcar, punti 41-42; cfr. anche Corte di giustizia Ue, 12-12-2002, C-324/00, LankhorstHohorst, punto 37, nonché le Conclusioni dell’Avvocato generale J. Kokott presentate il 191-2017 nella causa C-6/16, Equiom, punto 30 e le Conclusioni dell’Avvocato generale M. Wathelet presentate il 26-10-2016 nella causa C-14/16, Euro Park Sevice, punto 45, ove ulteriori richiami giurisprudenziali. In dottrina, tra gli altri, M. Grandinetti, The Interest Limitation Rule in the ATAD (Section I), cap. 3 del volume Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion, cit., spec. par. 3.2. (92) Sulla violazione del principio europeo dell’uguaglianza, possono tra gli altri richiamarsi: A.P. Dourado, The Interest Limitation Rule in the Anti-Tax Avoidance Directive (ATAD) and the Net Taxation Principle, cit., par. 12; R. Iaia, La “Interest Limitation Rule” della direttiva “antielusione” (“ATAD”), cit., par. 8. (93) Ancora di recente: Corte di giustizia Ue, 30-4-2019, C-611/17, Repubblica italiana/Consiglio dell’Unione europea, punto 129, dove si legge: “Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, l’articolo 40, paragrafo 2, secondo comma, TFUE, letto in combinato disposto con l’articolo 38, paragrafo 1, secondo comma, TFUE, che sancisce il divieto di qualsiasi discriminazione nell’ambito della politica comune dell’agricoltura e della pesca, altro non è che l’espressione specifica del principio generale di uguaglianza, il quale esige che situazioni paragonabili non siano trattate in modo differente e che situazioni differenti non siano trattate in modo identico, a meno che una differenziazione non sia oggettivamente giustificata…” (corsivo aggiunto).


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dinamento italiano) come di un principio generale dell’Unione europea. La Corte di giustizia, pur ricorrendo in talune occasioni alla nozione di “capacità contributiva” (94), non mi risulta l’abbia mai qualificata come un principio generale dell’ordinamento europeo e tantomeno come il presupposto, il limite e il parametro di ogni forma di imposizione. Anche perché, così com’è strutturata in Italia (95), la “capacità contributiva” risulta presente solo in alcuni Stati membri ed è quindi tutt’altro che scontato che possa in futuro essere riconosciuta e ascritta tra “I diritti fondamentali... risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, che in forza dell’art. 6, par. 3, Tue costituiscono principi generali dell’Unione. Tant’è che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non ne fa menzione (96). E neppure il “naufragato” progetto di Costituzione per l’Europa, nonostante gli auspici formulati da più parti (97), ne trattava minimamente. 11. Osservazioni conclusive. – Il risultato di quanto fin qui esposto è che la tutela di principi che sono patrimonio tanto dell’ordinamento costituzionale italiano quanto dell’ordinamento europeo, come appunto la proporzionalità e l’uguaglianza, risulta affidata in modo concorrente a due diverse autorità giu-

(94) Ad es. per individuare lo Stato membro tenuto a concedere deduzioni, detrazioni ed agevolazioni fiscali collegate alla situazione personale e familiare del contribuente (da ultimo Corte di giustizia Ue, 14-3-2019, C-174/18, Jacob, punto 26, nonché 6-12-2018, C-480/17, Montag, punti 27-28) oppure quale criterio di valutazione ai fini del riconoscimento della deduzione delle perdite prodotte da una stabile organizzazione (Corte di giustizia Ue, 4-72018, C-28/17, NN, punto 35, nonché 12-6-2018, C-650/16, Bevola, punti 39, 49-50 e 59). Può in proposito vedersi P. Pistone, Diritto tributario europeo, Torino, 2018, spec. 20-21. (95) Dove peraltro viene intesa, in dottrina, in modi molto diversi. Si veda di recente F. Gallo, Il futuro non è un vicolo cieco, cit., spec. 66 s. (96) Il che non è privo di rilevanza, se si considera che nel Preambolo viene precisato che “La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali… comuni agli Stati membri…”: tra i quali, evidentemente, i redattori della Carta, e gli organi che poi la hanno approvata, non hanno ritenuto vi fosse il principio della capacità contributiva. (97) Quanto alla dottrina italiana, tra i numerosi autori che se ne sono occupati, può vedersi I. Manzoni, Brevi considerazioni a margine di un progetto di Costituzione europea: le garanzie in materia tributaria, in Riv. it. dir. pub. com., 2002, 1191 s. Ricchi di spunti sono inoltre la proposta collettiva e i contributi individuali del gruppo di lavoro costituito presso la fondazione Astrid e coordinato da A. Fantozzi sulle norme tributarie da inserire nella Costituzione europea, ed in particolare, oltre alla proposta con la relativa relazione, i contributi di A. Fantozzi, S. La Rosa, G. Marongiu e G. Maisto, tutti pubblicati su Riv. dir. trib., 2003, IV, 97-135.


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risdizionali (la Corte costituzionale italiana e la Corte di giustizia Ue), dando luogo ad una tutela “multilivello”. Con la conseguenza di possibili conflitti tra Corti e, quindi, tra ordinamenti. Come appunto sarebbe nell’ipotesi in cui la Corte costituzionale dichiarasse incostituzionale l’art. 96 Tuir (98) e al contempo la Corte di giustizia Ue affermasse la legittimità a livello europeo dell’art. 4 Atad e l’ordinamento europeo pretendesse pertanto il suo conforme recepimento da parte dell’Italia. Ipotesi – quella di un conflitto tra Corti – non più solo teorica ed astratta, ma che ha assunto dei connotati di concretezza ed attualità, a seguito della recente applicazione della regola dei “controlimiti” da parte della Corte costituzionale italiana, non solo con la sentenza n. 115/2018 (rispetto al diritto europeo), ma anche con la precedente sentenza n. 238/2014 (rispetto al diritto internazionale) (99). La tutela “multilivello” dei diritti fondamentali, in un contesto come quello europeo, può dunque portare ad esiti divergenti (100). Il che non è certa-

(98) Unitamente alla legge italiana di ratifica dei trattati istitutivi dell’Unione europea oppure, in conformità alla sentenza n. 115/2018, dichiarando direttamente inapplicabile in Italia l’art. 4 Atad. (99) Risultando così smentiti coloro che avevano visto nell’iniziale affermazione dei “controlimiti” da parte della Corte costituzionale una sorta di “minaccia” solo teorica ed astratta. Va inoltre considerato che la Corte costituzionale italiana, a partire dalla sentenza 14-12-2017, n. 269, e con una serie di decisioni confermative che si sono succedute nel corso del 2019 (Corte cost., 21-2-2019, n. 20; Id., 21-3-2019, n. 63; Id., 10-5-2019, n. 112; Id., ord. 10-5-2019, n. 117: giurisprudenza su cui possono tra gli altri vedersi: D. Gallo, Challanging EU constitutional law: The Italian Constitutional Court’s new stance on direct effect and the preliminary reference procedure, in European Law Journal, 25(4), 2019, 434456; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, 2/2019, disponibile all’indirizzo www.osservatoriosullefonti.it.), ha ribadito in modo molto netto il proprio ruolo di garante primario dei diritti fondamentali previsti e tutelati dalla nostra Carta costituzionale (cfr., ex multis, A. Ruggeri, Dopo Taricco: identità costituzionale e primato della Costituzione o della Corte costituzionale?, in Osservatorio sulle fonti, 3/2018, disponibile all’indirizzo www. osservatoriosullefonti.it). (100) Questo, peraltro, non dipende solamente dall’ineliminabile discrezionalità insita in ogni valutazione umana, solo attenuata dalla collegialità dei giudizi espressi dalle Corti giurisdizionali. Nel nostro caso, la possibilità di decisioni divergenti è in parte maggiore la diretta conseguenza: - dell’incapacità dell’Unione europea (quantomeno allo stato attuale) di evolversi da soggetto a finalità particolari e predefinite a soggetto a finalità generali e indefinite, cioè in uno Stato federale retto da una Costituzione comune frutto di valori politici, sociali ed economici pienamente condivisi e, quindi, da principi fondamentali conformi nei diversi livelli ordinamentali; - del fatto che, più permangono (nonostante gli sforzi di integrazione sin qui compiuti) una separazione e una distanza tra ordinamento europeo ed ordinamenti


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mente auspicabile dal punto di vista delle istituzioni; ma così è, quantomeno allo stato attuale dell’integrazione europea. Dal punto di vista dei contribuenti, è invece innegabile che la tutela “multilivello” incrementi, almeno potenzialmente, l’effettività della tutela nei loro confronti. Rispetto ad una regola come la “interest limitation rule”, affetta dai molteplici vizi che si sono esposti nei precedenti paragrafi, i contribuenti possono ottenere un risultato utile sia attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 96 Tuir da parte della Corte costituzionale italiana (in applicazione dei “controlimiti”), sia mediante la dichiarazione di invalidità dell’art. 4 Atad ad opera della Corte di giustizia Ue (con il conseguente “travolgimento” di tutte le normative nazionali che ne danno attuazione). È sufficiente una delle due. Ma nell’ipotesi in cui vi fosse un divergente responso da parte delle due Corti, vi è da chiedersi quale capacità di “tenuta” nel tempo avrebbe il risultato utile conseguito dai contribuenti, permanendo comunque il sottostante problema istituzionale e di conflitto tra ordinamenti.

Giuseppe Vanz

dei singoli Stati membri, maggiore è la probabilità che, al di là di un’identità o similitudine di tipo nominalistico, i principi europei e quelli dei singoli Stati non siano coincidenti nel loro contenuto. Un fenomeno, quest’ultimo, che è stato ampiamente studiato e che deriva essenzialmente dal fatto che i valori espressi dai principi di ciascun ordinamento, per quanto fondamentali, non sono mai a sé stanti. Al contrario, essi si rapportano, e talvolta si scontrano, con altri valori e principi, altrettanto o ancor più fondamentali, del medesimo ordinamento. In modo tale che l’effettivo contenuto di ciascuno principio risulta frutto di un bilanciamento tra i sottostanti valori, che in certi casi può semplicemente portare alla prevalenza dell’uno sull’altro, ma che per lo più si traduce in una soluzione di compromesso, che incide inevitabilmente sull’effettivo contenuto dei principi: cfr. in proposito, tra i numerosi autori che se ne sono occupati, F. Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Riv. it. dir. pub. com., 2005, 7980; Id., I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona (considerazioni preliminari), in Corr., trib., 2010, par. 2; G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, 52-54; più di recente: F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quaderni costituzionali, 39(2), 2019, 489 s. (spec. 494).


Appunti sulla tassazione dell’economia digitale come nuova risorsa propria europea Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il bilancio europeo e l’esigenza di nuove risorse proprie. – 3. La tassazione dell’economia digitale come risorsa propria europea. – 4. Verso la creazione di una web tax europea. – 5. Dalla CCCTB “digitale” alla creazione di un’imposta europea sui redditi societari. – 6. Conclusioni. L’evoluzione del paradigma economico verso modelli di business sempre più digitali sta determinando la crisi degli attuali sistemi impositivi. In attesa di una condivisa regolamentazione internazionale della tassazione dell’economia digitale, l’Unione europea ha avanzato specifiche proposte per evitare che gli Stati membri adottino iniziative unilaterali. Le proposte europee, tuttavia, paiono piuttosto frettolose e orientate principalmente da motivi di cassa: tramite la tassazione dell’economia digitale, infatti, gli Stati membri tentano di recuperare gettiti da multinazionali principalmente extraUE e l’Unione europea intende arricchire il paniere di risorse proprie nelle imminenze dei negoziati sul QFP 2021-2027. L’auspicata riforma del sistema di finanziamento del bilancio europeo potrebbe essere l’occasione per istituire una web tax europea che sfrutti l’evoluzione dei lavori sulla CCCTB affinché sia opportunamente valorizzato anche il fenomeno digitale. The evolution of the economic paradigm towards digital business models is determining the crisis of current tax systems. While waiting for an international regulation on the taxation of the digital economy, the European Union has put forward specific proposals in order to avoid Member States unilateral initiatives. However, the European proposals seem rather hurried and revenue-oriented: through the taxation of the digital economy, Member States try to recover revenues from extra-community multinationals and the European Union intends to enrich the basket of its own resources in the imminence of the negotiations on the MFF 2021-2027. The desired reform of the European budget financing system could be an opportunity to set up a European web tax that exploits the evolution of the works on the CCCTB so that the digital phenomenon is also properly exploited.


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1. Introduzione. – La rapida trasformazione digitale dell’economia richiede un celere adeguamento dei sistemi impositivi, tuttora ancorati a modelli tradizionali di produzione legati ai territori (1). I nuovi modelli di business non richiedono più una presenza fisica dell’impresa nei diversi territori, ben potendo l’impresa stessa svolgere la propria attività e produrre i propri profitti “da remoto”, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie telematiche. Le vigenti disposizioni fiscali non sono più in grado di catturare una materia imponibile sempre più dipendente dagli intangibles e dal commercio on line. Come da più parti osservato, i redditi delle grandi multinazionali dell’economia digitale che operano nel mercato europeo sono nomadi e apolidi (stateless income), che sfuggono all’imposizione approfittando delle asimmetrie dei singoli sistemi fiscali nazionali (2). Le sfide dell’economia digitale mettono a dura prova i vigenti sistemi impositivi nazionali, ancorati ai confini geografici statali e agli istituiti della residenza e della stabile organizzazione. I temi sui quali si discute riguardano non solo “cosa” tassare, ma anche “dove” tassare, rendendo necessaria una riforma delle regole fiscali internazionali concernenti la stabile organizzazione, i prezzi di trasferimento e la determinazione degli imponibili (3). Il dibattito sulla tassazione dell’economia digitale ha reso ancor più evidente la necessità di un modello d’imposizione sovra-nazionale. I leader del G20 hanno formulato un mandato politico all’OCSE affinché i redditi siano assoggettati a tassazione nel luogo in cui le attività digitali sono poste in essere ovvero dove si crea il valore. Tale mandato ha portato a inserire la questione all’interno del noto Progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) la cui prima azione, non a caso, è intitolata “Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy”. Il mancato accordo circa un modello di tassazione condiviso ha spinto i Ministri delle Finanze del G20 a formulare un nuovo mandato all’OSCE nel marzo 2017. Ad esito di quest’ultimo l’OCSE ha adottato un

(1) La crisi dei vigenti sistemi fiscali di fronte al nuovo paradigma economico di stampo digitale è analizzata da L. Del Federico, Introduzione al dibattito sulla tassazione della Digital Economy, in L. Del Federico - C. Ricci (a cura di), Le nuove forme di tassazione della digital economy, Roma, 2018, 13 ss.; M. C. Fregni, Mercato unico digitale e tassazione: misure attuali e progetti di riforma, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2017, 1, I, 51 ss.; F. Gallo, Fisco ed economia digitale, in Dir. e prat.. trib., 2015, 4, 608 ss. (2) Cfr. S. Cipollina, I redditi nomadi delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, I, 21 ss. (3) Sul tema si veda I. Vacca, Web tax: il vero interrogativo non è “cosa tassare” ma “chi può tassare”, in Assonime position paper, 2018, 1, 3 ss.


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interim report nel marzo 2018 intitolato “Tax challenges arising from digitalization” ed ha pubblicato una policy note intitolata “Addressing the Tax Challenges of the Digitalisation of the Economy – Policy Note” il 23 gennaio 2019 su cui si è tenuta una consultazione pubblica a Parigi il 13 e il 14 marzo 2019 in occasione della riunione della Task Force on the Digital Economy dell’Organizzazione internazionale. Durante il vertice dei Ministri delle Finanze dello scorso 8 giugno a Fukuoka, in Giappone, è emersa la volontà di continuare a lavorare in modo coordinato per addivenire ad un comune modello di tassazione dell’economia digitale entro il 2020 (4). I Ministri, in particolare, hanno approvato l’ambizioso programma di lavoro (roadmap) dell’Inclusive Framework - struttura alle dirette dipendenze della Commissione per gli affari fiscali dell’OCSE – fondato su due pilastri: 1. le nexus rules ovverosia la revisione delle disposizioni sul trasferimento degli utili infragruppo, anche al fine di individuare il Paese in cui tassare i profitti, ed i criteri di ripartizione degli stessi tra gli Stati in cui operano le società; 2. l’individuazione di un sistema volto ad assoggettare le multinazionali operanti nell’economia digitale ad un livello minimo di tassazione (5). In tale contesto, in attesa di una proposta di tassazione del fenomeno digitale condivisa a livello internazionale, l’Unione europea ha provato a “giocare d’anticipo”, prospettandosi come soggetto attivo di una web tax europea i cui gettiti potrebbero alimentare direttamente il bilancio della UE. Una simile imposizione consentirebbe, da un lato, di catturare quegli imponibili che oggi sfuggono alla fiscalità dei singoli Stati membri e, dall’altro, rappresenterebbe una prima soluzione all’auspicata riforma del sistema di finanziamento dell’Unione europea. 2. Il bilancio europeo e l’esigenza di nuove risorse proprie. – Il bilancio dell’Unione europea rappresenta un importante strumento di politica economica necessario sia a conseguire gli obiettivi comuni a tutti gli Stati membri sia ad affrontare le sfide poste all’Europa. Tale bilancio è alimentato da risorse

(4) Si veda il documento intitolato Communiqué, G20 Finance Ministers and Central bank Governors Meeting disponibile su www.mof.go.jp. (5) Come rivelato dal comunicato finale del G7 dei Ministri delle Finanze tenutosi a Chantilly lo scorso 17 e 18 luglio, a livello internazionale si stanno intensificando gli sforzi per determinare un livello minimo di imposizione effettiva (cd. minimum tax) affinché tutte le imprese paghino il loro giusto contributo all’erario dei Paesi dove operano.


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proprie definibili come mezzi di finanziamento propri dell’Unione europea e, dunque, indipendenti dalle politiche adottate dagli Stati membri (6): si tratta di entrate definitivamente assegnate all’Unione per finanziare il suo bilancio, che le spettano di diritto, senza che occorra un’ulteriore decisione delle autorità nazionali. Sugli Stati membri, quindi, grava il solo obbligo di riscuotere le risorse proprie e di riversarle al bilancio europeo: si tratta di gettiti già ab origine di “proprietà” europea, ancorché riscossi nei territori ove si realizza il presupposto impositivo (7). L’utilizzo della locuzione “risorse proprie” può, peraltro, apparire improprio in quanto la letteratura in tema di federalismo è unanime nel ritenere che per risorse proprie debbano intendersi i tributi imposti e pagati direttamente dai contribuenti europei che finanziano in via immediata il bilancio europeo, senza apparire in quello degli Stati membri (8). Dotare l’Unione europea di risorse proprie assume oggi un ruolo politico fondamentale, rappresentando uno spartiacque tra due visioni antitetiche di integrazione europea quali il federalismo e la cooperazione intergovernativa. La definizione delle risorse proprie, infatti, passa attraverso la determinazione del grado di autonomia finanziaria che si intende conferire all’Unione europea coinvolgendo, a seconda delle scelte effettuate, il rapporto fra i cittadini, gli Stati membri e le istituzioni europee (9). Oggi il bilancio europeo è alimentato principalmente dalla cd. risorsa basata sul Reddito Nazionale Lordo (RNL) ottenuta tramite l’imposizione di un’aliquota uniforme all’ammontare del RNL e dalla cd. risorsa Iva (10) determinata tramite l’applicazione di un’aliquota standard applicata alla base imponibile armonizzata statisticamente (e non partendo dalle dichiarazioni tributarie) dell’Iva di ogni Stato membro (11). Il

(6) Cfr. L. Di Renzo, Politiche e istituti della finanza pubblica nazionale e europea, Napoli, 2007, 26. (7) Cfr. J. Haug - A. Lamassoure - G. Verhofstadt, Europe for Growth: For a Radical Change in the Revenue of the European Union, Bruxelles, 2011, 8. (8) Si veda M. Bordignon - S. Scabrosetti, The political economy of financing the EU budget, in SIEP working paper, 2016, 708, 3; G. Cipriani, Rethinking the EU budget. Three unavoidable reforms, Bruxelles, 2007, 44-45. (9) Sul concetto di autonomia finanziaria nell’Unione europea si veda I. Vega Mocoroa, Verso la riforma del sistema di risorse proprie nella UE, in G. Chiarelli - A. Uricchio (a cura di), Elementi di finanza pubblica comunitaria, Roma, 2011, 78 ss. (10) Si veda A. D’alfonso, The own resources system – some questions on how to communicate a possible reform, in A. De Feo - B. Laffan (edited by), EU Own Resources: Momentum for a Reform?, disponibile su www.eui.eu, 2016, 56 ss. (11) Cfr. M. Piasente, L’Iva come risorsa propria del bilancio comunitario e i provvedimenti di cd. condono, in Riv. dir. trib., 2003, 7/8, 142 ss. Si veda altresì M. Aulenta,


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quadro delle risorse proprie è completato da quelle tradizionali che riguardano eminentemente i dazi doganali (12). L’attuale sistema del finanziamento europeo è considerato poco trasparente, troppo complicato e iniquo, tale da rendere il bilancio europeo un documento destinato alla lettura di pochi specialisti, con le conseguenti limitazioni in ordine al controllo democratico che i cittadini possono esercitare su di esso. Il sistema delle risorse proprie, come attualmente strutturato, fa sì che il contribuente europeo non abbia la consapevolezza di partecipare alle spese europee e veda come soggetto attivo dei dazi doganali e in quota parte dell’Iva non già l’Unione europea ma l’Amministrazione nazionale (13). Nella percezione dei cittadini, l’Unione europea finisce per apparire solo come un centro di spesa, senza che ci si ponga la domanda sulla provenienza del denaro speso. Dette problematiche potranno essere superate solo a seguito della graduale introduzione di nuove risorse proprie; introduzione che consentirà di ridurre i trasferimenti degli Stati membri e di conferire all’Unione europea un ruolo latamente impositivo. Negli ultimi anni la Commissione europea ha proposto l’istituzione di alcune risorse europee tra cui l’imposta sulle transazioni finanziarie, la carbon tax sulle emissioni di anidride carbonica (14) e, da ultimo, la web tax europea (15). Tali proposte, però, non si sono concretizzate a causa della mancanza di un unanime consenso tra gli Stati membri, i quali temono ripercussioni sull’economia nazionale in conseguenza della fuga delle multinazionali dai loro territori (16). Come noto, l’istituzione di tali risorse proprie è regolata dall’art. 311, par. 3 del TFUE in forza del quale le decisioni sulle entrate europee richiedono l’accordo di tutti gli Stati membri nel Consiglio, rivelando la loro natura pat-

Tax expenditures nelle imposte erariali, in A. Uricchio - M. Aulenta - G. Selicato (a cura di), La dimensione promozionale del fisco, Bari, 2015, 81. (12) Cfr. G. Bizioli, L’autonomia finanziaria e tributaria regionale, Torino, 2012, 108; A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2014, 508; G. Fransoni, I tributi comunitari, in A. Fantozzi (a cura di), Il diritto tributario, Torino, 2003, 1068. (13) Così G. Cipriani - M. Marè La finanza dell’Unione europea tra allargamento e ambizioni federali. Rapporto di ricerca, Roma, 2003, 12. (14) Si veda C. Sciancalepore, Cambiamenti climatici e green taxes, Bari, 2016, 123 ss. (15) Si veda A. Majocchi, Nuove risorse per il finanziamento del bilancio europeo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, 4, I, 479 ss. (16) Cfr. A. Uricchio, Percorsi di diritto tributario, Bari, 2017, 29.


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tizia. L’individuazione delle risorse proprie, dunque, è demandata a un procedimento intergovernativo che assume le vesti dell’accordo internazionale. La decisione del Consiglio assume efficacia solo dopo l’approvazione espressa di ciascuno Stato membro a seguito della procedura di ratifica, similmente a quanto avviene con gli accordi internazionali, ed entra in vigore con l’adattamento interno da parte degli stessi Stati. In sostanza, la procedura di approvazione richiede una doppia unanimità degli Stati membri e, conseguentemente, un doppio potere di veto, dapprima in sede di Consiglio e poi in sede di ratifica. Nella descritta procedura legislativa speciale, al Parlamento europeo è assegnato un ruolo meramente consultivo che cede il passo rispetto all’accordo tra gli Stati membri. Tale disposizione è emblematica del processo scarsamente democratico di definizione delle risorse proprie affidate principalmente a un organo intergovernativo come il Consiglio. Un recupero del controllo democratico e del consenso parlamentare alla tassazione, tuttavia, si registra laddove l’art. 311 TFUE richiede, per l’entrata in vigore della decisione sulle risorse proprie, l’approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali. Detta disposizione prende le mosse dall’assenza di una potestà impositiva europea: considerato che il bilancio europeo è alimentato principalmente da trasferimenti nazionali, la manifestazione del consenso è espressa a livello statale e non europeo sicché “La legittimazione democratica del sistema delle risorse proprie dell’Unione è quindi “indiretta” o “non comunitaria”” (17). Per un recupero del processo democratico, si è invocata l’attivazione della cd. clausola passerella di cui all’art. 48, par. 7 del TUE che consente, in un settore o in un caso determinato, di “mutare” una procedura legislativa speciale prevista dai Trattati in procedura legislativa ordinaria ovvero di “passare” da un voto all’unanimità a un voto a maggioranza qualificata. Il potere di concedere lo scostamento dalla procedura legislativa individuata dai Trattati è riconosciuto al Consiglio europeo tramite una propria decisione presa all’unanimità e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Detta decisione deve essere trasmessa ai Parlamenti nazionali per una loro valutazione: in assenza di opposizioni, il Consiglio europeo può adottare la decisione e attivare la “clausola passerella”; viceversa, qualora un Parlamento nazionale notificasse la propria

(17) Così G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, 241.


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opposizione entro sei mesi dalla data di tale trasmissione, la decisione non sarebbe adottata. Nonostante il Parlamento europeo, con il sostegno della Commissione (18), abbia più volte sollecitato il Consiglio europeo ad attivare la “clausola passerella” nelle decisioni sulle risorse proprie, col fine di adottare una tassazione equa dell’industria digitale e introdurre la Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB), ad oggi la stessa non è stata ancora attivata. Nella comunicazione della Commissione europea del 15 gennaio 2019 intitolata “Verso un processo decisionale più efficiente e democratico nella politica fiscale dell’UE” si è riproposta l’attivazione della clausola in questione nel settore fiscale, laddove la legislazione europea deve seguire un procedimento speciale fondato sull’unanimità e in cui il Parlamento europeo ha un ruolo meramente consultivo. Il passaggio ad un sistema di voto a maggioranza qualificata consentirebbe di adottare misure di lotta contro le frodi sull’Iva, quale risorsa propria europea, e di adottare nuove iniziative fiscali come l’imposizione digitale. Ancora una volta, però, alcuni Stati membri, durante il vertice dell’Ecofin del 12 febbraio 2019, hanno espresso la loro contrarietà al ricorso alla “clausola passerella” per timore di una limitazione della propria sovranità impositiva. 3. La tassazione dell’economia digitale come risorsa propria europea. – In attesa dell’auspicata riforma del sistema istituzionale europeo in senso federale (19), una soluzione alle criticità suesposte circa il finanziamento del bilancio europeo potrebbe essere ravvisata nell’introduzione di risorse proprie autonome che presentino collegamenti chiari con le politiche europee (20). In questa prospettiva si è pensato di dotare l’Unione europea di nuove entrate, aventi natura fiscale, che consentano di garantire la stabilità finanziaria del bilancio e di sfruttare i vantaggi di un’imposizione sovranazionale, quali la possibilità di catturare i redditi “nomadi” e di colpire presupposti impositivi diversi e ulteriori rispetto a quelli già oggi attratti a tassazione dagli Stati membri (21). Il prelievo fiscale dovrebbe colpire i redditi caratterizzati da ele-

(18) Si veda il discorso annuale sullo stato dell’Unione europea al Parlamento europeo del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker del 13 settembre 2017. (19) Così F. Gallo, L’Europa ha bisogno di un’unione fiscale, in Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2017, 15. (20) Cfr. S. Dorigo, Fiscalità, mercato e solidarietà: la crisi economica globale ed il ruolo del diritto dell’Unione europea, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 2017, 6, 1531 ss. (21) Cfr. D. Tarschys, Entering a world of footloose tax bases: can the EU generate


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vata mobilità, così da condurre un’efficace azione proprio laddove gli Stati membri non riescono ad operare efficacemente. In tale contesto si è subito pensato alla tassazione dell’economia digitale come strumento per finanziare il bilancio europeo attraverso un prelievo equo e rivolto specialmente a colpire quelle multinazionali che oggi sfuggono dall’imposizione. Basti pensare che le prime bozze di lavoro sulla tassazione europea del settore digitale indicavano direttamente l’Unione europea quale soggetto deputato a riscuotere e incassare una web tax europea (22) e che uno studio del Parlamento europeo quantificava le perdite di gettito europeo a causa del fenomeno digitale, riferibili solo a Google e Facebook, rapportandole al risparmio di contribuzione degli Stati membri in termini di risorsa Iva (23). L’avvio della lunga marcia verso l’istituzione di una web tax europea può essere individuato nell’accordo politico sul Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2014-2020 raggiunto, in seguito a negoziati lunghi e difficili, il 27 giugno 2013, al più alto livello politico tra il Parlamento europeo, la Presidenza del Consiglio e la Commissione europea e che prevedeva l’istituzione di un gruppo interistituzionale sulle risorse proprie (High-level group on own resources). A tale gruppo - istituito nel febbraio 2014 con presidente Mario Monti - è stato affidato il compito di esaminare come l’Unione europea è attualmente finanziata e come dovrebbe esserlo in futuro al fine di rendere il sistema più trasparente, semplice, equo e democratico (24). Il 17 dicembre 2014 il gruppo ha presentato un primo rapporto di valutazione nel quale si evidenzia come il sistema delle risorse proprie sia progressivamente divenuto un sistema fondato su trasferimenti nazionali, destinato a generare contrasti tra gli Stati membri considerati “contributori netti” e quelli che invece ricevono più di quanto versino (25). Nel dicembre 2016 il

its own income?, in A. De Feo - B. Laffan (edited by), EU Own Resources: Momentum for a Reform?, cit., 17. (22) Cfr. G. Pacione Di Bello, La web tax nelle casse europee, in Italia Oggi, 28 dicembre 2017, 36. Si veda anche l’intervista rilasciata dal precedente Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, pubblicata su Italia Oggi del 25 aprile 2018 dal titolo Economia digitale, l’Ue vuole regole chiare per i giganti del web. (23) Cfr. P. Tang - H. Bussink, EU Tax revenue loss from Google and Facebook, disponibile su https://static.financieel-management.nl, settembre 2017. (24) Cfr. B. Laffan, Own resources: the need for a reform, in A. De Feo - B. Laffan (edited by), EU Own Resources: Momentum for a Reform?, cit., 8. (25) Si veda I. Vega Mocoroa, Il futuro del sistema delle risorse proprie dell’UE: una riforma necessaria, in Studi int. eur., 2015, 3, 434 ss.


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gruppo ha presentato la propria relazione finale e le relative raccomandazioni specifiche, nella quali sono illustrate le riforme possibili nell’attuale quadro istituzionale e alla luce degli imminenti negoziati del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, auspicando una riforma del settore delle risorse proprie: al riguardo, si è suggerita la tassazione del digital single market i cui proventi confluiscano, almeno in quota parte, nel bilancio europeo, ma senza fornire specifiche indicazioni al riguardo. A fronte delle prudenze del gruppo Monti, il Parlamento europeo ha rotto gli indugi ed ha assunto un atteggiamento più deciso: nella risoluzione del 6 luglio 2016 intitolata “Preparazione della revisione post-elettorale del QFP 2014-2020: il contributo del Parlamento in vista della proposta della Commissione”, i parlamentari hanno sottolineato la necessità di un’autentica riforma del sistema di finanziamento europeo che passi inevitabilmente dall’introduzione di una nuova risorsa propria fondata sulla tassazione dell’economia digitale. Quest’ultima presenta, infatti, un chiaro collegamento con le politiche europee e potrebbe essere concepita come una sorta di corrispettivo a fronte della realizzazione, nello spazio europeo, di un mercato unico digitale (26). A ben guardare, la relazione del gruppo Monti ha costituito la base per l’elaborazione della posizione del Parlamento europeo illustrata nella risoluzione del 14 marzo 2018 sulla riforma del sistema di risorse proprie dell’Unione europea. Nella risoluzione, i parlamentari hanno chiesto che il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 proposto dalla Commissione includa proposte ambiziose volte all’introduzione di nuove risorse proprie: senza una riforma della composizione del paniere delle risorse proprie, il Parlamento ha preannunciato l’impossibilità di raggiungere un accordo sul Quadro Finanziario Pluriennale. Nella risoluzione si sottolinea la necessità di adottare una fiscalità europea funzionale, cioè in grado di collegare le entrate agli obiettivi politici, con particolare riferimento al mercato unico digitale. Si propone di introdurre, quale nuova risorsa propria, un’imposta europea sul reddito delle società che colpisca anche quelle operanti nel settore digitale attraverso la CCCTB

(26) Con riferimento alla realizzazione del mercato unico digitale si veda la comunicazione della Commissione europea intitolata “Strategia per il mercato unico digitale in Europa” del 6 maggio 2015, COM(2015)192 final e la comunicazione sulla revisione intermedia dell’attuazione della strategia per il mercato unico digitale del 10 maggio 2017, COM(2017)228 final. Per l’attuazione concreta si veda, a titolo esemplificativo, il regolamento del 14 novembre 2018, n. 1807 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo a un quadro applicabile alla libera circolazione dei dati non personali nell’Unione europea.


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in quanto quest’ultima “… fornisce un quadro propizio alla revisione delle norme per una fiscalità moderna e stabile delle imprese digitali e in grado di affrontare le sfide fiscali poste dall’economia digitale”. Nelle more della finalizzazione dei lavori sulla CCCTB, il Parlamento ha proposto un intervento diretto dell’Unione europea sulla tassazione dei mercati digitali e ha invitato la Commissione a creare una nuova risorsa propria applicata alle transazioni nell’economia digitale nonostante “in vista degli importanti negoziati in corso a livello di UE e di OCSE, sia troppo presto per decidere in merito alle modalità specifiche per la creazione di tale risorsa.”. Secondo il Parlamento europeo, la tassazione dell’economia digitale deve essere moderna e stabile “al fine di stimolare l’innovazione, contrastare la frammentazione del mercato e la concorrenza sleale e consentire a tutti gli operatori di trarre vantaggio dalle nuove condizioni eque ed equilibrate, garantendo nel contempo che le piattaforme e le imprese digitali paghino la loro quota di imposte dovute nel luogo in cui generano gli utili”. La stabilità nelle regole fiscali è condizione imprescindibile per garantire gli investimenti delle imprese nel mercato digitale, limitando le asimmetrie fiscali e la pianificazione fiscale aggressiva. Il 2 maggio 2018 la Commissione europea ha presentato un pacchetto di misure con il quale si definisce il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, che tiene conto delle nuove sfide a cui è chiamata a rispondere l’Unione europea anche a causa della Brexit (27). Detto pacchetto, tuttavia, non fa alcun riferimento alla tassazione dell’economia digitale e ciò ha scatenato la reazione del Parlamento europeo che nella risoluzione del 30 maggio 2018 intitolata “Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e risorse proprie” lamenta la mancanza di misure che riguardino la tassazione delle grandi imprese del settore digitale quale nuova risorsa propria. 4. Verso la creazione di una web tax europea. – Nel dibattito delle istituzioni europee sulla tassazione dell’economia digitale si sono inseriti gli Stati membri, desiderosi di attrarre a tassazione la materia imponibile emergente dal fenomeno digitale. Nel settembre 2017, i quattro Ministri delle Finanze di Francia, Germania, Italia e Spagna hanno indirizzato una lettera alla Com-

(27) Si veda in particolare la Comunicazione COM(2018)321 dal titolo “Un bilancio moderno al servizio di un’Unione che protegge, dà forza e difende: quadro finanziario pluriennale 2021-2027”, la proposta di regolamento del Consiglio che stabilisce il quadro finanziario pluriennale 2021-2027 - COM(2018)322 e la proposta di decisione del Consiglio relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea - COM(2018)325.


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missione europea nella quale hanno chiesto di esaminare soluzioni efficaci per tassare le multinazionali operanti nel settore digitale all’interno dei confini europei. Nella dichiarazione politica si sottolinea il supporto ai lavori del G20/OCSE nel progetto BEPS e ai lavori relativi alla proposta di direttiva su una CCCTB; tuttavia, al fine di agire il più rapidamente possibile, si chiede all’Esecutivo europeo di elaborare proposte di tassazione basate sull’istituzione di una imposta di compensazione (equalisation tax) sul fatturato generato in Europa dalle aziende digitali. La dichiarazione politica è stata successivamente sottoscritta anche da Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Romania e Slovenia. Nel vertice Ecofin tenuto a Tallinn il 29 settembre 2017 è stato formalizzato il mandato alla Commissione europea per formulare proposte di imposizione parametrate al volume d’affari generato in Europa dalle compagnie digitali (28). L’azione dell’Unione europea è stata avviata tentando di perseguire contestualmente due obiettivi: da un lato la sostenibilità dei bilanci degli Stati membri, messi a dura prova da fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva, e dall’altro l’effettivo funzionamento del mercato unico, al riparo da frammentazione e concorrenza fiscale dannosa. L’esigenza di addivenire presto alla definizione di una comune web tax è evidente nella comunicazione della Commissione europea del 21 settembre 2017 intitolata “Un sistema fiscale equo ed efficace nell’Unione europea per il mercato unico digitale” (29). Che l’azione congiunta europea sia spinta più da motivi di cassa che da un serio intento di affrontare le nuove sfide fiscali dell’economia digitale è peraltro testimoniato dall’interesse sul tema non solo della Corte dei Conti europea che ha avviato un audit sulle irregolarità dell’e-commerce ai fini dell’Iva e dei dazi doganali quali risorse proprie (30) ma anche della Corte dei Conti italiana che, in una specifica delibera, ha chiesto all’Amministrazione fiscale di dotarsi di strumenti di analisi che consentano una stima e un monitoraggio dell’evasio-

(28) Si veda G. Fransoni, Casi e osservazioni di diritto tributario, Pisa, 2018, 78 ss. (29) Si veda COM(2017) 547 final. (30) Si veda la relazione speciale n. 12/2019 concernente “Il commercio elettronico: molti problemi relativi alla riscossione dell’Iva e dei dazi doganali non sono stati ancora risolti” nonché la relazione speciale n. 24/2015 intitolata “Lotta alle frodi nel campo dell’IVA intracomunitaria: sono necessari ulteriori interventi”. Si veda altresì la relazione speciale n. 20/2014 dal titolo “Il sostegno del FESR alle PMI nel settore del commercio elettronico è stato efficace?” e la n. 24/2016 intitolata “Sono necessari maggiori sforzi per accrescere la consapevolezza riguardo alle norme sugli aiuti di Stato nella politica di coesione e per assicurarne il rispetto”.


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ne ed elusione fiscale nello specifico settore dalla digital economy; stima da illustrare nell’annuale “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva” di cui all’art. 10-bis.1 della Legge di contabilità e finanza pubblica n. 196/2009 (31). La strategia della Commissione europea per la digital taxation è articolata lungo due linee, una a lungo termine, destinata a viaggiare in parallelo ai lavori del progetto BEPS, e una a breve termine, e operante solo su scala europea, al dichiarato fine di assoggettare a imposizione, diretta o indiretta, il materiale imponibile che oggi sfugge dalla tassazione (32). Sotto il primo profilo, la Commissione propone una modifica strutturale delle disposizioni in tema di individuazione e tassazione della stabile organizzazione, introducendo come criterio di collegamento (nexus) il concetto di “Presenza Digitale Significativa” (PDS) mutuato dai lavori dell’Action 1 dei BEPS; sotto il secondo profilo, viene suggerita l’introduzione di una Imposta temporanea sui Servizi Digitali (Digital Service Tax - DST) quale forma di tassazione operante nelle more dell’adozione della citata soluzione strutturale. In ambedue le proposte dell’Esecutivo europeo, l’attenzione è focalizzata sul valore generato dai servizi digitali e procurato principalmente dagli utenti, quali consumatori finali o imprese, che partecipano a un’attività digitale, indipendentemente dal pagamento o meno di un corrispettivo per accedere all’interfaccia digitale. Il fulcro della proposta europea ruota attorno agli intangibles, rappresentati dai dati degli utenti (raw data), e ai conseguenti processi di raccolta e trattamento: si pensi, a titolo esemplificativo, ai dati rilasciati dagli utenti sul web navigando tra i siti internet oppure utilizzando i social network. Si tratta di un approccio del tutto nuovo, che supera il concetto di tassazione della struttura fisica di impresa, anche dedita alla produzione di servizi digitali. Le moderne tecnologie, infatti, hanno significativamente aumentato la capacità delle imprese che operano nel settore digitale di raccogliere ed elabo-

(31) Si veda la deliberazione della Corte dei Conti, Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, del 24 maggio 2018, n. 8/2018/G, intitolata “L’ecommerce e il sistema fiscale”. (32) Si veda la Comunicazione della Commissione europea del 21 marzo 2018 – COM(2018)146 final intitolata “È giunto il momento di istituire norme fiscali moderne, eque ed efficaci per l’economia digitale”. La comunicazione precisa che una parte del gettito della proposta imposta sui servizi digitali “… potrebbe essere destinata a entrate per il bilancio dell’UE, ad esempio nel contesto della decisione sulle risorse proprie per il periodo del prossimo quadro finanziario pluriennale.”.


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rare i dati forniti dagli utenti sia direttamente, sia tracciando i loro comportamenti sul web al fine di valorizzare economicamente gli stessi tramite l’offerta di prodotti e servizi dedicati. Entrando più nel dettaglio delle soluzioni avanzate dalla Commissione europea, la proposta di direttiva COM (2018) 147 final – la proposta “comprehensive” - rivede il concetto di stabile organizzazione per adattarlo agli sviluppi dell’economia digitale tramite l’individuazione di una Presenza Digitale Significativa (33), da accertare attraverso un elemento oggettivo, rappresentato dalla fornitura di servizi digitali, e un elemento soggettivo, rappresentato dal soddisfacimento di almeno uno dei seguenti criteri: • ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali a utenti, sia business sia consumer, situati nello Stato membro superiori a 7 mln/€ in un periodo d’imposta; • numero di utenti di un servizio digitale in uno Stato membro superiore a 100.000 in un periodo d’imposta; • numero di contratti commerciali per servizi digitali superiore a 3.000. Quanto all’elemento oggettivo, la proposta di direttiva fornisce un lungo elenco, non tassativo, di servizi digitali che riguardano i servizi forniti attraverso internet o una rete elettronica, la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata e richiede un intervento umano minimo (34). Ai fini della territorialità del tributo, si considera che un utente sia situato in uno Stato membro se utilizza un dispositivo in tale Paese per accedere all’interfaccia digitale attraverso la quale sono forniti i servizi digitali. Lo Stato membro in cui è utilizzato un dispositivo dell’utente è determinato con riferimento all’indirizzo di protocollo internet del dispositivo o, se più accurato, a qualsiasi altro metodo di geolocalizzazione. La proposta di direttiva COM (2018) 148 final – la proposta “targeted” – riguarda l’introduzione di un’Imposta sui ricavi derivanti da Servizi Digitali

(33) Secondo L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, in Riv. dir. trib., 2018, 4, 385 tramite la PDS si passa da un modello di tassazione fondato sulla residenza ad uno basato sulla fonte. (34) Tra i servizi digitali figurano la fornitura di prodotti digitali in generale, compresi software; i servizi che veicolano o supportano la presenza di un’azienda o di un privato su una rete elettronica, quali un sito o una pagina web; la concessione, a titolo oneroso, del diritto di mettere in vendita un bene o un servizio su un sito internet che operi come mercato online; le offerte forfettarie di servizi internet (Internet service packages - ISP) nelle quali la componente delle telecomunicazioni costituisce un elemento accessorio e subordinato; ecc.


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(Digital Service Tax - DST) da applicare nella misura del 3% alle società di dimensione significativa (35). Tale imposta dovrebbe trovare applicazione a prescindere dalla natura del committente – pertanto riguarderebbe sia le operazioni B2B sia le operazioni B2C – e dalla residenza fiscale del fornitore (europea o extracomunitaria). La DST è destinata in modo particolare a colpire le società di grandi dimensioni che soddisfano entrambe le condizioni seguenti: • un importo totale di ricavi dichiarati a livello mondiale che supera i 750 mln/€ (non a caso la stessa soglia indicata per l’applicazione obbligatoria del regime di CCCTB) (36); • un importo totale di ricavi imponibili ottenuti nell’Unione superiore a 50 mln/€ (taxable revenues). Sono ricavi imponibili quelli derivanti dalla fornitura di ciascuno di servizi indicati dall’art. 3 della proposta di direttiva quali: • la collocazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti di tale interfaccia; • la messa a disposizione degli utenti di un’interfaccia digitale multilaterale che permette loro di trovare altri utenti e di interagire con essi, eventualmente agevolando le corrispondenti cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti stessi (cd. servizi di intermediazione); • la trasmissione di dati raccolti sugli utenti e generati dalle attività degli utenti sulle interfacce digitali. Il presupposto impositivo dell’Imposta su Servizi Digitali risiede, dunque, nella fornitura di servizi digitali che sfruttano la partecipazione degli utenti, a prescindere dalla corresponsione di pagamenti da parte di questi ultimi, o i dati ottenuti su di essi (37); il luogo dell’imposizione, su cui ricadono i gettiti, corrisponde al luogo ove si trovano gli utenti del servizio.

(35) Dubbi su una duplicazione dell’Iva sono avanzati da A. Tommasini - A. Sandalo, L’iniziativa della Commissione UE sulla tassazione dell’economia digitale, in Corr. trib., 2018, 18, 1397. (36) Ma anche quale soglia per l’obbligo di redazione del country by country report ai fini dello scambio automatico di informazioni. (37) Sull’inquadramento della DST nella dogmatica classificatoria tributaria si veda A. Uricchio – W. Spinapolice, La corsa ad ostacoli della web taxation, in Rass. trib., 2018, 3, 466 ss. Occorre osservare che la proposta di direttiva utilizza come base giuridica l’art. 113 del TFUE concernente l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte indirette.


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Nel successivo passaggio al Parlamento europeo del 13 dicembre 2018 per l’espressione di un parere si sottolinea l’importanza di un’azione congiunta a livello globale ma contestualmente si certifica lo stallo nelle trattative a causa dell’opposizione di alcuni Stati membri. Gli emendamenti formulati dai parlamentari dilatano notevolmente il perimetro impositivo attraverso un ampliamento della nozione di Presenza Digitale Significativa anche alla vendita online di beni o servizi, esplicitamente esclusa nella proposta della Commissione europea. Piuttosto ovvio appare, invece, il riferimento alla sovranità degli Stati membri nella decisione dell’aliquota dell’imposta diretta sui redditi da applicare alla stabile organizzazione digitale (38). Circa l’Imposta sui Servizi Digitali, il Parlamento europeo propone di ridurre l’importo minimo dei ricavi imponibili ottenuti nel territorio comunitario a 40 mln/€, di modulare l’aliquota, inizialmente pari al 3%, e di creare un meccanismo di risoluzione delle controversie tra Stati membri per l’individuazione del luogo di imposizione. Nonostante le proposte europee rappresentino una prima risposta alle sfide poste dall’economia digitale, esse appaiono piuttosto frettolose e bisognevoli di ulteriori riflessioni. L’ambiziosa proposta di DST, ad esempio, richiede una necessaria armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri per il corretto adempimento dei nuovi obblighi nascenti dall’imposta. È stato, inoltre, osservato che la proposta di direttiva difetta di una specifica disposizione, rivolta alle imprese che abbiano i requisiti di applicabilità della DST, per la gestione e il monitoraggio del rischio fiscale nonché per l’introduzione di una sorta di cooperative compliance necessaria al corretto adempimento del rapporto tributario e alla certezza del diritto (39). L’introduzione di una simile imposta potrebbe determinare rischi di doppia imposizione in quanto le imprese sarebbero assoggettate sia al tributo “digitale” sia alla ordinaria tassazione nei propri Stati di residenza. La soluzione a tale problema non può certamente rintracciarsi in un “considerato” della pro-

(38) Sulla sovranità impositiva degli Stati membri nell’imposizione diretta si veda P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, 74 ss.; A. Fantozzi, L’armonizzazione comunitaria degli ordinamenti tributari, tra autorità e consenso, in S. LA ROSA (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 9. (39) Si veda la risposta n. 6/2018 di Assonime alla procedura pubblica di consultazione nazionale, riguardante il pacchetto di proposte della Commissione per la tassazione dell’economia digitale indetta dal MEF – Dipartimento delle Finanze in data 16 maggio 2018.


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posta di direttiva istitutiva della DST in cui si auspica una detrazione (rectius deduzione) dalla base imponibile della corporate tax nazionale dell’imposta versata. Critiche sono state espresse anche con riguardo alla determinazione contabile dei ricavi generati da servizi digitali in quanto, se è pacifico che essi sono determinati per i gruppi societari partendo dai bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali (IFRS), per le imprese non organizzate in forma di gruppo si utilizzano le risultanze dei principi contabili di ciascuno Stato con il rischio che “alcuni operatori del settore potrebbero essere localizzati in paradisi fiscali o comunque in Paesi che seguono criteri assai diversi da quelli vigenti nell’Unione, non essere soggetti a regole particolarmente stringenti in tema di formazione del proprio bilancio, …, potrebbero redigere i loro conti escludendo alcune o tutte le società controllate o includerle con sistemi di consolidamento assai personalizzati e comunque lontani dai conosciuti criteri IFRS.” (40). La proposta europea di revisione del concetto di stabile organizzazione tramite l’individuazione di una Presenza Digitale Significativa, infine, richiede inevitabilmente una modifica dei trattati bilaterali contro le doppie imposizioni con i Paesi extra-UE. La Commissione europea ha, infatti, formulato una raccomandazione per il recepimento della nozione europea di “stabile organizzazione digitale” nelle norme convenzionali in materia di doppia imposizione (41). Detta rinegoziazione delle disposizioni pattizie, se non affidata direttamente alla Commissione europea da parte degli Stati membri, potrebbe implicare “tempi “biblici” di adeguamento e le inevitabili incertezze dei negoziati bilaterali.” (42). 5. Dalla CCCTB “digitale” alla creazione di un’imposta europea sui redditi societari. – Alle ricordate proposte europee di tassazione dell’economia digitale si affiancano quelle che riguardano l’istituzione di una base imponibile comune consolidata che catturi il fenomeno digitale e che costituisca anche la base per l’istituzione di una imposta europea sui profitti societari. L’idea di una base imponibile societaria comune appare scarsamente innovativa

(40) Così T. Di Tanno, La Web tax europea: una misura innovativa ed emergenziale, in Corr. trib., 2018, 20, 1536. (41) Si veda C(2018) 1650 final del 21 marzo 2018. (42) Così la citata risposta n. 6/2018 di Assonime.


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in quanto già avanzata con la proposta di direttiva del Consiglio del 16 marzo 2011 (43) avente ad oggetto la tassazione del reddito delle società appartenenti a gruppi multinazionali ed operanti nell’Unione europea (44). Tale proposta si proponeva di definire regole per la determinazione, in via opzionale, di una base imponibile consolidata comune (Common Consolidated Corporate Tax Base - CCCTB) su cui i diversi Stati membri avrebbero potuto applicare la loro imposta sui redditi delle società. Secondo detta proposta, l’adesione volontaria alla CCCTB avrebbe comportato l’adozione di regole comuni nella definizione della base imponibile, destinate a sostituirsi alle regole fiscali nazionali; la base imponibile così determinata doveva poi essere riallocata nei diversi Paesi di produzione del reddito per la successiva applicazione delle aliquote legali dei singoli Stati membri; aliquote che negli ultimi anni, per ragioni di concorrenza fiscale e attrazione degli investimenti, stanno registrando un deciso calo (race to the bottom) (45). La proposta di una CCCTB è stata accantonata per anni in quanto osteggiata da alcuni Stati membri (46), per poi tornare nuovamente in auge a seguito dei recenti scandali fiscali passati alle cronache come quello dei cd. Panama Papers, il cd. LuxLeaks nonché il caso di Apple e della bassa tassazione conquistata con l’appoggio dell’Irlanda. Nella comunicazione del 17 giugno 2015 intitolata “Un regime equo ed efficace per l’imposta societaria nell’Unione europea: i 5 settori principali d’intervento” (47) è stata riproposta l’istituzione di una base imponibile comune consolidata, rendendola obbligatoria per le multinazionali con ricavi complessivi superiori a 750 mln/€ annui. Considerate le difficoltà nel trovare una soluzione concordata di determinazione del consolidamento, la Commis-

(43) Si veda COM (2011) 121/3 del 16 marzo 2011. (44) Per un’analisi diacronica si veda D. Cané, La proposta di Direttiva per una CCCTB: una analisi per principi, in Rass. trib., 2012,6, 1516 ss. (45) Si veda European Commission, Taxation Trends in the European Union, Lussemburgo, 2018, 34. Osserva C. Ricci, La tassazione consolidata nell’Ires, Torino, 2015, 414 “Il sistema di CCCTB incontra la sua difficoltà maggiore nell’attuale conformazione dei sistemi tributari degli Stati membri: la tendenza degli ultimi anni è andata nel senso di un ravvicinamento progressivo delle aliquote contro un allontanamento e differenziazione delle basi imponibili.”. (46) Sui motivi delle difficoltà nel trovare un accordo tra gli Stati membri si veda L. Carpentieri, S. Micossi, P. Parascandolo, Tassazione di impresa ed economia digitale, in Economia italiana, 2019, 1, 85. (47) Si veda COM (2015) 302 del 17 giugno 2015.


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sione europea adotta una strategia progressiva determinando prima le regole per una base imponibile comune e successivamente quelle di consolidamento (step approach). In questa prospettiva, l’Esecutivo europeo, il 25 ottobre 2016, anche su impulso del Parlamento europeo (48), da un lato ha ritirato la proposta di direttiva del 2011 e dall’altro ha avanzato due proposte di direttiva (49): la prima relativa ad una base imponibile comune per l’imposta sulle società (Common Corporate Tax Base - CCTB) (50) e la seconda su una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (Common Consolidated Corporate Tax Base - CCCTB) (51). Le due proposte fanno parte di un più ampio pacchetto di riforma della tassazione delle imprese pubblicato sempre il 25 ottobre 2016 dalla Commissione europea ed illustrato nella comunicazione intitolata “Creare un sistema equo, competitivo e stabile di tassazione delle imprese nell’UE” (52). Le proposte sulla CCTB e sulla CCCTB rappresentano due fasi progressive di un unico disegno di riforma da attuare attraverso due tappe. Con la prima si introducono disposizioni per il calcolo di una base imponibile comune per l’imposta sui redditi societari; la determinazione delle aliquote delle corporate tax rimane nella esclusiva competenza degli Stati membri che potranno modularle liberamente. Con la seconda, da adottare successivamente alla prima, si torna a disciplinare il consolidamento delle basi imponibili delle società che appartengono ad un gruppo. Nonostante le proposte di direttiva nascano come strumento per garantire l’effettività ed il completamento del mercato unico europeo, esse dispiegano i loro effetti anche in chiave antielusiva e si pongono nel solco tracciato dalla direttiva 2016/1164 contro le pratiche di elusione fiscale (nota anche come direttiva antielusione - Anti Tax Avoidance Directive - ATAD) (53). Ricondurre ad unità i sistemi impositivi fiscali dei 28 (rectius 27) Stati membri consente di mettere in condizioni di parità (level playing field) gli operatori economi-

(48) Si veda la risoluzione del Parlamento europeo del 6 luglio 2016 intitolata “Decisioni anticipate in materia fiscale (tax ruling) e altre misure analoghe per natura o effetto”. (49) Si veda G. Marino, Note brevi sull’evoluzione del divieto di aiuti di Stato e sostenibilità dei sistemi fiscali, in Riv. dir. trib., 2018, 4, 404 ss. (50) Si veda COM(2016) 685 del 25 ottobre 2016. (51) Si veda COM(2016) 683 del 25 ottobre 2016. (52) Si veda COM(2016) 682 del 25 ottobre 2016. (53) Si veda la direttiva 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul funzionamento del mercato interno.


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ci transfrontalieri, instaurando contestualmente un ambiente che stimola la concorrenza, fondato sulla certezza del diritto e sullo scambio automatico di informazioni, sicché il contribuente in un’unica dichiarazione tributaria potrà indicare i redditi e le operazioni effettuate nell’intero spazio europeo (54). Si eliminano così i tax ruling, i regimi preferenziali concessi a specifiche multinazionali e la concorrenza fiscale dannosa di alcuni Stati membri al fine di creare una growth-friendly taxation a beneficio non solo dei grandi gruppi ma anche delle piccole-medie società che intendono intraprendere un’attività economica transfrontaliera (55). Tuttavia anche la nuova versione della CCCTB, per ammissione della stessa Commissione europea, “non offrirebbe una soluzione strutturale ad alcune importanti sfide connesse alla tassazione delle imprese dell’economia digitale” (56) in quanto, come attentamente osservato, “continua a trascurare fattori ormai fondamentali per la creazione del valore, come gli intangible, i Big Data, l’apporto gratuito degli utilizzatori della rete, le piattaforme e i mercati multi-face, i robot “intelligenti” dell’industria 4.0” (57). Alla luce di dette incompletezze della CCCTB, il Parlamento europeo, a marzo 2018, ha approvato la proposta della Commissione europea pur avanzando significativi emendamenti volti a coinvolgere le multinazionali che operano nel settore digitale attraverso l’utilizzo di alcuni indicatori in grado di determinare l’eventuale “presenza digitale” dell’impresa nel territorio europeo. Gli emendamenti del Parlamento europeo, infatti, sono volti a sancire una parità tra stabile organizzazione fisica e stabile organizzazione digitale fondata su una Presenza Digitale Significativa. In particolare, ai fini della definizione di stabile organizzazione digitale, si prevede che “Se un contribuente residente in una giurisdizione offre una piattaforma digitale, come un’applicazione elettronica, una banca dati, un mercato online o uno spazio di archiviazione, o fornisce accesso alla medesima, oppure offre un motore di ricerca o servizi pubblicita-

(54) Amplius S. Biasco, I danni della concorrenza fiscale in Europa, in Rass. trib., 2015, 1, 119 ss.; G. Maisto, Il significato di “contribuente residente” e “contribuente non residente” nella Proposta di Direttiva del Consiglio relativa a una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB), in Riv. dir. trib., 2012, 4, 315 ss. (55) Sui benefici del regime CCCTB si veda S. Moratti, La circolazione transfrontaliera delle perdite: la morfologia delle final losses, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, 4, 100 ss. (56) Si veda p. 4 della relazione alla proposta di direttiva COM (2018) 147. (57) Così L. Carpentieri, S. Micossi, P. Parascandolo, Tassazione di impresa ed economia digitale, cit. 86.


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ri su un sito web o in un’applicazione elettronica, si considera che tale contribuente abbia una stabile organizzazione digitale in uno Stato membro diverso dalla giurisdizione in cui è residente a fini fiscali”. Affinché possa dichiararsi l’esistenza di una stabile organizzazione digitale è necessario il rispetto di ulteriori parametri: l’importo totale dei ricavi del contribuente o dell’impresa consociata dovuti alle transazioni a distanza generate dalle piattaforme digitali nella giurisdizione in cui non è residente deve superare i 5 mln/€ l’anno ed inoltre deve essere soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni: - almeno 1.000 utenti individuali registrati mensilmente, domiciliati in uno Stato membro, si sono collegati alla piattaforma digitale del contribuente o l’hanno visitata; - sono stati conclusi almeno 1.000 contratti digitali al mese con consumatori o utenti domiciliati in una giurisdizione diversa da quella di residenza in un esercizio fiscale; - il volume di contenuti digitali raccolti dal contribuente in un esercizio fiscale supera il 10% dei contenuti digitali complessivi memorizzati dal gruppo. Resta ferma la possibilità di modificare tali criteri, direttamente dalla Commissione europea, a seguito di delega parlamentare, sulla base dei progressi conseguiti negli accordi internazionali. Appaiono, tuttavia, evidenti le diverse definizioni di stabile organizzazione digitale tra la proposta della Commissione europea e quella del Parlamento europeo con riferimento sia agli indicatori utilizzati sia all’attività esercitata dal soggetto economico. Si rende necessario un lavoro di coordinamento e raccordo tra le due Istituzioni che si sono espresse sul tema a pochi giorni di distanza: la citata proposta della Commissione europea del 21 marzo 2018, infatti, segue di pochi giorni la risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 15 marzo. Il Parlamento europeo, esprimendosi sulla proposta di CCCTB, ha introdotto modifiche riguardanti anche la stabile organizzazione fisica che dovrà rivelarsi utilizzando, oltre i classici criteri di collegamento, quali la presenza di una sede direzionale, una succursale, un ufficio, una fabbrica, ecc., anche attraverso “una piattaforma digitale o qualunque altro modello di impresa digitale basato sulla raccolta e sull’utilizzo di dati per fini commerciali”. Il ribaltamento territoriale dell’imponibile, determinato secondo i criteri della proposta di direttiva sulla CCCTB, avviene secondo la metodologia Formulary apportionment method la quale prevede l’applicazione di una formula


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che considera come parametri il capitale, il lavoro (58) ed il fatturato quali fattori produttivi che incidono nella produzione del reddito sia nello Stato di origine sia nello Stato di destinazione (59). Tale criterio, tuttavia, non tiene in debito conto gli intangibles ma anche gli investimenti finanziari e le scorte di magazzino in quanto facilmente spostabili da un Paese all’altro al fine di minimizzare la tassazione (60). In tal modo si danneggiano proprio quegli Stati membri maggiormente impegnati nello sviluppo dell’economia digitale o quelli la cui economia si fonda sui mercati finanziari. A tal fine il Parlamento europeo ha proposto di inserire nella formula di riparto territoriale degli imponibili anche il “fattore dati” misurato dalla raccolta e utilizzo dei dati personali degli utenti di piattaforme e servizi online. L’adozione della CCCTB e la determinazione di regole comuni per la determinazione della base imponibile ai fini della corporation tax rappresenta solo il primo passo per istituire una nuova risorsa propria fondata sugli utili societari che assume le sembianze di una imposta europea sul reddito delle società (European Corporate Income Tax - EUCIT) (61). Simile tributo troverà applicazione in capo alle grandi società multinazionali che operano nel territorio europeo, sostituendosi od aggiungendosi ai prelievi nazionali, ed è destinato ad alimentare totalmente o parzialmente il bilancio europeo. La EU corporate income tax non distorce le preferenze in merito ad investimenti, consumi, lavoro e capitale e si struttura come un’imposta “federale” laddove all’aliquota minima europea si aggiungono le maggiorazioni nazionali. La principale difficoltà di un simile tributo risiede nel giungere ad un accordo politico tra gli Stati membri relativamente all’armonizzazione delle regole per

(58) La componente lavoro è distinta nelle due componenti di monte-retribuzioni e numero dei dipendenti al fine di tenere conto delle differenze stipendiali nel territorio europeo. (59) Sul tema si veda M. D’abbruzzo - M. T. Monteduro, Gli effetti dell’introduzione di una base imponibile unica consolidata per gruppi di imprese operanti nell’UE: l’applicazione di diverse formule di apportionment per l’Italia, in Riv. dir. trib. int., 2008, 3, 99 ss. Dubbi sulla legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 53 Cost. del formulary apportionment method sono avanzati da P. Selicato, The Common Consolidated Corporate tax Base (CCCTB) between the exigences of harmonization of the corporate tax and the problems of compatibility with the national system, ivi, 156 ss. (60) Cfr. C. Ricci, La proposta di Direttiva sulla CCCTB: profili soggettivi, base imponibile e suo consolidamento, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 4., 1056 ss. (61) Cfr. L. Cerioni, The European Commission Proposal for a 3% “Call Rate” as a New Suggestion for a EUCIT: An Assessment Against the Criteria for a Fair Taxation, in EC Tax Review, 2018, 5, 237 ss.; B. Peeters, EUCIT: For How Much Longer Will Political Objections Outweigh the Advantages?, ivi, 2015, 3, 128 ss.


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il calcolo di comuni basi imponibili ed alla rinuncia di una quota della propria corporation tax al fine di garantire l’invarianza finanziaria per le società. Per come attualmente strutturato il regime di CCCTB, l’imposta europea sui redditi delle società andrebbe a colpire solo i gruppi di significative dimensioni, anche digitali, e quelle società che volontariamente decidono di aderire. In tal modo il contribuente europeo si identifica solo in quelle società transnazionali e si collegherebbe funzionalmente con l’obiettivo del corretto funzionamento del mercato interno. Si tratta, dunque, di un numero ristretto ma significativo di imprese per cui occorre valutare se l’applicazione di un’imposta europea sul reddito delle società sia in grado di produrre un gettito adeguato. 6. Conclusioni. – L’economia digitale pone problemi inediti in capo alle Amministrazioni finanziarie in quanto la discrepanza tra luogo in cui i profitti delle grandi multinazionali del web sono generati e luogo in cui gli stessi sono tassati ha contribuito ad acuire la crisi dei vigenti sistemi tributari fermamente ancorati al criterio della territorialità e della sovranità fiscale. In un’economia sempre più globalizzata, caratterizzata dall’assenza di frontiere e da nuovi modi di creare ricchezza, i modelli impositivi nazionali si sono dimostrati inadeguati a catturare la materia imponibile emergente dal fenomeno digitale. È maturata la consapevolezza dei Paesi di addivenire ad una comune revisione delle regole del diritto tributario internazionale sulla scia dei lavori dell’OCSE sebbene “Ogni soluzione proposta presenta un antidoto talmente forte da rappresentare un deterrente” (62). Di fronte alle difficoltà di giungere ad una comune revisione delle regole fiscali internazionali, l’Unione europea ha avanzato alcune proposte con l’intento di salvaguardare la sostenibilità dei bilanci degli Stati membri e realizzare un Mercato unico digitale. Le proposte di direttiva della Commissione europea volte a rivedere la nozione di stabile organizzazione e ad introdurre un’Imposta sui Servizi Digitali sono mosse dalla volontà di tassare i profitti nel luogo ove si svolgono le attività economiche e si crea il valore. Tuttavia, si ha l’impressione che le proposte europee non centrino il bersaglio: in luogo di far emergere nuovi indici rivelatori di capacità contributiva, le stesse continuano ad utilizzare vecchi strumenti impositivi quali la stabile organizzazione o il fatturato, perdendo di vista l’opportunità di cambiamento offerta dalla sfi-

(62) Così M. C. Fregni, Mercato unico digitale e tassazione: misure attuali e progetti di riforma, cit., 52.


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da dell’economia digitale. Le soluzioni unionali paiono utilizzare presupposti impositivi che non disvelano la capacità contributiva dei giganti del web e la loro vera forza economica (63). La fiscalità dell’economia digitale, dunque, parrebbe evolversi verso forme impositive legate a indicatori non necessariamente ricollegabili a tradizionali indici di capacità economica, aprendo le porte alla preoccupante istituzione dei cd. “non tributi” (64). Ciò che stupisce maggiormente in tale scenario è come la Commissione europea non riesca ad individuare un presupposto impositivo appropriato, in grado di catturare il fenomeno digitale e la connessa capacità impositiva del contribuente: le proposte in cantiere, infatti, ondeggiano tra il ricorso a strumenti di imposizione diretta - attraverso l’identificazione di una stabile organizzazione digitale - a forme di imposizione indiretta mediante l’Imposta sui Servizi Digitali. Dalle dette soluzioni unionali, inoltre, non emerge con chiarezza se si intenda trattare l’economia digitale come un fenomeno sui generis, a cui applicare un sistema fiscale “speciale” mediante una specifica web tax, ovvero se la digitalizzazione rappresenti un’evoluzione dell’attuale paradigma economico, a cui far corrispondere un “aggiornamento” delle ordinarie regole fiscali attraverso una nuova nozione di stabile organizzazione. Nel complesso, le proposte europee paiono essere piuttosto affrettate e lontane da una visione unitaria sulla questione, come dimostrato dalle due diverse definizioni di stabile organizzazione digitale, fornite da Esecutivo e Parlamento europeo nell’ambito dei lavori sulla tassazione dell’economia digitale. Non può escludersi allo stato attuale che, probabilmente, le esigenze di gettito complessive, sia degli Stati membri, sia della stessa Unione europea, abbiano spinto la Commissione europea ad avanzare la frettolosa soluzione di tassazione del settore digitale, nonostante l’auspicio di introdurre un sistema fiscale equo ed efficace. Sembrerebbe che le proposte europee siano una sorta di risposta emergenziale alle recenti riforme tributarie statunitensi ed abbiano il celato fine di colpire le multinazionali che operano nel settore digitale con “passaporto” principalmente americano (65). Come è stato attentamente os-

(63) Si veda V. E. Falsitta, Prelievo fiscale e civiltà. Studi per una società di persone più uguali, Milano, 2018, 45 ss.; A. PERSIANI, Imposizione diretta, economia digitale e competitività tra Stati, in Diritto Mercato Tecnologia, 2016, 1, 187 ss. (64) Cfr. L. Carpentieri, La sovranità tributaria alla prova dell’Unione europea e delle spinte federaliste interne, in A. Papa (a cura di), Le regioni nella multilevel governance europea, Torino, 2016, 233 ss. (65) Cfr. M. Greggi, Giochi di guerra sulla tassazione delle multinazionali, disponibile


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servato, gli Stati Uniti hanno già adottato una propria politica fiscale sui cd. Stateless Income delle multinazionali, volta a favorire il rimpatrio degli stessi attraverso l’esclusione da tassazione dei dividendi distribuiti da società partecipate non residenti e delle plusvalenze sulle partecipazioni in società non residenti (66). Non solo, la scelta americana di procedere in via unilaterale alla tassazione dell’economia digitale è stata confermata dalla loro astensione ai lavori dell’OCSE sui BEPS nonché dall’introduzione di una complessa disciplina sullo scambio di informazioni (FACTA) (67). A fronte, poi, di un sistema fiscale americano orientato verso una tassazione territoriale per le società multinazionali statunitensi e lontano rispetto al consolidato principio della worldwide taxation, l’Unione europea è dovuta “correre ai ripari” per evitare perdite di gettito, proponendo una revisione della normativa sulla stabile organizzazione e l’introduzione di una interim web tax. Probabilmente la stesura della proposta europea è stata effettuata tenendo a mente il preciso obiettivo di tassare i giganti del web statunitensi cosicché l’Imposta sui Servizi Digitali (DST) presenta inevitabili assonanze con un tributo doganale. Non a caso, a seguito dell’adozione della web tax francese che si ispira alla DST – cd. taxe GAFA (68) – gli Stati Uniti hanno minacciato l’istituzione di “controdazi”. Gli Stati membri, attualmente, sono ancora lontani dal trovare un accordo comune sulle proposte in parola della Commissione europea ed i negoziati tenutisi durante i vertici dell’Ecofin si sono rivelati costantemente fallimentari: è emersa addirittura l’impossibilità di esaminare in dettaglio anche testi di compromesso sulla tassazione dell’economia digitale come, per esempio, l’interessante proposta franco-tedesca. Francia e Germania, infatti, avevano suggerito una nuova forma di web tax transitoria in grado di colpire esclusivamente il fatturato della pubblicità online, applicando un’aliquota del 3% ad esso, con vigenza dal 2021 al 2025 (sunset clause), in assenza di un accordo in sede OCSE. Tale proposta, tuttavia, non impedirebbe agli Stati membri di assoggettare a tassazione la materia imponibile derivante dall’economia

su www.lavoce.info, 15 settembre 2017. (66) Cfr. L. Carpentieri, S. Micossi, P. Parascandolo, Tassazione di impresa ed economia digitale, cit., 86-87. (67) Cfr. G. Fransoni, La riforma fiscale di Trump e i suoi effetti sulla tassazione internazionale e sulla web tax, in Riv. dir. trib. – supplemento on line, 17 novembre 2017. Si veda anche G. Selicato, Le comunicazioni preventive secondo la Direttiva 822/2018/EU: dalla “collaborazione incentivata” agli “obblighi di disclosure”, in Rass. trib., 2019, 1, 117 ss. (68) Google, Amazon, Facebook e Apple.


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digitale di natura diversa rispetto al fatturato dei servizi pubblicitari online. Malgrado interessanti ipotesi di confronto, la dovuta unanimità sulla materia fiscale ha finito per paralizzare qualsiasi forma di azione congiunta, amplificando i rischi di iniziative unilaterali di alcuni Stati membri (Austria (69), Francia (70), Italia (71) e Spagna (72) oltre al Regno Unito) che provocherebbero una frammentata tassazione dell’economia digitale e possibili fenomeni di doppia imposizione (73). In tale contesto appare necessario valorizzare l’intenzione originaria di istituire una web tax europea in grado di tassare i redditi caratterizzati da elevata mobilità, tipici dell’economia digitale, e di sfruttare i vantaggi di un’imposizione sovranazionale. Una simile soluzione consentirebbe altresì di fornire una prima risposta all’invocata riforma del sistema delle risorse proprie e di realizzare, in tema di digital single market, un collegamento funzionale tra prelievo fiscale e politiche europee. Da ultimo, degno di nota, appare l’interessante proposta di introdurre un’imposta europea sul reddito delle società quale nuova risorsa propria - che colpisca anche le multinazionali operanti nel settore digitale attraverso la cd. CCCTB rilanciata dal Presidente della nuova Commissione europea: si tratta di “un progetto di lunga data del Parlamento europeo” (74) per cui lo stesso Presidente sostiene “mi batterò perché venga

(69) La proposta di web tax austriaca colpirà con un’aliquota del 5% i ricavi da pubblicità digitali in Austria realizzati dalle multinazionali operanti nel settore digitale aventi un fatturato complessivo superiore ai 750 mln/€, di cui almeno 25 mln/€ realizzati in Austria. (70) La taxe sur les services numériques (nota anche come taxe G.A.F.A. - Google, Apple, Facebook, Amazon) è ispirata all’Imposta sui Servizi Digitali proposta dalla Commissione europea e, dal 1° gennaio 2020, colpirà con un’aliquota del 3% il fatturato derivante da specifici servizi digitali realizzati dalle multinazionali che operano sul web e che producono ricavi di almeno 750 mln/€, di cui almeno 25 mln/€ realizzati in Francia. (71) Sulla web tax italiana si veda F. Pedrotti, Prime osservazioni in merito all’abrogata imposta sulle transazioni digitali e all’imposta sui servizi digitali introdotta dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145, in Riv. dir. trib., 2019, 1, 93 ss.; A. Perrone, Il percorso (incerto) della c.d. web tax italiana tra modelli internazionali ed eurounitari di tassazione della digital economy, in Riv. dir. trib. – Supplemento on line, 30 agosto 2019, 1 ss. (72) Anche la proposta di impuesto sobre determinados servicios digitales è ispirata all’Imposta sui Servizi Digitali. Il tributo proposto colpirà con un’aliquota del 3% il fatturato derivante da specifici servizi digitali realizzati dalle multinazionali che operano nel digitale e che producono ricavi di almeno 750 mln/€, di cui almeno 3 mln/€ realizzati in Spagna. (73) Si veda C. Ricci, La Web Tax europea e le recenti iniziative nazionali, in L. Del Federico – C. Ricci (a cura di), Le nuove forme di tassazione della digital economy, cit., 39 ss. (74) Così U. Von Der Leyen, Un’Unione più ambiziosa. Il mio programma per


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realizzato” (75). A ciò si aggiunge che anche il granitico principio dell’unanimità, spesso ostativo per l’approvazione delle proposte europee, sia in materia fiscale sia in tema di risorse proprie, potrebbe essere presto scalfito: il presidente del nuovo Esecutivo europeo, infatti, intende avvalersi della “clausola passerella” nonché “delle disposizioni dei trattati che consentono di adottare le proposte in campo fiscale mediante codecisione e di decidere con voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio.”. Si aprono, dunque, nuovi scenari relativi ad una profonda rivisitazione delle risorse proprie europee che potrebbero rappresentare l’innovativa soluzione alle sfide della tassazione dell’economia digitale.

Claudio Sciancalepore

l’Europa, disponibile su https://ec.europa.eu, 16 luglio 2019. (75) Ibidem.


La riforma dell’art. 20 del TUR: un’occasione persa? Sommario: 1. Premessa. – 2. L’evoluzione nella disciplina del tributo. – 3. Causa concreta e collegamento negoziale dal diritto civile al sistema dell’imposta di registro. – 4. Il divieto di abuso del diritto e la precedente versione dell’art. 20 del TUR. – 5. Indebito vantaggio fiscale ed assenza di sostanza economica nella prospettiva della nuova formulazione dell’art. 20 del TUR. La legge di bilancio per il 2018 ha riformulato l’art. 20 del TUR, che oggi non consente più di valorizzare, nell’interpretazione degli atti soggetti all’imposta, elementi extratestuali e negozi collegati. Sebbene, a seguito della modifica, la norma risulti maggiormente coerente con la tradizionale ricostruzione del prelievo in termini di “imposta d’atto”, ci si chiede se l’aver escluso ogni rilevanza agli elementi extratestuali ed al collegamento negoziale non implichi un ritorno ad una visione per certi versi superata dell’imposta di registro. Inoltre, a ben guardare, la nuova formulazione rende forse più difficile coordinare il sistema dell’imposta con il divieto di abuso del diritto sancito dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. The budget law for the 2018 has renewed the article 20 of the presidential decree n. 131/1986, which no longer allows to emphatize the contractual link for the application of the registration tax. Following the amendment, the rule is likely more consistent with the traditional nature of the registration tax (which aims to hit the ability to pay expressed in a single deed), however it may be questioned if the new version of the article 20 won’t imply a return to an outdated vision of the duty. Furthermore the new article makes harder to coordinate the registration tax system with the prohibition of abuse of law stated in the art. 10-bis of the taxpayers bill of rights.

1. Premessa. – Come noto, l’art. 1, comma 87, lett. a) della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (c.d. legge di bilancio per il 2018) ha parzialmente riscritto l’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 (TUR) che, nel dettare i criteri per interpretare gli atti soggetti al registro, stabilisce ora l’applicazione dell’imposta secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici «dell’atto presentato


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alla registrazione», anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, «sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto previsto dagli articoli successivi» (1). Rispetto al testo previgente, la nuova formula sancisce l’irrilevanza degli elementi extratestuali nell’interpretazione degli atti soggetti a registrazione, nell’evidente tentativo di superare la posizione della quasi unanime giurisprudenza di legittimità che, sino ad oggi, nell’applicazione dell’art. 20 del TUR, richiamandosi al concetto di causa concreta, ha ritenuto di poter valorizzare il collegamento sussistente tra più atti separatamente presentati per la registrazione onde individuare la misura della tassazione in base al risultato finale della sequenza negoziale adottata (2). Si tratta, invero, di una modifica da tempo auspicata e perciò salutata con apprezzamento dagli operatori, i quali hanno lodato il tentativo di riportare l’interpretazione degli atti soggetti a registrazione in quello che si è tradizionalmente ritenuto il naturale ambito di definizione del presupposto (3). Infatti, nella sistematica del T.U. n. 131/1986 la valorizzazione del collegamento negoziale è stata per lo più guardata con sospetto da chi (4) ha ritenuto rap-

(1) Sulla nuova formulazione della norma si vedano i commenti di A. Carinci, D. Deotto, “Pezo el tacòn del buso: una riforma improvvisata sull’art. 20 del T.U.R., in il fisco, 2017, 4422 ss.; E. Della Valle, Il nuovo art. 20 del T.U.R. e l’“isolata” cessione totalitaria di partecipazioni: molto rumore per nulla, in il fisco, 2018, 517; F. Tundo, Un “legislatore” volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione, in Corr. trib., 2019, 274 ss. (2) In tal senso tra le molte si vedano: Cass. Sez. trib., 23 febbraio 2018, n. 4407; Cass., Sez. trib., 17 gennaio 2018, n. 1011; Cass., Sez. trib., 15 marzo 2017, n. 6758; Cass., Sez. trib., 10 febbraio 2017, n. 3562; Cass., Sez. trib., 12 maggio 2017, n. 11873; Cass., Sez. trib., 2 dicembre 2015, n. 24594; Cass., Sez. trib., 14 febbraio 2014, n. 3481; Cass., Sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319. tutte, in banca dati Le leggi d’Italia. Si tratta quindi di orientamento consolidato che trae origine da Cass., Sez. trib., 23 novembre 2001, n. 14900, in Rass. trib., 2002, 1337, con nota di S. Donatelli, La rilevanza degli elementi extratestuali ai fini dell’interpretazione dei contratti nell’imposta di registro. Tale orientamento si è poi consolidato con le successive Cass., Sez. trib., 25 febbraio 2002, n. 2713; Cass., Sez. trib., 7 luglio 2003, n. 10660; Cass., Sez. trib., 19 dicembre 2003, n. 19558; Cass., Sez. trib., 4 maggio 2007, n. 10347; Cass. Sez. trib., 30 giugno 2011, n. 14367, tutte in banca dati fisconline. (3) In tal senso cfr. F. Tundo, Un “legislatore” volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione, cit., 274 ss.; Assonime, Circolare n. 3/2018. (4) In tal senso si vedano, tra i molti, F. Marchetti, La riqualificazione dell’atto soggetto a tassazione ad opera dell’ufficio del registro: l’interpretazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, in Boll. trib., 2002, 738 ss.; D. Scandiuzzi, Sviste giurisprudenziali in tema di elusione nell’imposta di registro: il caso del conferimento di azienda ex art. 167 Tuir seguito dalla vendita delle partecipazioni, in Riv. dir. trib., 2009, II, 559 ss; F. Pedrotti, Conferimento


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presentasse null’altro che uno strumento per reintrodurre un sindacato sulla sostanza economica degli atti soggetti a registrazione, in palese contrasto con la scelta del legislatore della riforma tributaria degli anni settanta. Infatti, nel passaggio dall’art. 8 del R.D. n 3269/1923 all’art. 19 del D.P.R. n. 634/1972 (poi riprodotto nell’art. 20 dell’attuale T.U.) si era chiaramente optato per la rilevanza dei soli effetti giuridici in sede di applicazione del tributo (5). In ogni caso, nel richiamarsi al concetto di causa in concreto, la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha tendenzialmente negato l’assimilazione dell’art. 20 del TUR ad una norma di carattere antielusivo, avendo, piuttosto, ritenuto che l’attività di interpretazione degli atti fosse, in realtà, finalizzata semplicemente a rivelare la causa reale dell’operazione, consentendo di determinare in funzione di essa la misura del prelievo (6). Per tali ragioni, la ricerca della causa reale attraverso la valorizzazione del collegamento negoziale avrebbe ben potuto prescindere dal concreto riscontro degli elementi che caratterizzano le condotte elusive, ossia il conseguimento di un vantaggio fiscale, la sua natura indebita e l’inesistenza di valide ragioni economiche capaci di giustificare il percorso negoziale adottato prescindendo dai vantaggi fiscali ottenuti (7).

di ramo di azienda e successiva cessione delle quote attribuite al soggetto conferente. Considerazioni intorno alla presunta elusività dell’operazione ai fini dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2011, II, 226 ss.; D. Mazzagreco, In tema di elusività del conferimento del ramo d’azienda seguito dalla cessione delle quote attribuite al soggetto conferente, in Rass. trib., 2012, 1196 ss.; G. Corasaniti, L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema dell’imposta di registro, in Dir. prat. trib., 2012, I, 963 ss.; G. Marongiu, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti, in Dir. prat. trib. I, 2013, 361 ss. M.P. Nastri, Vincoli all’interpretazione degli atti nell’imposta di registro. I nuovi confini tra evasione e abuso del diritto, in AA.VV., L’evasione e l’elusione fiscale in ambito internazionale, a cura di F. Amatucci, R. Cordeiro Guerra, Roma, 2016, 201 ss. (5) In tal senso cfr. N. Dolfin, L’imposta di registro, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, XII ed., Padova, 2018, 997. (6) Così si esprime Cass., Sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319, in Giur. it., 2014, 557, con nota di D. Canè, Imposta di registro sull’apporto di beni ad un fondo immobiliare seguito da cessione delle quote, ove la Suprema Corte, nel ribadire le proprie posizioni, ha tuttavia precisato come l’art. 20 avrebbe una funzione soltanto latamente antielusiva, essendo invece deputata alla ricognizione degli effetti dell’atto, sulla base, tuttavia della sua causa reale, desumibile, oltre che dal tenore letterale dell’atto, anche dai negozi ad esso collegati; nello stesso senso anche la successiva giurisprudenza della Suprema Corte (tra le tante si ricordano Cass., Sez. trib., 14 febbraio 2014, n. 3481; Cass., Sez trib., 11 dicembre 2015, n. 25001; Cass., Sez. trib., 11 maggio 2016, n. 9573; Cass., Sez. trib., 15 marzo 2017, n. 6758, tutte in banca dati Le leggi d’Italia). (7) Sul punto cfr. anche G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro come


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In tal modo, il conferimento di azienda, seguito, a breve distanza, dalla cessione delle partecipazioni (atti entrambi sottoposti all’imposta in misura fissa) (8) è stato riqualificato tout court come cessione di azienda, da assoggettare al prelievo in misura proporzionale. Allo stesso modo, il conferimento di un immobile gravato da mutuo ipotecario, accompagnato dalla successiva cessione delle partecipazioni, è stato anch’esso assimilato ad una mera cessione immobiliare, per la quale, ai fini della determinazione della base imponibile, a differenza di quanto accade nel conferimento immobiliare, non è ammessa la considerazione delle passività ipotecarie (9). Proprio per evitare tali riqualificazioni, ritenute tendenzialmente arbitrarie e difficilmente compatibili con il sistema dell’imposta, il legislatore è intervenuto per chiarire che, nell’interpretazione degli atti presentati per la registrazione, non possa ammettersi la valorizzazione di elementi extratestuali o, più in generale, del collegamento teleologico in ipotesi sussistente tra più atti separatamente presentati per la registrazione. Si è tuttavia fatta salva l’applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000, che come noto ha introdotto nel nostro ordinamento una clausola generale antiabuso che l’art. 1, comma 87, lett. b) della legge n. 205/2017, nel modificare l’art. 53-bis del T.U. n. 131/1986, ha espressamente esteso al sistema dell’imposta di registro (10). Da ultimo, l’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019), ha invece espressamente attribuito all’intervento sull’art. 20 del TUR valore di interpretazione autentica, chiarendo un passaggio che all’indomani della novella aveva suscitato non poche perplessità.

norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., 2016, 919. (8) In merito all’applicazione in misura fissa dell’atto di conferimento dell’azienda si veda l’art. 4, comma 1, lett. a), n. 3, e lett. b) della Tariffa, parte prima, allegata al TUR (sull’operazione di conferimento nell’ambito dell’imposta di registro si veda, più in generale, G. Corasaniti, Profili tributari dei conferimenti in natura e degli apporti in società, Padova, 2008, 325 ss.). L’art. 11, del T.U. n. 131/1986, e l’art. 2, comma 1, della Tariffa, parte seconda, allegata al medesimo Testo Unico dispongono invece l’applicazione dell’imposta in misura fissa alla cessione di partecipazioni. (9) Ai fini dell’applicazione dell’imposta, alla luce della previsione contenuta all’art. 4, lett. a), n. 1, della Tariffa – parte prima – allegata al T.U. dell’imposta di registro, il conferimento di proprietà o diritto reale su beni immobili è soggetto alle medesime aliquote previste per i trasferimenti di detti beni di cui all’art. 1 della Tariffa medesima. Tuttavia, nel caso di conferimento immobiliare la base imponibile tiene conto delle passività e degli oneri accollati dalla società conferitaria (art. 50, comma 1, T.U. n. 131/1986). (10) Sul punto cfr. M. Damiani, L’art. 20 T.U.R., rimosso un feticcio e recuperato l’antidoto antiabuso, in Corr. trib., 2018, 857 ss.


Dottrina

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Infatti, mentre la dottrina (11) e la stessa relazione governativa (12) alla legge di bilancio avevano assegnato natura “interpretativa” dell’intervento del legislatore, espressivo, secondo i più, di principi che avrebbero comunque dovuto già governare le regole di interpretazione degli atti, la prima giurisprudenza di legittimità (13) chiamata a confrontarsi con la nuova norma ne aveva riconosciuto la natura innovativa, negandone, quindi, l’estensione retroattiva. Tuttavia, l’asserita maggior coerenza della nuova formulazione della norma con i principi che regolano l’applicazione dell’imposta di registro, se non adeguatamente verificata, rischia di rivelarsi una petizione di principio condizionata da una ricostruzione dogmatica forse ancorata ad una visione del prelievo in parte superata. Vi è da chiedersi, infatti, se davvero l’aver eliminato ogni possibilità di valorizzare elementi extratestuali nell’interpretazione degli atti soggetti a registrazione, e l’aver escluso qualsiasi rilevanza al collegamento negoziale, rappresenti una scelta del tutto felice (14) e soprattutto coerente con l’attuale struttura dell’imposta, o non debba piuttosto paventarsi il rischio di un ritorno ad una concezione del tributo che si era in parte tentata di superare anche nell’ottica di favorirne un adeguamento del presupposto ai valori costituzionali (15). Vedremo, nelle riflessioni che seguono, come l’asserita irrilevanza degli elementi extratestuali e di qualsivoglia collegamento negoziale è strettamente collegata, nel sistema dell’imposta di registro, ad una visione del prelievo

(11) Cfr. A. Carinci, L’efficacia temporale del nuovo art. 20 T.U.R., in il fisco, 2018, 848 ss.; F. Tundo, Sull’efficacia temporale del novellato art. 20 D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in Riv. dott. comm., 2018, 783 ss. (12) Secondo la quale «La norma introdotta è volta, dunque, a definire la portata della previsione di cui all’art. 20 del TUR, al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all’atto stesso (ad esempio i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici “collegati” con quello da registrare. Non rilevano, inoltre, per la tassazione, gli interessi oggettivamente e concretamente nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad un’assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)». (13) Così tra le tante Cass., Sez. trib., 26 gennaio 2018, n. 2007; Id., 23 febbraio 2018, n. 4407; Id., 28 febbraio 2018, n. 4590 (tutte in banca dati Le leggi d’Italia). Sul punto cfr. anche G. Zizzo, Retroattive le modifiche all’art. 20 del T.U.R.?, in Corr. trib., 2018, 2011. (14) Perplessità sembrano essere espresse anche da A. Carinci, D. Deotto, “Pezo el tacòn del buso: una riforma improvvisata sull’art. 20 del T.U.R., cit., 4422 ss. (15) Su tutti cfr. G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, Padova, 2017.


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Parte prima

inteso come “imposta d’atto” (16) ossia come tributo diretto a colpire l’atto in funzione degli effetti ad esso anche solo “potenzialmente” riconducibili, il che, se anche appare espressione di una lettura del presupposto confermata da molte disposizioni contenute nel Testo Unico, non sembra, ad esempio, tenere in adeguato conto i riflessi che, sull’imposta di registro, derivano dal coordinamento con altre forme di prelievo. Inoltre, come sarà posto in luce nelle considerazioni finali, l’aver riaffermato l’irrilevanza dei collegamenti negoziali ai fini del prelievo rende oltremodo difficoltoso coordinare il sistema dell’imposta di registro con il nuovo art. 10-bis dello Statuto, ancorché, con lo stesso intervento normativo, il legislatore si sia premurato di estenderne l’applicazione anche al registro in via esplicita, quasi per arginare eventuali rigidità derivanti della nuova formulazione della norma che regola l’interpretazione degli atti. Come già osservato dai più attenti commentatori (17), vi è, però, il rischio che, in tal modo, gli schemi sin’ora avversati ricorrendo alla valorizzazione del collegamento negoziale in sede di diretta interpretazione degli atti, finiscano per essere contrastati invocando l’abuso del diritto, così vanificando in gran parte il lavoro del legislatore. Senza contare che la Corte di Cassazione non sembra volersi “rassegnare” all’intervento del legislatore e, ritenendo che la nuova formulazione dell’art. 20 del TUR, con l’impedire la valorizzazione del collegamento negoziale, non consenta di apprezzare la reale capacità contributiva a fondamento del prelievo, ha, da ultimo sollecitato la Corte Costituzionale ad esprimersi sulla compatibilità del nuovo testo con gli artt. 3 e 53 Cost. (18) Come vedremo, se, per un verso, le perplessità avanzate sulla nuova formula sembrano doversi

(16) L. Rastello, Il tributo di registro, Roma, 1955, 70; A. Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1960, 137; P. Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, 744; B. Santamaria, Registro (imposta di), in Enc. dir., Milano, 1988, XXXIX, 545; A.M. Ferrari, Registro (imposta di), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, XXVI; G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit. 21; M. Gaballo, L’imposta di registro, in G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. Il sistema dei tributi, Padova, 2015, 308; S. Ghinassi, L’imposta di registro, in P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2009, 373; (17) In tal senso si vedano le riflessioni di G. Fransoni, L’elusione e la qualificazione degli atti negoziali ai sensi dell’art. 20 T.U.R. fra le vane speranze e il van dolore (del contribuente), in Riv. dir. trib., supplemento online del 26 febbraio 2018 (nota a Cass., Sez. trib., 14 febbraio 2018, n. 3533, in banca dati Le leggi d’Italia). (18) Cfr. Cass., Sez. trib., Ord. 23 settembre 2019, n. 23549, in banca dati Le leggi d’Italia.


Dottrina

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condividere, le conclusioni che se ne traggono paiono, ancora una volta, condizionate dall’adesione ad un concetto di “causa” negoziale che finisce, inevitabilmente, per reintrodurre, in modo surrettizio, un sindacato sull’asserita “sostanza economica” degli atti soggetti a registrazione. 2. L’evoluzione nella disciplina del tributo. – Una disposizione diretta a regolare l’interpretazione degli atti soggetti a registrazione si rintraccia già nel primo testo normativo con cui, all’indomani dell’unità d’Italia, il legislatore aveva introdotto un’imposta sui trasferimenti sul modello di quella adottata in Francia con la legge del 22 frimaio dell’anno VII. L’art. 7, della legge 21 aprile 1862, n. 585, stabiliva, in particolare, che «la tassa è applicata secondo l’intrinseca natura degli atti e non secondo la loro forma apparente». Il successivo art. 6 della legge 14 luglio 1866, aggiornò il testo della disposizione prevedendo che «Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, quando risulti che non vi corrisponda il titolo e la forma apparente». Anche le successive edizioni della legge di registro confermavano l’importanza della norma diretta a regolare l’interpretazione degli atti, tanto che il R.D. n. 3269/1923, all’art. 8, stabiliva anch’esso l’applicazione della tassa in base agli effetti degli atti, ancorché non vi corrispondesse il titolo o la forma apparente (19). Tale disposizione è stata, come già accennato, riproposta anche all’indomani della riforma dei primi anni settanta con l’art. 19 del D.P.R. n. 634/1974, sia pure con la fondamentale precisazione circa l’esclusiva rilevanza degli effetti “giuridici” ai fini dell’applicazione del prelievo, precisazione ovviamente recepita anche nella formulazione dell’art. 20 dell’attuale Testo Unico. L’individuazione dei criteri di interpretazione degli atti soggetti a registrazione è tradizionalmente influenza dalla ricostruzione della natura del tributo.

(19) Sull’origine storica della disposizione cfr. G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro tra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., 2013, 955 ss. La legge francese, invece, non contemplava una disposizione analoga, eppure i commentatori avevano evidenziato come, nella applicazione dell’imposta, l’Amministrazione non dovesse ritenersi vincolata dalla denominazione dell’atto attribuita dai contraenti (in tal senso cfr. F. Batistoni Ferrara, Atti simulati e invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969, 44). Sul punto cfr. anche G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 4. P. Boria, Il sistema tributario, cit., 740; B. Santamaria, Registro (imposta di), cit., 533 ss.; A.M. Ferrari, Registro (imposta di), cit., XXVI.


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Come noto, l’imposta di registro risente, in più passaggi della disciplina, della sua originaria natura di “tassa d’atto”, ossia di corrispettivo per il servizio amministrativo di registrazione (20). Col tempo, il prelievo è andato assumendo sempre più i tratti di una vera e propria imposta, commisurata alla ricchezza che si trasferisce attraverso gli atti giuridici (21), senza, tuttavia, perdere del tutto le caratteristiche della tassa, che riemergono nelle ipotesi, per le quali è prevista l’applicazione del prelievo in misura fissa, e nei casi in cui è ammessa la registrazione volontaria. Tale origine storica ha condizionato anche la ricostruzione della natura giuridica del tributo, per il quale si è continuato a parlare di “imposta d’atto”, con ciò intendendosi un prelievo diretto a colpire l’atto in funzione degli effetti meramente “potenziali”, a prescindere dall’effettivo trasferimento di ricchezza (22). Invero, molte disposizioni dell’attuale Testo Unico (che riproducono norme presenti anche nei testi normativi previgenti), sembrerebbero confermare tale assetto strutturale del prelievo. Si pensi, ad esempio, al criterio di tassazione degli atti invalidi indicato dall’art. 38 del TUR, che impone la registrazione ed il pagamento dell’imposta in misura proporzionale anche per gli atti nulli o annullabili, salvo solo il diritto al rimborso della quota d’imposta eccedente la misura fissa una volta passata in giudicato la sentenza che accerta l’invalidità e sempreché tale invalidità non sia imputabile al comportamento delle parti (23).

(20) In tal senso cfr. F. Tesauro, Novità e problemi nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1975, I, 100; Sul punto cfr. anche B. Denora, La natura di tassa d’atto dell’imposta di registro dovuta in misura fissa, Studio 238/2008/T del Consiglio nazionale del notariato, in www.notariato.it.; M.P. Nastri, Il principio di alter natività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro, Torino, 2012, 10. (21) Secondo F. Tesauro, Novità e problemi nella disciplina dell’imposta di registro, cit., 97, l’atto viene in considerazione non quale mero documento (instrumentum), ma con riferimento agli effetti giuridici che lo stesso è suscettibile di produrre (gestum). (22) Cfr. A. Berliri, Le leggi di registro, cit., 137, che rileva: «Il fatto giuridico che determina il sorgere del rapporto d’imposta non è il trasferimento di un bene, l’assunzione di un’obbligazione, la costituzione di una società, ma la stipulazione di un atto di vendita, di mutuo, di società, tanto è vero che non solo l’imposta non è dovuta, salvo casi eccezionali, se il contratto è stipulato verbalmente, ma essa è dovuta anche se l’atto sia nullo o il suo effetto non si sia comunque verificato». (23) Già la legge di registro del 1923 contemplava anch’essa una disposizione sulla tassazione degli atti invalidi, stabilendo, all’art. 11, che «le tasse stabilite dalla legge sono dovute anche nei casi di registrazione di atti comunque nulli, salva la restituzione nei casi tassativamente indicati dall’art. 14». L’art. 12, d’altra parte, sanciva il principio secondo il quale le tasse regolarmente percette non potevano essere restituite in caso di riforma,


Dottrina

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Ancora, l’art. 37 del medesimo Testo Unico, nel regolare la tassazione degli atti giudiziari, impone la registrazione delle pronunce giudiziali ancorché impugnabili o impugnate, salvo conguaglio o rimborso in base alla successiva sentenza passata in giudicato (24). Nel medesimo senso, l’art. 28, condiziona poi l’applicazione dell’imposta in misura fissa alla risoluzione dei contratti alla presenza di una clausola risolutiva espressa, oppure alla convenzione della risoluzione mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto risolto (25). Si tratta, a ben vedere, di disposizioni che tendono, se non ad escludere, comunque a limitare fortemente la rilevanza, nella definizione del presupposto, di vicende successive alla formazione dell’atto. In questa prospettiva, si finisce ovviamente per escludere anche la valorizzazione, di elementi extratestuali rispetto al contenuto dell’atto, come pure di eventuali negozi collegati.

risoluzione, rescissione, o per l’effetto di condizione risolutiva alla quale l’atto fosse sottoposto, e comunque in dipendenza di ogni ulteriore caso se non quelli espressamente stabiliti dalla legge. Infine, l’art. 14 disponeva che «Dalle disposizioni dell’art. 12 si eccettuano: … 2) gli atti dichiarati nulli con sentenza pronunciata in contradditorio tra i contraenti e passata in giudicato, per vizio radicale che, indipendentemente dalla volontà e dal consenso delle parti, induca la nullità dell’atto sin dalla sua origine». Il sistema delineato dalla legge del 1923 presentava, quindi, caratteristiche sostanzialmente analoghe a quelle attuali. Sul tema cfr. C. Podestà, Regime fiscale degli atti nulli e delle relative ratifiche e rinnovazioni, in Dir. prat. trib., 1939, I, 48 ss.; D. Jarach, Atti nulli e imposta di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1938, II, 153 ss. B. Griziotti, Il regime della legge di registro per gli atti nulli, annullabili e revocabili nel controllo dell’interpretazione funzionale, ivi, 1941 II, 260 ss. (24) Così Cass., 7 agosto 2008, n. 21311, in banca dati Le leggi d’Italia. In tema di tassazione degli atti dell’autorità giudiziaria cfr. anche Ris. Min. n. 122/E del 7 novembre 2005 (in banca dati fisconline), nonché, in dottrina, C. Preziosi, L’atto giudiziario tassabile, in Riv. dir. trib., 2009, I, 676. (25) Laddove, invece, sia previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 6 o quella prevista dall’art. 9 della parte prima della tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986, mentre, in ogni altro caso, l’imposta è dovuta per le prestazioni derivanti dalla risoluzione, considerando, comunque, ai fini della determinazione dell’imposta proporzionale, l’eventuale corrispettivo della risoluzione come maggiorazione delle prestazioni stesse. Come evidenziato dalla dottrina (V. Mastroiacovo, La rilevanza tributaria del mutuo dissenso e delle prestazioni derivanti dalla risoluzione, Studio n. 124-2014/T del Consiglio Nazionale del Notariato, 11, in www.notariato.it), nei casi previsti dall’art. 28, comma 1, «il legislatore, in deroga ai principi generali, ammette che la risoluzione di un negozio frutto della volontà delle parti non sconti un’imposizione di tipo proporzionale, ancorché vi siano prestazioni derivanti dalla risoluzione, riconoscendo all’atto meramente dissolutorio degli effetti giuridici pattuiti nell’originario contratto una natura negoziale non tanto priva di un’efficacia traslativa, quanto di una qualsivoglia finalità elusiva».


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A suffragio di una simile impostazione è altresì richiamato l’art. 21 del Testo Unico, che parrebbe ammettere la rilevanza di collegamenti oggettivi tra più disposizioni negoziali soltanto laddove contenute nel medesimo atto (art. 21, comma 2) (26), prevedendosi, invece, la tassazione separata per gli accolli non contestuali all’adozione dell’atto e per le quietanze non rilasciate nello stesso atto che contiene le disposizioni cui si riferiscono (art. 21, comma 3). Secondo la ricostruzione tradizionale la rilevanza di elementi extratestuali rispetto al contenuto dell’atto assumerebbe quindi carattere eccezionale, così come avviene, ad esempio, nella regola sull’“enunciazione” prevista dall’art. 22 del Testo Unico, in base alla quale le disposizioni contenute in atti precedenti o presupposti assumono rilevanza ove espressamente richiamate nell’atto sottoposto a registrazione (27). Altra ipotesi di eccezionale valorizzazione del collegamento negoziale si avrebbe all’art. 24, comma 2, che assoggetta il trasferimento delle pertinenze al regime applicabile al precedente trasferimento dell’immobile principale solo se effettuato entro tre anni. Ma, al di fuori di tali eccezionali ipotesi, la disciplina del prelievo confermerebbe l’irrilevanza di elementi extratestuali e negozi collegati ai fini dell’applicazione dell’imposta (28). Tale ricostruzione enfatizza, nella descrizione del presupposto, il momento della registrazione, che concorrerebbe con la formazione dell’atto alla definizione della fattispecie tributaria, con rilevanti conseguenze anche nella selezione dei criteri di esegesi degli atti da registrare. Il funzionario dell’Amministrazione chiamato a liquidare l’imposta, infatti, non disporrebbe di strumenti di valutazione ulteriori e diversi rispetto ai dati che emergono dal contenuto dell’atto, il che giustificherebbe l’irrilevanza degli elementi extratestuali e dei negozi eventualmente collegati (29).

(26) In tal senso cfr. G. Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra abuso del «diritto» e abuso del potere, in Dir. prat. trib., 2008, 1086. (27) Sul punto cfr. G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 29. (28) Si tratterebbe, comunque, in tutti i casi di norme che valorizzano il collegamento oggettivo tra più disposizioni e non collegamenti di tipo intenzionale (in tal senso cfr. Cass. 4 maggio 2009, n. 10180, in banca dati Le leggi d’Italia, per la quale l’art. 21, comma 2, del TUR trova applicazione solo quando «è la volontà della legge o l’intrinseca natura delle diverse disposizioni a determinare tra esse un rapporto di connessione oggettiva, necessaria e inscindibile e non anche quando quel rapporto trovi origine nella volontà delle parti»). Sul punto cfr. N. Dolfin, L’imposta di registro, cit., 1001 (29) In tal senso D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20


Dottrina

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Di qui la specialità dei criteri d’interpretazione degli atti dettati dalla legge di registro rispetto alle regole ermeneutiche disciplinate dalla legge civile in materia contrattuale, specialità che si esprimerebbe, ad esempio, nell’incompatibilità con la struttura del prelievo, dell’art. 1362, comma 2, c.c., laddove consente di indagare la reale intenzione delle parti anche attraverso l’esame dei comportamenti successivi alla stipulazione del contratto (30). Pertanto, nell’analisi dell’atto soggetto a registrazione, l’interprete dovrebbe valorizzare gli obiettivi effetti negoziali, ancorché non corrispondenti al titolo o alla forma apparente, senza però estendere l’indagine ad elementi estranei al contenuto dell’atto medesimo (31). Addirittura, nella sua formulazione più intransigente, tale ricostruzione è giunta, in passato, a sostenere l’irrilevanza della simulazione, che, per un verso, non dispenserebbe dalla registrazione dell’atto ove prevista in termine fisso, e, per l’altro, non potrebbe formare oggetto di indagine da parte dell’Amministrazione finanziaria (32). Inoltre, ove accertata giudizialmente essa avrebbe implicato la “retrocessione” (secondo una fictio iuris) del bene apparentemente trasferito, da tassare in misura proporzionale come se si trattasse di un nuovo e distinto trasferimento (33). La ricostruzione tradizionale è stata tuttavia, fieramente avversata sin dagli anni trenta del secolo scorso dagli allievi della c.d. Scuola di Pavia.

del T.U. registro, in Rass. trib., 2016., 661. (30) Così si esprime la dottrina tradizionale (cfr. G.A. Micheli, voce Legge (diritto tributario), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 1099; B. Santamaria, Registro (imposta di), cit., 545). (31) Così P. Puri, L’imposta di Registro, in A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 992-993; B. Santamaria, voce Registro (imposta di), cit., 545; A.M. Ferrari, voce Registro (imposta di), cit., 9. (32) Ne deriva che in caso di simulazione relativa, la tassazione dell’atto dissimulato sembra ammettersi soltanto in presenza di una “controdichiarazione” scritta (così A. Berliri, Negozi giuridici o negozi economici quale base di applicazione dell’imposta di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1941, I, 175; sul tema cfr. anche S. Dolia, Simulazione (diritto tributario), in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1992). (33) In tal senso, nella vigenza del R.D. n. 3269/1923 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 si è costantemente espressa la giurisprudenza (si veda da ultimo Cass., Sez. VI., Ord. 23 giugno 2014, n. 14197, in banca dati Le leggi d’Italia, che peraltro sembrerebbe ipotizzare l’estensione del principio anche al sistema previgente; in tal senso anche le più risalenti Cass., 16 aprile 1983, n. 2633 e Cass., 24 luglio 2000, n. 8607, in Riv. dir. trib., 2001, II, 609 ss, con nota critica di R. Miceli, Note in materia di atti plurimi e di retrocessione nell’imposta di registro). Sul punto cfr. S. Dolia, Simulazione (diritto tributario), cit., 1-2.


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Come noto, gli esponenti della scuola fondata da Benvenuto Grizziotti (34) propongono una visione “autonomista” delle regole d’interpretazione della legge fiscale, con l’intento di superare la condizione di subordinazione che, a quel tempo, caratterizzava il diritto tributario rispetto alle altre materie giuridiche. La legge fiscale, in questa prospettiva, dovrebbe essere interpretata privilegiando il dato economico sostanziale rispetto al dato giuridico formale. Tale impostazione si riflette, evidentemente, anche sull’analisi dell’art. 8 dell’allora legge di registro, che si ritiene norma finalizzata ad adeguare la tassazione agli effetti “economici” degli atti soggetti a registrazione, piuttosto che in funzione della loro forma giuridica (35). L’impostazione proposta dalla Scuola Pavese è stata, però, esplicitamente sconfessata anche dal legislatore che, come già ricordato, nel passaggio dall’art. 8 del R.D. n. 3269/1923 all’art. 19 del D.P.R. n. 634/1972 ha inserito l’aggettivo “giuridici” accanto all’espressione “effetti” utilizzata dal testo normativo (36). Tuttavia, non si può non riconoscere che le riflessioni maturate in seno alla Scuola di Pavia abbiano comunque lasciato traccia, specialmente nelle successive elaborazioni teoriche del rapporto tra legge civile e legge fiscale e nello studio del fenomeno elusivo (37). Così, anche negli studi di chi non si richiama all’impostazione di Benvenuto Grizziotti si rintraccia una maggiore attenzione agli aspetti sostanziali del prelievo.

(34) B. Griziotti, Lo studio funzionale dei fatti finanziari, in Riv. dir. fin. sc. fin, 1940, I, 306 ss.; Id., L’interpretazione funzionale delle leggi finanziare, ivi, 1949, 349 ss.; Per una valutazione delle tesi di Griziotti cfr. G. Falsitta, Osservazioni sulla nascita e sullo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia, in Rass. trib., 2000, 356-362; (35) Cfr. B. Griziotti, Il principio della realtà economica negli articoli 8 e 68 della legge di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1939, II, 202 ss. (nota a Comm. Prov. imposte di Pavia, 5 maggio 1939). Secondo l’Autore, infatti, l’art. 8 della legge di registro, per il quale le tasse dovevano essere «applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente» doveva essere rivolto alla realtà economica del fatto. «La tangente fiscale», si concludeva, «non può cadere che sull’arrosto, e non sul fumo spettante al contribuente, per virtù della decisione giudiziale». Tale impostazione sarà sviluppata soprattutto da D. Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937. Sul punto si vedano anche le osservazioni di G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 205. (36) Così, tra gli altri, G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 12-13. (37) Si veda per tutti G. Falsitta, L’interpreta­ zione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di G. Maisto, Milano, 2009, 3 ss.


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Si giunge, ad esempio, ad affermare che l’Amministrazione finanziaria potrebbe accertare la simulazione, avvalendosi delle norme all’uopo dettate dal codice civile, ove, come noto, si riconosce ai terzi la possibilità di far valere la simulazione in confronto delle parti, quando essa pregiudica i loro diritti (art. 1415, comma 2, c.c.). D’altro canto, l’intesa simulata, ove soggetta all’obbligo di registrazione, dovrebbe comunque scontare il prelievo ai sensi dell’art. 1415, comma 1, c.c., a mente del quale essa non è opponibile ai terzi di buona fede che abbiano acquistato diritti dal titolare apparente. In questa ricostruzione, l’Amministrazione finanziaria è vista come un terzo, interessato a far valere il proprio diritto nei confronti delle parti che hanno dato vita all’intesa simulata (38). D’altra parte, anche della regola prescritta in materia di tassazione degli atti invalidi si propone una diversa lettura, evocandosi la ricorrenza di un fenomeno di “digressione” dell’atto invalido a mero “fatto” giuridico, in quanto tale produttivo di quegli effetti che la legge ad esso espressamente riconduce (tra cui appunto l’obbligo di registrazione) (39). Del resto, secondo quest’impostazione, la tassazione dell’atto invalido sarebbe giustificata anche dalla rilevanza meramente “economica” che potrebbero assumere le pattuizioni in esso contenute, al cui adempimento le parti potrebbero dare seguito anche al cospetto di una causa di invalidità (40). Non sarebbe quindi la mera “potenzialità” degli effetti a giustificare la tassazione degli atti simulati o invalidi, il che segna, di certo, un primo tentativo di superare le rigidità connesse con la ricostruzione del prelievo come “imposta d’atto”. Nuove occasioni di riflessione sono poi offerte dall’evoluzione della disciplina del registro e, più in generale, dalle innovazioni che investono il sistema fiscale nel suo complesso. Quanto al primo aspetto, può essere ricordata la soppressione della c.d. “analogia di tariffa” contemplata dall’art. 8, comma 2, del R.D. n. 3269/1923, in base alla quale si prevedeva che un atto che per sua

(38) In tal senso si veda la ricostruzione di F. Batistoni Ferrara, Atti simulati e invalidi nell’imposta di registro, cit., 65. (39) In tal senso si veda sempre F. Batistoni Ferrara, Atti simulati e invalidi nell’imposta di registro, cit., 105 ss. (40) «L’amministrazione, come terza, può considerare attuati gli effetti del negozio fino al momento in cui le parti non reagiscono provocando la dichiarazione di nullità perché, in mancanza e se i contraenti eseguono le prestazioni prevedute nel regolamento, quantunque esso non sia impegnativo, l’assenza di effetti negoziali non impedisce l’attuazione di una situazione finale conforme a quella che da essi discenderebbe» Così F. Batistoni Ferrara, Atti simulati e invalidi nell’imposta di registro, cit., 113.


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natura e per i suoi effetti risultasse soggetto a tassa progressiva, proporzionale o graduale, ma non si trovasse nominativamente indicato nella tariffa, fosse soggetto al prelievo stabilito per l’atto con il quale per la sua natura e per i suoi effetti avesse maggiore analogia. Si trattava, invero, di una disposizione giustificata dalla particolare analiticità che caratterizzava la tariffa allegata al R.D. n. 3269/1923, suddivisa in ben 141 articoli e la cui soppressione sembra essere stata motivata proprio dal riordino della stessa in sole 11 voci, elaborate a seguito di un lavoro di raggruppamento di atti e fatti imponibili in categorie omogenee. Ebbene, proprio tale raggruppamento, come evidenziato da attenta dottrina, fondandosi su indici di omogeneità, costituisce un’importante evoluzione delle regole di tassazione, esaltando non più i singoli atti, ma tipologie di “oggetti” ed “effetti”, di cui si finisce per imporre la considerazione (anche unitaria) in funzione dell’assetto contrattuale prescelto (41). Quanto, più in generale, ai riflessi derivanti dall’evoluzione del sistema fiscale, non si può non richiamare l’introduzione del principio di alternatività che oggi regola i rapporti tra IVA ed imposta di registro. La sua declinazione pratica, invero, implica, con ben evidenziato dalla dottrina, una sorta di “contaminazione” (42) tra le due imposte, imponendo una reciproca sovrapposizione degli elementi di definizione del presupposto. Ebbene, la disciplina dell’IVA, nella descrizione della fattispecie tributaria, impiega, come noto, l’espressione “operazione”, che consente, certamente, la valorizzazione unitaria di assetti negoziali complessi (43). Diviene pertanto inevitabile, per fare

(41) Per tali riflessioni cfr. G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro tra tradizione ed evoluzione, cit., 955 ss. (42) Espressione utilizzata sempre da G. Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro tra tradizione ed evoluzione, cit., 955 ss. (43) In questo senso cfr. CGUE, 27 giugno 2013, causa C-155/12, Minister Finansow c. RR Donnelley Global Turkney Solutions Poland sp z.o.o., ove si afferma: «dalla giurisprudenza della Corte emerge che, in determinate circostanze, più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dare così luogo separatamente ad imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un’unica operazione quando non sono indipendenti (sentenze del 21 febbraio 2008, Part Service, C-425/06, Racc. pag. I-897, punto 51, e del 27 settembre 2012, Field Fischer Waterhouse, C-392/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 15)». Nella stessa sentenza si chiarisce, inoltre, che «una prestazione deve essere considerata unica quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono così strettamente collegati da formare, oggettivamente, un’unica prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale (v., in tal senso, sentenze del 27 ottobre 2005, Levob Verzekerigen e OV Bank, C-41/04, Racc. pag. I-9433, punto 22, e Field Fischer Waterhouse,


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corretta applicazione del principio di alternativà, estendere anche al sistema dell’imposta di registro criteri di interpretazione degli atti che valorizzino elementi extratestuali e collegamenti negoziali. Analogo processo di “contaminazione” si è, poi, verificato con la disciplina dell’imposta sugli atti liberali, laddove l’applicazione del prelievo viene, da un lato, estesa anche alle liberalità indirette, purché risultanti da atti soggetti a registrazione, ma, dall’altro, esclusa per le liberalità indirette che risultino collegate con atti di trasferimento o costituzione di diritti immobiliari o di aziende per le quali sia stata assolta l’imposta di registro in misura proporzionale (art. 1, comma 4-bis, del D.lgs. n. 346/1990). Anche qui l’esatta delimitazione del perimetro applicativo dell’imposta sulle donazioni finisce per imporre una valorizzazione del collegamento negoziale nel sistema dell’imposta di registro (44). L’evoluzione normativa, quindi, pare indicare una tendenza verso il superamento della tradizionale concezione del tributo inteso come “imposta d’atto”, tendenza che finisce per rafforzarsi anche grazie ai tentativi di importazione, nel sistema dell’interpretazione degli atti soggetti a registrazione, delle riflessioni sulla causa negoziale nel frattempo elaborate dagli studiosi del diritto civile. Come noto, negli ultimi anni, al tradizionale concetto di causa quale funzione economico-sociale del contratto si è sostituita una visione più attenta alle esigenze concretamente perseguite dalle parti, culminata con l’elaborazione del concetto di causa come funzione economico-individuale (o causa concreta). Secondo la prima concezione, la causa rappresenta la funzione “obiettiva” che il programma negoziale è chiamato ad assolvere nell’economia dell’ordinamento. Ad essa, in altre parole, è riservato il compito di verificare la rispondenza degli interessi privati che si esprimono nel programma negoziale con l’interesse pubblico di cui è latore l’ordinamento (45). Qui si assegna decisiva

cit., punto 16)». Nello stesso senso cfr. anche CGUE, 13 marzo 2014, causa C-464/12, ATP PensionService A/S, punto 58. Le sentenze sono richiamate da A. Carinci, La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, timori antielusivi e fraintendimenti interpretativi, in Rass. trib., 2014, 971. (44) In tal senso cfr. A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1106. (45) Tale ricostruzione, come noto, si deve a E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. Vassalli, XV, 2, Torino, 1960, 172 ss.; per un commento a tale impostazione cfr. M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, Padova, 2015, 81.


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preminenza all’interesse pubblico, tant’è che la libertà negoziale finisce per essere compressa entro gli schemi contrattuali predisposti dall’ordinamento e selezionati in vista della loro attitudine a realizzare l’interesse pubblico (46). L’autonomia privata si riduce così alla scelta delle strutture contrattuali tipizzate, il che implica la sovrapposizione tra causa e tipo negoziale e la relegazione dei “motivi” di carattere soggettivo in un’area di sostanziale irrilevanza giuridica (47). A questa visione si contrappone una concezione che, esaltando il ruolo dell’autonomia privata nel fenomeno giuridico, intende la causa come funzione economico-individuale del contratto, diretta a porre in risalto lo scopo pratico dell’intera operazione economica dei contraenti, onde offrirne una lettura unitaria (48). La causa passa così da essere strumento di controllo, preordinato a arginare il libero dispiegarsi dell’autonomia privata, ad oggetto di controllo, ossia mezzo per constatare in concreto il grado di compatibilità dei valori espressi dal contratto con quelli dell’ordinamento (49). Ciò avviene attraverso in giudizio di “meritevolezza” che investe non solo i contratti atipici, ma anche i contratti tipici (50), dovendosi anche in relazione ad essi verificare la compatibilità in concreto delle finalità perseguite con i valori dell’ordinamento. In tal modo, il giudizio di meritevolezza finisce per interessare l’intera “operazione economica”, intesa come categoria ordinante destinataria del giudizio di compatibilità e resistenza con i valori dell’ordina-

(46) Così S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2012, 106. (47) Così sempre S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, cit. 106; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 51. Sul punto cfr. anche S. Romano, Autonomia privata (Appunti), Milano, 1957, 10 ss. Sulla commistione tra causa e tipo che deriva da tale lettura cfr. invece M. Giorgianni, Causa (dir. priv.), in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 593. (48) In tal senso cfr. G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano 1966, 346 ss.; Id., Tradizione e novità nella disciplina della causa del negozio giuridico (dal codice civile 1865 a codice civile 1942), in Riv. dir. comm., 1986, I, 127; Id., Il negozio giuridico, cit., 123-124; Id., Il problema della causa del negozio giuridico nelle riflessioni di Rosario Nicolò, in Europa dir. priv., 2007, 679. (49) In tal senso cfr. G. B. Ferri, Il negozio giuridico, Padova, 2004, 123; S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, cit., 85; sulla causa come funzione economicoindividuale del contratto cfr. anche M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969; F. Carresi, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, I, Milano, 1987, 245 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, 787 ss. Per la successiva rielaborazione della teoria della causa intesa come funzione economico-individuale del contratto nella teoria della cd. causa concreta cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, 452 ss. (50) Cfr. G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., 256.


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mento (51). Il che porta, ovviamente, ad enfatizzare il ruolo del collegamento negoziale nell’ambito del giudizio causale. Ebbene, dottrina e giurisprudenza non si sono mostrate insensibili alla nuova concezione anche quando si è trattato di estenderne i risultati ai criteri di interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione. Secondo parte della dottrina, infatti, l’emergere di un nuovo concetto di causa non può lasciare indifferente l’interprete chiamato a selezionale gli effetti negoziali rilevanti per l’applicazione del’imposta. Si propone, in questo senso, una rilettura di alcune disposizioni presenti nel TUR per tener conto del nuovo contesto, immaginandosi, ad esempio, che l’art. 21, laddove indica in modo esplicito la necessità di valorizzare unitariamente più disposizioni presenti in uno stesso atto solo se obiettivamente collegate, non pregiudichi, altresì, la considerazione unitaria di diposizione ugualmente collegate, ma contenute in atti distinti, come invece, tradizionalmente ritenuto dalla maggioranza dei commentatori (52). Ancora, con il conforto (addirittura) della prassi amministrativa (53), si immagina che la tassazione proporzionale degli atti di risoluzione negoziale (secondo un’impostazione che pare richiamare la già ricordata idea dell’imposta di “retrocessione”) non rappresenti l’unica lettura possibile delle disposizioni contenute nell’art. 28, ove l’imposizione proporzionale sarebbe in realtà espressamente prescritta soltanto per il “corrispettivo” previsto per la risoluzione e per le eventuali ulteriori “prestazioni” da essa derivanti (54). Sicché laddove con la risoluzione ci si limiterebbe semplicemente al ripristino della

(51) In tal senso E. Gabrielli, L’operazione economica nella teoria del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 905 ss., ed in “Operazione economica” e teoria del contratto, Milano, 2013, 74; Id., Il contratto e le sue classificazioni, in Riv. dir. civ., 1997, I, 719). (52) In tal senso si vedano le riflessioni di S. Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni nel sistema dell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 296. (53) Cfr. la Ris. 14 febbraio 2014, n. 20/E (in banca dati Fisconline), per la quale «Nel caso di risoluzione per “mutuo consenso” di un precedente atto di donazione avente per oggetto un bene immobile, senza previsione di un corrispettivo, le parti si obbligano in linea generale, alla sola restituzione del bene immobile. Tenuto conto dell’effetto eliminativo che esplica l’atto di risoluzione per “mutuo consenso”, si ritiene che tale fattispecie non integra il presupposto per l’applicazione della disciplina prevista per i trasferimenti immobiliari dall’art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al TUR, e la consegna dell’immobile all’originario proprietario non assume rilievo ai fini dell’imposta proporzionale di registro». (54) In tal senso cfr. V. Mastroiacovo, La rilevanza tributaria del mutuo dissenso e delle prestazioni derivanti dalla risoluzione, cit., 16; contra, invece, A. Busani, La risoluzione del contratto per effetto di “mutuo dissenso”, in Dir. prat. trib., 2016, II, 2115 ss.


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situazione precedente, non potendosi individuare, in tale atto di ripristino, una vera e propria “prestazione”, potrebbe escludersi la tassazione proporzionale. Infine, anche della regola prevista dall’art. 38 del Testo Unico in materia di tassazione degli atti invalidi si è posta in dubbio la compatibilità con i valori costituzionali (55). Si è insomma preso atto dell’evoluzione della disciplina dell’imposta e dell’inadeguatezza dell’espressione “imposta d’atto” a cogliere la complessità del contesto economico con cui anche l’imposta di registro finisce oggi inevitabilmente per doversi confrontare. In quest’ottica, vi è anche chi, esaltando il collegamento che l’art. 20 istituisce tra l’applicazione del prelievo e gli effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione ha proposto di sostituire all’espressione “imposta d’atto”, la locuzione “imposta di negozio” (56), che segnerebbe il sostanziale abbandono di una visione del prelievo legata agli effetti meramente “potenziali” dell’atto. Di certo, però, la più ampia valorizzazione del concetto di “causa concreta” si deve alla giurisprudenza di legittimità, che, oramai da molti anni, ha impiegato tale nozione per giustificare la tassazione unitaria di più atti separatamente presentati per la registrazione, laddove si è ritenuto in essi si esprimesse un’unica “operazione economica”. Si tratta dei già menzionati casi di conferimento di azienda e successiva cessione delle partecipazioni (e delle numerose varianti che tale schema può conoscere) (57), che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di poter riqualificare come cessione di azienda ricorrendo, appunto, all’impiego del concetto di “causa in concreto”. Nello stesso

(55) A. Fedele, Nullità di atti e contratti ed integrazione della fattispecie imponibile, in AA.VV., Sistema impositivo e ordinamento dei tributi. Liber amicorum per Andrea Parlato, a cura di A. Di Pietro, A. Fedele, A.F. Uricchio, Bari, 2014, I, 283. (56) Così G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 181. (57) Si veda ad esempio Cass., 18 dicembre 2015, n. 25484 (in banca dati Le leggi d’Italia), ove, all’esito di una procedura pubblica un fondo pensione costituiva una società veicolo alla quale conferiva il proprio patrimonio immobiliare. L’intera partecipazione era poi ceduta ad una terza società, interamente partecipata dalla sub-holding, che faceva capo alla società vincitrice della gara, la quale, all’esito dell’operazione, incorporava entrambe le società partecipate. Come già accennato, oltre al conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni, vi è l’ipotesi del conferimento di un immobile gravato da mutuo ipotecario seguito dalla cessione delle partecipazioni (peraltro, nel caso esaminato da Cass., Sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319, il conferimento di immobili beneficiava dell’agevolazione prevista dall’art. 8, comma 1-bis, del D.L. n. 351/2001). Cfr. D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. registro, cit., 656-657.


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senso, d’altra parte si è opinato nel caso di cessione frazionata del compendio aziendale, cui si ricorre per evitare il pagamento dell’imposta proporzionale sulla cessione d’azienda (per il cui calcolo della base imponibile andrebbe altresì conteggiato il valore dell’avviamento), tenendo presente che l’alienazione dei singoli cespiti sconta, invece, l’applicazione dell’IVA, detraibile per il cessionario (58). Insomma, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’art. 20, nel connettere l’applicazione dell’imposta agli effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione, avrebbe consentito la valorizzazione del collegamento negoziale apprezzabile nell’ottica della “causa concreta” dell’operazione economica condotta. Peraltro, se in origine all’art. 20, così inteso, è stata espressamente riconosciuta una funzione “antielusiva” (59), più recentemente la Suprema Corte sembra essersi limitata alla ricerca della “causa reale” dell’operazione, senza che a tale ricerca sia stata attribuita, se non latu sensu (e solo in alcuni casi), alcuna funzione antielusiva (60). Come già accennato, l’orientamento della Suprema Corte ha suscitato profonde critiche nella dottrina, critiche che, invero, hanno soprattutto messo in luce la difficile compatibilità delle soluzioni prospettate con la tradizionale ricostruzione del prelievo. Si è detto, infatti, che, pur attraverso l’impiego di concetti nuovi (quali il concetto di causa concreta) che parrebbero mantenere l’indagine su di un piano squisitamente giuridico, mediante la valorizzazione del collegamento negoziale si finirebbe per reintrodurre, in realtà, un sindacato sulla sostanza economica degli atti sottoposti a registrazione, di certo preclusa dalla formulazione della norma adottata dopo la riforma degli anni ’70 (61).

(58) Sulla cessione frazionata del compendio aziendale, in giurisprudenza cfr. Cass., Sez. I, 23 gennaio 1990, n. 353, in Rass. trib., 1990, 11, 299, con nota di S. La Rosa, Cessione d’azienda e cessione di beni tra imposta di registro ed iva; Cass., Sez. I, 26 luglio 1993, n. 8365, in banca dati Le leggi d’Italia; Comm. Trib. Centr., Sez. XVI, 15 dicembre 1995, n. 4291, in Corr. trib., 1996, 1587, ed in Riv. dir. trib., 1996, II, 1165, con nota di A. Carinci, Il trasferimento di azienda ai fini Iva e registro: il problema della nozione di azienda ai fini fiscali. Più di recente, Cass., Sez. trib., 16 aprile 2010, n. 9163, in GT - Riv. giur. trib., 2010, 591, con nota di A. Busani, Imposta di registro e “spezzatino d’azienda”. (59) Richiamano espressamente la funzione antielusiva dell’art. 20 del TUR, Cass. 21 gennaio 2011, n. 1372; Csss. 28 giugno 2013, n. 16345; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26060 (tutte in banca dati Le leggi d’Italia) sul punto cfr. D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. registro, cit. 654-655. (60) Si veda in tal senso la già ricordata Cass., Sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319. (61) Per una rassegna delle varie posizione cfr. G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20


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Tuttavia, se per un verso le critiche sollevate dalla dottrina attestano il disagio degli operatori di fronte al nuovo approccio della giurisprudenza, sotto altro profilo esse sono apparse, in molti casi, troppo legate ad una concezione ormai superata del prelievo (62). Il che non vuol dire che la strada intrapresa dalla giurisprudenza (che il legislatore ha da ultimo tentato di correggere), possa reputarsi, anche nell’ambito di una rinnovata concezione del prelievo, realmente appropriata, posto che, come ora vedremo, la giurisprudenza parrebbe essersi spinta oltre i limiti giuridici che dovrebbero essere posti all’impiego del concetto di causa concreta ed alla conseguente valorizzazione del collegamento negoziale. 3. Causa concreta e collegamento negoziale dal diritto civile al sistema dell’imposta di registro. – All’estensione del concetto di causa concreta anche all’interpretazione dei contratti nel diritto tributario si è tradizionalmente guardato con diffidenza. Si tende a ritenere, infatti, che la valorizzazione dello scopo pratico del contratto e, più in generale, dell’operazione economica, se trasferita nel diritto tributario finisca per implicare la reintroduzione di un sindacato sulla sostanza economica degli assetti negoziali adottati a scapito della forma giuridica (63). Si afferma che, nell’attuale sistema, le manifestazioni di ricchezza che si esprimono attraverso atti di autonomia privata, allorché recepite nel presupposto di una fattispecie d’imposta, verrebbero assunte nella veste loro conferita dalla legge civile. Il diritto tributario (si osserva) è un diritto di “secondo grado”, in quanto assume a presupposto delle fattispecie d’imposta fatti economici che sono già oggetto di qualificazione da parte del diritto civile, sicché, in mancanza di indicazioni esplicitamente difformi, sarebbe proprio nella forma loro attribuita dalla legge civile che tali fatti economici dovrebbero essere assunti dalla fattispecie tributaria (64). L’assunzione del fatto economico nella qualificazione ad esso impressa dalla legge civile diviene, in tal modo, funzionale a garantire la certezza del prelievo, poiché evita la possibilità di riqualificazioni fondate

T.U. Registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, cit., 919 ss. (62) In tal senso si vedano le riflessioni di G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 51 ss. (63) Così G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit. 284. (64) In tal senso cfr. S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992,81; A. Carinci, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi. Profili sostanziali, Padova, 2003, 25


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sulla valorizzazione di una presunta sostanza economica dei fenomeni (65). Il superamento della forma giuridica, in questa prospettiva, è ammesso soltanto nei limiti indicati dalla presenza di eventuali norme antielusive, la cui funzione sarebbe proprio quella di consentire l’ingresso di un sindacato sulla sostanza economica degli atti di autonomia privata, laddove non vi corrisponda la forma giuridica adottata. Si rifiuta, infatti, anche il ricorso alla figura della frode alla legge disciplinata dall’art. 1344 c.c., considerata la difficoltà a ravvisare nelle norme tributarie il requisito della imperatività richiesto dal parametro di legalità indicato nella norma ora richiamata (66). Tuttavia, si riconosce alle clausole antielusive generali una funzione sostanzialmente analoga a quella assolta dal divieto di frode alla legge nel diritto civile, sia pure con l’inevitabile diversità degli effetti, laddove, nel diritto civile, per il negozio in frode alla legge si prevede la sanzione della nullità, mentre, nel diritto tributario, per le condotte elusive ci si limita al rimedio dell’inopponibilità (67). Se così è, le tecniche d’interpretazione degli atti di autonomia privata fondate sull’impiego della causa concreta e sulla valorizzazione del complessivo assetto d’interessi che si esprime attraverso un’operazione economica risulterebbero precluse nella materia fiscale, proprio perché, laddove finalizzate a rivelare l’interesse concreto perseguito, potrebbero facilmente essere adottate dall’Amministrazione per giustificare la riqualificazione ai fini fiscali dei contratti. L’opzione per l’adozione di clausole antielusive ispirate al modello della frode alla legge, in altre parole, attesterebbe l’inammissibilità, nella materia fiscale, di tecniche interpretative fondate sulla valorizzazione del concetto di

(65) Sul punto cfr. P.M. Tabellini, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, Padova, 1995, 224-225. (66) Favorevole ad estendere l’art. 1344 del cod. civ. alla materia tributaria è stato, F. Gallo, Brevi spunti in tema di elusione e frode alla legge (nel reddito d’impresa), in Rass. trib., 1989, I, 11 ss.; Id., Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge, in Giur. Comm., 1989, I, 337 ss. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha tendenzialmente escluso la natura imperativa della norma tributaria (così Cass., Sez. trib., 3 aprile 2000, n. 3979 e Cass., Sez. trib., 3 settembre 2001, n. 11351, entrambe in banca dati Le leggi d’Italia. In senso opposto si è tuttavia posta più di recente Cass., Sez. trib., 26 ottobre 2005, n. 20816, in Dir. prat. trib., 2006, II, 248, con nota di G. Corasaniti, La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte). (67) Il rimedio della nullità sarebbe infatti assolutamente sproporzionato nel diritto tributario In tal senso, tra gli altri, G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 234; G. Chinellato, Codificazione tributaria e abuso del diritto, Padova, 2005, 195.


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causa concreta (68), il che troverebbe conferma nell’opinione di chi ha ritenuto che, anche nel diritto civile, la presenza dell’art. 1344 c.c. si rivelerebbe incompatibile con il concetto di causa in concreto. L’adesione alla tesi della causa concreta, consentendo di estendere il giudizio di meritevolezza all’intera operazione economica, renderebbe, infatti, superfluo l’art. 1344 c.c., posto che, così opinando, si finisce per ritenere che l’aggiramento delle norme imperative potrebbe essere contrastato ricorrendo direttamente all’art. 1343 c.c. Ciò perché, ove sia l’operazione economica ad essere assunta ad oggetto del giudizio di meritevolezza, l’aggiramento della norma imperativa che con essa si persegue finisce per rappresentare esso stesso una violazione diretta del divieto posto dall’art. 1343, senza necessità di ricorrere all’art. 1344, che in tal modo finisce per perdere di utilità (69). Ma se così, estendere alla materia fiscale la valorizzazione della causa concreta significherebbe ammettere un sindacato sulla sostanza economica di un’operazione al livello direttamente interpretativo, senza necessità di una esplicita norma antielusiva. Si tratta di sospetti tutt’altro che infondati, posto che l’esperienza applicativa attesta numerosi tentativi di impiego, da parte della giurisprudenza, del concetto di causa concreta per giustificare riqualificazioni negoziali ai soli fini antielusivi, anche ben al di là dell’ambito dell’imposta di registro. In passato, infatti, al concetto di causa in concreto si è guardato per motivare il disconoscimento dei benefici fiscali conseguiti mediante operazioni di dividend washing, di cui si è affermata la carenza di causa in concreto proprio perché dirette esclusivamente al conseguimento di un beneficio fiscale, senza ulteriori effetti tra le parti (70). Per tali ragioni, constatata la presunta assenza di una

(68) In tal senso si vedano sempre le riflessioni di G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 284. (69) Si è affermato, infatti, che l’adesione alla causa concreta renderebbe il collegamento negoziale operato per eludere una norma imperativa censurabile direttamente facendo leva sull’art. 1343 c.c. In tal senso alla categoria della frode alla legge non residuerebbe alcuna utilità concreta. Così si esprime G. Passagnoli, La frode alla legge, in Trattato del contratto, II, Regolamento, Milano, 2006, 481; Sulla stessa linea F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, 824. (70) Cass., Sez. trib., 21 ottobre 2005, n. 20398, in Corr. trib., 2005, 3653; Cass., Sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932, in GT - Riv. giur. trib., 2006, 212, con commento di M. Beghin, L’usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria ed interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale. Più nel dettaglio, nel caso del dividend washing l’operazione consisteva nell’acquisto e nella successiva rivendita di partecipazioni a cavallo della distribuzione dei dividendi tra un fondo di investimento ed una società di


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causa concreata dell’operazione, si è giunti a disconoscerne gli effetti affermando la nullità per assenza di uno dei requisiti essenziali del contratto (71). Tuttavia, non pare scontato che un simile approdo sia realmente coerente con le premesse logiche poste a fondamento dell’elaborazione del concetto di causa in concreto. Così intesa, infatti, tale la nozione sembra abdicare proprio alle finalità per le quali essa è parsa essere originariamente concepita (nei termini di funzione economico-individuale del contratto), ossia all’esaltazione dell’autonomia privata nell’ambito del fenomeno giuridico. In quest’ottica, già si è detto di come il concetto di causa intesa come funzione economicoindividuale nasca per reazione alla nozione di causa intesa come funzione economico-sociale, con l’intento di esaltare il ruolo dell’autonomia privata nel sistema del diritto civile. Se nella visione antecedente la causa è intesa quale strumento di controllo dell’autonomia dei privati, che difficilmente può esprimersi al di fuori degli

capitali. In tal modo, il fondo, che, considerato il regime di tassazione di tipo patrimoniale cui era sottoposto (art. 9, comma 1, della legge 23 marzo 1983, n. 77), non poteva beneficiare del credito d’imposta sui dividendi ma fruiva dell’esenzione sui capital gain, realizzava una plusvalenza esente a seguito della cessione delle partecipazioni ad una società che, al momento della distribuzione dei dividendi, aveva, invece, la possibilità di beneficiare del credito d’imposta. Tale operazione si concludeva con il riacquisto della partecipazione da parte del fondo, e con la connessa contabilizzazione di una minusvalenza deducibile per la società di capitali che aveva preso parte all’operazione. (71) Nello stesso senso, più di recente, si è orientata l’Amministrazione finanziaria per contestare le c.d. operazioni di stock lending. Con il contratto di stock lending un soggetto (prestatore o lender) consegna dei titoli (corrispondenti ad una partecipazione di una società solitamente residente nella zona franca di Madeira) ad un altro soggetto (borrower), il quale ne acquisisce la proprietà ai sensi dell’art. 1814 c.c., con l’impegno a restituire alla scadenza titoli equivalenti a quelli ottenuti in prestito. Contestualmente al trasferimento della proprietà dei titoli, il borrower costituisce una garanzia (detta collateral), in favore del prestatore, per assicurare quest’ultimo dal rischio di un eventuale inadempimento dell’obbligo di riconsegna dei titoli. Il contratto prevede, inoltre, che laddove i dividendi distribuiti dalla società le cui partecipazioni formano oggetto del contratto siano inferiori ad un importo prestabilito, il borrower ha diritto a trattenerli senza pagare alcuna commissione. Laddove, invece, i dividendi siano superiori all’importo prestabilito, il borrower deve corrispondere al lender una somma pari ai dividendi percepiti, maggiorati di una percentuale pattuita nel contratto. L’operazione consente, quindi, al borrower l’incasso di dividendi esenti nella misura del 95 per cento e la deduzione dei costi connessi con la commissione dovuta al lender. In questi casi, l’Amministrazione ha invocato la nullità dell’operazione asserendone il carattere solo formalmente aleatorio, derivante dal fatto che i risultati, in termini di dividendi erogati, potevano essere artatamente accomodati in modo da garantire il migliore effetto fiscale per il borrower italiano. (sul tema si consenta il rinvio a G. Giusti, Le operazioni di stock lending tra evasione, elusione e legittimo risparmio d’imposta, in Riv. dir. trib., 2018, II, 44 ss).


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angusti limiti dei tipi all’uopo predisposti dal codice civile (72), nella nuova concezione alla causa è rimesso il compito di verificare la compatibilità dei valori che si esprimono attraverso manifestazioni di autonomia con i valori di cui è portatore l’ordinamento. È vero, quindi, che oggetto del giudizio causale diviene l’interesse perseguito dalle parti per come esso emerge attraverso l’esame dell’operazione economica nella sua interezza (73), ma a ciò corrisponde un’interpretazione del parametro della meritevolezza che non può che risolversi nella mera legalità (74). Quindi, soltanto quando l’interesse perseguito dal contratto (e più in generale dall’operazione economica) non sia in linea con i criteri enunciati dall’art. 1343 c.c. (norme imperative, ordine pubblico, buon costume), esso non appare meritevole di tutela (75). È evidente, quindi, l’intenzione di ampliare l’area di rilevanza della libertà negoziale, ammettendo alla tutela espressioni di autonomia privata non riconducibili ai tipi astrattamente indicati dal legislatore, in una prospettiva che esalta l’interesse individuale rispetto all’interesse pubblico. L’abbandono del concetto di causa come funzione economico-sociale del contratto, in altre parole, segna il trionfo della posizione dell’individuo sul ruolo dello Stato. Se così è, immaginare di estendere l’oggetto del giudizio di meritevolezza a parametri esterni a quelli di mera legalità rappresenta forse un tradimento del concetto di causa intesa come funzione economico-individuale del contratto. Come noto, ad una simile conclusione si è pervenuti all’esito di una rimeditazione della concezione della causa come funzione economico-individuale del contratto, che ha portato all’elaborazione della nozione di causa in concreto. In questa lettura si condivide l’estensione del giudizio causale all’intera operazione economica, ma si estende il parametro del giudizio di meritevolezza ad una verifica sulla conformità dei valori espressi dal contratto con quelli

(72) In tal senso, come visto, la posizione espressa da E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 165 ss. (73) Così E. Gabrielli, L’operazione economica nella teoria del contratto, cit., 905 ss. (74) In tal senso cfr. M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, cit., 121, che rileva «Non è un caso, però, che ad un oggetto così apparentemente allargato del giudizio causale (e ad una funzione individuale che guarda all’interesse soggettivo e che così sembra sconfinare nei motivi,) faccia riscontro, in questa dottrina, un intendimento del parametro della meritevolezza che si risolve nella mera legalità». (75) Così G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit. 406.


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della comunità rintracciabili nei principi costituzionali, che vengono riletti secondo una concezione sociale solidaristica dell’ordinamento (76). Si tratta con tutta evidenza, di una rilettura del concetto di causa che finisce, quasi paradossalmente, per ampliare il controllo dello Stato sulle manifestazioni di autonomia privata e che quindi sembra difficilmente compatibile con lo spirito con il quale è stato elaborato il concetto di causa come funzione economico-individuale. Inoltre, se l’estensione del giudizio di meritevolezza al di là dei parametri di legalità può (sia pure con qualche riserva) ammettersi nei rapporti tra privati, essa appare di certo una forzatura laddove riferita al rapporto giuridico d’imposta. Qui l’ammissibilità di una verifica sulla meritevolezza dell’interesse che investa le eventuali finalità fiscali perseguite dai contraenti non può che postulare l’esistenza di un parametro di legalità all’uopo predisposto. In altre parole, in assenza di un parametro di legalità, potremmo dire di un criterio esterno di valutazione di adozione legale, la valorizzazione del concetto di causa in concreto e del collegamento negoziale può certamente essere in grado di rivelare le finalità (anche di risparmio fiscale) concretamente perseguite attraverso l’adozione di un determinato schema negoziale, ma non pare sufficiente a fondare una reazione ordinamentale orientata al disconoscimento di tale schema negoziale ed alla sua riqualificazione in uno schema diverso, attraverso il quale sia, in ipotesi, possibile conseguire il medesimo risultato, ma con un diverso carico fiscale (77).

(76) Così C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, cit., 459-460. Sul punto osserva M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, cit., 129 che «A questa estensione del giudizio causale, che la dottrina della causa concreta condivide con la dottrina della funzione economico-individuale, non si accompagna, però, un eguale contenimento del suo compito a mero controllo di legalità del contratto». (77) Si guarda, quindi, con diffidenza all’idea che nel nostro ordinamento il divieto di abuso del diritto possa rappresentare un principio generale non scritto di cui le norme antielusive generali (oggi l’art. 10-bis dello Statuto, in precedenza l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973) rappresentino la mera traduzione sul piano normativo, ma la cui applicazione dovrebbe essere riconosciuta anche in assenza di una disposizione espressa (in tal senso come noto si è espressa la giurisprudenza di legittimità con Cass. Sez. Un. 23 dicembre 2008, n. 30055; Cass., Sez. Un. 23 dicembre 2008, n. 30056; Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30057 (tutte in banca dati fisconline). Anche la dottrina, d’altro canto, ha di recente evidenziato che il divieto di abuso del diritto debba essere considerato un principio immanente al sistema, di cui l’art. 10-bis dello Statuto rappresenterebbe soltanto la traduzione sul piano normativo. In tal senso cfr. P. Boria, La formazione giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto in materia fiscale, in GT- Riv. giur. trib., 2017, 661 ss. (nota a Cass., Sez. VI, Ord. 18 aprile 2017, n. 9771).


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Per tali ragioni si fatica a condividere l’impiego che del concetto di causa in concreto è stato proposto da parte della giurisprudenza di legittimità in materia tributaria, sia in riferimento all’interpretazione degli atti nel sistema dell’imposta di registro, sia con riguardo agli altri settori impositivi. Così, appare difficile ritenere che l’adozione di uno schema negoziale anche orientato esclusivamente al conseguimento di un risparmio d’imposta sia carente della sua causa in concreto, posto che proprio tale finalità potrebbe ben essere assunta ad idonea base causale di un’operazione economica, rappresentando certamente, il risparmio fiscale, un risultato “economicamente” apprezzabile, e, in assenza di una norma che disponga in senso opposto, pienamente legittimo (78). Ebbene, le considerazioni sin qui sviluppate consentono di riprendere nuovamente l’analisi dei criteri di interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione elaborati dalla giurisprudenza di legittimità nella vigenza dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986 antecedente alle modifiche da ultimo adottate, per verificarne la compatibilità con la nozione di causa in concreto in questa sede delineata. Come osservato, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità l’art. 20, sino alle recenti modifiche, avrebbe consentito la ricerca della causa reale dell’operazione perseguita attraverso più atti separatamente presentati per la registrazione, e per tale via, la loro riqualificazione unitaria in vista dell’applicazione del prelievo. Si tratta, però, di un approdo che difficilmente sembra rivelarsi compatibile con il concetto di causa come funzione economico-individuale poc’anzi delineato (79). La valorizzazione della causa concreta dell’operazione, infatti,

(78) Cfr. G. Perlingieri, Profili civilistici dell’abuso tributario. L’inopponibilità delle condotte elusive, Napoli, 2012., 70. In tal senso anche D. Stevanato, Le “ragioni economiche” nel dividend washing e l’indagine sulla “causa concreta” del negozio, in Rass. trib., 2006, 322. (79) Non sembra un caso, da questo punto di vista, che nella più recente giurisprudenza di legittimità sull’art. 20 del TUR il concetto di causa concreta si sovrapponga al concetto di causa come funzione economico-sociale del contratto. Si osserva, infatti, che «La qualificazione interpretativa prescritta dal citato art. 20, ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale, concreta e oggettiva: quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concerta dell’operazione complessiva, ossia la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione», aggiungendosi, però, che «Del resto, la rilevanza dell’obiettiva funzione economico-sociale in concreto posta in essere trova un indiretta conferma nel principio dell’irrilevanza dei singoli motivi soggettivi, che si ricava, a contrario, dall’art. 1345 c.c., in tema di rilevanza del motivo illecito comune alle parti che sia stato l’unica spinta determinante a compiere il negozio» (così Cass., Sez. trib., 23 febbraio 2018, n. 4407).


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se può consentire di estendere l’indagine a tutti i passaggi in cui essa si articola, per rivelarne la sua natura unitaria, non consente di guardare esclusivamente al risultato finale conseguito senza un adeguato apprezzamento del percorso negoziale prescelto per il raggiungimento del medesimo. Si è detto, infatti, che nella prospettiva della causa concreta l’indagine sulla base causale dell’operazione risultante dal collegamento negoziale si aggiunge e non elimina l’indagine sulla causa delle forme negoziali in cui i singoli passaggi si esprimono (80). Così, nella prospettiva della causa concreta, eventuali patologie che investono uno dei passaggi dell’operazione si trasferiscono all’intero assetto negoziale, privandolo della sua base causale, ma ciò non comporta la totale irrilevanza dei singoli passaggi in cui si esprime l’articolazione interna dell’operazione (81). Per fare un esempio, ove si accerti l’esistenza di un collegamento negoziale tra un conferimento d’azienda e la successiva cessione di quote si potrà immaginare che eventuali patologie del primo passaggio della sequenza si riflettano anche sul secondo passaggio, ma difficilmente si potrà ammettere la riqualificazione unitaria dell’intera operazione nei termini di una cessione di azienda, in quanto, in tal modo, si finirebbe proprio per obliterare un fondamentale elemento che caratterizza la concreta base causale dell’operazione, ossia il risparmio fiscale. Per giungere ad una simile conclusione occorre, come detto, rintracciare un parametro di legalità che confermi l’illiceità di tale schema e ne consenta la riqualificazione (anche ai soli fini fiscali) nei termini di cessione di azienda

(80) Più precisamente, «il collegamento è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono nell’ambito dell’autonomia contrattuale un risultato economico unitario e complesso non per mezzo di un singolo contratto ma attraverso una pluralità coordinata di contratti ciascuno dei quali pur conservando una causa autonoma, è finalizzato ad un unico regolamento di interessi, sicché le vicende che investono uno dei contratti, quali quelle relative all’invalidità, l’inefficacia o la risoluzione possono ripercuotersi sull’altro» (così Cass., Sez. II, 26 maggio 1999, n. 5122, in banca dati Le leggi d’Italia). (81) In materia di leasing finanziario si è ad esempio osservato che «È proprio l’interesse al godimento da parte dell’utilizzatore della cosa (che il finanziatore al medesimo procura presso il fornitore) a venire in tale ipotesi essenzialmente in rilievo, e che l’operazione negoziale in questione è sostanzialmente volta a realizzare […], costituendone pertanto la causa concreta, con specifica ed autonoma rilevanza rispetto a quella - parziale - dei singoli contratti, di questi ultimi connotando la reciproca interdipendenza (sì che le vicende dell’uno si ripercuotono sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia) nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale, a tale stregua segnandone la distinzione con il negozio complesso o con il negozio misto» (Cass., Sez. III, 27 luglio 2006, n. 17145, in banca dati Le leggi d’Italia).


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onde adeguarvi la tassazione applicabile. Occorre chiedersi, quindi, se l’art. 20 del T.U. n. 131/1986, laddove, nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche da ultimo introdotte, disponeva l’applicazione dell’imposta secondo gli effetti giuridici degli atti anche se non vi corrispondesse il tiolo o la forma apparente, potesse effettivamente rappresentare tale parametro di legalità, come evidentemente ipotizzato dalla giurisprudenza di legittimità. 4. Il divieto di abuso del diritto e la precedente versione dell’art. 20 del TUR. – Un’accurata ricostruzione proposta alla vigilia della riformulazione dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986 ha prospettato un’interessante e per certi versi inedita lettura della regola prevista per l’interpretazione degli atti soggetti a registrazione e dei suoi rapporti con il divieto di abuso del diritto normativamente contemplato dall’art. 10-bis dello Statuto (82). Anche qui la riflessione si avvia prendendo atto dell’evoluzione che ha caratterizzato la struttura del prelievo, per metterne in discussione la tradizionale visione nei termini di “imposta d’atto”. Viene, pertanto, proposto un aggiornamento nella ricostruzione della natura giuridica del tributo, che si compendia nell’adozione dell’espressione “imposta di negozio” (83) in luogo della ormai datata locuzione “imposta d’atto”, che dovrebbe implicare l’abbandono di criteri di esegesi degli atti sottoposti a registrazione fondati sulla valorizzazione degli effetti meramente “potenziali” ad essi riconducibili. Ciò consentirebbe l’impiego di criteri interpretativi fondati anche sull’esaltazione del collegamento negoziale, ma (ed è qui l’aspetto più innovativo della ricostruzione) senza dare ingresso a valutazioni fondate sulla base di un parametro esterno all’art. 20 del Testo Unico, quale quello rappresentato dal divieto di abuso del diritto previsto dal’art. 10-bis dello Statuto. Si osserva, infatti, che il predetto art. 10-bis, nell’ammettere un sindacato sulla sostanza economica delle operazioni, introdurrebbe un criterio di valutazione della condotta non compatibile con quello indicato dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986, evidentemente incentrato sulla ricerca dei soli effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione (84).

(82) Ci si riferisce alla tesi di G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., passim. (83) Così sempre G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 182. (84) Si osserva, infatti, che «Nel D.P.R. n. 131 del 1986, infatti, l’art. 20 autorizza il ricorso a tecniche ermeneutico/qualificatorie tese a valorizzare gli effetti giuridici complessivi


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A tali conclusioni si perviene, invero, all’esito di una approfondita analisi della genesi del divieto di abuso del diritto e della sua traduzione in una norma di diritto positivo, mettendone in luce l’origine comunitaria e la sua conseguente inadeguatezza a regolare settori in cui il prelievo insiste su attività tendenzialmente estranee al mondo dell’impresa. La disciplina con cui il divieto di abuso del diritto è stato normativamente tradotto sia al livello comunitario che al livello nazionale ne attesterebbe, infatti, anche sul piano lessicale, un impiego da circoscrivere a comportamenti adottati nell’esercizio di attività imprenditoriali (85), laddove l’imposta di registro colpirebbe, secondo la sua natura tradizionale, trasferimenti di ricchezza estranei al mondo dell’impresa e del commercio (86).

di più atti sottoposti a registrazione in funzione del loro collegamento», aggiungendosi che «L’ambito sistematico del registro è, pertanto, quello dei reali effetti giuridici e non dell’abuso del diritto in materia tributaria come disciplinato dall’art. 10-bis pervaso dal criterio della sostanza economica della fattispecie da sottoporre a tassazione» (così G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 181-183). (85) La nozione di condotta abusiva contenuta nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente ricalca, come noto, la definizione proposta dalla Raccomandazione n. 2012/772/ UE della Commissione Europea, che aveva sollecitato gli Stati membri ad introdurre una norma antiabuso che recepisse anche nel settore della fiscalità diretta le indicazioni fornite al riguardo dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia per la fiscalità armonizzata. Chiaro, da questo punto di visto, il riferimento a pratiche abusive che si realizzano nel contesto di attività d’impresa laddove, nel definire il concetto di “costruzione di puro artificio” si precisa che «una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale» (punto 4.4.). Anche la definizione nazionale, d’altro canto, si rivela orientata verso condotte adottate nell’esercizio di attività d’impresa, laddove, nel definire le valide ragioni extrafiscali che escludono il configurarsi si una condotta abusiva, le individua in quelle che «rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente». Sul punto G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 140. (86) In tal senso si esprime anche G. Fransoni, La Cassazione e i contratti conclusi mediante scambio di corrispondenza: una soluzione di buon senso che enfatizza le criticità dell’imposta di registro (nota a Cass., Sez. VI-T, 26 luglio 2018, n. 19799), in Riv. dir. trib., supplemento online del 1° agosto 2018, con la quale si è ammessa la tassazione in misura fissa per i contratti stipulati mediante “scambio di corrispondenza” anche quando la proposta e l’accettazione siano scambiate de praesenti. Secondo l’A., infatti, l’art. 1, della Tariffa, parte seconda, allegata al TUR (che stabilisce l’imposizione in misura fissa dei contratti stipulati mediante scambio di corrispondenza) discende dall’art. 44, allegato D, del R.D. n. 3269/1923, ai sensi dei quale erano soggette a registrazione solo in caso d’uso «Le lettere con le quali i commercianti usano scambiare tra loro proposte e accettazioni di affari o che contengono mandati, commissioni od obbligazioni, in quanto abbiano per oggetto atti di commercio, e corrispondenza tra commercianti, e non commercianti sempreché abbiano per oggetto atti del commercio esercitato dal commerciante». Secondo l’A., «Si delineava così un’area di


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Proprio per tali ragioni, il divieto di abuso del diritto, siccome codificato nell’art. 10-bis della legge n. 212/2000, si rivelerebbe norma non applicabile al sistema dell’imposta di registro, i cui criteri di valutazione degli atti andrebbero ricavati esclusivamente nel perimetro applicativo dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986. Tale posizione, sebbene, in controtendenza rispetto alla generalmente riconosciuta applicabilità dell’art. 10-bis anche al sistema del registro (87), è parsa aver trovato appiglio non solo in quella giurisprudenza di legittimità che, come ricordato, ha negato valenza antielusiva all’interpretazione degli atti ex art. 20 del Testo Unico, ma anche nella recente prassi con la quale, nel valutare l’elusività di un’operazione, si è distinto il settore delle imposte sui redditi, per il quale la valutazione è stata compiuta secondo i criteri espressi dall’art. 10-bis dello Statuto, dal settore dell’imposta di registro, per il quale si è precisata la necessità di considerare i criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza e fondati sulla valorizzazione della causa reale dell’operazione (88).

inapplicabilità dell’imposta di registro riferita ai “contratti di commercio” che, in qualche misura, poteva essere assimilata a quella realizzata per l’imposta sulle assicurazioni. Le due soluzioni riflettevano, infatti, l’idea di una funzione e di un rilievo specifico dei contratti nell’ambito dell’attività d’impresa: essendo questa un’attività intrinsecamente negoziale, un’imposta sugli atti o sulle modificazioni patrimoniali qualitative dagli stessi implicate non è suscettibile di essere giustificata alla stessa stregua e sulle medesime basi di quella sugli atti e sulle modificazioni patrimoniali dei privati». (87) In tal senso, tra gli altri, G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, cit. 921; A. Contrino, I confini dell’abuso, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Torino, 2016, 42-43; G. Corasaniti, Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario, in Dir. prat. trib., 2016, I, 511-512; V. Mastroiacovo, Abuso del diritto o elusione nell’imposta di registro e negli altri tributi indiretti, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., 253; D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. registro, cit., 670; M.P. Nastri, Vincoli all’interpretazione degli atti nell’imposta di registro. I nuovi confini tra evasione e abuso del diritto, cit., 210. (88) In tal senso cfr. Ris. 25 luglio 2017, n. 97/E (in banca dati Fisconline), ove l’Agenzia delle Entrate nel valutare gli effetti di un’operazione di scissione (proporzionale) orientata alla segregazione nella beneficiaria (di nuova costituzione) del compendio immobiliare in cui veniva svolta l’attività d’impresa (laboratorio di analisi), ed alla successiva cessione della scissa, ha ritenuto tale fattispecie non elusiva ai fini delle imposte sui redditi, ravvisando la piena equivalenza fiscale della circolazione dell’azienda in via diretta (con conseguente emersione di plusvalenze tassabili) o in via indiretta (in regime di sostanziale neutralità). L’Agenzia si è soffermata, poi, sui riflessi dell’operazione nell’imposizione indiretta e qui ha invece osservato che «La nozione di abuso del diritto come disciplinato dal citato articolo 10-bis ha, infatti, natura residuale; il comma 12 dell’articolo 10-bis prevede, infatti, che l’abuso del diritto può essere configurato, in sede di accertamento, “solo se i vantaggi


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Per questa via, tale ricostruzione ha ritenuto che dovesse escludersi qualsiasi sindacato sulla sostanza economica degli assetti negoziali risultanti dagli atti presentati per la registrazione, potendosi ammettere un’indagine sulla causa reale dell’operazione che valorizzasse, anche in termini unitari, il risultato finale giuridicamente conseguito. In tal modo, si è ritenuto potersi ammettere la riqualificazione della cessione frazionata del compendio aziendale in cessione d’azienda, attesa l’identità del risultato finale in termini giuridici (89), ma non potersi altrettanto condividere la riqualificazione del conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni (e delle diverse varianti a tale schema) come cessione diretta del compendio aziendale, non potendosi assimilare sul piano giuridico un intervento sui beni di primo grado (azienda) rispetto ad un intervento sui beni di secondo grado (partecipazioni) (90). Ebbene, nonostante l’accuratezza dello studio ora illustrato e la coerenza delle conclusioni cui perviene con la ricostruzione della genesi comunitaria del divieto di abuso, le riflessioni in precedenza formulate sulla causa concreta sembrano sollevare alcuni dubbi sulla possibilità di spingere la valorizzazione del collegamento negoziale, nell’ambito dell’esegesi degli atti da sottoporre a registrazione, sino alla riqualificazione della cessione frazionata

fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”», aggiungendo che «La scelta della società istante di porre in essere un’operazione di scissione parziale proporzionale seguita dalla cessione delle partecipazioni nella società scindenda non sarà, quindi, valutata dall’Amministrazione Finanziaria sulla base dei principi dettati dall’articolo 10-bis, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, ma sulla base dei criteri interpretativi forniti dall’articolo 20 del TUR». Si è pertanto concluso «in ordine alla possibile riqualificazione dell’operazione prospettata, ai sensi dell’articolo 20 del TUR» che «la stessa sarà effettuata alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità». Per un commento, cfr. Assonime, circolare n. 20/2017; G. Fransoni, L’Agenzia delle Entrate esclude il carattere “abusivo” delle operazioni “strumentali”, in Riv. dir. trib., Supplemento online del 4 agosto 2017. (89) Così G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 186. Secondo l’A., peraltro, «La tendenziale coincidenza degli effetti giuridici finali dei due schemi negoziali non sembra potersi escludere alla luce dell’operatività ex lege della clausola del divieto di concorrenza prevista dall’art. 2557 c.c. Tale clausola, essendo peraltro dettata nell’esclusivo interesse delle parti può bene essere esclusa con uno specifico accordo, non muta, comunque, la qualificazione giuridica di atto traslativo della proprietà proprio della cessione di azienda» (op. cit. 188, nota 12). Sul divieto di concorrenza e sulla sua derogabilità si richiamano T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1957, 77; M. Rotondi, Diritto industriale, V ed., Padova, 1965, 403 (90) Così G. Girelli, Forma giuridica e sostanza economica nel sistema dell’imposta di registro, cit., 192; L’A. sulla distinzione tra beni di primo grado e beni di secondo grado richiama anche G. Zizzo, Imposta di registro e atti collegati, cit., 878 ss.


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dei singoli beni che compongono il compendio aziendale in cessione diretta di azienda, senza avvalersi di un ulteriore parametro esterno di legalità. Ciò perché, come osservato, l’adesione al concetto di causa in concreto (o, come qui si preferisce, alla nozione di causa intesa come funzione economicoindividuale del contratto), non implica la conseguente irrilevanza dei singoli passaggi dell’operazione. Volendo, allora, tracciare un appropriato perimetro per la valorizzazione del collegamento negoziale nell’ambito dell’interpretazione degli atti soggetti a registrazione, si può immaginare che, nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986, allo stesso si potesse ricorrere in tutti quei casi in cui la considerazione atomistica dei singoli passaggi di un’operazione non consentisse di ricostruirne la reale natura giuridica e quindi di percepirne ad esempio la natura liberale piuttosto che onerosa, così non permettendo di tracciare una confine certo tra l’applicazione dell’imposta di registro rispetto all’applicazione del prelievo sugli atti di tipo gratuito (91). Si pensi, ad esempio, alle difficoltà che ancora oggi si ravvisano nella esatta qualificazione giuridica degli atti di dotazione compiuti a vantaggio di trust deputati a realizzare assetti di interessi di tipo oneroso, dei cui trasferimenti, per determinare il trattamento fiscale applicabile, si rende indispensabile escludere la natura liberale (92). Così, come rilevato in passato da alcuni commentatori, soltanto un appropriato impiego della regola indicata dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986 che consentisse la valorizzazione del collegamento negoziale, avrebbe potuto permettere una lettura unitaria dei vari trasferimenti che caratterizzano la vicenda dei trust “onerosi” (di tipo, ad esempio, solutorio), riconoscendo la natura strumentale del passaggio di beni dal disponente al trustee e rinviando la tassazione proporzionale al solo momento del trasferimento degli stessi ai

(91) In tal senso cfr. A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., 1106. L’alternatività tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni è tuttavia un principio di elaborazione dottrinale. Cfr. A. Fedele, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Riv. dir. trib., 2003, I, 799. (92) L’inapplicabilità dell’imposta di successione ai trust diretti a realizzare assetti d’interessi di tipo oneroso è stata posta in luce anche dalla giurisprudenza di merito (cfr. Comm. trib. prov. Lodi, Sez. I, 12 gennaio 2009, n. 12, in GT-Riv. giur. trib., 2009, 534; Comm. trib., prov. Macerata, Sez. II, 26 settembre 2012, n. 207, in GT-Riv. giur. trib., 2013, 428, con commento di G. Corasaniti, Brevi note sulla (in)applicabilità delle imposte sulle successioni e donazioni ai trust di garanzia. Sulla distinzione tra trust onerosi e trust liberali cfr. anche T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012, 138.


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creditori (93). Allo stesso modo, soltanto la valorizzazione del collegamento negoziale potrebbe permettere di rivelare la natura gratuita di trasferimenti apparentemente onerosi, consentendo di apprezzarne la natura di “liberalità indirette” e, conseguentemente, di determinare quale prelievo ritenere ad essi applicabile (94). Ancora, attraverso l’opportuno riconoscimento della rilevanza di elementi extratestuali nell’interpretazione dell’atto presentato per la registrazione, si sarebbe superata la rigida posizione di quella giurisprudenza che, nell’applicare l’art. 1, comma 4-bis, del D.lgs. n. 346/1990, richiede, per riconoscere l’esenzione dal prelievo sulle liberalità della provvista impiegata per l’acquisto di immobili od aziende il cui atto abbia scontato l’IVA o l’imposta di registro, che dell’origine della provvista si faccia espressa menzione nell’atto, introducendo un requisito per nulla richiesto dalla norma (95). Come pure (e per concludere questa breve rassegna di esempi), la valorizzazione del collegamento negoziale appare passaggio irrinunciabile nell’applicazione del principio di alternatività tra IVA e imposta di registro, laddove, per fare un esempio, si tratti di determinare il prelievo sulle quietanze rilasciate separatamente all’atto cui si riferiscono, che, solo qualora quest’ultimo sia soggetto ad imposta di registro, devono reputarsi distintamente tassabili con l’imposta proporzionale (96). La valorizzazione del collegamento negoziale compiuta nell’ambito dell’attività di esegesi prevista dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986 non si sarebbe, però, potuta spingere sino alla riqualificazione di sequenze negoziali i cui vari passaggi fossero, nel rispetto della loro natura giuridica, chiaramente sussumibili nelle fattispecie astrattamente previste dalle diverse voci della tariffa. Infatti, anche se l’impiego del concetto di causa in concreto avrebbe potuto

(93) Così E. M. Bartolazzi Menchetti, Qualificazione dell’atto di affidamento di beni al trustee nelle imposte sui trasferimenti, in AA.VV., Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, 152. (94) In tal senso cfr. sempre A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., 1106. (95) Così Cass, Sez. trib., 24 giugno 2016, n. 13133, in banca dati Le leggi d’Italia. Per un commento cfr. L’enunciazione della liberalità indiretta nell’atto di compravendita di immobili o aziende, in Riv. trim. dir. trib., 2017, 78 ss. (96) In tal senso si esprime anche la prassi amministrativa (cfr. Ris. Min., 17 luglio 1976, n. 301388, in banca dati Fisconline). Sul punto cfr. anche S. Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni nel sistema dell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, cit., 282.


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rivelare il carattere unitario di un’operazione, la qualificazione della stessa ai fini fiscali non avrebbe potuto prescindere dall’articolazione dei vari passaggi ad essa impressi dalle parti, se non snaturando il concetto di interpretazione mediante una indebita sostituzione di fattispecie imponibili (97). Insomma, un conto è ricercare la natura giuridica di un determinato assetto negoziale in coerenza con la qualificazione ad esso impressa dalle parti, onde adeguare ad essa la tassazione (operazione logica che appare coerente con una nozione di causa come funzione economico-individuale del contratto correttamente intesa), un conto è ricercare una qualificazione giuridica alternativa a quella impressa dalle parti, operando una sostituzione della fattispecie imponibile con una diversa e più onerosa, senza che una simile indagine sia avallata dalla presenza di un criterio di valutazione degli assetti negoziali che in tal senso espressamente deponga (98). La regola prescritta dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986, infatti, si limitava (nella sua precedente versione) ad istituire un collegamento tra applicazione dell’imposta ed effetti giuridici degli atti da sottoporre a registrazione, senza introdurre un diverso parametro di legalità che consentisse di superare l’articolazione dei vari passaggi dell’operazione per come strutturata dalle parti e dei loro effetti giuridici. A tale esito, infatti, si sarebbe potuti pervenire soltanto in presenza di una norma che dettasse un criterio di valutazione in cui si esprimesse l’intenzione del legislatore di unificare, ai fini della tassazione, i singoli passaggi in cui un’operazione fosse stata legittimamente articolata, rendendo gli stessi non opponibili al fisco laddove lo schema negoziale fosse

(97) L’espressione è di D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. registro, cit. 662. Tale effetto sostitutivo è, infatti, tipico delle clausole antielusive, come evidenziato anche da M. Beghin, La “tassazione differenziale” e la “non opponibilità” al Fisco delle operazioni elusive, in Riv. dir. trib., 2016, I, 295 ss. (98) La presenza di uno specifico criterio di valutazione (o parametro di legalità) parrebbe quindi essenziale per operare una riqualificazione degli effetti riconducibili ad una determinata sequenza negoziale, il che, volgendo per un attimo nuovamente l’attenzione al diritto civile, spiegherebbe l’utilità, anche nella prospettiva della causa concreta, dell’art. 1344 c.c. Infatti, l’adesione alla teoria della causa concreta non priva di rilevanza la categoria della frode alla legge, che diviene un modo di essere della illiceità della causa (così G. B. Ferri, Rilevanza giuridica dello scopo nei crediti speciali, in Foro padano, 1972, I, 278). In buona sostanza, l’autonomia concettuale del contratto in frode alla legge rispetto al contratto illecito si coglie sul piano strutturale della fattispecie (così G. Schizzerotto, Il collegamento negoziale, Napoli, 1983, 212), che consente in tal modo una valutazione in termini di illiceità di una complessa operazione e non di un singolo contratto (cfr. S. Nardi, Frode alla legge e collegamento negoziale, Milano, 2006, 68 ss.).


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stato adottato al solo fine di conseguire vantaggi fiscali di natura indebita, ossia in contrasto con le norme fiscali applicabili ed i principi del sistema. Per tali ragioni, si ritiene difficile condividere che la precedente versione dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986 ammettesse la riqualificazione della cessione frazionata dei beni del compendio aziendale in cessione di azienda, come pure del conferimento di azienda seguito dall’alienazione delle partecipazioni in cessione del compendio aziendale, proprio perché (come si è tentato di argomentare) per un simile esito non sarebbe stata sufficiente la valorizzazione della causa concreta dell’operazione, richiedendosi altresì l’individuazione di un ulteriore parametro di legalità sulla cui base valutare la liceità dello schema adottato. Parametro di legalità che, come si è tentato di porre in luce, non emergeva dall’art. 20, del predetto Testo Unico, che, invece, si limitava ad adeguare la tassazione degli atti agli effetti giuridici ancorché non vi corrispondesse il titolo o la forma apparente. Se così è, le considerazioni sin qui formulate suggeriscono, allora, di verificare se tale parametro di legalità potesse essere rintracciato proprio nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. La norma, come noto (e come già accennato), introduce nel sistema fiscale il divieto di abuso del diritto, consentendo all’Amministrazione di sindacare assetti negoziali diretti a conseguire essenzialmente vantaggi fiscali indebiti, in difetto di apprezzabili ragioni economiche (99). Non è il caso, in questa sede di soffermarsi sulle criticità ravvisabili nella definizione proposta dal legislatore, che, come messo in evidenza in altre occasioni, nell’accostare, tra gli elementi costitutivi della fattispecie, al perseguimento di un vantaggio fiscale indebito l’assenza di sostanza economica, finisce, in qualche modo, per far perdere di centralità

(99) Sulla nuova disposizione cfr. G. Zizzo, La nozione di abuso nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, in AA.VV, Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., 18; F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315; Id., Brevi note sulla nozione di abuso del diritto in materia fiscale, in Riv. dir. trib., 2017, I, 429 ss.; A. Contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. prat. trib., 2016, I, 1407; Id, I confini dell’abuso, in AA. VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., 22; M. Leo, L’abuso del diritto: elementi costitutivi e profili applicativi, in il fisco, 2015, 915; A. Manzitti, M. Fanni, La norma generale antiabuso nello schema del decreto delegato; buono il testo, ottima la relazione, in Corr. trib., 2015, 2597; M. Villani, Abuso del diritto tributario, Torino, 2017, 19. G. Ingrao, L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria: un approdo con più luci che ombre, in Dir. prat. trib., 2016, I, 1433 ss. Una valutazione positiva della nuova disciplina è stata espressa da Assonime (circolare 4 agosto 2016, n. 21).


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all’elemento che dovrebbe rappresentare il perno della definizione normativa del fenomeno (100). Occorre, infatti, riaffermare che di elusione/abuso del diritto si può parlare, in materia tributaria, non quando l’operazione sia diretta (anche in via esclusiva), al conseguimento di un vantaggio fiscale (e quindi quando manchi di “sostanza economica”), ma solo ove tale vantaggio si riveli “indebito” ossia contrario alle norme fiscali applicabili o ai principi che ispirano il sistema (101). La natura indebita del vantaggio fiscale conseguito è, in altre parole, rivelata dalla contrarietà del risultato raggiunto alle regole di tassazione che il legislatore ha, sia esplicitamente che implicitamente (di qui il richiamo ai principi) individuato nella disciplina dettata per ciascun settore impositivo (102). Così ricostruito il contenuto del divieto di abuso del diritto contemplato dall’art. 10-bis dello Statuto, si rende possibile verificarne con più serenità l’estensione al sistema dell’imposta di registro. Si deve, infatti, riconoscere che, nella sua declinazione, il divieto di abuso mal si concilia con l’imposta di registro, posto che il dato testuale dell’art. 10-bis ne rivela effettivamente una più marcata riferibilità ai settori impositivi in cui il prelievo insiste su attività d’impresa e di commercio. Tuttavia, ciò non significa che la regola di giudizio ivi espressa si riveli necessariamente incompatibile con quella prescritta dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986. L’estensione del divieto di abuso del diritto al sistema del’imposta di registro non implica, infatti, l’abbandono di un criterio di esegesi degli atti da sottoporre a registrazione fondato sugli effetti giuridici e l’ingresso di un criterio incentrato su di una presunta “sostanza economica”, ma si pone ad argine nei

(100) In tal senso si consenta il rinvio a G. Giusti, Indebito vantaggio fiscale e assenza di sostanza economica nel nuovo abuso del diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2018, I, 1437 ss. (101) L’esaltazione dell’assenza di sostanza economica nell’ambito della definizione discende, invero, da una visione del fenomeno inteso come “abuso delle forme giuridiche”, che deriva dall’influenza che, nel nostro ordinamento, avrebbe esercitato la norma antiabuso tedesca (cfr. il § 42 dell’Abgabenordnung del 1977). Così D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 2015, I, 695 ss. (102) «Occorre, in specie, che tale risparmio sia ottenuto aggirando specifici principi delle leggi d’imposta, come – per fare alcuni esempi – il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, il divieto di dedurre minusvalenze iscritte su partecipazioni, il disfavore per compensazioni intersoggettive delle perdite in presenza di uno svuotamento dell’organismo produttivo che le aveva prodotte, l’esigenza di non esentare da tassazione plusvalori maturati in un regime d’impresa, il divieto di salti d’imposta, e così via» (così si esprime sempre D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, cit., 712).


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confronti del conseguimento di vantaggi fiscali indebiti, ossia (come detto) di vantaggi tributari non coerenti con i principi che ispirano il sistema fiscale di riferimento e, quindi, nel nostro caso, con i principi che informano il sistema dell’imposta di registro. Principi che, con tutta evidenza, non possono che essere ricavati dal complesso delle disposizioni contenute nel T.U. n. 131/1986 e quindi, in via prioritaria, proprio dall’art. 20 che, nel dettare le regole di applicazione dell’imposta, istituisce uno stretto collegamento tra tassazione ed effetti giuridici degli atti presentati per la registrazione. Naturalmente (mantenendo l’indagine ancora sul testo della norma antecedente l’ultimo intervento) il riferimento agli effetti giuridici avrebbe dovuto essere letto in coerenza con l’evoluzione della struttura dell’imposta poc’anzi tratteggiata, ammettendo la valorizzazione di elementi extratestuali e del collegamento negoziale per ricostruire l’esatto contenuto degli atti. Pertanto, combinando i criteri di tassazione indicati dall’art. 20 del Testo Unico, con il divieto di abuso del diritto, si sarebbe potuta accertare l’eventuale natura indebita del vantaggio fiscale conseguito articolando un’operazione tendente ad un risultato unitario attraverso singoli passaggi. Ciò perché il divieto di abuso del diritto espresso dall’art. 10-bis dello Statuto avrebbe rappresentato proprio quel parametro esterno di legalità, che, ricorrendo al concetto di causa concreta dell’operazione negoziale, ne avrebbe consentito una riqualificazione ai fini tributari (103). Se così è, la cessione frazionata del compendio aziendale, ove riesaminata alla luce del parametro di legalità espresso dall’art. 10-bis dello Statuto, avrebbe effettivamente potuto rivelare un’alterazione delle regole di tassazione prescritte dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986, essendo qui difficilmente dubitabile

(103) Da questo punto di vista si condivide l’impostazione a suo tempo proposta da G. Girelli, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012, il quale, prima dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000, aveva ritenuto il divieto di abuso del diritto un principio di natura interpretativa immanente all’ordinamento alla cui luce, per tale ragione, avrebbe dovuto essere interpretato l’art. 20 del TUR, consentendosi, in tal modo una valorizzazione del collegamento negoziale che, tuttavia, tenendo conto dell’espresso riferimento contenuto nella norma agli effetti giuridici, si sarebbe potuto apprezzare soltanto nel caso di coincidenza dell’effetto giuridico finale della sequenza negoziale adottata, con l’effetto giuridico risultante dalla riqualificazione operata dall’Amministrazione finanziaria. Rispetto a tale ricostruzione, infatti, l’unico profilo che desta perplessità è il riconoscimento del divieto di abuso del diritto come principio immanente all’ordinamento, poiché si preferisce ritenere che, nella materia fiscale, la presenza di un principio antiabuso debba rappresentare il risultato di un’opzione normativa.


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l’identità del risultato conseguito in termini giuridici rispetto alla cessione di azienda, peraltro con rilevanti implicazioni anche in riferimento alla corretta applicazione del principio di alternatività, posto che, come già ricordato, l’alienazione dei singoli cespiti del compendio aziendale sconta l’IVA piuttosto che l’imposta di registro (104). Per tali ragioni si ritiene che la cessione frazionata del compendio aziendale potesse effettivamente rappresentare una forma di aggiramento dei criteri di tassazione stabiliti dall’art. 20 del TUR e quindi una forma di “elusione” del prelievo, da contrastare ricorrendo al divieto di abuso del diritto (105). Maggior cautela, invece, avrebbe richiesto la riqualificazione del conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni nei termini di cessione diretta del compendio aziendale (e delle diverse varianti a tale formula), trattandosi, in questo caso, di schemi difficilmente assimilabili sul piano degli effetti giuridici, posto che nel primo caso si interviene su beni di primo grado (azienda) e nel secondo su beni di secondo grado (partecipazioni) (106). Inoltre, come messo in luce da alcuni commentatori, tale riqualificazione è apparsa difficilmente compatibile anche con il divieto europeo di tassazione indiretta sulle operazioni di raccolta di capitale (107). A ciò si aggiunga che, nel sistema delle imposte sui redditi, il beneficio fiscale derivante dall’adozione della sequenza del conferimento seguito dalla cessione delle partecipazioni

(104) Sul punto cfr. A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., 1105. (105) Non si condividono, da questo punto di vista, quegli Autori che hanno ritenuto che la cessione frazionata del compendio aziendale non integri un’ipotesi di elusione del prelievo ma di vera e propria evasione, sull’assunto dell’identità degli effetti giuridici della sequenza frazionata rispetto agli effetti giuridici del singolo atto (in tal senso cfr. S. La Rosa, Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze ed interferenze, in Dir. prat. trib., 2012, I, 707 ss.; G. Tabet, L’applicazione dell’art. 20 del T.U. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, cit., 917; A. Carinci, D. Deotto, “Pezo el tacòn del buso: una riforma improvvisata sull’art. 20 del T.U.R., cit., 4422). Nella cessione frazionata del compendio aziendale, infatti, non sembra assistersi ad un occultamento del presupposto (considerata l’identità degli effetti giuridici dello schema adottato rispetto alla cessione unitaria), ma un aggiramento dello stesso, secondo uno schema che appare tipico delle operazioni elusive. (106) La differenza sussistente, in termini di effetti economico-giuridici tra le due ipotesi, è stata sottolineata anche da P. Puri, Sulla riqualificabilità come cessione d’azienda della cessione dell’intero capitale sociale di una S.r.l., in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 170-2010/T, in www.notariato.it. (107) Cfr. Direttiva 2008/7/CE (già Direttiva 69/335/CEE) sul punto G. Escalar, Compatibilità comunitaria delle imposte indirette sul conferimento d’azienda e successiva vendita di partecipazione, in Corr. trib., 2016, 2268 ss.


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in luogo della cessione diretta dell’azienda è esplicitamente ritenuto immune da criticità sul piano elusivo (108). In definitiva, l’assetto antecedente le modifiche da ultimo apportate sembrava, sia pure in esito ad una più approfondita analisi del concetto di causa in concreto, rivelarsi abbastanza coerente, mentre l’orientamento della giurisprudenza di legittimità avrebbe potuto essere corretto nel tempo ricorrendo all’applicazione del divieto di abuso del diritto, sia pure in coerenza con la formula dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986, e tenendo presente l’evoluzione della natura del tributo. In tal modo, da un lato, si sarebbe potuti arrivare in ogni caso all’estensione delle garanzie procedimentali indicate dall’art. 10bis dello Statuto anche alle contestazioni formulate in materia di imposta di registro, dall’altro, delimitare con più precisione l’area del vantaggio indebito, così superandosi molte delle improprie riqualificazioni proposte in sede amministrativa. 5. Indebito vantaggio fiscale ed assenza di sostanza economica nella prospettiva della nuova formulazione dell’art. 20 del TUR. – Come già accennato, il legislatore è da ultimo intervenuto con una riformulazione dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986 che, nella sostanza, esclude ogni spazio per la valorizzazione di elementi extratestuali e negozi collegati in sede di interpretazione degli atti soggetti a registrazione. Contestualmente, si è fatta esplicitamente salva l’applicazione al sistema dell’imposta di registro del divieto di abuso del diritto previsto dall’art. 10-bis della legge n. 212/2000. In particolare, la relazione illustrativa chiarisce espressamente che, ricorrendo al divieto di abuso del diritto, dovrebbe ammettersi un sindacato amministrativo sugli eventuali vantaggi indebiti derivanti dalla cessione frazionata di un compendio aziendale (109). Si precisa, infatti che, in tale sede «andrà valutata, anche in materia di imposta di registro, la complessiva operazione posta in essere dal contribuente, considerando, dunque, anche gli elementi estranei al singolo atto prodotto per la registrazione, quali i fatti, gli atti e i contratti ad esso collegati». D’altra parte, anche la prima giurisprudenza di legittimità chiamata ad esprimersi

(108) In tal senso cfr. E. Della Valle, L’elusione nella circolazione indiretta del complesso aziendale, in Rass. trib., 2009, 375 ss. (109) Sul punto A. Lomonaco, Considerazioni sull’art. 20 del Testo Unico dell’imposta di registro dopo la legge di bilancio 2018, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 172018/T, 8, in www.notariato.it.


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sul perimetro applicativo della nuova disposizione, oltre ad aver precisato la natura innovativa delle modifiche apportate all’art. 20 del T.U. n. 131/1986 (in aperto contrasto con quanto affermato nella relazione illustrativa, tanto da sollecitare un nuovo espresso intervento normativo), ha posto l’accento proprio sul fatto che, nonostante la nuova formulazione dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986, l’Amministrazione finanziaria possa comunque contestare l’abuso del diritto ex art. 10-bis dello Statuto (110). Ciò ha portato alcuni attenti commentatori ad interrogarsi sull’effettiva portata innovativa delle modifiche all’art. 20 del T.U. n. 131/1986 apportate con la legge di bilancio per il 2018, essendosi (non a torto) paventata la possibilità che proprio quel tipo di riqualificazioni che il legislatore è parso voler superare attraverso la riformulazione dell’art. 20 del Testo Unico finiscano per trovare nuovamente ingresso attraverso il divieto di abuso del diritto (111). E si tratta, in effetti, di un timore che rischia di rivelarsi fondato nonostante il nuovo testo dell’art. 20, nell’escludere la rilevanza di elementi extratestuali e collegamenti negoziali per l’esegesi degli atti da registrare, parrebbe fornire indicazioni opposte. Come detto, il nuovo art. 20 del Testo Unico parrebbe voler indirizzare nuovamente la ricostruzione della natura del prelievo nei termini di “imposta d’atto”, così valorizzandone nuovamente la rilevanza degli effetti meramente “potenziali” ai fini della tassazione indiretta. Ciò, nonostante il percorso evolutivo poc’anzi delineato paresse indicare, sino alle recenti modifiche, la presenza di aperture verso una diversa concezione del prelievo, più attenta a garantirne un più effettivo collegamento con la ricchezza che si trasferisce attraverso l’atto adottato (112).

(110) Si veda, in tal senso Cass., Sez. trib., 14 febbraio 2018, n. 3533 (in banca dati Le leggi d’Italia), ove la Corte, nel confermare la pretesa formulata dall’Amministrazione finanziaria, non valorizza l’art. 20 del TUIR, ma il divieto di abuso ex art. 10-bid dello Statuto, osservato che «il collegamento negoziale fra il contratto di mutuo garantito da ipoteca su determinati immobili ed il conferimento di essi, dopo pochi giorni, da parte dei ricorrenti, mutuatari e quali soci, nella società Green Park, con contestuale accollo a quest’ultima del debito garantito, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 50, ha procurato il vantaggio di una riduzione dell’imposta di registro, pagata non sul valore immobiliare ma sul valore immobiliare al netto della passività accollata e tale collegamento […] è privo di una individuabile ragione economica alternativa al risparmio di imposta (nel punto 1.3 non viene dedotta una spiegazione del collegamento negoziale ma viene indicata la ragione generale di ogni atto di conferimento). (111) Così G. Fransoni, L’elusione e la qualificazione degli atti negoziali ai sensi dell’art. 20 T.U.R. fra le vane speranze e il van dolore (del contribuente), cit. (112) In tal senso si era espresso anche. A. Fedele, Assetti negoziali e “forme d’impresa”


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Così, vi è il rischio che la nuova formulazione della norma possa essere presa a pretesto per enfatizzare nuovamente le regole presenti nel T.U. n. 131/1986 che ancora oggi più risentono dell’originaria natura del prelievo come “imposta d’atto”. Si pensi ai criteri di tassazione degli atti di risoluzione contenuti nell’art. 28 (113), oppure ai limiti posti dall’art. 38 alla rilevanza dell’invalidità negoziale (anche laddove giudizialmente accertata), in sede di definizione del presupposto. Ma si guardi, altresì ai criteri di tassazione degli atti dell’autorità giudiziaria, oppure alle modalità di applicazione del prelievo sulle quietanze rilasciate con atto separato rispetto al contratto cui si riferiscono, per le quali è comunque richiesta l’applicazione dell’imposta in misura proporzionale (114). Si tratta, in tutti i casi, di norme di cui, magari attraverso un lento percorso interpretativo che si avvalesse, in alcuni casi, anche dell’intervento del legislatore, sarebbe stato auspicabile un superamento, onde adeguare il prelievo ad un più maturo concetto di capacità contributiva (115). Da questo punto di vista, ben altri interventi avrebbero potuto auspicarsi da parte del legislatore, che, per adeguare il prelievo alla modernità, avrebbe potuto, ad esempio, superare la regola della tassazione delle quietanze separatamente rilasciate con imposta proporzionale, oppure consentire il rimborso dell’imposta corrisposta in sede di registrazione di un atto invalido senza attendere il passaggio in giudicato della sentenza che ne accerti la patologia e senza condizionare tale diritto alla riconosciuta estraneità delle parti alla causa di invalidità. Come pure si sarebbe potuto riformulare l’art. 28 del Testo Unico, sancendo non solo la tassazione in misura fissa per la registrazione degli atti di risoluzione che non prevedono prestazioni ulteriori rispetto al ripristino della situazione precedente, ma addirittura ammettendo il diritto al rimborso dell’imposta originariamente corrisposta sull’atto risolto, nell’ottica di adeguare la

tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., 1106. (113) Ancora oggi, come abbiamo visto, fondati sull’applicazione di un’imposta di “retrocessione”, come confermato da ultimo anche da Cass., Sez. trib., Ord. 29 agosto 2018, n. 21312 (in banca dati Le leggi d’Italia). Per un commento cfr. B. Denora, Simulazione assoluta, decadenza agevolazioni prima casa e “mutuo dissenso”, in Riv. dir. trib., supplemento online del 19 ottobre 2018. (114) Evidente sembra essere la disparità di trattamento con le quietanze relative ad atti soggetti ad IVA, per le quali, come già ricordato, in ragione del principio di alternatività si è esclusa la soggezione all’imposta (Ris. Min., 17 luglio 1976, n. 301388). (115) Sul punto cfr. S. Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni nel sistema dell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, cit., 295 ss.


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tassazione anche ai più recenti orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità sul mutuo dissenso previsto dall’art. 1372 c.c. (116) Si sarebbe, in tal modo, superata anche quella giurisprudenza di legittimità che ammette al restituzione dell’imposta soltanto in presenza di vizi genetici dell’atto, escludendola, invece, per i vizi sopravvenuti (117). Occorre, tuttavia, prendere atto del fatto che il legislatore si è mosso in senso diametralmente opposto e fare, quindi, i conti con la rinnovata esaltazione della natura del tributo nei termini di “imposta d’atto”. Peraltro, come già ricordato, all’intervento sull’art. 20 è stata, espressamente attribuita natura interpretativa, il che è stato giudicato coerente dalla maggior parte dei commentatori, i quali hanno evidenziato come la nuova formulazione restituisca all’attività di interpretazione degli atti al suo originario perimetro applicativo. Tant’è che per superare la contraria posizione della giurisprudenza di legittimità il legislatore è nuovamente intervenuto per chiarire la natura di “interpretazione autentica” dell’intervento (118). Ma se così è, ove ci si voglia mantenere coerenti con la rinnovata concezione del prelievo sembrano veramente ridursi gli spazi per immaginare contestazioni fondate sul divieto di abuso del diritto previsto dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Infatti, non si vede dove possa ravvisarsi l’aggiramento delle norme tributarie applicabili e dei principi del sistema, laddove si adottino percorsi negoziali finalizzati a perseguire un risultato che potrebbe astrattamente ottenersi mediante l’adozione di un unico atto più gravemente tassato, nel momento in cui si esclude in ogni caso la possibilità di valorizzare un criterio interpretativo degli atti fondato sul collegamento negoziale.

(116) Cfr. Cass., Sez. trib., 6 ottobre 2011, n. 20045 (in banca dati Le leggi d’Italia), secondo la quale «La risoluzione convenzionale integra, infatti, un contratto autonomo con il quale le stesse parti o i loro eredi ne estinguono uno precedente, liberandosi dal relativo vincolo e la sua peculiarità è di presupporre un contratto precedente fra le medesime parti e di produrre effetti estintivi delle posizioni giuridiche create da esso» (117) Cfr. Cass., Sez. VI, Ord. 20 gennaio 2015, n. 791; Cass., Sez. trib., 1° aprile 2004, n. 4971, entrambe in banca dati Le leggi d’Italia. (118) Cfr. sul punto le riflessioni di F. Tundo, Un “legislatore” volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione, cit., 274 ss. Prima dell’intervento del legislatore mettevano, invece, in dubbio la portata retroattiva della nuova formulazione dell’art. 20 del TUR, S. Cipollina, Curvature del tempo e interpretazione degli atti nell’imposta di registro, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2018, II, 29 ss.; G. Tabet, Il collegamento negoziale tra riqualificazione e abuso, in Rass. trib., 2018, 227 ss.


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In altre parole, stando all’attuale formulazione letterale dell’art. 20, non si possono condividere le osservazioni della relazione illustrativa alla legge n. 205/2017, laddove si riconosce comunque il potere di sindacare il risultato finale di operazioni articolate con diversi passaggi, invocando il divieto di abuso del diritto. Infatti, il rimedio previsto dall’art. 10-bis postula l’individuazione di un vantaggio fiscale indebito, ossia contrastante con le norme applicabili ed i principi del sistema (119). Ma se i principi del sistema rifiutano la valorizzazione di elementi extratestuali e di collegamenti negoziali, appare allora evidente che la cessione frazionata del compendio aziendale dovrebbe rivelarsi insindacabile anche nella prospettiva dell’abuso del diritto. Nonostante, quindi, l’esplicito riferimento all’applicabilità del divieto di abuso del diritto anche al sistema dell’imposta di registro, un approccio rigoroso dovrebbe, in concreto, portarne ad escluderne l’estensione proprio a quei casi oggetto sino ad oggi di sindacato amministrativo. Naturalmente, il rischio è che, anche in questo caso, finisca per prevalere una lettura del divieto di abuso che svilisca la centralità dell’indebito risparmio, enfatizzando l’assenza di sostanza economica dell’operazione (120). Un rischio che pare essersi concretizzato, più che nei pronunciamenti dell’Amministrazione finanziaria successivi alla riformulazione della norma (121),

(119) Su tali aspetti cfr. anche le riflessioni di D. Cané, Indebito vantaggio fiscale e abuso del diritto. Profili di diritto comunitario e internazionale, in Dir. prat. trib. int., 2016, 1263 ss. (120) Rischio che, come altrove evidenziato, si rivela tutt’altro che teorico (sul punto si consenta il rinvio a G. Giusti, Indebito vantaggio fiscale e assenza di sostanza economica nel nuovo abuso del diritto tributario, cit., 1437. (121) Cfr. Risp. 11 giugno 2019, n. 196 (in banca dati fisconline), nella quale l’Agenzia delle Entrate ha ammesso il conferimento d’azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni, escludendo altresì la configurabilità di un’ipotesi di abuso del diritto, osservando che «il vantaggio fiscale dato dalla differenza tra l’imposta di registro in misura fissa, applicabile alle due operazioni, rispetto all’imposta di registro in misura proporzionale, applicabile nel caso di cessione di azienda, non risulta indebito, non contrastando con i principi che presiedono la tassazione proporzionale, ai fini dell’imposta di registro, delle cessioni d’azienda di cui all’art. 23 TUR». In una precedente risposta, si è però osservato che «Qualora a seguito della cessione delle partecipazioni nella società conferitaria, l’acquirente proceda alla sua incorporazione, anche inversa, mediante una fusione (operazione quest’ultima a sua volta assoggettata a imposta di registro in misura fissa), le argomentazioni sopra esposte non possono più assumere rilevanza. In questa particolare fattispecie, è infatti chiara la volontà di acquisire direttamente l’azienda, risultando il percorso tortuoso posto in essere meramente strumentale al predetto obiettivo perseguito. Perciò, la combinazione di tre atti soggetti a tassazione in misura fissa (conferimento d’azienda, cessione delle partecipazioni nella società conferitaria e fusione tra la


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soprattutto nel più recente intervento della Suprema Corte (122), la quale, come accennato nelle osservazioni introduttive, ha sollecitato la Corte Costituzionale ad esprimersi sulla compatibilità della nuova formulazione dell’art. 20 del TUR, con gli artt. 3 e 53, Cost. In sintesi, secondo la Cassazione, il nuovo testo, nel precludere la valorizzazione del collegamento negoziale in sede di interpretazione degli atti soggetti a registrazione, non consentirebbe l’apprezzamento della reale capacità contributiva che attraverso di essi si esprime, ponendosi così in contrasto con le richiamate norme costituzionali. In tale occasione, la Corte, se per un verso ha posto in luce l’evoluzione che ha caratterizzato il prelievo, per l’altro, ha nuovamente sottolineato la necessità di accordare prevalenza, nell’interpretazione degli atti, alla “causa” reale dell’operazione, che, nella prospettiva del Supremo Collegio, consentirebbe di apprezzarne la “sostanza economica” e di commisurare in base ad essa il prelievo. Si riafferma, insomma, l’adesione ad un criterio esegetico degli atti soggetti a registrazione orientato a valorizzare la causa concreta dell’operazione negoziale, di cui si esclude comunque una funzione di tipo antielusivo. Secondo la Corte, infatti, ricercare la causa concreta, per apprezzare la sostanza economica dell’operazione, non significa attribuire all’art. 20 una funzione antielusiva. Non sarebbe, quindi, necessario, nell’economica della norma, verificare l’esistenza di un vantaggio fiscale indebito e l’assenza di valide ragioni extrafiscali che giustifichino il percorso negoziale adottato al di là dei benefici tributari ottenuti. Si tratta, però, di una posizione che, alla luce delle riflessioni qui formulate, appare difficilmente sostenibile, ancorché prenda le mosse da una lettura critica del nuovo testo dell’art. 20 del TUR che, sotto molti aspetti, va condivisa. È vero, infatti, che la nuova formulazione, non consentendo un adeguato apprezzamento del collegamento negoziale, finisce in molti casi per ripristinare la vecchia concezione del prelievo quale “imposta d’atto”, difficilmente compatibile con i principi costituzionali. Ma sostenere che la valorizzazione del collegamento negoziale possa rivelare la sostanza economica dell’operazione, consentendo il prelievo in funzione di essa, rappresenta, come si è qui cercato di dimostrare, il “tradimento” del concetto stesso di “causa concreta”.

stessa società conferitaria e la società acquirente) configurerà il conseguimento di un indebito vantaggio d’imposta consistente nell’aggiramento della tassazione in misura proporzionale della cessione diretta dell’azienda» (cfr. Risp. 13 maggio 2019, n. 138; sulla stessa linea anche Risp. 29 gennaio 2019, n. 13, entrambe in banca dati fisconline). La prassi amministrativa sul nuovo art. 20, TUR, è stata commentata anche da Assonime (circ. 3 giugno 2019, n. 13). (122) Cfr. Cass., Sez. trib., Ord. 23 settembre 2019, n. 23549.


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Non si può condividere, insomma, il tentativo di superare la forma giuridica per dare rilievo ad una presunta sostanza economica delle vicende negoziali perché ciò, significa, nella sostanza, legittimare una riedizione delle tesi della Scuola di Pavia che, con fatica, l’evoluzione normativa aveva tentato di superare. Va respinta, pertanto, l’idea che l’apprezzamento del collegamento negoziale che discende dall’impiego del concetto di causa concreta possa consentire, in modo surrettizio, un sindacato sulla sostanza economica dell’operazione. Del resto, come si è tentato di porre in luce, l’enfasi posta, anche nell’economia dell’attuale clausola antielusiva generale, sull’assenza di sostanza economica sembra discendere da un’impropria lettura del fenomeno. Il quadro sin qui delineato non consente, allora, di riporre grandi speranze nell’intervento della Corte Costituzionale. Infatti, ove si accertasse l’incompatibilità del nuovo art. 20 del TUIR, con gli artt. 3 e 53 Cost. si aprirebbe, con ogni probabilità, nuovamente la strada alle improprie riqualificazioni negoziali del sistema previgente. Ma anche ove la nuova formulazione dovesse superare il vaglio del Giudice delle leggi, è probabile che, in futuro, i recuperi fiscali fondati sulla riqualificazione di sequenze negoziali complesse siano in molti casi confermati, ancorché valorizzando (come elemento di novità rispetto al passato) l’assenza di valide ragioni economiche nel percorso adottato rispetto alle finalità di risparmio fiscale. Se così fosse (come si teme), l’intervento del legislatore finirebbe nella sostanza per essere vanificato e rimarrebbe solo il rimpianto per aver perso una preziosa occasione per adeguare davvero un prelievo per certi versi “antico” ad un sistema fiscale moderno.

Gabriele Giusti



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

La nuova legittima difesa (art. 52 c.p.): applicazioni in materia di reati tributari ed economici Sommario: 1. Le modifiche all’ art. 52 c.p. (28/3/2019) e le eventuali incidenze in materia economica. – 2. I reati tributari. – 3. I reati societari. – 4. False comunicazioni sociali. – 5. Impedito controllo. – 6. Infedeltà patrimoniale, influenza illecita sull’assemblea, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. – 7. Una scriminante diversa dalla legittima difesa: lo stato di necessità. – 8. La legittima difesa putativa. – 9. Gli effetti dell’abrogazione dell’art.7 D.Lgs. n. 74/2000.

Il contributo si propone di esaminare l’applicabilità della scriminante della legittima difesa ad alcune ipotesi di reati in materia tributaria ed economica, le quali, nella maggior parte dei casi, non prevedono l’uso di comportamenti violenti, ma che potrebbero riguardare condotte nelle quali la violenza e il conseguente uso delle armi risultano utilizzabili. The contribution aims to examine the applicability of the self-defence to certain cases of tax and economic offences, which, usually, do not involve the use of violent behavior, but which could concern conduct in which violence and the consequent use of weapons are usable.

1. Le modifiche all’ art. 52 c.p. (28/3/2019) e le eventuali incidenze in materia economica. – La scriminante-causa di non punibilità della legittima difesa (1) (rubricata “Difesa legittima”) del “Codice Rocco” del 1930, ha re-

(1) Sulla scriminante in parola, ci limitiamo a ricordare C. F. Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, Milano, 1964; Id., voce Legittima difesa (dir. pen.), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974; T. Padovani, voce Difesa legittima, in Dig. pen., 1989, 497.


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centemente ricevuto, per effetto della l. 26 aprile 2019, n. 36, profonde e significative modifiche: - è stata inserita la parola “sempre” nel c. 2 dell’art. 52 c.p., che oggi così risulta: “Nei casi previsti dall’art. 614 c. 1 e 2 sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo (“Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”)” - il c. 3 dell’art. 52 c.p. così risulta: “Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma si applicano anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale” - le richiamate disposizioni di cui al 2° e 4° comma stabiliscono rispettivamente quanto segue: “Nei casi previsti dall’art. 614 c. 1 e 2 sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al 1° c. del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati una un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione” - il c. 4 dell’art. 52 dispone che “nei casi di cui al c. 2° e 3° agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone” (2). In questa sede desideriamo esaminare l’influenza della riforma della norma in questione con esclusivo riferimento ai reati relativi alla materia tributaria ed economica, che nella loro stragrande rilevanza prevedono l’uso di comportamenti comunque al di fuori dell’uso della violenza, ma che peraltro

(2) Per il commento al nuovo testo dell’art. 52 c.p. v. G. Garofoli, Codice penale con leggi complementari e codice di procedura penale, con il coordinamento di F.G. Corbetta, Molfetta, 2019; R. Bartoli, Verso la “legittima offesa”?, in Dir. pen. cont., 14 gennaio 2019, www.penalecontemporaneo.it; G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, in Dir. pen. cont., 1 aprile 2019, www.penalecontemporaneo.it; A. Ingrassia, Le nuove forme di legittima difesa domiciliare, in Il penalista, 18 aprile 2019, www.ilpenalista.it; F. Consulich, La legittima difesa assiomatica. Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., in Giur. pen., 5 maggio 2019, www.giurisprudenzapenale.it.; D. Pulitanò, Legittima difesa. Ragioni della necessità e necessità di ragionevolezza, in Dir. pen. cont., 21 maggio 2019, www.penalecontemporaneo.it; C. F. Grosso, La difesa legittima dopo la l. 26 aprile 2019, n. 102, in Dir. pen. proc., 2019, 885 ss.


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possono riguardare condotte nelle quali la violenza ed il conseguente uso delle armi risultano utilizzabili. Senza poter entrare in una casistica dettagliata si ipotizzino casi in cui, in tali circoscritte materie, l’applicazione del nuovo art. 52 c.p. può venire in considerazione (3). 2. I reati tributari. – In proposito, dunque, può essere interessante un esame del “modus operandi” delle persone in relazione ai reati tributari di cui al D.Lgs. n. 74/2000 mod. D.Lgs. n. 158/2015 e le sorprese non mancheranno. Il reato di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 mod. D.Lgs. n. 158/2015 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) (4) può essere commesso in stato di legittima difesa nell’ipotesi che l’emissione di fatture false sia attuata per eliminare un debito tributario che non spetta? Si faccia il caso che Tizio abbia emesso fatture a carico di Caio per debiti inesistenti e che Caio, per difendersi, abbia a sua volta emesso fatture a carico di Tizio per crediti inesistenti in relazione alla medesima operazione economica. Può parlarsi di scriminante dell’art. 52 c.p. a favore di Caio? La risposta dev’essere, in linea generale, negativa, in quanto le due operazioni sono strutturalmente distinte fra di loro e quindi non si può vantare la non punibilità per un reato per avere subito la commissione di altro e distinto reato da parte di altro soggetto.

(3) Per applicazioni giurisprudenziali in materia di art. 52 c.p. v. G. Lattanzi, Codice penale annotato con la giurisprudenza, 15° ed., Roma, 2017, p. 266 ss. (4) Sulla previsione in parola, solo per limitarsi alle opere manualistiche e trattatistiche più recenti, si vedano, tra gli altri, A. Aceto, La dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in A. Scarcella (a cura di), La disciplina penale in materia d’imposte dirette e I.V.A., Torino, 2019, 29 ss.; E. M. Ambrosetti, I reati tributari, in E. M. Ambrosetti, E, Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, IV ed., Bologna, 2016, 497 ss.; A. Lanzi, P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Assago, 2017, 294 ss.; A. Martini, Reati in materia di finanza e tributi, in C.F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro (diretto da), Trattato di diritto penale, Milano, 2010, p. 279; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, III ed., Bologna, 2016, 111 ss.; G. Ruta, La dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in R. Bricchetti, P. Veneziani (a cura di), I reati tributari, in F. Palazzo, C.E. Paliero (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto penale, Torino, 2017, 183 ss.; G.L. Soana, I reati tributari, IV ed., Milano, 2018, 97 ss. Per ampie citazioni giurisprudenziali v. F. Sgubbi, L. Mazzanti, L. Loretti, Codice dei reati tributari, Piacenza, 2017, 431 ss.


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Nell’ipotesi di operazioni oggettivamente o soggettivamente simulate o di altri mezzi fraudolenti, danti luogo al reato di dichiarazione fraudolenta mediante artifici di cui all’art.3 D.Lgs. n. 74 mod. D.Lgs. n. 158 (Dichiarazione fraudolenta medianti altri artifici) (5) può applicarsi la legittima difesa nel caso il soggetto passivo di una determinata operazione commerciale, indotto ad acquistare un bene con connessa regolare dichiarazione al Fisco dell’operazione, possa dimostrare che non aveva intenzione di danneggiare il Fisco, ma ad es. di acquistare un bene a prezzo ragionevole, non sapendo che il venditore non avrebbe poi regolarmente dichiarato la vendita stessa. Nell’ipotesi riconducibile all’art. 4 D.Lgs. n. 74 mod. D.Lgs. n. 158 (Dichiarazione infedele) (6) la medesima conclusione favorevole si può avere allorché l’acquirente, inconsapevole che sta effettuando un acquisto “in nero”, riceva dal venditore del bene un documento contraffatto che faccia ritenere la regolarità fiscale della vendita stessa, sulla base di una prassi contraffattiva abbastanza diffusa. In questo caso il comportamento dell’acquirente viene scriminato dal comportamento fraudolento del venditore, che si limita a difendersi dalla condotta illegittima del venditore. Il reato di cui all’art. 5 c. 1 D.Lgs. n. 74 mod. D.Lgs. n. 158 (Omessa dichiarazione) (7), verificabile nel caso di omessa presentazione della dichiarazione di imposta o di sostituto di imposta, può essere scriminato per legittima difesa se il soggetto sia tratto in errore dal comportamento decettivo di altri (es. documentazione fattagli avere da un professionista). L’emittente, cioè, si

(5) In ordine alla fattispecie di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000, solo per limitarsi alle opere manualistiche e trattatistiche più recenti, si vedano, tra gli altri, E. M. Ambrosetti, I reati tributari, in E. M. Ambrosetti, E, Mezzetti, M. Ronco, op. cit., 505 ss.; F. Cingari, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in R. Bricchetti, P. Veneziani (a cura di), op. cit., 203 ss.; A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 311 ss.; A. Martini, op. cit., 338; P. Molino, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in A. Scarcella (a cura di), op. cit., p. 101; E. Musco, F. Ardito, op. cit., 159 ss.; A. Perini, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in A. Giarda, A. Perini, G. Varraso (a cura di), La nuova giustizia penale tributaria, Padova, 2016, 213 ss.; G.L. Soana op. cit., 161 ss; F. Sgubbi, L. Mazzanti, L. Loretti, Codice, cit., 437 ss. (6) Sul delitto di dichiarazione infedele si vedano, tra gli altri, A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 340 ss.; A. Martini, op. cit., 380 ss., E. Musco, F. Ardito, op. cit., 165 ss.; A. Perini, Diritto penale tributario, in A. Cianci, A. Perini, C. Santoriello, La disciplina penale dell’economia, Torino, 2008; F. Sgubbi, L. Mazzanti, L. Loretti, Codice, cit., 440 ss. (7) Sul delitto di omessa dichiarazione si vedano, tra gli altri, A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 362 ss.; E. Musco, F. Ardito, op. cit., 193 ss.; F. Sgubbi, L. Mazzanti, L. Loretti, Codice, cit., 442 ss.


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difende dal comportamento mendace del soggetto incaricato della presentazione, venuto meno al proprio dovere, depositando la dichiarazione sulla base di quanto gli risulta. Nella dottrina specialistica sull’argomento ci si è posti il problema del caso in cui il contribuente dichiari una perdita in un certo anno di imposta, che venga fatta oggetto di “riporto in avanti”, a diminuzione del reddito conseguito in un anno successivo od in anni successivi (8). Succede che, sottoposto ad accertamento l’anno di imposta nel quale è stata dichiarata la perdita, questa venga ridotta per sopravvenuto incremento degli elementi attivi o per decremento degli elementi passivi. Pertanto, ci si chiede quale sia l’effetto per gli anni successivi, nei quali la perdita sia a diminuzione del reddito conseguito. Si afferma non esservi problema nel caso in cui comunque negli anni successivi consegua una perdita, come espressamente stabilito nella seconda parte della lett. f) dell’art.1. È invece differente il caso in cui, fatta venir meno la perdita oggetto di riporto, emerga un reddito ed una conseguente imposta da versare (caso in cui, eliminata la perdita riportata per effetto dell’accertamento, derivi una maggior imposta da versare che sia superiore alla soglia di punibilità). E questo perché, negli anni successivi, non si realizza la condotta tipica del reato di cui agli artt. 3 o 4, ma ci si limita a riportare la perdita derivante da un anno di imposta precedente, fatto oggetto di rettifica da parte dell’A.F. Invero con la riforma della lett. b) dell’art.1 anche l’elemento che incida sulla determinazione dell’imposta costituisce “elemento passivo” (suscettibile quindi di dar luogo a responsabilità penale). La dottrina in proposito ha chiarito che “la clausola di esclusione contenuta nella seconda parte della lett. f) dell’art.1 non può operare in questo caso, in quanto non ci si trova nella fattispecie dell’imposta teorica e non effettivamente dovuta, quanto nella fattispecie in cui il contribuente sarebbe chiamato a corrispondere l’imposta a seguito del venir meno, totale o parziale, della perdita dell’esercizio precedente. In questi casi diviene dirimente il profilo soggettivo per quel che concerne il delitto di dichiarazione infedele atteso che il delitto di dichiarazione fraudolenta non può venire ad esistenza per difetto

(8) Su questa tematica v. S. Piccioli, Il concetto di imposta evasa nel delitto di dichiarazione infedele agli effetti dell’utilizzo delle perdite fiscali pregresse, in I nuovi reati tributari. Commento al d.Lgs.. 24 settembre 2015 n. 158, a cura di I. Caraccioli, Milano, 2016, 184 ss.


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degli elementi di fraudolenza richiesti”. E quindi “diviene dirimente accertare se il contribuente sia consapevole negli anni di imposta successivi di riportare in avanti una perdita che si sa essere in realtà insussistente”. “Situazione simile a quella già esaminata in giurisprudenza…nella quale il contribuente riporti in più anni di imposta un componente del reddito che si sappia essere inficiato, nella sua genesi, da fraudolenza o infedeltà, tipico il caso delle quote di ammortamento” (9). Interessanti applicazioni della legittima difesa possono aversi con riferimento alla fattispecie della sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di cui all’art.11 D.Lgs. n. 74/2000 (Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) (10). Si faccia il caso del soggetto debitore nei confronti del Fisco che ponga in essere atti fraudolenti sui propri beni per risultare incapiente di fronte a procedure di riscossione. Il creditore, nel timore di perdere altri beni rientranti nella massa alla quale appartengono anche i beni spettanti al Fisco, vende fittiziamente i beni stessi ad un parente od amico di fiducia. Non vi è dubbio che eventuali reati commessi (ad es., appropriazione indebita od altro) da questo soggetto per salvare tali beni sono scriminabili in forza dell’art. 52 c.p. 3. I reati societari. – Interessanti applicazioni della legittima difesa (art. 52 c.p.) possono aversi nel campo dei reati societari, in particolare di quelli di cui agli artt. 2621 ss. c.c. (False comunicazioni sociali ed altri reati societari), trattandosi di fattispecie che necessariamente presuppongono un rapporto bilaterale o trilaterale o plurilaterale fra enti societari (11). Si faccia il caso degli amministratori di una società che integrano gli estremi delle “false comunicazioni sociali” di cui all’art. 2621 c.c., esponendo in bilancio delle voci non vere, in modo tale da integrare il reato in questione, e che addivengano a tale comportamento non per recare un danno ad altre

(9) L. Imperato, Commento agli art. 1 e 2 d.Lgs. 74/2000 mod. D. Lgs. 158/2015, in I nuovi reati tributari, cit., 67. (10) Sul delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, v., tra gli altri, A. Lanzi, P. Aldrovandi, op. cit., 399 ss.; M. romano, Il delitto di sottrazione fraudolenta di imposte, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1003 ss.; R. Zannotti, Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Rass. trib., 2001, 771 ss; G. Gambogi, La riforma dei reati tributari, Commento al d.Lgs. 24 settembre 2015 n. 158, Milano, 2016, 301 ss. (11) Per ampia trattazione sui reati societari v. A. Perini, Disposizioni penali in materia di società di concorsi e di altri enti privati, Bologna, 2018, 23 ss., ed Autori ivi citati.


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società od al pubblico, ma semplicemente per difendersi dal comportamento illegale di altra società che, con il relativo mendacio, intende conseguire dei vantaggi illeciti, ad es. svalutare le azioni della società avversaria. In ipotesi concreta, mettano in giro la voce che la società avversaria sta fallendo o che sta per stringere un accordo con altra società dedita a traffici illeciti e così via. Non si può negare che, sia pure indirettamente (ma con comportamento causalmente produttivo di risultati), l’avversario sta ponendo in essere delle condotte dannose alle quali gli amministratori della società in questione reagisce con comportamenti qualificabili come non punibili a titolo di difesa legittima. Potrebbe, ad esempio, nella specie, non essere valida una mera denunzia all’A.G. nel timore che l’intervento della stessa non giunga a termine nel tempo utile per impedire i gravi danni minacciati o temuti. Scorrendo attentamente il contenuto degli altri reati societari ed a maggior ragione di quelli fallimentari è facile individuare ipotesi concrete di applicazione di ipotesi di legittima difesa ex art. 52 c.p. 4. False comunicazioni sociali. – Sempre con riferimento all’applicazione della scriminante della legittima difesa al campo dei reati tributari ed economici vengono in considerazione talune ipotesi criminali potenzialmente integranti il reato di false comunicazioni sociali (12) realizzate all’esclusivo scopo di allontanare il pericolo di un’aggressione ingiusta al proprio patrimonio societario. Si faccia il caso di una ipervalutazione di un bene (ad es. immobile) per impedire che altra società (di grosse dimensioni e non avente problemi economici) che voglia impadronirsi del bene stesso riesca ad ottenerne l’acquisto ad un prezzo che per la società acquirente non risulta di difficile raggiungimento, mentre per la società costretta a vendere è oggetto di cessione economicamente necessitata. In casi di questo genere può essere fatto ricorso alla scriminante della legittima difesa, la quale può trovare applicazione anche nei rapporti fra enti societari, tenuto conto che l’art. 52 c.p., quando parla di “chi”, come destina-

(12) Cfr. A Perini, Commento sub art 2621 c.c., in A. Perini, Disposizioni penali in materia di società di concorsi e di altri enti privati, cit., 23 ss; N. Mazzacuva, Il falso in bilancio. Profili penali: casi e problemi, Padova, 2004; M. Scoletta, Le false comunicazioni sociali. Bilanci e prospettive, Pavia, 2012.


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tario della scriminante, abbraccia necessariamente sia le persone fisiche che le persone giuridiche. Con riferimento al possibile destinatario dell’aggressione persona giuridica (aggredita), che reagisca nei confronti di altra persona giuridica (aggressore), alla luce di quanto specificamente previsto dall’art. 52 c.p., la scriminante in questione è sicuramente applicabile ed il requisito della “proporzione” andrà valutato, nei singoli casi concreti, tenendo ovviamente conto della particolare natura dei beni aggrediti ed oggetto di difesa. 5. Impedito controllo. – Un’altra fattispecie penale societaria rispetto alla quale è possibile ipotizzare concretamente la configurabilità della scriminante in esame è l’impedito controllo di cui all’art. 2625 c.c. (13), allorché gli amministratori impediscano od ostacolino lo svolgimento delle attività di controllo legalmente attribuite ai soci o ad altri organi societari. Problemi particolari potranno prospettarsi nei casi concreti se la reazione dei soggetti “impediti” travalichi esageratamente quanto necessario per ottenere il risultato perseguito. 6. Infedeltà patrimoniale, influenza illecita sull’assemblea, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. – Parimenti significativi esempi concreti possono poi verificarsi, ma non solo, con riguardo alle fattispecie di “infedeltà patrimoniale” (art. 2634 c.c.) (14), “influenza illecita sull’assemblea” (art. 2636 c.c.) (15), “ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza” (art. 2638 c.c.) (16), allorché si verifichino dei significati comportamenti di “debordamento” dalla normalità

(13) Cfr. A. Perini, Disposizioni penali in materia di società di concorsi e di altri enti privati, cit., 167 ss. (14) Cfr. F. Consulich, commento sub art. 2634 c.c., in A. Perini, Disposizioni penali in materia di società di concorsi e di altri enti privati, cit., 468 ss.; L. Foffani, Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa. Profili penalistici, Milano, 1998; E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016, 207 ss. (15) Cfr. G. M. Soldi, Commento sub art. 2636 c.c., in A. Perini, Disposizioni penali in materia di società di concorsi e di altri enti privati, cit., 548 ss.; E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, cit., 224 ss.; M. Zanchetti, Illecita influenza sull’assemblea, in A. Alessandri (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 409 ss. (16) Cfr. A. F. Tripodi, Commento sub art. 2638 c.c., in A. Perini, Disposizioni penali in materia di società di concorsi e di altri enti privati, cit., 619 ss.; E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2016, 234 ss.


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e correttezza dei comportamenti da doversi tenere all’interno delle compagini societarie. Interessante, in proposito, è la tematica delle diverse opinioni (estensive o restrittive) delle attività di ostacolo tollerate o punite. Diversamente si registrano in dottrina, infatti, posizioni volte a delimitare l’area del penalmente rilevante e dunque a respingere le letture estensive della figura. Si è, al riguardo, proposto di concepire l’evento come “un ostacolo non momentaneo e non irrilevante alle attività di vigilanza, dunque di un certo spessore”. 7. Una scriminante diversa dalla legittima difesa: lo stato di necessità. – Senza parlarsi qui della specifica scriminante dell’“uso legittimo delle armi” (art. 53 c.p.), dato che essa presenta caratteristiche autonome e particolari rispetto alla legittima difesa, merita affrontare il problema della differenza della legittima difesa stessa rispetto allo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., che pure può applicarsi, in casi particolari, alla materia dei reati tributari. Tale ultima norma dispone che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato all’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo” (17). Con riferimento al settore dei reati tributari ed in materia economica la giurisprudenza ha talvolta applicato la scriminante stessa in ipotesi concrete quali le seguenti: impossibilità di eseguire nei termini un comportamento obbligatorio per chiusura (ad es. sciopero) degli uffici abilitati a ricevere determinate dichiarazioni, trattandosi dell’ultimo giorno prima della scadenza; malattia del soggetto obbligato che gli impedisce di recarsi all’Ufficio in cui adempiere il dovere prescritto; e simili. Sarà ovviamente onere della pubblica Accusa verificare l’esistenza dei presupposti di fatto della scriminante, ma comunque in linea generale si deve osservare che compete all’indagato fornire tutti gli elementi per rendere accertabile, in linea di fatto, l’esistenza della scusante.

(17)

Cf. G. Garofoli, op. cit, p. 211; G. Lattanzi, op.cit., p. 275 ss.


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Da ultimo, con riferimento alle scriminanti in esame si deve altresì tenere presente la disposizione di chiusura dell’art. 55 c.p. (Eccesso colposo), secondo la quale “quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51,52,53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dell’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. Situazione, quest’ultima, che comunque appare difficilmente verificabile con riferimento agli obblighi di natura tributaria, per come sono specificamente costruiti dal Legislatore. 8. La legittima difesa putativa. – Una situazione particolare che può produrre determinati effetti giuridici, nella specie la non punibilità del fatto, è quella dell’inesistenza degli elementi costitutivi della scriminante della legittima difesa, a cui peraltro si accompagna la ritenuta (nella mente del soggetto) esistenza degli estremi della stessa. In altre parole, nel caso concreto non esistono gli estremi della difesa legittima, ma il soggetto, con autonomo ragionamento accettabile, ritiene che detti estremi effettivamente esistano. Ad esempio, perché ragionevolmente ritiene di essere aggredito nei propri interessi, mentre in effetti non lo è, ma nei suoi confronti non possono essere rivolti rimproveri di cattiva od irragionevole valutazione della reale situazione delle cose. In proposito non è possibile effettuare delle valutazioni standardizzate, ma il giudice deve tenere conto ragionevolmente delle specifiche situazioni concrete. Ad es., nel caso concreto esistevano tutte le caratteristiche del fatto concreto per essere realmente convinti dell’esistenza di tale aggressione. Ad esempio, viene rinvenuta una lettera dalla lettura della quale emerge ragionevolmente che altro soggetto stava per porre in essere dei comportamenti tendenti a comprimere l’altrui capacità di libertà di comportamento, mentre tali elementi non potevano ragionevolmente essere interpretati in tal senso. 9. Gli effetti dell’abrogazione dell’art. 7 D.Lgs. n. 74/2000. – A seguito della riforma attuata con il D.Lgs. n. 158/2015 è stato abrogato l’art. 7 D.Lgs. n. 74/2000, rubricato “Rilevazioni nelle scritture contabili e le bilancio”: “Non danno luogo a fatti punibili a norma degli artt. 3 e 4 le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza ma sulla base di metodi costanti di impostazione


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contabile, nonché le rilevazioni e le valutazioni estimative rispetto alle quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio. In ogni caso, non danno luogo a fatti punibili a norma degli artt. 3 e 4 le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al dieci per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste nel c. 1 lett. a) e b) dei medesimi articoli”. L’art. 7 D.Lgs. n. 74, abrogato dal D.Lgs. n. 158, prevedeva delle situazioni nelle quali non si verificavano gli estremi degli artt.3 e 4 del precedente testo, e la cui eliminazione è dovuta alla sostanziale modifica intervenuta sui reati di cui a tali articoli, che risultano ora completamente modificati. Non poteva quindi essere diversamente, in quanto il Legislatore del 2015 ha ritenuto di mantenere in vita entrambe le citate fattispecie criminose, ristrutturandole peraltro in maniera completamente differente, come risulta chiaramente dalla lettura dei nuovi reati, non soppressi, ma profondamente rivisitati alla luce dei nuovi criteri sistematico-sanzionatori adottati. Segno, questo, della volontà del Legislatore di mantenere in vita fattispecie criminose in materia di dichiarazioni fraudolente o mendaci, non riservate al solo campo delle sanzioni amministrative, ma comunque fortemente ridimensionate quanto al loro contenuto repressivo. Indice di un futuro ridimensionamento del diritto penale in materia tributaria? È troppo presto per dirlo, in quanto il Legislatore appare sempre ed ancora attirato dal mantenimento delle sanzioni penali (non quindi solo di quelle amministrative) nel campo tributario, nel sostanziale timore che il ricorso alle sole sanzioni tributarieamministrative rappresenti un sostanziale svuotamento del rimedio punitivo.

Ivo Caraccioli



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27 luglio 2000, n. 212 - donazione di denaro con bonifico da conto estero - Articolo 2 d.lgs. 346/1990 - art. 55 d.lgs. 346/1990 Risposta n. 310 del 24 luglio 2019 - Risposte a istanza di interpello dell’Agenzia delle entrate - Divisione contribuenti – Dir. Centrale Persone Fisiche, Lavoratori Autonomi ed Enti non Commerciali Per presumere l’esistenza nel territorio dello Stato del bene denaro, occorre, quale elemento di collegamento con lo Stato italiano, la residenza in Italia del soggetto emittente (l’assegno) con il quale si trasferisce la disponibilità del denaro a favore del beneficiario dell’atto di donazione. Anche nel caso di donazione di denaro tramite bonifico, il bene donato non si può considerare esistente nello territorio dello Stato laddove il donante sia residente all’estero. (1)

Con l’interpello specificato in oggetto è stato esposto il seguente

Quesito. - L’istante, residente in Italia, fa presente che il figlio, residente nel Regno Unito, intende effettuare in suo favore una donazione di denaro, non di modico valore, che possiede in deposito in un conto estero. La donazione avverrebbe tramite bonifico bancario, con il quale la somma di denaro verrebbe trasferita su un conto corrente che il beneficiario istante possiede presso una banca anch’essa situata all’estero. Premesso quanto sopra, l’istante chiede di conoscere quale sia il corretto trattamento tributario applicabile, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, alla fattispecie in esame, in cui il donante, residente all’estero, dona a favore del beneficiario, residente in Italia, una somma di denaro depositata all’estero. Soluzione prospettata dal contribuente. - L’interpellante ritiene che l’atto di donazione, formato all’estero, con il quale il figlio dispone, in suo favore, la donazione di una somma di denaro, attualmente depositata su un conto corrente bancario costituito all’estero, non debba essere assoggettato ad imposta di donazione. Ad avviso dell’istante, infatti, la predetta donazione non integra il presupposto territoriale di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di seguito TUS). Ai sensi del predetto articolo, se il donante non è residente nel


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territorio dello Stato, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti. L’istante afferma, infatti, che l’atto di donazione verrebbe formato all’estero e la somma da donare è depositata all’estero. Né rileva, a parere dell’istante, la disposizione recata dal comma 1-bis dell’articolo 55 del citato TUS (introdotto dall’articolo 69 della legge 21 novembre 2000, n. 342), ai sensi del quale “ Sono soggetti a registrazione in termine fisso anche gli atti aventi ad oggetto donazioni, dirette o indirette, formati all’estero nei confronti di beneficiari residenti nello Stato. …”. Ciò, in quanto, osserva l’istante, la finalità della norma è quella di affermare l’obbligo di registrazione anche per le donazioni formali stipulate all’estero (fino ad allora) intassabili a causa del trapianto delle regole della territorialità proprie della legge di registro. Parere dell’Aagenzia delle Entrate. - I criteri di territorialità dell’imposta sulle successioni donazioni sono dettati dall’articolo 2 del TUS che stabilisce “1. L’imposta è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorché esistenti all’estero. 2. Se alla data dell’apertura della successione o a quella della donazione il defunto o il donante non era residente nello Stato, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti”. In applicazione di tale disposizione, dunque, se il donante non risulta residente in Italia al momento della donazione, rilevano, ai fini dell’applicazione dell’imposta, solo i beni e diritti ‘esistenti’ sul territorio nazionale (c.d. principio della territorialità). L’articolo 55 del TUS detta, inoltre, le regole di registrazione degli atti di donazione stabilendo, al comma 1, che gli stessi devono essere assoggettati a registrazione secondo le regole dettate dal D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico dell’imposta di registro, TUR) per gli atti da registrare in termine fisso. In particolare, gli atti soggetti a registrazione, ai fini dell’imposta di registro, sono individuati dall’articolo 2 del citato TUR, secondo il quale sono soggetti a registrazione, tra l’altro, “ … d) gli atti formati all’estero …. che comportano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali, anche di garanzia, su beni immobili o aziende esistenti nel territorio dello Stato….”. In applicazione di tale disposizione, rilevavano, ai fini dell’imposta di registro e, quindi, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle donazioni (Circolare 16 novembre 2000, n. 207), solo gli atti formati all’estero che avevano ad oggetto ‘beni immobili o aziende’ esistenti sul territorio dello Stato. Al fine di evitare che atti formati all’estero, aventi ad oggetto beni diversi dagli immobili e dalle aziende, eludessero l’obbligo di registrazione ai fini dell’imposta sulle donazioni, con l’articolo 69, comma 1, lett. n), della legge 21 novembre 2000, n. 342, è stato inserito il comma 1-bis all’articolo 55 del TUS. Tale disposizione, che non deroga ai criteri di territorialità dell’imposta previsti dal citato articolo 2 del TUS, stabilisce che, ai fini dell’imposta sulle donazioni, “Sono soggetti a registrazione in termine fisso anche gli atti aventi ad oggetto donazioni, dirette o indirette, formati all’estero nei confronti di beneficiari residenti nello Stato. ….”.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

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Prima della citata modifica normativa (in virtù dei principi regolanti la territorialità agli effetti dell’imposta di registro ai sensi del citato articolo 2, comma 1, lett. d) del DPR n. 131/1986) gli atti aventi ad oggetto beni diversi da immobili o aziende siti in Italia non erano soggetti a registrazione in termine fisso, anche nel caso in cui il donante fosse residente nel territorio dello Stato, per il solo aspetto formale della stipula all’estero dell’atto. Successivamente a tale modifica, invece, rilevano, ai fini dell’imposta sulle donazioni e devono essere assoggettati a registrazione in termine fisso anche gli atti formati all’estero aventi ad oggetto beni diversi da immobili ed aziende esistenti nel territorio dello Stato, sempreché il donante sia residente nello Stato (articolo 2, comma 1, del TUS) ovvero, nel caso in cui il donante sia non residente, quando i beni siano esistenti nel territorio dello Stato (articolo 2, commi 2 e 3, del TUS). Alla luce del suddetto quadro normativo, per stabilire se, nella fattispecie proposta con la presente istanza d’interpello, l’atto di donazione con bonifico da parte di un donante residente all’estero sia da assoggettare a tassazione in Italia, occorre esaminare se il bene oggetto di donazione possa essere considerato quale bene ‘esistente’ nel territorio dello Stato. Al riguardo, il comma 3 del sopracitato articolo 2 del TUS, pone una presunzione di esistenza nel territorio dello Stato, tra l’altro, per “ … e) i crediti, le cambiali, i vaglia cambiari e gli assegni di ogni specie, se il debitore, il trattario o l’emittente è residente nello Stato;….”. Considerato che il denaro (da trasferire in tale caso mediante bonifico bancario) non risulta tra i beni che, ai sensi del citato comma 3, si presumono ‘esistenti’ nel territorio dello Stato, si ritiene utile far riferimento alla disciplina dettata per le altre tipologie di beni, previste dalla citata lettera e), che presentano caratteristiche sostanzialmente analoghe al denaro. Sul punto, si può quindi far riferimento all’assegno di ogni specie che si presume esistente nel territorio dello Stato “se l’emittente è residente nello Stato”. Pertanto, per presumere l’esistenza nel territorio dello Stato del bene denaro, occorre, quale elemento di collegamento con lo Stato italiano, la residenza in Italia del soggetto emittente (l’assegno) con il quale si trasferisce la disponibilità del denaro a favore del beneficiario dell’atto di donazione. In assenza di tale condizione, detto bene non si considera esistente nel territorio dello Stato e, dunque, il relativo atto di donazione da parte del donante residente all’estero, non rileva ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle donazioni in Italia. Per le suesposte considerazioni, nella fattispecie di cui alla presente istanza d’interpello, si ritiene che il denaro, oggetto della donazione tramite bonifico, non sia da presumere quale bene esistente nello territorio dello Stato, nel presupposto che, come affermato nell’istanza ed ivi acriticamente assunto, il donante è residente all’estero.


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Di conseguenza, non essendo detto atto soggetto ad imposta di donazione per mancanza del presupposto di territorialità, non sussiste l’obbligo di registrazione in termine fisso dell’atto di donazione formato all’estero.

(1) Donazioni estere: l’apoditticità di una tesi, parzialmente condivisibile, dell’Agenzia delle Entrate. Il comma 1 bis dell’articolo 55 del D.lgs. 346/1990 assolve ad una funzione antievasiva, impedendo che sfuggano all’imposta le liberalità compiute all’estero – qualora già non siano soggette a registrazione, secondo le regole originarie e proprie di questo adempimento – se il beneficiario sia residente nello Stato. L’allargamento dell’obbligo di registrare stabilito dalla disposizione menzionata non implica affatto un mutamento del prelievo effettivo riferibile alle donazioni dirette e indirette, che resta fissato dalle disposizioni fondamentali. Ne consegue che l’imposta sulle liberalità, formali e informali, può essere pretesa, quand’anche il beneficiario dimori stabilmente in Italia, solo se sussistano le condizioni della territorialità previste dall’articolo 2 del predetto decreto.

Paragraph 1 bis of Article 55 of Legislative Decree 346/1990 performs an anti-evasive function - according to the original and proper rules of this fulfillment - if the beneficiary is resident in the State. The obligation to impose registration tax, in that case, no implies a change in the actual levy attributable to direct and indirect gifts, which is subject to fundamental rules. With that, the tax on gifts, formal and informal, can be claimed, even if the beneficiary dwells permanently in Italy, only if the territoriality conditions provided for in Article 2 of the aforementioned decree exist.

1. In risposta ad un interpello – strumento comunque assai delicato, da maneggiare con estrema prudenza – l’Agenzia delle Entrate, occupandosi di una questione riguardante l’imposta sugli atti gratuiti, ha affermato che il peculiare regime della territorialità s’impone e prevale, in ogni caso, sulle norme strumentali che disciplinano la registrazione degli atti donativi (1).

(1) Sul tema, in generale, G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 213 ss. e 449 ss., e C. Sacchetto, La donazione nel diritto tributario, in Riv. dir. trib., 1999, I, 989 ss. (e spec. 1011 ss.); e, nello specifico, A. Fedele, Le innovazioni della legge 342 del 2000, le definizioni della ratio del tributo. I rapporti con l’imposta di registro, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, Milano, 2001, 77 ss., nonché lo Studio del CNN, 26 marzo 2010, n. 194-2009/T


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Mi riferisco al responso n. 310, privo censurabilmente di data, ma in realtà del 24.7.2019, come si desume dai depositi informatici dell’Amministrazione: a questo atto dedico un breve commento (2). Il caso, vagliato dall’Agenzia, è schematico: una persona, di nazionalità italiana, ma residente nel Regno Unito, mossa da intento liberale, elargisce al genitore, che vive in Italia, una somma cospicua di danaro, tratta da un conto corrente estero e versata al destinatario mediante accreditamento bancario. L’autore della liberalità, nell’istanza d’interpello, comunica di opinare innanzitutto che l’imposta non sia dovuta, perché il donante non risiede nello Stato e il bene trasmesso si trovava, al momento del gesto munifico, all’estero (a nulla rilevando - come si desume implicitamente dal pensiero dell’istante – il successivo spostamento entro i confini italiani); e in secondo luogo che non sia doverosa neppure la registrazione, proprio per l’assenza del prelievo. 2. Richiamo le norme che regolano o si può astrattamente ritenere che attengano al caso di specie. Innanzitutto, a mente dell’art. 2, comma 2, del decreto legislativo n. 346/1996, “se alla data dell’apertura della successione o a quella della donazione [espressione da intendersi in senso lato, comprensivo di ogni liberalità] “il defunto o il donante non era residente nello stato, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti”. La norma codifica un principio razionale relativo alla distribuzione geografica del potere impositivo, poiché questo giustamente spetta allo Stato nel quale si trovano le componenti oggettive dell’evento rilevante per il tributo e sta il promotore, principale protagonista.

(2) Per una prima analisi della medesima risposta, S. Ghinassi, La tassazione delle donazioni estere, in Riv. dir. trib. – Online, 16 settembre 2019. La posizione del responso in commento era già stata assunta dall’Agenzia delle Entrate in due risposte pregresse, e in particolare: la prima è stata resa dalla Direzione Regionale della Lombardia, risposta a consulenza giuridica n. 904-3/2015, il cui contenuto è succintamente commentato in Boll. trib., 2016, 318319 e in Riv.dir.trib.- Online, 1 dicembre 2015, da B. Denora, La residenza del donatario non rappresenta uno dei criteri di territorialità dell’imposrta sulle donazioni; la seconda risposta è stata resa dalla Direzione Centrale Normativa il 26 agosto 2014, mai ufficialmente pubblicata, e perciò consultata direttamente, il cui contenuto è stato illustrato da alcuni quotidiani specializzati e anche in Boll.trib., 2016, 319. Nello stesso senso, inoltre, si era già espressa la giurisprudenza di merito: v., ad es., Comm. trib. reg. di Ancona, sez. 3, 20 settembre 2016, n. 594, che ha richiamato anche la citata Direzione Regionale della Lombardia, risposta a consulenza giuridica n. 904-3/2015.


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Parte seconda

Tuttavia – come riferisce lo stesso istante, pur sostenendo l’inapplicabilità della norma – l’articolo 55, comma 1 bis, del citato d. lgs. n. 346/1996 dispone che “sono soggetti a registrazione in termine fisso gli atti aventi ad oggetto donazioni, dirette o indirette, formati all’estero nei confronti di beneficiari residenti nello Stato” (3). La terminologia della disposizione è impropria. Le donazioni indirette - ovvero, secondo l’accezione propria del vocabolo, atti, sia pure solenni, tuttavia obliqui, mediati e contorti - non esistono in natura. Esiste invece la liberalità informale, compresa, teoricamente, anche quella che non lasci tracce percepibili da uno terzo (4); e a tale ipotesi ha inteso palesemente alludere il legislatore del 2000, sfruttando un linguaggio convenzionale ed erroneo, per il quale la munificenza, priva di rivestimenti rigidi e predeterminati, è un atto di generosità indiretta (5). A tutti i gesti liberali, compiuti all’estero in favore di soggetto dimorante stabilmente in Italia, è dunque imposto l’obbligo della registrazione (6). A tal fine è presentata all’Ufficio la traccia documentale, qualunque essa sia, del trasferimento patrimoniale, accompagnata dalla istanza che prescrive la legge di registro, oppure una denuncia, se l’attribuzione al destinatario sia avvenuta

(3) In generale, sui principi generali della riforma del 2000, con cui tale disposizione è stata introdotta, v. G. Marongiu, La riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, cit., 3 ss. Nello specifico, ricorda S. Ghinassi, La tassazione delle donazioni estere, cit., che “l’introduzione di tale norma (…) si era resa necessaria in quanto, stante il meccanismo applicativo dell’imposta di donazione, basato sui principi dell’imposta di registro e pertanto sull’esistenza di un atto scritto perfezionato (salvo per immobili ed aziende) in Italia (v. artt. 55 TUS e 2 D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131), sfuggivano ad imposizione gli atti di donazione formati all’estero non aventi ad oggetto immobili od aziende”. (4) Sulla questione v. G. Gaffuri, Le liberalità informali, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, cit., 281 ss., insieme a R. Lupi, I trasferimenti non formali: dalle scelte rinunciatarie del legislatore del 1973 all’imbarazzo di quello del 2000, in AA.VV., op. ult. cit., 289 ss. (5) V., sul punto, G. Marongiu, La riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, cit., 19 ss.; D. Stevanato, Le liberalità tra vivi nella riforma del tributo successorio, in AA.VV., op.ult. cit. 245 ss.; M. Nastri, Liberalità indirette e prassi negoziale, in AA.VV., op. ult. cit., 305 ss.; G. Monteleone, Il nodo delle liberalità indirette, in AA.VV., op. ult. cit., 331 ss. S. Ghinassi, La fattispecie impositiva del tributo successorio, Pisa, 2014, 83 ss. e A. Pischetola, Liberalità indirette e imposta di donazione, in Notariato, 2015, 653 ss. (6) Come già sostenuto in G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., 462 ss.


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tramite un mero movimento fisico concludente: ma in tale evenienza l’accertamento dell’eventuale evasione è ovviamente difficile. 3. La lettera della norma strumentale è tassativa e incondizionata. Potrebbe allora far ragionevolmente supporre o almeno sospettare che il legislatore, estendendo senza condizionamenti l’obbligo della registrazione – cui è strettamente connesso il dovere tributario per gli atti di donazione, secondo l’impianto generale dell’imposta – a tutte le munificenze elargite all’estero in favore di residenti, abbia voluto istituire (nell’ambito del tributo sugli atti gratuiti di contenuto economico) un prelievo peculiare e derogatorio, accentuatamente formalistico. Così concepito, questo ipotizzato gravame – comunque di stretta interpretazione, data, appunto, la sua natura eccezionale – si sottrarrebbe a tutte le regole che limitano e condizionano sostanzialmente il prelievo: in ispecie alla disciplina della territorialità, risultante dal surriferito articolo 2, comma 2. 4. Tale era il dubbio posto dall’interpellante – che pure propendeva per una sana esegesi fondata sull’essenza del prelievo – all’attenzione dell’Agenzia, che ha risolto il quesito in senso conforme alla disciplina sostanziale. L’organo centrale dell’Amministrazione finanziaria – dopo aver ricordato le disposizioni riferibili, astrattamente, alla fattispecie e prima rammentate – esamina se il denaro depositato su un conto corrente bancario estero si possa, ciò nondimeno, presumere esistente nello Stato e dunque qui imponibile, conformemente ai principi della territorialità. A tale riguardo l’Agenzia suppone che il denaro sia assimilabile all’assegno, deducendo che, nel caso di specie, è intassabile in virtù di quella assimilazione, perché l’assegno è soggetto al prelievo sulle liberalità solo se è emesso da un residente. Escludo che si possa sostenere fondatamente questa equivalenza, neppure per analogia. Il denaro è una sostanza reale munita di un valore economico intrinseco fissato dall’ordinamento, segue le regole civilistiche proprie del bene mobile fungibile e può essere trasferito anche solo virtualmente proprio perché è fungibile. L’assegno, invece, è un titolo astratto, alla cui sorte fiscale (richiamata dall’Agenzia) soggiace, in via mediata, il rapporto creditorio sostanziale sottostante, che è il bene autenticamente tassato.


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Parte seconda

La collocazione spaziale del denaro coincide col luogo in cui viene custodito, anche empiricamente se si volessero evocare immagini ancestrali e pittoresche di conservazione. Più linearmente, dunque, e senza ricorrere a forzature esegetiche, l’esclusione del tributo, nel caso di specie, deriverebbe dallo stato estero del denaro (qualora prevalesse la norma sulla territorialità del tributo, come è giusto: e tanto si spiegherà successivamente). 5. All’esito della surriferita identificazione tra denaro e assegno, che è di fatto una divagazione non pertinente, l’Agenzia conclude per l’inapplicabilità del tributo, semplicemente richiamando la disciplina relativa. Peraltro, trascura la vera questione di fondo, proposta alla sua attenzione dall’interpellante, ovvero l’apparente antitesi tra la lettera dell’articolo 55, comma 1 bis, e la disposizione contenuta nell’articolo 2, comma 2 nonché il criterio per risolverla: manca qualunque argomentazione sul tema. Sembra opportuno, allora, indicare ragioni plausibili che consentano di risolvere l’ipotetico conflitto tra le due norme. Appare innanzitutto naturale e incontrovertibile che una disposizione di natura meramente strumentale – la quale non contenga espliciti riferimenti all’oggetto imponibile, modificandone parzialmente i profili – sia cedevole rispetto ai principi sostanziali e non possa alterare le regole essenziali della tassazione. Invero – aggiungo – se il legislatore del 2000, che ha concepito il comma 1 bis dell’articolo 55, avesse voluto realmente allargare l’ambito territoriale della imponibilità, avrebbe inserito la disposizione novella nell’articolo 2, istituendo gli opportuni collegamenti con la disciplina formale (7). D’altra parte – qualora si pensasse che il comma 1 bis abbia surrettiziamente, ma realmente allargato il perimetro, entro il quale è tassabile nel nostro Paese la liberalità, paludata o informale – emergerebbe un inammissibile squilibrio rispetto al prelievo parallelo sulle successioni, che rimarrebbe legato al quadro originario (non mutato, appunto, per la vicenda ereditaria) dell’ordinamento. Ancora, se si insistesse per attribuire all’articolo 55, comma 1 bis, un’efficacia derogatrice al principio generale della territorialità, si profilereb-

(7) Di tutto ciò non vi è traccia, come risulta anche dal saggio di uno degli artefici della riforma: cfr. G. Marongiu, Le novità della legge di riforma dell’imposta sulle successioni , in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, cit., 93 ss.


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be un ulteriore contrasto interno tra la sorte delle donazioni e il peso fiscale recentemente istituito sui vincoli di destinazione. La disparità di trattamento sarebbe, allora, così palese da generare un sicuro contrasto con l’articolo 3 della Costituzione. Tuttavia – come insegna il Giudice delle leggi – prima di decretare l’illegittimità della norma occorre tentarne una lettura che renda conciliabile il suo contenuto vincolante con la Costituzione: nessun ostacolo a questa esegesi conciliante pone il testo letterale, nel caso di specie. Si può trarre già da questo assunto una conseguenza plausibile. La donazione, diretta e indiretta, compiuta all’estero in favore di un residente in Italia è qui tassabile incondizionatamente, solo se anche il donante risieda nel territorio dello Stato; oppure, nel caso in cui l’autore dimori abitualmente all’estero, se l’atto liberale abbia per oggetto beni, di ogni genere, collocati in Italia: in tale ultima ipotesi l’obbligo fiscale è limitato a questo compendio (8). Il comma 1 bis dell’articolo 55 – così ricondotto alla concordia con la Carta costituzionale – assolverebbe ad una funzione antievasiva, impedendo che sfuggano all’imposta le liberalità compiute insidiosamente all’estero – qualora già non siano soggette a registrazione, secondo le regole originarie e proprie di questo adempimento – se il beneficiario, soggetto passivo naturale, sia residente nello Stato e qui dunque si avvantaggi. Un’ulteriore riflessione, concernente la natura del fatto imponibile, rafforza l’esito cui hanno condotto le idee prima espresse. La dottrina unanime e la prevalente giurisprudenza predicano che l’oggetto del tributo sulle successioni e sugli atti gratuiti è, nei limiti fissati dalla legge istitutiva, l’arricchimento della persona gratificata, rispetto al quale il trasferimento mortis causa o liberale è il solo mezzo per conseguirlo; e che, dunque, quel tributo è non solo lontano, ma addirittura opposto al concetto e alla nozione di imposta d’atto, che qualificano quella di registro. I commentatori hanno sempre avvertito una imperfetta compatibilità tra la disciplina sostanziale del prelievo relativo alle attribuzioni liberali e il regime

(8) Evidenzia A. Fedele, Le innovazioni della legge 342 del 2000, le definizioni della ratio del tributo. I rapporti con l’imposta di registro, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforma, Milano, 2001, 77-78) che, in una prospettiva sistematica, sarebbe stato forse più coerente incentrare la territorialità del tributo sul destinatario della liberalità, e non sul donante, posto che è il primo a beneficiare dell’arricchimento oggetto dell’imposta. Tale osservazione è condivisa da S. Ghinassi, La tassazione delle donazioni estere, in Riv. dir. trib. – Online, 16 settembre 2019.


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Parte seconda

formale, dapprima riguardante l’atto solenne della donazione e poi esteso a casi di munificenza indiretta. Si è conseguentemente affermato che l’assoggettamento all’obbligo della registrazione – del resto inevitabile per le donazioni in senso proprio, a causa del loro rivestimento esterno a pena di nullità – e il rinvio alla disciplina relativa attengono solo agli aspetti tecnici dell’imposizione di cui si tratta, e non alterano i tratti essenziali, innanzi ricordati, del prelievo invariabilmente soggetto alle sue regole specifiche. Si può dunque fondatamente affermare, avendo presente l’intero sistema in cui l’articolo 55, comma 1 bis, è immesso, che l’allargamento dell’obbligo di registrare ivi stabilito non implica affatto e non può implicare un mutamento del prelievo effettivo riferibile alle donazioni dirette e indirette, che è e resta fissato dalle disposizioni fondamentali. Ne consegue che, nonostante gli adempimenti prescritti dal comma 1 bis del pluricitato articolo 55, l’imposta sulle liberalità, formali e informali, può essere pretesa, quand’anche il beneficiario dimori stabilmente in Italia, solo se sussistano le condizioni della territorialità previste dall’articolo 2, ovvero se: a) il donante risieda in Italia, oppure, in caso diverso, b) siano presenti in Italia i beni oggetto del gesto generoso, limitatamente ai quali il prelievo è doveroso (9). 6. È incerto, invece, se nei riguardi della donazione diretta e indiretta, compiuta all’estero da un non residente in favore di un residente, la quale sia intassabile per ragioni di estraterritorialità ai sensi dell’articolo 2, corra, ciò nondimeno, l’obbligo della registrazione, col solo prelievo fisso che è il compenso per l’esecuzione della formalità. L’Agenzia interloquente reputa che l’intassabilità escluda quell’obbligo (10).

(9) A questa conclusione, che è anche quella rassegnata dall’Agenzia delle Entrate nel pronunciamento in commento, già G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., 462 ss. Ritiene condivisibile la conclusione dell’Agenzia anche S. Ghinassi, La tassazione delle donazioni estere, in Riv. dir. trib. – Online, 16 settembre 2019. (10) La questione è stata affrontata dall’Agenzia delle entrate anche nelle due risposte non pubblicate che sono state richiamate nella nota 2, giungendo a conclusioni opposte: la Direzione Regionale Lombardia aveva escluso l’obbligo di registrazione delle donazioni extraterritoriali, esattamente come il pronunciamento che in questa sede si annota; la Direzione Centrale Normativa aveva ritenuto invece obbligatoria la registrazione in termine fisso.


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Non è possibile condividere questa tesi, che non appare plausibile. La registrazione, invero, è necessaria, proprio per le funzioni di controllo formale che quell’adempimento è preordinato a consentire, e, peculiarmente, per il fine antievasivo della norma sopraggiunta. L’Amministrazione finanziaria deve essere messa in grado, tramite la registrazione, di censire gli atti, almeno (ma in realtà non solo) quelli che hanno una traccia percepibile, per verificare il rispetto dei doveri fiscali, così come questi sono configurati, naturalmente, dalla disciplina loro propria. Si reputa, pertanto, che nel caso in cui non il donante non risieda in Italia, oppure, in caso diverso, i beni oggetto di donazione non siano presenti in Italia, ove si colloca soltanto il beneficiario del gesto generoso, la donazione dovrebbe essere comunque assoggettata a registrazione, ma senza applicazione della relativa imposta e con applicazione del solo tributo in misura fissa, e ciò – come sopra messo in evidenza e già sostenuto (11) – a fini di censimento e controllo (12).

Gianfranco Gaffuri

(11) Cfr. G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., 463. (12) Si segnala che la risposta non si sofferma sulla questione della validità civilistica della donazione oggetto del caso vagliato, che non è di poco conto se si considera che le SS.UU della Corte di Cassazione (sent. n. 18725/2017) ritiene nulla per carenza di forma la donazione, non di modico valore, operata mediante bonifico bancario, senza le formalità previste per il contratto di donazione.



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Commissione Tributaria Provinciale di Latina, sez. V, 25 settembre 2017 31 ottobre 2017, n. 1253/V/2017. Pres. Piccialli, Rel. Simonetti Tributi erariali – Transazione fiscale – Ipoteca volontaria – Formalità eseguita nell’interesse dello Stato – Non sussiste – Applicabilità imposta ipotecaria – Sussiste Le ipoteche volontarie iscritte a favore di Equitalia sui beni di un terzo datore a garanzia dei crediti tributari dello Stato verso un contribuente, in attuazione di una previsione contenuta in una transazione fiscale, non possono considerarsi formalità eseguite nell’interesse dello Stato ai sensi dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990 e, pertanto, sono sottoposte a imposta ipotecaria proporzionale. (1)

(Omissis) Fatto e Diritto. - 1. Il 6.12.2016 con atto pubblico rogitato dal Notaio M. in Roma la E. s.r.l. ha prestato il proprio consenso, quale terzo datore, all’iscrizione di ipoteca volontaria, per un importo di 15.688.862,70 [Euro] a garanzia del credito vantato dall’Agenzia delle Entrate, e a favore di Equitalia incaricata della riscossione, nei confronti dell’I. s.p.a., quale risultate dall’atto di transazione fiscale - accordi di ristrutturazione perfezionato in data 27.9.2016, ai sensi degli artt. 182 bis e ter della legge fallimentare, con cui si è previsto il pagamento rateizzato da parte dell’I., in favore di Equitalia, dell’importo di Euro 119.210.160,60. Per effetto di tale iscrizione ipotecaria, in data 19.1.2017 l’Agenzia delle Entrate ha emesso avviso di liquidazione ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 347/1990, nei confronti di tutte le parti del predetto atto pubblico, nonché quale ulteriore coobbligato anche del Notaio, recante un importo complessivo di Euro 313.820,75. 2. Con il presente ricorso il notaio M. ha impugnato l’avviso, deducendone l’illegittimità per violazione dell’art. 1, comma 2 del citato d.lgs. 347/1990 a mente del quale “non sono soggette all’imposta le formalità eseguite nell’interesse dello Stato”, nonché per violazione dell’art. 12 del d.P.R. 635/1972 che reca una previsione simile. Ciò sul rilievo che beneficiario dell’iscrizione ipotecaria sarebbe l’Agenzia delle Entrate, amministrazione statale.


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3. Si è costituita l’Agenzia delle Entrate, precisando in primo luogo il carattere complesso della garanzia prestata mediante l’ipoteca, essendo questa a tutela dei crediti erariali vantati dall’Agenzia e dell’aggio e degli interessi di spettanza di Equitalia; quindi sottolineando il dato per cui l’ipoteca risulta iscritta in favore di Equitalia, che non è un’amministrazione dello Stato, non almeno nell’accezione datane dalla giurisprudenza, citando Cass. 11451/2005. Sul piano sostanziale ha poi osservato come il vero interessato alla costituzione dell’ipoteca non fosse lo Stato ma l’I. 4. Respinta la domanda cautelare all’udienza del 25.9.2017 la causa è stata discussa ed è passata in decisione. 5. Il ricorso è infondato e va respinto, per le seguenti ragioni. 5.1. Deve essere evidenziato, in primo luogo, il dato formale per cui Equitalia, in favore della quale l’ipoteca volontaria è stata concessa, non era all’epoca dei fatti in contestazione un’amministrazione statale in senso proprio, rivestendo la natura giuridica di società per azioni, quantunque sottoposta ad un controllo pubblico totalitario ripartito tra l’Agenzia delle Entrate e l’Inps (v. art. 3 d.l. 203/2005). Un soggetto, quindi, avente formalmente natura di diritto privato, riconducibile a pieno nella categoria delle società pubbliche o in mano pubblica. Tanto chiarito, premessa e incontestata la natura di agevolazione fiscale della previsione invocata di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs. n. 347/1990, come tale derogatoria rispetto alla disciplina generale sull’imposta ipotecaria, di tale previsione deve essere data un’interpretazione strettamente testale ovvero restrittiva, ancorata appunto al dato prettamente formale, sulla scorta della giurisprudenza citata da parte resistente. Ed essendo sul piano formale Equitalia un soggetto di natura privatistica e non un’amministrazione statale, già sotto questo primo aspetto deve concludersi per l’inapplicabilità della disposizione invocata da parte ricorrente. 5.2. A questo deve aggiungersi, in secondo luogo, come nella vicenda in esame a rigore l’ipoteca non sia stata iscritta “nell’interesse dello Stato” quanto, piuttosto, nell’interesse di un soggetto privato, l’I., a garanzia dell’accordo di ristrutturazione del debito già ricordato nel quale l’iscrizione ipotecaria era espressamente prevista e del quale tale formalità costituiva una clausola essenziale (v. il punto 10). 5.3. Questo secondo profilo - l’essere l’ipoteca nell’interesse dell’I. e non dello Stato - di per sé solo dirimente ai fini della decisione, rende priva di pregio la tesi di parte ricorrente secondo cui il vero creditore dell’I., a fronte della transazione, sarebbe l’Agenzia delle Entrate, e non Equitalia, sulla premessa che potrebbe riconoscersi alla prima la natura di amministrazione dello Stato. 6. Il dato formale e quello sostanziale, appena esaminati, conducono pertanto il Collegio ad escludere la spettanza dell’agevolazione, con conseguente infondatezza del ricorso. 7. La novità della questione affrontata, sulla quale non constano precedenti specifici, giustifica la compensazione delle spese di lite.


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P.Q.M. La Commissione respinge il ricorso. Compensa le spese. (Omissis)

(1) L’imposta ipotecaria non si applica sulle ipoteche volontarie iscritte a garanzia di tributi erariali. Sommario: 1. Il caso oggetto della sentenza. – 2. L’interpretazione delle norme age-

volative e il presupposto dell’imposta ipotecaria. – 3. Le ipoteche a garanzia di crediti per tributi erariali rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990. – 3.1. L’intervento dell’Agenzia delle Entrate. – 3.2. Ipotesi di esclusione. – 4. Considerazioni sul soggetto “interessato” all’iscrizione ipotecaria. – 5. Conclusioni.

Diversamente da quanto sostenuto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Latina, le ipoteche volontarie iscritte a garanzie dei crediti per tributi erariali sono escluse dall’ambito applicativo dell’imposta ipotecaria, dovendosi considerare eseguite nell’interesse dello Stato ai sensi dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990. Ciò vale anche e specificamente nei casi di ipoteche iscritte in attuazione della previsione di una transazione fiscale ai sensi dell’art. 182-ter l.fall. Conversely to what asserted by the Provincial Tax Court of Latina, the voluntary mortgage registered by the taxpayer as collateral for State tax debts are excluded from the scope of application of the mortgage tax, since they must be seen as being executed in the interests of the State pursuant to art. 1, paragraph 2 of Legislative Decree no. 347/1990. This also applies with specific value in cases of mortgages registered in execution of a tax transaction pursuant to article 182-ter of bankruptcy law.

1. Il caso oggetto della sentenza. – Con sentenza n. 1253/V/2017, la Commissione Tributaria Provinciale di Latina fornisce un’interpretazione delle norme in materia di imposte ipotecarie che merita di essere segnalata per gli importanti profili di criticità che la caratterizzano. Oggetto del contenzioso era la questione se fosse imponibile, o piuttosto non soggetta all’imposta ipotecaria in quanto eseguita nell’interesse dello Stato ai sensi dell’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990, l’ipoteca volontaria iscritta in base al consenso rilasciato da un soggetto a garanzia dei crediti erariali di un altro soggetto in attuazione delle clausole di una transazione fiscale ex art. 182-ter l. fall. La Commissione di Latina, premessa la considerazione che delle norme “derogatorie rispetto alla disciplina generale … deve essere data un’interpretazione strettamente testuale ovvero restrittiva”, ha ritenuto l’ipoteca in questione assoggettabile a


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imposta ipotecaria proporzionale e non applicabile l’esclusione di cui all’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990 in quanto, per un verso, creditore sarebbe stata la S.p.A. Equitalia, “soggetto, quindi, avente formalmente natura di diritto privato, riconducibile a pieno nella categoria delle società pubbliche o in mano pubblica” e, per altro verso, interessato all’iscrizione dell’ipoteca sarebbe stato il contribuente debitore e non invece il creditore a garanzia dei cui debiti essa veniva iscritta. Tanto la premessa quanto entrambi gli assunti della sentenza risultano errati; anzi, l’ultimo dei passaggi sopra riportati dà vita a un vero e proprio ribaltamento dei principi generali civilistici e tributari in materia di ipoteche. 2. L’interpretazione delle norme agevolative e il presupposto dell’imposta ipotecaria. – In via preliminare, occorre ricordare come il principio tralatizio secondo cui le norme agevolative dovrebbero essere sempre e per loro natura oggetto di interpretazioni restrittive e riduttive non trovi, in verità, supporto in motivazioni di imprescindibilità giuridica o razionale. Come noto, invero, anche per le norme “aventi carattere eccezionale e derogatorio” è necessaria una estensione dell’ambito di applicazione “quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi” (Corte Cost., n. 177/2017, n. 242/2017), con la conseguenza che “la natura di ius singulare che viene generalmente riconosciuta alle norme fiscali agevolatrici, in quanto considerate derogatorie rispetto alle norme impositive, altrimenti applicabili alle fattispecie considerate” non impone una interpretazione pedissequamente restrittiva di esse, “tenuto conto che anche le norme agevolatrici possono presentare margini interpretativi in ragione dei principi di collaborazione e buona fede di cui all’art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, le cui norme, emanate in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., e qualificate espressamente come principi generali dell’ordinamento tributario, costituiscono, in quanto espressione dei principi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida per il giudice nell’interpretazione delle norme tributarie” (Cass., n. 27016/2017) (1).

(1) Sul tema dell’interpretazione delle norme agevolative, in relazione alla giurisprudenza citata nel testo, cfr. A. Fedele, La Cassazione e l’interpretazione delle norme di agevolazione tributaria: primi segnali di un nuovo orientamento?, in Riv. dir. trib., supplemento on-line, 20.11.2018; Id., La sentenza della Corte costituzionale come “rimedio” al rifiuto dell’estensione analogica, in Riv. dir. trib., 2018, II, 171 ss.; V. Mastroiacovo, Interpretative di accoglimento e divieto di analogia, in Giur. Cost., 2018, 366 ss. Più in generale sul tema cfr. anche S. La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano 1968, 183 ss.; F. Moschetti,


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In generale, l’individuazione della ratio di un’agevolazione richiede di ricostruire correttamente la ratio dell’istituto giuridico con riferimento al quale essa si pone come norma derogatoria. Nel caso di specie, dunque, la delineazione della ratio dell’esclusione di cui all’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990 implica anzitutto l’individuazione della ratio del tributo ipotecario, ossia l’esatta definizione del presupposto; considerato, poi, il carattere della fattispecie derogatoria, occorre ricostruire in modo sistematico i rapporti tra i vari soggetti coinvolti nell’attuazione del prelievo e il presupposto del tributo, ossia la manifestazione di capacità contributiva al cui verificarsi in concreto il legislatore ha connesso l’instaurarsi della vicenda impositiva. A questo riguardo, va detto che la ricostruzione della ratio del tributo ipotecario sconta una incertezza di fondo derivante anzitutto dalla circostanza che le formalità alla cui realizzazione il legislatore ha connesso l’obbligo di versare il tributo ipotecario sono diverse (trascrizioni, iscrizioni, rinnovazioni e annotazioni, ivi incluse quelle di riduzione e cancellazione) e possono rivestire a loro volta funzioni diverse nell’ordinamento, con la conseguenza che appare problematica la stessa ricostruzione del tributo ipotecario come istituto giuridico unitario (2). A prescindere da ciò, e concentrando l’attenzione sulla formalità oggetto della sentenza in commento, ossia l’iscrizione d’ipoteca, un ulteriore profilo di incertezza nella ricostruzione della ratio del tributo ipotecario deriva dalla circostanza che, mentre sotto il profilo procedimentale l’imposta ipotecaria si presenta come un onere il cui soddisfacimento è necessario per fruire del servizio pubblico richiesto (ossia l’iscrizione dell’ipoteca nel pubblico registro: art. 13 del d.lgs. n. 347/1990), secondo lo schema della tassa, sotto il profilo sostanziale il tributo si presenta nella maggior parte dei casi come proporzionale all’ammontare del credito garantito (art. 3 del d.lgs. n. 347/1990), secondo un modello certamente più vicino a quello delle imposte. Ponendosi nella prima prospettiva, la ratio del tributo consiste nel contribuire al finanziamento di un servizio pubblico specificamente richiesto, con la

Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi in tema di agevolazioni tributarie, in Rass. trib., 1986, I, 355. (2) Come puntualmente sintetizzato da N. Dolfin, Le imposte ipotecarie e catastali, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2014, 927, “secondo l’orientamento consolidato della Cassazione il presupposto del tributo in esame sarebbe … sostanzialmente unitario e consisterebbe nella esecuzione delle formalità di trascrizione, di iscrizione, di rinnovazione e di annotazione. Per converso, la dottrina dominante rileva la coesistenza di una pluralità di presupposti”.


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conseguenza che soggetto passivo dovrebbe essere considerato il richiedente, mentre gli altri soggetti menzionati dall’art. 11 del d.lgs. n. 347/1990 sarebbero coinvolti nell’attuazione del tributo ad altro titolo (in particolare, quali responsabili d’imposta). Ponendosi nella seconda prospettiva, la ratio del tributo emerge considerando che l’ipoteca è istituto giuridico funzionale in ultimo a garantire l’adempimento di un’obbligazione, ossia un incremento patrimoniale in capo a un certo soggetto, assicurando al titolare di essa vantaggi di varia natura rispetto ad altri soggetti. La manifestazione di capacità contributiva assunta dal legislatore a presupposto dell’imposta è dunque, in questa prospettiva, la posizione di vantaggio assicurata dall’ipoteca a un determinato soggetto e da ciò consegue che titolare del tale fatto indice di capacità contributiva debba considerarsi appunto tale ultimo soggetto che, in generale, coincide con il creditore: sarà questi, dunque, a dover essere considerato quale “soggetto passivo” del tributo in senso proprio, mentre saranno gli altri soggetti sui quali gravano obbligazioni in sede di attuazione del tributo ipotecario (ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 347/1990) ad assumere il ruolo di responsabili o sostituti d’imposta. Ciò a prescindere dal fatto che, nei rapporti civilistici, la ripartizione del tributo porti ad addebitarne i costi in capo ad altri e, in particolare, in capo al debitore: come esattamente osservato, infatti (3), “l’art. 2846 c.c. va dunque considerato come una di quelle norme che, pur disponendo espressamente la rivalsa …, non rispondono alla ratio del tributo e non concorrono quindi a comporre il complesso di norme di cui tale istituto risulta” (4). La circostanza che l’ordinamento preveda anche apposite tasse ipotecarie (art. 19 del d.lgs. n. 347/1990 e Tabella allegata) induce a ritenere prevalente la natura di imposta, confinando l’elemento procedimentale a presupposto dell’insorgenza di obblighi di versamento o, al più, a dimensione procedurale del presupposto d’imposta nel senso di specificazione del momento nel quale esso debba ritenersi venuto ad esistenza (5).

(3) A. Fedele, Lineamenti delle imposte ipotecarie, Milano,1968, 128. (4) La conseguenza di una diversa impostazione in ordine alla rilevanza tributaria dell’art. 2846 c.c. conduce a considerare anche il debitore quale soggetto passivo in senso proprio (N. Dolfin, Le imposte ipotecarie e catastali, cit., 930; E.M. Bartolazzi Menchetti, Art. 11, in A. Fedele - G. Mariconda - V. Mastroiacovo (a cura di), I codici notarili commentati. Codice delle leggi tributarie, Torino, 2014, 852). (5) N. Dolfin, Le imposte ipotecarie e catastali, cit., 929 osserva in proposito che “l’obbligazione tributaria non sorge con la formazione dell’atto o del provvedimento costi-


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Preliminarmente chiarito come sia dunque errata la stessa impostazione da cui muove la sentenza in commento, si osserva come nel caso di specie non vi sia peraltro neppure bisogno di ricorrere a interpretazioni teleologiche o estensive, né tanto meno ad applicazioni analogiche, per riconoscere l’applicabilità dell’esclusione da imposta ipotecaria, ai sensi dell’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990, nell’ipotesi delle ipoteche volontarie iscritte a garanzia dei crediti per tributi erariali. È infatti la semplice interpretazione della disposizione, secondo gli ordinari canoni letterali e sistematici, a garantirla. Invero, e venendo al merito della questione, pochi dubbi possono esservi, anzitutto, sul fatto che gli enti deputati all’amministrazione dei crediti per tributi erariali rientrino nel concetto di “Stato”, cui opera riferimento l’art. 1, comma 2 cit., e, poi, che le iscrizioni di ipoteche a garanzia di crediti per tributi erariali siano eseguite appunto “nell’interesse” dello Stato creditore. 3. Le ipoteche a garanzia di crediti per tributi erariali rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990. – La circostanza che l’Agenzia delle Entrate rientri nel concetto di “Stato” ai fini dell’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990 risulta evidente sol che si abbia cura di por mente alla ratio dell’istituto ipotecario. L’ipoteca, come noto e già sopra accennato, è istituto giuridico funzionale a garantire l’adempimento di un’obbligazione, ossia a garantire in ultimo la produzione nella sfera patrimoniale di un soggetto dell’incremento legato all’esistenza di un rapporto obbligatorio che lo vede coinvolto nel versante attivo. Tanto è vero che essa svolge la sua funzione primaria nel conferire, al titolare dell’ipoteca, preferenza rispetto agli altri creditori nel soddisfarsi dei proventi della vendita forzata del bene su cui essa è apposta (art. 2808 c.c.), ossia appunto nel garantire il procacciamento della provvista necessaria per generare un incremento patrimoniale (6).

tuente il titolo per l’iscrizione, ma soltanto per effetto della iscrizione; se dunque l’iscrizione non viene effettuata, l’obbligazione tributaria non nasce, pur in presenza dell’atto costituente il titolo per l’iscrizione”; cfr. altresì A. Fedele, voce Ipoteca (diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1972, 858 ss.; S. Cardarelli, voce Ipotecarie (imposte), in Dig. IV., Disc. priv., Sez. comm., Torino, 1992, 563 ss., par. 18. Il tema è stato da ultimo affrontato anche da Cass., sent. n. 4571/2019. (6) Sulla funzione dell’ipoteca cfr., per tutti, A. Ravazzoni, Le ipoteche, in A. Cicu - F. Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, n. 53, Milano, 2006, 39 il quale osserva che “la funzione di garanzia caratterizza il diritto di ipoteca. Come prima specificazione, molto generale ed approssimativa, si potrebbe identificare tale funzione con una particolare


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In questo quadro, il dato cui occorre conferire rilievo al fine di individuare il soggetto nel cui “interesse” è iscritta l’ipoteca, ossia al fine di dar corpo al concetto utilizzato dall’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990, è appunto quello della correlazione con l’incremento patrimoniale cui l’ipoteca è preordinata a dar corso. In via generale, l’”interesse” all’iscrizione dell’ipoteca sarà quindi quello del creditore, anche nei casi in cui, per effetto di particolari meccanismi legislativi, nella procedura di adempimento dell’obbligazione intervengano dal versante attivo del rapporto obbligatorio soggetti diversi da quello nei confronti del quale l’incremento patrimoniale è destinato direttamente a prodursi. Con riferimento alle ipoteche iscritte a garanzia dei tributi erariali, pertanto, appare evidente che “interessato” all’iscrizione dell’ipoteca è lo Stato. Infatti, è noto che le predette entrate tributarie confluiscono direttamente nel bilancio dello Stato e, più in particolare, nel Centro di responsabilità 1 - Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Conseguentemente, le ipoteche che le garantiscono risultano a tutti gli effetti concesse “nell’interesse dello Stato” ai sensi dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990, poiché garantiscono il diritto a conseguire incrementi patrimoniali che si generano appunto nella sfera giuridica dello Stato tanto da concorrere immediatamente a formare il bilancio del MEF. Tale conclusione, del resto, appare certamente coerente con la ratio della norma stessa. Ricordato come la ratio della norma speciale debba essere individuata alla luce della ratio del sistema in cui essa si inserisce, e tenuto conto che – come sopra dimostrato – soggetto passivo del tributo ipotecario deve ritenersi il creditore, l’esclusione da imposizione per le formalità in cui creditore sia lo Stato appare come il frutto di quella tendenza ordinamentale a escludere l’assoggettamento dello Stato a obblighi impositivi. Tale ricostruzione

tutela del diritto di credito; attuata, cioè, al fine di agevolarne l’adempimento e rendere più sicura la realizzazione del diritto del creditore”. Tale aspetto risulta del tutto pacifico: cfr., ex pluribus, C. Cicero, voce Ipoteca (I agg.), in Dig. IV, Disc. Priv., Sez. Civ., Torino, 2016; C.M. Bianca, Diritto civile, vol. 7. Le garanzie reali, Milano, 2012, 321 ss.; A. Chianale, L’ipoteca, in R. Sacco. (diretto da), Trattato di diritto civile, Torino, 2010; P. Boero, Le ipoteche, in W. Bigiavi (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1999; G. Gorla - P. Zanelli, Pegno. Ipoteche, in F. Galgano (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1992; M. Fragali, voce Ipoteca (dir. priv.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 768. Tra gli scritti storici in materia di ipoteca non può essere omessa la menzione quanto meno di D. Rubino, L’ipoteca immobiliare e mobiliare, in A. Cicu - F. Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1956 e di A. Cicu., L’ipoteca, Bologna, 1929.


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risulta confermata anche valorizzando la possibile dimensione procedurale del presupposto del tributo ipotecario, nel senso anzidetto. In questa prospettiva, infatti, è evidente come non sussiste nel caso di creditore statale la dimensione consistente nel ricorso a un meccanismo di risoluzione della crisi di cooperazione debitoria (l’ipoteca) socialmente rilevante in quanto esterno alla sfera del creditore stesso: coincidendo, nel caso di ipoteca nell’interesse dello Stato, il creditore interessato all’adempimento debitorio e il gestore del meccanismo di risoluzione della crisi di cooperazione, è possibile anzi affermare che la vicenda non integra già sotto il profilo strutturale la dimensione procedurale della manifestazione di capacità contributiva tipica del tributo ipotecario. Si comprende, dunque, la ragione per cui la tendenza a escludere l’applicazione di un’imposta in capo allo Stato si configuri diversamente per l’imposta ipotecaria rispetto, ad esempio, all’imposta di registro (art. 57, c. 7 del d.P.R. n. 131/1986) e produca nei due comparti impositivi, pur generalmente affini, conseguenze diverse. Mentre nel caso dell’imposta di registro tutte le parti dell’atto manifestano paritariamente il presupposto del tributo, con la conseguenza che volerne privilegiare una (lo Stato) non esclude che il presupposto continui a manifestarsi in modo immutato per le altre, nell’imposta ipotecaria se si vuol privilegiare lo Stato escludendone gli obblighi tributari occorre muoversi in due direzioni concorrenti. Per un verso, quando lo Stato è coinvolto nella vicenda ipotecaria pur non essendo soggetto passivo, è sufficiente escluderne gli obblighi di pagamento: ciò è quanto avviene, in particolare, in caso di formalità richieste dalle amministrazioni dello Stato, per le quali la formalità viene eseguita senza previo pagamento dell’imposta ex art. 15, c. 1, lett. b) del d.lgs. n. 347/1990 (7). Al riguardo, si noti l’inciso che delimita l’applicazione dell’esecuzione senza previo pagamento ai casi in cui “le spese relative devono far carico ad altri” soggetti e non, invece, alle amministrazioni dello Stato richiedenti. L’utilizzo, da parte della norma tributaria, di una terminologia identica a quella dell’art.

(7) “La ratio della norma in esame consiste nel sottrarre i soggetti obbligati a richiedere la formalità all’eventualità di un infruttuoso esercizio del diritto alla restituzione degli importi versati nei confronti di coloro sui quali grava effettivamente l’onere del tributo” (M.C. Cingarella, Art . 15, in A. Fedele - G. Mariconda - V. Mastroiacovo (a cura di), I codici notarili commentati. Codice delle leggi tributarie, cit., 860; A. Montesano - B. Ianniello, Imposte di registro, ipotecaria e catastale, Milano, 2009, 648): ne consegue che, in tali casi, i richiedenti devono considerarsi eccezionalmente sottratti dal novero degli obbligati di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 347/1990.


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2846 c.c. potrebbe indurre a riferire l’inciso suddetto alla norma codicistica in parola così denotando che, nel caso specifico, il legislatore tributario avrebbe ritenuto di valorizzare anche ai fini tributari la ratio di per sé extrafiscale dell’art. 2846 c.c. (8): più in particolare, tale valorizzazione si tradurrebbe in ciò che, quando le spese dell’iscrizione dovrebbero far carico allo Stato (ossia, ai sensi dell’art. 2846 c.c., quando lo Stato è il debitore contro cui l’ipoteca è iscritta), recederebbe il tradizionale fine di escludere la sussistenza di obblighi tributari in capo allo Stato e tornerebbe applicabile la norma generale dell’art. 11 del d.lgs. n. 347/1990 che annovera anche il debitore tra gli obbligati. Per altro verso, quando lo Stato è coinvolto nella vicenda ipotecaria quale creditore e, quindi, soggetto passivo, non può esser sufficiente escludere la sussistenza di obblighi in capo al medesimo, poiché se manca il soggetto passivo sarebbe irrazionale prevedere la permanenza di decurtazioni patrimoniali a carico di soggetti in capo ai quali non si manifesta l’indice di capacità contributiva, come sono i sostituti e i responsabili. Da ciò discende l’esigenza di sancire l’escludere tout court la sussistenza del presupposto impositivo ed è a ciò che risponde, appunto, l’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990. L’esclusione delle vicende ipotecarie che vedono lo Stato creditore dal perimetro del presupposto del tributo fa sì, naturalmente, che non soltanto le formalità di iscrizione di tali ipoteche, ma anche quelle di rinnovazione e annotazione siano escluse dall’applicazione dell’imposta. 3.1. L’intervento dell’Agenzia delle Entrate. – Non incide su quanto sopra osservato la circostanza che nell’accertamento e riscossione dei crediti per tributi erariali intervengano soggetti differenti dalle strutture ministeriali: per le ragioni anzidette, infatti, tale circostanza non appare rilevante ai fini dell’individuazione del soggetto nell’”interesse” del quale la formalità viene eseguita. Invero, sebbene il legislatore abbia ritenuto, al fine di garantire la gestione dei rapporti tributari con criteri di massima terzietà e indipendenza rispetto al potere politico, di affidare a seguito del d.lgs. n. 300/1999 a un apparto esterno al Ministero - come l’Agenzia delle Entrate - funzioni fondamentali per la gestione del rapporto creditorio, tanto da legittimare l’attribuzione a tale Agenzia di una serie di posizioni sostanziali strumentali ad assicurare il corretto adempimento, ivi eventualmente inclusa la rappresentanza nella formale titolarità del rapporto creditorio stesso nelle vicende che allo svolgimento di dette fun-

(8)

Cfr. la precedente nota 3.


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zioni direttamente si connettono (come sono le vicende quelle processuali, cfr. Cass., SS.UU., 3116/2006), è un dato indiscusso che il bilancio dell’Agenzia delle Entrate non può contabilizzare le entrate tributarie come entrate proprie e in tale sede esse compaiano soltanto, in alcuni casi, come fondi di terzi collegati a contabilità speciali per il riversamento presso la tesoreria dello Stato. La stessa giurisprudenza maggiormente attenta nell’escludere un rapporto di immedesimazione organica tra Agenzia delle Entrate e Stato, infatti, precisa che “le risorse finanziarie acquisite mediante l’attività impositiva esercitata in via esclusiva dall’Agenzia affluiscono direttamente al bilancio dello Stato, senza transitare da quello dell’Agenzia” e “senza intermediazione alcuna”, e che “la pertinenza originariamente statale (o, comunque, dell’ente impositore) del gettito dell’imposizione fiscale, infatti, non viene meno per il fatto che l’esercizio della potestà impositiva, nelle sue diverse articolazioni e nella sua proiezione processuale, è affidato ad altro soggetto”. Si assiste, pertanto, a “una separazione tra titolarità di posizioni giuridiche sostanziali - nella specie, l’acquisizione in via immediata del gettito tributario - ed esercizio dei poteri e dei diritti necessari ad assicurare tale gettito” la quale, tuttavia, non incide sul fatto che “dell’obbligazione tributaria” soltanto “l’Amministrazione dello Stato resta titolare” (cfr. Cass., SS.UU., n. 3116/2006, par. 4) (9).

(9) Sull’inquadramento ordinamentale dell’Agenzia delle Entrate rispetto al Ministero dell’Economia e delle Finanze, cfr. per tutti G. Tabet, Natura e funzioni delle Agenzie fiscali, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2011, 253 ss.; Id., Spunti critici sulla natura delle agenzie fiscali e sulla loro equiparazione alle amministrazioni dello Stato, in Rass. trib., 2002, 817 ss.; S. Muleo, L’attivazione delle agenzie fiscali ed i connessi profili in tema di legittimazione ad agire e processuale, in Rass. trib., 2001, 377 ss.; P. Russo - G. Fransoni, La notifica degli atti di parte e delle sentenze a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali, in Riv. dir. trib., 2001, II, 895 ss. Sul piano generale, è affermato il pensiero che le agenzie, insieme ai ministeri, costituiscano “le strutture elementari dell’amministrazione statale centrale”: così, per tutti, C. Franchini, voce Amministrazione statale centrale, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano 2006, 272. Già a suo tempo, del resto, Merloni F., Il nuovo modello dell’agenzia nella riforma dei ministeri, in Dir. pubbl., 1999, 763 ricomprendeva le agenzie tra gli “uffici dell’organizzazione del governo” e, quindi, dello Stato centrale. Di diverso parere G.M. Cipolla, voce Agenzie fiscali, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, cit.; Id., voce Agenzie fiscali, in Dig. IV, Disc. pubbl., Agg. III, Torino 2007, il quale evidenzia i profili di autonomia delle agenzie fiscali rispetto all’apparato ministeriale per concludere che esse non possano essere qualificate come amministrazioni statali: anche in tale prospettiva, tuttavia, si riconosce che “il trasferimento alle agenzie delle funzioni operative attribuite
in precedenza all’amministrazione statale, da un lato, e la contestuale personificazione delle agenzie, dall’altro, hanno lasciato immutata in capo al ministero la titolarità dal lato attivo dell’obbligazione tributaria”.


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Fermo restando ciò, va comunque osservato che la strutturazione come direzione generale di un ministero non risulta necessaria affinché un ente sia considerato come Stato ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 347/1990. Con riferimento al previgente art. 12 del d.P.R. n. 635/1972 è stata, infatti, considerata compresa in tale concetto anche la Cassa Depositi e Prestiti dopo che essa fu strutturata come ente pubblico autonomo con “organizzazione, patrimonio e bilanci separati rispetto a quelli dello Stato” (art. 1 della l. n. 197/1983), ossia in forme del tutto analoghe a quelle oggi rivestite dall’Agenzia delle Entrate (cfr. ris. n. 400853/1989). Risulta, pertanto, ulteriormente dimostrato che l’affidamento interinale della titolarità dei crediti per tributi erariali a un ente esterno rispetto alla struttura ministeriale, com’è l’Agenzia delle Entrate, non osta all’applicazione della clausola di esclusione dall’applicazione dell’imposta ipotecaria di cui all’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990. A maggior ragione a ciò non osta l’ulteriore circostanza che il legislatore abbia previsto che l’esecuzione forzata di tale tipologia di crediti sia ulteriormente delegata a un ente ancora distinto, eventualmente costituito in forma societaria come la ex Equitalia S.p.A., al quale peraltro la rappresentanza nella titolarità del credito tributario non potrebbe transitare neppure interinalmente, così rendendo dubbia la stessa idoneità ad essere indicato come creditore in sede di iscrizione ipotecaria (come invece avvenuto nel caso oggetto della sentenza in commento). Tale circostanza, infatti e per le ragioni già dette, non si presta a incidere sui dati giuridicamente rilevanti per individuare e qualificare il credito a garanzia del quale l’ipoteca è iscritta. 3.2. Ipotesi di esclusione. – Né può valere, in senso contrario, osservare come l’art. 16, c. 1, lett. b) del d.lgs. n. 347/1990, prevedendo l’esecuzione a debito delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’art. 22 del d.lgs. n. 472/1997, possa intendersi come idoneo ad affermarne implicitamente l’assoggettabilità a imposta e, così, a far presupporre che alcune forme di ipoteca iscritte a garanzia dei crediti per tributi erariali siano imponibili. Invero, proprio la puntualità di tale previsione garantisce che si tratti di una ipotesi da considerarsi eccezionale per due ordine di ragioni: (i) anzitutto, per essere connessa al fatto che l’intervento di un organo giurisdizionale (appunto richiesto dall’art. 22 cit.) affievolisce quel versante procedimentale della ratio dell’esclusione da imposta ipotecaria che può in generale ritenersi sussistere quando creditore è lo Stato, secondo quanto descritto nella parte introduttiva del presente par.


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3 (10); inoltre, per essere connessa alla funzione para-sanzionatoria dell’iscrizione ipotecaria d’urgenza prevista dall’art. 22 cit., che non a caso è inserito nel decreto in materia di sanzioni amministrative tributarie. Né d’altra parte potrebbero coinvolgersi le ipoteche iscritte a garanzia dei tributi impostando un analogo ragionamento, in ordine all’implicita affermazione della sussistenza del presupposto impositivo nei casi di prenotazione a debito, che pretendesse di estendere indiscriminatamente alla fiscalità l’ambito applicativo della formula di “procedimenti civili nell’interesse dello Stato”, utilizzata dalla lett. d) del medesimo art. 16: in senso generale, infatti, la stessa procedura di iscrizione di ipoteca potrebbe essere intesa come un procedimento civile, ma in tal caso la lett. d) dell’art. 16 non si limiterebbe a dettare una norma speciale rispetto all’art. 1, c. 2 (escludendo implicitamente dall’esclusione dall’imposta ipotecaria alcune formalità eseguite nell’interesse dello Stato, ossia quelle iscritte nei procedimenti civili), ma ad essa si sovrapporrebbe integralmente, determinandone l’implicita abrogazione in palese violazione del principio ermeneutico fondamentale per cui le disposizioni normative devono interpretarsi potius ut valeant quam ut pereant. 4. Considerazioni sul soggetto “interessato” all’iscrizione ipotecaria. – Quanto all’argomento per cui interessato all’iscrizione dell’ipoteca a garanzia di crediti per tributi erariali sarebbe, non già l’Erario, ma lo stesso contribuente debitore, esso contravviene ai più basilari principi generali in materia di ipoteche. Infatti, è assolutamente pacifico che la funzione tipica dell’ipoteca è garantire l’adempimento di un debito, per cui l’interesse giuridicamente rilevante alla costituzione di un’ipoteca è sempre e per definizione quello del soggetto destinato a incamerare le somme oggetto del credito garantito da ipoteca (ossia, in generale e fermo restando quanto sopra precisato, quello del creditore): “se all’esecuzione della formalità consegue la nascita di un diritto soggettivo (ad es., iscrizione dell’ipoteca), ‘interessato’ all’esecuzione stessa è indubbiamente il soggetto che acquista tale diritto (nell’esempio fatto, il creditore ipotecario)” (11).

(10) In questo caso, infatti, lo Stato creditore non ha potuto risolvere la crisi di cooperazione integralmente mediante i propri strumenti di autotutela creditoria lato sensu intesa, ma ha dovuto attivare un procedimento in qualche modo indipendente e autonomo rispetto alla propria sfera, qual è il coinvolgimento di un giudice. (11) Così, icasticamente e per tutti, A. Fedele, Lineamenti delle imposte ipotecarie, cit.,


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Nessun significato potrebbe del resto giocare, in senso contrario, la constatazione effettuata da Cass., n. 8270/2006, secondo cui l’art. 11 del d.lgs. n. 347/1990 annovera tra gli obbligati al pagamento anche i debitori contro cui sia iscritta ipoteca. Invero, il fatto che il legislatore abbia istituito un’apposita figura di co-obbligazione d’imposta (a titolo di responsabilità) in capo al debitore non significa affatto che, allora, sia egli stesso il soggetto nell’interesse del quale la formalità viene iscritta: anzi, la stessa formulazione del comma 2 dell’art. 11, mantenendo distinto l’interessato alla formalità dal debitore contro il quale è iscritta, conferma testualmente l’impraticabilità di simile interpretazione. Del tutto privo di rilievo giuridico risulta, pertanto, il motivo che ha spinto il soggetto richiedente la formalità a procedere in tal senso: “il ‘vantaggio’ cui si dirige l’’interesse’ alla pubblicità assume rilievo solo in quanto si traduca in determinate modificazioni della realtà giuridica preesistente (nascita di diritti, estinzione di situazioni giuridiche passive, ecc.), essendo invece del tutto irrilevanti i risultati che in concreto si propone di raggiungere colui che pone in essere un determinato atto soggetto a pubblicità e quindi l’’interesse’ che in concreto muove tale soggetto” (12). Da ciò consegue, all’evidenza, che non muta il quadro la circostanza per cui l’ipoteca sia concessa su beni del debitore o di terzi datori: nei rapporti rilevanti ai fini dell’istituto ipotecario, essa risulta concessa pur sempre nell’interesse del creditore, mentre afferiscono a un piano diverso i rapporti tra debitore e terzo datore. Totalmente destituita di giuridico fondamento risulta, quindi, la tesi adombrata dalla sentenza in commento, secondo cui “interessato” alla concessione dell’ipoteca dovrebbe considerarsi il medesimo debitore che iscriva o veda iscritta da un terzo datore ipoteca volontaria nella prospettiva di ottenere grazie a essa concessioni dal creditore relativamente a diversi aspetti dei rapporti con il creditore stesso (nella specie, la ristrutturazione del debito). D’altra parte, sia detto per inciso, un ragionamento del genere comunque non condurrebbe a conclusioni diverse in ordine all’inapplicabilità di imposte ipotecarie nel caso di ipoteche iscritte a garanzia dei crediti erariali in attuazione di transazioni fiscali, come sono quelle oggetto della sentenza in commento. Invero, la stipula di una transazione fiscale presuppone l’effettuazione di una valutazio-

58; in senso analogo Id., voce Ipoteca (diritto tributario), cit., 854; S. Cardarelli, voce Ipotecarie (imposte), cit., par. 19. (12) A. Fedele, Lineamenti delle imposte ipotecarie, cit., 60.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

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ne di convenienza per il Fisco, nel senso di consentire la riscossione dei crediti erariali in misura maggiore rispetto a quella che sarebbe ipotizzabile in assenza della transazione stessa (in specie, in caso di fallimento del debitore) (13): tale valutazione di convenienza, peraltro, risulta addirittura imposta in modo espresso dalla legge (14). Conseguentemente, l’interesse primario alla esecuzione della transazione fiscale non può che riconoscersi risiedere, anche sotto il profilo dei “motivi”, in capo all’Amministrazione Finanziaria. Da ciò discende linearmente che “interessata” all’iscrizione ipotecaria attuativa di una transazione fiscale sarebbe comunque pur sempre l’Amministrazione Finanziaria anche ponendosi nella prospettiva giuridicamente invertita che sposa la sentenza in commento, con conseguente indiscutibile applicabilità dell’esclusione di cui all’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 347/1990 (15). 5. Conclusioni. – Consegue dalla ricostruzione sopra effettuata che le ipoteche volontarie iscritte dal contribuente, o da un terzo datore, a garanzia

(13) Sugli interessi dell’Erario nel sottoscrivere la transazione fiscale cfr., fra i molti, G. Selicato, Composizione delle crisi da sovraindebitamento e transazione fiscale, in Dir. fall. soc. comm., 2017, 1401 ss.; M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, Padova, 2017; F. Paparella, Procedure concorsuali nel diritto tributario, in Diritto on line, Roma, 2015; F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013; A. Fantozzi, Considerazioni generali sui profili fiscali delle procedure concorsuali e sul rapporto tra par condicio creditorum, interesse fiscale ed altri interessi diffusi, in L. Ghia - C. Piccinini - F. Severini (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali, VI, Torino 2012, 1. (14) L’art. 182-ter, c. 5, l.fall., infatti, stabilisce che nella transazione che si inserisca nelle trattative precedenti la stipula di un accordo di ristrutturazione dei debiti la “convenienza del trattamento proposto … relativamente ai crediti fiscali … rispetto alle alternative concretamente praticabili” deve essere appositamente valutata anche da soggetti imparziali, quali l’attestatore del piano e il tribunale (sul punto cfr., espressamente, il par. 5.5. della circ. n. 40/E/2008). Nel caso delle transazioni nell’ambito dei concordati la necessarietà di tale momento valutativo è comunque implicita nella misura in cui il creditore che agisca razionalmente (come è tenuto ad agire il creditore erariale, in forza dei principi costituzionali) è disponibile ad accettare una riduzione transattiva del proprio credito verso un debitore in crisi soltanto laddove le strade alternative non permettano ragionevolmente di conseguire il soddisfacimento del credito in misura superiore a quella transatta. (15) Ciò, si badi bene, senza alcuna necessità che l’esclusione da imposizione sia specificamente pattuita in sede di transazione fiscale: del resto, tale pattuizione risulterebbe giuridicamente nulla, in quanto per definizione la transazione fiscale consente all’Amministrazione Finanziaria di disporre di crediti tributari già esistenti, mentre le vicende impositive connesse alle iscrizioni ipotecarie eseguite in attuazione della transazione fiscale stessa sono per loro natura future e, come tali, escluse dal perimetro di regolamentazione della transazione fiscale.


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Parte seconda

di crediti per tributi erariali non costituiscono presupposto per l’applicazione dell’imposta ipotecaria proporzionale, dovendosi considerare a tutti gli effetti eseguite “nell’interesse dello Stato” ai sensi dell’art. 1, c. 2 del d.lgs. n. 347/1990.

Francesco Farri


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte Giustizia UE, sez. I, 8 maggio 2019, causa C-712/17; Pres. e Rel. J.C. Bonichot Rinvio pregiudiziale – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Operazioni fittizie – Impossibilità di detrarre l’imposta – Obbligo, per l’emittente di una fattura, di assolvere l’IVA in essa indicata – Sanzione di importo pari a quello dell’IVA indebitamente detratta – Compatibilità con i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità Nell’ipotesi di emissione di fatture per operazioni inesistenti sono confermati l’obbligo di versamento dell’IVA da parte dell’emittente e il divieto di detrazione della medesima imposta da parte del destinatario delle fatture. Tale meccanismo di tutela delle ragioni dell’erario può, in base ai principi di proporzionalità e di neutralità dell’IVA, essere disapplicato mediante l’emissione di una nota di rettifica ovvero la richiesta di rimborso dell’IVA versata qualora l’emittente, in tempo utile, abbia eliminato completamento il rischio di perdita del gettito erariale. In tale caso consegue, altresì, che l’applicazione di una sanzione uguale all’importo della detrazione negata eccede quanto necessario per conseguire gli obiettivi indicati dall’art. 273 della direttiva IVA e dovrà, quindi, essere ridotta dal giudice adito. (1)

(Omissis) La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»). Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la EN.SA. Srl e, dall’altro, l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Lombardia (Italia) (in prosieguo: l’«Agenzia delle Entrate») in merito a un avviso di accertamento tributario di cui era stata oggetto tale società, comportante una maggiorazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) dovuta, corredata d’interessi e sanzioni. Contesto normativo Diritto dell’Unione L’articolo 63 della direttiva IVA così dispone: «Il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi».


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L’articolo 167 di tale direttiva prevede quanto segue: «Il diritto a detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile». Ai sensi dell’articolo 168 di detta direttiva: «Nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo; (...)». L’articolo 203 della medesima direttiva così recita: «L’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura». Ai sensi dell’articolo 273 della direttiva IVA: «Gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera. Gli Stati membri non possono avvalersi della facoltà di cui al primo comma per imporre obblighi di fatturazione supplementari rispetto a quelli previsti al capo 3». Diritto italiano Il decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 – Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, nella sua versione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale (in prosieguo: il «DPR n. 633/1972»), all’articolo 17, comma 1, così dispone: «L’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario, cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art[icolo] 19, nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo». Ai sensi dell’articolo 19, comma 1, del DPR n. 633/1972: «Per la determinazione dell’imposta dovuta a norma del primo comma dell’art[icolo] 17 o dell’eccedenza di cui al secondo comma dell’art[icolo] 30, è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione. Il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo». L’articolo 21del DPR n. 633/1972 prevede quanto segue:


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«Se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relativi sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura». L’articolo 6, comma 6, del decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 471, nella sua versione applicabile alla data dei fatti di cui al procedimento principale, prevedeva quanto segue: «Chi computa illegittimamente in detrazione l’imposta assolta, dovuta o addebitatagli in via di rivalsa, è punito con la sanzione amministrativa uguale all’ammontare della detrazione compiuta». Procedimento principale e questione pregiudiziale L’EN.SA. è una società italiana di produzione e distribuzione di energia elettrica. L’Agenzia delle Entrate ha rettificato le dichiarazioni IVA dell’EN.SA in riferimento agli anni d’imposta 2009 e 2010. In forza dell’articolo 19 del DPR n. 633/1972, l’Agenzia delle Entrate ha respinto la detrazione dell’IVA relativa ad operazioni di acquisto di energia elettrica che ha considerato fittizie, in mancanza di effettiva trasmissione dell’energia, e ha irrogato all’EN.SA, ai sensi dell’articolo 6, comma 6, del decreto legislativo indicato al punto 11 della presente sentenza, una sanzione d’importo uguale a quello dell’IVA indebitamente detratta. Per contro, l’Agenzia delle Entrate non ha rilevato che l’EN.SA. fosse venuta meno all’obbligo di assolvimento dell’IVA dovuta per ciascuna delle sue operazioni di vendita di energia elettrica. Tali diverse operazioni rientrano, secondo l’Agenzia delle Entrate, in un meccanismo circolare di vendita dei medesimi quantitativi di energia agli stessi prezzi, tra società appartenenti al medesimo gruppo. Esse sarebbero state effettuate allo scopo di consentire al gruppo Green Network di esporre nella propria contabilità valori di maggiore consistenza, al fine di accedere a finanziamenti bancari. L’Agenzia delle Entrate ha emesso, nei confronti dell’EN.SA., due avvisi di accertamento corrispondenti ciascuno a una maggiorazione dell’IVA dovuta, corredata da interessi e da una sanzione, per importi rispettivamente pari a EUR 47.618.491 per l’anno 2009 e a EUR 22.001.078 per l’anno 2010. L’EN.SA. ha presentato ricorso avverso tali avvisi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano (Italia), che li ha respinti. Tale società ha proposto appello avverso la sentenza pronunciata da detto organo giurisdizionale dinanzi alla Commissione tributaria regionale di Lombardia (Italia). Il giudice del rinvio sottolinea che le operazioni di vendita fittizia di energia elettrica di cui al procedimento principale non hanno arrecato alcun vantaggio fiscale ai loro autori, a motivo della circolarità delle operazioni, e sottolinea l’assenza di danno erariale. Esso si chiede se, nel caso di specie, trattandosi di operazioni inesistenti, sia conforme ai principi del diritto dell’Unione far sostenere l’IVA all’operatore. In assenza di frode fiscale, il giudice del rinvio ritiene che il principio di neutralità dell’im-


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posta dovrebbe prevalere e che il rifiuto di detrazione dell’IVA regolarmente assolta e l’irrogazione di un’ulteriore sanzione pari all’importo dell’IVA indebitamente detratta non siano proporzionati all’illecito consistito nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti. In tali circostanze, la Commissione tributaria regionale di Lombardia ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se, nell’ipotesi di operazioni ritenute inesistenti che non hanno determinato un danno all’Erario e non hanno arrecato alcun vantaggio fiscale al contribuente, la disciplina interna, risultante dall’applicazione dell’art. 19 (Detrazione) e 21, comma 7, (Fatturazione delle operazioni) del [DPR n. 633/1972] e dell’art. 6, comma 6, del D.lgs. 471 del 18.12.1997 (Violazione degli obblighi relativi alla documentazione, registrazione ed individuazione delle operazioni), è conforme ai principi [del diritto dell’Unione] in materia di IVA elaborati dalla [Corte] dal momento che la simultanea applicazione delle norme interne determina: a la reiterata e ripetuta indetraibilità dell’imposta assolta sugli acquisti dal cessionario per ogni transazione contestata che riguarda il medesimo soggetto e la stessa base imponibile; b) l’applicazione dell’imposta ed il pagamento del tributo per il cedente (e la preclusione della ripetizione dell’indebito) per le corrispondenti e speculari operazioni di vendita ritenute ugualmente inesistenti; c) l’applicazione di una sanzione pari all’ammontare dell’imposta sugli acquisti ritenuta indetraibile». Sulla questione pregiudiziale Anche se, sul piano formale, il giudice del rinvio ha circoscritto la sua questione all’interpretazione dei «principi [del diritto dell’Unione] in materia di IVA elaborati dalla [Corte]», menzionando in particolare i principi di proporzionalità e di neutralità, una tale circostanza non osta a che la Corte gli fornisca tutti gli elementi interpretativi del diritto dell’Unione che possono essere utili per definire la controversia di cui è investito, a prescindere dal fatto che detto giudice vi abbia o meno fatto riferimento nel formulare le proprie questioni. A tal riguardo, spetta alla Corte trarre dall’insieme degli elementi forniti dal giudice del rinvio e, in particolare, dalla motivazione della decisione di rinvio, gli elementi di detto diritto che richiedono un’interpretazione tenuto conto dell’oggetto della controversia di cui al procedimento principale (v., in tal senso, sentenze del 4 ottobre 2018, LEGO, C‑242/17, EU:C:2018:804, punto 43; del 7 febbraio 2019, Escribano Vindel, C‑49/18, EU:C:2019:106, punto 32, e del 12 febbraio 2019, TC, C‑492/18 PPU, EU:C:2019:108, punto 37). Sulle due prime parti della questione Con le due prime parti della sua questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se, in una situazione come quella di cui trattasi al procedimento principale, in cui vendite fittizie di energia elettrica effettuate in modo circolare tra gli stessi operatori e per


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gli stessi importi non hanno causato perdite di gettito fiscale, la direttiva IVA debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che esclude la detrazione dell’IVA relativa a operazioni fittizie, imponendo al contempo ai soggetti che indicano l’IVA in una fattura di assolvere tale imposta, anche per un’operazione inesistente. In via preliminare, si deve rilevare che le due norme di diritto nazionale summenzionate riproducono disposizioni analoghe della direttiva IVA. Da un lato, l’indetraibilità dell’IVA relativa ad operazioni inesistenti emerge dall’articolo 168 di tale direttiva. Infatti, da tale articolo risulta che il soggetto passivo può detrarre l’IVA di cui sono gravati i beni e i servizi impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta. In altri termini, il diritto a detrarre l’IVA gravante sull’acquisto di beni o servizi a monte presuppone che le spese effettuate per acquistare questi ultimi facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle (v., in tal senso, sentenza del 6 settembre 2012, Portugal Telecom, C‑496/11, EU:C:2012:557, punto 36). Orbene, quando un’operazione di acquisto di un bene o di un servizio è inesistente, essa non può avere alcun collegamento con le operazioni del soggetto passivo tassato a valle. Di conseguenza, quando manca la realizzazione effettiva della cessione di beni o della prestazione di servizi, non può sorgere alcun diritto a detrazione (sentenza del 27 giugno 2018, SGI e Valériane, C‑459/17 e C‑460/17, EU:C:2018:501, punto 36). È pertanto inerente al meccanismo dell’IVA il fatto che un’operazione fittizia non possa dare diritto ad alcuna detrazione di tale imposta. Dall’altro lato, l’obbligo per chiunque indichi l’IVA in una fattura, di assolvere tale imposta compare espressamente all’articolo 203 della direttiva IVA. A tal riguardo, la Corte ha precisato che l’IVA indicata in una fattura è dovuta dall’emittente di tale fattura, anche in assenza di una qualsiasi operazione imponibile reale (v., in tal senso, sentenza del 31 gennaio 2013, Stroy trans, C‑642/11, EU:C:2013:54, punto 38). In linea di principio, le due norme summenzionate non si applicano al medesimo operatore. È l’emittente di una fattura a essere debitore dell’IVA in essa indicata, mentre l’indetraibilità dell’IVA relativa a operazioni inesistenti è opponibile al destinatario di tale fattura. Tuttavia, nella situazione particolare di cui al procedimento principale, le prescrizioni stabilite agli articoli 168 e 203 della direttiva IVA si impongono congiuntamente al medesimo operatore. Infatti, gli stessi quantitativi di energia elettrica erano rivenduti fittiziamente allo stesso prezzo tra le società del medesimo gruppo in maniera circolare, di modo che tali società li vendevano e riacquistavano al medesimo prezzo. Ogni operatore era così allo stesso tempo soggetto emittente di una fattura indicante un importo IVA e destinatario di un’altra fattura, relativa all’acquisto dello stesso quantitativo di energia elettrica allo stesso prezzo e indicante lo stesso importo IVA. In quanto soggetto emittente di una fattura e ai sensi della norma prevista dall’articolo 203 della direttiva IVA, l’EN.SA. era dunque debitrice verso l’Erario dell’importo


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dell’IVA in essa indicato. Invece, tenuto conto del carattere fittizio delle operazioni in questione, non era consentito a tale società, conformemente alla prescrizione risultante dall’articolo 168 di tale direttiva, detrarre l’imposta del medesimo importo indicato sulla fattura di cui essa era destinataria a titolo del riacquisto dell’energia elettrica. Per tali motivi, il giudice del rinvio chiede se l’applicazione congiunta di tali prescrizioni, risultante dal diritto nazionale e riprese dalla direttiva IVA, a un operatore che si trova in una situazione come quella dell’EN.SA., violi il principio di neutralità dell’IVA. È vero che il meccanismo di detrazione dell’IVA, quale previsto dagli articoli 167 e seguenti della direttiva IVA, mira a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o assolta nell’ambito di tutte le sue attività economiche, purché esse siano soggette all’IVA. Il sistema comune dell’IVA garantisce, di conseguenza, la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, a condizione che tali attività siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA (v., in tal senso, sentenze del 29 ottobre 2009, NCC Construction Danmark, C‑174/08, EU:C:2009:669, punto 27, e del 22 dicembre 2010, RBS Deutschland Holdings, C‑277/09, EU:C:2010:810, punto 38). Tuttavia, anche la lotta contro la frode, l’evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA (sentenza del 31 gennaio 2013, Stroy trans, C‑642/11, EU:C:2013:54, punto 46). Orbene, il rischio di perdita di gettito fiscale non è, in linea di principio, eliminato completamente fintantoché il destinatario di una fattura che indica un’IVA non dovuta possa utilizzarla al fine di ottenere la detrazione di tale imposta (sentenza del 31 gennaio 2013, Stroy trans, C‑642/11, EU:C:2013:54, punto 31). In quest’ottica, l’obbligo di cui all’articolo 203 di tale direttiva mira a eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale che può derivare dal diritto a detrazione (sentenza del 31 gennaio 2013, Stroy trans, C‑642/11, EU:C:2013:54, punto 32). Tuttavia, in forza del principio di proporzionalità, detto obbligo non deve eccedere quanto necessario per il raggiungimento di tale obiettivo e, segnatamente, non deve arrecare un pregiudizio eccessivo al principio di neutralità dell’IVA. Orbene, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui il carattere fittizio delle operazioni ostacola la detraibilità dell’imposta, il rispetto del principio di neutralità dell’IVA è garantito dalla possibilità, che spetta agli Stati membri prevedere, di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata, purché l’emittente della fattura dimostri la propria buona fede o abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale (sentenza del 31 gennaio 2013, Stroy trans, C‑642/11, EU:C:2013:54, punto 43). Nella fattispecie, dalle spiegazioni fornite alla Corte dal giudice del rinvio emerge che l’EN.SA. ha consapevolmente emesso fatture non corrispondenti ad alcuna operazione reale. In tali circostanze, tale società non può avvalersi della sua buona fede. Per contro, sempre secondo il giudice del rinvio, le vendite fittizie di energia elettrica


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tra le società interessate non hanno dato origine ad alcuna perdita di gettito fiscale. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 47 delle sue conclusioni, ciò deriva dal fatto che le società coinvolte hanno regolarmente assolto l’IVA gravante sulle loro vendite di energia elettrica e che, avendo poi riacquistato gli stessi quantitativi di energia elettrica al medesimo prezzo, hanno detratto un importo IVA identico a quello che avevano assolto. In tali circostanze, dal punto 33 della presente sentenza emerge che la direttiva IVA, letta alla luce dei principi di neutralità e di proporzionalità, impone agli Stati membri di consentire all’emittente di una fattura relativa a un’operazione inesistente di richiedere il rimborso dell’imposta, indicata su tale fattura, che egli ha dovuto assolvere, qualora abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alle due prime parti della questione sollevata dichiarando che, in una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in cui vendite fittizie di energia elettrica effettuate in modo circolare tra gli stessi operatori e per gli stessi importi non hanno causato perdite di gettito fiscale, la direttiva IVA, letta alla luce dei principi di neutralità e di proporzionalità, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che esclude la detrazione dell’IVA relativa a operazioni fittizie, imponendo al contempo ai soggetti che indicano l’IVA in una fattura di assolvere tale imposta, anche per un’operazione inesistente, purché il diritto nazionale consenta di rettificare il debito d’imposta risultante da tale obbligo qualora l’emittente di detta fattura, che non era in buona fede, abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulla terza parte della questione Con la terza parte della sua questione il giudice del rinvio chiede se il principio di proporzionalità debba essere interpretato nel senso che esso osta, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, a una norma di diritto nazionale in forza della quale la detrazione illegale dell’IVA è punita con una sanzione uguale all’importo della detrazione effettuata. Ai sensi dell’articolo 273 della direttiva IVA gli Stati membri hanno la facoltà di adottare misure al fine di assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e di evitare le evasioni. In particolare, in assenza di disposizioni di diritto dell’Unione a tale proposito, gli Stati membri sono competenti a scegliere le sanzioni che sembrano loro appropriate in caso di inosservanza delle condizioni previste dalla legislazione dell’Unione per l’esercizio del diritto a detrazione dell’IVA (v., in tal senso, sentenze del 15 settembre 2016, Senatex, C‑518/14, EU:C:2016:691, punto 41, e del 26 aprile 2017, Farkas, C‑564/15, EU:C:2017:302, punto 59 nonché giurisprudenza ivi citata). Essi sono tuttavia tenuti a esercitare la loro competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e dei suoi principi, segnatamente i principi di proporzionalità e di neutralità dell’IVA (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile 2017, Farkas, C‑564/15, EU:C:2017:302,


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punto 59 e giurisprudenza ivi citata). Pertanto, le sanzioni non devono eccedere quanto necessario per conseguire gli obiettivi indicati dall’articolo 273 della direttiva IVA né mettere in discussione la neutralità di tale imposta (v., in tal senso, sentenza del 9 luglio 2015, Salomie e Oltean, C‑183/14, EU:C:2015:454, punto 62). In primo luogo, al fine di valutare se una sanzione sia conforme al principio di proporzionalità, occorre tener conto, in particolare, della natura e della gravità dell’infrazione che detta sanzione mira a reprimere, nonché delle modalità di determinazione dell’importo della sanzione stessa (sentenza del 26 aprile 2017, Farkas, C‑564/15, EU:C:2017:302, punto 60 e giurisprudenza ivi citata). A tal riguardo, occorre rilevare che, nella fattispecie, il diritto nazionale prevede, al fine di assicurare la corretta riscossione dell’IVA e di evitare la frode, una sanzione il cui importo non è calcolato in base al debito d’imposta del soggetto passivo, ma è pari all’importo dell’imposta indebitamente detratta da quest’ultimo. Infatti, poiché il debito d’imposta del soggetto passivo dell’IVA è pari alla differenza tra l’imposta dovuta per i beni e i servizi forniti a valle e l’imposta detraibile relativa ai beni e ai servizi acquisiti a monte, l’importo dell’imposta indebitamente detratta non corrisponde necessariamente a tale debito. Ciò avviene in particolare nella controversia principale. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 63 delle sue conclusioni, dal momento che l’EN.SA. ha acquistato e venduto fittiziamente gli stessi quantitativi di energia elettrica al medesimo prezzo, il suo debito d’imposta a titolo dell’IVA, per tali operazioni, corrispondeva a zero. In tale situazione, una sanzione pari al 100% dell’importo dell’imposta indebitamente detratta a monte, irrogata senza tener conto del fatto che un medesimo importo dell’IVA era stato regolarmente assolto a valle e che l’Erario non aveva subito, in conseguenza, nessuna perdita di gettito fiscale, costituisce una sanzione sproporzionata rispetto all’obiettivo da essa perseguito. In secondo luogo, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, il principio di neutralità dell’IVA osta altresì all’applicazione di una sanzione come quella prevista dal diritto nazionale. Infatti, in tale situazione, come indicato al punto 33 della presente sentenza, il rispetto del principio di neutralità dell’IVA è assicurato dalla possibilità, che dev’essere prevista dagli Stati membri, di rettificare le imposte indebitamente fatturate, purché colui che ha emesso la fattura dimostri la sua buona fede o abbia completamente eliminato, in tempo utile, il rischio di perdita di gettito fiscale. Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 57 delle sue conclusioni, l’irrogazione di una sanzione pari al 100% dell’importo dell’imposta indebitamente detratta priva di valore la facoltà di rettifica del debito d’imposta sorto a norma dell’articolo 203 della direttiva IVA. Infatti, anche se tale debito può essere rettificato in assenza di rischio di perdita di gettito fiscale, un importo pari a quello dell’imposta indebitamente detratta continua a essere dovuto a titolo di tale sanzione.


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Di conseguenza, si deve rispondere alla terza parte della questione sollevata dichiarando che i principi di proporzionalità e di neutralità dell’IVA devono essere interpretati nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, essi ostano a una norma di diritto nazionale in forza della quale la detrazione illegale dell’IVA è punita con una sanzione pari all’importo della detrazione effettuata. Sulle spese Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.M. In una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in cui vendite fittizie di energia elettrica effettuate in modo circolare tra gli stessi operatori e per gli stessi importi non hanno causato perdite di gettito fiscale, la direttiva 2006/112/ CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, letta alla luce dei principi di neutralità e di proporzionalità, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che esclude la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) relativa a operazioni fittizie, imponendo al contempo ai soggetti che indicano l’IVA in una fattura di assolvere tale imposta, anche per un’operazione inesistente, purché il diritto nazionale consenta di rettificare il debito d’imposta risultante da tale obbligo qualora l’emittente della fattura, che non era in buona fede, abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. I principi di proporzionalità e di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) devono essere interpretati nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, essi ostano a una norma di diritto nazionale in forza della quale la detrazione illegale dell’IVA è punita con una sanzione pari all’importo della detrazione effettuata. (Omissis)

(1) Fatture per operazioni inesistenti senza danno erariale: alcune conferme e una violazione per eccesso di sanzioni della normativa italiana. Sommario: 1. La fattispecie e la domanda di pronuncia pregiudiziale. – 2. Le operazioni

inesistenti. – 3. Il principio di cartolarità dell’IVA – 4. La detrazione dell’IVA su operazioni inesistenti – 5. La rettificabilità della fattura inesistente o il rimborso dell’IVA versata. – 6. Il principio di proporzionalità e la sanzione prevista dalla normativa italiana.

La Corte di Giustizia Europea è intervenuta su tre specifiche tematiche relative alle frodi IVA. In particolare, i giudici europei, dopo avere confermato l’indetraibilità dell’IVA


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derivante da operazioni inesistenti nonché l’obbligo di versamento dell’imposta esposta nelle fatture emesse relativamente alle medesime operazioni, hanno statuito il diritto di rimborso dell’IVA stessa (ovvero ove permesso dalla normativa nazionale l’emissione di note di credito) allorquando sia dimostrato che le operazioni stesse non hanno causato perdite di gettito fiscale. Inoltre, la normativa italiana è stata giudicata incompatibile, per violazione del principio di proporzionalità, relativamente all’applicazione di una sanzione pari all’imposta indebitamente detratta qualora dalla fattispecie non sia emerso alcun danno erariale. The European Court of Justice has intervened on three specific issues relating to VAT fraud. In particular, the judges, after confirming the non-deductibility of VAT deriving from fictitious transactions and the obligation to pay the VAT deriving from the invoices issued in relation to the fictitious transactions, have established the right to reimbursement of VAT (or where permitted by national law the issuance of credit notes) when it is demonstrated that the said transactions did not caused tax losses. Furthermore, the Italian VAT law was deemed incompatible due to the violation of the principles of proportionality and neutrality in the application of a fine equal to the amount of the deduction made if no tax damage arose in this case.

1. La fattispecie e la domanda di pronuncia pregiudiziale. – La Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia ha presentato una domanda di pronuncia pregiudiziale relativamente al caso di due società italiane (EN. SA. e Green Network) che nel corso degli anni 2009 e 2010 avevano emesso – con un meccanismo circolare di vendita e acquisto di medesimi quantitativi di energia elettrica agli stessi prezzi – fatture per il commercio di energia elettrica che l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto fittizio. Nel rinvio alla Corte di Giustizia i giudici italiani hanno sottolineato che le operazioni (mai realizzate) di vendita di energia elettrica non avevano arrecato alcun vantaggio alle due società (proprio in considerazione della loro circolarità) ed era inoltre dimostrata la totale assenza di danno erariale. Detto altrimenti, le due società si erano scambiate fatture di vendita e di acquisto di energia elettrica per le medesime quantità e al medesimo prezzo al solo fine – secondo quanto riportato dall’Agenzia delle Entrate (ma contestato da EN.SA.) – di esporre artificiosamente importi di ricavi gonfiati nei rispettivi bilanci con lo scopo di agevolare l’accesso a finanziamenti bancari. Constatata l’inesistenza delle compravendite, l’Agenzia delle Entrate, pur riconoscendo che l’IVA indicata nelle fatture attive emesse da EN.SA. era stata regolarmente versata, aveva notificato due avvisi di accertamento negando alla stessa EN.SA. la detrazione dell’IVA sulle fatture emesse da Green Network, richiedendo una maggiore imposta pari a circa 47 milioni di euro per il


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2009 e 22 milioni di euro per il 2010. L’imposta richiesta era corredata da una sanzione pari all’importo illegittimamente detratto. I ricorsi per l’annullamento dei suddetti avvisi erano stati respinti dalla Commissione Provinciale di Milano e le sentenze sfavorevoli erano state appellate innanzi alla Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia. I giudici di secondo grado hanno, quindi, sollevato la questione davanti dalla Corte di Giustizia Europea chiedendo un giudizio di conformità della normativa italiana alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (Direttiva IVA) per i seguenti tre aspetti: a) la reiterata e ripetuta indetraibilità dell’imposta assolta sugli acquisti dal cessionario per ogni transazione contestata che riguarda il medesimo soggetto e la stessa base imponibile; b) l’applicazione dell’imposta ed il pagamento del tributo per il cedente (e la preclusione della ripetizione dell’indebito) per le corrispondenti e speculari operazioni di vendita ritenute ugualmente inesistenti; c) l’applicazione di una sanzione pari all’ammontare dell’imposta sugli acquisti ritenuta indetraibile. I primi due punti si riferiscono alla compatibilità della disposizione italiana che esclude la detrazione dell’IVA esposta in fatture relative a operazioni fittizie, imponendo al contempo ai soggetti che hanno emesso la fattura, e hanno ivi indicato l’IVA, di assolvere tale imposta anche a fronte di un’operazione mai posta in essere. La terza ed ultima richiesta è relativa alla corrispondenza della normativa nazionale al principio di proporzionalità – immanente nella Direttiva IVA – nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, la disposizione italiana punisca il destinatario di una fattura per operazione inesistente con una sanzione uguale all’importo della detrazione effettuata illegalmente e accertata dall’Amministrazione finanziaria. 2. Le operazioni inesistenti. – La fattispecie delle operazioni inesistenti è costituita dalla divergenza tra il dato documentale (fattura) e il dato reale sottostante. La normativa comunitaria non contiene alcuna definizione di operazione inesistente (1). Pertanto, al fine di definirne i contorni occorre fare riferimento alla normativa italiana, in particolare alla legge penale tributaria (d.lgs. 10 marzo 2000, n.

(1)

In senso conforme si veda N. Raggi, Fine delle operazioni inesistenti nell’Iva?, in


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74) che all’art. 1, comma 1, lett. a), dispone che «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi» (2). Dalla definizione testé riportata e sulla base dei pronunciamenti della giurisprudenza nazionale è possibile distinguere le operazioni inesistenti in due categorie: le operazioni «oggettivamente» inesistenti e quelle «soggettivamente» inesistenti. Mentre nelle prime nessuna cessione o prestazione di servizi è stata effettuata a favore del cessionario/committente (oppure è stata realizzata in parte o per un corrispettivo diverso all’operazione sottostante), nelle operazioni soggettivamente inesistenti le cessioni o le prestazioni di servizi sono realmente realizzate, ancorché da parte di un soggetto diverso da quello che ha emesso la fattura (3). A sua volta, nel genus delle operazioni oggettivamente inesistenti, possono distinguersi due fattispecie (4): – inesistenza oggettiva assoluta: quando l’operazione all’apparenza posta in essere dalle parti (e quindi simulata), non è mai stata effettuata, neppure in parte (si configura, in tal caso, un’ipotesi di simulazione assoluta), come nel caso affrontato dalla Corte di Giustizia nella sentenza in commento; – inesistenza oggettiva relativa: quando l’operazione risulta compiuta, ma:

Dir. prat. trib., 2011, I, 10275 ss. (2) Concorda E. Della Valle, Le operazioni inesistenti nell’ordinamento penal-tributario, in Rass. trib., 2015, 433. (3) Si veda F. Cerioni, La prova della frode fiscale relativa all’imposta sul valore aggiunto e della «mala fede» del contribuente nella giurisprudenza europea e nazionale, in Dir. prat. trib., 2014, I, 10145 ss.; per quanto concerne l’apporto della giurisprudenza nazionale alla definizione in parola si vedano Cass., 12 marzo 2002, n. 3550, in Corr. trib., 2002, 1975, con nota di Peirolo; Cass., 4 dicembre 2006, n. 25672, in GT, 2007, 318, con nota di P. Centore, Equilibrio tra forma e sostanza nelle frodi iva, ivi, 323 ss., e Cass., 30 gennaio 2007, n. 1950, in Boll. trib., 2008, 511 ss., con nota di F. Cerioni, L’indetraibilità dell’iva versata in relazione ad operazioni inesistenti, ivi, 513, ss.; G. Zizzo, Incertezze e punti fermi in tema di frodi carosello, in Corr. trib., 2010, 962. (4) N. Raggi, op. cit.; in giurisprudenza di veda Cass. pen., Sez. III, 15 gennaio 2008, n. 1996 in Ipsoa BigSuite Wolters Kluwer e commentata da G.D. Toma, Il reato di fatturazione per operazioni inesistenti, in Dir. prat. trib., 2010, II, 127 ss.


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· per quantitativi inferiori rispetto a quelli indicati in fattura; ciò che «non esiste», in pratica, è la quota parte di operazione riferibile al surplus di corrispettivo (c.d. sovrafatturazione quantitativa); · per corrispettivi maggiori rispetto a quelli che sarebbero dovuti per i beni/ servizi effettivamente forniti (ad esempio la fattura reca la cessione di beni di qualità superiore, mentre in realtà sono stati compravenduti beni di qualità media o inferiore in quella che viene definita come c.d. sovrafatturazione qualitativa); qui, ad essere considerata inesistente, è la vendita di beni/servizi di qualità superiore, considerandosi, invece reale ed effettiva la fornitura di beni/servizi di qualità inferiore. Le suddette distinzioni (i.e. oggettivamente o soggettivamente inesistente) assumono rilevanza nell’applicazione del principio di buona fede che è stato valorizzato dalla giurisprudenza al fine di permettere o meno la detrazione dell’IVA da parte del destinatario della fattura. Infatti, se colui che ha ricevuto la fattura per un’operazione mai effettuata (i.e. oggettivamente inesistente) è senza dubbio cosciente della circostanza che essa non si è mai perfezionata (e che, quindi, non esiste), diverso è il caso in cui l’operazione è stata realmente compiuta, pur se da operatore diverso da quello che ha emesso la fattura (c.d. operazione soggettivamente inesistente). In quest’ultimo caso, il cessionario/committente dell’operazione effettivamente realizzata potrebbe essere del tutto ignaro, e quindi in buona fede, sulla diversità soggettiva tra colui che ha emesso il documento e colui al quale l’operazione è riconducibile (5). L’onere della prova, quale regola generale del procedimento tributario, grava sull’Agenzia delle Entrate che motivando gli atti di accertamento non può addurre genericamente la falsità del documento ma deve dimostrare, con elementi oggettivi e dotati di forte spessore indiziario e presuntivo, che le operazioni contabilizzate e fatturate non sono effettivamente avvenute (6).

(5) Sul ruolo della Corte di Giustizia nell’affermazione dell’autonomia concettuale delle operazioni iva dalle categorie giuridiche nazionali giusta la valorizzazione della buona fede e dell’affidamento del contribuente si rinvia a P. Filippi, I profili oggettivi del presupposto dell’iva, in Dir. prat. trib., 2009, I, 1199 ss. (6) E.G. Comaschi, Fatture per operazioni inesistenti: actore non probante, reus absolvitur, in Dir. prat. trib., 2001, II, 54 ss.; Scalia, L’indetraibilità dell’iva nelle ipotesi di conoscenza o conoscibilità dell’altrui frode e note sul ruolo della Corte di Giustizia, in Dir. prat. trib., 2015, II, 483 ss. In giurisprudenza si rinvia ex multis a Cass., 2 aprile 2014, n. 7560 e Cass., 18 aprile 2014, nn. 8999, 9000 e 9001 in www.cortedicassazione.it.


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Peraltro, nel caso di specie, è interessante evidenziare come l’avvocato generale Kokott nelle proprie conclusioni (paragrafi 21 e 22) abbia sottolineato l’importanza di un’attenta analisi da parte dei giudici del rinvio in merito alla esistenza o meno delle operazioni sottostanti alla documentazione contestata dall’Agenzia delle Entrate. In particolare, considerate le peculiarità della cessione dell’energia elettrica tra i relativi distributori, l’avvocato mette in evidenza come le contestate operazioni (supposte oggettivamente inesistenti) consistono usualmente nella cessione e nell’acquisto (in via elettronica) di diritti di prelievo di corrente e non è presente alcun trasferimento materiale del bene. Tale modalità di trasferimento rende molto difficile valutare se sotto il profilo giuridico tali diritti di prelievo siano stati effettivamente trasferiti in modo efficace (e per converso contestarne la loro inesistenza). 3. Il principio di cartolarità dell’IVA. – Il primo quesito tra quelli contenuti nel rinvio da parte dei giudici italiani, sopra citato alla lettera b), dal quale conviene far partire l’esame della sentenza in commento, concerne “l’applicazione dell’imposta ed il pagamento del tributo per il cedente … per le corrispondenti e speculari operazioni di vendita ritenute ugualmente inesistenti”. La questione sottoposta è stata già più volte affrontata dalla Corte di Giustizia Europea. La Direttiva IVA in merito è lapidaria: l’art. 203 prevede che “l’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”. La suddetta disposizione è stata recepita dal legislatore italiano all’art. 21, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 ove è previsto che “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” (7).

(7) All’epoca dei fatti l’art. 21, comma 7, del d.p.r. n. 633/1972 disponeva “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicati in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”. La modifica del testo apportata dall’art. 31 del decreto legislativo 24 settembre 2015 è finalizzata (come indicato dalla relazione illustrativa) a chiarire che la relativa prescrizione non riguarda le ipotesi


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Come si evince dal confronto tra le due disposizioni, quella italiana sembrerebbe più specifica di quella comunitaria: ciò che fa scattare l’obbligo di versamento dell’IVA è la sola indicazione in fattura dell’imposta ancorché questa si riferisca ad operazioni inesistenti. Purtuttavia, la specialità della norma italiana è solo apparente ove si abbia a mente che il d.p.r. n. 633/1972 dispone al comma 5 dell’art. 6 il principio di esigibilità dell’IVA in correlazione il momento di effettuazione dell’operazione ove, giusta il disposto del comma 4 del citato art. 6, tale momento può essere anticipato appunto con l’emissione della fattura (8). Dal dettato normativo sopra riportato consegue, quindi, che qualora un soggetto passivo emetta una fattura per operazioni inesistenti si genera il meccanismo applicativo dell’imposta seppur in assenza di alcun fatto generatore della stessa quale la cessione di beni o la prestazione di servizi. Il concetto è noto come principio di cartolarità dell’imposta. Detto in altri termini, l’obbligo di versamento dell’IVA deriva da una fattispecie impositiva meramente “cartolare” caratterizzata appunto dalla emissione della fattura. Sul punto, come anticipato, l’orientamento della giurisprudenza comunitaria è costante (9). La disposizione dell’art. 21, comma 7, del d.p.r. n. 633/1972 è stata interpretata da parte della dottrina come una sanzione impropria ovvero quale conseguenza sfavorevole conseguente alla violazione di un precetto, non qualificata né disciplinata dal legislatore come sanzione e pur tuttavia avente funzione – concorrente con altre e non ad esse prevalente – afflittiva (10).

di operazioni soggette a reverse charge. Sul punto si confronti anche P. Centore, Reverse charge e sanzioni: un equilibrio ancora da individuare, in Dir. prat. trib., 2017, II, 199 ss. e F. Scopacasa (a cura di), Commentario IVA, Art. 21, Paragrafo XI: comma 7, in Ipsoa BigSuite Wolters Kluwer. (8) Si confronti la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 1/E del 17 gennaio 2018 paragrafo 1.2. (9) Si confrontino le sentenze Corte di Giustizia, 27 giugno 2018, cause C-459/17 e C-460/17, SGI e Valériane, punto 37; Corte di Giustizia, 31 gennaio 2013, causa C-643/11, LVK, punto 34; Corte di Giustizia, 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken, punto 23, Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius, punto 19 e Corte di Giustizia, 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans, punto 38. (10) G. Gallo, Fatture per operazioni inesistenti: ancora sull’art. 21, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972, in Il fisco, 2001, 12509 ss.; L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 2011 per il quale si è in presenza di una norma “polifunzionale”, con natura sia di tributo sia di sanzione; Cipollini, Cinque principi in una sola sentenza, a


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In senso contrario si sono espressi altri commentatori i quali hanno ricondotto, con soluzione a parere di chi scrive più condivisibile, la norma all’interno del sistema di applicazione dell’IVA, seppur apparentemente contraria alla natura del tributo quale imposta sul consumo ed alla stessa definizione dei presupposti e del fatto generatore delineato nella Direttiva Comunitaria (11). La giurisprudenza sia comunitaria che domestica ha condiviso quest’ultimo orientamento affermando che la norma deve essere intesa come una disposizione di salvaguardia dell’interesse fiscale ossia dell’interesse ad evitare un danno erariale determinato dalla possibilità (apparente) per il destinatario della fattura di operare la detrazione (12). In senso conforme anche la sentenza in commento la quale al punto 31, richiamando propri precedenti, chiarisce che: • la lotta contro la frode, l’evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA; • il rischio di perdita di gettito fiscale non è, in linea di principio, eliminato completamente fintantoché il destinatario di una fattura che indica un’IVA non dovuta possa utilizzarla al fine di ottenere la detrazione di tale imposta. Pertanto, secondo i giudici unionali l’obbligo di cui all’articolo 203 della Direttiva IVA mira a eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale che può derivare dal diritto a detrazione. Nel medesimo senso anche la Suprema Corte la quale nella sentenza dell’11 gennaio 2006, n. 309 (13) considera la disposizione di cui all’art. 21,

commento della sentenza della Cass., 11 gennaio 2006, n. 309, in Boll. trib., 2006, 427 ss.; O. Salvini, Nessuna IVA dovuta per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, in Corr. trib., 2017, 1201 ss. (11) Portale, Iva, Milano, VIII ed., 2005, 523; M. Mandò - G. Mandò, Manuale dell’Iva, XXI ed., Milano, 2002, 506-507; Carotenuto, Fatture per operazioni inesistenti: conseguenze fiscali e penali, in il fisco, 2006, 4211 ss; A. Comelli, Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000, 816. (12) Ex multis si confronti la sentenza della Corte di Giustizia, 31 gennaio 2013, causa C-643/11, LVK – 56 EOOD (punto 38) “tenuto conto, da un lato, di tale possibilità di rettifica e, dall’altro, del rischio che la fattura che menziona indebitamente l’IVA sia utilizzata ai fini dell’esercizio del diritto a detrazione, non si può ritenere che l’obbligo previsto all’articolo 203 della direttiva 2006/112 conferisca al pagamento dovuto un carattere di sanzione”. (13) In il fisco, 2006, 1238 con commento D. Placido, È dovuta l’Iva sulle fatture false. Nel medesimo senso anche la sentenza della Cass., 29 maggio 2001 n. 7289 la quale dispone che “nella prospettiva del raggiungimento dello scopo perseguito dal legislatore, risultano,


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comma 7, del d.p.r. n. 633/1972 quale norma di chiusura dell’intero sistema IVA rigettando l’interpretazione sanzionatoria che era stata proposta dal ricorrente. Tale interpretazione è, peraltro, coerente con le conclusioni raggiunte dalla sentenza in commento di cui infra in merito alla possibilità di emettere una nota di rettifica della fattura per operazione inesistente nell’ipotesi in cui sia rimosso in tempo utile il rischio di perdita del gettito erariale. Pertanto, l’analisi ermeneutica è confermata anche dalla sentenza in commento la quale però chiosa avvertendo che “tuttavia, in forza del principio di proporzionalità, detto obbligo non deve eccedere quanto necessario per il raggiungimento di tale obiettivo e, segnatamente, non deve arrecare un pregiudizio eccessivo al principio di neutralità dell’IVA”. I riflessi di tale ultima affermazione saranno approfonditi in seguito. 4. La detrazione dell’IVA su operazioni inesistenti. – Come sopra anticipato, l’emissione di una fattura per operazioni inesistenti determina un effetto dal lato attivo perché dà avvio al procedimento applicativo con l’addebito dell’imposta (come detto sempre dovuta ancorché non supportata da una effettiva cessione o prestazione), nonché uno dal lato passivo in quanto potrebbe fare sorgere teoricamente il diritto alla detrazione in capo al cessionario per il solo fatto di essere in possesso della fattura. La detraibilità dell’IVA esposta nella fattura emessa a fronte di operazioni inesistenti è oggetto di un’altra questione posta nel rinvio ai giudici comunitari. Il tema si pone con riferimento all’applicazione dell’art. 168 della Diretta IVA il quale prevede che “nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: a) l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo”.

quindi, evidenti, sia il principio su cui si fonda la disposizione “de qua” - che è esclusivamente quello della c.d. “cartolarità” dell’operazione (cfr., in tal senso, Cass., n. 11141 del 1996, in una fattispecie, diversa dalla presente, dell’applicabilità dell’art. 21, comma 7, a fatturazione di operazioni inesistenti, ma pacificamente esenti da I.V.A.) - sia la natura “assolutamente speciale” e “di chiusura” della stessa” in Ipsoa BigSuite Wolters Kluwer.


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La normativa nazionale ha recepito il meccanismo della detrazione IVA nell’art. 19 del d.p.r. n. 633/1972 ove si prevede che “per la determinazione dell’imposta dovuta … è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione”. In materia di operazioni inesistenti, le normative comunitaria e nazionale non prevedono particolari disposizioni e, quindi, occorre invocare i principi generali che regolano il sistema di detrazione dell’imposta. Partendo dal dettato normativo comunitario emerge che l’IVA è detraibile nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di operazioni attive soggette ad IVA; la conseguenza naturale di tale principio è che si può portare in detrazione solo l’imposta connessa a cessioni dei beni e prestazioni di servizi realmente effettuate, non potendo esercitarsi alcuna detrazione qualora l’operazione sottostante sia inesistente. La conferma della suddetta interpretazione è stata fornita dalla Corte di Giustizia Europea nella nota sentenza 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding BV in cui è stato affermato che l’esercizio del diritto di detrazione contemplato dalla Direttiva non si estende all’imposta dovuta esclusivamente per il fatto di essere indicata nella fattura (punti 13 e 19) (14). Come diretta conseguenza di tale impostazione le fatture emesse per operazioni inesistenti non possono dare luogo ad alcun diritto alla detrazione in capo al soggetto acquirente o committente del servizio. Nel medesimo senso anche la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (15). Occorre però evidenziare che sia in ambito comunitario che nazionale sulla detraibilità dell’IVA afferente operazioni inesistenti si è sviluppato un orientamento giurisprudenziale che differenzia l’ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti da quelle soggettivamente inesistenti.

(14) Si veda punto 25 delle conclusioni dell’avvocato Kokott alla sentenza in commento “la detrazione presuppone pertanto la realizzazione effettiva di una cessione di tale energia. Di conseguenza, la detrazione non può avvenire quando manca la realizzazione effettiva della cessione del bene”. (15) Sia consentito rinviare al proprio commento a Cass., 29 maggio 2001 n. 7289 e Cass. 7 ottobre 2002, n. 14337, M. Ravaccia, Indetraibilità dell’Iva indicata su fatture per operazioni inesistenti, in Dir. prat. trib., 2003, II, 20646.


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Mentre nel caso delle prime tale detrazione non dovrebbe essere mai riconosciuta in assenza del fatto generatore dell’imposta dal momento che il destinatario della fattura è necessariamente a conoscenza del carattere fittizio dell’operazione, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti, nelle quali il destinatario della fattura dovrebbe effettivamente entrare in possesso del bene o fruire del servizio commissionato, occorre valutare lo status soggettivo (buona fede) di colui che appunto riceve la fattura (16). La rilevanza della buona fede è stata giudicata e giustificata in dottrina come il risultato di un bilanciamento giudiziale tra contrapposti principi; si ritiene, infatti, che i giudici abbiano fatto assurgere la buona fede al rango di ulteriore elemento integrativo, se non costitutivo, del diritto di detrazione, al di là di qualsiasi previsione legale (17). Al fine di riepilogare quanto fin d’ora emerso dall’analisi della sentenza in commento è possibile affermare che: • la disposizione dell’art. 203 della Direttiva IVA (implementata dall’art. 21, comma 7, del d.p.r. n. 633/1972) presuppone sempre il versamento dell’IVA indicata nella fattura in un’ottica di prevenzione dal rischio di evasioni; • la giurisprudenza sia comunitaria che nazionale è orientata sempre – per le fatture emesse in assenza di fatto generatore (nella dizione della norma e giurisprudenza italiana quali oggettivamente inesistenti) – a disconoscere la detraibilità dell’imposta; • ai fini della detrazione dell’IVA indicata in fatture emesse nell’ambito di una frode fiscale e nella diversa qualificazione di operazioni soggettiva-

(16) Si confrontino le sentenze della Corte di Giustizia, 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen; Corte di Giustizia, 6 luglio 2006, cause riunite C-439/04 e C-440/04, Axel Kittel, Corte di Giustizia, 21 giugno 2012, cause riunite, C-80/11 e C- 142/11, Mahagében Kft Péter Dàvid,; Corte di Giustizia, 6 dicembre 2012, causa C-285/11, Bonik Eood; Corte di Giustizia, 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Sty Trans EOOD in www. curia.europa.eu. (17) Evidenza tale posizione A. Mondini, Corresponsabilità tributaria per le evasioni IVA commesse da terzi, in Rass. trib, 2014, 453 con rinvio a E. Marello, Oggettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2008, I, 2 e A.M. Proto, Nozione di antieconomicità e rilevanza della buona fede del contribuente nell’Iva, in Rass. trib., 2010, 1419. L’applicazione della nozione di buona fede soggettiva nell’IVA è portata ad esempio di come l’interpretazione giurisprudenziale “europea” finisca per assumere un’efficacia integrativa degli istituti e delle categorie giuridiche nazionali (e tradizionali) del diritto sostanziale, da G. D’angelo, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013, 95.


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mente inesistenti, assume rilevanza l’aspetto soggettivo del cessionario. L’imposta è in linea di principio indetraibile, salva la possibilità di dimostrare che il soggetto destinatario della fattura non sapesse o non avrebbe potuto sapere che l’operazione si svolgeva in un ambito fraudolento; • il possesso della fattura da parte del cessionario/committente è condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esercizio del diritto alla detrazione (18). 5. La rettificabilità della fattura o il rimborso dell’IVA versata. – Mentre le conclusioni sopra evidenziate sono confermate da un orientamento giurisprudenziale comunitario e nazionale che può dirsi consolidato, destano maggiore interesse altri due punti oggetto di analisi da parte dei giudici della Corte di Giustizia ovvero la rettificabilità della fattura relativa ad operazione inesistente da parte dell’emittente e la violazione del principio di proporzionalità della sanzione in ipotesi di operazioni inesistenti. La rettificabilità della fattura emessa per operazioni inesistenti – ovvero in alternativa il rimborso dell’IVA versata (attraverso quindi il meccanismo di ripetizione dell’indebito) – si intreccia inevitabilmente con i principi insiti del sistema comunitario di neutralità dell’imposta e di proporzionalità delle sanzioni rispetto alla natura e alla gravità dell’infrazione commessa. La neutralità dell’imposta è garantita dal meccanismo giuridico che prevede che il soggetto passivo addebiti l’IVA dovuta sull’operazione imponibile al destinatario della cessione di beni o della prestazione di servizi (in questo modo rendendo giuridicamente rilevante la traslazione economica dell’imposta), e detragga, dall’imposta dovuta, l’IVA addebitatagli o assolta sull’acquisto di beni e servizi per i quali sussista il nesso di inerenza con operazioni soggette a imposta nell’ambito della sua attività economica. In altre parole, il soggetto passivo determina il proprio debito tributario al netto dell’IVA che ha gravato sui beni e servizi che egli a sua volta ha utilizzato per la produzione di beni e per la prestazione di servizi (19).

(18) La Direttiva IVA in relazione alle modalità per l’esercizio del diritto alla detrazione è chiara nello stabilire all’articolo 178 che ai fini dell’esercizio del diritto alla detrazione il soggetto acquirente o committente del servizio deve essere in possesso di una fattura redatta ai sensi degli articoli 220 e successivi della medesima Direttiva IVA. Ex multis si confronti L. Salvini, La detrazione Iva nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, in Riv. dir. trib., I, 1998, 143. (19) A. Mondini, Il principio di neutralità nell’IVA, tra mito e (perfettibile) realtà, in I


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Il debito IVA indicato in fattura da parte del cedente/prestatore costituisce il contrappeso rispetto alla possibilità di detrazione della medesima imposta da parte del cessionario/committente. Ciò detto, il rispetto del principio di neutralità è garantito dalla possibilità di rettificare le imposte indebitamente fatturate. Il percorso argomentativo sopra sviluppato è ben evidenziato dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza n. C-643/11del 31 gennaio 2013 la quale (punto 38), in relazione al principio di cartolarità e all’obbligo di versamento dell’IVA indicata in fattura dall’emittente, precisa che “in considerazione di tale scopo, detto obbligo è limitato dalla possibilità, che dev’essere prevista dagli Stati membri nei loro ordinamenti giuridici interni, di rettificare le imposte indebitamente fatturate, qualora colui che ha emesso la fattura dimostri la sua buona fede o abbia completamente eliminato, in tempo utile, il rischio di perdita di gettito fiscale”. A favore della rettificabilità del documento emesso dal soggetto passivo si veda altresì la sentenza della Corte di Giustizia 19 settembre 2000 (C-454/98) la quale al punto 63 statuisce che “occorre quindi risolvere la seconda questione nel senso che, allorché colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di entrate fiscali, il principio della neutralità dell’IVA richiede che l’imposta indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che la regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso la fattura”. Ancorché la Direttiva nulla preveda in merito al meccanismo di rettifica, occorre evidenziare come nell’interpretazione della medesima Direttiva fornita dalla Corte di Giustizia Europea emerga chiaramente che un ordinamento nazionale che non contenga alcuna disposizione sulla rettifica è incompatibile con il suddetto principio di neutralità (20).

principi europei del diritto tributario, a cura di Di Pietro, Tassani, Padova, 2013, 271. (20) Si confronti sentenza Corte di Giustizia, 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth AG & Co. KG e Strobel, punti 48 e 58, in www.curia.europa.eu. Il punto 30 della sentenza C-454/98 statuisce che “come criterio per escludere la regolarizzazione dell’importo dell’IVA menzionata sulla fattura, occorrerebbe piuttosto tener conto del fatto che la deduzione fiscale corrispondente ha potuto essere effettivamente ottenuta dal destinatario della fattura. Se risultasse che non è più possibile annullare presso il destinatario di una fattura una deduzione che gli è stata concessa, colui che emette la fattura sarebbe considerato responsabile delle mancate entrate fiscali al fine di garantire la neutralità fiscale”.


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La sentenza qui in commento è conforme all’orientamento fatto proprio dalle pronunce appena citate confermando la possibilità di utilizzare le note di credito anche per rettificare le operazioni inesistenti, ma, più rigorosamente, ammette la possibilità di rettifica in tali circostanze sempre che il diritto nazionale consenta tale operazione. La normativa IVA nazionale ha introdotto il meccanismo di rettifica nell’art. 26 del d.p.r. n. 633/1972 contemplando opportunamente il principio di simmetria in modo tale da impedire correzioni unilaterali che portino un danno erariale. Altrimenti detto: ad ogni rettifica in diminuzione dell’IVA dovuta dal soggetto emittente la fattura scatta l’obbligo di riduzione dell’IVA detraibile da parte del cessionario/committente (21). Nella normativa italiana l’applicazione del principio di emendabilità della fattura – richiesto dalla Direttiva e dalla Corte di Giustizia Europea – incontra, però, una limitazione nelle fattispecie di operazioni inesistenti. L’Amministrazione finanziaria, infatti, ha sempre espresso la propria contrarietà all’utilizzo della rettifica dell’operazione nelle ipotesi di operazioni inesistenti (22). Inoltre, la possibilità di rettificare una operazione inesistente è controversa anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Un orientamento più restrittivo, ancorché meno recente, afferma, infatti, che la funzione perseguita dall’art. 26 del d.p.r. 633/1972 presuppone la necessità che l’operazione sottostante di cui si chiede la rettifica sia una operazione vera e reale e non un’operazione del tutto inesistente (23).

(21) M. Iavagnilio, La rettifica dell’Iva dovuta in assenza del presupposto, in Corr. trib., 2013, 1889. (22) In senso negativo all’applicabilità dell’art. 26, 3° comma del d.p.r. n. 633 del 1972, alle fatture per operazioni inesistenti, si vedano la circ. min. 10 gennaio 1974, n. 3/500025 “è appena il caso di precisare che la procedura di rettifica, di cui al combinato disposto del 2° e 3° comma del citato art. 26, non può trovare applicazione nel caso di fatturazione per operazioni inesistenti”, nonché la relazione ministeriale allo schema del d.p.r. n. 633 del 1973. (23) Cass., 10 giugno 2005, n. 12353 in Banca Dati Eutekne e in GT con commento di P. Centore, Dubbi interpretativi in tema di emissione di fatture e di note di credito per operazioni inesistenti, 2005, 922 ss. il quale definisce la sentenza come inquietante e corretta. In senso conforme anche Cass., 14 marzo 2012 n. 4020 ove si legge che «pertanto, nel caso in cui un’operazione sia stata erroneamente assoggettata ad IVA e risultino, di conseguenza, privi di titolo sia il pagamento dell’imposta che la rivalsa nei confronti del cessionario e la detrazione da questi successivamente operata, il cedente ha diritto di chiedere all’amministrazione il rimborso del tributo corrisposto, ed il cessionario quello di domandare al cedente la restituzione della somma pagata in rivalsa» in banca dati Ipsoa BigSuite Wolters Kluwer. In senso conforme anche la sentenza Cass., 18 novembre 2011, n. 24231 in banca dati Ipsoa BigSuite Wolters Kluwer.


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In altre parole, la procedura di rettifica è utilizzabile solamente se uno degli specifici motivi indicati nella disposizione nazionale citata trovi riscontro in un’operazione originaria; i giudici ritengono che, se così non fosse, si disconoscerebbe la natura sottostante dell’operazione e si vanificherebbe lo scopo perseguito dal legislatore (i.e. ripristinare la coerenza del sistema impositivo IVA). Le inesattezze che consentono di utilizzare le rettifiche IVA devono essere fisiologiche rispetto all’operazione sottostante e devono avere una causa diversa dalla falsità che accompagna la fattura emessa. Sembrano, invece, favorire l’utilizzo del meccanismo di cui all’art. 26 del d.p.r. n. 633/1972 i più recenti interventi della Suprema Corte la quale con le pronunce 27 maggio 2015 n. 10939 (come strumento alternativo al rimborso), 28 dicembre 2017 n. 31059, 26 settembre 2018 n. 22963 ha confermato la correttezza dell’emissione delle note di credito con la condizione che sia dimostrata in conclusione la mancanza di alcun danno erariale. È di tutta evidenza che non potendo utilizzarsi la nota di variazione per le operazioni inesistenti l’unica alternativa – ferma restando l’imprescindibile condizione di eliminazione completa del rischio di perdita del gettito fiscale – per il rispetto del principio di neutralità dovrebbe essere il diritto ad ottenere il rimborso della medesima IVA (24). Quest’ultima conclusione si basa sulla necessità di ripristinare la “parità” delle condizioni nel senso che l’Erario non può trarre vantaggio dall’addebito (da un lato) né subire uno svantaggio dalla detrazione (d’altro lato). Escludendo, per le considerazioni più sopra svolte, il carattere sanzionatorio della disposizione (i.e. art. 21, comma 7, del d.p.r. n. 633/1972), la debenza ivi prevista non può essere giustificata se non con riferimento al diritto di detrazione che la fattura, ancorché erroneamente (o illegittimamente) emessa, aziona a favore del destinatario. Da quanto sopra emerge che mentre secondo parte della giurisprudenza ammette il ripristino della situazione ex ante emissione della fattura per operazione inesistente mediante accesso allo strumento di rettifica da parte dell’emittente della fattura di una nota di credito, altra parte – escludendo la rettifica – ha però ammesso la possibilità di ottenere il rimborso da parte dell’emittente (escludendo quindi il diritto di rimborso da parte del cessionario/committente).

(24) Cass., 21 aprile 2015, n. 10939 in www.cassazione.it.


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La tesi che sostiene il rimborso dell’imposta quale strumento esclusivo per ripristinare il rispetto del principio di neutralità è sostenuta dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza del 15 marzo 2007 (C-35/05) la quale, dopo aver stabilito che solo l’emittente della fattura per operazioni inesistenti è titolato alla richiesta di rimborso dell’imposta versata, ha sottolineato che tale meccanismo di ristoro dell’imposta (i.e. tramite il rimborso) non deve essere “impossibile o eccessivamente difficile” in quanto in tale caso vi sarebbe una violazione del principio di effettività (25). Anche la sentenza in commento conferma l’orientamento sopra espresso ove al punto 33 afferma che “in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui il carattere fittizio delle operazioni ostacola la detraibilità dell’imposta, il rispetto del principio di neutralità dell’IVA è garantito dalla possibilità, che spetta agli Stati membri prevedere, di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata, purché l’emittente della fattura dimostri la propria buona fede o abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdita di gettito fiscale”; per il raggiungimento del rispetto del principio di neutralità la sentenza chiosa – punto 35 – che “la direttiva IVA, letta alla luce dei principi di neutralità e di proporzionalità, impone agli Stati membri di consentire all’emittente di una fattura relativa a un’operazione inesistente di richiedere il rimborso dell’imposta, indicata su tale fattura, che egli ha dovuto assolvere, qualora abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale”. Quindi, escluso qualsiasi danno erariale (per ripresa della detrazione in capo al destinatario della fattura), sembra pacifico che il divieto di chiedere il rimborso dell’IVA indicata nella fattura emessa per operazioni inesistenti violerebbe il principio di neutralità (26). Occorre tuttavia segnalare che la normativa nazionale non permette ad oggi il rimborso dell’imposta pagata in ipotesi di operazioni inesistenti in quanto il disposto del terzo comma dell’art. 30-ter del d.p.r. n. 633/1972 prevede che “la restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”.

(25) A commento della sentenza di vedano L.I. Neri, Caso Reemtsma: il diritto al rimborso Iva non spetta al soggetto comunitario non residente che abbia erroneamente assolto in Italia l’imposta sul valore aggiunto, in Rass. trib., 2007 1289 ss.; P. Centore, Diritto di detrazione e debenza dell’Iva, in Corr. trib., 2008, 1121 ss. (26) In tal senso si confrontino D. Augello - A. Cissello, L’inesistenza oggettiva delle operazioni, in Quaderni Eutekne Le frodi IVA, 67.


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6. Il principio di proporzionalità e la sanzione prevista dalla normativa italiana. – L’ultimo quesito del rinvio si riferisce alla compatibilità dell’art. 6, comma 6, del decreto legislativo 18 dicembre 1997 n. 471 il quale prevedeva (all’epoca dei fatti) che chi computava illegittimamente in detrazione l’imposta assolta, dovuta o addebitatagli in via di rivalsa, era punito con la sanzione amministrativa uguale all’ammontare della detrazione compiuta. La sentenza in commento, dopo aver confermato la facoltà degli Stati membri di adottare misure al fine di assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e di evitare sanzioni, come previsto dall’art. 273 della Direttiva, ha ricordato che tale facoltà deve essere esercitata nel rispetto dei principi di proporzionalità e di neutralità. Il principio di proporzionalità dispone che la sanzione non può eccedere quanto necessario al raggiungimento del fine presupposto alla medesima sanzione; al fine di valutare se una simile sanzione sia conforme al principio di proporzionalità, occorre tener conto, in particolare, della natura e della gravità dell’infrazione che detta sanzione mira a penalizzare, nonché delle modalità di determinazione dell’importo della sanzione stessa. Il principio in esame non solo è stato più volte analizzato dalla Corte di Giustizia (27), ma è stato altresì recepito dalla giurisprudenza nazionale (28). I giudici unionali nella sentenza in commento hanno decretato come contraria alla Direttiva la sanzione nella misura pari al 100% dell’imposta indebitamente detratta ove, come nel caso di specie, il debito IVA del soggetto passivo, pari alla differenza tra l’imposta dovuta per i beni e i servizi forniti a valle e l’imposta detraibile relativa ai beni e ai servizi acquisiti a monte, era pari a zero. Ora poiché dall’analisi delle fatturazioni incrociate di cui sopra non emergeva alcun debito d’imposta ovvero non si evidenziava alcun danno erariale (in quanto l’importo dell’IVA a debito era pari a quello dell’Iva detraibile), secondo la sentenza è certamente sproporzionato (rispetto all’obiettivo) applicare una sanzione pari all’IVA non detraibile.

(27) Si rinvia ex multis alle sentenze della Corte di Giustizia, 20 giugno 2013, causa C-259/12, Rodopi-Mi 91 OOD, e causa C-272/13, Equoland Soc. Coop. a rl in www.curia. europa.eu. (28) Cass., 15 luglio 2015, n. 14767 in Banca dati Eutekne e Cass., 28 settembre 2018, n. 23506 in www.cassazione.it.


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Parte quarta

Le conclusioni raggiunte costituiscono certamente un nuovo punto di riferimento nell’applicazione delle sanzioni derivanti dalle frodi fiscali di cui sia il legislatore che la giurisprudenza dovranno tenerne conto.

Mario Ravaccia


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