Rivista Diritto Tributario 6/2020

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Vol. XXX - Dicembre

Rivista di

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

Fondatori: Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi

6

Rivista bimestrale

Vol. XXX - Dicembre 2020

6

Direzione scientifica Loredana Carpentieri - Angelo Contrino - Guglielmo Maisto - Franco Paparella Gaetano Ragucci - Roberto Schiavolin

2020

In evidenza: • È incostituzionale l’infalcidiabilità dell’IVA nell’accordo di composizione della crisi

da sovraidebitamento: riflessioni a margine (nota a Corte Cost., n. 245/2019) Lorenzo del Federico • Digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria e diritti dei contribuenti

Francesco Farri • La motivazione tra polifunzionalità e audit interno

Silvia Giorgi • Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato: il problema del recupero dell’ICI non versata

dagli enti non commerciali Federica Campanella • Osservazioni in tema di responsabilità fiscale dei notai per il versamento dell’imposta

di registro: natura giuridica e limiti della responsabilità Ludovico Nicotina

ISSN 1121-4074

Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Rivista di Diritto Tributario

Componenti onorari: Francesco D’Ayala Valva - Andrea Fedele - Piera Filippi Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo

Pacini



Indici DOTTRINA

Manfredi Bontempelli

Nuove dimensioni della confisca e del sequestro da illecito penale tributario........ III, 151 Federica Campanella

Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato: il problema del recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali......................................................................................... I, 577 Lorenzo del Federico

È incostituzionale l’infalcidiabilità dell’IVA nell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento: riflessioni a margine (nota a Corte Cost., n. 245/2019)..... II, 329 Francesco Farri

Digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria e diritti dei contribuenti............ V, 115 Silvia Giorgi

La motivazione tra polifunzionalità e audit interno.................................................. I, 495 Antonio Marinello

Libera circolazione dei capitali e ritenute alla fonte sui dividendi corrisposti a OICVM non residenti (nota a Corte di Giustizia UE, sez. VII, 30 gennaio 2020, causa C-156/17).......................................................................................................... IV, 175 Ludovico Nicotina

Osservazioni in tema di responsabilità fiscale dei notai per il versamento dell’imposta di registro: natura giuridica e limiti della responsabilità................................. I, 527 Rubrica di diritto penale tributario

a cura di Gaetano Ragucci.......................................................................................... III, 151 Rubrica di diritto europeo

a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 159 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 115 Gli articoli e le note pubblicati nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna nel rispetto dei criteri stabiliti dall’ANVUR e sono stati valutati positivamente dai proff. Massimo Basilavecchia, Giuseppe Corasaniti, Maurizio Logozzo, Enrico Marello, Guido Salanitro, Tiziana Vitarelli.


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indici

INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI RITENUTE ALLA FONTE Dividendi - Dividendi corrisposti agli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) non residenti – Libera circolazione dei capitali – Restrizioni – Rimborso dell’imposta trattenuta sui dividendi – Presupposti – Criteri di differenziazione obiettivi – Criteri favorevoli, per loro natura o di fatto, ai contribuenti residenti – Osta (Corte Giustizia UE, sez. VII, 30 gennaio 2020, causa C-156/17, con nota di Antonio Marinello)................................................................ IV, 159

IMPOSTE INDIRETTE IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (IVA) Procedure concorsuali – Procedure concorsuali esdebitatorie – Debitori non fallibili – Composizione crisi da sovraindebitamento – Infalcidiabilità IVA – Irragionevole disparità di trattamento con il concordato preventivo – Sussistenza – Illegittimità costituzionale – Sussistenza (Corte Cost., 22 ottobre 2019 - 29 novembre 2019, n. 245, con nota di Lorenzo del Federico)..................................... II, 303

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia UE, sez. VII 30 gennaio 2020, causa C-156/17.............................................................................. IV, 159 *** Corte Costituzionale 22 ottobre 2019 - 29 novembre 2019, n. 245............................................................ II, 303


indici

III

Elenco dei revisori esterni Nicolò Abriani - Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Mario Bertolissi - Andrea Carinci - Alfonso Celotto – Marco Cian - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Giuseppe Corasaniti - Roberto Cordeiro Guerra - Adriano Di Pietro - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico Eugenio Della Valle - Vittorio Domenichelli - Mario Esposito - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Franco Gallo - Gian Luigi Gatta - Emilio Giardina - Andrea Giovanardi - Alessandro Giovannini - Giuseppe Ingrao - Manlio Ingrosso - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Alberto Marcheselli - Enrico Marello Giuseppe Marini - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Sebastiano Maurizio Messina - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Andrea Parlato - Paolo Patrono - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Maria C. Pierro - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone – Barbara Randazzo - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Giovanni Strampelli - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Giuseppe Tinelli - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Mauro Trivellin - Antonio Uricchio - Arianna Vedaschi - Paolo Veneziani - Marco Versiglioni - Antonio Viotto - Tiziana Vitarelli - Giuseppe Zizzo.



Dottrina

La motivazione tra polifunzionalità e audit interno Sommario: 1. Premessa. – 2. La motivazione come strumento di tutela del

contribuente: la rivitalizzazione di tesi anacronistiche e la compressione delle garanzie nella giurisprudenza tributaria. – 2.1. La natura vincolata dell’attività e la motivazione come “garanzia”: spunti dalla giurisprudenza amministrativa. – 3. La motivazione nella prospettiva “interna” all’Amministrazione. – 3.1. Il regime di responsabilità amministrativa-contabile e la rimodulazione dell’audit. – 4. Il ruolo della motivazione nell’audit: gli atti “consensualistici”. – 4.1. L’audit nelle “rinunce” e nei “silenzi” dell’Amministrazione finanziaria. – 5. Motivazione, audit, digitalizzazione. – 6. Conclusioni. Nella polifunzionalità della motivazione, l’audit interno svolge una funzione essenziale, giacché depositario delle esigenze di trasparenza, perequazione ed efficienza che trascendono la “singola” decisione. Non è, infatti, limitato a garantire i controlli “interni” alla stessa Amministrazione, ma si proietta verso una funzione di controllo e orientamento sociale. L’indagine si sofferma, in particolare, sugli atti sottratti al sindacato giurisdizionale ed esplora, altresì, la possibile incidenza del fenomeno di digitalizzazione dell’Amministrazione sui rapporti tra motivazione dell’atto e audit. The statement of reasons for a tax act has a multipurpose nature. Within this context, internal auditing plays a crucial role as it guarantees: transparency, efficiency, fairness and going beyond the “individual” administrative decision. On the one hand, internal auditing aims at ensuring internal checks by Tax Authorities themselves; on the other hand, it plays a social controlling and guiding function. In particular, the article focuses on acts which are not subject to judicial oversight and evaluates the impact of Tax Administration digitalization process on relationships between the statement of reasons of tax acts and the auditing purpose.


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Parte prima

1. Premessa. – La motivazione, nel dibattito più recente, è ritenuta un obbligo gravante sull’Amministrazione di natura polifunzionale, in quanto diretto a garantire plurimi obiettivi (1). Nella dottrina amministrativistica – da cui promana la tesi della polifunzionalità – tali obiettivi sono tradizionalmente individuati nel consentire l’interpretazione dell’atto, effettuare il controllo amministrativo e l’accertamento giudiziale, nonché tutelare il privato rispetto all’operato dell’Amministrazione (2). Tuttavia, la riflessione della dottrina tributaria sembra essersi maggiormente incentrata sui profili di tutela del contribuente là dove la motivazione rappresenta un elemento dell’atto impositivo, il cui difetto è idoneo a determinarne un vizio invalidante (3). La motivazione, in tale ottica, da elemento interno all’atto acquisisce una rilevanza “esterna”, proiettandosi quale elemento attraverso cui il destinatario è in grado di verificare la correttezza dei presupposti di fatto e di diritto a sostegno della pretesa. Al contempo, sul versante dei “controlli” sull’atto, l’interesse dottrinale sembra maggiormente sbilanciato su quelli di tipo giurisdizionale, mentre vengono marginalizzati quelli “interni”, in cui è, invece, cruciale la funzione della motivazione dell’Amministrazione “a sé stessa” (4). La motivazione

(1) Sulla polifunzionalità della motivazione, nel diritto amministrativo, G. Morbidelli, Il procedimento amministrativo, in Diritto amministrativo, II, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Bologna, 2005, 1238; nel diritto tributario, C. Califano, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012; F. Niccolini, La motivazione dell’atto di accertamento nel diritto tributario, Roma, 2017, 64. (2) M.S. Giannini, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 258. Per le tesi della polifunzionalità, cfr. G. Morbidelli, Il procedimento amministrativo, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F. G. Scoca, Diritto amministrativo, Bologna, 2005, 645; R. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Milano, 1999, 51-52, secondo cui la concezione polifunzionale della motivazione ha ricevuto un significativo impulso dalla stabilizzazione in Europa dei diritti di partecipazione. (3) La letteratura è, a tal proposito, vastissima. Limitando il richiamo ai lavori monografici recenti incentrati sulla prospettiva qui definita “esterna”, C. Califano, La motivazione degli atti impositivi, cit.; F. Niccolini, La motivazione dell’atto di accertamento nel diritto tributario, cit.. (4) Nella dottrina amministrativa, rileva la marginalizzazione della funzione giustiziale svolta all’interno dell’Amministrazione, V. Caputi Jambrenghi, Procedimento efficace e funzione amministrativa giustiziale, in Studi Vignocchi, I, Modena, 1996, 321; Id., La funzione giustiziale nell’ordinamento amministrativo, Milano, 1991.


Dottrina

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sembra, quindi, appiattirsi sul versante pratico – applicativo della tutela del contribuente, quasi fosse mero orpello del più ampio diritto di difesa. Le pagine a seguire cercheranno di interrogarsi se il ripiegamento sulla “mono-funzione” difensiva non trascuri, invece, il ruolo cruciale della motivazione sul versante dei controlli interni, in un contesto di sempre maggior valorizzazione dei canoni di efficienza, trasparenza, efficacia e buon andamento della pubblica amministrazione (5). Invero, la polifunzionalità della motivazione non è prerogativa degli atti dell’Amministrazione. Similmente anche la motivazione delle sentenze si presta ad essere colta nelle diverse sfaccettature: certamente anche le sentenze devono essere motivate per rendere esplicite le ragioni del potere e rendere le parti processuali edotte dell’iter logico – giuridico a sostegno del decisum. Al contempo, la motivazione consente l’impugnazione della pronuncia allorquando sia affetta da errori ovvero laddove manchi o sia insufficiente o, ancora, allorquando, pur formalmente presente, l’iter logico- giuridico sia meramente apparente (6). Da ultimo, l’assenza di motivazione della pronuncia o la presenza di una motivazione meramente apparente può costituire per il magistrato oggetto di illecito disciplinare, oltre che essere fonte di responsabilità per danni nell’esercizio di funzioni giudiziarie (7). Il parallelismo, mutatis mutandis, si rivela particolarmente fecondo in relazione alla funzione di specifico interesse nella presente indagine: quella della motivazione come strumento di audit che, come si vedrà, non si intende

(5) Sulla motivazione come corollario del principio di trasparenza che affonda le sue radici nella Rivoluzione francese e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, R. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo, cit., 48. (6) È ovvio che la misura in cui il vizio motivazionale delle pronunce può essere censurato in sede di impugnazione dipende dal tipo di impugnazione, essendo notoriamente limitato nel giudizio di legittimità. Nel testo il parallelismo è posto in termini generali, per sottolineare la polifunzionalità della motivazione delle decisioni giudiziarie alla stregua di quelle amministrative. (7) Si rammenta che, sulla base di quanto previsto dall’art. 2, lett. l) del D. Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, costituisce illecito disciplinare, “l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge”. Sulla responsabilità civile per l’esercizio di funzioni giudiziarie, da ultimo, Cassazione civile sez. un., 3 maggio 2019, n.11747. Nella dottrina tributaria, invece, sul tema della responsabilità dell’Amministrazione, P. Rossi, La responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2009; P. Marongiu, La responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, Bari, 2018.


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Parte prima

circoscritto a garantire i meri controlli interni alla stessa Amministrazione ma, attraverso i medesimi, a proiettarsi verso una verificabilità generale e sociale (infra par. 4). In questi termini, è come se la motivazione assumesse una funzione general-preventiva che, dal “singolo” caso e dal “singolo” contribuente, ambisce ad orientare la platea dei contribuenti potatori di interessi analoghi. Concorre o, meglio, dovrebbe concorrere ad innalzare l’affidamento dei consociati nella credibilità della funzione amministrativa, rendendola trasparente, accessibile, fruibile, al riparo dal sospetto di iniquità (8). Similmente alle decisioni giudiziali che, pur in sistemi di civil law non rigorosamente basati sul precedente, oltre alla decisione del caso, rappresentano (o dovrebbero rappresentare) parametro di orientamento per fattispecie analoghe. Con queste precisazioni preliminari, ci si soffermerà, in particolare sulle decisioni amministrative sottratte al sindacato giurisdizionale: qui il tema dei controlli interni non può che assumere un ruolo preponderante in quanto unico strumento di “ricomposizione” non solo di eventuali vizi dell’atto ma anche, per quanto d’interesse nelle presenti riflessioni, di iniquità. È l’audit, infatti, l’unica sede per garantire quell’omogeneità decisionale (infra parr. 3-4) alla base della fiducia nella funzione tributaria e della più generale capacità d’orientamento delle decisioni amministrative. 2. La motivazione come strumento di tutela del contribuente: la rivitalizzazione di tesi anacronistiche e la compressione delle garanzie nella giurisprudenza tributaria. – Posto che le diverse funzioni della motivazione sono comunicanti e complementari, può essere proficuo prendere le mosse dall’approccio tradizionale della motivazione quale strumento di garanzia e tutela per il contribuente, al fine di verificare come, nell’elaborazione giurisprudenziale, finisca per intrecciarsi con quello esplorato in modo meno approfondito dell’audit interno. Il percorso garantistico intrapreso dallo Statuto dei diritti del contribuente, - con la positivizzazione generalizzata dell’obbligo di motivazione dell’atto impositivo – non può ad oggi, e nonostante la sua apparente linearità, dirsi

(8) È bene chiarire che non si intende rivitalizzare la tesi della c.d. funzione democratica della motivazione, secondo cui la motivazione legittimerebbe la decisione dei pubblici poteri, R. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo, cit., 43, A. Romano - Tassone, Sulla c.d. “funzione democratica” della motivazione degli atti dei pubblici poteri in A. Ruggieri (a cura di), La motivazione delle decisioni della Corte Costituzionale, Atti del seminario di Messina, 7-8 maggio 1993, Torino, 1994, 37.


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concluso. Per fotografare lo stato dell’arte, si ripercorreranno brevemente i continui arresti e assestamenti sull’interpretazione della portata dell’art. 7, co. 1°. della L. n. 212/2000. In particolare, tale norma sembrava suggellare – attraverso il richiamo all’art. 3 della L. n. 241/1990 – il dialogo tra Statuto del contribuente e legge generale sul procedimento amministrativo, ed introdurre una disciplina “per principi” (9), dotata di valenza generale e stabilità. Il plauso dottrinale ha immediatamente enfatizzato il legame tra diritto all’informazione, alla chiarezza e alla conoscenza degli atti e l’inaugurazione di un “nuovo” rapporto Fisco/ contribuente in cui la motivazione avrebbe dovuto assurgere a fulcro dell’attuazione dei principi di cui all’art. 97 Cost., concretizzando il legame tra attività amministrativa e atto (10). Il tenore letterale dell’art. 7 supera, infatti, la resistenza ad estendere l’obbligo motivazionale anche ad atti che promanano da poteri vincolati (11), ricorrendo alla formula omnicomprensiva dell’“atto”, senza alcuna distinzione tra discrezionale e vincolato, ma neppure tra atto avente rilevanza esterna o meramente interna al procedimento (12). L’evoluzione in senso garantistico della motivazione nei procedimenti tributari si è scontrata con la marginalizzazione della discrezionalità nella funzione impositiva e con i continui ripiegamenti giurisprudenziali sulla con-

(9) G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 165. (10) C. Califano, La motivazione, cit., 150. Si vedano, in termini generali, i fondamentali contributi di P. Selicato L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 243 e L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’IVA), Padova, 1990, 18 ss.; Id., La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente ed oltre), in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 2000, 595. (11) R. Miceli, La motivazione degli atti tributari, in AA. VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi, e A. Fedele, Milano, 2005, 297. In termini più generali, sui rapporti tra la L. n. 241/1990 e lo Statuto del contribuente, L. del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, 243 che conclude per l’applicabilità della Legge generale sul procedimento amministrativo in materia tributaria, in quanto compatibile e salvo deroghe, risolvendo eventuali problemi interpretativi alla luce della funzione garantistica dello Statuto. (12) Il che ha indotto, ad esempio, a concludere non solo per l’irrilevanza della distinzione tra atti discrezionali (cui avrebbe potuto, invece, alludere, il termine “provvedimento”) e non, ma anche per l’eventuale estensione dell’obbligo motivazionale ad atti interni al procedimento, R. Miceli, La motivazione degli atti tributari, cit., 300. Il riferimento è a quell’indirizzo dottrinale che riconduce la nozione di “provvedimento” a quella di atto discrezionale, P. Virga, Diritto amministrativo, Atti e ricorsi, Milano, 2001, 5.


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cezione dell’atto impositivo come atto meramente liquidatorio ovvero come provocatio ad opponendum. Per quanto possa apparire quasi anacronistico continuare a confrontarsi con teorie ritenute “superate” a livello dottrinale, invero, nel diritto vivente sono più che mai di stringente attualità. E, per questo, nonostante un tenore letterale inequivoco, le oscillazioni giurisprudenziali non hanno del tutto rimosso i dubbi interpretativi, svilendo, in parte, quello che sembrava e sembra un obbligo generalizzato ed incondizionato, peraltro riconosciuto dalle stesse Sezioni Unite (13), puntualmente e ripetutamente “sconfessate” dalla Sezione tributaria (14). Anche nella giurisprudenza più recente, infatti, viene sovente rivitalizzata la tesi dell’accertamento quale provocatio ad opponendum (15), con la conseguenza per cui l’onere motivazionale è soddisfatto ogni qualvolta il contribuente sia in grado di conoscere la pretesa impositiva nei suoi tratti essenziali, potendo, di conseguenza, contestarne an e quantum debeatur (16). Tale ricostruzione è apprezzabile in prospettiva evolutiva, rappresentando una tappa fondamentale nella storia del diritto tributario, ma i tempi sembrano maturi per un suo irreversibile “ripudio”, giacché, inevitabilmente finisce

(13) Cass., SS.UU., 5 ottobre 2004, n. 19854, in Riv. Giur. Trib., 2005, 1, 11, con nota di M. Basilavecchia, La piena conoscenza dell’atto impositivo, 14. (14) Cass., Sez. Trib., 24 gennaio 2006, n. 17203, in Riv. Dir. Trib., 2006, 11, II, 808, con nota critica di F. Niccolini, Considerazioni in merito alla motivazione in funzione della natura giuridica dell’atto. In senso conforme, Cass., Sez. Trib, 3 luglio 2008, n. 18297, in Banca dati Ipsoa; Cass. Sez. Trib., 15 settembre 2009, n. 18827, ivi; Cass. Sez. Trib., 4 febbraio 2011, n. 2728, ivi; Cass. Sez. Trib., 13 aprile 2012, n. 5822; Cass. civ. Sez. Trib., 03 luglio 2013, n. 16684; Cass. Sez. Trib., 30 aprile 2014, n. 9441; Cass. Sez. Trib., 15 marzo 2017, n. 6678; Cass. Sez. Trib Ord., 06 aprile 2017, n. 9008. (15) È noto che il dibattito “classico” sul tema vedeva contrapposte diverse tesi sulla classificazione concettuale dell’atto di accertamento E. Allorio, Diritto processuale tributario, Milano, 1942, 94, lo considerava come provvedimento di imposizione; A. Berliri, Principi di diritto tributario, Milano, 1964, 33, riteneva che l’atto di accertamento avesse solo la funzione strumentale di dichiarazione di intenzione distinta, seppur correlata, dall’atto di imposizione, riconducibile, quindi, alla teorica della provocatio ad opponendum; per E. Capaccioli, L’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin. e Sc. Fin., 1966, 15, l’atto di accertamento, pur essendo un atto amministrativo, sfuggirebbe alla qualifica di provvedimento a causa della carenza di poteri discrezionali in capo all’agire dell’Amministrazione finanziaria. In particolare, è noto che la tesi è stata sostenuta dalla dottrina “dichiarativista” secondo cui l’atto non era altro che il veicolo per proporre innanzi al giudice una controversia sul rapporto obbligatorio, C. Bafile, Considerazioni diverse sulla natura del processo tributario, in Rass. Trib., 1986, I, 402. (16) Cass. civ. Sez. VI - 5 Ord., 6 aprile 2017, n. 900.


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per accompagnarsi ad una compressione delle garanzie (17), degradando la motivazione ad esternazione della pretesa “nei suoi elementi essenziali” e, dunque, prestandosi ad avallare motivazioni insufficienti o, comunque, inidonee a consentire un completo controllo sulle ragioni della pretesa, anche con riferimento ai profili istruttori. Vero è che il temporaneo approdo delle Sezioni Unite si manifesta con andamento carsico in quelle pronunce che ripropongono il principio della motivazione come elemento essenziale dell’atto, funzionale anche a delimitare il thema decidendum e consentire il controllo giurisdizionale (18). Ma il leitmotiv dell’avviso di accertamento quale mera provocatio ad opponendum continua ad essere evocato con una certa insistenza, al punto da “liquidare” in poche righe, per manifesta infondatezza, i motivi di ricorso per cassazione basati sul vizio motivazionale: si ribadisce costantemente che è sufficiente che il contribuente sia in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, e, quindi, di contestarne efficacemente l’an ed il quantum debeatur (19). La portata garantistica è, poi, ulteriormente affievolita con riferimento agli atti di diniego di rimborso, esclusi dall’obbligo di “esaustiva” motivazione in quanto “in tale rapporto l’Ufficio assume il ruolo passivo di colui che “re-

(17) C. Califano, La motivazione, cit., 135, cui si rinvia per i numerosi riferimenti dottrinali e l’approfondita ricostruzione in prospettiva storico – evolutiva; G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo, Padova, 2005, 319. (18) Si veda, ad esempio, Cass. civ. Sez. V, Sent., 09 ottobre 2015, n. 20251, in cui si legge che “la motivazione attiene alla sostanza e non alla forma dell’atto tributario e, pertanto, non è riconducibile ad una mera provocatio ad opponendum, ma integra un elemento essenziale dell’atto suddetto, sulla cui base va definito il thema decidendum e probandum dell’eventuale successivo giudizio di impugnazione. In particolare, deve consentire il controllo interno e giurisdizionale dell’atto, al fine di valutare la correttezza dell’operato dell’amministrazione”. In termini analoghi, Cass. civ. Sez. V, Sent., 17 ottobre 2014, n. 22003 “Il legislatore ha così chiaramente manifestato l’intento di costruire la motivazione, non come enunciazione mera di una pretesa soggetta a verifica processuale id est, quale causa petendi del futuro giudizio inteso a valutarla, come in sostanza ritenuto dall’amministrazione nel suo ricorso), ma come ratio di una decisione assunta all’esito di una istruttoria (potremmo dire) primaria, svolta nella fase procedimentale e finalizzata, per il principio di buona amministrazione, ad assicurare la realizzazione di un’azione (amministrativa) efficiente e congrua. Di un’istruttoria, cioè, che appunto in vista di tale obiettivo deve precedere l’emissione dell’atto, e di cui, quindi, l’atto finale deve dar conto, seppure in relazione agli esiti finali del procedimento, compendiabili nei presupposti di fatto riscontrati e nella enunciazione delle ragioni giuridiche da cui l’azione possa dirsi sostenuta”. (19) Cass. civ. Sez. VI - 5, Ord., 27 giugno 2019, n. 17400.


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siste” alla pretesa creditoria del contribuente, e non è – pertanto – gravato dall’onere di motivare compiutamente le proprie ragioni” (20). La giurisprudenza tributaria “rinvia”, dunque, all’eventuale sede giurisdizionale l’integrazione motivazionale del diniego di rimborso, ammettendo la c.d. motivazione postuma (21). 2.1. La natura vincolata dell’attività e la motivazione come “garanzia”: spunti dalla giurisprudenza amministrativa. – La compressione delle garanzie del contribuente potrebbe giustificarsi in ragione della natura vincolata dell’attività. A fronte dell’obbligo generalizzato sancito dallo Statuto e del richiamo alla Legge generale sul procedimento amministrativo, la resistenza della specialità tributaria potrebbe argomentarsi – per differenza rispetto al diritto amministrativo – in ragione del fatto che gli atti tributari promanano, per lo più, da poteri vincolati (22). Non a caso, detta specialità è solitamente rinvenuta nella marginalizzazione della discrezionalità (23), quantomeno nell’ambito della funzione di controllo e verifica dei contribuenti (24)in cui

(20) Così Cass. civ. Sez. V, Ord., 6 giugno 2018, n. 14620. (21) Sulle possibilità di sanatoria giudiziale della motivazione, da ultimo, nella dottrina tributaria, F. Farri, Forma ed efficacia nella teoria degli atti dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2015, 733. (22) Anche secondo autorevole dottrina amministrativistica quando il provvedimento è di natura vincolata, non essendovi scelte compiute dall’amministrazione, non vi sono motivi da esternare, B.G. Mattarella, Il provvedimento amministrativo, in Trattato di Diritto amministrativo, diretto da S. Cassese, Milano, 2003, I, 868 ss.; in particolare, l’assetto degli interessi è determinato dalle norme e non dal provvedimento, così i motivi non attengono alla volontà dell’amministrazione emanante, ma si riferiscono solo all’indicazione delle norme applicate ed ai presupposti ricollegati alla necessaria adozione del provvedimento. Per la medesima tesi, R. Villata, L’atto amministrativo, in Diritto Amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi Monaco, Scoca, II, Bologna, 2005, 1435 ss; contra, A. Romano Tassone, Motivazione nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1997, App., XIII, 687. (23) Nella dottrina tributaria il tema è stato costantemente affrontato; ci si limiterà, quindi, a richiamare contributi ricostruttivi e contrapposizioni fondamentali, L. Perrone, Discrezionalità e norma interna nell’imposizione tributaria, Milano, 1969, 22 s., il quale riprende la teoria classica elaborata da M.S. Giannini; contra R. Lupi, Società, diritto e tributi, cit., 113, intende un concetto molto più ampio di discrezionalità come bilanciamento funzionale tra interessi, criteri interpretativi, parametri tecnici e valori giuridici; per una sintesi del più recente dibattito v. ancora L. Perrone, Discrezionalità amministrativa (dir. trib.), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. III, Milano, 2005. (24) L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento, cit., 20. Il risultato è quello di una frammentazione delle diverse fasi di esercizio della funzione impositiva e di una “polisistematicità” del sistema tributario, frutto di plurimi microsistemi settoriali, L. Del


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non si rinviene, rispetto al procedimento amministrativo inteso in senso tecnico, il contemperamento di interessi pubblici e privati (25). A riguardo, una breve analisi della giurisprudenza amministrativa può offrire utili spunti di riflessione (26). In linea generale, infatti, la motivazione è per il Consiglio di Stato, “il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile” (27). Tuttavia, al cospetto di attività vincolata, il principio sembra soffrire talune eccezioni. Lo stesso Consiglio di Stato, pur confermando la propria costante giurisprudenza sul carattere essenziale della motivazione anche a presidio del diritto di difesa, ha affermato come il divieto di motivazione postuma non abbia carattere assoluto (28). Si legge, ad esempio che “non può ritenersi che l’Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata” (29). E ciò, peraltro, viene argomentato anche in ragione del “buon andamento” e “dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario”, accennando – senza svilupparla – anche alla funzione “interna” della motivazione, su cui si soffermeranno maggiormente le presenti riflessioni. Vi è, insomma, un consolidato orientamento giurisprudenziale

Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 8. (25) la rosa, Il giusto procedimento tributario, in Giur. Imp., 2004, 5, 763. (26) La letteratura amministrativistica è, sul punto, sterminata. Tra i contributi più recenti, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, 72; F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 432. (27) Così Consiglio di Stato sez. III, 7 aprile 2014, n. 1626 in Foro Amministrativo 2014, 4, 1048 sull’annullamento del Regolamento per l’applicazione della tassa sui rifiuti solidi ed assimilati là dove erano previste tariffe differenziate per “case di cure private e cliniche mediche” e per “ospedali e istituti di ricovero”. (28) Nella dottrina amministrativa, sul tema dell’integrazione della motivazione intesa in senso sostanziale, anche per gli ampi richiami alle diverse posizioni dottrinali e giurisprudenziali sul tema G. Taccogna, Giusto processo amministrativo e integrazione della motivazione dell’atto impugnato, in Dir. proc. amm., 2005, 3, 696. L’Autore segnala l’allora “nuovo” orientamento minoritario favorevole alla c.d. motivazione postuma e, con taluni limiti, supporta la possibilità di integrazione della motivazione, anche nel segno di una maggior responsabilizzazione dell’Amministrazione, individuando, a contrappeso, un giudicato rafforzato. (29) Consiglio di Stato sez. V, 27 agosto 2012, n.4610, in Foro amministrativo 2012, 7-8, 1992; in termini analoghi Consiglio di Stato sez. IV, 04 marzo 2014, n.1018, in Diritto & Giustizia 2014, 28 aprile.


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secondo cui – nonostante il fondamento costituzionale della motivazione – il divieto di integrazione postuma può soffrire deroghe in diversi casi tra cui quello dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo, con conseguente dequotazione del relativo vizio. Al contempo, altre pronunce salvaguardano la funzione garantistica anche in presenza di attività vincolata, intendendo in senso assoluto l’obbligo di cui all’art. 3, L. n. 241 del 1990 (30), e precludendo la motivazione postuma anche a fronte di attività vincolata (31). È, in altre parole – prima ancora che strumento di garanzia – essenziale all’ amministrazione che deve fornire a sé stessa (32) i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche dell’atto emanato. Si profila, dunque, l’inscindibile legame tra la motivazione come elemento di tutela del contribuente e come strumento di trasparenza, informazione e legalità sostanziale nell’interesse della stessa efficienza dell’amministrazione, su cui si soffermeranno le riflessioni a seguire. Peraltro, nella stessa giurisprudenza amministrativa si va delineando un affievolimento della rigida contrapposizione tra attività discrezionale e vincolata, laddove, seppur incidenter tantum, si inserisce l’affermazione dirompente (quanto meno dalla prospettiva del tributarista (33)) per cui a monte si potrebbe dubitare della perdurante sostenibilità della distinzione tra attività amministrativa discrezionale e vincolata in quanto “ogni attività autoritativa comporta una fase quantomeno di accertamento e di verifica della scelta ai fini attribuiti dalla legge” (34).

(30) In questi termini, seppur non in tema di motivazione postuma, sembrerebbe, Consiglio di Stato sez. VI, 7 novembre 2019, n.7603, secondo cui anche per gli atti di natura vincolata non verrebbe meno l’obbligo di esauriente motivazione. (31) Ex multis, T.A.R. Campania, sez. IV, 7 marzo 2019, n. 1334 (32) Sulla motivazione nell’interesse della stessa Amministrazione E. Allorio, Diritto processuale tributario, cit., 393. (33) Si rammenta che parte della dottrina tributaria ritiene che anche l’esercizio dei poteri di accertamento e controllo non sia del tutto immune da spazi discrezionali, S. La Rosa, Accertamento tributario, in Dig. It. Disc. Priv. Sez. comm., 1987; Id., Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 29. Più recentemente, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, 69; R. Lupi, Società, diritto e tributi, Milano, 2005, 87 e Id., Diritto Amministrativo dei tributi. Ovvero: le imposte si pagano quando qualcuno le impone, Roma, 2017; A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2011, 25 ss. e Id., Discrezionalità e vincolatezza nell’azione dell’amministrazione finanziaria, in AA. VV., Accordi e azione amministrativa nel diritto tributario. Atti del convegno Catania, 25 e 26 ottobre 2019, a cura di A. Guidara, Pisa, 2020, 3. (34) Cons. di Stato, sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8472. È noto che la dottrina amministrativistica nelle caratteristiche di imperatività, autoritatività o autoritarietà, include


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3. La motivazione nella prospettiva “interna” all’Amministrazione. – Nella prospettiva “interna” all’Amministrazione, la motivazione è veicolo per il controllo gerarchico e, quindi nell’ambito della gestione interna al procedimento sulla correttezza e legittimità dell’azione amministrativa intrapresa. Essa consente, oltre al vaglio dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche, anche il riesame e la verifica ai fini del buon andamento e dell’efficacia dell’azione amministrative, eventualmente ai fini di una responsabilità disciplinare o, in taluni casi – limite, di natura contabile (35). Il ruolo della motivazione quale strumento di audit interno non deve, quindi, essere colto rigidamente, con un’enfatizzazione delle conseguenze “para-sanzionatorie”, giacché l’esito sarebbe controproducente, determinando uno stallo della funzione tributaria, attraverso l’eccessiva preoccupazione sulle responsabilità dei funzionari. Le azioni di responsabilità, in quest’ottica, devono essere mantenute sullo sfondo, quali casi estremi di un agire scarsamente efficiente, efficace e trasparente. L’audit deve, invece, essere proiettato verso il suo fine ultimo che non è “colpevolizzare”, “minacciare” e “sanzionare” il funzionario procedente ma incanalare la funzione tributaria nei binari di efficienza, efficacia, trasparenza e buon andamento. La “responsabilizzazione” del funzionario, per quanto pregnante, non può essere scissa e isolata da quella dell’Amministrazione nel suo complesso, in uno scenario in cui sia la novellata legge sul procedimento amministrativo (L. 7 agosto 1990, n. 241), sia l’art. 97 Cost. sospingono verso un’Amministrazione di risultato (36).

tanto gli atti discrezionali quanto quelli vincolati, cfr. da ultimo, G. Greco, Potestà ed interesse legittimo, in Argomenti di diritto amministrativo, II, Letture, Milano, 2019, 88; Perongini, Teoria e dogmatica del provvedimento amministrativo, Torino, 2016, 98; R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., 118. Nell’obiter dictum del Consiglio di Stato il “salto” sembra tuttavia ulteriore: persino la distinzione tra attività amministrativa discrezionale e vincolata si rivela superata e anacronistica, in quanto ogni attività presuppone un insopprimibile nucleo valutativo. (35) C. Califano, La motivazione, cit., 300. (36) Sull’Amministrazione di risultato e l’esaltazione della funzione gestoria, in materia tributaria, L. Del Federico, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. pub., 2013, 4, p. 851. Nella dottrina amministrativa, il tema è stato approfondito, in tutte le sue sfaccettature, nell’opera che ha raccolto gli atti del Convegno di Palermo 27-28 febbraio 2003, AA. VV. Principio di legalità e amministrazione di risultati, (a cura di M. Immordino - A. Police), Torino, 2004; L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l’arte di amministrare), in Dir. Proc. Amm., 2005, 1.


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Sulla scorta di quest’ultima chiave di lettura, ci si concentrerà sulla funzione “interna” della motivazione, quale strumento di audit a tutto tondo dell’atto tributario, seppur in una dimensione polifunzionale in cui i diversi piani spesso si sovrappongono, confondendo profili “interni” ed “esterni”. Prima ancora che riverberare i propri effetti nella sfera giuridica del contribuente, infatti, tale elemento dovrebbe delineare il “buon atto” impositivo (37), espressivo di un agire amministrativo efficiente ed efficace e, dunque, immune da censure rilevanti in sede di controllo amministrativo e, in via residuale, sul piano delle responsabilità dei funzionari. Tale spunto ha impegnato, per lo più, la dottrina che ha approfondito il tema nell’ambito degli atti a più marcato tratto consensualistico (38), giungendo a configurare la motivazione quale elemento posto nell’interesse della stessa Amministrazione procedente al fine di valutare il comportamento del funzionario ed i parametri della sua eventuale responsabilità sul versante amministrativo – contabile (39). Nella prospettiva della motivazione quale strumento di audit interno, non può che cambiare il rapporto in considerazione: non è più quello fisco – contribuente, bensì quello dipendente – amministrazione. Non rileva, infatti, l’interesse particolare del contribuente ad essere edotto sui presupposti di fatto e di diritto a fondamento della pretesa erariale, ma l’interesse pubblico al corretto esercizio dell’azione impositiva, anche ai fini della c.d. responsabilità per danno erariale. Il controllo in questione non è, pertanto, quello svolto dall’organo giurisdizionale sulla legittimità/fondatezza della pretesa esercitata dall’ente impositore, a tutela del contribuente, bensì quello svolto dall’amministrazione sull’amministrazione, in funzione dei canoni dell’imparzialità, dell’efficacia e dell’efficienza e, dunque, nell’interesse dell’Amministrazione stessa. Il dibattitto si è sviluppato, per lo più, come anticipato, con riferimento agli atti a connotazione consensualistica. Il variegato ambito degli “accordi”

(37) Nella dottrina amministrativistica, il legame tra motivazione e buon andamento è da tempo enfatizzato, R. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo, cit., 205. (38) P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in AA.VV., Profili autoritativi e consensuali del Diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2008, p. 93. (39) C. Scarano, La responsabilità contabile e civilistica dei funzionari dell’Amministrazione finanziaria, in AA.VV., Adesione, conciliazione ed autotutela, Padova, 2007, p. 79.


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è, pertanto, particolarmente congeniale al ruolo della motivazione nella prospettiva interna alla stessa amministrazione. A tal proposito è noto che la stessa Corte dei conti si è concentrata su giudizi di responsabilità contabile dei funzionari in relazione alla fattispecie dell’accertamento con adesione. Si rammenta, in particolare, uno dei casi più eclatanti sui cui si è pronunciata la Corte dei Conti. Sez. Giurisdizionale Sicilia, anteriormente alla riforma del regime di responsabilità contabile dei funzionari del 2010, su cui ci si soffermerà appresso. Il Giudice contabile ha posto in rilievo come la valutazione richiesta al funzionario incaricato della trattazione delle istanze di accertamento con adesione non è propriamente discrezionale, ma di carattere tecnico, in quanto “tesa ad individuare e definire, con l’assenso del contribuente, quelle fattispecie che, in relazione allo stato della giurisprudenza, o di oggettive difficoltà esegetiche o, ancora, di insufficienza di dati sostenibili in sede di un eventuale contenzioso, si prestano ad opinabili valutazioni in ordine alla sussistenza o meno di un’effettiva vocazione reddituale e di una corrispondente capacità contributiva, con un esito giudiziale assai incerto e, per certi versi, in previsione di una possibile soccombenza e della relativa condanna alle spese, non percorribile con ragionevoli e apprezzabili chances di successo”. I giudici contabili, inoltre, hanno avuto modo di evidenziare come la motivazione dell’accertamento con adesione rappresenti un elemento cruciale per verificare la corrispondenza ai presupposti di legge in quanto “costituisce un momento di sintesi delle posizioni espresse nel contraddittorio che si instaura fra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, e di esternalizzazione del percorso logico-giuridico seguito nella riformulazione dell’originaria pretesa tributaria” (40). È stata, così affermata la responsabilità per danno erariale laddove il funzionario sottragga materia imponibile alla “giusta imposizione”, trascurando, ad esempio le risultanze istruttorie trasfuse nel processo verbale di costatazione per aderire supinamente alla proposta del contribuente. L’abbattimento abnorme, in presenza di un atto del tutto privo di analitica motivazione risponde, in sostanza, ad un comportamento macroscopicamente sganciato da

(40) Corte dei Conti, Sez. giur. reg. Sicilia, 16 marzo 2005, n. 512. In termini analoghi, sull’assenza di discrezionalità, Corte dei Conti, Sez. giur. reg. Friuli Venezia Giulia, 30 maggio 2006, n. 312 e Corte dei Conti, Sez. giur. reg. Lazio, 19 gennaio 2007, n. 5.


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una logica di buona amministrazione, efficienza ed efficacia dell’azione della pubblica amministrazione. La centralità della motivazione per la stessa Amministrazione – prima ancora che per esigenze di garanzia del contribuente – è stata, dunque, costantemente ribadita dalla giurisprudenza contabile (41) sviluppatasi con riferimento all’accertamento con adesione o decisioni di archiviazione/autotutela (42). 3.1. Il regime di responsabilità amministrativa-contabile e la rimodulazione dell’audit. – Per meglio cogliere la funzione della motivazione nella prospettiva interna, può essere proficuo ricostruire brevemente il regime di responsabilità contabile, incisivamente rimaneggiato dal Legislatore nel 2010. In generale, la responsabilità contabile è una species del più ampio genus della responsabilità amministrativa genericamente intesa e trova fondamento normativo nell’art. 82 della legge di contabilità di Stato (cioè, del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440) (43), nell’art. 18 del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato (cioè, del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3) (44) e nell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994 n. 20 (45), che limita i casi di responsabilità patrimoniale del pubblico impiegato ai soli casi di dolo o di colpa grave.

(41) Corte dei Conti, Sez. giur. app. Sicilia, 18 gennaio 2006, n. 2 secondo cui, posto che la disciplina dell’accertamento con adesione postula l’onere motivazionale “La mancanza di tali elementi nell’atto di accertamento e soprattutto la mancanza della motivazione, in una ipotesi, come quella in esame, di accoglimento totale della proposta di definizione del contribuente, non si pone quale irregolarità formale dell’atto ma è causa di sostanziale inesistenza dello stesso, configurando, in definitiva, una rinuncia da parte dell’ufficio finanziario ai suoi poteri di accertamento”. (42) Corte dei Conti, Sez. giur. reg. Lazio, 19 gennaio 2007, n. 5 ha concluso per la responsabilità dei funzionari a fronte dell’abbandono di un rilievo contenuto nel verbale in quanto gli uffici “non hanno la piena disponibilità della pretesa tributaria, ma devono operare tenendo conto degli eventi fattuali e contabili concreti che emergono dalle singole situazioni e conformi alle norme e disposizioni di servizio”. (43) “L’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo. Quando l’azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del suo ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire”. (44) “L’impiegato delle amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo, è tenuto a risarcire alle amministrazioni stesse i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio. Se l’impiegato ha agito per un ordine che era obbligato ad eseguire va esente da responsabilità, salva la responsabilità del superiore che ha impartito l’ordine. L’impiegato, invece, è responsabile se ha agito per delega del superiore”. (45) “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in


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Proprio il rischio di un procedimento per il risarcimento del danno erariale corrispondente alla pretesa abdicata o non accertata ha rappresentato uno dei principali fattori di inefficienza degli strumenti deflattivi del contenzioso fiscale, sia in fase amministrativa, sia nella successiva evoluzione processuale. Costituiva, dunque, al contempo, deterrente rispetto a tutti quei comportamenti omissivi che possono riverberarsi in nocumento patrimoniale per la stessa amministrazione, ma anche “spada di Damocle” sul funzionario, fisiologicamente poco incline all’abbandono del rilievo formulato in sede di verifica o accertamento. Su tale scenario “bifronte” di responsabilizzazione del funzionario si è “abbattuto” il nuovo regime di responsabilità contabile di cui all’ art. 29, co. 7 del Decreto Legge del 31 maggio 2010 n. 78. Si esclude la responsabilità per danno erariale nei casi di colpa grave relativamente della maggior parte degli atti di stampo consensualistico (46). Nella relazione allegata al D.L. n.78 del 2010 si legge che la modifica “ha la finalità di aumentare la deflazione del contenzioso, ottenibile mediante gli istituti della transazione fiscale, dell’adesione all’accertamento e della conciliazione giudiziale”, tenuto conto della “particolare complessità delle valutazioni cui sono chiamati i responsabili degli atti e provvedimenti in parola”. Invero, la Corte dei conti ha espresso non poche perplessità sul nuovo regime, in quanto l’introduzione della limitazione di responsabilità “sembrerebbe prefigurare una disponibilità del rapporto d’imposta da parte dell’ammi-

materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi”. (46) In particolare il secondo periodo del comma 7, art. 29, d.l. 78/2010 dispone che “Con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate ai fini della definizione del contesto mediante gli istituti previsti dall’articolo 182-ter del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, dall’arti-colo 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni, dall’articolo 8 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e successive modificazioni, dagli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e successive modificazioni, nonché al fine della definizione delle procedure amichevoli relative a contribuenti individuati previste dalle vigenti convenzioni contro le doppie imposizioni sui redditi e dalla convenzione 90/436/CEE, resa esecutiva con legge 22 marzo 1993, n. 99, la responsabilità di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e successive modificazioni, è limitata alle ipotesi di dolo”.


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nistrazione che difficilmente appare compatibile con i principi costituzionali in materia di obbligazione tributaria” (47). In particolare, il Giudice contabile paventa il rischio che la limitazione di responsabilità dei funzionari, nella gestione dell’attività di accertamento con adesione, possa realizzare, in violazione del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, forme di “transazione”, se non addirittura di “rinuncia” ad una parte dell’imponibile, sfociando in una deriva di generalizzata superficialità nell’analisi degli elementi proposti dalla controparte ai fini dell’individuazione della “giusta imposta”. Invero, si ritiene che il cambio di rotta debba valutarsi in termini positivi laddove “fermo restando l’obbligo di estrinsecare adeguatamente il procedimento, il convincimento e l’esito raggiunto, tuttavia, solo una maggiore flessibilità dei margini di manovra del funzionario preposto può consentire di ottimizzare la gestione dell’accertamento e della riscossione dei tributi, troppo spesso condizionata dall’inerzia dei suoi protagonisti al cospetto di istanze che pure intravedono ragionevoli, ma ancora prive di quel conforto nel diritto vivente o nell’elaborazione dogmatica che è loro indispensabile per operare in condizioni di relativa sicurezza” (48). Il nuovo regime di responsabilità contabile ha, quindi, rimosso quella “spada di Damocle” che incombeva sugli uffici e che così pesantemente condizionava le possibilità di successo dell’adesione, così come degli altri istituti deflattivi. La riforma è, dunque, da collocare nel processo di “deformalizzazione” della funzione tributaria, conferendo maggior flessibilità al suo esercizio attraverso la rimozione di un “ostacolo” (la “minaccia” della responsabilità contabile) talvolta paralizzante. Si tratta, dunque, di un tassello verso un auspicabile superamento dello stallo che tal volta attanaglia i funzionari timorosi che l’eliminazione o riduzione di un rilievo possa essere interpretata come favoritismo e, quindi, comportamento ad alto sospetto corruttivo. 4. Il ruolo della motivazione nell’audit: gli atti “consensualistici”. – Come già autorevolmente sostenuto, nell’accertamento con adesione, e in

(47) Corte dei Conti, Sezioni riunite in sede di controllo, audizione sul D.L. n. 78/2010 del 10 giugno 2010. (48) C. Scalinci, La responsabilità per danno erariale: un presidio di interesse generale e un vincolo di sistema che condiziona l’applicazione degli istituti dell’accertamento tributario in senso lato, cit., 2695.


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genere, in tutti gli atti ove più accentuato è il profilo consensualistico, un’adeguata motivazione deve intendersi prevista nell’interesse dell’Amministrazione finanziaria, essendo funzionale a valutare il comportamento del funzionario ed i parametri di una sua eventuale responsabilità (49). Al contempo, sin dalle premesse, si è detto che un eccessivo sbilanciamento verso possibili “reazioni” nei confronti del funzionario procedente non consente di inquadrare correttamente la complessa funzione dell’audit interno che, in questa parte del lavoro, si cercherà di dimostrare. In primo luogo, con riferimento al tema d’indagine, si può anticipare sin d’ora che, alla luce del “nuovo” regime di responsabilità contabile, la motivazione assume un ruolo ancora più rilevante e incisivo, giacché vero strumento per un effettivo controllo sociale sulla funzione tributaria e per il suo esercizio “efficiente”. Una volta eliminata la possibilità che il funzionario possa essere chiamato a rispondere per “colpa grave”, la riforma 2010 sembrerebbe aver relegato la funzione di audit al mero controllo gerarchico in caso di colpa, residuando la responsabilità contabile al marginale caso di dolo. Invero, l’audit non si esaurisce in questo, estendendosi ad una forma di “controllo sociale”. Nell’ambito delle attività di “auditing” interno dell’Amministrazione finanziaria la motivazione è precipuamente volta ad accertare il rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e correttezza (50) da parte degli uffici nelle modalità di svolgimento di procedimenti amministrativo-tributari. Più in particolare, l’Amministrazione è tenuta a fornire a sé stessa le ragioni e le modalità con cui ha esercitato le proprie funzioni nel caso concreto. Il generico dovere di trasparenza è infatti funzionalizzato ad un duplice obiettivo e, conseguentemente, declinato secondo una “doppia” chiave di lettura: perequazione e anticorruzione. Ciò in ragione del fatto che l’attività amministrativa, pur esercitata a fronte di una casistica variegata e di questioni originali e/o peculiari, sovente è

(49) P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, cit., 610. (50) Il legame tra motivazione e trasparenza è risalente anche nella dottrina amministrativistica, R. Iannotta, La motivazione come modo di attuazione del principio di imparzialità amministrativa, in “Aspetti e tendenze del diritto costituzionale”, Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, 210; A. Meloncelli, La circolazione della conoscenza nel diritto pubblico, in Foro Amm., 1984, 2016; R. Villata, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. Proc. Amm., 1987, 528.


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chiamata ad affrontare fattispecie ricorrenti, se non propriamente seriali o, comunque, standardizzate. La motivazione e la sua tracciabilità rappresentano, quindi, un vero e proprio antidoto rispetto al sospetto di fenomeni corruttivi. È stato, infatti efficacemente osservato che “è fondamentale la pubblicità delle definizioni amministrative dei tributi … (omissis)...Non per far valere formalistiche parità di trattamento, vista la diversità di situazioni da valutare, ma per avere almeno parametri orientativi sull’omogeneità dell’azione amministrativa. È un controllo sociale, basato sui portatori di interessi analoghi, generalizzato e trasparente: molto più di quello, eccezionale, che avviene attraverso le denunce anonime dei cosiddetti “whistleblowers”, ispirabili anche da strumentali ritorsioni (51). In questi termini, la motivazione fuoriesce dalla sfera delle “parti” – contribuente e Amministrazione – per assumere una funzione di verificabilità generale e sociale (52): anche il caso “singolo”, davvero “singolo” non è perché si presta al controllo di tutti i portatori di interessi analoghi, ossia i contribuenti che si trovano in medesime o similari situazioni (per tipologia di attività, dimensioni, ricavi …) e hanno subito analoghe contestazioni da parte degli uffici finanziari. Il “caso singolo” è, quindi, parametro di perequazione, garanzia non solo del contribuente direttamente inciso ma di tutti i contribuenti che, per similarità di “situazione”, intendono esercitare un controllo sull’operato dell’Amministrazione. Tanto che, si può dire, attraverso detta più estesa platea di contribuenti coinvolti (ancorché indirettamente) il controllo diventa “sociale” (53) giacché astrattamente esercitabile da chiunque abbia interesse. Tuttavia, non essendoci un vero e proprio regime di pubblicità delle definizioni consensuali ed in mancanza di un sindacato giurisdizionale sulle medesime, ad oggi, il controllo rimane meramente interno all’Amministrazione, unica a poter vagliare se, nella serialità della funzione, via sia un’omogeneità decisionale. L’audit rappresenta, allo stato, l’unico strumento di contrasto a disparità manifeste e l’apparato motivazionale – rimossa o, comunque, affievolita la “minaccia” della responsabilità contabile sul funzionario – acquisisce un ruolo ancor più determinante di prima, esteriorizzando i presupposti di fat-

(51) R. Lupi, Evasione fiscale: Perversione privata o disfunzione pubblica?, Roma, 2018, par. 3.4. (52) Sul legame tra trasparenza e funzione pubblicitaria, nella dottrina amministrativistica, A. Meloncelli, L’informazione amministrativa, Rimini, 1993, 96; R. Villata, La trasparenza dell’azione amministrativa, cit., 96. (53) Sull’importanza del controllo sociale, R. Lupi, Studi sociali e diritto, Roma3 press.


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to e le ragioni giuridiche a sostegno di una decisione “singola”, ma, al contempo, proiettata verso una platea di soggetti in analoga situazione (54). Eventuali profili d’irragionevolezza o iniquità dovrebbero, dunque, palesarsi in fase di audit attraverso il controllo sulla motivazione e, in questa sede, essere rimossi. In mancanza di un regime di pubblicità delle definizioni consensuali e delle motivazioni che le sorreggono, il controllo interno è depositario delle esigenze di trasparenza, perequazione ed efficienza che trascendono la “singola” decisione. Ove, infatti, eventuali disparità non siano qui ricomposte, il rischio è che eventuali “fughe di notizie” minino la stessa credibilità dell’Amministrazione finanziaria quale garante del pubblico interesse. Qualora non vi sia un controllo sociale sistematico, i rari casi che deliberatamente o accidentalmente diventano noti e quindi pubblici, vengono amplificati e “drammatizzati”, proprio perché manca la stessa possibilità di verifica su soggetti in posizione “similare”: il caso divenuto pubblico perde ogni funzione di orientamento sociale, finendo sovente per essere etichettato come trattamento “di favore” di cui ha beneficiato il “singolo”. E, certamente, la mancata pubblicizzazione dell’iter motivazionale a sostegno della definizione consensuale (55)contribuisce ad alimentare una cultura del sospetto, piuttosto che una cultura del “controllo” (sociale). Favoritismi o vessazioni, nella massima “drammatizzazione,” non sono meri fenomeni discriminatori ma sono percepiti come sintomi di episodi corruttivi, destabilizzando la fiducia nell’Amministrazione finanziaria, nella funzione pubblica e nella sua capacità di auto-controllarsi e orientare i comportamenti dei contribuenti. La discriminazione diviene l’anticamera della corruzione, richiamando in causa il regime di responsabilità contabile del funzionario, che può ancora esser chiamato a rispondere a titolo di dolo. Lo scenario paventato spiega, dunque, quanto allo stato attuale il controllo amministrativo assuma una portata garantistica “pubblica” che va ben oltre i profili di tutela del singolo. E, in questa doppia “veste” di garanzia – privata, come tutela del singolo; pubblica, come tutela della funzione, depositaria del

(54) Sulla centralità della motivazione in uno Stato democratico, L. Ventura, Motivazione degli atti costituzionali e valore democratico, Torino, 1995, 11. (55) Si pensi ai noti casi di accertamento con adesione conclusi da multinazionali o personaggi famosi in cui l’opinione pubblica percepisce che il soggetto “celebre”, tutto sommato, se la cava con un accordo favorevole. Peraltro, a livello mediatico, vengono sempre diffusi i dati “secchi” di riduzione dell’imponibile e dell’imposta ma mai le motivazioni a supporto, così esacerbando il convincimento di ingiustificati trattamenti di favore.


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controllo sociale – la motivazione assume un ruolo portante e replica la duplicità della “veste”. 4.1. L’audit nelle “rinunce” e nei “silenzi” dell’Amministrazione finanziaria. – Per quanto le definizioni consensuali rappresentino un osservatorio privilegiato per indagare la funzione interna della motivazione, si può estendere la riflessione anche ad altre funzioni tributarie per trarne ulteriori spunti o conferme. Segnatamente, anche il tema delle “rinunce” – che sarà trattato in modo omnicomprensivo includendo l’autotutela ma anche le rinunce ad accertare o ad irrogare sanzioni, oltre che quelle ad impugnare eventuali pronunce sfavorevoli all’Amministrazione – può rivelarsi di notevole interesse ai fini dell’indagine. Al di là del riesame dell’atto e dell’esercizio del potere di autotutela, sono, infatti prospettabili, ancorché statisticamente non frequenti, ulteriori ipotesi abdicative. L’Ufficio potrebbe, ad esempio, decidere di non dare seguito all’istruttoria confluita nel processo verbale di constatazione ed archiviarlo o di non irrogare la sanzione conseguente alla contestazione ex art. 16 D. Lgs. 472/1997. Analogamente, in giudizio, a fronte di pronunce sfavorevoli, potrebbe concludere per la non – impugnazione, così rinunciando alla pretesa impositiva e sanzionatoria. In tutti questi casi, non si pongono certamente problemi di garanzia per il contribuente che, probabilmente, non ha nemmeno alcun interesse a conoscere le ragioni che sorreggono l’abdicazione alla pretesa. Nondimeno, nel prisma della motivazione, acquista preminenza il lato dell’audit. L’Amministrazione deve, infatti, giustificare in primo luogo a sé stessa le ragioni che spingono verso l’abbandono dei rilievi. Ciò sia per scongiurare il rischio di eventuali profili di responsabilità sul versante amministrativo – contabile, ma anche per garantire un’uniformità decisionale a fronte di fattispecie similari. Dovrà, quindi, esternarsi quell’analisi costo- benefici che, nella fase processuale, è ad oggi contemplata dal Legislatore soltanto con riferimento all’istituto della mediazione. Si rammenta, infatti, che nella disciplina della mediazione è espressamente previsto che l’Amministrazione valuti l’eventuale incertezza delle questioni controverse, il grado di sostenibilità della pretesa e il principio di economicità dell’azione amministrativa (art. 17 bis, co. 5° del D.Lgs. 546/1992). L’onere motivazionale – sia in caso di perfezionamento della definizione, sia in caso di prosecuzione del giudizio a causa del diniego opposto dall’Amministra-


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zione alla proposta del contribuente – dovrà soppesare la soluzione prescelta (definizione o mancata definizione) rispetto all’alternativa di prosecuzione del giudizio alla luce dei parametri indicati dal Legislatore. Tale analisi costi- benefici rivela l’esigenza di perseguire l’efficienza nell’esercizio della funzione, esternando il giudizio di prevalenza degli uni sugli altri, sulla base degli elementi di fatto e di diritto disponibili. Nonostante la previsione normativa di detta analisi sia isolata all’ipotesi della mediazione, non vi è motivo di escluderne un’estensione non solo a tutti gli istituti propriamente deflattivi del contenzioso (dall’accertamento con adesione alla conciliazione) ma ad ogni ipotesi di possibile rinuncia – parziale o totale che sia – alla pretesa impositiva o sanzionatoria. L’esplicitazione dell’analisi costi- benefici costituirà, quindi, oggetto del controllo interno al fine di verificare se la decisione di esercitare la funzione impositiva ovvero quella di proseguire il giudizio sia economica ed efficiente in relazione alla sostenibilità della pretesa. Rispetto alla funzione di orientamento sociale che l’audit dovrebbe presidiare, è noto, tuttavia, che la maggior parte delle decisioni di “rinuncia” non vengono portate nella sfera di conoscibilità del destinatario, né, tantomeno, sono soggette ad un regime di pubblicità: archiviazioni di processi verbali o degli atti di contestazione delle sanzioni ai sensi dell’art. 16 D.Lgs. 471/1997, ma anche le rinunce a coltivare le impugnazioni permangono, sovente, nella sfera interna all’Amministrazione, anche perché il contribuente non è animato da alcun interesse ad esercitare un eventuale accesso agli atti. D’altro canto, l’Ufficio è, all’opposto, sorretto dalla volontà di custodire la “segretezza” delle (variegate) “rinunce”, al fine di evitare che l’episodio diventi “precedente”, ingenerando nella platea dei contribuenti l’affidamento di una moltiplicazione di “rinunce” a vantaggio di tutti i portatori di interessi analoghi (ossia coloro che si ritengano coinvolti in fattispecie similari a quella abdicata). La motivazione è, dunque, relegata nelle segrete dei controlli interni ai fini di eventuali profili di responsabilità disciplinari o contabili: equità ed efficienza, giacché non socialmente controllabili, rimangono affidate alla supervisione gerarchica (o contabile). L’esperienza applicativa rivela che spesso la standardizzazione è perseguita dai singoli Uffici, anche in via preventiva rispetto alla decisione finale, attraverso l’esame preliminare del direttore dell’Ufficio cui compete la valutazione di similarità del caso con fattispecie analoghe e, dunque, una generale funzione di indirizzo e orientamento ancorché meramente interna. Il rischio è, tuttavia, che simili ponderazioni rimangano in balia dei singoli, con disomo-


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geneità territoriali che certamente non giovano all’affidamento collettivo nella funzione tributaria. Sono, infatti, rari – rispetto alla mole delle fattispecie - i casi in cui la stessa Amministrazione interviene in via generale per orientare gli Uffici, suggerendo l’abbandono di specifici rilievi (56). Ma ciò, al di là della marginalità qualitativa di detti interventi d’indirizzo generale, avviene, tendenzialmente, per mere questioni astratte, di “puro” diritto, essendo più difficilmente applicabile alle peculiarità degli elementi in fatto. Un esteso regime di trasparenza e pubblicità anche con riferimento alle decisioni - di vario tipo - abdicative sarebbe, invece, cruciale al fine di attivare il controllo sociale sull’equità delle medesime. La strada è quella nota e già percorsa della pubblicità delle risposte ad interpello -ad oggi unico baluardo di orientamento rispetto a casi concreti e personali – affidando ad un organo centralizzato il filtro di meritevolezza della pubblicazione. Peraltro l’organigramma dell’Agenzia delle Entrate vanta già la Direzione Centrale Audit cui ben potrebbe essere affidata questa specifica funzione “mista” di vaglio interno e orientamento sociale, attraverso la selezione di pubblicità delle decisioni significative. Un ultimo cenno deve essere dedicato, per completezza, al tema dei “silenzi” dell’Amministrazione. Il nodo da sciogliere è qui quello di stabilire se ad essi possa essere attribuito un significato d’orientamento e se, quindi, anch’essi contribuiscano ad attivare quel controllo sociale complementare all’audit interno. Senza poter, in questa sede trattare funditus problematiche dall’imponente background teorico, si può schematizzare l’efficacia orientative dei silenzi (57) nei termini a seguire.

(56) Si ricorda, ad esempio, che in relazione alla vexata quaestio dell’abusività delle operazioni di dividend washing, la stessa Agenzia delle Entrate, sulla base della giurisprudenza della Suprema Corte all’epoca prevalente, con la Circolare, 87/E del 27 dicembre 2002 indirizzava la gestione del contenzioso ancora pendente nei seguenti termini: “considerato che l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità di cui si tratta si deve ormai considerare consolidato, è opportuno abbandonare le liti nelle quali si controverta solo in via di principio della illiceità tributaria del dividend washing”. (57) Nel diritto tributario, sul tema del silenzio, A.E. La Scala, Il silenzio dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2012. La letteratura amministrativistica è vastissima, F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971; A. Travi, Silenzio assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, 1985; P.G. Lignani, Silenzio (dir. amm.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 559; tra i contributi più recenti, C. Guacci, La tutela avverso l’inerzia della pubblica amministrazione secondo il Codice del processo amministrativo, Torino, 2012.


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A fronte delle ipotesi di interpello (58) in cui è previsto il silenzio – assenso, il silenzio, per espressa previsione normativa, non può che essere significativo e, data la specifica funzione dell’istituto, assolvere ad una funzione orientativa di per sé. È, peraltro noto, che allorquando l’Amministrazione stessa, pur condividendo la soluzione prospettata dal contribuente, ritenga la questione rilevante per indirizzare la generalità dei contribuenti, è solita rispondere diffusamente al quesito posto – con conseguente pubblicità dell’atto – motivando analiticamente in fatto e in diritto perché detta opzione sia condivisibile. Mi sembra come detto, un modulo, non solo corretto ma anche applicabile a tutti gli altri casi in cui, pur nella peculiarità della fattispecie concreta, siano rinvenibili i requisiti di ricorrenza della casistica e/o di rilevanza della medesima, rendendo, dunque, imprescindibile il regime di pubblicità. Il filtro per gli istituti diversi dall’interpello, potrebbe essere svolto dalla stessa Direzione Centrale Audit, replicando, mutatis mutandis, lo schema dell’interpello là dove, pur condividendosi la proposta interpretativa del contribuente, si ritenga la questione meritevole di una funzione di indirizzo generale. Ben diverso, invece, il caso del silenzio rispetto a istanze di autotutela o istanze di rimborso. Trattandosi di silenzio non significativo – giacché mera inerzia – la funzione d’orientamento generale non può che ritenersi esclusa. 5. Motivazione, audit, digitalizzazione. – Occorre ora interrogarsi su come il fenomeno di digitalizzazione che, progressivamente, investe l’operatività dell’Amministrazione finanziaria possa incidere sul profilo motivazionale, con particolare riferimento all’audit interno. Il ricorso a strumenti di intelligenza artificiale o big data si iscrive, infatti, in un modello di Amministrazione – impresa, incline a concepire il processo di digitalizzazione come funzionale a migliorare i “servizi” resi ai cittadini/ utenti, secondo i canoni di efficienza ed economicità, che presuppongono la minimizzazione dei costi necessari all’espletamento dei “servizi” amministrativi (59). In ambito tributario, il fenomeno di digitalizzazione dovrebbe, altresì, colmare lo squilibrio informativo tra Fisco e contribuente.

(58) Per la ricostruzione sistematica dell’istituto, M. Versiglioni, L’interpello nel diritto tributario, Perugia, 2005; F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano 2007. Da ultimo, G. Fransoni, Il diritto potestativo d’interpello. Fattispecie, procedimento, effetti e tutela, Pisa, 2020; in particolare sul silenzio-assenso, 136 ss. (59) Così anche la fondamentale pronuncia del Cons. di Stato, sez. VI, 13 dicembre


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Per un verso, non vi è dubbio che in sé il fenomeno di digitalizzazione latamente inteso semplifichi e velocizzi l’istruttoria interna, liberandola da inutili appesantimenti burocratici- amministrativi, e comportando un minor aggravio di costi; al contempo, la digitalizzazione evita eventuali dispersioni informative, favorendo, quindi la compliance interna rispetto ai canoni dell’efficienza, dell’economicità e del buon andamento. Tuttavia, accanto a questo, occorre anche interrogarsi se la digitalizzazione – e in particolare l’impiego di strumenti c.d. 4.0 – assecondo la capacità orientativa delle decisioni amministrative. Sullo sfondo di questa idea efficientistica dell’agire amministrativo si staglia, infatti, il mito weberiano della calcolabilità del diritto (60) e del contribuente – homo oeconomicus che pondera ogni elemento utile del suo agire, ivi inclusa la prevedibilità del diritto e, per quanto qui d’interesse, delle decisioni amministrative. Prevedibilità, che, a sua volta, presuppone l’affidabilità della legge, “attesa di rigorosa applicazione, di stabilità nel tempo, di continuità interpretativa” (61). L’interrogativo sarà quindi se l’impiego di strumenti tecnologici c.d. 4.0 possano incrementare la trasparenza dei processi decisionali e dilatare le maglie del “controllo sociale” a presidio dell’imparzialità e correttezza da parte dell’Amministrazione. Se, in sostanza, la prospettiva futuribile (62) dell’Am-

2019, n. 8472. Sul tema della funzionalizzazione anche alle esigenze dei cittadini – utenti, D. U. Galetta, Public Administration in the Era of Database and Information Exchange Networks: Empowering Administrative Power or Just Better Serving the Citizens?, in European Public Law, 2019, 25, no. 2, 172. (60) Si tratta di un tema vastissimo, ampiamente esplorato in letteratura con riferimento allo specifico tema della giustizia predittiva. Si segnala, in particolare, il volume AA. VV., Calcolabilità giuridica (a cura di A. Carleo), Bologna, 2017 che raccoglie contributi multidisciplinari. In particolare, si riportano alcune righe di G. Canzio, Calcolo giuridico e nomofilachia in tale volume, 170, in quanto rappresentano una felice sintesi della ricostruzione del fenomeno della crisi del diritto e della fattispecie, individuati: “nella progressiva decodificazione e alterazione del sistema delle fonti; nella mutazione del linguaggio legislativo da prescrittivo a programmatico; nella svalutazione del sillogismo giudiziale in favore delle clausole generali; nell’avvento di un modello decisorio assiologico, costituzionalmente e convenzionalmente orientato, basato su norme senza fattispecie e sul diretto ricorso ai principi o ai valori”. (61) N. Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, 4-5, 917. (62) Invero, meno futuribile di quanto possa sembrare essendoci già una casistica giurisprudenziale qualitativamente significativa sull’impiego di algoritmi nelle procedure selettive, oltre che impieghi rilevanti da parte dell’Inps (in particolare, il riferimento è al c.d. Progetto Frozen con cui, attraverso l’analisi di big data vengono individuate le imprese


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ministrazione “predittiva” corrobori l’audit e, con esso, una funzione lato sensu general preventiva, qui intesa nel senso non di mera deterrenza ma anche di orientamento per i contribuenti. Tanto premesso, si possono astrattamente ipotizzare tre scenari in cui l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale può, con un diverso grado di pregnanza, concorrere alla decisione dell’Amministrazione finanziaria e assolvere ad una funzione predittiva. Il primo è quello dell’impiego con mera finalità selettiva dei contribuenti “a rischio”, ossia quelli che, per storia, precedenti, operazioni realizzate (e qualsivoglia altro dato che sarà individuato come utile ai fini della processazione) … possono considerarsi fiscalmente pericolosi e, quindi, oggetto di ulteriori controlli. Il ricorso a strumenti digitali “rivoluzionari” si limita, qui, alla mera fase di selezione, rappresentando la fonte di innesco dell’istruttoria mentre sia quest’ultima, sia la decisione rimangono affidate alle modalità tradizionali. Un secondo scenario è quello dell’impiego dell’intelligenza artificiale come mero momento cognitivo e istruttorio, affidando, tuttavia la decisione finale all’Amministrazione. Il terzo, quello più futuristico, è la completa automazione della fase decisoria. Sulla praticabilità giuridica di quest’ultima ipotesi si registrano già significativi leading cases (63) tra cui merita uno spazio particolare, nell’eco-

ad elevato rischio di evasione contributiva per poi sottoporle a controllo amministrativo e, eventualmente, ispettivo). Nello stesso ambito tributario, vi sono numerose esperienze applicative sul piano comparato (tra i più pionieristici, il progetto polacco implementato dal 2017, System Teleinformatyczny Izby Rozliczeniowej - STIR per contrastare, in via preventiva, possibili frodi Iva) ed anche internazionale (il Matching Database, elaborato dall’OCSE per finalità interpretative, con particolare riferimento alla Convenzione multilaterale anti-BEPS). (63) In particolare, si può rammentare, ancorché relativo alla materia penale e alla decisione giudiziale, il caso statunitense Supreme Court of Wisconsin, State of Wisconsin v. Eric L. Loomis, Case no. 2015AP157-CR, 5 April – 13 July 2016. La Corte Suprema ha circondato di particolari cautele l’impiego di software ai fini del calcolo della pena (si trattava dell’algoritmo COMPAS), ritenendo in sintesi che giudice possa applicare i risultati dell’algoritmo COMPAS ponderandolo in modo discrezionale, sulla base del bilanciamento con altri fattori. L’uso dello strumento non può, quindi, riguardare il grado di severità della pena sulla base di circostanze attenuanti od aggravanti, né la decisione sull’incarcerazione dell’imputato, in quanto lo scopo di COMPAS è quello di individuare le esigenze del soggetto che deve scontare la pena e di valutare il rischio di reiterazione del reato. In ambito interno, oltre a talune pronunce della Cassazione penale, T.A.R. e Consiglio di Stato si sono più volte espressi, ex multis Cons. di Stato sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270, secondo cui, è possibile procedere con l’utilizzo di algoritmi


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nomia delle presenti riflessioni, il poderoso affresco sull’utilizzo di algoritmi nei procedimenti amministrativi, dipinto dal Consiglio di Stato, sez. VI, nella più volte richiamata sentenza del 13 dicembre 2019 n. 8472. Riconosciuta la rispondenza degli strumenti algoritmici ai canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (art. 1 L. 241/90) e stemperata la rilevanza della distinzione tra attività amministrativa e discrezionale per l’utilizzo dei medesimi (64), il Consiglio di Stato ne subordina l’impiego a tre principi, attinti dal diritto europeo (con particolare riferimento al Regolamento Ue 2016/679) e globale: conoscibilità, non esclusività e non discriminazione. Il primo, derivante direttamente dall’art. 42 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (“Right to a good administration”), consiste in “una declinazione rafforzata del principio di trasparenza che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico”. Data, infatti, la natura multidisciplinare dell’algoritmo, si impone una traduzione della regola tecnica in regola giuridica tale da rendere anche la prima perfettamente comprensibile e sindacabile. Il principio di non esclusività della decisione algoritmica impone che allorché una decisione automatizzata produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona, questa ha diritto a che la decisione non sia basata unicamente su tale processo automatizzato. Da ultimo, il principio di non discriminazione implica il dovere per l’Amministrazione di adottare procedure di profilazione adeguate anche al fine di evitare possibili effetti discriminatori. Si tratta certamente di tre principi rilevanti anche con riferimento al tema della funzione “interna” della motivazione degli atti. Il principio di conoscibilità è, infatti, come argomentato dallo stesso Consiglio di Stato, “riconducibile al principio di motivazione e/o giustificazione della decisione”. È, quindi, ricollegabile anche alla necessità di trasparenza della decisione sottesa all’atto,

nei procedimenti amministrativi, soprattutto in quelli con procedure seriali standardizzabili (si trattava, nel caso di specie, di procedure valutative), ma con garanzie di trasparenza e di verifica in sede giurisdizionale. (64) Il Consiglio di Stato, stemperando, come detto, la distinzione tra attività discrezionale e vincolata (punto 11 della più volte citata sentenza n. 8472/2019), riconosce che il ricorso agli strumenti informatici può apparire di più semplice utilizzo in relazione alla c.d. attività vincolata, ma nulla vieta che possa estendersi anche ad ambiti connotati da discrezionalità. Testualmente “né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse”.


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necessaria non solo per l’audit interno alla stessa Amministrazione ma anche per garantirne il controllo sociale nei termini precedentemente descritti. Il secondo accentua l’imputabilità della decisione – ancorché parzialmente “robotizzata” – all’organo titolare del potere che non può mai spogliarsi della verifica di legittimità/logicità. Tale responsabilizzazione, proprio attraverso il filtro motivazionale, impone la verifica interna di logicità dell’”appropriazione” amministrativa della regola tecnica prodotta dall’algoritmo (65). Il terzo principio completa il primo, garantendo la trasparenza a presidio dei canoni di uguaglianza ed equità della decisione, come visto, decisivi ai fini dell’affidamento della collettività nella funzione amministrativa e nella sua capacità d’orientamento. A questo punto, si può indugiare brevemente se quanto affermato dal Consiglio di Stato con riferimento ai vantaggi delle modalità digitali “rivoluzionarie” (66) sia applicabile anche al decision making tributario. Al di là della riduzione della tempistica procedimentale – certamente rinvenibile anche in materia tributaria – il Giudice Amministrativo annovera tra detti vantaggi anche l’esclusione di interferenze dovute a negligenze (o dolo) del funzionario e, quindi, la maggior garanzia di imparzialità della decisione automatizzata. A tal fine, è opportuno riprendere i diversi impieghi di tali strumenti tecnologici e la conseguente diversa incidenza sulla decisione finale. Invero, con riferimento al caso in cui l’algoritmo sia utilizzato come mera fonte di innesco ma l’istruttoria sia espletata secondo modalità tradizionali (accessi, ispezioni, verifiche, indagini bancarie), la marginalità dello strumen-

(65) Sul tema della motivazione, nella decisione algoritmica, A. Simoncini, Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, in Riv. Trim. dir. pub., 2019, 4, 1149. In particolare, l’Autore mette in dubbio la stessa esplicabilità della motivazione a base dell’algoritmo “ci troviamo dinanzi ad algoritmi — soprattutto quelli predittivi — che non hanno necessariamente una logica, quantomeno nel senso filosofico o deterministico-matematico con cui normalmente utilizziamo il termine. La maggior parte degli algoritmi di nuova generazione non si limita a dedurre in maniera deterministica conseguenze già contenute negli assiomi prefissati dal programmatore, sussumendo fatti concreti, ma in virtù dei sistemi automatici di apprendimento cui abbiamo fatto cenno in avvio, essi stessi producono i propri criteri di inferenza. Criteri che in molti casi non sono comprensibili agli stessi programmatori”. (66) Secondo il concetto di “disruptive technology” cui ricorrono le fonti europee che ne caldeggiano l’impiego per il contrasto ai fenomeni di elusione ed evasione internazionale, sulla base della terminologia utilizzata, per la prima volta, dagli studiosi americani Clayton Christensen e Joseph Bower in un articolo apparso nel 1995 su Harvard Business Review.


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to informatico ai fini della determinazione dell’Amministrazione non è idoneo ad innalzare il coefficiente di trasparenza e imparzialità della decisione. La fase automatizzata è, infatti, circoscritta alla selezione e segnalazione del contribuente fiscalmente pericoloso ed è, peraltro, lecito dubitare che i relativi elementi e criteri di selezione debbano essere effettivamente resi conoscibili e trasparenti (67). L’istruttoria e la fase decisionale in senso stretto seguono, però, i canali tradizionali, riproponendosi le considerazioni di trasparenza e pubblicità già sviluppate nei paragrafi che precedono. Se, invece, l’impiego dell’algoritmo si estende al momento cognitivo – istruttorio ma la fase decisoria rimane nella sfera di responsabilità dell’Amministrazione dovranno essere esplicitati e resi conoscibili i procedimenti utilizzati, i dati selezionati, i criteri secondo il metro di “piena” trasparenza descritto dalla pronuncia del Consiglio di Stato (68). Metro che, come detto, impone la traduzione giuridica della regola tecnica in modo da renderla comprensibile e sindacabile (anche, si aggiunge, dalla stessa Amministrazione ai fini del controllo interno) (69). Il sindacato motivazionale su tale traduzione dovrà essere tanto più pregnante quanto più i risultati dell’algoritmo siano stati determinanti rispetto alla decisione finale: qualora, infatti, l’impiego

(67) Un conto è, invero, indicare nella motivazione dell’atto che il contribuente è stato sottoposto ad accertamento in virtù dell’impulso digitale, altro è la completa disclosure dei criteri di selezione utilizzati. (68) Sulla centralità della motivazione qualora l’algoritmo sia utilizzato come mero strumento istruttorio, il fondamentale contributo di S. Dorigo, Intelligenza artificiale e norme antiabuso: il ruolo dei sistemi “intelligenti” tra funzione amministrativa e attività giurisdizionale, in Rass. Trib., 2019, 4, 728. Secondo l’Autore, che aderisce alla tesi dell’impiego dell’intelligenza artificiale per attività di back office, e dunque per finalità di istruttoria interna, “nel caso dei sistemi intelligenti la ricostruzione del procedimento logico non può a mio avviso prescindere dall’accesso all’algoritmo, perché in esso si annida la comprensione del percorso attraverso il quale si è dipanato il confronto tra le caratteristiche concrete della fattispecie e quelle che, sulla base dei dati conosciuti dal sistema, avrebbero dovuto mostrarsi per poter giudicare corretta la predetta operazione”. (69) Come detto, è ben difficile, dal punto di vista pratico che l’iter logico- giuridico alla base della regola tecnica possa essere reso effettivamente trasparente e esplicabile, A. Simoncini, Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, cit. Osserva, altresì che “ogniqualvolta un automatismo decisionale viene inserito in un procedimento deliberativo, l’automatismo tende a «catturare» la decisione, o quantomeno a rendere estremamente difficile prescinderne”, segnalando il rischio che, anche imponendo – secondo le indicazioni della giurisprudenza amministrativa -l’intervento umano vi sia il rischio di “asservimento” dell’uomo alla tecnologia.


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istruttorio delle risultanze della processazione sia esclusivo, le ragioni che giustificano “l’interiorizzazione”, da parte dell’Amministrazione, del prodotto artificiale, dovranno essere diffusamente esternate, ricostruendo i dati rilevanti, i criteri utilizzati, le modalità di elaborazione in modo analitico e giustificando, dal punto di vista giuridico tributario, perché dette risultanze sono sussumibili nella fattispecie astratta tributaria. Perché, in definitiva, quell’atto non è mero prodotto di una procedura automatizzata ma della ponderazione critica dell’Amministrazione procedente. Qualora la decisione non sia, invece, sorretta in modo esclusivo dal risultato dell’algoritmo ma concorrano ulteriori elementi – immessi dalla stessa Amministrazione o addotti dal contribuente in sede di contraddittorio – la trasparenza sarà garantita dall’esternazione del quadro istruttorio complessivo. La motivazione si estenderà, dunque, tanto al frutto dell’algoritmo – che assume qui un ruolo istruttorio non decisivo, bensì, concorrente (70) - quanto agli ulteriori elementi. In questo caso, la “combinazione” istruttoria cumula questioni di trasparenza “classiche” – chiarite nei paragrafi precedenti – riproponendo il tema della pubblicità degli elementi valorizzati, con quelle “innovative” della traduzione comprensibile della regola tecnica in regola giuridica. Da ultimo merita qualche riflessione anche l’ipotesi della decisione interamente automatizzata, per quanto difficilmente conciliabile con la nota “incalcolabilità” del diritto tributario (71)e, ad oggi, avversata dalla giurisprudenza

(70) Si pensi alla nota esperienza degli studi di settore, rispetto ai quali la stessa Amministrazione finanziaria ha riconosciuto la necessità di indicare nella motivazione dell’atto impositivo che la selezione è avvenuta anche in base alle discrepanze risultanti dall’applicazione degli studi di settore, Agenzia delle Entrate, Circolare n. 19/2019 dell’8 agosto 2019. (71) Incalcolabilità denunciata dallo stesso Legislatore tributario attraverso il meccanismo di “autotutela ordinamentale” (secondo la felice formula di L. del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 503) delle obiettive condizioni di incertezza che escludono la punibilità del contribuente “a tutto tondo”. È noto, infatti, che detta scriminante permea il diritto punitivo tributario in ogni comparto e aspetto: l’art. 15 del D.Lgs. 74/2000 esclude, infatti, la punibilità ai fini penal tributari; l’art. 6 co. 2° del D. Lgs. 472/1997 ai fini amministrativi; l’art. 8 del D. Lgs., in deroga al principio dispositivo, autorizza il Giudice tributario alla disapplicazione delle sanzioni a fronte di obiettive condizioni di incertezza sulla norma tributaria; l’art. 10 della L. 212/2000 esplicita la valenza generale del principio collocato nello Statuto dei diritti del contribuente. Si rammenta, altresì, che secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (nella nota sentenza “sistematizzante” Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670, con i commenti di F. Batistoni Ferrara, in Corr. Trib., 2008, 209; A. Colli Vignarelli, La suprema Corte interviene in tema di “obiettive condizioni d’incertezza” della norma tributaria, in Rass. Trib., 2008, 470), l’incertezza, per essere “oggettiva” deve essere attestata dal tertium comparationis di un interprete qualificato individuato nello stesso Giudice.


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domestica e globale. Il rischio sembrerebbe, infatti quello per cui, la fase decisionale robotizzata contrasti propri con gli obiettivi di trasparenza ed equità che, prima facie, sembrerebbe perseguire. La mancanza, infatti, di quella traduzione della regola tecnica in regola giuridica, accompagnata dalla complessità e multidisciplinarità degli algoritmi, rischiano, infatti, di produrre una decisione incomprensibile e, dunque, scarsamente trasparente. Per quanto verrebbero meno i profili di responsabilità dei funzionari – sostituiti dalle determinazioni della “macchina” – il rischio è quello per cui l’oscurità dei meccanismi decisionali alimenti la cultura del sospetto dell’iniquità e ingeneri la percezione di “fatalità” della decisione. L’affidamento nella qualità della funzione – ancorché “robotizzata” – ne uscirebbe esautorato e, con esso, l’effettività del controllo sociale. Peraltro, tale rischio di opacità del momento deliberativo, non può essere radicalmente escluso anche a fronte di una decisione algoritmica “non esclusiva”, laddove “la decisione automatica, quindi finirà sempre più per godere di quella che la nudgingtheory  chiama la default-option force: ovvero l’indubbio plusvalore «pratico» connesso alla scelta suggerita automaticamente dal sistema, rispetto alla quale ci si può discostare, ma a patto di impegnarsi in un notevole sforzo (e rischio) valutativo” (72). Il rischio, in sostanza, che l’aurea di (postulata) maggior scientificità e trasparenza della valutazione algoritmica indebolisca la capacità motivazionale “umana”, quasi schiacciata dall’autorità tecnologica (73). Ne deriverebbe una prevalenza della valutazione algoritmica sulla motivazione “umana”, propagando a quest’ultima la difficile intelligibilità ed esplicabilità che caratterizza la prima.

L. del Federico, Le sanzioni amministrative, cit.; R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, 367; A. Vignoli, La obiettiva incertezza nel diritto tributario: confronto tra sanzioni penali ed amministrative, in AA. VV., Fiscalità d’impresa e reati tributari, a cura di Lupi, Milano, 2000, 52; M. Logozzo, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 113 ss. Sull’incalcolabilità, con particolare riferimento alle clausole antiabuso e al diritto tributario internazionale, spesso connotato dalla segretezza delle procedure e degli accordi, S. Dorigo, Intelligenza artificiale e norme antiabuso, cit.; in generale, data la vastità del tema si rinvia al contributo multidisciplinare AA. VV., Calcolabilità giuridica, cit.; N. Irti, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, 989. (72) A. Simoncini, Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, cit. (73) C. Shirky, A Speculative Post on the Idea of Algorithmic Authority, in www. shirky.com/weblog/2009/11/a-speculative-post-on-the-idea-of-algorithmic-authority.


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6. Conclusioni. – Nella polifunzionalità, la motivazione come strumento di audit rivela il lato che forse più accentua efficacia, efficienza, economicità e buon andamento dell’Amministrazione finanziaria. L’indagine sviluppata consente, infatti, di concludere che la motivazione non rileva meramente nella sfera esterna, come accessorio del diritto di difesa del contribuente ma, nella polifunzionalità, si arricchisce di un ruolo cruciale interno all’Amministrazione, per rafforzarne l’efficienza, l’efficacia e il buon andamento. Al contempo, si è cercato di concepire l’audit non come mero controllo che nasce e si chiude all’interno dell’Amministrazione in vista di eventuali interventi gerarchici o sanzionatori a fronte di decisioni che meritano di essere emendate. Tale fase interna, pregnante soprattutto a fronte di decisioni sottratte al sindacato giurisdizionale (quali, tipicamente, le definizioni consensuali ma anche la congerie di atti di abdicazione alla pretesa impositiva e/o sanzionatoria) trova necessario completamento in un sindacato generalizzato da parte dei c.d. portatori di interessi analoghi, ossia i contribuenti che si trovano in medesime o similari situazioni e hanno subito analoghe contestazioni da parte degli uffici finanziari. Si tratta di un controllo sociale diffuso che postula, tuttavia, per poter essere effettivo la piena trasparenza e, dunque, la pubblicità delle decisioni. Pubblicità che, come chiarito, non si appunta sulle specificità dei casi concreti, ma sull’omogeneità dei parametri dell’azione amministrativa. Corrobora una funzione lato sensu general preventiva di orientamento dei contribuenti in un più ampio contesto di calcolabilità del diritto e (tendenziale) prevedibilità delle decisioni. In un clima di generale sfiducia nella capacità orientativa del diritto, esacerbata in ambito tributario dall’ipertrofia legislativa, da orientamenti giurisprudenziali sovente destabilizzanti, il rafforzamento della prevedibilità delle decisioni amministrative potrebbe contribuire, quanto meno, ad un maggior affidamento nella funzione tributaria, al riparo dal sospetto di favoritismi o iniquità. Si è anticipato che nemmeno il fenomeno di digitalizzazione dei procedimenti – oggi sempre meno avveniristico – potrebbe incisivamente innalzare il livello di trasparenza e prevedibilità delle decisioni, se non supportato da un più generale mutamento culturale di come la funzione tributaria debba essere concepita e percepita. Tuttavia, l’inserimento di moduli decisori, come visto, solo parzialmente automatizzati potrebbe offrire, quanto meno, l’afflato per l’indicata rivoluzione culturale.

Silvia Giorgi



Osservazioni in tema di responsabilità fiscale dei notai per il versamento dell’imposta di registro: natura giuridica e limiti della responsabilità Sommario: 1. La natura giuridica dell’implementata responsabilità notarile per

l’imposta di registro. Dalla responsabilità solidale a quella per fatto proprio. – 2. Compatibilità della richiesta preliminare d’adempimento al notaio rispetto al modello solidaristico. – 3. Il limite della responsabilità notarile al versamento della sola imposta principale. – 4. Compatibilità delle garanzie attribuite al notaio rispetto al modello solidaristico. – 4.1. Il deposito della provvista quale rivalsa preventiva. – 4.2. Il diritto di surroga e la possibile rivalsa rafforzata successiva al versamento. – 5. I limiti del modello solidaristico. – 6. Conclusioni. In materia di responsabilità notarile, per il versamento dell’imposta di registro, il problema, tuttora irrisolto, riguarda l’atteggiarsi di una responsabilità fiscale di per sé atipica che, a causa dei successivi interventi effettuati sulla legislazione notarile e su quella di registro stessa, a molti è apparsa non più solidale. Allo stesso tempo e, almeno in parte, per lo stesso motivo, è rimasta incerta non solo la natura giuridica della responsabilità in questione ma anche l’esatta delimitazione dei confini di questa responsabilità ovvero la latitudine dell’imposta principale di registro, riguardo alla quale soltanto il legislatore ha sancito la responsabilità notarile medesima. About the payment of the register tax, the problem, still unresolved, concerns the atypical juridical nature of notarial fiscal responsibility, uncertainty it’s heightened by the subsequent interventions carried out on the notarial legislation and on the Presidential Decree no. 131/1986, regarding register tax itself. At the same time and, in part, for the same reason, it remains unclear the exact limit of this responsibility, that is to say about the latitude of the register tax, regarding which the legislator has sanctioned the notarial responsibility.

1. La natura giuridica dell’implementata responsabilità notarile per l’imposta di registro. Dalla responsabilità solidale a quella per fatto proprio.


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– Ai sensi dell’art. 57 d.p.r. n. 131 del 26 aprile 1986 i notai, quali pubblici ufficiali «che hanno redatto, ricevuto o autenticato l’atto», sono obbligati al pagamento dell’imposta di registro definita principale dal legislatore, poiché «la responsabilità dei pubblici ufficiali non si estende al pagamento delle imposte complementari e suppletive» (1). La giurisprudenza continua a restare fedele all’impostazione tradizionale che individua tale obbligo come una responsabilità d’imposta (2). In base alla definizione che ne fornisce il terzo comma dell’art. 64 d.p.r. n. 600/1973, la responsabilità d’imposta, identificando «chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi ha diritto di rivalsa», istituisce un’obbligazione solidale atipica del notaio (3). Quest’ultimo non manifesta l’indice di capacità contributiva considerato dal tributo di registro, poiché al fondamento della responsabilità notarile per l’imposta si pone una fattispecie diversa, seppur connessa, tipicizzata dal legislatore stesso. Sembra altrettanto chiaro che il nesso individuato dal legislatore, rispetto alla fattispecie imponibile di registro, consista nel ruolo svolto dal notaio rispetto alla verificazione di quel presupposto. Di conseguenza, proprio per via dell’estraneità del responsabile rispetto al presupposto d’imposta, la posizione del pubblico ufficiale nei confronti del creditore fiscale dovrebbe essere quella di una sorta di garante dell’adempi-

(1) Art. 57 T.u.r., comma secondo. Precisazioni e riferimenti giurisprudenziali al riguardo sono svolti più avanti. (2) Vedi L. Castaldi, Sulla figura del responsabile d’imposta, in Riv. dir. trib., n. 1/2018, 21 ss. (3) Come è stata definita da E. Allorio, Diritto processuale tributario, Torino, 1953, 233 ss. Riguardo alla distinzione tra forma tipica e atipica A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, 37, insegna, come noto, che quella tipica definisce un obbligo impositivo al cui presupposto fattuale i condebitori hanno concorso, manifestando una capacità contributiva. Nella fattispecie, dunque, si appartiene alle parti contraenti, cioè a coloro che manifestano la volontà in merito agli effetti discendenti dal documento sottoposto a registrazione o, più in generale, i soggetti del rapporto giuridico oggetto dell’atto anche in ipotesi di atti non negoziali (es. parti in causa). Al riguardo si rinvia alla definizione fornita da M. Messina, Solidarietà e soggetti passivi nell’imposta di registro, in Giur. delle Imp., n. 2/2016, 94 ss., il quale opportunamente aggiunge, «l’imposta di registro non colpisce l’atto in sé considerato, ma i suoi effetti economico-giuridici rilevanti dal punto di vista tributario (indice di capacità contributiva) o, in altri termini, il rapporto economico, rivestito della forma giuridica ad esso appropriata».


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mento dei contribuenti in senso stretto, identificati legislativamente quali suoi condebitori. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, infatti, la norma in questione non afferma la responsabilità in solido del notaio con le parti contraenti, che di fatto manifestano la capacità contributiva e realizzano la fattispecie imponibile. Al contrario, l’art. 57 T.u.r., dispone che il notaio è obbligato al versamento e aggiunge che «sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti, le parti in causa, coloro che hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere le denunce di cui agli artt. 12 e 19 e coloro che hanno richiesto i provvedimenti di cui agli artt. 633, 796, 800 e 825 c.p.c.». L’inversione dell’ordine dei fattori, rispetto a quello che apparirebbe più corretto, ove si trattasse appunto di una forma di responsabilità solidale atipica dipendente (4) da parte del notaio e nei confronti delle parti contraenti stesse, potrebbe già di per sé rappresentare un’anomalia. Ai sensi degli artt. 10, 11 e 15 del medesimo T.u.r. (5), si evince, inoltre, che l’obbligo di richiedere la registrazione riguardo agli atti rogati, ricevuti o autenticati è imposto ai notai piuttosto che alle parti dell’atto da registrare. I notai, dunque, sono personalmente gravati di un compito specifico e differente, accessorio e ulteriore, rispetto a quello che spetterebbe loro quali “semplici” responsabili d’imposta e, pertanto, garanti del solo versamento. L’introduzione dell’art. 3-bis nel d.lgs. n. 463 del 18 dicembre 1997 (6), ha ulteriormente implementato tali obblighi notarili riguardo all’imposta di

(4) Riguardo alla solidarietà tributaria tipica e atipica e ai molti “dilemmi” che essa pone, ex plurimis, si rinvia esemplificativamente a: C. Glendi, Le SS.UU. della Suprema Corte officiano i «funerali» della solidarietà tributaria, in G.T. riv. giur. trib., n. 3/2007, 189 ss.; G. Falsitta, Presupposto unitario plurisoggettivo, giusto riparto e litisconsorzio necessario nella solidarietà passiva tributaria, nota a Cass. civ., S.U., n. 1052 del 18 gennaio 2007, in Riv. dir. trib., n. 3/2007, II, 174 ss.; L. Ferlazzo Natoli - P. Accordino, Solidarietà tributaria paritetica e litisconsorzio necessario, in Il Fisco, n. 7/2007, 922 ss.; L. Bianchi, La solidarietà tributaria tra nuovi orientamenti della Cassazione e antichi problemi sostanziali, in Dir. Prat. trib., n. 2/2008, I, 365 ss.; E. De Mita, Solidarietà tributaria troppo ampia, in Dir. Prat. trib., n. 4/2008, 817 ss. (5) D.p.r. n. 131 del 26 aprile 1986. (6) Introdotto, come noto, per effetto dell’art. 1, comma primo, d.lgs. n. 9 del 18 gennaio 2000, a decorrere dal 30 giugno 2000. L’entrata in vigore dell’obbligo di registrazione telematica, prorogata più volte, è avvenuta definitivamente, ex art. 3 del provvedimento interdirettoriale (dei direttori dell’Agenzia delle entrate e dell’Agenzia del territorio) del 14 marzo 2007 (previsto dall’art. 1 d.l. n. 2/2006, comma terzo, convertito in Legge n. 81/2006), dal primo aprile 2007 per tutti gli atti «aventi ad oggetto immobili o diritti sugli immobili» e, successivamente generalizzata, per tutti gli atti soggetti a registrazione, dal primo di giugno


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registro. Introducendo la registrazione telematica, tramite il modello unico informatico (MUI) (7), si sancisce che «le richieste di registrazione, le note di trascrizione e di iscrizione nonché le domande di annotazione e di voltura catastale, relative agli atti per i quali è attivata la procedura telematica, sono presentate su un modello unico informatico da trasmettere per via telematica unitamente a tutta la documentazione necessaria». Il sistema di registrazione telematico sembra incidere anche sul dispiegarsi sostanziale della responsabilità in esame. Il decreto interministeriale n. 308 del 13 dicembre 2000 (8), all’art. 1, lett. d), infatti, individua quali “utenti” del sistema di registrazione telematico esclusivamente i pubblici ufficiali, di cui all’art. 10, lett. b) T.u.r. Circostanza quest’ultima che, unitamente con quanto sancisce l’art. 4 del medesimo decreto, dimostra che solo i pubblici ufficiali in questione «sono abilitati alla trasmissione dei file relativi agli atti», poiché, ai sensi del comma secondo del medesimo articolo, sono gli unici a poter presentare la domanda di abilitazione all’ufficio del territorio competente in relazione alla loro sede. Ai sensi del comma terzo dell’art. 3-bis d.lgs. n. 463/1997, inoltre, «in caso di presentazione del modello unico informatico per via telematica, le formalità di cui al comma 2 sono eseguite previo pagamento dei tributi dovuti in base ad autoliquidazione» (9).Ne discende, dunque, che l’obbligo di registrazione telematica (10) può essere adempiuto solo dal notaio.

2007. Sul d.lgs. 463/1997 hanno agito anche le modifiche e integrazioni di cui al d.l. n. 78 del 31 maggio 2010, convertito in L. n. 122 del 30 luglio 2010. (7) Il comma secondo dell’art. 3-bis d.lgs. n. 463/1997 dispone che «le richieste di registrazione, le note di trascrizione e di iscrizione nonché’ le domande di annotazione e di voltura catastale, relative agli atti per i quali è attivata la procedura telematica, sono presentate su un modello unico informatico da trasmettere per via telematica unitamente a tutta la documentazione necessaria». Il d.p.r. n. 308 del 18 agosto 2000, regolamento per l’utilizzazione delle procedure telematiche, ha disposto cosa fare in materia di trasmissione telematica degli atti rogati. (8) Rubricato «utilizzazione di procedure telematiche per gli adempimenti in materia di atti immobiliari: approvazione del modello unico informatico e delle modalità tecniche necessarie per la trasmissione dei dati», pubblicato in G.U. n. 302 del 29 dicembre 2000. (9) Che, di norma, la registrazione venga eseguita previo pagamento dell’imposta era, peraltro, già disposto dal comma primo dell’art. 16 T.u.r., laddove stabilisce «salvo quanto disposto nell’art. 17, la registrazione è eseguita, previo pagamento dell’imposta liquidata dall’Ufficio, con la data del giorno in cui è stata richiesta». (10) Sulla registrazione telematica si rinvia al commento “a caldo” di G. Petteruti, Adempimenti telematici relativi ad immobili. Aspetti tributari, Studio n. 87/2002/T, in Studi e Materiali CNN, Milano, n. 2/2003, 531 ss. In tal senso vi sono stati anche molti atti di indirizzo,


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Al notaio stesso si è assegnato anche l’obbligo di determinare il quantum dell’imposta da versare, cioè di eseguirne la c.d. autoliquidazione senza intervento dell’Ufficio (11). È previsto, inoltre, che il pagamento intervenga non solo prima della registrazione stessa ma anche con il deposito delle somme su un conto corrente dedicato, che è fatto obbligo al notaio di aprire e comunicare al Fisco (12). Conto nel quale, a tal fine, è imposto al notaio di depositare «tutte le somme dovute a titolo di tributi per i quali il medesimo sia sostituto o responsabile

quali la Circolare della Direzione Centrale n. 6/E del 5 febbraio 2003; la Disposizione del Direttore dell’Agenzia n. 2006/333524 del 12 gennaio 2007 o la Risoluzione della Direzione Centrale Normativa e contenzioso n. 194/E del 16 maggio 2008. (11) Al riguardo G. Salanitro, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1245 ss. Assonotai ha concluso, pertanto, che la nuova procedura telematica «contiene un trasferimento dall’Amministrazione finanziaria al notaio di compiti ed attività considerati come espressione del potere impositivo dello Stato [...] che incide profondamente sul modo di concepire l’assetto dei rapporti tra notaio ed Amministrazione finanziaria in ordine alla concreta applicazione della disciplina dell’imposta di registro (e delle imposte ipotecaria e catastale) [...] al notaio è attribuito il potere di determinare ed operare la tassazione degli atti da lui ricevuti o autenticati [...] vi è quindi una sorta di disaggregazione delle funzioni spettanti nell’ordinario sistema del testo unico dell’imposta di registro all’Amministrazione finanziaria, attribuendosi al notaio, rogante o autenticante l’atto da assoggettare a tassazione, la competenza a liquidare l’imposta principale e lasciando agli uffici finanziari le competenze in ordine alle imposte suppletive e complementari». (12) Come previsto dal comma primo dell’art. 10 del già menzionato decreto direttoriale n. 308 del 13 dicembre 2000 e, successivamente, precisato dai commi da 63 a 67 dell’art. 1 Legge n. 147 del 27 dicembre 2013 (Legge di stabilità 2014), nuovamente modificato per effetto del comma 142 dell’art. 1 Legge n. 124 del 4 agosto 2017. Modifica, quest’ultima che, ai sensi della lett. c), che ha sostituito il comma 65 dell’art. 1 L. n. 147/2013 ne ha precisato la separazione rispetto al conto personale del notaio stesso e l’impignorabilità, in modo da renderlo estraneo al regime patrimoniale del notaio e dei suoi familiari. In questo senso il vigente comma 65 dispone che «le somme depositate nel conto corrente di cui al comma 63 costituiscono patrimonio separato. Dette somme sono escluse dalla successione del notaio o altro pubblico ufficiale e dal suo regime patrimoniale della famiglia, sono impignorabili a richiesta di chiunque ed impignorabile è altresì il credito al pagamento o alla restituzione delle stesse». Il successivo comma 66 precisa «nei casi previsti dalle lettere a) e b) del comma 63, il notaio o altro pubblico ufficiale può disporre delle somme di cui si tratta solo per gli specifici impieghi per i quali gli sono state depositate, mantenendo di ciò idonea documentazione». Mentre il comma 66-bis autorizza il notaio a «recuperare dal conto dedicato, a seguito di redazione di apposito prospetto contabile, le somme di cui al comma 63 che abbia eventualmente anticipato con fondi propri, nonché le somme in esso versate diverse da quelle di cui al medesimo comma 63». Si veda S. Ghinassi, La gestione del conto dedicato relativamente ad imposte e altre anticipazioni, in AA. VV., Libro bianco sul rapporto cliente - notaio e sulla gestione dello studio notarile, Milano, 2019, 281 ss.


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d’imposta [...] in relazione agli atti a repertorio dallo stesso ricevuti o autenticati e soggetti a pubblicità immobiliare o commerciale» (13). In altri termini, l’Ufficio soddisfa il credito d’imposta di registro, sia pur limitatamente a quella principale, con addebito su un conto corrente notarile, cioè prelevando le somme necessarie per il pagamento dell’imposta direttamente dal conto corrente a tal fine aperto e comunicato dal notaio (14). Si è evidenziato, dunque, un ruolo notarile rilevante non solo rispetto alla soddisfazione del debito d’imposta ed alla richiesta di registrazione (15), ma anche alla determinazione dell’imposta principale stessa e, soprattutto, si è introdotto un vero e proprio ostacolo, che impedisce ai reali soggetti passivi dell’imposta il versamento ordinario della medesima, non essendo questi abilitati alla trasmissione telematica. Ne deriva che il notaio, riguardo all’imposta principale da egli stesso liquidata, appaia come il soggetto preliminarmente ed esclusivamente individuato dal legislatore come unico obbligato (16).

(13) Ai sensi delle lett. b) e c) del medesimo comma 63 L. n. 147/2013, come sostituito per effetto del già menzionato comma 142 L. 124/2017, dal 29 agosto 2017 il notaio deve, inoltre, depositare su tale conto corrente «ogni altra somma affidatagli e soggetta ad obbligo di annotazione nel registro delle somme e dei valori di cui alla Legge n. 64 del 22 gennaio 1934; l’intero prezzo o corrispettivo, ovvero il saldo degli stessi, se determinato in denaro, oltre alle somme destinate ad estinzione di gravami o spese non pagate o di altri oneri dovuti in occasione del ricevimento o dell’autenticazione di atti di trasferimento della proprietà o di trasferimento, costituzione o estinzione di altro diritto reale su immobili o aziende, se in tal senso richiesto da almeno una delle parti e conformemente all’incarico espressamente conferito». Non vi è obbligo di deposito, dunque, per le somme ricevute a titolo di onorari, diritti, accessori, rimborsi spese e contributi. Riguardo al c.d. «effetto segregativo» delle somme versate sul conto corrente in questione e rispetto al regime patrimoniale del notaio si rinvia a V. Tagliaferri, Il conto corrente dedicato e i conseguenti obblighi in capo al notaio, Studio n. 419-2017/C, approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 13 marzo 2018. Il comma 2-ter dell’art. 93-bis regola i controlli sul conto e sull’impiego delle somme depositate presso i notai in ragione delle funzioni esercitate. (14) Ovviamente se trova fondi sufficienti ed essendo a ciò autorizzato dal notaio medesimo. In questo senso il comma terzo dell’art. 10 decreto del 13 dicembre 2000 dispone che «l’Amministrazione finanziaria richiede il pagamento della maggiore imposta e degli eventuali interessi moratori e sanzioni dovuti ai sensi dell’art. 3-ter d.lgs. n. 463/1997, determinati dagli uffici in sede di controllo dell’autoliquidazione, o dispone il prelievo delle relative somme a fronte dell’assenso comunicato, per via telematica, dagli utenti». Riguardo a tale procedura si veda AA. VV., Il modello unico informatico, Milano, 2011, 90. (15) Richiesta che, in genere, deve essere presentata, tramite invio del modello telematico entro 20 gg. dalla data di formazione dell’atto se formato in Italia, ai sensi del primo comma dell’art. 13 T.u.r. (16) CTP Campobasso, sez. II, n. 74 del 3 marzo 2011, con commento adesivo di Scalinci C., in Giur. merito, n. 7-8/2011, 2008 ss. e con approfondimento critico di F. Sola, Solidarietà


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La registrazione telematica ha, dunque, reso l’intervento del notaio indispensabile non solo alla modalità stessa di registrazione, ma anche ai fini della liquidazione dell’imposta principale e lo ha identificato, quantomeno, come autore del suo versamento fisiologico (17). La circostanza che il versamento dell’imposta non presupponga più la liquidazione d’ufficio del tributo e, dunque, la richiesta dello stesso da parte dell’Ufficio (18), intercetta, infatti, la scelta del creditore fiscale in ordine al condebitore al quale rivolgere la richiesta del versamento. Il notaio, unico abilitato e incaricato del versamento dell’imposta principale di registro che liquida, è anche predestinato dalla normativa a ricevere la richiesta, per via telematica, della c.d. imposta principale postuma, esitata dall’intervento di controllo correttivo successivo eseguito dall’Ufficio. È opportuno rammentare, infatti, che la normativa assegna comunque all’Ufficio un compito di controllo (19), inteso a verificare la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento. Si dispone, infatti, «qualora, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore imposta, gli uffici

tributaria nell’assolvimento dell’imposta di registro: il pagamento al notaio rogante libera i contribuenti, in Dir. prat. trib., n. 1/2013, 53 ss. Questa giurisprudenza riteneva che già ai sensi della normativa di registro precedente si potesse identificare «il notaio quale unico soggetto che può effettuare la registrazione e pagare le imposte relative», traendo tale conclusione dal combinato disposto degli artt. 54 e 66 T.u.r., a norma dei quali, rispettivamente, già alla richiesta di registrazione deve corrispondere il versamento del tributo e, comunque, il notaio non può rilasciare l’originale, la copia o l’estratto dell’atto soggetto a registrazione, da esso formato o autenticato, prima che sia avvenuta la registrazione». In tal senso anche l’art. 78 Legge notarile. Si consideri, infatti, che ex art. 16 T.u.r., comma sesto, l’atto è gestito e restituito, ovviamente, sempre al notaio, in quanto richiedente la registrazione. (17) Rileva, in tal senso, P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, Studio n. 855-2014/T, approvato il 23 ottobre 2015, 4, come non siano, infatti, previsti alternativi sistemi di liquidazione o versamento dell’imposta principale. (18) Riguardo agli studi dottrinali antecedenti si segnalano, esemplificativamente, V. Uckmar, La legge di registro, vol. III, Padova, 1953, 35 ss. il quale già dubitava, tuttavia, della correttezza dell’inquadramento del notaio come condebitore solidale dei soggetti passivi d’imposta; A. Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1961, 457 ss.; R. Pomini, L’obbligazione tributaria del Notaio nella legge del registro, in Riv. Not., 1961, 456 ss. L’inquadramento nell’ambito della solidarietà d’imposta era stato proposto, in particolare da A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Padova, 1956, p.251 ss. (19) Come modificato ex art. 3-quater d.lgs. n. 463/1997 a sua volta introdotto dall’art. 1, comma quarto, d.lgs. n. 9 del 18 gennaio 2000. «gli uffici controllano la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte [autoliquidate dal notaio] e, aggiungendo, altresì, che «il pagamento è effettuato da parte degli stessi soggetti di cui all’art. 10, lett. b) Tur». Sarà necessario approfondire questi aspetti.


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notificano, anche per via telematica, entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione del modello unico informatico, apposito avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata» (20), imposta cui è invalso l’uso di attribuire, appunto, la qualifica di principale postuma (21). In altri termini, pur avendo onerato il notaio anche del compito di liquidare l’imposta in questione il legislatore ha, ovviamente, previsto che su tale liquidazione l’Ufficio possa esercitare il proprio controllo. All’esito del quale controllo, ove fosse necessario, l’Ufficio potrà notificare l’avviso integrativo che ne consegua. Destinatario della notifica di tale avviso sarà nuovamente e inevitabilmente il notaio, poiché si dispone che essa avvenga per via telematica (22). Al notaio, dunque, in simile frangente non è solo “possibile” che sia notificata la richiesta funzionale al versamento integrativo che ne consegua ma, al contrario, quest’ultima è per legge indirizzata. Ai sensi del medesimo art. 3-ter (23), peraltro, anche il conseguente «pagamento è effettuato, da parte dei soggetti di cui all’articolo 10, lett. b), del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131» (24). Circostanza quest’ultima che sembra nuovamente identificare il notaio quantomeno come il soggetto preliminarmente obbligato al versamento. Ne consegue, ancora, che gravano solo sul notaio medesimo le sanzioni amministrative per i casi di omessa presentazione della richiesta di registrazione, di cui all’art. 69 T.u.r. (25), ma anche interessi e sanzioni per i casi

(20) Cfr. art. 3-ter d.lgs. n. 463/1997. Avviso che, secondo attenta dottrina andrebbe opportunamente motivato. In tal senso G. Salanitro, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1247. (21) In tal senso P. Puri, Le imposte indirette sui trasferimenti, in A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 990 ss. (22) Nonostante la norma non precisi nulla riguardo al notificatario dell’avviso conseguente alle procedure di controllo sulle autoliquidazioni notarili, di cui all’art. 3-ter d.lgs. 463/1997, è abbastanza chiaro che questo sia destinato al notaio, non fosse altro perché eseguito con modalità telematiche alle quali, come osservato, è abilitato il solo pubblico ufficiale. Del resto la medesima disposizione dettaglia, invece, che il pagamento è compiuto dal notaio stesso entro 15 giorni dalla notifica. (23) Anche questo introdotto per effetto del comma quarto dell’art. 1 d.lgs. n. 9/2000. (24) Cfr. F. Sola, Solidarietà tributaria nell’assolvimento dell’imposta di registro: il pagamento al notaio rogante libera i contribuenti, cit., 76 e nota 48. (25) Cfr. P. Puri, La legittimazione del notaio responsabile d’imposta al rimborso dell’imposta erroneamente pagata, Studio n. 773-bis, approvato dal CNN, 23 luglio 1999, 2. Al riguardo anche CTR Lombardia, n. 1 del 31 gennaio 2005. L’art. 69 T.U.R. dispone che «chi omette la richiesta di registrazione degli atti e dei fatti rilevanti ai fini dell’applicazione


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di tardivo ed omesso versamento dell’imposta principale e postuma, non essendo questi imputabili alle parti contraenti, poiché queste ultime, riguardo all’imposta principale stessa, non sono né potrebbero essere, in base alle disposizioni testé rammentate, imputati dell’omissione o ritardo (26). Oltre a ciò è espressamente prevista anche la segnalazione, da parte degli uffici tributari e nei confronti degli organi di controllo del notariato, ai fini dell’adozione di provvedimenti disciplinari a carico dei notai, «nel caso di dolo o colpa grave nell’autoliquidazione delle imposte» (27). Di conseguenza, anche dopo la liquidazione e il versamento dell’imposta liquidata, il ruolo imposto al notaio non è più riducibile a quello di un semplice garante del versamento d’imposta. Al notaio, in ragione della funzione pubblica esercitata, è imposto un ruolo più complesso e assai più “collaborativo” e non meramente eventuale. Occorre, tuttavia, verificare se possa davvero sostenersi l’esclusione delle parti contraenti da questa prima fase del complesso rapporto d’imposta di registro. Esclusione che, ovviamente, impedirebbe si possa ancora identificare una forma di solidarietà tra queste ultime e il notaio. In tal senso, parte della dottrina, ha ritenuto che, specie rispetto al versamento dell’imposta principale in senso stretto autoliquidata dal notaio medesimo, la responsabilità del notaio non potrebbe più essere identificata come solidale rispetto al debito impositivo delle parti, perché mancherebbe del re-

dell’imposta, ovvero la presentazione delle denunce previste dall’art. 19 è punito con la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’imposta dovuta. Se la richiesta di registrazione è effettuata con ritardo non superiore a 30 giorni, si applica la sanzione amministrativa dal sessanta al centoventi per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 200». Al riguardo Cass. n. 2998/1997. (26) In questo senso prosegue l’art. 3-ter d.lgs. n. 463/1997, precisando come siano applicabili al solo notaio interessi e sanzioni conseguenti al mancato o ritardato versamento anche dell’imposta principale postuma, oggetto dell’avviso telematico integrativo, «il pagamento è effettuato, da parte dei soggetti di cui all’art. 10, lett. b), del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, entro 15 giorni dalla data della suindicata notifica; trascorso tale termine, sono dovuti gli interessi moratori computati dalla scadenza dell’ultimo giorno utile per la richiesta della registrazione e si applica la sanzione di cui all’art. 13 d.lgs. n. 471 del 18 dicembre 1997». Al riguardo A. Pischetola, Solidarietà tributaria tra notaio rogante e contribuente, nota a Cass. n. 4047/2007 cit., in Riv. Not., 2007, 381 ss., in particolare 383; V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, Roma, 2016, 36. (27) Cfr. ancora art. 3-ter d.lgs. n. 463/1997.


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quisito indefettibile della solidarietà atipica, consistente nella «alienità del debito [soddisfatto] da parte del responsabile» (28). In altri termini, a differenza di quanto avviene per un responsabile d’imposta, il notaio non sarebbe chiamato all’adempimento in relazione a fatti o situazioni esclusivamente riferibili alle parti contraenti, ma per fatto proprio (29), consistente nella registrazione dell’atto cui egli solo può provvedere e dal quale conseguirebbero gli obblighi di autoliquidazione e versamento dell’imposta (30). Obblighi che, a propria volta, trarrebbero fondamento dal dovere di non rifiutare il proprio ministero, salvo quanto previsto dall’art. 28 della Legge notarile (31). Muovendo da simili premesse le teorie “revisioniste”, tuttora oggetto di discussione, hanno sostenuto che l’introduzione del metodo di registrazione telematico, in base alle norme e per le ragioni or ora richiamate, abbia influito sulla natura giuridica della responsabilità notarile in esame, trasformandola definitivamente da solidale, sia pur atipica ma meramente accidentale e accessoria, a primaria se non addirittura sostanzialmente esclusiva. All’opposto la giurisprudenza e altra parte della dottrina (32) trattano dell’innovazione riguardante la registrazione telematica come di un adegua-

(28) In questo senso P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 5, afferma «il notaio non è obbligato in solido per fatti o situazioni esclusivamente riferibili ad altri, ma appunto per una sua funzione; funzione che imporrebbe una diversa ripartizione delle responsabilità che ne discendono. In altre parole se la solidarietà fra contribuente e responsabile può essere piena nelle ipotesi tradizionali di responsabilità d’imposta perché il secondo è fondamentalmente estraneo al debito e la funzione della norma è proprio quella di aggiungere un altro soggetto al debitore-contribuente, altrettanto non può dirsi nel caso di specie dove la posizione del notaio ed il suo ruolo stabilito dalla legge nell’adempimento del tributo crea una forma di solidarietà che non può esaurirsi nella creazione del vincolo solidale». (29) Al riguardo A. Parlato, Il responsabile d’imposta, Milano, 1962, 101 ss.; Id., Responsabilità d’imposta (voce), in Enc. giur. Trec., vol. XXVII, Roma, 1991; Id., Il responsabile ed il sostituto d’imposta, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, III, Padova, 1994, 393 ss. e, in specie, 413, laddove precisa come il responsabile d’imposta non sia estraneo al debito impositivo quanto, piuttosto, alla fattispecie imponibile dalla quale esso deriva. (30) Cfr. P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 6. (31) Del quale si tratta più avanti. (32) In particolare, G. Salanitro, Autoliquidazione dell’imposta di registro e limiti della responsabilità fiscale del notaio, commento sostanzialmente adesivo a Cass. Civ., sez. V, ord. n. 12257 del 17 maggio 2017, in Riv. dir. trib., supplemento on line del 13 giugno 2017, in cui si sostiene trattarsi di «meri elementi procedurali riguardanti le modalità di liquidazione e pagamento del tributo». Conclude per la necessità di continuare a ritenere il notaio un


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mento di ordine prevalentemente operativo, poiché concerne le modalità di esercizio di un obbligo preesistente e collegato a quello di registrazione, già in precedenza imposto al notaio, come osservato. Le nuove regole di determinazione e di versamento dell’imposta, in quest’ottica, sebbene non più fondate sull’intervento dell’Ufficio ma affidate e riferite anch’esse al notaio, non modificano la sostanza di una responsabilità solidale comunque già, per definizione, atipica (33). 2. Compatibilità della richiesta preliminare d’adempimento al notaio rispetto al modello solidaristico. – Occorre considerare se a fronte della preliminare identificazione del notaio, quale debitore tenuto all’adempimento, la responsabilità notarile possa ancora considerarsi solidale. Non è agevole risolvere simile dubbio. La soluzione, infatti, implica una scelta di campo in merito alle caratteristiche del modello di obbligazione solidaristico. Quest’ultimo può essere considerato incompatibile con qualsivoglia distinzione o graduazione tra obbligati, che interferisca con una piena libertà del creditore di scegliere a quale condebitore rivolgere la richiesta di pagamento. Il che comporterebbe, altresì, la possibilità di ogni condebitore di adempiere sua sponte, ancor prima di essere richiesto o costretto all’adempimento stesso. Muovendo da simile premessa le obbligazioni solidali passive dovrebbero caratterizzarsi per una costante e fondante equiordinazione della posizione di tutti i condebitori rispetto al creditore (34). Occorre ammettere che le attuali disposizioni in tema di responsabilità notarile per l’imposta principale di registro sono incompatibili rispetto a simile modello.

responsabile d’imposta anche M. Palmeri, La nuova liquidazione dell’imposta di registro e il ruolo del notaio, in Riv. dell’Osservatorio PGT (permanente della giustizia tributaria), n. 1/2017, 9 ss. (33) In questo senso, con l’ordinanza n. 17357 del 19 agosto 2020 la Cassazione ha ripetuto che il ricorso alla procedura telematica non ha modificato la natura giuridica della responsabilità del notaio per il pagamento delle imposte e che non costituisce neppure un’incompatibilità con quanto dispone l’art. 57 d.p.r. n. 131/1986, specificando che «si tratta di responsabilità che, per un verso, trova fondamento e ragione pratica nel ruolo di garanzia a lui [il notaio] assegnato dalla legge nel rafforzamento dei presupposti di satisfattività della pretesa impositiva, così da giustificare che egli intervenga nella sua qualità di responsabile d’imposta, come definita in via generale dall’art. 64, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600». (34) Pure se così fosse, si spiegherebbe e non avrebbe conseguenza alcuna la peculiare è già rilevata circostanza che l’art. 57 T.U.R. obblighi il notaio e coobblighi le parti contraenti, anziché disporre il contrario, poiché dovrebbe valere la regola dell’invarianza, secondo la quale cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia.


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È altresì vero, tuttavia, che dottrina e giurisprudenza considerano, invece, compatibile con la solidarietà dell’obbligazione la previsione legislativa di un beneficium ordinis, se non anche di un beneficium excussionis (35). In tal senso sarebbe interpretabile anche l’art. 1293 c.c., laddove afferma che «la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse». Esistono, peraltro, diversi casi in cui la responsabilità d’imposta dei condebitori atipici si presenta come sussidiaria rispetto a quella dei coobbligati principali (36). Rispetto a tali ipotesi, nella fattispecie, la peculiarità si ravvisa nella circostanza che sia il notaio ad essere costituto debitore senza beneficio e, dunque, preliminare destinatario della richiesta di adempimento, nonostante egli sia, invece, coobbligato atipico dipendente (37). Quanto detto, però, non sembra sufficiente a stravolgere i connotati della solidarietà. Tanto meno introduce una sorta di grottesca “dipendenza invertita”, per la quale obbligato principale sia il notaio e condebitori atipici le parti, pur se appare evidente che siano queste ultime a manifestare la capacità contributiva (38). Invero, il legislatore, aggiungendo ai soggetti passivi tipici

(35) È appena il caso di rammentare che l’uno assegna al condebitore il beneficio di essere escusso solo secondariamente rispetto ad altri condebitori principali e che, dunque, potrà essere aggredito solo alla mancata integrale soddisfazione del credito presso i condebitori preliminarmente escussi (in argomento, tra le tante, Cass. civ. nn. 1996/2019 e 13917/2018). L’altro, il beneficium ordinis, meno incisivamente, obbliga semplicemente il creditore a richiedere l’adempimento prima al condebitore che non goda del beneficio e, dunque, impedisce di richiederlo agli altri condebitori beneficiari se non dopo l’inadempimento del coobbligato che non ne benefici. A tal riguardo M. Fragali, Delle obbligazioni in solido, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, BolognaRoma, 1957, 266; G. Ferri, L’applicazione dell’art. 1957 c.c. alla fideiussione solidale, in Riv. dir. comm., 1974, II, 359 ss., escludono sia compatibile con la solidarietà il solo beneficio di escussione, richiamando in tal senso anche relazione di accompagnamento al codice civile, ma non anche quello di ordine. (36) Come accade nell’ipotesi prevista dall’art. 14 d.lgs. n. 472/1997, riguardo al cessionario o conferitario d’azienda. (37) In tal senso Cass. sez. trib., sentt. nn. 12755, 12756, 12757, 12758 e 12759 del 21 giugno 2016. (38) Insistendo sulla personalità e indipendenza dell’obbligazione notarile rispetto a quella d’imposta si perverrebbe al paradossale risultato di ritenere le parti condebitrici solidali atipiche rispetto all’obbligo notarile, discendente dalla registrazione dell’atto, piuttosto che obbligate in proprio per aver manifestato la capacità contributiva considerata dal tributo in esame. Senza peraltro pervenire ad una negazione della solidarietà delle parti stesse e, di conseguenza, ad un effetto liberatorio loro utile, cui sostanzialmente mirano le ricostruzioni revisioniste, come si osserva più avanti.


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dell’imposta un condebitore atipico, mira solo a renderlo garante dell’adempimento in chiave agevolativa per il Fisco (39). Non appare straordinario, dunque, che in questa ipotesi si formalizzi quella che è, comunque, la prassi ordinaria, cioè che l’adempimento sia richiesto preliminarmente proprio al responsabile d’imposta anziché agli effettivi soggetti passivi del tributo. In altri termini, è vero che nella fattispecie l’adempimento è, per legge, richiesto preliminarmente al notaio, sia riguardo all’imposta da questi liquidata che rispetto a quella oggetto dell’eventuale avviso di liquidazione integrativo notificato dall’Ufficio. Si ammette, altresì, che le parti non possano versare direttamente l’imposta principale al posto del notaio né ricevere la notifica dell’avviso prima del pubblico ufficiale. Queste circostanze, tuttavia, non impediscono di ritenere che si configuri una forma di responsabilità solidale, poiché identificano un beneficium ordinis (40). Al notaio è richiesto l’adempi-

(39) G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, 2017, 258 ss. Cass., sez. trib., n. 8304 del 4 aprile 2013 annotava, peraltro, come anche la Corte di Giustizia (n. 35/2010, causa C-35/2009), chiamata a pronunciarsi riguardo alla responsabilità solidale del pubblico ufficiale per l’adempimento di un’obbligazione tributaria, ne abbia riconosciuta la compatibilità rispetto all’art. 4, n. 1, lett. c) Direttiva n. 69/335/CE purché «non ne risulti esentato» il soggetto passivo del tributo. Cioè proprio a condizione che non si preveda liberazione delle parti che manifestano la capacità contributiva. (40) Di conseguenza, sebbene condizionata, deve considerarsi sostenibile tuttora la conclusione cui giungeva la Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 11029 dell’8 novembre 1997) già in passato. E cioè che «l’Amministrazione, per ottenere il pagamento dell’imposta, può rivolgersi indifferentemente a tutte le parti, senza che il venditore o l’acquirente possano invocare il beneficium excussionis» tra loro come anche riguardo al notaio. In tal senso Cass. n. 5016 del 12 marzo 2015 afferma che la notifica al notaio «vale solo a costituirlo quale responsabile d’imposta». Nondimeno, in conseguenza del beneficium occorre ridimensionare la «facoltà [dell’Amministrazione] di scegliere l’obbligato al quale rivolgersi», che la Cassazione affermava (Cass., sez. trib., sent. n. 4047 del 21 febbraio 2007, in Dir. Prat. Trib., 2007, 692) poiché andrebbe chiarito che le parti contraenti non possano essere sottoposte ad esecuzione forzata solo in virtù della notifica al notaio dell’avviso di liquidazione, senza che il Fisco sia tenuto a notificare loro alcunché. Infatti, sarà oggetto di separato approfondimento, come il diritto di contestazione in giudizio delle parti rispetto all’avviso di liquidazione notificato al solo notaio sia, per ciò stesso, discutibile e di difficile esercizio. Ragion per cui è opportuno che le parti, ove il notaio sia rimasto inadempiente, possano essere aggredite solo previa notifica di atti impositivi o riscossivi nei loro confronti. Riguardo la “facoltà di scelta” del creditore fiscale circa il soggetto al quale rivolgersi per primo per richiedere l’adempimento si vedano: M. Basilavecchia, Efficacia soggettiva dell’avviso di liquidazione, nota critica alla sentenza n. 4047/2007 cit., in G.T. Riv. giur. trib., 2007, 496 ss.; G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, in Rass. trib., n. 1/2013, 94 ss. e, in particolare, 111; G. Salanitro, Autoliquidazione dell’imposta di registro e limiti della responsabilità


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mento in via preliminare, ma non è previsto che il Fisco debba verificare l’incapienza o insufficienza patrimoniale del notaio prima di essere autorizzato ad agire presso gli altri condebitori (41). Semplicemente ove il pubblico ufficiale non adempia si può ritenere che il creditore possa rivolgersi alle altre parti tenute all’adempimento dell’obbligo d’imposta. In caso d’inadempimento del notaio, dunque, i condebitori tornano in una situazione di piena e sostanziale solidarietà e, di conseguenza, il Fisco sarà libero di agire nei confronti di ciascuno, senza alcun ulteriore vincolo (42). In base alle norme in atto vigenti non si può affermare, invece, che sussista un onere di preventiva necessaria escussione da esercitarsi a carico del notaio (43). L’addebito sul conto, infatti, sembra configurarsi come una specifica e “ordinaria” modalità di versamen-

fiscale del notaio, cit., 1251. (41) Nel caso in cui il mancato addebito si verifichi anche solo relativamente all’imposta autoliquidata dal notaio stesso, il Fisco sembra poter comunque notificare non solo al notaio ma anche alle altre parti contraenti la cartella di pagamento. Se anche si ritenesse che al mancato versamento dell’imposta autoliquidata debba conseguire necessariamente, la notifica dell’avviso telematico, di cui all’art. 3-ter, non sarebbe ancora la prova di un onere di preventiva escussione del notaio, proprio perché si tratterebbe della notifica di atto impositivo e non riscossivo. La circostanza, peraltro, si ritiene assai discutibile, perché la littera legis della norma in questione condiziona la notifica dell’avviso telematico all’emersione di ulteriore imposta che sia necessario integrare e non al mancato versamento di quella liquidata. A tal proposito il d.l. n. 124/2019, collegato alla legge di Bilancio 2020, ha chiarito che nella circostanza, non molto differente, in cui si verifichi omissione, insufficienza o tardivo versamento dell’imposta di bollo (sulle fatture elettroniche inviate on line con il sistema di interscambio) l’A.F. deve comunicare, telematicamente, l’ammontare dell’imposta, degli interessi e delle sanzioni per il tardivo versamento. Di conseguenza, solo se il contribuente, destinatario della comunicazione telematica, non effettua il versamento conseguente, entro i 15 gg. concessi, si avrà l’iscrizione a ruolo delle somme e la conseguente possibile notifica della cartella. Non sarebbe, dunque, ammessa una diretta iscrizione a ruolo delle somme, in mancanza della comunicazione telematica, ma dopo questa non sarebbe necessario altro. Nondimeno, ove il creditore fiscale intendesse procedere presso gli altri condebitori, potrebbe ritenersi utile una preliminare notifica di un atto impositivo nei confronti di costoro. Riguardo alla necessità di notifica dell’avviso telematico anche nei casi di mancato versamento della somma autoliquidata, tramite il c/c dedicato, o persino di errata compensazione notarile sulle medesima autoliquidate si veda AA. VV., Il modello unico informatico, cit., 270. (42) In tal senso Cass. n. 29159/2018 ha ribadito che alle parti «è legittimamente notificato, in caso d’inadempimento [da parte del notaio], l’avviso di liquidazione». (43) In tal senso F. Sola, Solidarietà tributaria nell’assolvimento dell’imposta di registro: il pagamento al notaio rogante libera i contribuenti, cit., 70, afferma «quella disciplinata dal T.u.r. è infatti una solidarietà dipendente, ma non sussidiaria, potendo il Fisco richiedere l’adempimento dell’intero indifferentemente al responsabile d’imposta o ai contribuenti».


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to “diretto” dell’imposta, piuttosto che come una forma di esperimento d’esecuzione forzata sul patrimonio del notaio. Conferma ne sia che in questa fase “preliminare” il Fisco verifica solo la capienza della provvista depositata sul conto corrente dedicato, che costituisce, un patrimonio separato rispetto a quello notarile, non essendo obbligato ad agire in via di escussione forzata nei confronti del notaio (44). Ridotta la questione in simili termini si ridimensiona, pur senza negarla, la portata innovativa della “rivoluzione telematica”. Secondo il diritto vivente della giurisprudenza si tratterebbe, addirittura, di una mera procedimentalizzazione (45) che, accanto e in conseguenza del già previsto obbligo di registrazione imposto al notaio, non incidendo sostanzialmente sulla fase riscossiva (46), non ha inciso sulla natura giuridica del diverso, sebbene conseguente, obbligo di pagamento dell’imposta (47). Obbligo riguardo al quale ha introdotto solo un preciso ordine nelle richieste di adempimento, nonché nuove modalità di versamento, tendenti palesemente ad agevolare ulteriormente la riscossione da parte del Fisco, ma che, non sostanziandosi neppure in un obbligo di preventiva esecuzione forzata del notaio, rimangono assolutamente compatibili con la solidarietà ancora individuata dalla normativa vigente (48).

(44) Il preliminare tentativo di addebito sul conto corrente dedicato, aperto appositamente dal notaio, non si può equiparare ad un tentativo di escussione infruttuoso, perché la responsabilità notarile, in base al vigente regime di solidarietà, non appare essere limitata a questi fondi. (45) In tal senso, in dottrina, M. Palmeri, La nuova liquidazione dell’imposta di registro e il ruolo del notaio, cit., 10, identifica l’obiettivo della “rivoluzione telematica” nella volontà legislativa di ridurre i compiti dell’Ufficio onde velocizzarne e semplificarne l’azione. Sul punto anche S. Ghinassi, La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute sull’atto rogato, in Riv. dir. trib., n. 6/2016, 731 ss. (46) Riguardo alla quale si devono, invece, valutare i modi del coinvolgimento dei coobbligati, secondo la dottrina. Cfr. A. Carinci, La riscossione nei confronti del coobbligato, tra ruolo e nuovo accertamento esecutivo, in A. Carinci - M. Basilavecchia – S. Cannizzaro, La riscossione dei tributi, Milano, 2011, 146 ss.; D. Coppa, Gli obblighi fiscali dei terzi, Padova, 1990, p 233 ss. (47) Come in passato, dunque, «dalla fattispecie emergono due obblighi: il primo, formale, di richiedere la registrazione ricade sul solo notaio, il secondo, sostanziale, relativo al pagamento dell’imposta ricade sia sulle parti che sul notaio», come rileva Casu G., Il deposito delle spese dell’atto e gli obblighi fiscali del notaio, in G. Casu - G. Sicchiero, La legge notarile commentata, Milano, 2010, 205, nota 116. (48) Cfr. R. Lupi, Diritto tributario. Oggetto economico e metodo giuridico della teoria della tassazione analitico-aziendale, Milano, 2009, 250.


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Questa versione è palesemente riduttiva, considerato che al notaio sono imposti con la c.d. autoliquidazione obblighi prima gravanti sull’Ufficio che non possono ridursi a una “mera procedimentalizzazione” e, tuttavia, dal punto di vista della natura giuridica della responsabilità di versamento appare ancora la più fondata. Invero, le tesi che rinnegano quest’inquadramento, se pur prendono abbrivio dal nuovo modello di registrazione telematica, traggono fondamento anche dalle particolari garanzie che il legislatore concede al notaio, mirando ad uno scopo che, per quanto virtuoso, le condiziona pesantemente. Lo scopo, infatti, è quello di limitare la responsabilità delle parti contraenti, onde tenerle indenni dal rischio di un duplice esborso nel caso di mancato versamento dell’imposta da parte del notaio cui abbiano già versato la provvista. Esenzione che, invece, non è possibile sostenere ove si confermi la responsabilità solidale delle parti per l’imposta principale. Di conseguenza, tali teorie si collocano in una fase patologica che presume una condotta illecita da parte del notaio. Eventualità che il legislatore effettivamente a lungo non ha tenuto in debita considerazione, ma che deve essere ritenuta, comunque, residuale. Merita, tuttavia, far cenno preliminarmente al limite oggettivo della responsabilità notarile ed alle garanzie riconosciute al notaio allo scopo di neutralizzare l’onere economico conseguente all’eventuale versamento dell’imposta di registro, verificando anche rispetto a queste la loro compatibilità con il modello solidaristico. 3. Il limite della responsabilità notarile al versamento della sola imposta principale. – Prima di tutto, poiché se ne è già fatto cenno, è fondamentale chiarire che la responsabilità del notaio non è limitata alle sole somme depositate sul conto dedicato sul quale, peraltro, non è detto siano depositati i soli fondi che costituiscono la provvista necessaria al versamento del tributo in esame (49). Si è anticipato che la responsabilità del notaio è stata circoscritta dal legislatore alla sola imposta principale (50). A quest’ultimo riguardo, va precisato

(49) Nella prassi, le parti versano in unica soluzione e indistintamente al notaio somme dovute a vario titolo, unitamente a quelle dovute a titolo d’imposta. Cfr. G. Salanitro, Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia, in Riv. dir. trib., n. 3/2020. (50) In tema P. Puri, Sulla corretta qualificazione in termini di imposta principale


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che, ai sensi del comma secondo dell’art. 57 T.U.R. «la responsabilità dei pubblici ufficiali non si estende al pagamento delle imposte complementari e suppletive». Ai sensi dell’art. 42 T.U.R., tuttavia, l’imposta principale non è solo quella applicata al momento della registrazione, ma anche «quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica». È, invece, esclusa la responsabilità notarile per il versamento dell’imposta suppletiva, che lo stesso art. 42 T.U.R. identifica come «l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio»; allo stesso modo è esclusa la responsabilità del notaio per l’imposta di registro complementare, cioè «l’imposta applicata in ogni altro caso». A norma dell’art. 3-ter d.lgs. 463/1997, si è osservato, come, in conseguenza dell’aver onerato della liquidazione dell’imposta il notaio, agli uffici sia stato assegnato il compito di controllare la regolarità di tale liquidazione e del versamento conseguente. Nel caso in cui dal controllo «risulti dovuta una maggiore imposta» al notaio sarà, dunque, notificato in via telematica l’apposito «avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata». Quest’ultima norma, tuttavia, delimita l’oggetto dell’avviso integrativo in questione al controllo effettuato dall’Ufficio solo «sulla base degli elementi desumibili dall’atto». Di conseguenza, dal combinato delle due norme discende che l’oggetto dell’avviso telematico, notificato al notaio, può essere solo l’errore od omissione di liquidazione commesso dal notaio e ictu oculi desumibile dall’atto stesso sottoposto a registrazione (51). Questa conclusione, se interpretata restrittivamente, conduce a ritenere possibile oggetto dell’avviso telematico solo la correzione di errori materiali e di calcolo (52).

o suppletiva richiesta a fronte dell’errore o omissione in sede di controllo degli importi autoliquidati, Studio tributario, n. 126-2011/T, approvato il 14 dicembre 2011, in Studi e materiali, n, 2/2012, 569 ss. (51) Cfr. Cass. n. Cass., sez. V, n. 15450 del 7 giugno 2019, in Riv. dir. trib. on line del 18 settembre 2019 «ogniqualvolta la pretesa impositiva non trovi riscontro cartolare ed ictu oculi, ma richieda l’accesso ad elementi extratestuali o anche l’esperimento di particolari accertamenti fattuali o valutazioni giuridico-interpretative, l’amministrazione finanziaria non potrà procedere alla notificazione al notaio dell’avviso di liquidazione integrativo, dovendo invece emettere avviso di accertamento per un’imposta che avrà necessariamente natura complementare nei confronti delle parti contraenti». (52) Al riguardo si rinvia a P. Puri, Le imposte indirette sui trasferimenti, in A. Fantozzi, Corso di diritto tributario, cit., 990. Assonotai Campania, Notiziario telematico ottobre 2002, aveva tentato di delimitare l’oggetto dell’avviso telematico alla sola «correzione di errori o omissioni emergenti ictu oculi dall’atto e commessi in sede di autoliquidazione»,


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Si è posto, tuttavia, il dubbio riguardo alla latitudine da conferire al criterio dell’errore desumibile dall’atto. In particolare, se la correzione dell’Ufficio, oggetto dell’avviso telematico, possa riguardare anche errori di qualificazione giuridica e non solo errori materiali, posto che, ai fini liquidatori, anche la qualificazione giuridica dei fatti e atti sottoposti a registrazione assume rilevanza e anche questo sarebbe un errore commesso dal notaio in sede di c.d. autoliquidazione e, entro certi limiti, desumibile dall’atto (53). Il notaio è il vero responsabile della liquidazione dell’imposta principale che, per tal verso, non sarebbe da definire autoliquidazione, poiché eseguita dal pubblico ufficiale piuttosto che dai reali soggetti passivi del tributo. Occorre osservare, tuttavia, che il notaio nell’effettuare la liquidazione non deve eseguire indagini e si attiene a quanto dichiarato dai contraenti e documentato, anche al fine di qualificare giuridicamente i fatti (54). Di tal che nel liquidare l’imposta e richiedere la provvista, sebbene il notaio si baserà sulla propria esegesi dell’atto, considererà le dichiarazioni e patti voluti dalle parti contraenti (55). Laddove, per esempio, le parti ritenessero spetti loro una qualche

osservando che «qualora si attribuissero all’Amministrazione finanziaria poteri di controllo sull’autoliquidazione non strettamente limitati ad una mera regolarità formale della quantificazione della somma dovuta, si finirebbe con il vanificare ingiustificatamente l’obiettivo perseguito dal legislatore con l’adempimento unico, aggravando di fatto il meccanismo applicativo dell’imposta di registro con la duplicazione (in capo al notaio ed al Fisco) della competenza a liquidare l’imposta principale». (53) In tal senso F. Sola, Solidarietà tributaria nell’assolvimento dell’imposta di registro: il pagamento al notaio rogante libera i contribuenti, cit., 75 e nota 44, osserva che il controllo dell’Ufficio in questione «pur non estendendosi fino all’effettuazione di rettifiche di valore (che sono riservate all’attività di accertamento), non può nemmeno essere limitato ai soli errori materiali o di calcolo, dovendo riguardare anche la qualificazione dell’atto ai sensi dell’art. 20 TUR». (54) G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, cit., 105 e nota 59. (55) Ai sensi dell’art. 51, co. 1 T.U.R. si dispone che «si assume come valore dei beni o dei diritti, salvo il disposto dei commi successivi, quello dichiarato dalle parti nell’atto e, in mancanza o se superiore, il corrispettivo pattuito per l’intera durata del contratto». Ai sensi del successivo art. 52 spetta all’Ufficio «se ritiene che i beni o i diritti di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 51 hanno un valore venale superiore al valore dichiarato o al corrispettivo pattuito, provvedere con lo stesso atto alla rettifica e alla liquidazione della maggiore imposta, con gli interessi e le sanzioni». Di conseguenza, ex art. 76 co. 2, la richiesta di questo ulteriore pagamento «deve essere fatta valere con apposito atto di imposizione tributaria entro il termine di decadenza di tre anni, decorrente - in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 2964 c.c. - dalla data della registrazione, a partire dalla quale l’ufficio del registro ha la facoltà


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agevolazione fiscale il notaio non potrebbe esentarsi dal richiederne l’applicazione (56). Sulla questione, tuttavia, occorre valutare l’impatto dell’art. 20 T.U.R., il quale disponeva che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». Norma che è stata posta dalla giurisprudenza non solo al fondamento di un potere di riqualificazione dell’Ufficio in chiave sostanzialistica e d’irrilevanza del nomen iuris attribuito dalle parti, ma anche della «necessaria considerazione di elementi esterni all’atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione» (57).

di contestare al contribuente la perdita del trattamento agevolato» (Cass. n. 2403/2017, cit.). (56) Di conseguenza, anche la giurisprudenza - Cass. ord. n. 12257/2017, cit., commentata da G. Salanitro, Autoliquidazione dell’imposta di registro e limiti della responsabilità fiscale del notaio, e sent. n. 2400 del 31 gennaio 2017, ha escluso la responsabilità notarile possa essere fondata sull’accertamento dell’inapplicabilità di agevolazione fiscale. Annota la stessa Cassazione «l’ufficio può porre a base della liquidazione notificata al notaio solo elementi desumibili dall’atto, così come riconosciuto dalla Circolare n. 6/E del 5 febbraio 2003 (talvolta disattesa nella prassi, ma richiamata anche dalla Cir. n. 18/E del 29/5/2013), per la quale l’Agenzia non può fare riferimento a elementi esterni all’atto, neanche se già in suo possesso, e può censurare esclusivamente errori e omissioni sulla base di elementi univoci e oggettivi, senza sconfinare in delicate valutazioni o apprezzamenti sulla reale portata degli atti registrati o, comunque, pervenire a conclusioni sorrette da interpretazioni non univoche o che necessitino di qualsiasi attività istruttoria». La stessa sentenza precisa la natura complementare dell’imposta discendente dall’insussistenza dei presupporti per l’applicazione dell’agevolazione. Cfr. Cass., sez. V, n. 15450/2019, cit., che specifica debba trattarsi di errori/omissioni «oggettivi, univoci ed immediatamente desumibili dall’atto stesso». Posizione ribadita dalla Suprema Corte nell’ord. n. 17357/2020. (57) In questi termini ancora Cass., sez. trib., ord. n. 23549 del 23 settembre 2019, la quale, addirittura, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della nuova versione dell’art. 20, successiva alla riformulazione del 2017, per presunta violazione degli artt. 53 e 3 Cost., proprio perché impedisce di prendere in considerazione ai fini riqualificatori elementi tratti da atti diversi, ma collegati a quello registrato. In particolare, la Cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, per contrasto con l’art. 53 Cost., in quanto «l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva»; per lesione dell’art. 3 Cost., poiché «a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possano corrispondere imposizioni di diversa entità […] a seconda che […] le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale piuttosto che con più atti collegati», senza che questo eventuale collegamento possa, evidentemente, considerarsi un criterio legittimo di differenziazione tra manifestazioni di capacità contributiva. La Cassazione, peraltro, riteneva sotto quest’aspetto rilevante anche la circostanza che da ultimo l’intervento legislativo abbia


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Oggi, invece, la disposizione in questione sancisce che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati» (58). La revisione subita dalla norma nel 2017, pur se intesa ad impedire che ai fini riqualificatori l’Ufficio giunga a sfruttare elementi extracontrattuali o desumibili da altri atti e contratti presuntivamente collegati (59), ha comunque lasciato all’Ufficio la possibilità d’intervenire sulla qualificazione giuridica dei fatti, purché questa conclusione sia possibile desumere in base ad elementi dell’atto stesso (60).

altresì qualificato la modifica intervenuta sull’art. 20 come intervento di interpretazione autentica e, dunque, assegnato alla stessa portata retroattiva. A tal riguardo si rinvia alla nota seguire. (58) Come modificato dalla lett. a), comma 87, dell’art. 1 L. n. 205 del 27 dicembre 2017. Intervento che in base all’art. 1, comma 1084, L. n. 145 del 30 dicembre 2018, il legislatore stesso ha chiarito «costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131», onde contrastare l’esegesi della Cassazione (nn. 2007/2018; 4407/2018; 5748/2018; 7637/2018; 8619/2018; 13610/2018) che ne affermava, invece, la natura innovativa, «in quanto introduce limiti all’attività di riqualificazione della fattispecie precedentemente non previsti». Sul punto, G. Corasaniti, Il dibattito sulla natura e funzione dell’art. 20 T.U.R. tra evoluzioni normative e consolidati orientamenti giurisprudenziali, nota a Cass., sez. trib., ord. n. 362 del 9 gennaio 2019, in G.T. riv. giur. trib., n. 3/2019, 216, nell’ambito di una valutazione critica della giurisprudenza della Cassazione, annota come l’intervento in questione sia stato eseguito «al fine di circoscrivere ulteriormente l’ambito applicativo dell’art. 20 e, pertanto, di segnare in modo chiaro il confine tra il potere di (corretta) qualificazione del contenuto giuridico dell’atto registrato (art. 20) e il (diverso) potere di contestazione delle condotte abusive in tale settore impositivo (art. 10-bis, Legge n. 212/2000)». In argomento si vedano A. Lomonaco, Considerazioni sull’articolo 20 del Testo Unico dell’imposta di registro dopo la legge di bilancio 2018, Studio n. 17-2018/T, approvato dalla Commissione Studi Tributari il 22/02/2018; G. Fransoni, La Cassazione e l’art. 20 del Testo unico dell’imposta di registro: fra scelte di campo, moniti e contorsioni argomentative, in Riv. dir. trib. on line del 30 gennaio 2018; A. Carinci, L’efficacia temporale del nuovo art. 20 TUR, in Il Fisco, n.1/2018, 818 ss. (59) Come, invece, ritenuto dalla Cassazione (nn. 11666 dell’11 maggio 2017; 6758 del 15 marzo 2017; 15319 del 19 giugno 2013) e dall’Agenzia delle entrate (Ris. n. 98/E del 26 luglio 2017). In contrasto con quest’esegesi, tuttavia, già Cass. n. 2054 del 27 gennaio 2017 aveva affermato che la riqualificazione da parte dell’Ufficio non avrebbe potuto «travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici». Contrasto che ha condotto il legislatore all’intervento di cui infra proprio nello stesso anno 2017 e in adesione a quest’ultimo e decisamente minoritario orientamento della Cassazione, del quale, non a caso, si riferiva nella Relazione illustrativa. (60) La contestazione di condotte più complesse, desumibili da collegamenti negoziali,


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L’intervento effettuato sulla disposizione in questione, dunque, ripropone la condizione della diretta desumibilità dall’atto già posta dall’art. 3-ter d.lgs. 463/1997, ma ammette comunque riqualificazioni non meramente correttive che sembra trascendano i limiti dell’avviso di liquidazione notificabile al notaio (61). Proprio in funzione di questo “avvicinamento” terminologico, tutta-

andrebbe, oggi, contestata, sempre nei confronti delle parti, quale abuso del diritto tributario, ex art. 10 - bis L. n. 212/2000. Al riguardo, già, V. Mastroiacovo, L’abuso del diritto o elusione in materia tributaria: prime note nella prospettiva della funzione notarile, Studio n. 151-2015/T, approvato il 23 ottobre 2015. Sulle oscillazione giurisprudenziali riguardo al rapporto tra abuso del diritto e art. 20 T.U.R. si rinvia, altresì, a Cass. n. 23549/2019, cit. A tal riguardo la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158 del 21 luglio 2020, chiamata a pronunciarsi proprio in seguito alla ordinanza di rimessione n. 23549/2019, ha affermato la ragionevolezza dell’intervento legislativo che ha affermato la natura di «regola meramente interpretativa e non antielusiva» dell’art. 20, precisando che l’eventuale indebito vantaggio tratto da più complesse operazioni economiche andrebbe contrastato, invece, quale abuso del diritto tributario. In tal senso, condivisibilmente, la Corte Costituzionale ha osservato come l’interpretazione dell’art. 20 che si era andata consolidando nell’orientamento della Suprema Corte e intesa a consentire la contestazione anche di collegamenti negoziali non solo non è coerente con l’origine storica dell’imposta di registro quale imposta d’atto, ma «provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000. Infatti, consentirebbe all’Amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di “indebiti” vantaggi fiscali e di operazioni “prive di sostanza economica”, precludendo, di fatto, al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea)». L’argomento è stato ripreso dalla stessa Agenzia delle entrate nel rispondere all’interpello n. 372 del 17 settembre 2020, che ribadisce come l’imposta, ai sensi dell’art. 20, si applichi in base alla intrinseca natura e agli effetti dell’atto presentato ai fini della registrazione in base agli elementi desumibili dall’atto stesso, prescindendo dal titolo e/o dalla forma apparente, ma senza ricorrere ad elementi extra testuali o desunti da atti collegati. (61) A tal riguardo è opportuno richiamare nuovamente la recente sentenza della Corte Cost., n. 158/2020, la quale precisa che l’art. 20 consente «in ogni caso di individuare la reale operazione economica perseguita dalle parti, in ragione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma» e, anche per questo, è compatibile con gli artt. 3 e 53 Cost. e anzi «il criterio di qualificazione e di sussunzione in via interpretativa risulta omogeneo a quello della tipizzazione, secondo le regole del testo unico e in ragione degli effetti giuridici dei singoli atti distintamente individuati dal legislatore nelle relative voci di tariffa ad esso allegata». Sebbene, la stessa Corte Costituzionale, concludendo dunque per l’infondatezza delle questioni di legittimità sollevate, abbia chiosato «resta ovviamente riservato alla discrezionalità del legislatore provvedere – compatibilmente con le coordinate stabilite dal diritto dell’Unione europea – a un eventuale aggiornamento della disciplina dell’imposta di registro che tenga conto della complessità delle moderne tecniche contrattuali e dell’attuale stato di evoluzione tecnologica, con riguardo, in particolare, sia al sistema di registrazione degli atti notarili, sia a quello di gestione della documentazione da parte degli uffici amministrativi finanziari».


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via, potrebbe sfumare la differenza che la stessa giurisprudenza ha sempre affermato esistere, anche in termini oggettivi, tra possibile oggetto dell’imposta principale integrativa e delle imposte complementare o suppletiva. Differenza che, prima dell’intervento di interpretazione autentica, in virtù della chiara delimitazione operata dall’art. 3 - ter d.lgs. 463/1997 e della portata assai più vasta assegnata all’art. 20 T.U.R., appariva più chiara e che, di conseguenza, era sempre stata affermata (62). Resta, dunque, da rilevare che l’art. 20, anche nell’attuale versione, non dovrebbe essere riferibile all’avviso di liquidazione notificato telematicamente al notaio, e vada, invece, riferito agli interventi consentiti all’Ufficio per la determinazione dell’imposta complementare e suppletiva, che può essere richiesta solo alle parti contraenti (63). La stessa giurisprudenza ha considerato l’imposta principale postuma un nuovo genere autonomo, non più identificabile con le categorie indicate dall’art. 42 T.U.R. alle quali si riferisce l’art. 20 (64). Di conseguenza, riguardo a quest’ultima, il limite oggettivo dovrebbe

(62) Cass. n. 10215 del 18 maggio 2016, prima dell’intervento di interpretazione autentica, pur ritenendo l’ammissibilità dell’avviso di liquidazione integrativo dell’imposta principale anche «sulla base di una determinata interpretazione del contratto», precisava che questa, nella fattispecie, potesse essere «condotta esclusivamente sugli elementi da quest’ultimo desumibili e, segnatamente, dalla tipologia e destinazione economica unitaria dei beni trasferiti. Assunta quale vera e propria evidenza contrattuale, in quanto risultante dalla ricostruzione delle clausole negoziali e dalla chiara lettura delle espressioni usate dalle parti». Nonostante questa stessa giurisprudenza, ritenesse l’art. 20 T.U.R. «non già una mera opzione interpretativa tra tante, ma un preciso vincolo per l’interprete; chiamato in ogni caso a privilegiare il dato giuridico reale dell’effettiva causa negoziale e degli obiettivi effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione, a scapito del relativo assetto nominale o cartolare», si ammetteva, dunque, che non potessero contestarsi al notaio riqualificazioni ottenute da elementi extracontrattuali. In ogni caso, cioè, la contestazione di elementi non desumibili dall’atto, pur se allora ammessa dall’art. 20, avrebbe implicato, invece, la necessità di contestazione nei confronti delle parti contraenti. (63) Cfr. G. Salanitro, Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia, § 3, osserva come l’ambito operativo dell’interpretazione autentica offerta dall’art. 20 sia l’art. 42, che non coincide con quello delimitato dal controllo liquidatorio di cui all’art. 3 - ter d.lgs. 463/1997. In tal senso anche A. Pischetola, Natura dell’imposta di registro richiesta dall’A.F. a seguito di riqualificazione negoziale, intervento al Seminario di aggiornamento professionale di Perugia del 18 e 19 gennaio 2013. (64) Al riguardo E.M. Bartolazzi Menchetti, Il ruolo del notaio nell’autoliquidazione delle imposte sui trasferimenti, commento a Cass., sez. trib., sent. n. 13626 del 30 maggio 2018, in GT – Riv. giur. trib., n. 11/2018, 851 ss.; B. Denora, Adempimento unico – c.d. esito di pagamento negativo – conseguenze in tema di imposte e sanzioni, in Studi e materiali, 2009, 860 ss.


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continuare ad intendersi più stringente (65). Se ne dovrebbe dedurre che non possa essere oggetto dell’avviso in questione l’accertamento fondato su indagini istruttorie complesse e valutazioni argomentative, frutto d’interventi articolati intesi a correggere in senso sostanziale la qualificazione dell’atto sottoposto a registrazione, in funzione della sua differente interpretazione da parte dell’Ufficio (66). Questi avvisi d’imposta, trascendendo i limiti dell’imposta principale, dovrebbero intendersi, infatti, richieste d’imposta complementare, destinabili solo alle parti dell’atto sottoposto a registrazione (67). Quest’esegesi restrittiva è avallata dalla Cassazione che, spiegando la ratio della delimitazione della responsabilità notarile alla sola imposta principale, rileva come questa previsione abbia lo scopo di «evitare che il notaio possa essere

(65) Peraltro conformemente alla natura meramente liquidatoria del controllo e non di accertamento in senso proprio. Al riguardo R. Rinaldi, Profili ricostruttivi della liquidazione d’imposta, Trieste, 2000, 99, Montanari F., Autoliquidazione e registrazione telematica, in L. Del Federico - F. Montanari, Liquidazione del tributo (voce), in Enc. Dir. Trec. on line. In tal senso A. Pischetola, Natura dell’imposta di registro richiesta dall’A.F. a seguito di riqualificazione negoziale, cit., osserva «la riqualificazione infatti non è evidentemente attività diretta solo a correggere errori od omissioni, ma piuttosto rappresenta il frutto di una valutazione argomentativa logico-giuridica che non può fondarsi sugli elementi desumibili dall’atto (i soli cui ex art. 3-ter si debba prestare attenzione per stabilire la debenza di una maggiore imposta dovuta)». Salvo, come avverte lo stesso autore da ultimo citato, la qualificazione non emerga come evidentemente errata dall’atto stesso, che esemplifica nell’ipotesi di un atto registrato quale divisione che mostra, invece, tutti gli elementi della permuta. (66) Cass. n. 2403 del 31 gennaio 2017, con commento di B. Denora, Adempimento unico: il notaio paga l’imposta di registro a titolo di integrazione?, in Riv. dir. trib., on line, del 6 marzo 2017, infatti, pur precisando che il controllo sull’autoliquidazione non è esclusivamente formale, ha ritenuto complementare l’imposta richiesta «all’esito di una valutazione di natura squisitamente giuridica che comporta una sorta di mediazione culturale che costituisce un filtro rispetto alla mera rilevabilità, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, da intendersi come errori o omissioni d’immediata percettibilità, ovvero elementi di natura oggettiva di indiscutibile portata». Al riguardo ancora G. Salanitro, Due recenti interventi della Cassazione in tema di notaio e imposta di registro, in Riv. dir. trib. on line, settembre 2019. In tale senso già Cass. n. 14433 del 25 giugno 2014 la quale afferma l’Ufficio con l’avviso di liquidazione notificato al notaio non abbia «il potere di rettificare l’autoliquidazione, in senso sostanziale, sulla base di una diversa interpretazione dell’atto atteso che, a tal fine, è necessario emettere un autonomo atto di accertamento». (67) In particolare l’avviso scaturito da indagini valutative approfondite potrebbe identificare la richiesta d’imposta complementare, «proprio perché non è diretto a correggere né errori od omissioni commessi in sede di autoliquidazione né errori od omissioni dell’ufficio stesso». Così ancora A. Pischetola, op. loc. ult. cit., che rimanda, altresì, alla Nota n. 84127 del 18 maggio 2007 della Direzione centrale dell’Agenzia delle entrate, che definiva complementare l’imposta oggetto dell’accertamento del reale effetto giuridico collegato all’atto registrato.


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direttamente inciso (seppur con potestà di rivalsa) per importi indeterminati nell’an e nel quantum, che non trovino copertura nella precostituzione della necessaria provvista presso le parti» (68). Scopo questo che sarebbe destinato a fallire completamente ove si ammettesse la possibilità di notificare al notaio avvisi telematici fondati su interventi ampiamente riqualificatori da parte del Fisco, poiché in questi casi an e quantum debeatur resterebbero indeterminati e in buona misura anche indeterminabili per il notaio. A tutto voler concedere, comunque, almeno resta ormai certamente escluso che l’imposta principale postuma richiesta al notaio possa discendere da interventi riqualificatori derivanti da elementi esterni all’atto e desumibili da altri ad esso collegati (69). Anche riguardo all’importanza del limite temporale, entro il quale è possibile notificare l’avviso al notaio non mancano dubbi, alimentati dalla giurisprudenza. Esiste una tesi giurisprudenziale che ritiene, infatti, non perentorio il termine concesso all’Ufficio fiscale, ai fini della notifica telematica dell’avviso al notaio, considerato che la disposizione citata non lo prevede come tale (70). Il termine in questione (71), anche se fosse considerato perentorio (72), non sarebbe comunque di per sé solo sufficiente a risolvere il limite della

(68) Cass. ord. n. 17357/2020, cit. che, infatti, precisa come le difformità oggetto dell’avviso telematico notificato al notaio debbano risultare “immediatamente percepibili per tabulas dalla disamina dell’atto trasmesso per la registrazione telematica”. (69) Significativa in tal senso la decisa contestazione che opera la Corte Costituzionale nei confronti dell’esegesi relativizzante proposta dall’Avvocatura dello Stato riguardo all’intervento legislativo eseguito sull’art. 20 T.U.R. Avvocatura che proponeva un’interpretazione adeguatrice sostanzialmente abrogativa dell’intervento legislativo interpretativo, sostenendo che quest’ultimo confermasse l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, poiché finalizzato ad escludere le rilevanza dei soli «elementi fuori contesto o extravaganti” rispetto all’atto da registrare. Al riguardo, condivisibilmente, la Corte Costituzionale osserva che: «la lettera delle disposizioni censurate non pone la incerta distinzione, nell’ambito degli elementi extratestuali, tra quelli “fuori contesto” o all’“interno del contesto”; l’interpretazione adeguatrice, ove comportasse la sostanziale conferma dell’originaria interpretazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 fornita dalla prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, si risolverebbe in un’arbitraria e illogica interpretatio abrogans delle disposizioni censurate». (70) In tal senso, ancora, Cass. n. 15450/2019, cit. (71) Che in origine era di soli trenta i giorni ed è stato rettificato per effetto del comma quinto dell’art. 38 d.l. n. 78 del 31 maggio 2010, ultimo capoverso, convertito in Legge n. 122 del 30 luglio 2010. (72) Come ritiene attenta dottrina, cfr. G. Salanitro, Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia, cit.


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responsabilità notarile. Non è, infatti, così breve da poter impedire all’Ufficio un’istruttoria sufficientemente approfondita. Si deve considerare, dunque, unitamente a quello oggettivo di cui si è già trattato. In carenza della delimitazione temporale, considerata la suddivisione che opera l’art. 42 T.U.R. in ordine alle tipologie d’imposta di registro, potrebbe ritenersi responsabile il notaio per tutte le integrazioni d’imposta derivanti da errori o omissioni commessi dal notaio stesso in sede di liquidazione, anche se richieste successivamente alla scadenza in questione (73). L’art. 42 definisce, infatti, suppletiva solo l’imposta diretta a correggere errori od omissioni commessi dall’Ufficio, mentre non fornisce definizione di quella complementare. È proprio il limite temporale, stabilito dall’art. 3-ter, che completa e avalla una più radicale delimitazione oggettiva della responsabilità notarile e, dunque, sarebbe opportuno non considerarlo meramente ordinatorio (74). Conclusivamente, dovrebbe ritenersi altrettanto inammissibile la notifica al notaio dell’avviso di liquidazione oltre il termine, pur se riguardi errori di calcolo commessi dal notaio, come dell’avviso che, pur se notificato nel termine, si riferisca a valutazioni critiche accertative e non meramente liquidatorie degli stessi elementi dell’atto o, addirittura, di elementi trascendenti il suo contenuto (75). Si ammette, invece, che tutti gli avvisi successivi ai sessanta

(73) Rammenta in tal senso G. Salanitro, Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia, cit., che «l’amministrazione, in mancanza di altri termini previsti, potrebbe notificare l’avviso entro il termine più lungo di ben tre anni dalla registrazione, lasciando il pubblico ufficiale in balia dell’amministrazione per un lungo periodo». (74) L’atto notificato al notaio oltre il termine potrebbe intendersi quale richiesta d’imposta suppletiva, mirando, di fatto, a rimediare all’omissione dell’Ufficio che non ha controllato la liquidazione e notificato tempestivamente l’avviso integrativo al notaio nel termine corretto o, se si vuole, a correggere l’errore/omissione che ha determinato l’indebita conferma dell’autoliquidazione notarile. G. Salanitro, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta di registro, cit., 1247, argomenta in proposito che, spirato il termine concesso per la notifica dell’avviso telematico al notaio, la notifica stessa non può più identificare liquidazione d’imposta principale. In argomento anche P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, Studio n. 855/2014 del Consiglio Nazionale del notariato, del 23 ottobre 2015. (75) Cioè non dovrebbe affermarsi che qualunque imposta richiesta con avviso telematico al notaio, entro sessanta giorni dalla registrazione dell’atto, sia per ciò stesso principale. Cfr. V. Mastroiacovo, Non è sempre principale l’imposta recuperata nei sessanta giorni dalla registrazione telematica, in Corr. Trib., 2017, 1993 ss. commento a Cass., sez. trib. n. 12257 del 17 maggio 2017; G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, cit., 110.


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giorni riguardino, perciò stesso, imposte suppletive o complementari, poiché quella principale ancorché postuma potrebbe essere richiesta solo entro il termine concesso per la notifica telematica al notaio (76). Nondimeno, la poca chiarezza che contraddistingue l’individuazione del confine oltre al quale l’intervento non sarebbe più meramente correttivo e il fatto stesso che il semplice momento temporale, entro il quale avviene la notifica telematica al notaio, possa assurgere oppure no a criterio discretivo, dimostrano come possa accadere che tale notifica sia destinata, comunque, al notaio anziché alle parti. In simile evenienza si dovrà ammettere che il notaio, ove l’Ufficio non lo annulli in autotutela, in quanto notificatario dell’atto, possa impugnarlo, quanto meno al preciso scopo di far valere il proprio difetto di soggettività passiva, se non anche l’intervenuta decadenza, poiché il legislatore lo esenta dalla responsabilità per l’imposta suppletiva o complementare il cui versamento gli fosse stato richiesto per errore (77). Resta, invero, il dubbio in merito all’eventualità in cui il notaio, cui siano state notificate erroneamente simili richieste, abbia invece adempiuto e versato l’imposta indebitamente richiestagli (78). Tale avviso, infatti, non potrebbe esser fatto valere dall’Ufficio, nei confronti delle parti contraenti, quale avviso di liquidazione per l’imposta complementare o suppletiva, proprio perché notificato al notaio al quale non può essere destinato. Ove il notaio, destinatario della pretesa indebita, nulla eccepisca in tal senso ed esegua il versamento, si potrebbe ritenere che le parti contraenti siano legittimate ad opporsi all’azione

(76) P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 14; S. Ghinassi, La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute sull’atto rogato, cit., p.738 e nota 26, annota in proposito «il decorso dei sessanta giorni deve ritenersi un implicito controllo positivo della liquidazione effettuata». (77) Ancora G. Salanitro, op. loc. ult. cit., ritiene giustamente che il notaio potrebbe, altresì, instare per l’autotutela correttiva da parte del Fisco. Più discutibile, invece che ove l’istanza abbia esito negativo, possa impugnare il diniego. L’impugnazione del diniego di autotutela resta, infatti, dubbia, specie dopo l’intervento della Corte Cost. n. 181/2017 e i reiterati revirement della Cassazione, fino all’ancora recente ordinanza n. 1972 del 29 gennaio 2020. A tal riguardo si vedano G. Ingrao, Impugnazione del diniego di autotutela tra annullamento dell’atto originario e prova dell’illiceità della condotta del Fisco ai fini di un possibile risarcimento danni, in Dial. trib., 2010, 376 ss. e L. Nicotina, Silenzio e diniego di autotutela: considerazioni su impugnazione e risarcimento del danno, in Riv.dir.trib., 2011, I, 71 e ss. (78) Circostanza del tutto plausibile specie con riguardo all’ipotesi di notifica entro il termine dei sessanta di giorni di un avviso che, tuttavia, sia frutto di attività istruttoria comparativa dell’Ufficio.


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di regresso proposta dal notaio nei loro confronti, diversamente da quanto accade nel caso in cui il notaio abbia versato l’imposta principale. Nondimeno, ove detti contribuenti in senso stretto, abbiano versato gli importi richiesti nelle mani del notaio si potrebbe dubitare abbiano titolo a richiederne il rimborso al Fisco, poiché in fondo costoro sarebbero comunque tenuti al versamento dell’imposta, anche se complementare o suppletiva (79). Viceversa dovrebbe ritenersi spettante al notaio il diritto ad ottenere il rimborso di tali somme dal Fisco, specie ma non solo nel caso in cui avesse eseguito il versamento, da lui non dovuto, utilizzando fondi propri (80). 4. Compatibilità delle garanzie attribuite al notaio rispetto al modello solidaristico. – La gravosità degli obblighi notarili rispetto alla registrazione, liquidazione e versamento dell’imposta di registro è riequilibrata da altre previsioni peculiari, favorevoli al pubblico funzionario, e che, tuttavia, possono contribuire a complicare l’inquadramento della natura giuridica di tale responsabilità, introducendo altri elementi divergenti rispetto all’ordinario atteggiarsi della solidarietà, cui consegue il mero diritto di regresso o rivalsa (81). Almeno due sono gli aspetti degni di nota riguardo a tali garanzie: il diritto di richiedere il deposito preventivo della c.d. provvista e l’espressa conces-

(79) Per lo stesso motivo si potrebbe dubitare che a tali soggetti sarebbe consentito agire in ripetizione d’indebito nei confronti del notaio, ove questi avesse eseguito il versamento all’erario utilizzando i fondi appartenenti alle parti medesime. (80) Diritto al rimborso che, invece, la giurisprudenza tradizionalmente nega al notaio, sebbene gli assegni, invece, legittimazione e interesse ad agire, specie in consimili ipotesi (si veda Cass., sez. trib. n. 2403/2017), come si approfondirà in un separato studio. (81) Alla responsabilità solidale dovrebbe conseguire il diritto di regresso piuttosto che quello di rivalsa. Sebbene anche nel diritto civile i due termini siano spesso utilizzati come sinonimi, propriamente l’azione in regresso è identificabile come l’esercizio di «un diritto nuovo scaturente dal pagamento dell’obbligazione solidale» (in questi termini Cass. n. 20740 del 14 ottobre 2016) dalla quale obbligazione trae fondamento, ma si distingue allo stesso tempo. Ai sensi dell’art. 1299 c.c., infatti, soggetti e anche contenuto dell’azione sono differenti, spettando al condebitore adempiente il solo ristoro delle quote di debito il cui onere economico sia eccendente rispetto alla sua quota. E, di conseguenza, si riferisce all’onere che avrebbe dovuto gravare sugli altri condebitori, presso i quali il condebitore adempiente agisce, dunque, a titolo di rimborso. La rivalsa, invece, propriamente, dovrebbe identificarsi in un diritto di ristoro di un danno patito. Per questo sarebbe più affine alle azioni di risarcimento o indennizzo che a quelle di rimborso, presupponendo, appunto, il verificarsi di un danno del quale si chieda il ristoro, come accade alle compagnie assicurative che agiscano nei confronti degli assicurati per la ripetizione delle somme versate a causa di dichiarazioni inesatte dell’assicurato stesso. Occorre, tuttavia, osservare che nel diritto tributario la rivalsa acquisisce connotati tipici e


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sione di un diritto di surroga nei confronti del creditore fiscale cui si associa anche la possibilità di agire in regresso fruendo di una sorta di diritto rivalsa rafforzato. Queste, dunque, le disposizioni che meritano una rapida disamina, anche in ordine alla loro compatibilità rispetto all’ordinario regime di regresso, che dovrebbe caratterizzare una forma di responsabilità solidale. 4.1. Il deposito della provvista quale rivalsa preventiva. – Sotto il primo aspetto, vale a dire riguardo al deposito della provvista nelle mani del notaio, la legge notarile consente al notaio l’esercizio di una sorta di peculiare rivalsa preventiva che, di conseguenza, costituisce l’ordinario modus operandi attraverso il quale la rivalsa è effettuata. In tal senso, laddove l’art. 27 L. n. 89/1913 impone al notaio di «prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto», il successivo art. 28 non solo statuisce i precisi limiti di tale obbligo – in relazione alla funzione pubblica esercitata e, dunque, vieta che possano essere ricevuti o autenticati atti «espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico» – ma sancisce, altresì, all’ultimo comma, il diritto di rifiutare il ministero proprio con riguardo alle imposte derivanti dall’atto stesso. «Il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell’atto, salvo che si tratti di persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio, oppure di testamenti». In altri termini, non solo è consentito al notaio richiedere ai reali soggetti passivi d’imposta il deposito preventivo delle somme dovute per la registrazione e liquidate dal notaio medesimo ma, in base alla legge notarile, al notaio è anche riconosciuto il diritto di rifiutare di prestare la propria opera nel caso

complessi. La dottrina, infatti, è giunta a distinguere due forme di rivalsa, quella c.d. dinamica che afferisce alla disciplina della sostituzione d’imposta e dell’Iva, quella c.d. statica o semplice, che invece riguarda il caso in esame, cioè la responsabilità d’imposta. Quest’ultima, di fatto, corrisponde all’azione civile di regresso. In questo senso F. Randazzo, Rivalsa (voce), in Enc. Dir. Trec., 2015, afferma «si individua da parte del legislatore un fenomeno che trova essenzialmente la disciplina nelle norme sull’azione privatistica di regresso». Se in generale il diritto di regresso, tra condebitori tributari, serve a ripristinare la legittimità del prelievo sotto l’aspetto della corretta distribuzione dell’onere tributario tra soggetti passivi del tributo, nel caso del responsabile d’imposta questa funzione si esalta e distingue vieppiù a motivo della sostanziale estraneità del responsabile rispetto alla manifestazione della capacità contributiva considerata.


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in cui le parti non versino anticipatamente nelle sue mani le somme stesse, a titolo di provvista. Ne discende, dunque, che il notaio, rispetto a quanto comunemente accade nei rapporti tra coobbligati in solido, si trova in una situazione che, da questo punto di vista, si presenta come fondamentalmente diversa e migliore, ma non certo incompatibile con la solidarietà atipica. Al contrario la facoltà in questione serve a riequilibrare le gravose responsabilità di cui il legislatore lo ha progressivamente incaricato, rispetto ad un comune coobbligato solidale, ma soprattutto consente di ottenere più agevolmente un pieno indennizzo dall’onere economico d’imposta, quantomeno rispetto all’imposta principale strettamente intesa. Questa circostanza potrebbe apparire contraria all’inquadramento tradizionale perché, di norma, in una coobbligazione solidale, spettando al creditore scegliere quale dei condebitori escutere, non è possibile consentire un regresso a priori, non essendo possibile stabilire quale dei condebitori sarà chiamato e adempirà l’obbligazione. Come già osservato, tuttavia, la funzione precipua dell’obbligazione solidale atipica è quella di aggiungere ai condebitori principali un responsabile garante del loro adempimento al quale, di conseguenza, è prassi ordinaria che il creditore si rivolga. Questo condebitore, tuttavia, non manifesta alcuna capacità contributiva e non realizza il presupposto d’imposta (82). Di conseguenza, la legittimità costituzionale stessa delle disposizioni legislative che prevedano tali forme di solidarietà dipende dall’effettiva elevata possibilità, concessa all’obbligato dipendente, di neutralizzare l’onere economico dell’imposta (83). In questo

(82) Caratterizza la responsabilità d’imposta del condebitore solidale atipico la circostanza che tragga origine da fatti differenti e accessori rispetto ai fatti o atti assurti dal legislatore ad indici che manifestino la capacità contributiva. Il fatto rilevante connesso ben potrebbe essere rinvenuto nell’esercizio della funzione notarile, come in effetti accade. In questo senso può ben affermarsi che la funzione notarile, in quanto tale o nell’ambito del mandato, sia all’origine dell’obbligazione tributaria del notaio. È, infatti, per via di questa funzione che si polarizza il nesso rispetto alla fattispecie tributaria, attorno alla ricezione e autenticazione o rogito dell’atto, che manifesta la fattispecie dipendente o atipica nell’ambito della responsabilità solidale. La sussistenza di un’obbligazione notarile distinguibile e limitata rispetto a quella delle parti soggetti passivi dell’imposta, dunque, non è tra le circostanze peculiari che ostino al riconoscimento di una responsabile solidale tra notaio e parti. Al riguardo P. Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2007, 181 ss. osserva che la coobbligazione del responsabile d’imposta «si giustifica sul piano sostanziale in virtù di titoli differenziati, riconnettendosi quindi a fattispecie ontologicamente distinte ancorché collegate». (83) M. Trivellin, Obbligazioni tributarie (voce), Enc. Dir. Trec. on line, osserva in tal


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senso, dunque, il diritto riconosciuto al notaio non solo non è contrario all’inquadramento nell’ambito dell’istituto della solidarietà atipica, ma ne costituisce un corollario in grado di legittimarne costituzionalmente l’affermazione. 4.2. Il diritto di surroga e la possibile rivalsa rafforzata successiva al versamento. – In forza dell’art. 58 T.u.r., invece, il notaio che abbia versato l’imposta con fondi propri gode di un diritto di surroga «in tutte le ragioni, azioni e privilegi spettanti all’amministrazione finanziaria» (84), da esercitare nei confronti delle parti contraenti che non abbiano anticipato la provvista medesima. Gli è concesso, altresì, rivalersi sui condebitori «esibendo un certificato dell’ufficio di registro attestante [l’ammontare del] la somma pagata» e richiedendo al giudice, solo in base a quest’ultimo, un decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, ai sensi dell’art. 642 c.p.c. Decreto nei confronti del quale ai condebitori, nel cui interesse la registrazione sia stata eseguita, non è consentito, comunque, proporre opposizione che sia fondata sull’an o sul quantum debeatur dell’imposta versata (85). Nonostante l’art. 58 T.U.R., nel disporre l’immediata provvisoria esecutività, richiami espressamente l’art. 642 c.p.c. (86), non sembra sia richiesta

senso «vi è da ritenere che, in quanto la traslazione del tributo sul contribuente è essenziale al rispetto dell’art. 53 Cost., le situazioni di responsabilità che meglio assicurano l’osservanza di detto principio sono [proprio] quelle nelle quali l’obbligato dipendente ha facoltà di esercitare la rivalsa prima dell’adempimento». Sul punto, già, A. Fantozzi, L’autotassazione nell’imposta di registro e nell’Invim, in Riv. not., 1978, 1322 ss. (84) Riguardo al privilegio si rammenta che ai sensi del quarto comma dell’art. 56 T.u.r. «per la riscossione coattiva delle imposte, delle soprattasse, delle pene pecuniarie e degli interessi di mora si applicano le disposizioni degli artt. 2, da 5 a 29 e 31 r.d. n. 639 del 14 aprile 1910. Lo Stato ha privilegio secondo le norme stabilite dal codice civile. Il privilegio si estingue con il decorso di cinque anni dalla data di registrazione». A tal riguardo il primo comma dell’art. 2772 c.c. dispone che: «hanno pure privilegio i crediti dello Stato per ogni tributo indiretto, nonché quelli derivanti dall’applicazione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili, sopra gli immobili ai quali il tributo si riferisce». L’art. 2758 c.c., invece, stabilisce che «i crediti dello Stato per i tributi indiretti hanno privilegio sui mobili ai quali i tributi si riferiscono e sugli altri beni indicati dalle leggi relative, con l’effetto da esse stabilito». Di conseguenza, il privilegio si eserciterebbe, comunque, sui beni oggetto dell’atto soggetto a registrazione. (85) Cfr. art. 58 T.u.r., comma secondo, «l’ingiunzione è provvisoriamente esecutiva a norma dell’art. 642 c.p.c. Non è ammissibile l’opposizione fondata sul motivo che le imposte pagate non erano dovute o erano dovute in misura minore». (86) Norma che, com’è noto, consente la provvisoria esecutività del decreto quando è ancora pendente il termine per l’opposizione allo stesso e, a propria volta, contempla tra le


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l’istanza del notaio e l’intervento autorizzativo del giudice al fine di ottenere tale esecutività, la quale sarebbe, invece, disposta ope legis (87). A tutto voler concedere, poiché l’ipotesi rientrerebbe tra quelle di cui al primo comma dell’art. 642 c.p.c., la concessione della provvisoria esecuzione da parte del giudice sarebbe, comunque, obbligata o vincolata che dir si voglia (88). La concessione del privilegio e del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, ma anche sostanzialmente inopponibile, sono collegate dalla legge al semplice versamento dell’imposta da parte del notaio. In vero, la norma non specifica nulla riguardo all’utilizzo a tal fine di fondi propri notarili, richiedendo al pubblico ufficiale solo la dimostrazione del già intervenuto versamento dell’imposta. La formula utilizzata è, infatti, la seguente: «i soggetti indicati nell’art. 10, lettere b) e c), che hanno pagato l’imposta». Coerenza impone, tuttavia, di ritenere che, in simili ipotesi, la surroga nelle ragioni del Fisco, il privilegio e, soprattutto, l’ingiunzione “servano” all’esercizio del diritto di rivalsa, attribuito al responsabile d’imposta. Diritto che, a propria volta, presuppone, ovviamente, che il notaio abbia soddisfatto il credito d’imposta, almeno in parte, con fondi propri. Se le parti avessero già depositato nelle mani del notaio la provvista, necessaria all’integrale adempimento del versamento da eseguirsi, consentire a quest’ultimo di agire in rivalsa nei confronti delle parti stesse non sarebbe giustificato, perché verrebbe meno il diritto del notaio (89).

ipotesi di cui al comma primo i crediti che trovino fondamento in atti ricevuti dal notaio. (87) Cfr. A. Montesano - B. Ianniello, Imposte di registro, ipotecaria e catastale, Milano, 2010, 383 - 384. Riguardo alla differenza tra casi di provvisoria esecutività ope legis oppure ope iudicis, si rinvia a G. Vignera, Sulla provvisoria esecutività ex lege del decreto ingiuntivo, in Il caso.it, 2009, 11 -12; A. Ippoliti, L’esecuzione provvisoria, in AA. VV., Decreto ingiuntivo. Procedura ed esecuzione, a cura di A.I. Natali, Milano, 2017, 194 ss. (88) Al contrario di quanto accade per i casi di cui al secondo comma dell’art. 642 c.p.c., riguardo ai quali si ritiene che il giudice eserciti un potere discrezionale. Vedi M. Cataldi, Il procedimento monitorio e l’opposizione al decreto ingiuntivo, Milano, 2006, 213. (89) In tal senso M. Miglietta - F. Prandi, I privilegi, Torino, 1995, 324 ss. già segnalavano come non potrebbe darsi surroga se il notaio esegua il versamento utilizzando la provvista già depositata dai soggetti passivi d’imposta. Con riguardo al privilegio più in generale si rinvia a C. Glendi, Privilegi del credito d’imposta, in Enc. Giur. XXIV, Roma, 1991, 1 ss.; F. Batistoni Ferrara, I privilegi, in Trattato di diritto tributario, a cura di Amatucci, Padova, 1995, 313 ss.; S. Ghinassi, Privilegi fiscali, in Enc. Dir., II, Milano, 1998, 722 ss.; A. Giovannini - A. Marinello, I privilegi del credito d’imposta, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali, a cura di F. Paparella, Milano, 2013, pag. 503 ss. e, assai più di recente, G. Fransoni, Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?, in Rass. trib., n. 2/2019, 247 ss. Sussistono non pochi dubbi in relazione al momento in cui il


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Nella specie, dunque, è lo stesso legislatore a distinguere surroga e regresso/rivalsa, confermando come questi concetti non s’identifichino (90). Alla solidarietà dovrebbe corrispondere il diritto di regresso e non quello di surroga e, riguardo all’obbligazione tributaria, «ci si è interrogati circa la possibilità di estendere a un soggetto privato un regime di favore che la legge accorda al credito tributario proprio per tutelare quell’interesse fiscale che, con il pagamento, cessa di esistere» (91). La questione involge, ancora una volta, l’atipicità della solidarietà in questione. Nell’ambito della solidarietà atipica, che caratterizza il notaio quale responsabile d’imposta, l’estraneità di quest’ultimo rispetto alla realizzazione del presupposto del tributo autorizza e rende addirittura necessaria quantome-

privilegio ha origine e scade. Al riguardo si rinvia a M. Basilavecchia, Problemi interpretativi ed applicativi concernenti il privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti, Studio n. 31/2005/T, approvato dalla commissione studi tributari il 18 marzo 2005 e A. Chizzini - C. Casalini, Durata del privilegio speciale sugli immobili e termine di decadenza a carico dell’A.F., commento a Trib. Como, sent. del 30 marzo 2000, in GT Riv. giur. trib., n. 1/2001, 57 ss. (90) In tal senso G. Fransoni, Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?, cit., 255 - richiamando B. Carpino, Pagamento con surrogazione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1988, pag. 82 - rileva che surrogazione e regresso, pur avendo le medesime finalità, “si differenziano per struttura e disciplina”. L’autore, dunque, prende posizione in merito alla vaexata quaestio civilistica, che distingue decisamente le due azioni rispetto a quella che ritiene, invece, il regresso una sorta di modalità di surrogazione. In vero, secondo la Cassazione (n. 20740 del 12 ottobre 2016) la surroga, al contrario del regresso, «costituisce una successione a titolo particolare nel credito originario», come tale con le stesse garanzie ed eccezioni che, rispettivamente, spettavano ed erano opponibili al creditore originario e, anche, con un termine di prescrizione decorrente dal momento in cui l’obbligazione originaria è sorta e non, invece, solo successivamente al pagamento da parte del condebitore. Riguardo alla surroga, al decreto ingiuntivo in questione si rinvia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a M. Messina, Solidarietà e soggetti passivi nell’imposta di registro, cit., 108 ss. (91) Così, G. Fransoni, Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?, cit., loc. ult. cit., nota 13, proprio con riferimento all’eccezionalità dell’ipotesi contemplata dall’art. 58 T.u.r. in favore del notaio, osserva: «sembra deporre per il carattere eccezionale dell’art. 58, comma 1, T.U.R. e, quindi, per l’esclusione della surrogazione del debitore solidale che paga l’intero debito nelle ragioni dell’Agenzia dell’entrate nei confronti degli altri condebitori, Corte cost., ord. 19 giugno 2000, n. 215. Invero, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58 T.U.R. nella misura in cui attribuisce la surrogazione solo ai notai e ai cancellieri, tale ordinanza afferma che, comunque, agli altri condebitori solidali spetta la generale azione di regresso ex art. 1299 c.c. Cosicché, nella misura in cui tale ordinanza parrebbe non ritenere riferibile ai condebitori (anche) la possibilità di surrogarsi ex art. 1203, n. 3, c.c. (così circoscrivendo la specialità dell’art. 58 T.U.R. al solo comma 2)».


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no la possibilità di una neutralizzazione integrale dell’onere economico del tributo versato. Il trasferimento integrale del diritto creditorio in capo al notaio, sotto quest’aspetto, può ritenersi legittimo, piuttosto che l’attribuzione di un diritto nuovo, diverso e ridotto rispetto a quello scaturente dall’obbligazione fiscale. Diritto che sarebbe, invece, necessario attribuire ai condebitori che siano anche soggetti passivi d’imposta. Questi ultimi, infatti, possono agire in regresso solo per le quote di debito eccedenti rispetto a quella da essi stessi dovuta, circostanza incompatibile con una successione nel credito fiscale originario. Incompatibilità che, tuttavia, non si riscontra nel caso del notaio. Questi è estraneo alla manifestazione di capacità contributiva e ha, per ciò stesso, diritto ad una integrale neutralizzazione dell’onere d’imposta e, dunque, può succedere nel credito fiscale per l’intero suo ammontare. È interessante annotare che i diritti di surroga e rivalsa del notaio potrebbero essere esercitati entro termini differenti, per durata e avvio della decorrenza (92). Occorre considerare che il privilegio, ai sensi dell’art. 56 T.U.R., si estingue in cinque anni dalla data della registrazione. Il diritto di surroga nel credito fiscale, più in generale, dovrebbe, invece, essere soggetto al medesimo termine di prescrizione applicabile al credito originario. Quest’ultimo, nel caso dell’imposta di registro, è decennale ai sensi dell’art. 78 T.U.R., ma con decorrenza che, secondo l’orientamento prevalente, dovrebbe iniziare nel momento in cui l’obbligazione originaria è sorta, sebbene, come rilevato, il notaio stesso non avrebbe potuto ancora farlo valere prima del versamento da lui effettuato (93). Infine, il regresso, in quanto diritto nuovo, dovrebbe ritenersi sottoposto ad un termine di prescrizione indipendente da quello del diritto di credito originario. Inoltre, se si considera l’azione di regresso una domanda nuova, il termine dovrebbe iniziare a decorrere dal momento in cui il notaio ha adempiuto l’obbligazione (94).

(92) Cfr. M. Messina, Solidarietà e soggetti passivi nell’imposta di registro, cit., 110. (93) A meno che non si acceda all’orientamento ermeneutico che considera anche la surroga un fenomeno novativo del credito anziché successorio. Al riguardo O. Buccisano, Surrogazione, Messina, 1926; Id., La surrogazione per pagamento, Milano, 1958. (94) Cfr. Cass. n. 4507/2001. L’azione di regresso tra condebitori, ex art. 1299 c.c., in assenza di puntuale disciplina è sottoposta alla prescrizione ordinaria decennale, ex art. 2946 c.c.


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Sembra doversi escludere, comunque, che il diritto di rivalsa, in quanto previsto e consentito per legge, abbia origine negoziale, sebbene si eserciti tra le parti e il notaio e si fondi sull’adempimento del notaio e, quindi, sull’estinzione dell’obbligazione fiscale (95). 5. I limiti del modello solidaristico. – In base a quanto sinora osservato, dunque, la circostanza che il notaio sia identificato dal legislatore come responsabile del versamento dell’imposta principale di registro non impedisce di ritenerlo coobbligato solidale, come lo definisce il legislatore e, di conseguenza, non impedirebbe alle parti di essere ritenute condebitrici per il pagamento dell’imposta principale di registro. Come anticipato, i dubbi riguardanti il corretto inquadramento della responsabilità notarile, sebbene alimentati dalle citate specificità degli obblighi e diritti notarili rispetto all’imposta in questione, sorgono dall’esigenza d’impedire un duplice esborso alle parti contraenti nell’ipotesi di mancato versamento dell’imposta da parte del notaio, al quale le parti stesse avessero già versato la provvista, nel presupposto che sussista una lacuna normativa in tal senso. Lo scopo di tanta ermeneutica, dunque, piuttosto che essere ravvisabile nella necessità d’individuare una migliore compatibilità rispetto al modello delineato dalle obbligazioni solidali, corrisponde a quest’esigenza e, di conseguenza, potrebbe ritenersi superato dalla dimostrazione che, in atto, la lacuna in questione è stata colmata dall’intervento legislativo (96). Nondimeno è opportuno considerare, sia pur sinteticamente, i pregevoli sforzi ricostruttivi compiuti dalla migliore dottrina onde osservare se si possa inquadrare diversamente il fenomeno giuridico della responsabilità in esame (97).

(95) Ove, al contrario si riconoscesse all’azione di regresso origine nel rapporto di prestazione d’opera professionale se ne potrebbe dedurre la maturazione entro il termine di prescrizione triennale, concesso al notaio per il recupero del compenso professionale. (96) Ormai da parecchi anni è stato istituito a tal fine il Fondo di garanzia, al quale, tuttavia, si è preferisce dedicare un separato approfondimento. In argomento G. Salanitro, Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia, in Riv. dir. trib., n. 3/2020. (97) Tanto più che, di recente, la stessa Cassazione, nell’ord. n. 17357/2020, ha dubitato che la responsabilità del notaio possa non essere solidale almeno nelle ipotesi in cui «il pagamento della maggiore imposta è dovuto ex lege dal notaio entro 15 giorni dal ricevimento della notifica [dell’avviso telematico conseguente al controllo di regolarità sull’autoliquidazione]».


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Nell’ottica della tradizionale responsabilità solidale, infatti, l’esercizio dell’azione di regresso tra condebitori non ha alcuna rilevanza esterna rispetto al creditore. I soggetti passivi del tributo che avessero versato nelle mani del notaio l’imposta da loro dovuta non potrebbero ritenersi liberati dall’onere dell’adempimento nei confronti dell’erario, poiché quello eseguito presso il notaio non sarebbe opponibile al creditore fiscale. Anche l’esercizio della rivalsa preventiva, concesso al notaio, se inquadrato nell’ambito di una responsabilità solidale, non avrebbe dunque l’effetto di liberare gli effettivi soggetti passivi dell’imposta. La dottrina ha ritenuto che al condebitore adempiente, il quale agisca in regresso nei confronti degli altri coobbligati, siano opponibili le eccezioni che questi ultimi avrebbero potuto obiettare al creditore comune, escluse quelle fondate su ragioni personali che spettino ad altro condebitore (98). Nella fattispecie, tuttavia, per sterilizzare il rischio di un duplice esborso gravante sulle parti contraenti, dovrebbe ammettersi che queste ultime, condebitrici d’imposta insieme al notaio, possano opporre al Fisco, cioè al creditore, l’avvenuto versamento nelle mani del condebitore stesso, con l’effetto di risultare adempienti rispetto all’obbligazione d’imposta. Si dovrebbe consentire, cioè, di opporre al creditore, con efficacia estintiva, la definizione del rapporto interno tra condebitori, purché il versamento risulti eseguito e documentato dalla rice-

(98) In tal senso C.M. Bianca, Diritto civile, IV L’obbligazione, Milano, 2019, 718, osserva «se essi [condebitori] non potessero opporre al condebitore che agisce in via di regresso le stesse eccezioni opponibili al creditore, il pagamento eseguito da quel condebitore pregiudicherebbe la loro posizione». Il limite riguardo alle eccezioni fondate su ragioni personali spettanti ad altro condebitore oltre che logico è giuridicamente fondato sui dettami degli artt. 1297 c.c. e 1306 c.c. che, come noto, lo dispongono in relazione alle eccezioni e al giudicato favorevole opponibili al creditore. In vero, la conclusione in questione potrebbe apparire incongrua rispetto all’autonomia che caratterizza il diritto di regresso come nuovo e autonomo rispetto all’obbligazione solidale adempiuta, cui sembrerebbe dover conseguire, come osservato, che i condebitori contro i quali sia agito non possano opporre al condebitore agente le eccezioni che avrebbero opposto al creditore, essendosi ormai estinto quel rapporto obbligatorio. L’indirizzo ermeneutico, tuttavia, si giustifica poiché tale diritto di regresso sorge e consegue all’adempimento dell’obbligazione solidale dalla quale, pertanto, trae origine. Si è già osservato, peraltro, come sia diffusa in dottrina (C.M. Bianca, op. ult. cit., 723 ss.) l’idea che all’adempimento del condebitore solidale conseguano sia il diritto di regresso, nuovo e autonomo, che quello di surrogazione nei diritti del creditore, diritto quest’ultimo rispetto al quale nessun dubbio potrebbe porsi a proposito della possibilità di eccepire quanto sarebbe stato eccepibile al creditore surrogato, poiché la cessione del credito non può determinare una modifica peggiorativa della posizione originaria del debitore ceduto. Al riguardo V. Panuccio, La cessione volontaria dei crediti nella teoria del trasferimento, Milano, 1955, 58.


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vuta notarile, e comunque nei limiti del versamento stesso (99). Questa conseguenza, però, è chiaramente incompatibile con la disciplina dell’obbligazione solidale. Potrebbe accadere, dunque, e, di fatto è accaduto, che il creditore erariale, rimasto insoddisfatto dal notaio, si rivolga alle parti per soddisfare il proprio credito d’imposta, provocando la paventata duplicazione di pagamento a carico di queste ultime (100). In qualità di condebitori, rispetto al creditore fiscale in questione, ai sensi del già ricordato art. 57 T.u.r., gli effettivi soggetti passivi dell’imposta non potrebbero sottrarsi all’obbligo del pagamento, ove pure fossero in grado di mostrare per tabulas di aver già eseguito il versamento della provvista al notaio, poiché questo pagamento, appunto, non potrebbe avere alcuna efficacia liberatoria nei confronti del creditore alla stregua della disciplina dell’obbligazione solidale (101). Ad aggravare simile conclusione, per effetto della normativa in esame, come constatato, alle parti non è consentito adempiere direttamente al versamento dell’imposta principale. Versamento al quale è, invece, autorizzato e obbligato, il solo notaio. Di tal che una buona parte della dottrina ha ritenuto che al versamento effettuato dalle parti nelle mani del notaio dovrebbe assegnarsi efficacia liberatoria, essendo esso sostanzialmente imposto alle parti dalla legge e non essendo concesso alle stesse estinguere altrimenti il proprio obbligo di pagamento dell’imposta principale (102).

(99) Come osservato, infatti, la responsabilità solidale delle parti con il notaio non può mai essere esclusa a priori, neppure per il versamento dell’imposta principale in senso stretto, siccome resta incerto, accidentale e non obbligato, ancorché ordinario, l’esercizio della rivalsa preventiva da parte del notaio e, di conseguenza, la circostanza che sia intervenuto, effettivamente, il versamento delle parti nelle mani del pubblico ufficiale, al quale si vorrebbe assegnare efficacia liberatoria riguardo alle parti contraenti medesime. (100) Ciò accadrebbe inesorabilmente specie in tutti quei casi in cui il notaio responsabile della condotta truffaldina si sia sottratto e sottragga il proprio patrimonio alle possibili rivendicazioni fiscali. (101) Del resto sembrerebbe quantomeno singolare che il legislatore, il quale come rilevato impedisce alle parti di opporre al decreto ingiuntivo del notaio le ragioni che avrebbero potuto opporre al Fisco, consenta, invece, ai contraenti di opporre al Fisco le ragioni che le parti avrebbero potuto opporre al notaio. (102) In tal senso G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, cit., 97 ss., afferma in tal senso la necessità di non svalutare «l’autonomia della posizione soggettiva del notaio». In precedenza, invece, si ammetteva che l’obbligo di richiedere la registrazione ricadesse unicamente sul notaio, ma quello del versamento riguardava, invece, anche le parti in solido con il notaio medesimo, poiché alle parti non era impedito il versamento diretto, né l’Erario aveva come interlocutore e notificatario


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Riguardo alla necessità di tutelare i contribuenti contraenti e, dunque, di colmare tale lacuna normativa è stato rilevato, altresì, che «la legge non predispone alcun mezzo perché il soggetto che si rivolge al notaio possa controllare che il notaio, una volta ricevuta la somma per pagare il tributo, effettui il pagamento e non si appropri invece della somma stessa» (103). E ancora che, altrimenti ritenendo, «il contribuente, che sia stato rispettoso della legge e al quale nessun negligente comportamento sia rimproverabile» (104), dovrebbe sopportare, come segnalato, il rischio di una duplicazione di pagamento (105). Si è supposta, pertanto, un’abrogazione implicita della solidarietà allo scopo di affermare l’effetto liberatorio del pagamento effettuato dalle parti nelle mani del notaio, quale conseguenza della nuova disciplina di registrazione telematica che impedisce alle parti l’adempimento direttamente nelle mani del Fisco. Orbene, la dottrina ha ritenuto che esistano esegesi compatibili con la possibilità di esentare le parti dalla responsabilità d’imposta, solo a patto che le parti stesse abbiano eseguito il versamento al notaio. In tal senso è stato rilevato che, il necessario «coinvolgimento di entrambi i soggetti, contribuente e notaio, nell’adempimento del tributo», non impedirebbe di ritenere che «entrambi sono obbligati in proprio, uno per aver realizzato il fatto indice e l’altro per la funzione assegnata dalla legge» (106). E ciò non significherebbe, tuttavia, che si debbano applicare necessariamente le regole della solidarietà atipica, cui pure questo schema sembra corrispondere. Si è suggerito che il ruolo svolto dal notaio, rispetto all’obbligo d’imposta in esame, potrebbe ricondursi alla funzione di adiectus solutionis causa (107)

predeterminato dell’avviso telematico il solo pubblico ufficiale. (103) CTP Campobasso, n. 74/2011, cit. (104) CTP Campobasso n. 74/2011, cit. (105) Duplicazione, cioè, che andrebbe a “punire” contribuenti non solo del tutto incolpevoli ma anche privi di qualsiasi possibile alternativo metodo di pagamento e, altresì, privi di tutele idonee ad evitare il danno, salvo quelle indennitarie successive al danno medesimo e, dunque, tardive oltre che particolarmente complesse, che sono oggetto di separato approfondimento. (106) P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 7. (107) V. Pappa Monteforte, Il sistema notarile di riscossione dei tributi, cit.; Id., Il notaio tra adempimento unico, obbligo di pagamento dell’imposta e contestazione della pretesa erariale, in Notariato, 2014, 567 ss.; G. Di Nardo, Il Notaio e l’imposta di registro - responsabile d’imposta o esattore del fisco?, nota a Cass., ord. n. 5016 del 12 marzo 2015, cit., in www.amtmail.it, gennaio 2018. Riguardo alla figura dell’adiectus in generale, si rinvia esemplificativamente a P. Schelsinger, Il pagamento al terzo, Milano, 1961; M.


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erariale oppure a quella del mandatario nell’interesse del terzo (108), cioè del Fisco appunto (109). Un’ormai celebre giurisprudenza di merito (110), peraltro in aperto contrasto con l’orientamento di legittimità precedente e successivo (111), aveva

Basile, Indicazione di pagamento, in Enc. Dir., XXI, Milano, 1971, 126 ss.; A. Di Majo, Dell’adempimento in generale, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja - Branca, Bologna, 1994, 233 ss. Si sofferma, invece, sul valore della ratifica A. La Torre, Diritto civile e codificazione: il rapporto obbligatorio, Milano, 2006, 221 ss. (108) In questo senso la ricostruzione proposta da P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit. (109) È stata scartata, invece, la soluzione di considerare il notaio accollato per legge del debito d’imposta principale. L’accollo d’imposta, infatti, dovrebbe trarre fondamento dal contratto stipulato tra accollante e accollato piuttosto che da disposizioni di legge. Il suo presupposto, inoltre, è, di norma, radicalmente differente da quello della rivalsa concessa dalle norme in esame. Osserva al riguardo F. Randazzo, Rivalsa (voce), in Enc. Dir. Trec., cit., «mentre con la rivalsa il trasferimento del tributo da un soggetto all’altro assume rilevanza in relazione ai criteri di riparto di cui all’art. 53 Cost., in quanto si inserisce nella disciplina del tributo come meccanismo preordinato a far concorrere alle spese pubbliche (anche o soltanto) il soggetto che la subisce, il patto di accollo è invece tendenzialmente estraneo a questo criterio di riferibilità, ed anzi muove, rispetto ad esso, in direzione opposta, giacché, nella sua essenza, mediante l’accollo la parte cui è riferibile il presupposto d’imposta ex art. 53 Cost. trasferisce l’onere d’imposta ad un altro soggetto che al presupposto è invece estraneo». Soprattutto, però, l’inquadramento nell’ambito dell’istituto dell’accollo d’imposta non sarebbe particolarmente utile, sotto l’aspetto della tutela dei contribuenti che abbiano eseguito il versamento nelle mani del notaio. L’accollo d’imposta, infatti, non ammette la liberazione del contribuente originario. Peraltro l’art. 1 d.l. n. 124/2016, in G.U. il 26/10/2019, a modifica dell’art. 8 Statuto, ha precisato che in caso di accollo non può essere concessa compensazione tra il debito d’imposta accollato e crediti d’imposta dell’accollante, a differenza di quanto l’art. 3-ter d.lgs. n. 463/1997 consente, espressamente al notaio. (110) CTP Campobasso, n. 74/2011, cit. (111) In vero, la Cassazione non è mai stata orientata a concedere la liberatoria ai soggetti passivi del tributo, in quanto ritenuti condebitori del notaio, circostanza che, persino a fronte dell’eventuale peculato notarile, non li esimerebbe dall’obbligo del versamento nei confronti del Fisco. Celebre, in questo senso, Cass. n. 13653 del 12 giugno 2009 che ha affermato: «è da escludere che il dettato della legge notarile, in combinato disposto con quello della legge del registro, comporti che il pagamento dell’imposta di registro possa essere eseguito di fatto solo dal notaio e senza alcun controllo della parte che ha stipulato l’atto; né tanto meno può ritenersi che la normativa tributaria abbia voluto questo effetto realizzando a tal fine una sorta di delegazione al notaio quale esattore dell’imposta». È appena il caso di notare, peraltro, che si può configurare il reato di peculato del notaio proprio perché le somme non sono già pubbliche, in quanto il reato prevede che si tratti di “somme altrui”, ma il reato è commesso da pubblico ufficiale. Al riguardo Cass. Pen, sez. V, n. 47178 del 16 ottobre 2009, in Corr. Trib. n. 3/2010, 229 ss. e Cass. Pen, sez. VI, n. 33879/2015. Cfr. P. Pisa, La responsabilità penale del notaio nella recente giurisprudenza, in AA. VV., Responsabilità del notaio tra disciplina vigente e prassi sanzionatoria, quaderno della fondazione notariato, n. 1/2015. Vedi anche S. Ghinassi,


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avallato l’idea che il notaio potesse essere identificato come incaricato della riscossione, per quanto versato nelle sue mani, e, al contempo, quale responsabile e dunque condebitore d’imposta, per il resto, ovviamente sempre nel limite legale dell’imposta principale sia pur c.d. postuma. Si argomentava in tal senso «come sia possibile conciliare l’affermato effetto liberatorio del pagamento dell’imposta, eseguito obbligatoriamente dal soggetto passivo del rapporto tributario nelle mani del notaio (adiectus solutionis causa ex lege), con il principio di solidarietà passiva per l’obbligazione tributaria». Infatti, «in nessuna disposizione di legge è posto il divieto di prevedere che anche chi è autorizzato dalla legge a riscuotere il debito nell’interesse del creditore possa essere considerato condebitore, specie quando (come nella specie) il condebitore solidale (responsabile di imposta) sia estraneo al rapporto tra il creditore ed il debitore» e, viceversa, che «se si ritenesse di interpretare l’art. 57 cit. nel senso che il pagamento effettuato dal contribuente nelle mani del notaio non ha effetto liberatorio si violerebbe palesemente il principio di diritto posto dall’art. 1188 c.c.», in quanto effettivamente la legge autorizza il notaio a ricevere dalle parti il versamento del tributo. Se il notaio s’identificasse in un incaricato alla riscossione dell’imposta o un mandatario nell’interesse del Fisco, il versamento effettuato nelle sue mani, ai sensi dell’art. 1188 c.c., avrebbe per le parti il desiderato effetto liberatorio, in quanto sarebbe eseguito presso un soggetto autorizzato dalla legge a riceverlo (112). Le parti che abbiano già versato l’imposta al notaio stesso, dunque, non potrebbero essere chiamate successivamente dal Fisco ad adempiere in sua vece, laddove il notaio non abbia adempiuto, perché il loro obbligo di versamento sarebbe stato già estinto. Deve annotarsi, preliminarmente, che tale impostazione non spiegherebbe, comunque, la molteplicità degli obblighi assegnati dal legislatore al notaio riguardo all’imposta in questione, poiché anche nel ruolo d’incaricato della riscossione il notaio avrebbe dovuto essere un semplice collettore dei versamenti d’imposta piuttosto che obbligato anche alla registrazione dell’atto

La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute sull’atto rogato, cit., 740 e nota 31. (112) In questo senso apertamente ancora CTP Campobasso, n. 74/2011, cit., «il pagamento predetto non può non avere, per colui che lo esegue, efficacia liberatoria ai sensi dell’art. 1188 c.c., trattandosi di pagamento effettuato nelle mani di soggetto autorizzato dalla legge a riceverlo e addirittura a rifiutare il suo ministero in caso di omesso previo versamento».


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e alla liquidazione della stessa imposta (113). Soprattutto, però, quale mero collettore d’imposte, non si comprenderebbe la ragione di limitarne il ruolo alla sola riscossione dell’imposta principale (114). L’identificazione del notaio quale incaricato per legge a ricevere il versamento dell’imposta, comunque, è sembrata sottovalutare eccessivamente il ruolo svolto dalle parti nell’individuazione in concreto del notaio stesso. In vero, il notaio obbligato al versamento e, dunque, non solo in astratto autorizzato a ricevere la provvista, è quello incaricato dalle parti. Indubbiamente le parti che si rivolgono al notaio pongono le premesse per l’esercizio della funzione notarile nella singola fattispecie e, di conseguenza, per l’insorgere degli obblighi impositivi già rammentati, sia a proprio carico sia a carico del professionista. Sono proprio le parti e non certo il creditore fiscale che, incaricandolo, individuano il notaio sul quale graveranno anche gli obblighi previsti per legge. E, in quest’ottica, non vi è dubbio trovi adeguata collocazione anche l’obbligo di registrazione e liquidazione dell’imposta.

(113) Come accade, di norma, a concessionari e agenti della riscossione. L’identificazione del concessionario per la riscossione quale destinatario del pagamento incaricato dal creditore ed autorizzato dal legislatore a riceverlo «riconducibile alla figura dell’adiectus solutionis causa delineata dall’art. 1188 c.c.» si trova, per esempio, in Cass. civ., sez. trib., nn. 8613 del 15 aprile 2011 e 21222 del 29 settembre 2006. Al riguardo si veda F. Meloncelli, Natura giuridica della società per azioni di riscossione tributaria e sua legittimazione passiva nel processo tributario, in Rass. Avv. Stato, n. 1/2013, 245 ss. Interessanti precedenti di merito in ordine all’efficacia liberatoria dei versamenti eseguiti al personale dello stesso Ufficio impositore di registro, sotto la vigenza del precedente regime di registrazione analogico, sono riferiti da F. Sola, Solidarietà tributaria nell’assolvimento dell’imposta di registro: il pagamento al notaio rogante libera i contribuenti, cit., 80, nota 59, laddove si cita CTR Liguria, sez. II, n. 44 del 14 giugno 1999 che ha ritenuto non solutorio il versamento nelle mani dell’impiegato incaricato allora della liquidazione dell’imposta «in mancanza di tutte le formalità richieste ai fini del perfezionamento della registrazione stessa». Viceversa CTR Liguria n. 4 dello stesso 1999, aveva considerato liberato il contribuente nel medesimo frangente, imputando il danno economico all’Ufficio, per culpa in vigilando sui propri incaricati. (114) Mentre non risulta che alcuno abbia inteso mai sostenere una responsabilità notarile per l’imposta complementare, peraltro esclusa ex lege, come rammentato fin dalle prime premesse. Cfr. G. Salanitro, Autoliquidazione dell’imposta di registro e limiti della responsabilità fiscale del notaio, commento a Cass., ord. n. 12257 del 17 maggio 2017, in Riv. dir. trib. on line, del 13 giugno 2017. Cfr. P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 8 e nota 11. Sulla limitazione della responsabilità F. Sola, Solidarietà tributaria nell’assolvimento dell’imposta di registro: il pagamento al notaio rogante libera i contribuenti, cit., 68, nota 18, osserva, tuttavia, che anche il diritto civile ammette forme di garanzia del debito convenzionalmente limitate, con rinvio a propria volta a Braccini, Struttura dell’obbligazione notarile di registro e suoi riflessi processuali, in Dir. Prat. Trib., 1962, I, 373.


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È stata proposta, dunque, una collocazione della responsabilità notarile per l’imposta principale nell’ambito del mandato (115). Ai sensi del primo comma dell’art. 1708 c.c., peraltro, il mandato comprende «non solo gli atti per i quali è stato conferito, ma anche quelli che sono necessari al loro compimento», circostanza in qualche misura utile almeno a giustificare, nella fattispecie, anche i molteplici obblighi accessori gravanti sul notaio ai sensi di legge. Altrettanto indubbio è che la scelta esperita dalle parti si ponga, nei confronti del notaio, quale contratto d’opera intellettuale (116), compatibile con il mandato inteso a soddisfare l’interesse dei mandanti al compimento degli atti giuridici che corrispondono all’esercizio delle funzioni notarili e, di conseguenza, a fondamento del diritto del mandatario a ricevere il compenso per tali attività. Il diritto civile, tuttavia, ammette, altresì, il mandato conferito nell’interesse del terzo (117), cioè ammette che l’operato del mandatario possa soddisfare oltre che l’interesse del mandante anche quello «ulteriore che il mandante abbia inteso realizzare con il conferimento dell’incarico» (118). Questo negozio si caratterizza, opportunamente, per essere considerato sostanzialmente irrevocabile, salvo diversa statuizione o giusta causa, e, dunque, l’interesse del mandante rileverebbe solo al momento del conferimento dell’incarico, mentre non sarebbe richiesto nelle fasi successive (119). I difetti di questa ricostruzione sono, per certi versi, l’esatto contrario di quelli della teoria esaminata in precedenza. Sebbene il legislatore sia ben lungi dal sottovalutare la rilevanza negoziale dell’attività notarile espletata (120),

(115) P. Puri, I soggetti, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Milano, 2012; Id., Nota a margine di un recente contributo sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, in Rass. Trib., 2013, p.1022 ss.; Id., Il mandato nell’interesse del Fisco, Roma, 2013, 123 ss. Al riguardo si veda, altresì, G. Di Nardo, Il Notaio e l’imposta di registro responsabile d’imposta o esattore del fisco?, cit. (116) Di cui all’art. 2230 c.c. (117) Art. 1723 c.c., secondo comma. Da tener distinto dal mandato a favore di terzi che rientra nel più ampio genus dei contratti a favore di terzi, di cui all’art. 1411 c.c. Quest’ultimo, infatti, si caratterizza per alcune peculiarità di matrice negoziale che non appaiono compatibili con l’obbligazione fiscale, quali la dichiarazione del terzo di volerne approfittare o la possibilità che gli effetti della prestazione ricadano a beneficio del mandante anziché del terzo. (118) Così M. Nuzzo, Clausola nell’interesse altrui nel contratto di mandato, in M. Confortini, Clausole negoziali, profili teorici e applicativi, vol. II, Milano, 2019; Id., Il mandato conferito nell’interesse altrui, Milano, 2003. (119) M. Nuzzo, Clausola nell’interesse altrui nel contratto di mandato, cit., afferma in tal senso che prescinde dalla perseverantia consensu del mandante, similmente a quanto accade nell’ipotesi, per certi versi affine, del c.d. mandato in rem propriam. (120) Si è già osservato, come, ai sensi dell’art. 28 della Legge notarile, al notaio sia


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infatti, è di palese evidenza che gli obblighi del notaio solo entro certi limiti discendano dal contratto e, comunque, non siano da quello regolati. Soprattutto, però, questa “classificazione” risulta incongrua rispetto al proprio modello civilistico. Come avverte attenta dottrina, «la singolarità della disciplina si coglie, con riguardo al mandato conferito nell’interesse di un terzo, poiché la persistenza delle obbligazioni contraenti non trova riscontro nell’esplicito riconoscimento di un diritto del terzo a pretendere la prestazione dovuta dal mandatario» (121). Circostanza, quest’ultima, non compatibile con il regime normativo già esaminato, relativamente alle responsabilità notarili per l’imposta di registro (122). La responsabilità del notaio quale mandatario, dunque, alla stregua di tale principio, avrebbe dovuto essere limitata a quanto ricevuto/versato nelle sue mani dalle parti stesse e non corrispondere, invece, all’imposta dovuta e, comunque, non avrebbe dovuto dare diritto al creditore fiscale di agire nei confronti del notaio.

consentito ricusare il proprio ministero se le parti rifiutassero il deposito, presso di lui, anche solo degli onorari e delle spese riguardanti l’atto. Ex art. 74 della medesima Legge notarile, infatti, «il notaro ha diritto per ogni atto, copia, estratto o certificato, e per ogni altra operazione eseguita nell’esercizio della sua professione, ad essere retribuito dalle parti mediante onorario, oltre al rimborso delle spese ed ai diritti accessori». Il successivo art. 78, comma primo, specifica «salvo quanto è disposto dall’art. 28, ultimo capoverso, per le persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio, le parti sono tenute in solido verso il notaro tanto al pagamento degli onorari e diritti accessori quanto al rimborso delle spese». (121) Cfr. M. Nuzzo, Clausola nell’interesse altrui nel contratto di mandato, op. loc. ult. cit. (122) Circostanza, peraltro non ignorata dalla stessa dottrina che ha suggerito tale ricostruzione. La predetta dottrina ne propone una ibridazione, proprio per effetto delle peculiarità dell’obbligazione fiscale e della disciplina legale che la riguarda. In merito si rinvia alle argomentazioni di P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 10 ss. E, tuttavia, se il riferimento al mandato nell’interesse del terzo non può spiegare i peculiari obblighi del notaio nei confronti del Fisco non si rinviene l’utilità dell’esegesi proposta. Il problema, infatti, è proprio quello di assegnare alla responsabilità notarile una natura giuridica che sia compatibile con quella di un istituto esistente e quest’obiettivo fallisce, restando comunque necessario alterare le caratteristiche proprie di tutti gli istituti considerati, ivi compreso quello della solidarietà tributaria atipica. Così come le disposizioni fiscali si dimostrano poco compatibili con la solidarietà, sia pure tributaria e atipica, si dimostrano poco compatibili con le caratteristiche del mandato nell’interesse del terzo. Affermare che siano compatibili solo fino a un certo punto può essere un pregevole tentativo per un condivisibile scopo ma, per ciò stesso, del tutto confutabile.


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In entrambi i casi, in vero, si consideri il notaio un delegato abilitato per legge a ricevere il versamento dell’imposta (123) oppure un mandatario nell’interesse del Fisco, al creditore fiscale non dovrebbe essere concesso agire presso il delegato o mandatario come se fosse egli stesso debitore del versamento (124). Tra l’altro dovrebbe affermarsi una limitazione della responsabilità notarile a quanto effettivamente versato al notaio dalle parti contraenti. Limite che sarebbe del tutto coerente con l’attribuzione del desiderato effetto liberatorio del versamento effettuato dalle parti contraenti nelle mani del notaio. Limite che, tuttavia, il legislatore non ha previsto riguardo alla responsabilità notarile. Come osservato, al contrario, al notaio può ben essere imposto il versamento dell’imposta principale anche oltre e a prescindere da quanto effettivamente a lui consegnato dalle parti e persino di quanto liquidato dal professionista stesso, essendo soggetto alla notifica dell’avviso telematico conseguente al controllo. Parte della dottrina (125) ha ritenuto che la normativa, complessivamente intesa, dia ormai fondamento a un obbligo in luogo piuttosto che insieme

(123) In vero anche un adiectus solutionis causa dovrebbe rispondere al creditore nei limiti di quanto gli hanno versato i debitori, sebbene in ambito fiscale, a lungo, ai concessionari della riscossione sia stato imposto versare il non riscosso per riscosso e, dunque, fosse legittimata una responsabilità per l’imposta non limitata a quanto in concreto ricavato dall’esazione. A tal riguardo si rinvia a G. Marongiu, Alle radici dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 1988, 465 ss. e G. Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in AA.VV., La riscossione dei tributi, a cura di A. Comelli e C. Glendi, Padova, 2010, 1 ss. (124) Cfr. Ancora P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 11 e nota 15, nella quale, nel difendere la propria operazione ermeneutica favorevole alla riconduzione nell’alveo del mandato nell’interesse del terzo, tuttavia, l’autore avverte che la disciplina dell’obbligazione notarile «va letta alla luce della particolarità del caso di specie nel quale – come detto – il rapporto è con un soggetto pubblico ed eteroregolato dalla legge. Pertanto pur essendo indiscutibile che la delegazione di pagamento ndel settore pubblicistico tragga il suo nomen iuris dalla delegazione di pagamento nel settore civilistico, occorre andare cauti nel ritenere applicabili sempre e comunque al primo i principi che regolano il secondo, in quanto i due istituti si inquadrano in due regimi giuridici diversi». V. Pappa Monteforte, Il notaio tra adempimento unico, obbligo di pagamento dell’imposta e contestazione della pretesa erariale, in riv. Notariato, 2013, 567 ss. e ne Il sistema notarile di riscossione dei tributi, Roma, 2016, ha suggerito che il notaio possa ritenersi un indicatario di pagamento pur senza rappresentare né essere mandatario del o nell’interesse del Fisco, ma anche in questo caso la responsabilità dovrebbe limitarsi al ricevuto. (125) In tal senso già C. Bafile, Sostituzione tributaria (voce), in Noviss. Dig., Appendice, vol. VII, Torino, 1987, 476 ss.


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alle parti contraenti, nonostante l’art. 57 T.U.R. continui a definirle condebitrici d’imposta. In altri termini, che al notaio il debito d’imposta corrispondente all’imposta principale di registro sia attribuito come un debito proprio e, tuttavia, correlato a «fatti o situazioni» riferibili ai soggetti che sostituisce (126). In vero, per quanto affascinante, non sembra che un simile inquadramento giovi, poiché non si rivela più compatibile di quello tuttora normativamente proposto dall’art. 57 T.U.R. (127) rispetto ai caratteri che la normativa imprime alla responsabilità notarile in esame. La fattispecie cui il legislatore può agevolmente collegare l’insorgere di una forma di sostituzione d’imposta, infatti, è quella nella quale il debito d’imposta emerga da un rapporto obbligatorio tra le parti, nel quale il sostituito sia debitore nei confronti del sostituto (128). Debito che rende possibile la previsione legislativa di un obbligo di ritenuta, corrispondente all’imposta da versare (129). Questa circostanza non si pone nella fattispecie. Se è vero, infatti, che il notaio può rifiutare i propri servigi nulla lo obbliga a rifiutarli (130) e,

(126) In tal senso già R. Pomini, L’obbligazione tributaria del notaio nella legge del registro, cit., 462 ss. Assai più di recente G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, cit., 94 ss. (127) Cass. n. 15627/2019 ha precisato al riguardo come non solo disponga l’art. 57 T.U.R., ma anche non disponga l’art. 23 d.p.r. 600/1973, che elenca tassativamente i casi di sostituzione d’imposta. (128) Sulla sostituzione d’imposta si veda M. Basilavecchia, Sostituzione tributaria (voce), in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XV, Torino, 1998, 67 ss. (129) Cfr. Cass. n. 13653/2009. In tal senso Cass. S. U. n. 10378 del 12 aprile 2019, in G.T. riv. giur. trib., n. 7/2019, 575, precisano «il dovere di versamento della ritenuta d’acconto costituisce un’obbligazione autonoma, rispetto all’imposta; un’obbligazione che la legge ha posto solamente a carico del sostituto, a mezzo degli artt. 23 ss. d.p.r. n. 600 cit.; e che trova la sua causa nel corrispondente obbligo di rivalsa stabilito dall’art. 64, comma 1, d.p.r. n. 600 cit.». (130) L’obbligo del notaio di rifiutare il suo ministero è disposto solo nell’ipotesi particolare in cui, ai sensi della lett. c), comma 63 dell’art. 1, L. n. 147/2013, almeno una delle parti contraenti richieda al notaio di depositare il prezzo o corrispettivo dell’atto di trasferimento, costituzione o estinzione di diritti reali su beni immobili. In simili ipotesi, infatti, la norma effettivamente prevede un dovere del notaio di rifiutare il proprio ministero se non gli è versata anche la provvista ai fini del versamento d’imposta (su questi aspetti V. Tagliaferri, Il conto corrente dedicato e i conseguenti obblighi in capo al notaio, cit.; G. Mattera, I principi deontologici in materia di deposito del prezzo, in AA.VV., Libro bianco sul rapporto cliente - notaio e sulla gestione dello studio notarile, cit., 299 ss.). In queste ipotesi, pertanto, potrebbe più fondatamente sostenersi, almeno riguardo all’imposta principale in senso stretto, che il notaio sia divenuto una sorta di sostituto delle parti contraenti. In tal senso si rammenta che lo stesso art. 1, co. 63, lett. a) riferisce l’obbligo di deposito a tutte le somme dovute per le quali il notaio sia responsabile o anche sostituto. S. Ghinassi, La gestione del conto dedicato


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tanto meno, a farsi anticipare la provvista economica necessaria ad adempiere al versamento d’imposta. Né il notaio è debitore egli stesso di somme nei confronti del contribuente che potrebbe e dovrebbe trattenere. Al contrario, è creditore anche del proprio compenso professionale e, ove non abbia esercitato il proprio diritto di ottenere la provvista anticipatamente, ha diritto ad esercitare una rivalsa successiva. Anche a voler concedere che potrebbero istituirsi ipotesi di sostituzione che prescindano dal prelievo alla fonte (131), occorre osservare che il legislatore non ha imposto al notaio un obbligo di rivalsa preventiva, che avrebbe potuto assimilarsi all’obbligo di trattenuta cui è soggetto il sostituto d’imposta (132). Si osserva, peraltro, come non necessariamente da quest’assimilazione discenderebbe una limitazione della responsabilità delle parti rispetto all’imposta depositata presso il notaio e da questi non versata (133), poiché la giurisprudenza non ha esitato, in passato, ad affermare la responsabilità solidale del sostituito con il sostituto non solo nelle ipotesi di mancato versamento, conseguenti alla mancata effettuazione della ritenuta, ma anche in quelle di mancato versamento nonostante l’effettuazione della ritenuta (134). Sebbe-

relativamente ad imposte ed altre anticipazioni, cit., 282, osserva al riguardo come tale dizione possa dipendere anche dai dubbi relativi all’inquadramento della responsabilità in esame e, comunque, alla circostanza che «il notaio potrebbe assumere la veste non già di responsabile, ma di un vero e proprio sostituto d’imposta». (131) Al riguardo R. Pignatone, Sostituzione tributaria e prelievo alla fonte, Padova, 1993, 237 ss. e, nello specifico, G. Tabet, op. ult. cit., 108 -109 e nota 69 per altri opportuni riferimenti bibliografici. (132) In tal senso anche P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 15, nota 2, precisa come gli obblighi del notaio – di registrazione, liquidazione e versamento – non si indentifichino con l’obbligo di ritenuta imposto al sostituto. (133) Mentre riguardo all’azione di rimborso, per esempio, l’inquadramento nell’ambito della sostituzione d’imposta sembrerebbe poter avallare una legittimazione sia del sostituto che dei contraenti sostituiti. Le Sezioni unite della Cassazione, sent. n. 15032/2009, superando precedenti ricostruzioni limitative, hanno stabilito in questo senso che sostituto e sostituito possano richiedere il rimborso e, di conseguenza, impugnarne l’eventuale rifiuto. (134) L’insegnamento delle Sezioni Unite (n. 10378/2019, cit.) appare, tuttavia, al riguardo ormai definitivamente chiarito e ricomposto in modo uniforme nel segno del principio di diritto seguente: «nel caso in cui il sostituto ometta di versare le somme, per le quali ha però operato le ritenute d’acconto, il sostituito non è tenuto in solido in sede di riscossione, atteso che la responsabilità solidale prevista dall’art. 35 D.P.R. n. 602 cit. è espressamente condizionata alla circostanza che non siano state effettuate le ritenute». Al riguardo M. Beghin, Ancora incerto il perimetro della solidarietà tributaria tra sostituto e sostituito, nota alle stesse S.U., n. 10378 del 12 aprile 2019, in G.T., Riv. giur. trib., n. 7/2019, 576 ss. In argomento anche


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ne l’art. 35 d.p.r. n. 602/1973 preveda che «quando il sostituto viene iscritto a ruolo per imposte, sopratasse e interessi relativi a redditi sui quali non ha effettuato né le ritenute a titolo di imposta né i relativi versamenti, il sostituito è coobbligato in solido», autorizzando a concludere, a contrario, che detta solidarietà non si ponga ove, invece, le ritenute fossero state effettuate (135). Non è mancata dottrina (136) che ha proposto di desumere da questa disposizione una regola o principio generale idoneo a garantire i contribuenti contro i rischi di un duplice esborso. Una sorta di ne bis in idem, applicabile anche in ipotesi diverse dalla sostituzione d’imposta, considerato che, come osservato, non sarebbe possibile inquadrare la fattispecie in esame quale forma di sostituzione. Questa disposizione, nella fattispecie, potrebbe effettivamente rivelarsi idonea a garantire l’esclusione della responsabilità delle parti contraenti che abbiano già versato la provvista al notaio (137). Anche quest’operazione ermeneutica, tuttavia, non sembra corretta. L’art. 35 d.p.r. n. 602/1973 istituendo una solidarietà atipica dipendente del sostituito nei confronti del sostituto (138), si manifesta come speciale e, come tale, dovrebbe essere di stretta interpretazione e inidonea a veicolare un principio generale (139). È finalizzata, inoltre, a salvaguardare l’interesse fiscale e non quello del sostituito (140). Istituisce, infatti, a danno del sostituito una

M. Pollio, Non c`é solidarietà tributaria tra sostituto (anche il fallimento) e sostituito se il primo trattiene ma non versa le ritenute, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 7/2007, 850 ss. (135) Trattandosi, peraltro, di una norma speciale e, dunque, di stretta interpretazione, poiché mirante a salvaguardare l’interesse fiscale istituendo un vincolo solidaristico atipico. Solidarietà che attenta dottrina non esita a definire «innaturale» rispetto alla sostituzione che, in quanto tale, dovrebbe escluderlo. Così M. Beghin, Ancora incerto il perimetro della solidarietà tributaria tra sostituto e sostituito, cit. , 577 (136) G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, cit., 94 ss. (137) Cfr. G. Di Nardo, Il Notaio e l’imposta di registro - responsabile d’imposta o esattore del fisco?, nota a Cass., ord. n. 5016/2015, cit. (138) Subordinata alla preventiva iscrizione a ruolo del sostituto stesso. (139) Tanto è vero che se ne mette in dubbio l’applicabilità nel caso della stessa sostituzione ove questa sia atipica, cioè a mero titolo di acconto e non d’imposta, come espressamente previsto dall’art. 35. In tal senso il condivisibile commento critico di M. Beghin, Ancora incerto il perimetro della solidarietà tributaria tra sostituto e sostituito, op. ult. cit. , 579 ss. (140) In vero la situazione in cui si trovano le parti contraenti rispetto alla solidarietà per l’imposta di registro già depositata nelle mani del notaio, non sarebbe simile a quella del sostituito, che lucra il vantaggio economico di aver ricevuto le somme a lordo dell’imposta


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solidarietà che mira a renderlo partecipe, nonostante la sostituzione, di una responsabilità d’imposta che altrimenti non avrebbe dovuto avere (141). Non sembra, dunque, adeguata allo scopo di delimitare la responsabilità delle parti contraenti rispetto all’imposta in esame. 6. Conclusioni. – Non esiste, dunque, una ricostruzione teorica pienamente soddisfacente riguardo al corretto inquadramento della natura giuridica della responsabilità notarile, non fosse altro perché questa non riguarda solo l’adempimento (142) e, dunque, emerge come una forma diversa e originale rispetto a quelle ordinariamente riconosciute (143). Proprio per questo, tuttavia, l’argomento di diritto intorno alle modalità di adempimento e agli effetti dello stesso non può trovare fondamento che

dovuta e per questo è coinvolto nell’adempimento, quanto semmai a quella del sostituto. Questi, versando le somme al sostituito senza aver effettuato le ritenute, è chiamato comunque a rispondere del debito d’imposta, pur non essendo in condizione di agire in rivalsa successiva nei confronti del sostituito, come osserva M. Beghin, op. ult. cit., 583. (141) Tanto è vero che attenta dottrina non esita a definirla «innaturale» rispetto all’istituto della sostituzione d’imposta al quale «la solidarietà tributaria si contrappone». Così M. Beghin, Ancora incerto il perimetro della solidarietà tributaria tra sostituto e sostituito, cit. , 577 e 583. (142) Al riguardo M. Messina, Solidarietà e soggetti passivi nell’imposta di registro, cit., 86. È appena il caso di far cenno, peraltro, a quel peculiare orientamento che, in dottrina (C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 75 ss.), evidenzia, assai più in generale, l’inadeguatezza della stessa categoria civilistica dell’obbligazione rispetto alle posizioni soggettive che le parti rivestono nei confronti del creditore fiscale e del rapporto d’imposta. Teorie che acquisiscono maggior rilievo in fattispecie come questa in cui è più evidente l’evanescenza della relazione tra situazione attiva e passiva che dovrebbe caratterizzare l’obbligazione, come osserva G. Tabet, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, cit., 99, nota 33. Anche di recente si è riproposto in dottrina il dubbio che la varietà degli strumenti giuridici che il legislatore concede al Fisco ai fini dell’attuazione del prelievo sia talmente eterogenea da rendere vano, se non anche pericoloso, il tentativo definitorio in questione e da imporne, dunque, il superamento. In tal senso anche per gli opportuni rinvii bibliografici, si rinvia a A. Comelli, Riflessioni selettive sull’oggetto del processo tributario: la teorica di Cesare Glendi nel prisma del binomio interesse legittimo – processo costitutivo, in AA. VV., Discussioni sull’oggetto del processo tributario, a cura di M. Basilavecchia - A. Comelli, 7 ss.; in tal senso anche P. Puri, Il mandato nell’interesse del fisco, cit., 12 e nota 3, pur non rinunciando alla categoria giuridica dell’obbligazione, riguardo alla complessità delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte dal prelievo in questione osserva «nell’ambito della disciplina complessiva del tributo possono esservi più spostamenti patrimoniali i quali incidono in più guise nel patrimonio di diversi soggetti a vario titolo coinvolti nell’attuazione del prelievo». (143) In tal senso G. Salanitro, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta


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nelle disposizioni speciali tributarie, le quali in atto, non attribuiscono efficacia liberatoria al versamento effettuato dai contraenti al notaio (144). Nondimeno, la stessa disciplina, evidenzia la molteplicità degli obblighi notarili e, come osservato, anche l’introduzione di un impedimento sostanziale che non consente alle parti contraenti di adempiere direttamente al versamento dell’imposta principale. Questa singolarità e difformità della responsabilità notarile rende allo stesso tempo necessario e complesso l’approfondimento del suo concreto atteggiarsi (145). Il progressivo coinvolgimento del notaio e la sua facoltà di rivalsa anticipata che il legislatore stesso, in alcuni casi, ha già trasformato in una sorta di obbligo, avendo previsto l’obbligo di rifiutare la prestazione se non si sia ricevuto prima il deposito della provvista (146), sembra avallare le teorie evolutive che muovono verso l’affermazione di una responsabilità propria o, almeno, sostitutiva del notaio medesimo. È bensì vero che queste ricostruzioni incontrano i già segnalati ostacoli e, nonostante tutto, non sembrano destinate a trovare una concreta affermazione legislativa, neppure de iure condendo. A differenza di quanto accade nelle ipotesi classiche di sostituzione d’imposta, riguardo alle quali al Fisco “con-

di registro, cit., 1264, concludeva non esser possibile ricondurre il ruolo del notaio rispetto all’imposta di registro a nessuna delle categorie riconosciute «salvo inammissibili forzature», rilevando, appunto, come « sarebbe metodologicamente errato pretendere di inserire la posizione del notaio tra quelle tradizionalmente riconosciute, trascurando le differenze normative che ostacolano, o addirittura impediscono, tale inserimento». Nello stesso senso, assolutamente condivisibile la conclusione di P. Puri, Il ruolo del notaio nel sistema di autoliquidazione delle imposte, cit., 9, laddove osserva che «gli artt. 57 T.u.r. e 64, comma 2 del D.P.R. n. 600/73, prevedono la solidarietà del notaio, non descrivendo esaurientemente una fattispecie ormai più ampia nella quale al notaio viene attribuito un diverso ruolo che lo porta ad assumere obblighi verso la parte, ma anche nei confronti del Fisco di cui il pagamento dell’imposta è solo una parte». (144) Come annota G. Salanitro, Notaio, amministrazione finanziaria e parti contraenti, tra responsabilità, collaborazione e fondo di garanzia, cit., § 4. E come ribadito dalla Cassazione che, in tal senso, ha concluso «in assenza di una norma derogatrice che espressamente sancisca l’efficacia liberatoria del pagamento eseguito dai contribuenti/contraenti in mani del notaio, questa Corte mantiene il convincimento che il notaio continui a configurarsi come responsabile d’imposta con un ruolo di garanzia assegnatogli ex lege per il rafforzamento e la satisfattività della pretesa dell’amministrazione finanziaria, fermo restando che il presupposto impositivo riguarda unicamente le parti contraenti, in capo alle quali soltanto l’ordinamento riconduce un’espressione di capacità contributiva» (ord. n. 17357/2020, cit.). (145) Cfr. E. Potito, Soggetto passivo d’imposta (voce), in Enc.dir., vol. XLII, Milano, 1990, 1231. (146) L’obbligo di rifiutare il ministero, come rammentato, è affermato nei casi di cui all’art. 1, lett. c), comma 63 L. 147/2013.


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viene” identificare il sostituto quale unico obbligato in proprio, poiché non è agevole risalire alla pletora dei contribuenti sostituiti, nella fattispecie non è difficile risalire alle parti contraenti dell’atto e queste ultime, in quanto tali, saranno probabilmente anche economicamente capienti e aggredibili con prevedibile soddisfazione. Il notaio, peraltro, non manifesta rispetto al presupposto dell’imposta quella stessa disponibilità che caratterizza il sostituto. Quest’ultimo, di norma, ha diretta disponibilità e, dunque, immediata conoscenza degli elementi che configurano il presupposto dell’imposta da versare in vece del sostituito. La cui esatta determinazione, di conseguenza, può essergli assegnata al riguardo senza necessità di delimitazioni ulteriori. Nel caso del notaio, invece, la responsabilità è delimitata all’imposta principale, con esclusione di quella complementare e suppletiva, ragionevolmente perché il pubblico ufficiale non ha sul presupposto impositivo la stessa diretta disponibilità. Il notaio registra la volontà delle parti che dispongono dei loro diritti individuando il presupposto dell’imposta di registro, di tal che sono le parti contraenti e non il notaio a manifestare una “supremazia conoscitiva” che giustifica la loro responsabilità esclusiva riguardo all’imposta suppletiva e complementare e, dunque, la delimitazione di quella notarile. Questa medesima ragione sembra rivelarsi, tuttavia, determinante nel giustificare il mantenimento della responsabilità solidale in capo alle parti contraenti anche riguardo all’imposta principale. In quest’ottica, peraltro, assume certamente rilievo, anche in favore delle parti contraenti stesse, una corretta e certa delimitazione dell’area oggettiva della responsabilità notarile. Questa dovrebbe essere ormai consolidata con assai maggior certezza di quanto non sia in realtà. Se così fosse, infatti, s’impedirebbe al creditore fiscale di avvalersi della garanzia notarile anche al di fuori dei limiti naturali dell’imposta principale di registro. Attrarre nell’alveo dell’imposta principale c.d. postuma anche gli avvisi che intervengano sulla riqualificazione dell’atto/contratto sottoposto a registrazione e, dunque, consentirne la notifica nei confronti del notaio, magari anche oltre il termine dei sessanta giorni normativamente previsto, che la Suprema Corte considera meramente ordinatorio, accresce indubbiamente le incertezze e i margini di rischio, finendo per de-


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terminare ulteriori problemi in merito alle tutele azionabili dalle parti e dal notaio (147).

Ludovico Nicotina

(147) Tutele riguardo alle quali si è ritenuto dedicare un separato approfondimento.


Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato: il problema del recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali Sommario: 1. Premessa. – 2. L’esenzione ICI per gli immobili degli enti non

commerciali: la vicenda giuridica. – 3. La decisione della Commissione europea sull’incompatibilità di tale forma di aiuto di Stato con il mercato interno e la conferma del Tribunale europeo. – 4. La sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2018. – 5. Il legittimo affidamento degli enti beneficiari dell’aiuto. – 6. L’incidenza del tempo sulla possibilità di recupero. – 7. Il problema della quantificazione dell’importo da recuperare. – 8. Possibili scenari in caso di mancato recupero dell’aiuto: la procedura d’infrazione e le sanzioni per l’Italia. In questo lavoro viene affrontato il problema del recupero degli aiuti concessi dallo Stato italiano sottoforma di esenzione dall’ICI a favore degli enti non commerciali alla luce della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 novembre 2018, che ha dichiarato l’incompatibilità di queste misure agevolative con le norme europee in materia di aiuti di Stato. In esecuzione di questa sentenza, la Commissione europea ha dato avvio ad un procedimento, tuttora in corso, volto ad accertare, in collaborazione con lo Stato italiano, se sia possibile, ed eventualmente secondo quali modalità, recuperare anche solo parzialmente gli aiuti in questione. Nel corso della trattazione verranno analizzate le questioni che potrebbero costituire un ostacolo all’effettivo recupero di tali somme, quali la sussistenza di un legittimo affidamento per i beneficiari, l’incidenza del fattore temporale e l’esatta quantificazione dell’importo da recuperare. This work focuses on the problem of recovering aids granted by the Italian State in the form of an exemption from ICI to non-profit organizations in the light of the judgment of the Court of Justice of the European Union of 6 November 2018, which has stated the incompatibility of these exemptions with the European rules on State aid. In execution of this judgment, the EU Commission has opened proceedings, not yet concluded, to establish, in collaboration with the Italian State, whether it is possible, and eventually how, recovering even partially the aid in question. Throughout the article, we will analyze the issues that may constitute an impediment to the effective recovery of this aid, such as the existence of legitimate expectations on the side of the aid beneficiaries, the incidence of time and the exact quantification of the aid amounts to be recovered.


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1. Premessa. – Com’è noto, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 novembre 2018 (1), ha dichiarato l’illegittimità delle agevolazioni fiscali riconosciute dallo Stato italiano a favore di enti non commerciali sulla base delle disposizioni nazionali in materia di ICI (2), poiché idonee a determinare un effetto distorsivo sul libero mercato, in violazione delle regole europee in materia di aiuti di Stato, dirette appunto a tutelare la concorrenza tra le imprese operanti nell’ambito del mercato interno (3). Si trattava nello specifico di agevolazioni concesse al fine di favorire tutti gli enti

(1) Per un commento a tale sentenza si vedano, tra gli altri, C. Elefante, Esenzioni fiscali ed aiuti di Stato: il recupero dell’Ici sugli immobili degli enti ecclesiastici tra difficoltà e impossibilità, in Quad. Dir. Pol. Eccl., 2018, n. 3, 765 ss.; F. Gallio, Esenzione Ici per gli enti religiosi: aiuto contrario alla normativa UE che deve essere recuperato dall’Italia, in Il fisco, 46/2018, 4465 ss.; A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi). Presupposti ed esiti di una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit.,….; A. Quattrocchi, Aiuti di Stato ed enti non commerciali: legittima esenzione imu e prospettive di recupero Ici, in Dir. prat. trib. int., 2019, n. 3, 816 ss. (2) Occorre puntualizzare che, in un’ottica meramente nazionale, la normativa agevolativa in questione risultava pienamente conforme alla Costituzione, in quanto lo Stato italiano conserva la facoltà di riservare trattamenti agevolativi sul piano fiscale a favore di persone fisiche, enti, imprese o produzioni nazionali, purché finalizzati alla tutela di valori riconducibili a norme costituzionali o a leggi ordinarie. Sul tema delle agevolazioni fiscali si veda, ex multis, S. La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968; Id., Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, 1994; F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992. (3) Il divieto di aiuti di Stato è sancito all’art. 107, paragrafo 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), secondo cui «salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». Rientrano, pertanto, nella nozione di aiuto di Stato non soltanto le misure finanziarie positive, quali ad esempio i contributi e le sovvenzioni, che si concretizzano in un’attribuzione patrimoniale a favore del beneficiario, ma anche le misure finanziarie negative, vale a dire tutti quegli interventi che, in varia forma, determinano una riduzione delle spese che il beneficiario dell’aiuto avrebbe dovuto ordinariamente sostenere. Anche le agevolazioni fiscali alle imprese o alle produzioni effettuate nel territorio nazionale possono, dunque, costituire aiuti di Stato, in quanto misure idonee a falsare la concorrenza allo stesso modo degli interventi di spesa. Le agevolazioni tributarie, infatti, determinando un trattamento di favore nei confronti dei beneficiari, sono suscettibili di ridurre i costi della produzione, consentendo agli stessi di operare sul mercato in una posizione maggiormente competitiva rispetto alle imprese concorrenti che non beneficiano di quel vantaggio. Sul punto, cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, Torino, 2017, 252 ss.; G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007, 35 ss.


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non commerciali (tra cui gli enti ecclesiastici (4)) che svolgevano specifiche attività, particolarmente meritevoli di tutela, a prescindere dall’eventuale carattere commerciale delle stesse (5). Giova rammentare che la Commissione europea, con la decisione del 19 dicembre 2012, pur stabilendo che l’esenzione dall’ICI concessa a favore degli enti non commerciali costituisse un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno, non ne ha disposto il recupero, poiché per lo Stato italiano ciò sarebbe stato impossibile da realizzare a causa della mancanza dei dati necessari per individuare i soggetti effettivamente tenuti alla restituzione dell’aiuto e per determinare con esattezza l’importo da recuperare presso ciascuno di essi. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha invece ritenuto che, nel

(4) Gli enti ecclesiastici, dal punto di vista fiscale, rientrano nell’ambito della categoria degli enti non commerciali. Ai sensi dell’art. 73, primo comma, lett. c), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi – TUIR), in tale categoria vengono, infatti, ricompresi tutti gli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che «che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali». In tema di non commercialità degli enti ecclesiastici riconosciuti, cfr. C. Redaelli, Enti non profit: la rivoluzione incomincia dal fisco, in Quad. dir. pol. eccl., 1998, n. 3, 704-705; G. Feliciani, Organizzazioni «non profit» ed enti confessionali, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, n. 1, 13 ss.; G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici, Milano, 2008, 131; P. Ronzani, Il regime tributario degli enti ecclesiastici, Padova, 2000, 213-244; A. Guarino, Organizzazioni non lucrative di utilità sociale ed enti religiosi nella riforme tributaria del terzo settore, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, n. 1; A. Fuccillo, Enti ecclesiastici e impresa commerciale, finalmente un binomio compatibile!, in Dir. eccl., 1995, II; A. Palma, ICI, IMU ed aiuti di Stato: la tassazione degli enti ecclesiastici alla luce della recente normativa e giurisprudenza nazionale e comunitaria, cit. Per un’analisi approfondita sulla fiscalità di vantaggio per gli enti religiosi nel quadro dei rapporti tra ordinamento europeo e ordinamento costituzionale italiano si rinvia a: A. Licastro, A. Ruggeri, Diritto concordatario versus diritto eurounitario: a chi spetta la primauté? (a margine della pronunzia della Corte di Giustizia del 27giugno 2017, C-74/16, in tema di agevolazioni fiscali per le “attività economiche” della Chiesa), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 26 del 2017; più risalente, A. Quattrocchi, Profili tributari degli aiuti di Stato, Padova, 2012, 311 ss. (5) Con specifico riferimento al trattamento fiscale riservato agli enti ecclesiastici, viene in rilievo l’art. 20 Cost., secondo cui «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività». Tale norma, oltre ad essere posta a tutela di eventuali trattamenti in peius nei confronti di detti enti, è diretta a garantirne l’uguale trattamento, non eliminando comunque la possibilità di interventi di favore nei loro confronti eventualmente giustificabili in ragione della tipologia di attività poste in essere. Sul punto cfr. A. Palma, ICI, IMU ed aiuti di Stato: la tassazione degli enti ecclesiastici alla luce della recente normativa e giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Fisco, 15 giugno 2019.


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caso specifico, l’impossibilità assoluta di recupero dell’aiuto non fosse stata dimostrata e, pertanto, ha annullato la decisione della Commissione europea nella misura in cui non ha ordinato allo Stato italiano di recuperare l’aiuto dichiarato illegittimo per l’impossibilità assoluta di procedervi. Spetta, quindi, alla Commissione europea, in collaborazione con lo Stato italiano, avviare un’indagine congiunta al fine di ricercare delle modalità che consentano di recuperare, anche solo parzialmente, l’ICI non riscossa. In questa misura, si intende verificare se sia ancora possibile recuperare questi aiuti nei confronti della Chiesa (6), analizzando una serie di questioni che potrebbero costituire un ostacolo all’effettivo recupero di tali somme, quali la sussistenza di un legittimo affidamento per i beneficiari, l’incidenza del fattore temporale e l’esatta quantificazione dell’importo da recuperare. 2. L’esenzione ICI per gli immobili degli enti non commerciali: la vicenda giuridica. – Sin dall’introduzione nel nostro ordinamento giuridico dell’Imposta comunale sugli immobili (ICI), l’art. 7, comma 1, lett. i), D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, ha previsto un’esenzione riguardante gli immobili “utilizzati” da enti non commerciali e “destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’art. 16, lett. a), L. 20 maggio 1985, n. 222” (7). Nella sua originaria formulazione, l’art. 7 del D. Lgs. n. 504/1992, non specificava le modalità di svolgimento delle attività per le quali era prevista l’esenzione e questo comportava molteplici incertezze nell’applicazione

(6) Sebbene l’esenzione dall’imposta fosse stata concessa genericamente a favore di enti non commerciali, i principali fruitori della stessa furono proprio gli enti ecclesiastici. Pertanto, è presso questi ultimi che dovrà essere recuperato in gran parte l’aiuto concesso dallo Stato italiano sottoforma di esenzione dall’ICI. (7) Il richiamo delle attività di cui alla (sola) lett. a) dell’art. 16 della L. n. 222/1985 consente di considerare applicabile l’esenzione alle attività di religione e di culto, vale a dire quelle dirette all’esercizio del culto, alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana. Sul punto, cfr. A. Quattrocchi, Profili tributari degli aiuti di Stato, cit., 348, in cui viene esaminata una sentenza della Corte di Cassazione (Cass., sez. trib., 8 marzo 2004, n. 4645) secondo la quale la circostanza che l’art. 7 richiami solamente la lett. a) dell’art. 16 l. n. 222 del 1985 e non la lett. b), non vale ad escludere necessariamente dall’esenzione tutte le attività elencate da tale ultima lettera, poiché alcune di esse vi rientrano essendo direttamente indicate (assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura), mentre rimangono escluse quelle di cui alla lett. b) del citato art. 16 che non sono riportate autonomamente nella lett. i) dell’art. 7 decreto ICI.


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concreta della disciplina, soprattutto nelle ipotesi in cui tali attività venivano svolte come “attività commerciali” all’interno degli immobili degli enti beneficiari dell’esenzione (8). Sul punto, la Corte di Cassazione ha chiarito che “gli immobili destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali non rientrano […] nell’ambito dell’esenzione dall’ICI (9)” e ha pertanto richiesto di verificare, quale ulteriore presupposto per la concessione di tale esenzione, “se l’attività cui l’immobile è destinato, se pure rientrante tra quelle esistenti, non sia svolta in concreto secondo le modalità di un’attività commerciale” (10). Per adeguarsi alle indicazioni della giurisprudenza, il Governo è intervenuto modificando più volte il testo dell’art. 7, primo comma, lett. i), D. Lgs. n. 504/1992. Le varie modifiche apportate nel tempo non hanno, tuttavia, contribuito a risolvere i dubbi interpretativi già emersi; al contrario, hanno reso ancora più difficile intendere l’esatta portata della norma. Dapprima l’art. 7 è stato integrato ad opera dell’art. 6 del D.L. 17 agosto 2005, n. 163, norma diretta a precisare che la suddetta esenzione fosse applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le “attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura di cui all’art. 16, primo comma, lett. b), L. n. 222 del 1985, pur svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto” (11). A seguito della mancata conversione in legge di tale decreto, il Governo è nuovamente intervenuto mediante il comma 2-bis dell’art. 7, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, aggiunto in sede di conversione ad opera della L. 2 dicembre 2005, n. 248. Nella sua originaria formulazione, il comma 2-bis prevedeva che l’esenzione ICI fosse applicabile alle attività indicate all’interno della dispo-

(8) Questo si verificava nell’ipotesi in cui le strutture ospitate negli immobili richiedevano a utenti, pazienti, studenti, etc., il pagamento di un corrispettivo potenzialmente idoneo a coprire, quantomeno, i costi del servizio erogato [cfr. A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi). Presupposti ed esiti di una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2019, n. 26, 7-8]. (9) Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza dell’8 marzo 2004, n. 4645. A commento di questa sentenza, e di altre di contenuto analogo del medesimo anno (5 marzo 2004, n. 4573; 8 marzo 2004, n. 4642; 8 marzo 2004, n. 4644; 8 marzo 2004, n. 4645), si vedano i rilievi critici di M. Allena, Esenzione Ici per gli enti ecclesiastici che svolgono attività assistenziale in regime convenzionale tra carattere solidaristico e non commercialità, in Riv. giur. trib., 2009, 8, 717 ss. (10) Corte di Cassazione, sentenza del 26 ottobre 2005, n. 20776. (11) Cfr. A. Quattrocchi, Profili tributari degli aiuti di Stato, cit., 348-349.


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sizione “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse”. Questo determinava indubbiamente una notevole estensione dell’ambito di applicazione della disciplina di esenzione, venendo sostanzialmente meno il requisito oggettivo richiesto dalla giurisprudenza della Suprema Corte, consistente nella natura non commerciale dell’attività svolta. La norma è stata nuovamente modificata dall’art. 39, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella L. 4 agosto 2006, n. 248, che riformulando in toto il comma 2-bis, ha disposto che l’art. 7, comma 1, lett. i) del decreto ICI fosse applicabile alle “attività indicate nella medesima lettera che non [avessero] esclusivamente natura commerciale”. Si tratta di una modifica in evidente controtendenza, operata al fine di ridurre l’ambito di applicazione dell’esenzione e dettata dalla necessità di evitare il rischio che la normativa italiana potesse porsi in conflitto con la normativa europea in materia di aiuti di Stato. Tale disposizione, tuttavia, consentendo agli enti non commerciali, compresi gli enti ecclesiastici, di fruire dell’esenzione ICI anche per gli immobili utilizzati per lo svolgimento di specifiche attività, indicate dalla legge, che non avessero esclusivamente natura commerciale, finiva comunque per estendere l’esenzione anche agli immobili destinati all’esercizio di attività commerciali. Questa forma di agevolazione fiscale prevista per gli immobili degli enti non commerciali risultava, pertanto, idonea a determinare un effetto distorsivo sul libero mercato, con conseguente incompatibilità di tale disciplina con le norme europee poste a tutela della concorrenza. Per evitare che la Commissione europea - che nel frattempo aveva avviato un procedimento d’indagine formale ai sensi dell’art. 108, par. 2, TFUE azionasse nei confronti dell’Italia il procedimento per infrazione di cui all’art. 258 TFUE, il Governo è intervenuto adottando il D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (12), il cui art. 91-bis ha modificato ulteriormente il testo dell’art. 7, primo comma, lett. i), D. Lgs. n. 504/1992, limitando il godimento dell’esenzione dalla nuova imposta (IMU) (13) ai soli immobili in cui le attività si svolgono “con modalità non commerciali”.

(12) Convertito con la L. 24 marzo 2012, n. 27. (13) In particolare, è stato il D. Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale), all’art. 7, ad introdurre nel nostro ordinamento l’IMU (Imposta Municipale Unica) a decorrere dal 2014 (art. 8) e a confermare per essa le esenzioni previste per l’ICI dall’art. 7, I co., lett. d) e lett. i) del D. Lgs. n. 504/1992. Peraltro, il D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (c.d. Salva – Italia), convertito in L. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha modificato alcuni aspetti dell’imposta rispetto alla sua concezione originaria, ha poi ritenuto opportuno


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L’art. 9, quarto comma, del D.L. 10 ottobre 2012, n. 174 (convertito, con modificazioni, in L. 7 dicembre 2012, n. 213) ha poi aggiunto un ulteriore periodo al comma terzo del suddetto art. 91-bis, prevedendo che con successivo decreto del Ministro dell’economia e delle finanze siano stabiliti anche «i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del primo comma dell’articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 , come svolte con modalità non commerciali» È stato così adottato il D.M. del 19 novembre 2012, n. 200, il quale ha provveduto a definire tali modalità (14) e a individuarne i requisiti generali (15) e “di settore”, ed ha inoltre introdotto specifiche disposizioni che consentono il pagamento proporzionale dell’IMU nell’ipotesi in cui l’immobile sia utilizzato per attività sia commerciali che non commerciali. 3. La decisione della Commissione europea sull’incompatibilità di tale forma di aiuto di Stato con il mercato interno e la conferma del Tribunale europeo. – A seguito delle modifiche apportate al testo dell’art. 7, primo comma, lett. i), del D. Lgs. n. 504/1992 con il D.L. n. 203/2005 e con il successivo D.L. n. 223/2006, numerose denunce sono state presentate alla Commissione europea in merito alla presunta incompatibilità con la normativa europea in

anticipare in via sperimentale l’applicazione della nuova imposta già a partire dall’anno 2012 (art. 13) senza comunque intervenire sull’esenzione per gli immobili di cui al ricordato art. 7, comma 1, lett. d) ed i) d.lgs. n. 504/1992. (14) A norma dell’art. 1, lett. p), D.M. n. 200 del 2012, si tratta di “modalità di svolgimento delle attività istituzionali prive di scopo di lucro che, conformemente al diritto dell’Unione europea, per loro natura non si pongono in concorrenza con altri operatori del mercato che tale scopo perseguono e costituiscono espressione dei principi di solidarietà e sussidiarietà”. (15) L’art. 3 del D.M. n. 200 del 2012, enumera i “requisiti generali per lo svolgimento con «modalità non commerciali» delle attività istituzionali” richiedendo che l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente non commerciale prevedano: “a) il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’ente, in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori, a meno che la destinazione o la distribuzione non siano imposte per legge, ovvero siano effettuate a favore di enti che per legge, statuto o regolamento, fanno parte della medesima e unitaria struttura e svolgono la stessa attività ovvero altre attività istituzionali direttamente e specificamente previste dalla normativa vigente; b) l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale; c) l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga un’analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta dalla legge”.


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materia di aiuti di Stato del regime nazionale dell’imposta comunale sugli immobili (ICI). La Commissione europea, nell’ottobre del 2010, ha così deciso (16) di avviare il procedimento di indagine formale ex art. 108, par. 2, TFUE, conclusosi con l’adozione della decisione C(2012)/6491 del 19 dicembre 2012. Con tale atto, la Commissione ha dichiarato incompatibili con le nome UE sugli aiuti di Stato le agevolazioni riconosciute agli enti non commerciali per fini specifici sulla base della normativa nazionale in materia di ICI. Secondo la Commissione, l’esenzione concessa agli enti non commerciali che svolgevano, nei loro immobili, attività specifiche nell’ambito del regime dell’ICI costituiva un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno. La normativa nazionale al tempo vigente consentiva, infatti, di estendere l’agevolazione fiscale anche agli immobili in cui venivano svolte attività non immediatamente riconducibili alle finalità istituzionali, di religione o di culto degli stessi enti beneficiari, essendo questi qualificabili, dunque, come “imprese” ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE (17). L’attribuzione di tale vantaggio soddisfaceva, a giudizio della Commissione, anche tutte le altre condizioni previste dal Trattato per la qualificazione della misura agevolativa come aiuto di Stato: si trattava, infatti, di un aiuto concesso “mediante l’impiego di risorse statali”, nella forma della “rinuncia

(16) Commissione europea, decisione C(2010)/348 del 12 ottobre 2010. (17) La nozione di impresa adottata dall’art. 107 TFUE è ben più ampia della nozione di impresa ricavabile dall’art. 2082 c.c., ricomprendendo qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status nell’ordinamento nazionale, dal carattere pubblico, privato o religioso-confessionale, dalle modalità di finanziamento a cui ricorre e dallo scopo, lucrativo o non lucrativo, che si propone (cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 23 aprile 1991, causa C-41/90, Klaus Höfner e Fritz Elser Mactron GmbH; ID. 19 Gennaio 1994, causa C-364/92, Eurocontrol; ID. 16 marzo 2004, nelle cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband et al.; ID. 27 giugno 2017, causa C-74/16, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania). Dunque, anche gli enti ecclesiastici possono essere qualificati come “imprese” ai fini dell’applicazione della normativa europea sugli aiuti di Stato nella misura in cui essi esercitino un’attività economicamente rilevante e, pertanto, idonea ad incidere sulla concorrenza. A tal proposito, cfr. A. Torres Gutiérrez, Las exenciones fiscales de la Iglesia Católica en el Impuesto sobre Construcciones Instalaciones y Obras en España y su incompatibilidad con la normativa europea sobre ayudas de Estado, in Quad. dir. pol. eccl., 2017, 3, 649 ss.; G. Casuscelli, “A chiare lettere - Transizioni”. Esenzioni fiscali a favore delle confessioni e aiuti di stato: le quattro condizioni ex art.107, paragrafo 1, TFUE e il tetto massimo di 200.00 euro, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www. statoechiese.it), n. 24 del 2017.


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ad un gettito fiscale” (ptt. 110-114); presentava carattere selettivo, favorendo talune imprese (gli enti non commerciali che svolgevano attività economiche) rispetto ad altre che si trovavano in una situazione fattuale e giuridica analoga (le società e gli enti commerciali che svolgevano le medesime attività), mediante un’ingiustificata deroga al “regime tributario ordinario” di riferimento (ptt. 115-128); incideva sugli scambi tra gli Stati membri determinando una “distorsione della concorrenza” (ptt.129-135). Più precisamente, la Commissione europea ha affermato che l’esenzione dall’ICI per gli enti ecclesiastici poteva essere classificata come “nuovo aiuto”, in quanto essa, al momento della sua introduzione, non era stata notificata, né altrimenti approvata dalla Commissione (ptt. 42 e 137). Nelle more del procedimento di indagine formale, lo Stato italiano ha modificato il proprio sistema, al fine di adeguarlo alle regole europee sugli aiuti di Stato, e ha adottato una nuova normativa in materia di imposta municipale sugli immobili (IMU) che risulta pienamente compatibile con il mercato interno, in quanto le esenzioni da essa previste si applicano esclusivamente agli immobili in cui si svolgono attività non economiche (ptt. 160-177). La normativa così innovata dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, ha superato il vaglio di legittimità della Commissione, impedendo il protrarsi di meccanismi di alterazione della concorrenza. Il problema continua, tuttavia, a porsi per il periodo pregresso, durante il quale la previgente disciplina ha determinato un vantaggio selettivo per gli enti non commerciali, configurando un regime di aiuti di Stato incompatibile con il mercato interno. La Commissione avrebbe dovuto pertanto adottare una decisione di recupero, unico rimedio che consente di eliminare gli effetti distorsivi prodotti dall’aiuto, ripristinando la situazione preesistente. Al riguardo, alla luce delle specificità del caso in esame, la Commissione ha ritenuto che sarebbe stato assolutamente impossibile per lo Stato italiano recuperare gli aiuti illegittimi a causa della mancanza dei dati necessari per determinare con esattezza l’importo dell’imposta da recuperare (pt. 197). Le banche dati fiscali e catastali non consentivano, infatti, di ottenere le informazioni necessarie al fine di calcolare il dovuto; pertanto, la Commissione non ne ha disposto il recupero. Questa decisione della Commissione europea è stata oggetto di riesame da parte del Tribunale dell’Unione che, con le due rinomate “sentenze gemelle”


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del 15 settembre 2016 (18), ha respinto i ricorsi presentati da un contribuente italiano, proprietario di un bed & breakfast, e da un istituto d’insegnamento privato, i quali ne lamentavano l’illegittimità. Essi ne chiedevano pertanto l’annullamento, sostenendo di essersi trovati, a causa di tale decisione della Commissione, in una posizione di svantaggio concorrenziale rispetto agli enti ecclesiastici o religiosi situati nelle immediate vicinanze e che esercitavano attività simili alle loro beneficiando delle esenzioni fiscali in questione. Con le sentenze del 15 settembre 2016, il Tribunale dell’Unione Europea ha valutato i due ricorsi ricevibili sul piano processuale (19), ma li ha respinti nel merito in quanto infondati. Il giudice europeo ha, infatti, confermato quanto deciso dalla Commissione europea in merito al mancato ordine di recupero e alla mancata qualificazione come aiuto di Stato dell’esenzione IMU ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE. In particolare, le due sentenze hanno escluso che la Commissione sia incorsa in un “errore di diritto” affermando la non recuperabilità dell’aiuto concesso sottoforma di esenzione ICI “sin dalla fase di indagine formale” (pt. 87 (20)), e in “un errore di valutazione per aver dichiarato che le autorità italiane non disponevano di alcun mezzo che consentisse loro di procedere al recupero, anche solo parziale” del medesimo (pt. 110). La decisione della Commissione di non ordinare il recupero dell’ICI non versata dagli enti ecclesiastici viene, pertanto, giudicata legittima “alla luce [delle] spiegazioni” fornite dall’Italia relativamente alla “struttura del catasto e [all]’assenza di informazioni fiscali pertinenti, [che consentissero di] estra-

(18) Tribunale UE, VIII sezione, sentenza del 15 settembre 2016, causa T-219/13, Ferracci vs. Commissione; ID., 15 settembre 2016, causa T-220/13, Scuola Elementare Maria Montessori vs. Commissione. A commento di quest’ultima sentenza cfr. M. Allena, IMU, enti ecclesiastici e aiuti di Stato: riflessioni a margine delle sentenze del Tribunale UE di primo grado, in attesa della decisione della Corte di Giustizia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., n. 8 del 2017; G. D’angelo, Il favor fiscale dell’ente ecclesiastico-religioso “imprenditore sociale” nella prospettiva del divieto europeo di aiuti di Stato: conferme problematiche dalla recente giurisprudenza UE in tema di esenzione IMU/ICI, in Quad. dir. pol. eccl., 2016, 3, 661 ss. (19) La ricevibilità dei ricorsi contro la decisione della Commissione del 19 dicembre 2012 è stata valutata ai sensi dell’art. 263 TFUE. Il Tribunale UE ha ritenuto che, nel caso di specie, erano soddisfatte tutte le condizioni previste dalla norma del Trattato per la proposizione del ricorso in annullamento dinnanzi ai giudici dell’Unione avverso un atto delle istituzioni europee (ptt. 37-67 della sentenza T-220/13). (20) Le citazioni sono tratte dal testo della sentenza T-220/13, Scuola Elementare Maria Montessori vs. Commissione.


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polare dalle banche dati […], con effetto retroattivo, il tipo di dati necessari per avviare un’azione di recupero” (pt. 85); nonché in considerazione del fatto che i ricorrenti non sono riusciti “a dimostrare che la natura delle attività svolte dagli enti beneficiari dell’ICI avrebbe potuto essere individuata ricorrendo a metodi alternativi” (pt. 110). 4. La sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2018. – Le argomentazioni del Tribunale non hanno persuaso la scuola ricorrente, la quale, impugnando la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte di Giustizia, ha nuovamente chiesto l’accertamento dell’illegittimità della decisione della Commissione per la parte in cui non aveva disposto il recupero dell’aiuto concesso sotto forma di esenzione dall’ICI, nonché per aver escluso che le misure relative all’esenzione dall’IMU rientrassero nell’ambito di applicazione dell’art. 107, par. 1, TFUE. Anche la Commissione ha impugnato le sentenze del Tribunale, chiedendone l’annullamento per aver erroneamente dichiarato la ricevibilità dei ricorsi di primo grado. L’impugnazione delle due sentenze del Tribunale da parte dell’istituto scolastico ricorrente in primo grado e della Commissione europea sono all’origine delle cause riunite da C-622/16 a C-624/16 (21) e della sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2018 (22). La Corte ha innanzitutto esaminato la questione della ricevibilità dei ricorsi, ai sensi dell’art. 263, par. 4, TFUE, basandosi sulle conclusioni dell’Avvocato generale, depositate in data 11 aprile 2018. Quest’ultimo ha ritenuto condivisibile quanto già argomentato dal Tribunale in merito alla ricevibilità dei ricorsi, ricorrendo nel caso di specie tutte le condizioni previste dall’art. 263, par. 4, TFUE (23).

(21) Con decisione del presidente della Corte dell’11 aprile 2017, le cause da C-622/16, C-623/16 e C-624/16 sono state riunite ai fini della fase orale e della sentenza. (22) Cfr. C. Elefante, Esenzioni fiscali ed aiuti di Stato, cit., 765 ss.; F. Gallio, Esenzione Ici per gli enti religiosi, cit., 4465 ss.; A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi), cit….; A. Quattrocchi, Aiuti di Stato ed enti non commerciali, cit., 816 ss. (23) Con specifico riguardo ai contenuti della sentenza che riguardano il motivo di impugnazione relativo alla ricevibilità dei ricorsi di primo grado e all’errata interpretazione e applicazione dei requisiti di cui all’art. 263, par. 4 TFUE (ptt. 19-68), cfr. G. Caggiano, La legittimazione ad agire per annullamento di un atto regolamentare da parte di soggetti che dimostrino un interesse individuale: il caso Montessori/Ferracci in materia di aiuti di Stato e le


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Quanto al merito della causa, la Corte ricorda che l’adozione dell’ordine di recupero di un aiuto illegale “è la logica e normale conseguenza dell’accertamento della sua illegalità” (24) (pt. 77 della sentenza della Corte). La Commissione deve quindi disporre il recupero degli aiuti ogniqualvolta venga accertata la loro incompatibilità con la normativa europea. Rispetto a questa regola generale è comunque prevista un’eccezione, in base alla quale la Commissione europea non può imporre il recupero di un aiuto illegale “qualora ciò sia in contrasto con un principio generale del diritto dell’Unione” (25) (pt.78), come quello secondo cui «ad impossibilia nemo tenetur» (26). Tuttavia – sottolinea la Corte – il recupero di aiuti illegali può essere considerato, in maniera obiettiva e assoluta, impossibile da realizzare unicamente quando la Commissione accerti, dopo un esame scrupoloso e minuzioso, l’esistenza delle difficoltà addotte dallo Stato membro interessato nonché l’assenza di modalità alternative di recupero (pt. 92) (27). Nel caso concreto sottoposto all’esame della Corte, la Commissione si è “limitata [invece] a dedurre l’impossibilità assoluta di recuperare gli aiuti illegali in questione dal solo fatto che era impossibile ottenere le informazioni necessarie per il recupero di tali aiuti avvalendosi delle banche dati catastali e fiscali italiane, [astenendosi] dall’esaminare l’eventuale esistenza di modalità

esenzioni fiscali ICI/IMU agli enti ecclesiastici, in Eurojus.it (www.rivista.eurojus.it), ottobredicembre 2018. (24) L’obiettivo principale di un simile ordine è quello di eliminare la distorsione della concorrenza che si è realizzata in conseguenza dell’erogazione dell’aiuto illegittimo. Con il recupero di tale aiuto, infatti, “il beneficiario è privato del vantaggio di cui aveva fruito sul mercato rispetto ai suoi concorrenti e la situazione esistente prima della corresponsione dell’aiuto è ripristinata”: così, ex multis, Corte di Giustizia, sentenza del 29 aprile 2004, causa C-372/97, Italia vs. Commissione, pt. 104; ID. 21 dicembre 2016, cause riunite C-164/15 P e C-165/15 P, pt.116. (25) Art. 16, par. 1, del regolamento (UE) n. 1589 del 2015. (26) Altri principi generali frequentemente invocati dalla Corte di Giustizia in questo contesto sono quelli della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto. (27) In altri termini, si tratta di verificare se, in concreto, sia stato correttamente applicato il principio di leale collaborazione, stabilito dall’art. 4, par. 3 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), in virtù del quale se uno Stato membro incontra, fin dalla fase del procedimento di indagine formale, delle difficoltà nel recuperare gli aiuti illegali, esso deve sottoporre al vaglio della Commissione le ragioni di tali impedimenti e cooperare lealmente con la stessa per superare le problematiche rappresentate, proponendo, in particolare, modalità alternative che consentano un recupero almeno parziale degli aiuti in questione (cfr. C. Elefante, Esenzioni fiscali ed aiuti di Stato: il recupero dell’Ici sugli immobili degli enti ecclesiastici tra difficoltà e impossibilità, cit., 776).


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alternative che consentissero il recupero, anche solo parziale, di tali aiuti” (pt. 93). Per quanto concerne l’aspetto probatorio, la Corte precisa nella sentenza che “spettava [unicamente] alla Commissione dimostrare, nella decisione controversa, che le condizioni che l’autorizzavano ad astenersi dall’adottare [l’ordine di recupero] erano soddisfatte” (pt. 98) e che, dunque, vi era stata una collaborazione con lo Stato italiano nel ricercare scrupolosamente tutte le possibili soluzioni di recupero e che tale collaborazione non aveva prodotto esiti positivi. Pertanto, i ricorrenti, a carico dei quali la sentenza del Tribunale del 2016 aveva posto l’onere di provare l’esistenza di metodi alternativi per il recupero degli aiuti concessi sottoforma di esenzione ICI, non sono tenuti a dimostrare l’effettiva possibilità di recuperare tali aiuti. Nel caso di specie, dunque, non sarebbe stato sufficiente a dimostrare l’impossibilità assoluta di procedere al recupero degli aiuti illegittimi la mera difficoltà nell’identificare il tipo di attività (economica o non economica) svolta negli immobili degli enti non commerciali, o nel calcolare l’importo dell’imposta da recuperare ovvero l’impossibilità di ottenere le informazioni necessarie per il recupero di tali aiuti attraverso le banche dati catastali e fiscali italiane (28). Sarebbe stato necessario, almeno in quest’ultimo caso, verificare l’esistenza di modalità alternative che consentissero un recupero, anche solo parziale, dell’aiuto in questione. In mancanza di una simile valutazione, la Commissione non ha dimostrato l’impossibilità assoluta di recupero dell’ICI non versata dagli enti ecclesiastici. Pertanto, la Corte afferma che il Tribunale ha commesso un errore di diritto non avendo rilevato l’errore di diritto in cui è a sua volta incorsa la Commissione quando ha dichiarato, sin

(28) In questa sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2018, al punto 91, viene richiamata l’ampia giurisprudenza comunitaria secondo cui la condizione di impossibilità assoluta di recupero degli aiuti illegali non può ritenersi soddisfatta nell’ipotesi in cui lo Stato membro interessato si limiti a comunicare alla Commissione difficoltà interne, di natura giuridica, politica o pratica connesse all’esecuzione della decisione di recupero e imputabili alle azioni o alle omissioni delle autorità nazionali, senza intraprendere alcuna vera iniziativa al fine di recuperare l’aiuto presso le imprese interessate e senza proporre alla Commissione delle soluzioni alternative che consentano di superare tali difficoltà (cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 13 novembre 2008, causa C-214/07, Commissione vs. Francia, pt. 50; ID., 12 febbraio 2015, causa C-37/14, Commissione vs. Francia, pt. 66 e giurisprudenza ivi citata). Nel caso di specie, il fatto che le informazioni necessarie per il recupero degli aiuti illegali in questione non possano essere ottenute utilizzando le banche dati catastali e fiscali italiane appare riconducibile a difficoltà interne, imputabili alle azioni o alle omissioni delle autorità nazionali e, pertanto, non sarebbe sufficiente a dimostrare l’impossibilità assoluta di procedere al recupero.


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dalla fase della procedura di indagine formale, l’impossibilità assoluta per la Repubblica italiana di recuperare gli aiuti dichiarati illegittimi, considerando impropriamente quale impossibilità assoluta quella di estrapolare, con effetto retroattivo, dalle banche dati catastali e fiscali disponibili il tipo di dati necessari per avviare un’azione di recupero dell’aiuto. Per tale ragione, la Corte di Giustizia ha annullato la sentenza del Tribunale “nella parte in cui ha respinto il ricorso […] diretto all’annullamento della decisione della Commissione […] per la parte in cui [essa] non ha ordinato il recupero degli aiuti illegali concessi sulla base dell’esenzione dall’ICI” (n. 1), e, conseguentemente, ha annullato la decisione della Commissione del 19 dicembre 2012 (n. 3) (29). La Corte si è, inoltre, espressa a favore della legittimità del regime di esenzione dall’IMU per gli enti non commerciali, confermando in tal senso la sentenza del Tribunale sulla compatibilità di tale regime con il diritto dell’Unione (30).

(29) Ciò che merita di essere sottolineato è che questa sentenza della Corte di Giustizia non entra nel merito né della questione relativa all’effettiva possibilità di recuperare l’ICI non riscossa né delle modalità con cui eventualmente effettuare tale recupero, ma si limita a rilevare un errore di diritto, di natura procedurale, attinente alla mancata/insufficiente istruttoria svolta dalla Commissione al fine di stabilire se il recupero di tale aiuto risulti assolutamente e oggettivamente impossibile da realizzare. Pertanto, non è escluso che la Corte di Giustizia possa in futuro confermare, a seguito di un più minuzioso esame della Commissione europea, che davvero non sia possibile recuperare l’aiuto illegittimo concesso dallo Stato italiano sottoforma di esenzione dall’ICI a favore degli enti non commerciali. (30) I requisiti previsti dalla normativa italiana per il riconoscimento dell’esenzione IMU sono tali da garantire che la stessa non venga applicata in relazione ad attività economiche che, per loro natura, si pongono in concorrenza con quelle di altri operatori del mercato che perseguono uno scopo di lucro e, pertanto, non risulta configurabile, in tali circostanze, un aiuto di Stato vietato dalla normativa europea. A tale riguardo, la Corte richiama la propria giurisprudenza (Corte di giustizia, sentenza del 27 giugno 2017, causa C-74/16, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania) secondo cui le esenzioni fiscali in materia immobiliare possono costituire aiuti di Stato vietati se e nei limiti in cui le attività svolte nei locali in questione siano attività economiche. Come ha opportunamente sottolineato Rita Pianese, “l’ordinamento europeo riconosce la sovranità anche fiscale degli Stati membri dell’Unione Europea, disinteressandosi, però, del trattamento tributario degli enti ecclesiastici, il quale, specie in merito ai trattamenti fiscali di favore, può dar vita ad abusi, assumendo una rilevanza critica per il diritto comunitario esclusivamente a fronte di squilibri competitivi, deformando le condizioni di concorrenza, avvantaggiando alcuni soggetti economici a scapito di altri per ragioni non compatibili con le logiche e i principi che disciplinano il funzionamento del Mercato Unico”. Cfr. R. Pianese, Esenzioni fiscali concesse alla Chiesa, in Innovazione e Diritto, 2010, 6, 177-198.


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5. Il legittimo affidamento degli enti beneficiari dell’aiuto. – In esecuzione della citata sentenza della Corte di Giustizia, spetta ora alla Commissione europea avviare un’indagine, in collaborazione con lo Stato italiano, al fine di ricercare modalità alternative rispetto a quelle già prospettate, che consentano di recuperare, anche solo parzialmente, l’ICI non riscossa. Soltanto nell’ipotesi in cui, all’esito di un più attento e scrupoloso esame, ne venisse confermata l’impossibilità assoluta, la Commissione potrà legittimamente astenersi dall’adottare l’ordine di recupero e lo Stato italiano sarà esonerato dall’obbligo di richiedere le somme non versate alla Chiesa (31). Per stabilire se ad oggi sia ancora possibile recuperare l’ICI non versata dagli enti ecclesiastici, occorre affrontare una serie di questioni giuridiche di notevole spessore. Una prima questione riguarda la possibilità per gli enti beneficiari dell’aiuto di opporsi ad un’eventuale richiesta di restituzione invocando il loro legittimo affidamento (32) sull’art. 7, primo comma, lett. i), D. Lgs. n. 504/1992, anche per ciò che concerne la compatibilità di questa norma con il diritto dell’Unione. A tal proposito occorre richiamare quanto disposto dall’art. 16, par. 1, del Regolamento (UE) n. 1589 del 2015, secondo cui “la Commissione non impone il recupero dell’aiuto qualora ciò sia in contrasto con un principio generale del diritto dell’Unione”, quale potrebbe essere quello della tutela del legittimo affidamento del beneficiario che abbia creduto incolpevolmente nella legittimità delle agevolazioni fiscali ottenute in base alla normativa nazionale.

(31) Secondo quanto disposto dall’art. 16, par. 3, del Regolamento (UE) n. 1589 del 2015, alle decisioni della Commissione con cui viene imposto ad uno Stato membro di recuperare l’aiuto illegittimamente erogato deve essere data esecuzione “immediata ed effettiva”, attraverso le procedure di recupero previste dalla legge dello Stato membro interessato. Pertanto, un’eventuale decisione della Commissione europea che disponga il recupero dell’aiuto illegalmente concesso sottoforma di esenzione dall’ICI per gli enti non commerciali sarebbe vincolante per lo Stato italiano, il quale non potrebbe sottrarsi all’obbligo di eseguire tale decisione della Commissione se non nell’ipotesi in cui venga dimostrata l’esistenza di circostanze eccezionali da cui derivi l’impossibilità assoluta per lo Stato membro di dare corretta esecuzione alla decisione. (32) Sul tema della tutela del legittimo affidamento nell’ordinamento giuridico dell’Unione, cfr. S. Bastianon, La tutela del legittimo affidamento nel diritto dell’Unione Europea, Milano, 2012; S. Pérez, Il principio del legittimo affidamento, in A. Di Pietro - T. Tassani (a cura di), I principio europei del diritto tributario, Padova, 2013, 99 ss.; Logozzo M., I principi di buona fede e del legittimo affidamento: tutela “piena” o “parziale”?, in Dir. prat. trib., 2018, n. 6, 2325 ss.


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La Corte di Giustizia ha precisato che il diritto di avvalersi del principio della tutela del legittimo affidamento si estende a tutti i soggetti nei confronti dei quali un’istituzione dell’Unione abbia fatto sorgere aspettative fondate (33). Pertanto, il legittimo affidamento può formarsi in presenza di un atto che, contenendo assicurazioni precise e perseguendo un interesse che non prevalga su quello del singolo operatore, sia percepito come irrevocabile (34). Con specifico riferimento alla materia degli aiuti di Stato, la Corte ha chiarito che “le imprese beneficiarie di un aiuto possono fare legittimo affidamento, in linea di principio, sulla regolarità dell’aiuto solamente qualora quest’ultimo sia stato concesso nel rispetto della procedura prevista [dall’art. 108 TFUE]. Un operatore economico diligente, infatti, deve normalmente essere in grado di accertarsi che tale procedura sia stata rispettata” (35). Orbene, nell’articolata vicenda che ha portato a riconoscere nell’esenzione di cui all’art. 7, primo comma, lett. i), D. Lgs. n. 504 del 1992 un illegittimo aiuto di Stato, non sono emerse circostanze eccezionali sulle quali gli enti beneficiari abbiano potuto fondare il loro legittimo affidamento sulla natura regolare dell’aiuto. Anzi, i molteplici interventi di modifica della disposizione citata, operati dal legislatore nazionale nel corso degli anni successivi alla sua introduzione, testimoniano che già al tempo si avvertiva la necessità di adeguare questa normativa interna alle regole europee in materia di aiuti di Stato. Pertanto, gli enti non commerciali, a fronte di una normativa così spesso oggetto di modifiche e a fronte delle varie pronunce giurisprudenziali che, al tempo, hanno ora negato ora riconosciuto l’esenzione sulla base di differenti interpretazioni degli incerti presupposti normativi, non avrebbero potuto riporre alcun affidamento sulla legittimità delle agevolazioni fiscali loro concesse sulla base di questa normativa nazionale. Occorre, inoltre, rammentare che l’esenzione ICI per gli enti non commerciali, al momento della sua introduzione, non era stata notificata alla Com-

(33) Corte di Giustizia, sentenza del 9 luglio 2015, causa C-144/14, Cabinet Medical Vetrinar Dr. Andrei; ID., 21 febbraio 2018, causa C-628/16, Kreuzmayer GmbH; ID., 14 giugno 2017, causa C-26/16, Santogal. (34) Corte di Giustizia, sentenza del 25 maggio 2000, causa C-82/98, Kogler, pt. 33. (35) Corte di Giustizia, sentenza del 20 marzo 1997, causa C-24/95, pt. 25; ID., 14 gennaio 1997, causa C-169/95, Spagna vs. Commissione, pt. 51. In senso conforme si veda Corte Cass., ord. 29 ottobre 2018, n. 27401: “rientra […] nella diligenza dell’operatore economico accertare che la procedura prevista per il controllo di regolarità degli aiuti da parte della Commissione sia stata rispettata”.


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missione, né questa l’ha mai approvata. Risulta, dunque, configurabile una violazione delle regole procedurali di cui all’art. 108 TFUE (36) che, come già evidenziato, preclude la possibilità per i soggetti beneficiari di invocare il principio del legittimo affidamento per sottrarsi all’obbligo di restituzione dell’aiuto. La stessa Commissione, nella decisione del 19 dicembre 2012, ha esplicitamente escluso che questo principio sia invocabile nel caso di specie, in quanto le risposte da essa fornite ai denuncianti, nonché in occasione di un’interrogazione parlamentare (37) in fase d’indagine preliminare, non erano, né potevano apparire, delle “assicurazioni specifiche, incondizionate e concordanti di natura tale da indurre i beneficiari della misura in questione a nutrire fondate aspettative” sulla legittimità di tale regime di aiuti (38). In conclusione, il principio della tutela del legittimo affidamento non sarebbe invocabile dagli enti che hanno beneficiato dell’esenzione dall’ICI poiché, se fossero stati operatori economici prudenti e accorti, sarebbero stati in grado di “prevedere l’adozione di un provvedimento comunitario idoneo a ledere i [loro] interessi” (39), qual è un ordine di recupero. 6. L’incidenza del tempo sulla possibilità di recupero. – Una volta esclusa l’operatività del principio del legittimo affidamento per affermare l’impossibilità assoluta di recuperare presso gli enti non commerciali gli aiuti conces-

(36) L’art. 108, par. 3, TFUE impone agli Stati membri di notificare alla Commissione, in tempo utile perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a istituire o a modificare aiuti (obbligo di notifica). Gli Stati membri sono inoltre tenuti a non dare esecuzione alle misure progettate e notificate alla Commissione prima che quest’ultima si sia pronunciata sulla loro compatibilità con il mercato interno (obbligo di stand-still). La ratio dell’obbligo di standstill è la medesima su cui si fonda l’obbligo di preventiva notifica, e consiste nella necessità di impedire che la misura possa produrre effetti distorsivi sulla concorrenza prima che la Commissione si pronunci sull’ammissibilità di questi aiuti. (37) Interrogazione scritta E-177/2009 (GU C 189 del 13.7.2010). In particolare, nella risposta a tale interrogazione, la Commissione ha dichiarato che, a seguito di una valutazione preliminare, essa ha ritenuto “improbabile” che il regime ICI ponesse le istituzioni ecclesiastiche in una posizione vantaggiosa sotto il profilo della concorrenza”. (38) Commissione europea, decisione C(2010)/348 del 12 ottobre 2010, ptt. 183-190. (39) Corte di Giustizia, sentenza del 22 giugno 2006, cause riunite C-182/03 e C-217/03, pt. 147.


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si sottoforma di esenzione dall’ICI, occorre affrontare la questione relativa all’incidenza del tempo sulla possibilità di recupero. Si tratta di stabilire se il diritto europeo debba prevalere rispetto alla normativa italiana che stabilisce termini di decadenza per l’esercizio dell’azione impositiva, ove può catalogarsi l’attività di recupero delle agevolazioni fiscali. A tal proposito occorre premettere che il diritto dell’Unione non stabilisce una specifica procedura che i singoli Stati membri devono seguire per il recupero degli aiuti di Stato illegittimi, venendo rimessa alla legislazione nazionale di ciascuno Stato l’individuazione della procedura e degli atti occorrenti a tale scopo (40). Nell’ordinamento giuridico italiano, il recupero degli aiuti di Stato è disciplinato dall’art. 48 della L. 24 dicembre 2012, n. 234, il quale prevede che, a seguito della notifica di una decisione di recupero adottata dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 16 del regolamento (UE) n. 1589/2015, le competenti autorità nazionali (41) provvedano, con un apposito atto, ad individuare i soggetti tenuti alla restituzione dell’aiuto, ad accertare gli importi dovuti, nonché a determinare le modalità e i termini di pagamento. Questa disposizione, essendo applicabile a varie ipotesi di aiuti di Stato, risulta alquanto generica e va dunque integrata con le regole previste dalla normativa del settore su cui impattano gli aiuti. Qualora l’aiuto da recuperare riguardi un’agevolazione fiscale, come espressamente previsto dalla legge, deve intervenire il Ministro dell’Economia e delle Finanze, adottando un decreto che individui i soggetti beneficiari dell’aiuto nonché indichi l’ammontare delle somme da restituire e i termini e

(40) Tali procedure di diritto interno devono consentire l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione di recupero adottata dalla Commissione europea, come espressamente richiesto dall’art. 16, par. 3, del regolamento (UE) n. 1589/2015, e non devono essere meno favorevoli rispetto alle procedure che riguardano ricorsi analoghi del diritto interno (principio di equivalenza) né rendere eccessivamente difficile il recupero delle misure di sostegno illegittime (principio di effettività). (41) Si tratta del Ministro competente per materia ovvero, nel caso di più amministrazioni competenti, di un commissario straordinario, nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri tra i soggetti da individuare all’interno delle amministrazioni che hanno concesso gli aiuti oggetto della decisione di recupero o di quelle territorialmente interessate dalle misure di aiuto (art. 48, comma 2, L. n.234/2012). Nei casi in cui l’ente competente sia diverso dallo Stato, il provvedimento per l’individuazione dei soggetti tenuti alla restituzione dell’aiuto, l’accertamento degli importi dovuti e la determinazione delle modalità e dei termini di pagamento è adottato dalla regione, dalla provincia autonoma o dall’ente territoriale competente (comma 3).


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le modalità per provvedere al pagamento. Questo atto, tuttavia, non esaurisce il procedimento di recupero, in quanto, pur nel silenzio della norma, è sostenibile che l’Agenzia delle entrate debba in seguito notificare ai singoli contribuenti interessati l’atto di recupero dell’agevolazione fiscale (42); in caso di mancata restituzione spontanea dell’aiuto, l’Agenzia delle entrate-riscossione provvede a notificare la cartella di pagamento (43). Si è discusso, in passato, se gli atti finalizzati al recupero di un aiuto di Stato abbiano natura tributaria o amministrativa e ciò, non al fine dell’applicazione o meno di un termine di decadenza dell’azione, ma nella prospettiva di individuare la giurisdizione competente a decidere su eventuali impugnazioni. Secondo la prevalente dottrina (44), tali atti acquisiscono la medesima natura della misura di aiuto adottata dallo Stato membro, dovendosi qualificare il potere amministrativo di disapplicazione nella stessa prospettiva della norma fiscale considerata come aiuto; pertanto, nel caso di agevolazioni tributarie, l’atto di recupero dovrebbe assumere natura tributaria. Un orientamento mi-

(42) L’atto con cui si accerta la non spettanza di un’agevolazione fiscale rientra nella categoria giuridica degli “avvisi di accertamento”, trattandosi di un atto che va a rettificare la dichiarazione sia pur con riferimento all’aliquota d’imposta e non alla base imponibile. Si potrebbe, pertanto, sostenere che siano applicabili all’atto di recupero di un’agevolazione fiscale i termini di decadenza normativamente previsti per la notifica degli avvisi di accertamento. Nel corso della trattazione si preciserà, tuttavia, che questa tesi non può essere sostenuta al fine di escludere la possibilità di procedere ad un effettivo recupero degli aiuti indebitamente concessi dallo Stato italiano sottoforma di esenzione dall’ICI, in quanto – come espressamente stabilito dalla Corte di Cassazione nelle sentenze del 3 agosto 2012, n. 14022 e del 16 maggio 2012, n. 7659 – non possono costituire un ostacolo all’effettivo recupero degli aiuti dichiarati illegittimi dalla Commissione europea le norme interne sulla decadenza o sulla prescrizione. Si potrà, dunque, procedere a formalizzare la pretesa nei confronti dei beneficiari a prescindere dall’eventuale decorso dei termini decadenziali previsti dalla normativa interna, rivelando a tal fine le sole regole europee fissate nell’art. 17 del regolamento (UE) n. 1589 del 2015. (43) Ad opera del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, a partire dal 1 luglio 2017, la riscossione degli importi dovuti per effetto delle decisioni di recupero adottate dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 16 del regolamento (UE) n. 1589/2015, è effettuata dall’Agenzia delle entrateriscossione, “a prescindere dalla forma dell’aiuto e del soggetto che l’ha concesso” (art. 48, comma 1, L. n. 234/2012), essendo stata disposta la soppressione di Equitalia S.p.a. (44) L. Del Federico, Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, Pescara, 2003, 197 e ss.; D. Pizzonia, Aiuti di Stato mediante benefici fiscali ed efficacia nell’ordinamento interno delle decisioni negative della Commissione UE. Rapporti tra precetto comunitario ne procedure fiscali nazionali, in Riv. dir. fin., 2005, 384 ss.; F. Tesauro, Processo tributario e aiuti di Stato, in Corr. trib., 2007, 3666 ss.; G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, cit., 92 ss.


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noritario (45) sostiene, invece, che l’attività amministrativa diretta al recupero degli aiuti di Stato illegittimi sia un’attività meramente satisfattiva, posta in essere in esecuzione di un atto vincolante delle istituzioni europee, qualificabile alla stregua degli atti amministrativi dovuti e non discrezionali, e dunque privi del carattere dell’autoritatività; in tale ottica, viene esclusa la qualificazione dell’atto di recupero come un atto amministrativo tributario (46). In atto, il problema relativo all’individuazione del giudice competente a decidere su eventuali impugnazioni degli atti di recupero degli aiuti di Stato è da ritenersi superato grazie all’intervento del legislatore nazionale che, con l’art. 49 della L. n. 234/2012, ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la risoluzione delle controversie relative “agli atti e ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell’art. 108, par. 3, TFUE”, nonché delle “controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero” della Commissione europea, a prescindere dalla forma dell’aiuto e del soggetto che l’ha concesso. Ciò non è, tuttavia, sufficiente per affermare che l’atto di recupero di un aiuto concesso sottoforma di agevolazione fiscale non abbia natura tributaria. D’altra parte, l’art. 7, comma 4, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), prevede espressamente che la natura tributaria di un atto “non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti” (47). Pertanto, il fatto che la legge abbia assegnato la giurisdizione al giudice amministrativo per la risoluzione delle controversie in materia di aiuti di Stato non fa venir meno la natura tributaria dell’atto di recupero (quale che sia la sua denominazione), il quale resta assoggettato ai termini di decadenza previsti dalle norme fiscali. Sulla base di quanto detto, l’effettiva possibilità di procedere al recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali negli anni dal 2006 al 2011 potrebbe essere ostacolata dall’opponibilità al Fisco da parte dei beneficiari dell’intervenuta decadenza del potere impositivo per il decorso dei termini normativamente previsti, posto che l’art. 1, comma 161, L. n. 296/2006 preve-

(45) C. Glendi, Recupero degli aiuti di Stato nella legislazione anti-crisi, in Corr. trib., 2009, 1000 ss.; M. Ingrosso, La comunitarizzazione del diritto tributario e gli aiuti di Stato, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, 65 ss. (46) Sul tema, cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 261. (47) Sul punto, cfr. G. Milanese, Natura tributaria dell’atto e tutela giurisdizionale, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi - A. FEDELE, Milano, 2005, 385-386.


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de che l’avviso di accertamento vada emesso entro il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Al proposito va segnalato che la Corte di Cassazione (48) ha affermato che non possono costituire un ostacolo al recupero degli aiuti indebitamente concessi dallo Stato italiano le norme interne sulla decadenza o sulla prescrizione, in quanto prevalgono le regole fissate nell’art. 17 del regolamento (UE) n. 1589 del 2015. La normativa europea prevede un termine di prescrizione decennale cui risulta soggetto il potere della Commissione europea di ordinare il recupero degli aiuti di Stato illegalmente concessi, precisando che tale termine “inizia a decorrere il giorno in cui l’aiuto illegale viene concesso al beneficiario”. Qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione per il recupero di tale aiuto interrompe questo termine, facendolo decorrere nuovamente da principio. L’art. 17 del regolamento dispone ancora che “il termine di prescrizione viene sospeso per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione”. La giurisprudenza europea ha chiarito che l’espressione “qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione”, di cui all’art. 17, par. 2, secondo periodo, del regolamento, ricomprende “l’insieme dei mezzi che questo regolamento mette a disposizione della Commissione”, incluse le richieste di informazioni che essa rivolge agli Stati membri relativamente ai possibili aiuti, le quali devono quindi considerarsi idonee ad interrompere la decorrenza del termine prescrizionale (49). Occorre inoltre precisare che la capacità interruttiva degli atti della Commissione non dipende dal fatto che essi siano stati notificati al beneficiario dell’aiuto o che quest’ultimo ne sia venuto a conoscenza. È pacifico nella giurisprudenza europea che questa disciplina in materia di prescrizione non possa essere derogata da norme nazionali degli Stati membri che, prevedendo termini di decadenza o di prescrizione più brevi o una diversa decorrenza dei medesimi, impediscano il recupero dell’aiuto (50).

(48) Corte di Cassazione, sentenza del 3 agosto 2012, n. 14022; ID., 16 maggio 2012, n. 7659. (49) Tribunale UE, sentenza del 10 aprile 2003, causa T-366/00, pt 60. (50) I giudici europei hanno confermato in varie occasioni che uno Stato membro non può invocare la sussistenza di difficoltà interne di natura giuridica per giustificare l’inosservanza degli obblighi derivanti da una decisione di recupero, come, ad esempio, “le norme nazionali in materia di prescrizione oppure l’assenza di un’ordinanza di recupero in base al diritto nazionale” (cfr. Comunicazione della Commissione UE 2007/C 272/05, pt. 20 e giurisprudenza


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In senso conforme a questo orientamento giurisprudenziale, si deve richiamare succintamente la nota sentenza Lucchini (51), con la quale la Corte di Giustizia, a seguito di un rinvio pregiudiziale operato dal Consiglio di Stato, ha affermato il principio secondo il quale “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisca il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto [europeo] e la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva”. Occorre, tuttavia, precisare che, secondo un più recente orientamento della Corte di Giustizia (52), l’autorità di cosa giudicata non è destinata in ogni caso a cedere rispetto al diritto europeo. Ed infatti, nelle sentenze Pizzarotti e Telecom Italia S.p.a., la Corte ha precisato che il diritto dell’Unione non impone “a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale” (53), anche se ciò consentirebbe di risolvere un contrasto con il diritto europeo, in quanto si riconosce l’importanza fondamentale del principio dell’autorità di cosa giudicata nell’ordinamento dell’Unione e negli ordinamenti nazionali al fine di garantire sia la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia. Va rimarcato che, nel caso che ci occupa, non vi è una sentenza del giudice nazionale passata in giudicato che riconosca agli enti ecclesiastici il diritto di trattenere il vantaggio di cui hanno beneficiato in conseguenza dell’aiuto disposto a loro favore; il rapporto tributario si è consolidato, in violazione del

ivi citata). (51) Corte di Giustizia, sentenza del 18 luglio 2007, causa C-119/05, Ministero dell’industria, del Commercio e dell’Artigianato vs. Lucchini S.p.a. Per un commento sui contenuti di tale sentenza, cfr. P. Biavati, La sentenza Lucchini: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, in Rass. trib., 2007, 1591; V. Nucera, La tenuta del giudicato nazionale al banco di prova del contrasto con l’ordinamento comunitario, in Riv. dir. trib., 2008, IV, 161; G. Petrillo Il “caso Lucchini”: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, in Dir. prat. trib., 2008, II, 413; E. Scoditti, Giudicato nazionale e diritto comunitario, in Il foro it., 2007, IV, 535. (52) Cfr., ex multis, Corte di Giustizia, sentenza del 10 luglio 2014, causa C-213/13, Pizzarotti; ID. 4 marzo 2020, causa C-34/19, Telecom Italia S.p.a. vs. Ministero dello Sviluppo economico, Ministero dell’Economia e delle Finanze. (53) Corte di Giustizia, sentenza del 10 luglio 2014, causa C-213/13, Pizzarotti, pt. 59; ID. 4 marzo 2020, causa C-34/19, Telecom Italia S.p.a., pt. 65.


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diritto dell’Unione, per l’intervenuta decadenza del potere di accertamento del Fisco. A questo punto, potrebbe risultare legittimo domandarsi se, in una simile circostanza, debba comunque essere affermata la prevalenza del diritto europeo rispetto ad una normativa interna diretta a garantire la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici (quale sarebbe la normativa italiana che stabilisce termini di decadenza per l’esercizio del potere impositivo), ovvero se debba considerarsi prevalente l’esigenza di salvaguardare il valore della certezza del diritto, secondo quanto stabilito più di recente dalla Corte di Giustizia. Per chiarire quale sia l’esatta portata delle sentenze Pizzarotti e Telecom Italia S.p.a. e superare l’apparente contrasto rispetto alle conclusioni cui è giunta la sentenza Lucchini, è stato precisato dalla stessa Corte di Giustizia che quanto affermato nella sentenza Lucchini riguardava “una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato” (54); una materia nell’ambito della quale si pongono specifiche esigenze, connesse alla ratio dell’art. 107 TFUE (55), che risulterebbero prevalenti rispetto all’esigenza di assicurare la stabilità dei rapporti giuridici (56). Le cause Pizzarotti e Telecom Italia S.p.a., invece, non sollevavano simili questioni di ripartizione delle competenze e, soprattutto, non riguardavano la materia degli aiuti di Stato (57). Non si ponevano, dunque, quelle specifiche esigenze di tutela connesse alla ratio di tale normativa. Pertanto, alla luce di queste considerazioni e di quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nelle summenzionate sentenze del 2012, è sulla base

(54) Corte di Giustizia, sentenza del 10 luglio 2014, causa C-213/13, Pizzarotti, pt. 61. (55) L’art. 107 TFUE stabilisce il divieto generale di aiuti di Stato al fine di assicurare il corretto funzionamento del mercato interno, in modo tale che la concorrenza tra le imprese operanti all’interno di tale mercato non sia falsata da misure adottate da un singolo Stato membro a favore di una ristretta platea di soggetti nazionali. (56) Cfr. A. Quattrocchi, Profili tributari degli aiuti di Stato, cit., 199 ss. (57) Nel caso Pizzarotti, la Corte di Giustizia era stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi; nel caso Telecom Italia S.p.a., invece, la domanda di pronuncia pregiudiziale aveva ad oggetto l’interpretazione dell’articolo 22 della direttiva 97/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 aprile 1997, relativa ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazione.


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delle disposizioni europee, ed in particolare dell’art. 17 del regolamento n. 1589/2015, che bisogna stabilire se sia ancora possibile recuperare gli aiuti concessi sottoforma di esenzione ICI a favore degli enti ecclesiastici negli anni antecedenti al 2012, verificando se il potere della Commissione di ordinarne il recupero si sia prescritto o meno. A tal fine occorre ricordare che la prima azione intrapresa dalla Commissione con riferimento a tale regime di aiuti deve essere fatta risalire alla lettera di richiesta di informazioni inviata alle autorità italiane il 5 maggio 2006. A partire da questa data, e fino alla fine del 2012, vi sono stati, inoltre, numerosi atti della Commissione che hanno interrotto e fatto nuovamente decorrere da principio il termine prescrizionale di cui all’art. 17 del regolamento n. 1589/2015. E ancora, il ricorso presentato dinnanzi alla Corte di Giustizia, in data 13 aprile 2013, avverso la decisione della Commissione europea del 19 dicembre 2012 ha avuto l’effetto di sospendere la prescrizione almeno fino alla sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2018. Per i motivi sin qui esposti, non possono esserci dubbi circa la possibilità per la Commissione europea di ordinare il recupero dell’ICI non versata negli anni dal 2006 al 2011. Più precisamente, la Commissione europea potrebbe disporre il recupero degli aiuti concessi dal 1996 (58), cioè il decimo anno anteriore alla prima richiesta di informazioni inviata alle autorità italiane dalla Commissione europea. È, invece, da considerare ormai prescritta la possibilità di recuperare gli aiuti di Stato concessi a favore degli enti non commerciali sottoforma di esenzione dall’ICI nel triennio 1993 (59)-1995 (60).

(58) In tal senso, cfr. A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi). Presupposti ed esiti di una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., 29-30. (59) Anno in cui è entrata in vigore la normativa in materia di ICI (art. 50, D. Lgs., n. 504 del 1992). (60) Secondo C. Elefante, Esenzioni fiscali ed aiuti di Stato: il recupero dell’Ici sugli immobili degli enti ecclesiastici tra difficoltà e impossibilità, cit., 766 ss., il regime di aiuti dichiarato illegittimo dalla Commissione europea non sarebbe stato originato dall’esenzione prevista nel testo originale dell’art. 7, primo comma, lett. i), del D. Lgs. n. 504/1992, bensì dalle modifiche ad esso apportate dalla legge di conversione del D.L. n. 203/2005 (secondo cui l’esenzione era applicabile “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale” delle attività che si svolgevano negli immobili degli enti non commerciali beneficiari della stessa) e dal D.L. n. 223/2006 (secondo cui l’esenzione non poteva trovare applicazione quando le medesime attività avevano “esclusivamente natura commerciale”). Sul punto, A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi). Presupposti ed


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7. Il problema della quantificazione dell’importo da recuperare. – Ammessa la possibilità, sul piano giuridico, di disporre il recupero dell’aiuto concesso agli enti non commerciali sottoforma di esenzione dall’ICI, si pone il problema della quantificazione dell’importo da recuperare. Al tal fine, bisogna innanzitutto individuare gli immobili in relazione ai quali non poteva trovare applicazione l’esenzione ICI, in quanto al tempo utilizzati dagli enti non commerciali per lo svolgimento di attività economiche, e in seguito stabilire se e per quali anni questi soggetti abbiano goduto di tale esenzione in relazione ai suddetti immobili. Si tratta di un’operazione assai complessa, in quanto i dati catastali e fiscali italiani non consentono di individuare con esattezza i soggetti al tempo beneficiari dell’esenzione dall’ICI: il catasto non fornisce, infatti, alcuna specificazione sull’uso effettivo degli immobili posseduti dagli enti non commerciali e non consente, quindi, di stabilire se questi fossero destinati ad attività istituzionali o commerciali; né il sistema dichiarativo ai fini ICI imponeva ai soggetti esenti di fornire specifiche informazioni al riguardo, risultando irrilevante ai fini impositivi, secondo la disciplina al tempo vigente, l’utilizzo di detti immobili (61). Non essendo possibile una ricostruzione analitica, ora per allora, dei soggetti beneficiari dell’esenzione ICI sulla base dei dati fiscali e catastali, il Governo italiano dovrà inevitabilmente ricercare soluzioni alternative per

esiti di una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., 30-31, osserva che, accogliendo questa impostazione, il dies a quo del termine di prescrizione decennale dovrebbe essere necessariamente posticipato al 2005 e l’eventuale recupero ordinato dalla Commissione avrebbe ad oggetto unicamente gli aiuti concessi negli anni che separano tali modifiche normative dall’entrata in vigore dell’IMU, e quindi, dal 2005 al 2011. Bisogna considerare, tuttavia, che la Commissione europea, nella decisione di avvio del procedimento di indagine formale del 2010 e nella decisione finale del 2012, ha esplicitamente affermato che, fin dal momento della sua introduzione nel 1992, l’esenzione concessa agli enti non commerciali “coinvolgeva un’ampia gamma di attività […] non chiuse alla concorrenza” e, dunque, il relativo regime fiscale poteva configurare - com’è stato successivamente accertato dalla stessa Commissione - un aiuto di Stato vietato ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE. Questo rilievo porterebbe a ritenere che l’accertata violazione della normativa europea, e in particolare dell’art. 108, par. 3, TFUE, debba essere fatta risalire alla formulazione originaria della norma che ha introdotto questa forma di agevolazione fiscale per gli enti non commerciali e, pertanto, l’eventuale ordine di recupero potrebbe riguardare anche l’imposta non versata negli anni anteriori al 2005. (61) Sul punto, si richiama l’art. 7, comma 2-bis, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, che riconosceva esenti gli immobili posseduti dagli enti non commerciali “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale” delle attività che in essi si svolgevano.


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recuperare, anche solo parzialmente, l’aiuto illegittimamente erogato a favore degli enti non commerciali. Provando ad ipotizzare quali potrebbero essere le modalità alternative con cui eventualmente procedere al recupero dell’aiuto, occorre fare riferimento alla sentenza del Tribunale UE del 2016 che, su sollecitazione dei ricorrenti, ne aveva già esaminate alcune (62). Una prima soluzione potrebbe essere quella di richiedere agli enti non commerciali di compilare e trasmettere all’Amministrazione finanziaria una dichiarazione integrativa, in cui dovranno essere indicati gli immobili posseduti, quelli in cui si sono svolte le attività istituzionali aventi anche in parte carattere commerciale e quelli destinati, invece, esclusivamente ad attività istituzionali, e quindi effettivamente esenti. Attingendo alle banche dati fiscali è possibile individuare tutti i soggetti che, negli anni oggetto del recupero, si sono qualificati come enti non commerciali e che pertanto dovrebbero presentare tale dichiarazione. In particolare, essi dovrebbero dichiarare di aver posseduto immobili nei periodi di imposta considerati, la natura del loro utilizzo (se istituzionale o commerciale), e, nel caso di utilizzo parzialmente commerciale, la percentuale ascrivibile all’attività commerciale. In questo modo sarebbe relativamente facile risalire alla base imponibile ICI relativa a ciascun immobile posseduto (pari a zero per gli immobili destinati ad attività effettivamente esenti) e calcolare anno per anno l’imposta dovuta. Tuttavia, questa soluzione non può considerarsi davvero efficace, a causa dell’inesistenza di informazioni relative alla situazione precedente in base alle quali verificare, caso per caso, la veridicità dell’autodichiarazione (pt. 107). Eventuali controlli in loco, inoltre, richiederebbero tempi lunghi e grandi risorse in termini di assorbimento di capacità accertative, e non potrebbero comunque essere effettuati presso ciascuno dei possibili beneficiari dell’aiuto in questione (63); inoltre, non è certo che gli immobili “mantengano solidamente e stabilmente la propria destinazione” (pt. 106) nel tempo e che le attività non mutino la loro natura. Una modalità alternativa di recupero potrebbe essere quella di mutuare i criteri adottati dal 2012 per l’IMU al fine di determinare, ora per allora, l’ICI

(62) Tribunale UE, sentenza del 15 settembre 2016, causa T-220/13, ptt. 104-109. (63) Cfr. C. Pino, È veramente impossibile il recupero dell’ICI dovuta dagli enti non commerciali?, in Corr. trib., 2019, n. 4, 391.


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dovuta dagli enti ecclesiastici. Si tratterebbe, in sostanza, di utilizzare le dichiarazioni presentate dagli enti non commerciali in base alla normativa IMU per accertare se, in passato, gli immobili da essi posseduti venissero utilizzati o meno per finalità commerciali (64). Poiché si tratta di recuperare l’ICI dovuta in relazione ad una specifica attività commerciale, esercitata dal soggetto beneficiario dell’esenzione, e in considerazione del fatto che l’esercizio di attività commerciali comporta una precisa organizzazione dei fattori produttivi che necessariamente permangono nel tempo, è del tutto ragionevole ritenere che chi svolgeva attività commerciale nel 2012 la svolgesse anche negli anni precedenti. Se così non fosse, per il soggetto interessato sarà relativamente facile dimostrare il contrario, perché non ancora in possesso dell’immobile ovvero per l’assenza dei presupposti fattuali minimi per l’esercizio dell’attività commerciale negli anni oggetto del recupero (65). Pertanto è possibile sostenere che, nel caso in cui nel 2012 era dovuta l’IMU, presumibilmente avrebbe dovuto in precedenza essere corrisposta l’ICI in relazione ai medesimi immobili e alle medesime situazioni di fatto. Se l’IMU non era dovuta in quanto negli immobili posseduti non venivano esercitate attività con modalità commerciali, tale circostanza potrebbe essere considerata come valida causa di esenzione dalla pregressa ICI. Se, invece, veniva svolta attività mista nel 2012, la Commissione europea potrebbe ritenere idonea una modalità di recupero dell’ICI basata sull’adozione del metodo proporzionale stabilito ai fini IMU (66).

(64) Con effetto dal 1° gennaio 2012, anno in cui l’IMU ha sostituito l’ICI, tutti gli enti commerciali furono infatti obbligati a presentare una specifica dichiarazione ai fini IMU, in cui i soggetti proprietari di immobili dovevano separatamente indicare gli immobili totalmente imponibili, quelli parzialmente imponibili e quelli totalmente esenti, in relazione all’attività commerciale o meno in essi esercitata. Si configura così un elemento integrativo delle banche dati fiscali italiane (seppur a partire dal 2012 in avanti) che potrebbe risultare utile per il recupero dell’ICI dovuta per gli anni precedenti. (65) Cfr. C. Pino, È veramente impossibile il recupero dell’ICI dovuta dagli enti non commerciali?, cit., 392. (66) Ai sensi dell’art. 91-bis della L. n. 27/2012, l’esenzione dall’IMU “si applica solo alla frazione di unità nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale, se identificabile attraverso l’individuazione degli immobili o porzioni di immobili adibiti esclusivamente a tale attività”. Nel caso in cui non sia possibile procedere a tale identificazione, “l’esenzione si applica in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile quale risulta da apposita dichiarazione”. Alla definizione dei criteri da adottarsi per l’individuazione del rapporto proporzionale e delle procedure relative alla presentazione della citata dichiarazione


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Chi non avesse svolto in passato attività commerciali dovrà provare da quale anno queste sono iniziate e con quali modalità effettive. In mancanza di tale prova, questo soggetto sarebbe comunque chiamato a corrispondere l’ICI dovuta sugli immobili che nel 2012 erano stati dichiarati come imponibili ai fini IMU, in quanto destinati ad attività commerciali (67). Su tale soluzione, però, il Tribunale UE non si è espresso favorevolmente, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui la Commissione non può supporre che un’impresa abbia beneficiato di un vantaggio che costituisce un aiuto di Stato “basandosi semplicemente su una presunzione negativa, fondata sull’assenza di informazioni che […] le consentano di giungere alla conclusione contraria, in mancanza di altri elementi atti a dimostrare positivamente l’esistenza di un siffatto vantaggio” (68). Tuttavia, nella fattispecie in esame, relativa al recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali, l’intervento di recupero non risulterebbe fondato su mere argomentazioni presuntive. La connessione tra il soggetto chiamato alla corresponsione dell’imposta non riscossa e il presupposto dell’aiuto, costituito dal possesso di un immobile utilizzato per fini commerciali, risulterebbe, infatti, da una dichiarazione presentata dal soggetto stesso. Inoltre, “la presunzione secondo cui un’attività commerciale svolta in un certo anno è usualmente la continuazione della medesima attività svolta negli anni precedenti risponde ad una normale logica fondata sull’id quod plerumque accidit” (69).

ha provveduto l’art. 5 del D.M. n. 200 del 2012. (67) Sul piano applicativo, si tratterebbe di obbligare gli enti non commerciali a presentare una dichiarazione integrativa ICI per gli anni precedenti al 2012, con la precisazione che eventuali modifiche rispetto alla situazione del 2012 dovranno necessariamente essere oggetto di uno specifico contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria: in assenza di modifiche ovvero - se queste sono state esposte nella dichiarazione - di prove documentali relative a dette modifiche oggettive sull’utilizzo dell’immobile, si considera sussistente, anche per le annualità oggetto di recupero, la situazione dichiarata dal contribuente per il 2012. (68) Corte di Giustizia, sentenza del 17 settembre 2009, causa C-520/07, Commissione/ MTU Friedrichshafen, pt. 58. Peraltro, bisogna precisare che la fattispecie esaminata dalla Corte in questa sentenza era molto differente da quella relativa al recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali, in quanto riguardava due specifici soggetti e non era chiaro se uno dei due avesse effettivamente fruito di indebiti vantaggi rispetto agli aiuti di Stato concessi all’altro. (69) C. Pino, È veramente impossibile il recupero dell’ICI dovuta dagli enti non commerciali?, cit., 393.


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E ancora, è da escludere che il recupero risulti fondato su mere supposizioni in considerazione del fatto che il soggetto potenzialmente tenuto alla corresponsione dell’imposta non versata abbia la facoltà di far valere, in contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, tutti gli elementi documentali in senso contrario. Alla luce di queste considerazioni è possibile affermare che, tra le varie modalità alternative di recupero dell’aiuto concesso sottoforma di esenzione ICI a favore degli enti non commerciali, l’applicazione retroattiva dei criteri IMU appare essere quella in grado di assicurare una più precisa quantificazione dell’importo da recuperare (70). Merita, infine, di essere considerata un’ulteriore soluzione (71), secondo cui, al fine di eliminare gli effetti distorsivi prodotti dall’aiuto illegittimo e ripristinare la situazione preesistente rispetto alla sua corresponsione, si potrebbe procedere alla restituzione dell’aiuto, non da parte del beneficiari, ma da parte dello Stato italiano a favore delle imprese concorrenti che non hanno beneficiato dell’aiuto in questione. Per quanto l’ipotesi abbia attualmente una consistenza meramente teorica, non può escludersi che, nel caso di aiuti concessi sottoforma di agevolazioni fiscali, l’eliminazione del vantaggio di cui abbia indebitamente beneficiato il destinatario possa essere realizzata attraverso la restituzione ai suoi concorrenti, da parte dello Stato, della maggiore imposta da loro versata (72). Questa soluzione, sebbene astrattamente possibile, comporterebbe, però, difficoltà sul piano attuativo tali da rendere assai improbabile che un eventuale recupero di tale aiuto si realizzi secondo questa modalità.

(70) Rispetto a tale soluzione si vedano i rilievi critici di A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi). Presupposti ed esiti di una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, cit., 25, secondo cui l’applicazione retroattiva dei criteri IMU “determinerebbe un significativo contenimento del numero degli enti non commerciali presso cui procedere al recupero dell’imposta non versata”, in quanto, verosimilmente, “l’operazione coinvolgerebbe quei soli enti i cui immobili erano esenti dall’ICI ma hanno cessato di esserlo a partire dall’introduzione dell’IMU”. (71) Prospettata in astratto da C. Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, Torino, 2012, 340 ss. (72) “Lo Stato potrà, invero, esigere l’imposta pagata in meno dall’impresa beneficiaria dell’aiuto di cui sopra o restituire quanto pagato in più d’imposta dall’impresa concorrente che non abbia beneficiato dell’aiuto illegittimo” (C. Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, cit., 340).


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8. Possibili scenari in caso di mancato recupero dell’aiuto: la procedura d’infrazione e le sanzioni per l’Italia. – Com’è evidente, non esistono soluzioni facilmente praticabili e del tutto soddisfacenti per risolvere il problema del recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali, ma lo Stato italiano è tenuto a compiere tutti gli sforzi necessari per recuperare, anche solo parzialmente, l’aiuto in questione (73). Non bisogna dimenticare, infatti, che sul piano europeo lo Stato italiano è l’unico responsabile per le violazioni del diritto dell’Unione (74). Pertanto, qualora non dovesse riuscire a recuperare l’imposta non versata dagli enti non commerciali, non ottemperando ad un eventuale ordine di recupero della Commissione europea, quest’ultima potrebbe decidere di avviare nei suoi confronti la procedura d’infrazione (75). In particolare, se la Corte di Giustizia dovesse accertare che effettivamente sarebbe stato possibile recuperare, anche solo in parte, gli aiuti illegittimi disposti a favore degli enti non commerciali e, nonostante ciò, lo Stato italiano non vi abbia provveduto, potrebbe condannare quest’ultimo al pagamento di una sanzione pecuniaria. Più precisamente, l’art. 260 TFUE prevede la possibilità che la Corte, sulla base delle richieste avanzate dalla Commissione, infligga allo Stato membro inadempiente una condanna pecuniaria che può consistere nel pagamento di una somma forfettaria (quale sanzione per il protrarsi dell’inadempimento globalmente considerato) e/o di una penalità di mora (quale misura coercitiva consistente nel pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di

(73) Secondo le stime Anci (l’Associazione dei Comuni Italiani) l’aiuto da recuperare potrebbe valere tra i 4 e i 5 miliardi di euro relativamente al quinquennio 2006-2011 (tra i 13-14 miliardi dal 1992, anno di introduzione dell’ICI). (74) Circa i presupposti sui quali si fonda la responsabilità di uno Stato membro per l’inadempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione cfr., ex multis, G. Strozzi - R. Mastroianni, Diritto dell’Unione europea, Torino, 2016, 346 ss. Con riferimento alle condizioni per il sorgere della responsabilità risarcitoria dello Stato membro per i danni subìti dai singoli a causa delle violazioni del diritto dell’Unione ad esso imputabili, cfr., ex multis, R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno, Milano, 2009, 245 ss. (75) Si tratterebbe, in particolare, di un’ipotesi di procedura d’infrazione “abbreviata”, in quanto non avrebbe luogo la fase della procedura precontenziosa prevista dalle disposizioni degli articoli 258 e 259 TFUE. Infatti, in materia di aiuti di Stato, l’art. 108, par. 2, TFUE prevede che, qualora uno Stato membro non si conformi, entro il termine stabilito, alla decisione di recupero adottata dalla Commissione europea e di cui risulta essere destinatario, “la Commissione o qualsiasi altro Stato interessato può adire direttamente la Corte di giustizia dell’Unione europea, in deroga agli articoli 258 e 259 TFUE”.


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ritardo nell’adempimento a partire dalla data di emanazione della sentenza e sino alla sua esecuzione) (76). Per quanto concerne il metodo di calcolo della somma forfettaria o della penalità di mora (77), la Commissione ha adottato varie comunicazioni in materia (78), precisando che il calcolo debba avvenire sulla base di alcuni parametri, quali la gravità dell’infrazione, la durata di quest’ultima e la necessità di imprimere alla sanzione un effetto dissuasivo onde prevenire le recidive. Questi parametri vanno applicati utilizzando delle variabili matematiche: un importo di base fisso, un coefficiente di gravità, un coefficiente di durata, nonché un fattore che abbia riguardo alla capacità finanziaria dello Stato membro. Nella determinazione dell’importo, al fine di rendere la sanzione proporzionale all’inadempimento, possono assumere rilevanza anche criteri che tengano conto dei progressi eventualmente realizzati dallo Stato membro. Dal 1952 ad oggi, l’Italia è il Paese che più spesso è stato convenuto dinnanzi alla Corte di Giustizia per la violazione del diritto dell’Unione. Questo ha comportato, nelle ipotesi di condanna, il pagamento di ingenti sanzioni pecuniarie (79). Bisogna, comunque, ricordare che ad oggi non è stato ancora emesso alcun ordine di recupero da parte della Commissione europea con riferimento agli aiuti concessi sottoforma di esenzione dall’ICI, in quanto non si è ancora concluso il procedimento diretto ad accertare se, ed eventualmente secondo quali modalità, sia possibile la loro restituzione da parte degli enti beneficiari. È chiaro che, se all’esito di questo procedimento dovesse essere confermata l’impossibilità assoluta già a suo tempo rilevata, la Commissione non

(76) La Corte può decidere per l’una o per l’altra sanzione, oppure per il loro cumulo. (77) Mentre la somma forfetaria si paga anche se si è posto rimedio nel corso del dibattimento in Corte, la penalità di mora viene applicata qualora l’infrazione persista dopo la sentenza di condanna e viene calcolata, su base giornaliera, a partire dalla data della sentenza stessa. (78) In GUCE C 242 del 21 agosto 1996; C 63 del 28 febbraio 1997; C 126 del 7 giugno 2007; C 257 del 6 agosto 2015; da ultimo, C 1396 del 25 febbraio 2019. (79) Per la non corretta applicazione delle direttive 75/442/CE sui “rifiuti”, 91/689/CEE sui “rifiuti pericolosi” e 1999/31/CE sulle “discariche”, per esempio, l’Italia è stata condannata al pagamento di ben 79,8 milioni di euro. Per fare un altro esempio, a causa del mancato recupero degli aiuti concessi dallo Stato italiano a favore delle imprese nel territorio di Venezia e Chioggia, la Corte UE, con la sentenza del 17 settembre 2015, ha condannato l’Italia al pagamento di 30 milioni di euro a titolo di sanzione forfettaria “una tantum” e di 12 milioni di euro per ogni semestre di ritardo nel pieno recupero degli aiuti in questione, a decorrere dalla data di emanazione della sentenza.


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adotterà alcun ordine di recupero e lo Stato italiano sarà esentato dall’obbligo di ripetere tali somme dalla Chiesa. Per converso, nell’ipotesi in cui la Commissione europea, all’esito di un più attento e scrupoloso esame, dovesse ritenere possibile recuperare, anche solo in parte, l’ICI non versata dagli enti non commerciali, adotterà una decisione con la quale sarà imposto allo Stato italiano di adottare tutte le misure necessarie per recuperare l’aiuto dai beneficiari. È verosimile ritenere che, trattandosi di un regime di aiuti di Stato, l’eventuale decisione di recupero della Commissione conterrà solo alcune indicazioni generali sulle modalità alternative con cui procedere al recupero; spetterà, quindi, alle autorità nazionali darvi esecuzione “senza indugio” e secondo “le procedure previste dalla legge” (80) nazionale (81), individuando gli enti presso i quali deve essere effettuato il recupero dell’ICI, quantificando l’importo preciso da recuperare e notificando il relativo atto di riscossione a ciascuno di essi. È ragionevole aspettarsi, tuttavia, che, nell’ipotesi in cui dovesse essere notificato agli enti non commerciali l’atto contenente la richiesta di restituzione dell’aiuto, questi ultimi si opporranno alla pretesa vantata dallo Stato italiano, impugnando l’atto impositivo dinnanzi al giudice nazionale. L’opposizione all’intimata restituzione potrebbe aprire la strada alle più disparate e diverse forme di doglianza: dall’eccezione di intervenuta decadenza del potere di accertamento del Fisco, a quella del legittimo affidamento dei beneficiari (82) e, ancora, quella relativa all’applicabilità del regime de minimis (83).

(80) Art. 16, reg. (UE) n. 1589 del 2015. (81) Art. 48, commi primo e secondo, L. 24 dicembre 2012, n. 234. (82) Si è già visto, però, che tali eccezioni non potrebbero essere accolte dal giudice nazionale alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza europea e da quella italiana. In questo senso, si richiamano le sentenze delle Corte di Cassazione del 3 agosto 2012, n. 14022 e del 16 maggio 2012, n. 7659; la decisione della Commissione europea C(2010)/348 del 12 ottobre 2010, ptt. 183-190. (83) Il regime de minimis in materia di aiuti di Stato comporta che, entro una certa soglia, normativamente stabilita, la misura di aiuto disposta da uno Stato membro non possa essere considerata idonea a determinare un’alterazione della concorrenza, proprio per la pochezza della somma in questione. Gli aiuti de minimis, in quanto tali, vengono dunque tollerati, in deroga al divieto generale di aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE. Pertanto, se il singolo ente-impresa riesce a dimostrare che il valore dell’aiuto di cui ha beneficiato risulta essere complessivamente inferiore alla soglia di 200.000 euro su un arco di tre esercizi finanziari, questo aiuto ricadrebbe in tale deroga e non vi sarebbe alcuna somma da recuperare. Per maggiori approfondimenti sulla questione relativa alla possibilità per gli enti non commerciali


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Prescindendo dagli aspetti giuridici, la Chiesa ha già avvertito che l’effettivo recupero di queste somme comporterebbe il rischio di compromettere tutta una serie di servizi a favore della collettività, in quanto “le attività potenzialmente coinvolte sono numerose e spaziano da quelle assistenziali e sanitarie a quelle culturali e formative; attività, tra l’altro, che non riguardano semplicemente gli enti della Chiesa” (84). Posto che la Commissione europea continua ad esercitare pressioni nei confronti dello Stato italiano affinché sia presto individuata una soluzione che consenta di superare le difficoltà rappresentate, l’Italia dovrà intraprendere valide iniziative volte a recuperare l’ICI dagli enti ecclesiastici. Si segnala, al riguardo, la proposta di trattenere in compensazione le quote dell’otto per mille destinate alla Chiesa cattolica per ottenere le somme dovute dagli enti ecclesiastici in esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2018. Evidentemente, si tratta di una soluzione non praticabile, in quanto lesiva della scelta dei contribuenti che hanno espressamente manifestato la volontà di destinare una quota del gettito IRPEF a favore della Chiesa (85). Si registrano, invero, ulteriori tentativi compiuti dal Governo italiano, i quali, però, non hanno avuto successo, a conferma della notevole complessità della questione relativa al recupero dell’ICI non versata dagli enti ecclesiastici (86).

di opporsi alla restituzione dell’aiuto loro concesso sottoforma di esenzione ICI invocando la deroga de minimis, cfr. A. Perego, Il recupero dell’ICI non versata dagli enti non commerciali (anche religiosi). Presupposti ed esiti di una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, cit., 31-32. (84) Sono queste le parole pronunciate da monsignor Stefano Russo, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana. (85) Questo vincolo di destinazione a scopi di carattere religioso “mal si concilierebbe con la finalità che si vorrebbe perseguire con la compensazione proposta”. Questo è quanto affermato dall’allora Ministro dell’Economia e delle finanze Giovanni Tria in risposta ad un’interrogazione parlamentare del 21 novembre 2018, con la quale si chiedeva di conoscere quali fossero “gli intendimenti del Governo rispetto alla sentenza della Corte di Giustizia europea, che ha indicato di recuperare il gettito ICI”. (86) Data l’effettiva impossibilità di accertamenti attendibili, anche a causa della mancanza di documenti fiscali sull’utilizzo degli immobili che la Chiesa non era tenuta a conservare durante gli anni oggetto del recupero (2006-2011), il Governo italiano aveva, in un primo momento, preso in considerazione l’idea di raggiungere un accordo con la Chiesa per il pagamento di una somma derivante dall’applicazione di un’aliquota forfettaria (fissata intorno al 20-25% dell’ammontare del debito, pari a circa 5 miliardi di euro) depurata di sanzioni e di interessi di mora e legali. In questo modo, la Chiesa avrebbe dovuto versare una somma pari a circa 1 miliardo di euro a fronte dei 5 che si stimano dovuti. Tuttavia questo accordo non è stato


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Parte prima

In definitiva, la questione è ancora aperta e non resta che attendere eventuali sviluppi, auspicando che si trovi una valida alternativa affinché sia scongiurata l’eventualità che venga avviata nei confronti dello Stato italiano la procedura di infrazione, con ulteriori costi a carico dei cittadini.

Federica Campanella

mai raggiunto. Nell’ottobre del 2019, è stato così elaborato un disegno di legge, firmato da 76 senatori del Movimento 5 Stelle e depositato in Senato, il quale punta a recuperare l’ICI non pagata dalla Chiesa tra il 2006 e il 2011 e a far pagare l’IMU agli enti ecclesiastici sugli immobili che hanno una destinazione commerciale. In particolare, l’art. 5 di questo D.D.L. (Atto Senato, n. 1585, XVIII Legislatura) prevede che “tutte le associazioni o società nel cui statuto si esplicita il riferimento alla religione cattolica e le congregazioni religiose che fanno capo alla religione cattolica che non hanno pagato l’IMU per ciascuno degli anni dal 2006 al 2011 sono tenute ad autocertificare i propri bilanci relativi ai medesimi anni e ad autocertificare la destinazione d’uso degli immobili di loro proprietà e di quelli utilizzati per le proprie attività”. Sulla base dell’autocertificazione presentata da tali associazioni o società, “i comuni riscuotono l’IMU per ciascuno degli anni dal 2006 al 2011”. Questo disegno di legge, depositato in Senato in data 23 ottobre 2019, risulta ancora in fase di esame.


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Corte Costituzionale, 22 ottobre 2019 - 29 novembre 2019, n. 245 - Pres. Lattanzi - Red. Barbera Procedure concorsuali – Procedure concorsuali esdebitatorie – Debitori non fallibili – Composizione crisi da sovraidebitamento – Infalcidiabilità IVA – Irragionevole disparità di trattamento con il concordato preventivo – Sussistenza – Illegittimità costituzionale – Sussistenza È costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 1, terzo periodo, della Legge 27 gennaio 2012, n. 3, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui fa riferimento “all’imposta sul valore aggiunto”, in quanto il differente regime applicabile all’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, rispetto al concordato preventivo, in punto di infacidiabilità dell’IVA, dà luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento. (1)

(Omissis) Ritenuto in fatto. – 1.- Con ordinanza depositata il 14 maggio 2018 (reg. ord. n. 171 del 2018), il Tribunale ordinario di Udine, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), limitatamente alle parole «all’imposta sul valore aggiunto». 2.- Il rimettente premette che il giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere l’ammissione e la successiva omologazione di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, proposto ai sensi dell’art. 6, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012. L’incidente di legittimità costituzionale, in particolare, interviene nella fase di valutazione dell’ammissibilità del ricorso, prevista dall’art. 10 della legge n. 3 del 2012, nel corso della quale occorre verificare la presenza dei requisiti pregiudiziali previsti dagli artt. 7, 8 e 9 della stessa legge. 3.- Con riguardo ai presupposti soggettivi del relativo ricorso, il rimettente chiarisce che il ricorrente non è assoggettabile a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dalla legge n. 3 del 2012. In particolare, si sottolinea nell’ordinanza che il ricorrente non esercita attività d’impresa commerciale e che il relativo sovraindebitamento deriva principalmente dalla condizione di responsabile solidale (art. 38 del codice civile) per le obbligazioni contratte da una associazione sportiva (nel cui nome


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ha agito in passato e di cui è stato legale rappresentante), a sua volta non soggetta a procedure concorsuali diverse da quelle disciplinate dalla legge n. 3 del 2012, perché comunque estranea ai requisiti di cui all’art. 1, comma secondo, del regio decreto 16 maggio 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; da ora in avanti: legge fallimentare). 4.- In ordine agli ulteriori presupposti legittimanti il ricorso oggetto del giudizio principale, il giudice a quo evidenzia che: a) il ricorrente è soggetto sovraindebitato, non avendo la possibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni alla luce della complessiva situazione che lo riguarda, considerati i debiti scaduti, i beni patrimoniali suscettibili di liquidazione e i flussi finanziari positivi prospettabili, con cadenza annua, nel quinquennio a venire, coincidente con il periodo di tempo compreso nel piano proposto ai creditori; b) che il piano prevede il pagamento integrale dei creditori prededucibili e in quota parte dei crediti concorsuali, tutti collocati al chirografo, compresi i privilegiati, attesa l’incapienza totale dei beni gravati; c) che al ricorso sono allegati tutti i documenti prescritti dall’art. 9, comma 2, della legge n. 3 del 2012 e che il ricorrente non ha mai fatto ricorso in precedenza alle procedure previste da detta legge, né risulta aver compiuto atti in frode ai creditori nel quinquennio pregresso; d) che il professionista designato per svolgere le funzioni di organismo di composizione della crisi, ai sensi dell’art. 15, comma 9, della legge n. 3 del 2012, ha attestato la fattibilità del piano elaborato nonché la veridicità dei dati contenuti nel ricorso e nei documenti allegati, avuto riguardo, in particolare, al profilo della incapienza dei beni sui quali i creditori privilegiati potrebbero far valere la loro collocazione preferenziale in caso di liquidazione forzata, beni caratterizzati da un valore di molto inferiore alla misura della soddisfazione che potrebbe risultare garantita dalla relativa liquidazione. 5.- Ciò precisato, il rimettente rimarca che tra le poste di credito privilegiate, oggetto della falcidia proposta dal debitore, figura anche l’obbligo di pagare all’erario somme a titolo di imposta sul valore aggiunto (d’ora in poi: IVA), garantite dal privilegio generale mobiliare di cuiall’art. 2752, terzo comma, cod. civ. Previsione del piano, questa, che, tuttavia, sarebbe in immediato conflitto con quanto imposto dalla norma censurata, secondo la quale, avuto riguardo a siffatta pretesa tributaria, il piano «può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». 6.- Il giudice a quo evidenzia che nel ricorso si sollecita, in prima battuta, la non applicazione della disposizione censurata perché assertivamente non conforme con quanto prevede, in materia di IVA, l’ordinamento dell’Unione europea; in subordine, sempre nel ricorso, se ne rimarca l’illegittimità costituzionale, per la ritenuta violazione dell’art. 3 Cost. 7.- Quanto al primo profilo, il rimettente non trascura di valutare criticamente alcune pronunce, rese da altri giudici di merito, attraverso le quali si è ritenuto di poter accedere alla soluzione della non applicazione o comunque di dover procedere ad


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un’interpretazione conforme della norma censurata alla luce dei principi dettati, nella materia in oggetto, dalla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 7 aprile 2016, in causa causa C-546/14, Degano Trasporti sas; decisione, questa, assunta in esito al rinvio pregiudiziale disposto dallo stesso Tribunale rimettente con riguardo all’analoga tematica della falcidiabilità dell’IVA nell’affine procedura di concordato preventivo. 7.1.- Segnala il giudice a quo che dette pronunce muovono dalla condivisa riconducibilità della disciplina dell’IVA all’interno della sfera di competenza dell’Unione. Ruotano, in particolare, intorno al ruolo da ascrivere all’art. 273 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (da ora in avanti: direttiva IVA); disposizione, questa, in forza del quale, secondo la costante interpretazione che di tale norma ha offerto la CGUE, ogni Stato membro è obbligato ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitarne le evasioni, nel rispetto della parità di trattamento, beneficiando tuttavia di una certa libertà circa l’individuazione dei mezzi a sua disposizione, ma sempre senza mettere in discussione l’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea. In questa cornice, sottolinea il rimettente, nella giurisprudenza della CGUE, normative interne che portavano ad una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA sono state ritenute contrarie all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’imposta in esame nel proprio territorio, nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione europea; per altro verso, senza smentire il precedente assunto, proprio con la citata sentenza Degano Trasporti sas, è stato ritenuto che non dà luogo ad una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, la possibilità, garantita da una norma interna agli imprenditori commerciali in stato di insolvenza, di pagare solo parzialmente il debito IVA, qualora ciò avvenga nel quadro di una procedura seria, rigorosa e garantita, quale quella del concordato preventivo di cui agli artt. 160 e seguenti della legge fallimentare, che consenta di riscontrare il maggior vantaggio della relativa proposta rispetto alla alternativa liquidatoria del patrimonio posto a garanzia delle obbligazioni da soddisfare. 7.2.- Pur muovendo da tali argomentazioni, ritiene il rimettente che l’ostacolo offerto dal tenore letterale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012 non possa essere superato attraverso la non applicazione della norma interna, perché ritenuto conflitto con la disciplina comunitaria o, in alternativa, per il tramite della interpretazione della stessa conforme alle indicazioni di principio provenienti dagli orientamenti dettati, nella materia in oggetto, dalla CGUE. 7.2.1.- Sotto il primo versante, ad avviso del rimettente, per procedersi alla non applicazione di una norma interna in forza di una norma contenuta in una direttiva, occorre che questa sia caratterizzata da un contenuto precettivo chiaro, preciso e incondizionato. Tanto sarebbe da escludere con riguardo all’art. 273 della direttiva IVA, così come interpretato dalla sentenza Degano Trasporti sas: ad avviso del rimettente,


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infatti, il portato di tale statuizione, se legittima pagamenti parziali dell’IVA all’interno di determinati meccanismi procedurali, non esprime, al contempo, un precetto chiaro, preciso ed incondizionato che imponga agli Stati membri di consentire, a parità di condizioni, la falcidia dell’IVA ad un debitore insolvente. Ciò in quanto rimane, in via di principio, libera l’individuazione dei modi attraverso i quali perseguire l’obiettivo della effettiva riscossione del dovuto per tale risorsa. 7.2.2.- Per altro verso, ad avviso del rimettente, l’interpretazione conforme al diritto dell’Unione sarebbe impedita dal tenore letterale della disposizione censurata, la quale, escludendo «[i]n ogni caso» la falcidia dell’IVA, rende ardua la possibilità di accedere a siffatta soluzione interpretativa. 7.3.- Il rimettente perviene a valutazioni di segno positivo quanto al denunziato contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost. 7.3.1.- Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo rimarca che la prevista falcidiabilità dell’IVA costituisce l’unico profilo ostativo alla ammissibilità della proposta. 7.3.2.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che la previsione portata allo scrutinio di questa Corte riproduce un principio identico a quello vigente, all’epoca della introduzione della norma censurata, nell’affine procedura del concordato preventivo (art. 182-ter, comma primo, periodo primo, ultima parte, della legge fallimentare). In sostanza, all’epoca della introduzione della norma censurata, i soggetti legittimati ad avvalersi delle procedure previste dalla legge n. 3 del 2012, alla stessa stregua delle imprese fallibili, potevano proporre, ai creditori, in alternativa alla liquidazione complessiva del relativo patrimonio, un pagamento parziale dei crediti privilegiati, purché nei limiti della capienza dei beni gravati. Il credito privilegiato per IVA (assieme ad altre specifiche poste di credito di matrice tributaria, estranee al perimetro delimitato dall’oggetto del giudizio principale) faceva tuttavia eccezione a tale regola generale: andava infatti soddisfatto sempre per intero, essendo al più consentita una dilazione dei relativi tempi di adempimento. Il tutto secondo un assetto complessivo che questa stessa Corte (è citata la sentenza n. 225 del 2014) aveva ritenuto conforme a Costituzione (anche se esclusivamente in relazione al versante della disciplina dettata per il concordato preventivo dalla legge fallimentare). 7.3.3.- Il quadro interpretativo e normativo di riferimento, si sottolinea nell’ordinanza di rimessione, è mutato all’indomani della più volte citata sentenza della CGUE, all’esito della questione pregiudiziale sollevata dallo stesso tribunale di Udine. In forza dell’interpretazione del diritto unionale offerta da tale sentenza, le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 27 dicembre 2016, n. 26988, e sentenza 13 gennaio 2017, n. 760) hanno mutato il precedente orientamento interpretativo proprio della giurisprudenza di legittimità, ritenendo possibile la falcidia dell’IVA, anche se limitatamente ai soli concordati preventivi proposti senza avvalersi della disciplina dettata dall’art. 182-ter della legge fallimentare per la “transazione fiscale”.


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Successivamente, sempre sulla scia tracciata dal quadro interpretativo emerso dalla citata sentenza Degano Trasporti sas, è intervenuto il legislatore nazionale, procedendo ad una riscrittura dell’art. 182-ter della legge fallimentare tramite l’art.1, comma 81, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019). In virtù di siffatta novella la disciplina di riferimento, attualmente dettata dalla legge fallimentare, impone al debitore, che intenda proporre un concordato preventivo (o che miri alla stipula di un accordo di ristrutturazione) e che debba soddisfare anche obbligazioni tributarie, di avvalersi dello strumento della transazione fiscale disciplinata dal citato art 182-ter della legge fallimentare. Disposizione quest’ultima che, per quanto rimarcato dal giudice a quo, consente ora il pagamento parziale dei tributi, dei contributi previdenziali e dei relativi accessori, senza distinzioni di sorta; e ciò sempre che la soddisfazione offerta a tali crediti privilegiati non sia inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione e purché vengano rispettate le altre prescrizioni procedimentali previste dal detto art. 182-ter della legge fallimentare. 7.4.- Il tribunale rimettente osserva che una evoluzione simile non si è invece manifestata nel settore delle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, giacché la disposizione dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, a suo tempo quasi identica sul piano letterale rispetto a quella dell’art. 182-ter, comma primo, ultima parte, della legge fallimentare (vigente all’epoca dell’introduzione della disciplina sul sovraindebitamento), è rimasta immutata malgrado il diverso tenore assunto dalla norma che ebbe ad ispirarne il contenuto. 8.- Tale assetto normativo, ad avviso del giudice a quo pone in dubbio la tenuta costituzionale della disposizione censurata 8.1.- In primo luogo, perché in asserito contrasto con l’art. 3 Cost. Il rimettente sottolinea che la regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati, purché pagati in misura corrispondente al valore ricavabile in via di esecuzione forzata dai beni destinati per legge alla loro soddisfazione, è ormai comune in tutte le procedure concorsuali che consentano una soluzione negoziata di un’insolvenza qualsiasi, prescindendo dai profili di soggettivo accesso all’uno o all’altra procedura: coloro che hanno a disposizione solo le procedure concorsuali negoziate previste dalla legge n. 3 del 2012, tuttavia, sono tenuti a pagare sempre e per intero quella particolare categoria di crediti privilegiati rappresentata dal credito IVA; per contro, gli imprenditori soggetti a fallimento possono invece gestire il medesimo credito con falcidia (nei limiti indicati), al pari di tutti gli altri crediti muniti di causa di prelazione. 8.1.1.- Una tale soluzione non sarebbe compatibile con l’art. 3 Cost., che esige dalla legge uguaglianza di trattamento nei confronti di tutti i soggetti (persone fisiche, giuridiche, enti collettivi in generale) che si trovino nelle medesime condizioni. Condizioni che nella fattispecie consistono in uno stato di crisi economica, comune a tutti i debitori posti in rassegna, coinvolgente anche un debito per IVA.


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Né rileva al fine il fatto che i soggetti che possono accedere solo a quanto stabilito dallalegge n. 3 del 2012hanno in genere dimensioni economiche meno rilevanti (e dunque un impatto della loro insolvenza sull’economia generale inferiore, compresa la probabilità di sussistenza di crediti IVA) rispetto a coloro cui è applicabile la legge fallimentare: in tal caso, infatti, sarebbe più razionale un trattamento di maggior favore per i debitori «non commerciali e piccoli», e non invece deteriore come nei fatti accade. 8.1.2.- La disciplina contestata, inoltre, conclama, secondo il rimettente, una discriminazione su base censitaria fra gli stessi imprenditori commerciali, favorendo quelli assoggettabili al fallimento, i quali possono prospettare ai creditori il pagamento parziale di ogni pretesa garantita da prelazione, compresa quella legata all’IVA. Ad avviso del tribunale di Udine, tuttavia, la dimensione dell’impresa commerciale in tal caso non pare essere criterio discretivo sufficiente, anche perché essa è mutevole nel tempo sì che un soggetto, nel corso della sua attività economica, potrebbe o meno essere soggetto alle disposizioni dellalegge fallimentarea seconda di mere contingenze. Parimenti sarebbe a dirsi per gli imprenditori agricoli, che possono trattare con l’erario per farsi approvare una falcidia del credito IVA nell’ambito di un accordo di ristrutturazione ex artt. 182-bis e 182-ter della legge fallimentare, ma non possono ottenere lo stesso risultato laddove intendano accedere all’accordo di ristrutturazione dei debiti previsto dalla legge n. 3 del 2012. E ciò a prescindere dalle dimensioni della relativa attività di impresa, sicché lo stesso soggetto paradossalmente può godere o no dei vantaggi correlati alla falcidiabilità dell’IVA a seconda dello strumento (pur omologo) che egli stesso scelga di impiegare. 8.1.3.- Del resto, sottolinea il rimettente, alla stessa stregua del concordato preventivo, l’accordo disciplinato dalla legge n. 3 del 2012, è una procedura concorsuale avente un base negoziale: non diversamente dalla affine procedura prevista dalla legge fallimentare, anche quella oggetto del giudizio principale è sottoposta al controllo giurisdizionale e risulta filtrata da valutazioni espresse da esperti indipendenti, ritualmente contestabili dagli interessati. Nelle procedure negoziate per la gestione del sovraindebitamento, dunque, sono rinvenibili le medesime connotazioni procedurali che hanno indotto la CGUE, nella sentenza Degano Trasporti sas, a ritenere che il pagamento parziale di un credito IVA in tal caso non contrasta con l’ordinamento dell’Unione europea; il che vale a rendere ancora più evidente la diseguaglianza prospettata a sostegno della addotta violazione dell’art. 3 Cost. 8.2.- Sotto altro profilo, la norma in esame sarebbe in contrasto anche con l’art. 97 Cost., secondo il quale la legge deve organizzare i pubblici uffici in modo da assicurarne il buon andamento. È ben vero che questa Corte, con la sentenza n. 225 del 2014, ha già dichiarato insussistente il contrasto fra la regola dell’infalcidiabilità dell’IVA (all’epoca in vigore per tutte le procedure concorsuali negoziate) e tale parametro costituzionale. Ad


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avviso del tribunale rimettente, tuttavia, in quell’occasione il presupposto fondante del giudizio speso dalla Corte era offerto dall’idea in forza della quale l’obbligo di pagamento integrale dell’IVA, inteso in maniera assoluta e inderogabile, fosse conseguenza della ritenuta indisponibilità del tributo in quanto risorsa propria dell’Unione europea. 8.2.1.- Tale considerazione non sarebbe più attuale ora che la CGUE ha meglio definito l’ambito degli obblighi imposti, nella materia de qua, agli Stati membri, ritenendo compatibile con la disciplina dell’Unione la legge fallimentare italiana anche quando prevede un pagamento parziale dell’IVA, se inserita nel quadro di un piano controllato e controllabile che dimostri come tale soluzione porti un beneficio non inferiore a quello che si otterrebbe all’esito di una liquidazione forzata dei beni del debitore. 8.2.2.- Ciò, ad avviso del rimettente, dovrebbe portare ad una rivalutazione delle considerazioni esposte a sostegno della suddetta sentenza della Corte costituzionale, n. 225 del 2014. La disposizione oggetto di censura, quando rende necessariamente inammissibile la proposta di accordo che non preveda il pagamento integrale dell’IVA, priva la pubblica amministrazione del potere di valutare autonomamente ed in concreto se la proposta (al di là delle attestazioni di corredo e del primo vaglio giudiziale) è davvero in grado di soddisfare tale credito erariale in misura pari o addirittura superiore al ricavato ottenibile nell’alternativa liquidatoria. Non le consente, dunque, di determinarsi nel caso concreto al voto favorevole o contrario (con facoltà di successiva opposizione e reclamo) a seconda delle prospettive di effettivo recupero del dovuto, mettendo in crisi il principio costituzionale del buon andamento, perché preclude in radice criteri di economicità e di massimizzazione delle risorse nel caso concreto. 8.3.- Considerazioni, queste, che ad avviso del giudice a quo portano nuovamente al centro del discorso la prospettata violazione dell’art. 3 Cost. Il rimettente dubita anche della razionalità del diverso trattamento cui la norma censurata sottopone, da un lato, la pubblica amministrazione che gestisce il credito IVA e, dall’altro, gli ulteriori creditori privilegiati. Questi ultimi, infatti, mantengono la piena possibilità di valutare liberamente se prestare assenso ad un piano che, pur tramite la falcidia del relativo diritto, in ipotesi ne consenta una realizzazione effettiva e non inferiore rispetto all’alternativa liquidatoria; per altro verso, l’amministrazione finanziaria, invece, è espropriata di tale potere, anche in caso di manifesta convenienza. 9.- Né, ad avviso del rimettente, sono infine possibili interpretazioni della norma che possano ovviare ai vizi denunziati, considerati il tenore letterale della stessa e la sua ratio. Preclusa, dunque, anche la via dell’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, se ne imporrebbe in coerenza la declaratoria di illegittimità co-


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stituzionale, con conseguente ablazione del riferimento all’IVA tra le poste di credito non suscettibili di falcidia. 10.- Nel giudizio è intervenuta la parte privata K. D., ribadendo la fondatezza delle argomentazioni spese dal rimettente nel ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, laddove esclude la falcidiabilità dell’IVA in caso di accordo proposto ai sensi del medesimo art. 7, comma 1. In data 9 ottobre 2019 la parte privata ha quindi depositato una memoria integrativa. Considerato in diritto. – 1.- Con ordinanza depositata il 14 maggio 2018 (reg. ord. n. 171 del 2018), il Tribunale ordinario di Udine, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo,della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovra-indebitamento), limitatamente alle parole «all’imposta sul valore aggiunto». 2.- Giova premettere che il giudizio principale ha ad oggetto un ricorso volto ad ottenere l’ammissione e la successiva omologazione di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, proposto ai sensi dell’art. 6, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012. L’incidente di legittimità costituzionale, in particolare, interviene nella fase di valutazione dell’ammissibilità del ricorso, prevista dall’art. 10 della legge n. 3 del 2012, nel corso della quale occorre verificare la presenza dei requisiti previsti dagli artt. 7, 8 e 9 della stessa legge, ostativi della successiva fase di omologazione della proposta. 2.1.- Così come evidenziato dal tribunale rimettente, il piano proposto ai creditori prevede la soddisfazione solo parziale dei crediti concorsuali, tutti indistintamente collocati al chirografo, compresi quelli privilegiati, attesa l’incapienza dei beni sui quali dovrebbe gravare la relativa prelazione, tale da non consentire prospettive liquidatorie di maggior favore. Tra le poste di credito privilegiate - che il piano propone di soddisfare solo parzialmente - figura anche l’obbligo di pagare all’erario somme a titolo di imposta sul valore aggiunto (da ora in poi: IVA), garantite dal privilegio generale mobiliare di cui all’art. 2752, terzo comma, del codice civile. Ed è siffatta previsione del piano che provoca il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Tribunale di Udine: essa si pone, infatti, in immediato contrasto con la regola dettata dall’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, pregiudicando l’ammissibilità del ricorso. 2.2.- In forza del citato articolo 7, comma 1, infatti, il piano nel quale si sostanzia l’accordo di ristrutturazione dei debiti proposto ai creditori può prevedere una soddisfazione non integrale dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca «allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione,


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come attestato dagli organismi di composizione della crisi». Il medesimo comma 1 del citato articolo 7, al terzo periodo, precisa tuttavia che «[i]n ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell’unione europea, all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento». A differenza delle altre ragioni di credito tributarie, in genere soggette a possibile falcidia alla stessa stregua delle altre poste di credito privilegiate, l’adempimento legato all’IVA (oltre che dei tributi che costituiscono risorse proprie dell’Unione e delle ritenute non versate dal sostituto d’imposta), può dunque essere oggetto solo di dilazione, mai di parziale decurtazione. 3.- Di qui la ritenuta non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, primo periodo, della legge n. 3 del 2012. 3.1.- Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, nella parte in cui nega al debitore sovraindebitato la possibilità di prospettare il pagamento parziale dell’IVA, a pena di inammissibilità del relativo ricorso, viola l’art. 3 Cost., sotto diversi profili. Per un verso, perché a fronte di situazioni omogenee tra loro, discrimina i debitori soggetti alla procedura prevista dal citato art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, trattati diversamente da quelli legittimati a proporre il concordato preventivo, rispetto ai quali la falcidia del credito IVA è consentita dal combinato disposto di cui agli artt. 160 e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; da ora in avanti: legge fallimentare). Per altro verso, la norma censurata discrimina la pubblica amministrazione (da ora in poi: PA) chiamata all’esazione del relativo tributo, rispetto agli altri creditori muniti di prelazione, giacché, a differenza di questi ultimi, non consente alla stessa, a monte, la possibilità di aderire alla proposta del debitore, ottimizzando le prospettive di soddisfazione del relativo credito a fronte di un patrimonio di riferimento che, in caso di liquidazione, non garantisce un grado di adempimento maggiore rispetto a quello proposto dal relativo piano. 3.2.- La disposizione censurata sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 97 Cost., perché l’inammissibilità del ricorso che non preveda il pagamento integrale dell’IVA priva l’amministrazione finanziaria del potere di valutare, in concreto, la proposta quanto al grado di soddisfazione del credito IVA che la stessa garantisce in alternativa alla prospettiva liquidatoria, precludendole di informare la relativa azione a criteri di economicità e massimizzazione delle risorse, in contrasto con il principio del buon andamento sancito dal parametro evocato. 4.- Lo scrutinio delle questioni prospettate dal rimettente rende imprescindibile una preliminare descrizione del quadro normativo all’interno del quale si colloca la norma sottoposta all’esame di questa Corte. Ciò avuto riguardo non solo all’insieme di disposizioni contenute nella legge n. 3 del 2012, ma anche in riferimento alla disciplina del concordato preventivo prevista dalla legge fallimentare.


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Sotto quest’ultimo versante, in particolare, assumono un rilievo fondamentale le vicende giuridiche che hanno interessato nel tempo l’istituto della “transazione fiscale” previsto dall’art. 182-ter della legge fallimentare. Disposizione, quest’ultima, che nella specie, per un verso funge, in relazione al tema della falcidia dell’IVA, quale tertium comparationis della disparità di trattamento denunziata ai sensi dell’art. 3 Cost.; e che, per altro verso, ha ispirato il contenuto della norma indubbiata, che ne replicava sostanzialmente i contenuti vigenti all’epoca di introduzione della stessa. 5.- La legge n. 3 del 2012, radicalmente innovata già nel corso dello stesso anno di introduzione dall’art. 18 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha messo a disposizione dei soggetti non fallibili, in crisi perché gravemente indebitati o già insolventi, strumenti che consentano in via preventiva una composizione della crisi da indebitamento o, in alternativa, una liquidazione, organizzata e complessiva, del relativo patrimonio. Il tutto in termini di evidente alternatività rispetto alla disciplina comune del codice civile ed alle regole dell’esecuzione individuale dettate dal codice di procedura civile, attraverso le quali, in precedenza, venivano esclusivamente regolati i profili di responsabilità patrimoniale del debitore non fallibile, titolare o no di attività di impresa. 5.1.- Si tratta, all’evidenza, di strumenti di chiara matrice concorsuale, strutturati, in esito alle modifiche apportate dal citato d.l. n. 179 del 2012, in chiave concordataria o meramente liquidatoria ed in termini sostanzialmente analoghi agli affini istituti contenuti nella legge fallimentare. Disciplina, quest’ultima, rispetto alla quale la normativa sul sovraindebitamento, nel suo attuale tenore normativo, mantiene autonomia sistematica, pur replicandone la filosofia di fondo, individuata nella esigenza di garantire anche ai soggetti non fallibili, connotati da gravi situazioni debitorie, l’accesso a misure di carattere esdebitatorio, alternative alla liquidazione o conseguenziali alla stessa, tali da consentire loro di potersi ricollocare utilmente all’interno del sistema economico e sociale, senza il peso delle pregresse esposizioni, pur a fronte di un adempimento solo parziale rispetto al passivo maturato; e ciò alla stessa stregua di quanto riconosciuto dall’ordinamento agli imprenditori assoggettabili a fallimento. 5.2.- La disciplina del sovraindebitamento appare chiaramente dominata dalla posizione di favore riconosciuta al debitore, che resta l’unico legittimato ad attivare le procedure in questione, fatta salva l’ipotesi della conversione di una delle procedure di composizione preventiva in liquidazione, giusta l’art. 14-quater, comma 1, della legge in esame. Impostazione, questa, del resto coerente con l’obiettivo di compensare le distonie di sistema venutesi a creare, nel raffronto comparativo con i debitori legittimati ad accedere alle procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare, all’indomani della riforma di tale ultima disciplina, avviata dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80).


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Per quel che qui immediatamente interessa, tra le novità all’epoca apportate all’impianto originario della legge fallimentare, assumono un rilievo decisivo l’implementazione dei rimedi preventivi di carattere prevalentemente non liquidatorio e natura non necessariamente concorsuale; ancora, l’avvenuta introduzione, in luogo della riabilitazione, del procedimento di esdebitazione (art. 142 e seguenti della legge fallimentare), tale da consentire al fallito di ottenere la liberazione dai debiti residui all’esito della relativa procedura. Elementi di novità, questi, che se, da un lato, hanno permesso di riconsiderare la fallibilità in termini di vera e propria opportunità, dall’altro hanno marcato la differenza con il debitore non assoggettabile a fallimento, all’epoca privo della possibilità di godere di uno strumento di esdebitazione similare a quello ora previsto dalla legge fallimentare, oltre che di avvalersi di strumenti concordati di definizione anticipata della crisi da indebitamento. Di qui l’esigenza di introdurre nel sistema procedure che, alla stessa stregua di analoghe esperienze sovranazionali, in alternativa alla esecuzione individuale ed in deroga al principio secondo il quale delle obbligazioni si risponde con i propri beni attuali e futuri, attraverso forme concorsuali di soddisfacimento dei creditori destinate a garantire la par condicio (art. 2741 cod. civ.), fossero in grado di permettere al debitore civile di conseguire il beneficio dell’esdebitazione. 6.- La legge n. 3 del 2012, nel suo attuale assetto, prevede due procedure alternative alla liquidazione complessiva del patrimonio del debitore (art. 14-ter e seguenti), segnatamente identificate nell’accordo di composizione dei debiti con i creditori e nel piano del consumatore, entrambe previste dall’art. 6, comma 1. 6.1.- Sotto il versante dei requisiti soggettivi di legittimazione, la relativa disciplina risulta destinata ad una ampia e variegata categoria di soggetti interessati, tutti legati da un comune denominatore, vale a dire la non assoggettabilità al fallimento o ad altra procedura concorsuale prevista dalla legge fallimentare. Gli strumenti previsti dalla legge in oggetto sono, dunque, destinati ad operare sia in favore dell’impresa commerciale la cui attività si attesta sotto le soglie di fallibilità; sia dell’imprenditore agricolo, cui si riferisce espressamente l’art. 7, comma 2-bis, della stessa legge; sia dei titolari di attività professionale; nonché, in termini generali e di chiusura, dei debitori che contraggono obbligazioni prescindendo da una attività di impresa o professionale (definiti “consumatori”, nel delimitato perimetro di riferibilità della relativa disciplina, ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera b). 6.2.- Dal punto di vista oggettivo, i rimedi previsti dalla legge n. 3 del 2012, quale che sia la connotazione tipologica del debitore che intende avvalersene, presuppongono la medesima situazione di sovraindebitamento, descritta dall’art. 6, comma 2, della medesima legge n. 3 del 2012 in termini di «perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente». Definizione, questa, che con gli aggiustamenti del caso (determinati dalla presenza, tra i debitori coinvolti, anche di soggetti estranei ad at-


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tività di impresa) non si distanzia da quelle (di crisi e insolvenza) che legittimano, per gli imprenditori commerciali, l’accesso alle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare. 6.3.- Le caratteristiche soggettive del debitore recuperano un rilievo dirimente con riguardo ai profili di accesso alle diverse procedure previste dalla legge n. 3 del 2012. Mentre il debitore imprenditore (anche agricolo) e il professionista possono attivare esclusivamente l’accordo di ristrutturazione e la liquidazione totale dei beni, il consumatore è legittimato ad attivare anche un piano avente il contenuto previsto dall’art. 8 della citata legge n. 3 del 2012, che prescinde dalla deliberazione favorevole dei creditori. 7.- Il rimettente giudica dell’ammissibilità di un ricorso volto alla omologazione di un accordo di composizione della crisi. L’oggetto del giudizio principale delimita, dunque, lo scrutinio della disciplina di riferimento alle connotazioni proprie di siffatta procedura. 7.1.- L’accordo con i creditori è strutturato ribadendo, nei suoi tratti essenziali, la struttura del concordato preventivo previsto dalla legge fallimentare. L’iniziativa sottesa al piano, alla stessa stregua di quanto è previsto per la domanda di concordato preventivo, non ha contenuti necessariamente predeterminati dal legislatore (art. 8) ed è compatibile con la divisione dei creditori in più classi, cui accordare trattamenti differenziati (art. 7, comma 1). Sempre in ragione di un evidente parallelismo con la disciplina del concordato preventivo dettata nella legge fallimentare, l’intervento giurisdizionale si scompone in una preventiva fase di ammissibilità della proposta, cui segue quella di omologazione, sempre che il piano proposto dal debitore sia stato approvato dalla maggioranza qualificata dei creditori, pari al 60 per cento dei crediti ammessi al voto. Approvata dalla maggioranza dei creditori e omologata dal giudice, anche la proposta resa dal debitore non fallibile vincola tutti i creditori, compresi quelli dissenzienti e preclude la possibilità di aggredire i beni del debitore ai creditori titolari di crediti posteriori alla data in cui è stata effettuata la pubblicità del decreto di ammissione (art. 12, comma 3). 7.2.- Da quanto sopra evidenziato, emerge con chiarezza come entrambe le procedure abbiano una base negoziale (giacché passano imprescindibilmente da una deliberazione di assenso, anche tacito, dei creditori) che non le pone, tuttavia, al di fuori dell’area delle procedure concorsuali: risultano, infatti, pervase dal principio della parità di trattamento dei creditori concorsuali; prevedono il blocco delle iniziative esecutive individuali in danno del patrimonio del proponente (ex art. 168, comma 1, della legge fallimentare e art. 10, comma 2, lettera c, della legge n. 3 del 2012); impongono, sin dall’ammissione e sino all’omologazione, un parziale spossessamento della capacità di disporre dei beni (art. 167 della legge fallimentare e art. 10, comma 3-bis, della legge n. 3 del 2012), nonché la cristallizzazione degli accessori (ex artt.


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55, cosi come richiamato dall’art. 169, comma 1, della legge fallimentare e 9, comma 3-quater, della legge n. 3 del 2012); infine le procedure suddette risultano sottoposte alla verifica giurisdizionale, in sede di ammissione e di successiva omologa, dalla quale ultima promana la vincolatività della decisione per tutti creditori, anche quelli contrari alla approvazione. Sia l’accordo proposto dal debitore non fallibile sia la proposta di concordato, inoltre, si muovono lungo le direttrici comuni ad entrambi della fattibilità (intesa come effettiva possibilità di realizzare il programma predisposto dal debitore per giungere all’adempimento prospettato) e della convenienza della proposta rispetto alla possibile alternativa liquidatoria; convenienza che diviene regola di giudizio imprescindibile e non solo momento di valutazione rimesso alla scelta ponderata della maggioranza dei creditori, allorquando vi sia una contestazione specifica da parte di un creditore dissenziente in sede di omologa o laddove sia previsto il pagamento in percentuale di crediti muniti di prelazione. Soprattutto, pur nella loro autonomia di sistema, le due procedure in questione sono caratterizzate da una identica ratio finalistica: limitare il ricorso a procedure esclusivamente demolitorie, garantendo, in via anticipata, ai creditori una soddisfazione anche solo parziale governata dalla par condicio nonché, al contempo, al debitore di godere della esdebitazione senza attendere il corso della liquidazione. 8.- In questa complessiva cornice di riferimento assume un rilievo essenziale, nell’ottica che immediatamente interessa lo scrutinio di legittimità sollecitato dal rimettente, il tema della falcidia dei crediti privilegiati. 8.1.- In entrambe le procedure viene lasciata al proponente la più ampia libertà nel predisporre il contenuto della proposta, compresa la parziale soddisfazione dei crediti favoriti da prelazione e, tra questi, anche di quelli tributari. L’accordo di composizione, al pari del concordato preventivo, prevede infatti la possibile falcidiabilità dei crediti privilegiati in deroga al principio dettato dall’art. 2741 cod. civ., giacché l’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012 riproduce, in parte qua, il contenuto dell’art. 160, comma 2, della legge fallimentare. In particolare, il pagamento parziale dei crediti risulta condizionato al positivo riscontro del favor che la proposta del debitore deve accordare alla soluzione di definizione preventiva della crisi rispetto alla alternativa liquidatoria, secondo indicazioni valutative che il legislatore rimette all’attestazione resa da un terzo, il quale, al di là del profilo relativo alla relativa nomina, deve comunque svolgere la propria attività in modo indipendente. Mentre nel concordato preventivo (art. 160, comma 2, della legge fallimentare) siffatta attività viene demandata ad un professionista terzo che rivesta i requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lettera d), della stessa legge, nella procedura di accordo, qui considerata, il medesimo ruolo, ai sensi del secondo periodo dell’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, viene svolto dagli organismi di composizione della crisi di cui al successivo art. 15.


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8.2.- Le due procedure si disallineano, invece, in relazione al trattamento dei debiti tributari, pur se entrambe, in linea di principio, consentono la falcidia anche di queste poste di credito. 8.2.1.- Nel concordato preventivo, la disciplina di riferimento è attualmente dettata, in forza delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 81, legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), dall’art. 182-ter della legge fallimentare (la cui rubrica è oggi denominata «Trattamento dei crediti tributari e contributivi» e non più «Transazione fiscale»). Prendendo le distanze dal precedente assetto normativo, così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità (sul punto, Corte di cassazione, sezioni unite, 27 dicembre 2016, n. 26988 e 13 gennaio 2017, n. 760, che hanno mutato l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione, sezione prima, 4 novembre 2011, n. 22931 e n. 22932), la legge fallimentare nel suo vigente tenore legittima domande di concordato preventivo che prevedano la falcidia dei crediti tributari esclusivamente se proposte attraverso il meccanismo procedurale definito dal citato art. 182-ter della legge fallimentare. In questa cornice, le proposte di concordato possono prevedere «il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori», senza imporre deroghe di sorta quanto alle tipologie delle poste di credito falcidiabili. Infine, come nel passato, l’ammissibilità di tali proposte risulta condizionata alla previsione di un grado di soddisfazione del credito falcidiato «in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione», nonché al rispetto del rango di riferimento, laddove il relativo credito sia assistito da privilegio. 8.2.2.- Anche la normativa dettata per l’accordo di composizione della crisi del debitore non fallibile prevede la generale falcidiabilità dei crediti tributari, privilegiati e chirografari, ma, a differenza della legge fallimentare, la esclude in riferimento al regime dell’IVA (oltre che per gli altri crediti descritti dalla disposizione censurata). 8.3.- Ferma dunque la regola comune della generale falcidiabilità delle pretese tributarie, anche se privilegiate, le due discipline trovano un tratto di differenziazione, per quel che immediatamente interessa, proprio nel regime previsto per l’IVA. 8.4.- Per meglio comprendere il tenore di tale differenziazione, tuttavia, occorre soffermarsi sull’evoluzione che nel tempo ha assunto l’art. 182-ter della legge fallimentare, alla luce della stratificazione normativa che ne ha riguardato il disposto, nonché delle letture interpretative che di tale previsione normativa sono state offerte nel tempo dalla giurisprudenza, anche di questa Corte, proprio con riferimento al tema della deroga al principio della generale falcidiabilità delle pretese tributarie all’interno della procedura di concordato preventivo.


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8.4.1.- La disposizione di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare è stata inserita all’interno della legge fallimentare in forza di quanto previsto dall’art. 146, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2006. È stata poi novellata più volte: in primo luogo dall’art. 32, comma 5, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito con modificazioni nella legge 28 gennaio 2009, n. 2; successivamente dall’art. 29, comma 2, lettera a), del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito con modifiche nella legge 30 luglio 2010 n. 122; da ultimo, per quanto già evidenziato, dall’art. 1, comma 81, della legge n. 232 del 2016, tramite il quale si è pervenuti all’attuale versione, evocata dal rimettente quale tertium comparationis della denunziata violazione dell’art. 3 Cost. 8.4.2.- Nella sua originaria versione, la falcidia dei debiti tributari prevista dalla transazione fiscale vedeva un limite espresso nelle sole risorse proprie dell’Unione europea, senza alcun specifico riferimento all’IVA. Ciò malgrado, secondo la giurisprudenza di legittimità, qualunque concordato preventivo, anche quello modulato avvalendosi della transazione fiscale, non poteva comunque prevedere la falcidia dell’IVA; ciò sull’assunto che si trattasse di un tributo costituente risorsa propria dell’Unione europea (sul punto, le già citate sentenze della Corte di cassazione, sezione prima, n. 22931 e n. 22932 del 2011). La novella apportata dal d.l. n. 185 del 2008 risolse ogni dubbio sotto questo versante, introducendo espressamente il divieto di falcidia dell’IVA. Come chiarito dai relativi lavori preparatori, tale previsione venne giustificata della necessità di non contravvenire alla normativa comunitaria che vieta «allo Stato membro di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica» (Camera dei Deputati, XVI Legislatura, Relazione illustrativa al disegno di legge n. 1972), secondo i principi contenuti nella direttiva 2006/112/CE del Consiglio 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (da ora in avanti: direttiva IVA). Con la novella del 2010, inoltre, il divieto della falcidia previsto per l’IVA e per i tributi costituenti risorse dell’Unione europea è stato esteso alle ritenute fiscali. 8.4.3.- Da tale excursus normativo emerge, dunque, che la disciplina prevista per il concordato preventivo, quanto alle deroghe inerenti al principio generale della falcidiabilità dei crediti di matrice tributaria, recava, alla data di introduzione della norma censurata, intervenuta con il d.l. n. 179 del 2012, contenuti sostanzialmente identici a quelli che ancora oggi connotano il portato dell’art. 7, comma 1 della legge n. 3 del 2012. Sia per il concordato preventivo, sia per l’accordo proposto ai creditori in forza della legge n. 3 del 2012, la falcidia dei crediti tributari era dunque consentita con l’esclusione di quanto dovuto per IVA, per altri tributi costituenti risorse dell’Unione europea, per il versamento delle ritenute fiscali.


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Una tale coincidenza di contenuti trovava ragion d’essere nella chiave tipicamente concordataria assunta dai rimedi preventivi offerti dalla disciplina dettata dalla legge n. 3 del 2012 in esito alla riforma apportata dal citato d.l. n. 179 del 2012 (Senato della Repubblica, XVI Legislatura, Relazione illustrativa al disegno di legge n. 3533); muoveva a conferma, inoltre, della comune ratio che fondava le due discipline in parte qua, legata alla natura dell’IVA quale risorsa dell’Unione europea, in quanto tale intangibile in ordine alla sua integrale riscossione da parte di ciascun Stato membro. 8.5.- Siffatto assetto normativo è stato ritenuto conforme alla Costituzione da questa Corte (sentenza n. 225 del 2014 e ordinanza n. 232 del 2015). Sollecitata al sindacato di legittimità costituzionale degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, nel contenuto vigente all’epoca, in riferimento all’asserita violazione dei medesimi parametri evocati dall’ordinanza in esame, in ragione del divieto di falcidia dell’IVA che tali disposizioni comportavano, questa Corte ha ritenuto non fondate le relative questioni muovendo, per l’appunto, dalla «natura dell’IVA come imposta la cui disciplina è fortemente armonizzata a livello comunitario in quanto “risorsa propria” dell’Unione europea», tale da giustificare «i vincoli derivanti per gli Stati membri nell’accertamento e nella riscossione dell’imposta in esame» (sentenza n 225 del 2014). Nelle citate decisioni di questa Corte è stato dato fondamentale rilievo alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in relazione ai limiti imposti al legislatore nazionale dalla normativa unionale di riferimento e, in particolare, alla direttiva IVA. Si è così rimarcata l’indisponibilita della relativa disciplina da parte degli stati membri e dunque «l’incompatibilità con la disciplina comunitaria dell’IVA» di normative interne dirette a prevedere la «rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi imposta» (citata sentenza n. 225 del 2014). Di qui la scelta di negare la fondatezza sia all’addotta violazione dell’art. 97 Cost., perché «la previsione legislativa della sola modalità dilatoria in riferimento alla transazione fiscale avente ad oggetto il credito IVA deve essere intesa come il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo»; sia alle denunziate discriminazioni di trattamento tra le categorie di creditori ammessi a partecipare al concordato preventivo, in presenza di una «disciplina eccezionale attributiva di un “trattamento peculiare e inderogabile”» quale quella prevista per l’IVA, tale da deprivare di rilievo anche la questione prospettata in riferimento all’art. 3 Cost. (così, la medesima sentenza n. 225 del 2014). 8.6.- Rispetto a siffatto consolidato quadro interpretativo, ha assunto una valenza decisiva la decisione della CGUE, sentenza 7 aprile 2016, in causa C-546/14, Degano Trasporti sas, resa peraltro in esito ad un rinvio pregiudiziale sollevato dallo stesso odierno tribunale rimettente. Nell’occasione, il Tribunale ordinario di Udine si trovava a delibare sull’ammissibilità della proposta di un concordato preventivo che, per quanto proposto senza


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transazione fiscale, prevedeva comunque la falcidia dei crediti tributari e tra questi dell’IVA, sul presupposto della convenienza della proposta rispetto alla alternativa liquidatoria. Ritenendo coerente una lettura del dato normativo interno con i termini di tale proposta, il tribunale interrogò la Corte di Lussemburgo in ordine alla compatibilità di una siffatta normativa con l’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 (da ora in poi: TUE), nonché gli artt. 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA, dai quali emerge che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio. La CGUE, dopo aver ricordato che, nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri beneficiano di una certa autonomia di intervento, ha altresì ribadito che «[t]ale libertà è tuttavia limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme dei medesimi». Muovendo da tale indicazione di principio, la Corte di Lussemburgo ha quindi ritenuto che «l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo come prevista dalla normativa nazionale di cui al procedimento principale, non debba ritenersi contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione». Con la decisione in oggetto, la CGUE, in particolare, ha attribuito rilievo alle connotazioni della procedura nel corso della quale viene vagliata tale proposta di parziale soddisfazione del credito IVA, rimarcando che il concordato preventivo è soggetto «a presupposti di applicazione rigorosi, allo scopo di offrire garanzie per quanto concerne, in particolare, il recupero dei crediti privilegiati e pertanto dei crediti IVA. In tal senso, anzitutto, la procedura di concordato preventivo comporta che l’imprenditore in stato di insolvenza liquidi il suo intero patrimonio per saldare i propri debiti. Se tale patrimonio non è sufficiente a rimborsare tutti i crediti, il pagamento parziale di un credito privilegiato può essere ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento del debitore. La procedura di concordato preventivo appare quindi tale da consentire di accertare che, a causa dello stato di insolvenza dell’imprenditore, lo Stato membro interessato non possa recuperare il proprio credito IVA in misura maggiore» (paragrafi 23 e 24). Per altro verso, la decisione in questione mette in evidenza che la proposta di concordato preventivo è soggetta al voto di tutti i creditori ai quali il debitore non proponga un pagamento integrale del loro credito e «che deve essere approvata da tanti creditori che rappresentino la maggioranza del totale dei crediti dei creditori ammessi al voto» (paragrafo 8): nell’assunto argomentativo seguito dalla Corte di Lussemburgo, la relativa procedura offre, dunque, allo Stato membro interessato «la possibilità


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di votare contro una proposta di pagamento parziale di un credito IVA qualora, in particolare, non concordi con le conclusioni dell’esperto indipendente» (paragrafo 26); laddove, poi, la proposta venga omologata con il voto contrario dell’amministrazione, consente comunque allo Stato membro interessato di contestare ulteriormente, mediante opposizione, un concordato che preveda un pagamento parziale di un credito IVA, favorendo il controllo giudiziale sul punto. La CGUE ha quindi concluso ritenendo che «l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo […] non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio, nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione» (paragrafo 28). 8.6.1.- Conclusione, questa, ribadita anche nelle relative argomentazioni della successiva decisione, Corte di Giustizia dell’Unione europea, 17 marzo 2017, in causa C-493/15, Agenzia delle entrate contro Marco Identi, resa in esito alla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte di cassazione, sezione quarta, con ordinanza del 1° luglio 2015, n. 13542, relativa alla compatibilità con il diritto dell’Unione europea delle norme dettate dalla legge fallimentare (artt. 142 e seguenti) in tema di esdebitazione, nella parte in cui consentono la liberazione del fallito anche con riferimento alla parziale soddisfazione del debito IVA. 8.7.- Tali decisioni della Corte di Lussemburgo hanno determinato un radicale cambio di tendenza quanto al quadro normativo e interpretativo di riferimento sul tema della falcidia del credito IVA all’interno della procedura di concordato preventivo. In particolare, hanno costituito la ragione fondante dell’attuale tenore dell’art. 182-ter della legge fallimentare, così come modificato dall’art. 1, comma 81, della legge n. 232 del 2016, in forza del quale, con riguardo alle procedure promosse dal 1° gennaio 2017 (data di vigenza della novella apportata dalla legge n. 232 del 2016), le domande di concordato preventivo non trovano più limiti quanto al tipo di tributi possibile oggetto di falcidia: l’odierna previsione legislativa di riferimento (l’art. 182ter della legge fallimentare, per l’appunto), l’unica che attualmente risulta chiamata a regolare proposte di concordato destinate ad incidere sulle prospettive di soddisfazione del credito tributario, non riproduce più le originarie deroghe. 8.8.- Giova infine segnalare che, con il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155; da ora in avanti: CCII), il legislatore ha da ultimo operato una revisione complessiva della disciplina relativa alle procedure concorsuali, all’interno della quale risulta anche ridisegnata la normativa relativa alle crisi da sovraindebitamento, attualmente disciplinata dalla legge n. 3 del 2012.


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Sono diverse le novità offerte dal CCII, comunque estranee al giudizio principale (e dunque anche all’odierno incidente di illegittimità costituzionale), perché operative solo per le procedure instaurate dopo il 15 agosto 2020 (artt. 389, comma 1, e 390, commi 1 e 2, del citato d.lgs. n. 14 del 2019). Tra queste, per quel che qui direttamente interessa, va rimarcato che le nuove disposizioni sul sovraindebitamento contenute nel CCII, sia con riferimento al concordato minore (ovverosia il vecchio accordo di composizione, ora disciplinato dagli artt. 74 e seguenti del citato decreto), sia in relazione alla procedura di “ristrutturazione dei debiti del consumatore” (l’originario piano del consumatore, oggi regolato dagli artt. da 67 a 73), prevedono, una volta entrata in vigore, il possibile pagamento parziale dei crediti privilegiati e tra questi anche di quelli tributari, senza più riprodurre il divieto di falcidia, attualmente previsto dalla norma censurata. Ciò sempre che la proposta sia maggiormente favorevole rispetto alla prospettiva liquidatoria, in termini non diversi da quanto previsto dall’attuale disciplina del concordato preventivo relativamente alla falcidia dei crediti privilegiati (attualmente ai sensi degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, destinati ad essere sostituiti dagli artt. 85 e 88 del CCII). 9.- Venendo allo scrutinio delle censure prospettate dal rimettente, giova in primo luogo evidenziare che tale disamina non risulta nel caso impedita da pregiudiziali profili di inammissibilità. 9.1.- Le argomentazioni spese dal rimettente sulle connotazioni del giudizio principale, destinate ad incidere sulla rilevanza della questione, sono da ritenersi compiute e plausibili. In particolare, il rimettente si è soffermato adeguatamente sulle condizioni di ammissibilità del ricorso, ricavabili dal complessivo tenore degli artt. 7, 8 e 9 della legge n. 3 del 2012, approfondendo in particolare i termini afferenti le precondizioni previste dal comma 2 dell’art. 7, negandone la ricorrenza. In questa ottica, il giudice a quo rimarca con puntualità il rilievo ostativo che deriva dall’applicabilità della disposizione censurata rispetto all’ulteriore corso della procedura posta al suo giudizio. 9.2.- Sempre preliminarmente, va altresì rimarcato che il rimettente ha provveduto ad un pregiudiziale scrutinio di compatibilità della disposizione censurata con il diritto dell’Unione europea e, in particolare, con l’art. 273 della direttiva IVA; ciò in adesione alla giurisprudenza di questa Corte, in forza della quale il giudizio sulla compatibilità della norma censurata con il diritto dell’Unione europea costituisce un prius logico e giuridico rispetto al sindacato di legittimità costituzionale in via incidentale, poiché ne mette in discussione la stessa applicabilità nel giudizio principale, così da incidere sulla rilevanza della questione (ex multis, da ultimo, ordinanza n. 47 del 2017). 9.2.1.- Nell’ordinanza, dopo un puntuale confronto con gli orientamenti maturati nella giurisprudenza interna successivamente alle sentenze Degano Trasporti sas e Agenzia delle entrate contro Marco Identi della Corte di Lussemburgo, si esclude che


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dall’art. 273 della direttiva IVA, così come interpretata dalla CGUE, possa emergere un principio chiaro e incondizionato, suscettibile di applicazione diretta, che si ponga in immediata antinomia con la norma censurata tale da portare alla non applicazione della stessa. 9.2.2.- Le motivazioni spese dal rimettente in parte qua non solo non possono ritenersi implausibili, ma rivelano anche una condivisibile ricostruzione del dato normativo di riferimento. Con la sentenza Degano Trasporti sas, la Corte di Lussemburgo non ha affermato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione in ambito IVA dell’allora vigente art. 182ter della legge fallimentare, nella parte in cui imponeva il divieto di falcidia dell’IVA; piuttosto, ha ritenuto la compatibililità con tale diritto di una disposizione interna (l’art. 160, comma 2, della legge fallimentare), che tale falcidia finiva per consentire (nella lettura che ebbe a darne il giudice che sollevò la questione pregiudiziale). Il quadro normativo offerto dalla disciplina dell’Unione europea in tema di IVA conseguente alle letture che ne hanno dato le sentenze soprarichiamate non mette, peraltro, in discussione il principio fondamentale che si ricava in parte qua dalla direttiva IVA, ovverosia l’esigenza di perseguire l’obiettivo di una riscossione effettiva e integrale dell’IVA; né, ancora, intacca la discrezionalità lasciata agli stati membri nell’individuare gli strumenti più funzionali al fine in oggetto. Da tali decisioni, piuttosto, emerge che non sono incompatibili con l’esigenza di garantire una riscossione effettiva dell’IVA norme interne che, al verificarsi di determinati presupposti procedurali, consentano una parziale riscossione del dovuto, così da garantire una maggiore soddisfazione degli interessi dell’Unione europea rispetto alla alternativa liquidatoria. Tanto porta a ritenere compatibile con il diritto dell’Unione l’attuale disposizione dettata in materia di concordato preventivo, come ora formulata in esito alla novella apportata nel 2016, senza che ciò determini, al contempo, l’incompatibilità della scelta, di segno opposto, assunta dal legislatore nazionale nella procedura di sovraindebitamento: quest’ultima, infatti, ben potrebbe costituire una delle vie attraverso il quale lo Stato membro intende perseguire l’obiettivo della piena riscossione del tributo imposto dal diritto dell’Unione europea. 9.3.- Il giudice a quo ha anche escluso di poter accedere ad una interpretazione orientata del dato censurato conforme al diritto dell’Unione, in ragione della chiara ed univoca lettera dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge n. 3 del 2012, che non permetterebbe una simile lettura. 9.3.1.- Anche questa valutazione deve ritenersi condivisibile nel merito. Sul piano letterale, l’uso della locuzione «in ogni caso» non consente all’interprete alcun margine di manovra, precludendo la via dell’interpretazione conforme della disposizione interna ai principi e agli obiettivi espressi nella direttiva di riferimento, non praticabile senza stravolgerne il significato letterale. Ciò in linea, del resto, con la giurisprudenza della CGUE, in forza della quale «l’obbligo per il giudice nazionale di


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fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale» (Corte di Giustizia dell’Unione europea, 24 gennaio 2012, Grande Sezione, in causa C-282/10, Maribel Dominguez). 9.4.- Non diversamente, il tenore letterale della norma censurata, nel suo radicale rigore, preclude a monte, la possibilità sia di accedere a soluzioni interpretative costituzionalmente orientate; sia a letture alternative del complessivo quadro normativo di riferimento che, in una ottica di sistema, consentano di estendere, alle procedure di definizione preventiva del sovraindebitamento del debitore non fallibile, la specifica disciplina attualmente prevista per il concordato preventivo. 10.- Nel merito, le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Udine devono ritenersi fondate in riferimento all’art. 3 Cost. 10.1.- Si è più volte ribadito il parallelismo che corre tra l’accordo di composizione della crisi da indebitamento, previsto dalla normativa censurata e il concordato preventivo disciplinato dalla legge fallimentare. Il primo riproduce i tratti sostanziali della seconda procedura, ma soprattutto ne ribadisce la filosofia di fondo. Pur a fronte di una chiara disomogeneità di interessi, quanto ai soggetti che possono accedervi, in entrambe le procedure viene consentita l’esdebitazione di chi è gravemente indebitato, evitando l’azione liquidatoria, frazionata o complessiva, del relativo patrimonio e favorendo, al contempo, una immediata ricollocazione del debitore all’interno del circuito economico e sociale, senza il peso delle esposizioni pregresse. 11.- In questo quadro di chiara assonanza, assumono importanza primaria le previsioni che attengono al regime previsto per i crediti privilegiati e tra questi, per quelli di matrice tributaria. La regola che domina le due procedure è quella della falcidiabilità di tali poste creditorie: la pretesa alla soddisfazione integrale del credito munito di prelazione, anche di natura tributaria, può recedere sull’altare della minor convenienza della alternativa liquidatoria del relativo patrimonio di riferimento. Infatti, gli artt. 160, comma 2, e 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, per un verso, e l’art. 7, comma 1, della legge n. 3 del 2012, per altro verso, riproducono pedissequamente lo stesso schema: si deroga al principio di cui all’art. 2741 cod. civ. e si determina il conseguenziale sacrificio della posizione del creditore solo perché, nel realizzare la finalità esdebitatoria, viene dato comunque rilievo imprescindibile alle prospettive di effettiva soddisfazione del credito munito di prelazione, che devono essere maggiori rispetto a quella potenzialmente derivante dalla liquidazione dei beni coperti dalla prelazione. Il tutto all’interno di percorsi procedurali comunque rimessi alla scelta deliberativa e decisiva dei creditori, subordinati a valutazioni estimative di assoluta serietà quanto alla incapienza dei beni da liquidare a garanzia del dovuto; soggetti al con-


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trollo giurisdizionale, utile a verificare la fattibilità della proposta e a definire anche i possibili conflitti concernenti la convenienza della stessa. 11.1.- La falcidia delle posizioni garantite da prelazione, del resto, costituisce un passaggio essenziale sul versante della funzionalità delle procedure preventive che mirano alla esdebitazione: il pagamento integrale dei crediti privilegiati, compresi quelli tributari, finirebbe infatti per vanificare il vantaggio legato alla definizione preventiva della crisi per quelle situazioni che, come ordinariamente accade, non risultano garantite da una capienza patrimoniale che consenta un integrale ripianamento delle esposizioni favorite dalla prelazione. Di qui il rilievo che occorre ascrivere, in tali ambiti procedurali, alla regola afferente alla falcidia dei crediti privilegiati. 11.2.- Trasferendo le precedenti argomentazioni allo specifico settore delle pretese tributarie, non può non rimarcarsi, inoltre, che, in questo ambito, la possibilità di operare la falcidia, compensata dalla maggiore soddisfazione garantita rispetto alla alternativa liquidatoria, costituisce diretta espressione dei canoni di economicità ed efficienza ai quali deve conformarsi, ai sensi dell’art. 97 Cost., l’azione di esazione della PA. La possibilità di prospettare un pagamento anche parziale dell’obbligazione tributaria, pur se assistita da prelazione, a fronte della grave situazione debitoria del proponente, non adeguatamente supportata da un patrimonio tale da assicurare l’effettività della riscossione anche coattiva della relativa pretesa, garantisce il male minore, sia per il privato debitore, sia per l’amministrazione finanziaria: il primo, attraverso tale decurtazione, può evitare azioni liquidatorie complessive, se del caso anche protraendo l’attività economica sino a quel momento svolta, acquisendo anche il diritto alla esdebitazione; la seconda realizza il miglior risultato possibile alla luce della condizioni patrimoniali e finanziarie del contribuente, evitando di far ricadere sulla comunità l’onere delle conseguenze finanziarie correlate ad una escussione fortemente posta in dubbio quanto alle effettive possibilità di recuperare il credito in termini più favorevoli rispetto al quantum proposto dal debitore. 12.- Rispetto alla generale falcidiabilità dei crediti privilegiati e tra questi anche dei crediti di natura tributaria, il trattamento dell’IVA, per quel che qui direttamente interessa, crea un immediato ed ingiustificato disallineamento tra le procedure in discorso, come rimarcato dal giudice rimettente. 12.1.- Vale ribadire, peraltro, che in origine le disposizioni di riferimento coincidevano. Anzi, proprio il parallelismo tra le due procedure era stata la ragione fondante della disposizione censurata: ricostruite in chiave concordataria, le procedure preventive di definizione della crisi e dell’insolvenza del debitore civile non potevano che riprodurre il divieto di falcidia dell’IVA, alla stessa stregua dell’allora vigente ed identica norma dettata dall’art. 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, per il concordato preventivo.


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Diversamente si sarebbe creata una irrazionale distonia comportante una illegittimità costituzionale opposta a quella qui denunciata. 12.2.- La ratio della deroga, rispetto alla regola generale della falcidiabilità delle poste di credito privilegiate, contenuta nella disposizione censurata, può dunque essere ricostruita solo guardando alla norma che ne ha ispirato il contenuto: anche per la norma censurata, dunque, assumono valenza dirimente gli effetti attribuiti alla qualificazione dell’IVA come risorsa propria dell’Unione europea. Secondo una prima impostazione, asseverata anche da questa Corte (con la citata sentenza n. 225 del 2014) in relazione al tenore originario dell’art. 182-ter della legge fallimentare, il legislatore interno, tenuto al prelievo integrale di detta risorsa tributaria, non avrebbe potuto introdurre disposizioni destinate ad incidere su tale obiettivo. La falcidiabilità, dunque, doveva ritenersi consentita, nelle procedure concorsuali con finalità esdebitatorie, in via generale per tutti i tributi di esclusiva rilevanza interna; ciò non valeva, invece, per i tributi costituenti risorse dell’Unione (come previsto nell’originaria formulazione dell’art. 182-ter della legge fallimentare), e tra questi, per l’IVA (come precisato successivamente con la novella apportata dal d.l. n. 185 del 2008), rispetto alla quale era consentita la sola dilazione del relativo adempimento, per scelta imposta da obblighi sovrannazionali, non derogabili dal legislatore italiano. Il tutto alla luce di una interpretazione del diritto dell’Unione europea in forza della quale anche la falcidia concorsuale del credito IVA altro non avrebbe rappresentato se non una indebita rinuncia integrale al prelievo di una risorsa propria dell’Unione europea, così da replicare i vizi che, sotto tale profilo, avevano portato l’Italia a patire il giudizio di incompatibilità rispetto alle indicazioni derivanti dal diritto dell’Unione europea, con riferimento ad altre disposizioni di legge sempre incidenti sull’IVA (valga, a tal fine, il riferimento a Corte di Giustizia dell’Unione europea, 17 luglio 2008, in causa C-132/06, Commissione della comunità europea contro Repubblica italiana, relativa al condono “tombale” previsto dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato», resa a ridosso della modifica normativa apportata nel 2008 all’art. 182-ter della legge fallimentare) 12.3.- Con la citata sentenza Degano Trasporti sas, la Corte di Lussemburgo ha mutato, però, tale presupposto interpretativo di riferimento, ritenendo compatibile una norma interna (l’art. 160, comma 2, della legge fallimentare) che, inserita in un percorso sottoposto al sindacato giurisdizionale, consenta un pagamento parziale del credito IVA qualora sia accertato giudizialmente che tale soddisfazione garantisca comunque una acquisizione di risorse maggiore rispetto alla alternativa liquidatoria e venga consentito all’amministrazione interessata di esprimere parere contrario alla proposta del debitore oltre che di opporsi giudizialmente alla stessa, contestandone la convenienza.


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12.4.- Tale decisione, come già evidenziato, ha costituito la ratio ispiratrice della novella apportata dalla legge n. 232 del 2016 alla disciplina del trattamento dell’IVA nel concordato preventivo, in forza della quale oggi la falcidiabilità delle pretese tributarie, anche garantite da prelazione, non vede più deroghe espresse. Per altro verso, assume rilievo anche in relazione all’odierno scrutinio di legittimità costituzionale, perché, a posteriori, ha tolto ragionevolezza alla scelta adottata dal legislatore con la norma censurata nel definire l’IVA intangibile all’interno delle procedure alternative alla liquidazione prevista dalla legge n. 3 del 2012. 13.- La differenza di disciplina che oggi caratterizza il concordato preventivo e l’accordo di composizione dei crediti del debitore civile non fallibile dà luogo ad una ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tale da concretare l’addotta violazione dell’art. 3 Cost. In particolare, le modifiche da ultimo citate, innovando solo in relazione alla disciplina del concordato preventivo, hanno determinato quella discrasia di sistema che in origine il legislatore aveva inteso evitare ricostruendo il contenuto della norma dettata per il sovraindebitamento del debitore non fallibile in termini sostanzialmente riproduttivi della disciplina all’epoca vigente dettata dall’art. 182-ter della legge fallimentare. 13.1.- Disparità, questa, che tocca in primo luogo i debitori interessati dalle procedure in questione, giacché non v’è motivo per trattare diversamente, sotto questo profilo, i debitori legittimati ad avvalersi della procedura di concordato preventivo in quanto assoggettabili a fallimento: la ragione di fondo che giustifica la falcidia dell’IVA, al pari di quella di tutte le altre poste di credito privilegiate e tributarie, non può porsi in termini differenziati per tutte le categorie di debitori legittimati ad avvalersi di una procedura concorsuale esdebitatoria. E ciò a prescindere dal tipo di attività esercitata, imprenditoriale o no, nonché dalle dimensioni di tale attività ed all’incidenza economica che ad esse si correla, trattandosi di elementi indifferenti rispetto all’obiettivo perseguito dalle relative procedure di definizione della crisi. Semmai, sotto quest’ultimo versante, l’ordinamento dovrebbe dare il giusto rilievo al fatto che l’intera normativa dettata in tema di sovraindebitamento è stata costruita in termini di beneficio riconosciuto a tale vasta categoria di debitori, che non raramente maturano la relativa esposizione in una posizione di debolezza o comunque di asimmetria negoziale con i titolari delle relative poste creditorie. 13.2.- Del resto, la differenza di trattamento sottolineata dal rimettente, trova conferma inequivoca nella normativa prevista per gli imprenditori agricoli gravemente indebitati. Questi ultimi, in ragione di quanto previsto dall’art. 23, comma 43, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito con modificazioni nella legge 15 luglio 2011, n. 111, sono legittimati ad avvalersi degli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art. 182-bis della legge fallimentare, ai quali


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risulta estesa l’applicabilità del successivo art. 182-ter della legge fallimentare, con conseguente possibile falcidiabilità dei debiti tributari, compresa l’IVA. Al contempo gli stessi soggetti possono attivare anche l’accordo di composizione della crisi oggetto della odierna censura (art. 7, comma 2-bis, della legge n. 3 del 2012), rispetto al quale, tuttavia, la norma censurata impone il divieto di falcidia dell’IVA.A fronte dunque di una situazione oggettiva sostanzialmente simile (perché il sovraindebitamento non si distanzia in termini decisivi dai concetti di crisi e insolvenza che legittimano lo strumento di cui all’art. 182-bis della legge fallimentare), gli stessi soggetti possono o no avvalersi della falcidia IVA a seconda della procedura che scelgono di attivare. 13.3.- Piuttosto, la ragionevole sostenibilità della differenza di trattamento in questione va misurata guardando alla ratio sottesa al divieto di falcidia dell’IVA; ratio, come più volte ribadito, ascritta alla ritenuta indisponibilità del relativo gettito da parte del legislatore interno, siccome assertivamente imposta dal diritto dell’Unione europea. Siffatto assunto di partenza, tuttavia, è stato decisamente posto in discussione dalla più volte richiamata sentenza Degano Trasporti sas con considerazioni che, seppur rivolte alla disciplina del concordato preventivo (nel suo assetto antecedente alla riforma apportata dalla legge n. 232 del 2016), possono trasporsi in direzione della norma censurata, considerate le più volte rimarcate affinità che connotano le due procedure di riferimento: una volta chiarito che la normativa euro unitaria non impone sempre e comunque l’integrale riscossione della risorsa, anche nell’accordo di composizione della crisi previsto dalla legge n. 3 del 2012 perde coerenza quel giudizio di intangibilità del credito IVA che, in origine, ha rappresentato la ratio del divieto di falcidia della relativa pretesa tributaria. Di qui l’attuale ingiustificata dissonanza di disciplina che sussiste, in parte qua, tra le due procedure, non essendovi motivi che, secondo il canore della ragionevolezza, legittimino il trattamento differenziato cui risultano assoggettati i debitori non fallibili rispetto a quelli che possono accedere al concordato preventivo. 13.4.- L’attuale assetto normativo, inoltre, crea diseguaglianze ingiustificate a caduta anche con riferimento agli stessi creditori che partecipano all’accordo di composizione della crisi del debitore non fallibile. Se per un verso - come evidenziato anche da questa Corte con la sentenza n. 225 del 2014 - prima di tale assetto, era l’indisponibilità dell’IVA, determinata dalla riconducibilità del tributo alle risorse proprie dell’Unione europea, che finiva per porre questa imposta in una posizione di assoluta intangibilità rispetto a tutte le altre voci di credito privilegiate (le quali, anche se di rango poziore, finivano per risultare posposte a siffatta pretesa tributaria); per altro verso, oggi, a seguito del richiamato orientamento della CGUE, tale situazione di preferenza non ha più ragion d’essere. 13.5.- Né pare che la violazione dell’art. 3 Cost. possa ritenersi esclusa muovendo dall’assunto in forza del quale la regola della falcidiabilità dell’IVA, ora ricavabile


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dall’art. 182-ter della legge fallimentare, costituirebbe un beneficio accordato ai debitori fallibili in deroga al principio generale dell’indisponibilità della obbligazione tributaria. Ciò al fine di richiamare, in ragione di tale condizione presupposta, la giurisprudenza di questa Corte in forza della quale un trattamento diverso di situazioni analoghe non è di per sé illegittimo allorquando quello più favorevole, evocato quale momento di comparazione nell’ottica della denunziata disparita di trattamento, assuma i caratteri della eccezionalità (ex plurimis, da ultimo, sentenze n. 177 e n. 153 del 2017 e n. 111 del 2016). 13.5.1.- Tale assunto non è condivisibile. Non convince l’affermazione di principio che assegna natura eccezionale alla regola della falcidiabilità dell’IVA, attualmente prevista dall’art. 182-ter della legge fallimentare, anche in sede di concordato preventivo (sul punto, le sentenze della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 760 del 2017 e n. 26988 del 2016). A ben vedere tale ultima disposizione non prevede letteralmente la possibilità di procedere ad una soddisfazione parziale dell’IVA; piuttosto, non replica più l’originale divieto di falcidia previsto, tra gli altri, per tale tributo, in un quadro di generale falcidiabilità dei crediti tributari, chirografari e privilegiati. L’art. 182-ter della legge fallimentare non detta, dunque, una specifica regola che possa, in via di eccezione, derogare ad un principio generale. Costituisce, per contro, diretta espressione di una indicazione generale, altro non rappresentando che una diretta declinazione, in relazione alle pretese tributarie, della regola della falcidiabilità dei crediti privilegiati, prevista dall’art. 160, comma 2, della stessa legge in tema di concordato preventivo. Principio, quest’ultimo, che, come già rimarcato, deve ritenersi espressione tipica delle procedure concorsuali, maggiori o minori, con finalità esdebitatoria, tanto da risultare replicato anche per gli strumenti di definizione anticipata delle situazioni di sovraindebitamento prevista dalla legge n. 3 del 2012. 14.- Di qui la fondatezza della questione posta in riferimento all’art. 3 Cost. Resta assorbita la censura riferita all’art. 97 Cost. 15.- L’accoglimento della questione porta, in coerenza, all’ablazione delle parole «all’imposta sul valore aggiunto» dal terzo periodo del comma 1 dell’art. 7 della legge n. 3 del 2012. P.Q.M. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, terzo periodo, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento, limitatamente alle parole: «all’imposta sul valore aggiunto». (Omissis)


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(1) È incostituzionale l’infalcidiabilità dell’IVA nell’accordo di composizione della crisi da sovraidebitamento: riflessioni a margine. Sommario: 1. Premessa. – 2. Inesistenza di vincoli Unionali e discrezionalità del Le-

gislatore nazionale. – 3. La Corte Costituzionale si pone nella scia della Corte di Giustizia e valorizza il principio di uguaglianza. – 4. Riflessioni a margine sull’equivoco dell’infalcidiabilità dell’IVA. – 5. La composizione della crisi da sovraindebitamento nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. – 6. Conclusioni. È incostituzionale l’infalcidiabilità dell’IVA nell’accordo di composizione della crisi da sovraidebitamento: riflessioni a margine. La Corte Costituzionale supera l’equivoco dell’infalcidiabilità dell’IVA quale risorsa propria dell’Unione Europea, collocandosi sulla linea interpretativa della Corte di Giustizia UE (sentenza Degano Trasporti). Inoltre la Corte Costituzionale, valorizzando il principio di uguaglianza, ritiene doveroso applicare la stessa regola anche nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, oltre che nel corcordato preventivo di cui alla Leegge Fallimentare. Più in generale da questa evoluzione giurisprudenziale, e dalla laconicità delle nuove disposizioni in tema di crisi da sovraindebitamento introdotte nel CCII, esce confortata la tesi secondo cui il potere dell’Amministrazione finanziaria di derogare al principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, si fonda semplicemente sulle norme che disciplinano le vicende concorsuali dei crediti, senza la necessità di specifiche norme attributive. The Constitutional Court overcomes the misunderstanding of the infallibility of VAT as an own resource of the European Union, placing itself on the interpretative line of the EU Court of Justice (Degano Trasporti ruling). Furthermore, the Constitutional Court, valuing the principle of equality, considers it necessary to apply the same rule also in the procedures for the settlement of the over-indebtedness crisis, as well as in the arrangement with creditors referred to in the Bankruptcy Law. More generally, from this jurisprudential evolution, and from the laconic nature of the new provisions regarding the over-indebtedness crisis introduced in the CCII, the thesis according to which the power of the financial Administration to derogate from the principle of unavailability of the tax obligation is based simply on the rules governing the insolvency events of credits, without the need for specific attribution rules.

1. Premessa. – La Corte Costituzionale ha accolto la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Udine in merito all’infalcidiabilità dell’IVA nell’accordo di composizione della crisi da sovraidebitamento. Il Tribunale di Udine porta così a compimento il suo encomiabile percorso critico rispetto all’asserito obbligo di integrale pagamento dell’IVA a scapito dei creditori di diritto comune e delle regole di logica e di diritto che debbono ispirare ogni procedura concorsuale e di sovraindebitamento.


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Dopo aver offerto un contributo decisivo per fare chiarezza sulla falcidiabilità dell’IVA nel concordato preventivo, avendo investito la Corte di Giustizia dell’Unione con una brillante ordinanza di rimessione da cui è scaturita la nota sentenza “Degano Trasporti” del 2016, lo stesso Tribunale, con ordinanza del 2018, aveva affrontato il problema dell’integrale pagamento dell’IVA nella composizione della crisi da sovraindebitamento, sollevando una puntuale questione di legittimità costituzionale (1). L’ordinanza del 2018 censurava l’infalcidiabilità dell’IVA nella composizione della crisi da sovraindebitamento ex L. 27 gennaio 2012, n. 3, affrontando rilevanti profili sottesi alla necessaria uniformità di gestione del tributo nelle diverse procedure di risanamento contemplate dal nostro ordinamento. Come noto, infatti, sulla base di risalenti critiche mosse dalla dottrina, alcune note e recenti pronunce, dapprima della Corte di Giustizia Europea (Degano Trasporti 2016) (2) e quindi della Corte di Cassazione (3), hanno favorito una profonda rivisitazione della disciplina della transazione fiscale ex art. 182 ter, R. D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. Legge Fallimentare). Per quanto d’interesse, basti ricordare che le modifiche introdotte dall’art. 1, comma 81, L. 11 dicembre 2016, n. 232, concernenti il “Trattamento dei crediti tributari e previdenziali”, hanno privilegiato un assetto univoco che da un lato - impone al debitore di proporre il pagamento parziale e dilazionato dei tributi esclusivamente mediante la proposta di transazione fiscale, ma che - dall’altro - libera la procedura di molteplici e stringenti vincoli, consentendo oggi anche la falcidia dell’IVA. Ne deriva che, con decorrenza 1° gennaio 2017, la soddisfazione parziale e/o dilazionata di un credito tributario, IVA compresa, può e deve avvenire

(1) Trib. Udine, ordinanza14 maggio 2018, n. 171, in Il Fall,. 2018, 1294, con nota adesiva di L. Del Federico - S. Ariatti, L’irragionevole infalcidiabilità dell’Iva nella composizione della crisi da sovraindebitamento. (2) Sulla falcidia dell’IVA, si v. Corte di Giustizia UE, Sez. II, 7 aprile 2016, n. C-546/14, Degano Trasporti, in Il Fall., n. 8/9, 2016, 1003, con nota di E. Stasi, Falcidiabilità dell’Iva nel concordato preventivo senza transazione fiscale; in Riv. trim. dir. trib., n. 4, 2016, 985, con nota di S. Ariatti, Il diritto europeo non osta alla falcidia dell’Iva nel concordato preventivo; in Corr. trib., n. 20, 2016, 1549, con nota di V. Ficari, La Corte ammette la riduzione dell’IVA mediante la transazione fiscale. In materia di esdebitazione ed IVA, si v. Corte di Giustizia UE, Sez. VII, 16 marzo 2017, n. C-493/15, e le osservazioni all’ordinanza di rimessione di L. Del Federico - S. Ariatti, Esdebitazione ed Iva: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo nel concordato preventivo, in Il Fall., 2016, 448. (3) Si v., per tutte, Cass., SS.UU., 27 dicembre 2016, n. 26988, in Il Fall., n. 2, 2017, 265, con nota di M. Ferro, Falcidia del credito iva nel concordato senza transazione fiscale.


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attivando obbligatoriamente i nuovi canoni normativi previsti dall’art. 182 ter l.fall. (4); tra questi, la condizione che il pagamento non risulti inferiore a quello realizzabile sul ricavato in ipotesi di liquidazione ed in ragione della collocazione preferenziale del credito, in relazione al valore di mercato dei beni “aggredibili” così come opportunamente quantificato da una relazione di un professionista terzo. Questo perché, fermo restando il divieto Unionale che impone agli Stati membri di non introdurre misure nazionali che possano costituire una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, la Corte di Giustizia nella sentenza “Degano Trasporti” ha dichiarato - ovviamente - compatibile con il diritto Unionale una norma interna che permette ad un imprenditore commerciale in stato di insolvenza di pagare solo parzialmente il suo debito IVA qualora ciò avvenga nel quadro di una procedura seria, rigorosa e garantita, tale da non costituire una rinuncia incontrollata e generalizzata alla riscossione del tributo. I principi posti dalla Corte di Giustizia hanno indotto il Legislatore italiano ad intervenire, superando il feticcio dell’infalcidiabilità dell’IVA, di asserita matrice Europea. Tuttavia, il campo applicativo del novellato art. 182 ter è ben delimitato, coinvolgendo esclusivamente il concordato preventivo (art. 160) e gli accordi di ristrutturazione del debito (art. 182 bis), entrambi in seno alla Legge Fallimentare (5), in quanto il nuovo Codice della Crisi d’ Impresa e dell’insolvenza non è ancora entrato in vigore. In tale prospettiva ecco pertanto sorgere la questione problematica sottesa all’ordinanza di rinvio del Tribunale di Udine, vale a dire il rapporto tra la nuova transazione fiscale (rectius, “Il trattamento dei crediti tributari e previdenziali” ex art. 182 ter l.fall.) con le sue innovative prospettive di falcidia dell’IVA, e il perdurare del requisito previsto a pena di inammissibilità dal

(4) Sulla recente riforma v. per tutti F. Paparella, Il nuovo regime dei debiti tributari di cui all’art. 182ter L. Fall.: dalla transazione fiscale soggettiva e consensuale alla retrogradazione oggettiva, in Rass. trib., 2018, 317. (5) M. Cardillo, Una nuova apertura verso la falcidiabilità dell’Iva: le due sentenze gemelle della Corte di Cassazione, in Dir. prat. trib., 2017, 1758, nell’illustrare il recente intervento legislativo volto a consentire la falcidiabilità dell’IVA nel concordato preventivo, paventa proprio un problema di coordinamento, ai limiti della incostituzionalità, tra il novellato art. 182 ter l.fall., e l’art. 7, comma 1, L. n. 3/2012, nella parte in cui stabilisce che l’IVA può essere oggetto esclusivamente di dilazione. Su tali questioni v. altresì: G. Selicato, Composizione delle crisi da sovraindebitamento e transazione fiscale, in Dir. Fall., 2017, 1401; A. Guidara, L’infalcidiabilità dell’IVA e delle ritenute nel sovraindebitamento: tra diritto UE e diritto interno, in Riv. dir. trib., 2018, 641.


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piano di ristrutturazione ex art. 7, comma 1, terzo periodo, L. n. 3/2012, secondo cui “in ogni caso, con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”. Tale norma, infatti, identica sul piano letterale alla versione originaria dell’art. 182 ter l.fall., non è stata investita dalla novella che ha razionalizzato e ricondotto ad equità la transazione fiscale, ed è ancora oggi vigente nella sua veste primordiale. Latenti profili di incostituzionalità sono dunque stati sollevati dal Tribunale di Udine, vuoi rispetto all’art. 3 Costituzione, in quanto la dimensione dell’impresa commerciale non pare essere criterio discretivo sufficiente cui ancorare la possibilità di falcidia dell’IVA (peraltro la dimensione è mutevole nel tempo ed un soggetto, nel corso della sua attività economica, potrebbe sfuggire alle disposizioni fallimentari per mere contingenze), vuoi rispetto all’art. 97 Cost. Questo perché, nonostante la Corte Costituzionale (6) avesse già dichiarato insussistente il contrasto con tale parametro costituzionale, il contesto valoriale dell’epoca è stato ormai superato essendo stati chiariti gli equivoci Europei (7). L’obbligo di pagamento integrale dell’IVA, infatti, ha subito i suindicati interventi, tanto giurisprudenziali quanto normativi, che ne hanno sensibilmente mitigato l’indisponibilità, oggi non più assoluta (8).

(6) Corte cost. 25 luglio 2014, n. 225, in Il Fall. n. 1, 2015, 41 con nota di E. Stasi, L’infalcidiabilità dell’IVA nel concordato preventivo alla luce della pronuncia della Corte costituzionale; ed in Riv. dir. fin., 2014, 85, con nota di M. Mauro, L’intangibilità del credito IVA nel concordato preventivo: la criticabile decisione della Corte costituzionale e l’opportunità del rinvio della questione alla Corte di Giustizia. (7) V. Trib. Verona 10 aprile 2013, in Il Fall., 2014, 323, con nota di F. Miconi, Concordato preventivo, infalcidiabilità dell’IVA e buon andamento dell’azione amministrativa. Il Tribunale, proprio in relazione all’art. 97 Cost., aveva evidenziato che gli artt. 160 e 182 ter l.fall., nella parte in cui non prevedevano la decurtazione del tributo, impedivano di fatto all’Amministrazione Finanziaria di valutare autonomamente la convenienza di una proposta concordataria che, seppur con IVA falcidiata, consentisse comunque un grado di soddisfacimento non inferiore rispetto all’alternativa liquidatoria fallimentare. (8) Sulla posizione della giurisprudenza prima della “Degano Trasporti”, v. Cass., Sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931, in Riv. dir. trib., 2012, 35, con nota di L. Del Federico, La Corte di Cassazione inquadra la transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali; ed in Riv. trim. dir. trib., 2012, 268, con nota di P. Mastellone, La non falcidiabilità del credito IVA nel concordato preventivo prescinde dalla presenza della transazione fiscale. Per la Corte di Cassazione, la norma che escludeva la riduzione del debito IVA, consentendone la sola dilazione, non era una mera disposizione procedurale bensì una norma imperativa e sostanziale derivante dal diritto europeo. Per ulteriori approfondimenti v. G. La Croce, Il credito erariale iva tra orientamenti Ue e arresti della Cassazione, in Il Fall., 2012, 156.


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Per questo motivo, secondo il Giudice remittente, le argomentazioni in merito all’art. 97 Cost. potrebbero essere riprese e sviluppate in termini diversi ed in un contesto non più condizionato da asseriti vincoli Unionali. La Corte Costituzionale si è pronunciata ora in accoglimento della questione di legittimità, richiamando più volte la nota sentenza Degano Trasporti, resa dalla Corte di Giustizia UE nel 2016, e valorizzando il principio di uguaglianza (9). 2. Inesistenza di vincoli Unionali e discrezionalità del Legislatore nazionale. – Come è noto alla Corte di Giustizia è stata rimessa anche questione circa l’inapplicabilità all’IVA dell’esdebitazione ex art. L.F. 142: la Corte di Cassazione nutriva riserve sulla possibilità che la esdebitazione del fallito potesse ricomprendere anche l’IVA, giungendo a paventare anche la violazione del divieto di aiuti di Stato (10). La Corte di Giustizia, con la sentenza Identi del 16 marzo 2017 (11) ha chiarito ancora una volta che il diritto dell’Unione Europea non richiede affatto l’integrale pagamento dell’IVA nelle procedure concorsuali, né tantomeno eslude tale tributo dall’ambito applicativo dell’escdebitazione del fallito; infine la Corte di Giustizia ha escluso la configurabilità di aiuti di Stato nell’ambito del normale funzionamento delle procedure concorsuali e specificamente dell’esdebitamento del fallito. Tale sentenza ha confortato l’orientamento della sentenza Degano Trasporti del 2016. Ciononostante l’Agenzia delle Entrate e parte della dottrina hanno continuato a ritenere che regimi di tutela del credito IVA estremamente rigorosi, sino al punto dell’infalcidiabilità, potessero essere introdotti da Legislatore Italiano nell’esercizio della sua ampia discrezionalità, ancorchè si tratti di vincoli ultronei rispetto alle esigenze del diritto dell’Unione Europea (12).

(9) Sentenza già annotata da P. Boria, L’illegittimità costituzionale del divieto di falcidia IVA nell’esdebitazione dei debitori non fallibili, in Giur. Trib., 2020, 17. (10) Cass., sez. IV, ord. 1 luglio 2015, n. 13542, in Il Fall, 2016, 444, con nota L. Del Federico - S. Ariatti, Esdebitazione ed Iva: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo, cit. (11) Corte Giust. UE, 16 marzo 2017, causa C-493/2015. (12) Su tali profili v. per tutti P. Boria, L’illegittimità costituzionale del divieto di falcidia IVA nell’esdebitazione dei debitori non fallibili, cit., 19-20, il quale tuttavia fonda la sua tesi su una errata lettura della sentenza della Corte di Giustizia UE Identi del 2017, ritenuta afferente al tema della crisi da sovraindebitamento, laddove viceversa, si è occupata del diverso tema


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3. La Corte Costituzionale si pone nella scia della Corte di Giustizia e valorizza il principio di uguaglianza. – La compatibilità con il diritto dell’Unione europea dell’art. 7, comma 1, L. n. 3/2012, nella parte in cui non ammette la falcidia dell’IVA nella proposta di composizione della crisi da sovraindebitamento (13), è una tematica di cui si sono occupate diverse pronunce di merito (14), che tentavano di individuare soluzioni interpretative. Tuttavia tali precedenti hanno ormai perso interesse, stante l’illegittimità dichiarata dalla Corte Costituzionale. La motivazione della sentenza è molto ampia ed articolata, e del tutto condivisibile. Quindi è sufficiente tratteggiarne i punti salienti ai fini di alcune particolari questioni sulle quali si intende riflettere in questa sede (15). La Corte Costituzionale richiama più volte la sentenza Degano Trasporti della Corte di Giustizia, ed evidenzia che essa ha costituito la ratio ispiratrice della novella apportata dalla legge n. 232 del 2016 alla disciplina del trattamento dell’IVA nel concordato preventivo, in forza della quale oggi la falcidiabilità delle pretese tributarie, anche garantite da prelazione, non vede più deroghe espresse. Questa novella “ha tolto ragionevolezza alla scelta adottata dal legislatore con la norma censurata nel definire l’IVA intangibile all’interno delle procedure alternative alla liquidazione prevista dalla legge n. 3 del 2012”. Pertanto “la differenza di disciplina che oggi caratterizza il concordato preventivo e l’accordo di composizione dei crediti del debitore civile non fallibile dà luogo ad una ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tale da concretare l’addotta violazione dell’art. 3 Cost.”. La Corte evidenzia che le modifiche indotte dalla sentenza Degano Trasporti, innovando solo in relazione alla disciplina del concordato preventivo, hanno determinato quella discrasia di sistema che in origine il legislatore ave-

dell’esdebitazione del fallito. (13) In dottrina, sui profili fiscali della procedura: A. Uricchio, Profili fiscali della crisi da sovraindebitamento dei soggetti debitori non fallibili, in Giur. imp., 2014, 18; F. Dami, I profili fiscali della disciplina di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Rass. trib., 2013, 615; L. Del Federico, Gli aspetti fiscali della procedura, in Il Fall., 2012, 1122; per un quadro generale v. per tutti AA.VV., Composizione delle crisi da sovraindebitamento, a cura di F. Macario - F. Di Marzio - G. Terranova, Milano, 2012. (14) Tribunale di Torino con una pronuncia del 7 agosto 2017; Tribunale di Pistoia del 26 aprile 2017; Trib. Pescara 22 ottobre 2017, in www.ilcaso.it. (15) Per un commento a tutto campo v. per tutti P. Boria, L’illegittimità costituzionale del divieto di falcidia IVA nell’esdebitazione dei debitori non fallibili, cit.


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va inteso evitare ricostruendo il contenuto della norma dettata per il sovraindebitamento del debitore non fallibile in termini sostanzialmente riproduttivi della disciplina all’epoca vigente dettata dall’art. 182-ter L.F. Questa disparità “tocca in primo luogo i debitori interessati dalle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, “giacché non v’è motivo per trattare diversamente, sotto questo profilo, i debitori legittimati ad avvalersi della procedura di concordato preventivo in quanto assoggettabili a fallimento: la ragione di fondo che giustifica la falcidia dell’IVA, al pari di quella di tutte le altre poste di credito privilegiate e tributarie, non può porsi in termini differenziati per tutte le categorie di debitori legittimati ad avvalersi di una procedura concorsuale esdebitatoria. E ciò a prescindere dal tipo di attività esercitata, imprenditoriale o no, nonché dalle dimensioni di tale attività ed all’incidenza economica che ad esse si correla, trattandosi di elementi indifferenti rispetto all’obiettivo perseguito dalle relative procedure di definizione della crisi”. Ciò posto la Corte ha ritenuto assorbite le censure centrate sull’art. 97 Cost. 4. Riflessioni a margine sull’equivoco dell’infalcidiabilità dell’IVA. – Certo è che l’occasione torna ad essere utile per stigmatizzare l’equivoco dell’infalcidiabilità dell’IVA come risorsa propria dell’Unione, che ha lungamente intralciato gli accordi di ristrutturazione dei debiti, il concordato preventivo e le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. È stato ormai chiarito che all’Unione è destinata una sola quota parte dell’IVA nazionale riscossa, la quale, al pari della c.d. “quarta risorsa” sul Prodotto Nazionale Lordo, assume rilievo più come trasferimento finanziario (rispetto al quale la base di calcolo è convenzionale), che come tributo costituente una reale e concreta risorsa propria (16). In tale prospettiva diventa allora necessario procedere alla corretta individuazione del presupposto della quota suindicata, ossia dell’esatto momento in cui l’IVA deve essere destinata al finanziamento del bilancio UE. A seconda della soluzione (maturazione, dichiarazione, riscossione), inoltre, è facile cogliere come diversi siano i risvolti applicativi.

(16) Osservazioni diffusamente motivate in L. Del Federico - S. Ariatti, Esdebitazione ed Iva: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo, cit., 455.


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La fonte normativa primaria dalla quale procedere non può che essere il Reg. (CEE, Euratom) del Consiglio del 29 maggio 1989, n. 1553, concernente il regime uniforme definitivo di riscossione delle risorse proprie provenienti dall’imposta sul valore aggiunto (G.U. L 155, del 7 giugno 1989). L’art. 3, del Titolo III (rubricato “Metodo di calcolo”) prevede espressamente che “la base delle risorse IVA è calcolata dividendo il totale delle entrate nette di IVA incassate dallo Stato membro nel corso di detto anno, per l’aliquota secondo la quale l’IVA è riscossa durante il medesimo anno”. Stando al dato letterale della norma comunitaria, la quota IVA sembrerebbe ancorata all’entità delle entrate nette effettivamente riscosse dallo Stato membro, di talché, seguendo la logica dell’effettivo incasso, venendo meno il versamento dell’IVA verrebbe meno altresì il presupposto su cui calcolare la quota destinata all’Unione. In altre parole, percorrendo tale prima ipotesi, la gestione del tributo a livello nazionale sarebbe priva di vincoli sul piano della riscossione laddove questa risultasse preclusa, in tutto o in parte, da circostanze di fatto o di diritto, quali: l’attuazione di procedure concorsuali, di procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, il decorso dei termini decadenziali o prescrizionali per la riscossione del tributo, l’esito infruttuoso delle procedure esecutive esattoriali ecc. Infatti è il tributo riscosso, ossia l’IVA incassata, la base imponibile cui applicare l’aliquota media ponderata; senza riscossione non si verifica il presupposto per destinare al bilancio UE la quota dovuta (17). E in tal senso sembra orientata la nuova formulazione dell’art. 182 ter l.fall., il quale, consentendo una falcidia potenzialmente integrale dell’IVA, neutralizza ab origine il sorgere del vincolo Europeo della quota parte del tributo. La base imponibile comunitaria sarebbe così ancorata al principio di cassa, rilevando il quantum incassato e non quello maturato. Tuttavia, sia pure forzando il dato letterale di cui al citato art. 3 del Reg. n. 1553/1989, è plausibile anche l’interpretazione volta a dare un maggior risalto all’IVA esigibile piuttosto che a quella effettivamente incassata. In tale direzione, peraltro, è orientato l’obbligo Europeo di assicurare l’effettiva riscossione dell’IVA divenuta esigibile a livello nazionale, al fine di ridurre al massimo il divario tra quella potenzialmente riscuotibile e quella in concreto

(17) In merito v. AA.VV., La finanza pubblica nei vari livelli di governo. La prospettiva italiana dai comuni all’Unione europea, a cura di L. del Federico - C. Verrigni, Torino, 2020, ed ivi in particolare v. S. Ariatti, Il finanziamento dell’Unione Europea, 119.


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incassata (18). Aderendo a tale prospettazione, la base imponibile IVA sarebbe correlata ad un presupposto diverso: non il riscosso bensì il riscuotibile (19). Questa tesi sembra suffragata anche da una serie di sentenze della Corte di Giustizia in cui si afferma che il mancato assoggettamento ad IVA, da parte di uno Stato membro, di un’operazione che presenta tutti gli elementi di imponibilità e che non rientra in alcuna ipotesi di esenzione o esclusione stabilite dalla Direttiva IVA (oggi Dir. 2006/112/CE), provoca la violazione della normativa relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione, nello specifico la violazione del regime di riscossione della risorsa propria proveniente dall’IVA (20). A conferma di questa tesi si rinvengono anche gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria in relazione al condono tributario attuato dall’Italia mediante la L. 27 dicembre 2002, n. 289, che agli artt. 8 e 9 prevedeva la rinuncia all’accertamento delle operazioni imponibili ai fini IVA effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta (21). La Corte di Giustizia ha ravvisato, anche in questo caso, la violazione degli obblighi previsti sia dagli artt. 2 e 22 della Sesta Direttiva IVA, che dall’art. 10 del Trattato CE (22), ed ha

(18) Il problema della discrasia tra l’IVA potenzialmente riscuotibile e l’IVA effettivamente riscossa è stato di recente sollevato dalla Commissione Europea nella Relazione al Consiglio e al Parlamento del 12 febbraio 2014 COM(2014)69Final, dal titolo “Settima relazione a norma dell’articolo 12 del regolamento CEE, Euratom n. 1553/89 sulle procedure di riscossione e controllo dell’IVA”. La Commissione stigmatizza il divario tra l’IVA potenzialmente riscuotibile per l’Unione rispetto a quella effettivamente incassata. Nel 2011 tale divario è stato stimato in circa 193 miliardi di euro. (19) Così anche M. Mauro, La problematica appartenenza dell’Iva all’ambito di applicazione della transazione fiscale nelle procedure concorsuali, in Riv. dir. trib., 2008, 847, secondo cui in virtù del legame sussistente tra la base imponibile comune e le entrate nette percepite, la capacità dello Stato di riscuotere il tributo in riferimento a tutte le operazioni tassabili risulta fondamentale ai fini della determinazione, in concreto, del gettito spettante all’UE. (20) Corte di Giustizia UE 12 settembre 2000, causa C-276/97, Commissione c. Repubblica francese, in Riv. dir. trib., n. 3, 2003, 131, e causa C-358/97, Commissione c. Irlanda e causa C-260/98, Commissione c. Grecia, entrambe rinvenibili in curia.europa.eu. Tali sentenze riguardavano il mancato assoggettamento ad IVA dei pedaggi riscossi da parte dei concessionari autostradali e, di conseguenza, la mancata corresponsione all’UE della risorsa propria derivante dalla relativa imposta. (21) Sul punto v. G. Falsitta, Alcune puntualizzazioni sulla illegittimità dei condoni (con speciale riguardo all’IVA italiana), in GT - Riv. giur. trib., 2008, 281; M. Beghin, Criteri di Giustizia nel concorso al finanziamento del bilancio comunitario; il caso del condono Iva, ivi, 299; M. Piasente, L’Iva come risorsa propria del bilancio comunitario e i provvedimenti di c.d. condono, in Riv. dir. trib., n. 3, 2003, 145. (22) Gli artt. 2 e 22 della Sesta Direttiva, e l’art. 10 del Trattato CE, impongono agli Stati


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concluso affermando che l’Italia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi della normativa comunitaria in materia di armonizzazione delle legislazioni relativa all’imposta sulla cifra di affari (23). Ma deve essere chiaro che anche aderendo alle tesi più radicali e rigorose la sola e vera quota “indisponibile” destinata al bilancio europeo, è pari allo 0,30% dell’IVA riscuotibile in ambito nazionale. Risulta pertanto disdicevole che il Legislatore Italiano abbia a lungo giocato sugli equivoci, imponendo una totale infalcidiabilità dell’IVA. 5. La composizione della crisi da sovraindebitamento nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. – Dal canto suo la legge delega 19.10.2017, n. 155, da cui è scaturito il CCII (non ancora entrato in vigore), si è mostrata estremamente laconica e rinunciataria, laddove all’art. 6 comma 1, lett p), si è limitata a conferire delega per “disciplinare il trattamento del credito d’imposta sul valore aggiunto nel concordato preventivo anche in presenza di transazione fiscale, tenendo conto anche delle pronunce della Corte di giustizia dell’unione europea” (ma tale intervento era già stato attuato a dicembre 2016 dalla legge di stabilità del 2017) (24). Ciononostante le norme relative alle procedure di sovraindebitamento di cui agli artt. 57 (limitatamente agli accordi) e 65 ss., ora confluite nel CCII sono state riformulate in modo tale da allinearle alla ratio dell’art. 182 ter (come novellato dalla legge di stabilità del 2017), così da risolvere alla radice i dubbi di legittimità costituzionale. Infatti sono stati eliminati i divieti e fugati i dubbi in tema di falcidia dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea, dell’IVA, delle ritenute, dei contributi previdenziali ecc.; quindi i

l’obbligo di adottare, da un lato, tutti gli atti legislativi necessari a dare attuazione alla sesta direttiva e, dall’altro, tutte le misure di natura amministrativa necessarie ad assicurare la corretta osservanza, da parte dei soggetti passivi IVA, dell’obbligo di pagare l’imposta dovuta a seguito dell’effettuazione di operazioni imponibili. (23) Corte di Giustizia UE, Sez. Grande, del 17 luglio 2008, n. C-132/06, Commissione c. Italia. Sul punto si v. M. Mauro, La problematica appartenenza dell’IVA all’ambito di applicazione della transazione fiscale, cit., 861; per l’A. è di tutta evidenza come, in base alle disposizioni sul condono, l’imposta non applicata e quindi non riscossa dall’Erario italiano si è tradotta in una minore entrata a beneficio dell’UE. (24) Per un quadro generale v. F. Paparella, Prime riflessioni sui profili tributari del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in AA.VV., La riforma delle procedure concorsuali. In ricordo di Vincenzo Buonocore, Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, Milano, 2020 (in corso di pubblicazione).


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crediti tributari e previdenziali possono subire la falcidia, e, se anche privilegiati, possono essere falcidiati laddove la liquidazione dei beni, gravati da prelazione, sia meno conveniente rispetto alla composizione della crisi. Resta il fatto che molteplici norme del CCII, e soprattutto quelle relative alle procedure di sovraindebitamento di cui agli artt. 65 ss. ed al concordato nell’ambito della liquidazione giudiziale, non contemplano un peculiare trattamento dei crediti tributari e previdenziali eppure risulta pacifico che i crediti tributari e previdenziali, in mancanza di specifiche norme, sono sottoposti al normale regime dei crediti di diritto comune (25), come inequivocabilmente desumibile proprio dall’evoluzione legislativa delle procedure di sovraidebitamento, che ha portato dai precedenti limiti e divieti al loro radicale e totale superamento. Invero dalla Relazione illustrativa al D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, emerge chiaramente l’intento di allineare la disciplina delle procedure di sovraindebitamento ai principi generali delle procedure concorsuali: “… occorre armonizzarla con le modifiche che s’intendono apportare alle procedure di regolamentazione dell’insolvenza e della crisi di impresa, nell’ottica, già ripetutamente richiamata, di una rivisitazione sistematica della complessiva disciplina, attualmente frammentaria e disorganica... Anche la regolazione del sovraindebitamento dovrebbe perciò rispondere a criteri generali il più possibile comuni alle altre procedure liquidatorie e conservative; ed è quindi necessario che essa faccia riferimento, come tutte le altre, ad un nucleo essenziale e comune di regole generali, da cui differenziarsi solo per gli aspetti che richiedono un indispensabile adattamento alle peculiarità della fattispecie…”. Pertanto deve ritenersi sussistente il potere dell’Amministrazione finanziaria di derogare al tradizionale principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria (ed analogamente per tutte le P.A. e per tutte le obbligazioni pubbliche), semplicemente sulla base delle norme del CCII che disciplinano

(25) Per la pregressa normativa v. A. La Malfa, Transazione fiscale applicabile anche al concordato fallimentare, in Corr. trib., 2008, 2997, il quale acutamente rilevava che l’inapplicabilità dell’art. 182 ter al concordato fallimentare non impediva di certo la normale falcidia dei crediti tributari, così come di tutti gli altri crediti, di qualsivoglia natura, scaturente quale fisiologico effetto dal concordato fallimentare stesso; analogamente: M. Spadaro, Il trattamento dei crediti tributari e contributivi secondo il nuovo testo dell’art. 182 ter L. FALL., in Il Fall. 2018, 9; Corte App. Liguria, sez. I, 28.6.2017.


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le vicende concorsuali dei crediti, senza la necessità di una specifica norma attributiva di tale potere dispositivo alle parti pubbliche (26). Del resto, a ben vedere, nemmeno gli artt. 63, “Transazione fiscale e accordi su crediti contributivi”, ed 88, “Trattamento dei crediti tributari e contributivi”, CCII sono strutturati come norme attributive di poteri alle Agenzie fiscali ed agli enti di previdenza; si tratta di norme contenenti la disciplina di istituti che per sedes materiae e per contenuto hanno natura meramente concorsuale. Più in generale risulta evidente che l’art. 88 si pone come norma derogatoria rispetto al sistema concorsuale, giacché contenente una disciplina ad hoc specificamente applicabile ai soli crediti tributari e previdenziali “qualificati” (tassativamente indicati dalla norma come quelli gestiti dalle agenzie fiscali e dagli enti di previdenza obbligatoria – pertanto “qualificati” ad instar di quanto prevede l’art. 15 CCII, “Obbligo di segnalazione di creditori pubblici qualificati”). Ciò è comprovato non solo dalla natura e dalla portata delle disposizioni (basti pensare alla deroga all’art. 117 “Effetti del concordato per i creditori” CCII), ma anche dalla matrice legislativa della norma, avulsa dal processo di riforma della Legge Fallimentare e dalla elaborazione del Codice della Crisi. Al di fuori dell’ambito operativo derogatorio degli artt. 63 ed 88, a tutti gli altri crediti tributari, e più in generale a tutti gli altri crediti delle pubbliche amministrazioni, si applicheranno i normali istituti del diritto concorsuale;

(26) Senza appesantire questo contributo con digressioni teoriche è sufficiente chiarire che ci si pone nell’ordine di idee della sentenza Degano Trasporti, resa dalla Corte Giust. UE nel 2016. Rinviando al testo della sentenza per le analogie, si può dire che fermo restando il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, che preclude all’ente impositore di transigere, rimettere o rinunciare arbitrariamente, o indiscriminatamente che dir si voglia, alla riscossione del credito tributario, è viceversa concepibile che il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (così come in passato la Legge Fallimentare) consenta ad un debitore in crisi di pagare solo parzialmente i suo debiti fiscali, qualora ciò avvenga nel quadro di una procedura seria, rigorosa e garantita. Sul piano teorico v. per tutti M. Allena, La transazione fiscale nell’ordinamento tributario, Padova, 2017, 34 ss. e 227 ss., che pone in evidenza il costante ridimensionamento dell’indisponibilità tanto da giungere a configurare ormai una c.d. “disponibilità controllata” (sulla scia di M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura d. M. Miccinesi, Padova, 1999, 5). Si considerino inoltre le argomentazioni che ruotano intorno alla sentenza della Corte Cost. 16 aprile 2014, n. 98, in tema di reclamo e mediazione nel processo tributario; sulle quali v. per tutti l’ampia nota di Corasaniti, Il reclamo e la mediazione tributaria tra recente giurisprudenza costituzionale e controversi profili evolutivi della Corte Costituzionale, in Dir. Prat. Trib., 2014, 467.


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conseguentemente per i crediti tributari non qualificati troveranno normale applicazione la disciplina degli accordi, del concordato preventivo ecc. (27). Posta questa portata derogatoria dell’art. 88, ogni qualvolta si tratterà di vagliare l’applicabilità ai crediti tributari e previdenziali “qualificati” di altre norme del Codice attinenti a profili non oggetto di deroga, salve specifiche norme preclusive, dovranno riespandersi le regole generali e dovrà quindi darsi normale applicazione al sistema del Codice, quando entrerà in vigore. Ovviamente gli stessi principi sono estrapolabili dalle analoghe norme della Legge Fallimentare. 6. Conclusioni. – Dalla lettura dell’ampia ed esauriente motivazione della sentenza della Corte Costituzionale è agevolmente desumibile il superamento del feticcio dell’infalcidiabilità dell’IVA quale risorsa propria dell’Unione Europea. La Corte Costituzionale si è collocata sulla linea interpretativa della Corte di Giustizia UE, che nella sentenza Degano Trasporti ha fugato alla radice ogni dubbio, chiarendo che nel sistema delle procedure concorsuali non ha senso alcuno invocare l’infacidiabilità dell’IVA, sussistendo tutte le salvaguardie e cautele tipiche del diritto concorsuale. Su tali basi la Corte Costituzionale, valorizzando il principio di uguaglianza, ritiene doveroso applicare la stessa regola anche nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. Più in generale da questa evoluzione giurisprudenziale, e dalla laconicità delle nuove disposizioni in tema di crisi da sovraindebitamento introdotte nel CCII, esce confortata la tesi secondo cui il potere dell’Amministrazione finanziaria di derogare al principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria (ed analogamente per tutte le P.A. e per tutte le obbligazioni pubbliche), si fonda semplicemente sulle norme che disciplinano le vicende concorsuali dei crediti, senza la necessità di specifiche norme attributive. Alcune specifiche disposizioni presenti nella L.F, art. 182 ter, e nel CCII, artt. 63 ed 88, si pongono come norme derogatorie rispetto al sistema concorsuale, giacché contenenti una disciplina ad hoc specificamente applicabile ai soli crediti tributari e previdenziali “qualificati”.

(27) Contra M. Allena, La transazione fiscale, cit., 142 ss.


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A tutti gli altri crediti tributari, e piĂš in generale a tutti gli altri crediti delle pubbliche amministrazioni, si applicheranno i normali istituti del diritto concorsuale.

Lorenzo del Federico


Rubrica di diritto penale tributario a cura di Gaetano Ragucci

Nuove dimensioni della confisca e del sequestro da illecito penale tributario Sommario: 1. Uno sguardo d’insieme. – 2. Aggiustamenti nella confisca di prevenzione. – 3. Il nuovo “caso particolare” di confisca da reato tributario. – 4. L’evasione fiscale nello schema della confisca “per sproporzione”. – 5. La confisca da reato tributario commesso nell’interesse dell’ente.

Il d.l. n. 124/2019, conv. in l. n. 157/2019, ha per un verso introdotto un nuovo “caso particolare” di confisca da reato tributario, rafforzando il ruolo della confisca “allargata” nel contrasto all’evasione fiscale (da quantificare ai fini del giudizio sulla sproporzione del valore dei beni e sulla legittima provenienza degli stessi). Per altro verso, la novella legislativa ha previsto una nuova forma di responsabilità amministrativa “da reato tributario” dell’ente ex d.lgs. n. 231/2001, superando in parte gli orientamenti giurisprudenziali consolidati in ordine ai presupposti e ai limiti della confisca del profitto dell’illecito penale tributario, e del sequestro preventivo de societate. The d.l. n. 124/2019, conv. in l. n. 157/2019, has on the one hand introduced a new “special case” of tax confiscation, reinforcing the role of “enlarged” confiscation in the fight against tax evasion (to be quantified for the purpose of judging the disproportion of the value of the assets and the legitimate origin of the same). On the other hand, the new legislation has provided for a new form of administrative liability “from tax offense” of the companies pursuant to Legislative Decree no. 231/2001, partially exceeding the established jurisprudential guidelines regarding the conditions and limits of the confiscation of profit of the criminal offense, and of the preventive seizure of companies.

1. Uno sguardo d’insieme. – Le diverse forme di confisca penale e di sequestro ad essa finalizzato hanno acquisito una capacità di contrasto all’evasione fiscale sempre più penetrante, integrandosi e sovrapponendosi le une con le altre nei diversi settori di intervento, ed anche contestualmente. Le misure che operano in questo multiforme contesto sono applicate a condizione che venga acclarata giudizialmente l’esistenza di utilità economico-patrimoniali


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Parte terza

generate dall’illecito penale tributario o soltanto tributario. Inoltre, il giudice compie questo accertamento anche quando applica misure che non hanno per oggetto il profitto del reato tributario o comunque il provento dell’evasione fiscale, come accade con la confisca dell’equivalente del profitto, con la confisca “in casi particolari” e con la confisca di prevenzione, oltre che con i sequestri ad esse correlati. Si può pertanto parlare di un modello, entro certi limiti, omogeneo di confisca e di sequestro appunto da illecito (penale) tributario (1), formula ampia e idonea a ricomprendere anche le misure finalizzate a prevenire l’evasione fiscale non penalmente rilevante, oltre che l’evasione causata dal reato tributario. Il già ampio catalogo di confische e sequestri caratterizzante la materia penale tributaria si è arricchito di ulteriori strumenti dopo che il d.l. n. 124/2019, conv. in l. n. 157/2019 ha modificato, da un lato, la disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2001, introducendo una responsabilità amministrativa “da reato tributario” degli enti nell’art. 25-quinquiesdecies, ed ha implementato, dall’altro, il versante sanzionatorio del d.lgs. n. 74/2000, prevedendo “casi particolari di confisca” da reato tributario ai sensi dell’art. 12-ter (2). Si allarga, quindi, in primo luogo, lo spazio operativo della confisca “tradizionale” del prezzo o profitto del reato tributario (corrispondente all’imposta evasa), che diviene applicabile alle società anche nella forma per equivalente, qualora siano stati commessi nel loro interesse i delitti (ora inseriti nel d.lgs. n. 231/2001) di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. n. 74/2000), dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3), emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8), occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11), nonché, dopo il d.lgs. n. 75/2020, i delitti di dichiarazione infedele (art. 4), omessa dichiarazione (art. 5) e indebita compensazione (art. 10-quater), se

(1) M. Bontempelli, La confisca o le confische da illecito (penale) tributario?, in Sist. pen., n. 12/2019, 24. (2) Per le ricadute processuali, v. G. Varraso, Decreto fiscale e riforma dei reati tributari. Le implicazioni processuali, in Dir. pen. proc., 2020, pp. 332 ss. Cfr. anche, ampiamente, A.M. Maugeri, Un ulteriore sforzo della Suprema Corte per promuovere uno statuto di garanzie nell’applicazione di forme di confisca allargata: art. 240-bis c.p., irretroattività e divieto di addurre l’evasione fiscale nell’accertamento della sproporzione, in Sist. pen., n. 4/2020, pp. 203 ss.; nonché D. Guidi, Presunzioni e automatismi nella confisca “per sproporzione” di cui all’art. 240-bis c.p., in Discrimen, 19 dicembre 2019.


Rubrica di diritto penale tributario

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commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri e al fine di evadere l’IVA per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni di euro. In secondo luogo, viene implementata la confisca “in casi particolari” (vecchia confisca “allargata” ex art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, conv. in l. n. 356/1992), alla quale già la legge attribuiva uno scopo preventivo dell’evasione fiscale, anche non penalmente rilevante, tenuto conto del tuttora vigente divieto del condannato per i reati presupposto di giustificare la legittima provenienza dei beni (di valore ritenuto sproporzionato) dimostrando il retrostante reddito non dichiarato (“che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”). L’istituto opera adesso anche in caso di condanna o applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p. per i delitti di cui agli artt. 2, 3, 8 e 11 d.lgs. n. 74/2000, sempre che siano superate le «soglie di confiscabilità» del patrimonio del condannato previste dal medesimo art. 12-ter (3), e pure nella forma per equivalente (art. 240-bis comma 2° c.p.). È chiaro che l’innovazione legislativa accentua la connotazione della confisca “allargata” come mezzo di contrasto dell’evasione fiscale penalmente rilevante, rafforzando ulteriormente il parallelismo che può essere tracciato tra la misura patrimoniale de qua e la confisca di prevenzione prevista dal codice antimafia, essa pure applicabile nel caso in cui venga accertata la commissione di attività criminosa produttiva di reddito. 2. Aggiustamenti nella confisca di prevenzione. – Sul secondo versante, e in parziale controtendenza, va registrato un riadattamento del sistema della prevenzione patrimoniale in campo penale tributario, dopo che la sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 ha in parte limitato l’impiego della confisca di prevenzione ex art. 24 d.lgs. n. 159/2011 al c.d. “evasore fiscale pericoloso”, dichiarando l’illegittimità dell’art. 1 lett. a) cod. antimafia, laddove stabilisce che i provvedimenti previsti dal Capo II del Titolo I riguardante le misure di prevenzione personali (e le misure patrimoniali del sequestro e della confisca), si applichino anche ai soggetti indicati nella disposizione anzidetta (4). Pertanto, non sembrerebbe ulteriormente percorribile l’ipotesi interpretativa avanzata prima dell’intervento della Consulta, nel senso di ricomprendere nella portata delle misure di prevenzione i soggetti abitualmente dediti a

(3) M. Bontempelli, La confisca o le confische, cit., 23; G. Varraso, Decreto fiscale e riforma dei reati tributari, cit., 336. (4) Corte cost., 27 febbraio 2019, n. 24.


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commettere evasione fiscale penalmente rilevante, dato il riferimento della cit. lett. a) ai “traffici delittuosi” (5). La confisca di prevenzione parrebbe, invece, applicabile nel solo caso in cui il proposto viva abitualmente con i proventi dell’evasione fiscale penalmente rilevante (“con i proventi di attività delittuose”, in base alla lett. b) dell’art. 1 cod. antimafia), e non quindi all’evasore fiscale che non utilizzi i proventi dell’attività delittuosa per implementare il proprio tenore di vita (evasore fiscale risparmiatore). Con questa precisazione può essere condivisa la tesi della giurisprudenza secondo cui «deve trattarsi, in altre parole, ove si intenda applicare la previsione di cui alla lettera b dell’art. 1 d.lgs. n. 159/2011, di attività delittuose (acclarate con grado di certezza) capaci di produrre reddito e non più di condotte genericamente devianti o denotanti un semplice avvicinamento a contesti delinquenziali» (6). Resta, infatti, fermo che «il mero status di evasore fiscale non [è] sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima l’applicazione della misura», dovendo essere accertata la commissione di delitti (7). Tecnicamente, quindi, la misura di prevenzione patrimoniale si configura come confisca da illecito penale tributario. Cambia, inoltre, il tipo di condotta alla quale la misura preventiva reagisce, vale a dire: ai fini della lett. b), l’impiego (per viverci abitualmente) dei proventi dell’evasione fiscale anche non generata dal proposto; ai fini della lett. a), non più operante, la stessa evasione fiscale penalmente rilevante, a prescindere dall’impiego dei relativi proventi per vivere abitualmente. 3. Il nuovo “caso particolare” di confisca da reato tributario. – Fino alla menzionata introduzione dell’art. 12-ter nel d.lgs. n. 74/2000, ad opera del d.l. n. 124/2019, i reati tributari non rientravano nel catalogo dei reati presupposto della “confisca in casi particolari” o confisca “per sproporzione” ex art. 240-bis c.p. La misura doveva (e deve) essere disposta, come l’antecedente disciplinato dall’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p., sul “denaro”, sui “beni” o sulle “altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare

(5) Cass., Sez. V, 9 febbraio 2017, n. 6067, in C.E.D. Cass., rv. 269026. (6) Cass., Sez. I, 22 marzo 2018, n. 13375, in C.E.D. Cass., rv. 272703, par. 4.1 motivazione, corsivo nel testo. (7) V. di recente Cass., Sez. II, 28 marzo 2019, n. 13566, in C.E.D. Cass., rv. 275771.


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o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. Vi era pertanto una differenza di fondo rispetto alla confisca di prevenzione di cui all’art. 24 cod. antimafia, storicamente applicabile anche nella forma “per reimpiego” (vale a dire sui “beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”), oltre che nella forma “per sproporzione” (8). Data la «sovrapponibilità» soltanto parziale delle «rispettive previsioni normative» (artt. 24 d.lgs. n. 159/2011 e 12-sexies d.l. n. 306/1992), la Corte di cassazione con una pronuncia a Sezioni Unite del 2014 (“caso Repaci”), aveva escluso che tramite i redditi non fiscalmente dichiarati si potesse dimostrare la legittima provenienza dei beni, al fine di evitare la confisca disciplinata dal cod. antimafia. La misura, infatti, poteva a detta della Corte (e può tuttora) avere per oggetto anche i «redditi acquisiti per effetto dell’evasione fiscale», in quanto “frutto di attività illecita” (in presenza dell’ulteriore condizione di “pericolosità soggettiva” prevista dagli artt. 1 o 4 cod. antimafia) (9). Secondo le Sezioni Unite, «risulta[va] del resto coerente con l’evidenziata diversa struttura normativa che per la confisca ex art. 12-sexies […] si [potesse] tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (perché comunque rientranti nella propria “attività economica”)» (10). La confisca “allargata” non poteva quindi funzionare quale mezzo di contrasto all’evasione fiscale, a dimostrazione della «natura di un’ipotesi ablativa destinata», perlomeno in origine, «ad incidere su di una criminalità di matrice diversa rispetto a quella tributaria» (11). L’opposta conclusione valeva per la confisca di prevenzione, in cui «la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non [poteva, nè] può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, qualunque sia la categoria di pericolosità sociale riferibile al proposto» (12). A buon diritto, pertanto, si poteva assegnare alla confisca di cui all’art. 24 d.lgs. n. 159/2011 il fine di prevenire l’evasione

(8) V. in generale, sulle due fattispecie della confisca di prevenzione, F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, Torino, 2020, 166. (9) Cass., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 33451, in C.E.D. Cass., rv. 260247. (10) Cass., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 33451, cit. (11) Così di recente A. Perini, Brevi note sui profili penali tributari del d.l. n. 124/2019, in Sist. pen., 3 dicembre 2019, 3. (12) Cass., Sez. VI, 21 settembre 2017, n. 43446, in C.E.D. Cass., rv. 271221.


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fiscale, anche qualora la misura non colpisse l’evasore fiscale “socialmente pericoloso” (in mancanza di una retrostante evasione da reato tributario). Tuttavia, il quadro normativo di riferimento è stato dapprima modificato dalla l. n. 161/2017, «nella direzione del potenziamento e dell’ampliamento del campo di operatività della confisca allargata» (13). La novella legislativa ha fra l’altro inserito nell’art. 12-sexies comma 1 d.l. n. 306/1992 il divieto per il condannato di “giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”, divieto contestualmente aggiunto nell’art. 24 cod. antimafia. Dopodichè il d.l. n. 148/2017, conv. in l. n. 172/2017 ha riformulato il cit. art. 12-sexies, facendo salvo il caso in cui “l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”, ed in questi termini la disposizione è stata trasfusa nell’art. 240-bis c.p. Residuano, quindi, affinità e differenze fra le due fattispecie di confisca “per sproporzione” (“in casi particolari” ex art. 240-bis c.p. e di prevenzione ex art. 24 d.lgs. n. 159/2011), in quanto il provento o il reimpiego dell’evasione fiscale è irrilevante ai fini di dimostrare la legittima provenienza, a meno che non intervenga una qualche forma di condono legislativamente prevista (14), che impedirebbe la sola confisca “in casi particolari”. Secondo alcuni, si verificherebbe una sorta di «pressione tributaria da parte del giudice penale il quale, superato il tradizionale compito istituzionale dell’accertamento della responsabilità penale, e della irrogazione delle relative sanzioni, provvede, a carico [del contribuente], alla riscossione “mediante espropriazione” di ogni utilità riconducibile all’evasione fiscale» (15). Ciò che conta, si noti, è l’effettivo versamento della somma dovuta all’erario, alla luce del tenore letterale della disposizione, e non il semplice impegno a pagare l’imposta evasa ex art. 12bis comma 2 d.lgs. n. 74/2000, rilevante ai soli fini impeditivi della confisca “ordinaria” (16).

(13) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 3 motivazione. (14) V., sul punto, A. Barazzetta, La confisca allargata, in Codice delle confische, a cura di T. Epidendio e G. Varraso, Milano, 2018, 1032. (15) M. Lanzi, La confisca «in casi particolari», o “per sproporzione” post delictum, nel settore penale tributario, in Diritto penale dell’economia, diretto da A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa, t. I, Milano, 2019, 502. (16) V. sul punto S. Finocchiaro, In vigore la “riforma fiscale”: osservazioni a prima lettura della legge 157/2019 in materia di reati tributari, confisca allargata e responsabilità degli enti, in Sist. pen., 7 gennaio 2020; nonché la Relazione n. 3/2020 della Corte di cassazione – Ufficio del Massimario e del Ruolo – Servizio penale, in data 9 gennaio 2020, 19.


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Il “caso particolare” di confisca da reato tributario non ha per oggetto il profitto del reato presupposto. Pertanto «la confiscabilità non è esclusa dal fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto, o che il loro valore superi il provento di tale reato» (17). Nemmeno si può dire, in base all’attuale regime ex art. 240-bis c.p., cui rinvia il nuovo art. 12-ter d.lgs. n. 74/2000, che la misura abbia per oggetto il provento dell’evasione fiscale (non è tuttora prevista la confisca nella forma “per reimpiego”). Essa è invece diretta all’apprensione di beni di valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività economica, anche ove non acquisiti impiegando la somma evasa, sempre che non risulti una provvista legittima (ad es., in caso di donazione della somma). Quindi la parziale apertura ai reati tributari della lista dei reati presupposto della confisca ex art. 240-bis c.p. non amplia l’ambito operativo della misura sul piano contenutistico, tenendo conto che i presupposti applicativi della confisca “allargata” continuano ad essere solo parzialmente comuni alla confisca di prevenzione (18). È però vero, sul piano empirico, che la confisca “per sproporzione” in discorso, essendo condizionata alla condanna per il reato tributario, avrà frequentemente per oggetto beni acquisiti grazie all’evasione fiscale. Secondo una sensata lettura, l’elemento della sproporzione patrimoniale potrebbe, anzi, «ridurre i rischi di confische senza profitto» (19), tanto più evidenti nei casi di commissione del reato tributario presupposto da una persona fisica in qualità di legale rappresentante di una persona giuridica. In tal caso, la presenza di «un elemento, quale la sproporzione patrimoniale, potenzialmente indicativo dell’effettivo afflusso di profitti illeciti in capo alla persona fisica», potrebbe attenuare la discrasia data da una confisca “allargata” avente per oggetto beni nella disponibilità della persona fisica, «a fronte di profitti (del reato accertato) evidentemente incamerati dall’ente, e senza quindi che vi sia motivo per ritenere che costui detenga ricchezze illecite» (20). 4. L’evasione fiscale nello schema della confisca “per sproporzione”. – Inoltre, il giudice dovrà sempre procedere alla quantificazione della somma

(17) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 8 motivazione. (18) La differenza è affermata, ad es., da Cass., Sez. V, 5 aprile 2018, n. 15284, in C.E.D. Cass., rv. 272837. (19) A.M. Dell’Osso, Corsi e ricorsi nel diritto penal-tributario: spunti (critici) sul c.d. decreto fiscale, in Dir. pen. proc., 2020, 327. (20) A.M. Dell’Osso, op. loc. cit.


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evasa (anche se si tratti di evasione penalmente irrilevante). Questa operazione è necessaria per accertare il rapporto di proporzione o sproporzione fra il reddito o l’attività e i beni oggetto di apprensione (21), e anche nel caso di misura per equivalente. In questo senso depone la dottrina che individua una sorta di «doppio ruolo» dell’evasione fiscale nella fattispecie di confisca in esame, come «reato spia» e, a un tempo, «elemento rivelatore della sproporzione e, quindi, indiziante della provenienza illecita di (almeno) una quota del patrimonio» (22). Tesi convincente, in quanto l’evasione fiscale condiziona “a monte” la confisca “allargata”, che non può essere disposta nel caso in cui non vengano superate le soglie di cui all’art. 12-ter d.lgs. n. 74/2000, ma anche “a valle”, influenzando il giudizio sui due temi della sproporzione e della legittima provenienza dei beni. Il divieto di accertare il secondo tema (legittima provenienza) in base al provento (o al reimpiego) dell’evasione fiscale, non preclude, infatti, di considerare il reddito non dichiarato (desunto appunto dall’evasione fiscale) al fine di dimostrare il valore proporzionato dei beni (23). Il reddito non dichiarato è, d’altronde, estraneo al concetto di provento dell’evasione fiscale, debitamente circoscritto alla sola quota dell’imposta evasa (ciò che è dovuto al Fisco), con esclusione del reddito in quanto di origine lecita (24). Sulla scorta di tali considerazioni, emerge la questione segnalata in dottrina (25) circa il doveroso svolgimento di indagini patrimoniali finalizzate ad accertare sia il superamento delle soglie di confiscabilità di cui all’art. 12ter d.lgs. n. 74/2000 (il che implica quantificare l’imposta evasa quale profitto del reato tributario presupposto), sia la sproporzione tra il valore dei beni da apprendere e il reddito dichiarato o l’attività economica svolta, temi da provare nel processo ai sensi dell’art. 187 comma 1 c.p.p. «Uno squilibrio incongruo e significativo», secondo la giurisprudenza costituzionale (26), «da verificare con riguardo al momento dell’acquisizione dei singoli beni», e tenendo conto

(21) V. su questo profilo M. Bontempelli, La confisca o le confische da illecito (penale) tributario?, cit., 26. (22) A. Perini, Brevi note sui profili penali tributari del d.l. n. 124/2019, cit., 4; G. Varraso, Decreto fiscale e riforma dei reati tributari, cit., 339. (23) Cfr. anche M. Bontempelli, La confisca o le confische, cit., 26. (24) Ritiene preferibile questa soluzione interpretativa, per la confisca di prevenzione, F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione, cit., 173. (25) Ad es., G. Varraso, Decreto fiscale e riforma dei reati tributari, cit., 341-342. (26) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 11 motivazione.


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dei limiti entro i quali opererebbe la presunzione di provenienza illecita dei beni, che secondo la giurisprudenza ormai consolidata accomunerebbe la confisca “allargata” alla confisca di prevenzione. Sullo sfondo della confisca “allargata”, si profilerebbe un modello che «poggia, nella sostanza, su una presunzione di provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati, per lo più (ma non sempre) connessi a forme di criminalità organizzata: in presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone» (27). La stessa «giurisprudenza della Corte di cassazione, con riferimento tanto al sequestro e alla confisca di prevenzione quanto alla confisca “allargata”, ha da tempo intrapreso un percorso volto a circoscrivere l’area dei beni confiscabili, limitandoli a quelli acquisiti in un arco temporale ragionevolmente correlato a quello in cui il soggetto risulta essere stato impegnato in attività criminose» (28). Tale «ragionevolezza temporale», come ricorda la Corte costituzionale, dovrebbe appunto precludere l’apprensione di beni acquisiti in un momento «talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta la condanna» (29). Si profila in controluce, peraltro, un problema di discrezionalità dell’organo giurisdizionale nella determinazione della «fascia di “ragionevolezza temporale”, entro la quale la presunzione è destinata ad operare», che secondo la giurisprudenza in discorso «andrebbe determinata tenendo conto anche delle diverse caratteristiche della singola

(27) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 6 motivazione. Cfr. anche Cass., Sez. I, 3 ottobre 2014, n. 41100, in C.E.D. Cass., rv. 260529, par. 3.2 motivazione. (28) Di recente, Cass., Sez. II, 17 luglio 2019, n. 31549, in C.E.D. Cass., rv. 277225, par. 3.2 motivazione. V. già Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2015, n. 4880, in C.E.D. Cass., rv. 262605, par. 10 motivazione, in tema di confisca di prevenzione, per l’affermazione del noto «principio di diritto secondo cui sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, indipendentemente, dalla persistente pericolosità del soggetto al momento della proposta di prevenzione». Cfr. anche Cass., Sez. I, 22 marzo 2018, n. 13375, in C.E.D. Cass., rv. 272703. (29) Così, ancora, Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 11 motivazione. V. per la giurisprudenza di legittimità, ad es., Cass., Sez. I, 16 aprile 2014, n. 41100, cit., nonché, in precedenza, Cass., Sez. IV, 28 agosto 2013, n. 35707, in C.E.D. Cass., rv. 256882; Cass., Sez. I, 17 gennaio 2013, n. 2634, in C.E.D. Cass., rv. 254250; Cass., Sez. I, 5 febbraio 2001, n. 11049, in C.E.D. Cass., rv. 226051.


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vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria» (30). Ben si comprende la problematicità dell’indirizzo, se valutato al metro del principio costituzionale di legalità (che imporrebbe una descrizione in termini tassativi dei presupposti di esercizio del potere di confisca). Resta, inoltre, da capire come tale opera di accertamento possa adattarsi alla decisione sulla confisca “allargata” derivante dai reati tributari (31), che a differenza dei reati di criminalità mafiosa non fanno scattare la presunzione che in precedenza siano stati commessi altri reati produttivi di ricchezze illecite. Calza, al riguardo, il rilievo di attenta dottrina secondo cui non sarebbe «generalizzabile» che «la condanna per i delitti richiamati dal nuovo art. 12 ter, D.Lgs. n. 74 del 2000 sia davvero espressiva di una criminalità seriale foriera di profitti e comprensibilmente sfuggita ai radar della giustizia penale» (32). Ci si potrebbe allora interrogare sulla praticabilità nel settore penale tributario di quella “valvola di sfogo” individuata dalla Corte costituzionale, «quando si discuta di reati che, per loro natura, non implicano un programma criminoso dilatato nel tempo […] e che non risultino altresì commessi, comunque sia, in un ambito di criminalità organizzata» (33). Anche a questo proposito la Consulta si affida, in ultima analisi, al prudente apprezzamento del giudice, che conserverebbe «la possibilità di verificare se, in relazione alle circostanze del caso concreto e alla personalità del suo autore – le quali valgano, in particolare, a connotare la vicenda criminosa come del tutto episodica ed occasionale e produttiva di modesto arricchimento – il fatto per cui è intervenuta condanna esuli in modo manifesto dal “modello” che vale a fondare la presunzione di illecita accumulazione di ricchezza da parte del condannato» (34). 5. La confisca da reato tributario commesso nell’interesse dell’ente. – La riforma del 2019 segna anche la parziale apertura ai reati tributari del

(30) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 11 motivazione; cfr. anche Corte cost., 27 febbraio 2019, n. 24, par. 10.3 motivazione. (31) V. in senso positivo S. Finocchiaro, Le novità in materia di reati tributari e di responsabilità degli enti contenute nel c.d. decreto fiscale (d.l. n. 124/2019), in Sist. pen., 18 novembre 2019. (32) A.M. Dell’Osso, Corsi e ricorsi nel diritto penal-tributario, cit., 325. (33) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 11 motivazione, con riferimento al reato di ricettazione. (34) Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33, par. 11 motivazione.


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catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231/2001. Tralasciando ogni riflessione sistematica (35), preme qui soffermarsi su un aspetto dell’innovazione legislativa connesso alla confisca di cui all’art. 19 del decreto. Il regime introdotto dal d.l. n. 124/2019, come modificato dalla l. di conv. n. 157/2019, colma, per un verso, una “lacuna” della confisca “tradizionale” avente per oggetto il prezzo o profitto del reato, che non operava a carico delle società nella forma per equivalente, secondo la ricostruzione fornita dal “diritto vivente”. Per altro verso, il nuovo quadro normativo pone problemi di raccordo della confisca per equivalente de societate non solo con la confisca diretta del profitto già ritenuta applicabile alla persona giuridica, ma anche con la confisca diretta e per equivalente a carico della persona fisica autrice del reato tributario presupposto, oltre che con la confisca “allargata” di cui al nuovo art. 12-ter d.lgs. n. 74/2000 (36). Il punto di riferimento giurisprudenziale della materia resta la pronuncia della Corte di cassazione a Sezioni Unite relativa al “caso Gubert” del 2014. In tale sentenza si è affermato che «la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta» (37), misura che la Corte stessa ritiene «possibile ai sensi dell’art. 240 cod. pen. ed imposta dall’art. 322-ter cod. pen., prima di procedere alla confisca dell’equivalente del profitto del reato» (38). Sarebbe pertanto consentito nei confronti della società, secondo la lettura in discorso, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del «profitto del reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica» (39). Consegue a tale ricostruzione una semplificazione probatoria che rende applicabili la confisca e il sequestro ad essa correlato anche senza accertare il nesso di pertinenzialità fra il bene confiscabile e l’illecito penale (40). Come

(35) V. la cit. Relazione della Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, pp. 22 ss. (36) V. l’ampia analisi di G. Varraso, Decreto fiscale e riforma dei reati tributari, cit., 339 ss. (37) Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 10561, in Giur. it., 2014, 994, con nota di P. Corso, Reato non presupposto di responsabilità amministrativa e limiti del sequestro/confisca nei confronti dell’ente, par. 2.5 motivazione. (38) Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit., par. 2.5 motivazione. (39) Principio di diritto della cit. pronuncia delle Sez. Un. (40) Criticamente, F. Mucciarelli - C.E. Paliero, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Dir. pen. cont., 20 aprile 2015, 11 ss.


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ha affermato la Suprema Corte, nella successiva decisione delle Sezioni Unite relativa al “caso Lucci” del 2015, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, costituenti il prezzo o il profitto c.d. «accrescitivo» derivante dal reato, «non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato» (41). Questa tesi appare soltanto ridimensionata, ma non scalfita nel suo nocciolo duro, da un recente orientamento della Corte di cassazione che esclude la confisca diretta delle somme giacenti sul conto corrente bancario del reo (e quindi anche dell’ente), in presenza della prova che le somme «non possano proprio in alcun modo derivare dal reato», in quanto depositate dopo la consumazione del reato, «difettando in esse la caratteristica del profitto» (42). Su questa linea, la Suprema Corte ha affermato che, «se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso» (43). Resta, peraltro, problematico il correttivo alla lettura delle Sezioni Unite individuato dalla giurisprudenza in discorso, pur sempre basato su un’inversione dell’onere della prova (44), per quanto riguarda le somme «che siano presenti sui conti o sui depositi nella disponibilità diretta o indiretta

(41) Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, in C.E.D. Cass., rv. 264437. (42) Cass., Sez. III, 30 ottobre 2017, n. 8995, in C.E.D. Cass., rv. 272353, in tema di omesso versamento delle ritenute di cui all’art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000, secondo cui, in tal caso, le somme non potrebbero, «evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte, ovvero, in altri termini del “risparmio di imposta” nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari». Cfr. anche Cass., Sez. III, 24 settembre 2018, n. 41104, in C.E.D. Cass., rv. 274307, in tema di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000. (43) Cass., Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 6816, in C.E.D. Cass., rv. 275048, par. 3.1 motivazione, sottolineando che, in caso contrario, «si finirebbe obiettivamente per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente per oggetto somme di denaro sì oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, ma che solo con una inaccettabile ‘forzatura’ possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito». (44) Di “onere di allegazione” parla, ad es., Cass., Sez. III, 24 settembre 2018, n. 41104, cit.


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dell’indagato al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento» (45). L’inversione appare poco compatibile con la struttura della confisca diretta e del sequestro ad essa finalizzato, implicante la dimostrazione positiva del rapporto di derivazione dei beni che costituiscono il profitto dall’illecito penale. La complessiva ricostruzione giurisprudenziale della materia ha agevolato l’impiego pratico della confisca de societate e ha parallelamente confinato in uno spazio residuale la misura a carico della persona fisica. Infatti, nella lettura delle Sezioni Unite, sarebbe precluso applicare la confisca per equivalente alla società (salva l’ipotesi della società schermo), data l’inoperatività dell’art. 19 d.lgs. n. 231/2001 alla luce del pregresso quadro normativo di riferimento, e si dovrebbe disporre la misura di valore a carico della persona fisica soltanto qualora non vi sia modo di apprendere i beni della società costituenti il profitto diretto del reato tributario. Tuttavia, la Suprema Corte ha affermato la legittimità del sequestro per equivalente a carico della persona fisica (46), in caso di impossibilità (eventualmente transitoria) del sequestro del profitto, anche in mancanza di un compiuto accertamento sul tema dell’inesistenza del profitto diretto (tema, a ben guardare, pregiudiziale alla confisca per equivalente). «L’impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato» (47). L’estensione del catalogo “231” alla materia penale-tributaria ridimensiona la portata della misura patrimoniale per equivalente nei confronti delle persone fisiche, anche nella fase cautelare, riequilibrando in parte gli effetti distorsivi della precedente sistemazione, ma di per sé non rimedia alla semplificazione probatoria prodotta dalla pronuncia “Gubert” (solo attenuata dall’indirizzo giurisprudenziale di cui si è dato conto). Inoltre, l’impossibilità di «pretendere» nella fase cautelare «la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato», che è stata sostenuta dalla Corte per rendere in qualche misura manovrabile la leva del sequestro per equivalente a carico della

(45) Cass., Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 6816, cit., par. 3.1 motivazione. (46) Nonostante non abbia tratto alcun profitto dal reato: cfr. sul punto R. Bricchetti - P. Veneziani, La confisca, in I reati tributari, a cura di R. Bricchetti - P. Veneziani, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da F. Palazzo e C.E. Paliero, vol. XIII, Torino, 2017, 492. (47) Ulteriore principio di diritto enunciato nella decisione sul “caso Gubert” del 2014.


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persona fisica (48), dopo la modifica normativa agevolerebbe l’applicazione del sequestro preventivo per equivalente alla società, in alternativa a quello disposto nei confronti dell’imputato del reato tributario presupposto, soluzione ragionevole tenuto conto dell’utilità economica prodotta in capo alla persona giuridica e non a quella fisica (49). Vi sarebbe, quindi, un arretramento operativo del sequestro preventivo previsto dal c.p.p. nell’art. 321 comma 2, ma non un ripiegamento del sequestro di valore parametrato al profitto del reato tributario (e quindi all’imposta evasa), che continuerebbe a funzionare nella giustizia penale degli enti, ai sensi dell’art. 53 d.lgs. n. 231/2001, «al pari della confisca di valore» di cui all’art. 19 d.lgs. n. 231/2001, quale «istituto “ordinario”» e non più solo «di natura sussidiaria ed eccezionale» (50). Il sequestro preventivo previsto dall’art. 53 d.lgs. n. 231/2001 si presta, così, a diventare lo strumento privilegiato di contrasto all’evasione fiscale, laddove prodotta da reati del catalogo “231” commessi nell’interesse delle società. Non va poi trascurato il rapporto fra la nuova disciplina normativa della confisca e il particolare regime della prescrizione operante nel processo celebrato nei confronti delle persone giuridiche (51). Va ricordato come, in base alla precedente disciplina, potevano porsi situazioni in cui il processo a carico dell’imputato si concludeva con la declaratoria di estinzione del reato tributario per prescrizione, e non si poteva celebrare un processo destinato ad accertare la responsabilità dell’ente per lo stesso reato tributario (52). Sono situazioni in cui, attualmente, data la novella legislativa, il processo penale proseguirebbe per accertare la responsabilità amministrativa da reato tributario, nel regime di autonomia di cui all’art. 8 lett. b) d.lgs. n. 231/2001. L’ente sarebbe condannato qualora il giudice penale accertasse la commissione nel suo interesse del reato presupposto pur dichiarato estinto, e sarebbe quindi applicabile la confisca anche per equivalente ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001 (e il

(48) Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 10561, cit., par. 2.7 motivazione. (49) Cfr. al riguardo, ad es., R. Bartoli, Responsabilità degli enti e reati tributari: una riforma affetta da sistematica irragionevolezza, in Sist. pen., n. 3/2020, 222. (50) Così, G. Varraso, La confisca (e il sequestro) e i nuovi reati tributari, in La nuova giustizia penale tributaria. I reati – il processo, a cura di A. Giarda - A. Perini - G. Varraso, Milano, 2016, 410. (51) Cfr. in generale F. Sgubbi, Nuova prescrizione e nuova confisca penale tributaria (un connubio che inquieta), in Discrimen, 10 gennaio 2020, 7 ss. (52) Inoltre, in questo settore, non era agilmente praticabile l’ipotesi della confisca dopo la sentenza di condanna in primo grado riformata in appello: G. Varraso, La confisca, cit., 429-430.


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sequestro preventivo ad essa finalizzato). Per converso, la prescrizione del reato presupposto prima della contestazione dell’illecito amministrativo all’ente farebbe scattare la decadenza ex art. 60 d.lgs. n. 231/2001 e, ragionevolmente, precluderebbe il sequestro preventivo nei confronti sia della persona fisica che della persona giuridica.

Manfredi Bontempelli



Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia UE, sez. VII, 30 gennaio 2020, causa C-156/17 – Pres. e Rel. P.G. Xuereb Tassazione dei dividendi corrisposti agli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) non residenti – Libera circolazione dei capitali – Restrizioni – Rimborso dell’imposta trattenuta sui dividendi – Presupposti – Criteri di differenziazione obiettivi – Criteri favorevoli, per loro natura o di fatto, ai contribuenti residenti – Osta È contraria al principio della libera circolazione dei capitali, di cui all’art. 63 TFUE, la normativa di uno Stato membro ai sensi della quale a un organismo di investimento collettivo non residente non è concesso il rimborso dell’imposta sui dividendi che esso ha dovuto versare in tale Stato membro, per il motivo che esso non soddisfa i requisiti di legge ai quali è subordinato tale rimborso, vale a dire che esso non distribuisce integralmente ai suoi azionisti o detentori di partecipazioni gli utili derivanti dai suoi investimenti ogni anno, entro otto mesi dalla chiusura del suo esercizio contabile, mentre, nello Stato membro in cui è stabilito, l’utile derivante dai suoi investimenti che non sia stato distribuito è considerato distribuito o rientra nell’imposta che detto Stato membro riscuote dagli azionisti o detentori di partecipazioni come se tale utile fosse stato distribuito e che, tenuto conto dell’obiettivo sotteso a tali requisiti, un simile fondo si trovi in una situazione paragonabile a quella di un fondo residente che beneficia del rimborso di tale imposta, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare. (1)

(Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 63 TFUE. 2.Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il KölnAktienfonds Deka (in prosieguo: il «KA Deka») e lo Staatssecretaris van Financiën (Segretario di Stato alle Finanze, Paesi Bassi), in merito al rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta a carico del KA Deka sui dividendi di azioni di società dei Paesi Bassi versati per gli esercizi dal 2002/2003 al 2007/2008. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3. La direttiva 85/611/CEE del Consiglio, del 20 dicembre 1985, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in


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materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (o.i.c.v.m.) (GU 1985, L 375, pag. 3), era intesa, conformemente al suo quarto considerando, a prevedere per gli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) situati negli Stati membri norme minime comuni per quanto riguarda la loro autorizzazione, il loro controllo, la loro struttura, la loro attività e le informazioni che sono tenuti a pubblicare. La direttiva 85/611 è stata ripetutamente modificata prima di essere abrogata, con effetto dal 1o luglio 2011, dalla direttiva 2009/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) (GU 2009, L 302, pag. 32), che ha proceduto alla sua rifusione. Diritto dei Paesi Bassi 4.Nei Paesi Bassi, la disciplina concernente gli organismi di investimento collettivo a carattere fiscale (in prosieguo: gli «OICF») mira a consentire alle persone fisiche e, in particolare, ai piccoli risparmiatori di effettuare investimenti collettivi in determinati tipi di attivi. L’obiettivo perseguito da tale disciplina è quello di assimilare il trattamento fiscale applicabile alle persone fisiche che effettuano investimenti tramite un OICF a quello riservato alle persone fisiche che effettuano investimenti individualmente. 5.A tal fine, gli OICF sono assoggettati a un’aliquota d’imposta sulle società pari a zero. Essi beneficiano altresì del rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta sui dividendi percepiti nei Paesi Bassi. In tal senso, l’articolo 10, paragrafo 2, del Wet op de dividendbelasting 1965 (legge del 1965 relativa all’imposta sui dividendi), nella versione applicabile alla controversia principale, precisa quanto segue: «Una società qualificata come organismo di investimento ai fini della riscossione dell’imposta sulle società può chiedere all’ispettore di adottare una decisione, impugnabile, che le riconosca il rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta a suo carico nel corso di un anno civile (…)». 6.Gli OICF hanno altresì diritto a una compensazione a titolo della ritenuta alla fonte prelevata a loro carico su prodotti di investimento all’estero. 7.Gli OICF, quando distribuiscono dividendi, sono tenuti a trattenere l’imposta dei Paesi Bassi sui dividendi, a carico del beneficiario dei dividendi medesimi. 8.La disciplina degli OICF è stabilita principalmente dall’articolo 28 del Wet op de vennootschapsbelasting 1969 (legge del 1969 relativa all’imposta sulle società), che fissa i requisiti che un organismo di investimento deve soddisfare per poter essere qualificato come OICF. 9.Tra tali requisiti figura l’obbligo a carico dell’organismo di investimento di distribuire, entro un determinato termine, ai propri azionisti o detentori di partecipazioni gli utili percepiti. In tal senso, l’articolo 28, paragrafo 2, lettera b), della legge del 1969 relativa all’imposta sulle società prevede che la parte dell’utile definita mediante decreto di portata generale sia versata agli azionisti e ai detentori di certificati di


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partecipazione entro otto mesi dalla chiusura dell’esercizio e che l’utile da versare sia ripartito in modo uguale tra le azioni e i certificati di partecipazione. 10.A tal riguardo, dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta che, conformemente al Besluit beleggingsinstellingen (decreto sugli organismi di investimento collettivo) (Stb. 1970, n. 190), come modificato dal decreto del 20 dicembre 2007 (Stbl. 2007, n. 573) (in prosieguo: il «decreto sugli organismi di investimento collettivo»), gli importi non deducibili sono presi in considerazione ai fini del calcolo dell’utile distribuibile dell’organismo di investimento. Inoltre, un OICF può costituire una riserva di reinvestimento e una riserva di tesoreria per arrotondare gli importi da esso distribuiti. 11.La natura dell’azionariato dell’organismo di investimento figura altresì tra i requisiti ai quali è subordinata la qualifica di OICF, dovendo beneficiare del regime degli OICF soltanto gli investitori ai quali esso è destinato. 12.I requisiti relativi all’azionariato erano disciplinati, dal 2002 al 2006, all’articolo 28, paragrafo 2, lettere da c) a g), della legge del 1969 relativa all’imposta sulle società. Tali disposizioni distinguevano tra gli organismi di investimento le cui azioni o le cui partecipazioni erano collocate presso un ampio pubblico e gli altri soggetti, i quali erano assoggettati a requisiti più rigorosi. La distinzione tra tali organismi si basava sul fatto che le loro azioni o i loro certificati di partecipazione fossero o meno ufficialmente quotati presso la Borsa di Amsterdam. 13.Un organismo di investimento le cui azioni o partecipazioni erano quotate presso la Borsa di Amsterdam era in sostanza escluso dal regime degli OICF se il 45% o più delle sue azioni o delle sue partecipazioni erano detenute da un’entità assoggettata a un’imposta sugli utili, ad eccezione di un OICF con azioni o partecipazioni quotate presso la Borsa di Amsterdam, o erano detenute da un’entità avente un utile assoggettato ad un’imposta sugli utili gravante sui suoi azionisti o detentori di partecipazioni. Inoltre, un organismo di investimento non poteva beneficiare del regime previsto per gli OICF se una sola persona fisica deteneva almeno il 25% delle azioni o delle partecipazioni. 14.Un organismo di investimento le cui azioni o le cui partecipazioni non erano quotate presso la Borsa di Amsterdam era soggetto a requisiti più rigorosi e, per poter beneficiare del regime degli OICF, almeno il 75% delle sue azioni o delle sue partecipazioni dovevano in sostanza essere detenute da persone fisiche, da entità non assoggettate a un’imposta sull’utile, come i fondi pensione e gli organismi di beneficenza, o da altri OICF. Un organismo di investimento non poteva beneficiare del regime degli OICF se una o più persone fisiche detenevano partecipazioni pari ad almeno il 5% delle azioni o delle partecipazioni in tale organismo. Qualora il fondo di investimento disponesse di un’autorizzazione ai sensi del Wet houdende bepalingen inzake het toezicht op beleggingsinstellingen (legge recante disposizioni sulla sorveglianza dei fondi di investimento), del 27 giugno 1990 (Stb. 1990, n. 380), quest’ultimo divieto veniva meno a favore della regola ai sensi della quale nessuna persona fisica poteva detenere azioni nell’organismo pari o superiori al 25%.


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15.A seguito di modifiche legislative, dal 1o gennaio 2007, al fine di poter beneficiare del regime degli OICF, le azioni o le partecipazioni di un organismo di investimento devono essere ammesse alla negoziazione su un mercato di strumenti finanziari, come quello di cui all’articolo 1:1 del Wet houdende regels met betrekking tot de financiële markten en het toezicht daarop (legge recante disposizioni sui mercati finanziari e sulla loro vigilanza), del 28 settembre 2006 (Stb. 2006, n. 475), o il fondo o il suo gestore devono disporre di un’autorizzazione ai sensi dell’articolo 2:65 di detta legge o esserne dispensati conformemente all’articolo 2:66, paragrafo 3, della medesima legge. Procedimento principale e questioni pregiudiziali 16.Il KA Deka è un fondo di investimento di diritto tedesco (PublikumsSondervermögen) con sede in Germania. Esso costituisce un OICVM ai sensi delle direttive 85/611 e 2009/65, di tipo aperto, quotato in Borsa, privo di personalità giuridica e personalmente esentato dall’imposta sugli utili in Germania. Esso effettua investimenti per conto di privati. Le sue azioni sono quotate presso la Borsa tedesca, ma la loro negoziazione avviene mediante un sistema detto «global stream system». 17.Durante gli esercizi dal 2002/2003 al 2007/2008, il KA Deka ha percepito dividendi distribuiti da società aventi sede nei Paesi Bassi, delle quali deteneva azioni. Tali dividendi erano assoggettati a un’imposta del 15%, ritenuta alla fonte, conformemente alla convenzione volta ad evitare la doppia imposizione nel settore dell’imposta sul reddito e dell’imposta sul patrimonio e varie altre imposte, nonché a disciplinare ulteriori questioni fiscali, conclusa il 16 giugno 1959 tra il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica federale di Germania (Trb. 1959, 85), come modificata dal terzo protocollo addizionale del 4 giugno 2004 (Trb. 2004, 185) (in prosieguo: la «convenzione fiscale tra il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica federale di Germania»). Il KA Deka, a differenza di un fondo di investimento stabilito nei Paesi Bassi avente i requisiti per essere qualificato come OICF, non ha potuto beneficiare del rimborso di detta imposta in base all’articolo 10, paragrafo 2, della legge del 1965 relativa all’imposta sui dividendi. 18.Il KA Deka non è assoggettato nei Paesi Bassi all’obbligo di effettuare una ritenuta obbligatoria dell’imposta sui dividendi da esso stesso distribuiti. 19.Il giudice del rinvio espone che, secondo le norme di diritto tributario tedesco, i privati che hanno investito in un fondo comune di investimento sono considerati beneficiari di un importo minimo teorico di dividendi. Gli importi che, di conseguenza, sono tassati oltre all’importo effettivamente distribuito sono denominati «prodotti equiparati a una distribuzione» (ausschüttungsgleiche Erträge). Nel corso degli anni di cui trattasi nel procedimento principale, i privati tedeschi che avevano investito in simili fondi beneficiavano di un’esenzione d’imposta applicabile alla metà della loro base imponibile, che corrispondeva agli utili effettivamente distribuiti maggiorati degli eventuali «prodotti equiparati a una distribuzione».


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20.Fino al 2004, la normativa tedesca consentiva a tali privati di imputare integralmente – sull’imposta tedesca riscossa su metà della base imponibile tassata – l’importo dell’imposta dei Paesi Bassi sui dividendi a carico del fondo comune di investimento. A seguito di una modifica della normativa tedesca tale imputazione è stata limitata, dal 2004 al 2008, a metà dell’imposta dei Paesi Bassi ritenuta alla fonte e l’imputazione non poteva più essere effettuata se il fondo comune di investimento aveva scelto di dedurre dagli utili l’imposta estera ritenuta alla fonte. 21.Il KA Deka ha chiesto all’amministrazione fiscale dei Paesi Bassi il rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta a suo carico su dividendi distribuiti da società dei Paesi Bassi per gli esercizi dal 2002/2003 al 2007/2008. 22.Poiché l’Inspecteur van de Belastingdienst (Ispettore del servizio tributario; in prosieguo: l’«Inspecteur») ha respinto tali domande, il KA Deka ha adito il rechtbank ZeelandWestBrabant (Tribunale di ZeelandWestBrabant, Paesi Bassi) affinché si pronunciasse sulla legittimità della decisione dell’Ispettore del servizio tributario. Dinanzi a tale giudice il KA Deka ha sostenuto di poter essere equiparato a un fondo di investimento stabilito nei Paesi Bassi avente lo status di OICF, quale previsto all’articolo 28 della legge del 1969 relativa all’imposta sulle società, e di avere, di conseguenza, diritto al rimborso dell’imposta sui dividendi in applicazione dell’articolo 56 CE (divenuto articolo 63 TFUE). 23.Il rechtbank ZeelandWestBrabant (Tribunale di ZeelandWestBrabant), chiedendosi se il KA Deka fosse oggettivamente paragonabile a un OICF alla luce dei criteri di raffronto tra tali fondi stabiliti dallo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi), e in considerazione del numero importante di cause dalle quali possono avere origine questioni analoghe a quelle oggetto della controversia principale, ha deciso di sottoporre a quest’ultimo giudice cinque questioni pregiudiziali. 24.Lo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi) constata, in via preliminare, che il KA Deka, nella sua forma giuridica, potrebbe essere qualificato come un OICF ed è sotto questo profilo oggettivamente paragonabile ad un OICF stabilito nei Paesi Bassi. Tale giudice precisa che, mentre un OICF stabilito nei Paesi Bassi avrebbe avuto diritto al rimborso dell’imposta sui dividendi richiesto dal KA Deka, a quest’ultimo non è riconosciuto alcun diritto al rimborso dell’imposta sui dividendi né dalla normativa dei Paesi Bassi né dalla convenzione fiscale tra il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica federale di Germania. 25.Ritenendo che possano sussistere ragionevoli dubbi sulle risposte da fornire alle questioni sollevate dal rechtbank ZeelandWestBrabant (Tribunale di ZeelandWestBrabant), lo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1)Se l’articolo 56 CE (attualmente divenuto articolo 63 TFUE) osti a che ad un fondo d’investimento stabilito al di fuori dei Paesi Bassi non venga concesso il rimborso dell’imposta olandese sui dividendi, trattenuta sui dividendi ad esso versati da


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enti stabiliti nei Paesi Bassi, per il motivo che esso non è sostituto d’imposta ai fini dell’imposta olandese sui dividendi, mentre tale rimborso è concesso ad un organo di investimento collettivo a carattere fiscale stabilito nei Paesi Bassi che distribuisce annualmente ai suoi soci o ai suoi detentori di partecipazioni i suoi redditi d’investimento previa detrazione dell’imposta olandese sui dividendi dovuta. 2)Se l’articolo 56 CE (attualmente divenuto articolo 63 TFUE) osti a che ad un fondo d’investimento stabilito al di fuori dei Paesi Bassi non venga concesso il rimborso dell’imposta olandese sui dividendi, trattenuta su dividendi percepiti da enti stabiliti nei Paesi Bassi, per il motivo che esso non dimostra che i suoi soci o i suoi detentori di partecipazioni soddisfano le condizioni previste dalla normativa dei Paesi Bassi. 3)Se l’articolo 56 CE (attualmente divenuto articolo 63 TFUE) osti a che ad un fondo d’investimento stabilito al di fuori dei Paesi Bassi non venga concesso il rimborso dell’imposta olandese sui dividendi, trattenuta su dividendi percepiti da enti stabiliti nei Paesi Bassi, per il motivo che esso non distribuisce integralmente ogni anno ai suoi soci o i suoi detentori di partecipazioni gli utili percepiti dai suoi investimenti al più tardi entro l’ottavo mese dopo la chiusura dell’esercizio, anche se nel paese in cui tale fondo d’investimento è stabilito, in forza della normativa ivi vigente, gli utili percepiti dai suoi investimenti che non sono stati distribuiti a) sono considerati come distribuiti o b) sono inclusi nell’imposta che detto paese preleva da detti soci o detentori di partecipazioni come se tali utili fossero stati distribuiti, mentre il rimborso in questione viene concesso ad un organo di investimento collettivo a carattere fiscale stabilito nei Paesi Bassi che distribuisce annualmente gli utili percepiti dai suoi investimenti ai suoi soci o ai suoi detentori di partecipazioni previa detrazione dell’imposta olandese sui dividendi». Procedimento dinanzi alla Corte 26.Con decisione del presidente della Corte del 5 aprile 2017, la presente causa è stata riunita alla causa C157/17 ai fini delle fasi scritta e orale del procedimento, nonché della sentenza. 27.In seguito alla pronuncia della sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds e a. (C480/16, EU:C:2018:480), il giudice del rinvio ha informato la Corte, con lettera del 3 dicembre 2018, di voler ritirare la domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C157/17 e la prima questione nella causa C156/17, ma di mantenere le questioni seconda e terza sollevate nella causa C156/17. 28.Con decisione del presidente della Corte del 4 dicembre 2018, la causa C156/17 è stata separata dalla causa C157/17 e quest’ultima è stata cancellata dal ruolo della Corte il 12 dicembre 2018. Sulla domanda di riapertura della fase orale del procedimento 29.In seguito alla pronuncia delle conclusioni dell’avvocato generale, il KA Deka, con atto depositato presso la cancelleria della Corte il 18 settembre 2019, ha chiesto


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che fosse disposta la riapertura della fase orale del procedimento, in applicazione dell’articolo 83 del regolamento di procedura della Corte. 30.A sostegno della sua domanda, il KA Deka fa valere che le conclusioni dell’avvocato generale contengono un’inesattezza in merito all’interpretazione dell’articolo 7, lettera e), della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GU 1995, L 281, pag. 31). Contrariamente a quanto affermato dall’avvocato generale ai paragrafi da 79 a 81 delle sue conclusioni, l’articolo 7, lettera e), della direttiva 95/46 non sarebbe accompagnato da un effetto diretto orizzontale che autorizzi un organismo non pubblico a chiedere o a fornire dati personali a un altro organismo non pubblico. Detta inesattezza sarebbe tale da influenzare in modo decisivo la decisione della Corte e, pertanto, da giustificare la riapertura della fase orale del procedimento. 31.A tal proposito occorre ricordare che, ai sensi dell’articolo 252, secondo comma, TFUE, l’avvocato generale presenta pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, richiedono il suo intervento. La Corte non è vincolata né dalle conclusioni dell’avvocato generale né dalla motivazione in base alla quale quest’ultimo giunge alle proprie conclusioni (sentenza del 22 giugno 2017, Federatie Nederlandse Vakvereniging e a., C126/16, EU:C:2017:489, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 32.Occorre altresì rilevare, in tale contesto, che né lo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea né il regolamento di procedura della Corte prevedono la facoltà per le parti in causa o per gli interessati menzionati all’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea di depositare osservazioni in risposta alle conclusioni presentate dall’avvocato generale (sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud – Wykonawstwo, C106/16, EU:C:2017:804, punto 23 e giurisprudenza ivi citata). Il disaccordo di tale parte o di tale interessato con le conclusioni dell’avvocato generale, qualunque siano le questioni da esso ivi esaminate, non può costituire, di conseguenza, un motivo che giustifichi la riapertura della fase orale (sentenze del 25 ottobre 2017, Polbud – Wykonawstwo, C106/16, EU:C:2017:804, punto 24, nonché del 29 novembre 2017, King, C214/16, EU:C:2017:914, punto 27 e giurisprudenza ivi citata). 33.Ne consegue che la domanda di riapertura della fase orale del procedimento presentata dal KA Deka, nei limiti in cui è diretta a consentire a quest’ultimo di rispondere alle constatazioni fatte dall’avvocato generale nelle sue conclusioni in merito all’interpretazione della direttiva 95/46, non può essere accolta. 34.Ai sensi dell’articolo 83 del proprio regolamento di procedura, la Corte, in qualsiasi momento, sentito l’avvocato generale, può disporre la riapertura della fase orale del procedimento, in particolare se essa non si ritiene sufficientemente edotta o quando, dopo la chiusura di tale fase, una parte ha prodotto un fatto nuovo, tale


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da influenzare in modo decisivo la decisione della Corte, oppure quando la causa dev’essere decisa in base a un argomento che non è stato oggetto di discussione tra le parti o gli interessati menzionati dall’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. 35.Tuttavia, nell’ambito della presente causa, la Corte, sentito l’avvocato generale, ritiene di disporre di tutti gli elementi necessari per rispondere alle questioni sollevate dal giudice del rinvio. 36.Alla luce delle suesposte considerazioni non occorre disporre la riapertura della fase orale del procedimento. Sulle questioni pregiudiziali Osservazioni preliminari 37.Occorre rilevare che, come risulta dalla decisione di rinvio, i dividendi versati dalle società stabilite nei Paesi Bassi a beneficiari stabiliti in tale Stato membro sono assoggettati a un’imposta sui dividendi. Qualora, come nel procedimento principale, il beneficiario dei dividendi abbia sede in un altro Stato membro, nel caso di specie in Germania, tali dividendi possono essere assoggettati nei Paesi Bassi a un’aliquota del 15% in forza della convenzione fiscale tra il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica federale di Germania. 38.Dalle indicazioni contenute in tale decisione risulta altresì che, per essere qualificati come OICF, possono chiedere e ottenere il rimborso dell’imposta sui dividendi versata solo i fondi di investimento che soddisfano i requisiti di cui all’articolo 28 della legge del 1969 relativa all’imposta sulle società per essere qualificati come OICF. 39.Un simile rimborso non è concesso ai fondi di investimento che non dimostrino di soddisfare detti requisiti, ivi compresi i fondi non residenti. 40.Di conseguenza, mentre i dividendi versati ai fondi qualificati come OICF non sono assoggettati ad imposta a loro carico, i dividendi versati ad altri organismi, compresi i fondi di investimento stabiliti in altri Stati membri, sono assoggettati a siffatta imposta. 41.Pertanto, un fondo di investimento che soddisfa i requisiti relativi agli OICF beneficia, per quanto riguarda i dividendi percepiti, di un trattamento fiscale più favorevole di quello al quale sono assoggettati i fondi di investimento che non soddisfano tali requisiti, ivi compresi i fondi di investimento non residenti. 42.A tal riguardo occorre ricordare che spetta a ciascuno Stato membro organizzare, in osservanza del diritto dell’Unione, il proprio sistema di tassazione degli utili distribuiti e definire, in tale ambito, la base imponibile nonché l’aliquota d’imposta da applicare all’azionista beneficiario (v., in particolare, sentenze del 20 maggio 2008, Orange European Smallcap Fund, C194/06, EU:C:2008:289, punto 30; del 20 ottobre 2011, Commissione/Germania, C284/09, EU:C:2011:670, punto 45, nonché del 30 giugno 2016, Riskin e Timmermans, C176/15, EU:C:2016:488, punto 29). 43.Ne consegue che gli Stati membri sono liberi di prevedere, al fine di incoraggiare il ricorso agli organismi d’investimento collettivo, un regime impositivo partico-


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lare applicabile a tali organismi e ai dividendi da essi percepiti, nonché di definire i requisiti sostanziali e formali che debbano essere rispettati per beneficiare di tale regime (v., in tal senso, sentenze del 9 ottobre 2014, van Caster, C326/12, EU:C:2014:2269, punto 47, e del 24 ottobre 2018, Sauvage e Lejeune, C602/17, EU:C:2018:856, punto 34). 44.Inoltre, è inerente al principio dell’autonomia fiscale degli Stati membri che questi ultimi determinino gli elementi di prova necessari per dimostrare che i requisiti richiesti per beneficiare di un siffatto regime sono rispettati (v., in tal senso, sentenze del 30 giugno 2011, Meilicke e a., C262/09, EU:C:2011:438, punto 37; del 9 ottobre 2014, van Caster, C326/12, EU:C:2014:2269, punto 47, nonché del 24 ottobre 2018, Sauvage e Lejeune, C_602/17, EU:C:2018:856, punto 34). 45.Ciò nondimeno, gli Stati membri devono esercitare la loro autonomia tributaria nel rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, segnatamente quelli imposti dalle disposizioni del Trattato afferenti alla libera circolazione dei capitali (sentenza del 30 giugno 2011, Meilicke e a., C262/09, EU:C:2011:438, punto 38). 46.Di conseguenza, la previsione di un regime particolare applicabile agli organismi d’investimento collettivo, segnatamente la natura dei requisiti richiesti per beneficiare di esso e gli elementi di prova che devono essere forniti a tal fine, non deve costituire una restrizione alla libera circolazione dei capitali. 47.Occorre rispondere alle questioni seconda e terza tenendo conto di tali considerazioni. Sulla seconda questione 48.Con la sua seconda questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 63 TFUE debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale ad un fondo di investimento non residente non è concesso, per il motivo che non fornisce la prova del fatto che i suoi azionisti o detentori di partecipazioni soddisfano i requisiti stabiliti da tale normativa, il rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta su dividendi da esso percepiti da entità stabilite in tale Stato membro. 49.A tal riguardo risulta dalla giurisprudenza della Corte che le misure vietate dall’articolo 63, paragrafo 1, TFUE, in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, includono quelle tali da dissuadere i non residenti dall’effettuare investimenti in uno Stato membro o da dissuadere i residenti di detto Stato membro dal compierne in altri Stati (v., in particolare, sentenze del 10 aprile 2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, C190/12, EU:C:2014:249, punto 39, nonché del 22 novembre 2018, Sofina e a., C575/17, EU:C:2018:943, punto 23 e giurisprudenza ivi citata). 50.Occorre pertanto verificare, in primo luogo, se i requisiti relativi agli azionisti o detentori di partecipazioni di un fondo di investimento stabiliti da uno Stato membro, ai quali è subordinata la possibilità per tale fondo di chiedere il rimborso dell’imposta sui dividendi da esso versata, siano tali da dissuadere un fondo di investimento


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non residente dal compiere investimenti in tale Stato membro. Occorrerà verificare, in secondo luogo, se le prove che i fondi di investimento non residenti devono a tal fine fornire abbiano l’effetto di dissuaderli dal compiere investimenti in detto Stato membro. 51.In primo luogo, per quanto riguarda tali requisiti, dalla decisione di rinvio risulta che dal 2002 al 2006 i requisiti relativi all’azionariato prevedevano soglie di partecipazione che non dovevano essere superate dai detentori di azioni o di certificati di partecipazione di un fondo affinché quest’ultimo potesse essere qualificato come OICF. Tali soglie variavano in funzione del fatto che le azioni o i certificati di partecipazione del fondo fossero o meno ufficialmente quotati presso la Borsa di Amsterdam. 52.Infatti, quando le azioni o i certificati di partecipazione del fondo erano ufficialmente quotati presso la Borsa di Amsterdam, erano esclusi dal regime degli OICF i fondi le cui azioni o partecipazioni fossero detenute in misura pari o superiore al 45% da un’entità assoggettata a un’imposta sugli utili o da un entità il cui utile fosse assoggettato all’imposta sugli utili a carico dei suoi azionisti o dei suoi partecipanti, nonché i fondi nei quali una persona fisica deteneva da sola una partecipazione pari o superiore al 25%. Invece, quando le azioni o i certificati di partecipazione del fondo non erano ufficialmente quotati presso la Borsa di Amsterdam, almeno il 75% di questi ultimi doveva essere detenuto da persone fisiche, da entità non assoggettate a un’imposta sugli utili, come fondi pensione e organismi di beneficenza, o da altri OICF, senza che una persona fisica detenesse da sola una partecipazione pari o superiore al 5% o, qualora un organismo fosse stato autorizzato in base alla legge recante disposizioni sulla vigilanza nei confronti dei fondi di investimento, pari o superiore al 25%. 53.Dalla decisione di rinvio risulta altresì che, secondo la normativa nazionale applicabile dal 1o gennaio 2007, per poter beneficiare del regime degli OICF, le azioni o le partecipazioni di un organismo di investimento devono essere ammesse alla negoziazione su un mercato di strumenti finanziari, come previsto dalla legge recante disposizioni sui mercati finanziari e sulla loro vigilanza, o il fondo o il suo gestore devono disporre di un’autorizzazione o esserne dispensati in base a tale legge. Il giudice del rinvio precisa che è ormai irrilevante il fatto che le azioni o le partecipazioni in un fondo di investimento siano quotate presso la Borsa di Amsterdam. 54.Occorre rilevare che la normativa nazionale oggetto del procedimento principale, applicabile nel periodo 2002-2006, così come quella applicabile dal 1o gennaio 2007, non distingueva i fondi di investimento residenti dai fondi di investimento non residenti, nel senso che i requisiti ai quali era subordinato il rimborso dell’imposta sui dividendi si applicavano indistintamente a entrambi tali tipi di fondi. 55.Tuttavia, una normativa nazionale che è indistintamente applicabile agli operatori residenti e agli operatori non residenti può costituire una restrizione alla libera circolazione dei capitali. Infatti, dalla giurisprudenza della Corte risulta che anche una distinzione basata su criteri obiettivi può, di fatto, svantaggiare le situazioni transfron-


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taliere (v., in tal senso, sentenza del 5 febbraio 2014, Hervis Sport és Divatkereskedelmi, C385/12, EU:C:2014:47, punti da 37 a 39). 56.Così avviene quando una normativa nazionale che è indistintamente applicabile agli operatori residenti e non residenti riserva il beneficio di un vantaggio fiscale alle situazioni in cui un operatore soddisfa requisiti o obblighi che sono, per loro natura o di fatto, propri del mercato nazionale, sicché solo gli operatori residenti sul mercato nazionale sono in grado di soddisfarli e gli operatori non residenti aventi caratteristiche comparabili generalmente non li soddisfano (v., in tal senso, sentenze del 9 ottobre 2014, van Caster, C326/12, EU:C:2014:2269, punti 36 e 37, nonché dell’8 giugno 2017, Van der Weegen e a., C580/15, EU:C:2017:429, punto 29). 57.In proposito, per quanto riguarda la normativa nazionale oggetto del procedimento principale, applicabile nel periodo 20022006, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio, come riassunte al punto 52 della presente sentenza, risulta che i fondi di investimento le cui azioni o le cui partecipazioni non erano quotate presso la Borsa di Amsterdam dovevano soddisfare requisiti più rigorosi rispetto ai fondi di investimento le cui azioni o partecipazioni erano state quotate presso tale Borsa. 58.Spetta pertanto al giudice del rinvio verificare se il requisito concernente gli azionisti, basato sulla quotazione delle azioni o delle partecipazioni del fondo di investimento presso la Borsa di Amsterdam, fosse tale, per sua natura o di fatto, da poter essere soddisfatto principalmente solo da fondi di investimento residenti, mentre i fondi di investimento non residenti, le cui azioni e partecipazioni non erano quotate presso la Borsa di Amsterdam, bensì presso un’altra Borsa, generalmente non soddisfacevano tale requisito. 59.Per quanto concerne la normativa nazionale applicabile a partire dal 1o gennaio 2007, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio, come riassunte al punto 53 della presente sentenza, risulta che, per poter beneficiare del regime degli OICF, le azioni o le partecipazioni di un organismo di investimento devono essere ammesse alla negoziazione su un mercato di strumenti finanziari, quale previsto dalla legge recante disposizioni sui mercati finanziari e sulla loro vigilanza. Conformemente a tale normativa, rientra in detto regime anche il fondo o il suo gestore che disponga di un’autorizzazione o che ne sia dispensato in base a detta legge. 60.A tal riguardo spetta al giudice del rinvio verificare se i requisiti posti da quest’ultima normativa siano tali, per loro natura o di fatto, da poter essere soddisfatti principalmente solo da fondi di investimento residenti e non escludano, di fatto, dal beneficio di tale regime i fondi di investimento non residenti che soddisfano requisiti analoghi nel loro Stato membro di stabilimento. 61.In secondo luogo, per quanto riguarda le prove che devono essere fornite dai fondi di investimento non residenti al fine di dimostrare che soddisfano i presupposti per poter beneficiare del regime degli OICF e, pertanto, ottenere il rimborso dell’imposta sui dividendi da essi versata, si deve ricordare che le autorità fiscali di uno Stato membro hanno il diritto di esigere dal contribuente le prove a loro avviso necessarie


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per valutare se siano soddisfatti i presupposti per la concessione di un vantaggio fiscale previsto dalla normativa di cui trattasi e, di conseguenza, se si debba o meno concedere tale vantaggio (sentenza del 10 febbraio 2011, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Österreichische Salinen, C436/08 e C437/08, EU:C:2011:61, punto 95 nonché giurisprudenza ivi citata). Il contenuto, la forma e il livello di precisione cui devono rispondere le informazioni fornite dal contribuente al fine di poter beneficiare di un vantaggio fiscale sono stabiliti dallo Stato membro che conferisce tale vantaggio al fine di consentire al contribuente stesso la corretta applicazione dell’imposta (v., in tal senso, sentenza del 9 ottobre 2014, van Caster, C326/12, EU:C:2014:2269, punto 52). 62.Tuttavia, al fine di non rendere impossibile o eccessivamente difficile per un contribuente non residente ottenere un vantaggio fiscale, non si può esigere che egli produca documenti conformi sotto ogni profilo alla forma e al livello di precisione dei documenti giustificativi previsti dalla normativa nazionale dello Stato membro che conferisce tale vantaggio, qualora, peraltro, i documenti forniti da tale contribuente consentano a detto Stato membro di verificare, in modo chiaro e preciso, se siano soddisfatti i presupposti per la concessione del vantaggio fiscale di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza del 30 giugno 2011, Meilicke e a., C262/09, EU:C:2011:438, punto 46). Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 72 delle sue conclusioni, i contribuenti non residenti non possono essere assoggettati ad oneri amministrativi eccessivi che li mettano in una condizione di effettiva impossibilità di beneficiare di un vantaggio fiscale. 63.Nel procedimento principale, il giudice del rinvio afferma che il KA Deka non può soddisfare i requisiti relativi all’azionariato a causa del sistema di negoziazione delle azioni scelto, che non gli consentirebbe di conoscere i suoi detentori di partecipazioni. 64.Pertanto, l’impossibilità di fornire la prova dei requisiti relativi all’azionariato non sembra risiedere né nella complessità intrinseca delle informazioni richieste, né nel mezzo di prova richiesto, né, ancora, nell’impossibilità giuridica di raccogliere detti dati a causa dell’applicazione della normativa sulla protezione dei dati che ha attuato la direttiva 95/46, ma discende dalla scelta del modello di negoziazione delle quote operata dal fondo di cui trattasi. 65.Orbene, in tali circostanze, il venir meno del flusso di informazioni verso l’operatore non è un problema di cui debba occuparsi lo Stato membro interessato (v. sentenze del 10 febbraio 2011, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Österreichische Salinen, C436/08 e C437/08, EU:C:2011:61, punto 98, nonché del 30 giugno 2011, Meilicke e a., C262/09, EU:C:2011:438, punto 48). 66.Nei limiti in cui i requisiti di prova di cui trattasi nel procedimento principale sembrano essere imposti anche a fondi di investimento residenti che abbiano scelto un sistema di negoziazione delle quote analogo a quello adottato dal KA Deka nel procedimento principale, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, il rifiuto di concedere a un fondo di investimento non residente il rimborso dell’imposta sui


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dividendi da esso versata, per il motivo che quest’ultimo non ha potuto dimostrare in modo sufficiente di soddisfare detti requisiti, non costituisce un trattamento sfavorevole di un fondo di investimento non residente. 67.Di conseguenza, alla luce di tutte le suesposte considerazioni, si deve rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 63 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale a un fondo di investimento non residente non è concesso il rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta su dividendi da esso percepiti da parte di entità stabilite in tale Stato membro, per il motivo che detto fondo non fornisce la prova del fatto che i suoi azionisti o detentori di partecipazioni soddisfano i requisiti fissati da tale normativa, a condizione che detti requisiti non svantaggino, di fatto, i fondi di investimento non residenti e che le autorità tributarie richiedano che la prova del rispetto di detti requisiti sia fornita anche da fondi di investimento residenti, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulla terza questione 68.Con la sua terza questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 63 TFUE debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale a un fondo di investimento non residente non è concesso il rimborso dell’imposta sui dividendi che esso ha dovuto versare in tale Stato membro, per il motivo che esso non soddisfa i presupposti ai quali tale rimborso è subordinato, vale a dire che esso non distribuisce integralmente i redditi d’investimento ai suoi azionisti o detentori di partecipazioni ogni anno, entro otto mesi dalla chiusura del suo esercizio contabile, mentre nello Stato membro in cui esso è stabilito, in forza delle disposizioni normative vigenti, i redditi d’investimento non distribuiti sono considerati distribuiti o inclusi nell’imposta che tale Stato membro riscuote dagli azionisti o detentori di partecipazioni, come se detti utili fossero stati distribuiti. 69.Come risulta dalla decisione di rinvio, il requisito cui è subordinato il rimborso dell’imposta sui dividendi e che concerne la redistribuzione degli utili di un fondo è formulato in termini generali e non stabilisce alcuna distinzione tra i fondi di investimento residenti e i fondi di investimento non residenti. Infatti, tanto i fondi di investimento residenti quanto i fondi di investimento non residenti devono soddisfare tale requisito al fine di beneficiare del rimborso dell’imposta sui dividendi versata. 70.Tuttavia, tenuto conto della giurisprudenza ricordata ai punti 55 e 56 della presente sentenza, occorre verificare se il requisito in esame, pur essendo indistintamente applicabile, sia tale da svantaggiare, di fatto, i fondi di investimento non residenti. 71.Come ricordato al punto 43 della presente sentenza, in assenza di armonizzazione a livello dell’Unione europea, ciascuno Stato membro è libero di stabilire se, al fine di incoraggiare il ricorso agli organismi d’investimento collettivo, prevedere un regime impositivo particolare applicabile a tali organismi e ai dividendi da essi percepiti, nonché di definire i requisiti sostanziali e formali che devono essere rispettati


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al fine di beneficiare di un siffatto regime. Pertanto, i requisiti relativi a siffatti regimi sono necessariamente propri di ciascuno Stato membro e diversi tra loro. 72.Inoltre, la libera circolazione dei capitali non può essere intesa nel senso che uno Stato membro sia obbligato a stabilire le proprie norme tributarie in funzione di quelle di un altro Stato membro, al fine di garantire, in ogni situazione, una tassazione che elimini qualsivoglia disparità derivante dalle normative tributarie nazionali, considerato che le decisioni adottate da un contribuente riguardo agli investimenti in un altro Stato membro possono essere, a seconda dei casi, più o meno favorevoli o sfavorevoli per il contribuente medesimo (sentenza del 7 novembre 2013, K, C322/11, EU:C:2013:716, punto 80 e giurisprudenza ivi citata). 73.Tuttavia, subordinare la possibilità di ottenere il rimborso della ritenuta alla fonte al rigoroso rispetto dei requisiti previsti dalla normativa nazionale, a prescindere dalle condizioni di legge alle quali i fondi di investimento non residenti sono assoggettati nel loro Stato di stabilimento, equivarrebbe a riservare ai soli fondi di investimento residenti la possibilità di beneficiare di un trattamento favorevole dei dividendi. Infatti, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, i fondi di investimento residenti sarebbero generalmente idonei a soddisfare tutti i requisiti stabiliti dalla legislazione del loro Stato di stabilimento, mentre i fondi di investimento non residenti potrebbero soddisfare in genere solo i requisiti fissati dallo Stato membro in cui sono stabiliti. 74.In tali condizioni, non si può escludere che un fondo d’investimento non residente che, a causa del quadro normativo vigente nel suo Stato di stabilimento, non soddisfi tutti i requisiti stabiliti dallo Stato membro che conferisce il vantaggio fiscale di cui trattasi, si trovi ciononostante in una situazione essenzialmente paragonabile a quella di un fondo d’investimento residente che soddisfi siffatti requisiti. 75.Pertanto, affinché i requisiti previsti dalla normativa di uno Stato membro, pur essendo indistintamente applicabili ai fondi di investimento residenti e non residenti, non svantaggino, di fatto, i fondi d’investimento non residenti, questi ultimi devono essere messi in grado di dimostrare che essi si trovano, segnatamente a causa del contesto normativo vigente nel loro Stato di stabilimento, in una situazione paragonabile a quella dei fondi d’investimento residenti che soddisfano tali requisiti. 76.Dalla giurisprudenza della Corte risulta che la comparabilità o meno di una situazione transfrontaliera con una situazione interna dev’essere esaminata tenendo conto dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali di cui trattasi nonché dell’oggetto e del contenuto di queste ultime (v., in particolare, sentenza del 2 giugno 2016, Pensioenfonds Metaal en Techniek, C252/14, EU:C:2016:402, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). 77.In proposito, dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta che il requisito relativo alla redistribuzione degli utili è legato all’obiettivo del regime degli OICF di far sì che il rendimento degli investimenti che un privato realizza tramite un organismo di investimento sia lo stesso del rendimento degli investimenti realizzati a titolo indivi-


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duale. A tal fine, risulta altresì da tale fascicolo che il legislatore nazionale ha ritenuto essenziale che gli organismi di investimento facessero circolare al più presto gli utili derivanti dagli investimenti verso i risparmiatori di cui hanno investito i fondi. 78.Per quanto riguarda il nesso tra l’obbligo di ridistribuzione degli utili e l’imposizione a livello degli investitori, dal fascicolo a disposizione della Corte risulta inoltre che l’obbligo di ridistribuzione comportava l’assoggettamento all’imposta sui redditi. Tuttavia, a causa dell’introduzione, nel 2001, della tassazione del rendimento annuo forfettario, calcolato per i privati indipendentemente dal rendimento effettivo che essi hanno ricavato dalle loro azioni e dai loro altri investimenti, il ricorrente nel procedimento principale, le intervenienti nel procedimento principale, nonché la Commissione europea si interrogano sul carattere indispensabile della ridistribuzione degli utili di un fondo al fine di conseguire l’obiettivo di neutralità dell’imposizione tra gli investimenti diretti e quelli effettuati tramite un fondo di investimento. 79.Nel caso di specie, spetta al giudice del rinvio, il solo competente ad interpretare il diritto nazionale, tenendo conto di tutti gli elementi della normativa tributaria oggetto del procedimento principale e del regime fiscale nazionale nella sua globalità, determinare l’obiettivo principale sotteso al requisito della ridistribuzione degli utili. 80.Se risulta che l’obiettivo perseguito è quello di far pervenire al più presto agli investitori che abbiano fatto ricorso ai servizi di un fondo di investimento gli utili da essi realizzati, la situazione di un fondo di investimento non residente che non distribuisce i redditi derivanti dai suoi investimenti, quand’anche tali redditi siano considerati distribuiti, non è oggettivamente comparabile a quella di un fondo di investimento residente che distribuisce i suoi redditi alle condizioni previste dalla normativa nazionale. 81.Se, invece, l’obiettivo perseguito consiste principalmente nella tassazione degli utili a carico dell’azionista di un fondo d’investimento, occorre considerare che un fondo di investimento residente che effettua una distribuzione effettiva dei suoi utili e un fondo di investimento non residente i cui utili non sono distribuiti, ma sono considerati distribuiti e sono assoggettati ad imposta, in quanto tali, a carico dell’azionista di detto fondo, si trovano in una situazione oggettivamente comparabile. Infatti, in entrambi i casi, il livello di tassazione è spostato dal fondo di investimento verso l’azionista. 82.In quest’ultima situazione, il rifiuto di uno Stato membro di concedere a un fondo di investimento non residente il rimborso dell’imposta sui dividendi da esso versata in tale Stato membro, per il motivo che esso non distribuisce integralmente ai suoi azionisti o detentori di partecipazioni gli utili derivanti dai suoi investimenti ogni anno, entro otto mesi dalla chiusura del suo esercizio contabile, mentre nello Stato membro in cui tale fondo è stabilito, in forza delle disposizioni di legge vigenti, l’utile derivante dai suoi investimenti che non sia stato distribuito è considerato distribuito o è incluso nell’imposta che tale Stato membro riscuote dagli azionisti o detentori di


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partecipazioni di detto fondo, come se detto utile fosse stato distribuito, costituirebbe una restrizione alla libera circolazione dei capitali. 83.Orbene, tale restrizione può essere ammessa soltanto se è giustificata da motivi imperativi di interesse generale, è idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo da essa perseguito e non eccede quanto è necessario per raggiungerlo (sentenza del 24 novembre 2016, SECIL, C464/14, EU:C:2016:896, punto 56). 84.Si deve tuttavia rilevare che, nel procedimento principale, il governo dei Paesi Bassi non ha invocato simili motivi per quanto riguarda il requisito relativo alla ridistribuzione degli utili del fondo di investimento di cui trattasi. 85.In tali circostanze, si deve rispondere alla terza questione dichiarando che l’articolo 63 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale a un fondo di investimento non residente non è concesso il rimborso dell’imposta sui dividendi che esso ha dovuto versare in tale Stato membro, per il motivo che esso non soddisfa i requisiti di legge ai quali è subordinato tale rimborso, vale a dire che esso non distribuisce integralmente ai suoi azionisti o detentori di partecipazioni gli utili derivanti dai suoi investimenti ogni anno, entro otto mesi dalla chiusura del suo esercizio contabile, mentre, nello Stato membro in cui è stabilito, l’utile derivante dai suoi investimenti che non sia stato distribuito è considerato distribuito o rientra nell’imposta che detto Stato membro riscuote dagli azionisti o detentori di partecipazioni come se tale utile fosse stato distribuito e che, tenuto conto dell’obiettivo sotteso a tali requisiti, un simile fondo si trovi in una situazione paragonabile a quella di un fondo residente che beneficia del rimborso di tale imposta, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare. Sulle spese 86.Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara: 1) L’articolo 63 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale a un fondo di investimento non residente non è concesso il rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta su dividendi da esso percepiti da parte di entità stabilite in tale Stato membro, per il motivo che detto fondo non fornisce la prova che i suoi azionisti o detentori di partecipazioni soddisfano i requisiti fissati da tale normativa, a condizione che detti requisiti non svantaggino, di fatto, i fondi di investimento non residenti e che le autorità tributarie richiedano che la prova del rispetto di detti requisiti sia fornita anche da parte di fondi di investimento residenti, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare. 2) L’articolo 63 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale a un fondo di investimento non residente non è concesso il rimborso dell’imposta sui dividendi che esso ha dovuto


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versare in tale Stato membro, per il motivo che esso non soddisfa i requisiti di legge ai quali è subordinato tale rimborso, vale a dire che esso non distribuisce integralmente ai suoi azionisti o detentori di partecipazioni gli utili derivanti dai suoi investimenti ogni anno, entro otto mesi dalla chiusura del suo esercizio contabile, mentre, nello Stato membro in cui è stabilito, l’utile derivante dai suoi investimenti che non sia stato distribuito è considerato distribuito o rientra nell’imposta che detto Stato membro riscuote dagli azionisti o detentori di partecipazioni come se tale utile fosse stato distribuito e che, tenuto conto dell’obiettivo sotteso a tali requisiti, un simile fondo si trovi in una situazione paragonabile a quella di un fondo residente che beneficia del rimborso di tale imposta, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare. (Omissis)

(1) Libera circolazione dei capitali e ritenute alla fonte sui dividendi corrisposti a OICVM non residenti. Sommario: 1. Introduzione. – 2. I fatti all’origine della controversia: il regime fiscale

differenziato olandese alla luce del principio della libera circolazione dei capitali. – 3. Il principio della libera circolazione dei capitali: restrizioni e possibili cause di giustificazione. – 4. Il ritiro della prima questione pregiudiziale e il precedente della sentenza Fidelity Funds, causa C-480/16. – 5. Ritenute sui dividendi corrisposti a OICVM non residenti e restrizione alla libera circolazione dei capitali: la comparabilità delle situazioni dedotte in giudizio e la decisione della Corte. – 6. Considerazioni conclusive e possibili ricadute della sentenza Ka Deka, causa C-156/17, sull’ordinamento tributario italiano. Il saggio trae spunto dalla recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-156/17, Ka Deka, sulle diversità del trattamento fiscale riservato dagli Stati membri agli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM), residenti e non residenti, in relazione ai dividendi di fonte nazionale. Nel caso in esame, la Corte di giustizia ha ritenuto contrario al principio della libera circolazione dei capitali un regime fiscale quale quello olandese che prevede condizioni particolarmente rigorose per concedere il rimborso della ritenuta operata sui dividendi in uscita corrisposti a OICVM non residenti La sentenza si segnala in quanto la restrizione alla libera circolazione dei capitali è stata individuata attraverso un esame della comparabilità condotto non solo sugli organismi, ma anche sulla situazione fiscale dei detentori di quote. In conclusione, dopo aver richiamato i precedenti giurisprudenziali in materia, l’analisi si sofferma altresì sulla dubbia compatibilità con il principio di libera circolazione dei capitali della disciplina italiana. The essay discusses a recent judgment of the Court of Justice of the European Union (C-156/17, Ka Deka), on the differences in the tax treatment of undertakings for collective investment in transferable securities (UCITS) by Member States, both resident and non-resident, in relation to national dividends. The Court of Justice considered contrary to the principle of free movement of capital a regime such as the Dutch one, for providing under extremely strict conditions the repayment of withholding tax on dividends to non-res-


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ident UCITS. After recalling the relevant case law, the analysis focuses in particular on the doubtful compatibility of the Italian legislation with the principle of free movement of capital.

1. Introduzione. – Con la sentenza del 30 gennaio 2020, Ka Deka, causa C-156/17, la Corte di giustizia dell’Unione europea è tornata a pronunciarsi - a breve distanza dal recente intervento sul caso Fidelity Funds (1), sulle diversità del trattamento fiscale riservato dagli Stati membri agli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (di seguito, anche OICVM) (2), residenti e non residenti, in relazione ai dividendi di fonte domestica. Il tema non è nuovo ed è stato, anzi, oggetto di alcune importanti pronunce della Corte, a partire dal leading case Aberdeen (3). La sentenza in questione, però, si segnala per alcuni tratti peculiari. Diversamente dai precedenti in materia, infatti, in questo caso la disparità di trattamento rilevata dai giudici europei non trova fondamento nello status di residente o non residente dell’organismo di investimento, quanto piuttosto nella particolare configurazione della normativa nazionale, che subordina la concessione di uno specifico regime fiscale di vantaggio al verificarsi di alcune condizioni, senza prevederne l’estensione a situazioni sostanzialmente analoghe, proprie di altri ordinamenti nazionali. Ciò ha imposto, come si vedrà, un esame della comparabilità delle

(1) Corte di Giustizia, sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, causa C-480/16. (2) Come noto, la disciplina degli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) è contenuta, a livello europeo, nella Direttiva del Consiglio 2009/65/CE del 13 luglio 2009 (Direttiva UCITS IV), che ha sostituito la precedente Direttiva 85/611/CEE del 20 dicembre 1985. Per un inquadramento generale del regime impositivo applicabile agli organismi collettivi, si veda per tutti G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, Milano, 2012, 515 ss. (3) Cfr. la sentenza del 18 giugno 2009, Aberdeen, causa C-303-07, a proposito della quale P. Stizza, La sentenza Aberdeen e la discriminazione nella tassazione di dividendi in uscita a favore di fondi di investimento immobiliare esteri: i riflessi sulla legislazione tributaria italiana, in Strumenti finanziari e fiscalità, n. 1/2010; e, sempre in relazione ai pagamenti di dividendi a organismi di investimento esteri (anche stabiliti al di fuori dell’Unione Europea), le sentenze del 10 maggio 2012, Santander Asset Management, causa C-338/11; del 10 aprile 2014, Emerging Markets, causa C-190/12; del 6 ottobre 2011, Commissione/Portogallo, causa C-493/09; del 25 ottobre 2012, Commissione/Belgio, causa C-387/11; del 8 novembre 2012, Commissione/Finlandia, causa C-342710; del 22 novembre 2012, Commissione/Germania, causa C-600/10, fino alla già citata pronuncia del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, causa C-480/16.


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fattispecie dedotte in giudizio che avesse riguardo non soltanto alla situazione degli OICVM – residenti e non residenti – ma che interessasse altresì la situazione dei loro azionisti (4). La Corte di giustizia è dunque intervenuta su un’ipotesi di restrizione all’esercizio di una libertà comunitaria e ne ha all’uopo definito le caratteristiche, individuandone i confini e illustrando il procedimento da seguire per determinarla nel singolo caso concreto. Il tutto avendo riguardo alla necessità di garantire il coordinamento e il bilanciamento della potestà impositiva degli Stati membri rispetto alle libertà fondamentali previste dal Trattato (5), in una prospettiva che, come si vedrà, offre interessanti spunti di riflessione per analizzare la compatibilità comunitaria della normativa italiana. 2. I fatti all’origine della controversia: il regime fiscale differenziato olandese alla luce del principio della libera circolazione dei capitali. – In dettaglio, la pronuncia in commento ha ad oggetto la compatibilità con il principio della libera circolazione dei capitali (6), di cui all’art. 63 e ss. del TFUE, della disciplina tributaria olandese applicabile a talune entità – siano esse residenti o non residenti in Olanda – denominate “organismi di investimento collettivo a carattere fiscale” (OICF). Il regime fiscale previsto per gli OICF persegue essenzialmente l’obiettivo di assimilare, ai fini dell’imposizione nei Paesi Bassi, i titolari di azioni o di

(4) Come meglio si vedrà, questo profilo era già emerso nel precedente caso Fidelity Funds, nel quale tuttavia la Corte aveva incentrato la propria decisione essenzialmente sulla verifica della sussistenza delle cause di giustificazione addotte dai governi interessati. Nella sentenza che qui si commenta, invece, la situazione dei partecipanti agli organismi collettivi di investimento assurge ad elemento qualificante della fattispecie e diviene a tutti gli effetti elemento centrale ai fini della decisione. (5) In argomento, si vedano G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto tra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008, 135 ss.; Id., Balancing the Fundamental Freedoms and Tax Sovereignity: Some Thoughts on Recent ECJ Case Law on Direct Taxation, in European Taxation, 2008, 133 ss.; A. Cordewener - G. Kofler - S. Van Thiel, The clash between European freedoms and national direct tax law: Public interest defences available to the member states, in Common Market Law Review, 2009, 1951 ss.; B.J.M. Terra - P.J. Wattel, European Tax Law, Kluwer Law International, 2012, 53 ss.; P. Pistone, Diritto tributario europeo, Torino, 2018, 118 ss. (6) A proposito del quale, si veda M. Sedlazcek, Capital and payments: the prohibition of discriminations and restrictions, in European Taxation, 2000, 17 ss.; A.E. La Scala, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla costituzione dell’Unione europea, Milano, 2005, 115 ss.; M. Lang, Recent Case Law of the ECJ in Direct Taxation: Trends, Tensions and Contraditions, in EC Tax Review, 2009, 98 ss.; G. Bizioli, I principi di non discriminazione


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partecipazioni di un organismo di investimento collettivo alle persone fisiche che effettuano investimenti diretti in società di capitali (7). In linea con tale finalità, il baricentro impositivo viene dirottato a valle, dall’organismo collettivo verso l’azionista. Per prevenire rischi di doppia imposizione, poi, la normativa nazionale olandese prevede anzitutto che gli OICF siano assoggettati ad un’aliquota di imposta sulle società pari a zero e, in secondo luogo, che abbiano diritto al rimborso della ritenuta operata sui dividendi corrisposti da società residenti in Olanda (8). Per poter accedere a tale regime, peraltro, gli organismi in questione sono tenuti a rispettare alcune condizioni: - in primo luogo, devono distribuire agli investitori tutti gli utili percepiti (sia i dividendi, che altri tipi di utili) entro un determinato termine dalla chiusura dell’esercizio, termine che all’epoca dei fatti di causa era stabilito in otto mesi; - in occasione della distribuzione di tali proventi, inoltre, gli OICF hanno l’obbligo di trattenere l’imposta olandese sui dividendi. Tale prelievo si sostituisce all’imposta domestica sui dividendi, trattenuta a carico degli OICF e successivamente rimborsata a questi: in tal modo, in sostanza, l’investimento mediante OICF non risulta più vantaggioso di un investimento diretto in società di capitali; - essi sono tenuti, infine, a rispettare alcuni vincoli di composizione relativi alla compagine degli investitori, congegnati in modo tale da assicurare un’elevata diffusione delle quote sul mercato dei capitali. La disciplina in questione si è evoluta nel tempo: se fino al 2006, le condizioni erano differenziate tra organismi quotati e non quotati presso la Borsa di Amsterdam, dal 2007

fiscale in ambito europeo e internazionale, in AA. VV., Principi di diritto tributario europeo e internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2016, 107 ss.; S. Dorigo, Il diritto tributario nell’Unione Europea, in Diritto tributario internazionale. Istituzioni, a cura di R. Cordeiro Guerra, Milano, 2016, 200 ss.; P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2017, 159 ss.; P. Pistone, Diritto tributario europeo, cit., 134 ss. (7) Il regime giuridico e la correlata disciplina fiscale applicabile agli OICF nel diritto olandese sono delineati, essenzialmente, dall’art. 28 della Wet op de vennootschapsbelasting 1969 (legge del 1969 sull’imposta sulle società), disposizione che ha subito modifiche sostanziali nel 2007, e dall’art. 10, paragrafo 2, della Wet op dividendbelasting (legge relativa all’imposta sui dividendi). (8) Al riguardo, cfr. la sentenza del 20 maggio 2008, Orange European Smallcap Fund, causa C-194/06, nella quale la Corte di Giustizia aveva già avuto modo di occuparsi della compatibilità comunitaria di taluni aspetti del regime OICF, nella versione allora vigente.


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risulta decisiva la circostanza che le azioni siano quotate presso un mercato regolamentato di strumenti finanziari (9). Per quanto articolato in una serie di passaggi – e, come si è visto, subordinato alla presenza di alcune rigorose condizioni – il meccanismo è dunque perfettamente funzionale allo scopo perseguito dall’ordinamento nazionale: da un lato, si riconosce all’organismo collettivo di investimento il diritto al rimborso dell’imposta trattenuta sui dividendi percepiti; dall’altro, sull’organismo incombe un obbligo di redistribuzione immediata ai propri partecipanti degli utili percepiti, con contestuale applicazione nei loro confronti di una ritenuta a titolo di imposta. Tanto ricordato, le questioni pregiudiziali esaminate dalla Corte nella fattispecie in oggetto sono state sollevate nel quadro di una controversia sorta tra un organismo di investimento collettivo in valori mobiliari stabilito in Germania e le autorità fiscali dei Paesi Bassi, riguardo al rigetto delle domande di rimborso dell’imposta sui dividendi trattenuta a carico dell’organismo sui proventi di azioni di società stabilite in Olanda (10). In particolare, il giudizio si è concentrato sulla compatibilità con l’art. 63 TFUE delle condizioni richieste dalla normativa olandese per poter accedere al regime fiscale OICF, cui è subordinato il riconoscimento del rimborso della ritenuta sui dividendi. Da un lato, si tratta dei requisiti relativi all’azionariato dell’OICVM che aspira a beneficiare di tale regime fiscale. Dall’altro, dell’ob-

(9) Più precisamente, per gli organismi di investimento collettivo con azioni o partecipazioni quotate presso la Borsa di Amsterdam, il regime OICF non trovava applicazione se il 45% o più delle azioni o partecipazioni erano detenute da un’entità soggetta all’imposta sulle società, oppure se una persona fisica deteneva nell’organismo stesso, da sola, una partecipazione pari o superiore al 25%. Per contro, gli organismi le cui azioni o partecipazioni non fossero quotate presso la Borsa di Amsterdam, potevano beneficiare del regime OICF a condizione che almeno il 75% delle loro azioni o partecipazioni fosse detenuto da persone fisiche, entità non soggette ad imposizione sugli utili, quali fondi pensione ed organizzazioni di beneficienza, o altri OICF: in questo secondo caso, inoltre, non era consentito l’accesso al regime OICF se una o più persone fisiche detenevano una partecipazione significativa all’organismo, ovvero almeno il 5% delle azioni o partecipazioni. A seguito delle modifiche legislative introdotte nel 2007, peraltro, la distinzione tra organismi quotati presso la Borsa di Amsterdam ed altri organismi è venuta meno. Risulta dalla decisione di rinvio che ciò che è, ormai, decisivo per l’accesso ai benefici OICF, è che le azioni o partecipazioni siano ammesse alla negoziazione su un qualsiasi mercato degli strumenti finanziari come previsto dalla legge domestica sulla sorveglianza finanziaria e che il fondo o il suo gestore disponga di un’autorizzazione ai sensi della medesima disciplina. (10) Cfr. Corte di giustizia, sentenza del 30 gennaio 2020, Ka Deka, causa C-156/17, punti 16-17.


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bligo di redistribuire ai partecipanti gli utili percepiti, e delle modalità richieste per la redistribuzione. Ripercorrendo brevemente il contesto fattuale, risulta dunque che il ricorrente del procedimento principale è un OICVM stabilito in Germania (“KA Deka”), le cui azioni sono quotate presso la Borsa tedesca, ma la loro negoziazione avviene mediante un sistema denominato global stream system, il quale non consente a tale organismo di conoscere l’identità dei propri investitori. Esso ha effettuato investimenti in società stabilite nei Paesi Bassi, dalle quali, nel corso del periodo compreso tra il 2002 e il 2008, ha percepito dividendi. Tali utili sono stati tassati alla fonte a titolo di imposta nella misura del 15%, così come previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Germania e Olanda (11). Non essendo assoggettato nei Paesi Bassi ad alcun obbligo di procedere alla ritenuta dell’imposta olandese sui dividendi, in occasione della distribuzione degli utili ai propri partecipanti l’OICVM tedesco non ha operato alcun prelievo fiscale. Alla luce del regime fiscale previsto per gli OICF, KA Deka ha richiesto alle autorità fiscali olandesi il rimborso delle ritenute alla fonte applicate a titolo dell’imposta olandese sui dividendi negli esercizi di riferimento, ma l’istanza è stata rigettata dall’amministrazione finanziaria dei Paesi Bassi, sulla base del presupposto che il contribuente non aveva fornito alcuna dimostrazione in merito alla composizione del proprio azionariato e non aveva dato corso ad alcuna distribuzione effettiva di utili ai propri partecipanti (12). Avverso il rigetto, Ka Deka ha quindi proposto ricorso innanzi al Tribunale olandese di Zeeland-West Brabant, ritenendo che il diritto di ottenere i rimborsi richiesti discenda direttamente dall’art. 63 TFUE, in quanto la situazione in cui si trova ad operare è oggettivamente comparabile a quella di un fondo di investimento stabilito nei Paesi Bassi beneficiante dello status di OICF. A corredo della richiesta, inoltre, l’organismo di investimento ha motivato ulteriormente il proprio diritto al rimborso facendo leva sulla disciplina tributaria tedesca, per la quale gli OICVM, in aggiunta ai proventi effettivamente corrisposti agli investitori, sono altresì tenuti a determinare un importo presuntivo

(11) Ai sensi dell’art. 13 della Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa il 16 giugno tra la Repubblica Federale di Germania e i Paesi Bassi, come modificata da ultimo dal terzo protocollo addizionale del 4 giugno 2004. (12) Cfr. Corte di giustizia, sentenza del 30 gennaio 2020, Ka Deka, causa C-156/17, punti 19-20.


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che si considera in ogni caso distribuito e concorre alla formazione del reddito imponibile degli azionisti (13). Così ricostruito il contesto fattuale ed il quadro giuridico nazionale di riferimento, il giudice del rinvio ha posto all’attenzione della CGUE tre questioni in merito alla compatibilità del regime olandese degli OICF con il principio della libera circolazione dei capitali, qui di seguito sinteticamente riportate. La prima questione mira a verificare se l’art. 63 TFUE osti a che ad un fondo d’investimento stabilito al di fuori dei Paesi Bassi non venga concesso il rimborso dell’imposta olandese sui dividendi, trattenuta sugli utili ad esso versati da enti stabiliti in Olanda, per il motivo che esso non opera come sostituto d’imposta ai fini dell’imposta olandese, mentre tale rimborso è concesso ad un OICF stabilito nei Paesi Bassi. La seconda questione ha ad oggetto la compatibilità comunitaria della disciplina fiscale olandese, laddove questa non accorda il rimborso della ritenuta sui dividendi di fonte domestica agli organismi esteri, i quali non dimostrino di rispettare determinati vincoli nella composizione del proprio azionariato, previsti dalla disciplina degli OICF. La terza questione, infine, si riferisce sempre al mancato rimborso della ritenuta sui dividendi all’OICVM estero, in ragione del fatto che il fondo non ha soddisfatto l’obbligo di distribuire integralmente ai suoi partecipanti il risultato di gestione. Ciò anche se, in virtù di una specifica finzione giuridica prevista dalla normativa dello Stato di residenza del fondo, tali utili siano considerati comunque come distribuiti e siano tassati in capo agli investitori in aggiunta alla quota parte dei proventi realmente corrisposti.

(13) Si veda, per approfondimenti, A. Privitera - M. Nardini, La sentenza KA Deka e la discriminazione subita dagli OICR esteri in relazione ai dividendi di fonte italiana, in Diritto bancario, marzo 2020; M. Fanti Rovetta, Organismi di investimento collettivo e libera circolazione dei capitali: la Corte di Giustizia individua una nuova incompatibilità, in Strumenti finanziari e fiscalità, n. 46/2020, 98-99.


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3. Il principio della libera circolazione dei capitali: restrizioni e possibili cause di giustificazione. – Prima di indirizzare l’analisi alle questioni pregiudiziali su cui è intervenuta la Corte, pare opportuno richiamare, sia pur brevemente, le coordinate sistematiche ed i principali orientamenti giurisprudenziali in materia di libera circolazione dei capitali, con particolare riferimento all’imposizione dei dividendi (14), su cui poggia la ricostruzione qui operata dai giudici del Lussemburgo. In materia di libertà fondamentali, anzitutto, si deve ricordare che, anche al di là delle discriminazioni direttamente connesse allo status (di cittadino, o di residente) del contribuente, la Corte ha da sempre adottato un approccio estremamente ampio, volto a prevenire e ad eliminare qualsiasi disparità di trattamento, ancorché indiretta o occulta (15). In questo senso, anche i trattamenti differenziati che si fondano su criteri oggettivi – quali, ad esempio, le

(14) D’altra parte, come è noto, uno dei settori più significativi in cui viene in evidenza il rapporto tra fisco e libertà fondamentali è rappresentato proprio dalla tassazione dei dividendi. Emblematicamente, ad esempio, nel caso Denkavit International BV (Corte di giustizia, sentenza del 14 dicembre 2006, causa C-170/05, in Rass. trib., 2007, 629 ss., con commento di F. Bulgarelli, Imposizione nazionale di utili infracomunitari e compatibilità dei regimi convenzionali e comunitari) e nel successivo Amurta (Corte di giustizia, sentenza dell’8 novembre 2007, causa C-379/05, in Rass. trib., 2007, 1898, con commento di G. D’angelo, La Corte di Giustizia conferma: le ritenute sui dividendi in uscita sono incompatibili con la libera circolazione dei capitali), la Corte di giustizia afferma che i dividendi distribuiti a società non residenti non possono subire un’imposizione superiore a quella dei dividendi distribuiti a società residenti e che, di conseguenza, l’applicazione di una ritenuta alla fonte superiore all’effettiva tassazione interna degli utili societari costituisce una discriminazione contraria al Trattato (per approfondimenti ulteriori, si veda M. Lang, ECJ case law on crossborder dividend taxation – recent developments, in EC Tax review, 2008, 67 ss.; P. PISTONE, Taxation of Cross-border Dividends in Europe: Building up Worldwide Tax Consistency, in Tax Law Review, 2009, 201; J. Englisch, Taxation of Cross-Border Dividends and EC Fundamental Freedoms, in Intertax, 2010, 197 ss. Una medesima conclusione, peraltro, è stata adottata anche in relazione alla distribuzione di dividendi a persone fisiche non residenti. La Corte, infatti, utilizzando il medesimo criterio interpretativo, ha affermato che “affinché i contribuenti beneficiari non residenti non si trovino di fronte ad una limitazione della libera circolazione dei capitali, vietata, in linea di principio, dall’art. 63 TFUE, lo Stato membro di residenza della società distributrice deve vigilare affinché, in relazione alla procedura prevista dal suo diritto nazionale allo scopo di prevenire o di attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione economica, i contribuenti non residenti siano assoggettati ad un trattamento equivalente a quello di cui beneficiano i contribuenti residenti” (Corte di giustizia, sentenza 17 settembre 2015, Miljoen e a. v. Staatssecretaris van Financien, cause riunite C-10/14, C-14/14 e C-17/14). (15) In termini generali, sulle libertà fondamentali come espressione di un divieto di discriminazione, o di un divieto di restrizione discriminatorio, si veda per tutti G. Bizioli, I principi di non discriminazione fiscale in ambito europeo ed internazionale, cit., specie 104 ss.


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condizioni di accesso ad un determinato regime tributario - possono, di fatto, sfavorire le situazioni transfrontaliere e introdurre restrizioni all’esercizio delle libertà fondamentali protette dal diritto dell’Unione (16). Per ciò che riguarda, nello specifico, la libertà di capitali, essa si esprime attraverso una molteplicità di forme, che possono comunque essere ricondotte nell’alveo di due principali categorie di fattispecie: la libertà di investire i capitali per conseguire un ritorno economico (libertà riguardata dal punto di vista del soggetto “investitore”); la libertà di raccogliere capitali per lo svolgimento di attività economiche e di impresa (libertà riguardata dal punto di vista del “percettore”) (17). In entrambi i casi, per l’art. 63 TFUE, le norme nazionali non possono limitare la libertà di circolazione dei capitali con misure restrittive, divieto che vale soprattutto per le disposizioni tributarie dei singoli Stati membri, le quali non possono essere configurate in modo tale da determinare uno svantaggio o un fattore dissuasivo per i soggetti non residenti rispetto alla movimentazione dei capitali. Diversamente da quanto si può osservare in relazione, ad esempio, alla libera circolazione dei servizi, è interessante notare come la protezione offerta dal Trattato ai movimenti di capitali e pagamenti presenti carattere oggettivo. Essa si applica cioè direttamente a tali movimenti, che non sono tutelati in funzione di chi possiede o movimenta il capitale, ma in virtù della loro con-

(16) In materia di libertà di prestazione dei servizi, ad esempio, la Corte ha ripetutamente dichiarato che anche una normativa nazionale che sia indiscriminatamente applicabile a tutti i servizi, a prescindere dal luogo di residenza del prestatore, è idonea a costituire una restrizione alla libera prestazione dei servizi laddove riservi la previsione di un trattamento più favorevole ai soli utilizzatori che soddisfano talune condizioni le quali, di fatto, sono proprie esclusivamente del mercato nazionale, privando così gli utilizzatori di altri servizi sostanzialmente simili, ma che non integrano i requisiti particolari previsti dal contesto normativo nazionale, del beneficio di accedere a tale vantaggio. una simile normativa interessa la situazione degli utilizzatori di servizi in quanto tale ed è quindi idonea a dissuaderli dall’utilizzare quelli di alcuni prestatori, dato che i servizi da questi ultimi proposti non soddisfano le condizioni prescritte dalla medesima normativa, in tal modo condizionando l’accesso al mercato (si veda in tal senso, in materia di libertà di stabilimento, la sentenza del 5 febbraio 2014, Hervis Sport, causa C-385 e, in materia di libertà di prestazione dei servizi, la sentenza dell’8 giugno 2017, Van der Weegen e Pot, causa C-580/15. (17) L’attenzione comunitaria sembra peraltro rivolgersi prevalentemente alla seconda delle due fattispecie menzionate, stante il nesso strumentale con la libertà di impresa e dunque con la piena attuazione dell’obiettivo ultimo della libera concorrenza sul mercato comune. A tale proposito, si è rilevato che la libertà di circolazione dei capitali tende sovente a sovrapporsi, o comunque a combinarsi, con la libertà di stabilimento delle imprese (in questo senso, P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 159-160).


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nessione obiettiva con il capitale medesimo: la dimensione oggettiva della protezione offerta alla circolazione del capitale rende quindi superfluo l’accertamento di ogni aspetto inerente al profilo soggettivo e previene ogni possibile differenza nel trattamento dei capitali, contribuendo a rafforzare la liberalizzazione effettiva dei loro movimenti (18). Per ciò che riguarda, nello specifico, l’indagine volta a determinare se una normativa nazionale integri o meno una restrizione alla libera circolazione dei capitali, la giurisprudenza della Corte di giustizia muove da un assunto necessario, ossia che gli Stati membri devono esercitare la propria competenza in materia di fiscalità diretta nel rispetto del diritto dell’Unione e, in particolare, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato (19). In particolare, i giudici europei hanno costantemente affermato che le misure vietate dall’art. 63, par. 1, TFUE, in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, comprendono sia quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dall’effettuare investimenti in uno Stato membro, sia quelle che, specularmente, possono dissuadere i residenti di quello Stato membro dal farne in altri Stati (20). Nella cornice sistematica tratteggiata da questi riferimenti essenziali, allora, una normativa nazionale che pure sia indistintamente applicabile a entità residenti e non residenti – e che quindi non introduca alcuna differenziazione

(18) Per effetto di questo approccio tipicamente oggettivo alla problematica in questione, la protezione della libera circolazione dei capitali è stata offerta dalla Corte di giustizia europea anche in relazione a movimenti di capitali che riguardavano soggetti privi della cittadinanza europea (Corte di giustizia, sentenza del 5 maggio 2011, Prunus, causa C-384/09). In argomento, si veda A. Dourado, The EU Free Movement of Capital and Third Countries: Recent Developments, in Intertax, III, 2017, 192 ss.; P. Pistone, Diritto tributario europeo, Torino, 2018, 135. (19) L’assunto è ovviamente centrale nella giurisprudenza della Corte. Tra le più recenti pronunce in cui il tema è stato ripreso dai giudici europei, si vedano le sentenze del 23 febbraio 2016, Commissione/Ungheria, causa C-179/14; del 2 marzo 2017, Eschenbrenner, causa C-496/15; del 25 luglio 2018, TTL, causa C-553/16. Per l’evoluzione del concetto nella giurisprudenza europea, si veda J. Wouters, The principle on non-discrimination in European Community law, in EC Tax Rev., II, 1999, 102 ss.; R. SEER, Le fonti del diritto comunitario ed il loro effetto sul diritto tributario, in AA. VV., Per una Costituzione fiscale europea, a cura di A. Di Pietro, Padova, 2008, 32 ss. (20) Cfr. la sentenza del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., cause riunite da C-338/11 a C-347/11, specie al punto 15, nonché, da ultimo, le precisazioni contenute nella già citata pronuncia Fidelity Funds, specie ai punti 40-45. Su quest’ultima, in particolare, G. MEUSSEN, The Fidelity case: changing perspectives of the European Court of Justice on UCITS, cit., 165 ss.; A. Fidelangeli, La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri, in Riv. dir. trib., 2019, IV, 81 ss.


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esplicita in virtù della nazionalità o della residenza dei soggetti interessati - può comunque essere idonea a costituire una restrizione alla libera circolazione dei capitali, laddove riservi il beneficio di un trattamento fiscale privilegiato alle sole entità che soddisfano talune condizioni specifiche, proprie del mercato nazionale. In tal modo viene infatti a delinearsi un meccanismo dissimulato e indiretto di discriminazione, che può, di fatto, escludere dal perimetro di applicazione di un determinato vantaggio fiscale le entità stabilite in un diverso Stato membro, le quali non siano in grado di soddisfare, o non soddisfino pienamente le condizioni particolari previste da tale ordinamento nazionale (21). Ed è in tale contesto che si inserisce la questione – che nel caso di specie assume un rilievo centrale - se, per accertare una restrizione alle libertà fondamentali in presenza di requisiti oggettivi applicabili indistintamente a soggetti residenti e non residenti ma che, di fatto, danno luogo a una restrizione indiretta, sia necessaria l’impossibilità assoluta per i soggetti non residenti di soddisfare tali requisiti, o se, invece, sia sufficiente che, per essi, soddisfarli sia meramente più gravoso (22). Al riguardo, l’analisi della giurisprudenza pertinente mostra che la Corte ha, in diversi casi, constatato la sussistenza di una restrizione alle libertà fondamentali senza che si configurasse una situazione di impossibilità assoluta per i soggetti non residenti di soddisfare le condizioni previste dalla normativa

(21) Al riguardo, si veda la sentenza della Corte di giustizia del 10 novembre 2011, Commissione/Portogallo, causa C-212/09, proprio in materia di libera circolazione dei capitali, nonché la successiva pronuncia dell’8 giugno 2017, Van der Weegen e Pot, causa C-580/15, sopra citata. Per riferimenti ulteriori, si rinvia altresì alle Conclusioni presentate dall’Avvocato generale Giovanni Pitruzzella in relazione al caso Ka-Deka, segnatamente ai punti 42-46. (22) Come detto, tale questione assume un interesse decisivo ai fini della pronuncia in commento e, in corso di causa, su tale profilo si sono contrapposte due tesi. Da un lato, il governo tedesco ha sostenuto che la questione non è stata ancora chiarita in modo definitivo dalla giurisprudenza e che una restrizione delle libertà fondamentali in materia fiscale può configurarsi unicamente allorché per i soggetti non residenti risulti radicalmente impossibile soddisfare le condizioni previste nella normativa nazionale. Una soluzione contraria finirebbe, stando a questa prospettazione, per intaccare l’autonomia fiscale degli Stati membri riconosciuta dal Trattato. Dall’altro lato, la Commissione ha sostenuto la tesi contraria, secondo cui l’esistenza di una situazione di impossibilità assoluta in capo ai soggetti non residenti non sarebbe necessaria per riscontrare una restrizione alle libertà fondamentali. A tal fine sarebbe, invece, sufficiente che per tali soggetti sia più gravoso soddisfare i requisiti previsti dalla normativa nazionale. Sul punto, si vedano diffusamente le Conclusioni dell’Avvocato generale Pitruzzella, specie il punto 51.


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nazionale, anche in materia fiscale (23). Tale orientamento, peraltro, rivela altresì che la Corte non ha ritenuto che una semplice maggiore difficoltà in capo ai soggetti non residenti di soddisfare i requisiti indistintamente applicabili previsti dalla normativa nazionale fosse sufficiente per integrare una restrizione alle libertà fondamentali. Coerentemente con la nozione di restrizione, in questi casi il livello di difficoltà deve essere tale da dissuadere l’esercizio di tali libertà. La necessità di rispettare le libertà fondamentali garantite dal Trattato implica allora che quando gli Stati membri determinano, nell’esercizio della loro autonomia fiscale, i presupposti per poter beneficiare di un regime fiscale privilegiato, non possono prevedere requisiti tali che per i soggetti non residenti risulti impossibile o eccessivamente oneroso soddisfarli. In casi del genere, peraltro, incomberà al soggetto non residente dimostrare dinanzi alle autorità fiscali dello Stato membro in questione tanto la sua situazione di impossibilità o eccessiva difficoltà nel soddisfare i requisiti previsti dalla normativa nazionale, quanto la sostanziale soddisfazione di tali requisiti in applicazione del diritto nazionale del proprio Stato membro di residenza o stabilimento. Da ultimo, occorre ricordare che il diverso trattamento fiscale in ragione della nazionalità o della residenza, di per sé vietato dalle libertà fondamentali, può trovare una giustificazione. Nella struttura del giudizio della Corte di giustizia sulle libertà fondamentali, l’accertamento di una possibile causa di giustificazione costituisce di norma l’ultima valutazione (24).

(23) Così, per esempio, nel caso van Caster (sentenza del 9 ottobre 2014, causa C-326/12, punto n. 46), i giudici europei hanno riconosciuto l’esistenza di una restrizione alla libera circolazione dei capitali in una fattispecie in cui non esisteva una situazione di impossibilità radicale per i fondi non residenti di conformarsi agli obblighi previsti dalla normativa fiscale nazionale. Allo stesso modo, nel successivo caso Van der Weegen e Pot, (sentenza dell’8 giugno 2017, causa C-580/15, già citata, specie i punti nn. 31-35), la Corte ha riconosciuto la sussistenza di una restrizione alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell’articolo 56 TFUE, benché non fosse impossibile per gli istituti di credito stranieri soddisfare le condizioni previste dalla normativa belga per beneficiare del regime di esenzione fiscale in causa. (24) L’applicazione delle libertà fondamentali da parte della Corte di giustizia in materia tributaria segue in effetti modalità sostanzialmente omogenee, indipendentemente dalla libertà di volta in volta applicabile. In primo luogo, la Corte verifica la situazione giuridica soggettiva del contribuente che chiede la protezione del diritto dell’Unione europea in relazione alle libertà fondamentali (ambito soggettivo). Una volta accertata tale situazione, la Corte passa a verificare se la fattispecie concreta rilevi ai fini dell’applicazione delle libertà fondamentali in ragione del loro esercizio (ambito oggettivo). Il passaggio successivo è quello relativo all’applicazione del principio di non discriminazione e consiste nella ricerca del tertium comparationis necessario all’applicazione del trattamento nazionale e nel collegamento di un eventuale


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Il TFUE prevede alcune cause di giustificazione all’esercizio delle libertà fondamentali (artt. 36, 45, par. 3 e 4, 51 e 52, par. 1, 62 e 65, par. 1), le quali, tuttavia – ad eccezione dell’ultima, che si riferisce proprio alla libera circolazione dei capitali – hanno una limitata rilevanza in materia tributaria, trattandosi per lo più di giustificazioni di carattere generale, attinenti alla sicurezza e all’ordine pubblico, alla salute e alla protezione dell’ambiente, ecc. La libertà di circolazione dei capitali costituisce dunque l’unica delle libertà comunitarie per le quali è ammessa in materia fiscale una causa di giustificazione specifica, prevista direttamente dal Trattato. Più precisamente, a norma dell’articolo 65, par. 1, lett. a), TFUE, gli Stati membri possono operare nella legislazione interna una distinzione tra contribuenti che non si trovano nella medesima situazione in ragione della propria residenza o del luogo di allocazione del capitale. Gli Stati membri, inoltre, possono adottare regole procedurali specifiche, suscettibili di introdurre vincoli o limitazioni rispetto alla libertà dei capitali [art. 65, par. 1, lett. b)], purché siano funzionali: a) a prendere le misure necessarie per impedire violazioni della normativa fiscale e di controllo delle istituzioni finanziarie; b) stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitale a scopo di informazione amministrativa o statistica; c) adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza (25). In ogni caso, al di là delle deroghe espressamente previste da specifiche disposizioni del Trattato, la giurisprudenza comunitaria ha elaborato, a partire dalla sentenza Cassis de Dijon (26), un autonomo sistema di cause di giusti-

trattamento meno favorevole alla diversa nazionalità della fattispecie concreta (verifica della sussistenza della restrizione o discriminazione). Infine, la Corte verifica se sussistano ragioni meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea in grado di giustificare la violazione posta in essere dallo Stato membro nell’esercizio della propria potestà impositiva. Cfr. P. PISTONE, Diritto tributario europeo, cit., 154 ss. (25) Dal momento che la disposizione appena ricordata costituisce una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, peraltro, risulta dalla giurisprudenza costante che essa deve essere oggetto di interpretazione restrittiva ed è in ogni caso stabilito che tali misure e procedure non possono costituire un mezzo funzionale ad introdurre forme di discriminazione arbitraria o comunque a generare una restrizione dissimulata rispetto al principio del libero movimento dei capitali e dei pagamenti (art. 65, par. 3, TFUE). In proposito, si veda, da ultimo, la sentenza Fidelity Funds, punti 47 e 48. (26) Come è noto, il leading case in materia è costituito dalla sentenza della Corte di giustizia del 20 febbraio 1979, Cassis de Dijon, causa C-120/78. La Corte era stata chiamata a giudicare la compatibilità con il trattato di una legge tedesca che fissava un contenuto alcolico minimo per commercializzare una bevanda come alcolica e, nel decidere il caso, aveva


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ficazione, dirette a restringere l’esercizio delle libertà fondamentali (c.d. rule of reason) (27). In materia fiscale, anche con specifico riferimento alla libera circolazione dei capitali, la giurisprudenza europea ha accolto, quali cause di giustificazione: la necessità di preservare la coerenza del regime fiscale (28); l’esigenza di contrastare le frodi e l’elusione fiscale (29); la necessità di assicurare il man-

affermato che le disposizioni nazionali che ostacolano l’esercizio delle libertà fondamentali sono ammesse allorché “siano necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori”. (27) La rule of reason costituisce dunque una regola fondamentale di bilanciamento tra gli obiettivi comunitari e l’interesse dei singoli Stati membri e, insieme alle cause di giustificazione espressamente previste dal Trattato, costituisce la principale valvola di sicurezza per le norme tributarie nazionali rispetto all’applicazione delle libertà fondamentali e del divieto di giustificazione. In proposito, si veda G. BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, cit., 179 ss.; G. Melis, Perdite intracomunitarie: imposizione e territorialità, in Rass. trib., 2008, 1491 ss.; ID., Trasferimento della residenza fiscale ed imposizione sui redditi, Milano, 2009, 610 ss.; F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, in AA. VV., Per una Costituzione fiscale europea, cit., 117 ss.; B.J.M Terra - P.J. Wattel, European Tax Law, cit., 58 ss.; S. Dorigo, Residenza fiscale delle società e libertà di stabilimento nell’Unione europea, Padova, 2012, 152 ss.; P. BORIA, Diritto tributario europeo, cit., 135-136.; P. PISTONE, Diritto tributario europeo, cit., 164 ss. (28) Eloquente, in questo senso, quanto affermato dai giudici europei nella pronuncia del 10 maggio 2012, Santander Asset Management SGIIC e a., cause da C-338/11 a C-347/11. L’esigenza di preservare la coerenza dei sistemi fiscali nazionali costituisce peraltro una delle cause di giustificazione più risalenti ammesse dalla Corte di giustizia in materia tributaria e, in proposito, il leading case è costituito dalla sentenza del 28 gennaio 1992, Bachmann, causa C-204/90. Nelle successive sentenze, tale causa di giustificazione è stata invero rivista e, in qualche misura, ridimensionata. In argomento, si veda F. Vanistendael, Cohesion: the phoenix rises from his ashes, in EC Tax Review, 2005, 208 ss.; G. Bizioli, I principi di non discriminazione fiscale in ambito europeo e internazionale, cit., 112 ss.; P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 200 ss. Per un’approfondita analisi della giurisprudenza comunitaria in materia, si veda S. Gianoncelli, La coerenza fiscale e il principio di non discriminazione nella giurisprudenza comunitaria, in Giur. it., 2003, 1963 ss.; Id., I principi UE nella giurisprudenza tributaria della Cassazione: primato del diritto europeo e discriminazioni a rovescio, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 613 ss. (29) Come noto, il contrasto alle pratiche abusive e fraudolente rappresenta una giustificazione fondata su motivi imperativi di interesse generale, che la Corte di giustizia europea ha sviluppato al di fuori della materia tributaria, applicandola in seguito alla stessa in base a modalità sostanzialmente non dissimili da quanto fa in ambito generale. Tra le pronunce più rilevanti, si veda Corte di giustizia, 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes, causa C-196/2004 con i commenti di F. Vanistendael, Halifax and Cadbury Schweppes: One Single European Theory of Abuse in Tax Law?, in EC Tax Review, 2006, 192 ss.; S. Cipollina, Cfc legislation


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tenimento della ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati membri (30); l’opportunità di garantire l’efficacia dei controlli tributari (31); nonché l’esistenza di norme professionali intese a tutelare i destinatari di un servizio, la buona reputazione del settore finanziario e la tutela dei consumatori (32). Come si è affermato efficacemente in dottrina, questi orientamenti giurisprudenziali sono accomunati dalla progressiva formazione, a livello europeo, di un interesse fiscale che tende a sovrapporsi, quale causa di giustificazione, alle libertà fondamentali. In questi casi, la tecnica utilizzata dalla Corte di giustizia consiste essenzialmente nell’operare un bilanciamento fra interessi diversi: su un piatto della bilancia le libertà fondamentali ed il mercato interno, sull’altro l’interesse comune o dei singoli Stati membri al corretto funzionamento e all’efficacia del sistema dell’imposizione diretta (33). Si aggiunga infine che, nella cornice sistematica sin qui delineata, le misure nazionali devono soddisfare altresì il principio di proporzionalità, ossia non eccedere gli obiettivi che intendono perseguire. Una normativa nazionale che comporta una restrizione alle libertà fondamentali può, dunque, essere giustificata dal perseguimento di un obiettivo rilevante, ma è ugualmente incompatibile con il diritto dell’Unione se appare sproporzionata rispetto allo scopo che si intende raggiungere e se possono essere adottate misure meno restrittive delle libertà fondamentali (34).

e abuso della libertà di stabilimento: il caso Cadbury Schweppes, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2007, II, 14 ss. M. Beghin, La sentenza Cadbury Schweppes e il malleabile principio della libertà di stabilimento, in Rass. trib., 2007, 983 ss. (30) Tra le tante, si veda la sentenza del 10 aprile 2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, causa C-190/12. In argomento, cfr. M. R. Sidoti, European Freedom of movement and income taxation: the use of the rule of reason in the assessment of the compatibility of the grounds for justification of tax discrimination, in Riv. dir. trib. int., n. 1/2018, 124 ss. (31) Al riguardo, è indicativa la già citata sentenza del 9 ottobre 2014, van Caster, causa C-326/12. (32) Da ultimo, per questo profilo, la pronuncia del 14 febbraio 2019, Milivojević, causa C-630/17. (33) In argomento, per tutti, G. Bizioli, I principi di non discriminazione fiscale in ambito europeo e internazionale, cit., 114. (34) Esemplare, in proposito, la sentenza del 15 maggio 1997, Futura, causa C-250/95, in Riv. dir. trib., II, 17 ss., con commento di G. MELIS, Stabili organizzazioni, obblighi contabili e riporto delle perdite: un’occasione perduta. In termini generali, sulla rilevanza del principio di proporzionalità nel diritto comunitario, M. C. Ciciriello, Il principio di proporzionalità nel diritto comunitario, Napoli, 1999, passim; G. Scaccia, Il principio di proporzionalità, in AA.


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4. Il ritiro della prima questione pregiudiziale e il precedente della sentenza Fidelity Funds, causa C-480/16. – Alla luce delle coordinate sistematiche e dei principi giurisprudenziali sin qui sinteticamente richiamati, è ora possibile volgere lo sguardo alle questioni pregiudiziali che nel caso di specie il giudice del rinvio ha posto all’attenzione della Corte di giustizia. La prima delle questioni prospettate, invero, è stata ritirata in corso di causa a seguito dell’emanazione della sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, causa C-480/16, attinente alla disciplina fiscale danese che, analogamente a quella olandese sugli OICF, prevedeva, a determinate condizioni, l’esenzione degli organismi residenti dalla ritenuta sui dividendi di fonte domestica, negando invece l’esenzione agli organismi esteri (35). Più precisamente, la legislazione tributaria danese prevedeva, da un lato, l’applicazione della ritenuta alla fonte sui dividendi erogati da società danesi ad OICVM esteri e, dall’altro, un regime di esenzione dal tributo per gli OICVM danesi a condizione che questi ultimi, alternativamente: a) effettuassero, a favore dei partecipanti al fondo, una distribuzione annua minima di utili, a fronte della quale applicare la ritenuta alla fonte; b) calcolassero una soglia minima di distribuzione di dividendi sulla quale operare la ritenuta alla fonte, sempre a carico dei partecipanti al fondo (36).

VV., L’ordinamento europeo. Tomo II. L’esercizio delle competenze, a cura di S. Mangiameli, Milano, 2006, 225 ss. Con riferimento specifico al ruolo del principio di proporzionalità nel diritto tributario europeo, F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, cit., 104 ss.; A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’IVA europea, Pisa, 2012, specie 61 ss. (35) La domanda pregiudiziale relativa alla fattispecie in esame era stata presentata nell’ambito di una serie di controversie pendenti tra alcuni organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, aventi sede nel Regno Unito e in Lussemburgo, e l’amministrazione fiscale danese, in merito a richieste di rimborso aventi ad oggetto le ritenute alla fonte operate sui dividendi che erano stati loro versati da società residenti in Danimarca. In particolare, i ricorrenti si erano rivolti alle autorità fiscali danesi presentando domande di rimborso a fronte delle ritenute alla fonte operate sui proventi ricevuti da società con sede in Danimarca, sostenendo che gli OICVM residenti in tale Stato, a differenza dei non residenti, potevano beneficiare di un’esenzione dalla ritenuta alla fonte (cfr. sentenza della Corte di Giustizia del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, causa C-480/16, punti 12-16). Per una puntuale ricostruzione della vicenda, si veda D. Majorana, Ritenute sui dividendi distribuiti ai fondi esteri: dalla sentenza della Corte di Giustizia dubbi sulla compatibilità europea, in Riv. dir. trib. online, 25 luglio 2018; A. Fidelangeli, La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri, in Riv. dir. trib., 2019, IV, 81 ss. (36) Come si evince dal contesto normativo illustrato dal giudice del rinvio, ai sensi della normativa danese, la distribuzione minima di dividendi era costituita dalla somma delle entrate


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In tale contesto, alla Corte di Giustizia era stato richiesto di verificare se il regime in questione costituisse una violazione del principio della libera circolazione dei servizi, o di quello della libera circolazione dei capitali. Ebbene, la Corte ha escluso, anzitutto, la violazione del principio di libera circolazione dei servizi, posto che la normativa scandinava aveva ad oggetto il trattamento fiscale degli OICVM e non le condizioni di accesso degli organismi esteri nel mercato di uno Stato membro (37). Quanto, invece, al secondo principio, il meccanismo descritto presentava indubbiamente i tratti caratteristici di una possibile restrizione ai movimenti di capitali. La portata potenzialmente restrittiva delle disposizioni danesi, peraltro, era stata esplicitamente riconosciuta in corso di causa dallo stesso governo scandinavo, secondo il quale la normativa contestata aveva natura di “valvola di chiusura” e trovava giustificazione essenzialmente nell’esigenza di garantire la coerenza interna del sistema impositivo nazionale (38), oltre

e degli importi netti incassati nel corso dell’esercizio, somme dalle quali andavano dedotte le perdite e le spese. A partire dal 1 giugno 2005, tuttavia, non era più richiesto che fosse effettivamente operata una distribuzione minima ai detentori di quote per poter beneficiare dello status di fondo comune di investimento esente da ritenuta alla fonte. La concessione del beneficio fiscale, infatti, soggiaceva alla sola condizione che l’OICVM interessato avesse calcolato una distribuzione minima, soggetta a imposta in capo ai suoi detentori di quote, tramite una ritenuta alla fonte prelevata da tale organismo (v. la sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, causa C-480/16, punti 7-13). In argomento, si vedano M. Antonini - C. Setti Della Volta, Ritenute sui dividendi in uscita e fondi di investimento non residenti: ancora una incompatibilità UE, in Corr. trib., 2018, 2339 ss.; M. Gabelli, Sulla tassazione dei dividendi versati agli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (oicvm), in Società, 2018, 1336 ss. (37) Per la verità, nel fare ciò la Corte di giustizia ha seguito un iter argomentativo che si discosta parzialmente dai precedenti giurisprudenziali in materia (si vedano in particolare le pronunce del 10 maggio 2012, Santander Asset Management, cause riunite da C-338/11 a C-347/11 e del 26 maggio 2016, NN (L) International, causa C-48/15). Per definire la libertà applicabile al caso di specie, i giudici europei non si sono concentrati tanto sulla definizione di prestazione di servizi, o su quella di movimento di capitali, ma hanno condotto piuttosto un’analisi sugli effetti del regime fiscale controverso in relazione ad entrambe, ritenendo di circoscrivere il giudizio alla libertà la cui violazione fosse risultata primaria. A fronte del rinvio pregiudiziale, che prospettava la possibile violazione sia della libera circolazione dei capitali, sia della libera circolazione dei servizi, la Corte ha dunque ritenuto che il regime fiscale danese integrasse in prima battuta una restrizione rispetto alla libera circolazione dei capitali e, solo in secondo luogo, una limitazione alle condizioni di accesso al mercato. Per questo, il giudizio si è concentrato in via esclusiva sulla libertà fondamentale tutelata dall’art. 63 TFUE. (38) Nelle intenzioni dell’esecutivo danese, infatti, essa era diretta ad assicurare il medesimo trattamento tributario a carico dei soggetti che investivano direttamente in società residenti nel Paese scandinavo e di quelli che effettuavano tali investimenti in modo indiretto, avvalendosi di organismi collettivi, così da evitare salti di imposta o fenomeni di doppia imposizione.


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che di assicurare la ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati membri (39). Come si vedrà, tuttavia, le cause di giustificazione invocate dall’esecutivo danese non sono state accolte dalla Corte di Giustizia, che, attraverso un’analisi dettagliata dell’obiettivo, dell’oggetto e del contenuto delle disposizioni nazionali in causa, ha proceduto anzitutto a verificare la comparabilità delle situazioni dedotte in giudizio. La decisione della Corte ha preso dunque le mosse dalla necessità di individuare con precisione la proiezione teleologica della normativa danese, alla luce dei requisiti cui era subordinata la concessione del regime di esenzione per gli OICVM residenti, tali essendo la residenza in Danimarca e la distribuzione minima di utili. In primo luogo, lo scopo perseguito dal regime di esenzione per gli OICVM residenti era identificabile nella volontà di evitare la doppia imposizione che si sarebbe verificata qualora i dividendi fossero stati tassati sia a livello dell’OICVM che dei detentori di quote. Doppia imposizione che avrebbe determinato una disparità di trattamento tra gli investitori diretti in una società residente in Danimarca – tassati solo a valle, a livello dei detentori di quote – e coloro che avessero effettuato l’investimento attraverso un veicolo collettivo, tassati sia a monte, a livello dell’OICVM, sia a valle, a livello dei detentori di quote (40).

Sotto il profilo tecnico – stando a questa prospettazione - la coerenza del sistema era garantita dal fatto che all’esenzione accordata a monte all’OICVM danese corrispondeva la distribuzione di quote minime di reddito da assoggettare ad imposizione in capo agli investitori, mentre nel caso di OICVM esteri la ritenuta poteva applicarsi solo in sede di distribuzione del dividendo a questi ultimi, in assenza di un sostituto di imposta danese che fosse in grado di intervenire nei passaggi successivi della distribuzione del provento. Su questo specifico profilo si veda, a proposito del caso in questione, G. Meussen, The Fidelity case; changing perspectives of the European Court of Justice on UCITS, in Riv. dir. trib. int., 2018, 3, 169-170. (39) Secondo il governo danese (e quello dei Paesi Bassi, intervenuto in causa), percepire l’imposta sui dividendi ed escludere gli OICVM non residenti dal beneficio dell’esenzione avrebbe consentito di assicurare una ripartizione equilibrata della potestà impositiva, dal momento che la Danimarca non avrebbe percepito più di una volta l’imposta sui dividendi distribuiti agli organismi non residenti e il trasferimento dell’imposizione verso la distribuzione da parte di tali organismi non sarebbe stata possibile (cfr. sentenza Fidelity Funds, punti 67-68). Per ulteriori rilievi, A. Fidelangeli, La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri, cit., 99 ss. (40) In proposito, si veda in particolare il punto 52 della sentenza Fidelity Funds e il punto 33 delle conclusioni dell’Avvocato generale.


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Rispetto a questo primo punto, dalla giurisprudenza della Corte emerge che, rispetto ai provvedimenti adottati da uno Stato membro al fine di prevenire o di attenuare la doppia imposizione, le società beneficiarie residenti non si trovano necessariamente in una situazione comparabile a quella delle società non residenti (41). Tuttavia, a partire dal momento in cui lo Stato membro, in modo unilaterale o mediante convenzioni, assoggetta all’imposta sul reddito non soltanto le società residenti, ma anche quelle non residenti, per i redditi che esse ricevono da una società residente, la situazione di tali società non residenti si avvicina a quella delle società residenti. In tali ipotesi, posto che il rischio di doppia imposizione trae origine dall’esercizio della propria competenza tributaria da parte dello Stato membro, quest’ultimo dovrà anche vigilare affinché le entità non residenti siano assoggettate a un trattamento equivalente a quello di cui beneficiano i soggetti residenti, rispetto al regime nazionale volto a evitare la doppia imposizione (42). Il secondo obiettivo del regime tributario al centro del giudizio era quello di spostare l’imposizione dagli OICVM ai loro azionisti. Tale obiettivo si concretizzava attraverso la combinazione di due meccanismi: il veicolo collettivo doveva infatti prelevare una ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti ai partecipanti e, contestualmente, era tenuto a calcolare una distribuzione minima di proventi. In tale contesto, secondo la Corte, la comparabilità delle situazioni dedotte in giudizio andava verificata alla luce dell’esercizio materiale della potestà impositiva sugli azionisti. Adottando questa prospettiva, la situazione di un OICVM che distribuisce dividendi a detentori di quote non residenti è stata ritenuta del tutto comparabile rispetto a quella di un organismo collettivo che distribuisce utili a detentori di quote residenti, tenuto conto del fatto che un OICVM non residente può avere detentori di quote con residenza fiscale

(41) Cfr. sentenza del 18 giugno 2009, Aberdeen, causa C-303/07, punto 42; sentenza del 20 ottobre 2011, Commissione contro Germania, causa C-284/09, punto 55; sentenza del 25 ottobre 2012, Commissione contro Belgio, causa C-387/11, punti 48 e 49. In proposito, si veda P. STIZZA, La sentenza Aberdeen e la discriminazione nella tassazione di dividendi in uscita a favore di fondi di investimento immobiliare esteri: i riflessi sulla legislazione tributaria italiana, cit.; ID., Le ritenute in uscita sui dividendi applicabili ai fondi comuni di investimento nel contesto europeo, in Dir. prat. trib. int., 2011, 347 ss. (42) Cfr. la sentenza del 21 giugno 2018, Fidelity Funds, causa C-480/16, punto 55.


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in Danimarca, sui quali il Paese scandinavo può esercitare la propria potestà impositiva (43). Riservare ai soli OICVM residenti la possibilità di ottenere un’esenzione dalla ritenuta alla fonte non era dunque giustificabile sulla base di una differenza di situazione oggettiva tra tali organismi e quelli residenti in uno Stato membro diverso dalla Danimarca (44). Siffatta restrizione, semmai, avrebbe potuto essere ammessa soltanto qualora fosse stata giustificata da motivi imperativi di interesse generale e fosse stata idonea a perseguire in modo adeguato e proporzionato il conseguimento dell’obiettivo da essa perseguito. Nel caso concreto, tuttavia, la Corte non ha ritenuto sussistenti le cause di giustificazione addotte dal governo danese (45)

(43) Come è stato osservato (cfr. A. Fidelangeli, La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri, cit., 94, nt. 32), l’Avvocato generale ha compiuto un’analisi molto più approfondita rispetto a quella della Corte, rispetto alla comparabilità delle situazioni dei detentori di quote. In effetti, nelle Conclusioni, l’Avvocato generale ritiene che la verifica della situazione fiscale andrebbe condotta sotto tre distinti profili: in primo luogo, esaminando la comparabilità delle situazioni di detentori di quote residenti che investono in OICVM residenti e non residenti; in seconda battuta, la comparabilità tra la situazione di un detentore di quote non residente in un OICVM non residente e un detentore di quote residente in un OICVM residente; infine, considerando i detentori di quote a seconda che investano in un OICVM non residente oppure in un OICVM residente. Da questi rilievi, emerge come le conclusioni dell’Avvocato generale si concentrino proprio sulla situazione dei detentori delle quote, piuttosto che su quella degli organismi collettivi, mentre nelle argomentazioni della Corte, la situazione degli azionisti viene presa in considerazione al solo scopo di comprendere se le situazioni degli OICVM sono comparabili, concentrandosi piuttosto sulla comparabilità tra OICVM residenti e non residenti, nella cui compagine azionaria vi siano detentori di quote residenti. (44) Nella visione dei giudici europei, insomma, la circostanza che uno Stato membro applicasse un prelievo alla fonte sui proventi distribuiti da società residenti ad OICVM esteri – giustificando tale scelta con l’impossibilità di trattenere l’imposta su tutte le distribuzioni effettuate da tali organismi – rappresentava soltanto un espediente attraverso il quale quello Stato esercitava di fatto la propria potestà impositiva sul singolo OICVM estero, anziché sui detentori delle quote di quest’ultimo, residenti in Danimarca. (45) Quanto alla prima causa di giustificazione invocata dall’esecutivo danese (la coerenza del sistema fiscale nazionale), si vedano le osservazioni svolte dall’Avvocato generale Paolo Mengozzi nelle Conclusioni presentate il 20 dicembre 2017, specie il punto 80. La posizione espressa dall’Avvocato generale è stata poi recepita dalla Corte di giustizia nella sentenza, laddove si afferma che, sebbene il beneficio dell’esenzione da ritenuta alla fonte sui dividendi nazionali concesso agli organismi danesi era compensato dalla tassazione dei proventi riferibili a tali dividendi distribuiti agli investitori – potendo a tal fine essere invocata, quantomeno in linea di principio la giustificazione alla restrizione collegata al mantenimento della coerenza del sistema impositivo domestico – era comunque possibile garantire tale coerenza interna del sistema tributario riconoscendo il beneficio dell’esenzione anche agli organismi esteri, a condi-


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ed ha stabilito che il principio della libera circolazione dei capitali “osta a che una normativa di uno Stato membro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale i dividendi distribuiti da una società residente in tale Stato membro a un OICVM non residente sono soggetti a una ritenuta alla fonte, mentre i dividendi distribuiti a un OICVM residente nel medesimo Stato membro sono esenti da una siffatta ritenuta, a condizione che tale organismo operi una distribuzione minima ai suoi detentori di quote, o calcoli tecnicamente una distribuzione minima, e prelevi un’imposta su tale distribuzione minima reale o fittizia a carico dei suoi detentori di quote” (46). Ebbene, in considerazione di tale precedente, il giudice del rinvio del caso KA Deka ha comunicato alla Corte di ritenere che la risposta alla prima questione pregiudiziale prospettata, concernente la compatibilità rispetto all’art. 63 TFUE della normativa olandese sui dividendi versati da società residenti ad OICVM non residenti, si poteva desumere dalla sentenza Fidelity Funds. Nella medesima comunicazione, il giudice del rinvio ha invece rilevato come le altre due questioni pregiudiziali – riguardanti la compatibilità con l’art. 63 TFUE del diniego del rimborso della ritenuta alla fonte ad un OICVM non residente in applicazione delle disposizioni che prevedono, rispettivamente, i requisiti degli azionisti e l’obbligo di redistribuzione degli utili – non avevano ricevuto interamente risposta da tale precedente sentenza. L’oggetto del giudizio sul caso Ka Deka doveva dunque ritenersi limitato a tali ultime due questioni.

zione che le autorità fiscali avessero accertato, con la piena collaborazione di tali organismi, il versamento da parte loro di un’imposta equivalente a quella corrisposta dagli organismi danesi (cfr. la sentenza Fidelity Funds, specie i punti da 49 a 63). Anche sul fronte dell’altra possibile causa di giustificazione (l’equilibrata ripartizione del potere impositivo), la soluzione di escludere dalla tassazione i soli OICVM residenti beneficiari di dividendi di origine nazionale non è stata ritemuta adeguata (cfr. la sentenza Fidelity Funds, punti da 67 a 76). Come osservato anche dall’Avvocato generale nelle sue Conclusioni, per preservare la sovranità tributaria sui dividendi distribuiti dalle società residenti in Danimarca, l’ordinamento del Paese scandinavo avrebbe potuto introdurre meccanismi di vigilanza in base ai quali accertare se gli OICVM non residenti avessero o meno effettuato quella distribuzione minima di proventi da cui il sistema fiscale danese faceva dipendere il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta. Siffatto meccanismo avrebbe efficacemente consentito di bilanciare l’imposizione a carico degli OICVM residenti e di quelli esteri, senza incorrere in alcuna violazione del principio della libertà di circolazione dei capitali. (46) In merito ai possibili sviluppi futuri della giurisprudenza comunitaria sulla tassazione degli organismi di investimento collettivo del risparmio, si veda in particolare G. Meussen, The Fidelity case; changing perspectives of the European Court of Justice on UCITS, cit., specie 171 ss.


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5. Ritenute sui dividendi corrisposti a OICVM non residenti e restrizione alla libera circolazione dei capitali: la comparabilità delle situazioni dedotte in giudizio e la decisione della Corte. – Come accennato, la seconda questione pregiudiziale concerne la verifica della compatibilità con la libera circolazione dei capitali della disciplina fiscale olandese per il fatto che non accorda il rimborso della ritenuta sui dividendi di fonte domestica agli organismi esteri, i quali non dimostrino di rispettare determinati vincoli nella composizione del proprio azionariato, previsti dalla disciplina degli OICF. A tale riguardo, la Corte ha anzitutto rilevato che la normativa olandese non distingue tra residenti e non residenti, nel senso che i requisiti ai quali è subordinato il rimborso della ritenuta si applicano indistintamente ad entrambe tali categorie di organismi. Con riferimento ai fatti dedotti in giudizio, poi, i giudici comunitari concordano sul fatto che agli Stati membri deve essere riconosciuta la facoltà di stabilire i requisiti necessari, anche sul fronte probatorio, per accedere ad un determinato regime agevolativo e che, nel caso di specie, la trasmissione delle informazioni richieste non si configurava come un onere impossibile o eccessivamente arduo da assolvere. Al contrario, l’impossibilità di fornire alle autorità fiscali olandesi la prova relativa alla compagine degli investitori di KA Deka non dipendeva dall’eccessiva rigidità della normativa olandese, ma si poneva su un piano strettamente fattuale, come diretta conseguenza della scelta del modello di negoziazione delle azioni di tale OICVM, che non consente di conoscere l’identità degli investitori. Secondo la Corte, nel caso di specie l’impossibilità di fornire la prova richiesta ai fini dell’accesso al regime agevolativo dipendeva unicamente dalla circostanza che l’OICVM estero non era stato in grado di procurarsi le informazioni necessarie, circostanza che deve essere ricondotta unicamente alla sua sfera di responsabilità. In difetto delle informazioni relative alla composizione della compagine azionaria, dunque, l’amministrazione finanziaria dei Paesi Bassi poteva legittimamente negare il beneficio fiscale: analogamente a quanto già affermato dai giudici europei, il venir meno del flusso di informazioni verso il contribuente interessato non è, in linea di principio, un problema di cui debba occuparsi lo Stato membro coinvolto nella fattispecie (47).

(47) V. sentenza 30 gennaio 2020, Ka Deka, causa C-156/17, punto 65. Per questo tipo di argomentazioni, si vedano altresì le sentenze del 10 febbraio 2011, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Osterreichische Salinen, cause riunite C-436/08 e C-437/08, punto 98, e del 30 giugno


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Nella prospettiva comunitaria, pertanto, la mancata concessione del beneficio fiscale non costituisce in questo caso un trattamento sfavorevole meritevole di censura. La terza questione riguarda infine la compatibilità con l’art. 63 TFUE della disciplina tributaria olandese, nella misura in cui quest’ultima non concede ad un OICVM non residente il rimborso dell’imposta trattenuta sui dividendi corrisposti da entità stabilite in Olanda, in ragione del fatto che il fondo non ha soddisfatto l’obbligo di distribuire integralmente ai suoi partecipanti il risultato di gestione. Ciò anche se, in virtù di una specifica finzione giuridica prevista dalla normativa dello Stato di residenza del fondo, tali utili siano considerati comunque come distribuiti e siano tassati in capo agli investitori in aggiunta alla quota parte dei proventi realmente corrisposti. Nel caso di specie, giova anzitutto mettere in rilievo come l’analisi condotta dai giudici del Lussemburgo sia circoscritta all’individuazione della possibile discriminazione fiscale e non anche a eventuali sue giustificazioni, atteso che il Governo olandese non ha richiamato motivi imperativi di interesse generale a fondamento della denunciata disparità di trattamento (48). Come si ricorderà, invece, nel precedente caso Fidelity Funds, la questione sottoposta all’esame della Corte europea era incentrata proprio sulla valutazione dell’idoneità delle circostanze invocate dal Regno di Danimarca – in particolare, la necessitò di garantire un’equilibrata ripartizione tra gli Stati del prelievo tributario e la necessità di salvaguardare la coerenza del sistema fiscale domestico – per giustificare la disparità di trattamento dedotta in giudizio (49). Con riferimento alla comparabilità tra le situazioni degli organismi residenti e non residenti (50), la Corte ha condotto una verifica ad ampio spettro,

2011, Meilicke II, causa C-262/09, punto 48. Con riferimento alla sentenza in commento, si veda M. Fanti Rovetta, Organismi di investimento collettivo e libera circolazione dei capitali: la Corte di Giustizia individua una nuova incompatibilità, cit., 101. (48) V. sentenza 30 gennaio 2020, Ka Deka, causa C-156/17, punto 84. (49) In proposito, G. Meussen, The Fidelity case; changing perspectives of the European Court of Justice on UCITS, cit., 169 ss. (50) Per un’analisi sul tema della comparabilità, cfr., nella dottrina internazionale, M. Lang, Recent Case Law of the ECJ in Direct Taxation: Trends, Tensions and Contraditions, cit., 98. Sulla comparabilità delle situazioni nei precedenti giurisprudenziali relativi all’imposizione dei dividendi corrisposti ad OICVM non residenti, cfr. F. Bulgarelli, Il principio di libera circolazione dei capitali e la comparabilità delle situazioni di residenti e non residenti e di non residenti di Stati membri diversi tra loro: il caso D., in Rass. trib., 2005, 2038 ss.; M.


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tenendo conto dell’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione, nonché dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali, in questo caso dalla normativa olandese sugli OICF. Come si è visto, tale regime mira essenzialmente ad incentivare l’accesso al mercato dei capitali attraverso veicoli collettivi di investimento e, a tal fine, equipara l’imposizione sui proventi dei sottoscrittori di quote di OICVM a quelli conseguibili direttamente dai singoli investitori privati. Per le tipologie di investitori cui è destinato, inoltre, il regime in questione consente di evitare la doppia imposizione dei dividendi percepiti da società stabilite nei Paesi Bassi, spostando l’imposizione dal livello dell’OICVM a quello dei suoi partecipanti (51). La complessa articolazione del meccanismo adottato, costruito sul bilanciamento tra esenzione degli OICVM e tassazione in capo agli azionisti, ha imposto un esame della comparabilità che avesse riguardo a due piani distinti. Da un lato, considerando la situazione degli OICVM, dal momento che l’Olanda ha ritenuto di assoggettare al prelievo alla fonte i proventi corrisposti ai non residenti, questi sono stati sostanzialmente assimilati agli organismi residenti; con l’inevitabile corollario che gli OICVM non residenti nei Paesi Bassi si trovano in una situazione comparabile a quella dei veicoli di investimento residenti per ciò che attiene al rischio di doppia imposizione economica sui dividendi versati dalle società residenti in Olanda. A questo punto, allora, l’indagine in ordine alla comparabilità delle fattispecie andava spostata a valle, sul piano della distribuzione dei proventi ai detentori delle quote degli OICVM. Ed è ciò che ha fatto la Corte, dirottando il proprio punto di osservazione sul peculiare meccanismo di tassazione del rendimento annuo forfetario degli azionisti in Germania: in particolare, doveva essere verificato se la soluzione tecnica adottata dall’ordinamento tedesco (tassazione di un rendimento annuo forfetario degli azionisti in Germania) non potesse considerarsi coerente con gli obiettivi perseguiti dal legislatore olandese, nel momento in cui ha deciso di subordinare l’esenzione alla distribuzione degli utili agli azionisti.

Marzano, “Comparabilità” comunitaria e dividendi distribuiti a organismi di investimento collettivo del risparmio non residenti, in Rass. trib., 2013, 714 ss. (51) Cfr. A. Privitera - M. Nardini, La sentenza KA Deka e la discriminazione subita dagli OICR esteri in relazione ai dividendi di fonte italiana, in Diritto bancario, marzo 2020; M. Fanti Rovetta, Organismi di investimento collettivo e libera circolazione dei capitali: la Corte di Giustizia individua una nuova incompatibilità, cit., 101-102.


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Ciò si è reso necessario in quanto la Corte ha ritenuto che subordinare un’esenzione al rigoroso rispetto dei requisiti previsti dalla legislazione nazionale, prescindendo completamente da qualsiasi considerazione in ordine alla normativa dello Stato di stabilimento del percettore, significa precludere a quest’ultimo la possibilità di accedere alla disciplina di favore (52). Ebbene, l’indagine comparativa condotta dai giudici europei ha consentito di verificare che in entrambe le situazioni: la tassazione dei proventi era assicurata; avveniva una sola volta; e incombeva unicamente sugli azionisti, sia pure attraverso un meccanismo di rilevazione della base imponibile tecnicamente differente (53). Le due situazioni, pertanto, quella degli OICVM residenti e quella dei non residenti, dovevano ritenersi per tale aspetto del tutto comparabili, con la correlata necessità di riconoscere ad entrambe il medesimo regime impositivo di favore. Di qui, la conclusione a cui approda la Corte di giustizia. Un organismo residente in Olanda che effettua una distribuzione effettiva del suo risultato di gestione e un organismo non residente il cui risultato della gestione non è effettivamente distribuito ma che si considera presuntivamente distribuito e, in quanto tale, assoggettato ad imposta in capo agli investitori, si trovano in una situazione oggettivamente comparabile in relazione all’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali OICF. Nel contesto appena descritto, il rifiuto dell’Olanda di concedere ai soli organismi esteri il rimborso della ritenuta sui dividendi di fonte nazionale costituisce, per l’appunto, una restrizione alla libera circolazione dei capitali e contrasta con il principio di non discriminazione, laddove questo impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera differenziata e situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato.

(52) Si veda in particolare il passaggio della sentenza 30 gennaio 2020, Ka Deka, causa C-156/17, in cui i giudici europei affermano che “subordinare la possibilità di ottenere il rimborso della ritenuta alla fonte al rigoroso rispetto dei requisiti previsti dalla normativa nazionale, a prescindere dalle condizioni di legge alle quali i fondi di investimento non residenti sono assoggettati nel loro Stato di stabilimento, equivarrebbe a riservare ai soli fondi di investimento residenti la possibilità di beneficiare di un trattamento favorevole dei dividendi” (punto 73). (53) Cfr. M. Fanti Rovetta, Organismi di investimento collettivo e libera circolazione dei capitali: la Corte di Giustizia individua una nuova incompatibilità, cit., 102.


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Nei passaggi appena descritti, il caso in questione presenta un tratto innovativo ed acquista un particolare rilievo sistematico. La discriminazione, infatti, seppur indirettamente, è stata individuata dalla Corte attraverso un’indagine sulla comparabilità delle situazioni che ha interessato sia gli OICVM, sia i loro azionisti, in quanto destinatari finali ed effettivi della ricchezza imponibile. Volgendo uno sguardo retrospettivo ai casi simili analizzati dalla Corte di giustizia, l’unico precedente in cui un simile tipo di valutazione ha trovato in qualche modo ingresso è il già ricordato Fidelity Funds: anche in tale fattispecie, in effetti, la normativa nazionale subordinava l’esenzione in capo agli OICVM alla presenza di due condizioni, una delle quali riferita, appunto, alla distribuzione minima di utili in capo ai soci investitori. In quel caso, tuttavia, la questione era stata affrontata soltanto incidentalmente dalla Corte, anche perché nessuno dei tre governi che avevano depositato osservazioni scritte aveva sostenuto la tesi secondo la quale la comparabilità delle situazioni doveva includere la situazione fiscale dei detentori delle quote: se il governo danese si era limitato a giustificare la normativa contestata sulla base della preservazione della coerenza del regime fiscale, nonché della ripartizione equilibrata della potestà impositiva, i governi tedesco e olandese avevano incentrato le loro rispettive osservazioni relative alla comparabilità delle situazioni esclusivamente sui veicoli di investimento (54). Nei precedenti giurisprudenziali più risalenti, invece, da Aberdeen, a Santander, fino a Emerging Markets, il riconoscimento del beneficio fiscale era subordinato ad un unico criterio, consistente nel luogo di residenza dell’organismo di investimento. Il che rendeva sostanzialmente irrilevante ogni verifica sulla situazione dei soci (55).

(54) Lo sottolinea l’Avvocato generale nelle sue Conclusioni, Fidelity Funds, causa C-480/16, laddove si può leggere che “per la presente causa, è piuttosto curioso rilevare che nessuno dei tre governi che hanno depositato osservazioni scritte ha sostenuto la tesi secondo la quale l’esame della compatibilità delle situazioni doveva includere la situazione fiscale dei detentori di quote” (punto 41). Cfr. G. Meussen, The Fidelity case; changing perspectives of the European Court of Justice on UCITS, cit., 168-169. (55) Tra i casi citati, nella sentenza Santander la Corte aveva declinato il tema della tassazione dei dividendi in uscita rispetto all’ipotesi in cui i percettori fossero enti trasparenti esteri, considerando non soltanto la posizione dell’organismo percettore dei dividendi, ma anche quella dell’investitore titolare delle rispettive quote. Al riguardo, al Corte aveva affermato con nettezza che “la valutazione della compatibilità delle situazioni ai fini della determinazione del carattere discriminatorio o meno della normativa di cui trattasi va effettuato unicamente a


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Di qui, la conclusione a cui approdano i giudici europei nel caso Ka Deka. Un organismo residente in Olanda che effettua una distribuzione effettiva del suo risultato di gestione e un organismo non residente il cui risultato della gestione non è effettivamente distribuito ma che si considera presuntivamente distribuito e, in quanto tale, assoggettato ad imposta in capo agli investitori, si trovano in una situazione oggettivamente comparabile in relazione all’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali OICF. Nel contesto appena descritto, il rifiuto dell’Olanda di concedere ai soli organismi esteri il rimborso della ritenuta sui dividendi di fonte nazionale si pone in contrasto con l’art. 63 TFUE e costituisce, per l’appunto, una restrizione alla libera circolazione dei capitali. 6. Considerazioni conclusive e possibili ricadute della sentenza Ka Deka sull’ordinamento tributario italiano. – La sentenza in commento si colloca nel solco tracciato da altre precedenti pronunce, nelle quali la Corte di giustizia ha costantemente rilevato la contrarietà al principio di libera circolazione dei capitali di legislazioni nazionali che accordano benefici fiscali unicamente ad entità residenti, negandoli in modo ingiustificato ai soggetti stabiliti in altri Stati membri, nella misura in cui questi ultimi si trovino in una situazione oggettivamente paragonabile a quella dei loro omologhi residenti. Per questa via, attingendo al filone delle libertà fondamentali ed al correlato concetto di discriminazione, i giudici europei sembrano tra l’altro procedere verso una parziale armonizzazione in settori, come la fiscalità diretta, altrimenti riservati alla potestà esclusiva dei singoli Stati. In simile prospettiva, il caso Ka Deka si segnala in quanto la situazione dei partecipanti agli organismi collettivi di investimento assurge ad elemento qualificante della fattispecie e diviene a tutti gli effetti elemento centrale ai fini della decisione, aggiungendo così un tassello ulteriore all’elaborazione di un regime impositivo comune inerente agli OICVM non residenti (56).

livello del veicolo di investimento” (punto 39). Cfr., per ulteriori considerazioni, M. Marzano, “Comparabilità” comunitaria e dividendi distribuiti a organismi di investimento collettivo del risparmio non residenti, cit., 729; A. Fidelangeli, La compatibilità europea di regimi differenziati applicabili a dividendi distribuiti a OICVM transfrontalieri, cit., 103 ss. (56) Sotto questo aspetto, il caso Ka Deka rappresenta quindi l’ultimo e forse più importante approdo della giurisprudenza europea verso un sistema comune caratterizzato dalla definitiva e generalizzata abolizione delle ritenute alla fonte sui dividendi corrisposti agli OICVM. Sul punto, si veda G. Meussen, The Fidelity case; changing perspectives of the European Court


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Di qui la necessità di valutare le possibili ricadute della pronuncia in commento sull’ordinamento tributario italiano, anche tenendo conto del fatto che il nostro sistema fiscale non è nuovo a censure comunitarie che hanno condotto, nel tempo, alla necessità di intervenire a più riprese sul carico impositivo gravante sui dividendi corrisposti a soggetti residenti in altri Stati membri (57). Attualmente, ad esempio, la ritenuta sugli utili corrisposti a società istituite negli Stati UE o SEE opera con l’aliquota dell’1,2%, mentre in origine la misura dell’imposizione era pari al 27%. Tale riduzione è stata introdotta proprio in conseguenza di interventi della Commissione Europea, volti ad equiparare la tassazione dei dividendi in uscita corrisposti tra i soggetti residenti in Italia e quelli residenti in altri Stati membri (58). Ed anche un ulteriore intervento modificativo è stato determinato da una procedura di infrazione avviata dalla Commissione nei confronti del nostro Paese (IP/07/1152 del 23 luglio 2007) per il differente trattamento riservato ai dividendi percepiti dai fondi pensione italiani rispetto a quelli esteri. In particolare, i fondi pensione domestici non subiscono ritenuta sugli utili distribuiti da società ed enti soggetti all’Ires, in quanto assoggettati ad imposizione sostitutiva, oggi prevista nella misura del 20% sul risultato netto maturato annuo. In origine, invece, sugli utili distribuiti da società italiane ai fondi pensione esteri veniva applicata una ritenuta del 27%, con la possibilità di ridurre il prelievo effettivo al 15%, attraverso il rimborso dei 4/9 della ritenuta (59).

of Justice on UCITS, cit., 173-174. (57) In argomento, cfr. M. Antonini – C. Setti Della Volta, Ritenute sui dividendi in uscita e fondi di investimento non residenti: ancora una incompatibilità UE, cit., 2339; M. Fanti Rovetta, Organismi di investimento collettivo e libera circolazione dei capitali: la Corte di Giustizia individua una nuova incompatibilità, cit., 103. (58) In conseguenza del consolidarsi degli orientamenti giurisprudenziali della Corte di giustizia in materia di imposizione sui dividendi corrisposti a soggetti non residenti, il 22 gennaio 2007 la Commissione europea aveva infatti deciso di deferire l’Italia a fronte del trattamento discriminatorio previsto per i dividendi in uscita. In esito a tali sollecitazioni, la l. n. 244/2007 ha inserito nell’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973 il comma 3-ter), volto ad uniformare il prelievo delle società non residenti con quello dei soggetti residenti interessati dall’IRES. Attraverso tale intervento normativo, la ritenuta sugli utili corrisposti a società residenti in altri Stati membri dell’Unione o in quelli aderenti all’Accordo SEE è stata ridotta dal 27% all’1,375%. La misura dell’attuale aliquota consegue all’intervento apportato con l’art. 1, comma 62, l. 28 dicembre 2015, n. 208, con decorrenza 1 gennaio 2017. Cfr, se si vuole, A. Marinello, L’imposizione sui dividendi di fonte italiana distribuiti a soggetti non residenti: inquadramento sistematico e profili ricostruttivi, in Novità fiscali, n. 3/2020, 133 ss. (59) Si vedano IP/07/1152 del 23 luglio 2007 e la successiva IP/08/1022 del 26 giugno 2008. In argomento, cfr. diffusamente G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanzia-


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Tutto ciò ricordato, tornando al caso in esame si deve rilevare che, in relazione ai dividendi di fonte italiana, gli organismi residenti in altri Stati membri dell’Unione (e negli Stati aderenti allo Spazio Economico Europeo) scontano attualmente un’imposizione deteriore rispetto a quella prevista per i fondi residenti in Italia. Per quanto qui interessa, infatti, gli organismi di investimento collettivo del risparmio istituiti in Italia – diversi da quelli immobiliari e sottoposti a forme di vigilanza prudenziale, o il cui soggetto gestore sia sottoposto a tali forme di vigilanza – pur essendo, in linea di principio, soggetti passivi IRES, sono esenti da tale imposta e nei loro confronti è altresì prevista la disapplicazione generalizzata delle forme di prelievo alla fonte, tra cui l’imposizione sui dividendi di fonte domestica, ordinariamente prevista nella misura del 26% ai sensi dagli artt. 27 e 27-ter) del D.P.R. n. 600/1973 (60). Essi si configurano, cioè, come lordisti, nel senso che la vigente disciplina garantisce che gli unici soggetti incisi dalla tassazione siano i detentori delle quote all’atto della percezione dei relativi proventi.

rie, Milano, 2012, 201 ss. (60) Concentrando l’analisi sul regime tributario applicabile agli OICR istituiti in Italia, come detto essi sono considerati soggetti Ires, ma nell’ambito del tributo societario sono destinatari di un regime affatto peculiare. Pur essendo infatti inclusi tra i soggetti passivi, il comma 5-quinquies) dell’art. 73 del T.u.i.r. prevede che i redditi prodotti dall’OICR siano esenti dalle imposte sui redditi, purché il fondo o il soggetto incaricato della gestione sia sottoposto a forme di vigilanza prudenziale, disposizione che si applica agli OICR istituiti in Italia – diversi dagli immobiliari – e ai fondi lussemburghesi storici. La medesima disposizione precisa inoltre che nei confronti di questi organismi l’applicazione delle ritenute sui redditi di capitale è limitata a specifiche ipotesi, comunque a titolo di imposta: ne deriva che nella generalità dei casi gli OICR percepiscono i proventi dei loro investimenti di natura finanziaria al lordo delle relative ritenute o imposte sostitutive. È poi degno di considerazione il fatto che in conseguenza della loro istituzione in Italia, viene attribuita a tali organismi di investimento la “residenza” nel territorio dello Stato, il che ha consentito di risolvere sul terreno del diritto positivo la risalente problematica circa la possibilità di includere gli OICR tra i soggetti che possono godere dei benefici riconosciuti dalle convenzioni contro le doppie imposizioni. Quanto alla disciplina fiscale dei partecipanti agli OICR di diritto italiano, essa ha subito negli ultimi anni rilevanti e ripetute modifiche. Tra queste, in particolare, si ricorda che con riferimento ai fondi mobiliari italiani e a quelli ad essi equiparati, l’art. 2, del d.l. n. 225/2010 ha modificato il trattamento fiscale tradizionalmente basato sul principio della maturazione, spostando il baricentro del prelievo dal fondo al percettore, in una logica ora ispirata al criterio della realizzazione. Per approfondimenti sull’evoluzione della normativa e sui profili di criticità presenti nel sistema attuale, sia consentito rinviare a A. Marinello, Redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria, Torino, 2018, 328 ss.


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Diversamente, gli organismi istituiti in altri Stati UE o SEE – parimenti sottoposti a forme di vigilanza prudenziale - sono tassati in Italia sui redditi prodotti nel territorio dello Stato, e sono pertanto soggetti alla ritenuta a titolo di imposta, ovvero all’imposta sostitutiva, sui dividendi di fonte italiana. Se collocata nel contesto della libertà di circolazione dei capitali, questa diversità di trattamento fiscale appare obiettivamente di difficile giustificazione (61). In primo luogo, non sembra che al riguardo possano essere invocate esigenze di prevenzione o di contrasto delle pratiche elusive o dell’evasione fiscale, in quanto il regime deteriore previsto dall’ordinamento domestico per gli organismi esteri non ha come obiettivo costruzioni puramente artificiose prive di effettività economica e, anzi, colpisce entità sottoposte alle medesime regole di vigilanza prudenziale cui sono soggetti i corrispondenti organismi italiani. Né appaiono plausibili ragioni connesse alla ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri. Come si è visto, del resto, in importanti casi analoghi la configurabilità di tale causa di giustificazione è stata seccamente smentita dalla stessa Corte di Giustizia (62). Nell’ottica comunitaria della libera circolazione dei capitali, poi, occorrerebbe accertare se il differente trattamento fiscale previsto per i fondi esteri rispetto agli omologhi italiani possa trovare una qualche fondata e coerente giustificazione in relazione alla oggettiva comparabilità delle situazioni, considerando non soltanto la situazione degli organismi di investimento, ma anche la situazione degli investitori. In linea teorica, infatti, si potrebbe sostenere che il regime tributario degli OICVM interni e quello previsto per le entità estere non sono del tutto paragonabili in quanto nel caso di dividendi distribuiti a favore di un organismo domestico, l’Italia mantiene la potestà impositiva sui proventi successivamente distribuiti dal fondo ai propri partecipanti, mentre un’analoga potestà evidentemente viene meno nel caso di distribuzione a favore di un fondo estero (63).

(61) In termini coincidenti, cfr. G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, cit., 203 ss. Per una rassegna delle procedure di infrazione avviate dalla Commissione Europea in relazione alla fattispecie qui esaminata, cfr. P. Stizza, Le ritenute in uscita sui dividendi applicabili ai fondi comuni di investimento nel contesto europeo, cit., 347 ss. (62) In proposito si vedano le già citate sentenze Fidelity Funds, specie il punto 71, e Santander Asset Management SGIIC e a., specie il punto 48. (63) Sul punto, A. Privitera - M. Nardini, La sentenza KA Deka e la discriminazione


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Tuttavia, l’esonero da ritenuta stabilito a favore degli organismi stabiliti in Italia non è subordinato ad alcuna condizione, e men che meno dipende dalla circostanza che i dividendi di fonte italiana siano poi redistribuiti agli investitori sotto forma di proventi da partecipazione, con conseguente tassazione in capo a questi ultimi. Il confronto, insomma, sembra dover prescindere dalla situazione degli investitori e, anche sulla scorta delle più recenti pronunce rese dalla Corte di giustizia, ciò rafforza l’idea di una possibile violazione del principio di libera circolazione dei capitali. D’altra parte, anche qualora si intendesse considerare il carico fiscale in capo agli investitori, gli organismi esteri potrebbero risultare comunque discriminati. Tali organismi, infatti, sono in larga misura partecipati da investitori istituzionali esteri localizzati in Stati white list, nei cui confronti – in caso di investimento diretto - troverebbe applicazione l’art. 26-quinquies), comma 5, del D.P.R. n. 600/1973 che esclude la ritenuta in uscita sui proventi distribuiti dai fondi stabiliti in Italia. Il che conduce, in tutta evidenza, ad una discriminazione del tutto irragionevole tra la situazione dell’investitore istituzionale estero che effettui i propri investimento in modo diretto, oppure attraverso un OICVM non residente in Italia. Sulla scorta di queste considerazioni, e alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, in definitiva, il trattamento fiscale riservato dall’ordinamento italiano agli OICVM non residenti evidenzia alcuni tratti di possibile discriminazione rispetto agli omologhi italiani, senz’altro suscettibili di valutazione nel contesto del principio comunitario di libera circolazione dei capitali.

Antonio Marinello

subita dagli OICR esteri in relazione ai dividendi di fonte italiana, in Diritto bancario, marzo 2020.



Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria e diritti dei contribuenti* Sommario: 1. Il quadro sovranazionale in materia di utilizzo delle nuove tecnologie

nel comparto tributario: gli strumenti di soft law. – 2. Le nuove tecnologie a servizio della self-compliance. – 2.1. Le esperienze di altri Paesi europei e non. – 2.2. Le potenziali criticità in prospettiva sistematica. – 2.3. Le possibili soluzioni alle criticità sistematiche: i principi di proporzionalità, di tassatività, di riserva di legge e di tutela del consenso. – 2.4. Le potenziali criticità di ordine pratico: l’utopia di risolvere in via automatizzata le incertezze normative tributarie e la necessità di creare un efficiente meccanismo di consulenze e reclami online. – 3. Le nuove tecnologie per la repressione degli illeciti tributari. – 3.1. Le piattaforme di dati archiviati, i software predittivi e le blockchain. – 3.2. I potenziali problemi di privacy e di utilizzo di presunzioni basate sull’intelligenza artificiale. – 3.3. La riservatezza dei dati informatici archiviati dai contribuenti e le garanzie necessarie per potervi accedere. – 3.4. Le conseguenti necessità di aggiornamento della legislazione italiana e di tutela giurisdizionale. – 4. Spunti per una carta dei diritti informatici dei contribuenti. L’articolo fornisce un quadro dei principali utilizzi delle nuove tecnologie nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuenti, sia nella prospettiva di rendere più semplice l’adempimento spontaneo, sia nella prospettiva di contrastare gli illeciti tributari. Si evidenzia altresì il possibile “lato oscuro” di simili strumenti, ravvisando nella violazione della privacy una delle criticità principali. Si forniscono suggerimenti per attenuare tali criticità e rafforzare le garanzie, delineando i possibili contenuti di una carta dei diritti informatici dei contribuenti. Digitalization of financial administration and taxpayers’ rights. The article provides an overview of the most important usages of new technologies in the relationships between financial administration and taxpayers, both with a view to making self compliance easier and with a view to counteracting tax violations. The possible “dark side” of such tools is also highlighted, recognizing in the violation of privacy one of the most serious issues. Sug-

* Relazione presentata e svolta dall’Autore al Seminario “Digitalizzazione, transfer pricing e fenomeni di erosione della base imponibile”, in data 24 settembre 2020, nell’ambito del “Dottorato di ricerca in Diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato” – “Scuola Dottorale internazionale di diritto di diritto ed economia - «Tullio Ascarelli»” dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti – Pescara.


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gestions are provided to mitigate these critical issues and strengthen guarantees, outlining the possible contents of a taxpayers’ IT rights charter.

1. Il quadro sovranazionale in materia di utilizzo delle nuove tecnologie nel comparto tributario: gli strumenti di soft law. – Con comunicazione n. 179 del 2016, la Commissione Europea ha predisposto un piano per favorire la digitalizzazione delle autorità amministrative dei Paesi membri. Si tratta dello “EU eGovernment Action Plan 2016-2020 Accelerating the digital transformation of government” (COM/2016/0179). Il piano si componeva originariamente di 20 azioni e ha dato vita alla piattaforma eGove4EU al fine di raccogliere i suggerimenti provenienti dal basso (1): così, si sono nel tempo aggiunte altre cinque azioni. Il piano 2016-2020 faceva seguito a un piano precedente (2011-2015) e sarà, con ogni probabilità, seguito da un piano successivo, anche alla luce dell’importanza conferita alla digitalizzazione dall’agenda della nuova Commissione guidata da Ursula Von der Leyen. Nessuna di tali azioni è specificamente dedicata alla digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria, ma è indubbio che i rapporti tra fisco e contribuenti rientrino in tale piano di digitalizzazione. D’altronde, anche l’OCSE ha diramato raccomandazioni nel senso di favorire la digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria: si pensi, in particolare, alla Practical Guide for Revenue Bodies “Technologies for Better Tax Administration” del 2016 (2), all’ottavo report Tax Administration Series del 2019 (3) e all’agenda del Forum on Tax Administration (FTA) del 2019 (4), che si è proposta di definire in termini concreti e pratici una “digital vision for Tax Administration 2030” e di ridurre gli oneri di compliance di piccole e medie imprese grazie all’uso delle nuove tecnologie. Ciò senza dimenticare che anche l’interim report del 2018 sulla Action 1 del progetto anti-BEPS dell’OECD, pur dedicato alle questioni di diritto sostanziale, dedica un capitolo al carattere fondamentale che riveste per il futuro la digitalizzazione

(1) https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2016/IT/1-2016-179-IT-F1-1.PDF (2) https://www.oecd.org/publications/technologies-for-better-tax-administration9789264256439-en.htm (3) https://www.oecd.org/tax/forum-on-tax-administration/publications-and-products/ tax-administration-23077727.htm (4) https://www.oecd.org/tax/forum-on-tax-administration/events/forum-on-tax-administration-communique-2019.pdf


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dell’amministrazione finanziaria (5): e ciò è specialmente vero proprio per poter affrontare in modo più adeguato le sfide che la digital economy pone sotto il profilo sostanziale dell’intercettazione e assoggettamento a imposizione della ricchezza creata dal e sul web. Inoltre, non mancano riferimenti alla digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria nel più ampio progetto OECD “Going Digital. Making the transformation work for growth and wellbeing” (6). Sia il piano della Commissione Europea, sia la raccomandazione dell’OCSE costituiscono strumenti di soft law. I Trattati costitutivi dell’Unione Europea, infatti, non attribuiscono all’Unione competenze in materia di disciplina dell’azione amministrativa degli Stati membri, tanto meno in materie di per sé non comprese neppure sotto il profilo sostanziale nel perimetro di competenza del diritto europeo. Quanto all’OCSE, è dato notorio che essa non sia dotata di competenze idonee a imporsi sulla sovranità degli Stati che a essa partecipano. Cionondimeno, è indubbio che le crescenti potenzialità offerte dal progresso informatico debbano essere poste a servizio dell’azione amministrativa, in generale, e dell’azione dell’amministrazione tributaria, in particolare. D’altronde, il buon andamento dell’azione amministrativa è un valore che deve essere garantito per espresso disposto della Carta Costituzionale (art. 97 Cost.) e l’aggiornamento tecnologico risulta senz’altro uno dei parametri più rilevanti per assicurarne il raggiungimento nell’odierna realtà digi-globale. Le nuove tecnologie si prestano ad essere utilizzate in due direzioni fondamentali. La prima è quella di favorire la self-compliance da parte dei contribuenti e di ridurre gli oneri burocratici. La seconda è quella di fornire all’amministrazione finanziaria strumenti più efficaci per la repressione degli illeciti fiscali. 2. Le nuove tecnologie a servizio della self-compliance. – In una prospettiva “collaborativa”, le nuove tecnologie permettono di massimizzare i dati che i contribuenti possono scambiare con l’amministrazione finanziaria e di semplificare le modalità di assolvimento degli obblighi strumentali e sostanziali. In quest’ottica, in particolare, il diritto alla trattazione digitale delle istanze di parte contribuente dovrebbe essere garantito, anche nella prospet-

(5) Cfr. OECD, Tax Challenges Arising from Digitalisation - Interim Report 2018, capitolo 7. (6) https://www.oecd.org/going-digital/tax-and-digitalisation.pdf


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tiva di limitare al minimo indispensabile i contatti fisici nel quadro post-epidemico. 2.1. Le esperienze di altri Paesi europei e non. – I meccanismi che le nuove tecnologie mettono a disposizione per massimizzare la compliance possono essere molteplici e molto variegati. Il modello strutturalmente più semplice sembra essere quello della fattura o scontrino elettronici (7): esso permette, da un lato, al contribuente di non dover duplicare gli adempimenti (poiché l’emissione del documento e la registrazione dei dati in contabilità avviene contestualmente), e, dall’altro lato, eventualmente all’amministrazione di acquisire tali dati in tempo reale nella misura in cui sia elaborata e messa a disposizione una relativa API (application programming interface) (8), ossia un sistema informatico che permetta l’invio automatico dei dati all’amministrazione finanziaria tramite una piattaforma condivisa (interfaccia). Analoga semplicità connota sistemi, come quello australiano, che consentono di caricare direttamente su una interfaccia condivisa con l’amministrazione finanziaria, tramite una app del telefono cellulare (myDeduction), gli oneri deducibili e detraibili subito dopo averli sostenuti; il tutto nel quadro di un più ampio sistema di gestione dei rapporti con l’amministrazione finanziaria (ATO) via app del telefono (ATOapp). Tra i modelli più complessi possono essere menzionati, a titolo esemplificativo e solo per rimanere a livello europeo: lo E-Bilanz tedesco, che richiede la compilazione del bilancio su modelli elettronici elaborati ogni anno dall’amministrazione finanziaria e da condividere in via telematica con essa (9); il sistema EasySME in corso di elaborazione in Danimarca (10); il progetto

(7) Sul tema cfr. OECD, Implementing Online Cash Registers: Benefits, Considerations and Guidance, 2019. L’Italia, come noto, è stato il primo Paese al mondo a rendere obbligatoria la fatturazione elettronica, dal 1 gennaio 2019. (8) Sulla importanza delle API cfr. OECD, Unlocking the digital economy. A guide to implementing application programming interfaces in government, 2019 e, in generale, OECD, Tax Challenges Arising from Digitalisation - Interim Report 2018, capitolo 7. (9) Cfr. art. 5b della EinkommenSteuerGesetzt (EStG). Sul tema cfr., tra i molti, A. Kowallik, Digital Management in International Tax Compliance, in International Tax Review, 2016, (2016) pp. 1-2. (10) Si tratta di un sistema concepito per le piccole e medie imprese che richiede l’utilizzo esclusivo di pagamenti elettronici tramite un unico conto corrente bancario e di un software certificato di contabilità integrato con i terminali dell’amministrazione finanziaria e della banca: in questo modo, da ogni transazione ricevuta o effettuata tramite la banca discende un’automatica contabilizzazione in capo al contribuente (cui viene fornito un quadro in tempo reale


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svedese di SINK-Real time (11); oltre, naturalmente, al grande – ma finora irrealizzato – piano del Regno Unito intitolato “Making Tax Digital” (12). Si tratta di meccanismi fondati sul sistema della distributed ledger technology (DLT) (13), in cui tutti i contribuenti coinvolti e l’amministrazione sono utenti (“nodi”) di un network abilitati a immettere automaticamente dati in un archivio (ledgers o database) e in cui il “nodo” rappresentato dall’amministrazione è abilitato a conoscere tutti i dati caricati dagli altri “nodi” della rete. 2.2. Le potenziali criticità in prospettiva sistematica. – Riguardo alle prospettive di utilizzo delle nuove tecnologie a servizio della self-compliance sono opportune alcune valutazioni di carattere sistematico. Invero, l’utilizzo della tecnologia per favorire la self-compliance dei contribuenti non è concepito unicamente come strumento per alleggerire il peso della burocrazia, ma anche come orientamento di sistema capace di giungere al cuore dell’ordinamento tributario.

delle imposte a debito o a credito progressivamente maturate durante il periodo d’imposta) e un’automatica informazione all’amministrazione finanziaria, che viene posta in condizione di calcolare le imposte dovute le imposte dovute. Cfr. in argomento OECD, Tax compliance by design, 2014, 32. (11) Si tratta di un progetto finalizzato a conseguire “real-time reporting and real-time taxation” nell’ambito della Special Income Tax (SINK) svedese, ossia sulla flat tax sui redditi percepiti in Svezia dai non residenti (es. lavoratori residenti in altri Paesi ma che producono reddito in Svezia per un tempo sufficiente per far sorgere una responsabilità d’imposta oppure percettori di pensioni svedesi residenti all’estero). L’amministrazione finanziaria svedese mette a disposizione dei datori di lavoro una interfaccia API programmata per tradurre in algoritmi le regole applicative della SINK. Essa fa in modo che, non appena il datore di lavoro (o istituto pensionistico) ordina alla propria banca di pagare un reddito al dipendente (o pensionato), la banca suddivide il pagamento in una parte da destinare al beneficiario e una parte (pari alla SINK dovuta) da destinare alle casse pubbliche. Le informazioni dell’avvenuto pagamento di un reddito soggetto a SINK e dell’imposta dovuta e versata sono automaticamente caricate su un “secure register (blockchain/DLT)” messo a disposizione delle amministrazioni degli altri Stati (in cui risiede il percettore del reddito assoggettato a SINK) sulla base di accordi internazionali e del contribuente. Ciò consente di minimizzare, oltre al rischio di evasione della SINK, il rischio di mancata dichiarazione nel Paese di residenza, da parte del lavoratore o pensionato, del reddito prodotto in Svezia, riducendo altresì al minimo gli oneri di gestione per datori di lavoro, lavoratori, banche e amministrazioni finanziarie. Per una dettagliata descrizione del sistema cfr. Skatteverket, FAR, Kairos Future et al., Blockchain-inspired technical solutions for accounting, auditing, and taxation, 2019. (12) https://www.gov.uk/government/publications/making-tax-digital (13) Indicato nella specie come “secured chain approach” da OECD, Tax compliance by design, 2014, 31 ss.


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L’obiettivo ultimo è, infatti, quello di consentire ai contribuenti di percepire il sistema fiscale come un effetto secondario (“by-product”) della normale attività quotidiana (14) e, per altro verso, di affrontare l’adempimento delle obbligazioni tributarie, più che come il frutto di una decisione volontaria del contribuente, come il frutto di un “ecosistema” in cui i contribuenti sono naturalmente indotti ad adempiere per il fatto della costante connessione con un sistema tributario che rimane sempre sullo sfondo di ogni attività e che si fonda sulla raccolta in tempo reale (15). La desiderabilità di una simile concezione del sistema tributario è dubbia, sia (i) sotto il profilo giuridico-sistematico che (ii) sotto il profilo assiologico. Anzitutto, tale visione si fonda su una concezione massimamente “organicista” del ruolo dell’amministrazione, che viene vista come una formazione sociale caratterizzata dalla comunanza di interessi con gli amministrati. In verità, tale visione è meritevole di apprezzamento sul piano della politica normativa, cioè nella misura in cui permette di ispirare a criteri di collaborazione, buona fede e ragionevolezza il contenuto delle norme generali e astratte che governano i rapporti tra amministrazione e amministrati. Quando si scende, tuttavia, al piano dei singoli rapporti concreti tra l’amministrazione e un contribuente, gli interessi non possono che essere contrapposti, come lo sono quelli di debitore e creditore. Ciò non significa far venir meno lo spirito di collaborazione tra le parti (che, del resto, deve sussistere anche nei rapporti creditori privatistici), ma impedisce di confondere le due posizioni e i due ruoli fino al punto di ritenere apprezzabile che la vita giuridica dell’uno sia integralmente condivisa con la vita giuridica dell’altro. Il paradigma del “fisco amico” non può trasmodare in “fisco paternalista” (16). Nessuno pone in dubbio l’importanza dell’azione della po-

(14) OECD, Tax compliance by design, 2014, 30 ss. (15) Ibid., 30. (16) Interessanti appaiono, a questo riguardo, le critiche formulate al già menzionato piano britannico “Making Tax Digital”. Si è osservato, infatti, che “a digital tax system fit for the 21st century should be designed and built not just around the needs of HMRC [tax administration] but also the needs of taxpayers and what works best for them”, mentre “currently, the MTD proposals appear to be directed at what will work best for HMRC, with taxpayers and their agents largely expected to fit around the proposed system” (Institute of Chartered Accountants in England and Wales - ICAEW, Making Tax Digital: Bringing business tax into the digital age, ICAEW Representation 171/16, 2017). In senso analogo, si è rilevato che “whilst MTD will bring benefits to HMRC, the likely impact on most businesses and taxpayers will be an increased workload and / or increased costs” (Chartered Institute of Taxation - CIOT, Ma-


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lizia stradale per la buona riuscita del vivere collettivo: cionondimeno, chiunque vivrebbe come una violazione della propria libertà veder sempre seduto sul sedile al proprio fianco un poliziotto come compagno di viaggio, anche se indubbiamente tale misura minimizzerebbe i rischi per la propria incolumità e per quella degli altri (17). Ciò sarebbe vissuto come una violazione dei propri diritti non tanto per spirito di furfanteria od opportunismo di non esser colti sul fatto e sanzionati per eventuali scorrettezze commesse, quanto perché l’intrusione della pubblica autorità nella vita privata (ma lo stesso varrebbe, in verità, anche per l’intrusione di un semplice estraneo privo di poteri di controllo e sanzione) arreca un disagio in sé e deve pertanto essere limitata al minimo indispensabile e non favorita come condizione “ambientale” ordinaria. Considerazioni in tutto analoghe valgono per la pervasività della presenza dell’amministrazione finanziaria. Sotto il profilo assiologico, la lontananza temporale – almeno nell’Europa Occidentale – delle esperienze totalitarie rischia talvolta di far dimenticare che i diritti della persona (tra cui quello all’autonomia della propria sfera privata) sono di regola superiori rispetto all’interesse pubblico e che un “grande fratello” che controlla ogni aspetto della vita del contribuente non è una realtà desiderabile, neppure se esso mira alla realizzazione di una funzione pubblica di primario rilievo e valore qual è quella tributaria, come osservato in dottrina (18).

king Tax Digital: Bringing business tax into the digital age: Response by the Chartered Institute of Taxation, 2016, par. 2.1.) (17) Per una suggestiva e inquietante lettura del futuro della “robot policing”, con richiami di orwelliana memoria esplicitati fin dal titolo, cfr. già N. Sharkey, 2084: Big robot is watching you. Report on the future of robots for policing, surveillance and security, in www. dcs.shef.ac.uk, 2008. Di recente, si veda altresì l’ampia analisi di S. Zuboff, The age of surveillance capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power, New York, 2019, trad. it. Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, 2019. Non si comprende, invece, per quali ragioni OECD, Tax compliance by design, 2014, 44 ritenga di poter confinare il problema della “big brother society” ai soli casi di “centralised data strategy” e non anche a quelli di condivisione dei propri dati in un distributed ledger approach secondo una “secured chain strategy”: il sostrato dei due fenomeni (massiccio flusso di dati verso l’amministrazione finanziaria) è infatti identico nelle due ipotesi e, con esso, il connesso rischio evidenziato nel testo. (18) A. Contrino, Banche dati tributarie, scambio di informazioni fra autorità fiscali e “protezione dei dati personali”: quali diritti e tutele per i contribuenti?, in Riv. telem. dir. trib., 29 maggio 2019, il quale osserva che si tratta di un “tema che, almeno fino ad oggi, è stato trascurato nell’ambito della nostra materia, ma la cui importanza è divenuta attuale e destinata a crescere nel tempo, stante il massivo ricorso alla tecnologia per gli adempimenti


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Da ciò discende la necessità di stigmatizzare la condotta recentemente tenuta dallo Stato Italiano, il quale, a fronte dei rilievi critici mossi dall’Autorità Garante per la privacy in ordine alla disciplina introdotta in materia di fatturazione elettronica (19), ha ritenuto superabili le criticità semplicemente

tributari e il mutato contesto internazionale in punto di contrasto ai fenomeni di elusione ed evasione fiscale”. Successivamente, cfr. anche V. Wöhrer, Effective Taxation Versus Effective Data Protection?, in W. Haslehner, G. Kofler, K. Pantazatou, A. Rust (a cura di), Tax and the digital economy: challenges and proposals for reform, Alpen aan der Rijn 2019, capitolo 11. (19) Come noto, con il provvedimento n. 481 del 15 novembre 2018 il Garante ha accertato che le disposizioni in materia di fatturazione elettronica introdotte in Italia “possono violare” le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, in specie con riguardo alla circostanza che “l’Agenzia, dopo aver recapitato le fatture in qualità di ‘postino’, non archivi[a] solo i dati necessari ad assolvere gli obblighi fiscali, ma la fattura vera e propria in formato XML, che contiene di per sé informazioni non necessarie a fini fiscali (oltre agli eventuali allegati inseriti dall’operatore, certamente ultronei). Le fatture, di regola, contengono, infatti, dati, anche molto di dettaglio, volti ad individuare - spesso a fini di garanzia, assicurativi o per prassi commerciali - i beni e i servizi ceduti, con la descrizione delle prestazioni, i rapporti fra cedente e cessionario e altri soggetti, riferiti anche a sconti applicati, fidelizzazioni, abitudini di consumo, oltre a dati obbligatori imposti da specifiche normative di settore, con particolare riguardo ai trasporti, alle forniture di servizi energetici o di telecomunicazioni (tipologie dei consumi, fatturazione dettagliata, regolarità dei pagamenti, appartenenza a particolari categorie di utenti). Ciò, vale a maggior ragione anche per categorie di dati particolari e giudiziari, rilevabili da fatture elettroniche emesse, ad esempio, da operatori attivi nel settore sanitario o giudiziario … Aver progettato e definito la fatturazione elettronica nel quadro normativo primario e secondario, prevedendo in tale ambito un trattamento obbligatorio, generalizzato e di dettaglio di dati personali, anche ulteriori rispetto a quelli necessari a fini fiscali, relativi ad ogni aspetto della vita quotidiana della totalità della popolazione, non appare proporzionato all’obiettivo di interesse pubblico, pur legittimo, perseguito (artt. 6, § 3, lett. b), e, con riferimento alle particolari categorie di dati, 9, § 2, lett. g), del Regolamento)”. I rilievi sono stati confermati nel provvedimento n. 511 del 20 dicembre 2018, ove si è rilevato che, “pur rilevando che l’integrale memorizzazione delle fatture prevista dall’impianto originario dell’Agenzia potrebbe apparire prima facie la soluzione più efficiente e rapida per dare attuazione al nuovo obbligo previsto dal legislatore, … ha trovato conferma quanto già rilevato nel provvedimento del 15 novembre u.s., in ordine alla manifesta sproporzione di un siffatto trattamento, sistematico e generalizzato, relativo a miliardi di fatture emesse e ricevute, e dei relativi allegati, rispetto all’obiettivo di interesse pubblico, pur legittimo, perseguito, in relazione alle specifiche finalità sopra individuate; ciò, avuto riguardo anche ai rischi elevati per i diritti e le libertà degli interessati che un simile trattamento inevitabilmente determina”. Negli ordinamenti più evoluti in tema di protezione dei dati personali, come quello svedese, il problema in questione risulta superato per il fatto che: sul piano, generale, tale tipologia di dati personali, non strettamente necessari ai fini fiscali (quali, ad esempio, gli oggetti delle fatture), non sono oggetto di archiviazione nei sistemi dell’amministrazione finanziaria (Skatteverket); quando l’amministrazione viene a conoscenza di dati del genere, in occasione di controlli e verifiche individuali, essi non vengono divulgati a terzi (si deve ricordare, infatti, che il principio di trasparenza che informa il sistema svedese fa sì che i risultati dei controlli e degli accertamenti tributari possano


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individuando un limite temporale alla conservazione dei dati (peraltro molto lungo nel tempo: otto anni dopo la presentazione della dichiarazione e, in ogni caso, fino alla conclusione di eventuali giudizi tributari) e specificando, per un verso, l’utilizzabilità di tali dati soltanto da parte di Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza per le attività di analisi del rischio e di controllo fiscale e, per altro verso, l’obbligo da parte di tali soggetti di adottare adeguate misure di sicurezza del sistema, “sentito” il Garante per la privacy (20). Lo stesso vale per il tentativo di superare le criticità dell’archivio dei dati dei rapporti finanziari mediante la mera “pseudonomizzazione dei dati personali” (21). 2.3. Le possibili soluzioni alle criticità sistematiche: i principi di proporzionalità, di tassatività, di riserva di legge e di tutela del consenso. – Dalle considerazioni sopra esposte derivano molteplici conseguenze, oltre alla necessità di dotare l’ordinamento italiano di una legislazione in materia di protezione dei dati personali specificamente dedicata ai rapporti tributari, sul modello di quanto avviene nei sistemi più sensibili al tema (22).

essere esibiti anche a terzi: in tali casi, tuttavia, vengono resi noti soltanto i contenuti generali e i risultati complessivi del controllo, oscurando ogni forma di dato sensibile). (20) Cfr. art. 14 del d.l. n. 124/2019. Guardando al sistema del G.D.P.R., reg. n. 679/2016/ UE, va ricordato che ai sensi dell’art. 25 di esso i sistemi capaci di raccogliere, trattare o archiviare i dati personali devono essere progettati alla radice in modo tale da assicurare la protezione dei dati personali (principio del “data protection by design and by default”), mentre appare evidente, alla luce di quanto sopra esposto, come il sistema italiano della fatturazione elettronica non lo sia. (21) Cfr. art. 1, comma 682 della l. n. 160/2019, con riferimento alla quale si veda il parere critico manifestato dall’Autorità Garante per la Privacy con memoria depositata in V Commissione (Bilancio) del Senato della Repubblica in data 12 novembre 2019, ove si è evidenziato in particolare che “il ricorso alla pseudonimizzazione nell’ambito del patrimonio informativo dell’Agenzia delle entrate, che, in costante incremento, già contiene miliardi di informazioni di dettaglio relative ad ogni aspetto della vita privata di tutta la popolazione, ivi compresi i minori, non costituisce un’efficace garanzia … innanzitutto perché, in ragione del dettaglio delle informazioni che, presso il titolare del trattamento, sarebbero associate allo pseudonimo in luogo del codice fiscale, l’interessato risulterebbe comunque identificabile”. A ciò aggiungasi che, guardando al sistema del G.D.P.R., la pseudonimizzazione costituisce un possibile mezzo per attuare i principi sostanziali di tutela (quali, in particolare, la “minimizzazione” dei dati trattati, oltre agli altri elencati dall’art. 5), ma non surroga la necessità di garantire specificamente il rispetto di ciascuno di questi ultimi. (22) Si pensi, in particolare, al sistema svedese, ove è prevista una legge speciale per il trattamento dei dati fiscali da parte dell’amministrazione finanziaria. Si tratta, in particolare, della Lag (2001:181) om behandling av uppgifter i Skatteverkets beskattningsverksamhet, la


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Sul piano dei valori, le norme in materia di utilizzo delle tecnologie per massimizzare i dati raccolti dall’amministrazione finanziaria, anche in una prospettiva di favorire la self-compliance dei contribuenti, devono essere fissate dalla legge e quest’ultima deve improntarsi al criterio di effettuare un bilanciamento ragionevole tra i principi di buon andamento dell’amministrazione e interesse fiscale, da un lato, e i diritti di autonomia privata, dall’altro lato. Ciò al fine di rendere proporzionata al minimo indispensabile la mole dei dati che i contribuenti sono obbligati a condividere con l’amministrazione finanziaria, seppure la tecnologia ne permettesse un’acquisizione ed elaborazione potenzialmente illimitata (23). In questo quadro, le comunicazioni che superano il minimo indispensabile dovranno essere proposte ai contribuenti soltanto su base volontaria e opzionale (24) e dovrà esser reso chiaro e trasparente a quali fini saranno utilizzati i dati raccolti mediante tali regimi, in modo che il consenso possa dirsi formato.

quale offre un livello di protezione ulteriore che “completa” (“kompletterar”) quanto stabilito dal G.D.P.R. (cfr. Kap. 1, § 2 della legge suddetta) mediante l’introduzione di previsioni aggiuntive (“kompletterande bestämmelser”) (cfr. Kap. 1, § 3). Essa, in particolare, afferma il principio generale (Kap. 1, § 8) in base al quale i dati che vengono elaborati dall’amministrazione con modalità automatizzate in relazione a un caso devono essere eliminati entro e non oltre un anno dalla chiusura del caso, eccetto previsioni speciali anche di fonte subordinata alla legge ed eccetto i dati che possono essere registrati nell’anagrafe tributaria (Kap. 2), per i quali ultimi valgono i termini speciali di cui al Kap. 2, §§ 11-12 e i quali tuttavia possono essere trattati e incrociati soltanto per le finalità specificamente previste dalla legge (che, per quanto delineate in maniera abbastanza ampia dal Kap. 1, § 4, rimangono pur sempre tassative). (23) In senso analogo cfr. A. Contrino, Banche dati tributarie, scambio di informazioni fra autorità fiscali e “protezione dei dati personali”: quali diritti e tutele per i contribuenti?, cit., il quale osserva che “vi deve sempre essere ‘proporzionalità’ fra trattamento del dato alla luce dell’obiettivo perseguito ed esigenza di minimizzare l’acquisizione/trattamento/ conservazione dei dati personali, ivi compresi, dunque, quelli dei contribuenti”. L’Autore rileva, in proposito, che la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo confermano la necessità di compiere valutazioni basate sul principio di proporzionalità; tuttavia, si osserva giustamente che, in realtà, “non esiste un’adeguata elaborazione dei limiti e delle condizioni di legittimità, in termini di ‘proporzionalità’, del trattamento di rilevanti quantità di dati personali nell’ambito di banche date fiscali” (cfr. CGUE, sent. 27 settembre 2017, causa C-73/16, Puskar), mentre esiste “un forte interesse alla fissazione dei limiti e delle condizioni di possibile tutela dei contribuenti in presenza di un trattamento dei dati personali effettuato nel contesto di uno scambio di informazioni” (cfr. CGUE, sent. 16 maggio 2017, causa C-682-15, Berlioz; CEDU, sent. 22 dicembre 2015, ref. 28601/11, G.S.B.; meno garantista, invece, la precedente CGUE, sent. 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou). (24) In questo senso sembra potersi interpretare anche l’osservazione di OECD, Tax compliance by design, 2014, 43, secondo cui “adopting a secure chain strategy will … depend on


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Inoltre, gli incentivi al relativo utilizzo non dovranno tradursi in larvate discriminazioni o disincentivi per chi non vi aderisca. Correlativamente, sarebbe illegittimo un eccessivo inasprimento del regime ordinario per chi non aderisca al sistema del flusso continuo dei dati verso l’amministrazione finanziaria; per altro verso, sarebbe irrazionale ridurre in modo deciso i controlli ex post sui contribuenti che optino per il flusso continuo dei dati, poiché tale flusso può garantire la correttezza formale delle registrazioni, non anche la veridicità sostanziale delle stesse, che dovrà per sua natura essere verificata caso per caso ex post. La tutela della “libertà negativa” dei contribuenti di non essere digitalizzati dovrebbe estendersi anche alla dotazione di una identità digitale, che non può essere imposta a quei soggetti – come le persone fisiche – che non svolgono attività tali da rendere ragionevole l’imposizione di obblighi organizzativi peculiari (25). Sul piano strutturale, le fattispecie di intrusione dell’amministrazione nella vita dei privati, e i correlativi obblighi per questi ultimi di collaborare all’acquisizione dei dati, devono essere tassative e tipizzate, e non “diffuse” e atipiche come, invece, sembra sostenersi quando si auspica che “the tax compliance by design approach … can take different forms and shapes depending on the context and the solutions preferred by SMEs and revenue bodies” (26). Inoltre, se il meccanismo di funzionamento a base dei nuovi strumenti posti a disposizione dalla tecnologia si basa sulla definitività e tendenziale immodificabilità dei dati inseriti (come avviene per i sistemi “resilienti”, quali gli archivi di dati formati sulla base della distributed ledger technology e in particolare le blockchain) (27), si pone un problema di compatibilità con

the willingness of the parties to be involved. A clear business case is needed to make it attractive for other parties to be involved”. (25) Di una necessità di distinguere le strategie di compliance destinate alle varie categorie soggettive sembra essere consapevole anche OECD, Tax compliance by design, 2014, 44. (26) OECD, Tax compliance by design, 2014, 30 ss. (27) Il termine “blockchain” è oggi molto in voga e viene utilizzato spesso in modo atecnico per indicare più in generale sistemi basati sulla distributed ledger tecnhology, di cui le blockchain costituiscono soltanto una delle possibili applicazioni (le più chiare illustrazioni dei concetti sono quelle effettuate da O. Beilin, The Difference Between Blockchain & Distributed Ledger Technology, in www.tradeix.com, il quale osserva che “blockchain is just one type of distributed ledger … Think of blockchain and distributed ledger in the same way you might think of Kleenex and facial tissues. The former is a type of the latter, but it has become so popular that it becomes ingrained in people’s minds as what the product is”; M. Bellini, Che cosa sono e come funzionano le Blockchain Distributed Ledgers Technology – DLT, in www.


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la struttura intrinsecamente rettificabile che invece devono avere, secondo le moderne acquisizioni dogmatiche, le comunicazioni dei dati all’amministrazione finanziaria (si pensi, in particolare, alle dichiarazioni tributarie). Sarà quindi necessario strutturare i nuovi strumenti in modo tale che essi possano, al contempo, da un lato, garantire ai contribuenti che hanno immesso il dato di poterlo correggere e, dall’altro lato, assicurare la sicurezza, segretezza e inviolabilità dei dati da parte di terzi diversi dall’amministrazione attrice principale del sistema e dei soggetti ai quali, per legge, essa sia abilitata a trasmetterli.

blockchain4innovation.it, 27 dicembre 2018). L’utilizzo del concetto di blockchain a modo di sineddoche per indicare il genere di cui essa fa parte (distributed ledger technology) si presta a genere fraintendimenti, per cui è opportuno chiarire brevemente i contenuti dei concetti che vengono in rilievo. Distributed ledger è un archivio di dati (database: la traduzione di “ledger” è tecnicamente “libro mastro”) che viene formato e aggiornato, anziché da un unico o comunque da che raccoglie i dati comunicati da tutti, direttamente da tutti gli utenti (detti “nodi”) della rete (network). Per questo l’archivio viene qualificato come “distribuito”. Ciò consente un evidente risparmio di tempo ed energia, poiché non occorre un archivista centrale che si occupi di caricare tutti i dati ricevuti, come avviene nei centralized ledger; il database si aggiorna sulla base dei dati che i “nodi” caricano e che ottengano il “consenso” della rete (in pratica, che soddisfino i requisiti richiesti dal protocollo, ossia dall’algoritmo che gestisce il ledger, in modo da permettere il caricamento con successo dei nuovi dati). L’assenza di un archivista centrale non significa che il distributed ledger debba essere necessariamente aperto a tutti i richiedenti che accettino le regole del netowrk ottenendone automaticamente le credenziali (unpermissioned ledger o “ledger pubblici” o, per sineddoche, “blockchain pubbliche”) o che tutti gli utenti (“nodi”) debbano necessariamente esser posti nella condizione di conoscere tutti i dati caricati da tutti gli utenti: possono esistere, infatti, anche ledger in cui alcuni attori si riservano il potere di regolare gli accessi e, soprattutto, in cui i dati immessi dai vari “nodi” non sono visibili a tutti, ma soltanto a tali attori principali (permissioned ledger o “ledger privati” o, per sineddoche, “blockchain private”). Sono in generale queste ultime tipologie tecnologiche a costituire a base dei sistemi cui si opera riferimento quando si parla di network (o, per sineddoche, di blockchain) per la comunicazione di dati in tempo reale all’amministrazione finanziaria. Così definito il genere dei distributed ledger, può osservarsi che la blockchain è una particolare specie di esso caratterizzata per il fatto che ogni registrazione di dati (“blocco”) dipende dalla precedente collegandosi a essa come in una catena (in caso di simultanea aggiunta di “blocchi” concorrenti, il protocollo definisce i criteri per selezionare quello da validare e quelli da scartare) e tale per cui una volta aggiunto il blocco (nel rispetto del protocollo condiviso) esso non può essere più manipolato, né rimosso se non invalidando l’intero archivio (ciò che può avvenire soltanto con modalità condivise dagli operatori). Come correttamente osservato (O. Beilin, op. cit.), “although blockchain is a sequence of blocks, distributed ledgers do not require such a chain … Unlike blockchain, a distributed ledger does not necessarily need to have a data structure in blocks. A distributed ledger is merely a type of database spread across multiple sites, regions, or participants. On the surface, distributed ledger sounds exactly how you probably envision a blockchain”. Le blockchain in senso tecnico sono state utilizzate soprattutto come strumento di registrazione delle transazioni in criptovalute.


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Il tutto nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali vigente nel Paese. 2.4. Le potenziali criticità di ordine pratico: l’utopia di risolvere in via automatizzata le incertezze normative tributarie e la necessità di creare un efficiente meccanismo di consulenze e reclami online. – Oltre a quanto sopra osservato sul piano dei principi, l’utilizzo della tecnologia per massimizzare i dati acquisiti dall’amministrazione finanziaria può porre problemi anche sotto il profilo pratico quanto alla prospettiva per cui “real-time collection of data about business transactions and its use in automated processes that translate that data into information about the taxes due and, where possible, payment of those liabilities”. Si tratta di un’idea posta a base anche del progetto di cash-flow tax recentemente presentato dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate italiana nella prospettiva di semplificare gli adempimenti delle “partite IVA”, oltre che di progetti già elaborati in altri Paesi (si pensi ai già menzionati EasySME in Danimarca e SINK/Real-time in Svezia). In verità, determinare l’imponibile e liquidare le imposte, specie nei tributi più rilevanti del sistema, non è come addebitare consumi idrici o elettrici, per cui sembra difficile pensare di poter concepire sistemi di gestione assimilati. Specie in un sistema tributario dalla legislazione complessa e spesso antinomica, come è quello Italiano, confidare che l’elaborazione automatica possa risolvere i problemi dei contribuenti appare alquanto irenico. Occorrerà, piuttosto, disciplinare procedimenti rapidi per risolvere le situazioni di incertezza che, specie in un contesto del genere, possono verificarsi sia ex ante che ex post (28). Quanto alle questioni che possono verificarsi ex ante, quali le problematiche di incasellamento dei dati nei software condivisi con l’Agenzia delle Entrate, occorre prevedere interfacce di domanda e risposta o help desk efficienti, chiari e vincolanti per l’amministrazione. Il problema è che, in realtà, l’incertezza che si verifica in tale tipologia di questioni dipende dalla necessità di risolvere problematiche giuridiche complesse, talché appare difficile almeno

(28) Non si nasconde questa realtà neppure OECD, Tax Administration Series, 2019, 59. International Chamber of Commerce - ICC, Digitalisation of tax administrations: A business perspective, 2020, evidenzia in proposito che nel già menzionato sistema tedesco dello E-Bilanz “taxpayers have generally been overwhelmed by the formats and unable to report certain transactions appropriately. This has led to controversies in audit”.


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allo stato concepire un sistema di help desk on line automatizzato o comunque indipendente dall’intervento di una persona fisica (29). D’altronde, gli help desk disponibili nei sistemi attualmente digitalizzati (si pensi alla fatturazione elettronica o al processo tributario) non sono affatto soddisfacenti, per cui un ulteriore ampliamento dell’utilizzo delle piattaforme digitali dovrebbe necessariamente accompagnarsi a un upgrade della qualità del servizio per non tradursi in una complicazione ulteriore per i contribuenti. La vera soluzione, allora, sarebbe quella di semplificare la procedura di richiesta di chiarimenti preventivi all’amministrazione, affiancando al sistema degli interpelli, con i tempi relativamente lunghi che li caratterizzano, un meccanismo di consulenza online rapido e vincolante che guardi eventualmente al sistema spagnolo del VAT virtual assistant combinato con l’intervento di un funzionario per i casi più complessi. Quanto alle questioni che possono insorgere ex post, ossia nel caso in cui il contribuente ritenga errata l’elaborazione dei dati compiuta dal software dell’Agenzia delle Entrate (e che, per ipotesi, dovrebbe tradursi nell’automatica quantificazione delle imposte da pagare o addirittura da prelevare in conto corrente), occorre all’evidenza disciplinare procedure di reclamo telematico rapido, ma anche sul punto pare difficile concepire una totale automazione, ossia l’assenza di intervento da remoto di funzionari tributari. Ciò senza contare che, come ovvio, imporre al contribuente di seguire liquidazioni informatiche automatiche che non condivide senza dargli la possibilità di adire un giudice per contestarne il risultato si tradurrebbe in una violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito e, nel caso di addebito automatico in

(29) Ciò, del resto, è riconosciuto anche da OECD, Tax Administration Series, 2019, 176. In relazione al sistema di informatizzazione dei registri IVA e fornitura immediata di informazioni (SII - Suministro Inmediato de Información), è previsto un dettagliato sistema di FAQs (elaborate con l’ambizioso obiettivo di “compling all the possible questions that taxpayers might have regarding a certain subject”), ma è pur sempre necessaria la figura di un ulteriore “Vat Virtual Assistant” (è assodato infatti che “in many cases, a direct response cannot be offered, but a conversation will be necessary between the Assistant and the taxpayer to define the question and choose, out of mutiple answers that address a certain question, the specific one for the case in question”), di “supplementary tools” (“deadline calculator” e “Locator”), e, infine e comunque, di un “technician” umano che analizzerà personalmente il caso e risponderà al contribuente “after a few days, via email with human intervention” (ibid., 179). In merito cfr. altresì R. Prieto, M Jordán, Real-time VAT Reporting Techinques: the Spanish Immediate Supply of Information System (SII), in Intra-European Organisation of Tax Administrations IOTA, Impact of Digitalisation on the Transformation of Tax Administrations, Budapest, 2018, 45 ss. Sorge la domanda: Fu vera gloria?


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conto corrente delle imposte liquidate, neppure una concezione del risultato della liquidazione telematica automatica in termini di atto facoltativamente impugnabile potrebbe salvaguardare la legittimità di un sistema che si avvicinerebbe molto a una versione aggiornata (o, come si suol dir in informatica, a una “versione 2.0”) del vetusto e incostituzionale meccanismo del solve et repete. 3. Le nuove tecnologie per la repressione degli illeciti tributari. – Il secondo, grande, ambito nel quale le nuove tecnologie possono dimostrare il proprio potenziale in materia tributaria è quello di fornire all’amministrazione finanziaria strumenti sempre più efficaci per reprimere gli illeciti fiscali. 3.1. Le piattaforme di dati archiviati, i software predittivi e le blockchain. – Anzitutto, è intuitivo osservare che la tecnologia offre maggiori possibilità per l’archiviazione di dati e la condivisione di essi tra amministrazioni, anche appartenenti a Stati diversi: ciò massimizza la capacità di svolgere controlli incrociati tra i dati e, così, di individuare incongruenze meritevoli di approfondimenti (30). Si consideri, al riguardo, l’imponente piano TNA Transaction Network Analysis, elaborato nel 2019 dalla Commissione Europea per consentire alle amministrazioni finanziarie degli Stati membri di rendere più possibile efficiente lo scambio di informazioni finalizzato al contrasto alle frodi IVA. Laddove, poi e come nel caso del TNA, gli archivi siano formati direttamente dalla confluenza dei dati forniti dai privati mediante i sistemi di self-compliance, descritti nel precedente paragrafo, e specie laddove i sistemi di self-compliance si fondino sulla tecnologia della distributed ledger (ancorché ovviamente nella variante “permissioned”), la funzionalità dello strumento per i controlli dell’amministrazione risulta massima (31).

(30) Cfr., sul tema, M. Carrozzino, F. Faini, G. Frigo, F. Montalcini, C. Sacchetto, O. Salvini, A. Solazzi, I controlli tributari telematici, in L. Del Federico, C. Ricci (a cura di), Le nuove forme di tassazione della digitale economy, Roma, 2018, 169 ss. (31) Più elaborato, invece, sarà l’intervento dell’amministrazione adottando la strategia alternativa del “centalised data approach”, in cui i contribuenti comunicano all’amministrazione, non già direttamente i dati delle propria contabilità, bensì i dati dei rapporti con terzi affinché l’amministrazione possa compiere analisi incrociate (per l’illustrazione della differenza tra approccio centralizzato e approccio distribuito o della “secure chain” cfr. OECD, Tax compliance by design, 2014, 31 ss.). Si tratta, come evidente, di un approccio in cui la funzione di self-compliance appare sfumata rispetto a quella di sorveglianza e controllo, diversamente


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Sarà sufficiente impostare un corretto algoritmo capace di collegare i vari dati immessi dagli utenti in modo tale da segnalare anomalie all’utente (“nodo”) costituito dall’amministrazione (che in questa tipologia di permissioned ledger è l’attore principale a cui sono noti i dati immessi da tutti gli altri “nodi”) e consentire così a essa di attivare i controlli sostanziali in relazione alla situazione segnalata. Si pensi al caso di un distributed ledger (o, per sineddoche, ma atecnicamente, “blockchain”) in cui tutti i contribuenti europei devono caricare i dati delle fatture emesse e ricevute e dei pagamenti effettuati all’erario. Per evitare le frodi MTIC (missing trade intra community), quali in particolare le frodi carosello, potrà utilmente essere impostato un algoritmo in forza del quale compaia all’amministrazione una segnalazione di “alert” nel caso in cui, combinando il dato (partita iva) dell’emittente della fattura, caricata da un utilizzatore per avvalersi della detrazione dell’IVA a monte, con il dato dei versamenti dell’IVA effettuati dall’emittente, emerga una incongruenza. Come osservato, “statistical anomalies would be identified in real time, and authorities would be alerted” (32). Se a ciò si sommasse l’imposizione dell’obbligo di utilizzo di una criptovaluta ad hoc per gestire le poste IVA (VATCoins), come da taluni proposto (33), il contrasto alle frodi risulterebbe rafforzato anche sotto il profilo motivazionale. Oltre a ciò, devono essere valorizzate le potenzialità offerte dalla intelligenza predittiva e da ulteriori aspetti collegati alla tecnologia dei distributed ledgers e, in particolare, del blockchain. Quanto all’intelligenza artificiale (AI), si prestano ad essere creati anche per esigenze tributarie software predittivi come quelli già in uso in vari settori, come il contrasto ai crimini di strada, secondo il sistema della “predictive

da quanto avviene per i “secure chain systems”, in cui le due funzioni risultano più integrate (poiché, in quest’ultimo caso, le registrazioni condivise con l’amministrazione sono le stesse necessarie per tenere la propria contabilità). (32) R.T. Ainsworth, A.Shact, Blockchain Technology Might Solve VAT Fraud, in Tax Notes International, September 26, 2016, 1174. In generale, sul piano istituzionale, cfr. OECD, Technology Tools to Tackle Tax Evasion and Tax Fraud, 2017, specialmente capitolo 3. (33) R.T. Ainswoth, M. Alwohaibi, M. Cheetham, C. Tirand, A VATCoin Solution to MTIC Fraud: Past Efforts, Present Technology, and the EU’s 2017 Proposal, Boston University School of Law Law & Economics Series Paper, No. 18-08, 26 March 2018; R.T. Ainsworth, M. Alwohaibi, M. Cheetham, VATCoin: Can a Crypto Tax Currency Prevent VAT Fraud?, Tax Notes International, Vol. 84, 14 November 2016.


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policing” o “polizia predittiva” (34). Gli stessi studi di settore e, oggi, ISA, del resto, rivestono funzione analoga, mentre sofisticati meccanismi sono stati concepiti anche in Italia per “prevedere” la verificazione di frodi IVA (35) o, più in generale, per individuare i contribuenti ad alto rischio (36). Le criticità collegate a tali fattispecie verranno esaminate nel successivo par. 3.2. Quanto agli ulteriori aspetti collegabili agli archivi informatici, è agevole osservare che se l’amministrazione finanziaria potesse avere accesso ai grandi database elaborati con la distributed ledger technology, essa potrebbe certamente trovare una vera “miniera” di dati utili per scovare sacche di evasione (e non solo). Ciò è specialmente vero per quella specie di archivi informatici rappresentati dai distributed ledger e, in particolare, dalle blockchain in senso tecnico, che vengono direttamente utilizzate per transazioni economiche di per sé difficilmente intercettabili dalle amministrazioni finanziarie statali siccome regolate in criptovalute. Le criticità collegate a tali fattispecie verranno esaminate nel successivo par. 3.3. 3.2. I potenziali problemi di privacy e di utilizzo di presunzioni basate sull’intelligenza artificiale. – L’utilizzo degli strumenti messi a disposizione dall’intelligenza artificiale per contrastare gli illeciti fiscali sul piano della sor-

(34) Cfr., sul tema, W.L. Perry, B. McInnis, C.C. Price, S.C. Smith, J.S. Hollywood, Predictive Policing: The Role of Crime Forecasting in Law Enforcement Operations, 2013, in www.rand.org; per una panoramica in lingua italiana, F. Basile, Intelligenza artificiale e diritto penale: quattro possibili percorsi di indagine, in Diritto penale e uomo, 29 settembre 2019, 10 ss. In materia tributaria, l’importanza degli algoritmi predittivi è stata sottolineata anche a livello istituzionale da OECD, Advanced Analytics for Better Tax Administration. Putting Data to Work, 2016. (35) Cfr., per il sistema “Sniper”, S. Basta, F. Fassetti, G. Papi, S. Pisani, L. Spinsanti, M. Atzori, F. Giannotti, M. Guariscio, G. Manco, A. Mazzoni, D. Pedreschi, High Quality True-Positive Prediction for Fiscal Fraud Detection, IEEE International Conference on Data Mining Workshops, 2009, 7-12; più in generale, J. Vanhoeyveld, D. Maratens, B. Peeters, Value-added tax fraud detection with scalable anomaly detection techniques, in Applied Soft Computing, Volume 86, January 2020; R.S. Wu, C.S. Ou, H.Y. Lin, S.I. Chang, D.C. Yen, Using data mining technique to enhance tax evasion detection performance, in Expert Systems with Applications, Volume 39, Issue 10, August 2012, 8769-8777. (36) Cfr., per il sistema “Maldive”, W. Didimo, L. Grilli, G. Liotta, L. Menconi, F. Montecchiani, D. Pagliuca, Combining Network Visualization and Data Mining for Tax Risk Assessment, Access IEEE, vol. 8, 2020, 16073-16086; per quanto attiene alla fase di riscossione, H. D’Hondt, Using advanced data analytics to predict debt non-payment risks, in Intra-European Organisation of Tax Administrations - IOTA, Impact of Digitalisation on the Transformation of Tax Administrations, Budapest, 2018, 23 ss.


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veglianza digitale e della polizia predittiva può generare significativi problemi di rispetto della privacy. Sotto il profilo oggettivo, le piattaforme di archiviazione dei dati e gli strumenti predittivi e di sorveglianza pongono problemi di privacy analoghi a quelli già esaminati con riferimento ai possibili utilizzi della tecnologia in prospettiva di self-compliance (37): valgono pertanto, sul punto, considerazioni analoghe a quelle già esposte. D’altronde, il confine tra sorveglianza continua dell’autorità e flusso continuo di dati tra contribuenti e amministrazione risulta già di per sé piuttosto labile sotto il profilo contenutistico. Sotto il profilo soggettivo, tuttavia, devono essere svolte considerazioni specifiche, poiché a esso deve collegarsi una diversità di garanzie applicabili, nei termini che seguono. Se per gli strumenti informatici di self-compliance utilizzabili su opzione del contribuente potrebbe in ipotesi escludersi la necessità di una tipizzazione da parte di uno strumento di rango legislativo (38), per gli strumenti di self-compliance da utilizzare obbligatoriamente al fine di porre l’amministrazione in condizione di svolgere funzioni di sorveglianza digitale e di elaborare meccanismi predittivi non può esservi dubbio in merito al fatto che debba essere rispettata la riserva di legge, trattandosi di prestazioni personali imposte ai sensi dell’art. 23 Cost. (39). Correlativamente, il principio di proporzionalità nella raccolta, elaborazione e conservazione dei dati deve essere rispettato con anche maggior rigore di quanto non avvenga per i dati acquisiti tramite i regimi opzionali (e, quindi, con il consenso del contribuente) (40). Lo stesso vale a maggior ragione per

(37) Cfr., sul tema, A. Bonfanti, Big data e polizia predittiva: riflessioni in tema di protezione del diritto alla privacy e dei dati personali, in MediaLaws 24 ottobre 2018; J. Kremer, The end of freedom in public places? Privacy problems arising from surveillance of the European public space, Helsinki, 2017. (38) Si consideri, tuttavia, quanto osservato nella nota 23 con riferimento al sistema svedese, a cui si collega una forte opportunità dell’intervento del Parlamento anche in questo ambito. (39) Non può, quindi, essere condivisa l’affermazione dell’OECD, Tax compliance by design, 2014, 42, secondo cui “‘tax compliance by design’ as a concept is not intended to require changers of legislation; ideally it should be flexible enough to fit with an kind of legislation … Other rules like standards and policies might need to be introduced”. La gestione dei rapporti obbligatori tra contribuenti e amministrazione finanziaria, infatti, non può essere rimessa a meri software o protocolli tecnici, ma deve essere ricomprese sotto l’egida legislativa come imposto dal principio della riserva di legge. (40) Sulla centrale importanza dell’applicazione del principio di proporzionalità in materia cfr. A. Contrino, Banche dati tributarie, scambio di informazioni fra autorità fiscali e


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gli strumenti di sorveglianza e controllo preventivo di cui può disporre di propria iniziativa l’amministrazione finanziaria, ossia a prescindere dalla collaborazione del contribuente nella comunicazione dei dati, parendo evidente che essi debbano necessariamente essere tipizzati dalla legge nel contenuto e nei presupposti di utilizzo. Una ulteriore considerazione deve essere svolta sul punto. Nella materia tributaria, il ricorso a metodi presuntivi per determinare l’imponibile dei contribuenti è molto frequente. In questa prospettiva, è bene chiarire che i risultati delle analisi predittive dei possibili comportamenti evasivi non possono essere utilizzati alla stregua di una presunzione di evasione, ma soltanto come fonte d’innesco di controlli di merito. Sarà soltanto con riferimento ai risultati di essi che dovranno essere valutate le posizioni sostanziali del contribuente (41). 3.3. La riservatezza dei dati informatici archiviati dai contribuenti e le garanzie necessarie per potervi accedere. – Per quanto attiene alle potenzialità che possono rivestire per il contrasto agli illeciti tributari gli archivi informatici, in generale, e, in particolare, i distributed ledger e le blockchain di cui le amministrazioni non siano attori principali (cioè i ledger o le blockchain diverse da quelle utilizzate per la self-compliance tributaria), il problema essenziale è quello della riservatezza dei dati in esse registrati. Trattasi di un problema che si pone anche per le investigazioni penali in materie diverse da quella fiscale (a cominciare dal finanziamento del terrorismo e del narcotraffico). Nel sistema italiano, come noto, le regole che disciplinano “l’intrusione” della pubblica autorità nella sfera privata sono diverse se si tratta di controlli amministrativi tributari o di indagini penali: i poteri di indagine possono avere contenuti indubbiamente più penetranti (si pensi alle intercettazioni telefoniche, non consentite nella mera istruttoria amministrativa) ma, a parità di contenuto consentito, possono imporre maggiori oneri procedurali a garanzia dell’indagato rispetto al contribuente soggetto a controlli amministrativi (42).

“protezione dei dati personali”: quali diritti e tutele per i contribuenti?, cit. (41) Cfr. in tal senso, anche il provvedimento n. 58 del 14 marzo 2019 e n. 84 del 4 aprile 2019 dell’Autorità Garante della Privacy Italiana. (42) Ad esempio, l’accesso ai dati del conto corrente bancario non richiede l’intervento dell’autorità giudiziaria se eseguito nell’ambito di una verifica amministrativa tributaria, mentre occorre comunque informarne “prontamente” il p.m. se eseguito nell’ambito di una indagine penale, ai sensi del generale art. 348 c.p.p.


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Circoscrivendo l’esame al piano amministrativo tributario, occorre quindi verificare quali siano le garanzie da assicurare affinché l’amministrazione finanziaria o gli organi di polizia tributaria (Guardia di Finanza) possano accedere ai dati registrati su un distributed ledger e, in particolare, su una blockchain. La soluzione dipende dalla natura di fondo che voglia attribuirsi, sotto il profilo giuridico, a tali archivi. Due sono le soluzione astrattamente percorribili. In una prima ipotesi, ai distributed ledger e, in particolare, alle blockchain potrebbe conferirsi una forma di rilevanza pubblicistica, considerato che attorno a essi possono ruotare interessi pubblici (come quello della gestione di mezzi di pagamento) e che, pur avendo essi per natura struttura aperta e diffusa, vi sono in molti casi (specialmente quelli dei permissioned distributed ledgers e, in particolare, delle blockchain “private”) attori principali della piattaforma ai quali possono essere attribuite responsabilità. In questa prospettiva, i distributed ledger e, in particolare, le blockchain potrebbero in certa misura essere assimilati a banche, con la conseguenza che, per un primo profilo, gli attori principali dovrebbero essere trattati come gestori in grado di fornire alle pubbliche autorità i relativi dati (a cominciare dalle chiavi di accesso e dai codici di decrittazione delle trascrizioni) e, per altro profilo, l’accesso potrebbe essere consentito per l’istruttoria tributaria senza intervento del p.m., secondo quanto oggi avviene per gli accessi bancari a seguito della cd. “abolizione” del segreto bancario. Il vero punto debole di tale ricostruzione è l’effettività: i gestori, in altre parole, sono spesso soggetti del tutto sradicati rispetto a quella collocazione tradizionale classica con riferimento alla quale si muovono le pubbliche autorità degli Stati e possono essere resi coercibili gli obblighi imposti dalla legge. In altre parole, se un “gestore” non struttura il distributed ledger e, in particolare, la blockchain in modo da rendere integralmente decrittabili i dati in esso registrati (a cominciare dalle identità dei vari utenti o “nodi”) o comunque non collabora all’istruttoria, è difficile costringerlo a farlo minacciando sanzioni, come può farsi con un funzionario di banca: il “gestore” del ledger o della blockchain, infatti, sa bene che riuscirà quasi certamente a sfuggire a ogni sanzione. Per questo, connotare in senso pubblicistico i distributed ledger (per quanto “permissioned”) e, in particolare, le blockchain senza una concreta prospettiva di trarne le conseguenze sul piano giuridico rischia più di far perdere credibilità al sistema giuridico che non di procurare reali benefici.


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Per altro verso, potrebbe riconoscersi ai distributed ledger e, in particolare, alle blockchain rilevanza essenzialmente privatistica, assimilandoli a “cassette di sicurezza”: la necessità, in tal caso, dell’autorizzazione del p.m. per accedervi (in virtù di quanto stabilito dall’art. 52, comma 3 del d.P.R. n. 633/1972) potrebbe fare da pendant con l’attribuzione di poteri di intrusione più penetranti nel meccanismo del ledger o della blockchain. Se, come è stato sostenuto, le stesse opere di intrusione in sistemi privati da parte della polizia informatica dà vita a qualcosa che sul piano pratico non è molto dissimile dalla pirateria informatica o dall’hackeraggio (43), il suggello dell’autorità giudiziaria all’esercizio di simili poteri potrebbe valere a conferire una maggior legittimazione all’intervento, a ridurre il rischio di operazioni di fishing (ossia di ricerca a tappeto di informazioni e dati per verificare la presenza di eventuali illeciti dei quali non vi siano preventive tracce) e, conseguentemente, a generare una maggior accettazione da parte dei consociati. In tali ipotesi, il discrimine tra istruttoria tributaria e indagini penali è indubbiamente labile e di ciò si mostrano ben consci gli ordinamenti più sensibili alla protezione dei dati personali. In Svezia, ad esempio, già sul piano generale i controlli fiscali devono essere generalmente concordati in anticipo con il contribuente: sono, infatti, eccezionali i casi di controlli a sorpresa nei locali di esercizio dell’attività o in locali personali e, per procedere in tal senso, l’amministrazione deve in generale ottenere la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria (salvo casi di urgenza, in cui l’intervento può avvenire anche ex post, e salvo ipotesi peculiari, come quelle delle verifiche dei registratori di cassa dei commercianti al minuto) (44). Fermo restando ciò, in sede di ispezione tributaria l’apertura coattiva di sistemi protetti da password o in cloud non è comunque consentita, dovendosi attivare un procedimento penale per poter procedere in tal senso; anzi, in sede di controlli amministrativi è dubbio se l’accesso a tali dati sia lecito anche in presenza del consenso del contribuente (45).

(43) A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Roma-Bari, 2002, 266 ss. (44) Cfr. Kap. 45, §§ 13-16 della Skatteförfarandelag (2011:1244). (45) Si considerino, al riguardo, le precisazioni effettuate dal Tribunale Amministrativo di Falun (Förvaltningsrätten i Falun), 24 ottobre 2019, caso n. 4975/19, secondo cui l’autorizzazione del tribunale amministrativo all’accesso ai sistemi informatici può essere concessa soltanto a condizione che le misure non travalichino i limiti della giurisdizione svedese (ciò che potrebbe verificarsi per archivi in cloud o per informazioni conservate su server collocati all’estero) e che i codici d’accesso a tali sistemi siano messi a disposizione dal contribuente. La


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3.4. Le conseguenti necessità di aggiornamento della legislazione italiana e di tutela giurisdizionale. – Alla luce delle considerazioni sopra esposte, risulta pertanto evidente la necessità di provvedere a un aggiornamento della legislazione vigente in Italia al fine di renderla adeguata ad affrontare una realtà – quella informatica – totalmente diversa da quella avuta in mente dal legislatore al momento della relativa emanazione. In questa prospettiva, oltre a intervenire sugli aspetti evidenziati nei paragrafi precedenti, dovrebbe in particolare essere approfondita in almeno due direzioni la disciplina degli accessi, ispezioni e verifiche nei luoghi di pertinenza dei contribuenti. Si assumerà nel prosieguo come normativa di riferimento quella dell’art. 52 del d.P.R. n. 633/1972, relativo agli accessi, ispezioni e verifiche ai fini IVA, applicabile anche in materia di imposte sui redditi ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 600/1973. Considerazioni analoghe valgono, tuttavia, anche per gli altri comparti nei quali all’amministrazione finanziaria sia conferito il potere di accedere a locali e ispezionare oggetti dei contribuenti (si pensi, ad esempio, agli articoli 19 e seguenti del d.P.R. n. 43/1973 in materia doganale). Anzitutto, dovrebbe essere specificata in modo espresso che la necessità di autorizzazione del p.m. per l’apertura di pieghi sigillati, cassette di sicurezza e simili (stabilita dal comma 3 del suddetto art. 52) si applica anche a sistemi informatici protetti da password. Ciò a cominciare dai personal computer cui, nella prassi, i verificatori tributari accedono senza alcuna autorizzazione del p.m. e con il mero consenso ottenuto dai verificati, in genere viziato da errore per il fatto che essi sono ignari della possibilità che hanno di negare il consenso alla verifica del p.c. protetto da password in assenza di intervento del p.m. Conseguentemente, dovrebbero essere disciplinati specificamente i poteri di cui, in sede di accesso ai sistemi informatici privati, può disporre l’amministrazione finanziaria o la polizia tributaria. Tra questi, potrebbe essere compresa anche la facoltà di intervenire sul sistema per decrittare le scritture cifrate,

Corte d’Appello Amministrativa di Sundsvall (Kammarrätten i Sundsvall), 14 gennaio 2020, caso n. 3809/19, adita in appello, ha invece e ancor più radicalmente negato che la verifica potesse estendersi anche ai dati archiviati su strumenti informatici, non potendo essi considerarsi pertinenze dei locali del contribuente, né potendosi dar corso in materia a una interpretazione estensiva, posto che, quando si tratta di misure coercitive contro gli individui, sussistono preminenti ragioni di legalità e tassatività che impediscono interpretazioni delle disposizioni normative che vadano oltre la formulazione strettamente testuale di esse.


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ma sarebbe preferibile che tale operazione avvenisse soltanto nell’ambito di un procedimento penale, ossia nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria. In ogni caso, dovrebbe essere garantito che tale operazione avvenga: soltanto in presenza di gravi indizi di comportamenti illeciti, da valutarsi da parte dell’autorità giudiziaria (e, quindi, andando a tal fine oltre al riscontro essenzialmente formale richiesto dal comma 3 dell’art. 52 del d.P.R. n. 633/1972 e avvicinandosi piuttosto al regime di cui al comma 2 dell’articolo stesso) e nel contraddittorio informatico con la parte verificata. I dati così scovati nel distributed ledger o nella blockchain potrebbero essere utilizzati anche nei confronti degli altri partecipanti (“nodi”) del network soltanto nella ricorrenza di analoghe garanzie (autorizzazione del p.m. per gravi motivi inerenti a terzi stessi e valutati a prescindere dal contenuto della blockchain; garanzia del contraddittorio nella decrittazione). Ciò dovrebbe valere non soltanto per le posizioni delle persone fisiche, alle quali si applicano generalmente le disposizioni in materia di protezione dei dati personali (si pensi al G.D.P.R.), ma anche per le persone giuridiche e in particolare per gli operatori economici, cui del resto si applicano già le disposizioni del d.P.R. n. 633/1972 sopra richiamate. Infine, dovrebbe essere garantita ai contribuenti l’immediata tutela in sede giurisdizionale delle lesioni che lamentino di aver subito per effetto della digitalizzazione dell’attività accertativa e, in particolare, degli accessi dell’amministrazione a sistemi informatici in assenza delle autorizzazioni sopra illustrate (46). Rinviare la tutela alla fase di contestazione della pretesa tributaria eventualmente avanzata sulla base dei dati illecitamente acquisiti, infatti e come tende a fare per profili analoghi la giurisprudenza italiana (47), equivale a negare ogni diretta protezione dei diritti che si lamentano lesi, in contrasto con il sicuro radicamento costituzionale dei medesimi. 4. Spunti per una carta dei diritti informatici dei contribuenti. – Alla luce delle considerazioni sopra svolte, è possibile schematizzare le principali

(46) Devono ritenersi valere, infatti, principi analoghi a quelli affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 21 febbraio 2008, ric. n. 18497/03, Ravon e altri c. Francia. (47) Cass., SS.UU., nn. 6315/2009 e 8587/2016, ove si riconosce la possibilità di chiedere tutela al giudice ordinario nel solo caso in cui i dati acquisiti in occasione del controllo asseritamente illegittimo non siano stati posti a base di un atto impugnabile di fronte al giudice tributario (quale, in particolare, l’atto d’accertamento).


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Parte quinta

aree di contenuto di cui dovrebbe occuparsi, declinata in materia tributaria, quella Digital Government for Citiziens Charter oggetto dell’action 24 dello “EU eGovernment Action Plan 2016-2020”. Una carta dei diritti dei contribuenti nell’amministrazione tributaria digitale dovrebbe organizzarsi in quattro capi. Un primo capo dovrebbe essere dedicato ai principi generali e dovrebbe contenere il riconoscimento, da una parte, che ogni contribuente ha diritto a ottenere i servizi dell’amministrazione finanziaria in forma digitale e, dall’altra parte, che i contribuenti persone fisiche continuano ad avere il diritto di avvalersi di modalità non digitali per gestire i propri rapporti con il fisco. In questa prospettiva, dovrebbe anche essere puntualizzato che l’utilizzo di sistemi di comunicazione informatica di dati, che in un contesto di compliance by design vadano oltre quanto ordinariamente necessario per la gestione dei rapporti tributari, non può essere imposto ai contribuenti, neppure quando si tratti di operatori commerciali, ma può soltanto essere rimesso alla loro libera opzione. Un secondo capo dovrebbe essere dedicato ai criteri di emanazione e formulazione delle norme incidenti sui rapporti informatici tra contribuenti e amministrazione finanziaria. Dovrebbe in tale sede essere richiesto il rispetto dei principi di riserva di legge e di tassatività nell’individuazione dei dati suscettibili di trattamento da parte dell’amministrazione finanziaria e nella possibilità di utilizzo degli strumenti tecnologici con funzione di polizia tributaria preventiva. Dovrebbe, inoltre, essere assicurato il principio di proporzionalità nella formulazione del contenuto delle norme di legge (e a fortiori delle norme subordinate) in materia di raccolta, conservazione ed elaborazione di ogni dato relativo ai contribuenti e alla loro attività. Sul punto, la carta risulterà tanto più pregevole ed efficace in quanto espliciti e puntualizzi i criteri cui tale valutazione di proporzionalità dovrà ispirarsi in concreto. Un terzo capo dovrebbe essere dedicato ai diritti dei contribuenti riguardo ai dati trattati dall’amministrazione finanziaria. Dovrebbe, così, essere preliminarmente riconosciuto il diritto dei contribuenti a modificare il contenuto dei dati da essi comunicati all’amministrazione. Sotto altro profilo, dovrebbe essere garantita al contribuente la sicurezza, segretezza e inviolabilità dei dati comunicati o comunque in possesso dell’amministrazione finanziaria e il divieto di accesso ai medesimi da parte di soggetti diversi dall’amministrazione finanziaria stessa e dei soggetti ai quali, per legge, essa sia autorizzata a trasmetterli. Dovrebbe, inoltre, essere riconosciuto ai contribuenti il diritto a ottenere una soluzione rapida ed esauriente dei problemi che si verifichino


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nella gestione degli strumenti telematici da utilizzare per i rapporti con l’amministrazione finanziaria. Un ultimo capo dovrebbe, infine, essere dedicato ai diritti dei contribuenti in sede di controlli informatici. Da un lato, dovrebbe così essere ribadito che le elaborazioni predittive possono essere utilizzate per il contrasto agli illeciti tributari soltanto come presupposto per l’avvio di controlli sostanziali e non come forme di presunzioni legali di evasione. Dall’altro lato, dovrebbe essere riconosciuto che, per accedere a sistemi informatici protetti da password, siano essi riferibili a persone fisiche o altri soggetti (inclusi gli operatori economici), l’amministrazione finanziaria debba munirsi di previa autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria. Qualora si tratti di decrittare scritture informatiche cifrate, poi, tale autorizzazione dovrebbe essere concessa soltanto in sede di indagini penali o comunque in presenza di gravi indizi di evasione e dovrebbe in ogni caso essere assicurato al contribuente il diritto di partecipare in contraddittorio all’operazione di decrittazione. Infine, dovrebbe essere riconosciuto e garantito il diritto all’immediata tutela in sede giurisdizionale delle lesioni che il contribuente lamenti di aver subito per effetto di controlli informatici e, più in generale, della digitalizzazione dei rapporti con l’amministrazione finanziaria. Oltre a ciò, naturalmente, devono valere anche nelle relazioni con l’amministrazione tributaria digitale tutti i diritti attribuiti ai contribuenti dell’ordinamento tributario generale: ciò a cominciare da quello, a oggi purtroppo tra i diritti meno effettivi dell’ordinamento, a un sistema fiscale semplice da osservare e certo nei contenuti.

Francesco Farri









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