Judicium 1/2020

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ISSN 2532-3083

Judicium n. 1/2020

il processo civile in Italia e in Europa

Rivista trimestrale

marzo 2020

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Diretta da:

In evidenza: Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio in ordine alle controversie «comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche» Mario Pio Fuiano

Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese Laura Durello

La tutela del patrimonio e dell’impresa del debitore tra misure protettive e cautelari nel Codice della crisi Clarice Delle Donne

La sospensione del processo civile per pendenza del processo penale: tra consolidati approdi e recenti applicazioni in tema di cumulo soggettivo Alessio Bonafine

La decisione (discrezionale) del giudice di non integrare il contraddittorio per carenza di interesse alla rinnovazione del giudizio Margherita Pagnotta

Sospensione di delibera “eseguita” e retroattività della sentenza di annullamento Ulisse Corea



Indice

Saggi Mario Pio Fuiano, Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio in ordine alle controversie «comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche»...................................... p. 5 Laura Durello, Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese............» 27 Clarice Delle Donne, La tutela del patrimonio e dell’impresa del debitore tra misure protettive e cautelari nel Codice della crisi.................................................................................................................» 49 Giurisprudenza commentata Cassazione civile, sez. un., 21 maggio 2019, n. 13661 con nota di Alessio Bonafine, La sospensione del processo civile per pendenza del processo penale: tra consolidati approdi e recenti applicazioni in tema di cumulo soggettivo....................................................................................................................» 69 Corte di Cassazione, ord. 18 Gennaio 2019, n. 24071, con nota di Margherita Pagnotta, La decisione (discrezionale) del giudice di non integrare il contraddittorio per carenza di interesse alla rinnovazione del giudizio.................................................................................................................» 105 Trib. Roma, sez. spec. impr., ord. 12.6.2019; Trib. Roma, sez. spec. impr., ord. 10.10.2019, con nota di Ulisse Corea, Per la chiarezza di idee in tema di effetti della sospensione e della sentenza di annullamento di delibere assembleari................................................................................................» 123


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Saggi



Mario Pio Fuiano

Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio in ordine alle controversie «comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche» Sommario :

1. Premessa. – 2. Il tormentato epilogo del campionato di calcio di serie B 2018/19. – 3. La quaestio iuris. – 4. Le «controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche». – 5. L’inammissibilità dell’impugnativa alla CFA della «retrocessione all’ultimo posto in classifica» dell’US Città di Palermo: rimedi e conseguenze. – 6. Conclusioni.

L’art. 1, comma 647, L. 30 dicembre 2018, n. 145, ha riservato «alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ed alla competenza funzionale inderogabile del tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in Roma, le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche». Sennonché, come si evince dalla vicenda giudiziaria esaminata nel saggio, sembra che gli organi di giustizia della FIGC – nel malcelato tentativo di mantenere integra la propria potestas iudicandi – tendano a ignorare la portata (se non l’esistenza) della riforma e ad opporre resistenza alla sua applicazione. The art. 1, c. 647, L. 30th December 2018, n. 145, has conferred «to the only jurisdiction of the administrative court and to the mandatory functional jurisdiction of the Regional Administrative Court of Lazio, located in Rome, the disputes which have as their subject-matter the right to participation, admission or exclusion of professional sport clubs in professional sporting events and championships». Neverthless, as the court case analysed in the essay clearly shows, it seems like that the FIGC justice courts – in the undisguised attempt to keep unalterated their potestas iudicandi – tend to ignore the weight (if not the existence itself) of the reform, thus resisting to its implementation.

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Mario Pio Fuiano

1. Premessa. In ossequio a una tradizione inaugurata nel 20031 e costantemente rinvigorita soprattutto negli ultimi anni, i campionati professionistici di calcio, dopo esser terminati sul manto erboso, si spostano e proseguono, a beneficio di appassionati e non, nelle aule degli organi di giustizia endo ed esofederali nonché, alternativamente o contestualmente, del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sede di Roma). La consuetudine ha trovato puntuale conferma a metà del mese di maggio del 2019, allorquando si sono susseguiti una serie di eventi destinati a soppiantare, nella memoria comune, i bizzarri e, a tacer d’altro, singolari avvenimenti che tra l’estate e l’autunno del 2018 avevano visto protagonisti taluni club interessati al “ripescaggio” in serie B (e, in particolar modo, la Virtus Entella srl)2.

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Cfr. A. Palmieri, Tutela giurisdizionale dimidiata per le sanzioni disciplinari in ambito sportivo, in Foro it., 2011, I, 2611. Come si ricorderà, all’esito di un lungo contenzioso, il Collegio di Garanzia dello Sport, con la decisione n. 60 del 20.9.2018, in accoglimento del gravame interposto dalla Virtus Entella srl, ritenne che «l’unica possibilità per rispettare l’imprescindibile principio di afflittività (era) quello di applicare la sanzione nella stagione sportiva 2017/2018, rideterminando opportunamente la classifica finale del campionato di serie B e, così, dando atto dell’avvenuta retrocessione della AC Cesena spa attraverso un semplice scorrimento di classifica stessa, lasciando alla FIGC ed alla Lega di Serie B l’adozione dei conseguenti provvedimenti». In virtù di quel decisum, il club romagnolo, siccome penalizzato di 15 punti, scivolò all’ultimo posto della classifica del campionato di serie B 2017/2018; e, in ragione del conseguente slittamento della graduatoria, la Virtus Entella srl, pur retrocessa in serie C all’esito dei play out disputati con l’allora Ascoli Picchio FC 1898 spa (dal 18 luglio 2018, Ascoli Calcio 1898 FC spa), per un ovvio automatismo, acquisì il diritto a disputare il campionato di serie B 2018/2019. Sennonché, a séguito dell’intervenuto fallimento del FC Bari 1908 spa e dell’US Avellino 1912 srl (oltre che dell’AC Cesena spa), il Commissario straordinario della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), a mezzo di tre delibere pubblicate con i Comunicati ufficiali nn. 47, 48 e 49 del 13.8.2018 (in www.figc.it), nel modificare gli artt. 49 e 50 delle Norme organizzative interne (NOIF) della FIGC, «prevedendo per il Campionato di Serie B 2018/2019 un numero di 19 squadre anziché 22», aveva nel frattempo disposto «di non procedere all’integrazione delle vacanze di organico del Campionato di Serie B 2018/2019». Com’era facilmente prevedibile, tali delibere – dalle quali discendeva l’impossibilità di procedere a “ripescaggi” per la stagione sportiva appena cominciata – furono impugnate da diversi club interessati alla riammissione al campionato di serie B (ossia, oltre alla Virtus Entella srl, il Calcio Catania spa, il Novara Calcio spa, la Pro Vercelli FC 1892 srl, la Robur Siena spa e la Ternana Calcio spa) dinanzi al Collegio di Garanzia dello Sport. Quest’ultimo, però, a sezioni unite, dichiarò i singoli ricorsi «inammissibili perché ogni doglianza nei confronti della disposizione regolamentare ritenuta lesiva e dei conseguenti atti applicativi doveva essere proposta dinanzi agli Organi della Giustizia Federale» (decisione n. 62 del 25 settembre 2018). Dopo alterne vicende, il contenzioso si è chiuso, peraltro in mero rito, (dinanzi al TAR Lazio) soltanto il 7.5.2019. Quel che lascia maggiormente, per così dire, perplessi è la sorte riservata alla Virtus Entella srl che, nelle more di questo complesso e intricato iter processuale (per ovvie ragioni, qui appena abbozzato per grandi linee), pur avendo esordito il 19.9.2018 in serie C contro l’AC Gozzano srl, stante la perdurante incertezza legata all’esito del contenzioso, fu costretta a tollerare il rinvio “a data da destinarsi” di un ampio numero di gare e, per conseguenza, a disputare 39 incontri in poco più di cinque mesi. Né il lieto epilogo della storia, e cioè la promozione diretta in serie B conseguita sul campo dalla compagine ligure, può valere a ridimensionare l’estrema gravità di quanto accaduto. Anche e soprattutto perché gli avvenimenti testé sommariamente illustrati sono derivati dalla difettosa capacità gestionale e organizzativa della FIGC e cioè di una federazione sportiva cui fa capo un movimento che, con esclusivo riferimento all’annata 2014/2015, «ha prodotto a livello aggregato un fatturato totale pari ad oltre 3,7 miliardi di euro» (così lo studio, aggiornato al bilancio di esercizio chiuso il 31 dicembre 2015, redatto da FIGC e Deloitte, Il conto economico del calcio italiano, 10) e che, «contribuisce alla crescita della ricchezza nazionale per una percentuale pari al 7%» (così il rapporto Eurispes 2019, Il business del calcio in Italia, 760).

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

2. Il tormentato epilogo del campionato di calcio di serie B 2018/19.

Tutto ha avuto inizio col provvedimento n. 12055/816pf18-19/GP/GC/blp del 29.4.2019, in virtù del quale la Procura federale della FIGC ha deferito alla giustizia sportiva i sigg. M.Z. e A.M i quali, al tempo dei fatti contestati, ricoprivano la carica di Presidente, rispettivamente, del Consiglio di amministrazione e del Collegio sindacale dell’US Città di Palermo spa (d’ora in poi, Palermo); i sigg. G.G e M.Z., per questioni verificatesi nel periodo in cui essi erano, rispettivamente, Presidente e componente del Consiglio di amministrazione del Palermo; la stessa società calcistica siciliana, per responsabilità diretta – ex art. 4, comma 1, del Codice di giustizia sportiva della FIGC (CGS) – in relazione ai comportamenti tenuti dal sig. G.G. nonché per responsabilità oggettiva – ai sensi dell’art. 4, comma 2, CGS FIGC – in rapporto alla condotta posta in essere dal sig. M.Z. L’udienza del conseguente procedimento è stata celebrata, dinanzi al Tribunale federale nazionale della FIGC (per brevità, TFN), in data 10.5.2019. A distanza di sole ventiquattr’ore si è chiuso il campionato di calcio di serie B che – stando alla classifica finale, letta alla luce della Delibera del Commissario straordinario FIGC pubblicata col Comunicato ufficiale n. 60 del 20.8.2018 – avrebbe dovuto vedere la retrocessione diretta delle tre squadre ultime in graduatoria (in ordine crescente di collocazione, Carpi FC 1909 srl, Calcio Padova spa e Foggia Calcio srl) e la disputa dei play out tra la quart’ultima e la quint’ultima (nel caso di specie, US Salernitana 1919 srl e Venezia FC srl). Qualche giorno dopo, la sezione disciplinare del TFN, nel definire il giudizio a carico dei sigg. M.Z., G.G., A.M. e (per responsabilità diretta e oggettiva) del Palermo, ha dichiarato l’inammissibilità del deferimento nei confronti del primo; disposto l’inibizione di 2 anni per il secondo e di 5 anni (con preclusione ex art. 19, comma 3, CGS FIGC) per il terzo; stabilito, infine, la condanna del Palermo alla «retrocessione all’ultimo posto del campionato di serie B della stagione sportiva in corso 2018/2019»3. A tale provvedimento ha immediatamente fatto eco la LNPB che, attraverso il (per vero, assai discusso e opinabile) Comunicato stampa n. 75 del 13.5.2019 (in www.lnpb.it), ha reso noto che il Consiglio direttivo della medesima Lega, in ossequio alla «sentenza pubblicata il 13 maggio 2019 del Tribunale federale nazionale, immediatamente esecutiva, relativa all’US Città di Palermo, ha deliberato all’unanimità di procedere con le partite dei play off con le date già programmate lo scorso 29 aprile» e, nel contempo, di annullare la disputa dei play out, prendendo atto del «completamento delle retrocessioni, di cui tre già avvenute sul campo in data 11 maggio 2019 (Foggia, Padova, Carpi) e la quarta (Palermo) decisa dalla Giustizia sportiva».

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Così il Com. Uff. n. 63/TFN del 13.5.2019, in www.figc.it.

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Mario Pio Fuiano

È insorto, a questo punto, il Foggia Calcio srl (dipoi, soltanto Foggia) che ha impugnato giudizialmente la decisione del Consiglio direttivo LNPB, ottenendone – in via cautelare – la sospensione degli effetti sul presupposto che «la modifica della graduatoria del campionato, a séguito della retrocessione della squadra del Palermo, in realtà, provoca(va) uno scorrimento che ha come effetto quello di permettere la disputa dei play out a squadre diverse rispetto a quelle individuate nella precedente graduatoria, le quali, per effetto dello scorrimento medesimo, si trovano nelle posizioni di quart’ultima e quint’ultima» (TAR Lazio, sez. I ter, decr. 23 maggio 2019, in www.giustizia-amministrativa.it). Infine, su istanza del Presidente della FIGC (formulata tramite il Segretario generale del CONI), è intervenuto in ordine alla dibattuta questione il Collegio di Garanzia dello Sport4. Il supremo organo di giustizia del CONI, ponendosi nella scia del giudice amministrativo romano, ha affermato che: «in corretta esecuzione della Delibera di cui al Comunicato Ufficiale n. 50 del 20.8.2018, i play out per l’individuazione della quarta squadra retrocessa nel Campionato di Serie C, al termine del Campionato 2018/2019 di Serie BKT, devono essere effettuati e devono svolgersi fra la quart’ultima e la quint’ultima squadra collocate in graduatoria dopo la retrocessione all’ultimo posto del Palermo, cioè fra il Foggia (prima terz’ultima e ora quart’ultima, con 37 punti) e la Salernitana (prima quart’ultima e ora quint’ultima, con 38 punti), in presenza di un distacco fra le due che non supera i quattro punti»5. Proprio quando sembrava che l’ordine fosse stato ristabilito e che ogni tassello dell’articolato mosaico fosse tornato al proprio posto, a rimescolare le carte ci ha pensato la Corte federale d’appello della FIGC (per brevità, CFA) la quale, nel decidere le singole impugnazioni (nell’occasione, riunite in un unico procedimento) interposte dal Palermo, dai sigg. G.G. e A.M. nonché dal Procuratore federale FIGC avverso la pronuncia del TFN cui si è precedentemente fatto cenno, ha: i) dichiarato «inammissibili gli interventi proposti da Benevento Calcio srl, Lega Nazionale Professionisti Serie B, US Salernitana 1919 srl e Sporting Network srl»; ii) «in parziale accoglimento del ricorso come proposto dalla US Città di Palermo spa ed in parziale riforma della decisione impugnata, così ridetermina(to) la misura sanzionatoria alla stessa inflitta: punti 20 di penalizzazione in classifica da scontarsi nella corrente stagione sportiva 2018/19; ammenda di € 500.000,00»; iii) «in parziale accoglimento del ricorso come proposto dal sig. G.G. ed in parziale riforma della decisione impugnata rid(otto) la sanzione allo stesso inflitta ad anni 1 di inibizione»; iv) «in parziale accoglimento del ricorso come proposto dal sig. A.M. ed in parziale riforma della decisione impugnata rid(otto) la sanzione allo stesso inflitta ad anni 3 di inibizione»; v) «in

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Al Collegio di Garanzia dello Sport sono attribuite funzioni consultive dall’art. 54, comma 4, CGS CONI («il Collegio di Garanzia dello Sport svolge altresì le funzioni consultive di cui al comma 5 dell’art. 12-bis dello Statuto del CONI. In tal caso, la relativa istanza è proposta dal CONI o, suo tramite, dalle Federazioni») e dall’art. 12-bis, comma 5, Statuto CONI («il Collegio di Garanzia dello Sport svolge anche funzioni consultive per il CONI e, su richiesta presentata per il tramite del CONI, per le singole Federazioni sportive. Per lo svolgimento delle funzioni consultive, il Regolamento di cui al comma 8 assicura adeguate forme di distinzione e separazione dagli organi cui sono attribuite le funzioni giudiziali»). 5 Così il Collegio di Garanzia dello Sport (sez. consultiva), Parere n. 3 del 24.5.2019, in www.coni.it.

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

parziale accoglimento del ricorso in appello come proposto dal Procuratore Federale e dal Procuratore Federale Aggiunto e in parziale riforma della decisione impugnata, rilevata l’insussistenza della inammissibilità del deferimento dichiarata nei confronti del sig. M.Z., visto l’art. 37, comma 4 CGS FIGC, restitui(to) gli atti al Tribunale Federale Nazionale - Sezione Disciplinare»6. In tal modo, la classifica del campionato di serie B 2018/2019 ha subìto un secondo sconvolgimento, col Palermo degradato dal terzo all’undicesimo posto; il Carpi, il Padova e il Foggia direttamente retrocessi in serie C; e, ai play out, Salernitana e Venezia.

3. La quaestio iuris. La vicenda non è passata certo inosservata ed ha tenuto a lungo impegnati i media, gli addetti ai lavori e la giustizia amministrativa e sportiva. Non solo e non tanto per le rimostranze sollevate dai tesserati (calciatori in primis), costretti a disputare un doppio turno di play out, nei giorni 4 e 9.6.20197, in precarie condizioni atletiche e a quasi un mese dalla chiusura della regular season. Né per il clamore sollevato dagli eventi o per il fatto che il Venezia ha inutilmente adìto (con l’intervento ad adiuvandum del Foggia) il TAR Lazio, sostanzialmente allo scopo di ottenere la sospensione dello spareggio8. Quanto e soprattutto perché la difesa del Palermo prima e le sezioni unite della Corte federale d’appello pare abbiano preso un clamoroso abbaglio. Tutto ruota attorno al reclamo avverso la decisione pronunciata il 13.5.2019 dal TFN (sez. disciplinare) in confronto dei sigg. M.Z., G.G., A.M. e del Palermo. Come accennato, il gravame è stato proposto da ciascuna delle parti interessate (tra le quali anche la Procura federale) dinanzi alla CFA, evidentemente confidando nell’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 31, comma 1, CGS FIGC, secondo cui «la Corte federale

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V. il Com. Uff. n. 108/CFA (dispositivo) del 29.5.2019, in www.figc.it. La decisione per esteso è stata pubblicata con il Com. Uff. n. 122/CFA del 18.6.2019, ibid. 7 V. il Com. Uff. LNPB n. 169 del 30.5.2019, in www.legab.it. 8 Nell’occasione, il Venezia ha agito per l’annullamento, previa sospensiva cautelare, «del Comunicato Ufficiale n. 169 del 30.5.2019, comunicato alla ricorrente in pari data, del Presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie B con il quale, preso atto del C.U. FIGC n. 108/CFA – Sezioni Unite del 29.5.2019 e a parziale modifica di quanto previsto dal C.U. LNPB n. 161 del 15.5.2019, ha reso pubblica la nuova classifica finale del Campionato Serie BKT 2018/2019 nonché, visto il Consiglio Federale tenutosi in data 30.5.2019, ha comunicato il calendario delle gare di andata e ritorno di play out; nonché di ogni altro atto e/o comportamento presupposto, consequenziale e/o connesso, ancorché non cognito alla ricorrente, tra cui, ove occorrer possa: il Comunicato Ufficiale n. 167 del 27.5.2019 del Presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie B con il quale si è determinato lo svolgimento delle gare valide per i play out e, nelle more dell’adozione di eventuali ulteriori provvedimenti da parte di organi della Giustizia Federale, rimesso al Consiglio Direttivo ogni ulteriore provvedimento consequenziale; il parere n. 3 del 2019, prot. n. 409/19, del collegio di Garanzia Sez. Consultiva del CONI; il verbale, se esistente, del Consiglio Federale citato nel Comunicato Ufficiale n. 169 del 30.5.2019 del Presidente della LNPB» (così TAR Lazio, decr., 3 giugno 2019, n. 3250, in www.giustizia-amministrativa.it, di rigetto della domanda cautelare). Pronunciandosi nel merito, il giudice amministrativo ha declinato la propria giurisdizione (cfr. TAR Lazio, sez. I ter, 12 giugno 2019, n. 7620, in www.giustizia-amministrativa.it).

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Mario Pio Fuiano

di appello è giudice di secondo grado sui ricorsi presentati avverso: a) le decisioni del Tribunale federale a livello nazionale (…)». Sta di fatto, però, che con la l. 30 dicembre 2018, n. 145, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021», il Parlamento è intervenuto sull’art. 3, d.l. 19 agosto 2003, n. 220, conv. dalla l. 17 ottobre 2003, n. 280, aggiungendo in fine al primo comma i seguenti periodi: «sono in ogni caso riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ed alla competenza funzionale inderogabile del tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in Roma, le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche. Per le stesse controversie resta esclusa ogni competenza degli organi di giustizia sportiva, fatta salva la possibilità che lo statuto e i regolamenti del CONI e conseguentemente delle Federazioni sportive di cui gli artt. 15 e 16 del d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, prevedano organi di giustizia dell’ordinamento sportivo che, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del presente decreto decidono tali questioni anche nel merito ed in unico grado e le cui statuizioni, impugnabili ai sensi del precedente periodo, siano rese in via definitiva entro il termine perentorio di trenta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. Con lo spirare di tale termine il ricorso all’organo di giustizia sportiva si ha per respinto, l’eventuale decisione sopravvenuta di detto organo è priva di effetto e i soggetti interessati possono proporre, nei successivi trenta giorni, ricorso dinanzi al tribunale amministrativo regionale del Lazio» (art. 1, comma 647, l. n. 145/2018)9. Pertanto, a decorrere dall’1.1.2019 (giorno che segna, a norma dell’art. 19 l. ult. cit., l’entrata in vigore della novella de qua), alla sede di Roma del TAR Lazio sono devolute non soltanto a) le controversie che non siano riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ex art. 2 d.l. n. 220/2003 e che abbiano ad oggetto atti del CONI o delle Federazioni sportive ad esso affiliate, sempre che siano stati «esauriti i gradi della giustizia sportiva», «ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti» e «fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti del CONI e delle Federazioni sportive di cui all’art. 2, comma 2, nonché quelle inserite nei contratti di cui all’art. 4 della l. 23 marzo 1981, n. 91»; ma anche, in via esclusiva, b) le impugnazioni avverso provvedimenti che attengano, lato sensu, alla partecipazione a tornei professionistici di società o associazioni sportive anch’esse professionistiche. Il legislatore statale ha poi inteso concedere (in via meramente residuale) al CONI e alle Federazioni la possibilità – che, con ogni evidenza, rinviene la propria ratio nel rispetto

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Per una panoramica generale sulle novità introdotte in ambito sportivo con la l. n. 145/2018, v. P. Sandulli, Il nuovo giudizio relativo alle ammissioni e/o esclusioni dalle competizioni, in Riv. dir. sportivo, 2018, 297; M. Sanino e A. La Face, Lo sport nella legge di bilancio 2019, in www.rivistadirittosportivo.coni.it.

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

dell’autonomia dell’ordinamento sportivo – di istituire organi di giustizia ad hoc ai quali devolvere la decisione nel merito, in unico grado, delle controversie in precedenza indicate sub b). Al manifesto fine di assicurare la celerità di tali procedimenti, egli ha aggiunto, però, che i conseguenti provvedimenti endo o esofederali (suscettibili di gravame soltanto dinanzi al TAR Lazio) dovranno esser resi entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. Spirato inutilmente tale termine, il ricorso s’intenderà rigettato, l’eventuale decisione tardiva dovrà considerarsi tamquam non esset e gli interessati, nei successivi trenta giorni, potranno comunque adìre il TAR Lazio. È chiaro, quindi, che se il CONI e le Federazioni sportive vorranno avvalersi della facoltà loro accordata dall’art. 1, comma 647, l. n. 145/2018, saranno tenuti ad adeguare opportunamente i propri Statuti10. Per completezza, va pure detto che la nella legge di bilancio 2019 sono state fornite indicazioni di diritto transitorio circa l’operatività della ampliata giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, destinata a trovare immediata applicazione (in deroga al principio della perpetuatio iurisdictionis enunciato dall’art. 5 c.p.c.)11 con riferimento «ai processi ed alle controversie in corso alla data di entrata in vigore» della l. n. 145/2018 e, segnatamente, in relazione alle «controversie pendenti» all’1.1.2019 dinanzi a organi di giustizia sportiva e «aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche». Con la precisazione che, «fatto salvo quanto previsto dal comma 647, capoverso, secondo e terzo periodo», tali controversie «possono essere riproposte dinanzi al tribunale amministrativo regionale nel termine di trenta giorni decorrente dalla data di entrata in vigore della presente legge, con gli effetti previsti dall’art. 11, comma 2, del codice del processo amministrativo, di cui all’allegato 1 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104» (art. 1, commi 648 e 650, l. n. 145/2018). Siffatta disposizione non si segnala di sicuro per la sua linearità. Invero, stante il richiamo integrale all’art. 1, comma 647, l. ult. cit., parrebbe che, nei procedimenti già cominciati all’entrata in vigore della novella, l’organo di giustizia sportiva investito del gravame fosse tenuto a declinare la propria potestas iudicandi; e che, d’altro canto, il ricorrente avesse la facoltà di rinunciare al procedimento dinanzi all’autorità endo o esofederale e cominciare entro il 31.1.2019, (a pena di inammissibilità della domanda

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Cfr., al riguardo, P. Sandulli, op. ult. cit., § 3. Sul momento determinante ai fini della individuazione della giurisdizione (e della competenza), v. per tutti A. Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 36; R. Oriani, sub art. 2, in Provvedimenti urgenti per il processo civile. Commentario a cura di G. Tarzia e F. Cipriani, Padova, 1992, 2; Id., Novità e conferme in tema di perpetuatio iurisdictionis, in Foro it., 1990, I, 2544; Id., La «perpetuatio iurisdictionis» (art. 5 c.p.c.), ivi, 1989, V, 35; A. Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 41; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile4, I, Bari, 2015, 147; Id., La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 14; M. De Cristofaro, Perpetuatio iurisdictionis e competenza giurisdizionale per connessione, in Corriere giur., 2001, 910; A. Chizzini, Perpetuatio iurisdictionis e rapporto giuridico processuale, in Riv. dir. proc., 2017, 1291; B. Capponi, Arbitrato e perpetuatio iurisdictionis, in Riv. dir. proc., 2005, 260; E. Vullo, Il momento determinante della giurisdizione italiana, in Riv. dir. internaz. privato e proc., 2004, 1215; P. Comoglio, Minime riflessioni di ordine sistematico in tema di perpetuatio iurisdictionis, tempus regit actum e overruling processuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, 525.

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e) con gli effetti conservativi della translatio iudicii, un nuovo processo dinanzi al TAR Lazio. Allo stesso modo, le decisioni degli organi di giustizia sportiva pubblicate anteriormente all’1.1.2019 (e per le quali fossero ancora pendenti i termini per impugnare) erano ricorribili, sempre dinanzi al TAR Lazio e a pena di inammissibilità, entro il 31.1.2019 (art. 1, comma 648, l. n. 145/2018)12. Tale essendo il quadro normativo vigente, occorre verificare se la CFA sia stata legittimamente investita del gravame avverso la decisione resa il 13.5.2019 dal TFA (di cui al Com. Uff. n. 63/TFN, cit.).

4. Le «controversie aventi ad oggetto i provvedimenti

di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche».

Anzitutto, è da dire che la Corte federale d’appello della FIGC ha conservato, anche dopo l’1.1.2019, la propria competenza quale giudice sportivo di seconda istanza sia, in generale, avverso le decisioni del Tribunale federale nelle sue articolazioni a livello nazionale e territoriale, sia, settorialmente, in materia di illecito sportivo e violazioni in materia gestionale ed economica (artt. 31, comma 1, e 42 CGS FIGC). Come già precisato13, i distinti reclami presentati dai sigg. G.G. e A.M. nonché dalla Procura federale FIGC avevano ad oggetto l’inibizione (irrogata in danno dei primi due e negata, per inammissibilità del deferimento, in confronto del sig. M.Z.), una sanzione che si risolve nel temporaneo impedimento per «i dirigenti, i tesserati delle società, i soci e non soci di cui all’art. 1-bis, comma 5»14, colpiti dal provvedimento disciplinare, a svolgere attività istituzionali in seno a FIGC, UEFA e FIFA oppure a ricoprire cariche federali e rappresentare in ambito federale le società per cui operano (art. 19, comma 1, lett. h, CGS FIGC).

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L’intera disciplina de qua ricalca il testo del d.l. 5 ottobre 2018, n. 115, recante «Disposizioni urgenti in materia di giustizia amministrativa, di difesa erariale e per il regolare svolgimento delle competizioni sportive», in Gazz. Uff. n. 233 del 6 ottobre 2018, entrato in vigore il 7 ottobre 2018 e successivamente decaduto per mancata conversione. Hanno ritenuto che «la riproposizione del contenuto del decreto legge non convertito (id est, il d.l. n. 115/2018, n.d.r.) in modo quasi identico nella legge di bilancio 2018, e l’espressa previsione della sua applicazione ai processi pendenti, ben (potesse) essere interpretata nel senso di una sanatoria impropria degli effetti del decreto, consentendo di ritenere applicabili» alle controversie pendenti, promosse ai sensi del citato d.l., la novella di cui all’art. 1, commi 647-650, l. n. 145/2018: TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5697, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5696, ibid.; TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5695, ibid.; TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5694, ibid. 13 V. supra, § 2. 14 Secondo l’art. 1-bis, comma 5, CGS FIGC, sono tenuti alla osservanza delle norme contenute nel codice medesimo oltre che delle norme statutarie e federali «anche i soci e non soci cui è riconducibile, direttamente o indirettamente, il controllo delle società stesse, nonché coloro che svolgono qualsiasi attività all’interno o nell’interesse di una società o comunque rilevante per l’ordinamento federale».

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

È allora sin troppo evidente che i giudizi de quibus vertevano su questioni che non rientravano nel novero delle materie riservate, ex art. art. 3 d.l. n. 220/2003, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Dunque, essi sono stati correttamente incardinati dinanzi alla CFA. Discorso completamente diverso va fatto per il Palermo che – nei termini stabiliti dall’art. 37 CGS FIGC – ha presentato reclamo alla CFA avverso la decisione del 13.5.2019 con cui la sezione disciplinare del TFN lo aveva sanzionato con la «retrocessione all’ultimo posto del Campionato di serie B della stagione sportiva in corso 2018/2019». A differenza della «inibizione», che si sostanzia in una condanna a un mero non facere a carico di persone fisiche, la «retrocessione all’ultimo posto in classifica del campionato di competenza» (contemplata dall’art. 18, comma 1, lett. h, CGS FIGC) produce effetti destinati a riverberarsi, almeno di regola, sul concreto svolgimento (nella stagione successiva) dell’attività sportiva della società sanzionata. Per il campionato di calcio di serie B 2018/2019 non era prevista la conservazione della categoria per tutte le squadre concorrenti ma, al contrario, la FIGC aveva stabilito ex ante precisi criteri e meccanismi di avanzamento (nella categoria superiore) e di retrocessione (nella serie inferiore). In particolare, nella Delibera del 20.8.2018 a firma del Commissario straordinario della FIGC (Com. Uff. n. 50, in www.figc.it) si legge, con riferimento alla “promozione”, che «acquisiscono direttamente il titolo sportivo per richiedere l’ammissione al Campionato di Serie A TIM le squadre classificate al 1° e 2° posto del Campionato Serie BKT. La squadra classificata al 3° posto acquisisce direttamente il titolo sportivo per richiedere l’ammissione al Campionato di Serie A TIM se il distacco dalla squadra classificata al 4° posto supera i 14 punti; qualora il distacco in classifica non superi i 14 punti, la terza squadra che acquisisce il titolo sportivo per richiedere l’ammissione al Campionato di Serie A TIM è individuata con la disputa di play-off». Riguardo alle squadre posizionatesi in coda alla graduatoria, nella delibera medesima è invece disposto che «sono retrocesse direttamente al Campionato serie C le squadre classificate all’ultimo, penultimo e terz’ultimo posto del Campionato Serie BKT. La squadra quart’ultima classificata è retrocessa direttamente se il distacco dalla quint’ultima classificata supera i 4 punti; qualora il distacco in classifica non superi i 4 punti, la quarta squadra retrocessa è individuata con la disputa di play-out tra la quart’ultima classificata e la quint’ultima classificata». Ciò posto, dal momento che nella corrente stagione sportiva – per effetto della penalizzazione inflitta dal TFN – il Palermo sarebbe stato iscritto (previo adempimento degli obblighi federali) non già al campionato italiano di calcio di serie B bensì a quello immediatamente inferiore di serie C, non sembrano esservi dubbi in ordine al fatto che, a séguito del reclamo proposto dal club siciliano avverso TFN del 13.5.2019, la CFA è stata investita di una controversia in tema di «ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche» che, stante il vigente testo dell’art. 3 d.l. n. 220/2003, avrebbe dovuto essere decisa dal TAR Lazio. Qualcuno potrebbe eccepire che, in realtà, il provvedimento disciplinare inflitto al Palermo consiste, stricto sensu, nel declassamento all’ultimo posto; e che la retrocessione

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nella terza categoria professionistica rappresenta soltanto un posterius, un effetto inevitabile ma non voluto ovvero un evento meramente accidentale rispetto alla pena inflitta e quindi da quest’ultima ben distinto in quanto riconducibile nell’alveo dell’applicazione di misure organizzative. Sì che l’uno e l’altra sarebbero sottratti alla giurisdizione statale perché, a mente dell’art. 2, comma 1, lett. a) e b), d.l. n. 220/2003, costituirebbero manifestazione dell’autonomia dell’ordinamento sportivo. L’obiezione, però, non coglierebbe nel segno. Il codice di giustizia sportiva adottato dalla FIGC prevede, con riferimento alle violazioni regolamentari imputabili alle società, un ventaglio di dodici «sanzioni, commisurate alla natura e alla gravità dei fatti commessi». In quell’elenco viene contemplata la «penalizzazione di uno o più punti in classifica» che, ove «si appalesi inefficace nella stagione sportiva in corso, può essere fatta scontare, in tutto o in parte, nella stagione sportiva seguente» (art. 18, comma 1, lett. g, CGS FIGC). Siffatta sanzione potrebbe, a ben vedere, produrre diversi risultati, a seconda dei punti conseguiti sul campo e di quelli sottratti in sede disciplinare al club ritenuto responsabile. Sicché, quest’ultimo potrebbe vedersi: i) privato del titolo di ammissione alla categoria superiore ovvero della possibilità di giocare i play off; ii) retrocesso nella categoria immediatamente inferiore; iii) obbligato a disputare i play out per conservare la categoria; iv) oppure, ove mai la penalizzazione fosse irrilevante ai fini del campionato appena concluso, costretto a scontare una decurtazione di punti nella stagione successiva. Lo stesso codice, nel puntualizzare la portata della «retrocessione all’ultimo posto in classifica del campionato di competenza o di qualsiasi altra competizione agonistica obbligatoria», stabilisce expressis verbis che, «in base al principio della afflittività della sanzione», detta penalizzazione «comporta sempre il passaggio alla categoria inferiore» (art. 18, comma 1, lett. h, CGS FIGC). Cioè a dire, quand’anche la FIGC dovesse optare, in relazione a una certa annata sportiva, per il blocco delle retrocessioni15, la società punita col declassamento all’ultimo posto sarebbe in ogni caso privata del titolo utile per ottenere, nella stagione seguente, l’ammissione nella medesima categoria e sarebbe quindi tenuta a iscriversi al campionato di serie inferiore. Per violazioni particolarmente gravi, infine, può esser invece irrogata la pena della «esclusione dal campionato di competenza o da qualsiasi altra competizione agonistica obbligatoria» (art. 18, comma 1, lett. i, CGS FIGC). Trattasi di ipotesi estrema che implica la perdita del titolo per iscriversi alla categoria di competenza e l’ammissione, previo adempimento degli obblighi federali, ad altra categoria (diversa da quella immediatamente inferiore) assegnata in piena autonomia dal Consiglio federale.

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Trattasi di ipotesi difficile da realizzarsi ma senz’altro possibile. Per la stagione 2013/2014, infatti, allo scopo di varare, in ossequio al riformato art. 49 NOIF, il nuovo campionato di Lega Pro, «articolato in unica Divisione formata da tre gironi di 20 squadre ciascuno», il Consiglio federale (CF) della FIGC decise che non vi sarebbero state retrocessioni dalla Lega Pro - Prima Divisione né promozioni dalla Lega Pro - Seconda Divisione (cfr. il Com. Uff. n. 82/A del 21.11.2012, in www.figc.it).

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Alla luce di quanto detto, è inevitabile concludere che mentre la prima delle tre sanzioni appena esaminate potrebbe condizionare l’ammissione di un club a un campionato professionistico, la «retrocessione all’ultimo posto in classifica» e la «esclusione dal campionato» la condizionano sempre, essendo state pensate al precipuo scopo di impedire che alla società ritenuta responsabile delle violazioni contestate sia consentito iscriversi, nella stagione successiva, alla categoria cui era stata ammessa nel campionato di calcio appena terminato. Eventuali residue perplessità circa la visione qui prospettata sono fugate dallo stesso legislatore sportivo che chiarisce, in modo univoco e tutt’altro che ambiguo, come alla «retrocessione all’ultimo posto» consegua «sempre il passaggio alla categoria inferiore», sì che la pena è da intendersi unica, consistendo nella combinazione e nella perfetta fusione dei due eventi. Del resto, per poco che si rifletta, la differenza tra «retrocessione all’ultimo posto» ed «esclusione dal campionato di competenza» risiede proprio nel diverso grado di afflittività fra le due sanzioni, atteso che, nella prima, la categoria di destinazione è predeterminata ab origine, dovendo individuarsi in quella immediatamente inferiore; nella seconda è invece il Consiglio federale a decidere, in base a una propria libera scelta, quale dei campionati inferiori il club dovrà disputare. Sotto altro profilo, esaminando la terminologia tecnica adoperata dalla FIGC, può facilmente evincersi che: i) nelle “carte federali” si discorre costantemente di “ammissione” delle società ai singoli tornei per indicare la richiesta o il diritto delle stesse di prender parte a un qualsivoglia campionato di calcio oppure a competizioni UEFA16; ii) nel Manuale Licenze Nazionali (§ I, lett. E, punto 1)17 si legge che, «entro il termine perentorio del 24 giugno 2019», le società erano tenute a «depositare, a pena di decadenza, (…), la domanda di ammissione al Campionato (…), contenente la richiesta della concessione della Licenza Nazionale»; iii) la FIGC, allorquando individua i criteri per il “ripescaggio” delle società retrocesse, parla di «riammissione al Campionato»18. Ma se la iscrizione di una squadra a un campionato FIGC passa attraverso la sua ammissione al torneo, ne discende che qualsiasi controversia sorga in ordine all’assegnazione a un club della categoria di competenza (vuoi nel caso in cui la società non abbia rispettato gli adempimenti richiesti o la tempistica di espletamento degli stessi, vuoi quando essa abbia subìto un declassamento a séguito di provvedimento disciplinare, vuoi in ipotesi di

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V., per es., gli artt. 16-bis, 49, 51, 52, 52-ter, 52-quater e 58 delle NOIF; gli art. 2, 4, 7, 16, 18 dello Statuto LNPB; l’art. 4 dello Statuto Lega Pro. 17 Cfr. i Comunicati ufficiali del CF della FIGC nn. 99/A (per la serie A), 100/A (per la serie B) e 101/A (per la serie C) del 19.4.2019, in www.figc.it. 18 Cfr., per es., il Com. Uff. n. 120/A, pubbl. il 21.5.2019, in www.figc.it, recante la Delibera del CF con cui sono stati definiti i «criteri per la riammissione al Campionato di Serie A 2019/2020, ai sensi dell’art. 49, comma 5, delle NOIF, delle società retrocesse dal medesimo Campionato nella stagione 2018/2019»; il Com. Uff. n. 121/A, pubbl. il 21.5.2019, ibid., recante la Delibera del CF con cui sono stati definiti i «criteri per la riammissione al Campionato di Serie B 2019/2020, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 49 delle NOIF, delle società retrocesse dal medesimo Campionato nella stagione 2018/2019»; il Com. Uff. n. 122/A, pubbl. il 21.5.2019, ibid., recante la Delibera del CF con cui sono stati definiti i «criteri per la riammissione al Campionato di Serie C 2019/2020, ai sensi dell’art. 49 delle NOIF, delle società retrocesse dal medesimo Campionato nella stagione 2018/2019».

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denegata istanza di “ripescaggio”) avrà ad oggetto l’impugnazione di un provvedimento federale in materia di ammissione a una competizione. Né è a dire che l’operatività della riforma de qua sia sospesa nelle more della revisione degli statuti e dei regolamenti di CONI e FIGC19. Basti considerare, infatti, che, da un lato, l’art. 1, comma 650, l. n. 145/2018, stabilisce limpidamente che il comma 647 (recante la modifica dell’art. 3 d.l. cit.) trova applicazione, in uno ai commi 648-649, «anche ai processi ed alle controversie in corso alla data di entrata in vigore» della medesima legge (fissata all’1.1.2019); dall’altro, l’art. 1, comma 648, l. cit. detta una disciplina transitoria ad hoc (v. supra, § 3) finalizzata alla immediata e tempestiva – oltre che atipica – translatio iudicii, dagli organi di giustizia sportiva al TAR Lazio, delle controversie pendenti aventi ad oggetto la partecipazione a competizioni professionistiche. Sì che l’adeguamento della normativa CONI e federale (nei limiti consentiti dall’art. 1, comma 648, l. cit.), lungi dal configurarsi come la condicio sine qua non perché la riforma spieghi effetto, rappresenta una mera concessione elargita dallo Stato all’ordinamento sportivo al fine di garantirne l’autonomia. Ad ogni modo, mette conto evidenziare che il CONI ha tentato (come si dirà meglio in séguito, senza riuscirci) di adeguarsi prontamente alla novella, non soltanto istituendo, nell’ambito del Collegio di Garanzia dello Sport, la “Sezione sulle controversie in tema di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche” (artt. 12-bis e 12-ter Statuto CONI)20, ma anche integrando il proprio “Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio di Garanzia dello Sport” (RCGS) con l’aggiunta dell’Allegato “A”, recante un apposito “Regolamento di organizzazione e funzionamento della sezione del Collegio di Garanzia dello Sport sulle controversie in tema di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche”. Sennonché, dalla lettura di quest’ultimo Regolamento emerge che alla neonata speciale Sezione del Collegio di Garanzia è attribuita la competenza a conoscere dei ricorsi avverso i provvedimenti pronunciati: i) dal Consiglio federale della FIGC e della Federazione italiana pallacanestro (FIP) «in tema di iscrizione delle società ai campionati nazionali professionistici» di calcio e basket; ii) «dal Consiglio Federale sulla domanda di integrazione degli organici dei Campionati Professionistici di calcio e di pallacanestro (c.d. ripescaggio)»; iii) «dal Presidente o dal Consiglio Federale recanti la fissazione dei criteri e delle procedure preordinate all’integrazione degli organici dei Campionati Professionistici di calcio e di pallacanestro» (art. 2, comma 2, All. A, RCGS). Quindi, parrebbe doversi dedurre che, secondo il CONI, il campo di azione della riforma introdotta con la legge di bilancio 2018 sarebbe circoscritto alle sole ipotesi nelle quali una società sportiva professionistica di calcio o basket non abbia provveduto agli

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Nel senso del testo, v. P. Sandulli, Il nuovo giudizio, cit., § 3; M. Sanino e A. La Face, Lo sport, cit., 37. La Sezione – che decide in unico grado con rito accelerato ed esaurisce i gradi della giustizia sportiva – si pronuncia con provvedimento «impugnabile ai sensi di legge» (art. 12-ter Statuto CONI).

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adempimenti funzionali alla concessione della Licenza nazionale nonché in materia di “ripescaggi”. L’interpretazione adottata, però, desta gravi perplessità. La massima istituzione sportiva italiana avrebbe avuto ragione se l’art. 1, comma 647, l. n. 145/2018 si fosse limitato ad operare un riferimento, sic et simpliciter, alle «controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche». Il legislatore statale, invece, è andato ben oltre ed ha precisato, forse proprio allo scopo di evitare fraintendimenti, che la citata norma trova applicazione anche in relazione ai giudizi afferenti a provvedimenti «comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche». Dal momento che in claris non fit interpretatio, all’espressione “comunque incidenti” deve necessariamente attribuirsi un valore estensivo, tale da aggiungere un quid pluris rispetto all’altro capo dell’alternativa cui è collegata. E tale risultato può ottenersi soltanto ammettendo che la disposizione de qua si riferisce a qualsivoglia iniziativa tesa alla rimozione o alla modifica di una determinazione federale che influisca tout court sulla concessione a un club del titolo per disputare un torneo non dilettantistico21. D’altro canto, diversamente opinando, ci si dovrebbe rassegnare all’inutilità della novella del 2018, atteso che già prima di tale intervento era pacifico che il giudice amministrativo avesse giurisdizione esclusiva, in ragione del coinvolgimento di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale, sulle controversie che vertevano stricto sensu in materia di 1) ammissione e affiliazione alle federazioni di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati nonché di 2) organizzazione e svolgimento delle attività agonistiche non programmate ed a programma illimitato e di ammissione alle stesse delle squadre e degli atleti22. E poiché, come ampiamente illustrato in precedenza, vi sono sanzioni disciplinari cui consegue ipso iure la perdita del titolo per disputare il campionato corrispondente alla categoria conseguita per merito sportivo, non è ravvisabile alcuna valida ragione idonea ad escludere che anche i rimedi avverso i provvedimenti coi quali dette penalizzazioni siano disposte debbano obbedire al regime dettato dal novellato art. 3 d.l. n. 220/2003.

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Osservano giustamente M. Sanino e A. La Face, Lo sport, cit., 35, che «il diritto alla “ammissione” (o alla “esclusione”) può estendersi ad altre fattispecie che certamente il legislatore non aveva in mente: ad esempio, la problematica relativa alla ammissione in assenza di determinati requisiti, ovvero l’“esclusione” a séguito di sanzioni. La perplessità più consistente è, pertanto, rappresentata proprio dall’inciso, voluto dal legislatore, “… o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche”; è chiaro che non sarà difficile in futuro attribuire un contenuto a tale asserzione generica e indeterminata ed individuare fattispecie “comunque” correlate alla ammissione o esclusione delle squadre da una competizione professionistica. In definitiva, la norma dovrà completarsi con un serio e approfondito esame da parte della giurisprudenza la quale dovrà farsi carico di dare soddisfacente indicazione alla locuzione “comunque incidenti”». 22 Tali controversie sono state, per pochissimo tempo, riservate all’autonomia dell’ordinamento sportivo dall’art. 2, comma 1, lett. c) e d), d.l. n. 220/2003. Re melius perpensa, il legislatore, in sede di conversione, decise di espungerle dall’elenco di cui alla norma de qua rimettendole, di fatto, alla giurisdizione del giudice amministrativo. La legittimità costituzionale di tale scelta fu asseverata da Corte cost. 11 febbraio 2011, n. 49, in Foro it., 2011, I, 2602, con nota di A. Palmieri, sul presupposto che «l’autonomia dell’ordinamento sportivo recede allorché siano coinvolte situazioni giuridiche soggettive che, sebbene connesse con quello, siano rilevanti per l’ordinamento giuridico della Repubblica».

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Sì che, in considerazione del nuovo assetto dei rapporti tra giustizia sportiva e statale deciso dal legislatore del 2018, l’autonomia dell’ordinamento sportivo (sancita dall’art. 2, comma 1, lett. b, d.l. n. 220/2003) in ordine ai «comportamenti rilevanti sul piano disciplinare» e alla «irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive» va salvaguardata soltanto a condizione che queste ultime non siano «comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche»23. La correttezza della lettura testé prospettata pare trovare sostegno e riscontro nell’interpretazione fornita nel maggio del 2019 dal TAR Lazio24, chiamato a pronunciarsi su quattro distinti ricorsi coi quali il Calcio Catania spa, la Ternana Calcio spa, la Robur Siena spa e la FC Pro Vercelli 1892 srl erano insorti contro la decisione del TFN25 che aveva dichiarato inammissibile il reclamo proposto dalle società medesime avverso talune delibere assunte dal Commissario Straordinario della FIGC26 con le quali era stato modificato l’organico del Campionato di serie B, portandolo da 22 a 19 squadre, e conseguentemente disposto di non procedere ai “ripescaggi” in quella categoria, in tal modo revocando una precedente delibera27. Dall’esame di tali sentenze emerge che il giudice amministrativo romano, facendo leva (nel solco di una consolidata giurisprudenza e soprattutto di Corte cost. n. 49/2011, cit.28) sulla rilevanza per l’ordinamento nazionale della «situazione soggettiva vantata dai soggetti che ambiscono all’ammissione ai campionati sportivi professionistici», è pervenuto alla conclusione che le nuove disposizioni in materia sportiva introdotte ex l. n. 145/2018 sono pienamente «conformi ai principî che debbono guidare il legislatore nell’istituire una nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche secondo quanto affermato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale29, in quanto nella materia in

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Rileva P. Sandulli, Il nuovo giudizio, cit., § 3, che «dalla analisi del testo del comma 647, art. 1, della legge n. 145 del 2018, può desumersi che la prima intenzione del legislatore è quella di sottrarre tali controversie alla giustizia sportiva, assegnandole alla competenza giurisdizionale esclusiva del solo giudice amministrativo (il TAR del Lazio con sede in Roma). Tuttavia, questa intenzione del legislatore statale appare mitigata, presumibilmente dalla necessità di contemperamento della presente normativa con la promessa di “favorire” l’autonomia della giustizia sportiva, contenuta nell’articolo 1 della legge n. 280 del 2003, dando la possibilità al CONI di modificare il proprio Statuto (e conseguentemente quello delle federazioni), prevedendo un giudice “speciale” interno al sistema della giustizia sportiva individuato per tali controversie, il quale eserciti il suo potere in tempi brevi e contingentati (30 giorni)». 24 Il riferimento è a TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5697, cit. (Pro Vercelli FC 1892 srl c. CONI e altri); TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5696, cit. (Robur Siena spa c. LNPB e altri); TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5695, cit. (Ternana Calcio spa c. FIGC e altri); TAR Lazio, sez. I ter, 7 maggio 2019, n. 5694, cit. (Calcio Catania spa c. LNPB e altri). 25 V. il Com. Uff. n. 22/TFN dell’1.10.2018, in www.figc.it. 26 Pubbl. con Com. Uff. nn. 47, 48 e 49 del 13.8.2018, in www.figc.it. 27 Pubbl. con Com. Uff. n. 54 del 30.5.2018, in www.figc.it. 28 Secondo tale pronuncia, «la possibilità, o meno, di essere affiliati ad una Federazione sportiva o tesserati presso di essa nonché la possibilità, o meno, di essere ammessi a svolgere attività agonistica disputando le gare ed i campionati organizzati dalle Federazioni sportive facenti capo al CONI – il quale, a sua volta, è inserito, quale articolazione monopolistica nazionale, all’interno del Comitato Olimpico Internazionale – non è situazione che possa dirsi irrilevante per l’ordinamento giuridico generale e, come tale, non meritevole di tutela da parte di questo. Ciò in quanto è attraverso siffatta possibilità che trovano attuazione sia fondamentali diritti di libertà – fra tutti, sia quello di svolgimento della propria personalità, sia quello di associazione – che non meno significativi diritti connessi ai rapporti patrimoniali – ove si tenga conto della rilevanza economica che ha assunto il fenomeno sportivo, spesso praticato a livello professionistico ed organizzato su base imprenditoriale – tutti oggetto di considerazione anche a livello costituzionale». 29 Corte cost. 6 luglio 2004, n. 204, in Foro it., 2004, I, 2594, con note di S. Benini, A. Travi e F. Fracchia.

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

questione vengono in rilievo situazioni di interesse legittimo correlate a profili autoritativi dell’azione amministrativa». Inoltre, disattendendo l’eccezione sollevata da FIGC e LNPB, ha dichiarato la propria giurisdizione per ben due volte: la prima, nel pronunciarsi sulla sospensiva, richiamando il d.l. n. 115/2018 (poi decaduto per mancata conversione in legge)30; la seconda, in sede di decisione nel merito, affermando l’applicabilità nel caso di specie dell’art. 1, commi 647 e 650, l. n. 145/2018. Per poco che si rifletta, il TAR Lazio – laddove ha sostenuto che l’ammissione di un club ai campionati professionistici attiene alla «organizzazione stessa delle manifestazioni sportive, con immediata e diretta incidenza su contrapposti fondamentali diritti di libertà, oltre che di posizioni soggettive di sicuro rilievo patrimoniale», e che «nell’attività di organizzazione di competizioni calcistiche nazionali la FIGC agisce come organo delegato del CONI, e dunque partecipa della natura di ente pubblico di quest’ultimo, esercitando poteri di carattere autoritativo» – ha dimostrato di ritenere che la portata del precetto di cui al novellato art. 3 d.l. n. 220/2003 è estremamente ampia. E che, siccome l’organizzazione di un campionato professionistico passa necessariamente attraverso la predisposizione della griglia delle squadre partecipanti (e cioè da ammettere al torneo), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non può esser arbitrariamente circoscritta alle controversie sorte in fase di iscrizione dei club per questioni legate alla tempestività degli adempimenti o alla piena rispondenza degli stessi alle istruzioni impartite dalla Federazione o dalla Lega. Giust’al contrario, essa va estesa a tutte le ipotesi nelle quali l’ammissione di una società a una competizione professionistica risulti in qualche modo controversa o contestata. Il principio è stato ribadito, benché implicitamente, da TAR Lazio, sez. I ter, 12 giugno 2019, n. 7620, cit., che ha dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso promosso dal Venezia allo scopo di impugnare il «Comunicato Ufficiale n. 169 del 30 maggio 2019, del Presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie B con il quale, preso atto del C.U. FIGC n. 108/CFA – Sezioni Unite del 29 maggio 2019 e a parziale modifica di quanto previsto dal C.U. LNPB n. 161 del 15 maggio 2019, ha reso pubblica la nuova classifica finale del Campionato Serie BKT 2018/2019 nonché, visto il Consiglio Federate tenutosi in data 30 maggio 2019, ha comunicato il calendario delle gare di andata e ritorno di play out». La decisione è assolutamente rispettosa dell’art. 3 d.l. n. 220/2003 in quanto, com’è evidente, il club lagunare, lungi dall’aver sottoposto a gravame un provvedimento che ha determinato l’ammissione o l’esclusione – da competizioni professionistiche – di società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidente sulla partecipazione a competizioni professionistiche, ha semplicemente postulato la rimozione di «un effetto derivante dalla previgente disciplina degli spareggi di fine campionato».

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Sul quale, v. supra, nota 12.

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5. L’inammissibilità dell’impugnativa alla CFA della

«retrocessione all’ultimo posto in classifica» dell’US Città di Palermo: rimedi e conseguenze.

Alla luce della interpretazione qui professata, il Palermo non avrebbe dovuto impugnare dinanzi alla CFA la sanzione della «retrocessione all’ultimo posto del campionato di serie B» inflittagli dal TFN col provvedimento del 13.5.2019. Invero, non potendo neppure presentare ricorso alla Sezione ad hoc del Collegio di Garanzia dello Sport, stante il maldestro recepimento della novella da parte del CONI, il club siciliano non avrebbe potuto far altro che rivolgersi al TAR Lazio. L’impressione che si ha, leggendo TFN del 13.5.2019, è che la società reclamante si sia fatta fuorviare dal proprio stesso giudice che, nel rigettare l’«eccezione di difetto di giurisdizione in relazione a quanto previsto dal novellato art. 3 d.l. 220/2003 ha osservato come al riguardo fosse «sufficiente evidenziare che oggetto del presente procedimento non è l’ammissione o l’esclusione dalle competizioni professionistiche, bensì la violazione di specifiche norme di natura amministrativo-gestionale». La decisione assunta dal giudice di prime cure è, al pari della motivazione, assolutamente ineccepibile, atteso che il procedimento di primo grado è stato celebrato, per fini disciplinari, in virtù del deferimento della Procura federale, senza che fosse in alcun modo in discussione la partecipazione del Palermo a un qualsivoglia torneo. Viceversa, ad essere «incidente» sulla partecipazione a competizioni professionistiche è proprio il provvedimento del TFN con cui il club siciliano è stato condannato alla degradazione all’ultimo posto del campionato di serie B e alla conseguente retrocessione in serie C. Tuttavia, nel procedimento endofederale di secondo grado, la Procura non ha fatto valere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; né la CFA ha inteso declinare la propria potestas iudicandi31. Così stando le cose, lo scenario sarebbe potuto divenire piuttosto complesso e gli avvenimenti futuri difficilmente prevedibili. È possibile, però, fare ordine nel primo e, con un pizzico di creatività, immaginare i secondi. Era scontato, vista la gravità dei fatti contestati, che il Palermo avrebbe prestato acquiescenza al decisum della CFA la quale, pur negandogli la possibilità di disputare i play off, gli aveva per lo meno restituito la serie B. Viceversa, la Procura federale, il Foggia e il Venezia, per motivi diversi, avrebbero dovuto presumibilmente puntare, seguendo strade differenti, alla prosecuzione del contenzioso. La prima, soccombente parziale dinanzi alla CFA che aveva riformato in melius la sanzione irrogata dal TFN, aveva un palese interesse a impugnare il provvedimento reso

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A mente dell’art. 37, comma 6, CGS FIGC, «la Corte federale di appello, se rileva che la decisione impugnata concerna materia sottratta agli Organi della giustizia sportiva, annulla senza rinvio la decisione e trasmette gli atti al Presidente federale per l’eventuale inoltro all’Organo federale competente».

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

all’esito dell’appello e, in linea con la strategia processuale sino a quel momento seguita, avrebbe dovuto ricorrere (ex art. 58 ss. CGS CONI) al Collegio di Garanzia dello Sport32. Quanto a Foggia e Venezia, è sin troppo ovvio che una eventuale retrocessione del Palermo decretata in sede di giustizia sportiva o amministrativa avrebbe prodotto, con riguardo alla classifica finale del campionato di calcio di serie B33, uno slittamento in avanti delle posizioni guadagnate, a fine torneo, dalle partecipanti in virtù del quale: 1) alla squadra pugliese (giunta terz’ultima e direttamente retrocessa in serie C) sarebbe stato attribuito un piazzamento utile per disputare i play out con la Salernitana; 2) invece, i veneti (finiti in serie C perché sconfitti proprio dalla Salernitana nel doppio confronto dei play out), salendo al sest’ultimo posto, avrebbero acquisito il titolo di permanenza nella categoria e la LNPB sarebbe stata obbligata – almeno teoricamente – a organizzare nuovamente i play out, questa volta tra Foggia e Salernitana, per individuare la quarta squadra retrocessa. Dunque, l’interesse ad agire in giudizio per entrambe le società sarebbe stato senz’altro sussistente34. Ma, dal momento che nessuno dei due club era legittimato a impugnare CFA (sez. un.) del 29.5/18.6.2019 dinanzi al Collegio di Garanzia dello Sport, non avendo preso parte a quel procedimento35, ci si deve domandare se essi avessero a disposizione un rimedio idoneo a tutelarle. Come detto in precedenza, poiché il CONI non si è pienamente adeguato al precetto di cui all’art. 1, comma 647, l. n. 145/2018 (che la FIGC ha, per parte sua, del tutto ignorato), l’impugnazione promossa del Palermo era – stante la giurisdizione esclusiva del TAR Lazio in materia – manifestamente inammissibile e la CFA ha deliberato, in difetto assoluto di potestas iudicandi, la riforma della sanzione inflitta dal TFN. L’art. 37, comma 6, CGS CONI, efficace in confronto di tutte le federazioni associate, con espresso riferimento al giudizio innanzi alla Corte federale d’appello, stabilisce che

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Conviene ricordare che, a mente dell’art. 54, comma 1, CGS CONI, il Collegio di Garanzia dello Sport è competente «avverso tutte le decisioni non altrimenti impugnabili nell’ambito dell’ordinamento federale ed emesse dai relativi organi di giustizia, ad esclusione di quelle in materia di doping e di quelle che hanno comportato l’irrogazione di sanzioni tecnico-sportive di durata inferiore a novanta giorni o pecuniarie fino a 10.000 euro». Il medesimo organo «giudica altresì le controversie ad esso devolute dalle altre disposizioni del presente Codice, da delibere della Giunta nazionale del CONI, nonché dagli Statuti e dai Regolamenti federali sulla base di speciali regole procedurali, anche di tipo arbitrale, definite d’intesa con il CONI. Giudica inoltre le controversie relative agli atti e ai provvedimenti del CONI nonché le controversie relative all’esercizio delle funzioni dei componenti della Giunta Nazionale del CONI. Nei casi di cui al presente comma, il giudizio si svolge in unico grado. Si applica l’art. 33 del presente Codice in quanto compatibile. // Il Collegio di Garanzia dello Sport svolge altresì le funzioni consultive di cui al comma 5 dell’art. 12-bis dello Statuto del CONI. In tal caso, la relativa istanza è proposta dal CONI o, suo tramite, dalle Federazioni» (art. 54, commi 3 e 4, CGS CONI). 33 La graduatoria di fine stagione sportiva dei club partecipanti al campionato viene resa ufficiale a mezzo di provvedimento a firma del Presidente di Lega. Nel caso di specie, v. il Com. Uff. LNPB n. 169 del 30.5.2019, cit., redatto in virtù del Com. Uff. n. 108/CFA (sez. un.) del 29 maggio 2019, cit., e a parziale modifica del Com. Uff. LNPB n. 161 del 15.5.2019, pubbl. in www.legab.it. 34 Sull’interesse ad agire la letteratura è sterminata. Si rinvia, per tutti, a G. Balena, Istituzioni, I, cit., 59; B. Sassani, Interesse ad agire (diritto processuale civile), voce dell’Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, XVII; Id., Note sul concetto di interesse ad agire, Napoli, 1983; A. Attardi, Interesse ad agire, voce del Dig. civ. Disc. priv., Torino, 1993, 514; M. Marinelli, La clausola generale dell’art. 100 c.p.c.: origini, metamorfosi e nuovi ruoli, Trento, 2005; G. Impagnatiello, Due note in tema di interesse ad agire, in Foro it., 1993, I, 964; E. Fabiani, Interesse ad agire, mero accertamento e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. dir. proc., 1998, 545; A. Nasi, Interesse ad agire, voce dell’Enc. dir., Milano, XXII, 1972, 28. 35 Secondo l’art. 54, comma 2, CGS CONI, hanno facoltà di proporre ricorso al Collegio di Garanzia dello Sport «le parti nei confronti delle quali è stata pronunciata la decisione nonché la Procura Generale dello Sport».

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Mario Pio Fuiano

«col reclamo la controversia è devoluta al collegio davanti al quale è proposto nei limiti delle domande e delle eccezioni non rinunciate o altrimenti precluse»36. Ciò significa che l’ordinamento sportivo conosce una sorta di giudicato endofederale che produce, come nel processo civile, la sanatoria delle nullità non impugnate. Sta di fatto, però, che i giudici sportivi non esercitano attività giurisdizionale ma operano «secondo uno schema proprio della cosiddetta “giustizia associativa”»37 e che, pertanto, il reclamo proposto dal Palermo alla CFA era viziato non già da difetto di giurisdizione, bensì da inammissibilità che, notoriamente e per giurisprudenza costante, «non è la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell’appello e del ricorso per cassazione, e non è comminata in ipotesi tassative, ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo (nel caso dell’appello, evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado) – non operi un meccanismo di sanatoria»38. Non a caso la Corte di cassazione, allorquando ha affrontato questioni riservate all’autonomia dell’ordinamento sportivo e in riferimento alle quali era stato contestato il “difetto assoluto di giurisdizione”, ha «ripetutamente affermato il principio che la giustiziabilità della pretesa dinanzi alla giustizia statale costituisce una questione non di giurisdizione ma di merito (Cass., sez. un., 4 agosto 2010, n. 18052, in Foro it., 2011, I, 125)»39. Ma se il Palermo aveva proposto dinanzi alla CFA un reclamo inammissibile, e dunque affetto da un vizio insanabile (atteso che avrebbe dovuto rivolgersi, a mente dell’art. 3 d.l. n. 220/2003, al TAR Lazio, entro trenta giorni dalla pubblicazione della gravata decisione), la pronuncia resa dalla Corte medesima era da considerarsi tamquam non esset, anzi, più precisamente, «priva di effetto» (arg. ex art. 3, ultimo periodo, d.l. cit.). Nel frattempo, il 12.6.2019 era pure inutilmente spirato il dies ad quem per impugnare, dinanzi al giudice amministrativo, il provvedimento del 13.5.2019 con cui il TFN aveva condannato lo stesso club alla «retrocessione all’ultimo posto del campionato di serie B della stagione sportiva

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Il riportato precetto non va confuso con quanto stabilito, in linea generale, dall’art. 33, comma 9, CGS FIGC (secondo cui «le irregolarità procedurali che rendano inammissibile il reclamo non possono essere sanate con i reclami in successiva istanza») né con le sue applicazioni particolari in sede di impugnazione dinanzi alla Corte sportiva di appello a livello territoriale (art. 36, comma 7, CGS FIGC), alla Corte sportiva di appello a livello nazionale (art. 36-bis, comma 5, CGS FIGC) e alla Corte federale di appello (art. 37, comma 5, CGS FIGC), che si riferiscono esclusivamente alle «irregolarità formali relative alla sottoscrizione dei reclami e dei ricorsi, nonché alla delega», sanabili, ex art. 33, comma 9, CGS FIGC, «sino al momento del trattenimento in decisione degli stessi». 37 Così Corte cost. 11 febbraio 2011, n. 49, cit. 38 Così Cass. 27 settembre 2016, n. 18932, in http://www.italgiure.giustizia.it. Nello stesso senso, ex plurimis, v. Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, in Foro it., 2000, I, 1606, con note di G. Balena e C.M. Barone; Cass. 18 febbraio 2015, n. 3223, in http://www. italgiure.giustizia.it. 39 Così Cass., sez. un., 13 dicembre 2018, n. 32358, in Foro it., 2019, I, 134. Nella medesima pronuncia, la S.C. prosegue rilevando che il riferito orientamento «è in linea con altri arresti secondo cui la configurabilità, o meno, di una situazione giuridicamente rilevante e tutelabile non rientra tra le questioni di giurisdizione, costituendo, invece, questione di merito, che deve essere rimessa alla valutazione monopolistica del giudice del merito (Cass., sez. un., 15 giugno 1987, n. 5256, in Foro it., 1987, I, 2015; e 23 marzo 2004, n. 5775, ivi, Rep. 2005, voce Sport, n. 93). Il principio è stato ribadito, partitamente, riguardo alle federazioni sportive (Cass., sez. un., 29 settembre 1997, n. 9550, ivi, 1998, voce Giustizia amministrativa, n. 945; e 24 luglio 2013, n. 17929, ivi, 2013, voce Cassazione civile, n. 78) e recentemente anche riguardo alla FIGC (Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 647, ivi, 2016, voce Giurisdizione civile, n. 52)».

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in corso 2018/2019» e che, quindi, almeno nell’ordinamento sportivo, aveva ormai acquisito piena stabilità. Resta allora da comprendere secondo quali modalità Venezia e Foggia avrebbero potuto far valere l’intervenuta inappellabilità di TFN del 13.5.2019 e conseguentemente ottenere, la prima, il riconoscimento della conservazione del titolo sportivo a iscriversi in serie B nella stagione 2019/2020; la seconda, la possibilità di disputare i play out con la Salernitana. Ebbene, in ragione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle «controversie aventi ad oggetto i provvedimenti (…) comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche», le due società di cui sopra non avevano altra strada da percorrere se non rivolgersi al TAR Lazio chiedendo, tramite l’esperimento di un’actio nullitatis40, l’accertamento dell’inesistenza giuridica di CFA del 29.5/18.6.2019. In conseguenza dell’esito del giudizio favorevole alle ricorrenti, la LNPB si sarebbe vista costretta a stravolgere la classifica finale del campionato di competenza, prendendo atto della retrocessione in serie C del Palermo, riammettendo il Venezia in serie B e organizzando nuovi play out tra Foggia e Salernitana. Quest’ultimo adempimento, però, di fatto non sarebbe stato realizzabile per questioni di carattere lavoristico, atteso che, a mente del vigente Accordo Collettivo tra FIGC, LNPB e AIC (sottoscritto – ai sensi dell’art. 4 l. 23 marzo 1981, n. 91 e succ. modif. – il 18.7.2014)41, i calciatori hanno «diritto ad un periodo di riposo annuale della durata di quattro settimane» (art. 18.2). E siccome si era ormai a luglio inoltrato, giammai sarebbe stato possibile dar luogo alla disputa dello spareggio dopo il passaggio in giudicato della sentenza del TAR Lazio. E la cosa grave è che il problema si sarebbe posto nei medesimi termini ove mai la Procura federale, impugnando CFA (sez. un.) del 29.5/18.6.2019 dinanzi al Collegio di Garanzia dello Sport, avesse ottenuto (in accoglimento del proprio ricorso) la retrocessione del Palermo in serie C. Ciò significa che la FIGC ha corso il serio rischio di esser tenuta, suo malgrado, per la corrente stagione sportiva, a varare una serie B a 21 squadre, con Foggia e il Venezia ammesse in sovrannumero. E che, se così fosse stato, la decisione sarebbe giunta con estremo ritardo e avrebbe inciso su profili di carattere organizzativo (costringendo gli organi deputati a rimodulare i campionati di serie B e C, rinviando numerose gare onde consentire ai due club di attrezzarsi con un organico idoneo per affrontare un torneo di categoria superiore) e finanziario (visto che la quota di contributi da attribuire a ciascuna società di serie B sarebbe stata inevitabilmente inferiore a quella prevista).

40 41

Sul tema, v. l’ampia monografia di A.A. Romano, L’azione di accertamento negativo, Napoli, 2006. Il testo dell’Accordo è reperibile in www.assocalciatori.it.

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Mario Pio Fuiano

6. Conclusioni. Rebus sic stantibus, sembrerebbe che nel nostro Paese sia in crisi non soltanto la giustizia statale ma anche quella sportiva. Se, però, nel primo caso il problema risiede nella lentezza dei giudizi derivante da un arretrato «sconvolgente»42, nel secondo le difficoltà derivano, per quel che è dato comprendere, in primo luogo, da una imperfetta e poco reattiva opera di vigilanza e prevenzione da parte della Co.Vi.So.C., cui istituzionalmente «è attribuita una funzione di controllo sull’equilibrio economico-finanziario delle società di calcio professionistiche e sul rispetto dei principi di corretta gestione» (art. 80, comma 1, NOIF)43. Non è infatti tollerabile che i deferimenti per le questioni più delicate – tra le quali spiccano gli illeciti sportivi e le violazioni in materia gestionale ed economica – siano puntualmente disposti verso la parte finale della stagione. Con la conseguenza che, troppo spesso, risulta falsato il campionato in corso e pregiudicato il corretto e puntuale avvio di quello successivo. Alle disfunzioni della giustizia sportiva contribuisce non poco anche una eccessiva deformalizzazione dei procedimenti nei quali alla sin troppo ampia discrezionalità dei giudici corrisponde una sensibile compressione del diritto delle parti alla difesa e al contraddittorio, diritti che vengono sacrificati sull’altare del “presto” che, però, raramente si abbina al “bene”, come sta a dimostrare la vicenda esaminata nel corso di queste pagine, almeno nella misura in cui le sezioni unite della CFA, nell’approcciarsi con spirito tutt’altro che critico all’interpretazione della novella, hanno dato prova, a tacer d’altro, di limitata sensibilità giuridica. E come pure stanno a dimostrare i sin troppo frequenti ribaltamenti di decisioni (soprattutto) tra organi di giustizia endofederali, non essendo comprensibile in base a quale ratio, come accaduto nel caso del Palermo, una condanna alla retrocessione possa commutarsi in una innocua penalizzazione di venti punti, sì che vien da domandarsi chi tra TFN e CFA abbia preso una formidabile cantonata; o anche la palese difformità nel

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La definizione è di A. Proto Pisani, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro it., 2005, V, 252. Sul problema dell’arretrato, v. altresì Id., Il ricorso per cassazione in Italia, ivi, 2015, V, 188; Id., Crisi della giustizia civile: intervenire è possibile ma servono capacità tecniche e buon senso, ivi, 2013, V, 229; G. Costantino, Note sulle «misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione», ivi, 2017, V, 68; F.S. Damiani, Il nuovo procedimento camerale in Cassazione e l’efficientismo del legislatore, ibid., 23. Stando ai dati più recenti forniti dal Ministero della giustizia (pubblicati su www.giustizia.it), a fine 2018 risultavano pendenti, dinanzi a Cassazione, corti d’appello, tribunali ordinari, giudici di pace e tribunali per i minorenni (con riferimento a tutte le materie trattate, salvo quelle di competenza del giudice tutelare e gli accertamenti tecnici preventivi in tema di previdenza) 3.443.105 cause civili. I procedimenti penali pendenti erano, invece, complessivamente pari a 1.507.321, distribuiti tra Corte di cassazione, corti di appello, tribunale ordinari e tribunali per i minorenni (escluso, quindi, i giudici di pace). 43 Sempre in virtù dell’art. 80 NOIF, la Co.Vi.So.C., tra le altre cose, ha la possibilità di: «a) richiedere il deposito di dati e di documenti contabili e societari e di quanto comunque necessario per le proprie valutazioni; b) richiedere di fornire informazioni integrative relative ai documenti depositati; c) richiedere informazioni in merito a tutti i soggetti che controllano direttamente o indirettamente le società, compreso il soggetto cui sia riconducibile il controllo finale sulle stesse e sul gruppo di cui eventualmente facciano parte; d) apportare rettifiche al valore degli aggregati utilizzati dalle società per il calcolo degli indicatori, di cui al successivo art. 85, al fine di neutralizzare gli eventuali effetti economici, finanziari e patrimoniali di specifiche operazioni di natura ordinaria o straordinaria che alterino il valore dei suddetti aggregati». Inoltre, è facultata a «proporre l’attivazione di indagini e procedimenti disciplinari».

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Sulla giurisdizione esclusiva del TAR Lazio

metro di giudizio adottato, laddove a violazioni gravi sono conseguite sanzioni blande e, a illeciti di ridotta portata, pene assai severe44. Ma di esempi simili se ne potrebbero citare molti altri. Pertanto, sarebbe auspicabile che il nuovo CGS FIGC, pubblicato il 17.6.2019 (con Com. Uff. n. 139/A)45 e applicabile esclusivamente ai procedimenti cominciati dopo la sua entrata in vigore, sia davvero utile ad apportare qualche miglioramento al sistema. Quel che però dà maggiormente da pensare è l’atteggiamento tenuto, nel caso di specie, dalla CFA che, comprensibilmente gelosa della propria autonomia e nel chiaro tentativo di conservare l’estensione della propria potestas iudicandi, non si è affatto posta il problema di confrontarsi col dettato del nuovo art. 3 d.l. n. 220/2003. Vero è che la Procura federale non ha sollevato la questione. Tuttavia, stando al principio generale che può evincersi dall’art. 37, comma 6, CGS FIGC46, la Corte federale di appello è in ogni caso tenuta a verificare se «la decisione impugnata concerna materia sottratta agli Organi della giustizia sportiva». Quindi, vuoi ai limitati fini della controversia de qua, vuoi per chiarire agli operatori il proprio orientamento sul punto, sarebbe stato utile e produttivo se essa si fosse espressa sul punto. Vien fatto di dire, perciò, che l’ordinamento sportivo, nella consapevolezza che la scelta dettata dal legislatore del 2018 «risponde alla necessità di dare una sollecita risoluzione a questioni delicate, quali quelle dell’avvio dei campionati, ponendo rimedio a vicende nelle quali la giustizia sportiva non ha dato buona prova di sé»47, anziché fornire una risposta convincente in termini di efficienza dei propri meccanismi e organi di giustizia, tende a erigere barricate a difesa del fortino. E il segnale è tutt’altro che rassicurante.

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Si pensi al caso del Foggia Calcio srl, condannato (per versamento, in contanti, a tesserati di somme non contabilizzate, pari a € 556.750) da TFN del 2.7.18 (Com. Uff. n. 1/TFN) a 15 punti di penalizzazione da scontare nel campionato 2018/2019; sanzione ridotta a 8 punti da CFA del 20.8.2018 (Com. Uff. n. 22/CFA) e portata, infine, a 6 punti da CFA del 23.1.2019 (Com. Uff. n. 67/CFA). O alla questione che ha visto coinvolta l’AC Chievo Verona srl, condannata da TFN del 17.9.2018 a soli 3 punti di penalizzazione (scontati nel campionato di serie A 2018/2019) in quanto il Presidente del CdA aveva contabilizzato nei bilanci sociali relativi agli anni 20142017 «plusvalenze fittizie per complessivi € 25.380.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i bilanci delle società di capitali per complessivi € 23.850.000, condotte finalizzate a far apparire un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio e di ciascun semestre, così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato di Serie A delle stagioni 2015/2016, 2016/2017 e 2017/2018 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa Federale». 45 Che leggesi in www.figc.it. 46 V. supra, nota 31. 47 Così P. Sandulli, Il nuovo giudizio, cit., § 6.

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Laura Durello

Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese* Sommario: 1. Premessa. – 2. L’impostazione tradizionale del sistema processua-

le civile inglese. – 3. L’esclusione delle prove nell’interesse all’amministrazione della giustizia. – 4. L’introduzione delle Civil Procedures Rules. – 5. Conclusioni.

Il trattamento delle prove illecite nel diritto processuale civile è un problema avvertito sia nel nostro ordinamento che in quello inglese. In entrambi, manca una disciplina circa le conseguenze a livello processuale della raccolta di prove al di fuori del processo in violazione di diritti fondamentali della persona e la giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi sull’utilizzabilità o meno delle stesse, ha più volte fatto uso della tecnica del bilanciamento dei diritti. Ai fini comparatistici si è svolta, quindi, un’analisi sul trattamento della prova illecita nel sistema processuale civile inglese, partendo dall’impostazione tradizionale e valutando, poi, l’impatto dell’introduzione delle Civil Procedures Rules e dell’Human Rights Act. How to treat evidence obtained by unlawful or unfair means constitutes a major issue in civil procedural law, both in our and in the English legal system. In both legal systems there is a lack of discipline regarding the consequences at trial of collecting evidence outside trial in violation of fundamental rights of the individual and the many judges who have been called upon to rule on whether or not such evidence can be used have repeatedly made use of the technique of balancing rights. Therefore, this essay contains an analysis from a comparative point of view of how illicit evidence are treated in the English civil court system, starting from the traditional approach and then assessing the impact of the introduction of the Civil Procedures Rules and the Human Rights Act.

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Nel dare alle stampe questo lavoro, desidero esprimere il mio più sentito ringraziamento al Prof. Adrian Zuckerman per i preziosi suggerimenti datimi durante il periodo di studio che ho trascorso con lui presso la University of Oxford.

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Laura Durello

1. Premessa. Ogni sistema processuale, indipendentemente dal modello di riferimento, tende sempre alla ricerca della verità, pur non essendo un risultato affatto semplice da conseguire, poiché il processo ha ad oggetto fatti accaduti nel passato, il cui accertamento può avvenire solo tramite l’assunzione di prove. L’accertamento della verità costituisce dunque l’obiettivo principale della disciplina delle prove di ogni ordinamento. La necessità di una ricostruzione dei fatti di causa più “veritiera” possibile conduce, quindi, ciascun ordinamento a dotarsi di un proprio metodo1 per disciplinare l’ammissione, l’acquisizione e la valutazione delle prove2. Il metodo probatorio, tuttavia, non può essere volto soltanto ad assicurare un fedele accertamento dei fatti di causa, ma deve anche rivolgersi alla modalità con cui si ricerca la verità che non può mai essere totalmente libera, poiché devono essere garantiti e salvaguardati i diritti dei soggetti coinvolti nel processo. Le prove sono, dunque, regolate, in ogni ordinamento, con una disciplina più o meno dettagliata con riguardo a svariati profili3: le modalità di acquisizione delle prove; i criteri di valutazione delle stesse;gli standard di prova; l’obbligo di motivazione che impone al giudice di illustrare la valutazione degli elementi probatori. In questo contesto, è necessario chiedersi se tali ragole, operanti all’interno del procedimento, siano sufficienti a dare una tutela adeguata agli svariati interessi sottesi al giudizio. In particolare, ci si riferisce alla tutela delle libertà fondamentali garantite alla persona con riguardo alla formazione del mezzo di prova in via stragiudiziale. In altri termini, la questione che sempre si pone attiene all’utilizzabilità o meno da parte del giudice delle prove formatesi al di fuori del giudizio mediante atti che comportino la violazione di diritti fondamentali della persona o comunque acquisite con mezzi illegali o illegittimi. Si sta qui discutendo delle prove illecite c.d. esoprocessuali ovvero prove formate al di fuori del giudizio con metodi illeciti, ovvero con atti che comportino la violazione dei diritti individuali costituzionalmente protetti o comunque acquisite al processo con mezzi illegali o illegittimi4. Esulano dal campo della presente indagine quei mezzi di prova as-

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Taruffo, La semplice verità, Bari, 2009, p. 139 «In ogni procedimento di carattere epistemico ha importanza decisiva il metodo, ossia l’insieme delle modalità con cui vengono selezionate, controllate e utilizzate le informazioni che servono a dimostrare la verità delle conclusioni» 2 Sulla prova, V. Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947; Andrioli, La prova in genere (dir.civ.), in Nuovo Dig. it., X, Torino, 1939, p. 813 ss.; Verde, Prova (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, p. 579 ss.; Taruffo, Prova (in generale), in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, p. 3 ss. 3 Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 333. 4 Carnelutti, Illecita produzione di documenti, in Riv. dir. proc., 1935, p. 70 ss.; Cappelletti, Efficacia di prove illegittimamente ammesse e comportamento della parte, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, II, Milano, 1963, p. 175 ss.; Vigoriti, Prove illecite e Costituzione, in Riv. dir. proc., 1968, p. 64; Id., Sviluppi giurisprudenziali in tema di prova illecita, in Riv. dir. proc., 1972, p. 322 ss.; G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc., 1987, 34 ss.; Angeloni, Le prove illecite. Disciplina e rilevanza

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Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese

sunti all’interno del processo in violazione delle norme che ne disciplinano la modalità di formazione5. Le prove illecite endoprocessuali, infatti, non pongono particolari problemi posto che, come ad esempio avviene nel nostro ordinamento, l’illegittimità delle stesse è sanzionata con la nullità e la correlata inutilizzabilità da parte del giudice se si tratta di nullità assoluta o relativa non sanata6. Il campo delle prove illecite esoprocessuali è variegato ed in continua espansione in quanto alimentato dal costante progresso tecnologico ed informatico, che consente alla parte di procurarsi utili elementi a sostegno delle proprie domande attraverso l’intromissione nell’altrui sfera privata. A titolo esemplificativo, si pensi alla corrispondenza ottenuta tramite consultazione della posta elettronica o del telefonino altrui7, alle intercettazioni abusive di conversazioni di altre persone o alla ripresa di immagini realizzate illegalmente8, alle relazioni di investigatori privati9. È evidente come tali acquisizioni probatorie si pongano in contrasto con i diritti di libertà quali il domicilio, la segretezza della corrispondenza ovvero la riservatezza riconosciuti non solo dalla nostra Costituzione (artt. 12,13,14,15), ma anche dalla Convezione dei Diritti dell’Uomo, molto spesso integrando anche condotte penalmente rilevanti. Al tempo stesso, non ci si può certo nascondere che una prova esclusa, in quanto assunta con modalità illecite, avrebbe potuto comunque contenere informazioni utili per la

giuridica delle prove illecite nel processo civile, penale e del lavoro, Padova, 1992, passim; Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, p. 64 ss.; Id., Inutilizzabilità «assoluta» delle prove «incostituzionali», in Riv. dir. proc., 2012, p. 30 ss.; Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 693 ss.; Id., Contro l’utilizzabilità delle prove illecite nel processo civile, in Il Giusto proc. civ., 2016, p. 945 ss.; Danovi, Esigenze istruttorie e tutela della privacy nei processi di separazione e divorzio, in Quaderni AIAF, 2012, I, p. 34 ss.; Pinori, “Privacy” e processo civile. I limiti di utilizzabilità nel giudizio civile di prove illecite: il difficile bilanciamento tra diritto alla protezione dei dati personali e il diritto di difesa, in Contratto e impresa, 2014, p. 51 ss.; Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, 2017, passim.; Comoglio, Prove illecite, Stato di diritto e garanzie del processo «giusto», in Jus, 2019, p. 59 ss. 5 Sulla distinzione tra prova illecita endoprocessuale ed esoprocessuale V. Graziosi, Contro l’utilizzabilità delle prove illecite nel processo civile, cit., pp. 946-947. 6 Graziosi, Contro l’utilizzabilità delle prove illecite nel processo civile, cit., p. 948. 7 Trib. Torino 8 maggio 2013, in Giur. it., 2014, p. 2480, con nota di Piovano, Sull’utilizzabilità dei documenti illecitamente ottenuti; secondo cui «È ammissibile la produzione in giudizio di messaggi telefonici e di posta elettronica, anche ove assunti in violazione alle norme di legge. Il codice di procedura civile non contiene alcuna norma che sancisca un principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite in violazione di legge. L’art. 160 n. 6 d.lgs. 196/2003 stabilisce che la validità e l’utilizzabilità di documenti nel procedimento giudiziario, basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge, restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali della materia penale e civile. Il contemperamento tra il diritto alla riservatezza e il diritto di difesa è rimesso, in assenza di una precisa norma processuale civile, alla valutazione del singolo giudice nel caso concreto». 8 Trib. Milano 8 aprile 2013, in Fam. dir., 2014, p. 819 ss. con nota di Guerra, Processi di separazione e divorzio e relazioni investigative; l’ambigua frontiera dell’atipicità della prova, in cui si è statuito che «Nel processo civile non può essere prodotta la relazione dell’investigatore privato costituendo scritto proveniente da un terzo a contenuto testimoniale che deve essere acquisito mediante prova orale o nelle forme ex art. 257 bis c.p.c. affinché acquisti valore probatorio, altrimenti si aggirerebbero le norme poste a garanzia dell’andamento processuale». V. anche Trib. Santa Maria Capua Vetere 13 giugno 2013, in www.ilcaso.it, che ha reputato utilizzabili le informazioni tratte dalla consultazione di social network Facebook difettando il requisito della riservatezza. 9 Cass. 23 maggio 2014, n. 11516, in Fam. dir., 2014, p. 881 s. con nota di Danovi, Le relazioni investigative nella separazione: il fine giustifica (ma non sempre rende validi) i mezzi. In tale pronuncia la Corte ha statuito che «Nell’ambito del processo di separazione la relazione investigativa redatta da tecnico incaricato da una delle parto deve considerarsi prova documentale lecita e idonea a dimostrare la violazione del dovere di fedeltà, con le conseguenti ricadute in tema di domanda di addebito».

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decisione della causa: l’esclusione di mezzi di prova attinenti ai fatti oggetto del giudizio è un sacrificio che ogni sistema processuale vorrebbe evitare. Non vi è dubbio, infatti, che l’integrità del metodo probatorio e il rispetto dei percorsi legali tracciati per la ricerca della verità, possano avere un costo anche molto significativo in termini di «accertamento della verità». Sta dunque ad ogni ordinamento decidere quando e se sacrificare l’efficacia dimostrativa di una prova. Le soluzioni possono essere le più svariate cambiando il rapporto tra i valori tutelati tramite l’esclusione e anche le possibilità di scelta del giudice. In linea di massima, è possibile individuare tre diversi approcci alla questione, ed in particolare: se la prova è rilevante, non può essere esclusa ancorché ottenuta mediante un’azione illegale; se la prova è stata ottenuta illecitamente non è mai ammissibile; quando la prova è stata procurata da un’azione illecita, spetta al giudice il potere discrezionale, alla luce dei vari interessi in gioco, di escludere o meno la prova. Se volgiamo lo sguardo, ad esempio, al common law americano, viene subito in rilievo la c.d. the fruit of the poisonus tree doctrine in forza della quale le prove illeggittimamente acquisite sono inammissibili. Si tratta di una dottrina elaborata dalla giurisprudenza nordamericana degli anni ’2010, in base alla quale la modalità di acquisizione probatoria contraria alla legge costituisce «l’albero avvelenato», con la conseguenza che tutte le prove ammesse in tale occasione, cioè «i frutti», sono a loro volta velenosi e dunque inammissibili ed inutilizzabili. Un’impostazione simile è stata avvolarata anche dalla nostra Corte costituzionale che in più occasioni ha evidenziato il principio in base al quale «[…] le attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito […]”11, con la conseguenza, in caso contrario, che «[…] un diritto riconosciuto e garantito come inviolabile dalla Costituzione sarebbe davvero esposto a gravissima menomazione»12. Peraltro, è opportuno evidenziare che a fronte di una tale enunciazione di principio non è seguita puntuale risposta da parte della giurisprudenza di merito, poiché si assiste, nella prassi giudiziaria, ad una tendenziale utilizzabilità della prova illecita da parte del giudice civile italiano ai fini della decisione della lite13.

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Silverthone Lumber Co. v. United States [1920], 251 U.S. 385; Nardone v. United States [1939)], 308 U.S. 338; Wong Sun v. United States è [1963], 371 U.S. 471; Escobedo v. Illinois [1964], 378 U.S. 478; Michigan v. Tucker [1974], 417 U.S. 433. 11 Corte cost., 6 aprile 1973, n. 34, in Foro it., 1973, I, 956; nello stesso senso è la sentenza 11 marzo 1993, n. 81, in Giur. cost., 1993, 731. 12 Corte cost., 6 aprile 1973, n. 34, cit. 13 Trib. Bari 16 febbraio 2007, in Il merito, 2007, 4, p. 22; Trib. Bari 8 novembre 2007, in www.giurisprudenzabarese.it, 2007; Trib. Torino 28 settembre 2007, in Giur. lav., 2008, 9; Trib. Torino 8 maggio 2013, cit.; Tribunale Milano, sez. spec. Impresa, 27 luglio 2016, n. 9431, inedita; Trib. Roma 20 gennaio 2017, in Fam e dir., 2018, p. 41 ss. con mia nota, Sull’inutilizzabilità della prova illecita nei procedimenti in materia di famiglia; Trib. Milano, 9 maggio 2018, n. 5103, in De Jure.

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Mentre nel processo penale italiano, l’art. 191 c.p.p. espressamente prevede che le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possano essere utilizzate. Tuttavia, nonostante il chiaro tenore letterale della norma processuale penale che così recita «Le prove acquisiste in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate. L’inutilizzabilità è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento», la giurisprudenza e la dottrina ne danno un’interpretazione alquanto restrittiva considerando illecite solo quelle prove che si siano formate in violazione di norme processuali e non anche di norme sostanziali14. Orbene, la giurisprudenza di merito favorevole all’utilizzabilità della prova illecita, facendo leva sull’assenza nel sistema processuale civile italiano di un’analoga disposizione, giunge a reputare che il legislatore abbia voluto separare la questione processuale della produzione dei documenti, connessa al diritto di difesa, dalla questione sostanziale relativa alle modalità di acquisizione della documentazione, che potrà essere oggetto di separata controversia civile o procedimento penale, lasciando all’apprezzamento del giudice nel caso concreto l’utilizzabilità della prova15. A sostegno dell’utilizzabilità della prova illecita, viene, inoltre, affermato che la necessità istruttoria di valutare le ragioni delle parti in giudizio legittima il pregiudizio subito dalla parte alle sue libertà fondamentali e, in forza della tecnica del bilanciamento dei diritti, si dà prevalenza al diritto alla prova – quale diritto di difendersi provando – anche se l’esercizio di tale diritto può concretarsi nella lesione di una libertà fondamentale16. Al di fuori del coro di questa giurisprudenza favorevole all’utilizzabilità, senza particolari limiti, della prova illecita nel processo civile, si deve segnalare che la Suprema Corte17, recentemente, ha invece sostenuto l’esclusione della suddetta prova senza però, purtroppo, chiarire le ragioni di questa condivisibile impostazione. Il richiamo al bilanciamento con riguardo al problema dell’utilizzabilità della prova illecita si rinviene anche nella giurisprudenza inglese sviluppatasi a seguito dell’introduzione delle Civil Procedures Rules (C.P.R.) e dell’Human Rights Act (H.R.A.). Del resto, come nel nostro sistema processuale civile, anche in quello inglese manca una disciplina circa le conseguenze a livello processuale della raccolta di prove al di fuori del processo in violazione di diritti fondamentali della persona.

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Per un esame critico di questo orientamento, V. Graziosi, Contro l’utilizzabilità delle prove illecite nel processo civile, cit., p. 950 ss. Tribunale Milano, sez. spec. Impresa, 27 luglio 2016, n. 9431, cit.; Trib. Bari 16 febbraio 2007, in Il merito, 2007, 4, p. 22. 16 Trib. Roma 20 gennaio 2017, cit.; Trib. Bari 16 febbraio 2007, cit.; Trib. Bari 8 novembre 2007, cit.; Trib. Torino 28 settembre 2007, cit.; Trib. Torino 8 maggio 2013, cit. 17 Cass., ord. 8 novembre 2016, n. 22677, in Foro it., 2017, V, 1689, ha statuito che «[…] in tema di affidamento esclusivo della prole, non è utilizzabile il materiale probatorio raccolto illecitamente né il materiale sottratto fraudolentemente alla parte processuale che ne era in possesso. Al medesimo fine sono irrilevanti le conversazioni tra coniugi, nel contesto di acquisizioni probatorie di cui il giudice ha potuto disporre nel giudizio». 15

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Ai fini comparatistici può dunque essere interessante spostare l’attenzione sul trattamento della prova illecita nel sistema processuale civile inglese18, partendo dall’impostazione tradizionale e valutando, poi, l’impatto della disciplina più sopra richiamata.

2. L’impostazione tradizionale del sistema processuale civile inglese.

In via preliminare, possiamo osservare che nel diritto anglosassone i principi elaborati nel campo civile si sono sviluppati sulla base dell’impostazione processualpenalistica della questione. In tale ambito, tradizionalmente, la regola generale è quella per cui tutte le prove rilevanti sono ammissibili. In particolare nel caso Kuruma v. Queen la Corte si è così espressa «In their Lordship’s opinion, the test to be applied in considering whether evidence is admissible is whether it is relevant to the matters in issue. If it is, it is admissible and the court is not concerned with how the evidence was obtained»19. Dunque, il giudice non si preoccupa di come sono state ottenute le prove. E vi è di più: in tale pronuncia sono, infatti, richiamate le osservazioni svolte in un altro caso, R. v. Leathem20, in cui è stato affermato «It matters not how you get [the evidence]; if you steal it even, it would be admissible […]». In altri termini in questa pronuncia non ha rilievo la modalità di acquisizione del documento e anche qualora fosse stato rubato sarebbe comunque ammissibile. Le origini di questo principio nel diritto inglese risalgono ad una serie di pronunce che hanno avuto un impatto diretto sulle perquisizioni illegali e sui sequestri, e che adottarono la regola per cui le prove sono sempre ammissibili anche se ottenute illecitamente. Tali casi riguardavano, ad esempio, la produzione non autorizzata dell’atto d’accusa originale nei successivi procedimenti civili, la sottrazione di una lettera scritta da un prigioniero in carcere ovvero l’ottenimento improprio del possesso di altri documenti. Dunque, nei criminal cases, tradizionalmente le prove sono ammissibili indipedentemente dalle modalità con cui sono state acquisite e al giudice non compete un potere discrezionale di esclusione delle stesse21. Quello che viene riconosciuto al giudice è il potere di escludere la prova in relazione al suo uso, che non può essere pregiudizievole per l’imputato22.

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Comoglio, Il problema delle prove illecite nell’esperienza angloamericana e germanica, in Pubblicazioni dell’Università di Parma – Studi delle scienze giuridiche e sociali, n. 145, Pavia, 1966, pp. 259-372. V. anche Zuckerman, Illegally-Obtained Evidence-Discretion as a Guardian of Legitimacy, in Current Legal Problems, 1987, p. 55 ss. 19 Kuruma v. Queen [1955] AC 197, [1955] 1 All ER 236, 203. 20 R. v Leathem [1861] 8 Cox CC 498, 501. 21 V. anche Calcraft v. Guest [1898] 1 QB 759; R. v. Sang [1980] AC 402, [1979] 2 All ER 1222, HL. 22 Glover, Murphy on evidence, Oxford, 2017, p. 54 ss.

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Tuttavia, nel tempo, tale impostazione è stata soggetta a importanti deroghe. In particolare, oggi nei procedimenti penali il giudice ha il potere di escludere le prove qualora la loro ammissione potrebbe rendere il giudizio iniquo (o ingiusto) o comprometterne l’integrità con pregiudizio per l’amministrazione della giustizia. Ciò trova conferma nella sezione 78 del Police and Criminal Evidence Act 1984 che espressamente conferisce al giudice il potere di escludere la prova se le modalità della sua assunzione potrebbe avere un effetto pregiudiziale sull’equità del procedimento23. Attenta dottrina24 ha, peraltro, osservato che la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha statuito che l’ammissione delle prove ottenute in violazione della stessa non costituisce violazione al diritto ad un equo giudizio25, ma al tempo stesso ha ritenuto che il potere discrezionale di esclusione di cui alla sezione 78 sia essenziale per salvaguardare il diritto ad un giusto processo26. Quindi, l’ammissione di una prova ottenuta in violazione di un diritto umano non necessariamente conduce ad un processo ingiusto27. Passando, quindi, al diritto processuale civile inglese la regola più importante in tema di ammissibilità della prova è che la stessa sia rilevante 28. Dunque, la rilevanza è una condizione preliminare di ammissibilità ed è stata così definita dalla dottrina inglese «[…] any two facts are so related to each other that according to the common course of events one either taken by itself or in connection with other facts proves or renders probable the past, present or future existence or non -existence of the other»29. Rilevanti sono le prove tali da influenzare la conclusione del giudice in merito a un fatto controverso30. Tradizionalmente, dunque, la prova civile è sempre da reputarsi ammissibile senza che sia necessaria una previa verifica in ordine alle modalità della sua assunzione. Si è soliti affermare che al giudice inglese è preclusa ogni indagine volta a verificare le modalità di acquisizione del mezzo probatorio, in quanto lo stesso non gode di discrezionalità nell’escludere le prove ancorchè siano state raccolte illecitamente31. Come più sopra osservato, i principi di common law elaborati nei criminal cases32, sono stati ripresi anche nel campo civile, in particolare è emblematico il caso Helliwell v. Piggott-Sims, in cui così pronunciava la Corte «[…] so far as civil cases are concerned, it seems to me that the judge has no discretion. The evidence is relevant and admissible.

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In tal senso V. Roberts, Zuckerman, Criminale evidence, Oxford University Press, 2010, ch. 5. Zuckerman, Zuckerman on civil procedure, Londra, 2013, p. 1030. 25 Khan v. United Kingdom (2001) 31 E.H.R.R. 1016, ECtHR. 26 Re Westminster Property Management Ltd., Officiale Receiver v Stern [2001] 1 All ER 633, [2000] 1 WLR 2230. 27 Si vedano poi approfonditamente le considerazioni in ordine alla prova ottenuta mediante tortura, Glover, ivi. 28 Dennis, The law of evidence, London, 2013, p. 13. 29 Stephen, A Digest of the Law of Evidence (12th ed., 1946), art.1. 30 Zuckerman, op.cit., pp. 1028-1029 31 Glover, op.cit., p. 55; Zuckerman, Zuckerman on civil procedure, cit., p. 1028; Dennis, op.cit., p. 15. 32 Kuruma v. Queen, cit. 24

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The judge cannot refuse it on the grounds that it may have been unlawfully obtained in the beginning»33. In tale occasione si statuiva che la prova, in quanto rilevante, è ammissibile e che il giudice non può escluderla sulla base della circostanza che la stessa è stata assunta in modo illecito. Non esiste, in altri termini, nel sistema processuale civile inglese una norma che sancisca che la prova deve essere esclusa semplicemente perchè è stata ottenuta illecitamente, né al giudice compete un potere discrezionale con riguardo alla verifica delle modalità di assunzione della prova e la conseguente esclusione delle prove reputate illecite. Tuttavia, non si può fare a meno di segnalare che l’esclusione di prove dalla cognizione del giudice non è un tema sconosciuto al sistema processuale civile inglese. Si parla in proposito di exclusionary rules per indicare quell’insieme di regole processuali volte ad escludere dal compendio probatorio determinate prove34. Tradizionalmente, il common law inglese conosceva numerose regole di esclusione, e solo poche sono sopravvissute nei procedimenti civili35. In particolare, si pensi alla rule sull’hersay evidence ovvero la testimonianza de relato, in forza della quale il giudice non poteva valutare la testimonianza «per sentito dire» a prescindere dall’attendibilità della stessa. Tale regola, oggi, tuttavia ha subito delle deroghe che hanno attenuato la portata del divieto36. Altre regole di esclusione si basano su valutazioni di ordine pubblico come ad esempio l’esclusione dovuta al segreto professionale, l’esclusione dovuta a immunità ovvero l’esclusione of self-incriminating evidence, cioè non possono essere prodotte, a discapito della parte che le ha rese, le dichiarazioni fatte nel genuino intento di comporre la controversia37. Tornando al tema che ci occupa, è possibile concludere nel senso che secondo l’impostazione tradizionale, le prove rilevanti sono ammissibili indipendentemente dalla modalità, anche illecita, con cui sono state assunte.

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Helliwell v. Piggott-Sims [1980] FSR 356. Sul tema V. l’ampio ed esauriente lavoro di Ferrari, La prova migliore, Milano, 2004, passim. 35 Zuckerman, op. ult. cit., p. 1028. 36 Ferrari, op.cit., p. 75 ss. 37 Zuckerman, ivi. 34

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3. L’esclusione delle prove nell’interesse all’amministrazione della giustizia.

In questo contesto, aveva fatto sorgere delle perplessità, la pronuncia resa nella causa ITC Film Distribution Ltd v. Video Exchange Ltd38, in cui la Corte aveva escluso delle prove senza però chiarire le ragioni poste alla base di tale decisione. In particolare, il convenuto aveva prodotto in giudizio documenti che aveva sottratto agli attori, con un trucco, in tribunale. Tali documenti, nonostante la loro rilevanza ai fini della decisione della causa, furono esclusi dal giudice su istanza degli attori che ne avevano eccepito l’illecita acquisizione da parte del convenuto. L’esclusione delle prove, nel caso di specie, poteva essere interpretata in due modi. Sia nel senso che fosse stata creata una regola in forza della quale il giudice può escludere le prove ottenute con modalità contrarie all’ordine pubblico; sia nel senso che al giudice fosse stato riconosciuto un potere discrezionale generale di vagliare l’ammissibilità o meno della prova. Nel successivo caso Goddard v. Nationwide Building Society39, è stata affrontata tale questione osservando che in ITC Film Distribution Ltd v. Video Exchange, il problema dell’ammissibilità della prova illecita fosse stata affrontata sul terreno dell’ordine pubblico e non come riconoscimento di un potere discrezionale in capo al giudice di escludere le prove. In effetti, se si legge attentamente il testo della pronuncia ITC Film Distribution Ltd v. Video Exchange, in un passaggio si fa menzione al bilanciamento, che dovrebbe operare il giudice, tra l’interesse all’accertamento della verità e l’interesse della parte di portare i documenti in tribunale senza timore che gli vengano sottratti, e usati poi come prova. Ed è stato, infatti, osservato che la condotta del convenuto poteva astrattamente ricondursi al c.d. contempt of court40. La Corte ha, poi, concluso nel senso che qualora gli interessi della corretta amministrazione della giustizia lo richiedano le prove devono essere escluse. In altri termini, è necessario evitare il pericolo per il sistema giudiziario che una parte possa entrare in possesso di documenti appartenenti all’altro entro i confini del tribunale e tale rischio dovrebbe prevalere sulla potenziale ingiustizia della decisione nel caso di specie. Tuttavia, non era chiaro in quali fattispecie tale regola avrebbe dovuto applicarsi: solo ai casi in cui era stato commesso un contempt of court o anche ai casi di involontaria divulgazione di documenti in cui non era stato commesso alcun illecito? O ancora se tale decisione dovesse considerarsi limitata allo specifico caso affrontato41.

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ITC Film Distribution Ltd v. Video Exchange Ltd [1982] Ch 431. Goddard v. Nationwide Building Society [1987] QB 670, 684. 40 Keane, McKeown, Modern law of evidence, Oxford, 2016, p. 120. 41 Glover, op. cit., pp. 60-61. 39

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Alla luce di tale giurisprudenza, quindi, non poteva dirsi superata l’impostazione tradizionale che esclude un potere discrezionale in capo al giudice in ordine all’ammissibilità delle prove. Va anche osservato che in ITC Film Distribution Ltd v. Video Exchange non venne fatta applicazione della regola elaborata in Lord Ahburton v. Pape42, in base alla quale una parte ha il diritto di ottenere, attraverso un’ingiunzione, la restituzione di documenti che sono giunti nelle mani di un avversario, ma che aveva il diritto di proteggere dalla divulgazione durante l’ispezione, in quanto privilegiati. Infatti, non si può sottacere che i casi in cui sono state escluse le prove a tutela della corretta amministrazione della giustizia, molto hanno in comune con quelli in cui i tribunali hanno emesso provvedimenti inibitori volti ad impedire alle parti di utilizzare documenti in giudizio, laddove tali documenti siano stati ottenuti illegalmente o siano altrimenti privilegiati43. Va osservato che in questi casi l’esclusione non era diretta conseguenza dell’esercizio di un potere discrezionale in capo al giudice di valutare la modalità di acquisizione della prova, ma derivava dall’utilizzo di un istituto processuale diverso, ovvero un’ingiunzione che limita l’uso di un particolare documento. Di fatto, il risultato ottenuto, ovvero l’esclusione del materiale probatorio dalla cognizione del giudice, era però il medesimo. Tuttavia, come correttamente evidenziato in Isti Group Inc v. Zahoor44, tale strumento di ingiunzione è utilizzato per tutelare la c.d. confidence e proteggere i documenti riservati e non ha un ambito di applicazione ad ampio raggio con riguardo alle prove ottenute illecitamente in genere. Quindi, pur non potendo ritenersi superata l’impostazione tradizionale, per cui tutte le prove rilevanti sono ammissibili, è da segnalare in queste ultime pronunce da un lato l’impiego dello strumento dell’ingiunzione e, dall’altro il richiamo, in sede di esclusione della prova, alla corretta amministrazione della giustizia, più che alla violazione di diritti fondamentali della persona.

4. L’introduzione delle Civil Procedures Rules. L’impostazione tradizionale è stata definitivamente messa in discussione dall’introduzione delle Civil Procedure Rules (C.P.R.) entrate in vigore nel 1999, le quali costituiscono un vero e proprio codice di rito che ha trasformato il diritto processuale civile inglese 45.

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Lord Ahburton v. Pape [1913] 2 Ch 469. Cfr. Guinness Peat Properties Ltd v. Fitzroy Robinson Partnership [1987] 1 WLR 1027; Derby & Co Ltd v. Weldon (n. 8) [1997] 1 WLR 73; Pizzey v. Ford Motor Co Ltd, The Times, 8 marzo 1993. 44 Istil Group Inc v Zahoor [2003] 2 All ER 252. 45 Zuckerman, Civil procedure, Butterworths, 2003, p. 1; Id., Zuckerman on civil procedure, cit., p. 51 ss.; Andrews, A New Civil Procedural Code for England: Party-Control — «Going, Going, Gone», in 19CJQ, 2000, p. 19; Id., English Civil Procedure, Oxford, 2003; Jolowicz, Il nuovo ruolo del giudice del pre-trial nel processo civile inglese, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, p. 1263; Passanante, La riforma del processo civile inglese: principi generali e fase introduttiva, Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, p. 1353; Crifò, La riforma del processo civile in Inghilterra, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, p. 511. 43

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Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese

In particolare l’art. 32.1 C.P.R. rubricato «Power of court to control evidence» così recita «The court may control the evidence by giving directions as to (a) the issues on which it requires evidence; (b) the nature of the evidence which it requires to decide those issues; and (c) the way in which the evidence is to be placed before the court». Come si vede, tale disposizione normativa attribuisce al giudice un ampio potere di controllo46 sulle prove al fine di dare indicazioni sulle circostanze da provare, sulla natura delle stesse, nonché sul modo in cui tali prove devono essere presentate 47. La norma poi, al secondo comma, contiene una previsione che è molto significativa con riguardo al tema che stiamo affrontando, e che così dispone «The court may use its power under this rule to exclude evidence that would otherwise be admissible». Dunque, le C.P.R. conferiscono espressamente al giudice il potere di escludere prove che sarebbero altrimenti ammissibili. Non è chiaro tuttavia come debba essere esercitata tale discrezionalità. Sul punto può essere richiamato il c.d. obiettivo dominante48, ovvero quello di consentire al giudice di trattare giustamente i casi. L’art. 1.1 C.P.R. individua, infatti, un obiettivo dominante per le regole processuali inglesi, il c.d. overriding objective49 in forza del quale la corte deve essere messa nella condizione di trattare le controversie secondo giustizia50.

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Dondi-Ansanelli-Comoglio, Processi civili in evoluzione, Una prospettiva comparativa, Milano, 2018, p. 240, parlano di «vasto potere» del giudice inglese con riguardo alle prove. 47 Grevling, CPR r. 32.1. (2): Case management Tool or Broad Exclusionary Power?, in Aa.Vv., The Civil Procedure Rules Ten Years On, Oxford, 2009, p. 249 ss. 48 Zuckerman, Civil procedure, Butterworths, 2003, p. 1; Trocker, La formazione del diritto processuale europeo, Torino, 2011, p. 313; Donzelli, La fase preliminare del nuovo processo civile inglese e l‘attività di case management giudiziale, in Davanti al giudice. Studi sul processo societario, (a cura di) Lanfranchi, Carratta, 2005, Torino, p. 541 ss.; De Cristofaro, Case management e riforma del processo, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, p. 282 ss.; Ficarelli, Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale, Roma, 2011, p. 111. 49 Con riguardo all’ overriding objective così vengono individuati i principi che guidano il processo civile inglese nelle C.P.R.: «1.1(1) These Rules are a new procedural code with the overriding objective of enabling the court to deal with cases justly and at proportionate cost. (2) Dealing with a case justly and at proportionate cost includes, so far as is practicable –(a) ensuring that the parties are on an equal footing; (b) saving expense; (c) dealing with the case in ways which are proportionate –(i) to the amount of money involved; (ii) to the importance of the case; (iii) to the complexity of the issues; and (iv) to the financial position of each party; (d) ensuring that it is dealt with expeditiously and fairly; (e) allotting to it an appropriate share of the court‘s resources, while taking into account the need to allot resources to other cases; and (f) enforcing compliance with rules, practice directions and orders. Application by the court of the overriding objective:1.2The court must seek to give effect to the overriding objective when it –(a) exercises any power given to it by the Rules; or (b) interprets any rule subject to rules 76.2, 79.2 and 80.2, 82.2 and 88.2. Duty of the parties 1.3 The parties are required to help the court to further the overriding objective. Court’s duty to manage cases 1.4 (1) The court must further the overriding objective by actively managing cases. (2) Active case management includes – (a) encouraging the parties to co-operate with each other in the conduct of the proceedings; (b) identifying the issues at an early stage; (c) deciding promptly which issues need full investigation and trial and accordingly disposing summarily of the others; (d) deciding the order in which issues are to be resolved; (e) encouraging the parties to use an alternative dispute resolution(GL)procedure if the court considers that appropriate and facilitating the use of such procedure; (f) helping the parties to settle the whole or part of the case; (g) fixing timetables or otherwise controlling the progress of the case; (h) considering whether the likely benefits of taking a particular step justify the cost of taking it; (i) dealing with as many aspects of the case as it can on the same occasion; (j) dealing with the case without the parties needing to attend at court; (k) making use of technology; and (l) giving directions to ensure that the trial of a case proceeds quickly and efficiently. 50 Zuckerman, Court control and party compliance - the quest of effective litigation management, in The reforms of civil procedure, 159, il quale ha evidenziato le difficoltà a livello pratico nell’individuare il contenuto concreto di questo principio, in particolare ha

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Nell’esercitare il power to control evidence, alla luce di tale obiettivo primario, il criterio da utilizzare è quello di proportionality51, assunto come cardine non solo del cost management ma anche del case management52. La proporzionalità in questo contesto sta a significare che la prova deve avere un sufficiente valore probatorio al fine di giustificare il tempo e i costi impiegati per la sua assunzione. Dunque, tra i criteri cardine dell’overriding objective si è dato prevalenza al principio di proportionality rispetto a quello del «deal with the case justly»53. E ciò soprattutto a seguito dell’update del 2013 per le modifiche alle C.P.R. proposte dal Civil Procedure Rule Committee in forza delle raccomandazioni presente nel Jackson Report 200954. Alla luce di tale novella, «il principio di proporzionalità dei costi assume anzi tutto una connotazione del tutto autonoma all’interno dell’overriding objective, non rappresentando più una mera manifestazione del principio di gestione giusta ed efficiente (justly) della controversia, ma costituendo il vero principio informatore di tutte le altre norme processuali»55. A seconda del valore e della complessità della causa quindi, in ambito probatorio dovrà essere utilizzato lo strumento probatorio meno costoso, più efficace e più rapidamente utilizzabile nel caso specifico56. Il giudice nell’attività di controllo delle prove può, attraverso le sue directions, escludere prove indipendentemente dalla loro ammissibilità in forza del principio di proporzionalità. Altro elemento che ha portato ad un ripensamento dell’impostazione tradizionale è sicuramente l’introduzione nel 1998 dello Human Rights Act57 che ha trasposto nel diritto inglese la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (C.E.D.U.). L’H.R.A. ha previsto che i principi sanciti dalla Convenzione Europea sui Diritti Umani entrino a far parte integrante dell’ordinamento inglese e siano direttamente applicabili dai giudici del Regno Unito. In particolare, prevede che ogni giudice debba: decidere sui casi sottoposti alla propria giurisdizione in modo conforme ai princìpi sanciti dalla C.E.D.U. (art. 6); interpretare la legge e i regolamenti, per quanto sia possibile, in modo che siano compatibili con la C.E.D.U. (art. 3); tenere in considerazione la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (art. 2).Nell’ipotesi in cui una disposizione di legge non possa essere interpretata

affermato che “It is on thing for CPR 1.1.(2) to dictate that dealing with a case justly includes ‘allotting to it an appropriate share of the court’s resources, while taking account the need to allow resocurces of other cases’, It is quite another matter for a court to know what to make of this in any given case». 51 V. Zuckeeman, Zuckerman on civil procedure, cit., p. 12 ss. 52 V. Dondi – Ansanelli - Comoglio, ivi. 53 V. Dondi – Ansanelli - Comoglio, ivi. 54 Sul tale riforma delle C.P.R. V. Comoglio, Giustizia (non) a tutti i costi. Significativo “update” delle Civil Procedure Rules inglesi e suggestioni sistematiche per la riforma del processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, p. 145 ss. 55 Così Comoglio, Giustizia (non) a tutti i costi. Significativo “update” delle Civil Procedure Rules inglesi e suggestioni sistematiche per la riforma del processo civile, cit., p. 149. 56 V. Dondi-Ansanelli-Comoglio, ivi. Cfr. Andrews, Controversie civili e complessità. L’esperienza inglese, in Dondi, Elementi per una definizione di complessità processuale, Milano, 2011, p.65 ss. 57 Wadham-H. Mountfield, Blackstone’s Guide to the Human Rights Act 1998, Blackstone’s Press Limited, 1999. Cfr. Alpa, L’applicazione dei diritti umani e dei diritti fondamentali ai rapporti tra privati: note sul modello inglese, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, p. 140 ss.

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in conformità alla C.E.D.U., rimane efficace, ma può essere dichiarata incompatibile con la Convenzione da una delle corti superiori del Regno: in una simile evenienza il Ministro competente può con un proprio decreto la disposizione incompatibile, che viene successivamente sottoposto all’approvazione dei due rami del Parlamento. L’H.R.A. consente, altresì, alla persona, che subisce una lesione dei propri diritti sanciti dalla C.E.D.U. a causa del comportamento illegittimo di un Tribunale del Regno Unito, di citare tale autorità, di fronte ad una corte superiore del Regno, predeterminata per legge. Dopo aver preso atto della consacrazione, a livello legislativo, di un potere discrezionale del giudice di esclusione della prova, e del riconoscimento dei diritti fondamentali della persona di cui alla C.E.D.U. non resta che verificarne l’applicazione nella giurisprudenza con riguardo alle c.d. illegally obtained evidence. Il caso Jones v. University of Warwick58 costituisce per la Corte la prima grande occasione per precisare la funzione e l’ambito di applicazione del potere discrezionale riconosciuto al giudice dalle C.P.R. Si trattava di un giudizio per risarcimento del danno promosso da una lavoratrice che sosteneva di aver subito una disabilità permanente alla mano destra a seguito di un infortunio sul lavoro. L’assicurazione convenuta ingaggiava un investigatore privato per verificare la veridicità delle allegazioni dell’attrice circa la dedotta disabilità e otteneva, in modo clandestino, l’accesso all’abitazione della Jones filmando la stessa a sua insaputa. Le videoregistrazioni minavano le allegazioni della lavoratrice evidenziando come la stessa avesse, in realtà, una funzionalità della mano destra del tutto soddisfacente. In primo grado, la Jones contestava i filmati prodotti dalla convenuta sotto il profilo della loro utilizzabilità, poichè acquisiti in violazione del diritto alla privacy e ad un giusto processo riconosciuto rispettivamente dagli artt. 8 e 6 della C.E.D.U. Dunque, secondo la prospettazione dell’attrice, il giudice avrebbe dovuto esercitare il potere discrezionale riconosciutogli dall’art. 32.1 (2) C.P.R. ed escludere le suddette prove. Così fece il giudice del primo grado. In particolare, reputò che l’organo giudicante dovesse operare un bilanciamento tra il beneficio che avrebbe acquisito il giudizio attraverso il conseguimento di quel mezzo probatorio e la considerazione della modalità illecita con cui era stato ottenuto. Quindi nel caso di specie, ritenne preponderante la seconda e reputò che la corte non potesse avvallare la modalità con cui le videoregistrazioni erano state ottenute e per l’effetto escluse le stesse. Tuttavia, nella successiva fase di appello, i filmati furono dichiarati ammissibili. In questa pronuncia Lord Woolf, autore peraltro del Final Report on the Civil Justice System 1996 che ha ispirato molte delle modifiche introdotte dal C.P.R.59, ha infatti chiarito come debba avvenire la valutazione da parte del giudice di una prova acquisita con modalità illecite.

58 59

Jones v University of Warwick [2003] EWCA Civ 151, [2003] 1 WLR 954. Woolf, Access to Justice, Final Report, London: The stationary Office, 1996.

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In particolare, è stato fatto esplicito riferimento al potere discrezionale che compete al giudice in merito al bilanciamento di due interessi pubblici divergenti, da un lato la necessità di una rappresentazione obiettiva – nel limite della ragionevolezza – dei fatti di causa e dall’altro la protezione dei diritti delle parti coinvolte nel giudizio al fine di scoraggiare comportamenti illeciti60. Secondo questa ricostruzione, il peso da attribuire a ciascuno degli interessi pubblici in contrasto varierà in base alle circostanze del caso concreto così come sarà diversa la gravità della violazione. Diversamente dal passato, quindi, il giudice può adottare un approccio meno rigido rispetto a quello tradizionale, riconoscendo che nella valutazione sull’ammissibilità di una prova illecita entrano in gioco interessi pubblici contrastanti che devono essere conciliati per quanto possibile61. Tale statuizione non deve, tuttavia, essere confusa con la volontà di creare una gerarchia tra diritti fondamentali della persona. La pronuncia del caso Jones v. University of Warwick non ha, infatti, dettato una direttiva che impone al giudice di reputare ammissibili prove ottenute in violazione della privacy62. In particolare, si tratta di bilanciare gli interessi in gioco ed il peso da attribuire a ciascuno di essi varia a seconda delle circostanze e, nel caso esaminato, la Corte ha reputato che il comportamento degli assicuratori non fosse stato così «oltraggioso» da condurre all’esclusione della prova raccolta. Dunque, tale pronuncia costituisce un tentativo di porre un confine, se pur labile, all’ambito di applicazione del power to control, limitando il potere del giudice di escludere le prove solo qualora queste siano state acquisite con violazioni oltraggiose dei diritti. Non vi è dubbio che l’uso dell’aggettivo «outrageus» è molto ambiguo. Si potrebbe pensare che possano essere ammesse tutte le prove illecite tranne quelle ottenute con violenza o tortura63. Ma una simile interpretazione pare infondata. L’«oltraggiosa violazione» va letta come la necessità da parte del giudice di bilanciare l’esigenza di una ricostruzione dei fatti di causa e la tutela della giustizia64. Dunque, sotto questo profilo, nell’ambito dei poteri conferiti dall’art. 32.1 C.P.R. il giudice dovrebbe, in primo luogo, verificare se l’acquisizione della prova è avvenuta con modalità che hanno leso un diritto della persona. E una volta operata tale verifica, il giudice dovrebbe valutare la gravità di tale violazione in rapporto al prevedibile effetto dell’esclusione della prova con riguardo al processo.

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Jones v. University of Warwick, cit. Jones v. University of Warwick, cit. 62 Breda, Vricella, English Pragmatism and Italian virtue: a comparative analysis of the regime of illegally obtained evidence in civil law proceedings between Italy and England, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2014, p. 9. 63 Breda, Vricella, ivi. 64 In questo senso Breda, Vricella, ivi. 61

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Dunque, in applicazione di questo bilanciamento, a giudizio della Corte, nel caso Jones, l’esclusione della prova sarebbe stata indesiderabile, e avrebbe potuto avere seri implicazioni per il corso del giudizio, includendo la necessità di istruire nuovi esperti medici. In altri termini, avrebbe comportato tempi più lunghi per la definizione del giudizio e, sopratutto, maggiori costi processuali. La Corte ha rilevato, altresì, poi, che l’esclusione delle prove non è l’unica misura he il giudice può adottare per censurare la sua disapprovazione per le modalità in cui è stata ottenuta. In particolare, nel caso Jones v. University of Warwick la Corte ha riformato la decisione del giudice di primo grado in ordine all’ammissione della prova illecita e, al contempo, ha condannato la convenuta al pagamento dei costi a favore della parte offesa. Ciò significa che il giudice, in caso di ammissione della prova illecita è autorizzato a tener conto della condotta dell’assicurazione in sede di liquidazione delle spese giudiziali specialmente qualora emergesse che il lavoratore non abbia «ingrandito» la sua disabilità. Di conseguenza, nonostante la decisione del caso Jones confermi che il giudice nell’esercizio del power to control evidence possa ora esaminare le modalità in cui sono state ottenute le prove al fine di valutare la loro ammissibilità, non si è comunque verificato un superamento della posizione tradizionale. Pare dunque che è nell’interesse della giustizia che il giudice ai fine della decisione consideri tutte le prove rilevanti, soprattutto qualora la loro esclusione compoterebbe degli effetti sul giudizio in termini di tempo e costi, a meno che il loro ottenimento non abbia comportato una violazione oltraggiosa di un diritto della persona. Lasciando al giudice il compito di qualificare nel caso concreto tale violazione. In un altro caso Lifely v. Lifely65, avente ad un oggetto una controversia tra i figli di un agricoltore in ordine alla successione nell’azienda, nel corso del giudizio di primo grado venne valorizzata in sede di decisione la testimonianza di uno dei figli. Successivamente un erede scoprì, rinvenendo nell’azienda di famiglia un diario, che il fratello avevo reso falsa testimonianza. La Corte d’appello ritennne che il ritrovamento, la lettura e l’uso del diario costituivano un’interferenza illegittima sul bene (diario) del fratello (c.d. trespass to goods), di conseguenza la prova della falsa testimonianza era stata ottenuta in modo illecito. In questa decisione diversamente dal caso Jones, assumono un ruolo rilevante la valorizzazione dei diritti fondamentali dell’uomo, anche se, come tra poco vedremo, il risultato a cui si è giunti non è diverso dal precedente. In particolare, la Corte d’appello ha affrontato la questione dell’esclusione della prova illecita attraverso il bilanciamento del diritto alla privacy di cui all’art. 8 della C.E.D.U. e del diritto ad un equo processo di cui all’art. 6 della medesima. Tuttavia, il risultato di questo bilanciamento è il medesimo ottenuto nel caso Jones. Secondo la Corte, poiché il diario non è stato ottenuto con un furto essendo stato reperito nell’azienda di famiglia, sarebbe del tutto sproporzionato escludere questa prova.

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Lifely v. Lifely [2008] EWCA Civ. 904.

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Sebbene sia moralmente criticabile la lettura del diario di altro soggetto, secondo la prospettazione della Corte, la condotta non era così scandalosa. In ogni caso se il fratello avesse rivelato attraverso la discovery l’esistenza del diario, come avrebbe dovuto fare fin dall’inizio del procedimento, le informazioni in esso contenute sarebbero emerse sin da subito. Ciò posto, va sottolineato che tale decisione, nonostante sia favorevole all’ammissione del diario, manifesta comunque una volontà di ridurre le eventuali implicazioni generali della stessa. In particolare, nel testo della decisione si legge che «What forensic use, if any, should be permitted of an opponent’s private information when it has been obtained criminally, or unlawfully, or opportunistically, or even adventitiously gives rise to current problems […] My judgement will not be and should not be the last word on this expanding jurisprudence as it is deliberately fact centred and fact sensitive»66. In altre parole, Lord Ward sostiene che il caso Lifely v. Lifely non può essere, il punto di partenza di una giurisprudenza che consente l’ingresso di qualsiasi prova ottenuta illecitamente67. Ciò posto, tuttavia, emerge come i tribunali inglesi siano altamente resistenti ad escludere prove rilevanti qualora ottenute con modalità illecite, a meno che ciò non si traduca in una violazione oltraggiosa di un diritto. Va poi segnalato, nell’ambito del diritto di famiglia, il caso Imerman v. Tchenguiz68. Si trattava di un procedimento di divorzio tra Vivian ed Elizabeth Imerman, in cui i fratelli della signora Imerman avevano scaricato documenti dal computer dell’ufficio che condividevano con il signor Imerman al fine di dimostrare che aveva un patrimonio più capiente rispetto a quanto dichiarato durante il procedimento volto all’accertamento delle condizioni economiche del divorzio. Il marito chiedeva, quindi, un ordine per ottenere la restituzione dei files e delle copie. La Corte si pronunciò a favore del marito, superando le c.d. Rules of Hildebrand. In particolare, nel caso Hildebrand v. Hildebrand69, si era reputato legittimo che un coniuge accedesse a documenti riservati appartenenti all’altro coniuge a condizione che non fosse utilizzata la forza. Una volta ottenuto l’accesso a tali documenti o informazioni, il coniuge poteva conservare e utilizzare le copie ai fini del procedimento di divorzio. Le regole sono state successivamente descritte da Lord Justice Ward in White v. Withers70 nei seguenti termini, ovvero che i giudici nei family cases «[…] will not penalise the taking, copying and immediate return of documents but do not sanction the use of any force to obtain the documents, or the interception of documents or the retention of documents … The evidence contained in the documents, even those wrongfully taken will be

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Lifely v Lifely, cit. Lifely v. Lifely, cit. 68 Imerman v. Tchenguiz [2010] EWCA Civ 908. 69 Hildebrand v. Hildebrand [1992] 1 FLR 244 70 White v. Withers and Anor [2009] EWCA Civ 1122. 67

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admitted in evidence because there is an overarching duty on the parties to give full and frank disclosure». Poiché dunque vi è un dovere per le parti di divulgare i documenti e, in generale, le informazioni, non può essere penalizzato l’ottenimento di documenti dalla controparte, a meno che ciò avvenga con la forza. In altre parole, nell’ottica del c.d. self help era più importante che le parti fornissero la piena divulgazione, piuttosto che una avesse agito in modo illecito nell’acquisire i documenti dell’altra. Orbene, in Imerman, come detto, queste Rules vennero superate rilevando che nelle stesse non vi era nulla che potesse essere invocato a giustificazione o come difesa di un comportamento che sarebbe altrimenti illecito. Di conseguenza, la Corte ha ordinato che i files fossero restituiti al marito e che alla moglie fosse impedito di utilizzare qualsiasi informazione ottenuta attraverso la lettura degli stessi. In altri termini, si è statuito che i documenti ottenuti in via confidenziale non possono essere copiati e poi utilizzati nei procedimenti di divorzio, annullando quindi le Rules of Hildebrand. In particolare, la Corte nel caso in esame ha fatto richiamo degli artt. 6, 8 e 10 della C.E.D.U. – rispettivamente il diritto a un processo equo, il diritto al rispetto della privacy e il diritto alla libertà di espressione – e, come tale, l’esercizio di bilanciamento che il tribunale dovrebbe effettuare tra la necessità di preservare il diritto di Imerman di proteggere la riservatezza dei documenti archiviati sul computer e la necessità di garantire che una giusta risoluzione del procedimento si svolga sulla base di un’identificazione veritiera e completa del patrimonio delle parti71. Si noti, tuttavia, che nel caso da ultimo esaminato, nonostante il richiamo ai diritti fondamentali della persona, ancora una volta, l’esclusione della prova ottenuta in modo illecito è avvenuta non per effetto dell’esercizio di un potere discrezionale del giudice ma attraverso l’uso dell’istituto dell’ingiunzione72. La Corte, quindi, non aveva esercitato il suo potere di controllo sulla prova ma ha escluso la prova per mezzo di una c.d. pre-hearing injuctions azionato dalla parte73. In Imerman v. Tchenguiz si conclude sottolineando che, in linea con la tradizione di common law, le prove illecite sono ammissibili e che, al tempo stesso, è riconosciuto al giudice un potere discrezionale di escludere le prove in relazione alla modalità del loro ottenimento. Anche se tale power to exclude concretamente non è mai stato esercitato. Da ultimo, è necessario focalizzare la nostra attenzione sul caso Singh v. Singh74 in cui ancora una volta si ribadisce che non esiste un divieto assoluto all’ingresso di prove ille-

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Imerman v. Tchenguiz, cit. V. supra § 3. 73 Andrews, On civil procedures, I, Cambridge, 2013, p. 402 ss., parla al riguardo di una “new tendency” per escludere le prove illecitamente ottenute. 74 Singh v. Singh e Ors [2016] EWHC 1432 (Ch). 72

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cite nel processo civile inglese e che se le stesse sono rilevanti il giudice può ammetterle a prescindere dalle modalità di acquisizione. In tale caso si è statuito che le registrazioni effettuate in segreto di conversazioni tra partner commerciali siano ammissibili come prove in giudizio, ma in ogni caso debbano essere trattate con cautela. Secondo la prospettazione della Corte, esiste sempre il rischio che una parte sappia che una conversazione è stata registrata, ma l’altra no, e dunque che il contenuto possa essere manipolato al fine di attirare la parte ignara in alcune affermazioni che possono essere estratte dal contesto. Tuttavia, la Corte ha anche riconosciuto che può esserci un grande valore in ciò che viene detto in tali circostanze, in cui le parti conoscono chiaramente la verità delle questioni di cui stanno discutendo e ne parlano liberamente.

5. Conclusioni. Alla luce di tutto quanto più sopra esposto, emerge che il sistema processuale civile inglese non si preoccupa del modo in cui sono state ottenute le prove al di fuori del giudizio: le prove rilevanti ancorché illecite sono ammissibili. Al tempo stesso, al giudice è riconosciuto il power to control evidence in forza del quale potrebbero essere escluse le prove che sono state acquisite con modalità illecite anche in relazione alla violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dall’Human Rights Act. Dall’esame dei casi più sopra illustrati è emerso, tuttavia, un atteggiamento di apertura rispetto alle prove illecite. L’esigenza di una ricostruzione completa e corretta del fatto ai fini dell’emanazione della decisione conduce il giudice ad utilizzare tutte le prove rilevanti anche qualora le stesse siano state ottenute in modo illecito perpetrando una violazione ad un diritto fondamentale della persona. In altri termini, il giudice inglese deve conoscere tutte le prove ai fini della decisione della controversia «[…] that all relevant material should be available to courts when deciding cases. Courts should not have to reach decisions in ignorence of documents or other material which, if, disclosed, might well effect the outcome»75. L’esclusione di una prova rilevante, benché illecita, è un risultato indesiderabile per il processo civile inglese. Dunque, quel che rileva è l’accuratezza dell’esito dell’accertamento del fatto – quale manifestazione dell’efficienza del giudizio – a prescindere dalle modalità di formazione ed acquisizione della prova76.

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R v. Derby Magistrates’ Court Ex p. B [1996] 1 AC 487 at 510, [1995] 4 All ER 526 at 543-544, HL. In questo senso anche Jones v. University of Warwick, cit. 76 V. Chiarloni, Riflessioni microcomparative su ideologie processuali e accertamento della verità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, p. 107, l’a. rileva che l’overriding objective più sopra richiamato quale decisione con giustizia non riguarda solo le regole sulla conduzione del giudizio ma attiene al suo risultato.

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Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese

Nel Woolf Report si rinviene infatti che «ultimately towards of rules of court is to guide the court and the litigants towards the just resolution of the case»77: il processo deve condurre ad una decisione giusta quanto alla ricostruzione dei fatti e alla risoluzione delle questioni di diritto. Al tempo stesso, è necessario valutare se l’esclusione della prova possa comportare un ritardo dei tempi processuali o la necessità di assumere ulteriori prove, con aggravio di costi. Il giudice, in altri termini, deve considerare gli effetti della sua decisione sul sistema della giustizia civile in generale. Secondo questa impostazione, trattare una causa secondo giustizia, alla luce del principio di proportionality, comporta, per quanto praticabile, attribuire ad essa un certo grado di risorse tenendo conto della necessità di risolvere anche altri casi. Ciò implica una “comparazione di tipo utilitaristico tra i diritti in gioco” che può inevitabilmente portare al sacrificio anche di quelli inviolabili78. La tecnica del bilanciamento richiamata anche in Jones v. University of Warwick evoca, infatti, l’idea di assegnare un peso agli interessi e di contemperare gli stessi: da un lato, l’interesse all’accertamento della verità fattuale da parte del giudice e, dall’altro, e quello di vedere rispettato il diritto alla privacy così come riconosciuto anche dall’H.R.A. Orbene, il power to control evidence, come chiarito nel caso esaminato, consente ai giudici inglesi di valutare la gravità della violazione perpetrata per acquisire la prova illecita. Di qui l’elaborazione del concetto di «violazione oltraggiosa» del diritto da usare come «peso» nel su richiamato bilanciamento. L’operazione del bilanciamento dovrebbe rendere possibile la coesistenza di due principi o diritti in conflitto, trovando un punto di equilibrio: in realtà, da questo bilanciamento, come avvenuto nel caso esaminato, è conseguita la prevalenza del primo sul diritto alla privacy della signora Jones. La valutazione del grado di violazione dei diritti è ancora agli inizi, ma è probabile che venga progressivamente chiarita nella giurisprudenza successiva. È, ad esempio, ragionevole aspettarsi che ai giudici sia richiesto di qualificare ulteriormente il cosiddetto criterio di violazione oltraggiosa in modo da dare maggiore peso alla violazione del diritto della persona79. Va poi evidenziato che questo bilanciamento aiuta a rendere una decisione nel caso particolare, ma con riguardo all’amministrazione della giustizia in generale, non favorirà l’osservanza della legge da parte di coloro che sono impegnati o che stanno per essere coinvolti in procedimenti giudiziari. Il dato che emerge, dunque, è quello per cui l’ordinamento inglese premia l’esigenza che tutti rispettino le regole nell’ambito del giudizio. Quindi, è più frequente che siano escluse le prove qualora le stesse siano state acquisite con modalità che implicano l’ol-

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Woolf, Access to Justice, cit. Panzarola, Jeremy Bentham e la proportionate justice, in Riv. dir. proc., 2016, p. 1484. 79 Breda, Vricella, op. cit., p. 17. 78

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traggio alla corte ovvero costituiscano una minaccia per l’amministrazione della giustizia in generale, piuttosto che attraverso violazioni di diritti fondamentali della persona. Peraltro, qualora, ne sussistano i presupposti è possibile ricorrere allo strumento alternativo dell’injuction per ottenere la restituzione di documenti ottenuti con modalità illecita, e dunque per l’effetto l’esclusione degli stessi dalla cognizione del giudice. O ancora, è stato evidenziato, che la Corte potrebbe sanzionare la condotta della parte che ha ottenuto in modo illecito la prova attraverso la pronuncia di condanna alle spese. In conclusione, nel giudizio di ammissibilità della prova il giudice inglese ha cominciato ad esercitare un controllo e a valorizzare i diritti fondamentali della persona così come riconosciuti dall’H.R.A. e dalla C.E.D.U. anche se in modo molto debole. Di fatto, l’esercizio del bilanciamento e la valutazione della gravità della condotta, nonostante l’acclarata violazione del diritto alla privacy, nei casi esaminati, ha condotto all’ammissibilità della prova illecita. Giunti a questo punto non si può fare a meno di domandarsi se per effetto della Brexit, il Regno Unito uscendo dall’Unione Europea si svincolerà anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, con ciò abrogando l’Human Rights Act che come più sopra evidenziato ha introdotto nel sistema inglese le norme della C.E.D.U.80. Come è stato evidenziato dalla dottrina, l’H.R.A. potrebbe essere sostituito da un Bill of Rights che attuerebbe un riconoscimento formale di diritti fondamentali già presenti nel common law inglese81. È chiaro, in ogni caso, che se si dovesse verificare una simile prospettiva, probabilmente anche il tema del trattamento della prova illecita nell’ambito del processo civile potrebbe essere rimeditato. Nel nostro ordinamento, invece, l’art. 111 Cost., come noto, sancisce il principio della legalità processuale da cui consegue che il processo si svolga nel rispetto delle prescrizioni di legge e della stessa carta costituzionale82. Se caliamo il principio del giusto processo nella fase istruttoria ovvero nella fase deputata all’accertamento del fatto vediamo che la stessa è regolata dalla legge quanto all’ammissione, formazione e valutazione della prova. Con riguardo alla fase di acquisizione, sussistono, in particolare, una serie di divieti legali all’assunzione di determinati mezzi probatori, si pensi ad esempio agli artt. 1417, 1967, 2721-2726, 2731, 2739 c.c. e 621 c.p.c. La legge prescrive, poi, che l’istanza probatoria sia dedotta nel rispetto delle preclusioni istruttorie e, da ultimo, ma non meno importante, che il mezzo istruttorio sia conforme alla previsione formale.

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Alpa, op. cit., p. 150. Alpa, ivi. 82 V. Proto Pisani, Giusto processo e valore della cognizione piena, in Riv. dir. civ., 2002, p. 265 ss.; Chiarloni, Il nuovo art. 111 cost. e il processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, p. 1013; Trocker, Il valore costituzionale del “giusto processo”, in Atti del convegno di Elba, Milano, 2011, p. 40; Id., Il nuovo art. 111 cost. e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 392; Costantino, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo civile”, in Atti del convegno di Elba, cit., p. 259; Bove, Art. 111 cost. e “giusto processo civile”, in Riv. dir. proc., 2002, p. 497; Graziosi, La cognizione sommaria del giudice civile nella prospettiva delle garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, p. 137 ss. 81

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Power to control evidence e prove illecite nel diritto processuale civile inglese

Accanto a questa disciplina codicistica si collocano anche i precetti costituzionali. Nessuno può dubitare che la prova debba essere assunta nel contraddittorio tra le parti e nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale. La formazione delle prove al di fuori del giudizio deve avvenire, in mancanza di una disciplina in tema di assunzione, nel rispetto di dette libertà garantite alla persona. L’acquisizione di elementi probatori in via stragiudiziale deve essere condotta tenendo presente che l’art. 13, comma 3°, Cost. sancisce la totale inefficacia degli atti istruttori lesivi della libertà personale, che il successivo art. 14, comma 1°, Cost. prevede che «il domicilio è inviolabile» e, da ultimo, che l’art. 15, comma 1°, Cost. statuisce che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». Tali libertà sono pertanto garantite ad ogni soggetto dell’ordinamento nei confronti di chiunque. È la stessa Costituzione a qualificarli come diritti inviolabili e a stabilire che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Quindi, quando un’acquisizione probatoria incida direttamente su diritti costituzionalmente rilevanti, la stessa non può che essere prevista dal legislatore. In assenza di una simile disciplina, la prova assunta in spregio di dette libertà deve riputarsi vietata. Nel momento in cui la Costituzione qualifica come inviolabile il diritto – tranne per le strette limitazioni previste – ciò assume il preciso significato di una consapevole scelta di non consentire l’esperimento probatorio che sia idoneo a ledere quel diritto. Vale a dire che la loro violazione non può avvenire neppure per raccogliere un mezzo di prova. In altri termini, il diritto di difesa, se pur anch’esso qualificato come inviolabile, non è meritevole di tutela quando si esplica con una condotta antigiuridica lesiva dell’altrui sfera privata. Dunque, trasferendo sul piano processuale tale questione, proprio la circostanza che la nostra Costituzione qualifica le libertà personali come inviolabili è sintomatica di una scelta di fondo, nel senso che il frutto della loro violazione, qualora si sostanzi nell’acquisizione di un mezzo probatorio, non potrà essere valutato dal giudice ai fini della decisione. La nostra Carta costituzionale, in altri termini, ha già effettuato, a priori, il bilanciamento dei diritti tanto propugnato sia dalla giurisprudenza interna di merito83, sia dalla giurisprudenza inglese84. L’inutilizzabilità, benché non espressamente codificata dal legislatore, va intesa come sanzione alla violazione del divieto – implicito – di assunzione di determinati elementi probatori con modalità illecite. Non vi è dubbio che in prima battuta si potrebbe ritenere ragionevole utilizzare la prova illecita ai fini della ricerca della verità materiale, tuttavia, il nostro sistema processuale non

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Cfr. giurisprudenza citata in nota 16. Cfr. casi esaminati nel paragrafo precedente.

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Laura Durello

può tollerare la lesione delle libertà riconosciute dalla nostra Costituzione neppure al fine dell’accertamento dei fatti85. In questo quadro, quindi, con riguardo alla finalità del giudizio di ricerca della verità, va detto che non conta il risultato in sé considerato ma la modalità di acquisizione probatoria con cui si raggiunge tale obiettivo. Se così non fosse, significherebbe optare per un’impostazione che ammetta l’ingresso della prova illecita e, dunque, suffragare l’idea che il fine giustifica i mezzi o, meglio, che in ragione della ricerca della verità è possibile utilizzare qualsiasi mezzo istruttorio. Ma ciò non è accettabile in un sistema processuale come il nostro improntato al principio del giusto processo. In altri termini il dovere del giudice di valutare il dato probatorio acquisito cede di fronte alla constatazione dell’illiceità della sua formazione. Il giudice è tenuto ad ignorarlo e tale elemento essendo privo di efficacia non può concorrere alla formazione del suo convincimento. Porre questi limiti alla ricerca della prova può apparire un ostacolo alla ricerca della verità ma, alla luce dell’art. 111 Cost., si deve reputare che i risultati probatori raggiunti contano nel momento in cui sono rispettate le modalità di acquisizione e a patto che le stesse non si pongano in contrasto con le libertà fondamentali. Dunque, non vi è dubbio alcuno che il nostro sistema processuale privilegi la legalità rispetto alla ricerca della verità materiale: il risultato conoscitivo della prova assunta al di fuori del giudizio è utilizzabile solo se acquisita nel rispetto delle libertà individuali garantite dalla Costituzione. Da qui ne deriva, in conclusione, che nel nostro sistema processuale, diversamente da quello inglese, la legalità della prova è garantita non solo quando né è rispettato il modello legale o i limiti di ammissibilità, ovvero quando la sua acquisizione in giudizio avvenga nel rispetto delle preclusioni, ma anche quando, qualora formatasi al di fuori del giudizio, la sua assunzione si sia svolta nel rispetto delle libertà dell’individuo protette dalla Costituzione86.

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Cfr. Carnelutti, op. cit., p. 63. Graziosi, Contro l’utilizzabilità delle prove illecite nel processo civile, cit., p. 965 rileva che «è manifesta l’incoerenza sistematica di una ricostruzione che, nel processo, riconnetta alle prime conseguenze giuridiche più gravi di quelle che derivano dalla violazione (anche solo indiretta) delle seconde».

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Clarice Delle Donne

La tutela del patrimonio e dell’impresa del debitore tra misure protettive e cautelari nel Codice della crisi Sommario : 1. Premessa. – 2. Misure protettive e misure cautelari nelle definizioni del Codice della crisi. – 3. Al di là della formula definitoria: la complessità delle misure protettive nella trama del Codice (e nell’attuale prassi applicativa). – 4. La mimesi tra misure protettive e cautelari dalla realtà applicativa al Codice della crisi. – 5. Conclusioni: diversità di struttura versus possibile identità di funzione.

Il saggio sottopone a confronto, nel contesto del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ed in riferimento a scopo ed ambito di applicazione, due categorie di misure: quelle protettive, tese a bloccare le aggressioni dei creditori al patrimonio del debitore, e quelle cautelari, più specificamente tese ad evitare invece il rischio di dispersione del patrimonio da parte dello stesso debitore. Il confronto, operato in riferimento alla ratio di tali misure, ha lo scopo di verificare la possibilità di un comune ambito di applicazione. The essay compares and contrasts, in the context of Italian Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, two types of measures: the general bar and stay of judicial actions, proceedings, enforcement of judgements against debtor assets by his creditors (misure protettive), and the injunctions to restraint the debtor from dealing with his assets so as to render them unavailable or untraceable (misure cautelari). The comparison regards the purpose of such measures, to ascertain the possibility of a common scope.

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Il Saggio è dedicato agli Scritti in memoria di Franco Cipriani.

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Clarice Delle Donne

1. Premessa. Le misure protettive e cautelari rispondono ad esigenze cruciali nelle dinamiche della crisi o insolvenza dell’impresa e del sovrindebitamento1. Ad entrambe il d.lgs. n. 14/20192 recante il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza dedica, raccogliendo l’eredità della legge fallimentare, ampio spazio prima nelle definizioni (art. 2, lett. p e q) e poi nei vari plessi normativi che ne costruiscono la disciplina. Nell’ambito dell’intreccio di temi posti da questi strumenti di tutela e dei numerosi altri presupposti ed implicati, questo scritto si soffermerà sul quesito della possibile sovrapposizione dei loro contenuti. Le misure cautelari e quelle protettive sono cioè espressione, nella logica del Codice, di mondi diversi e separati, rispondendo a differenti esigenze di tutela, sicché laddove operano le une sono escluse le altre? O invece, pur restando diverse quanto a struttura e disciplina, possono coincidere nel contenuto e rispondere alle stesse esigenze di tutela? Il dubbio, che si pone oggi agli interpreti ma con cui dovrà a breve confrontarsi la realtà applicativa, è particolarmente serio in ragione della temporaneità “secca” delle misure protettive. Se infatti la loro durata massima maturasse in un contesto in cui permangono le esigenze che ne giustificarono la presenza, quelle esigenze potrebbero ancora trovare tutela, sia pure per la diversa via delle misure cautelari, o dovrebbe ritenersene la sopravvenuta irrilevanza? Potrebbero cioè le misure cautelari, in ragione della loro atipicità, assumere i contenuti delle misure protettive oramai perente? E, viceversa, potrebbero le misure protettive assumere, nel loro terreno di elezione, contenuti atipici, modellati cioè di volta in volta dal giudice sulle concrete esigenze di tutela rappresentate dal debitore? La risposta, su cui si registra già un certo contrasto tra gli interpreti, non può che basarsi anzitutto sulla fisionomia delle misure protettive e cautelari risultante dal Codice. La prassi applicativa ne rappresenta tuttavia chiave di lettura privilegiata perché mostra la complessità degli scenari con cui occorre confrontarsi e la capacità “mimetica” degli strumenti, sia pure diversi, deputati dalla legge fallimentare a farvi fronte e che il Codice ha oggi recepito. Questo spiega l’andamento ondivago della trattazione, che parte dal testo del Codice risalendo alla legge fallimentare, approda alla prassi applicativa e ritorna al testo scritto

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Non saranno qui prese in considerazione le misure protettive e cautelari previste per il sovrindebitamento, per la cui illustrazione si rinvia perciò a Farina, Tutela esecutiva individuale, misure protettive e procedure negoziali di composizione della crisi: un (complesso) ménage à trois, in Riv. es. forz., 2019, 270 ss. Con il quale è stata attuata la delega di cui alla l. 155/2017. In generale, sui rapporti tra normativa di delega e normativa delegata v., per tutti, tra i primi commentatori, Fabiani, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche omissione, in Foro it., 2019, I, 162 ss; Lo Cascio, Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: considerazioni a prima lettura, in Il Fallimento, 2019, 263 ss.

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di nuovo conio, nel tentativo di coglierne le direttrici di fondo alla luce dell’esperienza maturata in costanza della legge fallimentare.

2. Misure protettive e misure cautelari nelle definizioni del Codice della crisi.

La fisionomia delle misure protettive emergente dall’art. 2, 1o comma, lett. p)3 del Codice è incentrata sulle iniziative individuali dei creditori: si tratta infatti, stando alla definizione datane da questa disposizione, di quelle “(…) misure temporanee disposte dal giudice allo scopo di evitare che determinate azioni dei creditori possano pregiudicare, fin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza”. Quali siano le evocate “azioni dei creditori” e quali le “iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza” emerge poi da una serie di disposizioni, alcune collocate nella Sezione che il Codice intitola e dedica proprio alle “Misure cautelari e protettive”4 (artt. 54 e 55), altre sparse in luoghi diversi del Codice e regolanti gli effetti (col)legati all’accesso alle procedure di omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti. In particolare nell’art. 54, dedicato ai profili di struttura delle misure cautelari e protettive, si legge (2ocomma) che se il debitore ne ha fatto richiesta nella domanda di cui all’art. 405, dalla data della relativa pubblicazione nel Registro delle imprese i creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio. La disposizione prosegue poi sancendo, quale contrappeso a favore dei creditori stessi6, che dalla medesima data le prescrizioni restano sospese e le decadenze non si verificano. La domanda di cui all’art. 40 è quella di accesso ad una delle procedure per la regolazione della crisi e dell’insolvenza e nella specie la domanda di accesso alla liquidazione giudiziale (oggi fallimento: art. 41), riservata, oltre che al debitore, anche ai creditori, al P.M. ed agli organi dotati di poteri di vigilanza e controllo sull’impresa, la domanda di omologazione del concordato preventivo, anche con riserva, e la domanda di omologa-

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Disposizione intitolata e dedicata, nell’ambito del Titolo I “Disposizioni generali”, Capo I, “Ambito di applicazione e definizioni”, appunto alle “Definizioni.” La Sezione III del Capo IV del Codice, intitolato “Accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza”. Su quello che il Codice definisce ambiziosamente, nella Sezione II del Capo IV (Accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza) intitolata “Procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza” (aperta proprio dall’art. 40), “procedimento unitario”, appunto, v. le ampie (e condivisibili) considerazioni di Pagni, L’accesso alle procedure di regolazione nel Codice della crisi e dell’insolvenza, in Il Fallimento, 2019, 550 ss. Di più pregnante tenore testuale si presenta, da questo punto di vista, l’art. 168, 2o comma, l. fall., per il quale “Le prescrizioni che sarebbero state interrotte dagli atti predetti rimangono sospese e le decadenze non si verificano”. Gli “atti predetti” sono, naturalmente, quelli introduttivi di un procedimento cautelare o esecutivo a carico del debitore.

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zione degli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 44), riservate invece al solo debitore7. Il quadro va integrato con il 3o comma dell’art. 54 che consente la richiesta delle “misure protettive di cui al comma 2” anche all’imprenditore che abbia fatto istanza di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti cd. “in bianco”8, sicché tutti gli effetti che il 2o comma collega alla domanda di concordato conseguono anche a quella di pre-accordo di ristrutturazione. Effetti che poi si conservano se, nel termine assegnato per il deposito degli accordi di ristrutturazione, il debitore deposita invece la domanda di omologazione del concordato preventivo (art. 54, 6o comma). Ispirate all’idea che la tutela individuale del credito sia incompatibile con i principi ispiratori delle procedure concorsuali9, le misure protettive del Codice trovano, come rilevato in apertura, i loro immediati precedenti nell’art. 51 l. fall. da un lato, e negli artt.168 l. fall. per il concordato preventivo e 182-bis l. fall. per gli accordi di ristrutturazione dei debiti dall’altro10. Come in quei precedenti, anch’esse rispondono infatti all’esigenza di salvaguardare la integrità del patrimonio del debitore in funzione della migliore riuscita di quella che è oggi sintetizzata come “regolazione della crisi o dell’insolvenza”. Quanto alla prima, da identificare, nel lessico del Codice, quale (esito delle procedure di) omologazione del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione dei debiti11, inibire, almeno per un certo tempo, ai creditori legittimati l’accesso immediato alla tutela esecutiva o cautelare si rivela infatti mezzo ad un fine più ampio. Quello, cioè, di consentire, attraverso accordi con tutti o alcuni di essi, il superamento della crisi proprio per assicurare, quale esito finale, la soddisfazione dell’intera platea di creditori (quelli con cui si è raggiunto l’accordo, secondo i relativi contenuti, gli altri eventualmente estranei secondo le fonti originarie). Un patrimonio, quale ne sia la consistenza, impermeabile ad iniziative dei creditori insod-

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La differente ampiezza della legittimazione ad agire emerge da altre disposizioni ancora, ed in particolare dagli artt. 37 e 38 del Codice che compongono (insieme all’art. 39) la Sezione I del Capo IV, dedicata proprio all’iniziativa per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza. 8 “(…) anche nel corso delle trattative e prima del deposito della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione, allegando la documentazione di cui all’art. 57 e la proposta di accordo corredata da un’attestazione del professionista indipendente che attesta che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e che la stessa, se accettata, è idonea ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la loro disponibilità a trattare”, recita infatti il 3o comma dell’art. 54, estendendo poi il proprio ambito di applicazione anche agli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa di cui all’art. 61. 9 Così Farina, Tutela esecutiva individuale, cit., 270. 10 Sia pure con varianti di un certo peso tra gli effetti collegati alla dichiarazione di fallimento dall’art. 51 l. fall. e quelli collegati al deposito della domanda di omologazione del concordato preventivo (art. 168 l. fall.) e di accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis l. fall.), queste ultime due anche nella variante cd. “in bianco”. Sui necessari distinguo v., per tutti, Farina, Tutela esecutiva individuale, misure protettive e procedure negoziali di composizione della crisi: un (complesso) ménage à trois in evoluzione, in Riv. es. forz., 2019, 270 ss. 11 Opportunamente Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, in Riv. dir. proc., in corso di pubblicazione, fa rilevare come il Codice non abbia ritenuto di offrire una definizione di procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza nonostante usi tale locuzione a più riprese. L’A. aggiunge, sulla premessa generale che la regolazione non riguardi solo l’ambito concorsuale, che va considerato altresì l’universo della liquidazione giudiziale, degli accordi di ristrutturazione e del concordato preventivo del c.d. “debitore minore”. Nel sovrindebitamento rilevano gli artt. 70 con riferimento alla ristrutturazione dei debiti e 78 con riferimento al concordato cd. minore.

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disfatti è infatti requisito principe di credibilità dell’imprenditore al tavolo delle trattative e delle possibilità di successo di queste ultime12. Quanto invece alla “regolazione dell’insolvenza”, da identificare con l’apertura della liquidazione giudiziale (già fallimento), le misure protettive puntano, ancora una volta inibendo l’accesso alla tutela individuale del credito (in forma esecutiva e cautelare), ad assicurare la conservazione del patrimonio o dell’impresa del debitore in funzione della massima realizzazione del concorso dei creditori aperto dalla sentenza che dichiarerà la liquidazione stessa.13 L’art. 55, rubricato “Procedimento”, scolpisce poi (3o comma) il carattere cd. semiautomatico14 delle misure protettive: il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, con decreto conferma o revoca l’inibitoria già in corso, in forza della pubblicazione della domanda nel registro delle imprese, stabilendone altresì la durata. Il meccanismo è dunque il seguente: l’inibitoria generalizzata di azioni esecutive e cautelari e la sospensione dei procedimenti in corso conseguono in modo automatico alla iscrizione di una delle domande di cui all’art. 40 nel registro delle imprese, sempre che il debitore ne abbia fatto specifica istanza. Tali effetti sono tuttavia sottoposti al vaglio del giudice che, con decreto reso entro trenta giorni dall’iscrizione stessa, conferma o revoca (in tutto o in parte) le misure protettive fissandone altresì la durata. Gli effetti attestatisi alla pubblicazione della domanda cessano così, ex nunc15, non solo se le misure vengono in tutto o in parte revocate, ma anche se il decreto non viene emesso nel termine di trenta giorni dall’iscrizione16 della domanda di cui all’art. 40 nel registro delle imprese. Emerge così la caratteristica principe di queste misure, la temporaneità: già appartenente alla definizione dell’art. 2, 1o comma, lett. p), essa è specificata nella disposizione gene-

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Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, cit. Oltre ad essere funzionale alla concentrazione negli organi della procedura del pieno ed esclusivo esercizio dei poteri di amministrazione e liquidazione del patrimonio del debitore. V. in proposito l’ampia monografia di Baroncini, Inibitorie delle azioni dei creditori e automatic stay. Studio su un sistema uniforme degli effetti protettivi vigenti nell’ordinamento concorsuale italiano, Torino, 2017, spec. 96 ss. e passim, nonché Farina, Tutela esecutiva individuale, cit., 271 e Fabiani M., Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, cit. 14 La necessità dell’istanza di parte, e quindi di una parentesi processuale vera e propria, pone il problema di come e con chi instaurare il contraddittorio. L’art. 55, 3° comma si limita a prevedere che il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, conferma o revoca la misura con decreto trasmesso al registro delle imprese per la pubblicazione, senza alcuna indicazione in ordine al contraddittorio. La previsione del reclamo ai sensi dell’art. 124, per sua natura aperto “a qualunque interessato”, potrebbe suggerire l’idea che i creditori singolarmente interessati dalla inibitoria (e di essa edotti a seguito della pubblicazione) possano dolersene proprio in sede di reclamo. A meno di non immaginare, come pure a me pare plausibile, che i singoli creditori possano comunque intraprendere il procedimento esecutivo e cautelare nonostante l’inibitoria, salvo il potere di eccezione (per i procedimenti cautelari) o di opposizione (all’esecuzione sub specie di impignorabilità dei beni) del debitore, che solleva la questione della nullità dei relativi atti perché compiuti, appunto, in violazione della inibitoria. Su questi complessi profili si sofferma, in sede di prima riflessione, Scarselli, Le misure cautelari e protettive del nuovo codice della crisi dell’impresa, in www.judicium.it. V. altresì le riflessioni di Fabiani M., Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, cit., e di Farina, Tutela esecutiva individuale, cit., 265 ss. 15 Consentendo la riassunzione dei procedimenti in corso colpiti dalla sospensione e le iniziative esecutiva e cautelare prima inibite: tanto si desume dall’espressione “cessano gli effetti” (delle misure) utilizzata dall’art. 55, 3o comma del Decreto (Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, cit.; Farina P., Op. loc. ult. cit.). 16 Anche il decreto che conferma o revoca le misure protettive è soggetto ad iscrizione nel Registro delle imprese, ed è reclamabile ai sensi dell’art. 124 del Decreto: così l’art. 55, 3o comma. 13

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rale dell’art. 8, per la quale la durata complessiva delle misure protettive non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi eventuali rinnovi o proroghe. La cd. semiautomaticità del Codice, così come la temporaneità, non sono del tutto sconosciute alle misure protettive già note alla legge fallimentare. È vero infatti che queste ultime, anch’esse consistenti in una generale inibitoria delle azioni esecutive e cautelari e nella sospensione di quelle già in corso, conseguono automaticamente alla iscrizione della domanda di omologazione del concordato preventivo (art. 168, 1o comma, l. fall.) e degli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis, 2o comma ) nel registro delle imprese, senza possibilità di valutazione caso per caso da parte del giudice (cd. automatic stay). È però altrettanto vero che un meccanismo di semiautomaticità è già codificato dall’art. 182-bis, 6o comma, a beneficio dell’imprenditore che intenda ottenere la protezione del suo patrimonio “(…) nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’accordo (…)” di ristrutturazione dei debiti, cioè dell’imprenditore che utilizzi le più duttili forme del cd. pre-accordo di ristrutturazione. Egli può infatti chiedere al giudice il divieto di inizio o prosecuzione di azioni esecutive e cautelari e tale istanza, pubblicata nel registro delle imprese, produce gli illustrati effetti salva conferma giudiziale (effetti che poi si mantengono se nel termine fissato per il deposito dell’accordo è invece depositata domanda di omologazione del concordato preventivo: così l’art. 182bis, ultimo comma). Anche riguardo alla durata delle misure, le soluzioni oggi adottate dal Codice sono già note alla legge fallimentare posto che, mentre nell’art. 168 il termine finale è (sì imposto dalla legge ma) agganciato alla definitività del decreto di omologazione del concordato preventivo, nell’art. 182 bis esso cade, a prescindere dalle vicende dell’accordo e dalla permanenza di esigenze di tutela, al sessantesimo giorno successivo al momento di decorrenza iniziale. Il Codice non fa dunque che generalizzare da un lato la semiautomaticità dell’art. 182bis, 6o comma, e dall’altro la temporaneità “secca” (non legata cioè neppure all’omologazione quale momento finale del procedimento di regolazione da cui scaturivano le esigenze di tutela) dell’art. 182-bis, 3o comma, pensate dalla legge fallimentare per i soli accordi di ristrutturazione dei debiti, a tutte le misure protettive. L’unica vera novità introdotta dal Codice17 consiste allora nel fatto che queste ultime, stando al tenore letterale dell’art. 54, 2o comma, possono essere richieste anche con la do-

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Ma, come si vedrà, non sconosciuta alla prassi applicativa che in sede di istruttoria prefallimentare conosce provvedimenti cautelari aventi, di fatto, gli stessi esiti inibitori o sospensivi, sia pure in modo non generalizzato. Un esito inibitorio generalizzato era invece raggiungibile dal debitore che, nel corso dell’istruttoria prefallimentare, avesse fatto istanza di concordato preventivo anche in bianco, ex art. 161 l. fall., posto che a tale istanza conseguono gli effetti previsti dall’art. 168 l. fall. (persino se nel termine previsto per il deposito del piano di concordato sia presentato un accordo di ristrutturazione dei debiti). Su questo profilo v. per tutti, in riferimento alla legge fallimentare, Farina, Il nuovo regime della domanda di concordato preventivo: abuso del diritto ed effetti sulle procedure esecutive e cautelari, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2013, 62 ss., ove anche gli indispensabili riferimenti di dottrina e giurisprudenza. Un accenno, riguardo al Codice della crisi, anche in Pagni, Le misure protettive e le misure cautelari nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Società, 2019, 438 ss.

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manda di apertura della liquidazione giudiziale se proveniente dal debitore (“se il debitore ne ha fatto richiesta nella domanda di cui all’art. 40”, recita infatti la disposizione)18. Con la conseguenza che l’effetto inibitorio e sospensivo che la legge fallimentare collega alla sentenza dichiarativa di fallimento (art. 51) può, nel Codice, essere anticipato alla pubblicazione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale nel registro delle imprese (sempre che provenga dal debitore). Il profilo della protezione del patrimonio riemerge però, nella legge fallimentare, anche da un altro punto di vista. Il varo dell’art. 15, 8o comma19 è infatti all’origine della richiesta, tradizionalmente da parte dei creditori o del PM e nel corso dell’istruttoria prefallimentare, di misure cautelari (innominate ma tutte) variamente funzionali, nel tempo occorrente ad addivenire alla dichiarazione di fallimento, ad assicurarne gli effetti. Anche nel Codice il mondo delle misure cautelari riceve grande attenzione ed è collocato, come rilevato in apertura, prima di tutto nelle definizioni. Per l’art. 2, 1o comma, lett. q) le misure cautelari sono infatti quelle emesse a tutela del patrimonio o dell’impresa del debitore e che appaiono secondo le circostanze più idonee ad assicurare provvisoriamente gli effetti delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. La definizione, chiaramente figlia dell’art. 15, 8o comma l. fall., è ripresa e specificata nella sua portata dall’art. 54, 1o comma, per il quale nel corso del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale o della procedura di concordato preventivo o di omologazione di accordi di ristrutturazione, su istanza di parte, il tribunale può emettere i provvedimenti cautelari, inclusa la nomina di un custode dell’azienda o del patrimonio, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della sentenza che dichiara l’apertura della liquidazione o che omologa il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Il confronto tra le definizioni che il Codice impartisce per le misure protettive e per quelle cautelari fa pensare che entrambe siano concepite come funzionali a preservare il patrimonio o l’impresa del debitore (“a tutela del patrimonio o dell’impresa”, recita infatti la lett. q del comma 1 dell’art. 2 per le misure cautelari, mentre la lett. p incentra le misure protettive su “determinate azioni dei creditori” evocando, pur non nominando, il patrimonio del debitore), sia pure da diversi punti di vista. Se la prospettiva delle misure protettive è cioè quella del debitore che punta a evitare lo smembramento esterno del suo patrimonio allo scopo di facilitare la regolazione della crisi, quella delle misure cautelari è, almeno nella prassi attuale, la prospettiva dei creditori

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Pagni, Le misure protettive e le misure cautelari nel codice della crisi e dell’insolvenza, cit., 438 ss. Sulle vicende che hanno portato al varo della norma e sulla sua esperienza applicativa v., per tutti, Finocchiaro G., I provvedimenti cautelari nel giudizio prefallimentare, in Fallimento 2018, 915 ss.; Bellè, I provvedimenti cautelari, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di Jorio, Milanofiori-Assago, 2016, 682 ss.; Tiscini, L’istruttoria prefallimentare, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Jorio e Sassani, I, Milano 2014, 515 ss.; Farina P., Misure cautelari ed istruttoria prefallimentare. Un contributo per la ricostruzione della disciplina stabilita dall’art. 15, 8º comma, l. fall., in Dir. fallim., 2013, II, 294; Pagni, Nuovi spazi per le misure cautelari nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Fallimento 2011, 854 ss.; Simeon, La tutela cautelare nell’istruttoria prefallimentare, in Giur. comm., 2014, 934 ss.

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o del PM istanti per la dichiarazione di fallimento (nel lessico del Codice “apertura della liquidazione giudiziale”), che puntano a mantenere la consistenza dell’impresa allo scopo di realizzare nella misura più ampia possibile il concorso alla data di apertura della liquidazione20. Qui insomma il patrimonio viene impermeabilizzato non rispetto alle iniziative dei creditori ma ad atti dissipativi del debitore che potrebbero sottrarre consistenza alla massa. Sempre dal confronto tra le due definizioni si evince poi che le misure protettive hanno carattere tipico (sono tese ad evitare le potenzialità lesive di “determinate azioni dei creditori”) mentre quelle cautelari sono atipiche, secondo il modello dell’art. 700 cpc di cui anche l’art. 15, 8o comma l. fall. è chiaramente figlio. Entrambe sono poi disposte dal giudice su domanda di parte.

3. Al di là della formula definitoria: la complessità delle misure protettive nella trama del Codice (e nell’attuale prassi applicativa).

Il quadro è tuttavia ben più complesso e la visuale deve necessariamente divenire più ampia. Se infatti la fisionomia delle misure cautelari emerge in modo coerente ed in assonanza quasi perfetta dalla definizione dell’art. 2 e dalle caratteristiche strutturali e funzionali dell’art. 54, 1o comma e, per il medio dell’art. 15, 8o comma l. fall. risale direttamente all’art. 700 cpc, non così per le misure protettive. Ricostruirne la reale fisionomia impone infatti di mettere insieme frammenti di disciplina diversi e collocati in luoghi diversi del Codice, da cui emerge, per di più, una realtà che non si rispecchia nella definizione dell’art. 2, 1o comma, lett. p). Se l’art. 54 riprende (al 2o comma) la definizione delle misure protettive in termini di inibitorie semiautomatiche incidenti sulle azioni esecutive e cautelari21, la prospettiva si allarga nell’art. 46 del Codice che, intitolato e dedicato agli “Effetti della domanda di accesso al concordato preventivo”, e figlio dell’art. 168, 2o comma, l. fall., sancisce (al 5o comma) che i creditori non possono acquisire diritti di prelazione con efficacia rispetto ai creditori concorrenti se non previa autorizzazione del giudice e che le ipoteche iscritte nei novanta

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Così anche Fabiani, Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, cit., il quale fa opportunamente notare come sia con la nomina di amministratori giudiziari che con la vasta congerie di inibitorie note alla prassi si sia da sempre inteso realizzare rispettivamente una gestione dell’impresa in crisi in chiave di conservazione del patrimonio e la massimizzazione del ricavato della liquidazione da distribuire ai creditori. 21 Occorre peraltro rilevare come vi siano conseguenze ancora oggi completamente automatiche legate alla semplice pubblicazione della domanda ex art. 40 nel Registro delle imprese: le prescrizioni in corso restano infatti sospese e le decadenze non si verificano. È vero che si tratta dell’altra faccia del meccanismo inibitorio concepita quale contrappeso a favore dei creditori che si vedono temporaneamente precluso l’accesso alla tutela cautelare ed esecutiva, ma è anche vero che si prescinde dal provvedimento del giudice, che invece rientra nella definizione della lett. p) del 1o comma dell’art. 2 del Codice.

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giorni precedenti la data di pubblicazione della domanda nel registro delle imprese sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori22. Qui dunque l’intento protettivo è realizzato, per le ipoteche addirittura in modo automatico, (non solo con la tecnica inibitoria dell’accesso alla tutela individuale del credito ma anche) impedendo l’acquisizione di posizioni di privilegio rispetto ai creditori anteriori quando è iniziata la procedura di regolazione della crisi. La prospettiva si allarga ancora negli artt. 64 e 89 del Codice, dettati per le imprese a struttura societaria. In entrambe le disposizioni, anch’esse figlie della legge fallimentare (art. 182-sexies l. fall.), si prevede infatti, in caso rispettivamente di domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione o di richiesta di misure protettive e cautelari che accedono (ex art. 54) al cd. pre-accordo (art. 64) da un lato, e di domanda di omologazione del concordato preventivo o di pre-concordato (art. 89) dall’altro23, la automatica disapplicazione di quel complesso di norme del codice civile che prevedono una serie di obblighi, in capo all’assemblea dei soci, in caso di perdite del capitale sociale al di sotto del terzo o al di sotto del minimo di legge, e la disapplicazione delle norme che considerano tale ultimo evento quale causa di scioglimento della società24. Anche queste sono, all’evidenza, misure protettive mirando alla conservazione dell’integrità patrimoniale dell’impresa societaria. Se si consentisse l’operatività del regime ordinario si imporrebbe infatti la riduzione del capitale sociale in ragione delle perdite, anche molto rilevanti, con tutta probabilità patite in esito alla crisi o addirittura lo scioglimento della società e quindi la dispersione dei valori dell’impresa. E ciò, paradossalmente, proprio nel momento in cui sono in corso procedimenti di regolazione della crisi e quel patrimonio rappresenta l’unico affidamento per i creditori e quindi l’unica possibilità di superarla. Alla definizione dell’art. 2, 1o comma lett. p) va dunque da un lato sottratto, quale requisito indefettibile delle misure protettive, il riferimento alla inibitoria della tutela individuale del credito in via esecutiva e cautelare, dall’altra il riferimento al potere del giudice di disporre le misure (o, come più perspicuamente si esprime l’art. 55, 3o comma, di confermar-

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Si pone qui il problema della verifica se tali ultimi effetti siano applicabili anche agli accordi di ristrutturazione, posto che da un lato sono previsti dall’art. 46 per il solo concordato preventivo e dall’altro nemmeno si possono dedurre dall’art. 54, 2o comma, che disciplina gli effetti della pubblicazione della domanda ex art. 40, che comprende, come noto, anche quella di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti. 23 Dalla presentazione della domanda e fino alla omologazione, sanciscono entrambe le disposizioni. 24 In particolare, non si applicano, dalla presentazione della domanda e fino alla omologazione, gli artt. 2446 (Riduzione del capitale per perdite), commi 2 e 3, 2447 (Riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale), 2482-bis (Riduzione del capitale per perdite), commi 4, 5 e 6, 2482-ter (Riduzione del capitale al di sotto al disotto del minimo legale). Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli artt. 2484, n.4 e 2545-duodecies del codice civile. Resta invece ferma per il periodo anteriore al deposito della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione o di misure protettive e cautelari (art. 64) o di omologazione del concordato o della relativa proposta (art. 89) l’applicabilità dell’art. 2486 del codice civile (Poteri degli amministratori) sancisce la responsabilità degli amministratori per danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per atti od omissioni compiute in violazione del dovere di amministrare la società, al verificarsi di una causa di scioglimento, , ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.

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le o revocarle), essendovene molte che automaticamente conseguono alla presentazione della domanda di regolazione della crisi. Ma vi è di più perché anche il riferimento alla “regolazione” della crisi o dell’insolvenza si rivela troppo ristretto rispetto alla trama normativa del Codice. Le misure protettive sono infatti poste anche a presidio della buona riuscita della soluzione concordata della crisi25: ai sensi dell’art. 20 il debitore che abbia avanzato all’Organismo di composizione della crisi di impresa istanza di soluzione concordata, può infatti chiedere, alla competente sezione specializzata in materia di impresa, che siano disposte appunto a suo favore “le misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso”26. Già dalla lettera la disposizione prende le distanze dalla definizione generale aprendosi ad una maggiore duttilità: a differenza di quest’ultima, omette il riferimento alle azioni dei creditori, che anche nell’art. 54, 2o comma, delimitano il perimetro della domanda e l’orizzonte del giudice (che può solo confermare o revocare l’inibitoria o la sospensione già in corso in forza della pubblicazione della domanda di regolazione della crisi nel registro delle imprese) e si focalizza piuttosto sulla idoneità delle misure stesse a “condurre a termine le trattative in corso”. Il cambio di passo è confermato, in modo eclatante, dall’art. 54, 4o comma, per il quale “Quando le misure protettive di cui al comma 2 o i provvedimenti necessari per condurre a termine le trattative in corso sono richiesti ai sensi dell’articolo 20 dal debitore che ha presentato l’istanza di composizione assistita della crisi o sia stato convocato dall’OCRI, la domanda, su istanza del debitore, può essere pubblicata nel registro delle imprese”. La disposizione distingue infatti chiaramente tra le misure protettive di cui al 2o comma, vale a dire l’inibitoria di azioni cautelari ed esecutive e la sospensione di quelle pendenti, e i provvedimenti necessari per condurre a termine le trattative in corso, riprendendo la formulazione letterale dell’art. 20 e la relativa apertura all’atipicità. Accanto alle misure tipiche ve ne possono dunque essere altre non predeterminate nei contenuti ma funzionalizzate a propiziare il raggiungimento di una soluzione concordata. Le conferme tuttavia continuano, se le precedenti non bastassero, nell’ulteriore corso dell’art. 20. La disposizione consente (4o comma) all’imprenditore avente struttura societaria di chiedere, sempre alla competente sezione specializzata in materia di impresa, duran-

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Siamo, all’evidenza, al di là e al di fuori della “regolazione della crisi”, espressione sintetica con cui il Codice rimanda alla omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti o di un concordato preventivo, atti finali di un procedimento giurisdizionale inaugurato, appunto, dalla domanda del debitore in crisi. Il contesto di riferimento della soluzione concordata è invece estraneo all’episodio giurisdizionale per assumere carattere completamente negoziale, ancorché assistito da organismi ad hoc, quelli appunto di composizione della crisi di impresa, cd. OCRI. 26 La durata originaria delle misure è contingentata e strettamente commisurata al termine fissato dall’OCRI per portare a termine le trattative per la soluzione della crisi (tre mesi) e può essere prorogata su istanza del debitore solo a condizione che siano stati raggiunti, su attestazione dell’OCRI, progressi significativi nelle trattative stesse, tali cioè da rendere probabile il raggiungimento dell’accordo. Le misure protettive possono poi essere revocate o modificate prima della loro naturale scadenza in presenza di atti di frode su istanza al giudice, a seconda dei casi, del commissario giudiziale, delle parti del procedimento o del P.M., così pure quando il tribunale accerta che l’attività intrapresa dal debitore non è idonea a portare alla composizione assistita della crisi o alla regolazione della crisi stessa (v. l’art. 20).

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te il procedimento di composizione della crisi e fino alla sua conclusione, il differimento dell’applicazione di quello stesso complesso di norme del codice civile la cui disapplicazione, come si è appena visto, consegue automaticamente alle domande di omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione27. Ecco dunque che il dettato dell’art. 2, 1o comma, lett. p) ne esce praticamente svuotato di capacità definitoria, posto che la fisionomia normativa delle misure protettive va rimodulata tenendo conto delle caratteristiche che esse assumono nelle varie disposizioni del Codice che le prevedono. Ne viene cioè meno il carattere necessariamente tipico e dipendente da un provvedimento del giudice mentre ne emerge il comune denominatore in termini squisitamente funzionali: preservare il patrimonio o l’impresa del debitore allo scopo di favorire il raggiungimento, da parte sua, di una composizione o regolazione della crisi e/o dell’insolvenza. Quelle individuate dall’art. 2, 1o comma, lett. p) e dall’art. 54, 2o comma, non sono allora “le misure protettive”, ma solo alcune delle tecniche con le quali si realizza la “funzione protettiva” del patrimonio e dell’impresa in base alle concrete esigenze di tutela di volta in volta rappresentate dal debitore. Diverse tecniche possono inoltre convivere tra loro sia in modo automatico che su provvedimento del giudice. A volte esse consistono nella neutralizzazione delle aggressioni esecutive e cautelari dei creditori (con il contrappeso, automatico, della disapplicazione della normativa sostanziale sulla prescrizione e sulle decadenze); altre volte in una temporanea disapplicazione della normativa sostanziale che imporrebbe una riduzione per perdite del capitale sociale o addirittura lo scioglimento della società; altre volte ancora nell’inopponibilità ai creditori concorrenti di titoli di prelazione acquisiti da un certo momento assunto come rilevante nelle dinamiche della regolazione della crisi. Infine, esse possono assumere la fisionomia ed i contenuti nel caso concreto più acconci, in base all’esigenza di tutela rappresentata dal debitore al giudice, a condurre a termine le trattative in corso per la soluzione concordata della crisi (artt. 20 e 54, 4o comma)28. La possibilità che misure protettive atipiche convivano con quelle tipiche appartiene del resto già al sistema costruito dalla legge fallimentare. Molti sono infatti i provvedimenti29 che, nel corso del procedimento volto alla omologazione del concordato preventivo,

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Ponendo tuttavia un serio problema di tutela dei terzi potenziali contraenti con la società posto che, a differenza di quanto accade per il concordato preventivo e per gli accordi di ristrutturazione, in cui la domanda è pubblicata nel registro delle imprese, la pubblicazione della domanda di composizione della crisi, in ossequio al suo carattere confidenziale e “protetto”, sembrerebbe pubblicabile solo su istanza del debitore. Sul tema in generale e sui possibili correttivi adottabili in via ermeneutica v. Platania, Le misure protettive e cautelari nel Codice della crisi, in Il Fallimentarista, Focus del 26 febbraio 2019. 28 La possibile atipicità delle misure protettive è sostenuta da Fabiani M., Le misure cautelari e protettive nel Codice della crisi d’impresa, cit., che rileva perspicuamente come “(…) non vi è un catalogo perché ciò che conta è l’efficacia, l’effettività e la strumentalità. Le misure protettive devono essere in grado di perseguire l’obiettivo di evitare che azioni dei creditori possano porre a rischio le iniziative per l’accesso ad un concordato o ad un accordo”. Nello stesso senso anche Platania, Le misure protettive e cautelari nel Codice della crisi, in Il Fallimentarista, cit.; contra invece Farina P., Tutela esecutiva individuale, cit., 290 ss. 29 V. ad esempio, in tal senso, Trib. Livorno 16 ottobre 2018, in www.ilcaso.it, 30 ottobre 2018; Trib. Milano 11 marzo 2016, in Il

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hanno ad esempio disposto, a titolo di misura protettiva, l’ordine ad enti previdenziali, nella specie Inps ed Inail, di emettere il certificato di regolarità contributiva (cd. DURC) con la dicitura “regolare,” anche in assenza di pagamento dei relativi contributi. La scelta si fonda sull’assunto che l’apertura del procedimento rappresenta una ipotesi di sospensione legale degli obblighi di pagamento dei creditori pregressi, come si desume sia dalla automatica inibitoria e sospensione di azioni esecutive e cautelari sia dal fatto che il pagamento di crediti pregressi può essere autorizzato dal tribunale solo in riferimento a contratti essenziali alla sopravvivenza dell’impresa. Il patrimonio del debitore che persegue il concordato è dunque protetto dall’impoverimento ulteriore indotto dall’obbligo di pagamento dei debiti previdenziali. I provvedimenti appena citati catturano perciò la logica di fondo che anima proprio lo statuto speciale applicabile a far data dall’apertura del procedimento. È perciò plausibile sostenere30 che altre e diverse misure protettive possano venire plasmate dal giudice sulle peculiarità della composizione della crisi (i cui contenuti sono dei più ampi, e che il legislatore giustamente non specifica) o su quelle del concordato e degli accordi di ristrutturazione (sebbene in questi ultimi la griglia normativa si faccia più stringente), come, ad esempio, nell’ambito della soluzione concordata della crisi, la sospensione dell’esecuzione di alcuni contratti pendenti, se non più vantaggiosi per l’impresa. L’opzione potrebbe infatti rivelarsi utile ad evitare l’adempimento di contratti non più essenziali o comunque vantaggiosi per l’impresa in crisi, al contempo rinviando al momento dell’accordo la negoziazione con l’altro contraente sul se mantenere in vita il contratto o scioglierlo definitivamente e sulla determinazione dell’indennizzo. Altra misura innominata potrebbe consistere nell’ordine di sospensione della segnalazione dei mancati pagamenti a talune banche dati pubbliche e private, tra cui la Centrale Rischi. Le segnalazioni sarebbero infatti perniciose perché inibirebbero all’impresa l’accesso al credito pregiudicandone ogni possibilità di ripresa. Se a questa opzione, attestata nella prassi applicativa dell’art. 700 cpc31, si desse credito in ambito concorsuale, anche al concetto di protezione del patrimonio dovrebbe abdicarsi in parte nella definizione di misura protettiva. Una inibitoria della segnalazione sarebbe infatti funzionale a favorire un incremento del patrimonio stesso attraverso l’accesso al credito ed al finanziamento esterno, nel mo-

Fallimentarista, 16 marzo 2016; Trib. Cosenza 1° luglio 2015, www.ilcaso.it, 10 luglio 2015; Trib. Bergamo 23 aprile 2015, ivi, 22 luglio 2015; Trib. Pavia 29 dicembre 2014, ivi, 26 gennaio 2015. 30 Prendo qui a prestito gli esempi forniti da Platania, Op. loco ult. cit. Interessante, e condivisibile, anche la prospettiva di Fabiani M., Op. loco ult. cit. che, sul presupposto che le misure protettive non debbano essere solo quelle tipiche ma possano assumere i contenuti più diversi purché strumentali al bisogno di tutela in concreto rappresentato dal debitore, sostiene che “(…) l’ampiezza della protezione può risolversi anche nella inibizione di azioni su beni che si trovano nella disponibilità del debitore in concordato e che tuttavia non gli appartengono. Il riferimento è a quei beni di cui il debitore gode ma che non sono inclusi nel suo patrimonio (in senso stretto); è noto quanto sia controverso se il divieto oggi allocato nell’art. 168 l. fall. si estenda a questi beni ma al cospetto di una locuzione dell’art. 54 c.c.i.i. che pare ricopiata dall’art. 168 l. fall., se le misure protettive possono essere decise dal giudice, il giudice potrebbe estenderle anche ai beni in godimento”. 31 Su cui v., si vis, Delle Donne, Linee evolutive della tutela (anticipatoria) d’urgenza nell’esperienza applicativa e in alcune scelte del legislatore: l’irrilevanza della durata del giudizio di merito e l’emancipazione dall’eseguibilità forzata, in Riv. es. forz., 2014, passim.

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mento cruciale delle trattative per superare la crisi attraverso una soluzione concordata o uno strumento di regolazione (si pensi al concordato cd. in continuità). A questo punto ciò che resta nella definizione dell’art. 2, 1o comma, lett. p) è la temporaneità delle misure protettive. Ciò che invece si ricava dalla complessiva trama normativa del Codice è che le misure protettive sono quelle misure temporanee tese a favorire il raggiungimento di una composizione o di una regolazione della crisi secondo i modelli di legge, attraverso strumenti che favoriscano il mantenimento o l’incremento di un adeguato livello del patrimonio o dell’impresa del debitore. Il che, a sua volta, è coerente con la legittimazione alla relativa istanza che, ove prevista, appartiene al solo debitore.

4. La mimesi tra misure protettive e cautelari dalla realtà applicativa al Codice della crisi.

Queste riflessioni ci mostrano quanto possano essere vicine, sotto il profilo funzionale, misure protettive e cautelari, le prime atipiche e modellate sulle esigenze di tutela non meno delle seconde. Che misure protettive e cautelari tendano a sovrapporsi nella funzione trova conferme anche nella giurisprudenza. La Cassazione32 lo ha apertamente affermato in tema di inibitoria di azioni esecutive richiesta dal debitore che ha proposto domanda di pre-accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis. Pronunciando nell’interesse della legge ex art. 363 cpc, la Corte ha infatti rilevato come quello di cui all’ art. 182-bis, 6o e 7o comma (istanza inibitoria di azioni esecutive e cautelari nel cd. pre-accordo di ristrutturazione) sia un sub-procedimento finalizzato all’ottenimento di “misure protettive in funzione cautelare”: segnatamente, esso è finalizzato a ottenere la sospensione di eventuali azioni cautelari ed esecutive “in funzione dell’esito delle trattative in corso, destinate a culminare nella formalizzazione dell’accordo”. Il carattere cautelare del provvedimento si desume, prosegue la Corte, dal riscontro dell’elemento distintivo proprio di ogni misura di tal genere. “(…) Al pari infatti di ogni provvedimento cautelare, anche il decreto di cui alla l fall., art. 182-bis, comma 7, possiede valenza provvisoria e strumentale, e non ha funzione satisfattiva del particolare diritto previsto dalla legge; sicché in tal senso si connota per sommarietà della (sola) cognizione, attesa la provvisorietà degli effetti che ne derivano.” Per la Corte il passo dalla temporaneità “secca” alla provvisorietà, e quindi alla strumentalità, cui la provvisorietà è asservita, è dunque breve: la funzione delle misure protettive può in astratto non essere distinguibile da quella delle misure cautelari. Ancora. Qualche giudice di merito33 ha disposto, nel periodo del pre-concordato, un sequestro sull’intero patrimonio del debitore con nomina di due custodi. Nel provvedimento

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Cass. 19 giugno 2018, n. 16161, in www.pluris.it, su cui anche Fabiani M., Op. loco ult. cit. Trib. Catania 28 febbraio 2019, ined., citata da Fabiani M., Op. loco ult. cit.

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si legge che le misure protettive di cui all’art. 168 l. fall. non coprono le condotte dissipative del debitore34. Occorre dunque provvedere in via cautelare a soddisfare l’esigenza di tutela dell’integrità del patrimonio contro le condotte del debitore (ed evidentemente a favore dei creditori) e non a suo favore, come accade per le misure protettive. Da un lato vi è dunque la caratterizzazione giurisprudenziale delle misure protettive, addirittura quelle tipiche di blocco di azioni esecutive, in funzione cautelare; dall’altro, e per contro, la sperimentazione di misure schiettamente cautelari, ed innominate, (al di là dunque della sospensione dei contratti in corso che, essendo già prevista per il concordato preventivo, si può definire cautela tipica) anche a presidio della omologazione del concordato preventivo. Questo dato applicativo ci riporta ad un dato testuale del Codice della crisi, per il quale le misure cautelari possono essere richieste con la domanda di cui all’art. 40, vale a dire anche con quella di omologazione del concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione. È cioè plausibile sostenere che il Codice abbia inteso generalizzare il ricorso alla tutela cautelare già previsto nel concordato preventivo sotto forma di (possibile) sospensione dei contratti in corso e già sperimentato nella prassi, affiancandolo al ventaglio di tutele, tipiche e innominate, già disponibili come misure protettive. Ma c’è un altro dato applicativo che ci riporta ad un dato testuale del Codice, e che ci mostra come anche le misure cautelari possano assolvere alle medesime esigenze di tutela cui sono tipicamente votate le misure protettive. Ci si è infatti chiesti, oggi come in passato e nell’ambito di un ben più ampio dibattito35, se tra gli effetti della dichiarazione di fallimento anticipabili ai sensi dell’art. 15, 8o comma l. fall., vi sia anche quello inibitorio/sospensivo di azioni esecutive e cautelari, collegato dall’art. 51 alla dichiarazione di fallimento. Qui i percorsi della giurisprudenza di merito si mostrano particolarmente illuminanti di quella sorta di effetto mimetico tra misure protettive e cautelari di cui ho detto. Molti provvedimenti partono dalla premessa di metodo che è da escludersi, in linea generale, che un’istanza cautelare ex art. 15, 8o comma, l. fall. possa essere formulata ed accolta nei termini onnicomprensivi dell’effetto previsto, oggi, dagli artt. 51, 168 e 182-bis l. fall. In assenza dei presupposti previsti da tali norme, infatti, si sacrificherebbe il diritto dei creditori ad una tutela giurisdizionale effettiva in modo eccessivo e non giustificabile36. Il dato sorprendente si ritrova tuttavia nel prosieguo delle motivazioni dove si rileva che se

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In questi termini ne riferisce il contenuto Fabiani M., Op. loco ult. cit., da cui sono tratti il riferimento e la citazione. Che vede escludersi, per esempio, l’anticipabilità degli effetti collegabili all’esperimento azioni revocatorie fallimentari, in ragione del loro carattere costituivo: v per tutti, su questo complesso tema, Fabiani M., Op. loco ult. cit., e Leuzzi, Cautela e protezione dell’impresa nelle procedure concorsuali, in Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, collana “I quaderni di In executivis”, a cura di D’Arrigo, De Simone, Di Marzio e Leuzzi, 2019. In giurisprudenza, a titolo esemplificativo, v. Trib. Nocera Inferiore 5 luglio 2012, in Il Fallimentarista, 2013, con nota di Signorelli. 36 Trib. Prato 4 febbraio 2011, in Dir. fall., 2011, II, 340, con nota di Pacchi; Trib Milano 25 marzo 2010, ivi, 2010, II, 552, con nota di Greco. 35

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la parte istante allega e dimostra un concreto periculum di dispersione del patrimonio tale da pregiudicare il concorso dei creditori in sede di procedura fallimentare vera e propria, è possibile incidere su singoli processi esecutivi in corso. Alcuni giudici hanno così, ad esempio, ordinato ai creditori procedenti di costituire conti correnti dedicati su cui depositare le somme loro versate dal terzo debitor debitoris, affinché se ne disponga solo previa autorizzazione del tribunale fallimentare37. In altri provvedimenti si legge poi che quest’ultimo giudice non può disporre, ex art. 15, o 8 comma l. fall., la sospensione di un pignoramento presso terzi, trattandosi di competenza del solo giudice dell’esecuzione. Egli può tuttavia inibire al terzo debitor debitoris il pagamento in favore del creditore e disporre che le somme da questi dovute siano invece depositate su un conto dedicato e utilizzate da un terzo indipendente solo per effettuare pagamenti essenziali al funzionamento dell’attività di impresa38. In altri casi ancora il percorso è stato addirittura più diretto perché si è disposta la sospensione della vendita coattiva di singoli beni appartenenti all’azienda per evitarne lo smembramento/impoverimento in modo da preservare l’attività di impresa sia per consentire l’accesso dei lavoratori agli ammortizzatori sociali che per realizzare in modo pieno la par condicio creditorum a seguito di dichiarazione di fallimento39. Rispetto ai provvedimenti che impongono al terzo debitor debitoris, in luogo del pagamento a favore del creditore procedente, il deposito del dovuto su conti vincolati sotto il controllo del tribunale davanti al quale pende l’istruttoria prefallimentare, viene da chiedersi dove sia la differenza rispetto ad una inibitoria dell’azione esecutiva. Il creditore che ha iniziato e perseguito l’esecuzione presso terzi fino all’emissione dell’ordinanza di assegnazione delle somme si vede infatti privato delle somme che gli spetterebbero, e che invece saranno vincolate a beneficio della massa in attesa del fallimento. Certo, l’effetto di tali provvedimenti è limitato ad una o più singole esecuzioni in corso rispetto alle quali uno o più creditori istanti per la dichiarazione di fallimento hanno avanzato domanda ex art. 15, 8o comma l. fall., e non si espande a tutte le altre possibili o già in corso, ma di fatto una sorta di anticipazione dell’effetto dell’art. 51 a data anteriore alla dichiarazione di fallimento è già in atto. Le stesse conclusioni valgono, ed a maggior ragione, per i provvedimenti cautelari con cui il tribunale fallimentare sospende la vendita coatta di beni in quanto appartenenti all’azienda del debitore fallendo, che se anche tecnicamente non sospendono il processo esecutivo in corso, lo privano di uno o più cespiti interferendo pesantemente sul realizzo e quindi sulla sua distribuzione ai creditori procedente ed intervenuti, le cui esigenze saranno sacrificate a quelle del funzionamento dell’impresa in stato di insolvenza, ed ancora una volta a beneficio della massa in caso di fallimento.

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Trib. Milano 25 marzo 2010, cit. Trib Monza 20 novembre 2009, in Dir. fall., 2011, II, 324, con nota di Cordopatri M. 39 Trib. Busto Arsizio 28 luglio 2009, in www.ilcaso.it; Trib. Terni 3 marzo 2011, in Il Fallimento, 2011, 632, e 852, con nota di Pagni. 38

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La prassi si mostra dunque ancora una volta, anche in ambiente concorsuale, il laboratorio in cui si libera l’essenza più pura della atipicità della cautela che l’art. 15, 8o comma attinge dall’art. 700 cpc., e che arriva ad assumere contenuti di fatto equivalenti alla misura protettiva della sospensione o inibitoria di azioni esecutive individuali. Questo ci riporta al dato testuale del Codice per il quale le misure protettive possono essere richieste anche con la domanda di apertura della liquidazione giudiziale. È cioè plausibile supporre che il Codice, proprio recependo la complessità delle concrete esigenze di tutela, abbia inteso aprire la strada anche alle misure protettive vere e proprie, i cui concreti esiti la prassi già sperimentava in via cautelare, contando sulla loro durata solo temporanea e sottoposta al vaglio iniziale del giudice. Se così fosse, dalla definizione dell’art. 2, 1o comma, lett. p) dovrebbe espungersi anche il riferimento alla fase delle “trattative”, che rimanda ai soli strumenti di regolazione della crisi40 e non invece alla regolazione dell’insolvenza. La domanda resta allora se si possa sperimentare, in presenza di esigenze di tutela del patrimonio che permangono dopo la scadenza dei termini massimi delle misure protettive richieste dal debitore in sede di procedure di regolazione della crisi, una istanza di tutela cautelare avente lo stesso o altro contenuto protettivo. La risposta dovrebbe essere positiva non forzando il dato normativo, ma al contrario applicandolo in pieno.

5. Conclusioni: diversità di struttura versus possibile identità di funzione.

I tempi sono oramai maturi per trarre alcune parziali conclusioni, con una precisazione. Le misure protettive e cautelari sono disciplinate in modo separato dal Codice della crisi41, come del resto già dalla legge fallimentare, perché sono e restano diverse sotto il profilo squisitamente procedimentale. Le prime sono caratterizzate dalla temporaneità, da una durata massima predeterminata cioè nel tempo a prescindere dalla verifica della permanenza delle esigenze di tutela che ne avevano giustificato l’applicazione automatica o la emissione giudiziale. Le misure cautelari, viceversa, sono provvisorie e quindi capaci, in ambiente concorsuale, di inseguire e soddisfare le esigenze di tutela finché si manifestano e comunque fino al momento ultimo

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Ed è in effetti proprio su questo dato testuale che Fabiani M., Op. loco ult. cit., fonda la conclusione che le misure protettive non sarebbero sperimentabili in caso di domanda di apertura della liquidazione giudiziale. 41 Su questo profilo insistono, giustamente, tutti i primi commentatori: v., oltre agli AA. finora già citati, anche Crivelli, Le “Misure cautelari e protettive”nel procedimento unitario del codice della crisi e dell’insolvenza, in Giustiziacivile.com, 24 settembre 2019; Gambi, Le nuove misure protettive nel codice della crisi, in Il Fallimentarista, Focus del 6 marzo 2019; Lenoci, Le misure cautelari e protettive nella riforma concorsuale, ivi, Focus del 27 aprile 2018; Marzo, Le misure cautelari e protettive nei giudizi di accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ivi, 22 marzo 2019.

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della sentenza di fallimento nel contesto della legge fallimentare o di quella che apre la liquidazione giudiziale o che omologa il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione dei debiti, nel contesto del Codice della crisi. Diversa è anche la legittimazione a richiederle: in capo al solo debitore per le misure protettive, che accedano alle procedure di regolazione della crisi o a quelle di insolvenza; in capo ad ogni parte legittimata all’istanza per l’apertura della liquidazione giudiziale per le misure cautelari (lo stesso debitore, i creditori, il PM o gli organi e autorità amministrative aventi funzioni di controllo o vigilanza sull’impresa: art. 37). Diverse sono infine le regole della competenza e del procedimento, scandite dagli artt. 20, 54 e 55 del Codice della crisi. La differenza tende invece a sfumare sotto il profilo della funzionalizzazione a soddisfare le esigenze di tutela del patrimonio o dell’impresa del debitore (sia pure dai diversi punti di vista emergenti dalle differenti legittimazioni) e sotto il connesso profilo dei possibili contenuti. Proprio questa capacità mimetica rende verosimile supporre che il Codice della crisi abbia raccolto l’eredità della prassi rendendo estremamente duttili gli strumenti di tutela. Da un lato ha generalizzato un controllo penetrante del giudice sulle misure protettive, almeno alcune, presidiandole con una rigida temporaneità per evitarne l’abuso, e ne ha confermato l’accesso al solo debitore istante per la regolazione della crisi e (oggi anche per quella) dell’insolvenza. Dall’altro ha però recuperato al giudice ed alle parti, in sede cautelare, gli spazi di manovra indispensabili per soddisfare, tra le tante possibili, anche quelle esigenze di tutela rimaste eventualmente frustrate dalla rigida temporaneità delle misure protettive. Così, ad esempio, il debitore che non possa più beneficiare delle misure protettive perente prima dell’omologazione del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione potrebbe chiedere, in via cautelare, e sempre che riesca a dimostrare fumus e periculum in contraddittorio con i creditori interessati, una o più misure cautelari a funzione protettiva (perché) aventi carattere inibitorio o sospensivo di singole azioni individuali sia cautelari che esecutive. Sicché egli sarebbe legittimato a richiedere, in sequenza, prima le misure protettive e poi, perente le prime, le misure cautelari. Di contro, lo stesso debitore istante per l’apertura della liquidazione giudiziale potrebbe richiedere, stavolta quale misura protettiva e quindi con le relative regole procedimentali, la sospensione della vendita coattiva di un bene essenziale dell’azienda allo scopo di preservare la funzionalità dell’impresa sia a beneficio dei lavoratori che della possibilità, ad esempio, di una continuazione dell’attività di impresa e/o di un concordato fallimentare. Con lo stesso scopo potrebbe richiedere, e sempre a titolo di misura protettiva, la sospensione della segnalazione alla Centrale Rischi, e così via. Ancora. I creditori istanti per l’apertura della liquidazione giudiziale, e nel corso della relativa istruttoria, potrebbero continuare a richiedere, a titolo di misura cautelare, la distrazione delle somme dovute dal terzo debitor debitoris al creditore che ha intrapreso il pignoramento presso terzi, su un conto dedicato e gestito dal tribunale investito della istanza di liquidazione, come la prassi insegna. Gli esempi, tratti dalla casistica edita o ad essa ispirati, potrebbero continuare.

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Ciò che conta è tuttavia già chiaro: il Codice sembra confermare che è la atipicità sia delle misure cautelari che di quelle protettive a renderle funzionali a soddisfare, ciascuna nel suo terreno di elezione e sempre sotto stretto controllo giudiziale, le più disparate esigenze di tutela. Ma è la provvisorietà che rende le misure cautelari, a differenza delle misure protettive, capaci di inseguire e neutralizzare il periculum fino al sopraggiungere del provvedimento di regolazione della crisi o dell’insolvenza, ed è in esse che il Codice sembra confidare quali strumenti di chiusura del sistema.

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Giurisprudenza

commentata

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Giurisprudenza Cassazione civile, Sez. Un., 21 maggio 2019, n. 13661 – Primo Pres. Mammome – Rel. Perrino – P.M. Finocchi Ghersi (conf.) – C.B., C.G., R.P. (avv. Fiaccabrino) – B.F. (avv. Trivigno). Accoglie il ricorso con affermazione del principio di diritto. Processo civile – Processo penale – Rapporti – Sospensione – Pregiudizialità-dipendenza – Cumulo soggettivo – Litisconsorzio facoltativo e/o necessario – Art. 75, comma 3, c.p.p. – Applicabilità – Esclusione. In tema di rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, i casi di sospensione necessaria previsti dall’art. 75 c.p.p., comma 3, che rispondono a finalità diverse da quella di preservare l’uniformità dei giudicati, e richiedono che la sentenza che definisca il processo penale influente sia destinata a produrre in quello civile il vincolo rispettivamente previsto dagli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p., vanno interpretati restrittivamente, di modo che la sospensione non si applica qualora il danneggiato proponga azione di danno nei confronti del danneggiante e dell’impresa assicuratrice della responsabilità civile dopo la pronuncia di primo grado nel processo penale nel quale il danneggiante sia imputato.

Omissis. – Motivi della decisione. 1. – La questione rimessa alla cognizione di queste sezioni unite concerne l’identificazione dei presupposti legali soggettivi di operatività della sospensione necessaria del processo civile di risarcimento del danno derivante da reato promosso quando nel processo penale concernente il reato sia stata già pronunciata la sentenza di primo grado. [Omissis] Se non vi fosse il cumulo soggettivo, non vi sarebbe difatti dubbio alcuno sull’applicabilità dell’art. 75 c.p.p., comma 3, secondo cui «Se l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge». [Omissis] 6. – La chiave di volta della sospensione necessaria prevista dall’art. 75 c.p.p., comma 3, non si può, quindi, identificare con quella determinata dalla pregiudizialità, ossia appunto con l’esigenza di evitare il rischio di un conflitto fra giudicati (tra varie, a proposito di questo fondamento della sospensione necessaria per

pregiudizialità, Cass., sez. un., 24 maggio 2013, n. 12901 e 16 marzo 2016, n. 5229). [Omissis] 8.1. – Quel che rileva ai fini della sospensione del giudizio civile di danno ex art. 75 c.p.p., comma 3, fuori dal caso in cui i giudizi di danno possono proseguire davanti al giudice civile ai sensi del precedente comma 2, è che la sentenza penale possa esplicare efficacia di giudicato nell’altro giudizio, ai sensi degli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p. [Omissis] 9.1. – Ed è puntando su questa ratio che si è esclusa la sospensione del processo civile nei confronti delle – sole – parti diverse dall’imputato-danneggiante, alle quali siano ascritti fatti differenti da quelli oggetto di accertamento nel processo penale (Cass., ord. 1° luglio 2005, n. 14074; ord. 16 marzo 2017, n. 6834 e 11 luglio 2018, n. 18202). 10. – Quando, invece, i fatti siano i medesimi, il vincolo rispettivamente previsto dagli artt. 651 e 651-bis c.p.p., si potrebbe produrre nei confronti del responsabile civile soltanto qualora il processo risarcitorio sia promosso nei suoi confronti da un danneggiato diverso da colui che abbia proposto l’azione civile nel processo penale: solo in questo caso, e se il responsabile civile sia stato regolarmente citato o

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Giurisprudenza

abbia spiegato intervento in sede penale, il giudicato di condanna del danneggiante-imputato o quello del suo proscioglimento per particolare tenuità del fatto avranno effetto verso di lui nel giudizio di danno. 10.1. – Sulla pretesa del danneggiato costituitosi parte civile si può difatti decidere in sede civile soltanto se la parte civile sia uscita dal processo penale per revoca o estromissione; e poiché l’esodo della parte civile comporta che la citazione o l’intervento del responsabile civile perdono efficacia (a norma, rispettivamente, dell’art. 83 c.p.p., comma 6, e art. 85 c.p.p., comma 4), viene meno la condizione pretesa dagli artt. 651 e 651-bis c.p.p., per la produzione degli effetti ivi previsti nei confronti del responsabile civile, ossia che il «responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto nel processo civile». 10.2. – A maggior ragione il vincolo non si può produrre in un caso, come quello in esame, in cui non v’è coincidenza tra le parti civili nel processo penale e gli attori del processo civile, nel senso già specificato, e non vi sono stati citazione o intervento del responsabile civile nel processo penale. 10.3. – Il che esclude anche la possibilità che si potesse determinare il vincolo previsto dall’art. 652 c.p.p., comma 1. 11. – Non sarebbe poi possibile, com’è adombrato nell’ordinanza interlocutoria, disporre la sospensione del giudizio, in caso di litisconsorzio facoltativo, nei confronti del solo danneggiante-imputato, nei confronti del quale non sono richieste condizioni perché si produca il vincolo derivante dalla sentenza di condanna, ex art. 651 c.p.p., o dalla sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, a norma dell’art. 651-bis c.p.p. L’autore del fatto illecito costituente reato, riconosciuto come responsabile e perciò condannato, ha difatti sicuramente avuto la possibilità di parteci-

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pare al processo penale in qualità di imputato, sicché il suo diritto di difesa ha ricevuto piena garanzia per l’intero corso del processo. A escludere tale possibilità sta la considerazione che le ipotesi di sospensione previste dall’art. 75 c.p.p., comma 3, rappresentano pur sempre una deroga rispetto alla regola generale, che è quella della separazione dei giudizi e dell’autonoma prosecuzione di ciascuno di essi. La natura derogatoria della disposizione ne impone interpretazioni restrittive; e, in virtù di quest’interpretazione restrittiva occorre che tra i due giudizi vi sia identità, oltre che di oggetto, anche di soggetti, alla stregua dei comuni canoni di identificazione delle azioni (Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538). 11.1. – Estendere l’applicazione di un’ipotesi derogatoria a un caso, come quello in esame, in cui tutte le parti del giudizio civile non coincidano con tutte quelle del processo penale, sacrificherebbe in maniera ingiustificata l’interesse dei soggetti coinvolti alla rapida definizione della propria posizione, in aperta collisione con l’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, presente nel nostro ordinamento ben prima dell’emanazione dell’art. 111 Cost., comma 2, e comunque assurta a rango costituzionale per effetto di esso. [Omissis] anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu 1 luglio 1997, Torri c. Italia), nel verificare il rispetto del diritto della parte civile alla ragionevole durata del processo di danno, garantito dall’art. 6.1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ha ritenuto che debbano essere computate cumulativamente la durata del processo penale, dal momento della costituzione di parte civile, e quella del successivo processo civile per la liquidazione del danno. E queste valutazioni rilevano indipendentemente dalla natura del litisconsorzio che lega le parti, necessario o facoltativo.


Alessio Bonafine

11.2. – Fuori bersaglio sono, invece, le perplessità concernenti la tenuta sul piano costituzionale dell’opzione che, in un caso come quello in esame, esclude la sospensione, con riguardo alla posizione del danneggiante-imputato e al suo interesse a valersi dell’eventuale giudicato di assoluzione che riuscirà a conseguire. 11.3. – La separazione e l’autonomia dei giudizi comportano difatti che il giudizio civile sia disciplinato dalle sole regole sue proprie, che largamente si differenziano da quelle del processo penale, non soltanto sotto il profilo

probatorio, ma anche, in via d’esempio, con riguardo alla ricostruzione del nesso di causalità, che risponde, nel processo penale, al canone della ragionevole certezza (Cass., sez. un. pen., 10 luglio 2002, n. 30328; sez. un. pen., 24 aprile 2014, n. 38343 e 4 maggio 2017, n. 33749) e, in quello civile, alla regola del «più probabile che non» (tra varie, Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e ord. 27 settembre 2018, n. 23197). Sicché non meritevole di tutela è in questi casi l’interesse del danneggiante di attendere gli esiti del processo nel quale egli sia imputato. [Omissis]

La sospensione del processo civile per pendenza del processo penale: tra consolidati approdi e recenti applicazioni in tema di cumulo soggettivo Sommario :

1. I fatti di causa. – 2. Dall’unità alla separazione della funzione giurisdizionale. – 2.1. Segue: La riforma del 1988. – 3. La regola generale di sospensione fissata dall’art. 75, comma 3, c.p.p. – 3.1. Segue: Il coordinamento con il dettato dell’art. 652 c.p.p. – 4. La tesi della «nuova» pregiudizialità penale: il significato dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. – 4.1. Segue: I rapporti con l’art. 331, comma 4, c.p.p. e, in particolare, con l’art. 295 c.p.c. – 5. La soluzione delle Sezioni Unite del 2001. – 5.1. Segue: … alcune necessarie considerazioni. – 6. Cenni sui giudizi diversi da quelli per il risarcimento e le restituzioni. – 7. Sospensione e cumulo soggettivo (dal lato passivo): la soluzione delle Sezioni Unite n. 13661/2019. – 7.1. Segue: Le ipotesi di cumulo soggettivo dal lato attivo. – 8. Conclusioni.

Il lavoro si propone di esaminare i rapporti tra processo civile e processo penale nell’ottica della sospensione del primo per pregiudizialità del secondo. Attraverso una ricostruzione dei precedenti storici e delle ragioni della riforma del codice di procedura penale del 1988, il contributo ripercorre i risultati raggiunti dalla dottrina e dalla giurisprudenza e da questa parte per ricavare la regola applicabile ai casi di cumulo soggettivo in applicazione del principio della valorizzazione della effettiva idoneità della sentenza penale a produrre effetti di giudicato nel processo civile.

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Giurisprudenza

The work aims to examine the relationship between civil and criminal proceedings with a view to suspension of the former due to the prejudice of the latter. Through a reconstruction of the historical precedents and the reasons for the reform of the 1988 criminal procedure code, the contribution traces the results achieved by the doctrine and jurisprudence and starts from these to derive the rule applicable to cases of subjective accumulation in application of the rule of verification of the effective suitability of the criminal judgment to produce res judicata effects in the civil trial.

1. I fatti di causa. Con sentenza n. 13661 del 21 maggio 2019 le Sezioni Unite hanno definito il campo applicativo dell’art. 75, comma 3, c.p.p., in particolar modo affrontando il tema della sua estensione all’ipotesi dell’azione di danno proposta da alcuni danneggiati in sede civile nei confronti del danneggiante-proprietario e dell’impresa assicuratrice della responsabilità civile dopo la pronuncia di primo grado nel processo penale nel quale il danneggianteproprietario sia imputato, senza però coinvolgimento del responsabile civile, e altri danneggiati si siano già costituiti parti civili. Sulla questione, ritenuta di particolare importanza, l’esercizio nomofilattico è stato offerto a fronte della rimessione effettuata (in ultimo) dalla Sezione VI con l’ordinanza interlocutoria n. 27716 del 30 ottobre 2018. Al Collegio remittente essa era giunta per tramite del regolamento di competenza proposto avverso il provvedimento di sospensione del processo adottato dal Tribunale in un giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni da sinistro stradale (nel quale aveva trovato la morte un congiunto degli attori) avanzata dopo la sentenza penale (nel frattempo impugnata) resa a termine del giudizio di primo grado in cui era avvenuta la costituzione di parte civile ed era stato condannato (a due anni di reclusione oltre che al risarcimento del danno morale) il proprietario-conducente del veicolo investitore. In sede di regolamento di competenza i ricorrenti avevano evidenziato la necessità di interpretare l’art. 75 c.p.p. nel senso di richiedere la sospensione solo ove la domanda risarcitoria civile sia formulata dai medesimi soggetti costituitisi parte civile nel procedimento penale di primo grado; circostanza non sussistente nel caso di specie, atteso che la domanda nel processo civile era stata formulata contro l’imputato-proprietario-conducente e la compagnia assicuratrice da moglie, figli e padre della vittima, mentre a costituirsi parte civile nel processo penale, senza partecipazione del responsabile civile, erano stati i fratelli di quest’ultima. A fronte di tale ricostruzione, e dando atto di una precedente remissione (disposta dalla stessa Sezione con l’ordinanza interlocutoria n. 25918 del 16 ottobre 2018), il Collegio richiedeva l’intervento delle Sezioni Unite formulando il seguente quesito di diritto: «se con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni (nella specie derivanti da circolazione di veicolo soggetto ad assicurazione obbligatoria RCA) proposta, avanti il Giudice civile, nei confronti del conducente, del proprietario del veicolo e della società assicurativa della

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RCA, con atto di citazione notificato in data successiva alla pronuncia della sentenza penale di primo grado emessa nei confronti del conducente-imputato per il reato di lesioni personali, ed in difetto di costituzione di parte civile nel processo penale, il giudizio civile per il risarcimento danni debba essere necessariamente sospeso in relazione alla posizione processuale di tutti i litisconsorti sia facoltativi (conducente) che necessari ‘ex lege’ (proprietario ed impresa assicurativa), ai sensi dell’art. 75 c.p.p., comma 3; ovvero se, invece, la sospensione necessaria predetta operi limitatamente all’azione risarcitoria proposta in sede civile nei confronti del solo conducente-imputato, previa separazione delle cause originariamente connesse, dovendo essere proseguito il giudizio civile nei confronti del proprietario e della società assicurativa; ovvero ancora se la sospensione necessaria ex art. 75 c.p.p., comma 3, non trovi affatto applicazione, laddove la causa risarcitoria – anziché essere proposta nei confronti del solo imputato – sia stata proposta, cumulativamente, anche nei confronti di altri soggetti cui le parti siano tra loro in relazione di litisconsorzio facoltativo, sia nel caso in cui rivestano la posizione di litisconsorti necessari»1.

2. Dall’unità alla separazione della funzione giurisdizionale. Ogni tentativo di esaminare la risposta offerta dalle Sezioni Unite al quesito sottoposto presuppone – pur nella limitata ottica della sospensione – l’analisi (per quanto necessariamente sommaria) dei rapporti tra processo civile e processo penale a seguito della riforma del codice di procedura penale del 1988 (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447), che ha abbandonato la regola della unità della giurisdizione a favore del principio dell’autonomia dei giudizi. Il principio della unità della giurisdizione aveva trovato essenziale consacrazione con il codice del 19302 che, con l’intento di evitare il rischio di contrasti tra giudicati, aveva previsto il legittimo ingresso della parte lesa nel processo penale, così realizzando un innesto

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Le ordinanze richiamate rimettevano una questione molto simile, sebbene la prima in ordine temporale originasse da una fattispecie in cui l’imputato danneggiante era persona diversa dal proprietario del veicolo assicurato per la RCA auto. Proprio prendendo in considerazione questa ipotesi particolare (in cui il litisconsorzio necessario interessa il proprietario e l’assicurazione e non pure il conducente) si comprende – per come si dirà più avanti (v. infra, § 7) – il motivo per cui tra le possibili soluzioni offerte alle Sezioni Unite sia stata indicata anche quella della sospensione limitata alla domanda proposta avverso il danneggiante, previa separazione da quella avanzata nei confronti del proprietario e dell’assicurazione. Invero, è possibile rinvenire precedenti normativi fondati sul principio dell’unitaria cognizione del fatto, sia sotto il profilo penale sia sotto quello civile, affidata alla competenza esclusiva del giudice penale, già nelle costituzioni piemontesi del 1770 e, poi, nel codice di procedura penale del 1913, che stabiliva, con l’art. 430, l’obbligo del giudice penale, in caso di condanna, di pronunciare pure sul danno civile patito dalla parte offesa dal reato anche nelle ipotesi di sua mancata costituzione nel processo penale. Per una ricostruzione dei precedenti storici cfr. G. Guarnieri, Giudizio (Rapporto tra il giudizio civile e il penale), in Nss. dig., VII, Torino, 1961, 886 ss.; M. Chiavario, Giudizi (rapporti tra), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 984 ss.; G. Trisorio Liuzzi, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987, 351 ss.; P. Troncone, Il principio dell’unità della giurisdizione e i limiti dell’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile e amministrativo, secondo il nuovo codice di procedura penale, Napoli, 1991, 2 ss.; M.A. Zumpano, Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000, 224 ss.

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Giurisprudenza

funzionale alla convivenza di giudizi dalla diversa natura, eppure coordinati attraverso la previsione di una serie di regole giuridiche e procedimentali, come quelle in punto di sospensione del processo ovvero di efficacia del giudicato penale. Si è trattato di novità significativa se solo si considera che il progetto al codice di procedura penale del 1905 – ponendosi in linea di continuità con l’esperienza dei codici sardi3 – aveva invece ritenuto opportuno diversificare e separare le due azioni sul presupposto che queste rispondessero ad interessi (vale a dire, quelli dell’imputato e della parte offesa) contrastanti e che allo Stato spettasse «far giustizia»4. Le ragioni sottese a tale concezione unitaria erano essenzialmente legate all’idea, propria della filosofia fascista, che lo Stato, quale organismo economico-sociale, non fosse più «la somma aritmetica degli individui che lo compongono», bensì «la risultante, la sintesi o composizione degli individui, delle categorie e delle classi che lo costituiscono, avente propria vita, propri fini, propri bisogni e interessi che trascendono per estensione e per durata la vita stessa degli individui, delle categorie e delle classi e si estendono a tutte le generazioni passate, presenti e future. A tali preminenti fini e interessi che sono i fini e interessi statuali debbono, dunque, venire subordinati, nel caso di eventuali conflitti, tutti gli altri interessi individuali o collettivi, propri dei singoli, delle categorie e delle classi che hanno, a differenza di quelli, carattere transeunte e non già immanente, come gli interessi concernenti la vita dello Stato»5. Ne era derivata, sul piano normativo processuale, la costruzione di un sistema improntato alla regola della prevalenza del processo penale su quello civile, in forza della quale escludere la possibilità di ammettere una duplicazione di accertamenti sul medesimo fatto e invocare un’unica decisione con autorità di giudicato spendibile nella contigua sede civile. Ciò, tra l’altro, nel tentativo di «ottenere la massima speditezza nei procedimenti, compatibilmente con le esigenze della giustizia; eliminare tutte le superfluità; combattere le cause e le manifestazioni della cavillosità […]»6. Muovevano in questo senso pure le riflessioni di Mortara7, il quale infatti aveva osservato che la giurisdizione penale provvede su di un «interesse collettivo […], questo essendo il

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La particolarità del codice di procedura penale per gli stati sardi del 1859 stava nella previsione di un sistema costruito su una regola di separazione parziale dell’azione civile promossa «pel risarcimento del danno recato» (art. 1). Il suo art. 4, infatti, prevedeva che «L’azione civile si può esercitare innanzi allo stesso Giudice [penale, ndr] e nel tempo stesso dell’esercizio dell’azione penale; salvi i casi espressamente preveduti dalla legge. Può esercitarsi anche separatamente avanti il Giudice civile: in questo caso però l’esercizio ne è sospeso finché siasi pronunziato definitivamente sull’azione penale intentata prima dell’azione civile o durante l’esercizio di essa». Da un lato, quindi, si fissava la prevalenza del processo penale prevedendo la sospensione del processo civile; dall’altro, proprio la regola della sospensione, non stabilita nei casi di azione civile promossa in sede penale, diveniva espressione dell’autonomia dell’azione civile dal processo penale; così, G. Trisorio Liuzzi, La sospensione, cit., 354. V. Relazione sul progetto del nuovo codice di procedura penale presentata dal Ministro di Grazia e Giustizia C. Finocchiaro Aprile alla Camera dei Deputati nella seduta del 28 novembre 1905, in Commento al codice di procedura penale. I progetti ministeriali del 1905 e del 1911 (Relazioni e testi), II, Torino, 1913. V. la Relazione del Ministro Guardasigilli A. Rocco presentata nell’udienza del 19 ottobre 1930 per l’approvazione del testo definitivo del codice penale, 4446, reperibile in www.gazzettaufficiale.it. V. la Relazione all’udienza del 19 ottobre 1930, cit., 4503. L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, I, Milano, s.d., 740 ss.

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carattere costante di ogni interesse dello stato», precisando altresì che nel giudizio penale «lo stato agisce come organo di tutta la consociazione, per la difesa dell’ordine giuridico generale; ma agisce anche, manifestamente, come organo di un singolo soggetto giuridico, della persona, cioè, che dal reato ebbe a risentire un danno individuale». È da queste premesse logiche che il danneggiato, «che apparirebbe secondo la natura delle cose il primo e più diretto interessato alla reazione giudiziaria contro l’offesa» veniva collocato «in una linea secondaria», atteso che «lo stato avoca a sé la tutela del diritto subbiettivo particolare di lui, compenetrandola in quella del diritto subbiettivo universale proprio», pur senza annullarlo. Il danneggiato quindi, partendo dall’idea che l’azione dello Stato per l’accertamento del reato in sé compenetra quella del privato, partecipava come un «necessario consorte in lite dello stato», sì da dovere ammettere l’esistenza di «influenze reciproche fra le due giurisdizioni» che «si spiegano principalmente da parte della giurisdizione penale sopra la civile». Non erano tuttavia mancate le critiche formulate tanto con riferimento alla regola della prevalenza del giudizio penale quanto in relazione alla estesa autorità di giudicato della sentenza penale nel processo civile8 delineata dalla disciplina dettata dagli artt. 25, 27 e 28 c.p.p. 19309; in particolare, rispetto al primo degli indicati profili, attraverso l’osservazione per cui il principio dell’unità della giurisdizione (che, al più, avrebbe dovuto essere inteso nel senso di «pluralità delle giurisdizioni nella loro funzionale unità»10) «non esclude la separazione delle competenze», piuttosto presupponendo «che ciascun ramo della giurisdizione sia sovrano nell’ambito della sua competenza». Così, per evidenziare l’utilità e

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Tra i tanti, e senza pretesa di completezza, v. G. Gionfrida, L’efficacia del giudicato penale nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1957, 18 ss.; S. Chiarloni, In tema di rapporti fra giudicato penale e civile (razionalizzazione e valori della giurisprudenza civile), in Riv. dir. proc., 1971, 205; L. Montesano, Giudicato sui fatti, efficacia riflessa della sentenza e tutela giurisdizionale dei diritti nella pronuncia costituzionale sull’art. 28 cod. proc. pen., in Foro it., 1971, I, 1798 ss.; G. Pecorella, Sospensione del processo civile e «diritto alla giurisdizione», in Riv. dir. proc., 1971, 277. In senso positivo si era invece espresso S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1960, 12 s., il quale, partendo dal presupposto dell’unicità del fatto («Non esistono due fatti, uno penale e l’altro civile […], ne esiste uno solo che, in quanto costituisce reato, dà luogo a sanzioni civili, se ne ricorrono le condizioni»), sostiene la «esclusiva, originaria competenza del giudice penale» e, per l’effetto, conclude che «il giudizio del giudice penale è vincolante per il giudice civile, per il semplice motivo che egli non può conoscerne direttamente, e quindi non può conoscerne diversamente». Amplius sul tema dell’efficacia di giudicato della sentenza penale nel giudizio civile v., oltre agli altri e comunque solo a titolo esemplificativo, F. Carnelutti, Efficacia diretta e riflessa del giudicato penale, in Riv. dir. proc., 1948, 1 ss.; A. Ghiara, Sui limiti di efficacia della pronuncia penale nel giudizio civile, con particolare riguardo all’art. 27 c.p.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, 1208 ss.; M. Cenerini, Introduzione storica allo studio dell’autorità del giudicato penale nel giudizio civile, in Riv. dir. proc., 1989, 761 ss.; G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni in tema di rapporti tra processo penale e processo civile nel nuovo codice di procedura penale, in Nuove leggi civ., 1990, 902 ss.; L. Cremonesi, Pregiudizialità e rapporti tra processo penale e processo civile, in Giust. pen., 1993, 582 ss.; R. Poli, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile, in Riv. dir. proc., 1993, 520 ss.; F. Santagada, Sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile diverso da quello per le restituzioni ed il risarcimento del danno, in Giust. civ., I, 1999, 257 ss.; M.A. Zumpano, Rapporti, cit. 9 In effetti, dichiarati parzialmente incostituzionali da Corte cost. 26 giugno 1975, n. 165 (che ha pronunciato l’illegittimità dell’art. 25 nella parte in cui precludeva l’esercizio dell’azione in sede civile, in dipendenza della formula assolutoria di chiusura del giudizio penale, a soggetti rimasti estranei al medesimo, in quanto per qualsivoglia ragione non legittimati a costituirsi in esso parte civile o, comunque, di fatto non posti in grado di parteciparvi), da Corte cost. 27 giugno 1973, n. 99 e da Corte cost. 22 marzo 1971, n. 55 (che hanno dichiarato l’illegittimità degli artt. 27 e 28 nella parte in cui estendevano il vincolo del giudicato penale sull’azione civile conseguente anche nei confronti di soggetti al giudizio stesso rimasti estranei). 10 G. Bellavista-G. Tranchina, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1982, 137.

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l’opportunità di un modello processuale ispirato al principio della separazione dei giudizi, a nulla rilevando la pretesa necessità di evitare un contrasto di giudicati atteso che questo sarebbe stato comunque solo teorico perché riferito a processi aventi ad oggetto i medesimi fatti ma pure «fini ed effetti diversi»11.

2.1. Segue: La riforma del 1988. È anche nell’ambito dell’accennato vivace dibattito che occorre collocare la riforma del 1988, che – come noto – ha completato un percorso di modifiche normative avviato sin dai primi mesi successivi alla caduta del regime fascista (quando il nuovo Governo italiano era finanche in attesa della liberazione dell’intero territorio), di cui – come detto – il codice del 1930 era chiara espressione. Le disposizioni della Carta costituzionale (come quelle di consacrazione della regola di inviolabilità del diritto di difesa) resero poi ancora più stringenti le esigenze di riforma, a tal punto da giustificare il progetto di un’opera di novellazione che trovò tappa nella legge 18 giugno 1955, n. 517, tuttavia inidonea sotto molto aspetti a depurare il testo del codice del 1930 dalla sua ideologia autoritaria di fondo. Le discussioni intorno al nuovo codice tornarono ad alimentarsi dopo la presentazione del Progetto Carnelutti del 1963, in seguito al quale il Governo elaborò un disegno di legge-delega che avrebbe trovato concretezza nella legge 3 aprile 1974, n. 108. Per la sua attuazione fu costituita una Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Gian Domenico Pisapia i cui lavori diedero corpo al Progetto preliminare del 1978 che solo le particolari difficoltà legate ai pericoli per l’ordine pubblico che si svilupparono in quegli anni fecero accantonare; per lo meno fino a quando nel 1979 il Ministro Morlino propose un nuovo termine per l’esercizio della delega, così ravvivando il dibattito in vista dell’elaborazione di una seconda legge-delega, che prendesse comunque a riferimento il Progetto preliminare del 1978. Si giungeva così alla legge 16 febbraio 1987 n. 81, che avrebbe quindi conferito al Governo la delega per l’emanazione del nuovo codice. La riforma del 1988 dimostra, per quanto di interesse in questa sede, un nuovo approccio al tema della necessaria sospensione del processo civile per pendenza di quello penale già con la disciplina «sensibilmente innovativa»12 riservata alle questioni pregiudiziali, accogliendo, pur con alcune eccezioni, la regola dell’autonoma cognizione del giudice penale nei confronti di tutte quelle strumentali alla decisione finale.

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E.T. Liebman, L’efficacia della sentenza penale nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1957, 13 ss. V. «Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni», in G.U. Serie Generale n. 250 del 24 ottobre 1988 – Suppl. Ordinario n. 93.

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In linea con i propositi sottesi al passaggio da un sistema di impostazione inquisitoria ad uno nuovo di stampo accusatorio13, è stata infatti realizzata una significativa semplificazione delle ipotesi di pregiudizialità, offrendo attuazione alle esigenze di massima semplificazione nello svolgimento del processo indicate dalla direttiva 1 della legge delega e, più in generale, provando ad assicurare attraverso il nuovo rito maggiore celerità ed immediatezza. Il tutto, non senza le difficoltà legate alla scelta di una precisa posizione di politica legislativa. La Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 198814, in effetti, già dava atto espressamente della necessità di contemperare due opposte esigenze sorte in seno alla Commissione presieduta dal Prof. Gian Domenico Pisapia: «da un canto, garantire la celerità del processo e la genuinità dell’accertamento incidentale e, dall’altro, evitare pronunce eventualmente contrastanti soprattutto in una materia di particolare rilevanza sociale, quale quella relativa allo stato di famiglia e di cittadinanza, ove è maggiormente sentita l’esigenza di certezza». Ad ispirare la risoluzione del confronto fu essenzialmente la convinzione di dovere riconoscere prevalenza, pure per il suo rilievo in ambito internazionale, al «diritto dell’imputato ad essere giudicato entro un termine ragionevole e senza ingiustificati ritardi», offrendo altresì considerazione pure all’altra contrapposta esigenza per tramite dell’introduzione della clausola di riserva di cui all’art. 2 c.p.p. («salvo che sia diversamente stabilito»). Con maggiore impegno esplicativo, nell’assetto normativo ridefinito dalla riforma del 1988 si eleva a regola generale quella contenuta nell’art. 2, ai sensi del quale al giudice penale è affidata la risoluzione – senza efficacia vincolante in altro processo – di ogni questione (civile, amministrativa o penale) da cui dipenda la decisione, salva diversa previsione. La sospensione del processo penale per l’insorgenza di questioni pregiudiziali (e fino al passaggio in giudicato della sentenza che le definisce) diventa quindi facoltativa, essendo rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice procedente, ed è limitata, ai sensi degli artt. 3 e 479, alle sole ipotesi in cui, rispettivamente, la decisione dipenda dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza (a condizione che essa sia «seria» e la corrispondente azione civile già in corso), ovvero – e comunque nel solo dibattimento – dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di «particolare complessità», per la quale sia già in essere un procedimento e la legge non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. Ne esce stravolto il sistema del codice del 1930, in cui gli artt. 19 e 20 accentuavano la rilevanza delle pregiudiziali ai fini della sospensione del processo penale e in cui trovava spazio, altresì, il dettato dell’art. 18 – completamente riscritto (anche nella rubrica, dedi-

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Amplius, v. M. Chiavario, La riforma del processo penale, Torino, 1998, 30 ss.; Id., Processo penale, Milano, 2006, 68 ss. V. Relazione al progetto preliminare, cit.

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cata infatti alla «Separazione dei processi» e non più alle «Questioni penali pregiudiziali a un procedimento penale») dalla riforma del 1988 – che prevedeva, a fronte della impossibilità o comunque dell’inopportunità di procedere alla riunione, il necessario «rinvio»15 del procedimento penale la cui definizione fosse dipesa da quella di altro procedimento avente la medesima natura. In questa stessa prospettiva appare significativa anche la modifica dell’art. 24 c.p.p., che sempre nella versione del 1930 stabiliva una particolare ipotesi di sospensione del giudizio civile per i casi in cui, pendente quello penale, la parte danneggiata dal reato avesse proposto autonoma e separata azione per le restituzioni e il risarcimento. La riforma del 1988 quindi, già attraverso l’esame della incisa disciplina delle questioni pregiudiziali, nella misura in cui disvela un certo disfavore per le vicende frenanti del processo (tra cui, evidentemente, la sospensione), esprime plasticamente la nuova adesione al principio dell’autonomia delle giurisdizioni16 e sottende una scelta chiara in merito alla cedevolezza dell’esigenza di evitare teorici contrasti tra giudicati di fronte a quella di assicurare celerità e immediatezza nella decisione penale, come imposta a garanzia dell’imputato da principi internazionali e costituzionali. Si tratta di coordinate evidentemente necessarie per ricostruire, da un lato, i rapporti tra processo penale e processo civile e, dall’altro, quelli tra azione penale e azione civile per le restituzioni e il risarcimento. Tale ripartizione del piano di indagine è d’altro canto imposta dalla constatazione che, con riferimento al primo degli indicati profili, manca nel quadro normativo riformato nel 1988 una chiara regola di generale e necessaria sospensione del processo civile per la pendenza di altro processo penale corrispondente a quella contenuta nell’art. 3 c.p.p. 1930 e che nella regolamentazione invece data al secondo attraverso il vigente art. 75 c.p.p. si è ritenuto di potere trovare risposta anche ai quesiti derivanti dalla mancata riproduzione della predetta previsione. È pertanto proprio all’art. 75 c.p.p. (art. 74 del Progetto preliminare) che occorre guardare quale norma «veramente cruciale»17, a tal punto da risultare funzionale, attraverso la

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Sulla configurazione, al di là della tecnica stilistica normativa utilizzata, di una vera e propria ipotesi di sospensione del processo, v. – tra gli altri – G. Leone, Trattato di diritto processuale penale, Napoli, 1961, I, 315; M. Chiavario, La sospensione del processo penale, Milano, 1967, 47 ss. 16 Tra gli altri, v. L. Montesano, La sospensione per dipendenza di cause civili e l’efficacia dell’accertamento contenuto nella sentenza, in Riv. dir. proc., 1983, 385 ss.; Id., Questioni e cause pregiudiziali nella cognizione ordinaria del codice di procedura civile, ivi, 1988, 299 ss.; F. Cipriani, Le sospensioni del processo civile per pregiudizialità (contributo al coordinamento degli artt. 295 e 337, comma 2, c.p.c.), in Riv. dir. proc., 1984, 239 ss.; G. Trisorio Liuzzi, Riforma del processo penale e sospensione del processo civile, in Riv. dir. proc., 1990, 533; Id., Sulla abrogazione della sospensione del processo per “pregiudizialità” penale, in Foro it., 1997, I, 1766. Più di recente, v. L.P. Comoglio, L’azione civile nel processo penale e le strategie di tutela del diritto al risarcimento, in Nuova giur. civ. comm., 2001, 161 ss.; A. Chiliberti, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006; A. Anceschi, L’azione civile nel processo penale, Milano, 2012; A. Chiliberti-C. Brusco, L’azione civile nel processo penale, Milano, 2017. V. Corte cost. 14 luglio 2009, n. 217, secondo cui «il codice di procedura penale del 1988 […] ha comportato significativi riflessi sui rapporti tra processo penale ed azione civile, ispirati non più – come accadeva nel previgente sistema processuale penale di tipo inquisitorio – alla prevalenza del processo penale su quello civile e amministrativo, quanto, piuttosto, alla separazione dei giudizi ed alla indipendenza del giudizio civile e amministrativo da quello penale». Oltre a quelle indicate nel prosieguo, v. Cass., Sez. Un., 11 febbraio 1998, n. 1445; Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2011, n. 1768. 17 Relazione al progetto preliminare, cit.

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costruzione di un sistema di preclusioni all’esercizio in sede penale dell’azione civile, pure ad assicurare il collegamento – sotto forma di inevitabile condizionamento di operatività – con le prescrizioni dettate in punto di efficacia extrapenale del giudicato penale nei processi civili o amministrativi per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato18.

3. La regola generale di sospensione fissata dall’art. 75, comma 3, c.p.p.

In sostanziale continuità19 con la previsione che era già stata dell’art. 24 c.p.p. 1930, il comma 1 dell’art. 75 c.p.p. ammette, come noto, che l’azione civile già proposta davanti al giudice civile prima del procedimento penale possa essere in questo trasferita fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito, anche non passata in giudicato, con conseguente rinuncia (per facta concludentia) agli atti del giudizio e provvedimento del giudice penale anche sulle spese del procedimento civile. La discontinuità con la vecchia disposizione è determinata dai commi successivi. Mentre, infatti, l’art. 24 prescriveva la sospensione del giudizio civile a fronte di un’azione civile non esercitata o trasferita in sede penale, il comma 2 dell’art. 75 prevede la prosecuzione dell’azione sia in caso di suo mancato trasferimento in sede penale sia quando non risulti più possibile la costituzione di parte civile. Il comma 3, quindi, prosegue fissando la regola di necessaria sospensione («fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge») solo per l’ipotesi dell’azione proposta in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o, comunque, dopo la sentenza penale di primo grado. La considerazione dell’efficacia vincolante del giudicato penale nel processo civile per i danni, che operò quale principale giustificazione della previsione, non tenne però indenne la regola appena esposta pure da una serie di perplessità. Già nell’ambito dei lavori delle Commissioni, le obiezioni legate, in particolare, alla previsione della sospensione per i casi di azione civile autonomamente promossa solo dopo la costituzione di parte civile in sede penale, e non anche per quelli in cui il danneggiato non avesse proceduto alla costituzione di parte civile ovvero al trasferimento dell’azione

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G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 541. G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 895, evidenzia che, poiché il testo dell’art. 75, comma 1, c.p.p. ammette il trasferimento dell’azione civile in sede penale fino a quando «non sia pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato», e non più – come disponeva l’art. 24 c.p.p. 1930 – fino alla sentenza «anche non definitiva», la trasmigrazione dell’azione civile deve ritenersi ora possibile anche a fronte di sentenze, definitive e non definitive, processuali e di sentenze non definitive su preliminari di merito, ma non anche di sentenze, pure non definitive, di merito ai sensi degli artt. 277, comma 2, e 278 c.p.c.; v. A. Ghiara, Sub art. 75, in Commento al nuovo codice di procedura penale (coordinato da M. Chiavario), I, Torino, 1990, 367.

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civile in sede penale, erano costruite sulla denuncia della violazione degli artt. 3 e 24 Cost. La possibilità per l’imputato di far valere l’assoluzione, sfruttando anticipatamente la sospensione del processo, sarebbe infatti dipesa dalla scelta del danneggiato sul se esercitare o meno l’azione civile in sede penale, in ogni caso potendo questi spendere nei confronti dell’imputato l’eventuale condanna. A ciò era quindi stato aggiunto l’argomento del possibile contrasto tra giudicati, derivante dall’efficacia della sentenza penale di condanna nei confronti di tutti i soggetti interessati al giudizio civile di danno, che avrebbe imposto di trovare una successiva riparazione nelle forme della revocazione ex art. 395 c.p.c., ma con grave appesantimento e ritardo per la giustizia civile e per le parti. Era stata quindi proposta una modifica nel senso che «si sarebbe dovuta prevedere la sospensione del processo civile fino all’esito del giudizio penale tanto nel caso che la domanda civile fosse presentata al giudice civile prima dell’inizio del processo penale […] tanto nel caso che la domanda civile fosse presentata dopo l’inizio del processo penale e, perciò, non potesse essere riproposta in quest’ultimo processo»20. In sede di predisposizione del Progetto preliminare al codice del 1988 il problema della sorte del giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno, a seconda che la relativa azione fosse stata esercitata davanti al giudice civile prima dell’inizio dell’azione penale ovvero dopo la costituzione di parte civile, sarebbe stato però risolto valorizzando l’esigenza di dar vita ad una disciplina fondata sul principio della separazione dei giudizi in cui – in linea con il Progetto del 1978 – venisse, da un lato, scoraggiata la costituzione di parte civile e, dall’altro, incentivato il suo volontario «esodo» dal processo penale; così realizzando al contempo «il vantaggio di attuare la massima semplificazione dello svolgimento del processo»21. E d’altronde, questa diversa impostazione dipendeva – si è già accennato – anche dal passaggio da un sistema inquisitorio, rivolto motu proprio alla ricerca della «verità oggettiva» e tendente quindi alla sua affermazione erga omnes a prescindere dalla presenza nel processo di tutti i soggetti interessati, ad uno accusatorio, in cui si valorizza l’iniziativa di parte e si ammette che la «verità processuale» per queste vie ricostruita possa valere solo nei confronti di chi al processo penale abbia effettivamente partecipato e quindi contribuito, direttamente o indirettamente, a formare la decisione22.

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Relazione al progetto preliminare, cit. Relazione al testo definitivo, cit. 22 Cfr. G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 887 s. È su queste basi, d’altronde, che è stata sostenuta finanche l’incompatibilità del sistema accusatorio con la costituzione di parte civile, atteso che essa, di fatto affiancandosi alla posizione del pubblico ministero, determinerebbe uno squilibrio nei rapporti di forza tra accusa e difesa (v. E. Amodio, Premessa al Titolo V del Libro I, in Commentario del nuovo codice di procedura penale (a cura di E. Amodio e O. Dominioni), I, Milano, 1989, 437, nota 7), oltre che un appesantimento del giudizio in contrasto con le finalità acceleratorie sottese alla riforma del 1988 attraverso l’ampliamento del thema decidendum ad essa conseguente (F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli, 1960, 53 ss.). 21

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Anche l’incentivo all’esodo dell’azione civile dal processo penale emerge chiaramente dal nuovo impianto normativo23. E infatti: i) è superato il principio electa una via non datur recursus ad alteram, in forza del quale, sotto la vigenza del codice del 1930, era esclusa l’ammissibilità della querela nei casi di già avvenuto esercizio in sede civile dell’azione per i danni ovvero di già raggiunta transazione (art. 12 c.p.p. 1930), ed era altresì prevista la perdita del potere di agire in via giudiziale a tutela delle proprie ragioni a fronte della revoca espressa della costituzione di parte civile (art. 14 c.p.p. 1930); ii) il danneggiato dal reato (inteso quindi come colui che abbia subito gli effetti pregiudizievoli – patrimoniali o non patrimoniali, ma comunque economicamente apprezzabili – della condotta criminosa) ai sensi dell’art. 369 c.p.p. non è tra i soggetti che ha diritto di ricevere l’informazione di garanzia, cosi risultando più difficoltosa la costituzione di parte civile per chi non sia anche persona offesa-titolare del bene giuridico tutelato dalla norma violata; iii) il danneggiato che abbia agito in sede civile si avvantaggia del giudicato penale di condanna senza essere pregiudicato da quello assolutorio (artt. 651, 651-bis e 652 c.p.p.); iv) è vanificata l’attività compiuta in sede penale in caso di esercizio in questa sede dell’azione civile quando si arrivi a patteggiamento (art. 444, comma 2, c.p.p., per il quale «Se vi è stata costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda […]»); e, ancora, v) in caso di giudizio abbreviato la scelta per la trasmigrazione dell’azione civile dal processo penale è sostanzialmente imposta dall’alternativa di essere esposti agli esiti di un giudizio monco dell’accertamento dibattimentale (artt. 651, comma 2; 651-bis, comma 2; 652, comma, 2 c.p.p.).

3.1. Segue: Il coordinamento con il dettato dell’art. 652 c.p.p. Entrambe le ipotesi di sospensione del processo civile, fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, previste dall’art. 75, comma 3, c.p.p. in definizione della disciplina dei rapporti tra azione civile risarcitoria/restitutoria e processo penale24 (vale a dire, quando l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale ovvero dopo la sentenza penale di primo grado), intersecano il tema dell’estensione dell’efficacia del giudicato penale. Più in particolare, la prima sembra disvelare una funzione sanzionatoria nei confronti del danneggiato che solo tardivamente abbia individuato la giusta strada da percorrere25,

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Cfr. Corte cost. 21 aprile 2006, n. 168; Corte cost. 28 gennaio 2015, n. 23; Corte cost. 29 gennaio 2016, n. 12. G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 545, Id., Disposizioni, cit., 898, osserva come la previsione della sospensione del processo in luogo di una normativa simile a quella della litispendenza (con cancellazione della causa civile dal ruolo) può essere compresa alla luce della considerazione per cui l’esercizio dell’azione civile nella sua sede naturale può seguire alla revoca della costituzione di parte civile, come previsto dall’art. 82, comma 4, c.p.p. In questo senso per l’Autore ulteriore dimostrazione è data dal fatto che nei casi di revoca non volontaria della costituzione di parte civile (vale a dire nelle ipotesi previste dagli artt. 71, comma 6, 88, comma 3, 441, comma 3, e 444, comma 2, c.p.p.) non vi è sospensione e i due giudizi proseguono autonomamente. 25 Sulla funzione sanzionatoria della previsione, v. C. Graziosi, Osservazioni sulla nuova disciplina della pregiudizialità penale al processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 410; C. Plazzi, Esercizio e trasferimento dell’azione civile nel giudizio penale e rito abbreviato alla luce della c.d. legge Carotti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 142; M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 259 ss.; G. Ressani, La 24

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e tuttavia – si è osservato – non si dimostra coerente con la preferenza espressa dalla riforma alla conduzione separata dei giudizi penali e civili per i danni e le restituzioni. Non si comprende in effetti perché il danneggiato che si sia già costituito parte civile dovrebbe spostare l’azione dal processo penale, così esponendosi non solo alla sospensione del successivo giudizio civile ma pure alla perdita della possibilità di far valere le proprie ragioni in sede penale, peraltro rimanendone esposto al giudicato assolutorio proprio in quanto in essa già costituitosi parte civile26. Anche la seconda ipotesi indicata (che è stata aggiunta all’articolato per ragioni di opportunità in sede di elaborazione del testo definitivo) si lega al dettato dell’art. 652, comma 1, c.p.p., ai sensi del quale la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato (quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima), nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale «salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’articolo 75 comma 2». Proprio sul coordinamento tra le due disposizioni sono sorte alcune questioni interpretative; in specie al fine di verificare se il processo civile così instaurato debba essere sospeso anche quando il danneggiato abbia esercitato l’azione civile in sede civile dopo la sentenza penale resa in primo grado senza però essersi costituito nel medesimo, ovvero senza essere stato posto nelle condizioni di parteciparvi. La conclusione che nega la sospensione27 in questi casi è stata costruita essenzialmente su tre alternativi argomenti. Così, da un lato, è stato valorizzato l’inciso dell’art. 75, comma 2, c.p.p. per sostenere che a rilevare sarebbe un’ipotesi di costituzione di parte civile non più ammessa28, salvo poi dovere scontare l’effetto di un assorbimento in tale previsione di quella contenuta nell’art. 75, comma 3. Ragionando in questi termini, infatti, poiché la costituzione di parte civile non è ammessa dopo la sentenza di primo grado, l’art. 75 comma 3, nella seconda ipotesi di sospensione prevista, perderebbe di autonomia rispetto alla regola contenuta nel comma 2, ultima parte, della medesima norma, che invece va interpretata nel senso di prendere a riferimento, ai fini della verifica dell’ammissibilità della costituzione di parte

sospensione del processo, in Diritto processuale civile (diretto da L. Dittrich), II, Torino, 2019, 2461 ss. C. Graziosi, Osservazioni, op. loc. cit.; G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 898. 27 Senza pretesa di completezza, v. E. Amodio, Premessa, I, cit., 437; S. Guarino, Sospensione del processo civile e nuovo codice di procedura penale, in Giur. merito, 1990, 1151; S. Menchini, Sospensione del processo civile di cognizione, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 47; G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 899; Id., Riforma, cit., 546; contra, C. Graziosi, Osservazioni, cit., 422 ss., che però osserva pure profili di possibile illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza. 28 G. Giannini, L’azione civile per il risarcimento del danno e il nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 61. 26

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civile, l’arco temporale intercorrente tra la scadenza del termine previsto dall’art. 79 c.p.p. e la conclusione del primo grado penale29. Su altro fronte, è stata sostenuta la tesi della possibilità di applicare analogicamente le norme che in deroga all’art. 75, comma 3, c.p.p. negano l’effetto sospensivo, tuttavia criticata in quanto fondata sull’applicazione analogica di norme eccezionali30. In via prevalente, la sospensione è stata negata sulla scorta del dettato dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. che, in effetti, precisa che la pendenza di un processo penale giustifica la sospensione necessaria di altro giudizio civile o amministrativo solo quando il primo possa dare luogo ad una sentenza che possa avere efficacia di giudicato nel secondo; circostanza all’evidenza non ricorrente nell’ipotesi sottoposta, atteso che, proprio ai sensi del richiamato art. 652 c.p.p., la sentenza di assoluzione non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o i danni nei confronti del danneggiato che non si sia costituito, ovvero che non sia stato posto nelle condizioni di partecipare al processo penale. In altri termini, poiché la sentenza di assoluzione non genererebbe comunque gli effetti del giudicato nei confronti del danneggiato, la sospensione risulterebbe del tutto inutile31. I rapporti tra azione civile e processo penale sono quindi condizionati essenzialmente dalla scelta che il danneggiato decida di compiere in merito all’affidamento dei propri interessi civili al giudice penale, in ciò potendosi anche cogliere uno dei principali momenti di discontinuità con il codice del 1930 in cui invece la costituzione di parte civile si elevava a strumento utile nell’ottica di evitare la sospensione del giudizio civile in pendenza di quello penale32. In questo modo si tende anche ad assicurare effettività nella tutela escludendo il sacrificio delle ragioni azionate in sede civile sotto forma di necessaria sospensione del processo in attesa della sentenza penale33. È attingendo a tale impostazione di fondo, quindi, che si comprende la clausola di riserva dell’art. 75, comma 3, c.p.p. («salve le eccezioni previste dalla legge»), e dalla quale si ricava il principio secondo cui il processo civile prosegue il suo corso senza essere influenzato dal processo penale anche in tutti i casi in cui la proposizione dell’azione civile in sede propria dopo la costituzione di parte civile è la conseguenza di vicende indipen-

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V. G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 898; Id., Riforma, cit., 547; Id., Sulla abrogazione, cit., 1765; C. Graziosi, Osservazioni, cit., 421; E. Amodio, Premessa, I, cit., 439, nota 9; 30 R. Giovagnoli, La “pregiudizialità” penale nei processi civili, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 519. 31 C. Consolo, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, Atti del Convegno di studio, Trento, 18 e 19 giugno 1993, Milano, 1995, 77; Id., Nuovo processo penale, procedimenti tributari e rapporti tra giudicati, in Giur. it., 1990, 313 ss.; G. Spangher, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in Nuovi Profili, cit., 54; S. Guarino, Sospensione, cit., 1151; S. Menchini, Sospensione, cit., 47; G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 548; Id., Disposizioni, cit., 899. 32 F. Tommaseo, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in Nuovi profili, cit., 13; G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 889. 33 G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 548.

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denti dalla volontà del danneggiato, come nelle fattispecie previste dagli artt. 71, comma 6, 88, comma 3, 441, comma 3, e 444, comma 2, c.p.p.34

4. La tesi della «nuova» pregiudizialità penale: il significato dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p.

L’ingresso in scena dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. impone di esaminarne la natura e la ratio al fine di comprendere innanzitutto se esso possa essere inteso quale norma immediatamente precettiva, e in quanto tale utile a disvelare una volontà conservatrice della pregiudizialità penale. Nella misura in cui il testo stabilisce che «quando disposizioni di legge prevedono la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo a causa della pendenza di un processo penale, il processo civile o amministrativo è sospeso fino alla definizione del processo penale se questo può dare luogo a una sentenza che abbia efficacia di giudicato nell’altro processo e se è già stata esercitata l’azione penale», è stata prospettata la questione della sua possibile interpretazione quale norma non di reale coordinamento esterno: «Non, dunque, una norma ‘accanto’, bensì una norma ‘contro’ e ‘sopra’ che limita l’applicabilità dell’art. 75, comma, 3, non rispetto a normative speciali e/o preesistenti, bensì in assoluto, in rapporto ad altri istituti codicistici, costituendo, insomma, la prima correzione del codice operata dal legislatore»35. La proposta era stata alimentata anche da quella parte di testo dell’art. 211 che, richiedendo il preventivo esercizio dell’azione penale, avrebbe suggerito una conservata regola di pregiudizialità penale (sebbene non più per pregiudizialità-influenza, ma per pregiudizialità-dipendenza; v. infra), e quindi di sospensione del processo civile, anche in ipotesi ulteriori e più ampie rispetto a quelle fissate dall’art. 75, comma 3, c.p.p. Una ricostruzione certamente suggestiva, che però pure in alcuni dei suoi stessi ideatori ha trovato ostacolo nel dovere ammettere la natura non autosufficiente dell’art. 21136 – atteso che esso, piuttosto, presuppone che siano altre norme a fissare la sospensione necessaria del processo civile (o amministrativo) per pendenza di quello penale37 – e quindi la sua inidoneità a farsi veicolo diretto di sostanziale reintroduzione del principio di unità della giurisdizione.

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Si tratta, rispettivamente, dei casi di incapacità dell’imputato, di esclusione della parte civile, di giudizio abbreviato non accettato dalla parte civile e di applicazione della pena su richiesta, ai quali – dopo la pronuncia di parziale incostituzionalità dell’art. 75, comma 3, resa da Corte cost. 22 ottobre 1996, n. 354 – va aggiunta, come ricorda G. Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione, cit., 1764 s., l’ipotesi di accertato impedimento fisico permanente che non consenta la comparizione all’udienza dell’imputato che non abbia prestato il consenso alla prosecuzione del dibattimento in sua assenza. 35 C. Graziosi, Osservazioni, cit., 424 s. 36 B. Capponi, A proposito di nuovo processo penale e sospensione del processo civile, in Foro it., 1990, V, 355 ss. 37 S. Guarino, Sospensione, cit., 1151; S. Menchini, Sospensione, cit., 46.

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Non è quindi sostenibile che proprio sotto il richiamato art. 211 si nascondano le ceneri – pronte ad essere attizzate – della regola generale della sospensione necessaria del processo civile per la pendenza di un processo penale. Il testo della disposizione infatti, lungi dal prevedere espressamente e direttamente ipotesi di sospensione del giudizio, si limita a fare richiamo a quelle già previste dalla legge fuori dai casi in cui l’azione civile può proseguire autonomamente ai sensi dell’art. 75, comma 2, c.p.p. al solo scopo di evitare anomalie processuali comunque non giustificate dalla idoneità al giudicato della sentenza penale nel relativo giudizio civile (e amministrativo)38. L’art. 211, in altri termini, opera – al di là della sua rubrica («Rapporti tra processo civile e azione penale») – quale norma di mero coordinamento39 volta a circoscrivere la concreta applicabilità della regola di sospensione necessaria del processo civile prevista dall’art. 75, comma 3, c.p.p., altresì richiedendo, al fine di offrire ulteriori garanzie, la sola verifica dell’estensibilità del giudicato penale nell’altro processo e del già avvenuto esercizio dell’azione penale.

4.1. Segue: I rapporti con l’art. 331, comma 4, c.p.p. e, in particolare, con l’art. 295 c.p.c.

Inoltre, il rinvio dell’art. 211 a disposizioni di legge che prevedano la sospensione a causa della pendenza di un processo penale non può ritenersi realizzato nemmeno nell’art. 331 c.p.p. ovvero nell’art. 295 c.p.c.40 L’idea di un collegamento tra l’art. 295 c.p.c. e 331, comma 4, c.p.p., argomentando nel senso per cui – poiché ai sensi dell’art. 208 disp. att., coord. e trans. c.p.p. «Quando nelle leggi o nei decreti sono richiamati istituti o disposizioni del codice abrogato, il richiamo si intende riferito agli istituti o alle disposizioni del codice che disciplinano la corrispondente materia» – proprio l’art. 331, comma 4, avrebbe sostituito il riferimento interno contenuto

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V., tra gli altri, G. Trisorio Lizzi, Riforma, cit., 547, 555; Id., Disposizioni, cit., 891 s.; C. Consolo, Ancora sulla sospensione, cit., 77; F. Tommaseo, Nuovi profili, cit., 24 ss. In senso analogo sembra collocarsi anche G. Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 82. 39 C. Consolo, Del coordinamento fra processo penale e processo civile: antico problema risolto a metà, in Riv. dir. civ., 1996, 231, che evidenzia il rischio, connesso ad una lettura diversa del ruolo dell’art. 211, di incostituzionalità per «straripamento dalla sua funzione di mero coordinamento». 40 V. G. Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione, cit., 1768, secondo cui «Se veramente il legislatore avesse voluto reintrodurre nell’ordinamento la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo a causa della pendenza di un processo penale, certamente avrebbe evitato di inserire nell’art. 211 cit. l’inciso ‘quando disposizioni di legge prevedono la sospensione necessaria’, dal quale si deduce con chiarezza che la norma rinvia ad altre disposizioni, ma si sarebbe limitato a statuire che ‘salvo quanto disposto dall’art. 75, 2° comma del codice, il processo civile o amministrativo è sospeso…’»; Id., Riforma, cit., 555. Nello stesso C. Consolo, Nuovo processo penale, cit., 317, che a fronte di una diversa conclusione prospetta pure una possibile illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 per mancata aderenza ai limiti della legge delega. Di contrario avviso, B. Capponi, A proposito, cit., 358 s.; cfr. anche C. Graziosi, Osservazioni, cit., 435, nota 67, che, in particolare, ritiene che, poiché nel codice di procedura penale del 1930 la disposizione corrispondente all’attuale art. 75, comma 3, non sarebbe stata offerta dall’art. 3 ma dall’art. 24, non richiamato però dall’art. 295 c.p.c., l’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. richiederebbe un coordinamento solo con le norme speciali e sopravvenute contenute nel codice riformato.

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nel previgente testo dell’art. 295 c.p.c. all’art. 3 c.p.p. 193041, è stata infatti considerata foriera del risultato «aberrante»42 di dovere ammettere, quando l’azione penale risulti già esercitata ai sensi dell’art. 211, la sospensione obbligatoria del giudizio civile sulla scorta di una disposizione che prevede però solo un obbligo di denuncia al p.m. del fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile d’ufficio quando questo emerga nel corso di un procedimento civile (o amministrativo). Un discorso a parte merita l’art. 295 c.p.c. Serve infatti comprendere se il fatto che esso oggi preveda la sospensione necessaria «in ogni caso» di dipendenza della decisione civile da altro giudizio possa costituire argomento per concludere per la conservazione di una automatica e generale sospensione per pregiudizialità penale; ovviamente, sul presupposto della riconduzione dell’art. 295 c.p.c. alle «disposizioni di legge [che, ndr] prevedono la sospensione necessaria del processo civile». Occorre partire da una immediata constatazione: con le modifiche introdotte dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha eliminato nel testo dell’art. 295 c.p.c. il riferimento all’art. 3 c.p.p. 193043 (comunque inutile attesa la sua mancata riproduzione nel codice di rito penale riformato), è stata superata la regola della influenza del processo penale sul processo civile ai fini della sospensione. La sospensione del processo civile ai sensi dell’art. 295 c.p.c. va quindi disposta nei casi dell’art. 75, comma 3, c.p.p. e in quelli in cui debba essere risolta una controversia dalla cui definizione dipenda la decisione della causa; vale a dire l’ipotesi della pregiudizialitàdipendenza, cui però non appare corretto ricomprendere, ope legis e asetticamente, il fascio di rapporti intercorrenti tra giudizio civile e penale44. In effetti, il profilo che emerge è se il rapporto di dipendenza tra giudizi costituisca condizione non solo necessaria ma anche sufficiente ai fini della sospensione del processo civile per pregiudizialità penale. Si è detto, invero, che il giudizio sulla antecedenza logico-giuridica, e quindi sulla dipendenza della decisione, va svolto applicando due criteri: «se la questione pregiudiziale sollevata dalle parti sia pertinente, cioè se la sua soluzione sia una premessa necessaria per la decisione che egli dovrà pronunciare; e se la controversia pendente nell’altro processo è identica alla questione pregiudiziale medesima, cosicché la sentenza che sarà pronunciata

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S. Guarino, Sospensione, cit., 1150; G. Spangher, Nuovi profili, cit., 38, nota 10. C. Consolo, Del coordinamento, cit., 236. 43 Il rinvio all’art. 3 c.p.p. 1930 resta invece nel testo dell’art. 297 c.p.c. Secondo G. Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione, cit., 1769, non si tratterebbe però di una mera svista, ma di un’ulteriore prova della impossibilità di ricondurre i rapporti tra giudizio penale e civile agli schemi della pregiudizialità di cui all’art. 295 c.p.c., atteso che la formulazione dell’art. 297 c.p.c. dimostrerebbe che esiste la necessità di distinguere, anche in via teorica, le cause della sospensione e, quindi, di tenere separate anche le relative discipline. 44 Cfr. G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 560; Id., Sulla abrogazione, cit., 1769; M.G. Civinini, Sospensione del processo civile per c.d. «pregiudizialità» penale: questioni teoriche e riflessi pratici, in Foro it., V, 1991, 372. La conclusione trova riscontro anche nella giurisprudenza di legittimità; v., tra le altre, Cass., Sez. Un., 5 novembre 2001, n. 13682; Cass. 3 luglio 2009, n. 15641 («[…] si rileva che non ricorre nemmeno alcuna delle situazioni ipotizzate dall’art. 211 disp. att. cod. proc. civ. (com’è noto non identificabili nella previsione della stessa norma dell’art. 295 c.p.c: cosi Cass. sez. un. n. 13682 del 2001) […]»). 42

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in quel processo possa fornire la premessa necessaria per la sua propria decisione. […] se anche una sola di quelle risposte sarà negativa, verrà meno il rapporto di pregiudizialità tra le due decisioni e la sospensione non avrà alcuna giustificazione e perciò non dovrà essere pronunciata»45. Tale impostazione – per cui la sospensione deriva dalla contemporanea pendenza di altro giudizio sulla questione pregiudiziale – finisce per assegnare rilevanza alla sola relazione di dipendenza tra gli oggetti dei processi46, così elevando la stessa a condizione anche sufficiente. Tuttavia, la ratio della sospensione necessaria non risiede solo nella subordinazione logica dell’oggetto dei processi. Piuttosto, essa va recuperata nell’idoneità al giudicato dell’accertamento pregiudiziale in formazione47, di cui la dipendenza sarebbe pertanto conseguenza. Da tale dato non può quindi prescindersi nell’impostazione del discorso. Esso, però, nemmeno deve essere esasperato arrivando ad affermare che esiste sempre una pregiudizialità da giudicato penale nei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale. Per questi, è stato sostenuto – invero ancora prima dell’entrata in vigore delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e pure delle modifiche apportate dalla riforma del 1990 – che l’art. 295 c.p.c. avrebbe introdotto solo una nuova regola di pregiudizialità, di portata comunque generale ed unitaria e con asse spostato dal «fatto» ai «soggetti». Essa è stata infatti intesa come «ineludibile vincolo rispetto ad un accertamento (logicamente e praticamente in grado di ‘far dipendere’ da esso l’esame successivo) di certi ‘fatti’ relativi a determinati soggetti, che per aver preso parte o per essere stati posti in grado di prender parte al giudizio ‘pregiudiziale’ risentono e non possono non risentire gli effetti della pronuncia resa in quel giudizio»48. In altri termini, è stata proposta una nozione di pregiudizialità-dipendenza che, non potendo più essere recuperata nelle norme relative ai rapporti tra azione civile e processo penale, attesa la necessità di prendere atto del principio di separazione accolto dalla rifor-

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E.T. Liebman, Sulla sospensione propria ed «impropria» del processo civile, in Riv. dir. proc., 1958, 157. In senso diverso, v. A. Attardi, Conflitto di decisioni e sospensione necessaria del processo, in Giur. it., 1987, 426 ss., il quale ritiene che la dipendenza non derivi da un rapporto di pregiudizialità ma da un legame tra giudizi in forza del quale la definizione di uno di essi realizza una modificazione giuridica di un presupposto del rapporto sostanziale che è oggetto dell’altro. Tale ricostruzione, tuttavia, non è utile ai fini dell’esame dei rapporti tra processo civile e penale; se infatti si riconoscesse alla sentenza penale natura costitutiva, e quindi l’idoneità a determinare la modifica del presupposto del rapporto sostanziale tale da rendere ingiusta la sentenza civile emessa senza preventiva sospensione, allora occorrerebbe concludere nel senso che la qualificazione di un fatto come reato non può avvenire in sede civile prima che in sede penale ne sia stata accertata e dichiarata la sussistenza. In questi termini, M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 247. 47 L. Montesano, La sospensione per dipendenza, cit., 324 ss. Amplius, per una ricostruzione delle differenti posizioni, v. S. Menchini, Sospensione, cit., 26 ss. Sul tema v. anche F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2019, 240 s., secondo cui la ragion d’essere della sospensione necessaria non sta tanto nella subordinazione logica tra gli oggetti dei giudizi, quanto in una esigenza di economia processuale che si concretizza nella volontà di evitare la doppia istruttoria sulla situazione pregiudiziale. Rispetto a tale ricostruzione appare parzialmente critica M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 253, la quale osserva che, poiché ragioni di economia processuale sono ravvisabili anche nei rapporti di mera connessione fattuale, si finirebbe per ammettere la dipendenza della decisione civile da quella penale anche in mancanza di un rapporto di pregiudizialità in senso stretto tra processi. 48 B. Capponi, La «nuova» pregiudizialità penale tra esercizio delle azioni civili e vincoli del giudicato, in Corr. giur., 1989, 74. 46

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ma del 1988, avrebbe trovato la propria base argomentativa in ragioni di tipo processuale in relazione alle disposizioni che regolano l’efficacia extrapenale del giudicato penale49. Se però si osserva che l’oggetto del giudicato penale spendibile nel giudizio civile non corrisponde totalmente all’oggetto del processo penale50, e quindi non genera quell’efficacia riflessa che dovrebbe giustificare la sospensione nell’ottica del rischio del contrasto tra pronunce, allora può concludersi che l’art. 295 c.p.c. postula una impossibilità (da accertamento in formazione) di pronunciare sulla causa dipendente in assenza della decisione su quella pregiudiziale che non può dirsi sempre e automaticamente configurabile nel nuovo sistema delineato dagli artt. 3 e 75 c.p.p. per i rapporti tra processo civile e processo penale, atteso che «la circostanza che entrambi quegli oggetti di giudizio abbiano in comune alcune delle premesse di fatto o di diritto […] non basta a ricondurre queste ipotesi nell’alveo della pregiudizialità fra cause, sia pure connotata non da ragioni di diritto sostanziale, ma da ragioni esclusivamente processuali»51. Per queste vie, nemmeno sembrerebbe possibile ammettere un sistema di conservata pregiudizialità generale, sebbene part time, per cui essa compaia quando il processo civile deve essere sospeso ex art. 75, comma 3, c.p.p. (perché il danneggiato ha esercitato l’azione civile dopo la costituzione di parte civile o dopo la sentenza di primo grado) e scompaia quando ne è invece ammessa l’autonoma prosecuzione ai sensi dell’art. 75, comma 2, c.p.p. (per essere stata l’azione per i danni e le restituzioni promossa in sede civile e non trasferita in sede penale, ovvero iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile)52. Una tale soluzione, infatti, imporrebbe l’idea di un necessario e non scindibile legame tra pregiudizialità e sospensione, il cui distacco concettuale è invece dimostrato, oltre che in termini più generali da disposizioni come l’art. 337, comma 2, c.p.c., anche, e per quanto di interesse in questa sede, proprio dalla nuova disciplina dedicata alle questioni pregiudiziali dagli artt. 2 e 3 c.p.p., che escludono che il giudice penale debba sempre e comunque disporre l’arresto del processo per la ricorrenza di un’ipotesi di pregiudizialità tra giudizi53. In ultimo, nemmeno pare possibile valorizzare in senso contrario alle conclusioni appena esposte il dato per cui la nuova formulazione dell’art. 295 fa riferimento ad una generica «controversia», non più solo «civile o amministrativa».

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B. Capponi, A proposito, cit., 360. V. C. Consolo, Ancora sulla sospensione, cit., 78 s., che proprio per questa ragione arriva a sostenere che la sospensione non deriverebbe dal vincolo previsto dagli artt. 651, (651-bis), 652 e 654 c.p.p. ma da quello fissato dal dettato dell’art. 2909 cod. civ., «inteso quale norma generale sull’efficacia dell’accertamento, nei confronti di parti e aventi causa, sull’oggetto del giudizio concluso, con riguardo (anche) ai processi dipendenti». 51 In questi termini, C. Consolo, Del coordinamento, cit., 234, nota 11; Id., Ancora sulla sospensione, cit., 83, nota 7. Cfr. anche G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 558; Id., Sulla abrogazione, cit., 1769. 52 Pareva proporre inizialmente questa interpretazione B. Capponi, La «nuova» pregiudizialità, cit., 73. 53 Così, G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 535. 50

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Al netto della preliminare considerazione secondo cui il concetto di «controversia» parrebbe non corrispondere perfettamente alle caratteristiche del processo rivolto all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato54, occorre in effetti prendere atto dell’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «Non connotato più dalla precedente qualificazione ‘civile o amministrativa’, il termine si presta ad essere riferito anche al processo penale […]»55. Tuttavia, tale interpretazione non vale a superare quanto detto in punto di non ricorrenza di un predefinito e assoluto rapporto di pregiudizialità-dipendenza in senso stretto nei rapporti tra giudizio penale e civile risarcitorio/restitutorio. Va infatti considerato che per quanto la Cassazione, per affermare la sospensione del processo civile risarcitorio/restitutorio (con riserva di esaminare il regime applicabile agli «altri», di diversa natura, richiamati dall’art. 654 c.p.p.), abbia a volte esaurito il concetto di pregiudizialità-dipendenza nella mera identità (totale o parziale) dei fatti oggetto di accertamento nelle due sedi processuali56, essa lo ha poi comunque negato in termini assolutistici stabilendo che «l’unico mezzo preventivo di coordinamento tra il processo civile e quello penale è costituito dall’art. 75 c.p.c.»57. La norma, in altri termini, ponendosi come eccezione al principio di autonomia, è stata individuata come momento di esaurimento delle ipotesi di sospensione del giudizio civile per pendenza del processo penale58, a nulla rilevando, almeno in linea generale, nemmeno il rischio (in ogni caso ritenuto solo teorico in ragione della non totale corrispondenza

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C. Consolo, Del coordinamento, cit., 235; F. Tommaseo, Nuovi profili, cit., 26; B. Capponi, A proposito, cit., 358, che però ammette anche (spec. 360) possa essersi trattato di una svista del legislatore dovuta anche al tardivo inserimento della modifica all’art. 295 nel testo della riforma. 55 Cass, Sez. Un., 5 novembre 2001, n. 13682. 56 Cfr. Cass. 10 giugno 1981, n. 3755, secondo cui il rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra processo civile e penale si atteggia «nel senso che il primo abbia come necessari antecedenti logico-giuridici, in tutto o in parte, le medesime circostanze di fatto che il giudice penale è tenuto ad accertare con efficacia di giudicato ai fini della cognizione del reato». Nello stesso senso, v. Cass. 28 aprile 1997, n. 3656, in Foro it., 1998, I, 209, con nota di G. Trisorio Liuzzi. La pronuncia, pur non prendendo posizione sulla questione relativa alla portata dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. («se cioè essa richiami tra le disposizioni di legge che prevedono la sospensione necessaria del processo anche l’art. 295 cod. proc. civ.»), ha escluso nel caso deciso la dipendenza della definizione della causa civile da quella pregiudiziale del giudizio penale, «dal momento che i fatti che formano oggetto di accertamento da parte del giudice penale sono gli stessi che sono stati sottoposti all’esame del giudice civile, e non ne costituiscono perciò antecedente logico». Più di recente, v. Cass. 15 gennaio 2014, n. 673. 57 Cfr., ex multis, Cass. 9 aprile 2003, n. 5530; Cass. 10 agosto 2004, n. 15477; Cass. 25 marzo 2005, n. 6478; Cass. 27 gennaio 2005, n. 1654; Cass. 12 giugno 2006, n. 13544; Cass. 18 gennaio 2007, n. 1095; Cass. 9 gennaio 2009, n. 317; Cass. 1° agosto 2012, n. 13828; Cass. 30 settembre 2015, n. 19383; Cass. 17 novembre 2015, n. 23516; Cass. 22 dicembre 2016, n. 26863; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470, la quale – richiamando anche Cass. 17 febbraio 2010, n. 3820 – ha affermato che solo nei casi di cui all’art. 75, comma 3, c.p.p. «si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile di danno, che pertanto non può pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto». 58 G. Trisorio Liuzzi, Riforma, cit., 557; Id., Sulla abrogazione, cit., 1763 ss.; Id., Disposizioni, cit., 393. Cfr. anche le posizioni di C. Graziosi, Osservazioni, cit., 435; S. Guarino, Sospensione, cit., 1151; S. Menchini, Sospensione, cit., 46; F. Tommaseo, Nuovi profili, cit., 24; R. Giovagnoli, La “pregiudizialità” penale, cit., 524 s.; B. Capponi, A proposito, cit., 356 ss.; M. Vellani, Considerazioni sulla sospensione del processo civile alla luce del nuovo codice di procedura penale e dei provvedimenti urgenti per il processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 770 ss.

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di oggetto dei processi59) di contrasto tra giudicati derivanti dalla possibilità che la sentenza penale poi pronunciata possa produrre effetti nel giudizio civile.

5. La soluzione delle Sezioni Unite del 2001. Nel dibattito maturato intorno alla natura dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. e all’individuazione delle ipotesi e delle condizioni di sospensione del processo civile per pendenza del processo penale, la Cassazione è intervenuta in funzione nomofilattica nel 2001 offrendo ancora un’alternativa ricostruzione dichiarata «compatibile con la sua natura di norma di coordinamento»60. Aderendo all’impostazione seguita da chi già aveva ritenuto doversi prevedere la sospensione anche quando «la pretesa civilistica dipende direttamente dall’accertamento (non già di fatti, ma) di una intera fattispecie e così anche, in base ad essa, en bloc dal giudizio sull’effetto giuridico-reato e così sulla responsabilità penale di un certo soggetto»61, il Collegio ha evidenziato la necessità di considerare l’esistenza di norme – destinate a rilevare «sia nei giudizi civili di danno sia nei giudizi civili non di danno o amministrativi» – che alla commissione del reato ricollegano effetti incidenti su altri rapporti, così generando sul piano processuale «un rapporto di pregiudizialità logica e giuridica tra accertamento dei fatti che sono oggetto di imputazione nel processo penale e decisione che deve essere resa sulla situazione soggettiva dedotta nel diverso giudizio civile o amministrativo» tale da giustificare la sospensione quando, come specificato dall’art. 211, la sentenza penale possa spiegare effetti di giudicato ai sensi e alle condizioni di cui agli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p. Ragionando in questi termini anche per i giudizi di danno, secondo le Sezioni Unite, da un lato, si comprenderebbe meglio pure la ragione del condizionamento della sospensione al giudicato previsto proprio dall’art. 211 e, dall’altro, non si disconoscerebbe comunque il principio dell’autonomia tra processi accolto dalla riforma del 1988. L’individuazione di un ulteriore segmento sospensivo, infatti, non ne smentirebbe il valore sistematico (d’altronde riconosciuto nonostante le ipotesi eccezionali di sospensione già previste dall’art. 75, comma 3, c.p.p.) e non costituirebbe strumento di riaffermazione della prevalenza del giudizio penale, atteso che esso, piuttosto, offrirebbe considerazione, in via processuale, ad una «pregiudizialità posta da una norma di diritto sostanziale».

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Cfr. Cass. 17 febbraio 2010, n. 3820. Più di recente, Cass. 22 giugno 2017, n. 15470. Cass., Sez. Un., 5 novembre 2001, n. 13682. 61 C. Consolo, Ancora sulla sospensione, cit., 82; Id., Del coordinamento, cit., 230, che riporta, tra gli altri, i casi di risarcibilità del danno morale ai sensi degli artt. 185 c.p. e 2043 cod. civ., ovvero di applicazione del termine di prescrizione più lungo ex art. 2947, comma 3, cod. civ.; concorde, I. Pagni, Sospensione del processo civile per pendenza di un processo penale influente?, in Corr. giur., 1997, 1413. Sul tema v. anche E. Merlin, Sospensione per pregiudizialità ed effetti punitivi dipendenti dalla pretesa punitiva dello stato, in Nuovi profili, cit., 159 ss., ma con le precisazioni appresso riportate, sub nota 65. 60

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Nel delineare un sistema in cui la sospensione del processo civile per pendenza del giudizio penale, per quanto non affermata come regola generale, è disposta – anche fuori dei casi di cui all’art. 75, comma 3, c.p.p. – quando ricorra la duplice condizione i) della pregiudizialità-dipendenza tra diritto oggetto del giudizio civile e fatto reato oggetto dell’imputazione e ii) della possibile efficacia di giudicato della sentenza penale nel processo civile, la Cassazione prova senz’altro ad offrire una soluzione ragionevole per tutte le ipotesi in cui per il giudice civile «rileva proprio la cognizione del reato come complessivo effetto giuridico – giudizialmente accertabile – e non di singoli tratti comuni sia alla cognizione penale sia a quella civile, ma autonomamente appartenenti a diverse fattispecie»62. Si tratta, d’altronde, di casi in cui l’argomento dell’accettazione del rischio del contrasto tra giudicati non pare determinante perché il problema si colloca a monte di questo. Esso infatti prescinde dal rilievo nei due processi degli stessi fatti e, piuttosto, coinvolge la possibilità stessa di giungere alla decisione civile in quanto dipendente dall’accertamento del reato quale momento precedente e necessario nell’ottica della successiva e conseguente produzione di un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile.

5.1. Segue: … alcune necessarie considerazioni. Per escludere però che il principio fissato, e ripreso anche dalla giurisprudenza successiva63, abbia finito per reintrodurre di fatto la pregiudizialità penale, al di là delle rassicurazioni offerte dalle Sezioni Unite, si dimostrano necessarie ancora alcune considerazioni. È vero, infatti, che la Cassazione si è premurata di chiarire che la pregiudizialità che apre alla sospensione non è generata dalla mera identità (parziale o totale) dei fatti, così sottraendola ad ogni regola di automatismo; tuttavia è innegabile anche che l’individuazione dei contorni del collegamento normativo tra la commissione del reato e l’effetto giuridico dedotto nel processo civile non è operazione immediata. Negata la significatività della mera comunanza del fatto storico alla fattispecie penale e civile, residuano comunque tutte le ipotesi di possibile collegamento derivante dal concorso di un provvedimento penale all’integrazione degli elementi della fattispecie civile, ovvero dalla rilevanza in essa di un reato, inteso come situazione sostanziale64. È il caso di precisare da subito che la prima delle indicate forme di collegamento (quella, vale a dire, per provvedimento) non sembra pesare ai fini della integrazione della

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In questi termini, C. Consolo, Del coordinamento, cit., 230. Cfr., tra le tante, Cass. 16 dicembre 2005, n. 27787; Cass. 3 luglio 2009, n. 15641; Cass. 11 luglio 2017, n. 18202; Cass. 15 luglio 2019, n. 1862, che, invero, ne hanno tutte fatto applicazione con riferimento a giudizi civili non di danno ai sensi dell’art. 654 c.p.p. 64 Per un esame approfondito di tali forme di collegamento si rinvia a M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 18 ss. e 134 ss. L’A., in particolare (46 s.), assume a base del proprio lavoro anche l’identificazione tra i concetti di «effetto e reato soprattutto allo scopo di separare, nello studio dei rapporti processuali, la rilevanza delle situazioni sostanziali dalla rilevanza dei provvedimenti che ad esse si riferiscono […]». 63

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pregiudizialità e, per l’effetto, della sospensione, che infatti presuppone la necessità di attendere la decisione di altro giudice su una situazione sostanziale.65 In via esemplificativa, è stato considerato il disposto dell’art. 88, comma 1, cod. civ., ai sensi del quale non possono contrarre matrimonio tra loro le persone delle quali l’una è stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra. In questo caso, in effetti, la sentenza penale66 interviene sulla struttura della fattispecie civile, nel senso di determinare l’automatica infondatezza della domanda volta al conseguimento dell’effetto civile collegato al provvedimento penale, ove mancante. E a tali fini non assume importanza il tema del giudicato penale sui processi civili aventi ad oggetto diritti dipendenti dall’accertamento del reato, atteso che a rilevare in ipotesi del tipo di quella richiamata è il fatto che la sentenza penale non semplicemente «influenza», ma «risolve» l’azione civile67. Diversamente accade quando il provvedimento penale non è posto alla base della fattispecie civile, piuttosto essa assumendo quale proprio elemento il reato inteso come situazione sostanziale. In altri termini, l’effetto civile può in questi casi prodursi sul piano sostanziale a prescindere dall’adozione di un provvedimento penale, proprio in quanto quest’ultimo si pone all’esterno della struttura della fattispecie civile. Può costituire plastico esempio di quanto detto la disciplina offerta in tema di indegnità a succedere dall’art. 463, nn. 1, 2 e 3, cod. civ., poi richiamato anche dall’art. 801 cod. civ. in tema di revocazione della donazione per ingratitudine. Mentre, infatti, ai sensi del n. 3 è necessario che «la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale», i nn. 1 e 2, con riferimento ai casi di omicidio volontario (tentato e consumato), non richiedono espressamente che sia resa una pronuncia penale ai fini della decisione sulla domanda in sede civile; così dimostrando che il collegamento tra le fattispecie non è realizzato per tramite del provvedimento, ma della situazione sostanziale rilevante (cioè, il reato). Lo stesso può dirsi con riferimento all’art. 185 c.p. e al rapporto che esso delinea tra il reato e il diritto al risarcimento del danno (per lo meno) non patrimoniale68, che nel primo trova la propria fonte e ragione diretta.

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M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 47. Contra, E. Merlin, Sospensione, cit., 157 ss., che invece, sul presupposto per cui l’oggetto dell’accertamento penale sia da recuperare solo nella pretesa punitiva dello Stato, riconosce rilevanza ai fini della ricorrenza del requisito della dipendenza utile alla sospensione al solo reato-effetto giuridico (vale a dire, al provvedimento di condanna) e non anche al reato-situazione sostanziale. La conclusione non è condivisa da C. Consolo, Del coordinamento, cit., 230, nota 6, che considera la premessa teorica su cui essa è costruita «avulsa dalla realtà e tale da impoverire l’oggetto del giudizio penale». 66 Si badi, però, che il collegamento con la fattispecie civile può realizzarsi anche per tramite di un provvedimento non decisorio, come nel caso previsto dall’art. 88, comma 2, cod. civ., che richiama il solo rinvio a giudizio ovvero l’ordine di cattura. 67 V. M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 7, 48. 68 Il medesimo nesso è stato invece escluso in relazione al danno patrimoniale, atteso che la sua risarcibilità è riconosciuta in termini generali dall’art. 2043 cod. civ. e, quindi, anche a prescindere dalla commissione di un reato. Cfr. C. Consolo, Del coordinamento, cit., 230 ss.; Id., Ancora, cit., 78 ss. Critica verso tale distinzione, in particolare per le conseguenze processuali che ad essa conseguirebbero, sembra E. Merlin, Sospensione, cit., 159 s.; amplius, anche per ulteriori riferimenti, v., tra gli altri, M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 198 ss.; A. Vallebona, Rapporti tra processo penale e processo civile per il risarcimento del danno alla persona, in Riv. it. dir. lav., 2000, I, 241 ss.

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In questi casi però, pur restando formalmente fuori dalla struttura in senso stretto della fattispecie civile, è innegabile un nesso di derivazione e dipendenza, e quindi a monte anche di pregiudizialità, che genera condizionamenti di tipo processuale. Anche da questo punto di vista è necessario offrire una distinzione a seconda che l’azione penale sia o meno già stata esercitata quando risulti pendente il processo civile. Superata la tesi che ammetteva la cognizione in sede civile del reato solo nei casi di sua estinzione69, se il processo civile precede l’iniziativa penale, al giudice civile è riconosciuta la possibilità di conoscere incidentalmente del reato senza che dalla ricostruita pregiudizialità possano derivare effetti diversi dall’obbligo di denuncia di cui all’art. 331 c.p.p. e senza, ovviamente, che la cognizione incidentale resa in sede civile possa spiegare alcun effetto vincolante per il giudice penale che successivamente si trovi a dovere valutare quel medesimo reato70. Non può esserci quindi sospensione del giudizio civile, nemmeno facoltativa71. In ragione della necessità di prendere atto del «disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo in quanto tale»72, si è infatti ormai imposta un’interpretazione estremamente rigorosa dell’art. 295 c.p.c. che in ultimo ha portato le Sezioni Unite73 a negare l’ammissibilità di una sospensione discrezionale del processo di cui il giudice civile possa disporre anche al di fuori di un rapporto di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, il quale ricorre «solo quando una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo o comunque ele-

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La posizione accennata era stata sostenuta, tra gli altri, da F. Carnelutti, Accertamento degli effetti civili del reato estinto, in Riv. dir. proc., 1938, 11 s.; Id., Valore giuridico dell’archiviazione del reato, ivi, 1959, 309 s.; S. Satta, Rapporti fra giurisdizione civile e giurisdizione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, 4, sul presupposto che solo in via del tutto eccezionale – vale a dire nei casi di sua sopravvenuta irrilevanza – sarebbe stato possibile affidare la cognizione del reato ad un giudice diverso da quello penale, ed era stata altresì criticata da chi, anche prima della riforma del 1988, aveva evidenziato come nemmeno l’art. 3 c.p.p. 1930 potesse essere invocato a tali fini, essendo esso riferibile piuttosto ai soli casi di contestuale pendenza dei giudizi; v. in questi termini, S. Chiarloni, Giudizio civile, risarcimento dei danni morali ed estinzione del reato, in Giur. it., 1981, I, 147. 70 Al netto della intuibilità della regola alla luce di quanto già esposto, si segnala Cass. pen. 19 febbraio 2015, n. 27062, la quale, sul presupposto per cui il giudicato civile è da limitare, ai sensi dell’art. 3 c.p.p., alle sole questioni concernenti lo stato di famiglia o di cittadinanza, ha ritenuto che il passaggio in giudicato della sentenza civile che aveva accertato la simulazione di alcuni contratti di compravendita immobiliare non avesse efficacia vincolante in sede penale, dove all’esito dell’istruttoria era invece emersa l’effettività dei trasferimenti immobiliari. V. anche Cass. pen. 16 maggio 2007, n. 35325, che ha altresì precisato che il giudicato civile è ancorato all’oggetto specifico della controversia civile, come delimitato dagli ordinari elementi costitutivi (soggetti, petitum e causa petendi), e non impedisce quindi che in sede penale si proceda ad accertamenti di tipo diverso, nella fattispecie consistiti nell’accertamento penale di condotte di riciclaggio aventi ad oggetto la somma versata dal debitore agli eredi del creditore in esecuzione della sentenza civile che aveva accertato l’esistenza di un diritto di credito e che era stata resa da un collegio del quale faceva parte, come relatore ed estensore, un giudice che era stato giudicato, con sentenza penale passata in giudicato, corrotto dalla parte risultata vittoriosa. 71 Sulla possibilità di ammettere la sospensione facoltativa «per favorire non già […] il futuro eventuale vincolo incondizionato, quanto, e però solamente nei casi più difficili, la maggior ampiezza e profondità di visuale per il giudice civile», in particolare immaginando anche l’inserimento di una nuova ipotesi di revocazione straordinaria della sentenza civile per i casi in cui, dopo il suo passaggio in giudicato, fosse divenuta irrevocabile una sentenza penale «fondata su ricostruzioni fortemente divergenti degli stessi fatti materiali», si era già significativamente interrogato C. Consolo, Del coordinamento, cit., 256 ss. 72 V. Corte cost. 31 maggio 1996, n. 182, che, proprio con riferimento ai rapporti tra processo civile e processo penale, ha ritenuto che tale disfavore uscisse chiaramente dalla riforma dell’art. 295 c.p.c. del 1990, avendo questa provveduto ad «attenuare il nesso di pregiudizialità penale in consonanza con l’autonomia voluta dal nuovo codice di procedura penale per le azioni civili restitutorie e risarcitorie». 73 Cass., Sez. Un., 1° ottobre 2003, n. 14670 in Foro it., 2004, I, 1474, con nota di G. Trisorio Liuzzi, Le Sezioni Unite cassano la sospensione facoltativa del processo.

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mento della fattispecie di un’altra situazione sostanziale»74. Tale facoltà, infatti, si porrebbe comunque in contrasto – secondo i chiarimenti delle Sezioni Unite – sia con «il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), sia con il canone della durata ragionevole, che la legge deve assicurare nel quadro del giusto processo ai sensi del nuovo art. 111 Cost.». Quando invece il processo penale si svolge in contemporanea con quello civile, è vero, nei limiti evidenziati, che l’accertamento del reato pregiudiziale si lega al riconoscimento alla pronuncia penale di un’influenza di tipo processuale sotto forma di sua efficacia extrapenale; ed è in quest’ottica che torna ad acquisire rilevanza, ai fini della sospensione del processo civile, il tema dell’idoneità al giudicato valorizzato dalle Sezioni Unite del 2001 poste a base di questa digressione.

6. Cenni sui giudizi diversi da quelli per il risarcimento e le

restituzioni.

Resta da comprendere se il ricostruito regime di sospensione dei processi civili (e amministrativi) per il risarcimento e le restituzioni per pendenza di altro processo penale sia il medesimo applicabile75 a quelli con oggetto diverso previsti dall’art. 654 c.p.p.76

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Cass. 17 novembre 2011, n. 24108; v. anche Cass. 27 novembre 2018, n. 30738; Cass. 25 giugno 2010, n. 15353; Cass. 28 dicembre 2009, n. 27426; Cass. 16 marzo 2007, n. 6159; Cass. 22 novembre 2006, n. 24859. 75 Amplius, sulla tassatività delle ipotesi di sospensione e, per l’effetto, sull’impossibilità di applicare analogicamente le norme che prevedono «una pausa nello svolgimento del giudizio e che, per ciò, si pone in contrasto con la natura e con la funzione del processo», v., anche per ulteriori riferimenti, G. Trisorio Liuzzi, La sospensione, cit., 111 ss. 76 Tema diverso, ma comunque strettamente collegato al fenomeno della sospensione, è quello dell’operatività dell’art. 654 c.p.p. (per una ricostruzione nell’ottica dell’individuazione di quali siano i provvedimenti che spiegano efficacia vincolante nei giudizi extrapenali diversi da quelli risarcitori, dei limiti e delle condizioni, oggettive e soggettive, cui è subordinata tale efficacia vincolante e, ancora, di quale sia la natura del vincolo, v. F. Santagada, Sull’efficacia, cit., 257 ss.). A fronte di chi sostiene che la disposizione – richiedendo la costituzione di parte civile del danneggiato – postuli un diritto risarcitorio azionato in sede penale connesso con altra situazione sostanziale fatta valere in vista di un’utilità ulteriore in sede civile (cfr. F.P. Luiso, I rapporti tra processo civile e processo penale, in Nuovi profili, cit., 96 s.), così limitando la sospensione ai soli casi di reato collegato ad un contratto ovvero di assunzione di una prova falsa nel processo civile (M.G. Civinini, Sospensione, cit., 369), si osserva anche che l’art. 654, poiché prevede l’efficacia della sentenza penale di condanna non solo nei confronti della parte civile ma pure dell’imputato (e del responsabile civile intervenuto o costituitosi nel processo penale), andrebbe interpretato nel senso di rendere tale efficacia disponibile ai terzi che vogliano invocarla nei confronti dei soggetti menzionati dalla disposizione in parola (contra, G. Trisorio Liuzzi, Disposizioni, cit., 911 s.; C. Consolo, Del coordinamento, cit., 249: M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 271; Id., Sospensione necessaria per pregiudizialità penale e azioni civili non risarcitorie, in Giust. civ., I, 2002, 2229), così giustificando la sospensione anche nei casi di azione promossa in sede civile dall’imputato in un processo penale avente ad oggetto fatti da cui dipenda l’accertamento del diritto azionato innanzi al giudice civile, ovvero di azione civile esercitata contro l’imputato da chi non abbia partecipato al processo penale come parte civile (per non avere subito un danno diretto dal reato o, comunque, per avere preferito cumulare le azioni in sede civile). Ciò in considerazione della capacità della sentenza penale di condanna di produrre effetti nel giudizio civile promosso contro l’imputato, e quindi di assumere rilevanza ai sensi dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. (così, R. Giovagnoli, La “pregiudizialità” penale, cit., 527). In giurisprudenza, sull’efficacia di giudicato di cui all’art. 654 c.p.p. v., tra le altre, Cass. 8 giugno 2005, n. 11998, secondo cui – trattandosi di norma che, ponendo un’eccezione ai principi generali circa l’ambito di efficacia di un giudicato, deve formare oggetto di stretta interpretazione – essa deve essere esclusa nel giudizio civile ove non vi sia coincidenza soggettiva tra i due giudizi.

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La giurisprudenza di legittimità ha inizialmente fisiologicamente risentito di una diversa sensibilità interpretativa del problema. Così, da un lato, l’orientamento prevalente si era indirizzato nel senso di escludere dopo la riforma del 1988 una sospensione che potesse eccedere le ipotesi, ritenute tassative, di cui all’art. 75, comma 3, c.p.p. e, in ogni caso, ammettendola a condizione che la sentenza penale potesse spiegare effetti di giudicato nel processo civile77; dall’altro, invece, quello minoritario aveva ritenuto quella dell’efficacia extrapenale della decisione penale condizione di per sé sufficiente a giustificare la regola generale della sospensione necessaria del processo civile78. Anche il distacco generato da tali contrapposte posizioni è stato colmato dalla pronuncia a Sezioni Unite del 2001, che ha inteso aprire, per come già evidenziato sopra, ad «una tesi che è solo in parte diversa dalla prima, perché, mentre ne accoglie il presupposto di fondo, ne rappresenta una parziale restrizione». La Cassazione79 che per i procedimenti non di danno aveva disconosciuto la sistematicità del principio di autonomia tra le giurisdizioni, imponendone quindi la sospensione in attesa della decisione penale, era stata costruita essenzialmente su tre argomenti: i) l’informativa prescritta dal combinato degli artt. 331, comma 4, c.p.p. e 106 disp. att. c.p.p., che non avrebbe trovato giustificazione se non nell’ottica dell’effetto sospensivo80; ii) la valorizzazione della scelta legislativa di disciplinare l’efficacia extrapenale del giudicato penale anche per i giudizi diversi da quelli di danno sul presupposto che la soluzione accolta trovasse ragione d’essere proprio nella volontà di sospendere i giudizi che potessero risentire degli effetti del giudicato penale81; iii) l’iter parlamentare che ha preceduto la formulazione dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. (e pure dell’art. 295 c.p.c.), dal quale sarebbe stata ricavabile l’idea di una pregiudizialità non superata ma solo parzialmente riformulata. La contrarietà alla ricostruzione offerta dall’esposto orientamento era stata però da subito espressa, ritenendo peraltro opportuno non enfatizzare i lavori preparatori82. Così, ponendo a base del ragionamento la qualificazione dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. come norma di mero coordinamento e non idonea alla reintroduzione del-

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Tra le altre, v. Cass. 27 febbraio 1996, n. 1501; Cass. 2 agosto 1997, n. 7178; Cass. 27 maggio 1998, n. 5258; Cass. 2 gennaio 2000, n. 13. V. Cass. 13 maggio 1997, n. 4179; Cass. 21 settembre 1998, n. 9440. 79 V. in particolare, Cass. 13 maggio 1997, n. 4179, annotata da G. Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione, cit., 1757. 80 V. pure G. Spangher, Nuovi profili, cit., 54. 81 E’ anche su queste premesse, d’altronde, che pare collocarsi la posizione – già segnalata – di chi ha dubitato dell’effettivo superamento della pregiudizialità penale osservando che «la disciplina della ‘pregiudizialità’ non si esaurisce in quella della parte civile, ma si sostanzia […] della normativa del giudicato penale, che implicitamente afferma tante cause di ‘pregiudizialità’ quante volte vincola agli accertamenti compiuti dal giudice penale»; così, B. Capponi, La «nuova» pregiudizialità, cit., 76. Le difficoltà a ricostruire i rapporti tra giudizio civile e penale in ragione della circostanza che le norme riformate non segnerebbero, innanzitutto con riferimento al tema dell’efficacia extrapenale del giudicato penale, un vero superamento dei principi sottesi al codice del 1930 sono evidenziate anche da R. Poli, Sull’efficacia, cit., 524. 82 Amplius con riferimento ai predetti lavori sugli artt. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. e 295 c.p.c. v. C. Consolo, Nuovo processo penale, cit., 315 ss., spec. nota 4; Id., in Commentario alla riforma del processo civile (a cura di C. Consolo, F.P. Luiso, B. Sassani), Milano, 1996, 290 ss.; R. Giovagnoli, La “pregiudizialità” penale, cit., 523 s. 78

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la generale e necessaria sospensione del processo civile per la pendenza di un processo penale, si è osservato, da un lato, che gli artt. 331, comma 4, c.p.p. e 106 disp. att. c.p.p. non contengono alcuna chiara regola di sospensione piuttosto specificando, significativamente, che tale onere è previsto in capo all’autorità che «procede» senza in alcun modo condizionare espressamente la prosecuzione del giudizio alla comunicazione del p.m. di cui all’art. 10683; e, dall’altro, che anche il rinvio alla previsione dell’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione negli «altri» giudizi civili o amministrativi di cui all’art. 654 c.p.p. proverebbe troppo, atteso che non esiste un principio di corrispondenza certa tra il riconoscimento dell’efficacia della decisione penale e la sospensione del processo in cui questa dovrebbe poi riversarsi84. A ciò veniva quindi aggiunto anche un argomento sistematico, perché prevedere la sospensione quale regola dei rapporti tra il processo penale e quello civile non risarcitorio/ restitutorio avrebbe significato delineare un doppio regime non rispettoso del parametro costituzionale della uguaglianza (art. 3 cost.) e del diritto di azione (art. 24 cost.)85. Le Sezioni Unite nel 2001 assolvono alla funzione nomofilattica evidenziando preliminarmente la necessità di accedere ad una interpretazione utile nell’ottica della limitazione e non dell’estensione della sospensione del processo civile per pregiudizialità penale, a tali fini invocando una più generale tendenza verso un sistema di rapporti tra le giurisdizioni ispirato a regole di autonomia86. Per queste vie procedendo, e sviluppando gli argomenti già esposti in merito all’interpretazione da preferire dell’art. 211, affermano il principio secondo cui una sospensione necessaria del giudizio civile non di danno si può configurare, in base a quanto dispongono gli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p., anche se l’efficacia di giudicato della sentenza penale non ne costituisce presupposto sufficiente, essendo piuttosto necessario anche che alla commissione del reato oggetto dell’imputazione penale una norma ricolleghi un effetto in rapporto al diritto oggetto di giudizio nel processo civile: «è in questa relazione tra diritto oggetto del giudizio civile e reato oggetto di imputazione che, nel caso di contemporanea pendenza del processo penale e d’un giudizio civile non di danno, fuori dei casi previsti da specifiche espresse norme di legge, si può rinvenire quel rapporto di pregiudizialità tra processi, il quale ne impone la sospensione […]»87.

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V. C. Consolo, Ancora sulla sospensione, cit., 89; Id., Del coordinamento, cit., 238. G. Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione, cit., 1766 s.; E. Merlin, Sospensione, cit., 158. 85 Cfr. G. Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione, cit., 1770; Id., Disposizioni, cit., 892 s.; C. Consolo, Ancora sulla sospensione, cit., 82. Contra, M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 273, che considera giustificata ogni disparità di trattamento in ragione della finalità perseguita con la disciplina dei giudizi civili di danno di scoraggiare l’inserimento dell’azione civile risarcitoria in sede penale. 86 Amplius, v. N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano, 2007. 87 Cass., Sez. Un., 5 novembre 2001, n. 13682. Nello stesso senso, più di recente, Cass. 3 luglio 2009, n. 15641; Cass. 21 dicembre 2010, n. 25822; Cass. 23 marzo 2015, n. 5804; Cass. 16 dicembre 2005, n. 27787; Cass. 16 marzo 2017, n. 6834; Cass. 11 luglio 2018, n. 18202; Cass. 15 luglio 2019, n. 18918. 84

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Anche in questa prospettiva, quindi, viene superata l’idea di un collegamento automatico tra efficacia del giudicato penale e sospensione necessaria del giudizio civile88 e altresì chiarita la non riferibilità dell’art. 295 c.p.c. alle ipotesi di mera coincidenza di fatti e questioni.

7. Sospensione e cumulo soggettivo (dal lato passivo): la soluzione delle Sezioni Unite n. 13661/2019.

È applicabile l’art. 75, comma 3, c.p.p. ai casi in cui l’azione civile per i danni sia stata proposta contro l’imputato e il responsabile civile da alcuni danneggiati in sede civile dopo la costituzione di parte civile di altri nel processo penale, e non vi sia quindi coincidenza tra i soggetti del processo penale (imputato-danneggiante e parte civile) e quelli del processo civile, anche perché il responsabile civile non sia stato nel primo citato ovvero non sia intervenuto? È anche questo il tema che le Sezioni Unite affrontano, evidenziando da subito come sia proprio il cumulo soggettivo a porlo in termini problematici, atteso che in sua mancanza la sospensione sarebbe imposta dal chiaro dettato dell’art. 75, comma 3, c.p.p. Dal ragionamento su cui è costruita la decisione, il primo profilo ad emergere è quello relativo alla definizione del campo applicativo della disposizione, come riferita alle sole ipotesi in cui vi sia identità delle parti in causa – ad esempio, quelle in cui il giudizio civile, successivamente proposto, abbia ad oggetto il solo rapporto obbligatorio tra danneggiato ed imputato, quale soggetto civilmente responsabile per i danni conseguenti al fatto proprio –, ovvero anche a quelle in cui il giudizio civile abbia ad oggetto, oltre al predetto rapporto, anche i rapporti obbligatori tra il danneggiato e gli altri soggetti ritenuti dall’attore-danneggiato corresponsabili, sulla scorta del medesimo titolo dell’imputato ovvero di titolo diverso, non già parti del processo penale. Da ciò il Collegio parte per poi valutare, ragionando sul lato passivo, se i) nei casi di litisconsorzio facoltativo sia possibile la separazione delle cause in vista della sospensione di quella promossa contro l’imputato nei cui confronti vi sia già stata costituzione di parte civile (ai sensi dell’art. 75, comma 3, c.p.p.) e della prosecuzione delle altre avviate nei confronti degli altri soggetti citati per la prima volta in sede civile; e se ii) nelle ipotesi di litisconsorzio necessario si possa giungere, anche in considerazione della unicità e della inscindibilità del rapporto plurisoggettivo che richiede – in termini più generali – una sola sentenza nei confronti di più soggetti, alla sospensione dell’intero processo civile.

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Oltre agli Autori già citati, v. L.P. Comoglio, La sospensione necessaria del processo, in Le riforme del processo civile (a cura di M. Taruffo), Torino, 1993, 357, e, comunque in termini più dubitativi, A. Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 47 ss.

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A tali fini, peraltro, non pare il caso di indugiare sulla tesi che interpreta l’art. 75, comma 3, c.p.p. nel senso per cui la sospensione sia da disporre solo nei casi in cui l’azione civile sia esercitata in sede civile (dopo la costituzione di parte civile ovvero dopo la sentenza penale di primo grado) contro l’imputato e non anche nei confronti di altri corresponsabili, come il responsabile civile89. A dovere essere valorizzata infatti, anche ai sensi dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. come interpretato dalle Sezioni Unite del 2001, è – per come si dirà – solo la piena idoneità della sentenza penale a spiegare (trasversalmente) effetti di giudicato ai sensi di tutti gli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p. Come noto, l’esercizio dell’azione civile può avvenire in sede civile contro l’imputato, ovvero contro questi e il responsabile civile; in quest’ultimo caso, per libera scelta ovvero per previsione di legge, come nell’ipotesi – peraltro, di interesse per il caso esaminato – di litisconsorzio per opportunità90 previsto dall’art. 144, comma 3, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, che per la responsabilità civile da circolazione riconosce al danneggiato azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile91. In generale, può dirsi che se l’azione è proposta in sede civile senza costituzione di parte civile in sede penale e prima della sentenza penale di primo grado, il relativo giudizio, ai sensi dell’art. 75, comma 3, c.p.p. prosegue in via autonoma (per impossibilità di applicare in modo pieno e trasversale le norme sul giudicato penale), pur potendosi distinguere l’ipotesi in cui il responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto nel processo penale, o meno; solo nel primo caso infatti, ferma comunque l’inoperatività dell’art. 652 c.p.p. (in forza dell’ultimo inciso del suo comma 1), risulta applicabile l’art. 651 (e 651-bis) c.p.p. La sospensione potrebbe invece immaginarsi quando l’azione civile sia promossa in sede propria dopo la sentenza penale di primo grado, per le ipotesi in cui il responsabile civile abbia preso parte al processo penale (perché citato o intervenuto), atteso che risulterebbero applicabili sia l’art. 651 sia l’art. 652 c.p.p., a condizione, per quest’ultimo, che il danneggiato sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile. Per l’ipotesi in cui il danneggiato eserciti l’azione civile dopo la costituzione di parte civile ma prima della sentenza penale di primo grado, si dimostra utile considerare, sempre nell’ottica dell’ulteriore distinzione dell’esistenza tra l’imputato e il responsabile civile di un rapporto di litisconsorzio facoltativo ovvero obbligatorio, innanzitutto il caso della partecipazione al processo penale del responsabile civile, perché citato o intervenuto.

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Così, Cass. 13 marzo 2009, n. 6185, richiamata anche dalla sentenza in commento. N. Picardi, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2019, 219. 91 Il ragionamento che qui si articola è costruito sul presupposto che l’imputato-conducente sia anche proprietario, atteso che nell’ipotesi opposta l’idea della separazione della domanda proposta contro il conducente da quella avverso il proprietario e l’assicurazione, con sospensione limita alla sola prima causa, sembrerebbe potere offrire un giusto equilibrio tra il dettato dell’art. 75, comma 3, c.p.p. e il litisconsorzio necessario che lega proprietario e assicurazione; così, D. Volpino, Pregiudizialità penale e liti civili di danno soggettivamente complesse: le Sezioni unite e le norme “sanzionatorie” che diventano premianti, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1301. 90

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Secondo le Sezioni Unite in esame – che per queste vie hanno ritenuto di garantire effettività al contraddittorio – l’art. 651 c.p.p.92, nel subordinare il vincolo del giudicato nei confronti del responsabile civile al fatto che questi sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale, richiede la concreta e conservata possibilità di partecipare al giudizio. Nei casi, però, di revoca della costituzione di parte civile conseguente al successivo esercizio dell’azione di danno in sede civile (ex art. 82, comma 2, ult. inciso, c.p.p.), tale possibilità sarebbe impedita, atteso che la revoca spiega effetti sia sulla citazione del responsabile civile ai sensi dell’art. 83, comma 6, c.p.p., sia sul suo intervento volontario ex art. 85, comma 4, c.p.p. Il giudicato degli art. 651 e 651-bis c.p.p. nei confronti del responsabile civile andrebbe quindi escluso in queste ipotesi alla luce della considerazione per cui, altrimenti ragionando, il responsabile civile resterebbe esposto agli effetti di una sentenza resa in un giudizio al quale ha perso l’effettiva possibilità di partecipare in conseguenza delle scelte del danneggiato di promuovere l’azione davanti al giudice civile93. Sempre secondo il Collegio, poi, la necessità di valorizzare la reale possibilità di prender parte al processo penale si potrebbe conservare, in linea teorica, anche in relazione al tema dell’estensione del giudicato favorevole ex art. 652 c.p.p., salvo poi considerare che proprio l’esito dell’accertamento penale potrebbe far venir meno ogni tipo di interesse in capo al responsabile civile a far valere pretesi vizi del contraddittorio, ragionevolmente preferendo invocare, in quanto coobbligato, il giudicato favorevole formatosi ai sensi dell’art. 1306, comma 2, cod. civ. In altri termini, non sembrerebbe possibile disporre la sospensione dell’intero processo soggettivamente cumulato per mancanza del requisito dell’idoneità al giudicato della sentenza penale nel processo civile94: nei confronti del responsabile civile che abbia subìto gli effetti della revoca della costituzione di parte civile ai sensi degli artt. 82, comma 2, 83, comma 6, e 85, comma 4, c.p.p. non si formerebbe, infatti, il giudicato previsto dagli artt. 651 e 651-bis c.p.p., mentre quello favorevole di cui all’art. 652 non dipenderebbe da una pregiudizialità intesa nel senso chiarito dalle Sezioni Unite nel 2001, ma immaginabile solo in via meramente eventuale, nelle forme dell’art. 1306, comma 2, cod. civ., e peraltro nemmeno sempre automaticamente95.

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Come, d’altronde, l’art. 651-bis c.p.p., che prevede il giudicato della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. La stessa efficacia è riconosciuta alla sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato. 93 Cass. 26 gennaio 2009, n. 1862. Sul tema v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, M.A. Zumpano, Rapporti, cit., 336. 94 In senso contrario si segnala la posizione di D. Volpino, Pregiudizialità penale, cit., 1302 s., secondo cui una tale interpretazione finirebbe per trasformare in norma «premiante» l’art. 75, comma 3, c.p.p. negandone la natura sanzionatoria della condotta consistita nella iniziale costituzione di parte civile. 95 Cfr. anche Cass. 13 marzo 2009, n. 6185, secondo cui l’operatività automatica del giudicato favorevole opera solo quando «il giudizio civile segua fra il danneggiato che è stato parte civile o è stato messo in condizione di assumere tale qualità e un soggetto che ha

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Su queste basi però, pur assumendo la teorica scindibilità delle cause cumulate, non potrebbe aversi nemmeno una sospensione limitata al giudizio nei confronti del danneggiante-imputato previa separazione dell’altro giudizio nei confronti del responsabile civile; ciò, in particolare, perché a dovere essere valorizzata dovrebbe essere l’esigenza di interpretare restrittivamente la disciplina derogatoria del principio della autonomia delle giurisdizioni di cui all’art. 75, comma 3, c.p.p., sì da non estenderla alle ipotesi in cui non vi sia «coincidenza tra le parti civili nel processo penale e gli attori del processo civile»96, a meno di non volere sacrificare – come osservato dalla pronuncia in commento, anche richiamando l’insegnamento CEDU97 secondo cui il rispetto del diritto della parte civile alla ragionevole durata del processo di danno va valutato computando cumulativamente la durata del processo penale, dal momento della costituzione di parte civile, e quella del successivo processo civile per la liquidazione del danno – «in maniera ingiustificata l’interesse dei soggetti coinvolti alla rapida definizione della propria posizione, in aperta collisione con l’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, presente nel nostro ordinamento ben prima dell’emanazione dell’art. 111 Cost., comma 2, e comunque assurta a rango costituzionale per effetto di esso»98. Quanto detto giustificherebbe poi l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 75, comma 3, c.p.p. anche ai casi di litisconsorzio necessario. E ciò sia con riferimento alla pretesa sospensione dell’intero giudizio necessariamente cumulato in vista di un possibile giudicato penale favorevole al responsabile civile ai sensi dell’art. 652 c.p.p., sia in relazione alla possibilità di immaginare la separazione delle domande, ostacolata proprio dalla necessità del cumulo. Così ragionando, le conclusioni raggiunte in termini di esclusione della sospensione per le ipotesi in cui il responsabile civile abbia almeno inizialmente partecipato al processo penale, non potrebbero che essere richiamate, a fortiori, per quelle in cui invece egli non sia stato nemmeno citato, mancando dal principio le condizioni di efficacia in sede civile del giudicato penale di condanna ai sensi degli artt. 651 e 651-bis c.p.p. e non potendo altresì, in relazione al giudicato favorevole al responsabile civile ex art. 652 c.p.p.,

partecipato al processo penale o in qualità di imputato o in qualità di responsabile civile», essendo necessaria negli altri casi in cui ci si riferisca a danneggianti che non siano stati parti del processo penale né nell’una né nell’altra qualità una dichiarazione di volerne profittare. 96 Così, oltre alla sentenza in esame, v. Cass., Sez. Un., 18 marzo 2010, n. 6538. In questo senso non sembrerebbe determinante il rinvio speso dall’ordinanza interlocutoria al precedente offerto da Cass. 1° luglio 2005, n. 14074, che ha realizzato, attraverso la separazione, la scissione del cumulo soggettivo. Nel caso deciso, infatti, il Collegio aveva pure evidenziato, ponendola a base della conclusione, la diversità delle situazioni di fatto oggetto del giudizio penale (attinente alla falsificazione di un assegno) e di quello civile (in cui la responsabilità di due dei convenuti per i danni era stata fondata su titoli diversi – rispettivamente, negligenza nella custodia dell’assegno negoziato e nel pagamento del medesimo), così osservando che «non si vede come possa valere l’art. 75 c.p.p. nei confronti di soggetti che non si trovano nella identica situazione», mancando quella «effettiva pregiudizialità per cui l’accertamento in sede penale ha efficacia di giudicato in quella civile». 97 Corte Edu 1° luglio 1997, Torri c. Italia. 98 Amplius, ma solo a titolo solo esemplificativo, A. Proto Pisani, Pregiudizialità e ragionevole durata dei processi civili, in Foro it., 1981, I, 1058 ss.

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ritenersi concepibile «che un processo resti sospeso per una pregiudizialità che dovrebbe operare non già quale che sia la soluzione che abbia il processo pregiudicante, ma solo per il caso che esso abbia un certo esito»99.

7.1. Segue: Le ipotesi di cumulo soggettivo dal lato attivo. Le ricostruite coordinate si prestano ad essere richiamate anche per le ipotesi di cumulo soggettivo dal lato attivo, quando la pluralità di danneggiati assuma una sincrona iniziativa processuale; anche in questi casi, infatti, occorrerà fare riferimento alla idoneità della sentenza penale a spiegare effetti di giudicato nel giudizio civile ai sensi di tutti gli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p., secondo i chiarimenti delle Sezioni Unite. Alcune precisazioni, invece, si dimostrano utili allorquando i danneggiati decidano di muoversi in modo differente. Un approccio di tipo casistico, costruito sulle possibili posizioni di due danneggiati, appare a questo punto preferibile100. L’ipotesi iniziale da esaminare è quella per cui il primo danneggiato eserciti l’azione civile tempestivamente e direttamente in sede civile, mentre il secondo lo faccia solo dopo essersi costituito parte civile (art. 75, comma 3, prima parte, c.p.p.). È possibile che l’iniziativa di quest’ultimo avvenga separatamente ovvero unitamente a quella assunta dal primo danneggiato. Nel primo caso (e ammesso che non sia disposta la riunione dei processi civili), non ci sarà sospensione per il giudizio promosso dal primo danneggiato, atteso che, quand’anche fosse totalmente applicabile l’art. 651 c.p.p. (in quanto opponibile non solo all’imputato ma pure al responsabile civile che abbia preso parte al processo penale), comunque resterebbe l’inapplicabilità dell’art. 652 c.p.p. Il giudizio promosso dal secondo danneggiato, invece, potrebbe andare incontro a sospensione ove non si aderisse alla soluzione proposta dalle Sezioni Unite con la pronuncia in commento e si negasse quindi che all’inefficacia della citazione ovvero dell’intervento del responsabile civile (sul presupposto, ovviamente, che vi siano stati), conseguente alla revoca della costituzione di parte civile per trasferimento dell’azione in sede civile, segua anche l’inapplicabilità dell’art. 651 c.p.p. Nel secondo caso, se si esclude la separazione delle cause (che renderebbe riproponibile quanto appena esposto), la regola della sospensione – pur considerando l’interesse del danneggiante-imputato ad attendere il giudicato assolutorio – può verosimilmente essere esclusa sulla scorta del fatto che, per lo meno nei confronti del primo danneggiato che abbia agito direttamente e tempestivamente in sede civile, l’art. 652 c.p.p. non sarebbe in ogni caso applicabile.

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In questi termini, Cass. 13 marzo 2009, n. 6185, che ha fatto proprie le conclusioni già raggiunte anche da Cass. 26 gennaio 2009, n. 1862. Più di recente, v. Cass. 18 luglio 2013, n. 17608; Cass. 29 gennaio 2014, n. 2002; Cass. 27 febbraio 2018, n. 4526. 100 Si rimanda a questi fini alla plastica ricostruzione di D. Volpino, Pregiudizialità penale, cit., 1303 s.

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In ultimo, l’altra prospettiva di indagine è, similmente alla fattispecie decisa, quella dell’azione civile esercitata da un primo danneggiato, non già costituito parte civile (pur essendo stato messo nelle condizioni di farlo), dopo la sentenza penale di primo grado (art. 75, comma 3, seconda parte, c.p.p.), alla quale abbia fatto seguito, anche in questo caso in via disgiunta ovvero congiunta (e salva, quindi, la riunione ovvero la separazione delle cause), l’azione civile proposta in sede civile da altro danneggiato già costituitosi parte civile nel processo penale. La sospensione sembrerebbe imposta dal dettato dell’art. 75, comma 3, c.p.p. Tuttavia, per entrambe le ipotesi occorre tornare a considerare e valorizzare la regola della piena idoneità della sentenza penale a spiegare, trasversalmente, effetti di giudicato nel giudizio civile. Anche in questi casi, allora, integrate per entrambi i danneggiati le condizioni prescritte dall’art. 652 c.p.p. (atteso che il primo è stato posto nelle condizioni di costituirsi parte civile e il secondo risulta costituito), la sospensione dovrebbe potere essere comunque esclusa in dipendenza della mancata (effettiva e conservata, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite) partecipazione del responsabile civile al processo penale, e quindi della non totale applicabilità e opponibilità dell’art. 651 c.p.p.

8. Conclusioni. Le Sezioni Unite hanno senz’altro offerto una interpretazione restrittiva dell’art. 75, comma 3, c.p.p. raggiungendo una conclusione diversa da quella che la prima ordinanza interlocutoria pareva suggerire (sebbene con riferimento ad una fattispecie non del tutto corrispondente a quella esaminata)101 immaginando la sospensione, previa separazione, della sola domanda civile proposta nei confronti dell’imputato (ex art. 75, comma 3, c.p.p.), in caso di litisconsorzio facoltativo, e la sospensione di tutto il processo civile, in quello di litisconsorzio necessario. Il punto di tendenziale distacco è la base del ragionamento seguito. L’ordinanza interlocutoria, in effetti, assume quale ratio della disciplina della sospensione del processo civile l’esigenza di tutelare «l’interesse dell’imputato a rendere opponibile al danneggiato la sentenza penale assolutoria, divenuta irrevocabile» e quindi, più in generale, quella di prevenire il rischio di un contrasto tra giudicati. Nel gioco di bilanciamento tra l’interesse dell’imputato e quello del danneggiato è così ipotizzata la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. nella misura in cui si finirebbe per affidare la «opponibilità del giudicato

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In effetti, Cass. 16 ottobre 2018, n. 25918 prendeva in considerazione il caso, diverso, di non coincidenza tra imputato-conducente e soggetto assicurato; v. supra, nota 91. L’ordinanza è commentata in termini adesivi da M. Stella, Cumulo di cause risarcitorie contro più obbligati solidali e latitudine della sospensione del processo civile per pregiudizialità penale, in Corr. giur., 2019, 111 ss.

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assolutorio alla libera scelta processuale del titolare della pretesa risarcitoria di agire in sede civile solo contro l’imputato ovvero anche contro gli altri coobbligati». Di contro, nell’impostazione delle Sezioni Unite ad essere valorizzato è il principio dell’autonomia dei giudizi, la separazione dei quali si ritiene strumentale al principio della ragionevole durata del processo. In ciò, l’imputato – per il quale né l’art. 651 né l’art. 651-bis c.p.p. richiedono particolari condizioni perché la sentenza resa in sede penale risulti vincolante nei suoi confronti in quella civile e che in effetti avrà avuto la possibilità di partecipare al processo penale e di difendersi nel corso di questo – non troverebbe pregiudizio al proprio diritto di difesa, anzi avvantaggiato dal più favorevole sistema di prova della responsabilità penale102. Quanto poi al giudicato assolutorio, l’interesse del medesimo a spenderlo nel giudizio civile sembrerebbe essere sacrificabile dinanzi alla considerazione che nel sistema dei rapporti tra processi riformato dal legislatore del 1988 l’autonomia delle giurisdizioni si eleva a valore fondante e a criterio interpretativo principale dal quale ricavare la regola della prosecuzione parallela del giudizio civile e di quello penale, e quella dell’accertamento autonomo dei fatti da parte del giudice civile, senza incontrare limiti nell’attività istruttoria condotta dal giudice penale. D’altronde, la ragion d’essere dell’art. 75, comma 3, c.p.p. non va recuperata nell’evitare il rischio astratto di un conflitto tra giudicati, quanto piuttosto nella effettiva idoneità della sentenza penale a produrre effetti di giudicato nel giudizio civile ai sensi di tutti gli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p. Una tale ricostruzione è richiesta anche dall’interpretazione dell’art. 211 disp. att., coord. e trans. c.p.p. accolta dalle Sezioni Unite del 2001, oltre che dall’insegnamento della Corte costituzionale, secondo cui «l’art. 75 c.p.p. ha definitivamente consacrato il principio di parità delle giurisdizioni, cosicché perfino la possibilità di giudicati contrastanti in relazione al medesimo fatto, ai diversi effetti civili e penali, costituisce evenienza da considerarsi ormai fisiologica»103. In questo senso, la decisione delle Sezioni Unite si dimostra meritevole di condivisio104 ne nella misura in cui, però, essa sia intesa come ostativa alla sospensione non in forza del mero cumulo soggettivo (come alcuni passaggi testuali lascerebbero intendere), ma in ragione della verifica della reale inidoneità della sentenza penale a spiegare, trasversal-

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La regola dell’autonomia e della separazione dei giudizi finisce così per trovare giustificazione anche nella considerazione che il procedimento penale e quello civile hanno regole proprie e distinte. Ciò vale, innanzitutto, per il differente regime probatorio (si pensi alle profonde distanze tra la confessione dell’imputato – comunque da vagliare sotto il profilo dell’attendibilità e non vincolante per il giudice – e quella ottenuta in sede civile attraverso il giuramento decisorio), e altresì per la ricostruzione del nesso di causalità che mentre nel penale è improntato al principio della certezza «oltre ogni ragionevole dubbio», nel civile è invece segnato dalla regola del «più probabile che non». 103 Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233. 104 Giudizio favorevole alla soluzione accolta dalle Sezioni Unite è stato espresso da M. Polizzi, Sezioni Unite: il processo penale non sospende quello civile qualora le parti non siano le medesime, in ilprocessocivile.it, fasc., 1° luglio 2019; cfr. anche R. Savoia, Risarcimento del danno da circolazione stradale con esito mortale: le Sezioni Unite si pronunciano sul rapporto tra azione civile e penale, in Diritto & Giustizia, fasc. 92, 2019, 1. Sostanzialmente positivo anche il giudizio di D. Volpino, Pregiudizialità penale, cit., 1304.

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mente, effetti di giudicato nel processo civile ai sensi di tutti gli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p., così evitando al processo civile rallentamenti non assolutamente indispensabili. Su tali basi, resta piuttosto da valutare l’incidenza sul regime della sospensione dell’effetto dell’inopponibilità del giudicato di condanna ex art. 651 (e 651-bis) c.p.p. ricollegato alla revoca della costituzione di parte civile per trasferimento dell’azione in sede civile. Da esso infatti – come correttamente osservato105 – potrebbe effettivamente derivare, da un lato, una indebita posizione di vantaggio per il danneggiato che, a fronte di più danneggianti, avrebbe la possibilità di evitare la sospensione semplicemente «convenendo nel giudizio civile un soggetto in più rispetto all’imputato»; e, dall’altro, l’introduzione di un «onere strategico» per l’imputato di citare il responsabile civile nel processo penale in cui vi sia stata costituzione di parte civile, con possibili ripercussioni, però, anche sulla facilità di gestione del processo penale.

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D. Volpino, op. loc. cit.

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Giurisprudenza Corte di Cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 18 Gennaio 2019, n. 24071. Presidente: Giusti – Estensore: Cosentino; BO.ANG. e MO.MA. c. PA.RO. Rigetto del ricorso. Domanda di usucapione – Domanda riconvenzionale di condanna al rilascio del bene – Rigetto della domanda principale in primo grado – Conferma della sentenza di primo grado in appello – Impugnazione della parte soccombente per violazione dell’art. 102 c.p.c. – Carenza di interesse alla rinnovazione del giudizio in contradditorio con i pretermessi virtualmente vittoriosi – Ragionevole durata del processo In caso di accertamento dell’usucapione in danno di più proprietari, è inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione della sentenza di rigetto proposta, per violazione dell’integrità del contraddittorio, dal soccombente che abbia agito in giudizio senza convenirvi tutti i comproprietari e senza sollecitare al riguardo l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, stante l’irrilevanza per lo stesso della non opponibilità della pronuncia ai litisconsorti necessari pretermessi e l’assenza di pregiudizio per i diritti di questi ultimi. Né è meritevole di tutela l’interesse ad un nuovo giudizio che si concluda con differente esito, traducendosi esso in un abuso del processo, oltre ad essere contrario al principio di ragionevole durata dello stesso ai sensi dell’art. 111 Cost.

(Omissis) Fatti di causa. – Rilevato: che la corte d’appello dell’Aquila ha confermato la sentenza di primo grado del tribunale di Avezzano che aveva: - rigettato la domanda proposta dai sigg.ri BO. ANG. e MO.MA. nei confronti della sig.ra PA.RO. per sentir dichiarare il loro acquisto per usucapione di due vani contraddistinti nel N.C.E.U. di Carsoli al foglio 10, part. 379, sub. 11, facenti parte di più ampio edificio sito in Tufo, in via Marsicana; - accolto la domanda riconvenzionale di condanna degli attori al rilascio dei suddetti vani, proposta dalla convenuta sig.ra PA., quale proprietaria dei medesimi in qualità di erede del defunto marito BO. BRU., al quale i suddetti vani erano pervenuti, uno per successione legittima al padre BO.ANT. e l’altro per successione testamentaria allo zio BO.LU.; che la corte abruzzese ha condiviso il giudizio del primo giudice sulla mancata dimostrazione del possesso ad usucapionem da parte degli attori sui vani de quibus;

che i sigg.ri ANG. BO. E MA. MO. hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza della corte abruzzese sulla scorta di tre motivi; che con il primo motivo di ricorso, rubricato con riferimento all’art. 360 n.4 c.p.c., si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., con conseguente nullità dell’intero giudizio, per la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari BO. MA. e BO. FRA., fratelli del dante causa della convenuta, BO.BRU.; che infatti, si argomenta nel mezzo di impugnazione, entrambi tali fratelli concorrevano con BO.BRU. nella successione legittima al comune padre BO.ANT. e, inoltre, BO.FRA. concorreva con BO.BRU. anche nella successione legittima al comune zio BO.LU.; cosicché il giudizio sulla domanda di usucapione proposta dagli odierni ricorrenti doveva essere necessariamente celebrato nel contraddittorio di costoro; che con il secondo motivo di ricorso, rubricato con riferimento all’art. 360 n.3 c.p.c., si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa ritenendo che i vani in questione sarebbero stati

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nel possesso di BO.LU. (quindi non degli odierni ricorrenti) per averne costui disposto con la scrittura privata del 10.2.82 e, successivamente, con testamento olografo; in tal modo, argomentano i ricorrenti, la corte territoriale si sarebbe fondata sulla presunzione, non adeguatamente giustificata nella motivazione della sentenza e non supportata dai presupposti della gravità, precisione e concordanza, che essi fossero a conoscenza della scrittura e del testamento di BO.LU.; che con il terzo motivo di ricorso, rubricato con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c., si denuncia il mancato esame di punti decisivi della controversia, con riferimento: a) al travisamento della deposizione del teste MA.ANT., in ordine alla esecuzione dei lavori di ristrutturazione dell’immobile per cui è causa; b) alla natura del possesso esercitato dai ricorrenti in riferimento al vano già in proprietà di BO.ANT., avendo entrambi i giudici di merito motivato soltanto in ordine al possesso sul vano di BO.LU.; (omissis) Ragioni della decisione. – ritenuto: che ragioni di ordine logico, legate alla valutazione di ammissibilità del primo motivo sotto il profilo della sussistenza dell’interesse a ricorrere, impongono di esaminare previamente il secondo ed il terzo motivo di ricorso; che il secondo motivo di ricorso va disatteso, in quanto esso non coglie la ratio decidendi e la progressione del percorso logico-decisionale della sentenza impugnata; che, infatti, la corte territoriale non ha fondato la propria decisione su alcuna presunzione, bensì sul convincimento che gli attori non avessero offerto la prova, di cui erano gravati, di aver posseduto l’immobile per cui è causa; che, al riguardo, la corte abruzzese ha giudicato insufficiente la prova “del fatto materiale, puro e semplice, di aver iniziato ad occupare due vani di casa sin dagli anni 1981 1982” (pag.

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4, penultimo capoverso, della sentenza) in considerazione del rilievo che alla permanenza dei coniugi BO. – MO. in detti vani “non sembra essersi associata nel tempo, in modo non equivoco, la volontà degli appellanti di comportarsi come proprietari in via esclusiva, in opposizione al BO. LU.” (pag. 5, secondo rigo, della sentenza); che l’unica rilevazione di fatto che la corte territoriale ha tratto dalla scrittura privata olografa di BO.LU. del 10.2.1982 è stata “quella della signoria uti dominus del BO. LU. sui vani dell’immobile per cui è causa”; rilevazione, peraltro, non sorretta da alcun ragionamento presuntivo, ma autonomamente supportata dall’affermazione che detta “signoria uti dominus del BO.LU.” risultava “riferita e quindi riscontrata dai testi MAL. e MAZ.” (pag. 5, secondo capoverso, della sentenza); che il terzo motivo va pur esso disatteso, in entrambe le doglianze in cui esso si articola, in particolare, la doglianza sub a) – concernente l’omesso esame del fatto, riferito dal teste MA., che i ricorrenti avevano commissionato a costui lavori edili sull’immobile per cui è causa – va giudicata infondata, in quanto la corte non ha omesso l’esame delle risultanze testimoniali ma, con giudizio di fatto non censurabile in questa sede di legittimità, le ha giudicate inidonee a supportare la pretesa degli attori (vedi pag. 5, secondo capoverso, della sentenza, laddove si giudicano “del tutto irrilevanti quei “comportamenti” posti in essere dagli appellanti, riferiti dei testimoni, ma non di portata tale da far superare la rappresentazione che la disponibilità dell’immobile da parte degli appellanti non avvenne in opposizione al BO.LU.”); che la doglianza sub b), relativa all’omesso esame della domanda di usucapione sul vano dello zio BO.ANT., non indica fatti storici muniti del carattere della decisività il cui esame sia stato omesso, risolvendosi in sostanza in una denuncia di omessa motivazione, inammissibile perché


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formulata in difformità dal paradigma fissato dal nuovo numero 5 dell’articolo 360 c.p.c.; che, alla luce del rigetto del secondo e terzo motivo di ricorso, può procedersi all’esame del primo motivo, il quale pone la questione della nullità della sentenza gravata, e dell’intero giudizio, per la non integrità del contraddittorio nei confronti di tutti i comproprietari (jure successionis) del bene oggetto della domanda di usucapione proposta dagli odierni ricorrenti; che al riguardo il Collegio ritiene di dover preliminarmente ribadire il fermo indirizzo di questa Corte secondo cui la domanda diretta all’accertamento della usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata (da ultimo, tra le tante, Cass. 15619/18); che, tuttavia, l’affermazione che precede non è di per sé risolutiva del problema che il Collegio deve risolvere per pronunciarsi sul primo mezzo di ricorso, giacché tale mezzo pone la ulteriore e diversa questione se sia ammissibile l’impugnazione con cui la parte che abbia agito in giudizio senza convenirvi tutti contraddittori necessari (e senza sollecitare, al riguardo, l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice) chieda dichiararsi la nullità della sentenza di rigetto della sua domanda per essere stata la stessa resa a contraddittorio non integro; (omissis) che, infatti, il Collegio ritiene che tale questione vada messa a fuoco attraverso il prisma dell’interesse ad agire (e ad impugnare), cristallizzato nell’articolo 100 c.p.c., come illuminato dal principio della ragionevole durata del processo, cristallizzato nell’articolo 111 Cost., e dal principio dal divieto di abuso del processo, cristallizzato nell’articolo 88 c.p.c.; che, in particolare, la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i comproprietari di un bene oggetto di domanda di usucapione è funzionale, in primo luogo, alla tutela

dei comproprietari, onde consentire loro di difendersi in un giudizio di accertamento di una situazione giuridica confliggente con quella preesistente (Cfr. Cass. 5559/94); in secondo luogo, alla tutela dello stesso attore, onde impedire che, all’esito del giudizio, la sentenza che riconosca il diritto dal medesimo azionato risulti inutiliter data, in quanto inopponibile ai litisconsorti necessari pretermessi; che, a fronte di una sentenza di secondo grado che abbia rigettato la domanda di usucapione, non può ritenersi sussistente alcun interesse alla rinnovazione del giudizio in contraddittorio con i comproprietari pretermessi, né in capo a questi ultimi, né in capo all’attore; che, quanto ai comproprietari pretermessi, la suddetta sentenza non pregiudica in alcun modo i loro diritti, giacché essi, in sostanza, sono virtualmente vittoriosi nel giudizio in cui sono stati pretermessi; che, quanto all’attore, per costui è irrilevante, in ragione del contenuto della sentenza (di accertamento negativo del suo diritto), la non opponibilità della stessa ai litisconsorti necessari pretermessi; né, d’altra parte, gli odierni ricorrenti deducono, nel mezzo di ricorso in esame, che la mancata partecipazione al giudizio dei litisconsorti pretermessi abbia recato una qualsivoglia limitazione al pieno dispiegamento del loro diritto di difesa ed al loro diritto al contraddittorio nel primo e nel secondo grado di merito; che, quindi, in definitiva, l’unico interesse alla ripetizione del processo riconoscibile in capo ai ricorrenti è individuabile non nella esigenza di rimediare ad un vulnus recato al loro diritto di difesa ed al loro diritto al contraddittorio dalla mancata partecipazione al giudizio dei litisconsorti necessari pretermessi, ma nella speranza che un nuovo giudizio si concluda con esito diverso da quello già celebrato; che il suddetto interesse non è meritevole di tutela, né trova copertura nell’articolo 100 c.p.c.,

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dovendosi anzi ritenere che – poiché nella stessa narrativa del mezzo di ricorso si riferisce che la esistenza di altri coeredi di BO. ANT. e BO.LU. (i sigg.ri MA. e FRA. BO.) emergeva già dalla comparsa di costituzione della convenuta PA.RO. nel giudizio di primo grado – la scelta processuale degli odierni ricorrenti di trascurare la questione dell’integrità del contraddittorio per i due gradi di merito (non provvedendo alla chiamata in causa di tali ulteriori coeredi, né sollecitando, al riguardo, l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice), salvo sollevarla dopo la sentenza di secondo grado secundum eventum litis, si traduca in un abuso del processo (vedi, per l’affermazione del principio di autoresponsabilità della parte, seppure in altro campo, SSUU 21260/16: “L’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto, in quanto non soccombente su tale, autonomo, capo della decisione”); che, del resto, la reiterazione del giudizio in assenza di qualsivoglia lesione della posizione giuridica dei litisconsorti pretermessi e di qualsivoglia pregiudizio patito dal diritto di difesa degli attori (e dei convenuti, integralmente vittoriosi) risulterebbe contraria alle esigenze di economia processuale strumentali all’attuazione del principio della ragionevole durata del processo sancito dal novellato art. 111 Cost., comma 2, ultima parte, che impone un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice di rito in chiave ancora più accentuatamente funzionale e antiformalistica; che, in coerenza con tale lettura sistematica del principio della ragionevole durata del processo, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 26373/08, hanno affermato che, nel caso di evidente inammissibilità del ricorso per cassazione, è superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del medesimo alla

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parte totalmente vittoriosa in appello, chiarendo che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, secondo comma Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111, secondo comma Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti; conf. Cass. 18410/09 (che, sulla scorta dei medesimi principi, ha ritenuto irrilevante, in un giudizio in materia di locazione, l’omessa citazione di uno dei conduttori in appello e nel giudizio di cassazione, rilevata d’ufficio, atteso che le problematiche concernenti la risoluzione del contratto di locazione non costituivano più in concreto oggetto del processo, mentre quelle concernenti i rapporti di dare e avere, per canoni non corrisposti, migliorie e risarcimento danni, oggetto del ricorso per cassazione, non comportavano l’inscindibilità delle cause), nonché Cass. 2723/10, Cass. 6826/10 e altre (da ultimo Cass. 12515/18); che non pare altresì superfluo sottolineare come nella menzionata sentenza n. 26373/08 le Sezioni Unite abbiano aggiunto al principio sopra riportato l’ulteriore notazione che, nel caso al loro esame, la concessione del richiesto termine per il rinnovo della notifica del ricorso per cassazione “avrebbe significato avallare un comportamento contrario al principio di lealtà e probità processuale (art. 88 cod. proc. civ.), atteso che gli


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istanti erano già in precedenza consapevoli della necessità della stessa”; che peraltro – per l’infondatezza delle altre censure mosse dai ricorrenti alla sentenza impugnata, che ha portato al rigetto del secondo e del terzo mezzo di ricorso – il presente giudizio non è destinato a proseguire in sede di rinvio, cosicché alla fattispecie risulta attagliarsi perfettamente il principio espresso in Cass. 2461/09, dove si afferma “l’inammissibilità per difetto di interesse del motivo di ricorso per cassazione con il quale la parte soccombente si dolga della mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, quante volte essa non avrebbe

potuto trarre alcun vantaggio dalla partecipazione al giudizio dei litisconsorti pretermessi, per essere risultate infondate tutte le altre censure mosse alla sentenza impugnata e per non potersi neppure astrattamente ipotizzare, in relazione all’atteggiarsi delle singole situazioni, che la partecipazione al giudizio dei litisconsorti sarebbe stata suscettibile di risolversi in una decisione di contenuto diverso e favorevole alla stessa parte soccombente” (pag. 19, ultimo capoverso); che, pertanto, in definitiva, il primo mezzo di ricorso va giudicato inammissibile per carenza di interesse; (Omissis).

La decisione (discrezionale) del giudice di non integrare il contraddittorio per carenza di interesse alla rinnovazione del giudizio Sommario :

1. Lo svolgimento del processo. – 2. I diversi volti del litisconsorzio necessario. – 3. La carenza di interesse consente la disapplicazione di regole processuali. – 4. Possibili aperture verso l’ammissibilità di un giudicato ultra partes.

La Corte di cassazione, seconda sezione civile, ha ritenuto inammissibile per carenza di interesse il primo motivo di ricorso con il quale i ricorrenti denunciavano la nullità della sentenza gravata e dell’intero giudizio per la non integrità del contraddittorio nei confronti di tutti i comproprietari (iure successionis) del bene oggetto della domanda di usucapione proposta dagli attori. Il Collegio riteneva, infatti, che tale questione dovesse essere esaminata attraverso “il prisma” dell’interesse ad agire e ad impugnare (art. 100 c.p.c.), da mettere in relazione con il principio della ragionevole durata del processo, individuato nell’art. 111 Cost. e con il divieto di abuso del processo, individuato nell’art. 88 c.p.c. The Supreme Court, second civil chamber, considered inadmissible for lack of interest the first ground of appeal with which the appellants denounced the invalidity of the challenged ruling and the whole judgment for breach of the adversarial principle with respect to all the co-owners (iure successionis) of the asset subject to the request of acquisitive prescription (so called “usucapione”) proposed by

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the claimants. The Supreme Court deemed that this matter should have been examined through the “prism” of the interest in filing a lawsuit and in appealing (Article 100 of the Italian Code of Civil Procedure), in connection with the principle of the reasonable duration of the trial, as set forth in Article 111 of the Italian Constitution, and with the prohibition to abuse of trial.

1. Lo svolgimento del processo. Il giudizio si instaurava con la proposizione di una domanda di usucapione di due vani nei confronti della sig.ra PA.RO. Quest’ultima, in risposta, chiedeva il rigetto e proponeva domanda riconvenzionale di condanna degli attori al rilascio dei suddetti vani, quale proprietaria dei medesimi in qualità di erede del defunto marito BO.BRU. Il primo giudice rigettava la domanda degli attori, ritenendo non dimostrato il possesso ad usucapionem da parte di questi ultimi sui vani in questione. La corte di appello condivideva il giudizio del tribunale e riconfermava in toto la sentenza di primo grado. Avverso tale pronuncia gli appellanti proponevano ricorso per cassazione sulla scorta di tre motivi. Con il secondo motivo denunciavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. in relazione alla presunzione di possesso dei vani da parte del BO.LU., il quale ne avrebbe poi disposto con testamento olografo lasciandoli al BO.BRU., dante causa della convenuta; con il terzo motivo si censurava il mancato esame di punti decisivi per la controversia, con riferimento al travisamento della deposizione del Teste MA. e alla natura del possesso esercitato dai ricorrenti. Il primo motivo di ricorso, esaminato dal collegio in subordine rispetto al rigetto del secondo e del terzo, è quello che ci interessa commentare in questa sede e lamenta la nullità della sentenza gravata e dell’intero giudizio per la mancata integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c. nei confronti dei litisconsorti necessari BO. MA e FRA., fratelli del dante causa della convenuta e, quindi, comproprietari dei vani oggetto della domanda di usucapione. Come anticipato, il collegio ha ritenuto di esaminare questo primo motivo solo successivamente alla dichiarazione di infondatezza del secondo e del terzo, in quanto se le predette censure fossero state da accolte, si sarebbe dovuto necessariamente accogliere anche il primo motivo e procedere, conseguentemente, all’integrazione del contradditorio. Data l’infondatezza degli altri motivi, la Suprema Corte ha ritenuto di dichiarare inammissibile il primo motivo, ritenendo “che a fronte di una sentenza di secondo grado che abbia rigettato la domanda di usucapione, non può ritenersi sussistente alcun interesse alla rinnovazione del giudizio in contraddittorio con i comproprietari pretermessi, né in capo a questi ultimi né in capo all’attore; che, quanto ai comproprietari pretermessi, la suddetta sentenza non pregiudica in alcun modo i loro diritti, giacché essi, in sostanza, sono virtualmente vittoriosi nel giudizio in cui sono stati pretermessi; che, quanto all’attore, per costui è irrilevante, in ragione del contenuto della sentenza (di accertamento negativo del suo diritto), la non opponibilità della stessa ai litisconsorti necessari pretermessi” (omissis).

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2. I diversi volti del litisconsorzio necessario. L’ordinanza in questione si inserisce nel solco di una serie di pronunce della Suprema Corte1 che, da qualche tempo, per garantire il rispetto del diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo, come richiesto dall’art. 111 della Costituzione e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, hanno dichiarato inammissibili le domande di integrazione del contraddittorio svolte dal ricorrente in sede di legittimità, in subordine alla dichiarazione di infondatezza del ricorso e, quindi, del suo sicuro rigetto. Nel caso di specie, il ragionamento della Corte sembra essere molto chiaro: data l’infondatezza del ricorso e il conseguente rigetto delle domande di parte ricorrente, non sussiste per quest’ultima alcun reale interesse, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ad ottenere la rinnovazione del giudizio in contradditorio con i soggetti pretermessi nei precedenti gradi, in quanto, anche se questo fosse nuovamente celebrato, l’esito resterebbe lo stesso. Per quanto riguarda i pretermessi, questi ultimi, dal canto loro, non subirebbero alcun pregiudizio dalla mancata partecipazione al processo in quanto la suddetta pronuncia di rigetto della domanda di usucapione non pregiudicherebbe in alcun modo i loro diritti giacché, in sostanza, essi sono virtualmente vittoriosi nel giudizio. Su questi rilievi, la Corte ha ritenuto di poter dichiarare inammissibile la censura inerente alla non integrità del contraddittorio, evitando così di allungare inutilmente i tempi processuali e di ricelebrare un giudizio che, certamente, si sarebbe concluso, allo stesso modo del precedente, con un rigetto nel merito2. Dinnanzi ad una decisione di questo tipo non c’è da stupirsi se si rimane un po’ perplessi. È chiaro che una sentenza pronunciata a litisconsorzio non integro deve considerarsi viziata. Sulla base delle principali regole del processo civile, infatti, quando l’azione riguarda un rapporto plurisoggettivo unico o l’adempimento di una prestazione inscindibile facente capo a più soggetti, tutti coloro nei confronti dei quali deve pronunciarsi la sentenza devono partecipare al giudizio, altrimenti il giudice deve ordinare, entro un termine perentorio, l’integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c. 3. Nel caso in cui non venga adempiuto

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Cfr. Cass. civ., sez. II, n. 2723/2010 e Cass. civ., sez. II, n. 20152/2019. Nella specie il collegio propone una lettura sistematica del principio della ragionevole durata del processo espresso da Cass. civ. SS.UU. n. 26373/08 secondo cui “nel caso di evidente inammissibilità del ricorso per cassazione, è superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del medesimo alla parte totalmente vittoriosa in appello, chiarendo che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, secondo comma Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111, secondo comma Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (omissis)”. Vengono altresì richiamate, quale esempio dell’applicazione dei medesimi principi, Cass. civ., n. 18410/09, Cass. civ., n. 2723/10, Cass. civ., n. 6826/10 nonché Cass. civ., n. 12515/18. 3 Sul punto la Corte sottolinea, infatti, che “Il Collegio ritiene di dover preliminarmente ribadire il fermo indirizzo di questa Corte secondo cui la domanda diretta all’accertamento della usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata (da ultimo, tra le tante, Cass. 15619/18)”. 2

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tale ordine di integrazione, il processo si estingue ai sensi dell’art. 307, co. 3, c.p.c. Quando, invece, né il giudice né le parti rilevino il difetto del contradittorio, la regola generale prevede che la sentenza pronunciata in assenza di uno o più litisconsorti necessari debba essere ritenuta inutiliter data, nel senso che deve essere considerata inidonea a produrre effetti nei confronti delle parti e dei terzi pretermessi4. Deve, tuttavia, sottolinearsi come tale tipologia di vizio si atteggi in modo differente a seconda che si tratti di una ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, di litisconsorzio necessario processuale o di litisconsorzio cosiddetto “propter opportunitatem”5. La distinzione tra queste fattispecie di litisconsorzio rileva al fine di verificare quali sono gli effetti di una pronuncia resa a litisconsorzio non integro. Generalmente, nel caso di litisconsorzio necessario sostanziale e processuale, deve ritenersi che la non integrità del contraddittorio determini sempre e comunque la radicale inefficacia della decisione, oltre che per i soggetti pretermessi, anche per le parti in giudizio. Non vi sono dubbi, infatti, che, quando si versi in un’ipotesi di litisconsorzio necessario inerente ad un rapporto sostanziale, alla violazione dell’art. 102 c.p.c., seguirà una sentenza che, seppure formalmente esistente (e per questo idonea a passare in giudicato formale), sarà inidonea alla formazione del giudicato sostanziale (2909 c.c.) e, quindi, priva di qualunque effetto6. Alcuni dubbi possono, invece, sollevarsi quando la pronuncia venga emessa a litisconsorzio necessario processuale non integro. Si tratta, infatti, in questo caso di un’ipotesi di litisconsorzio legata unicamente allo svolgimento del processo e non anche alla situazione iniziale di diritto sostanziale oggetto della controversia. Sull’onda di tali considerazioni, autorevole dottrina, ha ritenuto ipotizzabile sostenere che una sentenza resa inter paucio-

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Vedi, ex multis, Cass. civ., n. 18127/2013 e Cass. civ., n. 3678/2009 secondo cui “Quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c.”. 5 Avremo un’ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale quando ad essere controversa sia una situazione sostanziale di cui sono contitolari una pluralità di soggetti (un esempio è il caso previsto dall’art. 784 c.p.c. nella prima parte, che fa riferimento all’ipotesi in cui venga proposta in giudizio la domanda di divisione dell’eredità o di scioglimento della comunione, con conseguente dovere di partecipare al processo di tutti i coeredi o di tutti i comproprietari). Si avrà, invece, un’ipotesi di litisconsorzio necessario processuale, quando la necessità di una pluralità delle parti non discenda dal tipo di rapporto e di azione fatta valere in giudizio, ma dalle vicende del processo e, quindi, dal coinvolgimento nel giudizio di più soggetti con conseguente cumulo soggettivo delle domande nella dinamica dello svolgimento processuale (un esempio è dato dall’ipotesi in cui venga fatto valere nel processo un diritto altrui in nome proprio, come nel caso dell’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c., che si caratterizza per la presenza di un soggetto che fa valere un diritto di credito il cui titolare è il proprio debitore. Si tratta di un caso di sostituzione processuale, dove il sostituito è litisconsorte necessario processuale: il giudizio dovrà, infatti, essere incardinato anche nei confronti del vero titolare del diritto così che il giudicato potrà produrre i suoi effetti anche nei confronti di quest’ultimo). Infine, si avrà il cosiddetto litisconsorzio propter opportunitatem quando venga imposta la partecipazione al processo di soggetti titolari di un rapporto giuridico differente rispetto a quello oggetto del giudizio ma ad esso strettamente connesso, solitamente per un rapporto di pregiudizialità – dipendenza. In questo caso la partecipazione di tutte le parti è stabilita per ragioni di opportunità processuale (un esempio è il caso dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, ai sensi dell’art. 144 D.lgs. 209/2005, con la quale si ritiene di far partecipare al giudizio anche l’assicurato responsabile del danno al fine di tutelare l’ente assicuratore). 6 Sul punto vedi Balena, In tema di inesistenza, nullità assoluta ed inefficacia delle sentenze, in Foro it., 1993, I, 179 ss.

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res non sarebbe radicalmente inefficace, ma produrrebbe effetti solo nei confronti delle parti del giudizio, risultando, invece, inopponibile al terzo pretermesso7 (che potrà sempre agire con opposizione ordinaria ex art. 404, co. 1, c.p.c. per far valere l’inefficacia nei suoi confronti della sentenza). Nel caso di litisconsorzio propter opportunitatem, infine, parte della dottrina ha affermato che, operando la regola genarle dell’art. 161, co.2, c.p.c. e, quindi, la possibilità di poter far valere il vizio della sentenza con i motivi di gravame, questa sarà idonea a formare il giudicato sostanziale fra le parti, rimanendo però pur sempre inopponibile al terzo pretermesso, il quale potrà agire ex art. 404, co.1, c.p.c. 8. Recentemente la Suprema Corte ha rimarcato la distinzione tra le varie forme di litisconsorzio necessario, soffermandosi sulla importante differenza che sussiste tra le ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale o iniziale e quelle di litisconsorzio processuale, spiegando come è proprio in ragione della violazione dell’uno o dell’altro che la sentenza sarà suscettibile o meno di ricorso per cassazione, principale o incidentale, deduttivo della violazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. in sede di gravame9. Afferma la Corte, infatti, che la sentenza potrà essere impugnata invocando la violazione dell’art. 331 c.p.c. “soltanto qualora la violazione dell’art. 331 abbia riguardato o una situazione di litisconsorzio necessario inziale ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ. o una situazione di litisconsorzio necessario processuale determinata dall’ordine del giudice ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ.”10. Sembrerebbe, quindi, escluso che possa formularsi una censura per la mancata di integrazione del contraddittorio per violazione dell’art. 331 c.p.c. in sede di legittimità, quando non si tratti di una violazione inerente ad un rapporto di litisconsorzio inziale e, quindi, sostanziale11. Tale procedimento argomentativo, a mio avviso, potrebbe rendere ancora più difficile comprendere la decisione di non integrare il contraddittorio assunta dalla Suprema Corte con la pronuncia che qui si commenta. Nel caso che ci compete esaminare, infatti, la Corte si è trovata dinnanzi ad un motivo di ricorso con il quale si chiedeva di dichiarare la nullità del-

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Così Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, 242 ss. Sul punto vedi Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, 394 ss. Contra Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, 1126 ss., secondo cui in ipotesi di questo genere il terzo pretermesso, essendo titolare di un rapporto dipendente da quello dedotto in giudizio, sarebbe in ogni caso soggetto all’efficacia riflessa della sentenza emanata in sua assenza e potrebbe, conseguentemente, esperire la sola opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, co.2, c.p.c. 9 Cfr. Cass. civ., sez. III, n. 21381/2018. 10 Vedi Cass. civ., n. 21381/2018; cfr. anche Cass. civ., n. 12608/1997. 11 Secondo Cass. civ., n. 21381/2018, la ratio di tale procedimento argomentativo si ricaverebbe dalla inoperatività, nel caso di specie, della regola dell’art. 157, co. 3, c.p.c. Tale regola si baserebbe sul seguente principio di diritto: “a) la regola di cui all’art. 157, terzo comma, cod. proc. civ., secondo cui la parte che ha determinato la nullità non può rilevarla, non opera allorquando si tratti di una nullità rilevabile anche d’ufficio, ma tale inoperatività, essendo correlata alla durata del potere officioso del giudice, dura fino a che esso persiste e, dunque, fino a quando il giudice davanti al quale la nullità si è verificata non decide omettendo di rilevarla. Una volta sopravvenuta tale decisione omissiva, la regola dell’art. 157, terzo comma, invece si riespande e, pertanto, la parte che ha dato causa alla nullità con il suo comportamento ed anche quella che non l’ha rilevata così contribuendo al permanere della nullità non possono dedurla come motivo di nullità della sentenza, a meno che si tratti di una nullità per cui la legge prevede il rilievo officioso ad iniziativa del giudice anche nel grado di giudizio successivo che riceve l’impugnazione”. Conseguentemente, sarebbe, invece, sempre ammissibile il ricorso per violazione dell’art. 102 c.p.c. (o 107 c.p.c.) trattandosi di nullità rilevabili in ogni stato e grado del giudizio e che, quindi, non soggiacciono alla suddetta regola. 8

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la sentenza gravata e dell’intero giudizio per la non integrità del contraddittorio nei confronti di tutti i comproprietari (iure succesionis) del bene oggetto della domanda di usucapione. Appare evidente che, dinnanzi ad una fattispecie di questo tipo, non possa che ritenersi sussistente una violazione di litisconsorzio iniziale, in quanto legato a rapporti di diritto sostanziale fra le parti preesistenti al giudizio e, quindi, non di litisconsorzio meramente processuale, da cui il conseguente obbligo di procedere alla integrazione del contraddittorio12. Invece, come si evince dalla lettura dell’ordinanza, la Corte ha deciso di non procedere alla integrazione, nonostante si trattasse, per l’appunto, di litisconsorzio sostanziale, e di giustificare tale anomala decisione con la necessaria esigenza di tutelare un interesse che, a seguito di un attento bilanciamento di valori contrapposti, è risultato essere superiore a quello della ricelebrazione del giudizio in presenza di tutte le parti: la ragionevole durata del processo. In particolare, il collegio ritiene che, proprio in relazione alle recenti esigenze di garantire la ragionevole durata del processo, come richiesto dall’ art. 111 della Cost. e dagli artt. 6 e 13 della CEDU, la questione inerente alla violazione del contradditorio ex art. 102 c.p.c., “vada messa a fuoco attraverso il prisma dell’interesse ad agire (e ad impugnare) cristallizzato nell’art. 100” e vada altresì riletta alla luce delle predette norme.

3. La carenza di interesse consente la disapplicazione di regole processuali.

La Suprema Corte, dopo aver ribadito il proprio fermo indirizzo secondo cui la domanda diretta all’accertamento della usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata13, ritiene che tale affermazione non sarebbe però risolutiva nel caso di specie, in quanto il problema che il collegio si trova a dover risolvere, per pronunciarsi sul motivo di ricorso in questione, è quello circa l’ammissibilità dell’impugnazione “con cui la parte che abbia agito in giudizio senza convenirvi tutti i contraddittori necessari (e senza sollecitare, al riguardo, l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice) chieda di dichiararsi la nullità della sentenza di rigetto della sua domanda per essere stata la stessa resa a contraddittorio non integro”14. Dunque, secondo il collegio, l’ammissibilità o meno della domanda, con cui la parte chiede di dichiararsi la nullità della sentenza per violazione del contradditorio, va esaminata sotto il più concreto profilo del reale interesse per il ricorrente alla formulazione del suddetto motivo di impugnazione (impedire che, all’esito del giudizio, la sentenza che

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Stante il ragionamento che la Suprema Corte svolge nella pronuncia n. 21381/2018, infatti, in un caso come questo il collegio avrebbe dovuto procedere alla integrazione del contraddittorio e rimettere la causa al giudice di rinvio, così da consentire di celebrare nuovamente il giudizio in presenza di tutti i comproprietari. 13 Vedi Cass. civ., n. 24071/2019; cfr. anche Cass. civ., n. 15619/2018 e Cass. civ., n. 5559/94. 14 Cass. civ., n. 24071/2019.

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riconosca il diritto dal medesimo azionato risulti inutiliter data) e della effettiva neccessarietà di procedere alla richiesta integrazione per tutelare i comproprietari pretermessi e dare loro la possibilità di difendersi in giudizio. È proprio analizzando questi aspetti che la Corte ha ritenuto non sussistente alcun interesse, né in capo all’attore né in capo ai convenuti, alla rinnovazione del giudizio, facendone discendere l’inammissibilità della domanda. In particolare, tale insussistenza deriva, secondo la Corte, dal sicuro rigetto della domanda del ricorrente anche in sede di legittimità, data l’infondatezza degli altri motivi formulati; conseguentemente, ritiene il collegio, a nulla avrebbe potuto giovare, per il ricorrente, la ricelebrazione del giudizio in presenza dei comproprietari pretermessi. Questi ultimi, al tempo stesso, non avrebbero subito alcun danno dalle pronunce di rigetto della domanda di usucapione in quanto, essendo comproprietari, debbono comunque considerarsi “virtualmente vittoriosi”. Da ciò la Corte afferma che “quindi, in definitiva, l’unico interesse alla ripetizione del processo riconoscibile in capo ai ricorrenti è individuabile non nella esigenza di rimediare ad un vulnus recato al loro diritto di difesa ed al loro diritto al contraddittorio dalla mancata partecipazione al giudizio dei litisconsorti necessari pretermessi, ma nella speranza che un nuovo giudizio si concluda con esito diverso da quello già celebrato”15. Per quanto il ragionamento che il collegio sviluppa sia effettivamente calzante al caso di specie, al tempo stesso non lascia pienamente soddisfatti e solleva molti interrogativi. Può la Corte di cassazione, dinnanzi ad una violazione del rapporto di litisconsorzio necessario, per di più sostanziale, decidere, evidenziando una carenza di interesse alla rinnovazione del giudizio per esito già certo dello stesso (ma è certo davvero?), di non dichiarare la nullità della sentenza e non consentire, quindi, la nuova celebrazione del processo a contraddittorio integro? Analizzando nel dettaglio quello che è stato il percorso argomentativo sviluppato dalla Corte per dichiarare l’inammissibilità della domanda, si nota che il punto fondamentale, attorno al quale poi si sono sviluppate tutte le conseguenti conclusioni, è stato quello relativo alla determinazione dell’effettivo interesse del ricorrente alla formulazione del motivo di ricorso in questione. L’accertamento circa la sussistenza dell’interesse ad agire consiste in una astratta prospettazione circa l’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunciata. Indipendentemente dalla valutazione circa la fondatezza o meno della domanda formulata, l’interesse ad agire sussisterà quando all’ipotetico accoglimento della domanda potrà conseguire un effettivo vantaggio giuridico per l’istante, che sia oggettivamente valutabile16. La disposizione contenuta nell’art. 100 c.p.c., dunque, esprime la classica esigenza della necessaria utilità del processo e, quindi, il principio secondo cui nessuno ha diritto ad instaurare un giudizio destinato a sfociare in un risultato inutile e, cioè, giuridicamente non apprezzabile17.

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Cass. civ., n. 24071/2019. Sassani e Valerini, L’interesse ad agire, in Comm. cod. proc. civ., Camoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, vol. II, Torino, 2012, 15 ss. 17 Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, Saggi di diritto processuale, I, Roma, 1930, 73 ss.; Chiovenda, Azioni e sentenze di mero 16

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Nel caso che ci interessa, il collegio ha ritenuto che l’accoglimento della domanda di parte ricorrente, con cui si censurava la nullità della sentenza per violazione del contraddittorio, non avrebbe potuto portare alcuna effettiva utilità all’istante in quanto, in ogni caso, non sarebbe mutato l’esisto del giudizio, stante l’infondatezza degli altri mezzi di ricorso formulati. Allo stesso tempo, la Corte, ha ritenuto che nessun danno poteva prospettarsi per i litisconsorti pretermessi a seguito della mancata integrazione del contraddittorio, essendo questi ultimi comproprietari del bene e, quindi, virtualmente vittoriosi. Operando un bilanciamento tra la situazione in tal modo prospettata e l’esigenza di garantire una ragionevole durata del processo, secondo quanto previsto dall’art. 111 Cost. e dagli artt. 6 e 13 della CEDU, il collegio ha ritenuto che una reiterazione del giudizio in assenza di una qualsivoglia lesione della posizione giuridica dei litisconsorti pretermessi e del diritto di difesa dell’attore, sarebbe risultata contraria alle esigenze di economia processuale, strumentali all’attuazione dei principi enunciati dalle norme poc’anzi ricordate18. La problematica che soggiace a questo tipo di ragionamento si trova, probabilmente, nella possibilità o meno di massimizzare un principio come questo. Sarebbe sicuramente più garantistica per le parti, infatti, un’attuazione di tale principio legata ad una valutazione da svolgersi caso per caso, senza alcuna generalizzazione del meccanismo per cui, data l’infondatezza della domanda, si possa dichiarare l’inammissibilità della censura circa la nullità della sentenza per violazione dell’art. 102 c.p.c. In primo luogo, infatti, prospettando una applicazione generalizzata di tale meccanismo si rischia di consentire al giudice di porre in essere una decisione che potremmo definire quasi equitativa piuttosto che legale, procedendo così, secondo una valutazione di opportunità, ad una disapplicazione delle norme processuali quando si riscontri una carenza di interesse delle parti alla loro effettiva attuazione. In secondo luogo si deve sottolineare come, pur ammettendo la possibilità di procedere a tale disapplicazione solo in seguito ad uno specifico esame del caso concreto, non si può comunque negare che tale svilimento di fondamentali principi del processo civile lascia ancora insoddisfatti. Indubbiamente, impendendo che il giudizio venga nuovamente celebrato a contraddittorio integro, si determina, infatti, una lesione di specifiche attività

accertamento, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1933, I, 3 ss.; Invrea, Interesse e azione, in Riv. Dir. processuale, 1928, I, 329 ss.; Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983. 18 Cass. civ., n. 24071/2019, dove in particolare si dice “che, in coerenza con tale lettura sistematica del principio della ragionevole durata del processo, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 26373/08, hanno affermato che, nel caso di evidente inammissibilità del ricorso per cassazione, è superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del medesimo alla parte totalmente vittoriosa in appello, chiarendo che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, secondo comma Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111, secondo comma Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti”.

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difensive che solo la parte, una volta chiamata in causa, potrà svolgere19. Quand’anche, però, venga a determinarsi una situazione, come nel caso di specie, dove apparentemente non sussiste alcuna lesione derivante dalla mancata integrazione del contraddittorio, né in capo alle parti in causa né a quelle pretermesse, il rischio derivante dalla decisone del giudice di non applicare la disposizione contenuta nell’art. 102 c.p.c., è quello che si arrivi a ritenere necessario il rispetto delle regole processuali solo quando sia comprovata la lesione che la non applicazione di queste ultime determinerebbe nella sfera giuridica dell’attore e dei pretermessi. Quanto appena detto significherebbe che, quando non sussista alcuna lesione verso le parti e i litisconsorti pretermessi, il giudice può decidere, discrezionalmente, di non applicare le regole sul contraddittorio. Tale affermazione, ovviamente, non può che destare preoccupazione. L’applicazione delle norme che regolano il processo civile è una delle più importanti forme garantistiche che il sistema giudiziale offre. La certezza di sapere come e in quali modalità si svolgerà il giudizio, che si intende iniziare o nel quale si è convenuti, consente ai soggetti interessati di decidere consapevolmente come e quando esercitare o rivendicare un proprio diritto. Immaginare che il giudice possa discrezionalmente valutare l’applicazione di regole fondamentali, quali quelle inerenti alla realizzazione del contraddittorio e, quindi, dell’esercizio del diritto di difesa, non è cosa facile da elaborare. Deve però, al tempo stesso, comprendersi la necessità di garantire il rispetto del principio della ragionevole durata del processo, cristallizzato nell’art. 111 della Cost. e negli artt. 6 e 13 della CEDU, e di reprimere, quindi, ogni forma di abuso del processo (art. 88 c.p.c.). Come fare a bilanciare l’interesse alla corretta e puntuale applicazione delle regole processuali con l’esigenza di consentire una durata più breve (o comunque più giusta) dei giudizi senza lasciare che, per mere strategie di difesa processuale, i tempi si allunghino in modo inaccettabile? Non è semplice trovare una risposta. La strada che questa ordinanza persegue, utilizzando la carenza di interesse alla integrazione del contraddittorio quale strumento per dichiarare l’inammissibilità della domanda, è sicuramente ottimale nell’ottica di garantire la ragionevole durata del giudizio. Nel caso di specie, infatti, la carenza di interesse alla richiesta di integrazione del contraddittorio, formulata per la prima volta in sede di legittimità, dinnanzi al sicuro rigetto nel merito delle domande di parte attrice, è evidente. Nell’ottica di garantire, dunque, la ragionevole durata del giudizio, la Corte ha correttamente ritenuto inutile consentire la ricelebrazione del processo in presenza dei pretermessi, stante la sicura infondatezza delle domande nel merito. È proprio la preventiva valutazione della infondatezza delle altre domande che consente di apprezzare ancora di più il ragionamento svolto dal collegio. La dichiarazione di inammissibilità per carenza

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Sul punto vedi Scarselli, nota a Cass. civ., n. 20152/2019, in Riv. Judicium – il processo civile in Italia ed in Europa, secondo cui “Per sapere in qual modo la parte assente possa esercitare il suo diritto al contraddittorio non c’è che un modo, chiederglielo; ma per chiederglielo non si può che ordinare la sua partecipazione al giudizio, così come necessariamente dispone l’art. 102, 2° comma c.p.c.”.

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di interesse del motivo di ricorso denunciante la nullità della sentenza e dell’intero giudizio per violazione dell’art. 102 c.p.c., infatti, non poteva che essere subordinata ad un preventivo esame della fondatezza della questione nel merito. Se dall’esame degli altri motivi fosse emersa la possibilità di giungere ad una differente decisione con l’intervento in giudizio dei pretermessi, l’integrazione del contraddittorio, certamente, non si sarebbe potuta negare. È la carenza di interesse che regola, quindi, l’intera vicenda: se l’intervento in giudizio dei pretermessi nulla potrà cambiare nel processo sino a questo momento svolto, per quale ragione annullare quanto fino ad ora fatto e ricominciare da zero tutto il giudizio per giungere sempre e comunque allo stesso risultato finale di rigetto della domanda per infondatezza nel merito? Si rischierebbe in questo modo di cadere in un eccessivo formalismo che non può fare altro che ledere all’economia processuale. Per evitare tutto ciò sembra, allora, più corretto ammettere che, in casi come questo, il giudice possa attuare una valutazione discrezionale per decidere se è più importante applicare in modo, potremmo dire quasi automatico, le regole processuali dettate dal codice di rito o se, invece, si possa procedere ad un bilanciamento di valori e verificare cosa effettivamente sia prioritario tutelare di volta in volta. Nel caso che qui si esamina, essendo chiaro agli occhi del collegio che nulla avrebbe potuto cambiare una nuova celebrazione del giudizio in presenza dei comproprietari pretermessi in quanto, comunque, la domanda di usucapione sarebbe stata rigettata, la Corte ha ritento più importante valorizzare il risetto del principio di ragionevole durata del processo, ai sensi dell’art. 111 della Cost. e degli artt. 6 e 13 della CEDU, evitando di fare ricelebrare inutilmente un processo. Sulla base di queste considerazioni si potrebbe dire, dunque, che la soluzione adottata dal collegio è stata, nel caso di specie, la migliore che si potesse prendere nell’ottica di rispettare le esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del giudizio. Sicuramente, però, bisogna sottolineare che il ragionamento che la Corte fa nell’ordinanza in questione non può essere massimizzato e generalmente applicato a tutti i casi analoghi, ma deve sempre essere sempre preceduto da un’attenta valutazione del caso concreto dove, tenuto conto di tutte le ipotesi, vi sia la certezza che in ogni caso la presenza di tutti i litisconsorti nulla avrebbe potuto cambiare nell’esito del giudizio.

4. Possibili aperture verso l’ammissibilità di un giudicato ultra partes.

Un’ultima importante questione che si deve affrontare, quando si tratta di problemi relativi all’integrità del contraddittorio, è quella riguardante la formazione del giudicato. Generalmente, la sentenza pronunciata a contradittorio non integro viene considerata inutiliter data e, quindi, incapace di produrre effetti nei confronti delle parti in causa e, tanto meno, nei confronti dei soggetti pretermessi. L’inutilità della pronuncia deriverebbe dal fatto che la sentenza emessa a litisconsorzio non integro finirebbe per produrre

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effetti diversi da quelli astrattamente previsti dalla legge20. In particolare, nell’ ipotesi di una situazione sostanziale plurisoggettiva, la necessità del litisconsorzio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. si verificherebbe ogni volta che la domanda formulata sia diretta ad ottenere un titolo prevalente a quello imputabile congiuntamente ad una pluralità di soggetti : in tale caso la mancata partecipazione al processo di alcuni dei soggetti consentirebbe a questi di continuare a giovarsi di un titolo incompatibile con quello fatto valere dall’attore, impendendogli così di conseguire il risultato giuridico perseguito con il giudizio21. La necessità stessa del litisconsorzio sarebbe, quindi, legata non tanto all’esistenza di rapporto giuridici unici con pluralità di parti né tanto meno ad un presunto principio di corrispondenza necessaria fra le parti del processo e le parti del rapporto sostanziale “ma dall’idoneità stessa della sentenza a fornire all’attore quello che egli avrebbe diritto di conseguire alla stregua delle disposizioni sostanziali. Vale a dire ciò che Chiovenda aveva definito l’utilità della sentenza”22. Le regole sull’ litisconsorzio devono, dunque, considerarsi funzionali soprattutto alla pronuncia di una sentenza utile. Se, come abbiamo precedentemente visto, l’inefficacia della decisione si attenua quando la violazione riguarda particolari ipotesi di litisconsorzio necessario (processuale e propter opportunitatem)23, certamente questa opererà pienamente quando si tratti di violazione di litisconsorzio necessario sostanziale. Tale ipotesi di litisconsorzio sarebbe proprio quella verificatasi nel caso che qui si esamina. Ci si potrebbe, dunque, domandare se possa attribuirsi un qualche valore al giudicato formatosi su questa pronuncia e se, in qualche modo, questo possa considerarsi efficace. Se si vuole tentare di superare l’idea della radicale inefficacia della sentenza e, quindi, della sua inutilità, si potrebbe provare ad ipotizzare una efficacia della stessa che si realizzi solo fra le parti in giudizio e, per i soli effetti positivi, anche nei confronti dei pretermessi. Ragionando in questi termini possiamo fare riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione a SS.UU. n. 14815 /2008, nella quale si afferma, in tema di accertamento dei redditi da parte dell’amministrazione finanziaria per pagamento di imposte per le società di persone, che, nel giudizio che si insatura tra società opponente e amministrazione finanziaria, i soci sono litisconsorti necessari24. Conseguentemente a tale affermazione, la

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Cfr. Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Jovene, 1979, 490 ss. Cfr. Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, 473 ss. 22 Cfr. Costantino, op. cit., 468. 23 Cfr. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, 242 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, 394 ss. 24 Vedi Cass. SS.UU., n. 14815/2008 dove si dice che “nel caso in cui venga proposto ricorso avverso un avviso di rettifica della dichiarazione dei redditi di una società di persone, o avverso un avviso di rettifica notificato ad un socio, in conseguenza della rettifica del reddito della società, ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario originario tra tutti i soci e la società, purché il ricorso venga proposto per contestare il reddito della società o le modalità del suo accertamento” e ancora “La unitarietà dell’accertamento che è (o deve essere) alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società ed associazioni di cui all’art. 5 cit. TUIR e dei soci delle stesse (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40) e la conseguente automatica imputazione dei redditi della società a ciascun socio proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili, indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso proposto da uno dei soci o dalla società, anche avverso un solo avviso di rettifica, riguarda inscindibilmente la società ed i soci (salvo che questi prospettino questioni personali), i quali tutti devono essere parte nello stesso processo, e la controversia non può 21

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Suprema Corte, afferma il principio di diritto per cui, quando il contraddittorio non risulti integrato nei confronti di tutti i soci, questi potranno giovarsi degli effetti del giudicato a loro favorevole, mentre l’amministrazione finanziaria non potrà opporre loro gli effetti negativi derivanti dallo stesso25. Tale prospettazione operata dalle Sezioni Unite consente di immaginare che possa operarsi un simile ragionamento anche nel caso oggetto di questo studio: l’idea che, nel nostro caso i comproprietari, possano giovarsi degli effetti positivi del giudicato nei loro confronti e, quindi, che possano opporre tali effetti nel caso in cui vengano successivamente coinvolti in un altro giudizio, non deve per forza condannarsi. Ammettere questa efficacia espansiva del giudicato per i soli effetti positivi, i quali si concretizzerebbero nell’accertamento negativo del diritto di usucapire il bene da parte degli attori, potrebbe essere un buon modo per contemperare l’esigenza di rispettare il principio della ragionevole durata del processo e, al tempo stesso, garantire comunque una tutela ai litisconsorti pretermessi, quando, come nel caso di specie, si decida di non consentire l’integrazione del contraddittorio. Immaginare una tale efficacia espansiva del giudicato consentirebbe, a mio avviso, di accogliere con ancora più favore la decisione che qui si commenta. L’idea, infatti, che i pretermessi, pur non essendo potuti intervenire nel giudizio, possano, perlomeno, giovarsi degli effetti a loro favorevoli del giudicato lascia, indubbiamente, maggiormente soddisfatti.

essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, comma 1), perché non ha ad oggetto la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, cioè gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione (Cass. SS.UU. 1052/2007); trattasi pertanto di fattispecie di litisconsorzio necessario originario, con la conseguenza che: – il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati, destinatario di un atto impositivo, apre la strada al giudizio necessariamente collettivo ed il giudice adito in primo grado deve ordinare l’integrazione del contraddittorio (a meno che non si possa disporre la riunione dei ricorsi proposti separatamente, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 29); il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari è nullo per violazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 101 c.p.c. e art. 111 Cost., comma 2, e trattasi di nullità che può e deve essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio”. 25 Vedi Cass. SS.UU., n. 14815/2008 secondo cui “si deve ritenere che il giudicato di annullamento dell’avviso di accertamento notificato alla società, fa stato nel processo relativo ai soci, in ragione del carattere oggettivamente pregiudiziale dello stesso, in relazione al quale la mancata partecipazione al giudizio dei soci non è stato di alcun pregiudizio agli stessi. La pregiudizialità dell’accertamento non subisce i limiti soggettivi del giudicato nei confronti dei soggetti i quali, per quanto non abbiano partecipato al contraddittorio, siano totalmente vittoriosi. In altri termini, l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato alla società, giova ai soci che non hanno partecipato al giudizio, in quanto se avessero partecipano non avrebbero potuto fare di meglio. L’ufficio ha partecipato al giudizio (o è stato messo in condizione di parteciparvi) introdotto dal ricorso della società o di un socio e, quindi, non può invocare alcun limite del giudicato nei propri confronti. Analoghe considerazioni valgono in relazione all’eventuale annullamento parziale dell’atto di accertamento ‘presupposto’, che giova ai soci che non siano stati parte nel giudizio, senza pregiudicarli nel giudizio di annullamento totale. Si può dire che nella specie si verifica una sorta di pregiudizialità secundum eventum litis, che non giustifica la sospensione del processo pregiudicato, ma produce effetti, positivi e negativi, nei confronti dei soggetti che abbiano partecipato al processo ed effetti soltanto positivi nei confronti dei litisconsorti rimasti estranei al giudizio. I limiti soggettivi del giudicato garantiscono che nessuna statuizione pregiudizievole venga adottata senza che il destinatario di tali statuizioni si sia potuto difendere. In sintesi, l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato alla società, sancito con sentenza passata in giudicato, spiega i suoi effetti a favore di tutti i soci, i quali possono opporlo alla amministrazione finanziaria, che è stata parte in causa nel relativo processo (esercitando quindi, senza limitazioni di sorta il diritto di difesa). A meno che l’annullamento non sia stato pronunciato per tardiva notifica dell’atto impositivo (decadenza), o per altra causa non rapportabile ai soci (ad es. nullità della notifica, vizi di motivazione dell’atto notificato alla società che non ricorra anche nell’avviso notificato ai soci)”.

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Non si può negare, inoltre, che ammettere questa efficacia ultra partes produrrebbe benefici anche relativamente al problema riguardante la formazione di possibili giudicati contrastanti26. Se si vuole, invece, escludere a priori la prospettazione qui svolta, rimane però difficile, a mio sommesso parere, comprendere quale possa essere, per l’appunto, l’utilità della pronuncia e, soprattutto, quale possa essere stato l’interesse per i ricorrenti nel denunciare la nullità della sentenza per violazione dell’art. 102 c.p.c. in sede di legittimità anziché ripetere il giudizio agendo anche contro i pretermessi. Sicuramente non è facile immaginare una così immediata applicabilità, nell’ambito del processo civile, delle regole che la giurisprudenza ha pensato per il processo tributario. Trattandosi, però, di giurisprudenza delle Sezioni Unite, sicuramente il contenuto di tale pronuncia deve essere sottoposto ad una lettura più approfondita ed a una interpretazione di più ampio respiro e non legata solo ed esclusivamente al panorama giurisprudenziale tributario. Sulla base di tali considerazioni, da tenere presente è il punto di partenza del ragionamento interpretativo della Suprema Corte, che ha poi portato alle Sezioni Unite del 2008; tale ragionamento si fonda su di una interpretazione estensiva dell’art. 1306, co.2, c.c.27, che ha determinato il riconoscimento della forza espansiva del giudicato favorevole anche nel processo tributario, estendendo così la tutela del coobbligato solidale che non abbia impugnato l’avviso di accertamento28. Tale interpretazione estensiva del secondo comma dell’art. 1306 c.c. garantisce così coloro che non abbiano potuto prendere parte al giudizio, introducendo una deroga rispetto a quanto previsto dal primo comma dello stesso articolo29. Si può affermare, dunque, che è proprio dall’interpretazione estensiva di una norma del codice civile che le Sezioni Unite del 2008 sono arrivate ad ammettere una efficacia espansiva del giudicato favorevole verso i pretermessi nel processo tributario30. Da tutto

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Cfr. Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, 467 ss. Ai sensi dell’art. 1306 c.c. “La sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori [2909] (1). Gli altri debitori possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali al condebitore; gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a ciascuno di essi (2)”. 28 Vedi Cass. SS.UU., n. 1057/2007; Cass. SS.UU., n. 14815/2008. 29 Sul punto vedi Rubino, Delle obbligazioni, in Commentario al Codice Civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1968, 236 ss. secondo cui: “La norma di cui al secondo comma è stata introdotta non per ragioni tecniche, ma in base a una valutazione degli interessi in conflitto, consentendo in via eccezionale che la sentenza venga utilizzata dai coobbligati che non hanno preso parte al giudizio, se ad essi favorevole. È da sottolineare poi che anche quando la sentenza è favorevole agli altri litisconsorti, non se ne ammette un’efficacia immediata, ‘ipso jure’, nei loro confronti, ma semplicemente si attribuisce ad essi il potere di avvalersene; perciò il giudice non potrebbe rilevare d’ufficio tale estensione di efficacia, cioè, in definitiva, l’esistenza della prima sentenza (neanche quando, essendo essa favorevole agli altri consorti, si presenti come eccezione di cosa giudicata, mentre invece tale eccezione è rilevabile d’ufficio quando ricorre tra le medesime parti del primo giudizio) ma all’uopo occorre che sia invocata dall’avente diritto”. Infatti mentre il primo comma statuisce che la sentenza “‘non ha effetto’ rispetto agli altri consorti, rimasti estranei al giudizio, il secondo comma utilizza una formulazione diversa: vi si legge infatti che gli altri debitori ‘possono opporla’ (e che gli altri creditori in solido ‘possono farla valere’)”. 30 Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006; Albertini, In tema di litisconsorzio necessario nel processo tributario, secondo il nuovo orientamento della Corte di Cassazione, in Giur. It., 2007, 1545. Cfr. anche Cass. SS.UU. 4 giugno 2008, n. 14815, in Corr. trib., 2008, 2270 ss., con nota di Basilavecchia, e in Corr. giur., 2008, con nota di Baccagliani. 27

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ciò si potrebbe, allora, svolgendo un’interpretazione più ampia dell’art. 1306, co. 2, c.c., da intendere quale noma di sistema e non solo come semplice norma sulle obbligazioni solidali, immaginare che la giurisprudenza civile possa trarre una chiave interpretativa che consenta di riconoscere tali effetti espansivi del giudicato anche nel processo civile in generale, alla luce delle nuove esigenze di assicurare la ragionevole durata del processo. Il riconoscimento di una tale forza espansiva del giudicato, limitatamente ai suoi effetti favorevoli anche verso i pretermessi, renderebbe sicuramente più agevole ammettere l’esistenza in capo al giudice di un potere di valutazione circa l’opportunità di applicare o meno alcune regole processuali quando, successivamente ad un bilanciamento di valori da tutelare, risulti preminente rispettare il principio della ragionevole durata del processo dinnanzi ad una rilevata insussistenza dell’effettivo interesse delle parti all’applicazione delle regole invocate. Escludendo tali effetti espansivi del giudicato, rimane, invece, molto più complesso ipotizzare, guardando agli interessi dei pretermessi, che il giudice possa procedere a valutazioni discrezionali sull’applicabilità di regole, quali quelle relative all’integrità del contraddittorio, e, come nel caso di specie, negarne l’integrazione, così sostanzialmente impedendo ai pretermessi di intervenire per difendersi nel processo ed ottenere una pronuncia ad essi favorevole. Nonostante, infatti, si concordi con il collegio nel ritenere che un intervento in causa dei comproprietari pretermessi non avrebbe determinato, nel caso di specie, alcuna differenza nell’esito del giudizio (e sarebbe stato, quindi, un mero allungamento dei tempi processuali), non si può, però, a priori ritenere che i pretermessi non avessero alcun interesse ad ottenere un giudicato ad essi favorevole e del quale potersi giovare in un futuro giudizio. Sostenere, dunque, che per ragioni di economia processuale si possa impedire a soggetti, che per loro diritto avrebbero dovuto essere chiamati nel giudizio, di partecipare al processo e di usufruire degli effetti del giudicato, senza ammettere neppure che il giudicato a loro favorevole produca effetti anche nei loro confronti, è sicuramente rischioso. Una apertura per ammettere un generale potere di valutazione discrezionale del giudice sull’applicazione delle regole del processo potrebbe, quindi, forse trovarsi nel riconoscimento di una più ampia efficacia del giudicato stesso che, determinando l’espansione dei soli effetti favorevoli anche verso coloro che non hanno potuto partecipare al giudizio, consentirebbe di agevolare la realizzazione del principio della ragionevole durata del processo, che altrimenti rischierebbe di rimanere strozzato nelle dinamiche dei complessi riti processuali. Margherita Pagnotta

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Giurisprudenza Trib. Roma, sezione specializzata in materia di impresa, Giudice dott.ssa Bernardo, ord. 12.6.2019, Torlonia C. / Torlonia Partecipazioni S.p.A. Provvedimenti cautelari – Sospensione dell’esecuzione di delibere assembleari – Delibere eseguite – Limiti – Permanenza degli effetti giuridici – Ammissibilità. È possibile sospendere l’efficacia di una delibera assembleare la cui esecuzione materiale risulti compiuta laddove la stessa continui comunque a produrre effetti giuridici permanenti idonei ad incidere sulla organizzazione societaria e sull’attività successiva, dovendosi ritenere che la sospensione operi sul piano degli effetti giuridici e non su quello della mera realtà fenomenica, risultando quindi svincolata dalle modificazioni della realtà nel frattempo intervenute, le quali dovranno essere conformate alla nuova situazione giuridica sotto il profilo degli aspetti restitutori e ripristinatori. L’unico limite alla concedibilità della sospensione va individuato nella avvenuta compiuta produzione degli effetti giuridici dell’atto impugnato, che comporti esiti irreversibili. Provvedimenti cautelari – Sospensione dell’esecuzione di delibere assembleari – Delibera di approvazione di un accordo quadro avente rilievo organizzativo – Sospensione della delibera nonostante la sua esecuzione mediante sottoscrizione dell’accordo – Permanenza degli effetti giuridici della delibera eseguita – Ammissibilità. Alla luce di tale principio, è possibile sospendere l’efficacia di una delibera con cui l’assemblea ha approvato l’impegno a sottoscrivere un “accordo-quadro” che contemplava, tra l’altro, al fine di attuare una operazione di “salvataggio” di una banca partecipata dalla medesima società, l’azzeramento della partecipazione detenuta nella banca e l’aumento del capitale a cura di altri soggetti, con conseguente estromissione della prima dalla compagine societaria; non osta infatti alla concessione della misura cautelare l’avvenuta sottoscrizione del citato accordo quadro da parte dell’amministratore unico della società, rappresentando tale sottoscrizione esclusivamente il primo atto esecutivo della delibera, i cui effetti giuridici, tuttavia, sono destinati ancora a prodursi e sono ancora idonei ad incidere sulla organizzazione societaria e sull’attività successiva, non essendo stata ancora portata a termine l’intera operazione.

(Omissis) Premesso in fatto. – Con atto di citazione, ritualmente notificato, Torlonia Carlo conveniva in giudizio la società Torlonia Partecipazioni spa., al fine di sentir dichiarare la invalidità della delibera assunta dall’assemblea dei soci in data 4 dicembre 2018, con la quale era stata approvata ed autorizzata la sottoscrizione dell’Accordo Quadro connesso all’operazione integrativa Igea Banca spa.-Banca del Fucino spa., dando mandato all’Amministratore unico di compiere tutto quanto eventualmente necessario per la completa esecuzione della deliberazione.

A fondamento dell’impugnazione, l’attore deduceva che: - era titolare di n. 245 azioni ordinarie della Torlonia Partecipazioni spa., pari al 24,5% del capitale sociale di € 1.000.000,00; - la Torlonia Partecipazioni spa. era una holding di partecipazioni ed il suo patrimonio era così composto: proprietà esclusiva di n. 115.630 azioni ordinarie della Banca del Fucino spa. (pari al 38,54% del capitale sociale); nuda proprietà di n. 37.370 azioni ordinarie della Banca del Fucino spa. (pari al 12,45% del capitale sociale); proprietà esclusiva di n. 99.972 azioni ordinarie della Finvest spa. (pari al 49,98% del capitale sociale);

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nuda proprietà di n. 100.000 azioni ordinarie della Finvest spa. (pari al 50% del capitale sociale); proprietà esclusiva di n. 474.000 azioni ordinarie della Società Romana di Partecipazioni Sociali spa. (pari al 95,95% del capitale sociale); - tenuto conto che la Società Romana di Partecipazioni spa. deteneva n. 168 azioni Finvest, la Torlonia Partecipazioni spa. –in proprio (49,98%) e attraverso la Società Romana di Partecipazioni spa. (0,02%)- era titolare complessivamente del 50% del capitale sociale della Finvest in piena proprietà e del restante 50% in nuda proprietà; - inoltre, essendo la Finvest titolare del 49% del capitale sociale della Banca del Fucino, la Torlonia Partecipazioni spa., direttamente ed indirettamente tramite la Finvest, era titolare dell’87,55% del capitale sociale della Banca del Fucino, che costituiva l’attivo principale, pressochè unico della società convenuta. Il restante 12,45% del capitale sociale della Banca del Fucino spa. era nella nuda proprietà sempre della Torlonia Partecipazioni spa.; - nel maggio 2017, la Torlonia Partecipazioni aveva accresciuto il proprio investimento nella Banca del Fucino spa., acquistando dalla Società Romana di Partecipazioni Sociali spa. n. 24.200 azioni della Banca (pari all’8,07% del capitale sociale), sebbene il bilancio 2016 presentasse perdite di esercizio per oltre € 47.000.000 e svalutazioni per crediti deteriorati per oltre € 70.000.000; - la Banca del Fucino era stata fondata nel 1923 dalla famiglia Torlonia ed attualmente aveva un capitale sociale di € 60.000.000; - Alexander Poma Murialdo era componente del Cda della Banca dal 4 giugno 2008 e, dal 14 luglio 2014, ne era diventato Presidente; - nel corso dell’assemblea del 4 dicembre 2018, il predetto Alexander Poma Murialdo, nella veste di Amministratore Unico della Torlonia Partecipazioni spa. aveva informato i soci che le perdite dell’esercizio 2018 avevano integralmente azzerato il valore della partecipazione nella

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Banca del Fucino e che, per superare lo stato di sostanziale dissesto, era necessario procedere ad un aumento di capitale della Banca sino ad € 200.000.000, con esclusione del diritto di opzione dei soci e riservato a terzi investitori, prima tra i quali Banca Igea spa., con conseguente integrale esclusione della Torlonia Partecipazioni spa. dall’azionariato; che era necessaria la cessione a terzi dei crediti deteriorati pari ad € 314.000.000; che la Torlonia Partecipazioni spa., sebbene esclusa dal capitale sociale, doveva provvedere entro il 30 aprile 2019, in solido con la Finvest, al ripianamento delle perdite nella Banca versando la somma di € 6.000.000 a fondo perduto; che entro il 31 dicembre 2021 la Torlonia Partecipazioni spa. doveva versare, sempre in solido con la Finvest, una somma ulteriore compresa tra 14 e 25 milioni di euro, a seguito di un ulteriore aumento di capitale a pagamento; - con tale operazione straordinaria, quindi, si voleva attribuire a terzi la titolarità integrale del capitale della Banca del Fucino, obbligando però la famiglia Torlonia (per mezzo della Torlonia Partecipazioni spa. e Finvest) a versare un importo complessivo compreso tra 20 e 31 milioni di euro; - in altre parole, si voleva stipulare un accordo di salvataggio con l’effetto di far pagare alla famiglia Torlonia anni di cattiva gestione, che avevano portato ad un dissesto a lungo celato; - del resto, i reiterati atti di mala gestio compiuti nella gestione della Banca del Fucino erano stati analiticamente accertati e contestati dalla Banca d’Italia nel corso della propria attività ispettiva, con conseguente irrogazione di sanzioni per € 350.000; - in tale contesto di estremo allarme, tra il 2016 ed il 2017 Alexander Poma Murialdo (legale rappresentante sia della Banca del Fucino che della Torlonia Partecipazioni) aveva compiuto una sorprendente operazione immobiliare-finanziaria: in particolare la Società Romana di Partecipazioni


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Sociali spa. (controllata al 95,95% dalla Torlonia Partecipazioni spa. e sempre amministrata da Alexander Poma Murialdo) aveva venduto alla Banca del Fucino l’immobile sito in Roma, via Tomacelli 139, già condotto in locazione dalla Banca al prezzo di € 30,27 senza tuttavia curarsi di pretenderne il pagamento; successivamente, a dicembre 2016, la Società Romana di Partecipazioni Sociali spa. aveva rinunciato al credito in questione nei confronti della Banca, sostanzialmente compiendo in suo favore un versamento a fondo perduto (ciò si ricavava dal verbale ispettivo della Banca d’Italia e risultava dallo stesso bilancio 2016 della Banca del Fucino); - di fronte a questo gravissimo atto di depauperamento, la Torlonia Partecipazioni spa. era stata tenuta all’oscuro del dissesto della Banca del Fucino e, anzi, le era stato fatto credere che fosse vantaggioso acquistare ulteriori azioni pari all’8% circa del capitale sociale, per il prezzo di € 31,2 milioni; - invece, a maggio 2017 la situazione della Banca del Fucino era ben diversa, ciò risultando non solo dall’ispezione della Banca d’Italia, ma anche dalla stessa Relazione al bilancio 2017 del Consiglio di amministrazione della banca, presieduto da Alexander Poma Murialdo, al tempo stesso Amministratore unico della Torlonia Partecipazioni spa.; - in particolare, nel 2017 la banca aveva registrato uno sforamento dei requisiti patrimoniali prescritti dall’autorità di vigilanza; un netto incremento dei crediti deteriorati; una perdita di raccolta diretta dalla clientela; il disperato bisogno di ricapitalizzazione richiesta ai soci; - tuttavia, nessuna iniziativa era stata assunta per la sostituzione degli esponenti aziendali, né per avviare azioni di responsabilità considerato che Alexander Poma Murialdo era, al tempo stesso Amministratore unico della Torlonia Partecipazioni spa. e Presidente del Cda della Banca del Fucino; Alberto Sabatini e Paolo Saraceno erano

al tempo stesso componenti del Collegio sindacale sia della Torlonia Partecipazioni spa. sia della Banca del Fucino spa.; - tale inerzia (determinata dall’evidente situazione di conflitto di interessi) aveva trasformato la cattiva gestione in totale dissesto, con relativo azzeramento del valore della partecipazione detenuta dalla Torlonia Partecipazioni nella Banca del Fucino; - nella medesima strategia di conflitto di interessi in pregiudizio della Torlonia Partecipazioni spa. si collocava anche l’Accordo Quadro con la Banca Igea spa., approvato con la delibera del 4 dicembre 2018; - la situazione di fatto in cui si era svolta la suddetta assemblea era la seguente: a) Alexander Poma Murialdo era Amministratore unico della Torlonia Partecipazioni ed usufruttuario del 2% delle azioni, oltre ad essere Presidente del Cda della Banca del Fucino; b) il 2% dei voti era decisivo per la formazione della maggioranza assembleare, poiché il quorum era del 75% del capitale sociale, mentre i soci Giulio, Paola e Francesca Torlonia erano titolari del 73,5%; c) Giulio Torlonia, socio al 24,5%, era anche Vicepresidente del Cda della Banca del Fucino; d) la Banca del Fucino -principale (se non unico) asset della Torlonia Partecipazioni- aveva accumulato solo negli ultimi anni perdite per almeno 75 milioni di euro, dovendo dismettere crediti deteriorati per almeno 300 milioni di euro; e) l’Accordo Quadro negoziato con investitori terzi aveva l’effetto di cancellare la partecipazione della Torlonia Partecipazioni nella Banca del Fucino e di imporle il ripianamento dei danni causati dalla cattiva gestione della Banca negli ultimi anni; f) tra gli amministratori della Banca, cui era riferibile l’esito disastroso della gestione, vi erano innanzitutto Alexander Poma Murialdo e Giulio

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Torlonia, il voto dei quali era stato decisivo nella approvazione della delibera del 4 dicembre 2018; g) non a caso, infatti, Alexander Poma Murialdo aveva dichiarato espressamente di essere in conflitto di interessi e di astenersi dal voto; - la delibera approvata in data 4 dicembre 2018 era, quindi, invalida per i seguenti motivi: 1) violazione del diritto di informazione del socio: atteso che, nonostante le richieste, al socio Carlo Torlonia non era stata consentita la visione dell’Accordo Quadro in questione. In assenza di adeguate informazioni, il socio aveva ritenuto di non partecipare all’assemblea del 4 dicembre 2018; 2) violazione del quorum deliberativo: atteso che, ai sensi dell’art. 18 dello Statuto, per l’approvazione delle delibere assembleari era necessario il voto favorevole di tanti soci rappresentanti almeno i tre quarti del capitale sociale. Tuttavia, tale quorum non era stato raggiunto in quanto il voto favorevole era pari al 73,5% del capitale sociale presente, che a sua volta era del 75,5%. Di conseguenza, la delibera aveva ricevuto voti favorevoli pari al 55,5% del capitale sociale; 3) conflitto di interessi del socio Giulio Torlonia: atteso che egli era nel contempo Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della Banca del Fucino spa. e che non sarebbe stato sorprendente se nell’Accordo Quadro fosse stata prevista l’impunità degli esponenti aziendali della Banca del Fucino (ivi compreso Giulio Torlonia) per gli atti di mala gestio accertati dalla Banca d’Italia, con la previsione di un obbligo parasociale a carico della Banca Igea spa. e degli altri nuovi soci di deliberare la rinuncia alla azione sociale di responsabilità. Il voto favorevole di Giulio Torlonia era stato determinante per l’approvazione della delibera, cui conseguiva un danno per la società, rappresentato dagli obblighi ivi previsti a suo carico (tra cui l’impegno di versare € 6.000.000 a copertura delle perdite della Banca del Fucino entro il 30 aprile 2019 e l’impegno di versare una

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somma variabile tra 14 e 25 milioni di euro a titolo di ricapitalizzazione della Banca del Fucino entro il 31 dicembre 2021). Aggiungendo a ciò la probabile rinuncia della Banca del Fucino a far valere la responsabilità degli esponenti aziendali, a tutto danno del socio di controllo, con conseguente consolidamento della perdita (anzi dell’azzeramento) del valore della partecipazione. - Nell’ambito di tale giudizio –con separato ricorso- l’attore chiedeva altresì disporsi, ai sensi dell’art. 2378 c.c., la sospensione dell’esecuzione della deliberazione impugnata, evidenziando che non si sapeva se l’Accordo Quadro era stato già sottoscritto. Fissata l’udienza di comparizione, si costituiva la società convenuta, la quale preliminarmente eccepiva la improcedibilità o inammissibilità della domanda di sospensione, in quanto la delibera del 4 dicembre 2018 aveva avuto integrale esecuzione. In particolare, in data 6 dicembre 2018 l’amministratore unico della Torlonia Partecipazioni spa. aveva conferito procura speciale all’avv. Ferrazza, al fine di sottoscrivere l’Accordo Quadro, poi effettivamente sottoscritto. Peraltro, già in data 4 dicembre 2018 l’Amministratore unico della Torlonia Partecipazioni spa. era intervenuto nell’assemblea della Finvest spa., esprimendo voto favorevole all’operazione. Chiedeva, in ogni caso, il rigetto della istanza cautelare di sospensione, attesa la insussistenza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora. In particolare, deduceva che: - l’operazione prevista dall’Accordo Quadro era voluta proprio dalla Banca d’Italia, come noto a tutti gli operatori finanziari e non; - sulla dedotta violazione del diritto di informazione, l’ordine del giorno indicava chiaramente l’argomento sul quale l’assemblea doveva deliberare (e cioè l’Accordo Quadro connesso all’operazione integrativa Igea Banca spa.-Banca del Fucino spa.);


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- nessun diritto era riconosciuto ai soci di ricevere documenti prima dell’assemblea e la mancata partecipazione alla stessa era conseguente ad una libera scelta di Carlo Torlonia, che invece in assemblea avrebbe potuto visionare il documento; - quanto alla violazione del quorum deliberativo, ai sensi dell’art. 2368 c.c. le azioni, per le quali il diritto di voto non era stato esercitato a seguito di astensione per conflitto di interessi, non dovevano essere computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della delibera; - nel caso in esame, quindi, non doveva tenersi conto del 2% delle azioni sulle quali Alexander Poma Murialdo aveva il diritto di usufrutto e, di conseguenza, il quorum dei tre quarti del capitale sociale doveva considerarsi raggiunto con il 73,5%; - inoltre, sebbene le azioni costituite in usufrutto in favore di Alexander Poma Murialdo fossero state oggetto di sequestro giudiziario, alla data del 4 dicembre 2018 il custode non era stato ancora nominato; - quanto, infine, al conflitto di interessi, non v’era prova che questo fosse concreto ed attuale, essendo basato sui contenuti di un documento che la parte ricorrente non conosceva; - nessun danno grave ed irreparabile poteva discendere dalla esecuzione della delibera impugnata, se non un eventuale pregiudizio di natura economica, certamente suscettibile di essere risarcito; - per contro, la eventuale sospensione della efficacia della delibera poteva porre in serio ed imminente pericolo gli equilibri raggiunti nell’ambito della operazione di salvataggio della Banca del Fucino, con conseguente pericolo per centinaia di dipendenti dell’Istituto e per le migliaia di risparmiatori. Osserva in diritto. – 1 – La domanda cautelare in esame è stata correttamente formulata nella pendenza del giudizio di merito volto ad ottenere l’annullamento della medesima deliberazione per cui è richiesta la sospensione. Ed invero, il ricor-

rente ha impugnato la delibera adottata dall’assemblea dei soci della Torlonia Partecipazioni spa. del 4 dicembre 2018, con la quale è stata approvata ed autorizzata la sottoscrizione dell’Accordo Quadro connesso all’operazione integrativa Igea Banca spa.-Banca del Fucino spa., dando mandato all’Amministratore unico di compiere tutto quanto eventualmente necessario per la completa esecuzione della deliberazione. A fondamento dell’istanza di sospensione, il ricorrente deduce tre diversi motivi di doglianza: la violazione del diritto di informazione del socio; la violazione del quorum deliberativo; la sussistenza di un conflitto di interessi in capo al socio Giulio Torlonia, il cui voto favorevole era stato determinante per l’approvazione della delibera. 2 – Devesi innanzitutto osservare che la società resistente ha eccepito la inammissibilità ovvero la improcedibilità della domanda cautelare, sostenendo che l’oggetto della delibera impugnata (consistente nella autorizzazione all’Amministratore unico Alexander Poma Murialdo a sottoscrivere l’Accordo Quadro connesso alla operazione integrativa Igea Banca spa.-Banca del Fucino spa.) sarebbe già stato interamente eseguito, essendo già intervenuta la sottoscrizione dell’Accordo medesimo. Appare, quindi, necessario esaminare la questione relativa alla applicabilità della sospensione con riferimento alle delibere già eseguite: questione che ha sollevato notevoli contrasti interpretativi e che appare strettamente collegata alla individuazione dell’oggetto della sospensiva ed alla ricerca di eventuali limiti intrinseci alla sua applicazione. È, infatti, dubbia la natura giuridica della sospensione e, precisamente, se essa sia meramente conservativa ovvero anticipatoria della sentenza di merito. Un primo orientamento osserva che, mentre il provvedimento cautelare sarebbe idoneo ad investire il solo profilo effettuale dell’atto rendendolo temporaneamente inattivo ed inibendone lo

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sviluppo, la sentenza andrebbe ad incidere sulla stessa struttura e validità dell’atto impugnato. Di conseguenza, il provvedimento cautelare avrebbe natura esclusivamente conservativa, impedendo alla deliberazione di produrre effetti ulteriori, ma non potrebbe comunque rimuovere gli effetti già prodottisi nella realtà. Ciò anche in base al dato letterale dell’art. 2378 c.c., che consente di sospendere non già l’efficacia, bensì l’esecuzione delle delibere impugnate. Secondo un diverso orientamento, che si ispira al principio, di ordine costituzionale, della effettività della tutela giurisdizionale, il provvedimento di sospensione avrebbe invece natura anticipatoria rispetto alla successiva sentenza di annullamento. L’anticipatorietà andrebbe verificata e valutata partendo dagli effetti esecutivi, cioè raffrontando il risultato pratico che si può ottenere attraverso il provvedimento cautelare, con il risultato pratico che si può ottenere sulla base di una sentenza che accolga la domanda a cui il provvedimento cautelare è strumentale. La differenza tra sospensione ed annullamento si coglie solo sotto il profilo quantitativo, mentre sotto il profilo qualitativo il bene della vita attribuito in sede cautelare è lo stesso che attribuirà la sentenza definitiva. La sospensione incide così non sulla materiale eseguibilità, bensì sulla efficacia giuridica dell’atto. Si osserva, poi, che la ricostruzione della tutela in termini anticipatori anziché conservativi trova oggi anche conferma sul dato letterale costituito dall’art. 35 del D.Lgs. n. 5 del 2003, in tema di arbitrato societario, il quale –nell’introdurre per la prima volta nel nostro ordinamento un potere cautelare in capo agli arbitri- parla di sospensione della efficacia della delibera e non della sola esecuzione. In questa prospettiva, il rimedio cautelare sarebbe invocabile anche con riferimento alle deliberazioni che non necessitano di ulteriore attività esecutiva (cd. delibere self executing) ovvero che sono già state parzialmente o totalmente eseguite,

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ma continuano a manifestare una perdurante efficacia rispetto all’organizzazione societaria ed alle correlate posizioni dei soci. Sicché, distinguendo tra esecutività della deliberazione (intesa nel senso di possibilità di essere eseguita) ed efficacia della deliberazione (intesa nel senso della possibilità di produrre effetti), secondo la tesi della natura conservativa potrebbe essere sospesa la sola esecuzione materiale della delibera. Per contro, secondo la tesi della natura anticipatoria, il termine esecuzione non farebbe riferimento alla fase strettamente materiale di attuazione di quanto deciso, ma riguarderebbe la possibilità di efficacia della deliberazione. Quindi, si dovrebbe fare riferimento ai perduranti effetti della deliberazione nella vita sociale. Solo se la deliberazione avesse conseguito tutti i suoi effetti, non sarebbe più possibile la sospensione, in quanto in caso contrario si avrebbe una revoca, in via cautelare, della deliberazione asseritamente viziata. Il problema consiste, dunque, nel verificare se sia possibile in linea generale sospendere la delibera anche nei casi in cui –sebbene la sua esecuzione materiale risulti compiuta- la stessa continui comunque a produrre effetti giuridici permanenti idonei ad incidere sulla organizzazione societaria e sull’attività successiva, identificando correlativamente in concreto gli effetti irreversibili, tali da ostare alla concessione della cautela. Alla suindicata questione ritiene questo giudicante di poter dare una risposta positiva, sulla base della considerazione che un qualsiasi atto giuridico è destinato a produrre un duplice ordine di effetti: effetti giuridici ed effetti materiali, che si collocano evidentemente su due piani distinti. Del resto, non sempre alla produzione dell’effetto giuridico deve necessariamente conseguire l’adeguamento ad esso della realtà materiale, essendovi atti che esauriscono i loro effetti sul terreno del valore giuridico, senza bisogno di attività che ne integrino l’esecuzione.


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Devesi, pertanto, ritenere che la sospensione operi sul piano degli effetti giuridici e non su quello della mera realtà fenomenica, risultando quindi svincolata dalle modificazioni della realtà nel frattempo intervenute, le quali dovranno essere conformate alla nuova situazione giuridica sotto il profilo degli aspetti restitutori e ripristinatori. Il termine esecuzione contenuto nell’art. 2378 c.c. va interpretato come riferito alla attuazione degli effetti giuridici prodotti dall’atto. Del resto, in caso contrario, non si giustificherebbe la minore ampiezza del sindacato cautelare dell’autorità giurisdizionale ordinaria rispetto a quello riconosciuto agli arbitri. Sicché, l’unico limite alla concedibilità della sospensione va individuato nella avvenuta compiuta produzione degli effetti giuridici dell’atto impugnato, che comporti esiti irreversibili. 3 – Ciò posto, nel caso in esame, con la delibera impugnata l’assemblea ha deliberato: di approvare, autorizzando, la sottoscrizione dell’Accordo Quadro di cui alla copia conforme Rep. N. 1685, conformemente al testo contrattuale illustrato dal Presidente e conservato agli atti della Banca di dare mandato all’Amministratore Unico, in veste di rappresentante della Società, anche ai sensi e per gli effetti degli artt. 1394 e 1395 del codice civile, di compiere tutto quanto eventualmente occorrer possa per la completa esecuzione della precedente deliberazione, ed in particolare conferendo a tal fine apposita procura speciale – che con la presente si conferma ed espressamente autorizza – in favore dell’Avv. Francesco Ferrazza … affinché quest’ultimo possa legittimamente intervenire in nome e per conto della Società anche quale procuratore di altra Parte alla sottoscrizione del predetto Accordo Quadro, attribuendo allo stesso tutti i necessari e opportuni poteri in merito alla stipula dell’Accordo nel testo approvato, compresa la facoltà di apportare eventuali variazioni e/o modifiche che non intacchino la sostanza dell’Accordo Quadro di autorizzare l’Amministratore

Unico ad intervenire nella convocata assemblea della Finvest Spa. esprimendo voto favorevole”. Dal verbale dell’assemblea del 4 dicembre 2018, inoltre, risulta che: “… per effetto di quanto previsto nell’accordo quadro, la partecipazione detenuta dalla società nella Banca del Fucino S.p.A. sarà azzerata e l’intero aumento di capitale sarà sottoscritto dai nuovi soci Igea. Successivamente la società si obbligherà a sottoscrivere, pro quota sull’importo complessivo di euro 14.000.000,00, una quota di capitale della nuova Banca del Fucino…. Il Presidente passa così ad illustrare i termini principali dell’accordo quadro (l’ “Accordo”), di cui alla copia conforme Rep. 1685 rilasciata da me notaio in data odierna, debitamente negoziato tra le parti –distribuito alle parti e conservato agli atti della società- da sottoscriversi tra la medesima Società, la Banca, l’altro socio di quest’ultima (Finvest S.p.A.) e gli investitori GGG Private Investment Limited, Fondazione Pascarabruzzo (gli “Investitori”) e Igea nonché Luigi Alio, nella sua qualità di Presidente e in rappresentanza del patto parasociale per l’esercizio del voto concertato in Igea. L’Accordo è volto a disciplinare gli impegni assunti da ciascuna delle parti nelle fasi in cui si articola il Progetto Integrativo. In particolare, quanto agli obblighi in capo alla Società e all’altro socio della Banca (Finvest S.p.A.) il Presidente dà atto che trattasi di: 1. impegnarsi in via solidale con Finvest S.p.A. a versare in conto capitale a favore della Banca in ogni caso entro la data della approvazione del bilancio al 31/12/2018 l’importo complessivo di euro 6.000.000,00 (sei milioni/00) a copertura perdite; 2. impegnarsi in via solidale con Finvest S.p.A. a sottoscrivere e versare entro il 31/12/2021 un importo di un aumento riservato pari ad almeno euro 14.000.000,00, fino ad un massimo di 25.000.000,00; tale aumento sarà associato all’emissione di un warrant il cui regolamento dovrà prevedere, inter alia, gli usuali diritti dei portatori dei warrant per mantenere invariate le condizio-

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ni di esercizio dei warrant per il caso in cui Igea Banca S.p.A. dovesse deliberare operazioni sul capitale e/o operazioni straordinarie prima del Termine di Scadenza Warrant Soci Fucino”. Dalla riportata descrizione contenuta nel verbale assembleare emerge, dunque (e ciò è del resto pacifico, in quanto non specificamente contestato dalla società resistente), che tale Accordo Quadro rappresenta il primo atto di una complessa operazione, che prevede numerosi passaggi successivi volti a far entrare terzi investitori (ed in particolare la Igea Banca spa.) nella compagine sociale della Banca del Fucino spa. Operazione da realizzarsi non mediante semplice cessione di partecipazioni sociali, bensì attraverso l’azzeramento del capitale sociale della Banca del Fucino ed il suo successivo aumento senza diritto di opzione ai soci, con conseguente perdita della posizione di controllo da parte della Torlonia Partecipazioni spa. e l’impegno di quest’ultima ad eseguire ingenti versamenti di denaro in favore della Banca predetta. Alla luce delle considerazioni sopra svolte, quindi, non può ritenersi che la delibera impugnata sia già stata interamente eseguita. Ed invero, contrariamente a quanto sostenuto dalla società resistente, l’assemblea dei soci del 4 dicembre 2018 ha autorizzato la realizzazione dell’intera operazione volta all’ingresso della Banca Igea spa. nella compagine sociale della Banca del Fucino, da effettuarsi seguendo i vari passaggi previsti nell’Accordo Quadro. Di conseguenza, la sottoscrizione del citato Accordo Quadro da parte dell’amministratore unico della Torlonia Partecipazioni spa. (ovvero del suo procuratore speciale) –intervenuta prima della instaurazione del presente giudiziorappresenta esclusivamente il primo atto esecu-

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tivo della delibera, i cui effetti giuridici, tuttavia, sono destinati ancora a prodursi e sono ancora idonei ad incidere sulla organizzazione societaria e sull’attività successiva, non essendo stata ancora portata a termine l’intera operazione. Sicché, non risultando ancora prodotti tutti gli effetti giuridici della delibera impugnata con esiti irreversibili, la istanza di sospensione della sua efficacia risulta ancora ammissibile. 3 – Acclarato ciò, la domanda di sospensione proposta da Carlo Torlonia può trovare accoglimento, apparendo sussistente -allo stato e tenuto conto della sommaria cognizione propria del presente procedimento- il dedotto conflitto di interessi del socio Giulio Torlonia. (Omissis) Va, pertanto, disposta la sospensione della efficacia della deliberazione assunta dalla assemblea dei soci della Torlonia Partecipazioni spa. in data 4 dicembre 2018. Trattandosi di giudizio cautelare svoltosi nel corso della causa di merito, deve essere riservata ogni decisione in ordine alle spese alla definizione di quest’ultimo. P.Q.M. Visto l’art. 2378 terzo comma c.c.; 1) SOSPENDE l’efficacia della deliberazione assunta dalla assemblea dei soci della Torlonia Partecipazioni spa. in data 4 dicembre 2018; 2) DISPONE che l’organo amministrativo provveda a quanto di competenza ex art. 2378, comma 6 c.c., autorizzando il ricorrente a provvedervi in caso di inerzia del primo; 3) spese al merito. (Omissis)


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Trib. Roma, sezione specializzata in materia di impresa, ord. 10.10.2019, Pres. Di Salvo, Rel. Scerrato, Torlonia C. / Torlonia Partecipazioni S.p.A. Provvedimenti cautelari – Sospensione dell’esecuzione di delibere assembleari – Delibere eseguite – Limiti – Permanenza degli effetti giuridici – Esclusione – Inammissibilità. È possibile la sospensione dell’efficacia di una deliberazione quando la sua esecuzione mantiene la potenzialità di continuare ad esplicare effetti giuridici, alla cui inibizione è finalizzata la richiesta di sospensione. Tuttavia, nel caso di specie, pur essendosi in presenza di un’operazione societaria molto complessa ed articolata in vari passaggi anche di rilevante impegno finanziario per la Torlonia Partecipazioni S.p.a., anche mediante successive deliberazioni assembleari, nell’ottica del salvataggio della Banca del Fucino S.p.a. e del successivo riacquisto di una quota del capitale della Nuova Banca del Fucino S.p.a., non è sospendibile la delibera impugnata posto che la stessa non ha più la possibilità di produrre ulteriori effetti giuridici e di incidere sull’organizzazione societaria e sull’attività successiva di Torlonia Partecipazioni S.p.a.: infatti, il contratto quadro, la cui stipulazione è stata resa possibile per effetto della deliberazione impugnata, non può configurarsi come il primo atto esecutivo della ricordata serie di atti, in cui si articola la complessa operazione societaria, ma deve essere inteso come la fonte ‘normativa’ inter partes, che disciplina e disciplinerà le successive fasi esecutive ed in relazione alla quale verrà valutato il regolare o meno adempimento ad opera delle parti contraenti. Provvedimenti cautelari – Delibere assembleari eseguite – Mancata sospensione prima dell’esecuzione – Presunzione di legittimità degli atti esecutivi – Sentenza di annullamento – Efficacia retroattiva - Limiti Sotto altro profilo, tale soluzione è coerente con il principio (cfr. Cass. 4946/2013) secondo cui “L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, terzo comma, cod. civ., non incide – ancorché ne possa derivare una modifica della composizione della maggioranza allorquando non sia stata seguita dall’integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci – sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza, poiché l’omessa adozione del provvedimento di sospensione rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, resistendo, peraltro, tale legittimità anche al sopravvenire del suo annullamento, la cui efficacia, sebbene in linea di principio retroattiva, è pur sempre regolata dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti, tanto rivelandosi affatto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali”.

(Omissis) Osserva in fatto. – Con ricorso ex art. 2378, 3° comma, c.c. il ricorrente Torlonia Carlo, premessa la pendenza del giudizio di impugnazione della deliberazione assembleare della Torlonia Partecipazioni S.p.a. del 4/12/2018, con cui era stata approvata ed autorizzata la sottoscrizione dell’Accordo Quadro connesso all’operazione integrativa Igea Banca S.p.a. – Banca del Fucino S.p.a., ribadiva che la deliberazione in questione era invalida

per violazione del diritto di informazione del socio, per violazione del quorum deliberativo e per conflitto di interessi del socio Torlonia Giulio, il cui voto era stato determinante per l’approvazione della deliberazione impugnata, e, ritenuto che ricorrevano i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, instava appunto per la sospensione dell’esecuzione della predetta deliberazione. Si costituiva in giudizio la resistente Torlonia Partecipazioni S.p.a., la quale, eccepita l’inammis-

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sibilità della domanda di sospensione, in quanto la deliberazione impugnata aveva già avuto integrale esecuzione, concludeva in ogni caso per il rigetto della domanda cautelare per infondatezza dei richiamati presupposti del fumus e del periculum. Il Giudice di prime cure con ordinanza riservata dell’11-12/6/2019 accoglieva la domanda cautelare, sospendendo “… l’efficacia della deliberazione assunta dalla assemblea dei soci della Torlonia Partecipazioni S.p.a. in data 4 dicembre 2018 …” e disponendo che “… l’organo amministrativo provved(esse) a quanto di competenza ex art. 2378, comma 6 c.c., autorizzando il ricorrente a provvedervi in caso di inerzia del primo …” (cfr. dispositivo dell’ordinanza impugnata). Con tempestivo ricorso la predetta Torlonia Partecipazioni S.p.a. (avv.to Enrico Caratozzolo ed avv.to Francesco Macario) proponeva reclamo, in quanto asseritamente il provvedimento era errato nella decisione assunta, come meglio indicato nel reclamo, con conseguente richiesta di revoca del provvedimento assunto e quindi di rigetto della domanda cautelare. Si costituiva in giudizio il reclamato Torlonia Carlo (avv.to Andrea Boscagli, avv.to Romano vaccarella ed avv.to Andrea Guaccero), il quale concludeva per il rigetto del reclamo. All’esito della discussione orale, il Collegio si riservava di provvedere. Osserva in diritto. – Il reclamo è fondato per le ragioni che seguono, con conseguente revoca dell’ordinanza impugnata e rigetto della domanda cautelare. Preliminarmente va ricordato che l’art. 2378 c.c. prevede che “l’impugnazione è proposta con atto di citazione davanti al tribunale del luogo dove la società ha sede” (1° comma) e che “con ricorso depositato contestualmente al deposito, anche in copia, della citazione, l’impugnante può chiedere la sospensione dell’esecuzione della deliberazione. …” (3° comma).

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Dunque il legislatore della riforma, in parte modificando il vecchio dato normativo anche in ordine al provvedimento d’urgenza adottabile inaudita altera parte dal Presidente del tribunale, ha confermato la previsione della possibile adozione di un provvedimento di natura sostanzialmente cautelare, nel corso del processo di merito relativo al diritto oggetto dell’invocata cautela: si tratta di una delle tante ipotesi che sono al riguardo previste dal codice civile (cfr. p.es. art. 23, terzo comma, c.c.; art. 1109, secondo comma, c.c.; art. 1137, secondo comma, c.c.), oltre appunto al citato art. 2378, terzo comma, c.c., dettato in materia di sospensione di deliberazione di assemblea di società per azioni ed applicabile anche alle deliberazioni di assemblea di società a responsabilità limitata per effetto del rinvio contenuto nell’art. 2479 ter, ultimo comma, c.c. In base all’art. 669 quaterdecies c.p.c. le disposizioni relative al procedimento cautelare possono trovare applicazione ai provvedimenti di natura cautelare previsti da specifiche disposizioni contenute nel codice civile, purché le prime siano “compatibili” con tali provvedimenti, con la conseguenza p.es. che nel rapporto fra le disposizioni rispettivamente contenute nell’art. 669 ter c.p.c. (in tema di competenza cautelare anteriore alla causa di merito) e nell’art. 2378, terzo comma, c.c., le seconde prevalgono sulle prime perché costituenti, quanto al procedimento, diritto speciale derogativo del diritto generale, e che pertanto non sarebbe possibile un provvedimento cautelare ante causam. Viceversa non vi è p.es. incompatibilità assoluta quanto ai presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora, sia pure con le peculiarità previste dall’art. 2378, 4° comma, c.c. sul giudizio comparativo ivi delineato), che legittimano l’adozione del richiesto provvedimento cautelare. Con riferimento al requisito del periculum in mora l’art. 2378, 4° comma, c.c., a differenza del previgente art. 2378 c.c. in cui si faceva riferimento


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ai ‘gravi motivi’, prevede invece, ai fini appunto della delibazione sull’istanza di sospensione, che “il giudice … provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della deliberazione …”; quindi il pregiudizio, che in termini di irreparabilità della lesione potrebbe subire il ricorrente dall’esecuzione (e/o permanente efficacia) della deliberazione impugnata, non deve essere visto a sé stante ed in via esclusiva, ma deve essere esaminato e valutato comparativamente con il pregiudizio che viceversa potrebbe subire la società, in base a quanto rappresentato dagli organi societari, da un eventuale provvedimento di sospensione dell’esecuzione della deliberazione impugnata. La scelta del legislatore della riforma, in evidente deroga al principio generale in base al quale il presupposto del pericolo nel ritardo debba essere parametrato sul ricorrente, è chiara nel senso di privilegiare la stabilità degli atti della società, elemento, quest’ultimo, ritenuto evidentemente essenziale per il buon funzionamento dell’impresa collettiva sul mercato (cfr. Tribunale Roma 3/9/2004). In secondo luogo, benché la norma faccia ora espressamente riferimento solo al periculum in mora, si ritiene pur sempre necessaria, ai fini della possibile sospensione cautelare, la sussistenza anche del su richiamato requisito del fumus boni iuris. Prima di passare all’esame dei suddetti requisiti, è necessario esaminare, trattandosi di eccezione sollevata dalla società resistente in primo grado e riproposta dalla stessa in questa sede di gravame, a fronte della ritenuta infondatezza da parte del Giudice di prime cure, la dibattuta questione della sospendibilità o meno della deliberazione impugnata. Come già condivisibilmente riportato nell’ordinanza gravata, va ricordato, premessa la distinzio-

ne fra ‘esecutività della deliberazione’ -ossia come possibilità della deliberazione di essere eseguita- ed ‘efficacia della deliberazione’ -ossia come possibilità della stessa di produrre effetti-, che in base ad una prima tesi, ancorata al dato testuale, la norma consentirebbe solo la sospensione dell’esecuzione materiale della deliberazione; quindi la sospensione riguarderebbe solo i concreti atti esecutivi della deliberazione, se ed in quanto materialmente possibili, e non l’atto deliberativo e i suoi effetti. Secondo altra tesi, più estensiva, il termine esecuzione non farebbe riferimento alla fase strettamente materiale di attuazione di quanto deciso, ma riguarderebbe la possibilità di efficacia della deliberazione; quindi secondo questa tesi si dovrebbe far riferimento ai perduranti effetti della deliberazione nella vita sociale. Solo se la deliberazione avesse conseguito tutti i suoi effetti, non sarebbe più possibile la sospensione, in quanto diversamente non si avrebbe più una sospensione, ma una revoca, in via cautelare, della deliberazione asseritamente viziata. L’importanza della scelta dell’una o dell’altra soluzione è di tutta evidenza nel caso appunto di deliberazioni organizzative della vita sociale, in cui si è in presenza di deliberazioni prive di esecuzione, ossia meramente dichiarative e quindi non richiedenti una specifica attività esecutiva. Ribadisce il Collegio l’adesione all’orientamento, prevalente in giurisprudenza, che interpreta la disposizione di cui all’art. 2378, 3° e 4° comma, c.c. in senso estensivo anche alla sospensione dell’efficacia delle deliberazioni impugnate, quando l’esecuzione della deliberazione mantiene la potenzialità di continuare ad esplicare effetti giuridici, alla cui inibizione è finalizzata la richiesta di sospensione. Fatte queste precisazioni, va quindi concluso che, sino a quando perdura l’efficacia della deliberazione, il provvedimento cautelare di sospensio-

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ne previsto dall’art. 2378, 3° e 4° comma, c.c. può ritenersi astrattamente ammissibile. Del resto, diversamente opinando e dando rilievo al mero dato letterale, si arriverebbe a sostenere che, in materia di sospensione delle deliberazioni assembleari, il giudice ordinario abbia un raggio di azione ed un potere decisorio inferiore a quello degli arbitri, ai quali invero l’art. 35, 5° comma, D.Lgs 5/2003 (ancora in vigore per la parte relativa all’arbitrato) riconosce, in materia appunto di impugnazione di deliberazioni assembleari (nei casi in cui ciò è possibile), il “ … potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera …” e non della semplice esecuzione della delibera stessa, come invece prevede testualmente il ricordato art. 2378, 3° comma, c.c.. Nel caso di specie, a prescindere da ogni altra considerazione, è processualmente emerso che le deliberazioni, assunte nell’assemblea del 4/12/2018, hanno avuto integrale esecuzione da un punto di vista materiale. In particolare era stato deliberato in assemblea nei seguenti termini: “… Al termine di un ampio esame dell’argomento e dopo un’esauriente discussione tra i presenti, l’Assemblea dei soci ..., dato atto dell’esposizione del Presidente, ritenuta competa ed esauriente; del contenuto dell’Accordo Quadro illustrato; della dichiarazione del Presidente ai fini dell’art. 2391 c.c., nonché altresì degli artt. 1394 e 1395 c.c., reputata altrettanto completa ed esauriente; della sussistenza di contingenti, oggettive e specifiche ragioni che configurano la firma dell’Accordo Quadro come conveniente per la società, per le partecipate nonché nel perseguimento della tutela degli interessi dei risparmiatori, così come costituzionalmente garantiti, e dei dipendenti; delibera: 1) …; 2) di approvare, autorizzando, la sottoscrizione dell’Accordo Quadro di cui alla copia conforma Rep. n° 1685, conformemente al testo contrattuale illustrato dal Presidente e conservato agli atti della Banca; 3) di dare mandato all’Amministratore Uni-

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co, in veste di rappresentante della società, anche ai sensi e per gli effetti degli artt. 1394 e 1395 del codice civile, di compiere tutto quanto eventualmente occorrer possa per la completa esecuzione della precedente deliberazione, ed in particolare conferendo a tal fine apposita procura speciale -che con la presente si conferma ed espressamente autorizza- in favore dell’avv.to Francesco Ferrazza … affinché quest’ultimo possa legittimamente intervenire in nome e per conto della società anche quale procuratore di altra parte alla sottoscrizione del predetto Accordo Quadro, attribuendo allo stesso tutti i necessari e opportuni poteri in merito alla stipula dell’accordo nel teso approvato, compresa la facoltà di apportare eventuali variazioni e/o modifiche che non intacchino la sostanza dell’accordo quadro; 4) di autorizzare l’Amministratore Unico ad intervenire nella convocata assemblea della Finvest Spa, esprimendo voto favorevole. …” (cfr. verbale dell’assemblea del 4/12/2018). Non vi è contestazione sul fatto che in data 6/12/2018 l’amministratore unico della Torlonia Partecipazioni S.p.a. abbia conferito procura speciale all’avv. Ferrazza al fine di sottoscrivere l’Accordo Quadro, finalizzato -come meglio poi si vedrà- al salvataggio di Banca del Fucino S.p.a., poi effettivamente sottoscritto, e che l’amministratore unico di Torlonia Partecipazioni S.p.a. sia intervenuto all’assemblea della Finvest S.p.a., titolare della residua parte del capitale sociale di Banca del Fucino S.p.a., esprimendo voto favorevole all’operazione di salvataggio della banca stessa, così come risultante dal richiamato accordo quadro, espressamente finalizzato alla ricapitalizzazione ed al rilancio della predetta banca. A questo punto è necessario verificare se, alla luce del quadro fattuale su delineato e del richiamato orientamento del Tribunale in tema di ambito del potere di sospensione, si possa o meno parlare di effetti perduranti delle deliberazioni in parola, così da poterne ipotizzare la sospensione.


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In passato, in relazione all’ipotesi di deliberazione assembleare che aveva autorizzato l’acquisto di una partecipazione sociale, questo Ufficio, come riportato dalla reclamante, ha avuto modo di rilevare, sempre a margine di un ricorso per la sospensiva ex art. 2378, 3° e 4° comma, c.c., che non era più possibile procedere alla sospensione della deliberazione autorizzativa in quanto, stipulato il contratto di acquisto, la deliberazione impugnata aveva perso qualsiasi effetto, anche a livello giuridico; infatti -si era argomentato- gli effetti reali (trasferimento della titolarità delle quote del capitale sociale cedute) e quelli obbligatori (pagamento del prezzo), in ipotesi perduranti, derivano oramai dal contratto e non dalla deliberazione autorizzativa. Condiviso questo precedente, si tratta di verificare se lo stesso principio possa essere applicato nel caso di deliberazione assembleare che abbia autorizzato la stipulazione di un contratto quadro, ossia di un contratto normativo finalizzato a regolare per il futuro i rapporti fra i contraenti. Si potrebbe al limite inquadrare la fattispecie nel novero dei patti parasociali, ma ai fini che qui rilevano non è necessario approfondire oltre la questione. Preliminarmente va ricordato che all’assemblea del 4/12/2018, assente l’odierno reclamato, si era discusso, come previsto al punto 2 all’ordine del giorno, dell’ “Accordo quadro connesso all’operazione integrativa Igea Banca Spa – Banca del Fucino Spa: delibere inerenti e conseguenti”; in particolare il presidente dell’assemblea aveva proceduto all’illustrazione del predetto accordo quadro, finalizzato a realizzare l’operazione di salvataggio della Banca del Fucino S.p.a., partecipata dalla Torlonia Partecipazioni S.p.a. e dalla Finvest S.p.a., altra società della famiglia Torlonia. In particolare nel verbale dell’assemblea del 4/12/2018 è dato leggere, oltre a quanto previsto a livello organizzativo con la prevista nascita di un gruppo bancario che sarebbe stato costituito, a regime, dalla Nuova Banca del Fucino S.p.a. e dalla

controllata ‘Banca Digitale’, che: “… per effetto di quanto previsto nell’accordo quadro, la partecipazione detenuta dalla società nella Banca del Fucino S.p.a. sarà azzerata e l’intero aumento di capitale sarà sottoscritto dai nuovi soci Igea. Successivamente la società si obbligherà a sottoscrivere, pro quota sull’importo complessivo di euro 14.000.000,00, una quota di capitale della nuova Banca del Fucino …”; che “ … Il Presidente passa così ad illustrare i termini principali dell’accordo quadro (l’ “Accordo”), di cui alla copia conforme Rep. 1685 rilasciata da me notaio in data odierna, debitamente negoziato tra le parti -distribuito alle parti e conservato agli atti della società- da sottoscriversi tra la medesima Società, la Banca, l’altro socio di quest’ultima (Finvest S.p.a.) e gli investitori GGG Private Investment Limited, Fondazione Pascarabruzzo (gli “Investitori”) e Igea nonché Luigi Alio, nella sua qualità di Presidente e in rappresentanza del patto parasociale per l’esercizio del voto concertato in Igea. L’Accordo è volto a disciplinare gli impegni assunti da ciascuna delle parti nelle fasi in cui si articola il Progetto Integrativo. In particolare, quanto agli obblighi in capo alla Società e all’altro socio della Banca (Finvest S.p.a.) il Presidente dà atto che trattasi di: 1. impegnarsi in via solidale con Finvest S.p.a. a versare in conto capitale a favore della Banca in ogni caso entro la data della approvazione del bilancio al 31/12/2018 l’importo complessivo di euro 6.000.000,00 (sei milioni/00) a copertura perdite; 2. impegnarsi in via solidale con Finvest S.p.a. a sottoscrivere e versare entro il 31/12/2021 un importo di un aumento riservato pari ad almeno euro 14.000.000,00, fino ad un massimo di 25.000.000,00; tale aumento sarà associato all’emissione di un warrant il cui regolamento dovrà prevedere, inter alia, gli usuali diritti dei portatori dei warrant per mantenere invariate le condizioni di esercizio dei warrant per il caso in cui Igea Banca S.p.a. dovesse deliberare operazioni sul capitale e/o operazioni straordinarie prima del Termine di Scadenza Warrant Soci Fucino …” (cfr. verbale dell’assemblea del 4/12/2018, per cui è causa).

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Tanto premesso, ricordata la natura del su richiamato accordo quadro, non appare totalmente condivisibile quanto argomentato nell’ordinanza impugnata a proposito del fatto che “ … tale Accordo Quadro rappresenta il primo atto di una complessa operazione, che prevede numerosi passaggi successivi volti a far entrare terzi investitori (ed in particolare la Igea Banca spa.) nella compagine sociale della Banca del Fucino spa. Operazione da realizzarsi non mediante semplice cessione di partecipazioni sociali, bensì attraverso l’azzeramento del capitale sociale della Banca del Fucino ed il suo successivo aumento senza diritto di opzione ai soci, con conseguente perdita della posizione di controllo da parte della Torlonia Partecipazioni spa. e l’impegno di quest’ultima ad eseguire ingenti versamenti di denaro in favore della Banca predetta. …” e che “ … non può ritenersi che la delibera impugnata sia già stata interamente eseguita. Ed invero, contrariamente a quanto sostenuto dalla società resistente, l’assemblea dei soci del 4 dicembre 2018 ha autorizzato la realizzazione dell’intera operazione volta all’ingresso della Banca Igea spa. nella compagine sociale della Banca del Fucino, da effettuarsi seguendo i vari passaggi previsti nell’Accordo Quadro. Di conseguenza, la sottoscrizione del citato Accordo Quadro da parte dell’amministratore unico della Torlonia Partecipazioni spa. (ovvero del suo procuratore speciale) -intervenuta prima della instaurazione del presente giudizio- rappresenta esclusivamente il primo atto esecutivo della delibera, i cui effetti giuridici, tuttavia, sono destinati ancora a prodursi e sono ancora idonei ad incidere sulla organizzazione societaria e sull’attività successiva, non essendo stata ancora portata a termine l’intera operazione. …” (cfr. ordinanza impugnata). Al riguardo invero, se è condivisibile che si è in presenza di un’operazione societaria molto complessa ed articolata in vari passaggi anche di rilevante impegno finanziario per la Torlonia Partecipazioni S.p.a., anche mediante successive de-

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liberazioni assembleari, nell’ottica del salvataggio della Banca del Fucino S.p.a. e del successivo riacquisto di una quota del capitale della Nuova Banca del Fucino S.p.a., non è però condivisibile l’assunto per cui la delibera impugnata avrebbe ancora la possibilità di produrre ulteriori effetti giuridici e di incidere sull’organizzazione societaria e sull’attività successiva di Torlonia Partecipazioni S.p.a.. Invero gli effetti sulla società, indubbiamente ed innegabilmente derivanti dalle preannunciate singole fasi in cui si articola detta complessa operazione, deriveranno non più, quanto meno direttamente, dalla deliberazione assembleare autorizzativa del 4/12/2018, ma dal sottoscritto contratto quadro o meglio dalle singole fasi esecutive previste nel sottoscritto contratto quadro, che vede il coinvolgimento anche di soggetti terzi (Igea Banca Spa e i vari su richiamati investitori), che hanno stipulato, anche con Torlonia Partecipazioni S.p.a., il contratto quadro, destinato a regolamentare i rapporti fra i contraenti e a scandire le varie fasi dell’operazione, anche con successive deliberazioni assembleari. In una valutazione di mera connessione causale è indubbio che anche la deliberazione del 4/12/2018 si inserisce nella serie di fattori che hanno portato o porteranno ad incidere sull’assetto societario dell’odierna reclamante e sulla partecipazione in Banca del Fucino S.p.a., ma è di tutta evidenza che le singole fasi esecutive, previste nell’accordo quadro e di cui si è dato schematicamente conto, traggono la loro giustificazione e, per altro verso, la loro obbligatorietà direttamente dall’ormai sottoscritto contratto quadro e non dalla deliberazione autorizzativa, i cui effetti sono appunto terminati nel momento in cui, proprio in forza dei poteri conferiti, si è proceduto alla sottoscrizione del contratto quadro. In tale contesto ricostruttivo è allora evidente che il contratto quadro, la cui stipulazione è stata resa possibile per effetto della deliberazione qui impugnata, non può configurarsi come il primo atto esecutivo della ricordata serie di atti, in cui


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si articola la complessa operazione societaria, ma deve essere inteso come la fonte ‘normativa’ inter partes, che disciplina e disciplinerà le successive fasi esecutive ed in relazione alla quale verrà valutato il regolare o meno adempimento ad opera delle parti contraenti. Non è questa la sede per valutare nel merito il contratto quadro e lo specifico contenuto dello stesso, dovendosi unicamente prendere atto che la deliberazione impugnata non è suscettibile di produrre effetti giuridici e che ogni ulteriore fase della complessa operazione di salvataggio della Banca del Fucino S.p.a., con il coinvolgimento dell’odierna reclamante Torlonia Partecipazioni S.p.a., trova la sua causa e la sua regolamentazione nel contratto quadro. Le superiori conclusioni -e quindi la non ipotizzabilità di una sorta di efficacia ultrattiva della deliberazione impugnata- non sono revocate in dubbio da ulteriori considerazioni a livello letterale ovvero a livello sistematico. Sul primo profilo i poteri di ‘adattamento’ riconosciuti all’amministratore unico sono invero finalizzati unicamente a procedere alla sottoscrizione del contratto quadro e quindi nell’ottica della più adeguata attuazione della deliberazione sub 2 su ricordata; infatti, quando nella deliberazione sub 3 si è attribuito “ … mandato all’amministratore unico … di compiere tutto quanto eventualmente occorrer possa …”, ciò è stato espressamente riferito e limitato alla “ … completa esecuzione della precedente deliberazione …”, ossia appunto quella sub 2, relativa all’approvazione -ed autorizzazione alla sottoscrizione- dell’accordo quadro, più volte richiamato. Analogamente, quando nella parte finale della deliberazione sub 3 si è fatto riferimento all’attribuzione al procuratore speciale di “ … tutti i necessari e opportuni poteri in merito alla stipula dell’Accordo nel testo approvato, compresa la facoltà di apportare eventuali variazioni e/o modifiche che non intacchino la sostanza dell’Accordo

Quadro …”, è di tutta evidenza che detto potere di modifica dell’accordo, peraltro solo a livello formale e comunque non a livello sostanziale, riguardava la fase precedente alla stipulazione dell’accordo quadro. Sul secondo profilo, si potrebbe astrattamente ipotizzare che l’assemblea, discutendone e poi approvandolo, possa aver inteso richiamare integralmente, facendolo proprio, il contratto quadro, così che la stessa deliberazione, al pari del contratto quadro, possa ritenersi ‘fonte’ della regolamentazione pattizia delle successive fasi esecutive e quindi, in conseguenza di ciò, continuare ad esplicare effetti giuridici, incidenti sull’organizzazione societaria. Questa ipotetica soluzione, richiamata a mero titolo di completezza espositiva per poter valutare la problematica sotto vari punti di vista, non appare percorribile, in quanto non vi è stato alcun rinvio recettizio e l’esposizione dell’accordo quadro in sede assembleare si è resa necessaria solo per la necessaria esigenza di informazione dei soci e per consentire loro di esprimere un voto pienamente consapevole, così come per consentire al Collegio sindacale di esprimere consapevolmente il proprio parere, risultato ‘favorevole’ a verbale. Sotto altro angolo visuale la soluzione, cui si perviene, appare coerente anche con l’orientamento seguito dall’Ufficio in tema di effetti retroattivi delle sentenze di annullamento delle delibere assembleari: è bene precisare che, se fondati, i vizi lamentati dall’impugnante Torlonia Carlo, come su riportati, potrebbero portare ad una sentenza di annullamento, ricordato che, a seguito della riforma e a differenza di quanto previsto in materia contrattuale, la regola è appunto quella dell’annullamento, essendo invero eccezionali e specifiche le ipotesi di nullità delle deliberazioni assembleari. Orbene, è principio giurisprudenziale, seguito dall’Ufficio ed al quale si intende dare continuità, quello per cui la retroattività degli effetti delle sentenze di annullamento (passate in giudicato) non

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è assoluta, ma incontra dei limiti, anche al fine di garantire la certezza dei rapporti medio tempore sorti; vi sono infatti alcuni effetti che non possono in ogni caso essere azzerati, dovendo invero la regola della retroattività giuridica della sentenza di annullamento di una deliberazione essere necessariamente temperata dalla limitata possibilità di ripristinazione della situazione giuridica preesistente in senso materiale. Queste stesse considerazioni trovano conferma in recenti decisioni delle Cassazione, come p.es. in materia di annullamento di delibere di aumento di capitale, incidenti sulla consistenza delle quote di partecipazione al capitale sociale e quindi sul ‘peso’ del voto dei singoli soci e, in ultima analisi, sull’approvazione delle successive delibere assembleari (cfr. Cass. 4946/2013: “L’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale, laddove non ne sia stata disposta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 2378, terzo comma, cod. civ., non incide -ancorché ne possa derivare una modifica della composizione della maggioranza allorquando non sia stata seguita dall’integrale esercizio del diritto di opzione da parte dei vecchi soci- sulla validità delle successive deliberazioni adottate con la nuova maggioranza, poiché l’omessa adozione del provvedimento di sospensione rende legittimi gli atti esecutivi della prima deliberazione, resistendo, peraltro, tale legittimità anche al sopravvenire del suo annullamento, la cui efficacia, sebbene in linea di principio retroattiva, è pur sempre regolata dalla legge ed operante nei soli limiti da essa sanciti, tanto rivelandosi affatto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali”). È stato in particolare precisato, sul presupposto della mancata sospensione ex art. 2378, 3° comma, c.c. della deliberazione poi annullata, che “ … (è)… vero che l’annullamento di un negozio ha in linea di principio effetto retroattivo; tuttavia la retroattività è pur sempre disciplinata dalla legge ed opera nei soli limiti da essa previsti. Viene qui in esame il tema della legittimità degli atti posti in essere in

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esecuzione di delibera assembleare annullabile, cui attiene, appunto, l’istituto della sospensione ai sensi dell’art. 2378 c.c. Come la “sospensione dell’esecuzione della deliberazione” (art 2378 c.c., comma 3), disposta dal giudice, rende illegittimi gli altri di esecuzione che vengano ciò nonostante posti in essere, così la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento: in caso contrario l’istituto della sospensione non avrebbe alcun senso, visto che gli effetti giuridici sarebbero i medesimi sia che l’impugnante abbia ottenuto la sospensione della delibera, sia che non l’abbia ottenuta. …” e che “… pertanto, se una delibera di aumento del capitale sociale, ancorché annullabile, non è stata sospesa, e dunque è stata legittimante eseguita, il nuovo assetto delle partecipazioni risultante dalla sottoscrizione dell’aumento è a sua volta legittimo, e legittime sono, perciò, le successive deliberazioni assunte con la nuova maggioranza …” con la conseguenza che “ … di effetto ‘a catena’ sulla legittimità delle delibere in sequenza non può dunque parlarsi. …” (cfr. Cass. 4946/2013, in motivazione). In conclusione, evidenziato che il principio di diritto sancito dalla Cassazione in ordine alla mancata sospensione (come nel caso esaminato dalla Cassazione) vale, mutatis mutandis, con riferimento al periodo intercorrente fra l’adozione della deliberazione in ipotesi viziata e l’eventuale provvedimento di sospensione, è conseguenziale che la sospensione della delibera renderebbe illegittimi gli atti successivamente compiuti in forza di quella delibera e che, viceversa, l’eventuale successivo annullamento della delibera a monte non inciderebbe sulle deliberazione adottate medio tempore, fino appunto all’eventuale provvedimento di sospensione. Analogamente, p.es., l’eventuale annullamento della delibera di nomina dell’amministratore non travolgerebbe automaticamente gli atti posti in essere dall’amministratore illegittimamente nomina-


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to, trovando spazio la necessaria tutela dei terzi di buona fede. Se questi principi sono esatti -si tratta di orientamento consolidato della Sezione-, appare allora possibile affermare che l’eventuale annullamento della deliberazione 4/12/2018, a prescindere da ogni conseguenza nei confronti delle parti del contratto quadro, sottoscritto dall’a.u. di Torlonia Partecipazioni Spa in forza della qui impugnata deliberazione autorizzativa, non verrebbe verosimilmente ad incidere sulle successive deliberazioni che, in esecuzione del richiamato contratto quadro, sottoscritto prima del provvedimento di sospensione qui impugnato, fossero state nel frattempo adottate. In conclusione si deve ritenere che la deliberazione del 4/12/2018 ha esaurito tutti i propri effetti, anche a livello giuridico, a seguito dell’avvenuta sottoscrizione del contratto quadro, destinato -esso stesso e non la deliberazione a monte- a disciplinare le successive fasi esecutive della complessa operazione di salvataggio della Banca del Fucino S.p.a., di cui è socia Torlonia Partecipazioni S.p.a., che viene ad essere coinvolta finanziariamente nell’operazione. Lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per quanto riguarda l’autorizzazione alla partecipazio-

ne all’assemblea della Finvest Spa ed all’espressione di voto favorevole: anche in questo caso la deliberazione ha avuto esecuzione e non è suscettibile di produrre ulteriori effetti giuridici. Risulta così assorbita ogni altra questione di fatto e di diritto in merito ai presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, la cui coesistenza è necessaria, nei termini su indicati, per procedere alla sospensione della deliberazione ex art. 2378, 3° e 4° comma, c.c. Tali essendo le risultanze di causa, deve essere rigettata la domanda cautelare di sospensione dell’efficacia delle deliberazioni impugnate, con conseguente revoca dell’ordinanza impugnata. La regolamentazione del regime delle spese è rimessa al merito. Visto l’art. 669 terdecies c.p.c.. P.Q.M. • accoglie il reclamo e, in riforma dell’ordinanza reclamata dell’11-12/6/2019, rigetta il ricorso per la sospensione delle deliberazioni della Torlonia Partecipazioni S.p.a. del 4/12/2018; • rimette al merito la regolamentazione delle spese di lite; (Omissis)

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Per la chiarezza di idee in tema di effetti della sospensione e della sentenza di annullamento di delibere assembleari Sommario : 1. La vicenda contenziosa e i due provvedimenti, di divergente tenore, del tribunale romano. – 2. La sospensione opera sull’efficacia della deliberazione, anticipando gli effetti della sentenza di merito. – 3. Gli effetti delle sentenze di annullamento (e della sospensione) di una delibera rispetto ai terzi che entrino in contatto con la società. – 4. Sui limiti alla retroattività degli effetti della sentenza di annullamento.

L’Autore affronta il tema della possibilità di sospensione di una delibera assembleare già eseguita, nel più ampio quadro degli effetti e della portata di tale misura cautelare. L’analisi è condotta in parallelo rispetto all’esame degli effetti della sentenza di annullamento, che la sospensione è in grado di anticipare in sede cautelare. The Author aims to establish whether, and under which conditions, a company shareholders’ meeting resolution may be stayed even if it is already legally binding and effective. The article couples the analysis of the impacts generated by the court ruling that renders null and void the shareholders’ resolution, formerly subject to the said interim stay.

1. La vicenda contenziosa e i due provvedimenti, di divergente tenore, del tribunale romano.

I due provvedimenti che si annotano ci danno l’occasione di ritornare sul tema degli effetti del provvedimento cautelare di sospensione delle deliberazioni assembleari societarie e su quello, connesso, degli effetti delle sentenze di annullamento pronunciate ai sensi dell’art. 2378 c.c., con l’auspicio di apportare un contributo di chiarezza. Essi risolvono in senso opposto la questione della possibilità di sospendere l’efficacia di una delibera assembleare di una società per azioni già “eseguita”, pur partendo da premesse (condivisibili e) condivise, frutto degli approdi ormai prevalenti delle sezioni specializzate in materia di impresa e, segnatamente, di quella del tribunale capitolino. La fattispecie riguarda l’impugnazione di una delibera per mezzo della quale l’assemblea aveva approvato l’impegno a sottoscrivere un “accordo-quadro” che contemplava, al fine di attuare una operazione di “salvataggio” di una banca partecipata, direttamente e indirettamente, dalla medesima società: (i) l’azzeramento della partecipazione detenuta nella banca e l’aumento del capitale di quest’ultima da sottoscriversi a cura di altri soggetti,

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con conseguente estromissione della prima dalla compagine societaria; (ii) l’impegno a versare una cospicua somma a favore della banca partecipata a copertura di perdite e a sottoscrivere un successivo aumento di capitale a pagamento. Avverso tale delibera insorgeva il socio titolare del 24,5% del capitale sociale, deducendone l’illegittimità per violazione del diritto di informazione del socio, violazione del quorum deliberativo, conflitto di interessi di altro socio il cui voto era stato determinante per l’approvazione della delibera. Nell’ambito di tale giudizio, l’attore depositava ricorso per la sospensione dell’efficacia della delibera impugnata ai sensi dell’art. 2378 c.c. Nell’analisi del caso non ci soffermeremo sugli aspetti di diritto sostanziale – pur di estremo interesse – limitandoci agli (altrettanto rilevanti e stimolanti) profili di interesse processuale. Il giudice designato si concentra infatti, preliminarmente, sulla questione relativa alla “applicabilità della sospensione con riferimento alle delibere eseguite”. La società convenuta, nel costituirsi, aveva eccepito per l’appunto la improcedibilità della domanda per essere stata la delibera compiutamente eseguita con la firma dell’accordo-quadro. In proposito, il giudice si mostra consapevole della nota querelle circa la natura conservativa o anticipatoria della misura cautelare sospensiva, dicotomia alla quale viene ricondotto il connesso problema della capacità della sospensione di incidere sull’efficacia della delibera o sulla sola sua “esecuzione”, come continua a prevedere l’art. 2378 c.c. (anche dopo la riforma del 2003) diversamente dall’analoga previsione in materia di giudizi arbitrali di impugnazione di delibere assembleari, di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 5 del 2003 (sopravvissuto all’abrogazione pressoché totale del processo c.d. societario e nel quale si fa, invece, riferimento alla sospensione dell’efficacia). Aderendo alla prospettiva, sostenuta da una parte della dottrina, che vede nella misura cautelare de qua un provvedimento di natura anticipatoria degli effetti della sentenza, il rimedio sarebbe invocabile anche con riferimento alle delibere che non necessitano di esecuzione (c.d. delibere self-executing) ovvero già materialmente eseguite, in tutto o in parte, ma che continuano a manifestare effetti sull’organizzazione societaria e sulla posizione dei soci. Sempre secondo questa ricostruzione, la sospensione opererebbe sul piano giuridico e non su quello meramente materiale, con la conseguenza che le modificazioni della realtà nelle more prodottesi si dovranno conformare alla nuova realtà giuridica derivante dalla misura cautelare, con i connessi effetti restitutori e ripristinatori, salvi soltanto i casi di compiuta produzione degli effetti giuridici dell’atto impugnato, che comporti esiti irreversibili1. Da queste premesse, il tribunale muove i passi ulteriori del suo ragionamento per affermare che la sottoscrizione dell’accordo-quadro, avvenuta in esecuzione della delibera, non

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Cfr. la prima ordinanza alle pagine 7-9. È quanto ritengo di aver dimostrato in Corea, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, Torino, 2008.

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è altro che “il primo atto di una complessa operazione, che prevede numerosi passaggi successivi volti a far entrare terzi investitori .. nella compagine sociale della Banca”, operazione, questa, da realizzarsi non mediante semplice cessione di partecipazioni sociali, bensì attraverso l’azzeramento del capitale della banca e il suo successivo aumento senza diritto di opzione ai soci, con conseguente perdita di controllo da parte della società la cui delibera era stata impugnata. Su tali rilievi, il giudice conclude che “non può ritenersi che la delibera impugnata sia già stata interamente eseguita”, essendo la sottoscrizione dell’accordo-quadro, già intervenuta, solo “il primo atto esecutivo della delibera”. Sicché, “non risultando ancora prodotti tutti gli effetti giuridici della delibera impugnata con esiti irreversibili, la istanza di sospensione della sua efficacia risulta ancora ammissibile”. Verificata, poi, la concreta sussistenza del fumus con particolare riferimento al conflitto di interessi di un altro socio, la cautela viene concessa stante il grave pregiudizio, incombente sul socio impugnante, derivante dall’azzeramento della sua partecipazione (indiretta, attraverso la società) nella banca; pregiudizio ritenuto prevalente nella comparazione imposta dall’art. 2378 c.c. su quello derivante alla società dalla concessione della misura cautelare, invero nella specie reputato insussistente proprio a causa del conflitto di interessi sommariamente accertato e dei benefici che la sottoscrizione dell’accordo-quadro avrebbe comportato solo per soggetti estranei alla società. A opposte conclusioni giunge invece il collegio, a seguito del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c., proposto dalla società. Nell’ordinanza emessa, in accoglimento del reclamo, il tribunale svolge anzitutto un preambolo sulle peculiarità della misura sospensiva rispetto alle altre misure cautelari del codice di rito, emergenti dalla necessità (ribadita dal legislatore del 2003) che l’istanza venga proposta solo dopo l’introduzione del giudizio impugnatorio (o contestualmente a essa)2 e dalla deroga al principio secondo cui il pregiudizio deve essere esaminato e valutato con riferimento alla sola sfera del ricorrente, dovendosi per contro effettuare la ridetta valutazione comparativa circa gli effetti che la concessione o meno della invocata tutela potrebbero prodursi in capo alle contrapposte parti del giudizio. Il collegio passa, poi, a esaminare la “dibattuta questione della sospendibilità o meno della deliberazione impugnata”, condividendo, in premessa, la distinzione richiamata dall’ordinanza gravata circa l’efficacia e l’esecutività della delibera, e ribadendo l’adesione al prevalente orientamento che interpreta l’art. 2378, terzo e quarto comma, c.c., “in senso estensivo anche alla sospensione dell’efficacia delle deliberazioni impugnate, quando

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Orientamento prevalente, anche presso la sezione imprese del Tribunale di Roma: cfr. di recente Trib. Roma, ord. 3.8.2016, in www. judicium.it, con mia breve nota di commento. In dottrina, Vaccarella, Il rito ordinario, in Corr. giur., 2003, 1505; Arieta, De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 424; C. Ferri, Le impugnazioni di delibere assembleari. Profili processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., Suppl. al n. 1, 2005, 65; Dalfino, Tutela cautelare ante causam e sospensione della delibera assembleare, in Società, 2012, 831; Corea, Note in tema di tutela impugnatoria e tutela cautelare ante causam (a proposito degli artt. 2378 c.c. e 700 c.p.c.), in Giusto proc. civ., 2008, 527 ss.

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l’esecuzione della deliberazione mantiene la potenzialità di continuare ad esplicare effetti giuridici, alla cui inibizione è finalizzata la richiesta di sospensione”. Anche muovendo dal dato letterale dell’art. 35, d.lgs. n. 5 del 2003, il tribunale conclude che “sino a quando perdura l’efficacia della deliberazione, il provvedimento cautelare di sospensione previsto dall’art. 2378, 3° e 4° comma, c.c. può ritenersi ammissibile”. Tuttavia – e qui cominciano i “distinguo” rispetto alla prima ordinanza – ad avviso del collegio nel caso di specie la delibera impugnata avrebbe avuto “integrale esecuzione da un punto di vista materiale”. In particolare, in attuazione del deliberato, l’amministratore unico della società (a mezzo procuratore) aveva già sottoscritto l’accordo quadro ed era già intevenuto nella assemblea di un’altra partecipata (titolare della residua quota di capitale della banca) per esprimere il voto favorevole alla sottoscrizione anche da parte di tale soggetto dell’accordo-quadro e alla connessa operazione di “salvataggio” della banca. Tra gli impegni assunti in forza della delibera e della conseguente sottoscrizione dell’accordoquadro vi erano l’impegno (in solido con la partecipata, detentrice della restante quota del capitale della banca) a versare nelle casse della banca il cospicuo importo di circa 6 milioni di euro e quello a sottoscrivere una aumento di capitale riservato. Tuttavia, rileva il collegio, tali impegni e più in generale gli effetti sulla società discendenti dalle singole e diverse fasi in cui si articolava l’operazione di salvataggio della banca partecipata, non deriverebbero più “dalla deliberazione autorizzativa del 4/12/2018, ma dal sottoscritto contratto quadro o meglio dalle singole fasi esecutive previste nel sottoscritto contratto quadro, che vede il coinvolgimento anche di soggetti terzi”, firmatari del medesimo accordo. Gli effetti della delibera, in questa prospettiva, sarebbero “terminati nel momento in cui, proprio in forza dei poteri conferiti, si è proceduto alla sottoscrizione del contratto quadro”. Quest’ultimo, dunque, “non può configurarsi come il primo atto esecutivo della ricordata serie di atti, in cui si articola la complessa operazione societaria, ma deve essere inteso come la fonte ‘normativa’ inter partes, che disciplina e disciplinerà le successive fasi esecutive….”. L’apparato argomentativo del giudice del reclamo non si esaurisce qui. La soluzione individuata viene infatti ritenuta più coerente con l’orientamento del medesimo tribunale in merito agli effetti retroattivi della sentenza di annullamento, regola che conosce il temperamento della limitata possibilità di giuridica rispristinazione della situazione preesistente. Viene, sul punto, richiamata una sentenza della S.C. secondo cui se, da un lato, la concessione della sospensione vale a rendere illegittimi gli atti di esecuzione posti in essere nonostante la sua concessione, dall’altro, “la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste anche al sopravvenire dell’annullamento”3.

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Trattasi di Cass. 27 febbraio 2013, n. 4946, su cui si veda l’ultimo paragrafo delle presenti note.

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Riservando al proseguio l’esposizione dei nostri dubbi in merito a tale ricostruzione, l’ordinanza del tribunale romano, nel prestare adesione alla stessa, ne trae le seguenti conseguenze: (i) che “l’eventuale successivo annullamento della delibera a monte non inciderebbe sulle deliberazioni adottate medio tempore, fino appunto all’eventuale provvedimento di sospensione”; (ii) “che l’eventuale annullamento della deliberazione 4/12/2018, a prescindere da ogni conseguenza nei confronti delle parti del contratto quadro, sottoscritto dall’a.u. di T.P. Spa in forza della qui impugnata deliberazione autorizzativa, non verrebbe verosimilmente ad incidere sulle successive deliberazioni che, in esecuzione del richiamato contratto quadro, sottoscritto prima del provvedimento di sospensione qui impugnato, fossero state nel frattempo adottate”.

2. La sospensione opera sull’efficacia della deliberazione, anticipando gli effetti della sentenza di merito.

La fattispecie sottoposta all’esame delle due ordinanze in commento appare davvero complessa. Tanto il primo giudice che il collegio concordano, come si è ricordato, sulla lettura estensiva dell’art. 2378 c.c., ritenendo applicabile la sospensione non alla sola esecuzione della delibera ma alla sua efficacia; salvo concludere diversamente, sull’erogazione o meno della cautela, proprio sulla base di una valutazione in concreto degli effetti della delibera impugnata. La questione a monte sembra, invero, essersi ormai consolidata in giurisprudenza in senso estensivo e questa tesi, come ho sostenuto diversi anni orsono, quando l’opposto orientamento era tutt’altro che minoritario, trova solide basi in diritto, che vale la pena di richiamare sia pure sommariamente4. Deve preliminarmente osservarsi come da un atto giuridico possa scaturire un duplice ordine di effetti. Agli effetti che si collocano sul piano del diritto, operanti a prescindere da qualsiasi modificazione della realtà materiale, si possono accompagnare degli effetti c.d. concreti o materiali, che si producono nella realtà fenomenica e che dai primi risultano condizionati e regolati5. L’effetto giuridico e l’effetto materiale appartengono dunque a due piani distinti, il piano dei valori giuridici e il piano dei fatti. Peraltro, non sempre alla produzione dell’effetto giuridico deve necessariamente conseguire l’adeguamento ad esso della realtà materiale,

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Corea, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, cit., passim, spec. 149 ss., studio a cui mi sia consentito il rinvio per una più diffusa illustrazione della questione. 5 Cfr., per analoghi rilievi nella dottrina amministrativistica, Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979, 62; Follieri, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981, 86 e ss.

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essendovi atti che esauriscono i loro effetti sul terreno del valore giuridico, senza bisogno di attività che ne integrino l’esecuzione. La tesi per cui la sospensione possa incidere soltanto sugli effetti materiali poggia, in sostanza, sul solo dato letterale della norma, che non parla di efficacia ma di esecuzione6. In realtà, oggi, come correttamente si ricorda nelle ordinanze del tribunale romano, neppure l’argomento letterale si dimostra idoneo a supportarla, com’è dimostrato dal fatto che il quinto comma dell’art. 35 del d.lgs. n. 5 del 2003, in tema di arbitrato societario, nell’introdurre per la prima volta nel nostro ordinamento un potere cautelare in capo agli arbitri, afferma che ove l’arbitrato riguardi la validità di una delibera assembleare agli arbitri spetta sempre “il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera”. Ciò potrebbe essere sufficiente per ritenere la tesi restrittiva non più sostenibile, a meno di non voler ritenere palesemente incostituzionale l’art. 2378 c.c., non giustificandosi certamente la minore ampiezza del sindacato cautelare dell’autorità giurisdizionale ordinaria rispetto a quello degli arbitri7. Ma per arrivare a giustificare sul piano giuridico e sistematico tali conclusioni, occorre superare l’impropria lettera della norma, per riconoscere che la sospensione incide sempre sul piano normativo ideale e non sulla realtà fenomenica, cosicché ogni modificazione di quest’ultima risulta indifferente rispetto alla produzione degli effetti propri della misura cautelare. Operando sul piano dei valori, e perciò svincolata dal tempo e dalle modificazioni della realtà, la sospensione è in grado di incidere anche su quegli effetti giuridici che si producono contestualmente alla emanazione dell’atto, in quanto retti dal principio c.d. di simultaneità, secondo il quale non è possibile riscontrare una successione temporale dell’effetto rispetto al fatto giuridico8. Non vi è, in astratto, alcun ostacolo che possa impedire la pronuncia della sospensione: purché vi sia un atto giuridico (anche potenzialmente) produttivo di effetti ed in presenza del prescritto periculum, la sospensione potrà sempre ed in ogni momento intervenire a neutralizzare, sul piano giuridico e dei valori, gli effetti giuridici da quell’atto prodotti o producibili. In altre parole, essa agisce come la pronuncia di annullamento, neutralizzando gli effetti dell’atto quale che sia la modificazione della realtà nel frattempo intervenuta e determinando in tal modo “una situazione giuridica in tutto identica (salva la sua transito-

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L’argomento letterale, per vero, è stato svalutato, assumendosi che l’art. 2378 ha ripetuto l’analoga formula dell’art. 163 del cod. comm., sotto la cui vigenza non si era dubitato della possibilità di sospendere anche le delibere prive di esecuzione: così Trib. Napoli, 13 gennaio 1993 (ord.), in Dir. fall., 1993, II, 572. D’altra parte, anche in altre disposizioni contemplanti la sospensione, come l’art. 1109 c.c., si parlava più genericamente di sospensione “del provvedimento impugnato”. 7 Cfr. Trib. Milano, 22 gennaio 2015 (giudice Mambriani); Id., 23 marzo 2016 (est. Ricci); Id, 21 giugno 1988 (ord.), in Società, 1988, 1052 e ss, con l’unico limite della “circostanza che gli effetti della deliberazione si siano definitivamente realizzati ed esauriti”; Id., 4 maggio 1990, (ord.), ivi, 1990, 1334; Trib. Saluzzo, 24 febbraio 2001 (ord.), in ivi, 2001, 1376, che del tutto condivisibilmente afferma che l’art. 2378 c.c. dev’essere interpretato in maniera adeguatrice al disposto costituzionale e in forma estensiva dell’applicabilità della tutela cautelare “anche nei confronti di quelle deliberazioni che, per quanto già eseguite (eccettuato ovviamente il caso in cui gli effetti siano ormai irreversibilmente esauriti), manifestino attitudine a incidere ancora sull’organizzazione e amministrazione della società”. 8 Cataudella, Fattispecie, in Enc. dir., Milano, XVI, 1967, 928.

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rietà) a quella che si avrebbe se l’atto non fosse stato emanato”9. Deve quindi respingersi, in linea di principio, la diversa opinione secondo cui la delibera sospesa potrebbe fungere da valido presupposto per ulteriori determinazioni dell’organo assembleare e per la quale verrebbero preservati eventuali effetti giuridici “interni” all’ente societario o verso terzi, pur potendosi ammettere dei margini di discrezionalità in capo al giudice circa la concreta ampiezza dell’operatività della sospensiva in rapporto al pregiudizio cautelando10. Proprio per il fatto che la sospensione agisce sull’effetto giuridico dell’atto, la realtà giuridica si conformerà immediatamente al nuovo comando per effetto della sua stessa emanazione, mentre occorrerà che anche la realtà materiale venga uniformata alla nuova situazione giuridica, al nuovo dover essere, con ciò che ne consegue sotto il profilo degli aspetti restitutori e ripristinatori, ove esistenti e possibili11. Una volta rimosso il preteso limite della mancanza di un’esecuzione, l’unico limite rimasto alla concedibilità della sospensione è pertanto rappresentato dall’avvenuta compiuta produzione degli effetti giuridici dell’atto impugnato, che comporti esiti irreversibili12. Tuttavia, a ben vedere, un siffatto limite è da valutare sul piano della verifica da parte del giudice della cautela del prescritto periculum (e dunque della sussistenza di uno dei necessari presupposti per la concessione della misura cautelare), nel senso che quest’ultimo potrà risultare carente (ad es., perché il pregiudizio si è definitivamente prodotto), o potrà recedere all’esito della valutazione comparativa degli interessi richiesta dall’art. 2378, mentre, sotto altro profilo, è lo stesso limite che – pur non impedendone l’emanazione –

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In tal senso la giurisprudenza del Consiglio di Stato sin dalla sentenza del 2 maggio 1958, n. 382, in foro it., 1959, III, 92; successivamente, Ad. Plen., 30 aprile 1982, n. 6, in Foro amm., 1982, I, 626. 10 Così Gommellini, Sulla sospensione dell’esecuzione delle delibere assembleari, in Giur. comm., 1987, I, 944; C. Ferri, Le impugnazione delle delibere assembleari, cit., 63, secondo cui “con la sospensione soltanto gli effetti pregiudizievoli nei confronti dell’opponente non si verificano mentre permangono non solo quelli derivanti dalla già avvenuta esecuzione della delibera ma anche tutte le conseguenze connesse al permanere di efficacia ulteriore, eventualmente anche nei confronti dei terzi”. In verità, è chiaro che l’ordinanza di sospensione interviene, sotto il profilo oggettivo, sulle sole statuizioni della delibera (e dunque sui relativi effetti pregiudizievoli) che sono oggetto di impugnazione (una delibera può contenere più statuizioni, approvare il bilancio e contestualmente conferire le nomine per le cariche sociali), ma in tale ambito oggettivo l’inoperatività sopravvenuta della delibera deve ritenersi totale. Diversamente, un’analisi tesa a discernere effetti sospesi e non sospesi in quanto non pregiudizievoli, nonché a verificare quali ulteriori atti potrebbero essere adottati sul presupposto della delibera sospesa e quali no, sarebbe affidata a criteri sfuggenti se non arbitrari, oltreché contraria ai fondamentali principi di certezza che governano l’agire sociale. Per fare un esempio, ove venga impugnata e sospesa una delibera di aumento del capitale sul presupposto della verosimile violazione del diritto di opzione del socio impugnante, non saranno neutralizzati i soli effetti riconducibili a detta violazione ma l’intera efficacia della delibera, sicché l’assemblea potrà decidere di approvare una nuova delibera di aumento uniformandosi al “giudicato” cautelare, ovvero desistere in attesa dell’esito del giudizio di merito. 11 Trib. Milano, 22 gennaio 2015, cit.; Trib. Napoli, (ord.) 12 gennaio 1993, in Dir. Giur., 1994, 402; Trib. Frosinone, (ord.) 14 gennaio 1995, in Riv. dir. comm., 1996, II, 271. 12 Cfr. ancora Trib. Milano, 21 giugno 1988 (ord.); Trib. Padova, 21 maggio 2005 (decr.), in Corr. giur., 2006, 1283, con nota di Villata, La guerra Olanda-Lodi lascia sul campo alcuni principi processuali? (note in tema di sospensione delle delibere societarie e procedimento cautelare nella vicenda antonveneta); Trib. Saluzzo, 24 febbraio 2001 (ord.); Trib. Piacenza, 6 maggio 1989 (decr.), sopra citate; Trib. Roma, 24 marzo 1987, in Impresa, 1987, 1343; Trib. Milano, 31 ottobre 1995, in Giur. comm., 1996, II, 828; Trib. Milano, 19 maggio 1993, in Giur. comm., 1993, II, 736; Trib. Milano, 4 maggio 1990, in Società, 1990, 1334; Trib. Bologna, 28 ottobre 1992, in Giur. comm., 1994, 117 (che ritiene sospendibile una delibera anche integralmente eseguita).

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può caratterizzare la concreta utilità (in presenza di effetti irreversibili) della sentenza di annullamento13.

3. Gli effetti delle sentenze di annullamento (e della

sospensione) di una delibera rispetto ai terzi che entrino in contatto con la società.

Se sugli effetti della sospensione non vi è discordia, in linea di principio, tra le due ordinanze in rassegna, le divergenze insorgono con riferimento ai limiti in cui una delibera già eseguita possa ancora essere sospesa. Là dove il primo giudice ritiene che l’accordo-quadro sottoscritto in esecuzione della delibera impugnata sia solo “il primo atto di una complessa operazione, che prevede numerosi passaggi successivi volti a far entrare terzi investitori” nella compagine sociale della banca partecipata, sicché gli effetti giuridici della delibera “sono destinati ancora a prodursi e sono ancora idonei ad incidere sulla organizzazione societaria e sull’attività successiva, non essendo stata ancora portata a termine l’intera operazione”; il collegio invece afferma che gli effetti sulla società derivanti dalle singole e diverse fasi in cui si articolava l’operazione di salvataggio della banca partecipata, non sarebbero più dipendenti direttamente “dalla deliberazione autorizzativa del 4/12/2018, ma dal sottoscritto contratto quadro”, per giungere alla opposta conclusione del completo esaurimento degli effetti della delibera, dunque non più passibile di sospensione. Entrambe le pronunce appaiono ragionate e motivate sicché l’individuazione della soluzione esatta non è, prima facie, agevole. A nostro avviso, al fine di dare una risposta corretta alla questione, occorre fare un passo indietro e muovere dalla natura delle deliberazioni societarie. La tesi tradizionale, che analizzava il fenomeno deliberativo inquadrandolo nella teoria generale dell’atto e, in particolare, del negozio giuridico, è stata nel tempo soppiantata dagli studi successivi che hanno preferito osservare il fenomeno sul piano obiettivo e dinamico dell’attività. Il problema della deliberazione consiste nella possibilità che la stessa, in quanto atto conclusivo del procedimento (e procedimento essa stessa), sia “imputata” all’organizzazione - possibilità che consegue unicamente alla sua conformità alla legge e all’atto costitutivo, cioè alle norme organizzative della società - sì da poterle attribuire quel particolare “valore” che è rappresentato dal “vincolo” per tutti i soci chiaramente espresso dall’art. 2377 c.c.14.

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Per fare un esempio, a fronte di una norma – come l’art. 2433 c.c. – che prevede l’irripetibilità, a certe condizioni, dei dividendi erogati in violazione delle norme di legge, l’effettiva erogazione delle somme in favore dei soci costituisce una circostanza che se, da un lato, vanifica la stessa sentenza di annullamento della delibera di distribuzione degli utili, dall’altro impedisce a fortiori la concessione della misura cautelare. 14 Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 987; Ferro-Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari alla legge e all’atto costitutivo, Milano, 1993, 48 e ss.

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Secondo un’autorevole dottrina, le deliberazioni tendono a rispondere ad esigenze ed a perseguire finalità tipiche del fenomeno societario e del gruppo organizzato, che non trovano riscontro nel campo dell’azione individuale, dove opera lo strumento del negozio giuridico. Si è altresì rilevato che detti “valori societari” vengono realizzati sempre e soltanto in virtù della deliberazione, indipendentemente dal fatto che il risultato finale debba essere perseguito mediante atti di “esecuzione”. Al riconoscimento della tendenziale idoneità della deliberazione a soddisfare i valori tipici del fenomeno societario, fa da pendant la sua tendenziale inidoneità a realizzare valori tipicamente individuali se non “degradando” a mera “decisione” di porre in essere un ulteriore atto, quest’ultimo di natura prettamente privatistica e tale da operare sul terreno negoziale15. Questa ricostruzione spiega anche la ratio dell’art. 2377 c.c., là dove stabilisce che in caso di annullamento della deliberazione, sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi di buona fede “in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione”: la norma non fa salvi, dunque, i diritti acquistati in base alla deliberazione, ma solo “in base ad atti distinti, che si pongano come titolo dell’acquisto”16. La conseguenza è che il principio della salvezza dei diritti dei terzi non si applicherà mai alle deliberazioni vere e proprie ma solo a quelle di carattere gestorio: nel primo caso, infatti, il legislatore, nel potenziale conflitto tra l’interesse del terzo e quello della società sceglie di privilegiare quest’ultimo facendo subire al terzo le regole dell’organizzazione17. È possibile testare le conseguenze di una siffatta impostazione anche ai fini dell’incidenza della misura cautelare sospensiva. Prendiamo, ad esempio, il caso della impugnazione di una delibera di aumento del capitale, tipica delibera organizzativa che necessita di una serie di atti di esecuzione. Anche qui, ricordiamo come una parte della dottrina e della giurisprudenza, attraverso una lettura restrittiva dell’art. 2378 c.c., abbia ritenuto ammissibile la sospensione della delibera di aumento del capitale soltanto qualora non si fosse completata la fase “esecutiva” della delibera, rappresentata dalla liberazione delle azioni di nuova sottoscrizione. Ciò, sul

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Più precisamente, si sostiene che vi sarebbero, sotto l’aspetto del valore da realizzare, “deliberazioni-fattispecie” che attengono ai valori societari ed alla “possibilità giuridica” di porre in essere “ulteriori atti”, e “deliberazioni-decisioni” che invece regolano la distribuzione di situazioni soggettive, operando con riferimento a valori propri della esperienza privatistica che non possono essere realizzati direttamente dalla delibera ma abbisognano della mediazione di una “dichiarazione” negoziale. Le prime potrebbero non richiedere alcuna “esecuzione”, le seconde hanno invece bisogno dell’intermediazione di un atto di natura privatistica, da cui sarebbero “attuate” o “seguite” piuttosto che “eseguite”, in quanto si tratterebbe di un atto dotato di autonomia non avente carattere esecutivo in senso tecnico (Ferro-Luzzi, La conformità, cit., 104 e ss.). Echi di questa distinzione, come di quella che contrappone le deliberazioni alle decisioni, si rinvengono nella dottrina pubblicistica: cfr. Giannini, Decisioni e deliberazioni amministrative, in Foro amm., 1946, I, 1, 159 e ss.). Rimane, comunque, al di là delle singole ricostruzioni offerte dagli autori che si sono occupati della materia, la possibilità di distinguere, su un piano generale, tra delibere a contenuto essenzialmente gestorio e delibere che invece esprimono un valore ed un’efficacia sul piano organizzativo, quest’ultime tipicamente rientranti nella competenza del sovrano organo assembleare (che vede oggi notevolmente ridotte, in favore dell’organo amministrativo, le competenze gestorie): v. per tale distinzione, Ragusa, Vizi del processo decisorio nelle formazioni organizzate e diritti dei terzi, Milano, 1992, passim. 16 Ferro-Luzzi, La conformità, cit., 110. 17 Rientrano in questa categoria le delibere di aumento del capitale, di emissione di obbligazioni, di nomina delle cariche sociali, di distribuzione di utili, di modifica dell’atto costitutivo.

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rilievo che gli effetti lesivi ad essa riconducibili, come la eventuale perdita della qualità di socio o la riduzione della quota di partecipazione del socio di minoranza ottenuta previa limitazione o esclusione del diritto di opzione, costituirebbero solo una “conseguenza permanente di un’esecuzione già avvenuta”, rispetto alla quale nulla potrebbe la sospensiva18. La tesi più liberale è invece pervenuta a diverse conclusioni avendo riguardo alla “perdurante efficacia” della delibera rispetto all’organizzazione societaria ed alle posizioni dei soci, tale da giustificare la sussistenza di un periculum anche a seguito della sua esecuzione, nonché alla capacità della sospensione di paralizzarne gli effetti19, reintegrando il socio nella situazione preesistente e, quindi, nella piena consistenza della sua quota di partecipazione al capitale sociale e nella piena titolarità dei diritti sociali e di controllo ad essa connessi20. Sulla scorta di quanto detto in precedenza, non possiamo che condividere tale secondo indirizzo. La sospensione non interviene solo a congelare l’“esecuzione” della delibera impugnata ma è in grado di neutralizzarne gli effetti giuridici prima ancora di quelli materiali. Fin tanto che la delibera impugnata esplichi i suoi effetti permanentemente lesivi della posizione dell’impugnante, la sospensiva potrà essere concessa al fine di evitare il prodursi o il protrarsi del pregiudizio sofferto, l’unico limite dovendosi rinvenire, come per la stessa efficacia retroattiva della sentenza di annullamento, nella eventuale irreversibilità degli effetti prodotti dalla delibera adottata ed eseguita. La sospensiva è dunque idonea a ripristinare la sfera giuridica lesa mercé la provvisoria caducazione degli effetti della delibera di aumento del capitale: essa opera, secondo la ricostruzione che preferiamo, anticipando gli effetti della (eventuale) sentenza di annullamento, sì da restituire al socio impugnante la qualità di socio perduto o la quota di partecipazione pregressa e da consentirgli l’esercizio dei diritti sociali nella stessa misura. La sentenza di accoglimento dell’impugnativa comporta infatti, secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, la rimozione ex tunc della delibera sul capitale e, nei limiti del possibile, dei suoi effetti giuridici e sostanziali, travolgendo le situazioni giuridiche direttamente derivanti dalla delibera invalidata nonché – entro certi limiti (vedi infra il § 4) – da quelle ad essa funzionalmente collegate21, con conseguente obbligo per la società

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Trib. Genova, 24 maggio 1989 (ord.), in Giur. comm. 1992, 345. In dottrina, Galgano, Diritto commerciale, 2, Bologna, 2001, 245; R. Lener, Sub art. 2378, in Commentario a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, I, Napoli, 2004, 563 il quale, sul rilievo che “l’oggetto del provvedimento è limitato alla sola sospensione dell’esecuzione”, trae la conseguenza della “impossibilità di ottenere una provvisoria anticipazione del contenuto della pronuncia di merito” in presenza di una deliberazione già eseguita. 19 Trib. Milano, 25 ottobre 2012, in Società, 2013, 844, con nota di Bernabai; Trib. Milano, 19 maggio 1993 (decr.), cit.; Id. 25 luglio 1998 (decr.), cit.; Trib. Como, 1 giugno 2000 (ord.), cit. 20 Trib. Milano, 25 luglio 1998, cit., che individua il periculum nel “permanere di per sé privante dello status di socio l’impugnante e dunque escludente lo stesso medio tempore dai diritti connessi di partecipazione”, esponendo altresì il medesimo, in caso di alienazione delle azioni da parte degli attuali soci, “al rischio di non poter più conseguire tale status anche nel caso di accoglimento della domanda”; Trib. Como, 1 giugno 2000, cit., rileva che “la paralisi degli effetti della delibera impugnata non farebbe venir meno la legittimazione del ricorrente all’esercizio del potere di denuncia ex art. 2409 c.c.”; Trib. Roma, 20 marzo 1995 (ord.), in Temi romana, 1995, II, 552, ha concesso la sospensiva sul rilievo che gli azionisti avevano “perso la legittimazione ad intervenire alle assemblee” ed era loro quindi “inibito di influire, con l’esercizio del diritto di voto, sulle decisioni che saranno adottate”. 21 Cfr. Cass., 30 ottobre 1970, n. 2263, cit.; Cass., 6 novembre 1999, n. 12347, cit., con specifico riferimento ad una delibera di riduzione ed una successiva delibera di ricostituzione del capitale sociale. Si veda però, nel prossimo paragrafo, la peculiare ricostruzione di Cass., 27 febbraio 2013, n. 4946.

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di annullare le azioni emesse e restituire i conferimenti apportati ai titolari, i quali perderanno la qualità di socio perlomeno in proporzione alla quota sottoscritta22. La salvezza dei diritti dei terzi di buona fede opera, per quanto detto, solo in relazione all’acquisto di diritti in virtù di delibere a contenuto gestionale e non per effetto diretto di delibere a carattere prettamente organizzativo, come deve ritenersi la delibera di aumento del capitale23. Investendo il giudice cautelare nell’immediatezza dell’adozione della delibera, l’istanza di sospensione può giungere ad impedire lo stesso perfezionamento della fattispecie modificativa, ovvero ad inibirne la fase esecutiva. Naturalmente, la capacità della sospensione di intervenire sull’intero regime effettuale dell’atto deliberativo, consente al giudice di emettere il provvedimento cautelare anche ad esecuzione compiuta, in tal caso dovendosi riconoscere la “reviviscenza” della situazione antecedente: ciò che potrà avvenire o automaticamente, in virtù dello stesso effetto “costitutivo” della misura cautelare, o ad opera della società secondo i meccanismi che potranno essere ritenuti più opportuni ma comunque tali da assicurare pienezza di tutela ed effettività alla erogata misura cautelare. Se tali premesse sono condivisibili, possiamo trarne delle conclusioni anche con riferimento al caso di specie. Si è rilevato come la delibera impugnata avesse un contenuto complesso: per quanto si ricava dall’ordinanza collegiale, “nel verbale dell’assemblea del 4/12/2018 è dato leggere, oltre a quanto previsto a livello organizzativo con la prevista nascita di un gruppo bancario” nuovo, che si è approvato il testo di un accordo-quadro in forza del quale, da un lato, la società deliberante accettava l’azzeramento della propria partecipazione nella banca, con sottoscrizione di un aumento di capitale riservato ai nuovi soci; dall’altro, la società si sarebbe obbligata a sottoscrivere una quota di capitale della nuova banca e a versare in suo favore un ingente somma a copertura di perdite. La natura della deliberazione sembrerebbe, prima facie, ambivalente: ove si guardi all’impegno assunto verso terzi con la sottoscrizione dell’accordo-quadro il cui testo era fatto oggetto di approvazione assembleare, si potrebbe sostenere il suo carattere (almeno in parte) gestorio; ove, invece, si privilegi l’impatto sulla ristrutturazione del principale asset della società (e la costituzione di un nuovo gruppo bancario), derivante dall’azzera-

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Guerrieri, Sub artt. 2379-2379-ter, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 620. Ferro Luzzi, La conformità, cit., 83 e ss., secondo cui qualora il terzo acquisti un diritto in ragione di delibere che costituiscono espressione di tipici valori societari, come quella di aumento del capitale o di emissione di obbligazioni, egli entra in contatto con l’organizzazione e deve accettarne tutte le regole, ivi compresa la caducazione delle modifiche organizzative apportate con le delibere annullate. La sua sfera giuridica viene infatti ad essere incisa dalla deliberazione stessa che agisce sull’organizzazione, a prescindere dal fatto che siano intervenuti ad eseguirla atti successivi dell’organo amministrativo: travolta con sentenza la modifica organizzativa, rimangono travolti anche i diritti del terzo che è entrato in contatto con l’organizzazione. In senso contrario, con specifico riferimento alla delibera di aumento del capitale, Zanarone, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, 3 **, Torino, 1998cit., 367, il quale ritiene che i terzi di buona fede che abbiano sottoscritto azioni a seguito dell’offerta effettuata dall’organo amministrativo in esecuzione della delibera assembleare di aumento del capitale, si dovrebbero sottrarre alle conseguenze dell’annullamento. Tale opinione fatica però a conciliarsi con l’affermazione dello stesso Autore secondo cui “l’annullamento di una delibera di esclusione dell’opzione avrà come conseguenza il ripristino del corrispondente diritto del socio” (p. 352). In giurisprudenza cfr. Cass., 15 marzo 1995, n. 2968, in Società, 1995, 173, con nota di Rordorf, che allude ad un non meglio precisato “coordinamento con i diritti dei terzi”.

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mento della sua partecipazione, dall’impegno a sottoscrivere una nuova quota di capitale sociale e a versare nella casse della partecipata una rilevante somma a copertura di perdite, parrebbe prevalere la sua natura organizzativa. Essa era infatti volta a una riorganizzazione societaria ancorché non direttamente riguardante la società deliberante ma la sua partecipata; a tal fine, la sottoscrizione dell’accordo-quadro con soggetti terzi costituiva un passaggio essenziale di tale progetto, da eseguirsi attraverso diversi atti e in momenti successivi. È vero che con la sottoscrizione di quel contratto la società si è impegnata all’esterno nei confronti di terzi, ma ciò non è forse sufficiente ad affermare che con quella sottoscrizione la delibera impugnata avesse esaurito i suoi effetti giuridici. Un raffronto potremmo farlo con la deliberazione che approvi l’emissione di obbligazioni. Anche in tal caso, è stato rilevato, se si ponga l’accento sul rapporto di credito con i terzi obbligazionisti, la deliberazione tenderà a “degradare a momento decisionale dell’operazione creditizia” (avrà, insomma, un contenuto prettamente gestorio); se, per contro, si guardi alla natura di finanziamento del gruppo, propria dell’operazione, il rapporto di credito passa in secondo piano rispetto al carattere organizzativo24. Se si accettano le premesse da cui siamo partiti, dovremo concludere che i terzi che sono “entrati in contatto” con l’organizzazione societaria ne hanno accettato le regole, sicché l’eventuale invalidazione, o sospensione, della delibera che ha consentito di dar seguito al progetto riorganizzativo, non può restare senza effetti sull’accordo sottoscritto in sua attuazione. Ove, peraltro, diversamente opinando, si ritenesse che la delibera in esame avesse un contenuto gestorio e non organizzativo, ciò nondimeno la salvezza dei diritti dei terzi, a fronte di una invalidazione della delibera, sarebbe condizionata (oltreché all’acquisto di tali diritti in forza di un atto di esecuzione, che potrebbe essere rinvenuto nell’accordoquadro) alla ricorrenza della buona fede in capo al terzo. Circostanza, questa, che, in tale diversa prospettiva, avrebbe potuto essere accertata nell’ambito del giudizio di impugnazione e oggetto di delibazione prognostica nella fase cautelare25.

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Ferro-Luzzi, La conformità, cit., 102. Nell’ordinanza di reclamo il collegio sembra porsi il problema della natura organizzativa: “si potrebbe astrattamente ipotizzare che l’assemblea, discutendone e poi approvandolo, possa aver inteso richiamare integralmente, facendolo proprio, il contratto quadro, così che la stessa deliberazione, al pari del contratto quadro, possa ritenersi ‘fonte’ della regolamentazione pattizia delle successive fasi esecutive e quindi, in conseguenza di ciò, continuare ad esplicare effetti giuridici, incidenti sull’organizzazione societaria”. Ma l’ipotesi viene scartata “in quanto non vi è stato alcun rinvio recettizio e l’esposizione dell’accordo quadro in sede assembleare si è resa necessaia solo per la necessaria esigenza di informazione dei soci e per consentire loro di esprimere un voto pienamente consapevole, così come per consentire al Collegio sindacale di esprimere consapevolmente il proprio parere, risultato ‘favorevole’ a verbale”. Queste considerazioni sembrano quindi ridurre lo stesso significato del voto assembleare a mero passaggio “informativo”, sul che si può avanzare qualche perplessità. 25 Al riguardo, si è sostenuto che il terzo può considerarsi in mala fede in due diverse ipotesi: (i) quando sia a conoscenza di elementi che rendono macroscopica l’invalidità della delibera; (ii) quando sia a conoscenza dell’impugnazione: Sacchi, Gli effetti della sentenza che accoglie l’impugnazione di delibere assembleari di s.p.a., in Banca, borsa, 2012, 141 ss., il quale preferisce la prima tesi sul rilievo che la seconda consentirebbe di pregiudicare il terzo anche in presenza di un’impugnazione strumentale.

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D’altra parte, là dove il legislatore ha voluto precludere l’annullamento di una delibera per impedire che la sua caducazione potesse ripercuotersi sull’atto di essa esecutivo – come nel caso della delibera di fusione, trasformazione o scissione (artt. 2504-quater, 2500bis, 2506-ter c.c.)26 – lo ha espressamente stabilito, così dimostrando di voler garantire, in questi specifici casi in misura evidentemente maggiore che negli altri, le esigenze di stabilità degli atti societari27.

4. Sui limiti alla retroattività degli effetti della sentenza di annullamento.

A questo punto le presenti note potrebbero avviarsi alla conclusione se non fosse che, nel successivo passaggio motivazionale, la soluzione avallata dal collegio viene infine ricondotta alla necessità di dover temperare la regola della retroattività giuridica della sentenza di annullamento di una deliberazione con la limitata possibilità di “ripristinazione della situazione giuridica preesistente in senso materiale”. Il rilievo, che introduce il delicato e forse irrisolto tema dei limiti alla retroattività degli effetti della sentenza di annullamento ex art. 2377 c.c., trae conforto da una pronuncia della Cassazione che avrebbe individuato un particolare criterio di contemperamento tra le esigenze di tutela del socio impugnante vittorioso e quelle di stabilità e certezza degli atti e dei rapporti societari. Chiamata a decidere circa l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tra due giudizi (che aveva comportato la sospensione del secondo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c.) - l’uno di impugnativa di due delibere con cui erano stati decisi due consistenti aumenti di capitale, l’altro di impugnativa di una terza delibera che ne aveva disposto la sostituzione ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 2377 c.c.28 – la S.C. ha affermato il principio secondo cui “l’annullabilità di una delibera di aumento del capitale sociale non incide (..) sulla validità delle successive delibere adottate con la nuova maggioranza, a meno che la prima delibera non sia stata sospesa ai sensi dell’art. 2378 c.c.”. A tale conclusione, la S.C. perviene dopo aver riconosciuto la retroattività della sentenza di annullamento, ma “nei limiti previsti dalla legge”. Questi limiti vengono tratti, tuttavia, non da un’analisi del testo dell’art. 2377, nella parte in cui fa salvi i soli diritti acquisiti da terzi in buona fede sulla base di atti posti in essere in esecuzone della delibera invalidata, come tradizionalmente si è sempre ritenuto.

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In tema, G. Scognamiglio, Le scissioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, Torino, 2004, 7**2, 365 e ss., per l’operatività della preclusione in tutti i casi di invalidità dell’atto di fusione, sia essa diretta o derivata dalle precedenti fasi del procedimento, ad iniziare dalla stessa delibera di approvazione del progetto. 27 Conf. ancora Sacchi, Gli effetti della sentenza che accoglie l’impugnazione di delibere assembleari di s.p.a., cit., §2. 28 Secondo cui non può disporsi l’annullamento della delibera impugnata se la stessa è sostituita con altra presa in conformità alla legge e allo statuto.

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Ma sulla scorta di un ragionamento a contrario, per cui, se la sospensione dell’esecuzione disposta dal giudice “rende illegittimi gli atti di esecuzione che vengano ciò nonostante posti in essere, così la mancanza di un provvedimento di sospensione comporta le legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento: in caso contrario, l’istituto della sospensione non avrebbe alcun senso, visto che gli effetti giuridici sarebbero i medesimi sia che l’impugnante abbia ottenuto la sospensione della delibera, sia che non l’abbia ottenuta”29. Al di là della forte opinabilità di tali conclusioni, su cui presto ci soffermeremo, ciò che lascia sorpresi nella lettura di questa sentenza della S.C. è come venga liquidato uno dei problemi più risalenti, indagati e complessi che da sempre occupa e preoccupa la dottrina e la giurisprudenza. Il tutto, senza alcun riferimento alle soluzioni astrattamente predicabili, né all’esegesi delle norme e alla loro radice storica. La stessa giurisprudenza, che pure si è richiamata a tale sentenza, non ha mancato talvolta di manifestare qualche perplessità per la soluzione adottata30. In effetti, pur essendo dichiaratamente ispirata al rispetto delle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti societari, l’affermazione della equivalenza tra atto non sospeso e atto legittimo non trova alcun fondamento positivo. Ancor meno, il (presunto) principio per cui la mancata sospensione “comporta” la legittimità degli atti esecutivi. Gioverà allora provare a ricostruire, seppure qui in modo necessariamente sommario, lo stato del dibattito in merito agli effetti della sentenza che annulla una deliberazione impugnata per contrarietà alla legge o allo statuto31. L’elaborazione dottrinale fiorita sotto il vecchio codice commerciale trovò obiettivo recepimento nel codice civile del 1942, nel quale le cause di invalidità della delibera, alla stregua di ogni altro negozio giuridico, vennero identificate nella nullità e nell’annullabilità, pur con la peculiare inversione del principio civilistico secondo cui la prima rappresenta la regola e la seconda l’eccezione32. Come già avvenuto in precedenza, però, l’apparente linearità del quadro normativo cominciò a sfaldarsi tanto a fronte della creazione giurisprudenziale della categoria dei vizi di inesistenza della delibera priva dei caratteri

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Cass., 27 febbraio 2013, n. 4946, cit. Si v. Trib. Milano, 23.3.2016, rel. Mambriani, inedita. Sebbene, in altri casi, abbia prestato adesione: Trib. Napoli, 14 maggio 2014, in www.ilcaso.it.; Trib. Milano, 26 luglio 2017, n. 8338; Trib. Roma, 22 maggio 2018, in www.giurisprudenzadelleimprese.it. 31 Mi si permetta, per un maggiore approfondimento del tema, qui non riproponibile, di nuovo il rinvio al mio, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, cit., 43 e ss.; sul tema, in generale, l’ampia monografia di Villata, Impugnazioni di delibere assembleari, cit. 32 Salve le cautele di chi avvertiva la specificità della materia e la necessità di tener conto delle “imponenti esigenze di ordine pratico” ad essa connesse: cfr. Fre’, Società per azioni, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1982, 347; Mignoli, Invalidità di deliberazioni assembleari di società per azioni e diritti dei terzi, in Riv. dir. comm., 1951, I, 311; Cottino, Diritto commerciale, I/2, Padova, 1987, 430; Angelici, Società per azioni, cit., 989 e ss.; Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 1999/2000, 243; Brunetti, Trattato di diritto delle società, II, Milano, 1950, 337 e ss. In giurisprudenza, Cass. 10 marzo 1999, n. 2053; Cass. 11 marzo 1980, n. 1625. Per un’analisi accurata dei profili dell’invalidità nel sistema introdotto dal codice civile del 1942, v. Zanarone, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, cit., 187 e ss. 30

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essenziali della fattispecie, quanto per via di un’interpretazione particolarmente ampia dell’art. 2379 c.c. e dei vizi di nullità in esso contemplati33. Per quanto attiene poi agli effetti della sentenza, la giurisprudenza affermò il principio del favor legitimitatis della delibera assembleare fino al momento in cui essa non fosse stata definitivamente annullata o dichiarata nulla34 e la dottrina non dubitò che ciò costituisse applicazione del «“principio ribadito al n. 655 della relazione al re in materia contrattuale con l’affermazione che il “contratto annullabile è efficace fino a quando non se ne sia pronunciato l’annullamento”»35. Conseguentemente, si sostenne che l’annullamento della delibera agisse “ex tunc, salvi soltanto, come espressamente dispone il 3° [oggi settimo] comma dell’art. 2377, i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione stessa”36, travolgendo sia le delibere successivamente emanate che i rapporti giuridici che trovavano nella delibera annullata il loro presupposto37. Infatti, proprio argomentando a contrario dal terzo comma del vecchio art. 2377 c.c., con la sua esplicita salvezza dei soli terzi di buona fede, si ritenne di poter “eliminare ogni dubbio sulla retroattività della sentenza che pronuncia l’annullamento (..)”38. Ed ancora a tal proposito, si precisò che la norma aveva inteso condizionare la salvezza del diritto ac-

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In particolare, venne interpretato estensivamente il vizio di impossibilità dell’oggetto, facendovi rientrare anche i vizi attinenti al contenuto della delibera, e venne basata la distinzione tra vizi di nullità e di annullabilità sul carattere generale o meno degli interessi tutelati dalle due norme: cfr. per un’ampia disamina del tema, Meo, Gli effetti dell’invalidità delle delibere assembleari, Milano, 1998, 19 e ss., 47 e ss.; S.A. Villata, Impugnazioni di delibere assembleari, cit., 53 e ss. Sul problema delle deliberazioni inesistenti, cfr. Brunetti, Trattato, cit., 342. 34 Cass. 30 giugno 1959, n. 2068, in Dir. fall., 1959, II, 558. 35 Fre’, op. cit., 347; Zanarone, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, cit., 344, secondo cui gli effetti dell’annullamento consistono nell’estinzione della situazione giuridica creata dalla delibera annullata. 36 Fre’, op. cit., 347; Donati, L’invalidità delle deliberazioni di assemblea delle società anonime, cit, 284. Normalmente la sentenza costitutiva produce effetti ex nunc, ma talora la legge può prevedere che agisca ex tunc (cfr. C. Ferri, Profili dell’accertamento costitutivo, Padova, 1970). 37 In proposito, Zanarone, L’invalidità, cit., 347 e ss. La giurisprudenza civile è oscillante. Cass. 30 ottobre 1970, n. 2263, in Giust. civ., 1970, I, 1725 e ss., ha affermato il principio dell’efficacia retroattiva dell’annullamento anche sulle delibere successive dipendenti, salvi solo i diritti acquistati da terzi di buona fede, rilevando che gli amministratori debbono prendere i provvedimenti conseguenti (ex art. 2377 c.c.) eliminando “nella struttura e nell’attività della società tutti gli effetti della deliberazione impugnata, nei limiti necessari per riportare la vita della società nell’ambito della conformità alla legge ed all’atto costitutivo, dai quali essa ha deviato con la deliberazione dichiarata invalida”, ed escludendo persino la necessità di “distinte, successive impugnazioni delle deliberazioni dipendenti da quella principale impugnata”; analogamente, Cass. 17 dicembre 1990, n. 11966, in Giur. it., 1991, I, 1, 1399, ha dichiarato la nullità della deliberazione con la quale siano stati destinati “a capitale” utili risultati occultati con una precedente deliberazione di approvazione del bilancio, atteso che la deliberazione successivamente adottata trovava fondamento in un bilancio affetto da nullità; Cass., 6 novembre 1999, n. 12347, in Società, 2000, 943, relativamente alla nullità derivata della delibera di aumento del capitale rispetto a quella di riduzione, nella fattispecie “impugnate congiuntamente”; Cass. 27 febbraio 2013, n. 4946, menzionata nel testo. Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Ancona, 18 gennaio 2002, in Giur. comm., 2003, II, 246; Trib. Napoli, 29 giugno 1998 (ord.), in Società, 1999, 714, secondo cui la nullità della delibera di approvazione del bilancio inficia, senza necessità di autonoma impugnazione, le delibere che su di essa si fondino. Ma per la necessità di impugnare tempestivamente il vizio dell’atto successivo, Cass., 1 aprile 1982, n. 2009, in Giur. comm., 1982, II,570, in tema di annullamento di delibera di nomina di amministratori. 38 Sono ancora le parole di Fre’, op. cit., 347. Nello stesso senso, in precedenza, Candian, Nullità e annullabilità di delibere delle società per azioni, Milano, 1942, 196 e ss.; Donati, L’invalidità, cit., 284; Mossa, L’inefficacia della deliberazione dell’assemblea nella società per azioni, in Riv. dir. comm., 1915, XIII, 441 e ss.; Zanarone, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, cit., 344; Meo, Gli effetti dell’invalidità, cit., 100, il quale, nel ricordare la regola della “pienezza dell’effetto invalidante sugli effetti cd. “interni” dell’atto deliberativo”, rileva che la questione è sempre stata impostata, come per i contratti di scambio, in termini di regola (la caducazione ex tunc) ed eccezione (la conservazione degli effetti prodottisi nella sfera del terzo di buona fede).

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quistato in buona fede dal terzo, alla mediazione di un atto compiuto in esecuzione della deliberazione, rilevandosi che il riferimento all’acquisto di un diritto - che non troverebbe la sua fonte immediata nella delibera ma nel diverso atto posto in essere da un organo rappresentativo della società, in esecuzione della stessa - postulerebbe la natura negoziale di quell’atto39. Più di recente, in senso opposto si è affermato che l’applicazione della regola della retroattività si scontrerebbe con la pratica difficoltà od effettiva impossibilità di rimuovere, mediante una serie di operazioni “a ritroso”, situazioni che al momento della pronuncia di invalidità potrebbero essersi ormai consolidate. E comunque, quand’anche la regressione di tali situazioni – necessaria, secondo i canoni tradizionali, a ripristinare il quadro di legalità infranto dalla delibera illegittimamente adottata – fosse da ritenere tecnicamente praticabile, nondimeno essa potrebbe risultare altamente inopportuna non solo per le oggettive difficoltà di realizzazione quanto soprattutto per le nefaste ripercussioni che si produrrebbero sia in capo alla società, sia verso i terzi che nell’attività sociale abbiano riposto affidamento40. A tal fine, sono state individuate nell’art. 2332 e nell’art. 2504-quater c.c. (norma non a caso ritenuta rivoluzionaria) le disposizioni da cui sarebbe possibile ricavare tale “autonoma” disciplina capovolgendo l’assioma, proprio del pensiero dominante, della loro natura eccezionale41. Ma proprio la specialità di tale disciplina sembra deporre in senso contrario alla tesi che esclude in radice la retroattività della sentenza annullatoria. Pare, dunque, preferibile ritenere che la sentenza comporti, di regola, effetti ripristinatori e restitutori anche “in via retroattiva” (cioè a far data dall’adozione della delibera invalida)42, nonostante debba ammettersi che non tutte le situazioni prodotte dall’atto viziato ed ormai consolidatesi (specie sul piano organizzativo) possano materialmente regredire. Resta fermo, in tal caso, l’obbligo degli amministratori di ottemperare al giudicato ponendo in essere tutti gli adem-

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Romano Pavoni, Le deliberazioni delle assemblee delle società, Milano, 1951, 394; Zanarone, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, cit., 365 e ss., il quale rinviene la ratio della norma nella necessità di tutelare eccezionalmente i terzi davanti a fenomeni di dissociazione del potere rappresentativo da quello deliberativo, fenomeno che si presenta ogni volta in cui l’atto del rappresentante è normalmente subordinato nella sua efficacia ad una previa deliberazione di altro organo. 40 Tale differente prospettiva è chiaramente lumeggiata da Meo, op. cit., 39 e ss., il quale rileva come il testuale riferimento dell’art. 2377 ai diritti acquistati dai terzi in buona fede, oltre a riposare su un’impostazione individualistica difficilmente estensibile a categorie indistinte di soggetti, come il mercato nel suo complesso, trascura irragionevolmente proprio l’esistenza di un “interesse sociale” alla conservazione degli effetti delle delibere invalidate e produttive di effetti ormai consolidati e di situazioni oggettivamente consumatesi. 41 In senso favorevole ad un’estensione alla materia dell’invalidità degli atti societari dei principi contenuti nell’art. 2332 c.c., v. già Ascarelli, Vizi delle deliberazioni assembleari e tutela dei terzi, in Banca, borsa e tit. cred., 1954, I, 133 e ss.; Ginevra, Nullità postconversione di delibera di emissione di obbligazioni bancarie convertibili?, in Giur. comm., 2003, II, 256 e ss., ed ivi altri riferimenti; contra, la prevalente dottrina: Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 232; Campobasso, Diritto commerciale. 2 Diritto delle società, Torino, 2002, 77; Mignoli, Invalidità di deliberazioni assembleari, cit., 305 e ss.. Ritiene che l’art. 2504-quater appartenga al novero delle regole applicabili ad atti incidenti sull’organizzazione sociale, Genovese, L’invalidità dell’atto di fusione, Torino, 1997, 132. 42 Così, ad esempio, annullata una delibera di aumento del capitale, si ritiene che gli amministratori dovranno in ogni caso annullare le azioni illegittimamente emesse e restituire a coloro che lo hanno sottoscritto i relativi conferimenti (Guerrieri, sub art. 2379-2379 ter c.c., in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 620).

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pimenti, consequenziali alla caducazione della delibera e dei rapporti giuridici sulla stessa fondati, necessari a ripristinare lo stato di legalità e le sfere giuridiche lese – nei limiti del possibile – quantomeno per il futuro. Invero, anche la riforma del 2003 ha lasciato sostanzialmente immutati i termini del dibattito intorno alla natura giuridica delle deliberazioni così come in ordine al regime degli effetti delle sentenze di invalidità, sui quali non è intervenuta43. Se ne deve inferire che la nuova disciplina non abbia apportato nuovi e rilevanti contributi al problema dell’individuazione degli effetti delle sentenze che pronunciano l’invalidità delle delibere. La regola generale resta quella della caducazione retroattiva degli effetti della delibera, fatti salvi i diritti di terzi di buona fede acquistati in virtù di atti compiuti in “esecuzione” della delibera assembleare o consiliare invalidata44, da cui deriva l’obbligo degli amministratori, del consiglio di sorveglianza e del consiglio di gestione di “prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità” (cfr. art. 2377, settimo comma, richiamato dal quarto comma dell’art. 2379 per la sentenza di nullità)45. Pertanto, pur dovendosi ammettere che in diverse ipotesi possano presentarsi notevoli impedimenti alla realizzazione di un completo ripristino della situazione quo ante, deve ribadirsi come non possa condividersi – de jure condito – una lettura volta tendenzialmente ad escludere la caducazione – talora non solo retroattiva ma finanche ex nunc - delle modifiche organizzative impresse alla società dalla delibera invalida (con i connessi effetti ripristinatori) e che, in conseguenza, releghi in via di principio la tutela dell’impugnante che abbia ottenuto l’annullamento dell’atto, esclusivamente nell’area risarcitoria. A ciò sembra ostare proprio il diritto positivo novellato, là dove ha tassativamente individuato – seppur estendendoli a diverse delibere di tipo organizzativo – i casi in cui l’invalidità non può essere pronunciata, supplendo in tali ipotesi, quale unico rimedio all’illegittimità dell’atto, il risarcimento del danno. Tanto impedisce, infatti, di ritenere tali previsioni estensibili alla generalità dei casi di invalidità delle delibere46.

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Concorda, Sacchi, Gli effetti della sentenza, cit., §1, che pure riconosce al legislatore di aver rimarcato la specificità del sistema dell’invalidità degli atti societari; Iannicelli, Profili processuali delle impugnazioni delle deliberazioni assembleari di società per azioni, cit. 228 ss. 44 Ex art. 2377, settimo comma, 2383, quinto comma e 2388, quinto comma. 45 Libonati, Diritto commerciale. Impresa e società, Milano, 2005, 372, che parla di efficacia ex tunc ed erga omnes; Pupo, Invalidità del procedimento deliberativo e dinamiche dell’investimento azionario, in Giur comm., 2004, Suppl. al n. 3, I, 603; Guerrieri, Sub artt. 2379-2379-ter, cit., 618, secondo cui in caso di annullamento di una delibera di aumento del capitale, si debbono annullare le azioni emesse e restituire ai titolari i relativi conferimenti; nell’ipotesi di invalidità della delibera di riduzione, si dovranno ripetere le somme percepite dai soci e riattribuire loro un corrispondente numero di azioni; nel caso di emissione di obbligazioni, occorrerà annullare i titoli emessi e posseduti dai terzi di mala fede e restituire loro le somme corrisposte. Peraltro, l’effetto retroattivo dell’annullamento sulle delibere emanate (e sui rapporti giuridici e le modifiche organizzative da queste instaurati) sul presupposto di quella annullata, deve valutarsi in rapporto alla disciplina che regola l’impugnazione delle delibere societarie e le relative preclusioni, la cui formazione può comportare la “sanatoria” dell’ipotetico vizio (conf. S.A. Villata, Impugnazioni di delibere assembleari, cit., 446 e ss.; Guerrieri, op. cit., 619), con conseguente stabilizzazione degli atti 46 Cfr. ancora Sacchi, Gli effetti della sentenza, cit., §2, secondo cui, al di fuori dei casi in cui la legge ha dettato una speciale disciplina limitativa della possibilità di dichiarare l’invalidità (artt. 2433, 2433-bis, 2379-ter, 2500-bis, 2504-quater, 2506-ter, c.c.) negli altri casi

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D’altra parte, le esigenze di certezza e stabilità possono efficacemente perseguirsi anche mediante vie diverse, già esaminate in dottrina47. In merito agli effetti della cosa giudicata e ai rapporti tra delibera impugnata e delibere dipendenti, si è tentato di discernere diverse possibili situazioni. Così, in un primo gruppo sono stati annoverati i casi di delibere collegate da un nesso di dipendenza talmente stretto da escludere che l’atto dipendente possa trovare attuazione in assenza del suo presupposto giuridico, sì da ritenere applicabile il principio della caducazione automatica anche in assenza di specifica impugnativa48. In un secondo gruppo, verosimilmente il più corposo, vengono accomunati i casi in cui tra due delibere vi sia un rapporto di “presupposizione” tale da determinare nel secondo atto un vizio di invalidità derivata che necessita, però, di essere fatto valere a mezzo di specifica impugnazione: in questi casi, è rinvenibile un nesso di pregiudizialità-dipendenza tra i giudizi impugnatori, atteso che la pronuncia di invalidità della prima delibera rappresenterebbe un elemento costitutivo della fattispecie oggetto del secondo processo49. Una terza ed ultima categoria si fonderebbe, infine, sul carattere precettivo della sentenza di annullamento che avrebbe lo scopo di impedire l’illegittima reiterazione del potere in violazione della regola da essa posta: qui non si sarebbe in presenza di vizi derivati della delibera successiva, bensì di vizi autonomi per quanto identici, anche in tal caso da farsi valere con autonoma azione di impugnativa50. La necessità di impugnare, nei casi illustrati, la seconda delibera, dipendente dalla prima, rende evidentemente minore il rischio di una retroattività a cascata della sentenza di annullamento, limitandone gli effetti là dove l’atto successivo non sia stato per tempo impugnato. Ora, se questo è lo stato dell’arte e del diritto positivo, l’affermazione della Suprema Corte nella menzionata pronuncia, secondo cui la mancanza di un provvedimento di sospensione comporterebbe la legittimità degli atti esecutivi di una delibera invalida, per quanto comprensibilmente orientato a preservare le esigenze di stabilità degli atti societari, non sembra trovi riscontro obiettivo. Né può ritenersi che tale legittimità possa derivare

appare preferibile un approccio articolato, differenziando gli effetti verso i soci, verso i terzi e verso gli organi sociali. Anche questo A. conclude che “allo stato attuale delle scelte di diritto positivo, la salvaguardia dell’autonomia privata dei soci e della discrezionalità imprenditoriale degli amministratori non consente di abbandonare la tesi maggioritaria precedentamente esposta”. Analogamente, Iannicelli, Profili processuali delle impugnazioni delle deliberazioni assembleari di società per azioni, cit., 228 ss. 47 Villata, Impugnazioni di delibere assembleari, cit., 446 e ss. 48 Si tratta di fattispecie analoghe alla invalidità c.d. caducante forgiata dal Consiglio di Stato, ossia fattispecie in cui opera una sorta di effetto espansivo esterno della pronuncia, che travolge ineluttabilmente ogni situazione strettamente dipendente dall’atto annullato. Vi rientrerebbero le ipotesi di delibera di approvazione del bilancio e di destinazione degli utili: dichiarata nulla la prima, la seconda perde il suo oggetto. Altre ipotesi potrebbero riguardare i casi di più delibere successive sul capitale ovvero di delibere di revoca e contestuale sostituzione di amministratori (infra, capitolo VI). 49 Vengono annoverate in questa categoria la delibera di bilancio rispetto alla successiva delibera di abbattimento o reintegrazione del capitale, la delibera di bilancio e quella di emissione di obbligazioni, la delibera di revoca degli amministratori rispetto a quella successiva di nomina; la delibera di nomina degli amministratori rispetto alle successive (non contestuali) delibere rese da assemblee convocate dai medesimi amministratori la cui nomina è risultata viziata, la delibera di bilancio che espressamente muova dai risultati dell’esercizio precedente. 50 L’esempio che chiarisce la natura di questo terzo gruppo è quello della delibera invalidata di bilancio rispetto alle delibere successive che presentino, autonomamente, lo stesso vizio: in sostanza, il giudizio di impugnazione della delibera di approvazione del bilancio relativo ad un dato esercizio non ha un automatico effetto sui bilanci successivi, da ritenersi atti del tutto autonomi. Tuttavia, in presenza di una specifica impugnativa, le deliberazioni successive che presentino lo stesso vizio si troveranno pre-giudicate.

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dal mancato esercizio della potestà cautelare del giudice, a sua volta condizionato da plurimi fattori e funzionale a esigenze, per l’appunto, meramente cautelari. È certamente vero, dunque, come si legge in quella sentenza, che la “retroattività è pur sempre disciplinata dalla legge ed opera nei soli limiti da essa previsti”, ma i limiti di legge sono soltanto quelli sopra illustrati. Mentre non vi è alcuna norma che attribuisca la patente di legittimità ad atti esecutivi della delibera per il solo fatto che non sia stata concessa (o richiesta) una tutela cautelare. Sulla scorta di quanto fin qui si è osservato, non paiono condivisibili le conseguenze che l’ordinanza collegiale trae dall’adesione alla pronuncia di legittimità sopra citata, peraltro non necessaria, nella fattispecie, ai fini della tenuta delle ragioni del rigetto dell’istanza di sospensione. In particolare, non è corretto affermare che l’eventuale annullamento della delibera impugnata “non verrebbe verosimilmente a incidere sulle successive deliberazioni che, in esecuzione del richiamato contratto quadro, sottoscritto prima del provvedimento di sospensione qui impugnato, fossero state nel frattempo adottate”, ovvero fino all’eventuale provvedimento di sospensione51: se così fosse, vi sarebbe un grave vulnus alla tutela cautelare, che verrebbe a priori negata per il mero decorso del tempo necessario a ottenerla, con ciò venendo mene a ineludibili esigenze di effettività della tutela giurisdizionale52. Una volta chiarito che la regola della retroattività della pronuncia di annullamento corrisponde allo stato attuale della disciplina, salvi i soli temperamenti previsti dalla legge o desumibili dal sistema (in particolare, la mancata impugnazione di delibere successive, per lo meno in taluni casi), non può condividersi che gli atti posti in essere prima che giunga il provvedimento di sospensione risultino intoccabili pur a seguito dell’annullamento. Così come la mancata sospensione non li rende insensibili agli effetti delle sentenze di annullamento. Ulisse Corea

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Sul punto, il Tribunale richiama l’esempio dell’annullamento della delibera di nomina dell’amministratore che, per giurisprudenza costante, anche del Tribunale capitolino (cfr. ad es. 22 maggio 2018, cit.), “non travolgerebbe automaticamente gli atti posti in essere dall’amministratore illegittimamente nominato, trovando spazio la necessaria tutela dei terzi di buona fede”. In realtà, nel caso dell’annullamento della delibera di nomina degli amministratori, la tutela della buona fede dei terzi non è conseguenza dell’applicazione dell’art. 2377 c.c., bensì della diversa disposizione di cui all’art. 2383, ultimo comma, c.c., secodo cui “le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento della pubblicità di cui al quarto comma, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza”. Sul punto, peraltro, come altrove ho tentato di dimostrare, è da preferire l’orientamento secondo cui la delibera di annullamento viene caducata reotrattivamente con effetto vuoi verso i terzi (salva l’operatività dell’art. 2383, u.c., c.c.) che sul piano interno, con la precisazione che le delibere successive emanate dall’assemblea, convocata dall’amministratore poi caducato, potranno ritenersi invalide ma dovranno a tal fine essere tempestivamente impugnate, pena la stabilizzazione delle stesse e il consolidamento dei loro effetti (per maggior approfondimento, mi permetto di nuovo il rinvio a Corea, La sospensione delle deliberazioni societarie, cit., 320). 52 E’ la Corte costituzionale a ricordare che il potere di sospensione cautelare “è un elemento connaturale di un sistema di tutela giurisdizionale che si realizzi in definitiva con l’annullamento degli atti” (nella specie, della p.a.) e soprattutto che “la disponibilità delle misure cautelari è strumentale all’effettività della tutela giurisdizionale e costituisce espressione del principio per cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione, in attualzione dell’art. 24 Cost.” (C. cost., 16 luglio 1996, n. 249, in Giust. civ., 1997, I, 33, con nota di Caranta.

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