ISSN 2532-3083
Judicium n. 1/2019
il processo civile in Italia e in Europa
Rivista trimestrale
marzo 2019
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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini
In evidenza: I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza Natale Giallongo
Brevi note in tema di poteri istruttori del giudice e preclusioni nel processo sommario di cognizione ai sensi degli artt. 702 bis ss. c.p.c. Andrea Mengali
Criticità di alcune regole processuali nei procedimenti di protezione internazionale Giovanni Carmellino, Francesco De Ritis, Federica Barbieri
Il sequestro conservativo di averi bancari nel sistema cautelare di derivazione europea Maria Laura Guarnieri
Nuevas tendencias en la notificación europea Luigi De Propris
La giurisdizione infracomunitaria in materia di azione revocatoria ordinaria e fallimentare in due pronunce della Corte di Giustizia Marco Farina
La tormentata qualificazione del riparto delle funzioni tra sezioni specializzate in materia di impresa e sezioni ordinarie: (finalmente) la parola alle Sezioni Unite Alessia D’Addazio
Indice
Saggi Natale Giallongo, I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza.............» p. 5 Andrea Mengali, Brevi note in tema di poteri istruttori del giudice e preclusioni nel processo sommario di cognizione ai sensi degli artt. 702 bis ss. c.p.c. *...............................................................» 33 Giovanni Carmellino, Francesco De Ritis, Federica Barbieri, Criticità di alcune regole processuali nei procedimenti di protezione internazionale.............................................................................................» 51 Maria Laura Guarnieri, Il sequestro conservativo di averi bancari nel sistema cautelare di derivazione europea.................................................................................................................................» 79 Luigi De Propris, Nuevas tendencias en la notificación europea.............................................................» 117 Giurisprudenza commentata Corte di Giustizia, II Sez., 4 ottobre 2018, Causa C-337/17 (I) Corte di Giustizia, IV Sez., 14 novembre 2018, Causa C-296/17 (II), con nota di Marco Farina, La giurisdizione infracomunitaria in materia di azione revocatoria ordinaria e fallimentare in due pronunce della Corte di Giustizia....................................................................................................................................................» 127 Corte di cassazione, I sez. civ., ord. 30 gennaio 2019, n. 2723, con nota di Alessia D’Addazio, La tormentata qualificazione del riparto delle funzioni tra sezioni specializzate in materia di impresa e sezioni ordinarie: (finalmente) la parola alle Sezioni Unite* ...............................................» 155
* Contributo sottoposto a procedura di revisione anonima.
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Saggi
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Natale Giallongo
I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza* Sommario:
1. Ottica e finalità dell’intervento; alcune considerazioni introduttive sui poteri di cognizione e decisione della Corte di Cassazione. – 2. Il fondamento del principio dell’autosufficienza del ricorso in Cassazione e l’individuazione del dato normativo rilevante per l’indagine. – 3. Nozione e finalità del principio dell’autosufficienza; il principio della specificità dei motivi. – 4. Genesi e le prime affermazioni del principio di autosufficienza; l’evoluzione giurisprudenziale sull’ambito di applicazione; dall’obbligo di indicazione degli atti e dei documenti sui quali si fonda il ricorso ex art. 360, 5 c.p.c. a quello della trascrizione; l’estensione del principio anche per la disamina delle censure ex art. 360, n. 3 e 4 c.p.c.; il recepimento di una versione strong per la decisione delle censure ex art. 360, n. 3 e 5 e light per le censure ex art. 360 n. 4; il suggerimento delle S.U. sul deposito del sottofascicolo. – 5. Le critiche della dottrina all’interpretazione estensiva; alcune osservazioni sul principio dell’autosufficienza. – 6. Le raccomandazioni o soft law desumibili dai c.d. protocolli: rinvio al successivo intervento. – 7. Verifica dei più recenti indirizzi giurisprudenziali sul principio dell’autosufficienza; e sull’obbligo della specificità dei motivi. – 8. Alcuni suggerimenti per la redazione del ricorso in Cassazione nel rispetto del principio di autosufficienza. – 9. Riflessioni conclusive
L’intervento si propone, dopo la disamina della giurisprudenza e del contributo dottrinale, di individuare le problematiche relative ai requisiti richiesti dal codice di rito per la rituale proposizione del ricorso in Cassazione, con particolare riferimento al principio, di origine pretoria, della c.d. autosufficienza. La non uniformità delle sentenze rese dalle Sezioni della Corte, anche dopo la sottoscrizione del Protocollo d’intesa sottoscritto dal Presidente della Corte e dal C.N.F. il 17.12.2015, non consente agli addetti una rassicurante individuazione dei criteri per la redazione dell’impugnativa. Nelle riflessioni conclusive vengono indicati alcuni accorgimenti per evitare – o ridurre – le pronunce di inammissibilità dei gravami proposti alla Suprema Corte.
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Lo scritto (integrato con le note di richiamo alla dottrina e alla giurisprudenza) costituisce il testo della relazione svolta il 23 novembre 2018 a Noto al convegno organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siracusa e dal Centro Universitario Medio Orientale su Problematiche attuali dell’appello e della Cassazione e tecniche di redazione degli atti introduttivi.
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The essay, after examining juirisprudence and leading authors on the subject, aims at identifyng the single problems which affect the proposition of the appeal at the italian Corte di Cassazione, relating in particolar to the so called self-sufficiency principle. The lack of a uniform interpretation among the single decisions of the Supreme Court prevents lawyers from a correct recognition of the appeal’s parameters. In the final considerations of the essay are pointed out some expedients to avoid the propositions of the appeal are rejected.
1. Ottica e finalità dell’intervento; alcune considerazioni
introduttive sui poteri di cognizione e decisione della Corte di Cassazione L’intervento è finalizzato:
• .alla disamina del dato normativo e giurisprudenziale nell’ottica di proporre indicazioni per la redazione dei ricorsi in Cassazione rispettosi della disciplina del codice di rito ed, in particolare, del principio della c.d. autosufficienza;
• .ad offrire un contributo per la tavola rotonda pomeridiana già arricchita dalle relazioni di Andrea Proto Pisani e Bruno Sassani. Le osservazioni trovano sostegno, almeno in prevalenza, nella indagine giurisprudenziale e nelle indicazioni offerte nei seminari organizzati per i giudici della Corte di Cassazione di prima nomina. La disamina del tema affidato richiede, a mio avviso, alcune considerazioni introduttive (non del tutto scontate) sul rito e sui poteri cognitivi e decisori dei giudici di legittimità. a).Il fascicolo di parte non si tocca1; come rilevato dal Presidente Rordorf il materiale a disposizione del collegio per la decisione è limitato, per prassi radicatissima, ad un fascicoletto trasmesso dalla segreteria al presidente e relatore che contiene (solo) copia del ricorso, del controricorso, delle eventuali memorie depositate prima dell’udienza, nonché della sentenza impugnata. Sembrerebbe, quindi, non consentito alla Corte, almeno secondo la prassi, desumere elementi per la decisione (anche) dai fascicoli di parte e d’ufficio2.
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L’espressione è di Rodorf, Questioni di diritto e giudizio di fatto, in La Cassazione Civile, Lezioni dei magistrati della Corte Suprema Italiana, a cura di Acierno, Curzio, Giusti, Bari, 2015, 31. L’autore ricorda che non è ravvisabile, comunque, alcuna disposizione che precluda la disamina degli atti e documenti dei giudizi di merito. 2 Secondo Rodorf, op cit., 31: “Il giudice di legittimità (salvo che in pochi casi eccezionali) non deve affondare le mani nel materiale raccolto nelle fasi di merito, bensì decidere esclusivamente in base al contenuto degli atti compresi nel fascicoletto…”; in questo senso si è espressa da tempo, anche, la giurisprudenza: v., fra le tante, Cass., 11.7.2014, n. 15882 (“la Corte di legittimità non ha accesso agli atti del giudizio di merito”); Cass. 25.8.2003, n. 12444, Cass. 1.2.95, n. 1161.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
b).Davanti alla Cassazione non è consentito il sindacato sul fatto; sono, quindi, inammissibili le censure finalizzate a consentire un riesame nel merito delle decisioni dei giudici di secondo grado3; solo in sede di delibazione del motivo ex art. 360, n. 4 c.p.c., è consentita la disamina del c.d. fatto processuale e, quindi, il controllo diretto ed oculare degli atti pregressi (i limiti di cognizione sono stati individuati con chiarezza dalla sentenza delle S.U. 22.5.2012, n. 8077 – estensore Rordorf4). In tale contesto la Corte è tenuta, quale giudice del fatto processuale, a verificare se l’indicazione o trascrizione di atti e documenti rilevanti per le censure dedotte nel ricorso principale (od incidentale e/o controricorso) corrispondano ad una corretta ricostruzione delle pregresse vicende. La sentenza delle Sezioni Unite ha precisato, comunque, che il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il gravame si fonda è consentito solo ove il motivo sia stato dedotto nel rispetto della disciplina del codice (e quindi, per quanto più rileva in questa sede, in conformità dei requisiti previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, e art. 369 c.p.c., comma due, n. 4). Dalla considerazione proposta consegue che, quantomeno per i vizi procedimentali ex art. 360, n. 4, l’inammissibilità per violazione del principio dell’autosufficienza non potrebbe mai essere dichiarata ove il ricorso sia stato proposto nel rispetto dei principi dettati dal codice di rito5. c).L’art. 384 c.p.c. consente alla Corte quando non è necessaria ulteriore istruttoria l’adozione di un provvedimento sia rescindente che rescissorio; l’emanazione di una decisione sul merito sembrerebbe, quindi, richiedere, o comunque non precludere, ai giudici di legittimità la disamina anche del fascicolo di parte e di ufficio. d).Ritengo utile per l’indagine anche il riferimento ad alcuni dati sul carico di lavoro ed organico dei magistrati della Cassazione già desumibili dalla relazione di Andrea Proto Pisani. Ogni anno vengono proposti, e definiti, davanti alla Corte circa 30.000 ricorsi; l’arretrato, ad oggi, può essere quantificato in circa 100.000 procedimenti6. Dal 1999 i gravami sono aumentati non solo per l’incremento della litigiosità ma anche in coincidenza della devoluzione alla Corte del contenzioso tributario che, in precedenza, poteva essere affidato in ultimo grado in alternativa alla Commissione Centrale (secondo alcune statistiche negli ultimi anni il 48% circa delle controversie pendenti è relativo al contenzioso tributario).
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Rodorf (op cit., 35 ss.) da atto della non agevole distinzione fra giudizio di fatto e di diritto e fra giudizio di legittimità e di merito davanti alla Suprema Corte in quanto il confine è nella realtà meno netto di quanto si potrebbe, a prima vista, supporre; l’autore individua fra le ipotesi più problematiche la valutazione delle clausole generali, con particolare riferimento alle c.d. norme elastiche, l’interpretazione dei contratti nonché l’individuazione degli errores in procedendo. 4 Rinvio per gli ulteriori rilievi ai rilievi di Rodorf, op cit., 38-39. 5 Così, fra gli altri, Consolo, Il Protocollo redazionale CNF – Cassazione: glosse e un caso di scuola di soft law (…a rischio di essere riponderato quale hard black letter rule), in Giur. It., 2016, 2768 ss. 6 I dati sono desunti dall’intervento di Curzio, Il problema della Cassazione, in Questione Giustizia 4/2015, 125.
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La dotazione organica di giudici di legittimità è di 300 unità (oltre i presidenti), di cui circa 150 addetti alle sezioni civili e 150 alle penali (71 magistrati compongono, a turno, la sesta sezione c.d. filtro). Ciascun giudice civile deposita, in media, circa 220/240 sentenze l’anno7. e).Assume rilevanza, quale ultima considerazione introduttiva, il numero dei ricorsi dichiarati inammissibili dalla Cassazione per carenza del requisito della c.d. autosufficienza. Secondo le statistiche offerte da Giustizia Civile, su 27.000 procedimenti 2315 massime hanno richiamato il principio; le pronunce di inammissibilità (o comunque le decisioni sulla eventuale esistenza del vizio) possono, quindi, essere quantificate secondo una statistica che risale al 2010 in circa il 10% del contenzioso civile; con ogni probabilità la percentuale è aumentata considerevolmente negli ultimi anni. Secondo altra indagine dal sito della Cassazione è possibile constatare che dal 1990 ad oggi il principio dell’autosufficienza è richiamato in 36.287 decisioni8. Le constatazioni proposte inducono a ritenere che l’incremento dei ricorsi può aver indotto i giudici della Corte ad un maggiore rigore formale con la valorizzazione della disciplina del giudizio di legittimità (anche) quale reazione alla prassi degli avvocati della redazione di ricorsi prolissi, assemblati, sandwich, o predisposti con il sistema del copia ed incolla.
2. Il fondamento del principio dell’autosufficienza del
ricorso in Cassazione e l’individuazione del dato normativo rilevante per l’indagine
2.A. Il principio dell’autosufficienza del ricorso in Cassazione è ritenuto, in prevalenza, di origine pretoria in quanto privo di diretto sostegno normativo9; nessuna disposizione, almeno espressamente, sanziona l’inosservanza con l’inammissibilità. Con colorita espressione una compianta dottrina ha chiosato che “l’autosufficienza è un concetto elastico quanto basta a contenere un universo”10. È indubbio che le problematiche relative all’osservanza del canone dell’autosufficienza costituiscono un delicato profilo del giudizio in Cassazione e danno adito a consistenti dubbi interpretativi11.
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Anche tali dati sono desunti da Curzio, op cit., 125. I dati sono desunti da Ianniruberto, L’autosufficienza: il difficile equilibrio fra funzionalità del ricorso ed effettività della tutela davanti alla Cassazione, in Mass. Giur. Lav., 2016, 70 ss. 9 V. in questo senso, fra gli altri, Giusti, op cit., 241, ss. 10 Così E. Ricci, Sull’autosufficienza del ricorso per Cassazione: il deposito dei fascicoli come esercizio ginnico e l’Avvocato Cassazionista come amanueuse, in Riv. Dir. Proc., 2010, 3, 736 ss. 11 Lo stesso protocollo d’intesa sottoscritto fra il Presidente della Corte di Cassazione e del C.N.F. il 17.12.2015 sulle “regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria da atto della difficoltà di definire in modo chiaro e stabile il principio di autosufficienza del ricorso affermato dalla giurisprudenza ed aggiunge che il sovradimensionamento degli atti difensivi delle parti è frutto, almeno in 8
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
2.A.1. Secondo altra interpretazione il principio trova, invece, sostegno nell’art. 366, comma 1, del c.p.c. (così come novellato dal D.Lgs. 40/200612) che richiede ai punti 3 e 4 per la redazione del ricorso, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa e dei motivi per cui si richiede la cassazione della sentenza impugnata con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano; nonché al punto 6 la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda. Non sembra, quindi, richiesto il requisito della specificità dei motivi; una lettura sistematica del codice, il riferimento alla disciplina del ricorso in appello e la natura del procedimento davanti alla Suprema Corte inducono a privilegiare la diversa opinione13. L’art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., sanziona, poi, con l’improcedibilità il mancato deposito con il ricorso degli atti processuali, documenti, contratti o accordi collettivi sui quali il gravame si fonda (la disposizione richiede al successivo comma anche l’ulteriore adempimento del deposito dell’istanza di trasmissione dalla cancelleria dal giudice a quo alla Corte del fascicolo d’ufficio). Alcuni autori hanno ritenuto che il Legislatore con il decreto legislativo 40/2006 abbia inteso codificare il principio dell’autosufficienza quale requisito desumibile dall’art. 366 del codice di rito14. L’interpretazione trova diretta conferma nella almeno prevalente giurisprudenza15. 2.B. A mio avviso non è ravvisabile espressa disposizione che imponga per la redazione del ricorso il rispetto del principio dell’autosufficienza (almeno nei termini rigidi o formalistici recepiti dalla Corte) e l’applicazione della sanzione dell’inammissibilità in caso di inosservanza. La lettura proposta trova sostegno nel dato normativo già ricordato (art. 366, comma 1, n. 3 e 6) e conferma:
parte, della ragionevole preoccupazione dei difensori di non incorrere nelle censure di inammissibilità per difetto di autosufficienza”. Ricordo che negli ultimi anni il Legislatore ha introdotto numerose modifiche al rito in Cassazione: – al numero 6 dell’art. 366, comma primo, c.p.c. che richiede, a pena di inammissibilità, la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti, dei contratti collettivi sui quali ricorso si fonda; – all’art. 366 bis (successivamente abrogato) che richiedeva, a pena di inammissibilità, la formulazione del quesito di diritto; – con la istituzione della sesta Sezione filtro; – con la limitazione delle censure deducibili ex art. 360, n. 5, che consente la formulazione del vizio solo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti; – con la generalizzazione del rito camerale davanti alla Suprema Corte e, quindi, soppressione, almeno quale criterio generale, della udienza pubblica. 13 V. in questo senso, Cass., Sez. I, ord. 24.3.2018, n. 10122, in Foro It. 2018, I, 3198, ss. 14 Si rinvia sul punto alla puntuale disamina di Santangeli, Autosufficienza, ieri, oggi e domani “Eppur si muove…”. Dal peccato di omissione al peccato di commissione, in www.judicium.it, 49 e ss. 15 V. in questo senso, ex multis, Cassazione, Sez. V, sottosezione 3, 25.3.2015, n. 7456, nonché le decisioni citate da Santangeli, op cit. Recenti sentenze della Corte hanno addotto a sostegno del requisito dell’autosufficienza anche: – il principio della domanda (art. 99 c.p.c.) e la peculiarità della struttura del giudizio quale mezzo di impugnazione a critica limitata; – la natura del giudizio di legittimità che impone alle parti l’obbligo dell’allegazione dei documenti necessari per la valutazione della proponibilità del ricorso; – i principi del giusto processo e sovranazionali, nonché della ragionevole durata dei giudizi. 12
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• –.nall’art. 121 del codice di rito che sancisce il principio della libertà delle forme; • –.nall’art. 16-bis della legge 221/2013, modificato dalla legge 132/2017, che richiede per gli atti di parte e del giudice la redazione in maniera sintetica16; la disciplina è stata, comunque, dettata per il processo telematico ed è priva di sanzioni.
3. Nozione e finalità del principio dell’autosufficienza; il principio della specificità dei motivi
3.A. La giurisprudenza, da alcuni anni, ha desunto dalla normativa (ed in particolare dall’art. 366, primo comma, n. 6) il principio dell’autosufficienza; il rispetto di esso richiede che ogni motivo debba avere l’autonomia indispensabile per consentire alla Corte una completa, autonoma, disamina del fondamento del vizio e del suo oggetto; nonché consentire ai giudici di legittimità di percepire l’ambito e portata delle specifiche censure dedotte avverso la sentenza impugnata senza dover consultare altri atti o documenti (e quindi i fascicoli di parte e d’ufficio), o anche la decisione d’appello17. La disamina del gravame deve consentire, quindi alla Corte di individuare tutte le questioni ad essa demandate con la sola eccezione dei ricorsi ex art. 360 n. 1, e n. 4 in cui è (o sembrerebbe) legittimata a prendere visione degli atti e dei documenti (anche per tali impugnative la giurisprudenza, almeno prevalente, ha ritenuto sussistente l’obbligo di specificare, quantomeno, la collocazione topografica degli atti, documenti, indicati nel gravame e prodotti nelle precedenti fasi, se non della trascrizione di essi). L’autosufficienza è richiesta per ciascun motivo, non è collegata al ricorso unitariamente considerato ed è richiesta anche per le censure dedotte nel ricorso incidentale18. La Cassazione19 ha ritenuto applicabile il principio anche per il regolamento di giurisdizione (o di competenza) anche se il codice non richiede per la proposizione la sua rituale deduzione di specifici motivi. Anche in tale contesto la Corte ha ritenuto necessaria l’esposizione degli elementi necessari per la definizione delle questioni controverse ed ha escluso che per essi la definizione possano essere desunti dalla documentazione prodotta davanti al giudice di merito, ovvero dal fascicolo d’ufficio.
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V. in questo senso, Damiani, Usi ed abusi del principio di autosufficienza del ricorso in Cassazione , in Foro It., 2018, I, 567 ss.; secondo l’autore da tale disposizione non è desumibile il principio della sinteticità che costituisce solo un auspicio (o raccomandazione, al più). 17 Di recente, in questi termini, v. Cass., sez. I, 23 marzo 2018, n. 7371, nonché per il secondo profilo, Cass., Sez. VI, 3, 30.3.2016, n. 6123. 18 Cfr., ex multis, Cass. 21 settembre, 2015, n. 18483. 19 V., in questo senso, S.U., 24.2.2014, n. 4324; S.U. 27.12.2012, n. 30997.
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3.B. Un primo dubbio interpretativo è se il principio dell’autosufficienza costituisca, o meno, requisito diverso, ed ulteriore, rispetto a quello della specificazione (dei dati fattuali e) dei motivi del ricorso20. La Cassazione ha ritenuto che l’autosufficienza debba essere intesa come corollario del requisito della specificità dei motivi di impugnazione ove tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute negli artt. 366, comma 1, n. 6 e 369, comma 2, n. 4, c.p.c.21; ed, ancora, che le ragioni giustificative sottese alle sue elaborazioni forniscono il metro esegetico più idoneo a consentire la corretta applicazione ed interpretazione di esso22. 3.B.1. Secondo una prima interpretazione non si tratta, quindi, di un requisito ulteriore del ricorso rispetto a quello previsto dall’art. 366, primo comma, c.p.c., n. 3 e 4; l’autosufficienza costituisce solo un corollario del canone della specificità dei motivi di impugnazione trattato nella più definita e puntuale disposizione dell’art. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.23. 3.B.2. Secondo altra interpretazione il principio di specificità dei motivi di cui all’art. 366, n. 4, c.p.c. si distingue da un punto di vista concettuale da quello della autosufficienza previsto dal n. 6 in quanto consiste nella esplicitazione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto della singola censura, mentre l’autosufficienza si concretizza nella presenza, nel motivo, di tutti gli elementi (atti e documenti) necessari per valutare l’ammissibilità e fondatezza della censura24. La specificità dei motivi, a mio avviso, costituisce canone desumibile dall’art. 366, n. 3 e 6; i due requisiti costituiscono due facce della stessa medaglia; l’osservanza dell’uno è complementare al rispetto dell’altro.
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Di recente sulla specificità dei motivi v. Sez. VI-2, 2 marzo 2018, n. 5001, in Giur. It., 1617, con nota di Castagno; nonché in precedenza Poli, nota a S.U. 24 luglio 2013, n. 17931, in Riv. Dir. Proc., 1, 179. 21 V., in questo senso, Cass. S.U., 22.5.2012, n. 8077, in Foro It., 2013, I, 2016, ed in Giusto Processo Civile, 2012, 837 con nota di Balena. 22 Il protocollo di intesa sottoscritto il 17.12.2015 da atto che la Corte ha attivato “una nuova riflessione da attribuire al principio di autosufficienza, ammettendo che con tale formula la Corte di Cassazione, abbia inteso richiamare il rispetto dei canoni di specificità completezza e chiarezza del motivo”. 23 Secondo, fra gli altri, Poli, Specificità, autosufficienza e quesiti di diritto nei motivi di ricorso per Cassazione, in Riv. Dir. proc., 2008, 5, 1249, “l’autosufficienza rappresenta un aspetto particolare della specificità, giacché anch’esso serva all’esatta identificazione dell’errore denunciato, sia pure sotto il profilo materiale (o topografico) e non già sotto quello tecnico giuridico. Ed ancora: …si può dunque concludere su questo punto assentendo che l’onere di trascrizione integrale di atto o documento su cui il motivo si fonda – riconducibile ad autosufficienza – sussiste a pena di inammissibilità solo nella misura in cui sia indispensabile al raggiungimento dello scopo del motivo di impugnazione”. In questo senso, si è espresso Giusti, op cit., richiamato da Pagni, Il ricorso per Cassazione tra sinteticità e chiarezza e sinteticità negli atti giudiziali: il protocollo d’intesa tra Cassazione e CNF, in Giur. It., 2016, 12, 2768. 24 v. sul punto Damiani, op cit.; nonché Bossi, Autosufficienza del ricorso per Cassazione. Il contenuto del ricorso e del c.d. principio di autosufficienza, in Giur. It., 2015, 1116, nota a Cass., III Sez., 11 luglio 2014, n. 13882.
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4. Genesi e le prime affermazioni del principio di
autosufficienza; l’evoluzione giurisprudenziale sull’ambito di applicazione; dall’obbligo di indicazione degli atti e dei documenti sui quali si fonda il ricorso ex art. 360, 5 a quello della trascrizione; l’estensione del principio anche per la disamina delle censure ex art. 360, n. 3 e 4; il recepimento di una versione strong per la decisione delle censure ex art. 360, n. 3 e 5 e light per le censure ex art. 360 n.4; il suggerimento delle S.U. sul deposito del sottofascicolo
La disamina dell’evoluzione giurisprudenziale consente di individuare le logiche sottese alle pronunce dei Giudici di legittimità degli ultimi anni sul principio dell’autosufficienza. 4.A. L’obbligo della specificazione dei dati fattuali e dei motivi non aveva indotto per molti decenni la Cassazione all’affermazione dell’obbligo dell’autosufficienza del motivo. La prima enunciazione risale, con ogni probabilità, alla sentenza 18 settembre 1986, n. 565625, resa in sede di cognizione del vizio del difetto di motivazione ai fini della verifica dell’ammissibilità della censura26; la Corte si è limitata a richiedere il rispetto dei requisiti della specificità, completezza, chiarezza e precisione nella redazione dei motivi. La pronuncia si è limitata a dichiarare l’inammissibilità della censura ex art. 360, n. 5, ritenendo non sufficiente il mero rinvio alla prova formulata negli atti dei precedenti giudizi, senza ulteriori precisazioni e/o indicazioni27. Il solo richiamo agli atti o documenti (non localizzati specificatamente) non è stato ritenuto coerente con la natura del procedimento davanti ai giudici di legittimità ed idoneo a consentire la valutazione sulla decisività della prova rispetto alla decisione impugnata. La sentenza si è limitata quindi a constatare che l’art. 366 n. 3 e 6 del c.p.c. impone al ricorrente l’obbligo dell’indicazione specifica dei fatti, circostanze e ragioni che si assumevano trascurate, non esaminate o non sufficientemente valutate dal giudice di merito28. La pronuncia, del tutto condivisibile, appare rispettosa del dato normativo.
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In Foro It., Rep. 1986, v. Prova civile in genere, n. 26. Secondo Giusti, op cit., il principio è stato espresso in tale contesto “senza le stigmate del formalismo e non implicava pronunce ingiustificatamente cassatorie ma solo oneri di localizzazione dell’atto, del documento o del verbale di causa cui faceva riferimento la censura”. 27 Nel caso esaminato, relativo alla quantificazione di un assegno divorzile, il ricorrente aveva contestato la mancata ammissione da parte del giudice di merito di una prova per testi sul reddito di uno dei coniugi. 28 Secondo Giusti, (L’autosufficienza, op cit., 250), “Tale onere non può ritenersi assolto mediante il generico richiamo agli atti o risultanze di causa, dovendo il ricorso contenere in sé gli elementi che consentono alla Corte di Cassazione di controllare la decisività dei punti controversi e la correttezza e sufficienza della motivazione e della decisione rispetto ad essi, senza che sia possibile integrare aliunde le censure in esso formulate”. 26
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4.B. Negli anni successivi la giurisprudenza ha recepito una interpretazione quantomeno estensiva del principio dell’autosufficienza; la Corte ha ravvisato spesso la necessità della riproduzione (e non solo della indicazione topografica) nel ricorso dei mezzi istruttori capitolati in precedenza (l’indirizzo non è univoco in quanto sono rinvenibili anche decisioni che hanno ritenuto sufficiente la reiterazione di essi, quantomeno, negli elementi essenziali). Il riferimento all’art. 366 del c.p.c. è stato addotto, fra gli altri, per la valutazione sull’ammissibilità dei motivi dedotti ex art. 360, n. 529 in riferimento:
• alla mancata ammissione di una prova testimoniale (anche) ai fini di consentire una valutazione sulla decisività di essa sull’esito della controversia30; in tale ottica alcune pronunce hanno ritenuto indispensabile la completa trascrizione nel ricorso del mezzo istruttorio31;
• all’omessa indicazione specifica dell’atto nel quale erano stati formulati i capitoli di prova; o comunque, all’omessa individuazione delle circostanze oggetto di prova, almeno nei termini essenziali;
• all’omessa indicazione dei capitoli, ove si contesti la mancata ammissione di un giuramento decisorio32 o interrogatorio formale33; in altre decisioni la Corte ha affermato la necessità della trascrizione nel ricorso del contenuto delle circostanze sulle quali la parte avrebbe dovuto rispondere34;
• alla mancata sufficiente valutazione del giudice d’appello sull’ammissibilità dei mezzi istruttori35; in tale contesto la Cassazione ha richiesto la specificazione, mediante integrale riproduzione, delle risultanze processuali di cui si asseriva la mancata o insufficiente disamina;
• alla contestazione dell’interpretazione ed efficacia di un documento; la Corte ha ritenuto insufficiente l’indicazione di esso della rinvenibilità nel fascicolo di parte di primo grado in quanto la sola disamina del gravame non è idonea per l’ampiezza dell’espressione ad impedire il pericolo di un soggettivismo giudiziario; alcune decisioni hanno, addirittura, richiesto la trascrizione integrale del documento36;
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Rinvio sul punto alle indagini di Chindemi, L’autosufficienza del ricorso in Cassazione, Milano, 2018, 9 ss.; nonché di Santangeli, op cit., 25 e ss.; Damiani, op cit., Conforti, Il principio dell’autosufficienza del ricorso in Cassazione, Salerno, 2014. 30 V., in questo senso, Cass. 18 giugno 2003, n. 9712; Cass. 5.6.2007, n. 13085. 31 Così si legge in Cass., 1 agosto 2001, n. 10493. 32 Così Cass. 26 aprile 2002, n. 6078; Cass. 30 maggio 2002, n. 7923, Cass. 7 ottobre 2005, n. 23286, Cass. 19.7.2007, n. 16074. 33 V., in questi termini, Cass. 5 giugno 2007, n. 13805, Cass. 18.9.2009, n. 20236, Cass. 19.7.2007, n. 16074. 34 V. Cass. 15.3.2000, n. 11501; S.U. 22.12.2011, n. 28336. 35 Cfr. Cass. 12 maggio 2008, n. 838. 36 V. Cass. 5 marzo 2001, n. 4155.
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• alla contestazione della valutazione della consulenza tecnica d’ufficio; la Corte ha ritenuto necessaria la trascrizione integrale dei passaggi salienti e non condivisi della perizia; nonché l’indicazione del contenuto specifico delle critiche dedotte dal ricorrente al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice di merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare le critiche formulate in ordine agli accertamenti e alle conclusioni del consulente d’ufficio37, anche ai fini di consentire la valutazione della decisività delle critiche dedotte contro la sentenza;
• alla mancata trascrizione (o almeno descrizione sufficientemente dettagliata) del contenuto di un regolamento comunale in cui disciplina gli obblighi degli aderenti e del consorzio38 (la decisione è stata resa in un gravame proposto sia ex art. 360, n. 3 che n. 5).
• –.alla contestazione di un errore sulla interpretazione di una sentenza prodotta nel giudizio di merito; la Corte ha ritenuto sussistente l’onere della trascrizione dei capi contestati della decisione39. In applicazione di tali criteri è stato ritenuto inammissibile per violazione del criterio di autosufficienza il motivo nel quale con cui era stata dedotta la mancata pronuncia su uno o più motivi di gravame proposti davanti al giudice di appello se non ribaditi nella integralità nel ricorso; la motivazione addotta è che la Corte deve avere la possibilità di verificare l’eventuale novità delle questioni e valutare la fondatezza della censura senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte40. 4.C. L’applicazione del principio di autosufficienza ha avuto negli ultimi anni una interpretazione estensiva anche per i requisiti della esposizione sommaria dei fatti e formulazione dei motivi per i quali il codice, almeno espressamente, non richiede la specificità41. L’indirizzo espresso dalla Cassazione ha contribuito alla diffusione, se non esasperazione, del rigore formalistico richiesto per la redazione dei ricorsi.
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V. Cass. 30 agosto 2004, n. 17369; Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; tali principi sono stati ribaditi dalla Sez. V, 23.1.2013, n. 1521. Di recente la sentenza 3.6.2016, n. 11482, ha ritenuto “Necessario che la parte dia la prova di aver mosso critiche alla consulenza tecnica di ufficio già dinanzi al giudice a quo e ne trascriva poi, per autosufficienza, almeno i passaggi salienti onde consentire la valutazione in termini di decisività e rilevanza; diversamente, infatti, una mera disamina correlata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità” (Cass. n. 10222 del 2009, n. 23530 del 2013). 38 V. Cass. 15.12.2008, n. 29322. 39 Cfr. Cass. 29 settembre 2007, n. 20594. 40 Secondo la decisione il principio di autosufficienza deve essere “fondato sul principio della responsabilità della redazione dell’atto, vale anche per i motivi di appello in relazione ai quali si denuncino errori da parte dei giudici di merito: nel consegue che il ricorrente, che denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 e 358 cod. proc. civ. nonché la omessa in insufficiente motivazione circa la mancata declaratoria nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare, nel ricorso, nel loro impianto specifico, i detti motivi formulati dalla controparte”. 41 V. in questo senso, Damiani, op cit., nonché v. supra la nota 21.
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4.D. E, ancora, il principio di autosufficienza è stato ritenuto negli ultimi anni applicabile non solo per la disamina delle censure per difetto di motivazione ma anche dei vizi in iudicando ex art. 360, n. 3, ed in procedendo ex art. 360, n. 442. Ad esempio, per il primo profilo la Corte, adita in sede di violazione dell’art. 1362 c.c., ha ritenuto necessaria l’indicazione della fonte pattizia43 e la trascrizione di tutta la clausola in contestazione44;
• altre decisioni hanno ritenuto necessaria la trascrizione anche della fonte normativa regolamentare comunale di cui il ricorrente aveva eccepito l’errata applicazione e/o violazione45; a sostegno delle sentenze è stata addotta la necessità di consentire al collegio non solo di comprendere la censura ma anche di decidere autonomamente su di essa senza attingere ad altri documenti e/o atti; non è stato ritenuto sufficiente ai fini della valutazione sull’ammissibilità del motivo il richiamo al principio di iura novit curia in quanto limitato alla normativa di grado primario e non anche secondario (l’indirizzo non è uniforme; per Cass., Sez. V, 2.7.2014, n. 15065, la Corte deve acquisire dal fascicolo tutti gli elementi necessari per l’individuazione della censura; la parte ha solo l’onere di indicare il contenuto di quanto dedotto nel ricorso ed individuare la fonte regolamentare di cui contesta l’errata, od omessa, applicazione dei giudici di merito);
• per la deduzione dell’eccezione di un giudicato esterno la Corte ha ritenuto indispensabile la trascrizione del capo della pronuncia che si assumeva passata in giudicato e non sufficiente il riferimento al solo dispositivo e alla motivazione resa dal giudice di merito46. Tale esigenza è stata limitata subito dopo dalla decisione delle S.U. 18.11.2007, n. 24664, che ha ricondotto il vizio sul giudicato ai principi normativi e, quindi, ritenuto ammissibile l’eccezione limitata a richiedere l’applicazione di esso. 4.D.1. I dubbi sulla condivisibilità dell’indirizzo rigoroso recepito dalla Corte trovano conferma nella evoluzione giurisprudenziale sull’obbligo di indicazione o riproduzione dell’intero contratto collettivo di lavoro quando il contenzioso ha ad oggetto l’interpretazione e/o applicabilità di una singola clausola47. Secondo alcune decisioni tale onere non può ritenersi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole. L’indirizzo è motivato con il rilievo che la Cassazione deve poter disporre del testo completo dell’accordo per consentire la verifica contrattuale del fondamento della censura
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Il dato proposto trova conferma nelle indagini di Chindemi, Damiani, Santangeli, Conforti, citati alla nota 30. V. Sez. Lavoro, 12 dicembre 2012, n. 2297; Cass., sez. I, 15 maggio 2013, n. 11899. 44 V. Cass. 6.2.2007, n. 2565. 45 Cfr., in questo senso, Cass. 29.8.2006, n. 18681. 46 Così Cass., 29.9.2007, n. 20594. 47 V. Cass. 19 settembre 2009, n. 21473. Rinvio sulla specifica tematica laburistica all’intervento di Ianniruberto, L’autosufficienza: il difficile equilibrio fra funzionalità del ricorso ed effettività della tutela davanti alla Cassazione, in Mass. Giur. Lav., 2016, 70 ss. 43
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alla luce dei criteri ermeneutici; la giustificazione addotta è che deve essere consentita una interpretazione complessiva dell’accordo in osservanza dell’art. 1363 c.c.48. Solo ove la controversia riguardi unicamente le conseguenze di diritto che derivano dalle clausole la riproduzione della fonte pattizia non è stata ritenuta necessaria, sempreché le censure siano, per altro verso, autosufficienti (v. Cass. 3.2.2009, n. 2602). La Corte ha precisato anche che l’onere del deposito in giudizio richiesto dall’art. 369 non riguarda i contratti collettivi di lavoro dei dipendenti della P.A. per la peculiarità dell’iter formativo (S.U., 4.11.2009, n. 2333); per altro profilo, è stato escluso l’onere del deposito dei contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi (Cass. 21.9.2011, n. 19227). 4.D.2. Il riferimento al dato giurisprudenziale consente di anticipare alcune considerazioni; l’onere della riproduzione del contratto collettivo non ha una ratio diversa da quello previsto per gli atti e/o documenti su cui si fonda il ricorso proposto davanti alle altre sezioni della Corte; il rigore desumibile secondo la giurisprudenza dall’art. 366, comma 1, punto 6, deve essere limitato a richiedere l’indicazione solo degli atti processuali o documenti e non anche del testo degli accordi collettivi; la redazione della censura deve, comunque, rispettare i canoni della formulazione di specifici motivi e consentire, tramite il rinvio alla localizzazione esterna ed interna, la verifica di quanto dedotto dal ricorrente senza la necessità di attingere ad altre fonti; deve, comunque, essere rispettato l’obbligo ex art. 369 c.p.c. del deposito contestuale al ricorso del testo dell’accordo. 4.E. La Corte ha, negli anni più recenti, esteso l’obbligo del rispetto del requisito di autosufficienza anche per la cognizione dei vizi ex art. 360, n. 449, enunciando il principio che la valutazione del fondamento della censura e l’accertamento e valutazione del fatto processuale deve essere consentito direttamente e non tramite la disamina della sentenza del giudice di merito50. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto necessario per la decisione sui vizi di errores in procedendo:
• l’indicazione espressa dell’atto difensivo o del verbale di udienza ove sono state formulate la domanda e/o istanza, ai fini della valutazione dell’ammissibilità del motivo con il quale si contesta l’omessa pronuncia dei giudici di secondo grado51;
• la trascrizione negli esatti termini nel ricorso delle clausole o eccezioni dedotte davanti al giudice di merito (anche) per consentire la verifica della decisività per la contestazione della pronuncia impugnata52;
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V. Cass. 1 febbraio 2013, n. 2416. V., a conferma, le indagini degli autori citati alla nota 30. 50 Secondo la Cassazione (23.3.2005, n. 6225) l’esigenza trova fondamento nell’esigenza di evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo nella individuazione degli atti rilevanti per la formulazione della censura, con conseguente, possibile, lesione del contraddittorio. 51 V. Cass., sez. VI, 5, ord. 4.3.2013, n. 5344. 52 Così Cass. 19.3.2007, n. 6301. 49
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• l’indicazione degli elementi condizionanti l’operatività della violazione di una norma processuale (ad esempio, ove sia dedotta una nullità della notificazione perché dalla relata non è desumibile l’indagine sul rinvenimento delle persone nel rispetto dell’ordine indicato dall’art. 139 c.p.c. la Corte ha richiesto la trascrizione integrale di essa e l’indicazione della data53); la Cassazione (13.5.2016, n. 9888), ha enunciato in tale contesto il principio secondo cui “il ricorrente che censura la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, quale quelle processuali, deve specificare ai fini del rispetto del principio di autosufficienza del ricorso anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione”54. L’interpretazione più rigorosa anche in riferimento alla cognizione di un ricorso dei vizi ex art. 360, n. 4, da adito a critiche in quanto, come osservato da Chiarloni55 se esistesse realmente a livello normativo un siffatto limite cognitorio per il giudice di legittimità, la stessa Cassazione non potrebbe deciderlo mediante l’integrale trascrizione degli atti processuali o dei documenti posti a fondamento delle censure, senza comunque esaminarne il contenuto del fascicolo d’ufficio e dei fascicoli di parte per verificare l’esatta corrispondenza con quanto trascritto in ricorso56. 4.F. La disamina del dato giurisprudenziale consente di ritenere che anche dopo la novella dell’art. 366 c.p.c. la Cassazione si è espressa non per un ridimensionamento ma per una estensione dell’ambito di applicabilità del principio dell’autosufficienza recependo un indirizzo contrario a quello proposto dalla almeno prevalente dottrina57. Ritengo condivisibile l’interpretazione offerta, fra gli altri, da Santageli58 che ha escluso anche dopo il D.Lgs. 40/2006 l’obbligo della trascrizione e ritenuto necessaria solo la indicazione del contesto processuale in cui il documento (o la prova), pur indivisibile nei suoi elementi essenziali nel contesto del ricorso, siano stati prodotti o dedotti nella fasi di merito59. La prevalente giurisprudenza della Corte ha, invece, interpretato l’art. 366, n. 6, quale previsione dell’ulteriore onere di trascrizione integrale degli atti processuali (o documenti) posti a fondamento del gravame e non solo della mera indicazione con il rilievo che si tratta di due condizioni non sovrapponibili, indispensabili entrambe ai fini dell’ammissibi-
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V. Cass. n. 17424/2005. Tale principio è desumibile, ex multis, da Cass. 14910/2010; n. 7846/2006; n. 27197/2000. 55 L’autore (Il diritto vivente di fronte alla valanga dei ricorsi in Cassazione: l’inammissibilità per violazione del c.d. principio dell’autosufficienza, in www.processocivile.org) distingue un’interpretazione del principio light, da quella strong; la distinzione trova conferma nell’intervento di Giusti, L’autosufficienza del ricorso in Cassazione, op cit. 56 Nello stesso senso v. Santangeli, op cit., 10. 57 Secondo Balena, (Istituzioni, II, 443), “il legislatore ha probabilmente inteso restringere l’ambito di operatività del principio di autosufficienza, richiedendo solo una precisa localizzazione, all’interno dei fascicoli dei precedenti gradi di giudizio degli atti processuali e dei diversi documenti cui il ricorso fa riferimento”. Per Sassani, (Il nuovo giudizio di Cassazione, in Riv. Dir. proc., 2006, 228) l’intervento del legislatore rappresenta una soluzione di “‘compromesso’ che tiene conto, da un lato, dell’applicazione del principio dell’autosufficienza del ricorso e, dall’altro, della consequenziale prolissità dei ricorsi”. 58 Op cit. 59 V. in questo senso, già Cass., 17 luglio 2008, n. 19766. 54
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lità del motivo; la mancata individuazione topografica del luogo processuale su cui sono consultabili non consentirebbe, comunque, alla Cassazione la verifica della conformità del contenuto a quanto trascritto nel ricorso60. La Cassazione ha ribadito anche che l’art. art. 366, primo comma, n. 6, è a fondamento, o comunque a valle, del principio di autosufficienza, con la previsione della sanzione dell’inammissibilità del ricorso. 4.G. L’indirizzo della Corte non è, quantomeno, uniforme in quanto sono rinvenibili anche pronunce finalizzate ad attenuare il rigore dell’applicazione del principio dell’autosufficienza. Le Sezioni Unite con sentenza 3 novembre 2011, n. 22726, resa in una controversia tributaria, ha ritenuto che “L’onere posto a carico del ricorrente in Cassazione dall’art. 369, 2 comma, n. 4, c.p.c., nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione in Cassazione del fascicolo nel quale gli uni e gli altri siano inseriti, e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito dell’istanza di trasmissione di quest’ultimo, vistata dalla cancelleria del giudice che ha emanato la sentenza impugnata (ferma in ogni caso l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi)”61. Una recente pronuncia (successiva, peraltro, alla sottoscrizione del protocollo) ha, invece, ribadito la necessità dell’obbligo della specifica individuazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione del momento della produzione nei giudizi di merito62. Anche per il contenzioso tributario, nel quale non è consentito il ritiro del fascicolo di parte, la giurisprudenza della Cassazione non è univoca e da adito a dubbi e consistenti problemi interpretativi sugli oneri che gravano sul ricorrente. Le Sezioni Unite (22.5.2012, n. 8077), in riferimento agli oneri imposti dall’art. 366, n. 3, che richiede a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ha ritenuto del tutto superflua “la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali non essendo affatto richiesta che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso è inidonea a tenere il luogo della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla
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V. Cass. 16.3.2012, n. 4220, già citata; nonché in dottrina, Giusti, op cit. La decisione ha avuto modo di precisare anche che “Ai fini della procedibilità dei ricorsi in Cassazione in materia tributaria è sufficiente che i ricorrenti producano l’istanza di trasmissione dei fascicoli d’ufficio (nei quali, in base all’art. 25, 2° comma, d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, restano acquisiti, fino al termine del processo, i fascicoli di parte) vistata dalla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, non esistendo a carico dei ricorrenti medesimi neppure l’obbligo di produrre la copia degli atti e dei documenti, su cui i ricorsi si fondano, in ipotesi contenuti nei fascicoli delle controparti”. 62 Così Cass. 14.3.2018, n. 6319. 61
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
costretta a leggere tutto (anche quello di cui non serve affatto che sia informata) la scelta di quanto effettivamente rileva in relazione ai motivi di ricorso”63. Secondo la decisione non è condivisibile l’indirizzo fondato sull’obbligo della trascrizione integrale, recependo quindi una prospettazione light del principio, almeno per la disamina delle censure proposte ex art. 360, n.4. In precedenza le Sezioni Unite64 (adite in sede di decisione su un regolamento di giurisdizione proposto in un giudizio di impugnazione di un provvedimento di radiazione di un iscritto da una associazione – Lega Navale – e conseguente ordine di rimozione dell’imbarcazione dalle strutture della sezione) aveva ritenuto inammissibile, con richiamo all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il ricorso per la mancata specifica indicazione e successivo deposito del provvedimento impugnato di radiazione nonché del regolamento allo Statuto. La sentenza ha ritenuto, con pronuncia a mio avviso condivisibile, indispensabile l’indicazione della sede processuale nella quale il documento, pur indicato nel ricorso, sia stato prodotto (il regolamento dell’associazione non era stato, peraltro, depositato unitamente al ricorso)65.
5. Le critiche della dottrina all’interpretazione estensiva; alcune osservazioni sul principio dell’autosufficienza
5.A. Come anticipato, la dottrina ha espresso critiche all’interpretazione estensiva del principio dell’autosufficienza66. Il richiamo all’art. 366, nel testo novellato dal D.Lgs. 40/2006, è stato ritenuto insufficiente a consentire la declaratoria di inammissibilità del motivo in quanto la disposizione richiede solo l’esposizione sommaria dei fatti di causa e l’indicazione dei motivi nonché dei documenti sui quali il ricorso si fonda; dubbi e perplessità sono stati espressi sul col-
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La sentenza ha ritenuto che “la testuale riproduzione (in tutto od in parte) degli atti e dei documenti è invece richiesta quante volte si assuma che la sentenza è censurabile per non avere tenuto conto e che se lo avesse fatto, la decisione sarebbe stata diversa: la Corte deve poter bensì verificare che quanto il ricorrente afferma trovi effettivo riscontro negli atti (è questa la ragione per cui va documentata la trasmissione del fascicolo d’ufficio e vanno prodotti gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda) ma non è tenuta a cercarli, a stabilire essa stessa se ed in quale parte rilevino, a leggerli nella loro interezza per poter comprendere, valutare e decidere)”. 64 V. sentenza 25.3.2010, n. 7161. 65 La Cassazione ha distinto diverse situazioni processuali: – ove la produzione sia avvenuta nelle fasi di merito a cura del ricorrente; – ove la produzione sia avvenuta nelle fasi di merito a cura dalla controparte; – ove il documento non risulti prodotto; o la parte interessata, dopo la produzione, sia rimasta contumace nelle successive fasi o non risulti depositato il fascicolo di parte. La decisione ha anche ritenuto inammissibile la produzione degli atti e/o documenti di cui si discute insieme al deposito della memoria ex art. 372 c.p.c. 66 Rinvio, sul punto, alle indagini, fra gli altri, di Chiarloni, op cit., Ricci, op cit., Condemi, op cit., 43, Santangeli, op cit., 35 ss. e agli autori ivi citati.
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legamento con (l’asserito) divieto della Corte di procedere all’esame diretto degli atti di causa anche nei ricorsi proposti ai sensi dell’art. 3 e 4 dell’art. 360 del codice di rito. È stata ravvisata la necessità di perseguire un corretto equilibrio fra requisiti formali dell’atto (o della proposizione del ricorso) ed il diritto delle parti all’accesso al giudice di ultima istanza quale espressione anche del principio del giusto processo; per altro, concorrente, profilo sono stati evocati gli artt. 6 e 13 CEDU che impongono allo Stato membro l’emanazione di adeguata normativa finalizzata a consentire alle parti l’effettività dei mezzi di impugnazione. Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ribadito la necessità della tutela del diritto della parte ad evitare l’applicazione di sanzioni processuali non corrispondenti al principio di proporzionalità; il dato normativo nazionale deve essere, quindi, interpretato, nel senso di evitare agli Stati membri l’adozione di pronunce di denegata giustizia e consentire, per quanto possibile, al processo di pervenire al suo esito naturale, e cioè ad una decisione sul fondamento del diritto dedotto in giudizio. Nulla di nuovo, invero, rispetto a quanto proposto da qualche decennio nella dottrina. Virgilio Andrioli aveva già da tempo assunto la necessità che il processo di cognizione miri a concludere con pronunce di merito, mentre eccezionali, sono le ipotesi in cui la violazione di norma disciplinatrici del processo impone che questi si concluda mediante sentenza assolutrice dell’osservanza del giudizio. 5.B. Dall’art. 156 c.p.c. consegue che il raggiungimento dello scopo è il criterio da assumere per valutare la validità degli atti processuali per difetto dei requisiti di formacontenuto. In tale prospettiva il principio dell’autosufficienza e le norme sulla disciplina sull’ammissibilità del ricorso in Cassazione è stato ricondotto nell’ambito della nullità assumendo anche la possibilità della sanatoria del vizio con le deduzioni o allegazioni offerte nelle memorie ex art. 378 c.p.c.67. Spunti in tal senso sono desumibili, peraltro, dalla giurisprudenza68 secondo cui Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso in Cassazione è diretta espressione dei principi sulla nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156, secondo comma, cod. proc. civ.)69.
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V. in questo senso, Conforti, op. cit.; l’autore ritiene anche che con il deposito delle memorie previste dall’art. 380 bis e 378 c.p.c. sia consentita una sanatoria del difetto in quanto “nel momento in cui dalla relazione del consigliere emerga la possibilità di definire il ricorso per difetto di autosufficienza il ricorrente potrebbe utilizzare la memoria di cui al secondo comma dell’art. 380 bis per integrare l’atto introduttivo del ‘materiale di causa’ a detta del giudice di legittimità non trascritto”. 68 V., fra le altre, la sentenza 4741/2005. 69 La Cassazione ha ritenuto applicabile la sanzione della nullità per mancato raggiungimento dello scopo, anche in mancanza di espressa previsione sanzionatoria, in riferimento alla tipicizzazione dei motivi e alla particolare struttura del giudizio in Cassazione “nel quale la trattazione si esaurisce nell’udienza di discussione”; da tali considerazioni la Corte ha dedotto il principio che “il motivo ancorché la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello) debba necessariamente essere specifico cioè articolarsi nell’enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee a evidenziarlo”.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
Tale lettura è condivisa da De Cristoforo70 secondo cui il motivo che non si concreta nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui la decisione impugnata è viziata deve ritenersi inammissibile per mancato raggiungimento dello scopo. 5.C. Secondo alcune decisioni il requisito di specificità e completezza costituisce diretta espressione dei principi sulla nullità degli atti processuali ed, in particolare, del criterio secondo cui un atto processuale è viziato, anche se la legge non lo preveda, quanto sia carente dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo71. In precedenza la Corte72 aveva ritenuto applicabile la sanzione della nullità per mancato raggiungimento dello scopo, pur in mancanza di espressa previsione sanzionatoria, con l’argomentazione della tipicizzazione dei motivi e della particolare struttura del giudizio di Cassazione nel quale la trattazione si esaurisce nell’udienza di discussione; da tali considerazioni aveva dedotto il principio che “il motivo ancorché la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello) debba necessariamente essere specifico cioè articolarsi nell’enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee a evidenziarlo”. Dall’onere di specificità dei motivi di impugnazione è stato desunto, quale corollario, il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso73. 5.D. Ritengo che il riferimento alle disposizioni generali del processo civile sulla disciplina della nullità degli atti consenta di individuare un criterio direttamente desumibile da espressa disposizione normativa; nonché al giudice l’adozione di pronunce di inammissibilità del ricorso in Cassazione non in recepimento di criteri meramente formalistici di mancata riproduzione o, con versione light, di corretta e completa indicazione del contenuto degli atti e/o documento sui quali si fonda il motivo ma dopo una valutazione complessiva dell’atto parametrato sul criterio di idoneità di esso al raggiungimento dello scopo. Sono consapevole che il riferimento all’art. 156 c.p.c. non è idoneo, di per sé, alla risoluzione di tutti i dubbi interpretativi; il criterio proposto può contribuire a limitare (insieme all’osservanza dei protocolli di cui parlerà il successivo relatore) il c.d. soggettivismo giudiziario criticato dalla dottrina e l’applicazione estensiva, se non ultra legem, delle ipotesi di inammissibilità del ricorso in Cassazione. L’interpretazione proposta trova conferma anche nei principi generali sull’impugnazione, già offerti alla vostra attenzione dalle relazioni della mattina di Andrea Proto Pisani, della Dott.ssa Marcella Murana, nonché di Bruno Sassani. 5.E. Per riassumere: la dottrina, almeno prevalente, ha offerto (anche prima della sottoscrizione dei protocolli) una diversa, condivisibile, interpretazione del numero 6 dell’art. 366, primo comma, del codice di rito: la disposizione richiede solo l’indicazione della
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Così in Sull’art. 366 c.p.c., a cura di Consolo, Codice di procedura civile commentato, Padova, 2013, 951. V., ex multis, Cass., 25.3.2013, n. 7455, in Guida al Diritto, 2013, 24, 54. 72 V. in questo senso, Cass. 30.3.2011, n. 7233, in Giust. Civ. 2011, I, 1177, con nota di Didone. 73 Cfr. Cass., 17.1.2014, n. 896, in Foro It., 2015, I, 1359. 71
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localizzazione ma non della trascrizione, anche solo parziale, degli atti e documenti sui quali si fonda il ricorso. È onere delle parti l’indicazione, facilitandone il reperimento ai giudici della Cassazione, degli atti processuali e dei documenti dai quali il motivo trae sostegno; quale criterio per la valutazione sull’ammissibilità della censura è stato proposto il principio desumibile dall’art. 156 del codice di rito del raggiungimento dello scopo. 5.E.1. A conforto la dottrina ha addotto anche la necessità di perseguire un corretto equilibrio fra i principi di autosufficienza ed ambito di cognizione del giudice di legittimità; assumono sul punto rilevanza anche i limiti di sindacabilità degli atti processuali, nonché i principi desumibili dalla decisione delle Sezioni Unite 22.5.2012, n. 8077, già citata (il giudice è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti su cui il ricorso si fonda). Il dato normativo novellato (D.Lgs. 40/2006) conferma quindi, a mio avviso, la correttezza del recepimento di un criterio light del principio di autosufficienza, quanto meno per i vizi ex art. 360, n. 474. 5.F. Le opinioni espresse dalla dottrina sembrano condivisibili; l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene (o riteneva) necessaria la trascrizione del contenuto del documento o dell’atto su cui si fonda la censura da adito a consistenti perplessità; anche prima della sottoscrizione dei protocolli la normativa consentiva di desumere l’idoneità, ed insieme la necessità, della sola indicazione della localizzazione dei documenti ed atti all’interno del processo, del passaggio al quale la doglianza si riferisce e del momento temporale di formazione e di produzione degli atti in giudizio. 5.G. Alcune decisioni hanno ritenuto sussistente l’obbligo dell’ulteriore, e gravoso, onere di produrre nuovamente, e separatamente, nel fascicolo del giudizio di legittimità gli atti posti a fondamento del ricorso75.
74
V., in questo senso, fra gli altri, Santangeli, Autosufficienza. Ieri, oggi e domani, in www.judicium.it, cit. Analoghi rilievi sono stati proposti da altri autori. Secondo Giusti, op cit., “quel che occorre – ma al contesto basta a ritenere rispettate le prescrizioni formule dettate dal codice di rito e in una prospettiva light, è che la doglianza sia specifica e che siano indicati con previsione facilitandone il reperimento agli atti anche processuali e documenti che il ricorrente ha fatto nell’esporre le sue censure”. Per Chiarloni, (Diritto vivente di fronte alla verifica dei ricorsi per Cassazione: l’inammissibilità per violazione del c.d. principio di autosufficienza, in www.judicium.it, op cit.) nell’ipotesi in cui se “il ricorso avesse obbedito ai requisiti di autosufficienza esso sarebbe stato accolto in sentenza ci troviamo di fronte a soluzioni in cui il rigore formale nasconde un caso di denegata giustizia”. Ricci, (Sull’Autosufficienza del ricorso per Cassazione: il deposito dei fascicoli come esercizio ginnico e l’Avvocato cassazionista quale amanuense, in Riv. dir. proc., 2010, 3, 736) si è chiesto perché ed in base a quale esigenza l’avvocato debba trasformarsi in un “in un attento amanuense copista afflitto da un dilemma operativo: le trascrizioni necessarie devono essere inserite nel corpus del ricorso, oppure (dopo essere state menzionate ed individuate in tale corpus) è possibile farne altrettanti appendici da allegare all’atto di impugnazione?”. L’autore ha espresso critiche all’estensione con l’indirizzo della Cassazione del concetto di indicazione a quello della trascrizione in quanto “il deposito dei fascicoli presso la cancelleria della Corte tende allora a configurarsi come esercizio ginnico finalizzato all’uso di masse cartacee per composizioni architettoniche”. Il diritto di trasforma, con l’apertura di nuovi e affascinanti orizzonti per le nostre speculazioni. Per Sassani, (Il nuovo giudizio di Cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2006, 228), la nuova norma “realizza un onorevole compromesso tra la direttrice del c.d. principio di autosufficienza del ricorso (principio di cui si è largamente abusato) e la logica (egualmente perversa) dello jura novit...chartulam che sembra presiedere alla redazione di molti ricorsi in cui l’accavallarsi dei riferimenti documentali mette il relatore che intenda eseguire i necessari controlli, nella sgradevole alternativa di impiegare il suo tempo alla caccia ai riscontri cartolari ovvero di sbrigativamente invocare il deprecato principio di autosufficienza”. 75 Cass., ord. 5.2.2011 in www.altalex.it.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
Tale esigenza è stata ricondotta al principio della ragionevole durata del processo. Ritengo condivisibile il principio enunciato dalla Cassazione (Sezione Unite, 14 gennaio 2011, n. 767), espresso anch’esso prima della sottoscrizione del protocollo sottoscritto dal Presidente della Corte e del C.N.F., che ha escluso quale ulteriore onere a carico del ricorrente la necessità di un deposito aggiuntivo di un separato inserto contenente la documentazione richiamata nel ricorso in quanto già rinvenibile nel fascicolo di parte; la decisione ha avuto modo, comunque, di rilevare che quanto qui osservato in ordine ai presupposti legali dell’improcedibilità ovviamente non preclude affatto al ricorrente – essendo anzi auspicabile che vi si determini – di produrre comunque copia degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda.
6. Le raccomandazioni o soft law desumibili dai c.d.
Protocolli: rinvio al successivo intervento
Il tema sarà trattato funditus da Francesco Cappello76; ritengo opportuno limitarmi a mere trascrizioni delle parti immediatamente rilevanti per l’intervento. 6.A. Il protocollo del 17.12.2015 ha offerto agli addetti ai lavori alcuni criteri per la corretta formulazione dei ricorsi in Cassazione. Per quanto più rileva in questa sede le indicazioni ivi contenute propongono agli addetti che: Il rispetto del principio di autosufficienza non comporta un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento. Il sunnominato principio deve ritenersi rispettato, anche per i ricorsi di competenza della Sezione tributaria, quando: 1).ciascun motivo articolato nel ricorso risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di rito (è da ritenere l’estraneità, almeno tendenziale, dell’autosufficienza per la decisione sulle impugnative proposte ex art. 360 n. 3 e 4 c.p.c.); 2).nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366, c. 1, n. 6), cod. proc. civ.), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce77; 3).nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto;
76
La relazione è stata già pubblicata sul sito di questa Rivista il 17 dicembre 2018. Secondo Frasca, Glosse e commenti sul protocollo per la redazione dei ricorsi civili convenuto fra la Corte di Cassazione e Consiglio Nazionale Forense, in www.judicium.it, dal protocollo è desumibile l’onere di enunciazione del contenuto del documento richiamato nel gravame che deve essere, comunque, assolto tramite la riproduzione diretta o indiretta di esso.
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4).siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso. Al protocollo è allegato uno schema di ricorso in Cassazione ed il modello di proposta del relatore della Sesta Sezione filtro ex art. 380-bis c.p.c. 6.B. Il presidente della Cassazione con decreto 14.12.2016 ha emanato alcune direttive sugli obblighi motivazionali dei provvedimenti civili, ed, in particolare, della motivazione sintetica. 6.C. Il 19.12.2016 è stato sottoscritto un secondo protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura Generale dello Stato sull’applicazione del nuovo rito civile introdotto dalla legge del 2016 davanti alla Suprema Corte. Il secondo protocollo:
• auspica la necessità di concentrare più adeguate risorse ed energie nell’espletamento della funzione nomofilattica propria di una Suprema Corte;
• da atto della volontà comune di costruire insieme non soltanto una prassi organizzativa, ma una interpretazione il più possibile condivisa di alcuni snodi altrimenti problematici di questa riforma;
• non offre ulteriori criteri sul principio dell’autosufficienza; • ha individuato il principio secondo cui le memorie predisposte in vista della trattazione camerale non debbano superare, di regola, il numero di quindici pagine. Rinvio per l’approfondimento della natura ed efficacia precettiva e temporale del protocollo all’intervento successivo.
7. Verifica dei più recenti indirizzi giurisprudenziali sul
principio di autosufficienza; sull’obbligo della specificità dei motivi 7.A. La disamina della giurisprudenza della Cassazione successiva alla sottoscrizione dei protocolli non consente una agevole schematizzazione, o sintesi, dei requisiti richiesti per l’osservanza del principio dell’autosufficienza; permangono consistenti dubbi, ed ampia discrezionalità della Corte, che espongono il ricorrente ad un consistente rischio di una decisione di inammissibilità della censura.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
Il dato proposto trova conferma in una indagine che ha constatato il recepimento di indirizzi non uniformi nelle diverse sezioni, che, per necessità di sintesi, mi limito solo a richiamare78. Assumono consistente rilevanza anche le specifiche situazioni processuali che condizionano l’enunciazione delle massime, anche in riferimento alla lunghezza – rectius prolissità – del ricorso79. 7.B. In sintesi sono rinvenibili tre indirizzi: a).secondo il primo è necessaria ai fini di evitare la pronuncia di inammissibilità per violazione del canone di autosufficienza la trascrizione dei documenti o degli atti su cui si fonda il motivo; b).un secondo indirizzo si limita a richiedere la riproduzione di essi nei termini essenziali; c).un terzo indirizzo ritiene sufficiente l’indicazione tramite localizzazione interna ed esterna; Per altro, concorrente, profilo la disamina del dato giurisprudenziale consente di desumere che il principio applicato in origine per la disamina dei vizi ex art. 360, n. 5, sia stato esteso anche per la cognizione dei vizi ex art. 360 n. 3, e 4. È possibile distinguere una applicazione light o soft per gli errores in procedendo e strong per quelli ex art. 360, n. 3 e 5. Ritengo utile richiamare anche la distinzione desumibile del requisito per l’ammissibilità del ricorso tra: –.localizzazione interna che comporta la necessità dell’indicazione del luogo, dell’interno dell’atto o del documento da cui è tratto il passo su cui si fonda il ricorso; è richiesta anche l’indicazione del punto, pagina e paragrafo così da consentire alla Cassazione la verifica sulla correttezza ed esaustività del riferimento; –.localizzazione esterna che comporta la necessità di individuare il luogo (in quale fascicolo) è rinvenibile l’atto o il documento su cui si fonda il motivo. Anche l’indicazione del tempo di produzione contribuisce all’assolvimento dell’onere di localizzazione esterna, dovendo le parti fare riferimento al momento in cui un certo atto difensivo è stato depositato e quanto ai documenti al numero assegnato dal difensore nel fascicolo relativo allo specifico grado di giudizio80. La non uniformità dell’indirizzo nei ricorsi tributari trova conferma in alcune decisioni che hanno ritenuto sussistente l’obbligo della riproduzione del testo (integrale) degli accertamenti di imposizione fiscale e nel contenzioso laburistico degli accordi collettivi di lavoro, nelle parti rilevanti (v. supra 4.D.1 e 4.G).
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V. Santangeli, op cit., in www.judicium.it, 41 ss. Ad esempio, Cass. 20.10.2016, n. 21297, ha deciso su un gravame di ben 251 pagine, contenente 18 motivi di ricorso; Cass. 8.11.2012, n. 19357, ha dichiarato inammissibile un ricorso di oltre 300 pagine dalla cui lettura non ha ritenuto di poter desumere il fatto e le censure. 80 V. Cass., S.U., 24.1.2013, n. 1521. 79
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7.C. Nell’ottica proposta ritengo opportuno richiamare anche l’obbligo dell’esposizione sommaria dei fatti di causa da intendere nella doppia accezione:
• di fatto sostanziale (ossia quanto concerne le reciproche pretese delle parti); • di fatto processuale (relativo a quanto accaduto nel corso del giudizio, alle domande ed eccezioni formulate dalle parti, ai provvedimenti emanati dai giudici). Il rispetto di tale principio, che consegue dalla normativa sia interna che sovranazionale, è applicabile ad un atto di impugnazione a motivi limitati; è anche correlato alla particolare struttura del giudizio davanti alla Suprema Corte nel quale la trattazione si esaurisce senza consentire alcuna attività di allegazione ulteriore (le memorie di cui all’art. 378 c.p.c. sono finalizzate solo alle deduzioni delle ulteriori argomentazioni sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente); i dati proposti confermano che il motivo di ricorso per Cassazione, ancorchè la legge non lo preveda espressamente (come invece per l’atto di appello), debba essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee a sostenere le censure. L’obbligo di specificità è stato ritenuto sussistente anche per la deduzione di errores in procedendo in modo che la Corte venga posta nelle condizioni di procedere ad un controllo sugli atti processuali in funzione di quanto avvenuto nei giudizi di merito. Il Protocollo del 2015 ha espresso la raccomandazione – o indicazione – che la sommaria esposizione sia idonea a percepire con una certa immediatezza il dato sostanziale e lo svolgimento delle vicende processuali, e quindi consentire alla Corte di acquisire l’indispensabile conoscenza, sia pure sommaria, dei giudizi di merito di comprenderne il senso dei motivi. Il requisito della sommarietà deve essere, quindi, considerarsi soddisfatto tramite una esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni offerte da ciascuna parte in relazione alle argomentazioni avversarie, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, i profili essenziali, in fatto ed in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulla quale si richiede alla Corte, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione diversa da quella, che si assume erronea, espressa dal giudice di merito81. Rinvio per le ulteriori constatazioni sulle ultime decisioni della Cassazione alla relazione di Francesco Cappello.
81
V., in questo senso, Cass. 31.7.2017, n. 18962.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
8. Alcuni suggerimenti per la redazione del ricorso in
Cassazione nel rispetto del principio dell’autosufficienza (o dell’art. 366, n. 6 c.p.c.) I dubbi per gli addetti ai lavori trovano conferma nella constatazione che una interpretazione più restrittiva del principio di autosufficienza è stata offerta da Giusti negli atti pubblicati delle relazioni tenute nei seminari organizzati per i giudici di Cassazione di prima nomina82. Le osservazioni ivi proposte consentono di individuare i criteri per la redazione di un rituale gravame in Cassazione83.
a. Il motivo deve essere redatto secondo le modalità indicate dai protocolli; indico tale criterio, anche se, come desumibile successivo intervento, il rispetto della soft law, o raccomandazione, o accordo, non consente di evitare pronunce di inammissibilità soprattutto in riferimento all’obbligo di indicazione o riproduzione dei documenti su cui si fonda la censura;
b. il motivo deve essere esente da peccati di eccesso e di lunghezza nell’esposizione dei dati fattuali e perseguire, per quanto compatibile con la peculiarità della fattispecie sia di fatto e di diritto, i principi di chiarezza e sinteticità degli atti processuali (anche sul punto rinvio all’intervento di Francesco Cappello). Il ricorrente dovrà, quindi, proporre, in autonomo paragrafo, una sintesi e selezione dei profili di fatto e di diritto necessari per la contestazione della sentenza impugnata. Non può quindi limitarsi ad un rinvio al contenuto della decisione del giudice d’appello sullo svolgimento del processo ma indicare le ragioni della decisione che si ritengono errate; non è necessario, comunque, ripetere tutte le circostanze di causa e le fasi dei giudizi di merito;
c. il motivo deve essere redatto in modo chiaro, specifico, possibilmente concentrato ma esauriente e completo nel rispetto della natura del procedimento davanti alla Corte che costituisce gravame a critica limitata (non sono deducibili per la prima volta davanti alla Cassazione questioni non proposte in precedenza o nuovi profili in contestazione non trattati nella fase di merito che implichino ulteriori accertamenti di fatto84, se non rilevabili d’ufficio);
82
Intendo riferirmi all’intervento pubblicato in Cassazione civile, Lezioni dei magistrati della Corte Suprema Italiana, op cit., 258,259. Secondo l’autore “quel che occorre – ma al tempo basta a ritenere rispettate le prescrizioni formali dettate al codice di rito – è in una prospettiva light che la doglianza sia specifica e che siano indicati con precisione, facilitandone così il riferimento agli atti, anche processuali, e i documenti sui cui il ricorrente ha fatto riferimento nell’espressa la sua censura” (nello stesso senso v. Consolo, op cit., e Frasca, op cit.; in senso contrario si è espressa prima della sottoscrizione dei protocolli Cass., Sez. VI, ord. 31.1.2014, n. 2174, con nota critica di Pellegrinelli, in Riv. Dir. Proc., 2015, 589). 83 Sul punto Scarselli, Note sulle buone regole redazionali dei ricorsi in Cassazione in materia civile, in Questione Giustizia, 2016. 84 In questi termini si è espressa di recente Cass., II, 15.10.2018, n. 25689. Secondo la pronuncia “Il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha dunque l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione
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d. il motivo deve consentire la chiara indicazione delle fonti normative, sia di grado primario che secondario (che comunque sarà opportuno, quanto meno, indicare specificatamente);
e. l’accoglimento della censura richiede la deduzione di rilievi atti a comprovare anche la decisività delle critiche addotte avverso la sentenza impugnata e la contestazione di ciascuna ratio sottesa alla decisione;
f. ove sia in discussione l’interpretazione di un contratto (fra soggetti privati o collettivo di lavoro), o di una delibera societaria, è opportuno offrirne alla Corte compiuta indicazione; ritengo sufficiente dopo la sottoscrizione del protocollo l’indicazione delle sole parti di cui si contesta la mancata o errata interpretazione del giudice di merito (e non dell’intero contenuto); sussiste, comunque, l’obbligo della produzione in giudizio dell’intero documento ex art. 369 c.p.c.;
g. il motivo deve essere redatto secondo i criteri del rinvio specifico e dettagliato ai pregressi atti o documenti in applicazione del criterio della localizzazione c.d. interna ed esterna (v. S.U. 23.1.2013, n. 1521); deve, cioè, contenere l’indicazione del luogo e del tempo dell’atto richiamato e la fase in cui esso è avvenuto, ovvero della parte dell’atto che interessa la questione sottoposta in Cassazione (luogo), tipo di atto che lo riguarda (tempo) e momento del giudizio (fase);
h. il vizio ex art. 360 n. 5, c.p.c., dopo la modifica introdotta nel 2006 che ha sostituito la formula circa un punto decisivo della controversia con l’altra circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, è proponibile solo quando la motivazione della sentenza impugnata sia del tutto assente oppure contraddittoria; il fatto storico il cui esame è stato omesso dal giudice di merito deve essere espressamente indicato (anche) ai fini di consentire con la disamina del solo ricorso l’individuazione della decisività di esso ai fini della riforma della decisione impugnata85. Secondo la giurisprudenza la censura è ammissibile quando le argomentazioni del secondo giudice siano state addotte in modo talmente contraddittorio da non consentire la loro individuazione, e quindi costituire giustificazione della decisione, in contrasto dei requisiti richiesti dall’art. 132 del codice di rito nel combinato disposto dell’art. 360, n.4; la riformulazione dell’art. 360, n. 5, deve essere interpretata come riduzione al minimo convenzionale del sindacato di legittimità della motivazione86.
avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ‘ex actis’ la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 2140/2006)”. 85 V. sul punto, di recente, l’indagine di Sassani, Variations sérieuses sul riesame della motivazione, in www.judicium.it, 2017. 86 Le conclusioni offerte sono desumibili dalla decisione delle S.U. 7.4.2014 n. 8053, e 22.9.2014, n. 19881 che hanno ritenuto denunciabili in Cassazione i capi della sentenza privi di motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico, o con esposizione non idonea a desumere la ratio decidendi, o con motivazione apparente ed obiettivamente incomprensibile, o con contrasto irrimediabile tra affermazioni inconciliabili.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
La giurisprudenza ha ritenuto di ricomprendere nel vizio anche la critica della motivazione apparente ravvisabile quando vengono addotte argomentazioni non idonee a giustificare la ratio decidendi87; nonché la motivazione c.d. perplessa ed obiettivamente incomprensibile88; è comunque indispensabile per la configurabilità del vizio la sussistenza di un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se considerata, avrebbe consentito una diversa soluzione con giudizio di certezza e non di mera probabilità89; i).è auspicabile, come suggerito dal Protocollo, il deposito del fascicoletto che contenga documenti addotti a sostegno del ricorso (o ricorso incidentale)90.
9. Riflessioni conclusive a. Come constatato, il panorama giurisprudenziale proposto appare quantomeno non uniforme e non consente di individuare con la necessaria certezza gli ambiti di applicazione del principio di autosufficienza che, a mio avviso, non ha sostegno normativo, almeno esplicito91; le difficoltà per gli addetti conseguono dalla difficoltà di individuare i criteri recepiti dalla Suprema Corte in riferimento all’obbligo di trascrizione o solo mera indicazione tramite localizzazione interna ed esterna dei documenti e degli atti dei precedenti giudizi, anche alla luce dei diversi indirizzi recepiti dalle Sezioni della Corte92;
b. come desumibile dalla relazione successiva i protocolli d’intesa per la loro natura di suggerimenti-accordi o di soft law e la mancata efficacia retroattiva non appaiono idonei a fornire certezze, o quantomeno criteri univoci, idonei ad evitare la pronuncia di inammissibilità; ad una prima indagine l’indirizzo della Cassazione non sembra mutato dopo l’approvazione dei protocolli che vengono evocati, per lo più, a sostegno solo delle pronunce di rito per la violazione del principio di autosufficienza.
87
V., ex multis, Cass. 6 agosto 2012, n. 14168. V. Cass. 13.febbraio 2006, n. 3010. 89 Cfr., in questo senso, Cass. 14 novembre 2013, n. 25608; 24 ottobre 2013, n. 24092. 90 Ricordo, anche se non rileva per il tema in esame, che la giurisprudenza richiede che la copia della sentenza impugnata, se notificata in via telematica, debba essere prodotta in copia analogica con attestazione di conformità ai sensi della l. 33/94, art. 9, comma 1 bis e ter, del messaggio di posta elettronica ricevuto, nonché della relazione di notifica e del messaggio, se notificato in via telematica (v. in questo senso, Sez. VI, 22.12.2017, n. 30765); una recente pronuncia (ord. 25 settembre 2018, n. 22601) ha anche ritenuto che “Il mero deposito presso la cancelleria della Corte di cassazione, da parte del ricorrente, della copia della sentenza di appello, in forma cartacea, autenticata dalla cancelleria ma priva della relata di notifica, non rispetta i requisiti legali prescritti dall’articolo 369, secondo comma, del c.p.c., per cui, in difetto di deposito di tale atto da parte del controricorrente, rende il ricorso medesimo improcedibile”. 91 Evangelista e Canzio, in Foro It., 2005, V, 82, alcuni anni fa avevano constatato “che la fitta congerie delle massime le quali richiamano il principio di autosufficienza del ricorso in Cassazione, offre un panorama talmente variegato da apparire praticamente inutilizzabile da chi voglia farne applicazione, così come si presenta, per sceverare i casi di autentica inammissibilità dell’atto, da quelli cui cioè l’indicazione della regola si ridurrebbe ad un mero formalismo”. 92 Così Santangeli, op cit., 46 ss. 88
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Di recente la Corte93 ha assunto posizione sulla natura di essi rilevando che l’inammissibilità del motivo, secondo quanto subito si dirà, non discende, ovviamente, dalla violazione del protocollo, che è di per sé privo di efficacia normativa: ma il protocollo testimonia di un condiviso orientamento interpretativo che ha la sua base nel dato normativo, sia per quanto attiene all’esigenza di specificità, sia per quanto attiene all’esigenza di autosufficienza, sicché legittima l’interpretazione della norma in conformità al protocollo, con l’ulteriore conseguenza che la violazione delle regole del protocollo dà luogo ad inammissibilità laddove esso rifletta opzioni interpretative di quel dato. Permane un contrasto giurisprudenziale: ad un indirizzo più elastico che ritiene sufficiente ai fini del rispetto del principio dell’autosufficienza l’onere di una specifica indicazione degli atti e documenti su cui si fonda il ricorso e la localizzazione della relativa sede processuale nella quale risultano prodotti (Cass. Sez. I, ord. 24.4.2018, n. 10112), si contrappone altro che, anche dopo la sottoscrizione del protocollo, ha ribadito la sussistenza dell’obbligo della trascrizione del contenuto degli atti e documenti richiamati (Cass. 23 giugno 2017, n. 15737).
c. ritengo criticabile la soluzione recepita con la sottoscrizione del secondo protocollo; dare i numeri per la redazione dei ricorsi e delle memorie davanti alla Cassazione non risolve i problemi interpretativi; l’indeterminatezza del principio di sinteticità ha indotto ad una codificazione attraverso la predeterminazione della lunghezza dell’atto processuale sia per il numero delle pagine che dei caratteri previo richiamo alla disciplina del processo amministrativo (l’art. 3 d.lgs. 104/2010 non può costituire, a mio avviso, una regola generale per tutti i processi: rinvio anche sul punto al successivo intervento);
d. .il motivo deve ritenersi ammissibile quando consenta alla Corte con il sistema dei c.d. rinvii interni e/o esterni di esercitare i propri poteri cognitivi e decisori; a mio avviso le disposizioni del codice di rito non richiedono, ad esempio, la trascrizione integrale dei mezzi istruttori di cui era stata richiesta l’ammissione davanti ai giudici di merito ma solo l’individuazione della fase processuale ove sono stati dedotti o della documentazione prodotta94; analoghe valutazioni propongo per la documentazione già agli atti;
e. .per altro, concorrente, profilo l’applicazione estensiva del principio di autosufficienza ha indotto gli avvocati alla redazione di ricorsi lunghi ed assemblati tramite la riproduzione di fotocopie o con il metodo sandwich, attività questa sanzionata dai giudici non solo in sede di condanna alle spese ma anche con pronunce, di inammissibilità. Le Sezioni Unite con la sentenza 16.1.2015, n. 642, hanno avuto occasione di ribadire l’inammissibilità dei ricorsi contenenti la pedissequa riproduzione dell’intero letterale contenuto degli atti processuali mediante la tecnica dell’assemblaggio non certo per
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V. sul punto, Cass., Sez. I, ordinanza 24 aprile 2018, n. 10122, in Foro It., 2018, I, 3197, con nota di Piervito. V., a conferma, Cass. 11 febbraio 2014, n. 3026, che ha ritenuto sufficiente l’indicazione nel ricorso in via riassuntiva del contenuto dei documenti di cui si lamenta la mancata valutazione da parte del giudice di merito.
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I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza
mancanza di originalità contenutistica o espositiva del gravame bensì per inidoneità a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti in quanto le impugnative, carenti di interesse funzionale, finiscono con l’affidare alla Corte la scelta di quanto effettivamente rilevi in ordine ai motivi di impugnazione95;
f. la disamina della giurisprudenza non consente, a mio avviso, di prevedere il probabile esito del ricorso, e quindi evitare l’aumento del contenzioso davanti al giudice di legittimità; l’indirizzo più rigoroso, fra l’altro, non è del tutto compatibile con l’esigenza di nomofilachia sottesa all’attività della Suprema Corte;
g. come è stato rilevato da Bove96 la non uniformità, se non alternanza, della giurisprudenza delle Sezioni della Cassazione costituisce ulteriore elemento dell’incremento dei ricorsi e della deduzione dei vizi denunciati che, di fatto, hanno relegato la Suprema Corte al ruolo di terzo grado di giudizio, con cognizione estesa anche al merito;
h. come proposto, il principio dell’autosufficienza non ha, per mio avviso, autonoma dignità, né sostegno normativo, almeno esplicito97; è quindi auspicabile una decisione della S.U. che indichi (o ribadisca) agli addetti ai lavori dopo la sottoscrizione dei protocolli i requisiti richiesti per la rituale proposizione dei ricorsi in Cassazione con espressa enunciazione di un principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, comma terzo, c.p.c.98 (le decisioni fino ad oggi rese in senso non conforme, se non contraddittorio, sono, almeno in prevalenza, direttamente conferenti con le fattispecie esaminate e non costituiscono criteri generali applicabili a tutti i gravami proponibili davanti alla Suprema Corte99);
i. è necessario in sede di valutazione dell’ammissibilità perseguire un corretto equilibrio fra il principio della sinteticità degli atti, dell’autosufficienza del gravame in Cassazione, del rispetto della normativa anche sovranazionale in riferimento al criterio della proporzionalità (art. 6 e 13 CEDU) e il diritto delle parti ad ottenere una pronuncia di merito; condizione necessaria per la legittimità di ogni requisito formale di limitazione dell’accesso al giudice (soprattutto in fase di impugnazione davanti al giudice di legittimità) è che l’interpretazione giurisprudenziale recepita non leda, in concreto, il ricorrente ad accedere alla Corte e che non sia viziata da un formalismo eccessivo.
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V. anche S.U. n. 5698 del 2012 e successive conformi. La Corte di Cassazione come giudice di terza istanza, in Riv. Trim. Proc. Civ., 2004, 953. 97 V. in questo senso, Giusti, op cit. 98 Tale intervento è auspicato anche da Santangeli, op cit., 55. 99 Rinvio alle puntuali osservazioni di Rodorf, Pluralità delle giurisdizione ed unitarietà del diritto vivente: una proposta, in Foro It., 2017, V, 123, che auspica una nomofilachia non statica ma dinamica, intesa come “capacità di individuare le linee di sviluppo di un diritto vivente dotato di una sua intrinseca plausibilità e di criteri ispiratori ai quali è ragionevole attendersi che il giudice si atterrà nella sua decisione, guardandosi il più possibile dal cadere in deleterie forme di soggettivismo interpretativo”. 96
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Natale Giallongo
L’ordinamento deve rispettare il vaglio di un corretto equilibrio tra esigenze della certezza del dato normativo e del diritto della parte al rispetto del principio del giusto processo; l).assume rilevanza anche la disciplina della formazione degli avvocati e del numero degli abilitati all’esercizio davanti alle giurisdizioni superiori, nonché la necessità di evitare la proposizione di ricorso in contrasto con i principi consolidati dalla Cassazione; in Italia il numero dei legali abilitati al patrocinio davanti alla Suprema Corte è di oltre 40.000; in Germania sono circa 50. Nel nostro paese l’abilitazione si otteneva fino a qualche anno fa con il semplice decorso di un lasso di tempo dall’iscrizione all’albo degli Avvocati; recentemente è necessario un esame di idoneità dopo la partecipazione di un corso specifico finalizzato ad una verifica sulla preparazione dei legali e della conoscenza della tecnica specifica per la redazione degli atti davanti alle giurisdizioni superiori (l’applicabilità della normativa è stata nel frattempo differita). Con ogni probabilità una larga parte degli Avvocati abilitati non ha mai depositato alcun ricorso davanti alla Suprema Corte (tale attività non è richiesta per la permanenza dell’iscrizione allo specifico albo) mentre una esigua minoranza gestisce gran parte del contenzioso. Ritengo auspicabile, se non necessario, un mutamento della disciplina dell’ordinamento professionale.
j. .le continue riforme negli ultimi anni del rito davanti alla Cassazione non hanno offerto un concreto contribuito alla risoluzione del problema dei tempi del giudizio davanti ai giudici di legittimità; il dato rilevante è che il numero delle decisioni ad essi demandate non consente un’efficace attività nomofilattica della Corte Suprema100. In tale contesto non escludo di rinvenire la logica, se non la giustificazione, dell’interpretazione estensiva che i giudici della Cassazione hanno inteso recepire sul principio della autosufficienza; con una certa malizia si è osservato che si tratta di una sorta di autodifesa nei confronti della mole dei ricorsi depositati101.
k. la risoluzione dei problemi del funzionamento della Cassazione richiede, con osservazione ovvia, interventi, normativi strutturali ed organizzativi che presuppongono cospicue risorse umane ed economiche (ad esempio incremento dei giudici addetti al massimario) non agevolmente compatibili con lo stato attuale delle finanze pubbliche ed, in particolare, con le risorse economico-finanziarie attribuite al funzionamento del c.d. servizio giustizia.
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Su tali problematiche, v. di recente, Proto Pisani, Ancora a proposito della Cassazione e nomofilachia, in Foro It., 2018, V, 2 fasc. 9. Così, Rota, in M.G.C.C., 2007, I, 1377.
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Andrea Mengali
Brevi note in tema di poteri istruttori del giudice e preclusioni nel processo sommario di cognizione ai sensi degli artt. 702 bis ss. c.p.c. Sommario : 1. Premessa e ambito della disamina. – 2. Il procedimento sommario di cognizione ed il principio di disponibilità delle prove. – 3. Procedimento sommario di cognizione e preclusioni istruttorie. – 4. Segue. Sulla teoria secondo la quale l’effetto preclusivo deriverebbe, per le sole prove costituende, dal principio di unitarietà o infrazionabilità della prova. – 5. Le preclusioni alle attività assertive. Parità delle armi e jus ponintendi. – 6. Conclusioni: diritti processuali delle parti e judicial case management.
L’ autore esamina dapprima la questione relativa all’ esistenza di poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice nell’ ambito del procedimento sommario previsto dagli artt. 702 bis e ss. c.p.c., dopo due sentenze della Suprema Corte di Cassazione che dapprima ha affermato l’ esistenza di un generale potere istruttorio d’ ufficio da parte del giudice del procedimento sommario, poi, di recente, ha invece sancito il contrario, affermando la cogenza anche nel suddetto rito del principio di disponibilità delle prove. Quindi l’ autore analizza le preclusioni previste per il rito sommario, esaminando criticamente le tesi che individuano, nella disciplina del procedimento sommario, rigide preclusioni istruttorie, sebbene le norme non ne prevedano alcuna. Infine, l’ autore svolge alcune considerazioni sulla possibilità che una gestione attiva della causa da parte del giudice del procedimento sommario, anche nell’ assenza di preclusioni istruttorie, meglio ancora se accompagnata da ampi poteri istruttori officiosi, possa comunque garantire un ordinato e spedito svolgimento del processo. The author first investigates the issue concerning the existence of judicial inquisitorial powers within the summary proceeding provided by artt. 702 bis et seq. c.p.c., after two judgments of the Supreme Court of Cassation which first has stated they are, then, recently, has stated they are not, because the adversarial principle for evidence is binding. Then the author analyses the deadlines provided by the summary judgment regulation, critically considering the theses that identify in that regulation strict deadlines for requesting of evidence, although the rules don’ t provide any. Lastly, the author offers some consideration about the fact that, also considering the non – existence of deadlines concerning evidence in the said summary judgment, an active case management by the court, better if together with judicial powers of inquiry, can anyway ensure the order and expeditiously of the process.
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Andrea Mengali
1. Premessa e ambito della disamina. L’occasione del presente scritto è data da alcuni recenti arresti della giurisprudenza di legittimità che sono intervenuti sulle regole riguardanti lo svolgimento del procedimento sommario di cognizione, in particolare con riferimento ai poteri istruttori del giudice e alle preclusioni, in particolar modo le preclusioni istruttorie, toccando temi già dibattuti tra gli interpreti ma sui quali tuttavia non vi è ancora, nonostante siano trascorsi quasi due lustri dall’introduzione dell’istituto, uniformità di vedute. Non si intende pertanto indugiare sui profili generali dell’istituto1, ampiamente arati dopo ormai dieci anni dalla sua introduzione, ma soffermarci su alcuni aspetti problematici della relativa disciplina, la cui soluzione non è necessariamente data da quella relativa alla vexata quaestio della natura della cognizione di cui al rito in esame e dai confini della deformalizzazione delle forme procedimentali e istruttorie, che pure rimane sullo sfondo. In particolare, quanto ai poteri del giudice, secondo un recente arresto di legittimità2, che ribalta quanto precedentemente affermato dalla stessa Suprema Corte, nel procedimento sommario deve applicarsi rigidamente il principio di disponibilità delle prove, non essendoci spazio per poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice (al di là, si deve comunque ritenere, di quanto sia consentito nel procedimento ordinario3). E con la stessa pronuncia, facendo seguito alla precedente Cass. 18 dicembre 2015, n. 255474, la Cassazione ribadisce l’esistenza di preclusioni istruttorie, nonostante l’assenza di qualsiasi previsione normativa in tal senso. Nulla quaestio, invece su quanto affermato dal citato precedente del 2018, in merito all’impossibilità per le parti di invocare la necessità di un’istruzione non sommaria, con
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Per i quali si rinvia ai numerosi studi in materia, tra i quali, senza pretesa di esaustività, A. Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Bologna, 2013; Id, Del procedimento sommario di cognizione: art. 702 bis-702 quater, Bologna, 2016; R. Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, fenomeno in via di gemmazione, in Riv. dir. proc., 2017, 116 ss.;; G. Balena, La nuova pseudo riforma della giustizia civile, in Giusto proc. civ., 2009, 749 ss.; Id, Alla ricerca del processo ideale, tra regole e discrezionalità, in Giusto proc. civ., 2018, 313 ss.; R. Caponi, Sulla distinzione tra cognizione piena e sommaria (in margine al nuovo procedimento exart. 702 bis ss. c.p.c.), in Giusto proc. civ., 2009, 1115 ss.; C. Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, 135 ss.; P. Porreca, Il procedimento sommario di cognizione: un rito flessibile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 823 ss.; R. Lombardi, Il procedimento sommario di cognizione generale, in Giusto proc. civ., 2010, 487; M. Bove, Il procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis ss. c.p.c., in judicium. it; C. Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corr. giur., 2009, 883 ss.; D. Volpino, Procedimento sommario di cognizione e semplificazione dei riti, in Il processo civile riformato, a cura di M. Taruffo, Bologna, 2010, 526 ss.; S. Menchini, Il rito semplificato a cognizione sommaria per le controversie semplici introdotto con la riforma del 2009, in Giusto proc. civ., 2009, 1101 ss.; A. Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it., 2009, V, 223 ss.; A. Carratta, Le condizioni di ammissibilità del nuovo procedimento sommario di cognizione, in Il procedimento sommario di cognizione, a cura di S. Chiarloni, in Giur. it., 2010; A. Romano, Appunti sul nuovo processo sommario di cognizione, in Giusto proc. civ., 2010, 165 ss; M. Cataldi, Il procedimento sommario di cognizione ex artt. 702 bis ss. c.p.c. e d.lg. 1.9.2011, n. 150, Torino, 2013. 2 Cfr. Cass. 5 ottobre 2018, n. 24538, con breve commento di A. Mengali, La Corte di Cassazione interviene sulle preclusioni istruttorie e sui poteri del giudice nel procedimento sommario di cognizione, in judicium.it, 2019. 3 Non potendo ragionevolmente affermarsi, anche volendo escludere l’esistenza di generalizzati poteri istruttori d’ufficio, che non siano applicabilità norme come gli artt. 257, comma 1 e 281 ter c.p.c. 4 in Giur. It., 2016, 10, 2157, con nota di G. Ricci, Le preclusioni istruttorie nel rito sommario di cognizione, che pure aveva individuato la sussistenza di preclusioni istruttorie, seppur collocando diversamente - ed in senso meno rigido - il relativo termine decadenziale.
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Brevi note in tema di poteri istruttori del giudice e preclusioni nel processo sommario di cognizione
conseguente conversione del rito da sommario a ordinario, in caso di mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sulle stesse.
2. Il procedimento sommario di cognizione ed il principio di disponibilità delle prove.
La Suprema Corte, con la pronuncia Cass. 5 ottobre 2018, n. Cass. 24538 che si è citato, dà per scontata la piena applicazione, nel procedimento sommario di cognizione, del principio di disponibilità delle prove e correlativamente afferma l’assenza di poteri istruttori officiosi da parte del giudice, al di là di quelli previsti per il rito ordinario. Detta pronuncia, come accennato, si pone in senso diametralmente opposto rispetto ad un altro precedente di legittimità, secondo il quale “nel procedimento sommario di cognizione, l’esercizio dei poteri istruttori concessi al giudice dall’art. 702 ter, quinto comma, cod. proc. civ. esprime una valutazione discrezionale, insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi di logica giuridica, restando esclusa la sola possibilità di decidere la controversia in applicazione dell’art. 2697 cod. civ., quale regola di giudizio, non potendo il giudice dare per esistenti fonti di prova decisive e, nel contempo, astenersi dal disporne l’acquisizione d’ufficio” (Cass. 25 febbraio 2014, n. 4485). Invero in entrambi i casi la Suprema Corte si è limitata ad affermare o negare l’esistenza di un generale potere istruttorio officioso in capo al giudice del procedimento sommario, senza offrire motivazioni a conferma dell’una o dell’altra ricostruzione. Vale la pena quindi approfondire la questione, ricordando i principali argomenti a sostegno dell’una o dell’altra tesi5. A ben vedere, il problema è solo incidentalmente connesso a quella relativo alla natura della cognitio: l’accentuazione dei poteri istruttori del giudice non ha, infatti, un necessario legame con l’eventuale superficialità (ed in questo senso “sommarietà” dell’istruttoria)6,
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Per la sussistenza, nel procedimento sommario di cognizione, di un generale potere istruttorio officioso in capo al giudice cfr. D. Volpino, Il procedimento sommario di cognizione e la delega sulla riduzione e semplificazione dei riti, in Il processo civile riformato, a cura di M. Taruffo, 555, cit., secondo il quale “non sembra arbitrario includere tra le formalità non essenziali al contraddittorio anche l’istanza di parte, alla quale le regole ordinarie subordinano l’ammissione della maggior parte dei mezzi di prova tipici”; P.G. De Marchi, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, 422. La maggioranza della dottrina è tuttavia contraria. Cfr. A Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario, cit., 434 s.; Id., Del procedimento sommario, cit., 572 ss.; A. M. Cataldi, op. cit., 112; M. Fabiani, Le prove nei processi dichiarativi semplificati, in Riv. trim. dir e proc. civ., 2010, 815; R. Tiscini, Il procedimento sommario, cit., § 9.; G. Balena, Alla ricerca del processo ideale, tra regole e discrezionalità, cit., 313 ss., spec. 327. Gli argomenti, perlopiù, tuttavia, si basano, come si andrà argomentando nel testo, sulla convinzione di trovarsi di fronte ad un principio invalicabile, se non per espressa scelta del legislatore, quando tuttavia questa sia dettata da “un prevalente interesse pubblicistico” (così M. Cataldi, loc. ult cit., con riferimento all’accentuazione dei poteri istruttori officiosi nel rito del lavoro). A tal proposito si è osservato come “nel procedimento sommario, […] non si può derogare al principio dell’art. 115 c.p.c., dal momento che la struttura (apparentemente) sommaria del procedimento non basta per giustificare una deroga così pesante in punto di poteri officiosi del giudice.”, cfr. R. Tiscini, op. ult. cit., § 9. 6 Qualità che per il procedimento sommario di cognizione è tutt’altro che pacifica, essendo come accennato dibattuto se trattasi di un procedimento realmente sommario ovvero di un procedimento a cognizione piena, seppur “deformalizzata”, pur dovendosi dare atto che quest’ultima è l’opinione che appare prevalente e che va sempre più consolidandosi. Sul tema e per ulteriori riferimenti sia
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Andrea Mengali
posto che vi sono nel nostro ordinamento procedimenti sommari dove vige senz’altro il principio dispositivo in ordine alla prova (si pensi al procedimento per decreto ingiuntivo, “se del diritto fatto valere si dà prova scritta”, art. 633, comma 1, n.1, c.p.c.), e procedimenti a cognizione piena dove vi è una forte accentuazione dei poteri officiosi del giudice, come nel rito del lavoro (art. 421, comma 2, c.p.c., “può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova…”). La riprova è che sulla stessa interpretazione del disposto di cui all’art. 669 sexies, comma 1, c.p.c. non vi è uniformità di vedute in merito all’attribuzione o meno di poteri istruttori d’ufficio in capo al giudice. Difatti, accanto a chi ha sostenuto che “la discrezionalità sancita dalla disposizione e abbandonata alle iniziative che il giudice ritiene più opportune, accentua l’iniziativa probatoria dell’ufficio, il quale, pur dovendo trarre il thema probandum dalle allegazioni delle parti, potrà ricorrere senza particolari limiti ai mezzi istruttori più opportuni, senza dover attendere, come nel processo a cognizione piena (arg. ex art. 115 c.p.c.), l’iniziativa della parte”7, vi è chi, al contrario, ritiene che anche nel procedimento cautelare uniforma viga il principio di disponibilità delle prove, dovendosi fare applicazione dei principi generali della tutela dichiarativa, che in sede cautelare “non dovrebbero trovare deroga alcuna, anche per non influire sul futuro (eventuale) giudizio di merito mediante l’illegittima acquisizione di mezzi di prova altrimenti inammissibili”8. Vero è che i sostenitori dell’una o dell’altra soluzione tendono a dividersi, non solo e non tanto sulla natura della cognizione “sommaria” di cui all’art. 702 ter c.p.c., quanto, sia a volerla considerare, nella sostanza, cognizione piena, sia propendendo per la soluzione opposta, sul senso da dare ai tratti di deformalizzazione previsti dalle disposizioni di cui agli artt. 702 bis ss. E difatti, chi ritiene che la deformalizzazione vada limitata alle sole regole di direzione del procedimento, non essendoci per il resto alcuna sostanziale differenza con il procedimento ordinario9, conclude per la piena applicazione del principio desumibile dall’art. 115 c.p.c., escludendo che al giudice siano attribuiti poteri istruttori officiosi in virtù del
consentito rinviare a A. Mengali, Preclusioni e verità nel processo civile, Torino, 2018, spec. 194 ss. Peraltro, per quanto si va sostenendo nel testo, non è la soluzione della predetta questione sul significato di “istruzione sommaria” che può contribuire a risolvere il problema indagato circa la sussistenza, o meno, di poteri istruttori officiosi, in deroga al principio di disponibilità delle prove. 7 Cfr. C. Cecchella, Il processo cautelare commentato, Torino, 1997, 68. Sull’accentuazione dei poteri d’ufficio del giudice nel processo cautelare cfr. S. Recchioni, Il processo cautelare uniforme. I procedimenti sommari e speciali, a cura di S. Chiarloni e C. Consolo, Torino, 2005, 468. Contra, per un’attenuazione del principio dispositivo solo allorché la misura cautelare venga concessa inaudita altera parte cfr. L. Salvaneschi, La domanda e il procedimento, in Il processo cautelare, a cura di G. Tarzia – A. Saletti, Padova, 2008, 400; R. Tiscini, L’accertamento del fatto nei procedimenti con struttura sommaria, in Judicium.it, § 7. 8 Cfr. A. Tedoldi, Del procedimento sommario, cit., 572, che argomenta della cogenza anche nel procedimento cautelare uniforme del principio di disponibilità delle prove, richiamando quanto più in generale, per i principi fondamentali in materia di prova, affermato da G. Verde, voce Prova documentale (diritto processuale civile), in Enc. giur., XXV, Roma, 1991, 1 ss. 9 Cfr. G. Balena, Alla ricerca del processo ideale, tra regole e discrezionalità, cit., 313 ss., che ritiene che “dal punto di vista dell’istruttoria, strictu sensu intesa, ossia quanto alle modalità di ammissione ed assunzione dei mezzi di prova, la possibilità di “semplificazione” del rito sommario non siano certamente da escludere, ma siano, in concreto, affatto marginali e trascurabili”.
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Brevi note in tema di poteri istruttori del giudice e preclusioni nel processo sommario di cognizione
disposto della medesima disposizione, che li circoscrive alle sole ipotesi espressamente contemplate dalla legge10. Tuttavia, chi al contrario riconosce un significato più ampio alla formulazione dell’art. 702 ter, sino alla tesi, per certi versi estrema, secondo cui la possibilità di superare le forme istruttorie che non siano “essenziali al contraddittorio” vada intesa come necessario rispetto dei soli principi di ordine pubblico processuale, tende a dare soluzioni diverse, o quantomeno ad ammetterle in astratto, salvo “soppesare” la libertà delle forme11 di cui gode il giudice del procedimento sommario con l’importanza (e quindi, la rinunciabilità o meno) del principio di disponibilità delle prove. Da questo punto di vista la soluzione del problema starebbe non tanto e non solo nell’interpretazione del dato normativo relativo al procedimento sommario di cognizione, quanto nel “peso” che si voglia attribuire al principio di cui all’art. 115 c.p.c12. Eppure questo punto di vista, vale a dire spingere la libertà delle forme fino a imporre al giudice il rispetto dei soli principi di ordine pubblico processuale, non appare prospettabile per il procedimento in esame, cui non possono non applicarsi tutti i principi generali – siano o meno di ordine pubblico processuale – previsti nel libro primo del codice,
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Così G. Balena, op. cit, 327. Per questa espressione, riferita al procedimento sommario di cognizione, cfr. D. Volpino, op. cit., 553. 12 Difficilmente si può sostenere che il c.d. principio di disponibilità delle prove appartenga all’ordine pubblico processuale, prova ne è che esso trova una rilevantissima deroga all’interno del processo del lavoro, caratterizzato da una cognizione piena e dall’importanza dei diritti che ne sono oggetto, tra i quali rientrano, senza dubbio, anche diritti pienamente disponibili (si pensi, tra gli altri, al superminimo individuale e comunque a tutti i diritti che non derivano da disposizioni inderogabili di legge o dei contratti o accordi collettivi). Ciononostante la tendenza degli interpreti è quella di attribuire un rilevante peso sistematico al detto principio, che pare dotato di una particolare forza di resistenza, nonostante, anche nel rito ordinario, esso sia oggetto di importanti, e sovente sottovalutate, deroghe, come nel caso degli artt. 257, comma 1 e 281 ter c.p.c. Per considerazioni di questo tipo cfr. R. Tiscini, op. ult. cit., § 9, secondo la quale “nel procedimento sommario […] non si può derogare al principio dell’art. 115 c.p.c., dal momento che la struttura (apparentemente) sommaria del procedimento non basta per giustificare una deroga così pesante in punto di poteri officiosi del giudice”. La ragione, che spesso rimane implicita, si ritiene, più che l’accentuazione del principio dispositivo (poiché è pacifico e non viene messo in discussione che una cosa sia il monopolio delle parti nell’allegazione dei fatti, con il correlativo divieto di scienza privata del giudice, altra il divieto al giudice di disporre d’ufficio dei mezzi di prova per l’accertamento dei fatti così allegati, che, come affermato da autorevole dottrina, è regola non riconducibile al carattere disponibile della situazione sostanziale controversa), è una sfiducia di fondo nell’attribuzione di poteri istruttori al giudice, derivante dalla convinzione che questi possano minare la sua imparzialità. Sul punto cfr., anche per riferimenti, A. Mengali, Preclusioni e verità nel processo civile, cit., spec. 161 ss. E a ben vedere tale impostazione condiziona la stessa interpretazione dell’art. 115 c.p.c., non è un caso che gli interpreti che hanno rimarcato l’inesistenza di valide ragioni per non considerare l’attribuzione al giudice di poteri istruttori come un prezioso strumento per un più efficace e veritiero accertamento dei fatti, abbiano anche messo in dubbio la stessa ricavabilità, dal citato art. 115 c.p.c., del c.d. principio di disponibilità delle prove, ritenendo che dalla citata norma si desuma solo il divieto di scienza privata da parte del giudice Cfr. M. Taruffo, sub art. 115, in A. Carratta - M. Taruffo, Dei poteri del giudice, Bologna, 2011, 447 ss. Precedentemente, dubbi sulla riconducibilità del principio di disponibilità delle prove al principio dispositivo e sulla sua stessa ricavabilità dall’art. 115 c.p.c erano stati espressi anche da V. Andrioli, voce Prova (diritto processuale civile), in Noviss. Dig. It., XIV, Torino, 1967, 276 ss., secondo il quale “il significato globale dell’art. 115, 1° comma, si risolve nel divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice”, e che, in generale, ritiene che il carattere disponibile della situazione sostanziale si proietti in campo processuale nel principio della domanda, così come nella valutazione di alcune prove che sfuggono al prudente apprezzamento del giudice solo se provengono dalla parte legittimata a disporre del diritto (come il giuramento decisorio), ma non nel principio di disponibilità della prova; per considerazioni analoghe cfr. G. Verde, Norme inderogabili, tecniche processuali e controversie del lavoro, in Riv. dir. proc., 1977, 220 ss., spec. 224 ss., secondo il quale il principio di disponibilità delle prove rappresenta una scelta di opportunità del legislatore basata sulla volontà di “impedire che, attraverso la concessione di poteri istruttori ufficiosi, il giudice possa apparire non imparziale e perda anche sul piano psicologico la sua posizione di neutralità”. Ad un principio da considerarsi “di mera tecnica processuale” fa riferimento A. Proto Pisani, Appunti sulle prove civili, in Foro It., V, 1994, 49 ss., che lo ritiene dunque derogabile nei limiti del rispetto del fondamentale divieto di scienza privata del giudice. 11
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salvo che non se ne individui una deroga espressa nella stessa disciplina del procedimento sommario13. Ora, come detto, l’art. 702 ter c.p.c., nel disporre che “il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto” non contiene una esplicita attribuzione al giudice di poteri istruttori officiosi, diversamente da quanto avviene nel rito di cui all’art. 1, commi 47 ss. L. 92/12. Si può ritenere, quindi, che non si rientri in uno dei casi “previsti dalla legge” nei quali si prevede espressamente il superamento del principio di disponibilità delle prove, eppure appare anche prospettabile il contrario, atteso che il giudice “procede nel modo che ritiene più opportuno”14. Non solo, perché il riferimento all’omissione di “ogni formalità non essenziale al contraddittorio” potrebbe essere letto come deroga, almeno con riferimento all’istruzione probatoria, ai principi generali che non appartengono all’ordine pubblico processuale, tra cui si ritiene rientri, come si è detto, il principio di disponibilità delle prove. Nell’interpretare il dato normativo può essere utile, come detto, osservare che “dove il legislatore ha inteso ampliare i poteri del giudice in materia probatoria, lo ha detto espressamente anche in sede sommaria, come si evince exempli gratia dall’art. 1, 49° co., L. 92/2012 sull’impugnativa dei licenziamenti”15. Si deve dare inoltre atto che l’art. 54, 4° co., l. 18.6.2009, n. 69, nel determinare i principi e criteri direttivi ai quali il Governo doveva attenersi per l’esercizio della delega finalizzata all’adozione di uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione (poi esercitata con l’emanazione del D.lgs. n. 150/2011), aveva disposto che “i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione, sono ricondotti al rito disciplinato dal libro II, titolo IV, capo I, del codice di procedura civile, ovvero al rito del lavoro” e che “i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, sono ricondotti al procedimento sommario di cognizione di cui al libro IV, titolo I, capo III bis, del codice di procedura civile”. Quanto al primo aspetto, si tratta indubbiamente di un’indicazione del legislatore che ha ritenuto di dover esplicitare, all’interno di una disciplina del tutto analoga a quella in esame, l’attribuzione al giudice di poteri istruttori d’ufficio. Pertanto, si può argomentare, il legislatore del 2012 ha ritenuto in astratto applicabile l’art. 115 c.p.c. (relativamente al principio di disponibilità delle prove) ad un procedimento
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In precedenza chi scrive ha concluso diversamente con riferimento all’esperienza arbitrale, ma in questo caso poiché si ritiene che l’arbitrato, che fonda le sue radici nell’autonomia privata, sfugga all’applicazione in via residuale e generale del codice di procedura civile. Sul punto sia consentito rinviare a A. Mengali, Libertà delle forme e termini perentori nello svolgimento del processo arbitrale, in Riv. arb., 2017, 791 ss. 14 Da questo punto di vista appaiono valide le citate considerazioni svolte da parte della dottrina in merito all’interpretazione della disposizione, di analoga formulazione, di cui all’art. 669 sexies c.p.c., per quanto, come detto, non univoche. 15 cfr. A. Tedoldi, op. ult. cit., 435.
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seppur deformalizzato, individuando tuttavia, e proprio per questa ragione, una deroga consentita dalla stessa disposizione. Peraltro, il richiamo all’art. 421 c.p.c. ben può avere il significato di un generale rinvio alla disciplina dei poteri istruttori d’ufficio nel rito del lavoro, compresa la possibilità di superare i limiti di ammissibilità della prova previsti nel codice civile, ciò che viceversa sarebbe tutt’altro che pacifico in un procedimento pur deformalizzato come quello in esame. In altre parole il riferimento della norma ai poteri di cui all’art. 421 c.p.c. ben potrebbe essere letto non nel senso di una deroga al principio di disponibilità delle prove, altrimenti cogente, quanto, fermo restando, comunque, la sua derogabilità alla luce dei precedenti incisi della medesima disposizione (in questo senso con previsione del tutto analoga a quella prevista dall’art. 702 ter), nel senso di una specificazione della disciplina applicabile ai detti poteri istruttori officiosi. Quanto al citato art. 54 della L, 69/09, non ci sembra che questo possa escludere la deroga al principio dispositivo in ordine alla prova (anche) con riferimento al procedimento sommario di cognizione, non riferendosi direttamente alla sua disciplina ma viceversa a quella poi confluita nel D.lgs. n. 150/11, dove i tre diversi riti sono presi come modello di base ed adattati ad una molteplicità di procedimenti speciali; inoltre perché i caratteri delineati sono solo “tendenziali” e l’uno non necessariamente esclude l’altro. In definitiva si ritiene opportuno riconoscere come la soluzione del problema rimanga incerta (e non a caso la Suprema Corte sul punto si è contraddetta), pur apparendo prospettabile, dalla formulazione dell’art. 702 ter c.p.c., desumere un’ampia discrezionalità del giudice nella fase istruttoria, anche con riferimento ad iniziative probatorie officiose, che rappresenti uno dei “casi previsti dalla legge” ex art. 115 c.p.c. In ogni caso ci pare di poter affermare, alla luce delle brevi considerazioni che precedono, come non appaiono decisive, per la soluzione del problema, le argomentazioni che si basano o sulla natura della cognizione (piena ancorché deformalizzata) di cui al procedimento sommario di cognizione, o sull’importanza sistematica del principio di disponibilità delle prove, che invero, anche a non voler considerare le interpretazioni secondo le quali esso non albergherebbe affatto nel nostro ordinamento processuale (dovendosi desumere dall’art. 115 c.p.c. il solo divieto di scienza privata del giudice16), non appartiene al novero dei principi che possono considerarsi di ordine pubblico processuale. Sarebbe ad ogni modo auspicabile che la Suprema Corte intervenisse nuovamente sulla questione, offrendo congrue argomentazioni a favore della tesi prescelta.
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Cfr. M. Taruffo, op. loc. ult. cit.
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3. Procedimento sommario di cognizione e preclusioni istruttorie.
È agevole constatare, da un esame delle disposizioni di cui agli artt. 702 bis ss., regolanti il procedimento sommario di cognizione, che le stesse, pur individuando preclusioni alle attività assertive delle parti, in particolare per la formulazione di domande e eccezioni riservate, non contemplano, almeno non espressamente, alcuna preclusione istruttoria. Occorre tuttavia prendere atto dei recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, e di alcune interpretazioni della dottrina, secondo le quali la facoltà delle parti di formulare mezzi istruttori, all’interno del procedimento sommario di cognizione, sarebbe soggetta a preclusioni, con diverse declinazioni in ordine all’individuazione del relativo termine decadenziale. Dette interpretazioni sono quasi17 tutte accumunate dalla ricerca di motivazioni a sostegno dell’esistenza di una preclusione non espressamente prevista dalla legge, e quindi scontano l’handicap di dover superare o aggirare il principio di cui all’art. 152 c.p.c. (secondo il quale i termini concessi dal giudice sono perentori solo quanto ciò è previsto dalla legge18). Per questa ragione tendono a ricercare il fondamento della preclusione in superiori principi del processo. Una prima interpretazione è quella secondo la quale, dovendo il giudice, alla prima udienza, decidere se proseguire la causa nelle forme sommarie, o in alternativa disporre il mutamento del rito, fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c, le istanze istruttorie dovrebbero essere formulate con gli atti introduttivi. Il ragionamento è il seguente: siccome il giudice deve essere messo in condizione, già alla prima udienza, di decidere se proseguire o meno il procedimento nelle forme sommarie, le parti hanno l’onere di presentare in limine litis tutte le richieste istruttorie, non potendo contare su un successivo sviluppo del processo e dovendo invece consentire al giudice di arrivare preparato alla stessa udienza, una volta già delimitati, negli atti introduttivi, il thema decidendum e il thema probandum. Qualcuno ha parlato a tal proposito di “preclusione funzionale”19.
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Fa eccezione, per esempio, la posizione di G. Oliveri, Il procedimento di primo grado, in Giur. It., 2010, 730 ss., secondo il quale il rito sommario di cognizione sarebbe soggetto al sistema delle preclusioni in quanto “principio fondamentale, in funzione della ragionevole durata del processo, operante per qualsiasi rito”. Per una tale impostazione, dovendosi considerare la soggezione del processo al principio di preclusione un possibile strumento, ma non l’unico strumento possibile, per garantirne l’ordine e la speditezza, sia consentito rinviare a A. Mengali, Preclusioni e verità nel processo civile, Torino, 2018. 18 Per analoghe considerazioni cfr. G. Balena, Alla ricerca del processo ideale, cit., 333. Sul carattere eccezionale delle preclusioni cfr. anche A. Tedoldi, Del procedimento sommario, cit., 461. Sul rapporto tra termini perentori e preclusioni cfr. S. Menchini, Principio di preclusione e autoresponsabilità processuale, in Giusto proc. civ., 2013, 1020 ss.; A. Mengali, Preclusioni e verità, cit., spec. 22 ss. 19 Cfr. P. Porreca, Il procedimento sommario, cit., 823 ss., che applica il concetto alla necessità che le parti, nel procedimento sommario di cognizione, mettano il giudice in condizioni di decidere, alla prima udienza, di proseguire o meno nelle forme sommarie, e secondo il quale “la preclusione funzionale ha una declinazione implicita ma appartenente al perimetro di quanto indicato dalla norma quando delinea chi deve fare cosa e quando” Cfr. sul punto anche A. Tedoldi, Del procedimento, cit., 461 ss.; R. Tiscini, Il procedimento sommario, cit., 119 s.
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Vi è inoltre chi ha sostenuto che la preclusione derivi dalla necessità che il giudice, ancor prima della prima udienza20, stabilisca se la causa possa proseguire nelle forme sommarie o invece se debba essere disposta la conversione del rito. Quelle citate sono anche le argomentazioni della Suprema Corte, espresse con la pronuncia del 2018 testé citata, che afferma la “necessità che le parti, ma soprattutto il ricorrente, deducano negli atti di costituzione tutte le istanze istruttorie che ritengono di formulare per adempiere al loro onere probatorio ex art. 2697 c.c.” poiché “solo attraverso le concrete allegazioni del thema decidendum e probandum delle parti il giudice può […] valutare nell’ambito di quel processo se la causa possa o meno essere decisa con una istruzione sommaria e in caso di valutazione negativa disporre il mutamento del rito ex art. 702 ter c.p.c.”. Ulteriore ipotesi è quella che vuole una barriera preclusiva coincidente con l’ordinanza di conversione del rito da sommario ad ordinario21. Così Cass. 18 dicembre 2015, n. 25547, che pure evidenziava l’assenza di preclusioni istruttorie negli atti introduttivi del procedimento ex artt. 702 bis ss. c.p.c. Peraltro, anche in quel caso, quanto affermato dalla Suprema Corte necessitava di una precisazione, poiché, a meno di voler negare, all’udienza ex art. 183 c.p.c., fissata dal giudice del procedimento sommario di cognizione ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., la facoltà delle parti di richiedere i termini per la trattazione scritta ai sensi del sesto comma dello stesso art. 183 c.p.c. (ciò che non avrebbe fondamento normativo), si deve intendere che la Suprema Corte avesse individuato una barriera preclusiva per le istanze istruttorie all’interno del procedimento sommario non tanto nella pronuncia dell’ordinanza di conversione, quanto più in generale nella decisione sulla prosecuzione o meno nelle forme sommarie22. Interpretazione non dissimile è inoltre quella che individua una barriera preclusiva alla formulazione di nuove richieste istruttorie (nonché alla possibilità di precisare domande ed eccezioni) nell’emissione dell’ordinanza sulle istanze istruttorie delle parti, che comporterebbe la cristallizzazione del thema probandum, impedendo al procedimento di regredire ad una fase anteriore23.
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Cfr. A. Mondini, Il nuovo giudizio sommario di cognizione. Ambito di applicazione struttura del procedimento, in www.judicium.it, 2009, secondo il quale il potere del giudice di proseguire nelle forme sommarie laddove la causa richieda un’istruzione non sommaria dovrebbe essere esercitato ancora prima dell’udienza, ossia prima di procedere “con gli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto”, ragion per cui l’udienza sarebbe destinata soltanto all’assunzione delle prove richieste negli atti introduttivi. 21 Decisione che, secondo alcuni interpreti, dovrebbe essere presa, pur in assenza di esplicite previsioni normative sul punto, non oltre la prima udienza del procedimento sommario, che quindi, di conseguenza, costituirebbe il termine ultimo per la delimitazione del thema probandum (dovendosi considerare la prosecuzione nelle forme sommarie oltre la prima udienza come implicita opzione per la “non conversione” del rito). Sul punto cfr. G. Ricci, Le preclusioni istruttorie nel rito sommario di cognizione, nota a Cass. 18 dicembre 2015, n. 25547, in Giur. It., 2016, 10, 2157. 22 Decisione che, secondo alcuni interpreti, dovrebbe essere presa, pur in assenza di esplicite previsioni normative sul punto, non oltre la prima udienza del procedimento sommario, che quindi, di conseguenza, costituirebbe il termine ultimo per la delimitazione del thema probandum (dovendosi considerare la prosecuzione nelle forme sommarie oltre la prima udienza come implicita opzione per la “non conversione” del rito). Sul punto cfr. G. Ricci, Le preclusioni istruttorie nel rito sommario di cognizione, nota a Cass. 25547/15, cit. Evidentemente, spostando ancor prima dell’udienza la sede della detta decisione, e seguendo analogo ragionamento, si arriva, come fa la Suprema Corte nella pronuncia commentata, al punto di sostenere che (anche) le preclusioni istruttorie maturino con gli atti introduttivi. 23 Così A. Tedoldi, Del procedimento, cit., spec. 476.
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Tutte le precedenti ricostruzioni tradiscono l’intrinseca debolezza insita nel tentativo di individuare uno sbarramento ad una facoltà processuale della parte che non è direttamente oggetto di preclusione, non per la sussistenza di un superiore principio processuale24, ma per garantire la speditezza del procedimento, elevando quindi lo stesso principio di preclusione a principio fondamentale che permea ogni piega della disciplina del rito, a prescindere da una espressa previsione decadenziale25. Ribaltando la prospettiva, ponendo al centro del discorso i diritti processuali delle parti, che, salvo l’applicazione dei principi fondamentali e imprescindibili del processo, salve le espresse previsioni decadenziali, non possono essere sacrificati sull’altare delle preclusioni, sono le norme del rito in esame che devono essere interpretate di conseguenza. E pertanto, la possibilità di conversione del rito da sommario a ordinario dovrà essere concessa per tutto il corso del procedimento26, proprio alla luce del fatto che le difese svolte dalle parti, oggetto della valutazione giudiziale di percorribilità o meno delle forme sommarie, non si cristallizzano con gli atti introduttivi (e peraltro ciò può discendere dalla stessa e indiscutibile applicazione del principio del contraddittorio, sulla quale tutti sono concordi, ammettendo, per esempio, la possibilità per l’attore di formulare, alla prima udienza, domande e eccezioni che siano conseguenza delle difese avversarie) ma lasciano spazio a novità, tanto in punto di attività assertive (torneremo sul punto infra) quanto in punto di richieste istruttorie. Per completezza va dato atto che, a sostegno della tesi che vuole individuare delle preclusioni istruttorie all’interno del rito in esame, vi è l’argomento, che a ben vedere ci pare facilmente superabile, che muove dall’art. 183 bis, norma disciplinante la possibilità del passaggio da rito ordinario a rito sommario, perché in questo caso le preclusioni istruttorie sono espressamente previste27.
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Per questa prospettiva di indagine sia consentito rinviare ad A. Mengali, Preclusioni e verità nel processo civile, spec. 122 ss. E non è un caso che, coerentemente con questa impostazione, proprio con riferimento all’interpretazione delle norme in esame, si sia sostenuto proprio questo, cfr. G. Oliveri, op. loc. ult. cit. 26 Sul punto concorda autorevole dottrina. Cfr. F. P. Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. It., 2009, 1568; S. Menchini, Il rito semplificato, cit., 1028; M. Bove, Il procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis ss. c.p.c., cit., § 5. Concorde anche G. Oliveri, Il procedimento di primo grado, cit., § 2, il quale osserva che “la soluzione contraria comporterebbe o l’ingiustificata compressione dei diritti delle parti, ovvero la prosecuzione del processo secondo un rito sommario soltanto all’apparenza, essendo la sua definizione procrastinata all’esito di non breve attività istruttoria”. Contra A. Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, cit., 389 ss., il quale evidenzia l’inconveniente, in quel caso, della possibilità che il processo retroceda ad una fase antecedente a quella raggiunta, aggiungendo che ciò è “inconciliabile con superiori principii di ragionevolezza e di economia processuale”, argomentando quindi per l’esistenza di una “preclusione implicita” (riferita, se ben si intende, al potere del giudice). In un successivo scritto lo stesso Autore ha tuttavia criticato il concetto di “preclusione funzionale”, e soprattutto criticato la “la deleteria cultura delle preclusioni, vagamente giustificata dal comodo e insignificante refrain dell’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme al principio di ragionevole durata del processo”, cfr. Id, Del procedimento sommario, cit., 461 ss. - e cfr. anche, Id., Cultura delle preclusioni, giusto processo e accordi procedurali (forme processuali collaborative per un nuovo umanesimo forense), in Giusto proc. civ., 2015, 375 ss. - pur individuando, quanto alle preclusioni istruttorie, nel principio di unitarietà e infrazionabilità della prova una ragione che escluderebbe la possibilità che il procedimento, giunto all’istruzione probatoria, retroceda ad una fase precedente (torneremo sul punto infra) e confermando, pur con motivazioni in parte diverse, la necessità che la scelta per la conversione o meno del rito da sommario a ordinario vada fatta alla prima udienza, non potendosi quindi escludere che ciò comporti preclusioni a carico delle parti “diverse da quelle espressamente sancite dal legislatore in coincidenza con gli atti introduttivi”, ID, Del procedimento sommario, 466. 27 Si è quindi osservato che, concludendo per la mancanza di preclusioni istruttorie nel rito sommario ex art. 702 bis ss. c.p.c., riuscirebbe incomprensibile il disposto del citato art. 183 bis, così G. Balena, Alla ricerca del processo ideale, cit., 335. Secondo A. Tedoldi, Del procedimento, cit., 479, le conclusioni raggiunte dallo stesso Autore in merito all’interpretazione dell’art. 702 ter 25
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Tuttavia è evidente che, seppur può ritenersi criticabile la scelta del legislatore di imporre delle preclusioni per il caso in cui l’opzione del rito sommario sia frutto di una scelta del giudice, mentre quando il rito nasce sommario per scelta, ab origine, delle parti, le preclusioni istruttorie non vi sono, la previsione di cui all’art. 183 bis non può essere estesa anche a quest’ultimo caso, per la già rappresentata ragione per cui non è accettabile desumere per via interpretativa termini perentori che la legge non contempla28.
4. Segue. Sulla teoria secondo la quale l’effetto preclusivo deriverebbe, per le sole prove costituende, dal principio di unitarietà o infrazionabilità della prova.
Singolare è poi l’interpretazione di chi, pur escludendo che si possano individuare preclusioni laddove non espressamente previste dalla legge, facendo riferimento anche al principio di legalità ex art. 111 Cost., individua un effetto preclusivo, limitato alle prove costituende, discendente dalla necessaria applicazione del principio di infrazionabilità o unitarietà della prova29. E difatti, posto il principio di unitarietà della prova, che opererebbe a prescindere dalla previsione di meccanismi preclusivi, non sarebbe consentito, dopo che la causa è passata dalla fase di trattazione a quella dell’istruzione probatoria, una retrocessione alla prima, e ciò non per la sussistenza di una preclusione ma per il detto principio di diritto probatorio, posto a tutela dell’immediatezza e della genuinità della formazione della prova. Si tratta del principio teso, in particolare, ad evitare e che i testimoni sentiti successivamente siano condizionati da quanto hanno detto i precedenti30, e che le richieste istruttorie successive “possano essere strumento per attaccare, confutare e smontare il quadro probatorio degli accertamenti di fatto da svolgere, o finanche, ormai acquisiti al giudizio”31. L’argomento, pur suggestivo, non appare del tutto convincente. Intanto vi è da dire che il detto principio di infrazionablità della prova era espresso, per il rito ordinario di cognizione, dagli artt. 244, commi 2 e 3 c.p.c., abrogati con la riforma del 1990-199532.
c.p.c., vale a dire l’individuazione di una preclusione alle nuove richieste istruttorie (e più in generale alla definizione del thema decidendum e del thema probandum) coincidente con la prima udienza, “ricevono conforto dal nuovo art. 183 bis cod. proc. civ.”. 28 Concorde R. Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, cit., spec. 120 e nt. 31, che tuttavia non esclude che si possa individuare una “preclusione implicita”, nel senso tuttavia, non della “costruzione artificiosa di una preclusione che la legge non contempla” ma in quello di “allertare le parti in ragione di una dinamica ‘molto probabile’ che il rito tenderà ad assumere”. Torneremo infra, § 6, su questa considerazione. 29 Cfr. A Tedoldi, Del procedimento, cit., spec. 460 s. e 472 ss. 30 In questo senso cfr. S. Satta, Commentario, cit., 256. 31 Cfr. A. Tedoldi, Del procedimento sommario, cit., 2016, 473. 32 Parte della dottrina, all’indomani della riforma, ritenne che con l’abrogazione di dette disposizioni si doveva ritenere che il principio non trovasse più spazio, cfr. F. P. Luiso, Appello nel diritto processuale civile, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 360 ss.;
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Vero che è stato affermato, soprattutto in giurisprudenza, già nel vigore dell’art. 345 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma del 1990 – 1995 (che ha introdotto il divieto di prove nuove in appello, mitigato, fino alla riforma del 2012, dalla possibilità di introdurre comunque le prove indispensabili ai fini della risoluzione della controversia) che quel principio debba essere applicato per escludere l’ammissibilità della prova in appello, qualora essa sia “preordinata a contrastare, completare o confortare le risultanze di quella già dedotta ed assunta in primo grado, e cioè a determinare, attraverso nuove modalità e circostanze, ovvero per la connessione delle circostanze già provate con quelle da provare, una diversa valutazione dei fatti che sono stati oggetto dello stesso mezzo istruttorio nelle precedenti fasi del processo”33.
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Cfr. da ultimo Cass. 7 maggio 2009, n. 10502, che applica il principio ad una controversia soggetta all’assetto normativo processuale conseguente all’entrata in vigore della legge n. 353 del 1990 e quindi per escludere l’operatività dell’allora vigente clausola derogatoria del reintrodotto divieto di nuove prove in appello costituita dall’indispensabilità della prova, e nonostante l’abrogazione dell’art. 244 c.p.c., sostenendo, in motivazione, che “le ragioni della sua operatività sono invero ben più pressanti con riferimento a un assetto che ha normativizzato e radicalizzato il sistema delle preclusioni istruttorie”. Tuttavia da una parte il principio è limitato a prove contrarie o complementari rispetto a quelle assunte in primo grado, che siano quindi tese a determinare una diversa valutazione dei fatti già oggetto delle prove di primo grado (dunque lo stesso schema di ragionamento non potrebbe applicarsi a prove relative a fatti, pur dedotti in giudizio, ma non oggetto di prove già assunte); dall’altra si può ritenere che il principio alberghi ancora nei rapporti tra primo e secondo grado di giudizio proprio in considerazione del disposto dell’art. 345 c.p.c., che vieta l’introduzione di prove nuove, come a ben vedere sono quelle in esame, perché, se è vero che i fatti da accertare possono essere gli stessi, è nuova la fonte di prova. E difatti la Suprema Corte ha avuto anche modo di affermare, nel vigore dell’art. 345 c.p.c. precedente alla riforma del 2012, che la disposizione, come novellata nel 1990-1995, introduce una “deroga alla preclusione processuale posta a presidio dell’infrazionabilità della prova, rimettendo […] alla discrezionalità dell’organo giudicante la verifica della decisività delle nuove prove costituende” (cfr. Cass. 23 settembre 2002, n. 13820). In realtà anche nei rapporti tra il primo ed il secondo grado di giudizio il principio di infrazionabilità della prova è stato, con ampie e convincenti motivazioni, messo in discussione. E’ stato in particolare osservato come quel principio venisse richiamato, sotto il vigore dell’art. 345 c.p.c. ante riforma del 1990 – 1995, quando era consentita liberamente l’introduzione di nuove prove in appello, per limitare tale libertà laddove la prova fosse tesa a determinare una diversa valutazione dei fatti già oggetto di prova in primo grado. Tali prove erano considerate “non nuove” e pertanto inammissibili (interpretazione fatta propria dalla prevalente giurisprudenza, cfr., tra le tante, Cass. 9 agosto 1990, n. 8092; Cass. 6 febbraio 1987, n. 1206; precedentemente già Cass. 8 giugno 1955, n. 1775; peraltro in dottrina vi erano state autorevoli voci contrarie, su tutte quella di F. Carnelutti, secondo il quale una norma che consenta l’ammissione di nuovi mezzi di prova nega che la novità costituisca un ostacolo alla loro ammissione, non afferma invece che sia un requisito a tal uopo: una prova può essere assunta per quanto sia nuova, non a condizione che sia nuova, cfr. F. Carnelutti, Divieto di una seconda prova per testimoni?, in Riv. dir. proc., 1957, 324 ss.). L’autorevole dottrina che, dopo la reintroduzione del sistema delle preclusioni, ha approfondito lo studio delle norme regolanti il divieto dei nova in appello, ha messo in discussione tale ricostruzione, scartando l’idea che la prova che ha ad oggetto fatti già oggetto di prova in primo grado sia “non nuova”, assunto che si baserebbe appunto sul “dogma dell’unitarietà della prova”, riconducendo il concetto di novità del mezzo di prova a tutte le prove non dedotte in primo grado. È stata quindi messo in dubbio che la prova “non nuova” sia inammissibile in appello, dovendosi viceversa considerare il regime del divieto dei nova come relativo alle sole prove nuove rinviando ai rapporti tra primo e secondo grado di giudizio e quindi all’onere dell’impugnazioni della pronuncia di prime cure – o all’onere della riproposizione – il problema delle prove “non nuove”. Allo stesso tempo, secondo tale ricostruzione, la prova non dedotta in primo grado e avente ad oggetto fatti già oggetto di prove diverse, sarebbe da considerarsi nuova, pertanto inammissibile, salvo (e per il rito ordinario, fino alla modifica del 2012) la deroga dell’indispensabilità, non già in forza del citato principio di infrazionabilità della prova, ma in virtù dell’art. 345 c.p.c., come novellato dalla riforma del 1990 – 1995, che affonda le sue radici nel reintrodotto sistema delle preclusioni. Cfr. G. Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, Padova, 1997, 69 ss. Ciò premesso, a ben vedere, appare piuttosto isolato, tra i più recenti, il citato precedente di legittimità (Cass. n. 10502/09) secondo cui, nel regime relativo al rito ordinario intercorso tra il 1995 ed il 2012, il principio di infrazionabilità della prova avrebbe dovuto escludere l’ammissibilità in appello di una prova pur indispensabile, dovendosi fare applicazione dello stesso in aggiunta al divieto dell’art. 345 c.p.c. (richiamando la giurisprudenza pre-riforma del 1990 che lo applicava anche in assenza del divieto, considerando in quel caso la prova “non nuova”) – interpretazione figlia di quelle che, all’indomani della riforma del processo del lavoro del 1973, ritenevano mai ammissibili (dunque sottratte alla valutazione di indispensabilità ai sensi dell’art. 437 c.p.c. come novellato) perché non nuove le prove contrarie o che comunque si riconnettessero a quelle dedotte o assunte in primo grado, cfr. anche per i relativi riferimenti G. Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, cit., 80 - avendo trovato decisamente maggior seguito la citata interpretazione di cui a Cass. 13820/2002 (cfr. anche, più di recente, Cass. 7 giugno 2011, n. 12303) che ha ricondotto il principio in
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Vero anche che gli interpreti convengono che quello stesso principio, pur venuto meno all’interno della disciplina dell’istruzione probatoria, è trasmigrato nelle norme che prevedono il termine ultimo entro il quale possono essere formulate le istanze istruttorie di prova diretta e controprova (attualmente l’art. 183 comma 6 c.p.c.)34. Eppure si è anche osservato come l’abrogazione degli ultimi due commi dell’art. 244 c.p.c. ha comportato un “ridimensionamento dei tradizionali principi di unitarietà, di concentrazione e di non frazionabilità della prova”35. Non solo, perché nel vigore dell’art. 244 c.p.c., come originariamente dettato, era pacifico che le menzionate esigenze di unitarietà non imponessero affatto al giudice di assumere sia le prove testimoniali dirette, sia quelle contrarie, nella medesima udienza, “ben potendo differire le seconde ad altra e diversa udienza, in base all’art. 202, comma 2, c.p.c.” (così Cass.19 luglio 1999, n. 7682)36. Ora, superata, secondo gli interpreti, già sotto il vigore dell’art. 244 c.p.c., perché evidentemente non avvertita come un pericolo per la genuinità delle testimonianze, l’esigenza di assumere tutte le deposizioni in una unica udienza, anche se relative agli stessi fatti, non pare un caso che la giurisprudenza e gli interpreti in genere richiamino (e richiamassero perlopiù, già prima della riforma del 1990) il citato principio con riferimento al rapporto tra primo e secondo grado di giudizio, ma anche perché in questo caso esso assume una particolare connotazione, data la (necessaria) alterità del giudicante nel secondo grado, e difatti in dottrina, sotto il vigore dell’art. 244 c.p.c. pre-novella del 1990-1995 (e prima della riforma del giudice unico del 1998), si sottolineva, in virtù dello stesso principio, l’inopportunità di consentire un completamento dell’istruttoria davanti al collegio37. Inoltre, la disciplina dell’art. 244, commi 2 e 3, c.p.c. era comunque considerata un derivato del sistema delle preclusioni originariamente previsto e venuto meno con la riforma del 1950, tanto che, quanto al termine per la parte contro la quale la prova è proposta già previsto dal comma 2 dell’art. 244 c.p.c., si riteneva non perentorio e se ne parlava come di “un relitto del vecchio sistema”38. Pertanto si può ritenere che quello che residua del principio in discorso, e salvo non convenire con chi ha diffusamente argomentato per il superamento del “dogma dell’uni-
discorso all’interno dell’art. 345 c.p.c. (considerando nuova la prova non dedotta in primo grado e avente ad oggetto un fatto già oggetto di diversa prova) facendo quindi salva, fino a quando previsto dalla norma, la prova indispensabile, ed individuando la sua collocazione, come, si ritiene, sia sempre stato, già in forza dell’art. 244 c.p.c., prima dell’abrogazione degli ultimi due commi (sul punto cfr. infra, nel testo), all’interno del sistema delle preclusioni. 34 Cfr. L.P. Comoglio, Le Prove civili, 3° ed., Torino, 2010, 630, che parla di “assorbimento” del principio nel normale regime di preclusioni. 35 Cfr. L.P. Comoglio, Le Prove civili, cit., 632 s. Sul fatto che, dopo l’abrogazione di tali norme e l’introduzione delle preclusioni istruttorie, alcuni interpreti abbiano invece prospettato l’estensione del principio “all’istruzione probatoria unitariamente considerata”, ma ciò “anche al fine di non disperdere le relative certezze faticosamente raggiunte da una ultrasecolare elaborazione giurisprudenziale in tema di ‘nuovi mezzi di prova’” cfr. G. Ruffini, op. ult. cit., 79 ss. 36 Cfr. L.P. Comoglio, op. cit., 630, nt. 225. 37 Cfr. S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, Milano, 1960, 256, che cita a conferma Cass. 23 giugno 1958, n. 2218. 38 Cfr. S. Satta, op. ult. cit., 255. Perentorio, per espressa previsione della norma, era invece il termine di cui al successivo secondo cpv.
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tarietà della prova”39, è espresso dalle norme che prevedono le preclusioni istruttorie, e finisce con esse: se norme del genere non vi sono, come non vi sono nel procedimento sommario di cognizione, evidentemente non alberga neanche il citato principio, che non ha (più) altre basi normative. Insomma, citando un’espressione utilizzata dalla Suprema Corte nella già citata Cass. 23 settembre 2002, n. 13820, è la preclusione istruttoria che può essere “posta a presidio dell’infrazionabilità della prova”40, ma laddove non vi sia una previsione in tal senso non appare possibile, ragionando a contrario, ricavare l’esistenza di una preclusione dall’affermazione del generale principio di infrazionabilità della prova. Ad ogni modo il principio in discorso, anche laddove lo si volesse elevare a principio generale, deve essere delimitato. E a ben vedere, se il principio di unitarietà della prova può in astratto sopravvivere anche in assenza di preclusioni, ci si deve riferire a ciò che il giudice deve, per un migliore accertamento dei fatti, accertare in modo unitario. E allora non può trattarsi di prove aventi ad oggetto fatti totalmente indipendenti gli uni dagli altri, poiché in questo caso l’unica ragione per vietare che il processo, giunto ad istruttoria, retroceda alla fase antecedente, è evidentemente quello che poggia sul sistema delle preclusioni e sul compito che queste hanno di garantire il suo ordinato svolgimento. Deve invece trattarsi degli stessi fatti oggetto di prove già ammesse dal giudice o già assunte, o di “quelle circostanze che escludono, nella loro materialità, la sussistenza dei fatti che sono oggetto della prova diretta”41, ossia quelli su cui verteranno le prove contrarie42. Solo in questo caso ha senso pretendere un’assunzione unitaria da parte del giudice, e difatti questa era la ratio dell’art. 244 cpv. Ma, si ritiene, il principale argomento a confutazione dell’esistenza di un limite alla formulazione delle richieste istruttorie nel procedimento sommario di cognizione, derivante dal principio di infrazionabilità della prova, risiede nel fatto che si ha a che fare con un procedimento deformalizzato, quantomeno con riferimento alla fase istruttoria, dove, lungi dall’applicare le norme che prevedono il modo ed il tempo dell’assunzione della prova nel processo, il giudice procede “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, per cui il detto principio potrebbe albergare nel procedimento in esame solo elevandolo a corollario del principio del contraddittorio o comunque a principio di ordine pubblico processuale43, ciò che, per quanto si è già detto, ci sentiamo di escludere.
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Cfr. ancora G. Ruffini, op. ult. cit., spec. 90 ss. Già si è detto che gli interpreti, nel vigore de due cpv dell’art. 244 c.p.c., riconducevano quelle previsioni alle preclusioni originariamente previste nel codice e poi cancellate dalla riforma del 1950. 41 Talché sussiste fra i fatti oggetto della prova diretta e i fatti nuovi quella correlazione che ne giustifica l’assoggettamento all’esame unitario del giudice, cfr. V. Andrioli, Commentario al codice di procedura civile, II, 2° ed., Napoli, 1946, 156. 42 Alla stessa conclusione giunge G. Balena, Alla ricerca del processo ideale, cit., secondo il quale il principio in discorso “non potrebbe in nessun caso giustificare l’esclusione non soltanto di nuovi documenti, ma neppure delle nuove prove costituende che vertano su fatti diversi ed autonomi rispetto a quelli oggetto delle anteriori istanze istruttorie” (corsivo dell’Autore). 43 Sul rapporto tra diritto probatorio e ordine pubblico processuale sia consentito rinviare a A. Mengali, I principi e la disciplina della prova nell’arbitrato, in eprint.luiss.it 40
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5. Le preclusioni alle attività assertive. Parità delle armi e ius ponintendi.
Con riferimento alle preclusioni relative alle attività assertive, l’art. 702 bis c.p.c., come non si è mancato di osservare, assoggetta a preclusione le sole difese del convenuto, in particolare prevedendo la decadenza, con l’atto introduttivo, alla formulazione di domande riconvenzionali ed eccezioni riservate oltre che per la chiamata di terzo. Ora è evidente che il problema debba essere risolto analogamente a quello derivante dalla formulazione degli artt. 414 e 416 c.p.c., allorché la Corte Cost., all’indomani della riforma del processo del lavoro del 1973, con una sentenza interpretativa di rigetto, chiarì che doveva escludersi “che siano mantenute al solo attore facoltà processuali precluse al convenuto” (cfr. Corte Cost. 14 gennaio 1977, n. 13.). È evidente come soccorra a proposito l’esigenza di tutela del contraddittorio e del correlato principio di parità delle armi, non potendosi, viceversa, che concludere per l’incostituzionalità della norma. Non si tratta di una preclusione “implicita” ma di una lettura costituzionalmente orientata delle norme, alla luce del fondamentale principio del contraddittorio. Per analoghe ragioni dovrà individuarsi, allo stesso tempo, una facoltà processuale ed una preclusione per l’attore, da collocare alla prima udienza, relativamente alla possibilità di formulare reconventio reconventionis o eccezioni riservate rispetto alle domande riconvenzionali del convenuto44. Con riferimento alle prime, si è giustamente osservato, la disciplina dovrà essere analoga a quella della domanda e della domanda riconvenzionale, con relativa inammissibilità laddove non rientri tra quelle per le quali l’art. 50 bis riserva la decisione al tribunale in funzione collegiale e possibilità di essere trattata e decisa nelle forme sommarie purché non richieda un’istruzione non sommaria45, nel qual caso si applicherà l’art. 702 ter, comma 4, con conseguente possibilità di separazione della causa riconvenzionale. In difetto di una espressa preclusione, dovrà inoltre essere consentito per tutto il procedimento tanto la formulazione di eccezioni non rilevabili d’ufficio quanto lo ius poenitendi, con possibilità, pertanto, di precisare o modificare le domande e le eccezioni proposte46. Anche su questo aspetto non concordano gli Autori che ritengono, invece, che, una volta che il procedimento passi dalla fase di trattazione orale, alla prima udienza, alla fase istruttoria, non sia più possibile retrocedere, consentendo alle parti nuove attività asser-
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Cfr. in senso conforme G. Oliveri, op. cit., § 2; A. Tedoldi, Del procedimento, cit., 463 ss. Cfr. D. Volpino, op. cit., 551. 46 Cfr. A. Romano, Appunti sul nuovo processo sommario di cognizione, cit., 190; S. Menchini, Il rito semplificato, cit., 1109, secondo il quale, fatte salve le preclusioni che attengono alla fase preparatoria, “la legge non informa il procedimento sommario al principio di preclusione: per tutto il corso del giudizio di primo grado e sino alla precisazione delle conclusioni è consentito alle parti sollevare eccezioni rilevabili d’ufficio, formulare istanze istruttorie e produrre documenti, […] anche nell’esercizio del mero ius poenitendi”. 45
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tive, dovendosi ritenere, dopo l’emissione dell’ordinanza sulle istanze istruttorie “ormai definiti il thema probandum e le richieste istruttorie hic et inde formulate”47. Le argomentazione contrarie sono analoghe a quelle già svolte supra, con riferimento alle preclusioni istruttorie: le interpretazione criticate introducono una preclusione non prevista dall’ordinamento, limitando le facoltà difensive delle parti per ragioni che niente hanno a che fare con l’applicazione di principi di ordine pubblico processuale. Peraltro, quanto alle nuove allegazioni di fatti costituenti eccezione rilevabile d’ufficio, stiamo parlando di attività che, secondo le più recenti interpretazioni del giudice di legittimità48, sono ammesse anche per tutto il corso del procedimento ordinario ed anche in appello49. Analogamente, ammesso che esista nel rito ordinario, come da più parti messo in discussione, non vi sarà alcun limite temporale per l’attività di contestazione dei fatti ex adverso allegati, salvo la necessità di garantire il diritto della controparte di contraddire e di consentire alla stessa di fornire la prova dei fatti dapprima non specificatamente contestati ma per i quali è in seguito intervenuta la revoca dell’originaria non contestazione50.
6. Conclusioni: diritti processuali delle parti e judicial case
management.
Alla luce della disamina che precede, ci sembrano corrette le seguenti considerazioni. Nel procedimento sommario di cognizione non sono previste preclusioni, salvo quelle alle attività assertive disciplinate dall’art. 702 bis c.p.c. e la fase istruttoria è rimessa, almeno entro certi limiti51, alla discrezionalità del giudicante. Come già chi scrive ha sostenuto, con argomentazioni cui non si può che rinviare, le preclusioni si fondano (esclusivamente) sull’esigenza di garantire ordine e speditezza del
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Cfr. A Tedoldi, Del procedimento, cit., 476 s., che pure ammette un limite a questa preclusione derivante dal principio generale della rimessione in termini e dalla possibilità di consentire durante tutto il corso del processo nuove produzioni documentali, in quanto sfuggenti al principio di unitarietà e infrazionabilità della prova nonché avendo a che fare con una preclusione funzionale “all’oralità, alla concentrazione e all’immediatezza del processo”, che “mal si presta ad essere estesa ai documenti”. 48 Superata, almeno da alcuni rilevanti precedenti, tra i quali Cass. sez, un. 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 24 maggio 2005, n. 10918, l’interpretazione secondo la quale, dopo la fase di trattazione scritta in primo grado, con la definitiva determinazione del thema decindendum e del thema probandum, non sarebbe più consentita alla parte l’allegazione del fatto costituente eccezione rilevabile d’ufficio, ma solo il rilievo del relativo effetto estintivo, modificativo o impeditivo da parte del giudice, relativo a fatti già tempestivamente allegati, così ad esempio Cass. 22 giugno 2007, n. 14581. Per ulteriori riferimenti cfr. A. Mengali, Preclusioni e verità, cit., 132 ss., spec. 139 ss. 49 Sul punto sia consentito rinviare a A. Mengali, Preclusioni e verità, cit., spec. 132 ss. Rinvio al mio precedente scritto anche per la tesi secondo la quale, nel procedimento ordinario (e quindi, a maggior ragione, nel procedimento sommario di cognizione) non è rinvenibile alcuna espressa preclusione avente ad oggetto l’introduzione dei fatti nel processo, Ibid, 74 ss. 50 Anche in questo caso sia consentito rinviare a A. Mengali, Preclusioni e verità, cit., spec. 151 ss. 51 Nella presente sede si è solo accennato al problema dei limiti della libertà delle forme istruttorie rispetto alla generale disciplina delle prove, avendo, da questo punto di vista, limitato l’indagine al problema della configurabilità o meno di poteri istruttori d’ufficio in capo al giudice. Per ulteriori riferimenti si rinvia alle trattazioni monografiche sul procedimento sommario di cognizione citate supra, nt. 1.
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procedimento, non invece su principi superiori, dovendosi escludere, ad esempio, che appartenga alla loro ratio il principio di autoresponsabilità delle parti52. Certamente il disordine processuale non è ammissibile, tuttavia vi possono essere strumenti alternativi alle preclusioni per garantire il necessario ordine nonché la stessa celerità del procedimento. Una delle alternative ad un procedimento governato dal principio di preclusione è proprio quella di attribuire al giudice dei poteri di direzione, formale e materiale, del procedimento, come avviene in importanti esperienze comparate, si pensi al case management angolosassone e alla prozessleitung tedesca53. Alla luce di quanto sopra, si ritiene che la chiave di lettura per una corretta interpretazione delle scarne norme relative alla trattazione ed all’istruttoria nel procedimento sommario di cognizione sia propria questa. E così il ruolo attivo del giudice potrà consentire quell’ordine nella trattazione della causa che l’assenza di preclusioni (salvo naturalmente quelle previste) potrebbe far ritenere a rischio. Il giudice potrà così chiedere chiarimenti alle parti in ordine ai fatti allegati e suggerire le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, facendo applicazione, peraltro, di una regola dettata espressamente per il procedimento ordinario dall’art. 183, comma 4, c.p.c.54 Non solo, perché potrà anche, si ritiene, suggerire alle parti i fatti dei quali ritiene non raggiunta la prova, invitandole a fornire la prova degli stessi55 o, se si ammette che sia dotato di poteri istruttori officiosi, disponendo d’ufficio la prova stessa. Le parti potranno in ogni momento formulare nuove richieste istruttorie, così come produrre nuovi documenti, allegare nuovi fatti ed esercitare lo ius poenitendi, ma nella consapevolezza che, fermo il fatto che il giudice non potrà rigettare le relative istanze, potrà tuttavia decidere già alla prima udienza di non proseguire il procedimento nelle forme sommarie, convertendo il rito56, ovvero, se la causa sarà ritenuta già matura per la decisione, potrà emettere l’ordinanza conclusiva dello stesso. Pertanto, per evitare la prima ipotesi testé citata, pare corretto parlare di “onere delle parti di arrivare a tale udienza con la più trasparente descrizione dei profili probatori della causa, in modo tale da condizionare la scelta del giudice”, in particolar modo se si ha interesse a proseguire nelle forme sommarie57.
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Cfr. A. Mengali, Preclusioni e verità, cit., spec. 28 ss. Sul punto sia ancora consentito rinviare, anche per riferimenti a A. Mengali, op. ult. cit., 223 ss. 54 Come non si è mancato di osservare, cfr. D. Volpino, op. loc. ult. cit. 55 Come accade, ad esempio, nell’esperienza spagnola, in base all’art. 429.1 LEI, sul punto cfr. A Mengali, Preclusioni e verità, cit., 217 s. 56 Scelta non soggetta ad alcun controllo su istanza delle parti, trattandosi di ordinanza non impugnabile (art. 702 ter, comma 3, c.p.c.). 57 Da questo punto di vista può anche ritenersi accettabile il concetto di “preclusione implicita”, se questo, come si è sostenuto in dottrina, significa “allertare le parti in ragione di una dinamica molto probabile del processo”, così R. Tiscini, Il procedimento sommario, cit., 120, a cui si riferisce anche il virgolettato nel testo. Tuttavia è bene chiarire che, convertito il rito, il processo proseguirà con la prima udienza di trattazione ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., alla quale le parti potranno chiedere fissarsi 53
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Allo stesso tempo, se già alla prima udienza del procedimento sommario il giudice ritiene di poter decidere la controversia, le parti, che non siano in grado di formulare le loro (nuove) richieste istruttorie o le loro istanze di precisazione o modifica delle difese già spese all’udienza stessa, non avranno un diritto a vedersi assegnati termini per la definitiva formulazione di istanze istruttorie o per la modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni, come avviene nella prima udienza ex art. 183 c.p.c., pertanto avranno tutto l’interesse a concentrare il più possibile le difese nei propri atti introduttivi e a giungere preparate all’udienza58. Ciò, naturalmente, laddove questo non si renda necessario per esigenze di rispetto del principio del contraddittorio, non potendosi che convenire che “se il convenuto si costituisce direttamente all’udienza o comunque oltre il termine indicato dal 3° comma dell’art. 702-bis, l’attore ha diritto (qualora lo richieda) ad un rinvio per replicare e per adeguare le proprie allegazioni e le proprie richieste istruttorie a quelle dell’avversario”59. Ma quest’ultimo rilievo non ha niente a che vedere con una preclusione implicita o funzionale: se infatti il processo prosegue con l’istruttoria, le parti, anche alla luce delle risultanze della stessa istruzione probatoria, potranno, fino a che il giudice non riterrà la causa matura per la decisione, formulare nuove istanze istruttorie, esercitare lo ius poenitendi, produrre nuovi documenti. Ad evitare condotte dilatorie dei litiganti, in assenza di preclusioni, dovrà pure essere il giudice, con la sua capacità di dirigere la trattazione del procedimento verso ciò che serve all’accertamento dei fatti controversi, e da questo punto di vista, al di là di quanto si è detto supra sull’incerto quadro normativo quanto ad attribuzione al giudice di poteri istruttori officiosi, ben sarebbe opportuna (quantomeno in prospettiva de iure condendo) l’attribuzione allo stesso di ampi poteri, che sommandosi a quelli delle parti60 garantirebbero una istruttoria più efficiente e, si ritiene, anche più rapida. Di fronte, infine, alla perdurante incertezza sulla ricostruzione dei fatti controversi, in presenza di ulteriori richieste istruttorie delle parti che siano ammissibili e rilevanti, il giudice può sempre decidere, in ogni momento, di disporre il mutamento del rito, dal che le parti si troveranno di fronte alle preclusioni istruttorie una volta concessi i termini di cui all’art. 183, comma VI, c.p.c.; in difetto, questi farà applicazione della regola di giudizio ex art. 2697 c.c.61.
i termini per precisazione di domande e eccezioni, per la formulazione di istanze istruttorie e la produzione di documenti. E tutto sommato, per evitare equivoci, si ritiene forse preferibile evitare il termine “preclusione implicita” per esprimere il pur giusto concetto appena richiamato. 58 Da questo punto di vista si è sottolineato che “l’efficienza del rito sommario può fare tranquillamente a meno di specifiche preclusioni, in virtù della concreta possibilità che il giudice […] definisca la causa in qualsiasi momento”, così G. Balena, Alla ricerca del processo ideale, cit., 335 s. 59 Così G. Balena, op ult. cit., 339. 60 Per la tesi secondo la quale poteri del giudice e poteri delle parti in materia istruttoria non contrastano tra loro ma si sommano cfr. M. Taruffo, Poteri probatori delle parti e del giudice di Europa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 451 ss. spec. 478. 61 Da questo punto di vista, le parti che non abbiano fornito prova dei fatti oggetto del proprio onere probatorio non potranno contare, per questo, sulla necessità che il giudice converta il rito da sommario a ordinario, come giustamente sottolineato da Cass. 5 ottobre 2018, n. 24538.
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Giovanni Carmellino, Francesco De Ritis, Federica Barbieri
Criticità di alcune regole processuali nei procedimenti di protezione internazionale* Sommario: Sezione I. – La protezione internazionale tra principi di diritto processuale civile e applicazione partica: 1. Breve introduzione sul tecnicismo processuale. – 2. Dei principi del processo dinnanzi alle Sezioni Specializzate. – 3. Della applicazione concreta delle deroghe. – 4. Conclusioni. – Sezione II. – Brevi considerazioni sul difficile rapporto tra il giudice e le coi (country of origin information): 1. Premesse. La triplice rilevanza delle coi. – 2. Canali di approvvigionamento delle Coi e requisiti qualitativi delle informazioni. – 3. Conclusioni. – Sezione III. – Le proposte degli Osservatori sulla giustizia civile in materia di protezione internazionale: le linee guida per il ricorso ex art. 35 d.lgs. 25/2008: 1. Premessa: la nascita degli Osservatori sulla giustizia civile. – 2. Gli Osservatori sulla giustizia civile e la protezione internazionale. – 3. Le linee-guida sulla redazione del ricorso in materia di protezione internazionale. – 4. Conclusioni.
La prima parte del lavoro analizza le deroghe ai principi del processo civile ordinario previste in tema di protezione internazionale, e la loro reale incidenza sulla situazione processuale del richiedente asilo in Italia. La seconda parte, invece, si focalizza sulla rilevanza delle cc.dd. Country of origin information nel procedimento di protezione internazionale, al fine di metterne in luce problematiche sia statiche (interpretative) che dinamiche (applicative). Infine, la terza parte del lavoro esamina le linee-guida sulla redazione del ricorso in materia di protezione internazionale, proposte dagli Osservatori sulla giustizia civile con la deliberata finalità di garantire una tutela effettiva e una decisione di qualità allo straniero. The first part of the work analyzes the derogations to the principles of the ordinary civil trial concerning the international protection and the actual impact of these derogations on the trial status of the
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Il presente contributo rappresenta il risultato di un’analisi collettiva declinata nelle Sezioni di cui si compone, da attribuire rispettivamente al dott. Giovanni Carmellino, al dott. Francesco De Ritis e alla dott.ssa Federica Barbieri.
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asylum seekers in Italy. The second part, on the other hand, focuses on the importance of the so-called Country of origin information in international protection trial, in order to highlight both static (interpretative) and dynamic (implementing) problems. And then, the third part examines the guidelines regarding the drafting of the appeal about international protection, suggested from Observatories on civil justice with the purpose of ensuring an effective protection and a quality decision to the foreigner.
Sezione I La protezione internazionale tra principi di diritto processuale civile e applicazione pratica di Giovanni Carmellino
1. Breve introduzione sul tecnicismo processuale. La disciplina processuale del fenomeno che in questa sede, per esigenze di sintesi, viene definito in senso omnicomprensivo della “protezione internazionale”, tocca delle note fondamentali nella ampia partitura dei principi regolatori della materia del processo civile1. In effetti, se si volge lo sguardo verso le norme disegnate dal legislatore, viene da pensare nell’immediato a un processo astrattamente di favore, un processo in cui cioè le regole fondanti e proprie del codice di procedura civile vengono derogate in senso ancillare del soggetto che esercita questa particolare prerogativa2. In astratto, infatti, numerose sono le deroghe che, solo in senso descrittivo, si andranno ad approfondire, deroghe tutte spiegate, sembrerebbe, in ragione del rilievo soggettivo del richiedente tutela e della difficoltà probatoria su di lui insistente. Ciò nonostante, come si dirà poi in conclusione del presente lavoro, a un astratto sistema processuale di favore non corrispondono né regole di tecnica processuale, né prassi giudiziarie in linea con i principi generali portati dal diritto europeo e da quello internazionale. Le regole specifiche di imputazione soggettiva sono innervate, in primo luogo, nel d.lgs. 25/2008, art. 2, che disciplinano la domanda di protezione internazionale3, e che si
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In generale cfr. Breggia, Giustizia diffusa e condivisa: la collaborazione nella gestione dei conflitti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 391 ss.; Villecco, La Cassazione sui permessi di soggiorno per “seri motivi” umanitari, in Fam. e dir., 2018, 541 ss.; Del Rosso, L’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione e il nuovo rito per il riconoscimento della protezione internazionale, in Giusto proc. civ., 2017, 939 ss.; Asprella, Un nuovo rito applicabile in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale, in Corr. giur., 2017, 855 ss.; Piccinini - Zorzella, Come limitare l’accesso alla giustizia dei richiedenti asilo e contestualmente mortificare l’attività professionale di chi potrebbe tutelarli, in www.questionegiustizia.it del 15 gennaio 2018. Disciplina recentemente ritoccata dal d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modifiche in l. 1.12.2018, n. 132, sulla quale si veda il contributo di De Santis, L’impatto del c.d. “decreto sicurezza” sul processo civile, in Dir. imm. citt., 2019, 1 ss. Vale a dire la domanda presentata secondo le procedure previste dalla legge, diretta ad ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria.
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Criticità di alcune regole processuali nei procedimenti di protezione internazionale
applicano al richiedente cittadino straniero che l’abbia appunto presentata per ottenere, in via gradata, lo status di «rifugiato»4, o quello di «persona ammissibile alla protezione sussidiaria»5. In ordine invece alla ossatura procedimentale, la tutela del diritto al riconoscimento della protezione internazionale si insinua in un meccanismo prima amministrativo e poi, solo eventualmente, giurisdizionale, regolato dalle disposizioni di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., ove non diversamente disposto6. La domanda di protezione internazionale è presentata personalmente dal richiedente presso l’ufficio di polizia di frontiera all’atto dell’ingresso nel territorio nazionale, o presso l’ufficio della questura competente in base al luogo di dimora del richiedente; il procedimento prosegue dinnanzi alle Commissioni Territoriali, e si conclude con una decisione di accoglimento o di rigetto della richiesta7. Avverso siffatta determinazione è proponibile quella che solo in senso atecnico può essere definita una impugnazione8, da spendere dinnanzi alle Sezioni Specializzate del Tribunale, le quali, costituite con d.l. 13/2017 (c.d. “Minniti”)9, conv. con mod. in l. 46/2017, sono competenti a decidere sulle: “a) controversie in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’UE o dei loro familiari di cui all’art. 8 del d.lgs. 30/2007; b) controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell’UE o dei loro familiari per motivi imperativi di pubblica sicurezza e per gli altri motivi di pubblica sicurezza di cui all’art. 20 del d.lgs. 30/2007, ovvero per i motivi di cui all’art. 21 del medesimo d.lgs., nonché per i procedimenti di convalida dei provvedimenti previsti dall’art. 20-ter del d.lgs. 30/2007; c) controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale di cui all’art. 35 del d.lgs. 25/2008, per i procedimenti per la convalida del provvedimento con il quale il questore dispone il trattenimento o la proroga
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Quel cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure se apolide si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e per lo stesso timore sopra indicato non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno. Cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dall’art. 14 del d.lgs. 251/2007, e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Sul punto cfr. Gaeta, A che serve studiare la protezione internazionale, in Foro it., 2016, V, 391 ss. Il rapporto tra le fasi che compongono tale procedimento è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso che il richiedente possa adire l’autorità giurisdizionale se non all’esito della fase amministrativa, che, secondo autorevole letteratura, assurge a condizione di procedibilità della domanda giudiziale (cfr. Cass., 23 agosto 2006, n. 18353, in Foro it., Rep. 2007, voce Straniero, n. 124, nonché Cass., 1 settembre 2006, n. 18940, ibid., voce cit., n. 121). Condivisibilmente anche Ammassari, Protezione internazionale – l’oggetto del giudizio di opposizione al riconoscimento della protezione internazionale, in Giur. it., 2017, 2399 ss. Infatti, come si approfondirà in seguito, il processo dinnanzi Sezioni Specializzate non sostanzia affatto un rimedio impugnatorio. Le Sezioni Specializzate sono composte da magistrati dotati di specifiche competenze, preferendosi quelli già addetti alla trattazione dei procedimenti in questione da almeno due anni, o che abbiano partecipato agli specifici corsi di formazione e abbiano conoscenza della lingua inglese o di quella francese.
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del trattenimento del richiedente protezione internazionale, adottati a norma dell’art. 6, 5° comma, d.lgs. 142/2015, e dell’art. 10-ter del d.lgs. 286/1998, nonché dell’art. 28 del Reg. UE 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, nonché per la convalida dei provvedimenti di cui all’art. 14, 6° comma, del predetto d.lgs. 142/2015; d) controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria nei casi di cui all’art. 32, 3° comma, d.lgs. 25/2008; e) controversie in materia di diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché relative agli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare, di cui all’art. 30, 6° comma, d.lgs. 286/1998; e-bis) controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’autorità preposta alla determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale, in applicazione del Reg. UE 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013”.
2. Dei principi del processo dinnanzi alle Sezioni Specializzate.
Come detto in apertura, il passaggio dalla fase amministrativa a quella giurisdizionale apre a scenari processuali astrattamente di favore per il richiedente tutela rispetto all’ordinario giudizio di primo grado, e ciò è stato spiegato in ragione della peculiarità dell’atteggiamento del diritto alla protezione internazionale, caratterizzato dalla indubitabile condizione di squilibrio tra le parti del processo10, che ha di fatto indotto a un giusto ripensamento su molti e vari temi. In primo luogo, il postulato della effettività della tutela giurisdizionale11 si fa decisamente più cangiante, soprattutto riflesso alla luce delle spinte europeistiche e internazionali12: le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi in materia interna, né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario13. Ciò sta a
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Sul punto Flamini, Il ruolo del giudice di fronte alla peculiarità del giudizio di protezione internazionale, in Quest. giust., 2018, 176 ss. 11 Sconfinata è la letteratura sul tema; solo indicativamente, in luogo di altri, G. Vettori, L’attuazione del principio di effettività. Chi e come, in Pers. merc., 2017, 187 ss.; Id., Contratto giusto e rimedi effettivi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 791 ss.; Id., Il contratto europeo tra regole e princìpi, Torino, 2015, passim; D. Dalfino, Accesso alla giustizia, principio di effettività e adeguatezza della tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 907 ss.; Di Majo, Giustizia e «materializzazione» nel diritto delle obbligazioni e dei contratti tra (regole di) fattispecie e (regole di) procedura, in Eur. dir. priv., 2013, 797; Id., Il linguaggio dei rimedi, id., 2005, 341 ss.; Pagliantini, Diritto giurisprudenziale e principio di effettività, in Pers. merc., 2015, 112; Imbruglia, Effettività della tutela e poteri del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 961; Pagni, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. dir., Annali, Milano, 2017, 355 ss. 12 I richiami sono quelli agli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (d’ora in poi: CEDU), e all’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea (d’ora in avanti: Carta di Nizza). 13 Con particolare riguardo alla materia della protezione internazionale, l’art. 46, paragrafo 1, della Dir. 2013/32/UE prevede che gli Stati membri sono tenuti a disporre che il richiedente abbia diritto a un rimedio effettivo dinanzi ad un giudice nei casi elencati in tale
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significare che spetta allo Stato membro interessato cooperare con il richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della domanda, e là dove, per una qualsivoglia ragione, quelli forniti da quest’ultimo non siano esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che il primo cooperi attivamente con il richiedente per consentire di riunire tutti gli estremi atti a sostenere la domanda14. Diversamente da quello che accade in un procedimento ordinario, nel quale, secondo l’art. 2697 c.c., chi fa valere un diritto in giudizio deve allegare e provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, nel procedimento volto al riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, posto che sul richiedente grava invero l’onere di allegare i fatti e le prove, il giudice non è vincolato al nomen iuris da questi attribuito alla causa petendi: in deroga al principio cardine della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato15, dunque, il giudice può d’ufficio riconoscere una forma di protezione maggiore o minore a seconda dei presupposti da egli ravvisati16. Anche il principio di non contestazione sembrerebbe subire una importante torsione: se è vero infatti che, ai sensi dell’art. 115 c.p.c.17, la mancata presa di posizione nel senso
disposizione e, in particolare alla lettera a), punto i), ossia avverso la decisione di ritenere la domanda infondata in relazione allo status di rifugiato e/o allo status di protezione sussidiaria. Gli Stati membri, inoltre, devono assicurare che un rimedio effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, compreso l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della Dir. 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado. Il paragrafo 4 dell’art. 46 della Dir. dispone inoltre che gli Stati membri devono prevedere termini ragionevoli, nonché introdurre le altre norme necessarie per l’esercizio, da parte del richiedente, del diritto ad un rimedio effettivo di cui al paragrafo 1 del medesimo articolo. I termini prescritti non devono, tuttavia, rendere impossibile o eccessivamente difficile tale accesso. L’art. 47 afferma l’esigenza di dare attuazione alla pretesa di un rimedio effettivo, inteso come predisposizione di adeguati strumenti di tutela, ed idonee fattispecie processuali, capaci di garantire la piena soddisfazione dei diritti e degli interessi tutelati. In particolare, l’art. 4 della Dir. prevede, al comma 1, che «gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale. Lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda». 14 Corte di Giustizia dell’Unione europea 22 novembre 2012, n. C-277/11, in Foro it., Rep. 2012, voce Unione europea e Consiglio d’Europa, n. 1238. Anche la Corte di Cassazione sul punto ha precisato come il dovere di cooperazione imponga al giudice di valutare se il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi pertinenti in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi (Cass., 30 luglio 2015, n. 16201, id., Rep. 2015, voce Straniero, n. 77; Id. 16 luglio 2015, n. 14998, ibid., voce cit., n. 18). 15 Sulla cui definizione e disciplina, non potendo essere oggetto di approfondimenti in questa sede, si rinvia, tra i tanti, a Chiovenda, Identificazione delle azioni. Sulla regola “ne eat iudex ultra petita partium”, in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), I, Milano, 1993, 157 ss.; inoltre cfr. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 188; Monteleone, Diritto processuale civile, I, Padova, Cedam, 1994, 241; Satta - Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996, 197; Verde, Profili del processo civile, I, Napoli, 1994, 113; ex multis, in giurisprudenza, Cass., 25 settembre 2009, n. 20652, in Foro it.,, Rep., 2009, voce Sentenza civile, n. 16; Id. 12 agosto 2009, n. 18249, ibid., voce cit., n. 29; Id. 26 ottobre 2009, ibid., voce cit., n. 31; per Trib. Reggio Emilia, 22 gennaio 2009, ibid., voce cit., n. 37, la pronuncia deve basarsi su fatti ritualmente allegati e provati, e deve esserci conformità tra la decisione e gli effetti giuridici che la parte vuole conseguire deducendo un certo fatto (così, Cass., 12 ottobre 2007, n. 21484, id., Rep. 2007, voce Procedimento civile, n. 160). 16 Cass., 14998/2015, cit. 17 In seguito alla l. 18 giugno 2009, n. 69 infatti, la disposizione dell’art. 115 c.p.c. è stata integrata del dovere, in capo, al giudice, di porre a fondamento della decisione, insieme alle prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero, anche i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita (inter alia cfr. Del Core, Il principio di non contestazione è diventato legge: prime riflessioni su alcuni punti ancora controversi, in Giust. civ., 2009, II, 280; Giordano - Lombardi, Il nuovo processo civile, Roma, 2009, 168; Sassani - Tiscini, Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009 n. 69, in Questa Rivista; De Roma, Il principio di non contestazione assume valenza generale, in Corr. trib., 2009, 2683 ss.; Pagni, La “Riforma” del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr.giur., 2009, 1309).
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della contestazione specifica del fatto produce come conseguenza che esso non richiede più ulteriore dimostrazione18, al modo di una relevatio ab onere probandi in favore della parte che li abbia allegati19, nei procedimenti di protezione internazionale, se la struttura amministrativa non si costituisce ma si limita a mettere a disposizione solo la documentazione utilizzata durante la prima fase, il principio di cui in parola non può naturalmente trovare applicazione20. Ebbene, se già il quadro ora analizzato ci consegna, si ripete, in astratto, un procedimento decisamente più elastico per lo straniero, le incisive attenuazioni del principio dispositivo nella prospettiva della prova, in stretta aderenza con il dovere di cooperazione di cui sopra, appaiono foriere di diverse deviazioni alla legge del processo. Nelle controversie in parola, infatti, il giudice, sulla base dei fatti specifici individuati e allegati dalla parte, non è tenuto a fondare il proprio convincimento solo sulle prove poste a fondamento dall’attore, ma può disporre d’ufficio l’acquisizione di tutte quelle che ritiene necessarie per la sua decisione2122. Posto che la fase istruttoria ruota quasi esclusivamente intorno alla valutazione delle dichiarazioni rese dal ricorrente sia dinanzi alla questura che nel corso dell’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale, e alla reale provenienza e autenticità dei documenti a fondamento della domanda, il giudice dispone di numerosi poteri probatori. In primo luogo può, in presenza di contraddizioni tra elementi da approfondire, o di ulteriori aspetti non affrontati in maniera esauriente dinanzi alla Commissione, ordinare una nuova au-
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Cass., 17 giugno 2016, n. 12517, in Foro it., Rep. 2016, voce Prova civile in genere, n. 30; Id., 3 maggio 2016, n. 8647, ibid., voce cit., n. 30. 19 In questo senso Comoglio, Fatti non contestati e poteri del giudice, in Riv. dir. proc., 2014, 1045 ss.; v. pure Tedoldi, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., id., 2011, 76 ss. Critico a proposito del principio di non contestazione Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009, 169. Sull’istituto in generale si vedano, in luogo di altri, visto il fecondo terreno scientifico di analisi, P. Comoglio, “Moralizzazione” del processo e ruolo del giudice nell’evoluzione dei modelli processuali europei, in Riv. dir. proc., 2015, 131 ss.; Carratta, Il principio di non contestazione nel processo civile, Milano, 1995; B. Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., 2010, 1 ss.; G.F. Ricci, La riforma del processo civile, Torino, 2009, 41 ss.; Rascio, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scari e perciò da rinfoltire, in Corr. giur., 2010, 1243 ss.; Vanacore, Non contestazione: quando il non dire equivale (quasi) al dire, in Resp. civ., 2010, 6 ss.; Cea, Non contestazione dei fatti: passi avanti e chiarezze teoriche, in Foro it., 2006, I, 1873 ss.; Proto Pisani, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di non contestazione nei processi a cognizione piena, ibid., 3143 ss. In giurisprudenza Cass., sez.un., 23 gennaio 2002, n. 761, in Foro it., 2002, I, 2019 ss., con nota di Cea, Il principio di non contestazione al vaglio delle sezioni unite; v. pure Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, id., 2003, I, 604 ss.; Cass.,16 novembre 2012, n. 20211, id., Rep. 2012, voce Prova civile in genere, n. 11; Id. 29 gennaio 2013, n. 2071, id., Rep. 2013, voce Notaio, n. 73; Trib. Monza, 30 novembre 2015, in Giur. it., 2016, p. 357 ss. Più di recente Trib. Lecce, 5 giugno 2017, inedita, per il quale il principio di non contestazione deve intendersi come onere di contestazione tempestiva dei fatti ex adverso dedotti; corollario di tale principio è la non necessità di prova degli stessi, in quanto imposti al giudice come fatti pacifici (che deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e deve, perciò, ritenere la circostanza in questione sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo in concreto spiegato espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti - così Trib. Ancona, 28 aprile 2017, inedita; Trib. Roma, 4 aprile 2017, inedita). 20 In questo senso cfr. Cass., 13 febbraio 2013, n. 3576, in Foro it., Rep. 2013, voce Prova civile in genere, n. 40. 21 Sul punto cfr. anche Acierno - Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice nell’acquisizione e nella valutazione della prova, in Dir. imm. citt., 2017, 1 ss. 22 Cass., 28 settembre 2015, n. 19197, in Foro it., Rep. 2015, voce Straniero, n. 73.
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dizione23; in questo contesto, il giudice interroga il richiedente consentendogli di chiarire eventuali elementi che farebbero propendere per una valutazione negativa di credibilità24. Di poi, proprio la credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente può essere ulteriormente vagliata attraverso l’acquisizione di aggiornate informazioni sul Paese d’origine al momento della decisione25; ancora, il giudice è libero di integrare il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente con l’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, anche attraverso la spendita di canali diplomatici, rogatoriali e amministrativi26, “essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti”27: le circostanze e i fatti allegati dal cittadino straniero, qualora non siano suffragati da prova, possono essere ritenuti credibili se superano una valutazione di affidabilità fondata su criteri legali, tutti incentrati sulla buona fede soggettiva nella proposizione della domanda, valutabile alla luce della sua tempestività, della completezza delle informazioni disponibili, dall’assenza di strumentalità e dalla tendenziale plausibilità logica delle dichiarazione, e ciò non solo dal punto di vista della coerenza intrinseca, ma anche sotto il profilo della corrispondenza della situazione descritta con le condizioni oggettive del Paese28 (su tali ultime tematiche si veda funditus, in questo lavoro, l’analisi di de ritis). Il potere e il dovere istruttorio del giudice, al contrario, non sorgerebbero in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua di indicatori di genuinità soggettiva e, in particolare, quando la mancanza di veridicità non derivi esclusivamente dalla impossibilità di fornire riscontri probatori sulla situazione oggettiva dalla quale scaturisce la situazione di rischio, o, ancora, in presenza di una narrazione di episodi anche violenti ma strettamente interpersonali29.
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Corte di Giustizia dell’Unione europea 9 febbraio 2017, n. C-560/14, id., Rep. 2017, voce Unione europea e Consiglio d’Europa, n. 871; Id. 26 luglio 2017, n. C-348/16, ibid., voce cit., n. 610. In entrambe le pronunce il giudice europeo ha chiarito che il «diritto ad un colloquio orale» è previsto dall’art. 46 della Dir. 2013/32/UE solo per la fase amministrativa, ma non nella fase giurisdizionale, ove il giudice deve procedervi se tale adempimento risulti necessario per un «esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto». In dottrina v. Breggia, L’audizione del richiedete asilo, in Quest. giust., 2, 2018, 190 ss. 24 Corte di Giustizia dell’Unione europea n. C-277/11, cit. 25 Sul punto la giurisprudenza ha chiarito come il bisogno di protezione internazionale possa sorgere anche in un momento successivo rispetto alla partenza del richiedente dal proprio paese, tanto per ragioni oggettive (avvenimenti) quanto per ragioni soggettive (attività svolte dal richiedente), e come il giudice, facendo uso dei propri poteri istruttori e officiosi, debba accertare, con riferimento all’attualità, la dedotta sussistenza di una situazione di instabilità socio-politica e di violenza indiscriminata nel Paese d’origine (Cass., 17 aprile 2018, n. 9427, in www.studiolegale.leggiditalia.it). 26 D’altronde la delicatezza della tematica si pone soprattutto in ordine alla prova del “fondato timore di essere perseguitato”, o dei “fondati motivi di ritenere di correre rischi di subire gravi danni”, fatti per i quali, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, è impossibile la dimostrazione a mezzo di documenti o tramite testimoni (così De Santis, Le novità in tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei migranti. Un’analisi critica, in Riv. dir. proc., 2017, 1218 ss.). Secondo Cass., 17 novembre 2008, n. 27310, in Dir. imm. citt., 2009, 127, «deve ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche dall’adozione del rito camerale, applicabile in questi procedimenti anche prima dell’entrata in vigore dell’espressa previsione normativa contenuta nell’art. 35 d.lgs. 25/2008». 27 Cass., 13 dicembre 2016, n. 25534, in Foro it., Rep. 2016, voce Straniero, n. 68. 28 Cass., n. 1620/2015, cit.; v., anche, Id. n. 14998/2015, cit.; Id. 4 aprile 2013, n. 8282, id., Rep. 2013, voce cit., n. 104. 29 Cass., 10 aprile 2015, n. 7333, id., Rep. 2015, voce cit., n. 82.
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3. Della applicazione concreta delle deroghe. Il quadro sopra descritto sembrerebbe dunque aprire a un processo assai di favore per lo straniero richiedente la protezione internazionale, soprattutto là dove la valutazione effettuata dalle Commissioni Territoriali si sia caratterizzata per una tendenziale superficialità. Ciò nonostante, così non è. E così non è perché gli interventi normativi più recenti da un lato, e le applicazioni dei giudici di merito, dall’altro, hanno di fatto snaturato un comparto di regole che, ad avviso di chi scrive, correttamente andava (e va) declinato in maniera più elastica in ragione del rilievo soggettivo del richiedente tutela30, tanto che si rappresenta ancora più fondato il dubbio, già manifestato in dottrina, a proposito della esistenza di “diritti più diritti di altri”31. Innanzitutto, bisogna fare attenzione al processo che si sta approfondendo. Infatti, come giustamente è stato sottolineato, non ci si trova di fronte a un giudizio di impugnazione della determinazione della Commissione Territoriale, bensì a un novum iudicium32, e ciò per due motivi. La parte avversa, vale a dire l’organo amministrativo, in realtà, è la struttura che ha pronunciato la decisione contestata, e non v’è chi non veda come la qualificazione in termini di impugnazione del giudizio dinnanzi alle Sezioni Specializzate porti a una stortura sistematica di non poco conto: come affermare, cioè, che in Corte d’Appello le parti del processo sono il soccombente e il giudice di primo grado che ha pronunciato la sentenza. Inoltre, escludere la natura impugnatura del giudizio promosso ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 25/2008, significa anche consegnare al giudice adito il potere di reformatio in peius della determinazione amministrativa. Ancora, a sconfessare le dichiarazioni di principio sopra enunciate hanno contribuito in primo luogo quelle prassi giudiziarie volte a limitare al massimo il diritto alla comparizione personale del richiedente davanti al giudice, così di fatto degradando la prova costituenda principe, che consente al giudice l’immediata e la diretta percezione dei fatti, a mera esigenza eventuale quando le prove precostituite (il verbale di interrogatorio dinnanzi alla Commissione o la videoregistrazione) non gli consentano di apprezzare l’esistenza dei presupposti del diritto fatto valere33. In questo modo, i giudici sembrerebbero essersi autoimposti la residualità del contatto diretto con la fonte di prova, e ciò pare
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Più che attuale, proprio in questa materia, è l’insegnamento di Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (Massachusetts), Belknap press of Harvard university, 1971: in una società giusta le disuguaglianze sono a favore degli svantaggiati. 31 Si veda sul punto il centrale contribuito di De Santis, L’eliminazione dell’udienza (e dell’audizione) nel procedimento per il riconoscimento della protezione per il riconoscimento della protezione internazionale. Un esempio di sacrificio delle garanzie, in Quest. giust., 2, 2018, 206 ss., il quale associa il deficit di garanzie venutosi a creare al bisogno di risparmio delle spese. 32 De Santis, ibid. In giurisprudenza Trib. Roma, 6 luglio 2017, in Giur.it., 2017, 2399 ss. 33 Sul punto si veda Zorzella, Il ruolo dell’avvocato nel processo di protezione internazionale, ivi, 190. Di smarrimento della oralità parla anche De Santis, L’eliminazione dell’udienza (e dell’audizione), cit., 209.
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irragionevole, se solo si pensa al fatto che, come è stato correttamente segnalato, in molte ipotesi, situazioni gravissime quali uno stato di schiavitù o una tratta a fini di sfruttamento, emergono solo dinnanzi al magistrato, non essendo le stesse né evidenziate durante la fase amministrativa, né all’interno dello stesso ricorso. Di poi il d.l. 13/2017 ha eliminato la obbligatorietà generalizzata della comparizione personale, e l’ha resa eventuale in alcune, specifiche, ipotesi34. Siffatto intervento, all’evidenza, sembra attribuire al magistrato una estensione nella decisione in ordine alla comparizione personale oltremodo dilatata, tanto che in tema si è parlato di “clausola in bianco”35. Un’analisi dei Repertori sul punto, altresì, piuttosto che allagarne le trame, conferma la tendenza giurisdizionale a limitare il diritto dello straniero ad essere sentito, soprattutto in presenza del deposito della videoregistrazione del colloquio, equiparata sic et simpliciter a un verbale36. Vero è che la strada della residualità della udienza ha l’effetto di produrre un insostenibile snaturamento delle prerogative del richiedente protezione internazionale, perché si corre il rischio di sorvolare troppo semplicisticamente sulla disparità esistente tra l’organo amministrativo e lo straniero: quest’ultimo, infatti, potrebbe trovarsi in una condizione emotiva di inibizione di fronte alle Commissione Territoriali, se non addirittura di timore reverenziale; a ciò si aggiungano, da un lato, le difficoltà di interazione determinate dalle differenze linguistiche, e, dall’altro, la situazione personale dello straniero, spesso non assistito da un legale37; dinamiche peraltro in contrasto con le linee-guida degli Osservatori sul tema (e su cui si rinvia in questo lavoro all’analisi di barbieri). Infine, gli eventuali vizi motivazionali non possono essere oggetto di censura alcuna, essendo stato abolito l’appello: questa scelta, ad avviso di chi scrive, mortifica ulteriormente la sensibilità della situazione fatta valere dal ricorrente, soprattutto quando l’accertamento dei fatti costitutivi si rappresenta tanto delicato38, dinamica che piuttosto imporrebbe la revisione del thema da parte di un giudice di merito di secondo grado. Non sembra suf-
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Inserite nel comma undicesimo dell’art. 35 bis del d.lgs 25/2008, ai sensi del quale “l’udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi: a) la videoregistrazione non è disponibile; b) l’interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione; c) l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado”. Diversamente, il comma decimo individua quelle in cui la comparizione personale è prevista come facoltativa, vale a dire quando, visionata la videoregistrazione, il giudice ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato, ovvero i chiarimenti alle parti, ovvero disponga la consulenza tecnica ovvero, anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova. 35 Soprattutto in punto di “credibilità” delle dichiarazioni dello straniero (cfr. Acierno - Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, cit., 10). 36 In questo senso Trib. Napoli, 20 ottobre 2017, inedito; secondo Trib. Torino, 28 novembre 2017, inedito, il giudice deve fissare udienza di comparizione solo là dove la videoregistrazione o il verbale dell’audizione non siano disponibili; nel senso della inesistenza di un automatismo tra mancanza di videoregistrazione e comparizione del richiedente protezione internazionale cfr. Trib. Milano 20 febbraio 2018, inedito; in linea anche Trib. Torino, 12 dicembre 2017, inedito. 37 Per le critiche alla scelta del legislatore e alla tendenza riduttiva dei tribunali cfr. veda Zorzella, Il ruolo dell’avvocato, cit., 190. 38 In questo senso Asprella, Un nuovo rito, cit., 855.
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ficiente garantire l’accesso in Corte di Cassazione perché costoso e perché, notoriamente, limitato al giudizio di legittimità.
4. Conclusioni. Si è affermato sopra che, in tema di protezione internazionale, ad una disciplina di principio astrattamente di favore non corrisponde una applicazione esattamente coincidente con gli intenti. Piuttosto che guardare a questo processo, cioè, con la lente del tradizionale costituzionalista, che ha nell’art. 2 della Carta Fondamentale il sestante metodologico, le applicazioni giurisprudenziali sembrano limitare l’applicazione di regole invero riconosciute. Ma le deroghe ai principi generali del processo civile sopra solo compendiate, secondo quanto sostenuto in questo lavoro, sono corrette; e lo sono in primo luogo perché i doveri di solidarietà, di efficacia della risposta processuale e di cooperazione sono imposti dall’Europa; lo sono, inoltre, perché il principio della ragionevolezza della legge, ancorato al parametro della uguaglianza sostanziale, impone che situazioni all’evidenza difformi non possano essere disciplinate allo stesso modo. Non è sostenibile, cioè, che il richiedente la protezione internazionale venga trattato, in punto di oneri probatori, alla stregua di un attore in rei vindicatio. Altresì, pure là dove non si fosse chiarito che la tutela dello straniero si inserisce in una dinamica di cooperazione del giudice, una valvola di soccorso si sarebbe potuta individuare (e si individua) in una ragionevole applicazione del principio della vicinanza della prova, secondo il quale l’onus probandi va ripartito tenuto conto delle concrete possibilità in capo alle parti di dimostrare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azioni, con la conseguenza di gravare dell’onere probatorio quella a cui è più vicino il fatto da provare39. Sommessamente, ad avviso di chi scrive, tolte la condizione personale e la storia dello straniero, piuttosto che il richiedente si ritiene che sia l’organo amministrativo ad essere nella disponibilità delle informazioni in ordine alla esistenza di conflitti armati, di pratiche di tortura o di violenza generalizzata nel Paese di origine del ricorrente. Inoltre, si potrebbe affermare che tali circostanze sostanzino fatti notori, che, come tali, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., possono essere posti a fondamento della decisione senza
39
In dottrina cfr. Besso, La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, 1383 ss.; Menchini, Osservazioni critiche sul cd. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo civile, in Aa.Vv., Scritti in onore di E. Fazzalari, vol. III, Milano, 1993, 27 ss.; Mirmina, Il principio di vicinanza della prova quale deroga dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., in Giur. it., 2016, 821 ss.; Franzoni, La “vicinanza della prova”, quindi..., in Contr.e Imp., 2016, 369 ss.; in giurisprudenza cfr. Cass., 7 maggio 2015, n. 9201, in Foro it., Rep. 2016, voce Contatti bancari, n. 46; Id. 3 dicembre 2003, n. 18487, id., Rep. 2003, voce Prova civile in genere, n. 13; Id. 13 dicembre 2004, id., 2006, I, c. 3122 ss.; Cass., sez. un., 4 agosto 2010, n. 18046, id., 2011, I, c. 506 ss.; Id. 6 giugno 2012, n. 9099, id., Rep. 2012, voce cit., n. 19.; Id. 4 ottobre 2012, n. 16917, ibid., voce cit., n. 18.
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Criticità di alcune regole processuali nei procedimenti di protezione internazionale
bisogno di prova40, in quanto nozioni indubitabilmente e incontestabilmente comuni alla coscienza della collettività in un dato tempo e in un dato luogo. Solo una dinamica rimane indisponibile alla ricerca di rimedi diretti a garantire il richiedente protezione internazionale: per quanto ci si sforzi nella interpretazione funzionalmente orientata di principi già esistenti o invero predisposti ad hoc, viste la maglia larga consegnata dal legislatore del 2017 e la prassi giurisdizionale ad essa decisamente allineata, tutto dipenderà dalla esegesi definitiva resa dalla Corte di legittimità.
Sezione II Brevi considerazioni sul difficile rapporto tra il giudice e le coi (country of origin information) di Francesco De Ritis
1. Premesse. La triplice rilevanza delle coi Dover decidere sulla richiesta di protezione avanzata da un essere umano costretto, per le ragioni più varie, ad abbandonare il proprio Paese di origine rappresenta, oggigiorno, uno dei compiti più ardui e complessi in assoluto. La drammaticità del fenomeno migratorio41, infatti, finisce inevitabilmente per riflettersi anche nella sfera di coloro che, in un modo o nell’altro, vengono a contatto con il diretto interessato. Tra questi vi è, ovviamente, anche il giudice, chiamato ad entrare in scena in uno dei momenti più delicati della vicenda: allorquando, cioè, il richiedente tutela veda rigettata – totalmente o parzialmente42 – la domanda di protezione avanzata all’autorità amministrativa, nelle vesti della Commissione territoriale competente43. Proprio in ragione del fatto che quello della protezione internazionale rappresenta un ambito (e, in particolare, un procedimento) in cui entrano in gioco diritti e posizioni giuridiche «del tutto peculiari per caratteristiche intrinseche e per condizioni di esercizio»44, il legislatore ha previsto una disciplina che, specialmente in punto di prova, da un lato, fini-
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In tema cfr. G. F. Ricci, Questioni controverse in tema di onere della prova, in Riv. dir. proc., 2014, 341 ss.; Allorio, Osservazioni sul fatto notorio, id., 1934, 8 ss.; Calamandrei, Per la definizione del fatto notorio, id., 1925, 273 ss.; Carnelutti, Massime d’esperienza e fatti notori, id., 1959, p. 639 ss., Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970, 197 ss. 41 Restituita anche dai numeri del fenomeno: per delle statistiche aggiornate, v. il c.d. “Cruscotto statistico giornaliero” in www.interno. gov.it; dei numeri significativi della dimensione, invece, internazionale, sono rinvenibili in www.ec.europa.eu/eurostat/statisticsexplained/index.php?title=Asylum_statistics/it. 42 Totalmente, allorquando nessuna forma di protezione venga accordata; parzialmente, laddove sia riconosciuta - come sempre più spesso accade - una forma di protezione di intensità minore rispetto a quella richiesta. 43 Per le dinamiche procedimentali si rinvia all’analisi effettuata, nella Sez. precedente, da carmellino. 44 Così, testualmente, Acierno - Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, cit., 1.
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Francesco De Ritis
sce per puntualizzare il modus operandi del giudicante, così da evitare che aspetti legati al sostrato fattuale della richiesta di protezione rimangano non (adeguatamente) perlustrati; e, per altro verso, introduce un regime di favor per il migrante, allo scopo di rendergli meno complicato (rectius: possibile) dimostrare il proprio bisogno di ricevere protezione. Tali profili sono solitamente ricondotti al principio del dovere di cooperazione che incombe sullo Stato: a) in forza del diritto unionale, ai sensi dell’art. 4, comma 1 della Dir. 2011/95/UE; b) in forza del diritto nazionale, ai sensi dell’art. 3, d.lgs. 251/2007. In ambo i casi, si fa riferimento all’oggetto e all’estensione della cooperazione, che deve riguardare «tutti gli elementi significativi della domanda». Più nello specifico, come precisato anche dalla Suprema Corte di Cassazione45, il cardine del sistema di attenuazione dell’onere della prova, posto a base dell’esame e dell’accertamento giudiziale delle domande di protezione internazionale, è da rinvenire nel combinato disposto degli artt. 8, d.lgs. 25/2008 e 3, d.lgs. 251/2007. A sua volta, il principio di cooperazione è considerato corollario dell’obbligo di fornire, al soggetto bisognoso di protezione, una tutela effettiva46. Ora, quello che preme mettere in rilievo in questa sede è la preminenza del ruolo che finiscono per assumere, nel procedimento in questione, le cc.dd. coi (country of origin information) del richiedente protezione, non a caso richiamate in entrambe le disposizioni sopracitate. Nella prima, al terzo comma, per affermare che la domanda «è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti [tutela] e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati»: il giudice, quindi, non può evitare di portare la sua attenzione, nell’esaminare la domanda, sullo scenario presente nel Paese di origine e, se necessario, anche di transito del migrante. Nella seconda, al primo comma, per individuare quali elementi il migrante è chiamato ad allegare e provare47; al terzo comma, invece, quali riferimenti su cui parametrare la (non) contraddittorietà delle dichiarazioni del migrante: circostanza che, se presente assieme alle altre condizioni delineate dalla disposizione48, fa scattare la c.d. presunzione di veridicità delle affermazioni.
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Cfr. Cass., 8282/2013, cit. Afferma acutamente Favilli, L’Unione che protegge e l’Unione che respinge. Progressi, contraddizioni e paradossi del sistema europeo di asilo, in Quest. giust., 2, 2018, 33, che, assieme a quello ad un giudice imparziale, per gli stranieri il diritto ad un ricorso effettivo «può essere l’unico diritto esercitabile, all’esito del quale, forse, si apre la possibilità di esercitare gli altri diritti connessi al loro status». 47 L’art. 3, rubricato «Esame dei fatti e delle circostanze», al primo comma prevede che «Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda». 48 Consistenti, rispettivamente: a) nell’aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) nell’aver prodotto tutti gli elementi pertinenti in proprio possesso e nell’aver fornito idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) nella possibilità di ritenere le dichiarazioni del richiedente coerenti e plausibili; d) nell’aver presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, salva la dimostrazione di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) nella possibilità, in forza dei riscontri effettuati, di considerare il richiedente, in generale, attendibile. 46
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Tale ultimo aspetto è di cruciale importanza nel procedimento di protezione internazionale, in quanto sono rari i casi in cui il richiedente tutela, essendo tutti gli elementi e gli aspetti delle sue dichiarazioni «suffragati da prove», non abbia bisogno di avvalersi della clausola inferenziale favorevole riconosciutagli dal legislatore al fine di colmare il gap che lo separa dallo standard probatorio. A ciò, si aggiunga che la Corte di Cassazione ha stabilito che, in ogni caso, la credibilità soggettiva del richiedente non è da sola sufficiente ai fini dell’accertamento della fondatezza di una domanda di protezione internazionale49, dovendo comunque il giudice procedere ad accertare la situazione effettiva del Paese di provenienza: sembra essere questo il motivo per cui, con una modifica normativa50, al d.lgs. 25/2008 è stato aggiunto un comma 1 bis all’art. 27, in cui si afferma che il giudice acquisisce, anche d’ufficio, le informazioni, relative alla situazione del Paese di origine e alla specifica condizione del richiedente, necessarie a ricostruire il quadro probatorio prospettato dal richiedente.
2. Canali di approvvigionamento delle coi e requisiti qualitativi delle informazioni.
Quella di seguito riportata non vuole essere una mera elencazione dei canali di provenienza delle country of origin information e delle condizioni che le stesse devono soddisfare ai fini della loro utilizzabilità: al contrario, vuole rappresentare l’occasione per sollevare alcune riflessioni critiche, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sorti nel tempo. Conviene partire dal dato normativo: il terzo comma dell’art. 8, d.lgs. 25/2008, individua le coi di cui il giudice (e la struttura amministrativa in “primo grado”) può – o meglio: deve – avvalersi per decidere sulla richiesta. È necessario che le informazioni provengano dalla Commissione nazionale, che le elabora sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO e dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. Se questi sono i canali individuati, senza palesi preferenze “gerarchiche”, dal legislatore, la giurisprudenza di legittimità si è peritata di creare delle coi “di primo taglio”, individuandole in quelle derivanti dai canali istituzionali; solo là dove queste manchino, o siano lacunose, sarà pertanto possibile attingere alle informazioni fornite dagli altri canali, dando peraltro conto delle ragioni della scelta51.
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Cfr. Cass., 10 maggio 2011, n. 10202, in Foro it., Rep. 2011, voce cit., n. 252. Attuata tramite l’art. 5, comma 1, lett. b-quater), del d.l. 119/2014, conv. con mod. in l. 146/2014. 51 È quanto ha stabilito Cass., 24 settembre 2012, n. 16202, id., Rep. 2012, voce cit., n. 138. 50
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Francesco De Ritis
Al riguardo, tuttavia, è curioso constatare come le stesse fonti “istituzionali”, quale, ad es., il vademecum dell’UNHCR dal titolo La ricerca di informazioni sui paesi di origine dei rifugiati52, non solo rimandino, a loro volta, a fonti di provenienza “non istituzionale” (e comunque non governativa), quale, ad es., il Rapporto annuale di Amnesty International sui diritti umani53, creando una sorta di “circolarità” delle informazioni che, più che ad un’asettica gerarchizzazione, sembra rispondere ad esigenze di affidabilità e qualità delle informazioni; ma addirittura affermino che «sebbene alcune fonti possano a ragione godere di una reputazione di attendibilità superiore ad altre, nessuna fonte può essere considerata pienamente obiettiva; la inevitabile parzialità di cui qualsiasi fonte è, in diversa misura, portatrice implica che le ricerche sui paesi di origine dovrebbero basarsi su una molteplicità di fonti di tipologia diversa (istituzionali, non governative, derivanti da esperienze sul campo, giornalistiche, accademiche, ecc.), in modo da fornire un quadro il più possibile completo ed obiettivo»54. Quanto alle condizioni che le informazioni devono soddisfare, vanno distinti i criteri formali (o procedurali) da quelli sostanziali. Tra i criteri del primo tipo, in questa sede vanno menzionati: a) l’accessibilità in condizioni di parità: ciò impone, in particolare, che le stesse informazioni siano di pubblico dominio, non potendo il giudice avvalersi di fonti e documenti inaccessibili al richiedente tutela o al suo difensore; tale condizione, peraltro, sembra essere adeguatamente presidiata dall’art. 17 d.lgs. 25/200855; b) l’imparzialità (della ricerca) e la neutralità: in forza di tale criterio diventa indispensabile che, da un lato, la ricerca non sia orientata politicamente o spinta da interessi di parte. Dall’altro, occorre che in sede di valutazione siano utilizzate, per ciascun caso, tutte le informazioni reperite, siano esse favorevoli o meno rispetto all’esito dell’esame di una richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato. Tra quelli della seconda specie, invece, vanno menzionati: c) l’attendibilità e l’equilibrio: tale requisito impone che ogni fonte, prima di essere utilizzata, venga attentamente valutata al fine di individuare con precisione chi abbia prodotto l’informazione e per quali ragioni; se possa essere considerato un soggetto imparziale ed indipendente (ad es., indagando sulle fonti di finanziamento); se abbia (avuto), o me-
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Consultabile al sito www.unhcr.it/wp-content/uploads/2015/12/Scheda-COI.pdf, 9. Strumento, di fatto, da sempre molto utilizzato dai giudici che si occupano di protezione internazionale e che gode di notevole credito tra gli addetti ai lavori. Sul sito internet italiano dell’o.n.g. (www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018) è disponibile la presentazione dell’ultima versione del contributo. E v. anche le Informazioni sull’Eritrea elaborate dall’EASO, in www. sem.admin.ch/dam/data/sem/internationales/herkunftslaender/afrika/eri/ERI-ber-easo-i.pdf, 9, dove vengono individuate quali fonti «autorevoli», accanto al Dipartimento di stato degli Stati Uniti d’America, Human Rights Watch e la stessa Amnesty International. 54 Così, testualmente, La ricerca di informazioni sui paesi di origine dei rifugiati, cit., 12. 55 A mente del quale «al cittadino straniero o al suo legale rappresentante, nonché all’avvocato che eventualmente lo assiste, è garantito l’accesso a tutte le informazioni relative alla procedura che potrebbero formare oggetto di giudizio in sede di ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale o della Commissione nazionale». 53
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no, una conoscenza diretta dell’evento o del fenomeno al quale l’informazione si riferisce e se, infine, l’informazione sia presentata in modo obiettivo. Così, in relazione a Paesi, come nel caso dell’Eritrea, in cui la situazione socio-politica si mostra, dal punto di vista della garanzia e della tutela dei diritti umani, critica, è quasi certo che l’attendibilità delle coi risenta profondamente delle particolari difficoltà di accesso a fonti affidabili, anche perché chi raccoglie dati spesso non può che fare riferimento alle sole notizie fornite da soggetti che hanno sì una qualche familiarità con la situazione esistente nel Paese, ma magari, per ragioni di sicurezza personale, vivono all’estero. Di tutti questi aspetti, evidentemente, il giudice non può non tenere conto: ma - si badi - ciò significa che se, in ipotesi, lo stesso non riesca, né attraverso i canali “istituzionali”, né per il tramite di quelli “alternativi”, ad attingere ad alcuna delle conoscenze fattuali di cui avrebbe bisogno per decidere (evitando di ricorrere all’ausilio della presunzione di veridicità delle dichiarazioni del migrante), poiché la situazione nel Paese il soggetto proviene è di assoluta “impermeabilità” verso l’esterno – in quanto non è garantito il diritto di cronaca e sono violate altre libertà fondamentali, magari per dei conflitti molto estesi e particolarmente violenti – allora, pur privo del parametro su cui misurare la verosimiglianza e non contraddittorietà delle dichiarazioni dell’attore, il giudice dovrà comunque reputare veritiere le sue dichiarazioni56; d) attualità (carattere aggiornato): è, questo, l’unico requisito espressamente riconosciuto a livello legislativo dall’art. 8, comma 3, d.lgs. 25/2008, ove è previsto che l’aggiornamento delle informazioni sia continuo. È evidente che solo delle notizie che siano “fresche” possano essere poste a base di una decisione degna di tal nome. Tuttavia, sul punto si può rilevare un contrasto – forse più apparente che reale – tra le indicazioni fornite dall’UNHCR57 e la giurisprudenza della Cassazione civile italiana. Secondo le prime, infatti, sarebbe «evidente che, qualora il richiedente faccia riferimento nella sua domanda a situazioni o eventi del passato, il carattere aggiornato o meno della informazione utilizzata per corroborare sotto tali aspetti le dichiarazioni del medesimo [debba] valutarsi non già in relazione al momento attuale, bensì in relazione al periodo in cui le situazioni o gli eventi riferiti si sarebbero verificati [enfasi aggiunta]». Per i giudici di legittimità, invece, vi è necessità che l’esame sulla sussistenza delle condizioni soggettive ed oggettive per ottenere una misura tipica od atipica di protezione internazionale debba essere fondato sull’accertamento della situazione attuale ed aggiornata, riferita al momento della decisione: ciò sarebbe confermato dall’art. 4 d.lgs. 251/2007, che rappresenterebbe la prova indiretta della portata generale del principio, nella parte in cui consente che la domanda di protezione internazionale sia motivata anche da avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente, allorquando sia accertato che le attività
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Nello stesso senso sembra, anche, Flamini, Il ruolo del giudice, cit., 181, la quale, tuttavia, ritiene che a tal proposito rilevi anche il principio di non contestazione. 57 Cfr. La ricerca di informazioni sui paesi di origine dei rifugiati, cit., 13.
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addotte costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni od orientamenti già manifestati nel Pese d’origine. Ovviamente, un modo per comporre tale contrasto è dato dalla possibilità, cui fanno ampiamente ricorso le Commissioni territoriali e le corti di merito, di riconoscere, a fronte di una domanda di asilo politico, una forma di protezione “minore”: la protezione (internazionale) sussidiaria o, al limite, la protezione c.d. umanitaria. Ciò, tuttavia, non solo è intrinsecamente scorretto, ma va tenuto conto anche del fatto che dall’entrata in vigore del d.l. 4 ottobre 2018, 113 (c.d. “Salvini”)58 l’istituto della protezione umanitaria è uscito fortemente ridimensionato, essendo state irreggimentate entro ipotesi tipiche le fattispecie, in precedenza descritte in termini (molto) più elastici, che garantivano l’accesso alla figura residuale. Certo, i commi 1 e 1.1. dell’art. 19, d.lgs. 286/1998 non sono stati modificati dal d.l. citato, con la conseguenza che permane l’assoluto divieto di espellere o respingere un soggetto verso uno Stato in cui lo stesso possa essere oggetto di persecuzione (per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali), ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione, oppure là dove esistano fondati motivi di ritenere che il richiedente tutela rischi di essere sottoposto a tortura (dovendosi, peraltro, nella valutazione di tali motivi, tenere conto anche dell’esistenza, nello Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani). Ma non è questo il punto. Infatti, come affermato da attenta dottrina, l’abolizione delle parole dal testo delle disposizioni normative non rappresenta mai la soluzione del problema e finisce, comunque, per produrre degli effetti, poiché «le norme giuridiche hanno una loro logica, talora oscura o ardua da scoprire: basta abrogarne una, o introdurne altra, perché norme dormienti si ridestino, e tornino ad occupare spazi applicativi, resi vuoti e disponibili da altre norme»59. Ciò significa che, pur non essendo state modificate formalmente le disposizioni sui divieti di rimpatrio (e respingimento) di cui ai commi suindicati, non è escluso che l’interpretazione e l’applicazione delle norme che esprimono subisca delle torsioni, con degli esiti, peraltro, difficilmente pronosticabili60: tant’è che il Presidente della Repubblica ha reputato opportuno inviare al Presidente del Consiglio una lettera nella quale si avverte «l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano “fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente
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V. www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/10/04/18G00140/sg. Così, testualmente, irti, Le due cassazioni civili (in difesa della motivazione), in Contratto e impresa, 2017, 10. 60 D’altra parte, non sembra così azzardato ipotizzare (e, anzi, lo si auspica) il prodursi di un effetto controproducente: uno scenario, cioè, in cui i giudici, a fronte del restringimento delle maglie della protezione umanitaria, siano spinti a riconoscere, “al rialzo”, la figura della protezione sussidiaria nelle stesse fattispecie in cui, prima dell’entrata in vigore del d.l., tendevano invece ad accordare la protezione umanitaria. 59
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disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia»61.
3. Conclusioni. Dopo queste brevi riflessioni, corre l’obbligo di tirare delle somme. Si è dimostrato come anche attraverso l’analisi di uno specifico elemento del procedimento di protezione umanitaria, come le country of origin information, sia possibile mettere in evidenza una tendenza presente nelle prassi dei nostri tribunali: quella cioè, di sconfessare, in misura più o meno ampia, quanto stabilito dal legislatore, o comunque di fornire, delle disposizioni normative, un’interpretazione la più “restrittiva” possibile. Infatti, a fronte di un diffuso regime di favor nei confronti del richiedente tutela, declinato – a parole – nelle più diverse forme e indirizzato (in evidente, quanto opportuna, deroga rispetto al regime del processo ordinario) verso una semplificazione dell’accesso a quello che rappresenta un suo diritto fondamentale, vi è purtroppo da registrare una realtà ben diversa, nella quale, ad es., la facoltà di audizione del migrante, che il giudice comunque conserva, viene di fatto utilizzata sempre più raramente, avendo, al contrario, la prassi pretoria dimostrato di accontentarsi di una trattazione quasi esclusivamente documentale della causa62. Tale modo di procedere non può e non dev’essere condiviso, pena l’innalzamento del rischio che, quanto a prevedibilità, l’esito del processo di protezione internazionale assuma sempre di più i contorni di una roulette russa63. Un ruolo fondamentale, come quasi sempre accade, continua ad averlo il giudice. È nella sua preparazione e nella sua sensibilità (anche - e forse soprattutto - umana) che il richiedente protezione ripone le proprie speranze, soprattutto affinché arrivi a comprendere appieno, attraverso l’attento ascolto della narrazione personale e la sua valutazione alla luce delle coi, il vissuto della persona che chiede di essere protetta: la professionalità, quindi, affinché il giudice diventi un “buon inquisitore”, la sensibilità, invece, per comprendere e cooperare, e comportarsi, così, come un “inquisitore buono”.
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V. Decreto sicurezza, Mattarella firma e scrive a Conte: «Sui migranti rispettare Costituzione», in www.ilsole24ore.com. Sul punto, v. le efficaci osservazioni svolte da Carmellino nella Sez. precedente di questo contributo. 63 È eloquente al riguardo, il titolo del libro di Ramji-Nogales - Schoenholtz - Schrag, Refugee Roulette: Disparities in Asylum Adjudication and Proposals for Reform, New York, 2009, 1. 62
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Federica Barbieri
Sezione III Le proposte degli Osservatori sulla giustizia civile in materia di protezione internazionale: le linee guida per il ricorso ex art. 35 d.lgs. 25/2008 di Federica Barbieri
1. Premessa: la nascita degli Osservatori sulla giustizia civile.
Nell’ultimo ventennio gli operatori del diritto hanno avvertito l’improcrastinabile necessità di farsi carico dei problemi che affliggono la giustizia civile e hanno tentato di fornire una risposta alle inefficienze organizzative che tormentano i sistemi giudiziari64. Esse non vanno aggredite esclusivamente per mezzo di un ampliamento di organico65, ma vanno combattute anche attraverso la valorizzazione delle esperienze virtuose presenti nei vari uffici giudiziari66. D’altronde, se l’efficienza della giustizia è la risultante del rapporto tra risorse e risultati, fra le risorse non possono che farsi rientrare anche le cosiddette buone prassi, sia riferibili alla gestione del ruolo del singolo magistrato, sia relative all’organizzazione dei processi in generale67. Orbene, l’esperienza degli Osservatori sulla giustizia civile affonda le sue radici in questa convinzione: la collaborazione tra coloro che sono coinvolti nella gestione del processo, finalizzata all’individuazione condivisa delle pratiche più idonee a migliorare la giustizia, costituisce la chiave di volta per il superamento della paralisi dei sistemi giudiziari68.
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Gilardi, Un progetto moderno per la giustizia civile: organizzare l’ufficio per il processo, in Aa.Vv., Gli Osservatori sulla giustizia civile e i protocolli d’udienza, a cura di Berti Arnoaldi Veli, Bologna, 2011, 275; Leonardi - Rancan, La giustizia rapida è anche di qualità, in www.lavoce.info.co; Ciccarelli, Collaborazione ed efficienza nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 691; M. Fabiani Gilardi - Siniscalchi, Quale futuro per la giustizia civile?, in Quest.giust., 3, 1993, 628. 65 In Italia ci sono più di 10 giudici ogni 100.000 abitanti. Il rapporto magistrati per numero di abitanti è risultato in costante aumento a partire dagli anni ’50 (nel 1950 c’era un solo magistrato per 10.000 abitanti. Sul punto v. Marchesi, Litiganti, avvocati e magistrati. Diritto ed economia del processo civile, Bologna, 2004, 127. In relazione al rapporto tra funzionamento della giustizia e risorse disponibili, v., ex multis, Xilo - Zan, Il problema “organizzazione” nella giustizia civile italiana, in Quest. giust., 3, 2000, 485. 66 Magistratura democratica, Manifesto per una vera riforma della giustizia, in Foro it., 2010, V, 204; Nardin, Prospettive di riforma ed efficienza del processo civile, in Quest. giust., 6, 2003, 1212, ove si evidenzia che «l’efficienza e la riduzione dei tempi del processo passino, prima di tutto, dalla razionalizzazione organizzativa». Invero, alcuni tribunali hanno adottato modelli organizzativi più efficienti, battendo altri uffici giudiziari quanto a tempi di risoluzione delle controversie. Sul punto v. Jannotta, Tempi della giustizia, nonostante gli sforzi l’Italia resta in coda, in Guida dir., 24, 2016, 10. 67 Breggia, Dalle prassi esistenti alle prassi migliori condivise: il Protocollo per le udienze civile dell’Osservatorio per la giustizia di Firenze, in Giur. it., 2012, 2435. 68 Id., Gli Osservatori sulla giustizia civile e i protocolli: l’autoriforma possibile, in Aa.Vv., Gli Osservatori, cit., 47; Chiarloni, Strumenti
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Criticità di alcune regole processuali nei procedimenti di protezione internazionale
Gli Osservatori, espressione di autonomia organizzativa69 e momento importante di democrazia partecipativa70, nonché manifestazione del senso di responsabilità da parte degli operatori della giustizia71, rappresentano la sede del confronto attraverso il quale giudici, avvocati, docenti universitari e personale di cancelleria hanno modo di illustrare il proprio punto di vista in relazione all’organizzazione del processo e all’interpretazione delle norme72, prendendo conoscenza del pensiero altrui73. Dunque, le figure professionali che a vario titolo concorrono nell’esercizio della giurisdizione hanno dato vita ad aggregazioni locali, con lo scopo di realizzare un modello organizzativo per l’ufficio giudiziario, quale fattore imprescindibile per fronteggiare il contenzioso. Originariamente il fenomeno degli Osservatori si è diffuso in poche realtà locali; la prima esperienza si è sviluppata a Milano nel 1993, immediatamente seguita dalla nascita di altri quattro osservatori: Bologna, Avellino, Bari e Reggio Calabria74. Dal 2003 in poi la creazione di tali aggregazioni ha subìto un esponenziale aumento; altre realtà, infatti, hanno preso spunto dai modelli offerti dagli Osservatori esistenti per utilizzarli, con i dovuti adattamenti, nelle specificità dei contesti75. Sebbene la loro denominazione alluda a scopi meramente conoscitivi, in realtà gli Osservatori perseguono finalità essenzialmente operative: mirano ad incidere sul funzionamento della giustizia civile76. In buona sostanza, la collaborazione che sta alla base degli Osservatori tende prevalentemente a ricercare soluzioni ai problemi organizzativi e processuali mediante l’individuazione di prassi virtuose e la predisposizione di protocolli d’udienza.
per migliorare l’efficienza della giustizia civile in Italia a legislazione invariata in La crisi della giustizia civile in Italia: che fare?, Milano, 2009, 103. È bene, tuttavia, precisare che l’attenzione verso le prassi non è una conquista degli Osservatori. Invero, già dagli anni ’50 del ’900 calamandrei si soffermava sull’importanza delle pratiche di attuazione della legge processuale. In tal senso v. Caponi, L’attività degli osservatori sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, in Foro it., 2007, V, 8. Del resto, l’esigenza di una collaborazione è insita nella struttura del processo civile, ove «la parte non può vedere applicata la legge senza il giudizio ma neanche il giudice può applicare la legge senza l’istanza di parte», in tal senso Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1966, 585. 69 Caponi, Per gli osservatori della giustizia civile, in Foro it., 2003, V, 254. 70 Minniti, L’esperienza degli osservatori nel corso di un decennio tumultuoso per la giustizia. lavori in corso per l’autoriforma della giustizia civile, in Aa.Vv., Gli Osservatori, cit., 97. 71 Caponi, L’attività degli osservatori, cit., 8; Cataldi, Giustizia civile, proposte di riforma e protocolli per la gestione delle udienze, in Quest. giust., 3, 2006, 440, ove è evidenziato che quella degli Osservatori costituisce una resistenza consistente nello sforzo di reagire alle novelle rintracciando esclusivamente gli spunti positivi di esse attraverso la valorizzazione di prassi virtuose. 72 Breggia, Rifondazione normativa o prassi virtuose per accelerare la fase introduttiva del processo civile di cognizione, in Giur. it., 5, 2004, 1094. 73 Gilardi, Osservatori sulla giustizia civile e deontologia comune di magistrati e avvocati, in Quest. giust., 5, 2008, 41. Dal documento diffuso all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 si legge che lo scopo degli Osservatori «è quello di dare espressione concreta alla comune cultura della giurisdizione e ad una più sentita consapevolezza della complementarietà dei rispettivi ruoli e del necessario rapporto di lealtà nei confronti del processo e dei suoi principi fondamentali». 74 Verzelloni, Gli Osservatori sulla giustizia civile e i protocolli d’udienza: una lettura organizzativa, in Aa.Vv., Gli Osservatori, cit., 111. 75 Breggia, ivi, 47. 76 Caponi, Per gli osservatori della giustizia civile, cit., 254.
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In prima approssimazione, le buone prassi rappresentano il frutto di uno scambio di opinioni cui segue la confluenza delle condotte delle parti coinvolte rispetto ad una regola previamente condivisa77. In altre parole, le pratiche considerate dagli operatori del diritto devono colmare lo spazio esistente tra le regole imposte dal legislatore e i poteri del giudice di gestione del processo78. Più nello specifico, le best practices possono definirsi come le esperienze più significative di un determinato contesto, le prassi più efficaci79 derivanti dai principi ispiratori dell’Osservatorio ove si sviluppano – ovverosia, generalmente, la ricerca di efficienza della giustizia, attraverso la concentrazione processuale e l’adattamento del modello previsto dal legislatore alla tipologia di causa sottoposta all’attenzione dell’organo giudicante80. Pertanto, gli Osservatori soffermano la propria attenzione solo su quelle pratiche idonee a migliorare il funzionamento del sistema giustizia, sulla base del processo reale (e, dunque, non sulla base di un processo ideale81).
2. Gli Osservatori sulla giustizia civile e la protezione internazionale.
Recentemente gli Osservatori sulla giustizia civile hanno incluso nel proprio campo di indagine un ramo speciale della giurisdizione civile, quello della protezione internazionale, che sta aumentando in modo esponenziale il carico di ruolo dei magistrati82. In altri termini, la ricerca di pratiche idonee a contribuire alla creazione di una giustizia più efficiente – ove l’efficienza va intesa non solo nella sua accezione primaria di rapporto tra risorse e obiettivi83, ma soprattutto come rispondenza ai bisogni di chi si rivolge al giudice per ottenere tutela84 – è stata ravvisata in quel settore della giurisdizione in cui la regola
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Id., ivi., 253. Sulla definizione delle best practices v. Fabbrini, Best practices organizzative del magistrato addetto alle controversie civili, in Aa.Vv. Gli Osservatori, cit., 199. 78 Costantino, Un protocollo per la gestione delle udienze civili, in Foro it., 2003, V, 251; Breggia, Rifondazione normativa, cit., 1093; Caponi, L’attività degli osservatori, cit., 11; Cajola, - Scaramuzzi - Vigorito, Il protocollo romano per la gestione delle udienze civili: prime esperienze, in Foro it., 2005, V, 66. 79 Csm, Il contributo del CSM all’elaborazione e alla diffusione delle best practices, in www.csm.it, §1. 80 Breggia, Dalle prassi esistenti, cit., 2435. 81 Costantino, Il processo civile tra riforme ordinamentali, organizzazione e prassi degli uffici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 127. 82 Nel 2017 il numero di richiedenti asilo è stato pari a 130.119, con un aumento del 5% rispetto al 2016 (quando sono state presentate 123.600 istanze). Per consultare tali dati, v. Ministero dell’Interno, I numeri dell’asilo sono rinvenibili al seguente link: www. libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/dati_asilo_2017_.pdf. Sul punto v. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con richiedenti asilo, in Dir. imm. citt., 2, 2017, 4, ove viene rilevato che nel periodo 1990-2004 le richieste d’asilo erano abbastanza contenute, per poi aumentare in modo significativo a partire dal 2014. Sul punto v. amplius Giovannetti, Riconosciuti e diniegati: dietro i numeri le persone, in Quest. giust., 2, 2018, 44. 83 Sulla tematica dell’efficienza della giustizia v., ex multis, Nardin, Prospettive di riforma, cit., 1212; Gradi, Inefficienza della giustizia civile e «fuga dal processo, in www.judicium.it;, Dalfino, Accesso alla giustizia, cit., 907. 84 Sull’efficienza e l’efficacia delle procedure di protezione internazionale, v. Rossi - Lofrate, Procedure e tempi delle richieste di protezione internazionale: i ricorsi, in www.judicum.it, 2.
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iuris da applicare al caso concreto deve essere ispirata ai diritti di eguaglianza sostanziale e di solidarietà85, il nocciolo duro della Carta Costituzionale. Pur non volendo indugiare in questa sede sulla opportunità di bilanciare le improcrastinabili richieste di efficienza della giustizia civile italiana con i valori primari della Costituzione, appare opportuno comunque precisare che le esigenze di accelerazione del processo, diffusamente avvertite, debbono necessariamente fare i conti con un «diritto di confine», quale il diritto d’asilo, che trova spazio in tutte le costituzioni post belliche86. Come rilevato da autorevole dottrina87, dunque, «la struttura del processo civile di protezione deve essere concentrata, ma non sbrigativa». In effetti, i tempi di attesa del richiedente asilo sono assai significativi già nella fase stricto sensu amministrativa: la domanda di protezione internazionale – rectius, la compilazione del «Modello C3» – avviene dopo circa tre mesi dall’arrivo in Italia, la prima audizione dinanzi alle Commissioni territoriali dopo 8 mesi e l’esito della procedura amministrativa dopo un anno dalla richiesta88. Ebbene, la garanzia di un processo connotato da una ragionevole durata assume qui un significato ancora più pregnante che altrove, posto che è la maggioranza dei richiedenti asilo a contestare gli esiti di diniego delle Commissioni territoriali, e ad appellare le decisioni rese in «primo grado»89, attivando quel diritto d’azione garantito senza alcuna limitazione di sorta dalla Carta del 194890. Tuttavia, la rapida definizione di un numero certamente elevato (e in continuo aumento) di procedimenti non è pienamente compatibile con la qualità dell’accertamento richiesto dal bene tutelato91. Orbene, la singolarità dei mezzi istruttori92 e la difficoltà per l’organo giudicante di comprendere la cultura del paese di provenienza hanno sollecitato l’attenzione degli Osservatori, i quali, prendendo le mosse dalle modifiche legislative introdotte con l. 46/2017, hanno dato il loro contributo alla disciplina dei processi di protezione internazionale.
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Minniti, Introduzione. La Costituzione italiana come limite alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero in Europa, in Quest. giust., 2, 2018, 13. Peraltro, l’attenzione per la materia è stata sollecitata anche dalle differenti prassi nell’ambito di protezione internazionale divulgate negli uffici giudiziari italiani. Si considerino, per esempio, le prassi dei Tribunali di Bologna, Firenze e Roma, ove, in mancanza di videoregistrazione, si procede con l’audizione del richiedente. In senso diverso, invece, procedono i Tribunali di Napoli e di Torino, che reputano sufficiente un esame della documentazione in assenza della videoregistrazione. Per una disamina delle prassi v. Breggia, L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e di chiarezza, ivi, 200. 86 ASciurba, Ai confini dei diritti. Richiedenti asilo tra normativa e prassi, dall’hotspot alla decisione, ivi, 145. 87 Minniti, Introduzione. La Costituzione italiana, cit., 13. 88 In tal senso v. amplius Giovannetti, Riconosciuti e diniegati, cit., 44. 89 Id., ivi, p. 66. L’espressione “primo grado” è utilizzata in questa sede in senso atecnico. Invero, come evidenziato sopra, il ricorso avverso le decisioni delle Commissioni Territoriali non ha carattere impugnatorio. In tal senso, v. il contributo (supra, Sezione I) di carmellino. 90 Del resto, il T.U. sull’immigrazione riconosce allo straniero, comunque presente nel territorio dello Stato, i diritti fondamentali della persona previsti dal diritto interno e l’art 46 della Dir. 32/2013/UE prevede l’effettività della tutela giurisdizionale anche rispetto allo straniero. 91 Sul rapporto “rapidità della decisione-diritto dello straniero”, si rimanda a De Santis, L’eliminazione dell’udienza (e dell’audizione), cit., 206, ove si afferma che è difficilmente giustificabile, sia rispetto alla Costituzione, che rispetto alla CEDU, la diffusione di prassi volte ad eliminare l’udienza di audizione dello straniero. E ciò evidentemente per ragioni di economia processuale, in quanto il tempo di ascolto dello straniero sarebbe particolarmente lungo, in quanto ci sarebbero varie attività di traduzione da espletare. Sul punto v. amplius, di Favilli, L’unione che protegge, cit., 36. 92 Sul punto v. Flamini, Il ruolo del giudice, cit., 176.
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Più specificamente, il testo legislativo da ultimo menzionato, rinnovando la disciplina introdotta con il d.lgs. 25/2008, ha istituito presso i tribunali ordinari del luogo nel quale hanno sede le Corti d’Appello, le Sezioni Specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Il legislatore non ha però individuato specifici criteri riguardanti la composizione delle sezioni suddette, limitandosi a stabilire che a comporle dovranno essere giudici scelti tra i magistrati dotati di specifiche competenze93. In buona sostanza, la ratio legis sottesa all’istituzione di tali Sezioni è rinvenibile nell’esigenza di conseguire gli obiettivi di una giustizia rapida e di qualità, lasciando ai capi degli uffici giudiziari l’individuazione del modello organizzativo più adeguato. A un anno dall’intervento legislativo, gli Osservatori sulla giustizia civile hanno riscontrato delle problematiche di funzionamento delle Sezioni Specializzate, con inevitabili ripercussioni sulla durata del processo. Più in particolare, nell’ultima Assemblea degli Osservatori sulla giustizia civile, tenutasi a Reggio Emilia lo scorso giugno94, è emersa la variegata composizione delle Sezioni Specializzate (sovente fanno parte di esse giudici applicati al 25% in quanto assegnati ad altre Sezioni95), indice di una scarsa settorializzazione del magistrato. Significativa, a tal riguardo, è l’esperienza romana, ove la Sezione Specializzata si compone di sei magistrati togati e di undici GOP, che hanno tempi di definizione dei procedimenti del tutto diversi96. Di seguito si riporta un grafico proposto alla XIII Assemblea degli Osservatori riassuntivo delle definizioni dei procedimenti di cui all’art. 35 d.lgs. 25/2008 presso le Sezioni Specializzate del Tribunale di Roma, riferito all’arco temporale gennaio 2017 - aprile 201897.
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Il comma 1 dell’art. 2 della l. 46/2017 prevede che «La Scuola Superiore della Magistratura organizza, in collaborazione con l’ufficio europeo di sostegno per l’asilo, istituito dal Reg. UE 439/2010 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 19 maggio 2010, e con l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, corsi di formazione per i magistrati che intendono acquisire una particolare specializzazione in materia. Ai fini dell’assegnazione alle sezioni specializzate, è data preferenza ai magistrati che, per essere stati già addetti alla trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 3 per almeno due anni, ovvero per avere partecipato ai corsi di cui al periodo precedente o per altra causa, abbiano una particolare competenza in materia». 94 Gli atti dell’Assemblea sono consultabili al link www.reggiosservatorio.it. 95 Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, Report gruppo 4, consultabile al link www.reggiosservatorio. it/2018/07/03/report-gruppo-4-protezione-internazionale. 96 Più specificamente, è stato segnalato che la media di procedimenti definiti e pubblicati è per il primo quadrimestre del 2018, per i giudici togati, di 228 procedimenti, mentre, per i giudici non togati, di 52 procedimenti. 97 Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, Diritti delle persone e immigrazione: tabelle riassuntive dell’attività della sezione specializzata del Tribunale di Roma, in www.reggiosservatorio.it/category/gruppo-4.
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riguardo, è l’esperienza romana, ove la Sezione Specializzata si compone di sei magistrati togati e di undici GOP, che hanno tempi di definizione dei procedimenti del tutto diversi95. Di seguito si riporta un grafico proposto alla XIII Assemblea degli Osservatori riassuntivo delle definizioni dei procedimenti di cui all’art.regole 35 d.lgs. n. 25/2008 le Sezioni Criticità di alcune processuali nei presso procedimenti di protezione internazionale Specializzate del Tribunale di Roma, riferito all’arco temporale gennaio 2017– aprile 201896. 400 350 300 250 200 150 100
Anno 2017
Anno 2017
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Marzo
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Dicembre
Novembre
OCobre
SeCembre
Luglio
Agosto (fino 17/8) Agosto (da 18/8)
Giugno
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Aprile
Marzo
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0
Gennaio
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Anno 2018
Grafico n. 1
Grafico n. 1
Appare ictu oculi che l’intervento delle Sezioni Specializzate abbia dato una sterzata Appare ictu oculi che l’intervento delle Sezioni Specializzate abbia dato una sterzata alle alle definizioni, che sono passate nel mesedeldi2017, gennaio delgennaio 2017, del a 300 nel gennaio definizioni, che sono passate da 100,da nel 100, mese di gennaio a 300 nel 2018.Tuttavia, Tuttavia, ililloro apporto non sinon è rivelato significativo. Invero, come Invero, come rappredel 2018. loro apporto si è assai rivelato assai significativo. 97 rappresentato nel grafico 98 n. 2 , che si riporta di seguito, le iscrizioni sono sempre superiori sentato nel grafico n. 2 , che si riporta di seguito, le iscrizioni sono sempre superiori alle alle definizioni e, di conseguenza, il carico di ruolo del giudice viene costantemente definizioni e, di il carico di ruolo deldi giudice viene costantemente irrobustito irrobustito da conseguenza, ricorsi che si aggiungono a quelli in attesa definizione. 1.200 da ricorsi che si aggiungono a quelli in attesa di definizione. NUMERO PROCEDIMENTI
1.000 800
600 è stato segnalato che la media di procedimenti definiti e 95 Più specificamente, pubblicati è per il primo quadrimestre del 2018, per i giudici togati, di 228 procedimenti, mentre, per i giudici non togati, di 52 procedimenti. 400
96 GRUPPO 4: GIUSTIZIA, DIALOGHI TRANSCULTURALI E PROTEZIONE INTERNAZIONALE, Diritti delle persone e immigrazione: tabelle riassuntive dell’attività della sezione specializzata del Tribunale di Roma, in 200 www.reggiosservatorio.it/category/gruppo-4. 97 Al grafico (anche esso presentato dal Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, in occasione 0 della XIII Assemblea degli Osservatori sulla giustizia civile, tenutasi a Reggio SeCe OCob Nove Genna Febbr Emilia nel mese di giugno del Agost 2018) si può accedere tramite il linkDicem www.reggiosservatorio.it/category/gruppo-4.
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Orbene, gli Osservatori sulla giustizia civile, prendendo atto dell’impossibilità delle Sezioni Specializzate di contenere i numeri elevati di sopravvenienze, hanno proposto delle lineeguida al fine di consentire la realizzazione di un processo giusto anche in materia di 98 Al grafico (anche essointernazionale presentato dal Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, in occasione della XIII protezione e di garantire soprattutto una decisione di qualità al ricorrente.
Assemblea degli Osservatori sulla giustizia civile, tenutasi a Reggio Emilia nel mese di giugno del 2018) si può accedere tramite il link www.reggiosservatorio.it/category/gruppo-4.
3. Le linee-guida sulla redazione del ricorso in materia di protezione internazionale Preliminarmente appare opportuno richiamare la disciplina normativa. Secondo il combinato disposto degli artt. 35 d.lgs. 5/2008 e 4 della l. 46/2017, avverso le decisioni delle Commissioni territoriali che, dopo l’iter amministrativo, respingono la domanda di protezione internazionale, ovvero riconoscono un tipo di protezione diversa da quella richiesta, lo straniero può proporre ricorso alla Sezione Specializzata del Tribunale del
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Orbene, gli Osservatori sulla giustizia civile, prendendo atto dell’impossibilità delle Sezioni Specializzate di contenere i numeri elevati di sopravvenienze, hanno proposto delle linee-guida al fine di consentire la realizzazione di un processo giusto anche in materia di protezione internazionale e di garantire soprattutto una decisione di qualità al ricorrente.
3. Le linee-guida sulla redazione del ricorso in materia di protezione internazionale.
Preliminarmente appare opportuno richiamare la disciplina normativa. Secondo il combinato disposto degli artt. 35 d.lgs. 5/2008 e 4 della l. 46/2017, avverso le decisioni delle Commissioni territoriali che, dopo l’iter amministrativo, respingono la domanda di protezione internazionale, ovvero riconoscono un tipo di protezione diversa da quella richiesta, lo straniero può proporre ricorso alla Sezione Specializzata del Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello in cui ha sede la commissione territoriale. Ai sensi dell’art. 35, comma 1, d.lgs. 25/2008, il «ricorso va proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento»99. Gli Osservatori, dunque, fermamente convinti che la realizzazione del giusto processo sia connessa alla cooperazione tra giudice e avvocati, hanno reputato necessario soffermarsi sul contenuto del ricorso, veicolo delle richieste dello straniero e mezzo essenziale all’instaurazione di un giudizio che si concluda con una decisione di qualità. Ebbene, in tale quadro nessuno può dubitare della delicatezza che caratterizza il ruolo del difensore nei procedimenti di protezione internazionale: l’avvocato, che prima del giudice viene a conoscenza del conflitto multiculturale, deve possedere un’elevata capacità di analisi e una professionalità distinta, tali da consentirgli una immedesimazione nella situazione di chi, lontano dal suo Paese d’origine, chiede giustizia in Italia100. In altre parole, è l’avvocato lo strumento per mezzo del quale lo straniero aziona le garanzie costituzionali, di cui all’art. 24 e all’art. 10, comma 3. Pertanto, il ruolo del difensore è caricato di significative responsabilità, poiché gli spetta far comprendere al giudice le ragioni sottese alla richiesta di protezione avanzata dallo straniero. Per evitare, dunque, che le parole del richiedente asilo siano imbrigliate in un tecnicismo giuridico che finisce per «snobbare» il diritto dello straniero (il quale potrebbe rischiare di essere reputato dal giudice poco credibile o, comunque, non sufficientemente convincente101), gli Osservatori sulla giustizia civile hanno offerto delle linee-guida con la
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Il termine per proporre ricorso è invece di quindici giorni quando nei confronti del ricorrente è stato adottato un provvedimento di trattenimento ex art. 6 d.lgs. 142/2015. 100 Zorzella, Il ruolo dell’avvocato nel processo di protezione internazionale, in Quest. giust., 2, 2018, 184. 101 Sul punto v. Id., ivi, 186. A ciò va aggiunto che la posizione dello straniero che propone ricorso già risulta abbastanza indebolita da audizioni incomplete, a causa dei ritmi di lavoro insostenibili delle Commissioni. In tal senso, v. Breggia, L’audizione del richiedente
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deliberata finalità di semplificare, da un lato, il lavoro dell’avvocato (portandolo a chiedersi quali questioni dovrà valutare per la redazione del ricorso) e, dall’altro, quello del magistrato che sarà messo nelle condizioni di conoscere la componente culturale di una controversia già dalle domande con cui l’avvocato ha impostato il caso. In buona sostanza, posto che il giudice finirà per leggere solo le carte del processo102, il linguaggio scritto diviene ancora più importante: deve includere profili etnici, psicologici, e antropologici103, rappresentativi della situazione dello straniero104. Dunque, in ossequio alle linee-guida, il ricorso sarà composto di una parte in fatto, nella quale l’avvocato dovrà evidenziare i fatti posti a fondamento della domanda, e una parte in diritto, in cui il difensore metterà in risalto le ragioni in virtù delle quali sarà opportuno fissare un’udienza per ascoltare il richiedente, nonché le argomentazioni che, malgrado il diniego delle Commissioni territoriali, valorizzino la credibilità dello straniero105. Più specificamente, quanto alla prima parte, il ricorso dovrà sottolineare «eventuali discrepanze/ chiarimenti/approfondimenti rispetto a quanto risulta dal verbale dell’audizione di fronte alla commissione territoriale e dal Modello C3» e specificare: - vita del ricorrente (gruppo etnico, eventuale appartenenza religiosa, idioma linguistico, famiglia, scolarizzazione, attività lavorativa, ecc.); - ragioni per cui ha lasciato il paese d’origine; - ragioni per cui chiede protezione; - ragioni per cui è in pericolo se torna nel paese di origine». In relazione, poi, alla seconda parte, le linee-guida prevedono che il difensore dovrà indicare in modo chiaro gli elementi di fatto per cui il richiedente asilo è meritevole di status di rifugiato, precisando, a tal fine, quali siano i motivi della persecuzione che impediscono allo straniero di far rientro nel suo Paese d’origine e gli articoli di legge disciplinanti la fattispecie concreta106. A tal proposito gli Osservatori, nel rispetto degli inviti alla chiarezza e alla concisione già forniti in altre sedi107, suggeriscono di citare gli articoli di legge applicabili, senza ripor-
asilo, cit., 198. Le prassi di un processo esclusivamente cartolare si stanno sempre più frequentemente diffondendo negli uffici giudiziari, ove l’udienza e l’audizione dell’interessato sono rilegate ad ipotesi eccezionali. Sul punto v. amplius, Id., ivi, 193; Zorzella, Il ruolo dell’avvocato, cit., 190. 103 Breggia, ivi, 196. 104 In ogni caso va rilevato che lo scritto non può ritenersi un surrogato dell’audizione. In tal senso v. De Santis, L’eliminazione dell’udienza (e dell’audizione), cit., 206, ove si evidenzia che anche l’oralità è essenziale in quanto instaura quel contatto diretto tra parte e giudice certamente non raggiungibile attraverso la sola scrittura. 105 Cfr. Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, Linee guida in materia di protezione internazionale, consultabile al link www.reggiosservatorio.it/category/gruppo-4. In relazione alle modalità di deposito del ricorso, gli Osservatori hanno previsto che esso avvenga in forma telematica con il deposito sul registro di contenzioso civile del ricorso, della procura alle liti, della nota di iscrizione a ruolo, dell’estratto riassuntivo dei dati del fascicolo e degli allegati. Nel caso in cui la causa sia iscritta a ruolo in forma cartacea, allora il ricorso e l’altra documentazione menzionata saranno depositati in Cancelleria oppure spediti. 106 Analogamente, nella richiesta di protezione umanitaria, l’avvocato avrà cura di indicare i presupposti ritenuti sussistenti per ottenere tale tipologia di protezione. 107 Sul punto si rinvia a De Stefano, La sinteticità degli atti processuali civili di parte nel giudizio di legittimità, in Quest. giust., 24 novembre 2016; Guernelli, Il linguaggio degli atti processuali fra norme, giurisprudenza e protocolli, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 102
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tare per intero il loro contenuto, di inserire i richiami giurisprudenziali in modo puntuale e di produrre i documenti comprovanti la situazione del Paese108. Inoltre, le linee guida consigliano di inserire nel ricorso eventuali questioni di legittimità costituzionale che si chiede al Tribunale di sollevare109, nonché di specificare le ragioni di fatto e di diritto a fondamento della domanda di sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione impugnata. È evidente, quindi, che il difensore, al fine di predisporre un ricorso che tenga conto del contesto di vita del ricorrente, avrà il dovere di raccogliere tutte le informazioni necessarie per comprendere (e far comprendere all’organo giurisdizionale) il progetto di vita dello straniero all’interno della società ospitante110.
4. Conclusioni. Alla luce dei suggerimenti offerti dagli Osservatori, giova sottoporre all’attenzione del lettore le seguenti considerazioni. Certamente le linee-guida risultano in perfetta assonanza con l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale. In altre parole, l’esaustività dell’atto introduttivo del procedimento di cui all’art. 35 d.lgs. 25/2008 serve ad attuare il diritto ad un ricorso effettivo «che è il principale strumento per garantire l’effettivo godimento di tutti i diritti riconosciuti alle persone siano cittadini o stranieri»111. In buona sostanza, l’esigenza di redigere un ricorso completo impone alla difesa di dare risalto a quegli aspetti preminenti della cultura del ricorrente, per consentire all’organo giudicante di essere investito della questione con maggiore facilità112 e di decidere considerando le argomentazioni poste a fondamento del ricorso dello straniero, senza prescindere dal caso concreto. Ciò vuol dire anche innalzamento degli standard qualitativi del ricorso (e della decisione) e, dunque, una diversa formazione di avvocati e magistrati113, i quali dovranno acquisire una vera e propria specializzazione per la trattazione della materia de qua.
485; Carpi, La tecnica di formazione del ricorso per cassazione, id., 2004, 1017; Scarselli, Note sulle buone regole redazionali dei ricorsi per cassazione in materia civile, in Foro it., 2016, 61; Storto, Il principio di sinteticità negli atti processuali, in Giusto proc. civ., 2015, 1191 ss. 108 Più in particolare le linee-guida suggeriscono di evitare di indicare dei link dai quali reperire le informazioni dato che la pagina internet di cui all’indirizzo riportato potrebbe non essere consultabile dopo un certo tempo. 109 Per esempio, quelle concernenti la mancata audizione del ricorrente. 110 In tal senso, v. Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, Linee guida, cit. 111 Queste le parole di Favilli, L’unione che protegge, cit., 33. L’autrice specifica che è proprio in seguito al ricorso che lo straniero può esercitare tutti gli altri diritti connessi allo status. 112 A tal fine il ricorso dovrà essere corredato di documenti idonei a dimostrare la condizione di vita del rifugiato, in particolare, documentazione medica e fotografica. Le linee-guida suggeriscono, inoltre, di verificare preliminarmente se la componente culturale sia utilizzabile, e ciò al fine di cassare un impiego esclusivamente opportunistico e strategico dell’argomento culturale, spesso impiegato per giustificare pratiche false o, comunque, non riconosciute dal popolo di appartenenza dello straniero. 113 Breggia, L’audizione del richiedente asilo, cit., 204.
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È evidente, tuttavia, che la predisposizione del ricorso in un lasso temporale brevissimo – trenta giorni dalla notificazione del provvedimento della Commissione territoriale – mal si concilia con le esigenze diffuse di esaustività dell’atto introduttivo di cui all’art. 35 d.lgs. 25/2008114. Del resto, la sanzione dell’inammissibilità, che consegue a un ricorso tardivo, induce inevitabilmente l’avvocato a sottoporre alla cognizione del giudice una vicenda poco approfondita, carente di quei particolari essenziali per la pronuncia di una decisione di qualità e perfettamente confacente al caso concreto. Ciò posto, è discutibile che il giudice sia in grado di pronunciare una decisione esclusivamente sulla base del ricorso (e dei relativi documenti allegati). Orbene, se è indubbio che un atto introduttivo esaustivo sia propedeutico ad una decisione ugualmente esauriente e rispondente ai bisogni del richiedente, è altrettanto incontestabile che il colloquio con il migrante costituisca il fulcro del procedimento in materia di protezione internazionale. Peraltro, tale assunto si rivela in perfetta armonia con le idee degli Osservatori sulla giustizia civile che hanno da sempre visto il magistrato non come un arbitro passivo115, ma come un soggetto che coopera con gli altri attori processuali. D’altronde, nelle linee-guida sopra menzionate, la predisposizione di un ricorso di qualità non è affatto vista come un surrogato dell’audizione del richiedente asilo. Invero, gli Osservatori, proprio alla luce del dovere di cooperazione del giudice, hanno evidenziato l’esigenza che lo straniero sia ascoltato, tanto nelle cause soggette a rito sommario – ove il processo si svolgerà in un’unica udienza nella quale il ricorrente verrà sentito, con la presenza obbligatoria del suo difensore- quanto in quelle iscritte dopo il 18.08.2017, soggette al rito camerale – ove, in mancanza di videoregistrazioni dell’audizione in sede di Commissioni territoriali, si procederà all’audizione del richiedente asilo116. Pertanto, può ritenersi che il diritto ad una tutela effettiva in materia di protezione internazionale117 vada valutato, ex ante, nella predisposizione del ricorso, nel corso del giudizio attraverso l’audizione dello straniero ed ex post, attraverso una decisione di qualità che tenga conto del caso concreto e delle richieste del ricorrente.
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In tal senso v. Minniti, Introduzione. La Costituzione italiana, cit., 7, ove viene evidenziato che il lasso temporale tra la notifica del provvedimento e l’impugnazione ai sensi dell’art. 35 d.lgs. 25/2008 non consente all’avvocato neppure di conoscere la storia del richiedente asilo. 115 Breggia, L’audizione del richiedente asilo, cit., 204. 116 Gruppo 4: Giustizia, dialoghi transculturali e protezione internazionale, Linee guida, cit., 4. 117 Prevista, anche a livello sovranazionale, dagli artt. 13 e 6 CEDU, dall’art. 47 della Carta di Nizza, dall’art. 46, par. 1 e 3 della Dir. 2013/32/UE. Cfr. la recentissima pronuncia della Suprema Corte, Cass., sez.un., 24 settembre 2018, n. 22438 in www.italgiure. giustizia.it, che afferma che il diritto d’azione e di difesa in giudizio sono preordinati alla realizzazione dell’effettività della tutela giurisdizionale «alla cui realizzazione coopera, in quanto principio mezzo, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.)»; in senso analogo, v. Cass., 4 giugno 2015, n. 11564, in www.neldiritto.it; Cass., sez.un., 19 marzo 2014, n. 6312, in www. neldiritto.it, ove è ribadito che «il principio di effettività della tutela giurisdizionale comprende qualsiasi attività processuale prevista dall’ordinamento, vòlta a rendere concreta la realizzazione dei diritti azionati»; v. pure Cass., sez.un., 6 maggio 2016, n. 9142 in www. italgiure.giustizia.it;
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Il sequestro conservativo di averi bancari nel sistema cautelare di derivazione europea Sommario : 1. Il sistema cautelare di matrice europea. – 2. La tutela conservativa del creditore transfrontaliero. – 3. Il sequestro conservativo europeo di averi bancari. – 4. Segue: Il procedimento cautelare europeo – 5. Segue: I rapporti tra l’OESC e le misure conservative di diritto interno – 6. Segue: I rapporti tra il reg. n. 655/2014 e le altre misure di cooperazione giudiziaria.
Il reg. n. 655/2014 introduce nel settore della cooperazione giudiziaria civile il sequestro conservativo di averi bancari. Con la sua vocazione pan-europea lo strumento si affianca, aggiungendosi, alle misure cautelari di diritto interno eseguibili ai sensi del reg. n. 1215/2012, e concorre con esse alla tutela dei crediti civili e commerciali a carattere transfrontaliero. Il rapporto di alternatività tra i due livelli di tutela impone di indagare le relazioni che si instaurano tra il modello uniforme ed il sequestro conservativo presso terzi disciplinato dall’art. 671 c.p.c., al fine di individuare le fattispecie che si prestano all’applicazione delle norme europee. La trattazione prenderà le mosse da una panoramica del regime cautelare che precede l’introduzione del sequestro di averi bancari e che tuttora presidia l’attuazione dei crediti civili, a latere del nuovo regolamento. In questa prospettiva saranno passate in rassegna le norme che all’interno del reg. n. 1215/2012 imbastiscono un sistema di tutela urgente per i crediti transfrontalieri; saranno evidenziati i limiti di tale sistema e, specularmente, i punti di forza della misura uniforme, prendendo spunto dalle ipotesi in cui viene in rilievo un’esigenza di tipo conservativo. Nella selezione delle fattispecie concrete particolare attenzione sarà dedicata al caso in cui la tutela conservativa si inserisce nelle more dell’esecuzione forzata e si pone come strumentale rispetto alla posizione del creditore titolato. Una volta ricostruito il background normativo su cui si adagia il sequestro bancario, il lavoro procederà con la disamina delle disposizioni che scandiscono il rito delineato dal reg. n. 655/2014. Le battute conclusive saranno dedicate ad un confronto tra il provvedimento di sequestro ed i titoli esecutivi di provenienza comunitaria, avendo cura di evidenziarne assonanze, differenze e sovrapposizioni. Reg. n. 655/2014 established a European account preservation order procedure to facilitate cross-border debt recovery. With its European aptitude, the instrument supports, in addition, national protective measures enforceable under the reg. n. 1215/2012, and contributes with them to the implementation of civil and commercial credits in cross-border cases. The alternation between the two levels of protection requires to investigate the relationships established between the European measure and the preservation order regulated in article 671 c.p.c., in order to identify cases that are suitable for the application of European standards. The discussion will begin with an overview of the provisional system which precedes
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the introduction of reg. n. 655/2014 and which still oversee the implementation of civil claims beside the new Regulation. In this perspective, the essay will trace the rules that set up a provisional system for cross-border claims under reg. n. 1215/2012; it will highlight the limits of this system and, in a specular way, the strengths of the uniform remedy, by basing on the cases in which it appears necessary to adopt a protective measure. Particular attention will be given to the case in which the preservation order is linked to the enforcement of judgments. Once the regulatory background on which the bank attachment is settled has been explained, the text will consider the proceeding outlined by the reg. n. 655/2014. The last lines will be dedicated to a comparison between account preservation order and European enforcement orders, taking care to highlight similarities and differences.
1. Il sistema cautelare di matrice europea. La fase cautelare costituisce un momento imprescindibile nell’esercizio dei diritti. Nel nostro ordinamento riflette esigenze costituzionali di effettività della giustizia1 ed è funzionale ad una tutela giurisdizionale fruttuosa, utile e tempestiva2. Quando i diritti dedotti in giudizio hanno natura patrimoniale, come noto, la tutela provvisoria, sub specie di sequestro conservativo, diventa funzionale alla fruttuosità dell’esecuzione forzata ed opera nell’ottica di preservare la garanzia del credito per tutta la durata del processo di cognizione3. Anche nelle liti transfrontaliere la tutela urgente è legata, come quella interna, alla necessità di preservare il diritto dalle lungaggini dei procedimenti internazionali, in una prospettiva di effettività4.
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Corte Cost. 26 maggio 1998, n. 193. Il dato comparativo rivela che le medesime esigenze sono presenti nell’assetto costituzionale degli altri paesi europei, al punto da far assurgere il canone della effettività a principio generale dell’ordinamento comunitario, desumibile dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali. Nello spazio giudiziario europeo la tutela cautelare è un valore che pervade i rapporti orizzontali tra Istituzioni e i rapporti verticali tra UE e stati membri. In questa seconda direzione, in particolare, essa investe tutte le posizioni soggettive che si originano dal diritto comunitario derivato e che sono azionate davanti alle autorità nazionali (per approfondimenti sul punto si v. Sandrini, La tutela cautelare in funzione dei giudizi esteri, Milano, 2012, 3 ss.). Sono questi i caratteri che la dottrina tradizionale attribuisce alla tutela cautelare (Luiso, Diritto processuale civile, IV, 2013, Milano, 258 ss.). Non è da escludere che, oltre al sequestro conservativo, anche altre misure cautelari possano avere funzione servente rispetto alla tutela di un diritto di credito. Si pensi all’assunzione preventiva di una prova necessaria a dimostrare l’esistenza del credito; oppure alla anticipazione degli effetti di una sentenza di condanna in via d’urgenza, quando il diritto di credito sia correlato a beni infungibili. Si tratta in questi casi di misure strumentali alla fruttuosità della cognizione. Il sequestro conservativo si colloca, invece, in posizione ancillare rispetto alla fruttuosità dell’esecuzione forzata, poiché agisce sulla situazione di fatto al di fuori del processo, là dove il diritto di credito andrà a realizzarsi una volta accertato. Secondo la Corte di Giustizia “l’elemento caratterizzante il provvedimento cautelare è quello di evitare alle parti un pregiudizio derivante dalle lungaggini inerenti a tutti i procedimenti internazionali e di conservare la situazione di fatto e di diritto, onde preservare i diritti dei quali spetterà al giudice del merito accertare l’esistenza” (Corte di Giust., sentenza 28 aprile 2005, causa C-104/03, in Racc., 2005, punto I-3481 ss.). È stato rilevato, peraltro, come nelle liti transfrontaliere in cui le distanze geografiche aggravano le lungaggini processuali, l’esigenza di una tutela conservativa si avverte con evidenza ancora maggiore, non solo durante la fase di accertamento del diritto, ma anche nelle more dell’espropriazione. Difatti, nonostante l’automatismo che oggi connota l’esecuzione delle decisioni nello spazio europeo, non mancano pause processuali che potrebbero compromettere l’attuazione dei diritti di credito [cfr. Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel regolamento (UE) n. 1215/2012 (rifusione), Milano, 2015, 397].
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Nello spazio europeo, peraltro, si aggancia a valori superiori che trascendono la dimensione processuale e sostanziale del credito, per diventare funzionale al corretto svolgimento del mercato interno. A dispetto del valore che la tutela cautelare assume nel contesto sovranazionale, la cooperazione giudiziaria in materia è risultata estremamente minimale5. Nella trama del diritto derivato è possibile rintracciare solo sporadiche disposizioni riguardanti la tutela urgente dei crediti civili e commerciali. Tali norme non introducono misure provvisorie di matrice comunitaria, né intervengono per armonizzare le procedure di diritto interno. Esse piuttosto lambiscono la materia cautelare, soffermandosi su due aspetti: la competenza ad erogare la tutela provvisoria e la circolazione dei titoli cautelari. Sotto il primo profilo le norme europee dettano i criteri per individuare il giudice munito del potere di pronunciare i provvedimenti provvisori. Sotto il secondo profilo stabiliscono le condizioni in presenza delle quali i titoli cautelari, ottenuti in uno stato membro, possono circolare ed essere eseguiti all’interno di un foro diverso. Uno sguardo più da vicino a tali disposizioni è opportuno per meglio comprendere la portata della cooperazione giudiziaria in materia. Le norme alle quali si fa riferimento compaiono nella legislazione comunitaria sin dalla Convenzione di Bruxelles. Travasate nel reg. n. 44/2001, sono oggi riprodotte nel reg. n 1215/2012. L’esame sarà condotto sul testo dell’ultimo regolamento, avendo cura di riportarne in nota i contenuti abrogati. Ai fini dell’indagine è opportuno premettere che nella legislazione processuale di matrice europea non opera la distinzione (rinvenibile nel nostro ordinamento), tra provvedimenti anticipatori e conservativi. Nei testi comunitari si parla di “misure provvisorie o cautelari” con un significato del tutto peculiare poiché, da un lato, il concetto di provvisorietà non appartiene solo ai provvedimenti connotati dal carattere dell’urgenza e, dall’altro, l’aggettivo cautelare non qualifica tutte le misure che nel nostro ordinamento avrebbero natura cautelare, ma solo alcune di esse. Più precisamente, con il termine provvisorie il legislatore europeo individua ad un tempo misure cautelari con carattere anticipatorio, misure con funzione di conservazione della prova, provvedimenti inibitori, ma anche provvedimenti privi di carattere cautelare, come quelli anticipatori di condanna6. Con l’espressione cautelari, invece, si riferisce a provvedimenti di natura “strettamente strumentale e finalizzata alla conservazione del diritto all’esecuzione forzata”, in quanto tali preordinati alla tutela interinale dei diritti di credito7. Per comodità, nel testo che segue il termine cautelare sarà impiegato con riferimento alla tutela urgente nella sua generalità,
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La resistenza manifestata dagli Stati membri verso l’introduzione di norme cautelari uniformi è la medesima che si riscontra in ambito esecutivo, dove il traguardo toccato dalle Istituzioni è rappresentato dalla libera circolazione delle decisioni. Come si avrà modo di vedere nel prosieguo, talvolta il concetto di provvisorietà è riferito a misure strumentali rispetto al giudizio di merito (ovvero, a misure cautelari nel senso in cui le intendiamo nel nostro ordinamento); altre volte, il medesimo termine qualifica provvedimenti slegati dal giudizio di merito e privi di carattere cautelare. Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere, cit., 2015, 399. L’autore richiama a titolo esemplificativo i sequestri conservativi, le misure implicanti obblighi di fare e di non fare funzionali alla espropriazione.
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salvo specificare nelle note sottostanti il significato che nella prospettiva comunitaria viene di volta in volta attribuito alla formula8. L’esplorazione del tessuto normativo può partire da un dato fondamentale attorno al quale gravita l’intero impianto cautelare di derivazione comunitaria. Si tratta della correlazione esistente tra la competenza del giudice di merito, munito di un titolo di giurisdizione, e la competenza cautelare: la prima assorbe la seconda, di modo che il giudice della cognizione sia anche il giudice della cautela. La sovrapposizione delle due sfere giurisdizionali impone al creditore di rivolgere l’istanza cautelare all’autorità incaricata dell’accertamento del diritto, la quale può adottare qualsivoglia misura provvisoria prevista dal proprio diritto processuale, secondo le modalità e i contenuti stabiliti nella propria legislazione9. Il principio appena enunciato è immanente al sistema europeo, non si traduce in una norma positiva, ma trova espressione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia10 e riflette un’impostazione diffusa negli ordinamenti degli Stati membri, dove il momento dichiarativo ed il momento cautelare si concentrano davanti alla medesima autorità giudiziaria, quella competente a conoscere del merito11. Esso assurge a regola sulla competenza cautelare, fornisce un criterio primario di distribuzione della competenza che orienta il creditore nella scelta del foro munito di giurisdizione, tutte le volte in cui l’esigenza cautelare emerge in vista dell’accertamento del diritto (c.d. criterio strumentale). Viene poi in rilievo l’art. 35, reg. n. 1215/201212. La norma prevede un criterio di competenza sussidiario ed alternativo, che entra in gioco quando il riparto della giurisdizione di merito secondo il criterio strumentale, non sia in grado di soddisfare bisogni immediati di tutela13. In base all’art. 35 “I provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti all’autorità giurisdizionale di detto Stato membro anche se la competenza a conoscere del merito è riconosciuta all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro” 14. La disposizione mira a favorire l’adozione di provvedimenti
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È d’obbligo precisare che la stessa formula “misure provvisorie o cautelari” non viene sempre impiegata dal legislatore europeo con la stessa portata. Per approfondimenti sul punto si v. infra. 9 Sulla correlazione tra competenza cautelare e competenza del merito, v. Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere nel regolamento (CE) n. 44/2001, Milano, 2006, 281. Secondo l’autore la concentrazione all’interno del medesimo foro dell’accertamento del diritto e della sua tutela provvisoria sono funzionali all’armonia delle decisioni riconducibili alla medesima situazione sostanziale. 10 CGCE, sentenza 17 novembre 1998, causa C-391/95, Van Uden, in Racc., 1998, p. I-7131, punto 19 e 22. 11 All’interno dell’ordinamento italiano l’impostazione trova conferma negli art. 669-ter e 669-quater c.p.c., che attribuiscono al giudice competente per il merito il potere cautelare. Anche l’art. 10, l. n. 218/1995 prevede il raccordo tra l’istanza cautelare e l’esercizio della giurisdizione sul merito. Nella disciplina comunitaria, secondo Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., ed. 2015, 293 s., l’inerenza della competenza cautelare a quella di merito è un dato “incontroverso”, riscontrabile senza soluzione di continuità, dalla Convenzione di Bruxelles al reg. n. 1215/2012. Come osservato dall’autore, il principio trova un’espressa formulazione nel reg. n. 655/2014, che all’art. 6 attribuisce la competenza ad emettere l’ordinanza di sequestro conservativo al giudice competente per il merito. 12 La norma riproduce in modo invariato il contenuto dell’art. 31, reg. n 44/2001e dell’art. 24 Conv. Bruxelles. Il testo previgente, a norma dell’art. 31, reg. n. 44/2001, era il seguente: “I provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti al giudice di detto Stato anche se, in forza del presente regolamento, la competenza a conoscere nel merito è riconosciuta al giudice di un altro Stato membro”. 13 È il c.d. doppio binario, richiamato in questi termini da Nisi, I provvedimenti provvisori e cautelari nel nuovo regolamento Bruxelles I-bis, in Cuadernos De Dercho Transnational, 2015, 7, 129. 14 La norma fa riferimento a provvedimenti cautelari o provvisori. La Corte di Giustizia ha fornito una interpretazione uniforme di provvedimenti cautelari e provvisori ai sensi dell’art. 35, intendendo come tali quelli “volti alla conservazione di una situazione di
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cautelari all’interno di un foro diverso, c.d. esorbitante, in deroga a quello competente a conoscere il merito, qualora per i tempi necessari alla risposta giurisdizionale e per gli spazi in cui il provvedimento deve trovare attuazione, il giudice del merito non potrebbe erogare una tutela adeguata15. È bene precisare che l’accesso al foro esorbitante non è incondizionato. Per evitare che la deroga autorizzata dal citato art. 35 possa essere impiegata per eludere il riparto di giurisdizione, la giurisprudenza comunitaria ha subordinato il ricorso al foro esorbitante alla sussistenza di un nesso di collegamento effettivo, tra l’oggetto dei provvedimenti richiesti e la competenza territoriale del giudice adito (c.d. criterio esecutivo-territoriale)16. Il legame esecutivo-territoriale, naturalmente, assume connotazioni diverse a seconda del contenuto del provvedimento richiesto. Con riguardo alla tutela che qui interessa, quella conservativa, è la localizzazione territoriale dei beni da sequestrare l’elemento determinante ai fini della competenza17. Una ulteriore opportunità di giurisdizione cautelare è contemplata dall’art. 40 che attribuisce l’autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari nel foro dell’esecuzione alla parte che abbia conseguito in uno degli Stati membri un titolo esecutivo dotato di efficacia paneuropea18. In forza di tale norma, l’autorità dello stato richiesto è investita del potere di emettere le misure cautelari previste dalla lex fori, sulla sola base della sentenza da eseguire, senza pro-
fatto o diritto onde preservare i diritti dei quali spetterà poi al giudice del merito accertare l’esistenza” (Corte di Giustizia, sentenza 26 marzo 1992, causa C-261/90, Reichert, in Raccolta, 1992, I-2149, punto 34). Alla nozione comunitaria appartengono tutti i provvedimenti con carattere strumentale rispetto alla decisione di merito. Non rientrano, pertanto, nella categoria di provvedimento esorbitante le misure che non hanno natura cautelare (rectius: conservativa), come quelle aventi ad oggetto l’assunzione di prove, né i provvedimenti idonei a determinare effetti irreversibili, come i provvedimenti anticipatori di condanna. Vi rientra senz’altro il sequestro conservativo di beni, misura volta a preservare una situazione di fatto in vista del futuro accertamento del diritto. 15 Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 300, nonché Sandrini, La tutela cautelare, cit., 316 i quali si richiamano alla Sentenza Van Uden, punto 46. 16 Sentenza Van Uden, cit., punto 39 della motivazione. Il criterio esecutivo-territoriale è stato precisato dalla successiva giurisprudenza che ha permesso di individuare nel giudice del luogo in cui sono collocati i beni oggetto dei provvedimenti richiesti, l’organo più qualificato per valutare le circostanze che possono giustificare la concessione della tutela: CGCE 17 novembre 1998, parr. 38-41; 27 aprile 1999, par. 42, entrambe richiamate da Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 299. 17 Secondo la giurisprudenza e la dottrina (v. per tutti Sandrini, La tutela cautelare, cit., 318-347), l’art. 31 non pone un titolo autonomo di giurisdizione. Il rinvio in esso contenuto ai criteri previsti dagli ordinamenti nazionali legittimerebbe l’esercizio della competenza esorbitante nella misura in cui una norma interna lo giustifichi. Nel nostro ordinamento, la norma che legittima il giudice italiano all’esercizio della giurisdizione cautelare ai sensi del citato art. 35, è l’art. 10, l. n. 218/1995: “In materia cautelare, la giurisdizione italiana sussiste, qualora il provvedimento debba essere eseguito in Italia”. Come illustrato in dottrina, attraverso questa disposizione l’ordinamento italiano accetta di dare protezione agli interessi delle parti, pur riconoscendosi incompetente sul merito, assicurando alla fattispecie che presenta elementi di estraneità una tutela di efficacia pari a quella che avrebbe erogato in una fattispecie puramente interna (Sandrini, La tutela cautelare, cit., 176). 18 La norma, a differenza dell’art. 35, non fa riferimento alle misure provvisorie, ma appare ritagliata unicamente sulle misure cautelari, ovvero quei provvedimenti che nel linguaggio comunitario hanno la caratteristica di essere preordinati alla conservazione del diritto all’esecuzione forzata, come i sequestri, le misure protettive implicanti obblighi di fare e di non fare, e più in generale tutte quelle di natura strettamente conservativa. L’omissione non è casuale, poiché trattandosi di un meccanismo previsto a tutela del creditore munito di titolo esecutivo, deve ritenersi che l’autorizzazione a procedere a misure cautelari sia stata concepita dal legislatore europeo esclusivamente in vista della concessione di misure conservative e con riferimento alla tutela di diritti di credito. Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 399, rafforza tale conclusione richiamando le altre versioni linguistiche del reg. n. 1215/2012, dove è più chiaro il riferimento all’indole conservativa delle misure in questione (conservatoire nel testo francese, protective nel testo inglese, sicherungsmabnahme nel testo tedesco). Così anche Silvestri, Recasting Bruxelles I: il nuovo regolamento n. 1215 del 2012, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 02, 677.
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cedere all’accertamento del fumus boni iuris e del periculum in mora19. Secondo la dottrina più autorevole è come se la decisione straniera incorporasse i presupposti che giustificano la concessione della tutela cautelare20: in particolare, l’urgenza è insita nel fatto stesso della esecuzione oltre confine, mentre la verosimiglianza del diritto è comprovata dalla presenza del titolo esecutivo. In quest’ordine di idee, come si avrà modo di vedere a breve21, è precluso al giudice dell’esecuzione qualsivoglia apprezzamento sull’opportunità di concedere la tutela urgente, essendo vincolato all’accertamento contenuto nel titolo straniero22. Sulla stessa lunghezza d’onda dell’art. 40 si colloca l’art. 44, norma che attribuisce al giudice dello Stato ad quem il potere di limitare il procedimento esecutivo alla applicazione di misure cautelari, ogni qualvolta il debitore si opponga alla esecuzione transfrontaliera di una decisione23. Viene qui in rilievo una tutela cautelare con funzione sostitutiva dell’espropriazione, la cui efficacia è circoscritta al tempo necessario ad accertare se il titolo europeo sia idoneo a fondare un’esecuzione oltre frontiera. A differenza delle altre disposizioni esaminate, quest’ultima non ha un precedente nel sistema di esecuzione e riconoscimento che fa capo al reg. Bruxelles I, ma è una conseguenza del meccanismo automatico di esecutività che compare nel reg. n. 1215/201224. L’art. 44, nello specifico, si presenta come una norma speculare rispetto
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L’automatismo che contrassegna la concessione di misure conservative nell’ambito del reg. n. 1215/2012 era già presente nel reg. n. 44/2001 e, ancora prima, nella Convenzione di Bruxelles, dove la tutela cautelare seguiva, quale effetto automatico, al decreto di esecutività apposto alla decisione nazionale. Il meccanismo attuale, tuttavia, si rivela molto più immediato rispetto al passato: esso riflette l’automatismo che connota oggi il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, in forza del quale i titoli esecutivi sono immessi nella circolazione infra comunitaria per il solo fatto di essere stati pronunciati in uno stato membro, senza una dichiarazione di esecutività. Per un approfondimento sul punto v. infra. 20 Secondo Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere, cit., 2015, 398, la circolazione del titolo esecutivo in stati membri diversi da quello di origine “incorpora i presupposti per il rilascio di provvedimenti cautelari in favore dell’avente diritto”. Con riferimento al reg. n. 44/2001, ma con argomentazioni estensibili al nuovo sistema di esecuzione e riconoscimento, l’autore sostiene che il legislatore europeo abbia attribuito alla decisione straniera valore di prova legale, non solo circa l’esistenza del diritto, ma anche ai fini dell’urgenza (Id., Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere, cit., 2006, 373. 21 V. infra, nel paragrafo successivo. 22 Salerno, Giurisdizione ed efficacia delle decisioni straniere, cit., ed. 2006, 373. L’autore richiama in proposito la sentenza 3 ottobre 1985, causa 119/84, Capelloni, chiarendo che lo scopo perseguito dalla norma è quello di offrire al creditore che si accinge ad eseguire la decisione, uno strumento che precluda al debitore atti dispositivi sui propri beni. 23 Il rimedio europeo risulta di difficile inquadramento nel nostro sistema processuale (così anche Farina, Titoli esecutivi europei ed esecuzione forzata in Italia, Roma, 2012, 297). Invero, fatta eccezione per il potere di sospendere l’espropriazione forzata, il giudice dell’esecuzione nell’ordinamento italiano non ha una competenza cautelare generalizzata. A parere degli interpreti la fattispecie sembra compatibile con i sistemi giudiziari belga e francese che attribuiscono la competenza a pronunciare misure in funzione conservativo-esecutiva proprio al giudice dell’esecuzione (D’Alessandro, Il titolo esecutivo europeo nel sistema del regolamento n. 1215/2012, in Riv. dir. proc., 2013, 1064). V’è da chiedersi, tuttavia, se l’istituto previsto dall’art. 44, reg. n. 1215/2012 possa essere valorizzato anche nel nostro sistema giudiziario, non tanto in forza delle norme interne, quanto sulla scorta del diritto europeo e, precisamente, sulla base del reg. n. 655/2014 che istituisce il sequestro conservativo europeo di averi bancari, che come si avrà modo di vedere a breve risulta adattabile anche alle situazioni in cui è presente un titolo esecutivo. 24 Il meccanismo sostitutivo delineato dall’art. 44, reg. n. 1215/2012 compare anche nei più recenti strumenti di cooperazione giudiziaria. L’art. 23 dei regolamenti n. 805/2004, n. 1896/2006 e n. 861/2007 è rubricato “Sospensione o limitazione dell’esecuzione” e riproduce grossomodo il contenuto dell’art. 44, reg. n. 1215/2012. Come anticipato nel testo, il rimedio costituisce una novità dell’attuale sistema di esecuzione e riconoscimento e non trova un precedente nel reg. n. 44/2001, né nella Convenzione di Bruxelles. Invero, nel regime di esecuzione e riconoscimento che fa capo alla Convenzione ed al Regolamento Bruxelles I, in pendenza del termine per proporre opposizione e durante il giudizio di opposizione all’exequatur, era inibito al creditore intraprendere l’esecuzione forzata (cfr. art. 39 Conv. e art. 47, co. 3, reg. n. 44/2001). Viceversa, nel sistema che fa capo al reg. n. 1215/2012 ed ai regolamenti n. 805/2004, n. 1896/2006 e n. 861/2007, il titolo esecutivo è posto direttamente a fondamento dell’espropriazione e legittima il creditore ad intraprendere immediatamente il pignoramento, per il solo fatto che sia stata attestata dal giudice d’origine l’efficacia paneuropea del
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all’art. 40, che trova applicazione ogniqualvolta il creditore, dopo aver conseguito l’attestato di esecutività europea nello Stato d’origine, abbia deciso di intraprendere l’espropriazione nello Stato richiesto (sfruttando la vocazione transfrontaliera del titolo nazionale), e il debitore, dal suo canto, abbia messo in discussione l’efficacia europea della decisione, proponendo nel corso dell’espropriazione una domanda di diniego25. Il panorama delle norme uniformi va completato con l’analisi dell’art. 2 che il reg. n. 1215/2012 detta in relazione alla circolazione dei titoli cautelari. L’art. 2 inserisce i provvedimenti provvisori e cautelari26 fra le decisioni idonee a circolare liberamente nello spazio giudiziario europeo, accanto alle sentenze di condanna, agli atti pubblici e alle transazioni, estendendo il regime automatico di esecuzione previsto per i titoli esecutivi anche ai titoli cautelari27. Per effetto della disposizione la parte che ha otte-
provvedimento da eseguire. Sugli effetti della domanda di diniego v. infra. 26 Il dato testuale richiama ancora una volta il concetto di provvedimenti provvisori e cautelari, già preso in considerazione nell’esame della competenza esorbitante prevista dall’art. 35. Come sottolinea Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 318, la nozione uniforme di provvedimenti provvisori e cautelari rilevante ai fini della libera circolazione delle decisioni ai sensi dell’art. 2, non coincide con quella fatta propria dall’art. 35. Si è visto poc’anzi che le misure cautelari ottenibili nel foro esorbitante sono quelle strettamente legate al giudizio di merito e dotate di immediata efficacia esecutiva nello Stato in cui sono adottate. Diversamente, quelle idonee a circolare liberamente sono sganciate dal criterio della strumentalità: l’unico requisito richiesto dal reg. n. 1215/2012 è che siano adottate dal giudice del merito. Potranno, pertanto, circolare nello spazio europeo, a norma dell’art. 2, anche misure anticipatorie di condanna, come le ordinanze provvisionali ex art. 186-bis, ter, quater c.p.c., i référé francesi, purché diversi, per il loro connotato di provvisorietà, dai provvedimenti a carattere definitivo. 27 È opportuno precisare in proposito che il considerando n. 25 del reg. n. 1215/2012, facendo propria la giurisprudenza comunitaria (Sentenza St. Paul Dairy, in Racc., 2005, I-3481, punto 13), esclude dalla circolazione europea i provvedimenti che ordinano l’assunzione di prove a futura memoria, in quanto privi di carattere cautelare (rectius: conservativo). La norma fa, però, salva l’applicazione del reg. n. 1206/2001 relativo alla cooperazione giudiziaria nel settore dell’assunzione delle prove ed include espressamente, tra i provvedimenti provvisori che beneficiano di esecuzione automatica, le ordinanze dirette ad ottenere informazioni o a conservare le prove di cui alla direttiva n. 48/2004 in materia di proprietà intellettuale. Nel quadro che si delinea dalla combinazione dell’art. 2 e del considerando n. 25, merita un rapido cenno il regime di circolazione al quale è sottoposta la consulenza tecnica preventiva con funzione conciliativa, disciplinata dall’art. 696-bis c.p.c. La norma, come noto, affida al consulente tecnico il compito di accertare e determinare ante causam i crediti derivanti da inadempimento contrattuale o da fatto illecito, al fine di tentare, sulla scorta del risultato peritale, la conciliazione dei litiganti (si v. per tutti Muroni, La duplice funzione della consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. ai fin della definizione del relativo ambito di applicazione, in Responsabilità Civile e Previdenza, 11, 2010, 2326). In caso di accordo, il verbale di conciliazione costituisce titolo valido ai fini dell’esecuzione forzata. In una dimensione transazionale, il verbale al quale il giudice con decreto conferisce efficacia di titolo esecutivo può circolare nello spazio europeo ai sensi dell’art. 2, lett. b), reg. n. 1215/2012. Il regolamento, infatti, annovera fra gli atti idonei a diventare titoli esecutivi europei, le “transazioni giudiziarie approvate dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro o concluse davanti all’autorità giurisdizionale di uno Stato membro nel corso di un procedimento”. La nozione comprende oggi non solo le ipotesi di conciliazione giudiziale contenziosa, ma anche le fattispecie di conciliazione stragiudiziale, in cui l’accordo, emerso in una sede esterna al processo, è sottoposto al giudice per l’omologazione (sulla nozione di transazione giudiziaria rilevante ai fini che qui interessano si rimanda allo scritto di Farina, Il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati, in Nuove leggi civili commentate, 2005, 1-2, 55). Tuttavia, la doppia anima dell’istituto (deflattiva e di istruzione preventiva), impone di interrogarsi sulle sorti della perizia elaborata dal consulente tecnico per l’ipotesi che l’accordo finalizzato alla conciliazione non venga raggiunto. A norma del comma 5 dell’art. 696-bis c.p.c., nell’eventualità che la conciliazione non intervenga, la misura conserverà la sola vocazione probatoria e potrà essere acquisita agli atti del successivo giudizio di merito, previa valutazione dell’ammissibilità e della rilevanza del mezzo, alla stregua delle altre misure di istruzione preventiva. Essa, in definitiva, si comporta come un atp ex art. 696 c.p.c., con la differenza che ai fini dell’art. 696-bis c.p.c., la tutela cautelare del diritto processuale alla prova non è subordinata al requisito dell’urgenza. Assimilata ad un accertamento tecnico preventivo, nel regime di esecuzione e riconoscimento, la perizia elaborata ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. dovrebbe subire le preclusioni che l’art. 2, reg. n. 1215/2012, in combinato disposto con il considerando n. 25, fissa in relazione alle decisioni giudiziarie: l’accertamento preventivo condotto dal consulente, per la sua strumentalità rispetto al diritto processuale alla prova non rientra nella categoria dei “provvedimenti provvisori e cautelari” e, pertanto, non è idoneo alla libera circolazione sul territorio europeo. Dubbia appare anche la compatibilità del rimedio con la disciplina europea in materia di assunzione delle prove, contenuta nel reg. n. 1206/2001. Il regolamento detta norme uniformi per garantire l’assunzione di prove in un ordinamento 25
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nuto un provvedimento cautelare all’interno di uno Stato membro può dargli attuazione in un foro diverso senza che sia necessario munirlo di exequatur28, esattamente alla stregua di una misura di diritto interno. Il sistema privilegiato di riconoscimento ed esecuzione previsto dalla norma ora in commento non ha una portata generalizzata, ma concerne solo alcune misure cautelari29: quelle pronunciate dal giudice del merito nel contraddittorio tra le parti30, ovvero, quelle emesse inaudita altera parte, che siano state comunicate al debitore prima di essere eseguite. Per espressa previsione del considerando n. 33, rimangono fuori dal canale della circolazione automatica le misure ex parte (da eseguirsi senza preventiva comunicazione al debitore31), e le misure adottate nel foro esorbitante ai sensi dell’art. 3532, le quali presentano una efficacia territoriale limitata all’ordinamento in cui vengono adottate33.
diverso da quello in cui si svolge il giudizio di merito ed opera sia nelle ipotesi in cui la richiesta istruttoria venga formulata in corso di causa, sia nelle fattispecie in cui l’esigenza probatoria emerga in relazione ad un procedimento giudiziario “previsto” (cfr. art. 1, reg. n. 1206/2001). Nello scenario europeo sono ammesse due modalità di assunzione: quella diretta, da parte dell’autorità giudiziaria richiedente, e quella indiretta, per mezzo delle autorità dello Stato richiesto. In entrambi casi l’espletamento della prova avviene secondo le norme dello Stato richiesto. In questa diversa prospettiva occorre domandarsi se le parti di un giudizio che si svolge in Italia possano avvalersi all’estero dell’accertamento di cui all’art. 696-bis c.p.c., ovvero se possano assumere in un altro stato membro un mezzo di prova che abbia le fattezze della consulenza con funzione conciliativa. Sotto il profilo strutturale la disciplina europea appare senz’altro compatibile con l’indole “preventiva” dell’accertamento tecnico disposto ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c., in quanto il regolamento contempla espressamente la possibilità di assunzione della prova ante causam. Tuttavia, la vocazione conciliativa che connota in radice l’istituto, a parere di chi scrive, trascende l’ambito applicativo regolamento, preordinato al solo scopo di soddisfare esigenze probatorie, non anche finalità conciliative. (Sull’assunzione dei mezzi di prova nello spazio giudiziario europeo si v. Campeis, De Pauli, La disciplina europea del processo civile italiano, Milano, 2005, 225 s.). 28 La norma ora in commento presenta una formulazione innovativa rispetto alle precedenti versioni. Il reg. n. 44/2001 e la Convenzione di Bruxelles, invero, non contemplavano espressamente le misure cautelari tra le decisioni idonee a circolare nello spazio giudiziario europeo. Quella attuale, tuttavia, è una innovazione solo formale, poiché la giurisprudenza comunitaria, chiamata a fornire una nozione uniforme di decisione nell’ambito dei precedenti strumenti di cooperazione giudiziaria, ne aveva già esteso la portata anche ai provvedimenti cautelari (Corte Giust., sent. 21 maggio 1980, C-125/79, Denilauer, in Racc., 1980, p. 1553). Rispetto al passato la novità risiede, si ripete, nel meccanismo di attribuzione degli effetti esecutivi ai provvedimenti, estremamente semplificato, se posto a confronto con il previgente sistema di esecuzione e riconoscimento, appesantito dal filtro delle procedure intermedie. 29 Una lettura del considerando n. 33 è fondamentale per chiarire l’orizzonte esecutivo che si delinea per le misure cautelari nell’ambito del reg. n. 1215/2012: “Quando sono adottati provvedimenti provvisori, compresi i provvedimenti cautelari, da parte di un’autorità giurisdizionale competente a conoscere nel merito, dovrebbe esserne assicurata la libera circolazione a norma del presente regolamento. Tuttavia i provvedimenti provvisori, compresi i provvedimenti cautelari, disposti da un’autorità giurisdizionale senza che il convenuto sia stato invitato a comparire, non dovrebbero essere riconosciuti ed eseguiti a norma del presente regolamento, a meno che la decisione comprendente il provvedimento sia stata notificata o comunicata al convenuto prima dell’esecuzione. Ciò non osta a che i provvedimenti siano riconosciuti ed eseguiti a norma della legislazione nazionale. Quando invece i provvedimenti provvisori, tra cui anche quelli cautelari, sono disposti da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro che non è competente a conoscere nel merito, la loro efficacia a norma del presente regolamento dovrebbe limitarsi al territorio dello Stato membro interessato”. 30 Per riprendere l’espressione usata dalla dottrina più autorevole, “il provvedimento cautelare adottato … dal giudice competente per il merito non conosce limiti di efficacia spaziale” (Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 294). 31 Il considerando n. 33 riproduce la chiusura nei confronti dei provvedimenti inaudita altera parte già manifestata dalla sentenza Denilauer sopra citata. 32 Con l’esclusione delle misure esorbitanti dal canale della circolazione automatica il reg. n. 1215/2012 ha imposto una connotazione restrittiva al nuovo sistema di esecuzione e riconoscimento. In effetti nell’ambito del regolamento n. 44/2001 non era presente una simile preclusione e la giurisprudenza che si era sviluppata sul punto si era espressa in senso favorevole alla libera circolazione di tali misure (Corte Giust. 21 maggio 1980, causa C-125/79, Denilauer, in Raccolta, 1980, 1571, par. 17 e Corte Giust. 27 aprile 1999, causa C-99/96, Hans-Her-Mietz, in Raccolta, 1999, p. I-2317, par. 53 e 55). Secondo la dottrina (N. Nisi, op. cit., 133-134), la scelta contenuta nel regolamento n. 1215/2012 troverebbe un precedente in una recente pronuncia della Corte di Giustizia emessa in relazione al reg. Bruxelles II-bis n. 2201/2003 (sentenza 15 luglio 2010, causa C-256/09, Parrucker, in Raccolta, 2010, I-7353). 33 La esclusione dei provvedimenti provvisori adottati dal foro esorbitante dal nucleo di misure liberamente eseguibili nello spazio europeo è stata duramente criticata per i rischi legati alla sua applicazione. Nisi, op. cit., 136, in particolare, sostiene che per effetto
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L’esame appena condotto sulle norme europee rivela il carattere frammentario della disciplina uniforme, la quale appare circoscritta a profili, per così dire, esterni al processo. La competenza cautelare e la circolazione delle misure provvisorie sono, infatti, aspetti che si collocano alle estremità del rito cautelare: il primo (quello relativo alla competenza) attiene ad una fase preliminare all’instaurazione del giudizio, il secondo (quello relativo alla circolazione) attiene ad una fase successiva ed eventuale. A ben vedere, il cuore della tutela è lasciato al diritto interno: al di fuori dei due profili attratti nell’orbita del legislatore europeo, la tutela cautelare dei crediti transfrontalieri rimane esclusivo appannaggio del legislatore nazionale, il quale individua in piena autonomia le regole del procedimento, il contenuto delle misure e i presupposti per la concessione della tutela. In altri termini gli Stati membri rimangono artefici della disciplina applicabile nei rispettivi territori e mantengono sotto il proprio imperium la tutela cautelare dei crediti destinati a ricevere attuazione entro i loro confini. Non esiste un sistema cautelare di matrice europea, ma un mosaico di sistemi cautelari ai quali corrisponde una varietà di misure provvisorie (quelle in vigore nei singoli Stati membri), coordinate dalle norme comuni sulla circolazione e sulla competenza. D’altra parte, manca una nozione uniforme di misura cautelare che possa in qualche modo assicurare una applicazione omogenea delle norme regolamentari34. Il creditore che voglia realizzare la propria pretesa nell’ambito dello spazio giudiziario europeo si muove, dunque, all’interno di un impianto pluralistico in cui le norme processuali in concreto applicabili variano in ragione del paese in cui la tutela è richiesta.
2. La tutela conservativa del creditore transfrontaliero. Uno sguardo alla posizione del creditore coinvolto in una controversia transfrontaliera può meglio chiarire il funzionamento di un sistema di tutela giurisdizionale così eterogeneo. L’indagine si soffermerà sui momenti in cui può sorgere un’esigenza cautelare di tipo conservativo e avrà riguardo alle norme processuali di volta in volta applicabili. Viene in considerazione in primo luogo la situazione in cui il titolare del diritto di credito abbia già intrapreso, o stia per intraprendere, un giudizio per ottenere la condanna del debitore all’adempimento.
della preclusione che si viene ad instaurare, qualora l’attore volesse rivolgere la domanda cautelare ad un giudice diverso da quello competente per il merito, dovrebbe presentare la domanda in ogni stato in cui voglia eseguire il provvedimento, con il rischio di proliferazione dei procedimenti ed un notevole aumento dei costi. D’altra parte, il debitore convenuto potrebbe sfruttare a proprio favore la limitata efficacia territoriale del provvedimento pronunciato dal giudice esorbitante, spostando altrove i propri beni in prossimità della concessione della misura ed eludendo facilmente l’espropriazione. 34 Come si è avuto modo di osservare, la giurisprudenza europea ha di volta in volta riempito di contenuto le disposizioni che si richiamano al concetto di provvedimenti provvisori e cautelari, dando ad esso una connotazione diversa a seconda dell’ambito in cui viene in rilievo.
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In questo caso il periculum35, che di norma sorregge l’esigenza cautelare, è aggravato dai tempi della trattazione, dilatati dalla complessità delle procedure e dalle distanze geografiche che separano le parti. Ogni attività processuale assume una dimensione transnazionale, dalla notifica dell’atto introduttivo all’assunzione dei mezzi di prova fino alla sentenza36, ritardando oltremodo l’erogazione della giustizia. Se si tiene conto delle coordinate tracciate sopra, in tali circostanze il bisogno di tutela del creditore è rivolto al giudice del merito (ovvero al giudice che sarebbe competente per il merito qualora la domanda cautelare sia formulata ante causam). Quando la competenza a decidere il merito appartiene al giudice di un altro Stato, il creditore deve avvalersi della tutela offerta dalla giurisdizione straniera: si tratta nello specifico di attivare il rito cautelare disciplinato dalla lex fori per pervenire alla pronuncia della misura che all’interno di quel sistema processuale meglio realizza l’esigenza conservativa del creditore37. In alternativa alla scelta appena vista, quando il giudice del merito non sia in grado di offrire una risposta giurisdizionale immediata, il creditore potrebbe indirizzare l’istanza al giudice del luogo in cui si trovano i beni da espropriare (il c.d. foro esorbitante), come prevede l’art. 35 reg. n. 1215/2012. Anche qui, tuttavia, la cautela si realizza invocando la disciplina applicabile in quel territorio, mediante la scelta del provvedimento che più si adatta alla posizione da tutelare, secondo la prassi giudiziaria in vigore in quello Stato38. Un’esigenza cautelare di tipo conservativo potrebbe, poi, venire in rilievo nell’ipotesi in cui il creditore abbia già conseguito il titolo esecutivo all’interno uno Stato membro, e debba azionarlo nell’ordinamento in cui il debitore ha medio tempore trasferito il proprio domicilio o nello Stato in cui si trovano beni da espropriare. Nelle more dell’esecuzione transfrontaliera, l’esigenza cautelare può assumere diverse sfaccettature e sorgere in relazione a diversi bisogni di tutela. Si spiega, innanzitutto, in ragione dei tempi che occorrono al creditore per trasferire il titolo esecutivo da uno stato
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Nelle more dell’accertamento, il timore di perdere la garanzia del credito, tipizzato nel nostro ordinamento dall’art. 671 c.p.c., si concretizza a fronte di elementi oggettivi e soggettivi. I primi concernono la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito; i secondi sono riferibili al comportamento del debitore, il quale assume iniziative tali da lasciare presumere l’intenzione di provocare il depauperamento del proprio patrimonio. Per una qualificazione del periculum in mora in relazione al sequestro nel nostro ordinamento si rimanda a Potosching, Il sequestro conservativo, in Il processo cautelare, a cura di Tarzia, Padova, 2004, 3, 23 ss.). 36 Sandrini, La tutela cautelare, cit., 13. L’autrice richiama a titolo esemplificativo la notificazione da eseguirsi all’estero e l’assunzione dei mezzi di prova. 37 La differenza fra i presupposti che i vari ordinamenti stabiliscono per la concessione dei sequestri, in questa prima ipotesi, favorisce il fenomeno del forum shopping. È stato in proposito osservato come, a fronte di una pluralità di fori competenti, il creditore avvezzo alle pratiche transfrontaliere potrebbe scegliere di promuovere l’azione nel foro più conveniente, laddove i requisiti per l’accesso alla tutela cautelare sono meno rigorosi, risultando così avvantaggiato rispetto al creditore meno esperto. Si verrebbe a creare una situazione in cui la tutela cautelare non è omogenea, o meglio, non è fruibile in modo omogeneo da tutti gli operatori del commercio internazionale, i quali si troverebbero più o meno agevolati a seconda del foro in cui agiscono. A ciò si aggiunga la difficoltà di localizzare i beni pignorabili in quegli ordinamenti che non dispongono di procedure atte allo scopo: in queste realtà giuridiche la tutela del creditore è meno efficace rispetto a quella che potrebbe essere ottenuta da un altro creditore all’interno di un foro in cui i patrimoni del debitore sono “più trasparenti” (Sandrini, La procedura per l’adozione dell’ordinanza europea di sequestro conservativo dei conti bancari, in P. Franzina, A. Leandro (a cura di), Il sequestro europeo di conti bancari, Milano, 2015, 30). 38 Peraltro, secondo il considerando n. 33, il provvedimento esorbitante non potrà circolare in altri ordinamenti, ma avrà una efficacia esecutiva limitata allo stato del foro.
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all’altro, per munirlo di esecutività europea, per avviare il pignoramento ed individuare un legale che possa seguire da vicino le vicende dell’espropriazione forzata. Tutti adempimenti, quelli elencati, che ritardano l’azione esecutiva e mettono il debitore in condizione di trasferire altrove i depositi bancari, di occultare i beni mobili e di alienare quelli immobili. Senza dubbio, con l’entrata in vigore del reg. n. 1215/2012, i tempi necessari al compimento delle attività preliminari all’esecuzione transfrontaliera si sono ridotti. Il Regolamento riforma il sistema di esecuzione e riconoscimento delle decisioni che fa capo al reg. n. 44/2001, istituendo un regime di piena libertà di circolazione, in cui il creditore consegue l’attestato di esecutività europea nel paese d’origine e porta ad attuazione il titolo esecutivo nei luoghi in cui si trovano i beni da pignorare senza subire il filtro delle autorità dello Stato richiesto. Gli interpreti parlano a riguardo di esecuzione automatica dei titoli diritto interno39, di presunzione di efficacia delle decisioni40, proprio per evidenziare una attitudine naturale dei titoli nazionali all’espropriazione oltre confine. Un filo diretto, insomma, tra l’emissione del titolo nello Stato di provenienza e la sua attuazione nello Stato ricevente che apparentemente non lascia margini di manovra al debitore. Non per questo, tuttavia, è da escludere che l’iniziativa fraudolenta dell’esecutato possa insinuarsi efficacemente nelle more dell’espropriazione. Il rischio di perdere la garanzia del credito rimane concreto quando il patrimonio da aggredire sia costituito da beni mobili o da crediti presso terzi, più facilmente trasferibili rispetto agli immobili. Senza contare il rischio connaturato ai tempi di alcune prassi giudiziarie che subordinano il compimento del primo atto esecutivo al decorso di un ampio termine dalla notifica titolo41. Accanto all’ipotesi appena vista, che pare fisiologica nell’ottica di un’esecuzione transnazionale, esistono due ulteriori circostanze in cui il creditore titolato potrebbe aspirare alla tutela urgente prima del pignoramento. Sono i casi in cui, nel frangente compreso tra il rilascio del titolo nel paese d’origine e la sua attuazione nello Stato ricevente, il debitore proponga domanda di diniego dell’esecuzione ai sensi dell’art. 46, ovvero il creditore, avvalendosi del rimedio previsto dall’art. 36, co. 2, chieda alle autorità dello Stato ricevente di accertare che non sussistano condizioni ostative al riconoscimento. Si tratta di due facoltà speculari, il cui esercizio si innesta sul percorso attuativo della decisione straniera alla stregua di una parentesi di cognizione, provocando spesso uno stallo nella vicenda esecutiva. Più nel dettaglio, la prima, sulla falsariga di una opposizione preventiva all’esecuzione ex art. 615 co. 1 c.p.c., mira a neutralizzare l’efficacia transfrontaliera del titolo, prima ancora che venga attuato. La seconda, al contrario, è volta a rimuovere ogni incertezza sulla idoneità del titolo a fondare un’esecuzione oltre confine.
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Nel sistema Bruxelles I-bis, gli effetti esecutivi sono riconosciuti in forza di una “presunzione di automatica eseguibilità” posta dal Regolamento. L’espressione appartiene a D’Alessandro, Il titolo esecutivo europeo nel sistema del regolamento n. 1215/2012, in Riv. dir. proc., 2013, 1044. 40 Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 320, ed. 2015. 41 Nisi, Malatesta, Le novità in tema di esecuzione e riconoscimento delle decisioni, in Vitellino, La riforma del regolamento Bruxelles I, 2016, Milano, 158 richiamano l’esperienza dei Paesi Bassi.
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A ben vedere, le due azioni sono correlate al funzionamento del nuovo sistema di circolazione delle decisioni, ma non sono del tutto inedite rispetto al regime che fa capo al reg. n. 44/2001. Per meglio comprenderne le dinamiche e capire come si accompagnano ad un bisogno di tutela cautelare pare opportuno esaminarle in relazione al previgente quadro normativo. La domanda di diniego riecheggia l’opposizione al decreto di exequatur, che nel regolamento n. 44/2001 faceva da contraltare alla libera circolazione dei titoli esecutivi. In quel contesto era dato al debitore opporsi alla dichiarazione di esecutività entro un mese dalla sua notificazione, mentre in pendenza del termine per proporre opposizione e nel corso del giudizio, era inibito al creditore procedere ad espropriazione forzata. Il vuoto di tutela esecutiva era compensato con un accesso diretto alla tutela cautelare, sub specie di tutela conservativa42. La riforma del 2012 ripropone il rimedio, ma introduce due correttivi: per un verso rimuove i limiti temporali alla contestazione del debitore, legittimandolo a proporre opposizione sia prima del pignoramento (subito dopo la notifica dell’attestato di esecutività europea)43, sia dopo il suo inizio; per altro verso, abilita il creditore ad intraprendere l’esecuzione indipendentemente dalla contestazione del debitore, ponendo il titolo esecutivo a fondamento dell’espropriazione quand’anche l’esecutato vi si opponga44. Rispetto al passato, dunque, non c’è soluzione di continuità tra la pronuncia del titolo e la sua attuazione, ma prevale una logica di immediatezza ed automaticità che esclude vuoti di tutela esecutiva. Potrebbe, tuttavia, accadere che quando l’opposizione sia proposta prima del pignoramento, si crei un gap di tutela durante il quale la garanzia patrimoniale non è al riparo da atti dispositivi. Tale evenienza si verifica, precisamente, quando contestualmente alla domanda di diniego il debitore chieda ed ottenga dalle autorità dello Stato ad quem un provvedimento inibitorio della futura espropriazione, ora formulando istanza di sospensione a norma dell’art. 44, reg. n. 1215/201245, ora facendo leva sulle fattispecie di sospensione previste dalla lex loci executionis46.
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cfr. art. 39, co. 1, Convenzione di Bruxelles ed art. 47, comma 3, reg. n. 44/2001. Le due norme stabiliscono che, in pendenza del termine per proporre ricorso avverso il decreto di esecutività della sentenza straniera e fino a quando non viene adottata alcuna decisione in materia, può procedersi solo a provvedimenti conservativi sui beni della parte contro cui è chiesta l’esecuzione. Solamente quando è intervenuta la decisione definitiva sull’opposizione al decreto di esecutività presentata dal debitore, il creditore – in caso di rigetto della stessa – può procedere ad esecuzione forzata, essendo così divenuta la sentenza straniera titolo esecutivo a tutti gli effetti di legge. 43 Cfr. Tedoldi, Come ci si oppone all’esecuzione di un titolo esecutivo di altro Stato membro?, in Il quotidiano giuridico, martedì 28 aprile 2015. Secondo l’autore l’opposizione può essere proposta dopo la notifica dell’attestato di esecutività ai sensi dell’art. 43, co.1, ovvero dopo la notifica del precetto. Del medesimo parere, Nisi, Malatesta, op. cit., 150. Secondo questi ultimi autori, poiché il regolamento individua il legittimato attivo alla domanda di diniego nella parte “contro cui è chiesta l’esecuzione”, ai fini dell’opposizione è sufficiente che il creditore abbia manifestato all’esterno l’intenzione di intraprendere un’azione esecutiva, anche solo con la notifica dell’attestato ai sensi dell’art. 43, co. 1. 44 In definitiva, nel meccanismo delineato dal reg. n. 1215/2012, la tutela esecutiva è immediatamente accessibile al creditore per il solo fatto di aver conseguito un titolo nazionale idoneo alla circolazione transfrontaliera. 45 L’art. 44 disciplina la sospensione del processo esecutivo su istanza del debitore che abbia proposto domanda di diniego ad espropriazione già iniziata. Gli interpreti convergono verso l’applicabilità della sospensione prevista dalla norma anche prima del pignoramento, nella misura in cui l’inibitoria sia correlata ad una domanda di diniego proposta in via preventiva, ovvero dopo la notifica dell’attestato di esecutività (Nisi, Malatesta, cit., 156, nota 68). 46 Parte della dottrina (Tedoldi, op. cit.) abbraccia l’idea che l’inibitoria della futura espropriazione possa essere concessa sulla base delle
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Analoga situazione di pericolo per la garanzia del credito potrebbe sorgere nella circostanza simmetrica a quella appena descritta, ovvero nel caso in cui, nel medesimo frangente, sia il creditore a chiedere alle autorità dello Stato ricevente di accertare l’assenza di condizioni ostative al riconoscimento47. Il meccanismo era già in uso nel reg. n. 44/2001, dove era posto a tutela del creditore che invocava il riconoscimento della decisione straniera per l’ipotesi che il debitore ne contestasse l’efficacia (art. 33, par. 2, reg. n. 44/2001). Tale facoltà ricompare nello schema del reg. n. 1215/2012 con qualche elemento di novità, perché il legislatore della riforma ammette la parte a formulare la domanda di riconoscibilità a prescindere dalla contestazione della decisione ed a condizione che sussista uno specifico interesse ad agire. Quando sia promossa in vista dell’esecuzione, l’azione si configura come una domanda preventiva “pura” di accertamento positivo sul merito processuale48, finalizzata a rimuovere ogni incertezza sulla stabilità del titolo esecutivo49. L’attivazione del rimedio non influisce sul diritto di procedere ad esecuzione forzata: durante il giudizio il creditore può validamente instaurare l’espropriazione. Tuttavia, potrebbe ritenere opportuno attendere l’esito dell’accertamento, anticipare gli effetti del pignoramento con forme meno invasive ed aggredire i beni del debitore solo dopo che la stabilità del titolo si sia consolidata50. Nelle evenienze prese in considerazione l’art. 40 reg. n. 1215/2012 riconosce al creditore titolato la possibilità di ottenere immediatamente nello stato ad quem una misura conservativa idonea a preservare la garanzia patrimoniale. La norma assicura una tutela automatica al diritto di credito, giacchè la presenza del titolo esecutivo è condizione sufficiente per la concessione del provvedimento51. Anche in questa ipotesi, la tutela in concreto erogata dipenderà dalla lex fori dello Stato ad quem: la misura cautelare va ricercata
norme interne. Nel nostro ordinamento, per esempio, il debitore che intende opporsi all’esecuzione dopo la notifica dell’attestato di esecutività, in mancanza di rimedi tipici, potrebbe avvalersi del ricorso ex art. 700 c.p.c., sia pendente iudicio che ante causam, con l’obbligo, in questa seconda ipotesi, di instaurare il giudizio di diniego nel termine di legge a pena di inefficacia della misura; qualora, invece, il debitore formuli domanda di diniego dopo la notifica del precetto, potrebbe ottenere l’inibitoria dell’esecuzione a norma dell’art. 615, co. 1, c.p.c. La competenza cautelare spetterebbe al giudice del luogo in cui sono stati notificati l’attestato di esecutività e il precetto, a meno che il creditore non abbia eletto domicilio nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione (ex art. 480, co. 3 c.p.c.). 47 La legittimazione ad agire in via preventiva a norma dell’art. 36, co. 2, reg. n. 1215/2012 spetterebbe esclusivamente al creditore. Il debitore può chiedere il diniego del riconoscimento ai sensi dell’art. 45, solo dopo che il creditore abbia preteso il riconoscimento della decisione (in questo senso si v. Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 368. 48 Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 367. 49 Come osservano alcuni autori, l’accoglimento di tale domanda, avrebbe l’effetto di precludere qualunque contestazione fondata sui motivi ostativi al riconoscimento, persino una opposizione all’esecuzione da parte del debitore contro il quale il titolo venga azionato (Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., ed. 2015, 388; Nisi, Malatesta, op. cit., 139). 50 Non dissimile è l’ipotesi in cui il creditore abbia conseguito nello stato d’origine una decisione esecutiva non ancora passata in giudicato. L’iniziativa fraudolenta del debitore potrebbe insinuarsi nel corso dell’impugnazione, qualora il creditore decida di attendere il passaggio in giudicato della sentenza, anziché intraprendere un pignoramento sulla base di un titolo non ancora definitivo. 51 Il provvedimento cautelare viene concesso in base all’efficacia giuridica che il reg. n.1215/2012 conferisce alla sentenza straniera, non già in base ad un procedimento sommario di autorizzazione (Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., ed. 2006, 373).
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tra quelle disponibili nello Stato di esecuzione, titolare esclusivo del potere di impartire all’interno di quel territorio una protezione interinale al credito transfrontaliero. V’è da dire, però, che in tali fattispecie l’applicazione del diritto comune incontra alcune limitazioni52. Difatti, sebbene la scelta della misura conservativa debba necessariamente ricadere tra quelle presenti nella prassi giudiziaria dello Stato ricevente, il trattamento processuale del provvedimento cautelare viene contaminato dalla normativa sovranazionale. Il reg. n. 1215/2012 eredita questa impostazione dall’art. 47, reg. n. 44/2001, norma che all’interno del previgente sistema modulava la concessione delle misure cautelari in vista dell’esecuzione transfrontaliera dei titoli nazionali53. Ancora una volta, un breve focus sul regime dell’exequatur è utile per chiarire il funzionamento del meccanismo attuale. Nel sistema previgente la tutela cautelare del creditore si sviluppava su due livelli: nella fase che precedeva la dichiarazione di esecutività, la parte che avesse conseguito un titolo non ancora esecutivo, ma idoneo al riconoscimento54, poteva richiedere alle autorità dello Stato ricevente misure provvisorie (non solo conservative), per preservare la garanzia del credito durante il tempo necessario ad ottenere la dichiarazione di esecutività55; nella fase successiva all’exequatur, come si è pocanzi accennato, poteva ottenere unicamente misure conservative, atte a preservare il patrimonio del debitore in pendenza del termine per l’opposizione e durante l’opposizione al decreto di esecutività. A tenore dell’art. 47, co. 1, reg. n. 44/2001, prima del conseguimento dell’attestato di esecutività le misure provvisorie erano rilasciate “in conformità al diritto interno”: in altri termini l’iniziativa cautelare era interamente regolata dalla legge processuale dello Stato membro richiesto, dai presupposti, alle condizioni di efficacia, alla attuazione. Nondimeno, la presenza di una decisione (non ancora esecutiva), secondo taluni esimeva il creditore dalla prova del fumus boni iuris. Davanti al giudicato straniero non poteva, infatti, farsi questione di verosimiglianza del diritto, poiché l’accertamento sul merito del rapporto obbligatorio, condotto nello Stato d’origine e documentato nel titolo, costituiva un elevato indice della parvenza del credito56.
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La sentenza Capelloni definisce il sistema delineato dal reg. 44/2001 come autonomo e completo, indipendente rispetto ai sistemi giuridici degli stati membri. 53 Si ritiene di poter estendere all’interpretazione ed alla applicazione dell’art. 40, reg. n. 1215/2012 le medesime conclusioni formulate in relazione all’art. 47, reg. 44/2001, tanto sulla scorta di quanto previsto nel considerando n. 34 del reg. n. 1215/2012, laddove si afferma l’opportunità di garantire continuità tra la Convenzione di Bruxelles e i regolamenti che la sostituiscono. 54 Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2006, 371, cita a titolo esemplificativo la sentenza costitutiva dell’esistenza del credito. 55 L’art. 47, reg. n. 44/2001 presentava il seguente tenore: “1. Qualora una decisione debba essere riconosciuta in conformità del presente regolamento, nulla osta a che l’istante chieda provvedimenti provvisori o cautelari in conformità della legge dello Stato membro richiesto, senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività ai sensi dell’articolo 41. 2. La dichiarazione di esecutività implica l’autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari. 3. In pendenza del termine di cui all’articolo 43, paragrafo 5, per proporre il ricorso contro la dichiarazione di esecutività e fino a quando non sia stata adottata alcuna decisione in materia, può procedersi solo a provvedimenti conservativi sui beni della parte contro cui è chiesta l’esecuzione”. 56 In questi termini Sandrini, La tutela del creditore in pendenza del procedimento di exequatur nel regolamento Bruxelles I, in Riv. dir. internaz. priv. e proc., 2012, 3, 599; Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2006, 371. Qualche giudice di merito ha abbracciato un orientamento contrario, imponendo al creditore di provare entrambi i presupposti cautelari. In questo senso: App. Cagliari, 8/7/2009, in Dir. Maritt., 2010, 1-2, 117.
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Dopo l’exequatur l’accesso alla tutela urgente, sub specie di tutela conservativa, era pressoché automatico, poiché a norma dell’art. 47, co. 2 del citato regolamento la dichiarazione di esecutività comportava “l’autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari”. L’autorizzazione postulava un trattamento speciale della misura cautelare. La dichiarazione di esecutività implicava, innanzitutto, che non fosse necessaria una istanza espressa del creditore, né una distinta pronuncia di autorizzazione al sequestro, in quanto si riteneva che la facoltà della parte di assicurarsi la garanzia del credito discendesse direttamente dal Regolamento57. Come conseguenza di tale impostazione, il creditore era esonerato dalla prova del fumus boni iuris e del periculum in mora: la verosimiglianza del diritto era assorbita dall’accertamento a cognizione piena operato dal giudice straniero58, mentre il timore di perdere la garanzia patrimoniale trovava supporto nella stessa dichiarazione del diritto non soddisfatto59. Peraltro, non essendovi spazio per un controllo sull’opportunità di concedere la misura cautelare, si escludeva l’ammissibilità del reclamo. Analogamente si negava la possibilità di subordinare l’efficacia del provvedimento ad un limite temporale, sulla falsariga di quanto prevede l’art. 675 c.p.c.60. Nel trapasso dall’uno all’altro sistema di esecuzione e riconoscimento, la previsione contenuta nel primo comma dell’art. 47, reg. n. 44/2001 scompare61, mentre l’espressione
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Sono queste le indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 8380/1987, sulla scorta dell’interpretazione dell’art. 39, Conv. di Bruxelles, formulata in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di Giustizia con sentenza 3/10/1985 in causa n. 119-84. Alla pronuncia della Cassazione si sono uniformati i giudici di merito (ex multis: App. Torino, 18 aprile 1980, in Riv. dir. internaz. priv. e proc., 1981, 164; App. Bologna, 24 giugno 1993, in Riv. dir. internaz. priv. e proc., 1994, 385; più di recente Trib. Bologna, 8/5/2006, in Giur. It., 2007, 11, 2541 con nota di Salvioni). 58 Salerno, Giurisdizione ed efficacia, 2006, 281. Di parere diverso De Cristofaro, Exequatur di sentenze comunitarie e straniere e tutela interinale dell’istante, in Giur. It., 1998, 4, 713, secondo il quale è nel bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti, operato in via generale e astratta dal legislatore europeo, che trova fondamento la disciplina speciale dettata in tema di misure conservative, non già nella considerazione che il provvedimento straniero sia indice del fumus boni iuris. 59 Cass. civ. n. 8380/1977, in Giust. Civ., 1988, I, 705. Contra: App. Aquila, 23/2/2012, che erroneamente interpretando la disciplina contenuta nei commi 2 e 3 dell’art. 47, reg. n. 44/2001, ha dichiarato illegittimo un sequestro concesso in forza della dichiarazione di esecutività, ritenendo necessaria la prova del fumus boni iuris e del periculum in mora, nelle ipotesi in cui il debitore faccia opposizione al decreto di exequatur. Secondo le argomentazioni della Corte d’Appello l’opposizione all’exequatur farebbe venir meno la presunzione di efficacia che sorregge la decisione straniera e riporterebbe il sequestro nell’alveo delle misure di diritto interno, con conseguente applicazione della lex fori. Una lettura fortemente critica della decisione è stata offerta da Sandrini, La tutela del creditore cit., 595, e da L. Salvadego, I provvedimenti conservativi in funzione dell’esecuzione di una sentenza straniera secondo il “Regolamento Bruxelles I”, in http://aldricus.com/2012/11/30/aquila/. 60 Sulla compatibilità tra le norme del rito cautelare uniforme ed il sequestro concesso a norma dell’art. 47, co. 2, reg. n. 44/2001, si rimanda a De Cristofaro, Exequatur di sentenze comunitarie, cit., 713 ss. 61 L’omissione è senz’altro una conseguenza dell’automatismo con il quale oggi ha luogo l’esecuzione transfrontaliera dei titoli nazionali. Nel rinnovato ambiente normativo non ha più utilità distinguere il momento che precede l’exequatur da quello successivo, poiché l’attestato di esecutività viene rilasciato direttamente dal giudice d’origine e il titolo fa ingresso nell’ordinamento straniero che già possiede l’attitudine necessaria all’esecuzione. Ciò non vuol dire che nella fase prodromica al rilascio del certificato europeo il creditore titolato non sia bisognoso di tutela cautelare, o che sia privo di tutela giurisdizionale. Potrebbe, infatti, verificarsi che il titolo di cui dispone non sia ancora esecutivo e, in quanto tale, non possa aspirare alla certificazione europea. Nel gap compreso tra il conseguimento del titolo e il conferimento della forza esecutiva, quando vi sia il fondato timore di perdere la garanzia patrimoniale, il creditore deve poter fruire della tutela cautelare, alla stregua del creditore che agiva nel vigore dell’exequatur. Tanto in nome dell’esigenza di continuità tra i sistemi di esecuzione e riconoscimento manifestata a chiare lettere nel considerando n. 34. Se si accede a questa interpretazione l’iniziativa cautelare sarà interamente modulata dalla legislazione processuale dello Stato ricevente. Deve ritenersi, tuttavia, che il creditore vada esonerato dalla prova del fumus bonis iuris, in linea con l’applicazione che è stata fatta dell’art. 47, co. 1, reg. n. 44/2001. Invero, oggi ancora di più rispetto al passato, il giudicato straniero costituisce un indice elevato della fondatezza del diritto, tanto più se si considera che quello stesso provvedimento è idoneo a fondare l’esecuzione forzata senza
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“autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari” presente nel secondo comma viene riproposta e trasfusa all’interno dell’art. 40, reg. n. 1215/2012. Stando alla lettera della nuova norma, sembrerebbe che anche nell’attuale sistema di esecuzione e riconoscimento la tutela conservativa consegua in modo automatico alla pronuncia della decisione straniera62. Secondo i primi commentatori, più correttamente, la misura conservativa dovrebbe trovare fondamento nella certificazione di titolo esecutivo europeo apposta alla decisione ai sensi dell’art. 53, reg. n. 1215/2012, quale effetto connaturato al titolo nazionale, il quale presenta non solo l’attitudine necessaria all’esecuzione oltre confine, ma addirittura un’indole cautelare tale da “abbattere” qualunque margine di apprezzamento da parte delle autorità dello Stato richiesto63. Alla stregua di tale lettura, le misure cautelari da concedersi ai sensi dell’art. 40, reg. n. 1215/2012 dovrebbero soggiacere allo stesso regime processuale dei provvedimenti concessi sotto il vigore del reg. n. 44/2001. Occorre, tuttavia, domandarsi se un’impostazione che traspone in blocco all’interno del nuovo impianto l’interpretazione elaborata sull’art. 47, co.2, reg. n. 44/2001 sia compatibile con la tutela del debitore. Occorre chiedersi, cioè, se la soluzione proposta non alteri il gioco di pesi e contrappesi che il regolamento n. 1215/2012 imbastisce tra il debitore e il creditore, sbilanciando l’assetto cautelare in favore di quest’ultimo. Per offrire una risposta al quesito è d’obbligo chiarire preliminarmente come la tutela conservativa si inserisca negli equilibri pianificati dal legislatore europeo all’interno del reg. n. 44/2001, e verificare se la medesima logica sia rinvenibile nel reg. n. 1215/2012. Nel reg. 44/2001 la tutela cautelare funge da contraltare ad un sistema di exequatur che preclude alla parte l’accesso immediato alla tutela esecutiva64. La tutela cautelare impartita ai sensi dell’art. 47, co. 2 è l’unica via giurisdizionale fruibile per il creditore che abbia ottenuto la dichiarazione di esecutività europea. In questo contesto è fondamentale garantire un certo automatismo tra la pronuncia della decisione e la misura conservativa, nell’ottica di bilanciare, da un lato, la posizione del debitore che si trova al riparo dall’azione espro-
bisogno di una dichiarazione di esecutività. Come chiarisce Silvestri, Recasting Bruxelles I: il nuovo regolamento n. 1215 del 2012, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 2, 677 ss., analogamente a quanto avveniva nell’ambito del reg. n. 44/2001, qualora il creditore voglia ottenere misure cautelari diverse da quelle conservative, dovrà rivolgere alle autorità dello Stato richiesto un’istanza che dovrà corrispondere ai requisiti previsti dalla lex fori. L’automatismo descritto dalla norma, infatti, opera limitatamente alle misure conservative. I provvedimenti cautelari dotati di una diversa portata cautelare sono completamente attratti dalla disciplina interna, la quale è chiamata a regolare ogni aspetto del procedimento, dai presupposti alle condizioni di efficacia della misura, dal reclamo (inclusi i casi di revoca e modifica) all’attuazione. 63 Sono queste le parole di Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 398. L’opinione è condivisa da: Sandrini, La tutela del creditore in pendenza del procedimento di exequatur nel regolamento Bruxelles I, in Riv. dir. intern. priv. e proc., 2012, 3, 595; Silvestri, Recasting Bruxelles I: il nuovo regolamento n. 1215 del 2012, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 2, 677 ss.; Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 (Bruxelles I bis), in Il giusto processo civile, 2013, 2, 620, nota 101; Nisi, Malatesta, op. cit., 156. 64 Come si è avuto modo di chiarire, alla semplificazione della procedura intermedia nel reg. n. 44/2001 non corrisponde un ingresso immediato alla fase esecutiva, poiché il diritto di procedere ad esecuzione forzata è sospeso finché non sia decorso il termine per proporre opposizione, ovvero, finché non sia intervenuta una decisione in materia. 62
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priativa nelle more del giudizio di opposizione, e dall’altro, la condizione del creditore che non può introdurre l’espropriazione fino a che l’opposizione non sia decisa65. Nel reg. 1215/2012, invece, il creditore ha accesso diretto all’espropriazione, sicchè la tutela cautelare dischiusa nell’art. 40 concorre con la tutela esecutiva e si pone come alternativa al pignoramento tutte le volte in cui sia messa in discussione l’idoneità del titolo alla esecuzione transfrontaliera. In questa diversa prospettiva l’autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari non può essere intesa con il significato che finora le è stato attribuito. Ciò impone di rivedere il trattamento processuale del creditore titolato che accede alla tutela urgente o, quanto meno, di adattare l’impostazione ereditata dal reg. n. 44/20201 alle dinamiche del nuovo sistema di esecuzione e riconoscimento. Non pare opportuno, innanzitutto, che l’autorizzazione della misura conservativa prescinda dall’iniziativa di parte e che sfugga del tutto al vaglio del giudice. Il meccanismo poteva essere funzionale in passato (quando erano le autorità dello Stato ricevente a conferire esecutività europea alla decisione), ma non lo è nel contesto attuale, dove sono le autorità dello Stato d’origine ad apporre la formula esecutiva europea. Se si considera, infatti, che la misura cautelare trova diretto fondamento nel titolo straniero, deve potersi ammettere un filtro giudiziale nello Stato richiesto, anche solo di carattere formale, per verificare che la decisione sia munita della prescritta certificazione66. Per le medesime ragioni la concessione della tutela cautelare dovrebbe seguire ad un provvedimento espresso del giudice investito della richiesta, e non essere implicita nella formula esecutiva europea67. In linea con le indicazioni offerte in dottrina, si ritiene che il controllo sull’istanza non debba estendersi alla verifica dei presupposti cautelari e che il creditore, dal suo canto, non debba provare né il fumus boni iuris, né il periculum in mora. Si condivide in proposito l’opinione di quanti considerino i due presupposti assorbiti dal giudicato straniero68. Il
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Valorizzano il bilanciamento di interessi operato dal regolamento i seguenti autori: Campeis, De Pauli, Nota di commento a Cass. Civ., III sez., 16.11.1987, n. 8380, in NGCC, 1988, I, 298 s.; Salvioli, Brevi note sulla disciplina applicabile al sequestro conservativo attuato ex art. 47, reg. Ce 44/2001, in pendenza dell’opposizione al decreto di esecutività di sentenza comunitaria, in Giur. it., novembre 2007, 2544; De Cristofaro, Exequatur di sentenze comunitarie, cit., 713. 66 A norma dell’art. 43, co. 3, reg. n. 1215/2012, non è necessario che il creditore notifichi al debitore l’attestato rilasciato ai sensi dell’articolo 53. Nel nostro ordinamento, l’istanza dovrebbe essere contestuale all’introduzione del giudizio incardinato ai sensi dell’art. 36, co. 2, dal creditore, ovvero, potrebbe essere formulata con ricorso in pendenza del giudizio instaurato dal debitore ai sensi dell’art. 46. 67 Già nel vigore della Convenzione di Bruxelles qualche autore sosteneva la necessità una specifica autorizzazione al sequestro, sul presupposto che una tale prescrizione non fosse incompatibile con la disciplina dell’art. 39 (si v. Campeis, De Pauli, Nota di commento a Cass. Civ., III sez., 16.11.1987, n. 8380, in NGCC, 1988, I, 299). Tra le pronunce di merito che condividono tale impostazione si richiama in particolare App. Trieste, 26 giugno 1984, in Riv. dir. internaz. Priv. e proc., 1984, 601, nella parte in cui si ribadisce la necessità di una specifica autorizzazione, qualora il decreto di exequatur non ne faccia menzione. Il provvedimento appena citato è utile nella prospettiva odierna: se si considera che nell’ambito del reg. n. 1215/2012 la certificazione di esecutività europea presenta un contenuto standard e coincide con il modulo I allegato al Regolamento, ci si rende conto come in questo diverso contesto l’autorizzazione delle autorità dello Stato richiesto si renda ancor più necessaria, poiché nell’allegato manca una sezione dedicata alla concessone di misure conservative. 68 Si richiamano ancora una volta le riflessioni di Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., 2015, 398. L’opinione è condivisa da: Sandrini, La tutela del creditore, cit., 595; Silvestri, op. cit., 677 ss.; Leandro, Prime osservazioni, cit., 101.
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periculum in mora, in particolare, sussisterebbe ex lege69 e consisterebbe nella opportunità di anticipare qualunque iniziativa fraudolenta che potrebbe vanificare i diritti del creditore nel periodo di tempo necessario perché l’efficacia europea della decisione si consolidi definitivamente. La soluzione è coerente con la logica complessiva del Regolamento n. 1215/2012 che, più dei suoi precedenti, mira a favorire la circolazione delle decisioni in un clima ispirato al favor creditoris. Considerare i presupposti cautelari sussistenti ex lege, ovvero assorbiti dal giudicato straniero, infatti, converge verso l’esigenza di garantire continuità all’efficacia della decisione in un ordinamento diverso da quello di provenienza70. Non a caso, il titolo con il quale il creditore si affaccia alla tutela cautelare è il medesimo che potrebbe legittimarlo all’espropriazione. La certificazione europea, unitamente alla decisione, costituisce la condizione necessaria e sufficiente per avviare l’esecuzione. Ed allora, non si vede perché il medesimo titolo, qualificato dall’efficacia transfrontaliera che promana dall’attestazione prevista dall’art. 53, non possa costituire anche il presupposto per la concessione automatica di una misura conservativa, di gran lunga meno invasiva del pignoramento71. D’altra parte, parificando la posizione del creditore sequestrante a quella del creditore pignorante non si alterano gli equilibri che il Regolamento instaura tra le parti. La tutela del debitore non si incrina e le sue prerogative difensive rimangono perfettamente bilanciate rispetto alle opportunità riservate al creditore. Uno sguardo più attento alle sorti dell’istanza cautelare può chiarire tale profilo. Nell’ambito di quest’ultima riflessione occorre tenere presente che la tutela cautelare impartita nelle more dell’esecuzione transfrontaliera non è strumentale ad un giudizio sul merito del rapporto obbligatorio. Il processo di cognizione si è concluso nell’ordinamento di provenienza e l’esistenza del credito è stata acclarata dal giudicato straniero. Nello Stato ricevente, piuttosto, si discute della vocazione transnazionale della decisione da eseguire,
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Diversamente ragionando, gravando cioè la posizione del ricorrente con l’onere di provare il periculum in mora, si finirebbe col discriminare la condizione processuale del creditore sequestrante rispetto a quella del creditore pignorante, per il solo fatto che la parte abbia deciso di coltivare l’azione cautelare, anziché quella esecutiva (ciò per l’ipotesi in cui sia il creditore a formulare domanda di riconoscimento ai sensi dell’art. 36, co. 2, reg. n. 1215/2012). 70 Un chiaro sintomo della volontà di garantire continuità alla decisione straniera, utile a rafforzare tale lettura, è contenuto nell’art. 43, reg. n. 1215/2012. La norma regola gli adempimenti prodromici alla esecuzione transfrontaliera e contiene due prescrizioni, una per il creditore che si accinge ad attuare il pignoramento, l’altra per il creditore che procede a provvedimenti cautelari ai sensi dell’art. 40. L’art. 43, più precisamente, fa obbligo al primo di notificare al debitore l’attestato rilasciato ai sensi dell’art. 53, mentre esonera il secondo dalla notificazione. La norma non fa altro che distinguere la condizione in cui opera il creditore pronto all’espropriazione, da quella del creditore che invece attende l’accertamento sull’efficacia del titolo esecutivo e che perciò stesso si espone al rischio di atti dispositivi da parte del debitore. Il legislatore europeo solleva quest’ultimo da un adempimento che potrebbe compromettere l’attuazione efficace della misura cautelare, compiendo a monte la valutazione del requisito dell’urgenza. La scelta normativa è indice dell’intenzione di garantire, innanzitutto, l’effetto sorpresa, ma soprattutto è sintomo della volontà di attribuire continuità di effetti alla decisione da eseguire, la quale dallo stato d’origine abilita il creditore ad ottenere immediatamente, e senza una preventiva notificazione, le misure a contenuto conservativo. 71 A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione. Configurare una tutela conservativa automatica nella fase che precede il pignoramento e per l’ipotesi che dopo la notifica dell’attestato di esecutività le autorità dello Stato ad quem inibiscano al creditore di intraprendere l’espropriazione, dà origine ad una situazione perfettamente simmetrica a quella che si genere dopo il pignoramento, allorchè il debitore chieda alle autorità competenti di limitare l’esecuzione a misure conservative sui propri beni, a norma dell’art. 44, reg. n. 1215/2012.
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di conseguenza, la misura cautelare si salda al c.d. merito processuale, avente ad oggetto l’idoneità del titolo all’espropriazione. Ebbene, quando all’esito di tale giudizio si accerti l’assenza di condizioni ostative al all’esecuzione, il sequestro autorizzato nelle more è destinato a convertirsi in pignoramento ai sensi dell’art. 686 c.p.c. Nessun pregiudizio, dunque, per il condannato, il quale vedrà evolvere la misura conservativa in maniera naturale verso un atto espropriativo che il creditore aveva il potere di esercitare ex lege. Il rapporto tra il debitore e il creditore appare altrettanto bilanciato nell’ipotesi contraria a quella appena vista, ovvero, quando le autorità dello Stato richiesto accertino la sussistenza di condizioni che rendano il titolo inidoneo a fondare l’espropriazione. Il provvedimento che nega alla decisione l’attitudine transfrontaliera potrà essere invocato dal debitore come causa di inefficacia della misura cautelare, ai sensi dell’art. 669 novies c.p.c. Tale norma è considerata in dottrina compatibile con la disciplina che il legislatore europeo detta in tema di esecuzione e riconoscimento e, pertanto, è applicabile anche alle misure conservative concesse nelle more dell’espropriazione72. La posizione debitoria non viene intaccata neppure quando la misura conservativa autorizzata ai sensi dell’art. 40, reg. n. 1215/2012 sia strumentale all’esecuzione di una decisione non ancora passata in giudicato. Qualora il provvedimento di condanna venga riformato o caducato in sede di gravame, nulla osta alla modifica o alla revoca del provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 669 decies c.p.c.73 Ad analoga conclusione deve giungersi qualora la decisione straniera venga privata del carattere esecutivo nell’ordinamento di origine74. Come è facile intuire, benchè nelle fattispecie da ultimo prese in considerazione le norme sovranazionali influenzino prepotentemente l’erogazione della tutela conservativa, limitando di fatto l’applicazione del diritto comune, la disciplina complessiva manca di uniformità ed espone il creditore ad un trattamento diverso a seconda del paese richiesto dell’esecuzione. La forza dell’imperium si manifesta con maggiore evidenza nei casi in cui il creditore abbia già conseguito una misura cautelare, ma debba darvi attuazione in ordinamento diverso, là dove si trovino beni utilmente pignorabili. Nella fattispecie da ultimo descritta, l’iniziativa del creditore è intralciata dal sistema di esecuzione e riconoscimento vigente in Europa (art. 2, reg. n. 1215/2012), che ammette a circolare liberamente nello spazio comunitario solo alcuni titoli cautelari. Come sopra illustrato, il reg. n. 1215/2012 contempla una duplice barriera preclusiva: esso esclude dal regime di circolazione automatica le misure pronunciate dal giudice del foro esorbitante, e le misure ex parte, pronunciate dal
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Si v. De Cristofaro, op. cit., 715. Id., op. ult. cit., 715, nota 15. 74 Salerno, Giurisdizione ed efficacia, cit., ed. 2015, 398. Secondo l’autore l’efficacia dei provvedimenti cautelari rilasciati ex lege ai sensi dell’art. 40 deve raccordarsi alle vicende che interessano il titolo esecutivo nello Stato d’origine. Tale avvicendamento tra le sorti del titolo e l’efficacia della misura cautelare sarebbe speculare a quanto avviene ad espropriazione iniziata, a norma dell’art. 44, laddove si prevede che il giudice dell’esecuzione sospenda il procedimento se l’esecutività della decisione sia sospesa nello Stato di provenienza. 73
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giudice del merito, che non siano state comunicate al debitore. La prima limitazione ha l’effetto di incoraggiare pratiche elusive da parte del debitore, il quale, consapevole della portata circoscritta dei provvedimenti esorbitanti, potrebbe essere indotto a trasferire il proprio patrimonio durante la pendenza del procedimento cautelare75. Il creditore sarebbe così costretto a riproporre la domanda cautelare nello Stato in cui sono stati ricollocati i beni pignorabili, con l’effetto di moltiplicare i procedimenti, aumentare i costi, e ridurre le possibilità di eseguire con successo la decisione di merito76. La seconda limitazione, invece, sacrifica l’effetto sorpresa, poiché il creditore che intende eseguire il provvedimento cautelare in un foro diverso deve dimostrare di aver comunicato la propria iniziativa al debitore prima dell’attuazione (art. 42, par. 2, lett. c), reg. n. 1215/2012). Ne deriva, in ognuna delle ipotesi prese in considerazione, una tutela cautelare fievole per i crediti transfrontalieri, imbrigliati tra le maglie del sistema di esecuzione e riconoscimento o affidati alla protezione di normative processuali lontane e poco familiari.
3. Il sequestro conservativo europeo di averi bancari. Le criticità evidenziate nel paragrafo precedente vengono parzialmente superate con il reg. n. 655/2014 che istituisce il sequestro conservativo di averi bancari77 (di seguito OESC78). Allo scopo di agevolare il recupero dei crediti transfrontalieri, il regolamento introduce un rito uniforme, scritto, celere ed unilaterale, che conduce alla emanazione di provvedimento cautelare eseguibile in qualunque foro. Come è facile desumere dalla denominazione adottata, si tratta di una procedura ritagliata su una specifica categoria di beni mobili: i conti correnti detenuti presso istituti di credito dislocati sul territorio comunitario79.
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Tale effetto è stato evidenziato da Nisi, op. cit., 136. La conseguenza prospettata potrebbe essere scongiurata se nella giurisdizione esorbitante esistono procedure conservative ex parte idonee ad assicurare l’effetto sorpresa. 77 In Gazz. uff. Un. Eur., L 189 del 27 giugno 2014, 59 ss. Tra i commentatori che hanno dedicato attenzione al nuovo istituto si segnalano: Paglietti, Il regolamento n. 655/2014 sull’ordinanza di sequestro conservativo: effettività della tutela e convergenza tra i sistemi di giustizia, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 4, 2015, 1289; Farina, L’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari, in N.L.C.C., 2015, 3, 495; Biavati, Il sequestro conservativo europeo su conti bancari: alla ricerca di un difficile equilibrio, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 2015, 3, 855; Sandrini, La procedura per l’adozione dell’ordinanza europea di sequestro conservativo dei conti bancari, in P. Franzina, A. Leandro (a cura di), Il sequestro europeo di conti bancari, Milano, 2015; Leandro, La circolazione dell’ordinanza di sequestro conservativo dei conti bancari, in P. Franzina, A. Leandro (a cura di), Il sequestro europeo di conti bancari, Milano, 2015; D’Alessandro, I mezzi di ricorso e la protezione dei terzi, in P. Franzina, A. Leandro (a cura di), Il sequestro europeo di conti bancari, Milano, 2015; Franzina, L’ordinanza europea di sequestro conservativo: rilievi generali, in P. Franzina, A. Leandro (a cura di), Il sequestro europeo di conti bancari, Milano, 2015; Tedoldi, L’ordinanza europea di sequestro conservativo sui conti bancari ai sensi del regolamento (UE) n. 655/2014, in Esecuzione forzata, 2017, 4, 584. 78 È l’acronimo di ordinanza europea di sequestro conservativo. Nel testo sarà utilizzato in alternativa alla denominazione di sequestro conservativo di averi bancari. 79 Cfr. art. 4, n. 2, reg. n. 655/2014. Sono esclusi dalla portata dell’OESC i depositi bancari contenenti strumenti finanziari, come titoli azionari o obbligazionari (cfr. all. 1, reg. n. 1823/2016, punto 6). Critico su tale esclusione Tedoldi, op. cit., § 3, il quale paventa la possibilità che il debitore sottragga il proprio denaro all’azione conservativa, investendolo proprio in strumenti finanziari. 76
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Il sequestro conservativo europeo opera schermando i depositi bancari, inibendo i prelievi di denaro, gli addebiti diretti, i trasferimenti presso altri istituti e, più in generale, tutte quelle disposizioni praticabili rapidamente da chiunque voglia eludere l’espropriazione. Esso vincola gli averi del debitore durante il giudizio di merito, nella fase che lo precede e persino dopo la pronuncia della decisione, permettendo anche al creditore munito di un titolo esecutivo di avanzare efficacemente verso l’esecuzione forzata, al riparo da atti dispositivi suscettibili di diminuire la garanzia patrimoniale. In virtù del nuovo regolamento le norme applicabili al procedimento saranno le medesime, indipendentemente dalla ubicazione dei conti da sequestrare, di modo che il creditore possa avvalersi della stessa prassi giudiziaria ovunque maturi un’esigenza di tipo conservativo, nel proprio Stato membro come all’interno di un altro ordinamento. È questa una peculiarità condivisa dagli strumenti comunitari di recente conio, rivolti verso l’armonizzazione sistemi processuali degli stati membri. In linea con tale tendenza anche il reg. n. 655/2014 predispone un rito uniforme senza imporsi alla sovranità degli Stati membri. Il procedimento cautelare europeo, come si avrà modo di approfondire a breve, non si sostituisce al rito di diritto interno, ma vi si affianca, riservando al creditore la scelta tra il modello europeo e quello nazionale. La forma scritta è imposta per ogni snodo procedimentale, dalla proposizione della domanda alla pronuncia dell’ordinanza di sequestro, durante la fase attuativa ed in quella di opposizione. Invero, tutti gli atti e i provvedimenti che si riversano nel procedimento cautelare europeo trovano una puntuale definizione nei moduli standard predisposti dalla Commissione Europea ed allegati al regolamento di esecuzione n. 1823/201680. Così, l’iniziativa del creditore è fotografata dall’allegato I, dove sono riportati nel dettaglio i requisiti formali della domanda di sequestro; i poteri del giudice sono modulati dall’allegato II, in cui figurano gli elementi essenziali ed indefettibili del provvedimento cautelare; l’attività della banca è documentata dall’allegato IV, nel quale l’istituto di credito certifica l’avvenuta attuazione del sequestro e la portata del vincolo sulle somme depositate; in modo analogo il regolamento n. 1823/2016 tratteggia le difese del debitore, il quale reagisce al sequestro avvalendosi del formulario previsto per l’ipotesi di ricorso (all. VII). La celerità sottende l’intero rito81. Il regolamento detta rigorosamente i tempi entro i quali le varie fasi processuali devono concludersi al fine di pervenire rapidamente alla
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In Gazz. uff. Un. Eur., L 283 del 10 ottobre 2016, 1 ss. Il considerando n. 37 del regolamento chiarisce l’importanza di termini processuali brevi nel senso appena visto: “Per assicurare l’emissione e l’esecuzione rapida e tempestiva dell’ordinanza di sequestro conservativo, è opportuno che il presente regolamento stabilisca termini entro i quali devono essere completate le varie fasi della procedura. Le autorità giudiziarie o le autorità coinvolte nella procedura dovrebbero essere autorizzate a derogare a tali termini solo in circostanze eccezionali, ad esempio in casi complessi dal punto di vista giuridico o fattuale”. Sempre nell’ottica di una rapida esecuzione il considerando n. 24 ritiene opportuno prevedere “la trasmissione dell’ordinanza dallo Stato membro d’origine all’autorità competente dello Stato membro dell’esecuzione con qualsiasi mezzo appropriato atto a garantire che il contenuto dei documenti trasmessi sia fedele, conforme e facilmente leggibili”. L’art. 45, rubricato “Termini”, invece, dà contenuto precettivo a tali affermazioni di principio, stabilendo: “Se, in circostanze eccezionali, non le è possibile rispettare i termini previsti all’articolo 14, paragrafo 7, all’articolo 18, all’articolo 23, paragrafo 2, all’articolo 25, paragrafo 3, secondo comma, all’articolo 28, paragrafi 2, 3 e 6, all’articolo 33, paragrafo 3, e all’articolo 36, paragrafi 4 e 5, l’autorità
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pronuncia del sequestro e alla sua attuazione. L’istruzione probatoria predilige la prova documentale e precostituita, mentre la fase decisoria viene scandita da stringenti termini che impongono al giudice di pronunciarsi subito dopo il deposito della domanda. Nella fase attuativa tutte le autorità coinvolte sono chiamate ad agire senza indugio (art. 23 e 24, reg. n. 655/2014), ognuna nell’ambito delle rispettive competenze, come parti di un circuito operoso che accompagna il creditore verso l’espropriazione. Così l’autorità dello Stato d’origine emette il sequestro, traduce il provvedimento e ne cura la trasmissione al giudice dell’esecuzione; l’autorità dello Stato ad quem adotta le misure necessarie a darvi materiale attuazione, mentre la banca procede a vincolare i depositi impedendo che il denaro venga prelevato dai conti e trasferito altrove. Tutto si svolge all’interno di un procedimento a struttura unilaterale che mira a realizzare il c.d. effetto sorpresa. Il sequestro europeo viene emesso ed attuato senza il coinvolgimento del debitore, nell’ambito di uno schema processuale che si sviluppa inaudita altera parte. Più precisamente, nel sistema delineato dal regolamento il destinatario della misura viene a conoscenza dell’iniziativa cautelare solo a seguito del blocco del conto, di modo che tra la pronuncia e la sua materiale esecuzione gli sia preclusa qualunque operazione fraudolenta sui depositi82.
4. Segue: Il procedimento cautelare europeo. Illustrate nei termini che precedono le caratteristiche del procedimento cautelare europeo, è ora opportuno soffermarsi sulla sua dinamica, avendo cura di fare emergere la disciplina alla quale sono sottoposte l’iniziativa del creditore che richiede il sequestro e la reazione del debitore che subisce il vincolo dei depositi bancari83. Il rito delineato dal reg. n. 655/2014 si articola in più fasi. È possibile distinguere, innanzitutto, una fase autorizzativa inaudita altera parte, durante la quale l’autorità competente, accertata la sussistenza dei presupposti cautelari, emette il provvedimento di sequestro; ed una fase attuativa, anch’essa ex parte, demandata al giudice dell’esecuzione, il quale imprime il vincolo conservativo sul conto del debitore con la collaborazione della banca. Dopo l’instaurazione del contraddittorio, con la comunicazione dell’ordinanza al destinatario, si apre una terza fase, eventuale, destinata ad accogliere la reazione del debitore al provvedimento84.
giudiziaria o l’autorità interessata adotta quanto prima le misure ivi disposte”. La banca ha l’onere di non comunicare l’indagine svolta sui conti correnti prima del decorso di 30 giorni, per non frustrare l’esigenza cautelare che è alla base del sequestro. 83 Come autorevolmente osservato (Biavati, op. cit., 855) anche nel regolamento n. 655/2014, traspare la preoccupazione, tipica degli altri strumenti di cooperazione giudiziaria, di bilanciare “in un delicato gioco di pesi e contrappesi” l’interesse del creditore a conseguire il soddisfacimento del proprio diritto, e l’interesse del debitore a non subire ingiuste aggressioni. Nel testo si cercherà di far luce sulla disciplina europea avendo riguardo ad entrambe le posizioni sostanziali. 84 Tale iter, secondo i primi commentatori (Biavati, op. ult. cit., 870), riproduce la sequenza tipica del rito monitorio: ricorso per la 82
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Più nel dettaglio, la fase autorizzativa si avvia con il deposito dell’istanza cautelare presso la cancelleria del giudice competente85. La competenza varia in ragione dello status del creditore (art. 6, reg. n. 655/2014): se egli già dispone di un titolo esecutivo (sia esso una decisione, una transazione giudiziaria o un atto pubblico)86, la competenza cautelare è attratta dal foro coinvolto nella formazione del titolo, e si radica nello stato in cui è stata emessa la decisione giudiziaria, o in cui si è conclusa la transazione o è stato redatto l’atto pubblico87; viceversa, se il creditore non ha ancora conseguito un titolo esecutivo, ma ha avviato (o intende avviare) un’azione di condanna, il potere di decidere l’istanza cautelare appartiene al giudice del merito (c.d. criterio strumentale)88. L’istanza, redatta secondo il modulo I allegato al regolamento n. 1823/2016, deve recare l’indicazione del giudice, le generalità delle parti, gli estremi del conto corrente del debitore89, l’importo da sequestrare, gli elementi a sostegno della competenza dell’autorità adita90, i fatti posti a fondamento del credito, i fatti attestanti che il credito vantato necessita di tutela urgente. Inoltre, nella prospettiva di assicurare la concessione di una misura cautelare che non sia sproporzionata rispetto al diritto da tutelare, nel modulo introduttivo l’istante deve fare menzione di eventuali domande parallele, ovvero, istanze cautelari formulate contestualmente alla domanda di OESC all’interno di altri ordinamenti e tese a garantire lo stesso credito attraverso provvedimenti equivalenti al sequestro europeo91. Il formulario introduttivo deve essere accompagnato da un corredo documentale idoneo a convincere il giudice che la domanda di merito sarà verosimilmente accolta, e che sussiste il rischio che il debitore disperda gli averi detenuti nei conti da sequestrare (art. 8, reg. n. 655/2014). Per fondare il convincimento del giudice il creditore deve allegare
pronuncia di un provvedimento esecutivo inaudita altera parte, opposizione ad iniziativa del debitore, impugnazione della pronuncia che decide sull’opposizione. 85 La litispendenza è determinata dal deposito del ricorso e lo si ricava dall’art. 8. La trasmissione all’autorità competente potrà avvenire con ogni mezzo di comunicazione, anche elettronico (art.8, par. 4). 86 Il concetto di decisione riprende quello fatto proprio dal reg. n. 1215/2012 all’art. 2. 87 In Italia, l’autorità competente ad emettere l’OESC basata su un atto pubblico è il Tribunale nel cui circondario l’atto pubblico è stato formato. 88 La distribuzione della competenza subisce una deroga quando il debitore è un consumatore. In tal caso la competenza appartiene inderogabilmente al foro in cui quest’ultimo ha il domicilio (art. 6, par. 3). 89 Gli estremi del conto permettono al Giudice di identificare la banca che detiene le somme del debitore. I formulari allegati al regolamento n. 1823/2016 sono predisposti in modo che l’azione cautelare possa essere indirizzata anche su più conti correnti all’interno della stessa banca, ma anche presso altre banche all’interno dello stesso Stato membro, oltre che su conti correnti accesi dal debitore presso banche di altri stati membri. Peraltro, nel caso in cui il creditore abbia già conseguito un titolo esecutivo, ma non conosca gli estremi del conto corrente, il regolamento gli offre l’opportunità di rivolgere all’autorità competente una richiesta di informazioni (art. 14), affinché indaghi sulla presenza di conti correnti negli stati in cui si ha motivo di pensare che il debitore detenga dei depositi. Secondo Sandrini, La procedura, cit., 60, tale possibilità rafforza l’efficacia della misura e realizza “la trasparenza del patrimonio del debitore”. Sotto questo profilo l’ordinanza europea si rivela un valido strumento di cooperazione tra gli Stati membri, capace di migliorare l’esecuzione delle decisioni giudiziarie anche negli ordinamenti in cui mancano strumenti per ricercare e localizzare i beni del debitore. 90 Si pensi al domicilio del debitore, al luogo di esecuzione dell’obbligazione, al luogo dell’evento dannoso, al domicilio del consumatore, al luogo in cui è ubicato l’immobile. 91 Cfr. punto 13 allegato I, reg. n. 1823/2016. Il creditore ha l’onere di informare il giudice competente ad emettere l’OESC anche qualora ottenga un provvedimento equivalente nel corso del procedimento per l’emissione dell’ordinanza. In questa eventualità, pur sussistendo i presupposti cautelari al momento della proposizione dell’istanza, viene meno l’opportunità di emettere l’OESC e l’autorità adita dovrebbe respingere la domanda (cfr. art. 16).
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all’istanza documenti giustificativi pertinenti ed un elenco delle prove di cui intende avvalersi, di modo che l’autorità adita possa verificare la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora92. Quando il creditore già dispone di una decisione, di una transazione giudiziaria o di un atto pubblico, è sufficiente allegare alla domanda una copia autentica del titolo. In questo caso la domanda cautelare è semplificata e si presenta più snella sotto il profilo formale93: la competenza è improrogabilmente legata alla provenienza del titolo, non occorre giustificarla; il credito trova fondamento nella decisione e non serve precisarne l’importo, salvo specificarne gli interessi; anche la verosimiglianza del diritto cautelato trova un esplicito riscontro nel provvedimento di condanna e non è necessario allegare, né provare, i fatti posti alla base della richiesta. L’onere di allegazione permane rispetto al periculum in mora, dovendo in ogni caso la parte istante dimostrare la sussistenza del rischio che, senza la misura, la successiva esecuzione sarà compromessa (art. 7, reg. n. 655/2014)94. L’autorità giudiziaria alla quale è presentata la domanda verifica in prima battuta se sussiste la competenza e se ricorrono le condizioni di applicabilità del regolamento che rendono la domanda ricevibile. Se si ritiene competente, procede all’indagine sulla ricevibilità dell’istanza, soffermandosi su due elementi: l’appartenenza del credito alla materia civile e commerciale, da un lato, la transnazionalità della lite, dall’altro. L’accertamento del primo requisito è agevole e avviene attraverso un meccanismo di sussunzione del credito dedotto in giudizio all’interno delle materie elencate all’art. 2, reg. n. 655/2014. Il giudice, in altri termini, deve verificare che la pretesa azionata non ricada nelle materie escluse dall’ambito di applicazione del regolamento, quali ad esempio, la sicurezza sociale, l’arbitrato, il diritto successorio, il regime patrimoniale della famiglia.
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Il regolamento non fornisce una nozione uniforme di periculum in mora. Al considerando n. 14 sono presenti, tuttavia, alcune indicazioni che dovrebbero guidare la parte ed il giudice rispettivamente nella dimostrazione e nell’accertamento del presupposto cautelare. A tenore del considerando n. 14 il pericolum in mora dovrebbe consistere nel rischio concreto che il debitore possa dissipare, nascondere o distruggere i suoi beni, o ne possa disporre al di sotto del valore, in misura insolita o attraverso un’azione insolita. La norma precisa che il ricorrente potrebbe utilmente dimostrare tale rischio allegando prove relative alla condotta del debitore in relazione al credito vantato, alla storia creditizia del debitore, alla natura dei suoi beni. Mentre il giudice, dal suo canto, nel valutare le prove, potrebbe prendere in considerazione le spese e i prelievi bancari effettuati dal debitore per la propria attività o per le esigenze della propria famiglia. Nella prospettiva europea, inoltre, non dovrebbero costituire indici di periculum in mora la mera contestazione del credito, la presenza di più creditori e neppure il deterioramento della situazione finanziaria del debitore. Il regolamento, in definitiva, sembra ricondurre alla nozione di periculum in mora circostanze analoghe a quelle che nel nostro ordinamento consentono di ravvisare il requisito dell’urgenza nell’ambito dell’art. 671 c.p.c. (di questo avviso, Sandrini, La procedura, cit., 47; Farina, L’ordinanza, cit., 511, nota 31). È, infatti, consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale “il periculum in mora che giustifica la concessione di un sequestro conservativo può essere desunto sia da elementi oggettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi evincibili dal comportamento del debitore, tali da lasciare presumere che egli, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale deprezzamento del proprio patrimonio, sottraendolo all’esecuzione forzata” (ex multis: Trib. Roma, III, 8 giugno 2015, n. 12452; Trib. Bari, III, 18 ottobre 2012; Trib. Trani, 3 agosto 1995, in Giust. civ., 1996, I, 2, 758). 93 La presenza del titolo avvantaggia il creditore anche da un altro punto di vista. A norma dell’art. 14, solo il creditore munito di titolo e che non conosca l’ubicazione dei conti del debitore, può richiedere alle autorità competenti informazioni sulla banca o sui conti del debitore. 94 Il periculum in mora non è insito nel fatto stesso dell’esecuzione transfrontaliera. Di conseguenza, anche in presenza di un titolo esecutivo è fondamentale dar prova dell’urgenza che è alla base della richiesta cautelare.
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Per l’accertamento del secondo requisito, quello relativo alla transnazionalità del caso, occorre guardare alla ubicazione del conto corrente da sequestrare. Per dirsi, infatti, che la fattispecie presenti carattere transfrontaliero è necessario che il conto sia collocato in uno Stato membro diverso da quello in cui la domanda è proposta. È bene, tuttavia, precisare che il regolamento contempla la possibilità che la domanda sia proposta anche nel foro in cui il conto è ubicato, ma a condizione che il creditore abbia il domicilio all’interno di un altro stato membro95. L’esito negativo del controllo sulla ricevibilità della domanda conduce inevitabilmente al suo rigetto. Quando l’istanza è ricevibile, invece, ne viene esaminato il contenuto di modo da verificare la completezza delle informazioni riportate. In caso di errori o omissioni nella compilazione dei moduli standard, il creditore è invitato ad integrarla o a rettificarla. Se il modulo è completo in tutte le sue sezioni ed alla luce dei dati inseriti la domanda non si presenta manifestamente infondata, il giudice sposta la sua indagine sul merito per vagliarne la fondatezza96. Si apre a questo punto una fase istruttoria deformalizzata, sommaria ed estremamente rapida, in cui procede all’accertamento dei presupposti cautelari: entro 10 giorni dal deposito della domanda (o dal suo completamento), l’autorità emette la decisione basandosi sulle prove scritte allegate dal creditore97. Se queste non sono sufficienti, lo invita a produrre ulteriori documenti o procede con l’assunzione di prove orali, a condizione che il loro espletamento non rallenti oltremodo l’emissione del sequestro98. Nel caso si svolga un supplemento di istruttoria la decisione viene pronunciata nei cinque giorni successivi all’espletamento dei mezzi di prova. Quando all’esito dell’istruttoria condotta sommariamente il giudice ritenga insufficienti gli elementi di prova raccolti, ovvero accerti l’insussistenza dei presupposti cautelari, l’istanza viene rigettata. Contro il provvedimento di rifiuto il creditore può fare ricorso entro trenta giorni dalla comunicazione per ottenere un riesame nel merito99 (art. 21). La presenza di nuovi elementi di fatto o di nuove prove legittima, invece, il soccombente a
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Il giudice al momento della ricezione della domanda dovrà individuare il luogo in cui è ubicato il conto corrente e procedere come segue: se il conto si trova nello stato in cui la domanda è proposta, dovrà eseguire un secondo accertamento e verificare che il creditore sia domiciliato all’interno di uno stato membro diverso; viceversa, se la banca del debitore si trova in uno stato membro diverso rispetto al foro competente, il domicilio del creditore sarà irrilevante. 96 È dunque possibile distinguere un esame preliminare, sulla ricevibilità, completezza e manifesta fondatezza della domanda, da un esame sul merito: il primo consente al giudice di scartare le istanze che ictu oculi non presentano i requisiti minimi di ammissibilità, vuoi perché non ricadono nell’ambito applicativo del regolamento, vuoi perché non recano l’esposizione dei fatti posti a fondamento del credito e dell’urgenza; il secondo attiene alla fondatezza della domanda e riguarda la sussistenza dei presupposti cautelari descritti nell’istanza. 97 Il termine di 10 giorni è ridotto a 5 se il creditore avvia la domanda cautelare sulla base di un titolo esecutivo. Il termine decorre dal deposito della domanda, ovvero, in caso produzione o assunzione di ulteriori prove, dal completamento dell’istruttoria. 98 Se ritiene le prove scritte insufficienti, il giudice può ascoltare il creditore o i testi da lui indicati, assumere qualunque prova costituenda, purché prevista dal diritto dello stato membro (art. 9). Nel nostro ordinamento si potranno assumere sommarie informazioni, come prevede l’art. 669-sexies c.p.c. La norma interna, secondo gli interpreti, è pienamente conforme al dettato regolamentare, poiché al pari della norma europea, ammette ulteriori prove a sostegno dell’istanza cautelare a condizione che non ritardino il procedimento (Sandrini, La procedura, cit., 60; Farina, L’ordinanza, cit., 156). 99 In Italia l’autorità competente a giudicare sul ricorso è il Tribunale al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento di rigetto, il quale decide sull’istanza in composizione collegiale. In mancanza di indicazioni espresse all’interno del testo normativo, si ritiene che la disciplina di questa fase processuale possa essere attinta dal diritto interno
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reiterare il ricorso, stimolando una diversa e ulteriore valutazione dei requisiti cautelari (considerando n. 22). La domanda è accolta se l’autorità adita ravvisa la presenza di entrambi gli elementi del fumus e del periculum, e si convince che il credito fatto valere necessiti di tutela urgente. Il provvedimento emesso all’esito della fase autorizzativa è predisposto secondo il formulario II allegato al regolamento n. 1823/2016 e presenta due anime: si rivolge, per un verso, al terzo che detiene le somme da sottoporre a sequestro, per altro verso, alle parti creditrice e debitrice. Nella parte dedicata alla banca reca l’indicazione dell’autorità emittente, le generalità delle parti e del terzo, gli estremi del conto interessato dall’ordinanza cautelare e l’importo totale da vincolare100. Nella sezione dedicata alle parti contiene l’indicazione dell’oggetto della controversia, il dettaglio degli importi sequestrati (con la specificazione di interessi e spese), il riferimento eventuale alla costituzione di una garanzia, gli adempimenti che gravano sul creditore ai fini dell’attuazione del sequestro101, il termine di efficacia del provvedimento ottenuto ante causam, e le informazioni difensive che mettono il debitore in condizioni di opporsi al provvedimento qualora ritenga la misura ingiustificata o illegittima102. La pronuncia dell’ordinanza segna il transito dalla fase autorizzativa alla fase attuativa. È questo il momento in cui si costituisce il vincolo sui conti correnti e il debitore perde la disponibilità materiale delle somme di denaro103. Nel passaggio alla fase attuativa l’OESC circola nello spazio giudiziario europeo senza barriere, per ricevere esecuzione in qualunque ordinamento, nel paese in cui è stata pronunciata come nel paese in cui si trova il conto corrente da sequestrare. Se la misura è stata emessa in uno Stato membro diverso da quello in cui deve essere eseguita, l’ordinanza viene trasmessa, a norma dell’art. 23, all’autorità competente dello Stato dell’esecuzione104. Il creditore dà impulso alla fase attuativa inoltrando il provvedimento (e la sua traduzione) alla banca, perché proceda senza indugio al blocco delle somme depositate105. L’attua-
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Tali elementi sono necessari per consentire alla banca di dare esecuzione all’incarico contenuto nell’ordinanza. A norma dell’art. 24 par. 4, reg. n. 655/2014, se le informazioni fornite nell’ordinanza non consentono di identificare con certezza il conto del debitore, la banca non vi dà attuazione, a meno che il creditore non abbia formulato una richiesta di informazioni ai sensi dell’art. 14. In questo caso la banca può ottenere i dati identificativi del conto dall’autorità presente nello Stato di esecuzione. 101 Il creditore, con la comunicazione dell’ordinanza, viene informato dei seguenti adempimenti a suo carico: dell’onere di avviare il giudizio di merito se ha richiesto la misura ante causam, di trasmettere l’ordinanza alle autorità dello stato ad quem e di notificarla al debitore. 102 Il debitore, con la notifica dell’ordinanza, viene informato della facoltà di richiedere il dissequestro delle somme e di costituire una garanzia, della possibilità di ottenere la revoca o la modifica dell’ordinanza, ovvero la cessazione della sua esecuzione. 103 Gli averi depositati potrebbero infatti essere trasferiti a cura della banca in un conto utilizzato ai fini della procedura, per tutta la durata del sequestro (art. 24, par. 2, lett. b), reg. n. 655/2014. 104 Qualora gli averi bancari siano situati sul territorio italiano, l’autorità competente ai fini dell’esecuzione va individuata nel Tribunale ordinario del luogo di residenza del terzo, in linea con la previsione contenuta nell’art. 678 c.p.c. ed in conformità alla comunicazione resa dall’Italia alla Commissione Europea a norma dell’art. 50, reg. n. 655/2014. 105 Il regolamento non specifica con quali modalità debba avvenire la trasmissione dell’ordinanza al terzo, ma contiene un rinvio con funzione integrativa alla lex fori e, precisamente, alle norme che nell’ordinamento di esecuzione disciplinano l’attuazione di provvedimenti conservativi equivalenti al sequestro europeo. Qualora lo Stato membro coinvolto nell’esecuzione dell’OESC sia
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zione del sequestro viene realizzata nei limiti del valore del credito106, trasferendo il denaro su un conto apposito o, più semplicemente, inibendo al debitore atti dispositivi sui depositi finché perdura l’efficacia del provvedimento. Più precisamente, il vincolo permane sui conti correnti finché il provvedimento non venga revocato o ne cessi l’esecuzione, ovvero, quando la misura è ottenuta a garanzia di un titolo esecutivo, finché l’esecuzione del titolo non abbia avuto effetto per la somma sottoposta a sequestro (art. 20, reg. n. 655/2014). Il creditore e l’autorità giudiziaria sono informati degli esiti dell’operazione dalla banca procedente, la quale, entro il terzo giorno successivo all’attuazione del provvedimento sui conti del debitore, comunica se il sequestro è stato eseguito ed in quale misura, avvalendosi del modulo standard IV allegato al regolamento n. 1823/2016 (art. 25, reg. n. 655/2014)107.
l’Italia occorre fare riferimento alla disciplina del sequestro conservativo presso terzi e, dunque, agli 543 ss. c.p.c. Tuttavia, tali norme mal si conciliano con le previsioni del regolamento. Il codice di rito, infatti, prescrive al creditore che voglia attuare un sequestro conservativo mobiliare di notificare al debitore e al terzo un atto di citazione contenente, tra l’altro, l’ingiunzione al debitore di cui all’art. 492 c.p.c., la citazione del debitore a comparire davanti al giudice competente, e l’invito al terzo a comunicare la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c., con l’avvertimento che la non contestazione del credito rileva ai fini dell’assegnazione delle somme. Tutti elementi quelli elencati che postulano un’esecuzione del sequestro nel contraddittorio con il debitore e che appaiono incompatibili con la struttura dell’OESC. Il reg. n. 655/2014, dal suo canto, presuppone che l’attuazione dell’OESC avvenga inaudita altera parte ed impone che la trasmissione del provvedimento avvenga esclusivamente nei confronti della banca. Inoltre, come è stato osservato in dottrina (Leandro, L’ordinanza europea, cit., 139), l’inerzia della banca, che nel nostro ordinamento rileva come forma di non contestazione, nel contesto regolamentare non è idonea a perfezionare la procedura, ma dà luogo a responsabilità ai sensi dell’art. 26, reg. n. 655/2014. Nel silenzio del dato positivo e nell’attesa delle prime applicazioni giurisprudenziali, si condivide l’opinione di quanti escludono che la trasmissione dell’ordinanza debba avvenire con la notificazione di un atto di citazione a norma dell’art. 543 c.p.c. (Farina, L’ordinanza, cit., 522) e prefigurano l’opportunità di notificare, esclusivamente al terzo, un invito ad attuare l’ordinanza (Leandro, op. ult. cit., 139). Non dovrebbe influire sulla disciplina regolamentare neanche la previsione contenuta nell’art. 26-bis c.p.c., norma che a seguito della modifica introdotta dal d.l. n. 132/2014, attribuisce la competenza sul pignoramento presso terzi al Tribunale del luogo di residenza del debitore (sugli effetti dell’introduzione dell’art. 26-bis c.p.c. si rimanda allo scritto di Giussani, Il pignoramento di crediti di debitori esteri e l’art. 26-bis c.p.c, in Riv. dir. proc., 2018, 4-5, 1182). Si ritiene, piuttosto, che tutte le operazioni relative all’esecuzione del sequestro europeo, per l’ipotesi che il provvedimento debba ricevere attuazione in Italia, vadano ricondotte alla competenza del Tribunale del luogo di residenza del terzo, ai sensi dell’art. 678 c.p.c. Invero, come affermato in qualche pronuncia di merito in relazione al sequestro di diritto interno, la diversa natura (cautelare ed esecutiva) dei due rimedi esclude un’abrogazione tacita dell’art. 678 c.p.c. ad opera della riforma (in giurisprudenza: Tribunale Milano sez. III, 21/04/2016, in Ilprocessocivile.it, 8 luglio 2016; in dottrina: Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in judicium.it, 2015, 11; contra D’Alessandro, in F. P. Luiso, (a cura di), Processo civile efficiente e riduzione arretrato, Torino, 2014, 70, la quale attribuisce prevalenza al richiamo contenuto nell’art. 678 c.p.c. alle disposizioni in tema di pignoramento presso terzi, con conseguente operatività del nuovo criterio di competenza per territorio anche in caso di sequestro. A parere di chi scrive il dato più pregnante in favore collegamento tra l’esecuzione del sequestro europeo ed i luoghi del terzo, va rintracciato nella comunicazione resa dall’Italia alla Commissione Europea ai sensi dell’art. 50, reg. n. 655/2014. Nel provvedimento il governo italiano individua nel Tribunale ordinario del luogo di residenza del terzo l’autorità competente ai fini dell’esecuzione dell’ordinanza europea, per l’ipotesi in cui l’OESC venga emessa all’estero e sia successivamente attuata nel nostro ordinamento. Per esigenze di uniformità, l’indicazione fornita nella comunicazione dovrebbe valere anche per la diversa ipotesi in cui, emessa l’OESC nel nostro ordinamento da parte del giudice individuato ai sensi dell’art. 6, reg. n. 655/2014, essa debba successivamente ricevere attuazione sul territorio italiano. 106 Secondo quanto prevede l’art. 24, l’ordinanza non potrà attingere le somme presenti sul conto eccedenti l’importo specificato, viceversa, se i depositi sono incapienti essa sarà attuata per l’importo disponibile. A norma dell’art. 27, qualora il vincolo conservativo si estenda su somme eccedenti l’importo specificato nell’ordinanza (vuoi perché sono stati attinti più conti, vuoi perché altri provvedimenti nazionali equivalenti emessi per lo stesso credito sono stati attuati anteriormente), il creditore è tenuto a formulare all’autorità dell’esecuzione una richiesta di dissequestro secondo il formulario V allegato al regolamento n. 1823/2016, a meno che non vi proceda il giudice d’ufficio. 107 La banca, più precisamente, trasmette la dichiarazione all’autorità emittente se i conti correnti sono situati nello Stato membro dell’autorità emittente. Qualora, invece, i conti siano situati in uno stato diverso provvede alla trasmissione della dichiarazione in favore dell’autorità competente dello Stato membro dell’esecuzione.
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Entro il terzo successivo alla comunicazione l’ordinanza (unitamente alla domanda di sequestro, ai documenti giustificativi e alla dichiarazione del terzo), viene trasmessa al debitore108. La trasmissione dell’ordinanza al debitore apre la terza fase procedimentale. È il momento in cui il debitore apprende del vincolo sui propri depositi ed è messo in condizione di reagire alla misura cautelare per contestarne, nella pienezza del contraddittorio, l’ammissibilità, la fondatezza, la portata o la eseguibilità109. La conoscenza del provvedimento costituisce, dunque, lo snodo di vicende processuali, rimesse all’iniziativa del debitore, che possono influire sulla stabilità del sequestro e sulle sorti della futura esecuzione forzata. Il regolamento, al capo quarto, riassume sotto l’espressione “mezzi di ricorso” il ventaglio di contestazioni che il debitore può muovere contro l’OESC110. Il legislatore europeo costruisce le difese del sequestrato su una duplice barriera, distinguendo tra contestazioni che investono il sequestro sotto il profilo della sua legittimità, e contestazioni che riguardano l’esecutività della misura. Il primo fascio di contestazioni trova sbocco nell’istanza di revoca o di modifica dell’OESC (art. 33 e 35, reg. n. 655/2014) 111. La revoca, più precisamente, interviene: quando il sequestro si presenta illegittimo sin dall’origine, perché già al momento della concessione non sussistevano i requisiti di applicabilità del regolamento (art. 33, par. 1, lett. a)112; quando il sequestro non sia stato trasmesso tempestivamente al debitore (art. 33, par. 1, lett. b)113 o il creditore non ne abbia curato la traduzione (art. 33, par. 1, lett. c); quando il credito, a cautela del quale il sequestro è concesso, sia stato dichiarato infondato (art. 33, par. 1, lett. f) ovvero sia stato oggetto di una transazione tra le parti (art. 35, par. 3); nel caso in cui il debitore abbia eseguito un pagamento integrale del credito (art. 33, par. 1, lett. e); qualora il titolo esecutivo a garanzia del quale è richiesta la misura sia stato caducato (art. 33, par. 1, lett. g);
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L’avvio della comunicazione o notificazione deve avvenire entro il terzo giorno successivo all’attuazione (art. 28, reg. n. 655/2014) e il provvedimento deve pervenire al debitore entro quattordici giorni dal sequestro [cfr. art. 33, par. 1, lett. b), reg. n. 655/2014]. Le modalità di notificazioni e comunicazioni sono stabilite dall’art. 28 e variano in ragione del paese di domicilio del debitore: se questi è domiciliato nello stato d’origine, ovvero nello stato in cui è emessa l’ordinanza, tale adempimento è effettuato in conformità al diritto dello stato membro d’origine; se il debitore è domiciliato in uno stato diverso, la notificazione o la comunicazione è eseguita in conformità al diritto dello stato di domicilio del debitore; se il debitore è domiciliato nello stato di esecuzione, l’ordinanza è trasmessa all’autorità competente di tale stato membro che provvede ad avviare la comunicazione o notificazione del sequestro e ad informare il creditore (o l’autorità emittente); infine, se il debitore è domiciliato in uno stato terzo, la trasmissione è effettuata in conformità alle norme sulle notificazioni internazionali applicabili nello stato membro d’origine. 109 La terza fase assume un andamento diverso a seconda dell’evento che interessa il provvedimento ed ha carattere eventuale poiché è rimessa all’iniziativa del debitore che intende contestare l’ordinanza. 110 Per un approfondimento sui mezzi di ricorso riservati al debitore si v. D’Alessandro, I mezzi di ricorso e la protezione dei terzi, in AA.VV., Il sequestro europeo di conti bancari, 2017, Milano, 87 ss. 111 Nella impostazione del regolamento, la legittimità dell’ordinanza poggia sulla sussistenza dei requisiti di applicabilità della disciplina europea, sulla esistenza del credito tutelato e sulla attualità del titolo esecutivo. La mancanza originaria di tali elementi o un loro mutamento sopravvenuto espone il sequestro alla reazione del debitore. 112 Si pensi al difetto della transnazionalità della lite, oppure alla riconducibilità della controversia alle materie escluse dal regolamento. Cfr. D’Alessandro, op. ult. cit., 90. 113 La dottrina riconduce a tale ipotesi anche la omessa o incompleta trasmissione dell’OESC e dei documenti a corredo del provvedimento (D’Alessandro, op. ult. cit., 91).
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nell’ipotesi in cui il creditore, che abbia ottenuto un’OESC ante causam, non abbia avviato il giudizio merito nel termine (art. 10). Si tratta a ben vedere di vicende che investono il vincolo cautelare nella sua interezza, facendo venir meno ogni ragione per la quale mantenere il sequestro sugli averi del debitore. La modifica, invece, abbraccia eventi che si riflettono solo sull’ampiezza del vincolo conservativo, giustificandone più semplicemente una riduzione. Sono causa di modifica dell’OESC: il sequestro di somme in eccedenza rispetto al valore del credito (art. 33, par. 1, lett. d); il pagamento parziale del credito (art. 33, par. 1, lett. e); la riforma del titolo esecutivo alla base dell’OESC (art. 33, par. 1, lett. g); la transazione parziale della controversia (art. 35, par. 3)114. Su un piano diverso operano le contestazioni che investono l’esecuzione dell’ordinanza. Anche in questo ambito distinguiamo eccezioni che incidono sull’ampiezza del vincolo cautelare e rilievi che, invece, ne comportano una definitiva perdita di efficacia. Sotto il primo profilo viene in rilievo la presenza, sul conto del debitore, di importi esenti da sequestro, dei quali non si è tenuto conto nell’attuazione della misura. A norma dell’art. 34, co. 1, lett. a), più precisamente, è motivo di limitazione, l’aver eseguito il provvedimento in misura eccedente l’esenzione prevista dallo Stato membro di esecuzione. La fattispecie ricorre quando l’ordinanza è stata eseguita su beni considerati non sequestrabili, o sequestrabili in una certa misura, secondo il diritto interno. Si pensi all’OESC eseguita in Italia in violazione degli artt. 545 c.p.c. e 671 c.p.c. in base ai quali le somme dovute a titolo di stipendio, salario o altre indennità relative al rapporto di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, a titolo di pensione o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto corrente, possono essere sequestrate solo per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale (se l’accredito è avvenuto in data anteriore alla notifica del pignoramento), ovvero nei limiti di un quinto (se l’accredito è avvenuto successivamente). L’istanza del debitore si traduce in questi casi in una richiesta di riduzione del vincolo nei limiti degli importi sequestrabili. Sotto il secondo profilo vengono in rilievo le vicende del titolo esecutivo che il sequestro intende garantire. Più nel dettaglio, a norma dell’art. 34, co. 1, lett. b) sono motivo di cessazione dell’esecuzione i seguenti eventi: la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo da parte dei giudici dello Stato d’origine; il diniego dell’esecuzione della decisione da parte dei giudici dello Stato richiesto115. È evidente come entrambe le disposizioni mirino ad assicurare continuità tra l’efficacia del sequestro e l’efficacia della decisione sottostante tutte le volte in cui l’OESC sia stata concessa a garanzia di un titolo esecutivo. Alla stregua di tali norme l’efficacia del sequestro cessa allorché il debitore coltivi un’azione contro il
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A norma dell’art. 35, in ogni caso, qualunque mutamento nelle circostanze che hanno giustificato la concessione dell’OESC può legittimare, anche d’ufficio, la modifica o la revoca del provvedimento. 115 Tale circostanza si verifica quando la decisione europea che circola ai sensi del reg. n. 1215/2012 venga opposta dal debitore nello Stato d’origine e la sua esecuzione rifiutata per uno dei motivi contemplati nell’art. 45.
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titolo esecutivo e questa si concluda favorevolmente, ora con la sospensione della esecutività, ora con il diniego dell’esecuzione. A questi motivi di cessazione se ne aggiungono due ulteriori concernenti: la contrarietà dell’ordinanza all’ordine pubblico dello Stato di esecuzione (art. 34, co. 1, lett. i) e l’esecuzione del sequestro su conti qualificati dallo stesso Regolamento come non sequestrabili (art. 34, co. 2). Si tratta di ipotesi eterogenee che condividono con quelle sopra esaminate solo il risultato, ovvero, l’inefficacia del provvedimento di sequestro. Come le precedenti, anche queste investono l’an dell’esecuzione, ma originano da un vizio grave dell’ordinanza che giustifica la cessazione immediata di ogni effetto. La prima, in particolare, mira a salvaguardare il debitore dall’attuazione di sequestri emessi in violazione delle prerogative difensive fondamentali116; la seconda riguarda i provvedimenti esorbitanti l’ambito oggettivo del regolamento n. 655/2014, ovvero quei sequestri eseguiti presso banche centrali che agiscono in veste di autorità monetarie, espressamente escluse dall’applicazione dell’OESC a norma dell’art. 2, co. 4. Tutte le contestazioni del debitore, sia quelle sollevate contro l’ordinanza, sia quelle mosse contro la sua attuazione, seguono la procedura descritta nell’art. 36, reg. n. 655/2014: un rito destrutturato e celere, attivabile in qualunque momento senza particolari formalità. Nel caso di revoca e modifica, il giudizio si radica davanti all’autorità emittente, situata nello Stato d’origine. La cognizione sulle ipotesi di limitazione e cessazione spetta, invece, all’autorità competente ai fini dell’esecuzione. La decisione emessa all’esito del controllo sull’ordinanza è suscettibile di impugnazione a norma dell’art. 37, reg. n. 655/2014.
5. Segue: I rapporti tra l’OESC e le misure conservative di diritto interno.
Da quanto è emerso nelle battute preliminari la tutela conservativa dei crediti transfrontalieri non ha carattere uniforme, ma si traduce nell’attivazione delle misure provvisorie di diritto interno, muta in ragione del foro in cui il provvedimento è richiesto e, perciò stesso, risente delle diversità che intercorrono tra le discipline processuali in vigore nei singoli ordinamenti117.
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La dottrina prevalente ritiene l’ipotesi di applicazione marginale (Cfr. D’Alessandro, op. ult. cit., 105). Pare infatti difficile che l’esecuzione di un sequestro reso all’esito di un procedimento uniforme, costruito nel rispetto del diritto di difesa del debitore, possa violare l’ordine pubblico processuale dello Stato ad quem. Probabilmente la previsione ha funzione di mera clausola di salvaguardia. 117 Come rileva Sandrini, Tutela cautelare, cit., 99, al più si può riscontrare “una convergenza di funzioni” assegnate ai provvedimenti nazionali, i quali, al di là delle differenze procedurali, mirano ad assicurare l’esecuzione della decisione ed a salvaguardare gli interessi in gioco fino alla formazione del titolo esecutivo. Ma le differenze di fondo permangono e sono notevoli, anche per quanto riguarda l’interpretazione dei requisiti del fumus e del periculum. Se poi ci si addentra nei sistemi locali ci si accorge che la figura del sequestro di averi bancari non è uno strumento rinvenibile nella legislazione di tutti gli Stati membri. In alcuni ordinamenti il creditore si avvale di strumenti per così dire generici, adattando la funzione conservativa tipica di alcuni rimedi cautelari, alle somme
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Il regolamento n. 655/2014 si inserisce in questo quadro per ammorbidire gli effetti di un impianto cautelare che resiste alle tendenze di armonizzazione processuale ormai in atto tra gli stati membri. Nel solco tracciato dal reg. n. 1896/2006 e n. 861/2007, esso introduce un rito identico in tutto il territorio europeo, applicabile ovunque il creditore intenda assumere l’iniziativa cautelare118. Alla stregua dei regolamenti che lo hanno preceduto, non unifica le legislazioni degli stati membri, né si impone alla loro sovranità per sostituire le procedure locali con quella comune. Piuttosto si muove all’interno di un disegno di europeizzazione delle procedure, che vede le legislazioni nazionali avvicinarsi progressivamente fino a diventare compatibili, in vista del raggiungimento di un obiettivo superiore: il corretto svolgimento dei procedimenti civili (art. 81 TFUE)119. Nondimeno, rispetto ai precedenti strumenti di cooperazione giudiziaria, il livello di armonizzazione raggiunto è maggiore. Se ci si sofferma sull’ingiunzione di pagamento e sul rito per controversie di modesta entità, si può notare come in quei contesti il legislatore comunitario abbia circoscritto la spinta armonizzatrice ad alcune fasi del procedimento120. Il momento
di denaro presenti sui conti bancari (come le ingiunzioni in Irlanda o gli ordini in Danimarca). Solo alcune realtà giudiziarie offrono strumenti più specifici, concepiti proprio con la funzione di colpire beni appartenenti al debitore che si trovano nella disponibilità di terzi (come il Garnishee Order a Malta, l’Attachment Assets in Spagna, e il nostro sequestro conservativo presso terzi). Nella gamma di rimedi appena richiamati, le varianti attengono principalmente alla portata oggettiva del vincolo cautelare e agli effetti del provvedimento. Sotto il profilo oggettivo, la misura si presenta più o meno invasiva in ragione della estensione che nei vari ordinamenti assume il vincolo cautelare. In alcune giurisdizioni è imposto il blocco di tutte le somme presenti sul conto (ovvero su tutti i conti correnti intestati al debitore), senza limitazione alcuna, invece, in altre l’indisponibilità è circoscritta alle somme corrispondenti al valore del debito. In Francia, per esempio, la saisie conservatoire si dimostra un rimedio di ampia portata, poiché quando attinge il conto di un debitore, il vincolo si propaga ai conti accesi presso le filiali estere dello stesso istituto di credito, indipendentemente dall’ammontare del debito. In Italia e in Germania, per contro, il valore del credito condiziona l’operatività del provvedimento: il sequestro presso terzi e l’Arrest vengono eseguiti sul conto del debitore fino alla concorrenza delle somme richieste, sebbene non sia necessario precisare nell’istanza i beni (o meglio i conti) da sottoporre all’azione cautelare. L’ammontare del debito individua un margine quantitativo anche per la freezing injunction, il rimedio del diritto inglese che più si avvicina alla figura del sequestro conservativo. Nel sistema di common law, tuttavia, la misura ha carattere personale (non reale), e comporta l’instaurazione di un vincolo comunque penetrante sui beni del debitore. Il provvedimento consiste in un ordine inibitorio che impedisce al destinatario di compiere atti dispositivi di tutto il patrimonio (o di singoli cespiti), nei limiti dell’importo del credito. Peraltro, l’inerenza dell’ingiunzione alla persona del debitore rende irrilevante la collocazione dei beni, di conseguenza l’ordine può dispiegare effetti anche rispetto ad elementi patrimoniali situati al di fuori del territorio inglese. (I rilievi di diritto comparato che precedono sono stati attinti dai seguenti studi: Sandrini, Tutela cautelare in funzione di giudizi esteri, Padova, 2012, 35-100; Paglietti, Il regolamento 655/2014 sull’ordinanza di sequestro conservativo: effettività della tutela e convergenza tra sistemi di giustizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 4, 1289 e ss., ma anche in www.judicium.it; oberto, I procedimenti semplificati e accelerati nell’esperienza tedesca ed in quella inglese (I), in Corr. Giur. 2002, 9, 1239 ss.; oberto, I procedimenti semplificati e accelerati nell’esperienza tedesca ed in quella inglese (II), in Corr. Giur., 2002, 11, 1519 ss.). 118 L’unica condizione posta dal regolamento all’accesso alla disciplina uniforme è la transnazionalità della lite, potendo la normativa comune trovare applicazione solo nelle fattispecie in cui il conto da sequestrare è ubicato in uno stato membro diverso da quello in cui è formulata la domanda cautelare (considerando n. 10). 119 Alcuni parlano a riguardo di un fenomeno di ricomposizione del diritto processuale, in cui il legislatore europeo perviene alla creazione di una disciplina uniforme attraverso la combinazione di frammenti di discipline nazionali. Paglietti, op. cit., 12, in particolare, attribuisce al sequestro bancario una natura mista, poiché ricalcherebbe i tratti di alcune misure conservative già operanti nello spazio giudiziario comune. Secondo l’autrice, più precisamente, il sequestro europeo nascerebbe dalla sintesi dei modelli francese e tedesco, come risultato di un’osmosi dei due diversi sistemi di tutela. 120 Si pensi alla fase di opposizione all’ingiunzione, interamente demandata al diritto processuale del luogo in cui l’ingiunzione è richiesta. Solo in seguito le Istituzioni hanno ritenuto di poter disciplinare in maniera uniforme anche la fase di opposizione, ed hanno “agganciato” il reg. n. 1896/2006 al reg. n. 861/2007, stabilendo che la fase di opposizione avrebbe potuto trovare una disciplina uniforme nel rito europeo previsto per le controversie di modesta entità. Tale scelta si è concretizzata con il reg. n.
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esecutivo, in particolare, è stato interamente rimesso alle regole interne, con l’intenzione di agganciare l’attuazione dei due provvedimenti al diritto processuale dei singoli Stati membri121. Anche la disciplina del sequestro bancario ha bisogno di integrarsi con il diritto interno per essere completa ed efficace122, eppure, secondo la dottrina, presenta un certo grado di autonomia dalle normative nazionali123. Il regolamento n. 655/2014 arriva addirittura a tratteggiare la fase attuativa, ancorando l’esecuzione del titolo cautelare a parametri europei124. Si pensi agli obblighi posti a carico dell’istituto di credito (art. 24 e 25, reg. n. 655/2014), oppure alle direttive rivolte alle autorità giudiziarie coinvolte nell’esecuzione (art. 23, reg. n. 655/2014). Obblighi generici, a parere di qualche autore125, che però sono in grado di conferire alla fase esecutiva una impronta comunitaria126. Venendo ora al rapporto tra il sequestro europeo e gli omologhi modelli nazionali, va detto che l’OESC si affianca ai provvedimenti locali, aggiungendosi al ventaglio di rimedi che il legislatore di ogni stato membro mette a disposizione del creditore (considerando n. 6, reg. n. 655/2014). Sussiste, dunque, un rapporto di alternatività e facoltatività tra il sequestro europeo e le misure conservative statali, tale che il creditore è libero di avvalersi dell’uno come delle altre127. In sostanza, il titolare di un credito transfrontaliero si trova a poter scegliere tra due percorsi giudiziali differenti: la procedura uniforme dettata dal regolamento comunitario ed il rito cautelare disciplinato dalla legge dello Stato in cui promuove l’azione. Una valutazione comparativa che abbia come termini contrapposti le norme europee, da un lato, e le norme del diritto processuale nazionale, dall’altro, dovrebbe dirigere la parte verso la procedura che risulti più adatta al caso concreto, più efficace e più accessibile128. Tra le due vie, il rito europeo dovrebbe rappresentare una corsia preferenziale, non solo per la facilità con cui si accede alla giustizia (insita nella uniformità della procedura)129, ma anche per i vantaggi che conseguono alla sua applicazione, prima
2421/2015, in Gazz. Uff. Un. Eur., 24 dicembre 2015 (L 341/1). Cfr. art. 21, reg. n. 861/2007 e art. 21, reg. n. 1896/2006. 122 Come i regolamenti che lo hanno preceduto il reg. n. 655/2014 “non riesce ancora ad emanciparsi del tutto dalle regole processuali statali … e non può fare a meno di rinviare, per le questioni da esso non disciplinate, alle norme processuali del foro” (Franzina, L’ordinanza, cit., 13). 123 Sandrini, La procedura, cit., 31. L’autrice ha apprezzato lo sforzo compiuto in questa direzione dalle Istituzioni e richiama in proposito le parole di Nourissat, Une nouvelle étape dans le recouvrment des créances: l’Europe, ça marche!, in Procedures, n. 7, julliet 2014, il quale riferisce di un “salto qualitativo” all’interno del reg. n. 655/2014). Leandro, La circolazione, cit., 129 e ss., più critico sul punto, distingue i casi in cui la disciplina europea si presenta completa, i casi in cui il regolamento prevede obblighi generici da realizzare tramite procedure nazionali e, infine, le ipotesi in cui le regole europee presuppongono situazioni già regolate dal diritto interno. 124 Franzina, L’ordinanza, cit., 13. Critico sul punto Leandro, La circolazione, cit., 129 e 138: a parere dell’autore il rinvio al diritto nazionale fa del procedimento europeo un rito ibrido, che perde di uniformità in fase attuativa, potendo la medesima vicenda processuale subire un trattamento normativo diverso a seconda dello stato di esecuzione. 125 Leandro, La circolazione, cit., 130. 126 Invero, l’esecuzione viene scandita dalle regole nazionali, le quali sono chiamate ad operare all’interno della cornice normativa delineata dal regolamento nel capo terzo (art. 23 e ss. reg. n. 655/2014). 127 Leandro, La circolazione, cit., 123, parla di fungibilità per esprimere il rapporto di alternatività tra l’OESC e le misure locali. 128 In termini analoghi Franzina, L’ordinanza europea, cit., 13. L’autore delinea un rapporto di “competizione” tra i sequestri basati sulle regole statali e l’OESC. 129 Tale vantaggio è ancora più evidente, secondo Sandrini, La procedura, cit., 35, per il creditore già munito di titolo esecutivo, il quale può richiedere il sequestro direttamente al giudice a quo, senza doversi rivolgere ad autorità straniere (art. 6). 121
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fra tutte la possibilità di eseguire il provvedimento in qualunque ordinamento, anche oltre i confini dello Stato d’origine130. Senza dimenticare l’effetto sorpresa che le misure ex parte di diritto interno non sempre riescono ad assicurare. Tra i provvedimenti nazionali ed il sequestro europeo esiste poi un rapporto di equivalenza, inteso nel senso che i sequestri locali (con le rispettive discipline) costituiscono le figure alle quali fare riferimento per colmare i vuoti normativi lasciati dal regolamento in relazione a particolari aspetti della procedura131. Nell’ambito di questo rapporto il modello interno assume un ruolo determinante, poiché dalla disciplina della misura equivalente dipendono il perfezionamento e l’efficacia della misura europea. Le considerazioni che precedono valgono in generale nei rapporti tra l’OESC e le omologhe misure nazionali. Occorre adesso spostare l’attenzione sull’ordinamento italiano per precisare le relazioni che si instaurano tra l’OESC e il sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c., la misura che più di ogni alta si avvina per vocazione funzionale al modello europeo132. Si tratterà, in altre parole, di approfondire l’esame del nuovo istituto da un punto di vista interno, vagliando le ipotesi in cui le sorti dell’OESC si legano all’ordinamento italiano, vuoi perché in Italia si è formato il titolo esecutivo o è in corso il giudizio di merito, vuoi perché sul nostro territorio è ubicato il conto corrente del debitore. Il rapporto di alternatività ed equivalenza che il regolamento imbastisce tra il rimedio nazionale ed il rimedio europeo suggerisce, in questa diversa prospettiva di indagine, di rintracciare le liti con carattere di transnazionalità in cui l’OESC concorre con il sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c., per poi individuare quale delle due misure sia preferibile praticare, ciò tenendo conto di due parametri: l’attitudine transfrontaliera dei due provvedimenti e l’accessibilità delle rispettive procedure.
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Per contro, un sequestro conservativo di diritto interno, concesso inaudita altera parte, non avrebbe le stesse potenzialità di circolazione, perché incontrerebbe la barriera del sistema di esecuzione e riconoscimento attualmente in vigore nel territorio europeo. Come si è accennato nel paragrafo precedente e come si vedrà più approfonditamente nell’ultimo paragrafo, il reg. n. 1215/2012 filtra tutti i provvedimenti cautelari concessi ex parte che non siano stati comunicati al debitore prima della loro attuazione, così precludendo al creditore di conseguire il c.d. effetto sorpresa. 131 Leandro, La circolazione, cit., 123, definisce l’equivalenza come il parametro al quale fare riferimento per individuare la disciplina applicabile alla fase attuativa. A parere di chi scrive l’equivalenza dovrebbe essere, altresì, il parametro al quale fare riferimento per accertare se sussiste il diritto del creditore ad ottenere un’oesc, tutte le volte in cui egli abbia già ottenuto per lo stesso credito e contro lo stesso debitore un provvedimento nazionale conservativo. Invero, a norma dell’art. 16, la concessione (o il diniego) di un provvedimento nazionale equivalente fa venir meno l’opportunità di emettere un sequestro europeo. Secondo Franzina, Il sequestro, cit., 14, l’art. 16 costituisce una norma di raccordo tra il procedimento europeo ed i corrispondenti procedimenti nazionali, idonea a risolvere il rapporto di alternatività ed equivalenza che tra essi si instaura. 132 Gli elementi che permettono di accostare l’OESC al sequestro conservativo disciplinato dal codice di rito italiano sono esclusivamente l’indole cautelare e la funzione conservativa: entrambi gli strumenti sono votati a preservare la garanzia del credito nelle more dell’esecuzione, ma divergono sotto il profilo strutturale. Il meccanismo europeo non si identifica affatto col rito cautelare italiano. Infatti, come è stato giustamente osservato da Biavati, Il sequestro conservativo, cit., 869, la concessione dell’OESC avviene sempre inaudita altera parte, mentre da noi l’assenza di contraddittorio è un’eccezione (art. 669-sexies, co. 2, c.p.c.). In Italia, poi, grava sul creditore l’onere di instaurare il contraddittorio con il debitore e di “provocare” la conferma del provvedimento da parte del giudice; nel sistema del regolamento, invece, il procedimento prosegue unilateralmente fino all’attuazione della misura, sta al debitore sollecitarne il controllo davanti all’autorità giurisdizionale con i mezzi di ricorso (artt. 33-36). Infine, mentre il rito cautelare italiano culmina con il reclamo, il rito europeo raggiunge il suo apice con l’impugnazione promossa contro il provvedimento che decide sui ricorsi del debitore (art. 37).
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La sovrapposizione delle due misure si verifica essenzialmente in quattro ipotesi: a) quando il creditore è domiciliato in Italia, il giudizio di merito ha luogo in Italia ed il sequestro deve essere eseguito all’estero; b) quando il creditore è straniero (non ha il domicilio nel nostro paese), la competenza a decidere il merito spetta al giudice italiano ed il sequestro deve trovare attuazione in Italia; c) quando il creditore ha individuato in Italia conti correnti del debitore, ma il giudice italiano non è competente a decidere il merito della controversia; d) quando il creditore ha già conseguito un titolo esecutivo all’estero e debba darvi attuazione in Italia133. Nella ipotesi a) la competenza ad emettere l’OESC, ai sensi dell’art. 6, reg. n. 655/2014, e la competenza ad emettere un provvedimento di sequestro conservativo, ai sensi dell’art. 669-ter c.p.c., si concentrano nella medesima autorità, quella italiana, di conseguenza i provvedimenti appaiono alternativi e fungibili134. In questo caso la familiarità con la prassi giudiziaria italiana potrebbe spingere il creditore verso il sequestro conservativo presso terzi, modello prossimo ai luoghi in cui normalmente opera; tuttavia, l’ubicazione del conto all’estero rende più appetibile l’OESC, l’unico rimedio in grado di garantire in tali circostanze l’effetto sorpresa. Difatti, sebbene il creditore possa ottenere dal giudice del merito un sequestro conservativo inaudita altera parte (ex art. 669-sexies co. 2, c.p.c.), prima di eseguire il provvedimento all’estero dovrebbe darne comunicazione al debitore (artt. 2 e 42, reg. n. 1215/2012), così palesando l’intenzione di vincolare i conti e mettendo a rischio gli esiti della futura espropriazione. Viceversa, l’OESC viene attuata sui conti bancari senza che il debitore ne sia informato, dovendo il creditore comunicare l’esistenza del sequestro solo dopo la costituzione del vincolo sulle somme depositate135. Anche nella ipotesi b) la competenza ad emettere l’OESC ed il sequestro conservativo si radicano davanti al giudice italiano e i due provvedimenti si presentano alternativi. In questa fattispecie non v’è però necessità di esecuzione transfrontaliera, dal momento che il foro dell’esecuzione coincide con il foro competente per il merito, e la misura cautelare è destinata a ricevere attuazione nello Stato in cui viene pronunciata136. In tali circostanze l’OESC e il sequestro sono idonei ad assicurare al creditore il medesimo risultato: sia l’una che l’altro possono essere ottenuti ex parte, con il vantaggio dell’effetto sorpresa (cfr. art. 669-sexies co. 2 c.p.c.)137. La provenienza del creditore, tuttavia, rende ancora una volta il rito europeo pre-
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Si tratta di ipotesi in cui la competenza ad emettere l’OESC si concentra nella giurisdizione italiana, e coincide con la competenza ad emettere un sequestro conservativo. Fa eccezione l’ipotesi c) in cui l’ordinamento italiano viene in rilievo come foro esorbitante ed è privo della competenza ad emettere un sequestro europeo. Come si avrà modo di vedere a breve, in tutti i casi presi in considerazione il creditore potrebbe avere interesse ad attivare un sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c., in alternativa all’OESC, vuoi per la familiarità con la prassi giudiziaria italiana, vuoi per la vicinanza ai luoghi del debitore. 134 L’ubicazione del conto all’estero connota la lite di transnazionalità, nel rispetto dei requisiti di applicabilità posti dal regolamento. 135 Sotto questo profilo il sequestro europeo offre un quid pluris rispetto agli omologhi rimedi di diritto interno, poiché è funzionale alla tutela dei creditori che nell’ordinamento di appartenenza non possono contare su una tutela conservativa ex parte; inoltre esso potenzia la tutela di quei creditori che pur avendo ottenuto all’interno del proprio ordinamento una misura conservativa inaudita altera parte, non possono avvalersi del meccanismo di circolazione automatica introdotto con reg. n. 1215/2012 per esportarla nel foro dell’esecuzione. 136 Il requisito della transnazionalità è garantito questa volta dalla provenienza del debitore, domiciliato all’estero. 137 Proprio perché il sequestro non deve essere eseguito all’estero, il creditore può rivolgere utilmente al giudice del merito una richiesta
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feribile al rito nazionale. La procedura uniforme rappresenta, infatti, il canale più agevole per l’accesso alla giustizia per quanti non abbiano confidenza con la prassi giudiziaria italiana. Diversa appare l’ipotesi c) in cui il giudice italiano ha esclusivamente una competenza territoriale-esecutiva: i conti da sequestrare sono ubicati in Italia, ma il giudizio di merito pende (o sta per essere instaurato) in un ordinamento diverso. L’alternativa per il creditore si pone tra una richiesta di sequestro ex art. 671 c.p.c., da rivolgere al giudice italiano quale giudice del foro esorbitante ai sensi dell’art. 35 reg. n. 1215/2012, ed una richiesta di OESC, da sottoporre alle autorità dello Stato competente per il merito. Sulla scelta del rimedio, questa volta, influiscono una pluralità di fattori. Un creditore italiano, per esempio, potrebbe trovare più semplice avvalersi della prassi giudiziaria interna, soprattutto sapendo di poter ottenere ed eseguire il sequestro anche ex parte, ai sensi dell’art. 669-sexies co. 2 c.p.c. Se però consideriamo il rischio che nelle more del giudizio il debitore sposti i propri depositi all’interno di un altro Stato, allora, l’ordinanza europea, con la sua attitudine transfrontaliera, appare la soluzione migliore. Difatti, il decreto ottenuto ai sensi degli artt. 671 c.p.c. e 35 reg. n. 1215/2012 non può circolare al di fuori del territorio italiano e, perciò stesso, non è in grado di preservare il creditore da una eventuale ricollocazione delle somme presso depositi stranieri. La medesima riflessione dovrebbe guidare la scelta del creditore che ha necessità di eseguire il sequestro su una pluralità di conti correnti, dislocati all’interno di Stati membri diversi: un sequestro conservativo emesso dal giudice italiano ai sensi dell’art. 35, reg. n. 1215/2012, soddisferebbe l’esigenza cautelare solo rispetto ai depositi aperti in Italia, viceversa, l’OESC pronunciata dal giudice del merito avrebbe una vis conservativa molto più estesa, ben potendo il creditore avvalersi della stessa ordinanza per vincolare contestualmente tutti i conti correnti del debitore, indipendentemente dalla loro ubicazione138. Nelle ipotesi appena passate in rassegna il sequestro europeo si rivela più conveniente del sequestro presso terzi, e la sovrapposizione tra i due rimedi si risolve in senso favorevole per il primo. Diversa è la fattispecie di cui alla lett. d). Quando il creditore ha già conseguito un titolo esecutivo all’estero e deve attuarlo in Italia, il rapporto di concorrenza si instaura tra il sequestro conservativo da richiedere al giudice italiano, questa volta a norma dell’art. 40 reg. n. 1215/2012, e l’OESC da richiedere al giudice del luogo in cui il titolo si è formato ex art. 6, par. 3, reg. n. 655/2014. I due rimedi si presentano identici negli effetti, ma diversi nei presupposti: per ottenere un sequestro conservativo non è richiesta la prova del periculum, poiché l’esistenza del titolo implica di diritto l’autorizzazione ad ottenere misure cautelari nel foro dell’esecuzione (art. 40 reg. n. 1215/2012)139; il rilascio dell’OESC, invece, è condizionato alla prova dell’ur-
ex art. 669-sexies co. 2 c.p.c., creando le condizioni per eseguire il provvedimento cautelare di diritto interno inaudita altera parte. Cfr. all. 1, reg. n. 1823/2016: al punto 4 e al punto 7, si prevede espressamente la possibilità che il creditore chieda il sequestro di conti situati in diversi Stati membri. 139 Si ricorda in proposito che per ottenere il rilascio di un sequestro conservativo ai sensi dell’art. 40, reg. n. 655/2014, non occorre 138
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genza (art. 7, par. 1, reg. n. 655/2014), presupposto di difficile dimostrazione in una fase in cui il creditore, con in mano un titolo, è ormai prossimo all’avvio dell’esecuzione forzata140. L’esigenza probatoria sottesa al rilascio dell’OESC aggrava la procedura europea, rendendola meno appetibile per il creditore, il quale sarà portato a preferire la procedura interna, facilitato in questa seconda prospettiva dall’automatismo che contrassegna il rilascio del sequestro141. Peraltro, l’effetto sorpresa associato al sequestro conservativo sarà analogo a quello che scaturisce dalla pronuncia dell’OESC, dal momento che il sistema italiano permette al creditore di ottenere la misura inaudita altera parte ex art. 669-sexies co. 2 c.p.c. Per esigenze di completezza è opportuno esaminare il caso in cui l’OESC non si affianca al sequestro conservativo nazionale in rapporto di concorrenza, ma rappresenta l’unico rimedio esperibile per il creditore. Ci si riferisce all’ipotesi in cui il creditore straniero ha conseguito il titolo esecutivo in Italia e deve attuarlo proprio in Italia, laddove sono detenuti i conti del debitore. A ben vedere la fattispecie non costituisce un caso di esecuzione transfrontaliera in senso stretto, poiché il giudice d’origine ed il giudice dell’esecuzione sono situati all’interno del medesimo ordinamento. Tuttavia, assume una connotazione transnazionale ai sensi del reg. n. 655/2014 tutte le volte in cui il creditore sia domiciliato al di fuori dello Stato italiano [art. 3, par. 1, lett. b), reg. n. 655/2014.]. Si tratta di una ipotesi la cui configurabilità è discussa in dottrina, poiché risente del dibattito, tutto italiano, sorto attorno all’ammissibilità del sequestro conservativo in favore del creditore munito di titolo esecutivo142. Sul tema, come noto, si registrano tradizionalmente due orientamenti, uno restrittivo, l’altro estensivo143. Il primo nega l’ammissibilità del sequestro per difetto di interesse ad agire, posto che la presenza del titolo consente al creditore l’accesso immediato alla tutela esecutiva ed esclude in radice una situazione
instaurare un procedimento sommario. In altri termini, il giudice italiano autorizza la misura senza alcun apprezzamento sulla sua opportunità, di conseguenza non dovrebbero porsi per il creditore le criticità generate dall’approccio con una prassi giudiziaria diversa dalla propria. Contra Farina, L’ordinanza, cit., 510, nota 28, il quale reputa i provvedimenti nazionali difficilmente accessibili da parte del creditore domiciliato in un altro ordinamento, nonostante la semplificazione processuale introdotta dalla norma. 140 Per usare le parole di Sandrini, La procedura, cit., 48: “tanto più celermente sarà possibile procedere all’esecuzione forzata, tanto più sarà difficile dare prova del periculum in mora”. Come spiega l’autrice, quando il giudice valuta la sussistenza del periculum in mora, accerta quali siano i tempi necessari per ottenere il soddisfacimento del credito, e concede il provvedimento solo se il lasso di tempo che separa il creditore dall’inizio dell’esecuzione forzata è così lungo che l’esito ne risulti pregiudicato. L’abolizione generalizzata dell’exequatur accorcia i tempi dell’esecuzione transfrontaliera e riduce il rischio che il creditore possa essere pregiudicato nelle more dell’attuazione. Di conseguenza, quando il creditore munito di titolo formula al giudice che lo ha emesso una richiesta di OESC, potrebbe apparire poco probabile che l’esito dell’espropriazione venga compromesso e la prova del periculum potrebbe risultare di difficile dimostrazione. 141 V. supra, nel testo. 142 Tra gli autori che si sono interessati della questione si v.: Pototschinig, Il sequestro conservativo, in Il processo cautelare, a cura di Tarzia, Saletti, Padova, 2015; Samorì, Ammissibilità di un sequestro conservativo in presenza di un titolo esecutivo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1985, 134 ss.; Ferri, Procedimenti cautelari a tutela del credito. Il sequestro conservativo, in Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 2000, 75 ss. 143 Una tesi intermedia ammette il sequestro conservativo a fronte di un titolo stragiudiziale: la presenza del titolo di formazione stragiudiziale non escluderebbe l’interesse ad ottenere, in sede di cognizione, l’accertamento del credito e, in sede cautelare, la sua tutela conservativa (Pototsching, op. cit., 16 e s.). Tale indirizzo risolve il problema della ammissibilità del sequestro sul piano dei rapporti tra cognizione e cautela, ammettendo la seconda tutte le volte in cui sia possibile la prima. In altri termini se il creditore sceglie di far accertare giudizialmente il diritto consacrato nel titolo stragiudiziale, egli deve poter aver accesso ad una tutela piena e, dunque, aspirare non solo ad una tutela finale, ma anche interinale, sia anticipatoria che conservativa (Samorì, op. cit., 148).
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di pericolo tale da giustificare la concessione della misura conservativa144. Il secondo ammette il sequestro anche in presenza di un titolo esecutivo, purché sussista un periculum in mora qualificato, ovvero un interesse in grado di giustificare l’attivazione della tutela cautelare in luogo di quella esecutiva145. Ebbene, i primi commentatori del reg. n. 655/2014, aderendo fedelmente al primo dei due indirizzi, hanno negato l’astratta configurabilità dell’OESC nelle ipotesi in cui il creditore straniero voglia eseguire in Italia il titolo ottenuto all’interno del nostro ordinamento146. Secondo gli autori, la conclusione sarebbe avvalorata dalla difficoltà di provare il periculum in mora in una situazione, come quella descritta, in cui il creditore agisce esecutivamente negli stessi luoghi in il titolo si è formato. Da privilegiare è la soluzione più liberale che ammette anche in Italia il rilascio dell’OESC in favore del creditore titolato147. Ciò per due ragioni. Innanzitutto, è lo stesso regolamento, all’art. 3, par. 1, lett. b), a riconoscere la possibilità di richiedere l’OESC al fine di eseguirla nel paese in cui il titolo si è formato. In secondo luogo, il rango comunitario della norma citata, risolve il conflitto tra il regolamento e il codice di rito in favore del primo. Difatti, il reg. n. 655/2014, sebbene abbia istituito uno strumento facoltativo per i creditori europei, è direttamente applicabile nei paesi membri, e nei rapporti con le fonti interne è destinato a prevalere.
6. Segue: I rapporti tra il regolamento n. 655/2014 e le
altre misure di cooperazione giudiziaria.
Il regolamento n. 655/2014 si iscrive nel settore della cooperazione giudiziaria civile (art. 81 TFUE) accanto ai regolamenti n. 805/2004, n. 1896/2006, n. 861/2007 e n. 1215/2012.
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L’orientamento trova fondamento positivo nell’art. 482 c.p.c.: la norma contempla la possibilità di procedere immediatamente a pignoramento, senza attendere il decorso di dieci giorni, quando sussista il pericolo che tra il compimento degli atti preliminari all’esecuzione ed il pignoramento si concretizzi il pericolo di perdere la garanzia del credito. La funzione cautelare assolta dallo strumento è tale da escludere l’interesse a richiedere un sequestro conservativo. 145 Si pensi al creditore che abbia conseguito una sentenza non ancora passata in giudicato, un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo o un provvedimento anticipatorio di condanna. Egli potrebbe nutrire perplessità nei confronti del pignoramento (per il timore di incorrere in responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 co. 2 c.p.c. qualora il credito fosse successivamente dichiarato inesistente), ma al contempo paventare la perdita della garanzia del credito. In una situazione simile il sequestro si rivela uno strumento meno dannoso rispetto alla procedura esecutiva, poiché è in grado di assicurare i beni del debitore, mantenendoli nella sua sfera patrimoniale, a differenza del pignoramento, capace di modificare in maniera irreversibile la titolarità dei beni sottoposti a vincolo con la vendita forzata (Samorì, op. cit., 139, nota 10). Altra fattispecie in cui la giurisprudenza ha ammesso il sequestro conservativo in favore di un creditore munito di titolo è quella che si verifica quando il pagamento dell’imposta di registro necessaria per ottenere la copia autentica della sentenza di condanna sia troppo oneroso per il creditore (Pototsching, op. cit., 18, nota 53). 146 M. Farina, L’ordinanza, cit., 510. Secondo l’autore la conclusione sarebbe avvalorata dal disposto dell’art. 16, par. 3 e 4, reg. n. 655/2014, nella parte in cui dispone che l’OESC deve essere negata quando il creditore abbia ottenuto un provvedimento nazionale equivalente. A parere di chi scrive la norma non esclude a priori la pronuncia di un’OESC sol perché l’ordinamento italiano mette a disposizione del creditore un provvedimento equivalente. Piuttosto nega l’opportunità dell’OESC quando un provvedimento equivalente (rectius: un sequestro conservativo) sia stato già ottenuto dal creditore. 147 Sandrini, La procedura, cit., 35.
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Con tali strumenti condivide l’obiettivo di rafforzare la posizione del creditore, ma realizza la tutela del credito su un piano complementare e diverso. Se si osserva il raggio di azione dei regolamenti che appartengono alle passate stagioni processuali, i tratti differenziali che intercorrono tra questi e il reg. n. 655/2014 risultano più evidenti. Il reg. n. 805/2004 (così come il reg. n. 1215/2012) opera sul piano della circolazione dei titoli esecutivi, e legittima il creditore munito di un titolo di diritto interno ad avviare l’espropriazione in qualunque ordinamento, senza bisogno di una dichiarazione esecutività. Esso realizza la tutela del credito dopo il processo, favorendo la circolazione delle decisioni che incorporano i diritti di credito. I regolamenti n. 1896/2006 e n. 861/2007, invece, intervengono sul piano della formazione delle decisioni, si rivolgono al creditore privo di titolo esecutivo e creano le condizioni per conseguire una pronuncia di condanna idonea all’esecuzione transfrontaliera. Tali strumenti realizzano la tutela del credito nel processo e, precisamente, all’interno delle procedure uniformi in cui ha luogo l’accertamento del diritto. Il reg. n. 655/2014, dal suo canto, agisce sul versante cautelare e somministra al diritto di credito una tutela interinale, provvisoria, che si pone come strumentale tanto alla formazione del titolo esecutivo, tanto alla sua circolazione tra i paesi europei. L’OESC interviene mentre il titolo prende forma per cristallizzare la situazione di fatto che si evolve e muta al di sotto del giudizio148. Nell’ultima fase di cooperazione giudiziaria, dunque, la tutela del credito si realizza fuori dal processo: è qui che il sequestro bancario produce i suoi effetti, accompagnando il creditore durante l’accertamento, dopo la pronuncia della sentenza di condanna, nel passaggio della decisione oltre i confini degli stati membri, fino alla liquidazione dei beni del debitore, nel vivo dell’esecuzione forzata. La differenza funzionale che intercorre tra i regolamenti in questione permette di escludere qualunque interferenza tra gli strumenti di cooperazione giudiziaria. La strumentalità cui si è appena fatto cenno, risolve il rapporto tra il sequestro bancario e gli altri rimedi nel senso che il creditore può accedere all’uno come agli altri, senza sovrapposizioni di sorta. Peraltro, il creditore ben può avvalersi del sequestro di averi bancari per garantire l’esecuzione di un’ingiunzione europea o di una sentenza di condanna emessa nel rito per liti di modico valore, trattandosi in entrambi i casi di decisioni ai sensi dell’art. 5, reg. n. 655/2014149.
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Alla base del sequestro bancario c’è proprio la consapevolezza da parte delle Istituzioni che una tutela effettiva del credito presuppone, ancor prima che il diritto venga riconosciuto nella statuizione di condanna, che vengano predisposte le basi della sua futura attuazione (In tal senso, Vismara, op. cit., 97 ss. Secondo l’autore, ha senso predisporre riti uniformi o garantire la libera circolazione delle decisioni, solo se si garantisce la conservazione dei beni sui quali poterle eseguire). 149 Sandrini, La procedura, cit., 53 ss., prospetta addirittura la possibilità di ottenere un’OESC per assicurare l’attuazione transfrontaliera di un’ingiunzione europea non ancora esecutiva, per la quale non sia scaduto il termine di opposizione.
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Luigi De Propris
Nuevas tendencias en la notificación europea El autor cuestiona la compatibilidad de la notificación comúnmente llamada “ficticia” con el Reglamento europeo de la “notificación y al traslado en los Estados miembros de documentos judiciales y extrajudiciales en materia civil o mercantil” contenida en el Reglamento (CE) nº 1393/2007 tal como viene interpretada por el Tribunal de Justicia de la Unión Europea. The author poses the question on the compatibility of the service of documents, the so-called fictitious service, with the European Regulation of the notificación y al traslado en los Estados miembros de documentos judiciales y extrajudiciales en materia civil o mercantil contained in the Regulation (EC) No 1393/2007 as interpreted by the Court of Justice of the European Union.
En el panorama del derecho procesal internacional y europeo, los perfiles de interés relativos a la notificación internacional se deberían considerar sin duda entre los más importantes desde el punto de vista práctico y entre uno de los más sensibles en términos de las garantías constitucionales. El procedimiento de notificación aspira a conciliar derechos fundamentales garantizados por las constituciones democrático-liberales de los Estados europeos, empezando por el derecho a emprender acciones legales y a obtener protección por parte del demandante, a través del derecho a la defensa de la parte demandada, así como al interés público de la eficacia y la rapidez en los procedimientos judiciales en materia civil. Por tanto, no es de extrañar que la autoridad jurisdiccional de cada Estado y, a nivel comunitario, la Corte de Justicia de la Unión Europea sigan teniendo que lidiar con los problemas relacionados con la notificación internacional, después de haber pasado más de 12 años desde la entrada en vigor del Reglamento CE 1348/2000, sustituido más tarde por el Reglamento CE 1393/2007, ambos relacionados con las notificaciones y con las comunicaciones entre los Estados miembros de actos judiciales y extrajudiciales en materia civil y comercial. De todas formas, este no es el momento para tratar con detalle el contenido de estos reglamentos. En cambio, preferiría centrarme en algunos de los aspectos de la notificación europea que, en los últimos tiempos, han adquirido cada vez mayor importancia en la jurisprudencia comunitaria y de cada Estado miembro. El primero de ellos se refiere a la persistente legitimidad en el espacio judicial europeo de la práctica de la llamada “notificación ficticia”. Como es sabido, tal denominación designa sumariamente un modo de notificación de actos judiciales, que se usa particularmente para la notificación en el extranjero y se opone a la notificación efectiva. Se trata de una constelación de casos que ocurre en la práctica judicial cuando las normas de derecho in-
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ternacional privado y procesal que se aplican permiten al actor que promueva una acción legal en un país en el que el demandado no tiene domicilio ni residencia habitual (pensemos, por ejemplo, a la competencia del órgano jurisdiccional del lugar del cumplimento de la obligación conforme al artículo 7 del reglamento 1215 del 2012). En resumen, si la notificación es el procedimiento orientado a poner en conocimiento a un sujeto de un acto jurídico, y si – con especial referencia al acto de introducción de un proceso – su perfeccionamiento desencadena en el destinatario el inizio del plazo de tiempo para proponer su propia defensa (basta pensar en el plazo de tiempo de solo dos semanas para proponer Einspruch contrario a Versaeumnisurteil en el derecho alemán), es inevitable definir la eficacia de la notificación como una connotación distintiva del proceso justo. Por otro lado, la misma notificación despliega, desde el punto de vista del demandante, efectos conservadores en los derechos accionados (pensemos al efecto de interrupción y suspensión del plazo de prescripción). De aquí el potencial conflicto de intereses y las controversias consecuentes entre las partes, en relación con el buen resultado del procedimiento de notificación. Es sabido que cada Estado miembro de la UE mantiene la competencia exclusiva en la regulación de la disciplina procesual. Y es justo en el ejercicio de dicha competencia que el momento de perfeccionamiento de la notificación pueda ser variadamente disciplinado en los distintos ordenamientos procesuales y se pueda volver más o menos independiente de la efectiva posibilidad de conocimiento por parte del destinatario del acto que se le ha notificado. Así que en el equilibrio de intereses descritos anteriormente se ejerza una elección de valor hacia la efectividad de la tutela jurisdiccional a favor del demandante. De este modo, para el cumplimiento de ciertas obligaciones por parte de este último en el ámbito del Estado de origen, la ley de ese Estado podría efectuar una ficción, considerando válidamente perfeccionada la notificación en el extranjero a los efectos del procedimiento pendiente, incluso sin que al destinatario se le haya dado la posibilidad concreta de conocer el acto que le ha sido notificado. El hecho jurídico al que se puede volver a conectar la ficción legal del perfeccionamiento de la notificación puede ser de lo más variado. Durante mucho tiempo, el paradigma de la notificación ficticia ha sido representado por el remis au parquet del derecho francés, bajo el cual la notificación se consideraba perfeccionada en el momento de la entrega del acto que se tenía que notificar en el Ministerio Público (art. 684 del Código de Enjuiciamiento Civil)1. Incluso en Italia, una hipótesis bastante blanda de notificación ficticia está establecida en el artículo 142 del Código de Enjuiciamiento Civil2. Según ésta, si el destinatario del acto
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Primer párrafo del articulo 684 del Code de procedure civile: “L’acte destiné à être notifié à une personne ayant sa résidence habituelle à l’étranger est remis au parquet, sauf dans les cas où un règlement européen ou un traité international autorise l’huissier de justice ou le greffe à transmettre directement cet acte à son destinataire ou à une autorité compétente de l’Etat de destination”. Primer párrafo del articulo 142 del codice di procedura civile italiano: “Salvo quanto disposto nel secondo comma, se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell’art. 77, l’atto
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no tiene residencia o domicilio en el Estado y no ha elegido domicilio o no ha conseguido un procurador allí, el acto se notifica mediante el envío al destinatario por medio de una carta certificada y mediante la entrega de otra copia al Ministerio de Asuntos Exteriores para que se entregue a la persona a quien va dirigida. En tal caso, con arreglo al párrafo tercero del artículo 143 del Código procesal Civil, la notificación se considera efectuada a los veinte días siguientes al día en el que se han llevado a cabo los trámites necesarios. En los últimos años en muchos países de Europa se ha producido una reorganización en el uso de la práctica de la notificación ficticia, justo bajo la presión del reglamento del 2000 y, más recientemente, del 2007. Este último en particular – como se sabe – ha confirmado y fortalecido la llamada “doble vía” del procedimiento de notificación. Por un lado, la notificación mediante la transmisión de los actos entre los organismos remitentes del país en el que se está llevando a cabo el procedimiento y los organismos receptores del país de destino (Art. 2 reg. 1393/2007)3. Y por otro lado, la notificación directa por correo mediante carta certificada con acuse de recibo (art. 14)4 o por vía consular o diplomática o por medio de agentes diplomáticos o consulares (arts. 12 y ss.)5, con la posibilidad, por otra parte, del cúmulo de diferentes modalidades de notificadores. Por tanto, no puede haber duda alguna de que la disciplina europea] que impone siempre y de una manera u otra la notificación efectiva en el interior del espacio judicial europeo. En otras palabras, el hecho de que el reglamento en cuestión se aplicara “cuando un documento judicial o extrajudicial deba transmitirse de un Estado miembro a otro para ser notificado o traslado a este último” tenía que servir de estímulo para frenar la práctica de la notificación ficticia en el extranjero, por lo menos dentro de los límites de su marco de
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è notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale è diretta”. Art. 2 reg. 1393/2007 “Organismos transmisores y receptores”: “1. Cada Estado miembro designará a los funcionarios públicos, autoridades u otras personas, en lo sucesivo denominados «organismos transmisores», competentes para transmitir los documentos judiciales o extrajudiciales que deban ser notificados o trasladados en otro Estado miembro. 2. Cada Estado miembro designará a los funcionarios públicos, autoridades u otras personas, en lo sucesivo denominados «organismos receptores», competentes para recibir los documentos judiciales o extrajudiciales que procedan de otro Estado miembro. 3. Cada Estado miembro podrá designar bien un organismo transmisor y un organismo receptor, bien un único organismo encargado de ambas funciones. Los Estados federales, los Estados en los que rijan varios ordenamientos jurídicos y los Estados que cuenten con entidades territoriales autónomas tendrán la facultad de designar más de uno de los organismos mencionados. La designación tendrá efecto durante un período de cinco años y podrá renovarse cada cinco años. 4. Cada Estado miembro facilitará a la Comisión la siguiente información: a) los nombres y direcciones de los organismos receptores previstos en los apartados 2 y 3; b) el ámbito territorial en el que sean competentes; c) los medios de recepción de documentos a su disposición, y d) las lenguas que pueden utilizarse para rellenar el formulario normalizado que figura en el anexo I. Los Estados miembros notificarán a la Comisión toda modificación posterior de la citada información” Art. 14 “Notificación o traslado por correo: Cada Estado miembro tendrá la facultad de efectuar la notificación o traslado de documentos judiciales directamente por correo a las personas que residan en otro Estado miembro mediante carta certificada con acuse de recibo o equivalente”. Artículo 12 (Transmisión por vía consular o diplomática) “Cada Estado miembro tendrá la facultad, en circunstancias excepcionales, de utilizar la vía consular o diplomática para enviar documentos judiciales, con fines de notificación o traslado, a los organismos de otro Estado miembro designados con arreglo a los artículos 2 o 3”.
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aplicación. Esto explica los cambios realizados por los legisladores nacionales a las leyes de enjuiciamiento, que prevén cláusulas que excluían la aplicabilidad de las disposiciones nacionales relativas a la notificación en el extranjero siempre que dicha notificación se pudiera llevar a cabo en una de las formas permitidas por los convenios internacionales o por la propia normativa europea. De este modo, la relevancia de la disciplina comunitaria permanecería vinculada por cada disposición nacional, encontrando la primera aplicación únicamente cuando las normas procesales vigentes en el Estado en el que se realiza el procedimiento judicial hubieran solicitado la notificación en otro Estado miembro. Es decir, si el reglamento comunitario hubiera sido competente para regular el “cómo” de la notificación, solamente las normas procesales nacionales hubieran podido establecer “cuándo” y si se habría tenido que aplicar a esa disciplina. Más recientemente la relación entre la disciplina comunitaria de las notificaciones y cada disciplina nacional se ha invertido radicalmente bajo la presión propulsora del Tribunal de Justicia de la Unión Europea. El caso se ha puesto en manos de la cuestión interpretativa (en la causa C-325/11, Alder / Orlowska)6 planteada en cuanto a la compatibilidad con el Reglamento 1393/2007 del mecanismo de notificación ficticia previsto por el artículo 1135 del Código de procedimiento civil polaco (Kodeks postępowania cywilnego). Tal artículo exige que la parte del procedimiento cuyo domicilio, residencia habitual o sede se encuentre en el extranjero y no hubiere nombrado un representante procesal en Polonia, deberá designar en este Estado un representante autorizado a recibir notificaciones. Si la parte no hace tal designación, se prevé que los documentos dirigidos a dicha parte se incorporaran a los autos y se considerará que ha tenido lugar la notificación de los mismos. En este caso, el código procesal civil polaco no regula una hipótesis de notificación en el extranjero, y por lo tanto el caso quedaba fuera del ámbito del Reglamento 1393 y la regulación de la UE no tenia que ser aplicada. Sin embargo, el Tribunal de Justicia no ha aceptado esa posición, apoyada en su momento por el Gobierno polaco, e incluso ha dicho que el legislador europeo, con el reglamento 1393/2007, se ha forjado un concepto autónomo de notificación europea capaz de imponerse a instituciones similares desarrolladas por la normativa procesal de los Estados miembros y basadas en una notificación ficticia del todo interna. Parece importante también señalar que las argumentaciones de mayor peso sobre las que el Tribunal había considerado que podría basar su decisión eran precisamente las que derivaban de la inadmisible discriminación entre ciudadanos de la Unión Europea y la violación del derecho a la defensa legal consagrada en el artículo 6 del Convenio Europeo de los Derechos Humanos y en el artículo 47, párrafo 2, de la Carta de los Derechos Fundamentales de la Unión Europea.
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Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 19 dicembre 2012, causa C-325, en Osservatorio comunitario, a cura di Irene Pinciano, in I contratti, 2013, 210 ss.
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De todo eso se desprende que, más allá de las hipótesis excluidas expresamente (es decir, si no se conoce el domicilio o residencia habitual del destinatario, y cuando éste haya designado a un representante autorizado en el Estado donde se celebra el juicio), el mismo reglamento debe encontrar siempre una aplicación cuando el destinatario de un acto resida en un Estado distinto de aquel donde se celebra el juicio. De ahí la declaración de incompatibilidad con el Derecho Europeo, no sólo en el artículo 1135 del Código de Enjuiciamiento Civil polaco, sino – parece lógico concluir aquí – en cualquier forma de notificación ficticia dentro de la Unión Europea, aunque no sea expresamente regulada una notificación en el extranjero, como en el caso polaco. Los resultados a los que se han llegado tendrán seguro efectos también en otros ordenamientos procesales, como el alemán. Por ejemplo, el § 184 de la ley de enjuiciamento civil alemana (Zivilprozessordnung, di seguito “Zpo”) autoriza al juez a ordenar que la parte que tenga su domicilio o residencia habitual en el extranjero designe en Alemania un representante autorizado a recibir notificaciones. Si eso no sucede, las sucesivas notificaciones pueden ser enviadas por correo, y los documentos se entienden como notificados dos semanas después de la entrega a la oficina de correos7. Tampoco el § 184 Zpo tendría que considerarse compatible con el derecho europeo, y también si esta previsión de ley no se aplica a los actos introductorios del proceso, en cuanto supone ya iniciada la litispendencia. Otro perfil relacionado con la notificación europea que está ganando cada vez más visibilidad en la jurisprudencia de los Estados miembros es el problema de la redacción lingüística de los actos que deben ser notificados y de la posible necesidad de su traducción. Como se sabe, las disposiciones de los artículos 5 y 8 Reglamento 1393/2007 permiten que el destinatario de una notificación pueda rechazar el acto si éste no está redactado en un idioma que comprende o en una lengua oficial del Estado que ha solicitado la notificación8. Con razón se ha señalado que la misma multiplicidad de las tradiciones lingüísticas de la Unión Europea representa quizá el principal talón de Aquiles del derecho procesal civil europeo, y al mismo tiempo hace que nuestro sector de estudio sea un campo privi-
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§ 184 ZPO “Zustellungsbevollmächtigter; Zustellung durch Aufgabe zur Post (1) Das Gericht kann bei der Zustellung nach § 183 Absatz 2 bis 5 anordnen, dass die Partei innerhalb einer angemessenen Frist einen Zustellungsbevollmächtigten benennt, der im Inland wohnt oder dort einen Geschäftsraum hat, falls sie nicht einen Prozessbevollmächtigten bestellt hat. Wird kein Zustellungsbevollmächtigter benannt, so können spätere Zustellungen bis zur nachträglichen Benennung dadurch bewirkt werden, dass das Schriftstück unter der Anschrift der Partei zur Post gegeben wird. (2) Das Schriftstück gilt zwei Wochen nach Aufgabe zur Post als zugestellt. Das Gericht kann eine längere Frist bestimmen. In der Anordnung nach Absatz 1 ist auf diese Rechtsfolgen hinzuweisen. Zum Nachweis der Zustellung ist in den Akten zu vermerken, zu welcher Zeit und unter welcher Anschrift das Schriftstück zur Post gegeben wurde”. 8 Art. 8, primer párrafo: “el organismo receptor informará al destinatario, mediante el formulario normalizado que figura en el anexo II, de que puede negarse a aceptar el documento que deba notificarse o trasladarse, bien en el momento de la notificación o traslado, o bien devolviendo el documento al organismo receptor en el plazo de una semana, si no está redactado en una de las lenguas siguientes o no va acompañado de una traducción a dichas lenguas: a) una lengua que el destinatario entienda, o bien b) la lengua oficial del Estado miembro requerido, o la lengua oficial o una de la lenguas oficiales del lugar en el que deba efectuarse la notificación o el traslado si existen varias lenguas oficiales en dicho Estado miembro”.
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legiado de observación de la relación de tensión y de conflicto (Spannungsfeld) entre el derecho de emprender acciones legales y defenderse en los tribunales. Hay muchas áreas de interés que no se mencionan expresamente en el reglamento. Es fácil intuir que, en la aplicación concreta de la jurisprudencia – como ya se puede imaginar de algunos precedentes – la mayor controversia apuntará al perfil relativo a la comprensión lingüística de la (demandado) parte demandada, y no al dato formal constituido por la lengua oficial del Estado de recepción. ¿Cuál será el nivel mínimo de competencia lingüística requerida para una notificación válida y eficaz? ¿Se tendrá que tomar en cuenta, en esa evaluación, el lenguaje técnico-jurídico que es muy diferente de la lengua de la vida cotidiana? Merece también mencionarse aquí el problema de la distribución de la carga de la prueba de la subsistencia de las presuposiciones por la negativa a recibir el acto. ¿Se trata (como parece aludir el contenido literal de la formulación de la norma) de una excepción cuya carga de alegación y prueba recae sobre el demandado? O, en alternativa, de acuerdo con el sentido y la finalidad del reglamento para proteger el derecho de defensa del acusado, ¿no debe ser más bien la regularidad formal de la notificación objeto de prueba de parte del actor? Una línea para el uso y la práctica de los jueces a la hora de resolver estas cuestiones parece que se puede extraer del considerando 10 del reglamento, donde se afirma que “para garantizar la eficacia del presente reglamento, la posibilidad de rechazar la notificación de los actos debería ser limitada a situaciones excepcionales”. Si queremos dar a las palabras el peso que les corresponde, el riesgo de vaciar todo el reglamento del sentido preceptivo debería impulsar a una interpretación restrictiva del supuesto del conocimiento, por parte del demandado, de la lengua de redacción de los actos del artículo 8 letra a) del reglamento. Está bastante claro que esta reglamentación se establece para proteger el derecho de defensa del demandado, pero ésta no puede llegar al punto de exacerbar más allá de lo razonable las condiciones impuestas a los actores para poder emprender acciones legales, imponiéndoles costes excesivos para la traducción de los actos que deben ser notificados. En cambio, el criterio de la sensatez impondrá que se valoricen las relaciones precedentes entre las partes, protegiendo la confianza que el actor pueda haber depositado en el hecho de que la parte contraria haya entrado en relación con él – por ejemplo, en la relación comercial que había precedido al juicio – acogiéndose a una determinada lengua. No es raro entonces que en este espectro de interrogantes propios del derecho internacional privado se puedan solapar cuestiones de derecho procesal interno, como ha ocurrido recientemente en Alemania con la supuesta carga de la notificación a la otra parte. Durante mucho tiempo, ha constituido un principio pacífico en el ordenamiento procesal alemán el hecho de que, de conformidad a las disposiciones de los párrafos §§ 253 y 131 ZPO, con el acto introductorio del juicio también deberían ser notificados los documentos a los que se hubiera hecho referencia al proponer una demanda judicial, constituyendo los dos una inescindible unidad. Esto obtuvo además su justificación del principio de que en el Estado de Derecho no se debería permitir iniciar un proceso judicial sin que el inte-
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resado tuviera pleno conocimiento de toda la información sobre la demanda propuesta de la que también disponía el órgano estatal (el juez), con el fin de darle una completa posibilidad de utilizar su derecho de defensa. Este principio fue afirmado expresamente por el BGH con una resolución del 21 de diciembre de 20069 que hacía precisamente referencia al derecho de rechazar la notificación en virtud del artículo 8 del reglamento 1348/2000, cuando solo el acto introductorio y no los documentos que lo acompañaban habían sido traducidos en el idioma entendido por el destinatario. Más recientemente parece que el BGH ha cambiado su posición con una sentencia de 12 de diciembre de 201210. De hecho, según el Tribunal Federal alemán la falta de alegación de los documentos al acto introductorio no vuelve, por lo tanto, ineficaz su notificación, que es de todos modos apropiada para fundar la relación jurídica procesal (Prozessrechtsverhaeltnis) y, con ella, la litispendencia. Y tampoco se podría configurar – siempre según el BGH – una violación del derecho a la defensa garantizada por el artículo 103 de la Grundgesetz alemana, si el demandado tuviera de todas formas la posibilidad de tener conocimiento de los documentos ante la emanación de la decisión. Por lo tanto, serían otros los instrumentos (diferentes de la ineficacia de la notificación) destinados a garantizar el derecho de defensa del demandado, como por ejemplo, la inadmisibilidad de una sentencia en rebeldía (Versaeumnisurteil) debida al motivo de la tardanza de la comunicación del recurso según el § 335, n. 3 ZPO, o por la inadmisibilidad de la demanda en virtud del § 335, n. 1 ZPO en aquellos casos en los que los documentos que no han sido notificados servirían para la individuación del derecho accionado. Y parece lógico deducir que esta última posición adoptada por el BGH tendrá consecuencias inevitables también a nivel del derecho internacional privado y del procesal. Se puede por lo tanto imaginar que, en base a ella, el demandado no será legi-timado a rechazar la notification cuando los documentos adjuntos a la demanda no solo no hubieran sido traducidos en alemán, sino tambien si no hubieran estado de alguna manera adjuntos a los actos que se tenian que notificar. Pueden entonces sacarse algunas conclusiones. Si, como se ha visto, la disciplina de la notificación tiene como fin conciliar los intereses de las partes en un procedimiento ju-dicial, el hecho de que la disciplina de matriz comunitaria haya sido orientada a tutelar al demandado (una demostración de eso se encuentra en la abolicion de la practica de la notificacion ficticia y en el reconocimiento del derecho de rechazar la notificación de los actos redactados en una lengua que no se comprenda), puede haber incitado al BGH al revirement jurisprudencial, para satisfacer las exigencias de protección del deman-dante. Y, sin embargo, no parece inoportuno observar que la importancia del perfecto conocimiento del material de causa de parte del demandado esté unida con un doble hilo a las consecuencias negativas de que la Zpo vuelva a reconectar la contumacia, que puede lle-
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BGH, 21.12.2006 - VII ZR 164/05, in Neue Juristische Wochenschrift, 2007, 775 BGH, 12.12.2012 - VIII ZR 307/11, in Neue Juristische Wochenschrift, 2013, 387
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var a aquel reglamento a la admisión de las alegaciones del demandante (§ 331 Zpo). Estas consecuencias son desconocidas en otros reglamentos como el español, donde la rebeldía no implica allanamiento, ni implica admisión de hechos, salvo que la ley lo disponga expresamente (como en el juicio monitorio), y por tanto el demandante debe probar los hechos que dice en su demanda y puede ser incluso que la sentencia al final pueda ser desestimatoria de sus pretensiones a pesar que el demandado se encuen-tre en rebeldía. Todo esto pone en evidencia-si todavía hubiera necesidad-de la complejidad, pero tam-bién del encanto, de un estudio comparado del derecho procesal civil, nacional como internacional, que no puede prescindir de una apreciación sistematica de toda la materia
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Giurisprudenza
commentata
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Giurisprudenza I. Corte di Giustizia, Sez. II, 4 ottobre 2018, Causa C-337/17 – Pres. Ilešič – Rel. Toader – Feniks sp. Zo.o.c. Azteca Products & Services SL Regolamento (UE) n. 1215/2012 – Competenza giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale – Azione revocatoria ordinaria a tutela di un credito di origine contrattuale – Competenza giurisdizionale speciale in materia contrattuale – Articolo 7, punto 1, lettera a) – Applicabilità – Sussiste.
L’azione mediante la quale il titolare di diritti di credito derivanti da un contratto chiede che sia dichiarato inefficace nei suoi confronti l’atto, asseritamente pregiudizievole ai suoi diritti, con cui il suo debitore ha ceduto un bene ad un terzo, rientra nella norma sulla competenza internazionale di cui all’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento (UE) n. 1215/2012 e, a tal fine, per obbligazione dedotta in giudizio deve intendersi quella tutelata con l’esercizio di tale azione.
(Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 7, punto 1, del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2012, L 351, pag. 1). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Feniks sp. Zo.o.c. e la Azteca Products & Services SL (in prosieguo: la «Azteca») in merito ad un contratto di vendita, concluso tra la Azteca e il debitore della Feniks e relativo a un bene immobile, asseritamente pregiudizievole ai diritti della Feniks. (Omissis) Diritto polacco 8 Gli articoli 527 e seguenti della ustawa Kodeks cywilny (legge relativa al codice civile), del 23 aprile 1964 (Dz. U. del 1964, n. 16, posizione 93), nella versione applicabile al procedimento principale (Dz. U. del 2017, posizione 459) (in prosieguo: il «codice civile»), disciplinano l’azione detta «pauliana», diretta a rendere inefficace nei confronti del creditore che la propone l’atto di di-
sposizione stipulato dal debitore in frode ai diritti del primo. Secondo l’articolo 527 del codice civile: «§1. Qualora per effetto di un atto giuridico del debitore, posto in essere in pregiudizio dei creditori, un terzo abbia conseguito un vantaggio patrimoniale, ogni creditore ha diritto di chiedere che tale atto sia dichiarato inefficace nei suoi confronti, qualora il debitore abbia agito con la consapevolezza di arrecare un pregiudizio ai creditori, ed il terzo ne fosse a conoscenza o, esercitando la dovuta diligenza, avrebbe potuto averne conoscenza. §2. Un atto giuridico del debitore si considera posto in essere in pregiudizio dei creditori, qualora per effetto di tale atto il debitore sia divenuto insolvente o sia divenuto insolvente in misura maggiore rispetto a quanto non lo fosse prima del compimento dell’atto. §3. Qualora per effetto di un atto giuridico del debitore, posto in essere in pregiudizio dei creditori, il vantaggio patrimoniale sia stato conseguito da una persona ad esso strettamente legata, si presume che tale persona fosse a conoscenza del fatto che il debitore abbia agito con la consapevolezza di arrecare un pregiudizio ai creditori. §4. Qualora per effetto di un atto giuridico del debitore, posto in essere in pregiudizio dei creditori,
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Giurisprudenza
il vantaggio patrimoniale sia stato conseguito da un imprenditore legato al debitore da rapporti economici stabili, si presume che lo stesso fosse a conoscenza del fatto che il debitore abbia agito con la consapevolezza di arrecare un pregiudizio ai creditori». 9 L’articolo 528 di tale codice così recita: «Qualora per effetto di un atto giuridico del debitore, posto in essere in pregiudizio dei creditori, un terzo abbia conseguito un vantaggio patrimoniale a titolo gratuito, il creditore ha diritto di chiedere che tale atto sia dichiarato inefficace, anche qualora tale persona non fosse a conoscenza, e nemmeno avrebbe potuto esserlo esercitando la dovuta diligenza, del fatto che il debitore abbia agito con la consapevolezza di arrecare un pregiudizio ai creditori». 10 L’articolo 530 di detto codice dispone quanto segue: «Le disposizioni degli articoli precedenti si applicano per analogia nel caso in cui il debitore abbia agito con l’intenzione di arrecare pregiudizio ai futuri creditori. Tuttavia, qualora il terzo abbia conseguito un vantaggio patrimoniale a titolo oneroso, il creditore ha diritto di chiedere che tale atto sia dichiarato inefficace solo se il terzo era a conoscenza dell’intenzione del debitore». 11 L’articolo 531 dello stesso codice prevede quanto segue: «§1. Un atto giuridico del debitore posto in essere in pregiudizio dei creditori è dichiarato inefficace a seguito di un’azione o di un’eccezione proposta contro il terzo che, per effetto di tale atto, abbia conseguito un vantaggio patrimoniale. §2. Nel caso in cui il terzo disponga del vantaggio conseguito, il creditore può agire direttamente contro la persona a favore della quale sia stato compiuto l’atto di disposizione, sempre che tale persona fosse a conoscenza delle circostanze idonee a giustificare la dichiarazione di inefficacia dell’atto posto in essere dal debitore o qualora l’atto di disposizione sia stato compiuto a titolo gratuito». 12 Secondo l’articolo 532 del codice civile:
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«Il creditore nei confronti del quale l’atto del debitore è stato dichiarato inefficace, può, con preferenza rispetto ai creditori del terzo, chiedere di essere soddisfatto sui beni patrimoniali che, per effetto dell’atto dichiarato inefficace, sono usciti dal patrimonio del debitore o che non vi sono entrati». 13 L’articolo 533 di tale codice è così formulato: «Il terzo che ha conseguito un vantaggio patrimoniale per effetto di un atto giuridico del debitore, posto in essere in pregiudizio dei creditori, può liberarsi dall’obbligo di soddisfare la pretesa del creditore che chiede di far dichiarare l’inefficacia dell’atto purché soddisfi tale creditore o indichi allo stesso i beni del debitore sufficienti per soddisfarlo». Procedimento principale e questioni pregiudiziali
14 La Coliseum 2101 sp.zo.o. (in prosieguo: la «Coliseum»), con sede in Polonia, in qualità di appaltatore principale, ha stipulato con la Feniks, parimenti stabilita in Polonia, in qualità di investitore, un contratto di esecuzione di opere edili, nell’ambito di un progetto di investimento immobiliare a Danzica (Polonia). Al fine di dare esecuzione a tale contratto, la Coliseum si è avvalsa di vari subappalti. 15 Poiché la Coliseum non ha adempiuto alle proprie obbligazioni verso parte dei suoi subappaltatori, la Feniks è stata tenuta a pagare taluni importi ai medesimi in virtù delle disposizioni del codice civile in materia di responsabilità solidale dell’investitore e, di conseguenza, è diventata creditrice della Coliseum, per un totale di 1 396 495,48 zloty polacchi (PLN) (circa EUR 336 174). 16 Con contratti conclusi il 30 e 31 gennaio 2012 a Stettino (Polonia), la Coliseum ha venduto alla Azteca, con sede legale ad Alcora (Spagna), un edificio situato a Stettino, per un importo di PLN 6 079 275 (circa EUR 1 463 445) effettuando una compensazione parziale di crediti precedenti della Azteca. Quest’ultima restava tuttavia obbli-
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gata a versare alla Coliseum l’importo di PLN 1 091 413,70 (circa EUR 262 732). Secondo le indicazioni della Feniks, al momento della conclusione del contratto di vendita del 30 gennaio 2012, il presidente del consiglio di amministrazione della Coliseum era anche il rappresentante della società Horkios Gestion SA, con sede ad Alcora, e quest’ultima società era l’unico membro del consiglio di amministrazione dell’Azteca. 17 In mancanza di attivi nel patrimonio della Coliseum, l’11 luglio 2016, la Feniks ha presentato, sulla base degli articoli 527 e seguenti del codice civile, un ricorso contro l’Azteca dinanzi al Sąd Okręgowy w Szczecinie (Tribunale distrettuale di Stettino, Polonia), il giudice del rinvio, per far dichiarare inefficace nei suoi confronti il contratto di vendita di cui al punto precedente, tenuto conto del fatto che il medesimo sarebbe stato concluso dal suo debitore in frode ai suoi diritti. 18 Per giustificare la competenza di tale giudice, la Feniks fa riferimento all’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012. 19 L’Azteca ha sollevato un’eccezione di incompetenza. A suo avviso, la competenza internazionale a conoscere di un’azione diretta a far dichiarare l’inefficacia di un atto giuridico deve essere stabilita conformemente alla regola generale, sancita dall’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento n. 1215/2012, a favore dei giudici spagnoli. Siffatta azione non potrebbe essere qualificata come azione in «materia contrattuale», ai sensi dell’articolo 7, punto 1, lettera a), dello stesso regolamento. 20 Nell’ambito dell’esame di tale eccezione di difetto di competenza internazionale, il giudice del rinvio descrive i tratti caratteristici principali dell’azione pauliana nel diritto polacco, quali risultano dalle disposizioni del codice civile di cui ai punti da 8 a 13 della presente sentenza, e afferma che tale azione costituisce un’eccezione al principio che il creditore può soddisfarsi esclusivamente sui beni patrimoniali del debitore. Esso aggiunge che
l’articolo 527, paragrafo 3, del codice civile trae dall’esistenza di una stretta relazione tra il debitore ed il terzo una presunzione di conoscenza, da parte del terzo, del fatto che, mediante l’atto di cui è chiesta l’inefficacia, il debitore ha consapevolmente arrecato pregiudizio al suo creditore. Tale presunzione implica che il creditore debba soltanto dimostrare, in un caso del genere, l’esistenza di una stretta relazione tra il debitore ed il terzo. 21 Il giudice del rinvio considera che la competenza internazionale dei giudici polacchi a conoscere di un’azione come quella oggetto del procedimento principale può essere giustificata solo sulla base dell’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012. A questo proposito, esso sostiene che, sebbene questa controversia non opponga le parti del contratto di esecuzione di opere edili, vale a dire la Feniks e la Coliseum, e non riguardi l’esame della validità di tale contratto, spetterà tuttavia al giudice del rinvio verificare se il contratto concluso tra l’Azteca e la Coliseum sia efficace o meno nei confronti della Feniks. 22 Il giudice del rinvio ritiene che l’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012 si applichi a tutte le controversie aventi un collegamento con un contratto. Orbene, per quanto concerne la controversia di cui è investito, la risoluzione di quest’ultima avrebbe un collegamento con il contratto concluso tra l’Azteca e la Coliseum la cui inefficacia nei confronti della Feniks viene dedotta. 23 Pur ricordando, inoltre, il carattere restrittivo dell’interpretazione di cui deve essere oggetto l’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012, il giudice del rinvio evidenzia, tuttavia, gli inconvenienti derivanti dall’applicazione, a suo avviso, della regola generale sulla competenza di cui all’articolo 4, paragrafo 1, di detto regolamento se il ricorrente, nel contesto di un’azione diretta a far dichiarare l’inefficacia di diversi atti giuridici conclusi dal suo debitore con le controparti stabilite in Stati membri diversi, fosse tenuto ad adire le autorità giurisdizionali
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di ciascuno di tali Stati membri con un’azione separata e a sostenere così costi sproporzionati rispetto alla finalità della procedura. 24 Ad avviso di detto giudice, sebbene, nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 17 giugno 1992, Handte (C 26/91, EU:C:1992:268), la Corte abbia dichiarato che la nozione di «materia contrattuale» non può essere intesa nel senso che riguarda una situazione in cui non esista alcun obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti dell’altra, il contesto di fatto di tale causa era particolare, in quanto concerneva una serie di contratti internazionali tra loro concatenati, in base ai quali le obbligazioni contrattuali delle parti potevano variare da un contratto all’altro. 25 Tuttavia, nel caso di specie, una delle caratteristiche specifiche dell’azione pauliana di diritto polacco consisterebbe nella percezione che il terzo deve o può avere in merito alla circostanza che il debitore arrechi consapevolmente pregiudizio ai suoi creditori e, pertanto, che tali creditori potranno agire nei suoi confronti. 26 In tale contesto, il Sąd Okręgowy w Szczecinie (Tribunale regionale di Stettino) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se una controversia risultante da un’azione promossa contro un acquirente stabilito in uno Stato membro, diretta a far dichiarare l’inefficacia di un contratto di compravendita di un bene immobile situato nel territorio di un altro Stato membro, fondata sul pregiudizio arrecato ai creditori del venditore, contratto che è stato concluso ed eseguito integralmente nel territorio di tale altro Stato membro, costituisca una controversia in “materia contrattuale” ai sensi dell’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento [n. 1215/2012]. 2) Se tale questione debba essere risolta applicando il principio dell’acte éclairé, mediante il richiamo alla sentenza della Corte, del 17 giugno 1992, Handte (C 26/91, EU:C:1992:268), anche se quest’ultima riguardava la responsabilità per vizi
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della merce di un produttore il quale non poteva prevedere a chi la merce sarebbe stata successivamente rivenduta e, quindi, chi avrebbe acquisito il diritto di agire nei suoi confronti, mentre l’azione contro l’acquirente “diretta a far dichiarare l’inefficacia del contratto di compravendita di un bene immobile”, in ragione del pregiudizio arrecato ai creditori del venditore, richiede, perché possa spiegare i suoi effetti, la conoscenza da parte dell’acquirente del fatto che il negozio giuridico (contratto di compravendita) sia stato compiuto in pregiudizio dei creditori, cosicché l’acquirente deve prendere in considerazione l’eventualità che un creditore personale del venditore possa proporre una tale domanda». Sulle questioni pregiudiziali 27 Con le sue due questioni, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se un’azione pauliana, mediante la quale il titolare di diritti di credito chiede che sia dichiarato inefficace nei suoi confronti l’atto, asseritamente pregiudizievole ai suoi diritti, con cui il debitore ha ceduto un bene ad un terzo, rientri nella norma sulla competenza internazionale di cui all’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012. Sull’applicabilità del regolamento n. 1215/2012 28 Come risulta dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, procedimenti di esecuzione forzata avviati contro la Coliseum sono dichiarati estinti per l’insufficienza dei fondi, poiché tale impresa è attualmente insolvente. 29 Si pone pertanto la questione se l’azione di cui al procedimento principale rientri nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1215/2012 o se essa si inserisca piuttosto nel contesto di una procedura d’insolvenza disciplinata dal regolamento n. 1346/2000, applicabile ratione temporis al procedimento principale. 30 A tal proposito, occorre ricordare che la Corte ha statuito che i regolamenti nn. 1215/2012 e 1346/2000 devono essere interpretati in modo da
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evitare qualsiasi sovrapposizione tra le norme che tali testi enunciano e qualsiasi lacuna normativa. Pertanto, le azioni escluse dal campo di applicazione del regolamento n. 1215/2012 ai sensi del suo articolo 1, paragrafo 2, lettera b), in quanto rientrano tra «i fallimenti, le procedure relative alla liquidazione di società o altre persone giuridiche che si trovino in stato di insolvenza, i concordati e le procedure affini», ricadono nel campo di applicazione del regolamento n. 1346/2000. Simmetricamente, le azioni che non rientrano nel campo di applicazione del regolamento n. 1346/2000 rientrano in quello del regolamento n. 1215/2012 (sentenza del 20 dicembre 2017, Valach e a., C 649/16, EU:C:2017:986, punto 24 e la giurisprudenza ivi citata). 31 La Corte ha anche dichiarato che un’azione si riconnette ad una procedura fallimentare quando deriva direttamente dal fallimento e si inserisce strettamente nell’ambito del procedimento fallimentare o di amministrazione controllata (sentenza del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 19 e giurisprudenza ivi citata). 32 Tuttavia, nel caso di specie, l’azione proposta dalla Feniks, non sembra affatto inserirsi nell’ambito del procedimento fallimentare o di amministrazione controllata. Inoltre, in occasione dell’udienza dinanzi alla Corte, è stato risposto ad un quesito da essa posto che non è stata avviata alcuna procedura di insolvenza nei confronti della Coliseum, circostanza che spetta tuttavia al giudice del rinvio verificare. 33 Nei limiti in cui l’azione oggetto del procedimento principale, fondata sugli articoli 527 e seguenti del codice civile, mira a preservare gli interessi del creditore e non ad aumentare il patrimonio della Coliseum, essa rientra nella nozione di «materia civile e commerciale», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 1215/2012. Nel merito 34 Occorre ricordare che il regolamento n. 1215/2012 mira ad unificare le norme sui conflitti
di competenza in materia civile e commerciale mediante norme sulla competenza che presentino un alto grado di prevedibilità. Tale regolamento persegue quindi un obiettivo di certezza del diritto consistente nel rafforzare la tutela giuridica delle persone stabilite nell’Unione europea, consentendo al contempo al ricorrente di individuare agevolmente il giudice al quale può rivolgersi e al convenuto di prevedere ragionevolmente quello dinanzi al quale può essere citato (v., in tal senso, sentenza del 14 luglio 2016, Granarolo, C 196/15, EU:C:2016:559, punto 16 e la giurisprudenza ivi citata). 35 Secondo una giurisprudenza costante della Corte, il sistema delle attribuzioni di competenze di validità generale di cui al capo II del regolamento n. 1215/2012 è fondato sul principio, sancito all’articolo 4, paragrafo 1, di quest’ultimo, secondo cui le persone domiciliate nel territorio di uno Stato membro sono convenute davanti agli organi giurisdizionali di tale Stato, a prescindere dalla nazionalità delle parti. È solo in deroga al principio della competenza dei giudici del domicilio del convenuto che il capo II, sezione 2, del regolamento n. 1215/2012 prevede talune competenze speciali, tra cui quella dell’articolo 7, punto 1, lettera a), di tale regolamento (v. in tal senso, sentenza del 14 luglio 2016, Granarolo, C 196/15, EU:C:2016:559, punto 17 e la giurisprudenza ivi citata). 36 Detta competenza del giudice del domicilio del convenuto dovrebbe, come enunciato al considerando 16 di detto regolamento, essere completata attraverso la previsione di fori alternativi, basati sul collegamento stretto tra l’autorità giurisdizionale e la controversia, ovvero al fine di agevolare la buona amministrazione della giustizia. 37 Le norme sulla competenza speciale che prevedono detti fori alternativi sono tuttavia da interpretare restrittivamente, poiché non consentono un’interpretazione che vada oltre le ipotesi espressamente prese in considerazione dal regolamento stesso (sentenza del 14 luglio 2016, Gra-
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narolo, C 196/15, EU:C:2016:559, punto 18 e la giurisprudenza ivi citata). 38 Per quanto riguarda la competenza speciale di cui all’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012 per le controversie in materia contrattuale, si deve ricordare che la nozione di «materia contrattuale» deve essere interpretata in modo autonomo, al fine di garantire l’applicazione uniforme della stessa in tutti gli Stati membri (sentenza del 7 marzo 2018, flightright e a., C 274/16, C 447/16 e C 448/16, EU:C:2018:160, punto 58 e giurisprudenza ivi citata). 39 Come la Corte ha ripetutamente dichiarato l’applicazione della norma su tale competenza speciale presuppone l’esistenza di un’obbligazione giuridica assunta liberamente da una parte nei confronti di un’altra e su cui si fonda l’azione del ricorrente (v., in tal senso, sentenze del 20 gennaio 2005, Engler, C 27/02, EU:C:2005:33, punto 51; del 18 luglio 2013, ÖFAB, C 147/12, EU:C:2013:490, punto 33, nonché del 21 gennaio 2016, ERGO Insurance e Gjensidige Baltic, C 359/14 e C 475/14, EU:C:2016:40, punto 44). 40 L’azione pauliana ha il suo fondamento nel diritto di credito, diritto personale del creditore nei confronti del debitore, e mira a proteggere la garanzia patrimoniale di cui il primo può disporre nei confronti del patrimonio del secondo (sentenze del 10 gennaio 1990, Reichert e Kockler, C 115/88, EU:C:1990:3, punto 12, nonché del 26 marzo 1992, Reichert e Kockler, C 261/90, EU:C:1992:149, punto 17). 41 Essa tutela pertanto gli interessi del creditore nella prospettiva, segnatamente, di una successiva esecuzione forzata delle obbligazioni del debitore (sentenza del 26 marzo 1992, Reichert e Kockler, C 261/90, EU:C:1992:149, punto 28). 42 Sebbene risulti, nel caso di specie, dalla decisione di rinvio che la Feniks ha pagato i subappaltatori di cui la Coliseum si è avvalsa per la realizzazione di opere edili in virtù di una disposizione di diritto nazionale che istituisce la responsabilità
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solidale dell’investitore con l’esecutore dei lavori, resta il fatto che sia la garanzia patrimoniale di cui dispone la Feniks sui beni del suo debitore sia l’azione diretta a dichiarare l’inefficacia della vendita conclusa da quest’ultima con un terzo derivano da obbligazioni liberamente assunte dalla Coliseum nei confronti della Feniks mediante la conclusione del contratto relativo a dette opere edili. 43 Con tale azione, infatti, il creditore mira a far constatare che la cessione, da parte del debitore, di attivi a un terzo ha pregiudicato i diritti del creditore che discendono dalla forza vincolante del contratto e che corrispondono ad obbligazioni liberamente assunte dal suo debitore. La causa di tale azione consiste quindi, in sostanza, nella violazione delle obbligazioni che il debitore ha assunto nei confronti del creditore. 44 Ne consegue che l’azione pauliana, quando è fondata sui diritti di credito derivanti da obbligazioni assunte mediante la conclusione di un contratto, rientra nella nozione di «materia contrattuale», ai sensi della giurisprudenza citata al punto 39 della presente sentenza. Occorre dunque che il criterio del foro del domicilio del convenuto venga completato da quello autorizzato dall’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012, in quanto un siffatto foro soddisfa, alla luce della natura contrattuale delle relazioni tra il creditore e il debitore, sia il requisito di certezza del diritto e di prevedibilità sia l’obiettivo della buona amministrazione della giustizia. 45 Se così non fosse, il creditore sarebbe costretto ad intentare la sua azione dinanzi al giudice del domicilio del convenuto, e tale foro, previsto all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento n. 1215/2012, potrebbe eventualmente essere privo di qualsiasi nesso con il luogo di esecuzione delle obbligazioni del debitore nei confronti del suo creditore. 46 Il titolare dei diritti di credito derivanti da un contratto che abbia l’intenzione di proporre un’azione pauliana, può farlo dinanzi al giudice
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del «luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio», poiché tale foro è quello consentito dall’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012. Nel caso di specie, dalla circostanza che l’azione del creditore è diretta a salvaguardare i propri interessi nell’esecuzione delle obbligazioni derivanti dal contratto di esecuzione di opere edili consegue che il «luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio», conformemente all’articolo 7, punto 1, lettera b), di tale regolamento, è quello in cui, in virtù di tale contratto, l’opera è stata fornita, vale a dire in Polonia. 47 Una siffatta conclusione è tanto più conforme all’obiettivo della prevedibilità delle norme sulla competenza in quanto un professionista che abbia concluso un contratto di acquisto di beni immobili, quando il creditore della sua controparte reclama che tale contratto ostacola indebitamente l’esecuzione delle obbligazioni di detta controparte nei confronti di tale creditore, può ragionevolmente aspettarsi di essere citato dinanzi al giudice del luogo di esecuzione di dette obbligazioni.
48 La conclusione di cui al punto precedente non è affatto rimessa in discussione dalla circostanza, derivante nella fattispecie dall’articolo 531, paragrafo 1, del codice civile, che l’azione è diretta contro i terzi e non nei confronti del debitore. Si deve ricordare, a questo proposito, che la norma sulla competenza speciale in materia contrattuale di cui all’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012 è basata sulla causa dell’azione in giudizio e non sull’identità delle parti (v., in tal senso, sentenza del 7 marzo 2018, flightright e a., C 274/16, C 447/16 e C 448/16, EU:C:2018:160, punto 61 e giurisprudenza ivi citata). 49 Occorre dunque rispondere alle questioni pregiudiziali che, in una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, un’azione pauliana, mediante la quale il titolare di diritti di credito derivanti da un contratto chiede che sia dichiarato inefficace nei suoi confronti l’atto, asseritamente pregiudizievole ai suoi diritti, con cui il suo debitore ha ceduto un bene ad un terzo, rientra nella norma sulla competenza internazionale di cui all’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012.
II. Corte di Giustizia, Sez. IV, 14 novembre 2018, Causa C-296/17 – Pres. von Danwitz – Rel. Jürimäe – Wiemer & Trachte GmbH in liquidazione c. Zhan Oved Tadzher Procedure di insolvenza – Regolamento (CE) n. 1346/2000 – Articolo 3, paragrafo 1 – Competenza giurisdizionale internazionale – Azione revocatoria fallimentare – Competenza giurisdizionale dei giudici dello Stato membro nel cui territorio è stata aperta la procedura d’insolvenza – Natura esclusiva – Sussiste
L’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza, dev’essere interpretato nel senso che la competenza giurisdizionale dei giudici dello Stato membro, sul territorio del quale la procedura di insolvenza è stata avviata, a conoscere di un’azione revocatoria fondata sull’insolvenza e diretta nei confronti di una controparte con sede statutaria o domicilio in un altro Stato membro costituisce una competenza giurisdizionale esclusiva.
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(Omissis) 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, dell’articolo 18, paragrafo 2, nonché degli articoli 21 e 24 del regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza (GU 2000, L 160, pag. 1). 2 La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia insorta tra la Wiemer & Trachte GmbH, società in liquidazione, e il sig. Zhan Oved Tadzher in merito alla restituzione di una somma di denaro al medesimo trasferita dal conto bancario della Wiemer & Trachte senza il consenso del curatore provvisorio. (Omissis) Procedimento principale e questioni pregiudiziali 13 La Wiemer & Trachte GmbH è una società a responsabilità limitata con sede a Dortmund (Germania). Con decisione del 10 maggio 2004, il Sofiyski gradski sad (Tribunale della città di Sofia, Bulgaria), disponeva l’iscrizione nel registro del commercio bulgaro di una controllata della Wiemer & Trachte GmbH in Bulgaria. 14 Con decreto del 3 aprile 2007 l’Amtsgericht Dortmund (Tribunale circoscrizionale di Dortmund, Germania), nell’ambito dell’apertura di una procedura d’insolvenza nei confronti della Wiemer & Trachte, nominava un curatore provvisorio, disponendo che l’efficacia degli atti di disposizione della società era subordinata al consenso del curatore. Questo primo decreto veniva iscritto in data 4 aprile 2007 nei registri del commercio tedeschi. Con un secondo decreto del 21 maggio 2007, registrato in data 24 maggio 2007, il giudice medesimo assoggettava la Wiemer & Trachte al divieto generale di compiere atti dispositivi dei propri beni. Con un terzo decreto del 1o luglio 2007, lo stesso giudice avviava la procedura d’insolvenza sul patrimonio della società. Questo terzo decreto veniva iscritto in data 5 giugno 2007 nel registro del commercio.
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15 In data 18 e 20 aprile 2007, venivano trasferiti, dal conto bancario della Wiemer & Trachte, fondi per un importo, rispettivamente, di EUR 2 149,30 e di EUR 40 000 dalla banca Obedinena Balgarska banka AD, tramite il direttore della filiale bulgara, verso un conto del sig. Tadhzer, recanti le causali, l’uno, di «spese di viaggio» e l’altro di «anticipo di provvista». 16 La Wiemer & Trachte agiva, quindi, in giudizio dinanzi al Sofiyski gradski sad (Tribunale della città di Sofia) nei confronti del sig. Tadhzer, deducendo l’inefficacia di tali operazioni bancarie in quanto eseguite successivamente all’apertura della procedura di insolvenza. Essa chiedeva la restituzione alla massa fallimentare degli importi menzionati supra al punto 15, oltre interessi legali. 17 Il sig. Tadzher deduceva il difetto di giurisdizione del Sofiyski gradski sad (Tribunale della città di Sofia) a conoscere del procedimento principale sostenendo che l’importo corrispondente all’anticipo per le spese professionali, non essendo stato utilizzato, era stato restituito alla Wiemer & Trachte il 25 aprile 2007. 18 L’eccezione di incompetenza giurisdizionale veniva respinta sia dal Sofiyski gradski sad (Tribunale della città di Sofia), sia, in sede di appello, dall’Apelativen sad (Corte di appello, Bulgaria). Con ordinanza del 28 gennaio 2013, il Varhoven kasatsionen sad (Corte suprema di cassazione, Bulgaria) dichiarava irricevibile il ricorso in cassazione avverso l’ordinanza dell’Apelativen sad (Corte d’appello) e che tale decisione, che riconosceva la giurisdizione del Sofiyski gradski sad (Tribunale della città di Sofia), ai fini dell’esame della controversia nel merito, aveva acquisito l’efficacia di cosa giudicata. 19 Quest’ultimo giudice accoglieva nel merito la domanda della Wiemer & Trachte. Avverso tale decisione il sig. Tadzher proponeva appello. Il 26 luglio 2016, l’Apelativen sad (Corte d’appello) annullava peraltro detta decisione, respingendo
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la domanda di restituzione degli importi menzionati supra al punto 15 in quanto infondata e non avvalorata da prove. 20 Contro la sentenza dell’Apelativen sad (Corte d’appello) la Wiemer & Trachte ricorreva quindi per cassazione dinanzi al Varhoven kasatsionen sad (Corte suprema di cassazione), deducendo l’inapplicabilità dell’articolo 24 del regolamento n. 1346/2000 alla controversia principale e che, conseguentemente, il sig. Tadzher non poteva pretendere di non essere stato a conoscenza dell’avvio della procedura di insolvenza nei confronti della Wiemer & Trachte. 21 Ciò premesso, il Varhoven kasatsionen sad (Corte suprema di cassazione) decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’articolo 3, paragrafo 1, del [regolamento n. 1346/2000] debba essere interpretato nel senso che la competenza giurisdizionale dei giudici dello Stato membro, nel cui territorio sia stato avviato il procedimento di insolvenza, per un’azione revocatoria fallimentare nei confronti di un debitore avente sede o domicilio in un altro Stato membro, costituisca una competenza esclusiva, ovvero se il curatore sia legittimato, nell’ipotesi di cui all’articolo 18, paragrafo 2, del regolamento, a promuovere un’azione revocatoria fallimentare dinanzi al giudice nello Stato membro nel cui territorio il debitore abbia sede o domicilio, qualora l’azione revocatoria fallimentare del curatore sia fondata su un atto di disposizione su beni mobili compiuto nell’altro Stato membro. (Omissis) Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 22 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000 debba essere interpretato nel senso che la competenza giurisdizionale dei giudici dello Stato membro nel cui territorio sia stata aperta una procedura d’insol-
venza, a conoscere di un’azione revocatoria fondata sull’insolvenza e diretta nei confronti di una controparte avente sede o domicilio in un altro Stato membro, costituisca una competenza giurisdizionale esclusiva o se il curatore possa esercitare l’azione revocatoria stessa dinanzi ai giudici dello Stato membro nel cui territorio sia situata la sede sociale o il domicilio della controparte. 23 L’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000 conferisce ai giudici dello Stato membro nel cui territorio si trova il centro dei principali interessi del debitore la competenza esclusiva ad aprire la procedura di insolvenza principale (sentenza del 15 dicembre 2011, Rastelli Davide e C., C 191/10, EU:C:2011:838, punto 27). 24 Per determinare i criteri che consentono di stabilire se un’azione sia inclusa o meno nell’ambito di applicazione di tale disposizione, la Corte ha precisato che occorre tener conto del considerando 6 del regolamento n. 1346/2000, ai sensi del quale tale regolamento dovrebbe limitarsi a disposizioni che disciplinino la competenza per l’apertura delle procedure di insolvenza e per l’adozione di decisioni che scaturiscono direttamente da tali procedure e sono ad esse strettamente connesse (v., in tal senso, sentenze del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 20, e del 19 aprile 2012, F-Tex, C 213/10, EU:C:2012:215, punto 26). 25 La Corte ne ha dedotto che, tenuto conto dell’obiettivo perseguito dal legislatore così esposto in tale considerando e dell’effetto utile del regolamento n. 1346/2000, l’articolo 3, paragrafo 1, dello stesso dev’essere interpretato nel senso che attribuisce ai giudici dello Stato membro competente ad aprire una procedura d’insolvenza una competenza internazionale a conoscere delle azioni che scaturiscono direttamente da detta procedura e sono ad essa strettamente connesse (v., in tal senso, sentenze del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 21, e del
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19 aprile 2012, F-Tex, C 213/10, EU:C:2012:215, punto 27). 26 Alla luce, in particolare, di tali considerazioni, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che le azioni revocatorie volte ad incrementare l’attivo dell’impresa sottoposta a procedura fallimentare rientrano in questa categoria di azioni. L’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000, dev’essere, quindi, interpretato nel senso che i giudici dello Stato membro nel cui territorio è stata aperta una procedura di insolvenza sono giurisdizionalmente competenti a conoscere dell’azione revocatoria fondata sull’insolvenza e diretta nei confronti di una controparte con sede statutaria in un altro Stato membro (sentenza del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 28). 27 Il giudice del rinvio solleva la questione se tale competenza giurisdizionale internazionale sia esclusiva o se, al contrario, essa sia facoltativa, nel senso che consenta al curatore di adire i giudici dello Stato membro del domicilio della controparte dell’azione revocatoria. 28 A tal riguardo, si deve rilevare, da un lato, che il considerando 7 del regolamento n. 1346/2000 precisa che le procedure di insolvenza relative ai fallimenti, ai concordati e ad altre procedure affini sono escluse dal campo di applicazione della convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che è stata sostituita, nei rapporti tra gli Stati membri, fatta eccezione per il Regno di Danimarca, dal regolamento n. 44/2001. Dall’altro lato, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera b), di tale regolamento, sono esclusi dal campo di applicazione del regolamento stesso, i «fallimenti, i concordati e le procedure affini». 29 Quest’ultimo regolamento e il regolamento n. 1346/2000 devono essere interpretati in modo da evitare qualsiasi sovrapposizione tra le norme giuridiche ivi stabilite nonché qualsiasi vuoto
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normativo. Pertanto, le azioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001 ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera b), del medesimo, ricadono nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1346/2000. All’inverso, le azioni non ricomprese nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000 ricadono nell’ambito di applicazione del regolamento n. 44/2001 (v., in tal senso, sentenza del 9 novembre 2017, Tünkers France e Tünkers Maschinenbau, C 641/16, EU:C:2017:847, punto 17 e giurisprudenza ivi citata). 30 A tal proposito, la Corte ha precisato che quest’ultimo regolamento è destinato ad essere applicato a tutta la materia civile e commerciale, esclusi alcuni settori ben definiti, e che l’articolo 1, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 44/2001 esclude dal proprio ambito di applicazione soltanto le azioni direttamente scaturenti da una procedura d’insolvenza e ad essa strettamente connesse, ricomprese nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1346/2000 (v., in tal senso, sentenza del 19 aprile 2012, F Tex, C 213/10, EU:C:2012:215, punto 29). 31 Ne consegue che le rispettive sfere di applicazione dei due regolamenti relativi alla competenza giurisdizionale internazionale dei giudici degli Stati membri sono chiaramente definiti e che un’azione revocatoria, laddove scaturisca direttamente da una procedura d’insolvenza e sia ad essa strettamente connessa, ricade nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1346/2000, e non in quello del regolamento n. 44/2001. 32 Orbene, va osservato che il regolamento n. 1346/2000 non prevede nessuna norma di attribuzione di giurisdizione internazionale da cui derivi l’attribuzione ai giudici dello Stato membro in cui sia domiciliata la controparte la competenza giurisdizionale a conoscere delle azioni revocatorie direttamente scaturenti dalla procedura d’insolvenza e ad essa strettamente connesse.
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33 Peraltro, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che una concentrazione di tutte le azioni direttamente connesse alla procedura di insolvenza dinanzi ai giudici dello Stato membro giurisdizionalmente competente per l’avvio della procedura di insolvenza risponde all’obiettivo di migliorare l’efficacia e la rapidità delle procedure di insolvenza aventi effetti transfrontalieri, di cui ai considerando 2 e 8 del regolamento n. 1346/2000 (sentenza del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 22). 34 Inoltre, va rilevato che, secondo il considerando 4 di tale regolamento, è necessario, per un buon funzionamento del mercato interno, dissuadere le parti dal trasferire i beni o i procedimenti giudiziari da uno Stato ad un altro al fine di ottenere una migliore situazione giuridica (forum shopping) (sentenza del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 23). 35 Orbene, la possibilità che diversi fori risultino giurisdizionalmente competenti con riguardo ad azioni revocatorie avviate in Stati membri diversi comporterebbe un indebolimento delle possibilità di conseguire tale obiettivo (sentenza del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punto 24). 36 Dalle suesposte considerazioni emerge che i giudici dello Stato membro nel cui territorio sia stata avviata la procedura di insolvenza, di cui all’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000, dispongono della competenza giurisdizionale esclusiva a conoscere delle azioni direttamente scaturenti da detta procedura e ad essa strettamente connesse e, quindi, delle azioni revocatorie fondate sull’insolvenza. 37 Tale conclusione non può essere inficiata dal contesto nel quale si colloca l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000. 38 In primo luogo, non si può addurre a fondamento l’articolo 18, paragrafo 2, di tale regolamento per rimettere in discussione la natura esclusiva della competenza giurisdizionale inter-
nazionale dei giudici di cui all’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento medesimo a conoscere delle azioni revocatorie. 39 Infatti, l’articolo 18, paragrafo 2, del regolamento n. 1346/2000 riguarda soltanto la situazione particolare nella quale il curatore fallimentare è stato nominato nell’ambito di una procedura ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento stesso e non può trovare applicazione in una situazione, come quella oggetto del procedimento principale, in cui il curatore è stato nominato nell’ambito della procedura principale di insolvenza. 40 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 64 delle proprie conclusioni, una distinzione del genere si spiega con il fatto che i poteri del curatore, nell’ambito di un procedimento ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento n. 1346/2000, sono limitati territorialmente, poiché, ai sensi di tale articolo, gli effetti di detta procedura sono limitati ai beni del debitore situati nel territorio dello Stato membro in cui è stata aperta la suddetta procedura d’insolvenza. Il curatore deve pertanto disporre, in un caso del genere, della possibilità di proporre un’azione revocatoria connessa a tale procedura dinanzi ai giudici di uno Stato membro diverso da quello dell’apertura della procedura secondaria nel caso in cui le merci oggetto di tale procedura siano state trasferite, successivamente alla sua apertura, in un altro Stato membro. 41 In secondo luogo, l’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000 non può, a fortiori, essere utilizzato a sostegno di un’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale regolamento a favore di una giurisdizione internazionale facoltativa per le azioni revocatorie. 42 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 65 delle proprie conclusioni, tale disposizione riguarda unicamente il riconoscimento e l’esecutività delle decisioni direttamente derivanti dalla procedura di insolvenza e ad essa strettamente connesse, anche se adottate da un altro giudice. Detta disposizione si limita ad ammettere la possibilità che i giu-
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dici di uno Stato membro, nel cui territorio sia stata aperta una procedura di insolvenza, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000, conoscano parimenti di un’azione direttamente scaturente dalla procedura stessa, sia che si tratti del giudice che abbia aperto la procedura di insolvenza ai sensi del menzionato articolo 3, paragrafo 1, ovvero di un altro giudice territorialmente o materialmente competente del medesimo Stato membro (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Seagon, C 339/07, EU:C:2009:83, punti 26 e 27).
43 Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1346/2000 dev’essere interpretato nel senso che la competenza giurisdizionale dei giudici dello Stato membro, sul territorio del quale la procedura di insolvenza è stata avviata, a conoscere di un’azione revocatoria fondata sull’insolvenza e diretta nei confronti di una controparte con sede statutaria o domicilio in un altro Stato membro costituisce una competenza giurisdizionale esclusiva.
La giurisdizione infracomunitaria in materia di azione revocatoria ordinaria e fallimentare in due pronunce della Corte di Giustizia Sommario : 1. Introduzione – 2. Foro in materia contrattuale e azione revocatoria ordinaria: la soluzione della Corte di Giustizia – 3. Azione revocatoria fallimentare e giurisdizione esclusiva dei giudici del luogo in cui è stata aperta la procedura di insolvenza.
Lo scritto analizza due recenti decisioni della Corte di Giustizia che si sono pronunciate su altrettante questioni pregiudiziali aventi ad oggetto, in un caso, la possibilità di ritenere applicabile all’azione revocatoria ordinaria proposta dal singolo creditore il criterio di giurisdizione in materiale contrattuale allorché il credito da tutelare con tale azione tragga il suo titolo, appunto, da un contratto e, nell’altro, la natura esclusiva o meno della competenza giurisdizionale dei giudici dello Stato membro di apertura di una procedura di insolvenza per le azioni che derivano direttamente dalla procedura, come ad esempio le azioni revocatorie fallimentari. The paper analyzes two recent judgments of the European Court of Justice concerning, on one side, the issue related to the proper head of jurisdiction applicable to the “actio pauliana” brought by a creditor and, on the other side, the exclusive nature of the head of jurisdiction provided for in Reg. 1346/2000 (now replaced by Reg. 848/2015) for actions deriving directly from insolvency proceedings and closely linked with them.
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1. Introduzione. Con sentenza del 4 ottobre 2018 pronunciata nella causa C-337/17 (Feniks sp. Z o.o. contro Azteca Products & Services SL)1, la Corte di Giustizia, pronunciandosi su di una questione pregiudiziale sottopostale da un giudice polacco, ha affermato, testualmente, che “in una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, un’azione pauliana, mediante la quale il titolare di diritti di credito derivanti da un contratto chiede che sia dichiarato inefficace nei suoi confronti l’atto, asseritamente pregiudizievole ai suoi diritti, con cui il suo debitore ha ceduto un bene ad un terzo rientra nella norma sulla competenza internazionale di cui all’articolo 7, punto 1, lettera a), del Regolamento (UE) n. 125/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale”. Con sentenza di poco successiva del 14 novembre 2018 pronunciata nella causa C-296/17 (Wiemer & Trachte GmbH contro Zhan Oved Tadzher)2, la Corte di Giustizia, rispondendo questa volta ad un quesito pregiudiziale rimessole da un giudice bulgaro, ha dichiarato che “l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza, deve essere interpretato nel senso che la competenza giurisdizionale dei giudici dello stato membro, sul territorio del quale la procedura di insolvenza è stata avviata, a conoscere di un’azione revocatoria fondata sull’insolvenza e diretta nei confronti di una controparte con sede statutaria o domicilio in un altro Stato membro costituisce una competenza giurisdizionale esclusiva”. Di seguito, quindi, ci soffermeremo su entrambe le decisioni analizzandone un po’ più a fondo il contenuto e verificando la correttezza delle soluzioni adottate.
2. Foro in materia contrattuale e azione revocatoria ordinaria: la soluzione della Corte di Giustizia.
In Feniks la Corte di Giustizia si è pronunciata, per la prima volta3, sull’applicabilità all’azione revocatoria ordinaria (nella specie quella regolata dal codice civile polacco) del
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Di seguito ci si riferirà a questa sentenza solo come Feniks. Di seguito ci si riferirà a questa sentenza solo come Wiemer & Trachte. Non è invece la prima volta che la questione del criterio di giurisdizione applicabile all’azione revocatoria ordinaria è portata all’attenzione della Corte di Giustizia. Con la sentenza Reichert (Corte di Giustizia, 10 gennaio 1990, Causa C-115/88), la Corte aveva escluso che potesse applicarsi all’azione revocatoria ordinaria disciplinata dal diritto francese e proposta avverso una donazione immobiliare il criterio di giurisdizione esclusiva in materia di diritti reali immobiliari, ossia il foro del luogo dove è situato il bene; nel caso di specie, ratione temporis, tale criterio era previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della Convenzione di Bruxelles del 1968, poi trasfuso, senza modificazioni, nell’art. 22, n. 1, Regolamento 44/2001 e, infine, nell’articolo 24, n. 1, del Regolamento 1215/2012 (c.d. Bruxelles I-bis) attualmente in vigore. Con la sentenza Reichert II (Corte di Giustizia, 26 marzo 1992, Causa C-261/90), la Corte ha invece escluso che all’azione revocatoria ordinaria regolata dal diritto francese sia applicabile (i) il criterio di giurisdizione in materia
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criterio di giurisdizione di cui all’articolo 7, n. 1, Reg. 1215/2012 il quale prevede che una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro “in materia contrattuale, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio”4. Nel giudizio pendente innanzi ai giudici polacchi e da cui è scaturito il rinvio pregiudiziale risolto dalla sentenza Feniks era infatti accaduto questo. Una società con sede in Polonia, affermandosi creditrice di altra società – anch’essa con sede in Polonia – in dipendenza di pagamenti che la prima, nella sua qualità di committente e quale responsabile in solido ex lege, aveva effettuato a favore dei subappaltatori della seconda nell’ambito di un contratto di appalto stipulato in Polonia ed ivi da eseguirsi, aveva convenuto innanzi ai giudici polacchi una società con sede in Spagna al fine di sentir dichiarare inefficace nei suoi confronti – ai sensi delle pertinenti disposizioni dettate con riguardo all’actio pauliana dal codice civile polacco – il contratto di compravendita con cui la società debitrice ed appaltatrice aveva trasferito in favore della convenuta la proprietà di un immobile situato sempre in Polonia. A quanto è dato ricavare dal testo del provvedimento, nel procedimento principale pendente in Polonia erano parti solo il creditore ed il terzo in cui favore era stato disposto il trasferimento del bene immobile di proprietà della società polacca debitrice, mentre non era stata evocata in giudizio anche quest’ultima. Reso, perciò, inapplicabile al fine di radicare la giurisdizione innanzi ai giudici polacchi il criterio del litisconsorzio passivo di cui all’articolo 8, n. 1, Reg. 1215/20125, il creditore e attore in revocatoria (ordinaria) riteneva
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di illeciti dolosi o colposi, vale a dire il foro del luogo dove l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire (nel caso di specie, ratione temporis, tale criterio era previsto dall’art. 5, n. 3, della Convenzione di Bruxelles del 1968, poi trasfuso senza modificazioni nell’art. 5, n. 3, del Reg. 44/2001 e oggi contenuto nell’art. 7, n. 3, del Reg. 1215/2012 attualmente in vigore), (ii) il criterio di giurisdizione esclusiva in materia di esecuzione delle decisioni di cui all’allora in vigore art. 16, n. 5, della Convenzione di Bruxelles del 1968, poi trasfuso senza modificazioni nell’art. 22, n. 5, del Reg. 44/2001 e ora nell’art. 24, n. 5, del Reg. 1215/2012 attualmente in vigore, (iii) il criterio di giurisdizione in materia di provvedimenti cautelari e provvisori previsto dall’allora in vigore art. 24 della Convenzione di Bruxelles del 1968, poi trasfuso senza modificazioni nell’art. 34 del Reg. 44/2001 e oggi contenuto nell’art. 35 del Reg. 1215/2012. Conviene qui rammentare che il Reg. 1215/2012 è entrato in vigore il 10 gennaio 2015 ed ha sostituito il Reg. 44/2001 che continua, tuttavia, ad applicarsi alle azioni proposte anteriormente al 10 gennaio 2015. La soluzione della questione interpretativa somministrata dalla Corte di Giustizia con riferimento ad un caso regolato, ratione temporis, dal nuovo Reg. 1215/2012 vale, dunque, anche per quei casi che siano ancora regolati dal reg. 44/2001 attesa la coincidenza e continuità di contenuti dei due strumenti, così come le soluzioni fornite dalla Corte di Giustizia a quesiti interpretativi riguardanti le norme contenute nei predecessori del reg. 1215/2012 continuano ad avere rilevanza pur con riferimento alle omologhe disposizioni contenute in Bruxelles I-bis (v. il considerando 34 ove testualmente si prevede che “È opportuno garantire la continuità tra la convenzione di Bruxelles del 1968, il regolamento (CE) n. 44/2001 e il presente regolamento e a tal fine è opportuno prevedere adeguate disposizioni transitorie. Lo stesso bisogno di continuità si applica altresì all’interpretazione delle disposizioni della convenzione di Bruxelles del 1968 e dei regolamenti che la sostituiscono, a opera della Corte di giustizia dell’Unione europea”). Per l’affermazione del principio per cui per rispondere alle questioni interpretative poste con riferimento al reg. 1215/2012 occorre fare riferimento all’interpretazione fornita dalla Corte riguardo al regolamento n. 44/2001, nonché alla Convenzione di Bruxelles del 1968 e valida ugualmente per le omologhe disposizioni del reg. 1215/2012 nei limiti in cui esse possono essere considerate equivalenti v., da ultimo, la sentenza Kareda (Corte di Giustizia, 15 giugno 2017, Causa C-249/16). Sul foro in materia contrattuale v. Carbone - Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale. Il regolamento UE 1215/2012, Torino, 2016, 86 e ss.; Franzina, La giurisdizione in materia contrattuale, Padova, 2006, passim; Lupoi, Conflitti transnazionali di giurisdizioni, Tomo I, Policies, metodi, criteri di collegamento, Milano, 2002, 453 ss. Ai sensi dell’art. 8, n. 1, Reg. 1215/2012 (con formulazione identica a quella olim contenuta nell’art. 6, n. 1, Reg. 44/2001) una persona
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che la giurisdizione dei giudici polacchi potesse ugualmente predicarsi in dipendenza dell’operare del criterio di giurisdizione in materia contrattuale; e ciò in ragione del fatto che il credito per la cui tutela aveva agito in giudizio al fine di sentire dichiarare inefficace nei suoi confronti l’atto di disposizione compiuto dal debitore in favore di un terzo derivava da un contratto di appalto il cui luogo di esecuzione era fissato in Polonia. Sulla base di tali premesse, il giudice del procedimento principale decideva di rivolgersi alla Corte di Giustizia rimettendole il seguente quesito pregiudiziale: “se una controversia risultante da un’azione promossa contro un’acquirente stabilito in uno Stato membro, diretta a far dichiarare l’inefficacia di un contratto di compravendita di un bene immobile situato nel territorio di un altro Stato membro, fondata sul pregiudizio arrecato ai creditori del venditore, contratto che è stato concluso ed eseguito integralmente nel territorio di tale altro Stato membro, costituisca una controversia in ‘materia contrattuale’ ai sensi dell’articolo 7, punto 1, lettera a), del regolamento n. 1215/2012”. Ad avviso del giudice remittente, in particolare, la propria giurisdizione si sarebbe dovuta affermare in quanto il foro in materia contrattuale è destinato ad applicarsi a tutte le controversie aventi un collegamento con un contratto, di modo che, nel caso di specie, l’azione revocatoria proposta dal creditore nei confronti della vendita effettuata dal proprio debitore in favore di un terzo sarebbe da porsi in stretto collegamento proprio con quest’ultimo contratto da dichiarare inefficace e per tale azione dovrebbe, quindi, senz’altro potersi applicare il criterio di giurisdizione di cui all’art. 7, punto 1, lettera a), Reg. 1215/20126. La Corte di Giustizia ha, in primo luogo, chiarito che alla controversia in corso dinanzi ai giudici polacchi si applicava senz’altro il Reg. 1215/2012, e ciò pur a dispetto del fatto che il presupposto per l’utile esperimento dell’azione revocatoria secondo il diritto polacco – per quanto riportato dallo stesso giudice remittente – sia lo stato di insolvenza del debitore che ha compiuto l’atto di disposizione asseritamente pregiudizievole. Secondo quanto giustamente osservato dalla Corte, però, il semplice fatto che l’azione revocatoria proposta dal singolo creditore si fondi sull’insolvenza del debitore non è chiaramente sufficiente a chiamare in vigore le norme sulla giurisdizione contenute nel reg. 1346/2000 relativo alle procedure di insolvenza7 essendo, al contrario, necessario che l’azione volta a
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domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta “in caso di pluralità di convenuti, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui uno di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un collegamento così stretto da rendere opportuna una trattazione unica e una decisione unica onde evitare il rischio di giungere a decisioni incompatibili derivanti da una trattazione separata”. Nel caso di specie, quindi, qualora il diritto polacco avesse prescritto – come si prevede nel nostro ordinamento – un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra debitore, creditore e terzo, la giurisdizione dei giudici polacchi si sarebbe certamente potuta radicare in dipendenza del criterio di cui all’art. 8, n. 1, Reg. 1215/2012. Sul criterio attributivo di giurisdizione fondato sul litisconsorzio passivo v. D’Alessandro, La connessione tra controversie transazionali, Torino, 2009, 37 ss. A parere del giudice remittente, quindi, l’azione promossa dal creditore nei confronti del terzo per far dichiarare inefficace l’atto di disposizione compiuto dal debitore rientra nella “materia contrattuale” allorché l’atto pregiudizievole impugnato sia un contratto ed è, dunque, rispetto a tale ultimo contratto che deve verificarsi il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio idoneo a radicare la giurisdizione (v. punti 21 e 22 della sentenza). Come noto, il reg. 1346/2000 è stato sostituito, a decorrere dal 26 giugno 2017, dal Regolamento (UE) 845/2018. Per ulteriori indicazioni
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dichiarare inopponibile ai creditori l’atto di disposizione compiuto dal debitore insolvente venga esercitata nell’ambito di una procedura di insolvenza dichiarata aperta e, dunque, a vantaggio dell’intera massa dei creditori e non invece del singolo che ha assunto la iniziativa processuale8. Venendo, poi, al merito della questione interpretativa rimessale dal giudice polacco la Corte ha ritenuto che l’azione revocatoria ordinaria esercitata a tutela di un credito di fonte contrattuale rientri nella materia contrattuale e che, quindi, la giurisdizione in relazione a tale azione possa essere determinata, oltre che facendo riferimento al criterio generale di giurisdizione di cui all’art. 4 del regolamento 1215/2012 fondato sulla localizzazione del domicilio del convenuto, anche facendo affidamento sul criterio speciale, alternativamente concorrente, di cui all’art. 7, punto 1, lett. a). Diversamente, però, da quanto rilevato dal giudice remittente, per la Corte di giustizia la natura contrattuale della controversia introdotta mediante la proposizione di un’azione revocatoria ordinaria non dipende dal fatto che ad essere impugnato con tale azione sia un contratto (mediante il quale il debitore ha disposto di un suo bene in favore di un terzo) ma, al contrario, dipende dal fatto che il credito che si vuole tutelare mediante il vittorioso esperimento di un’azione revocatoria abbia fonte e/o tragga titolo da un contratto concluso tra il creditore attore ed il debitore che ha compiuto l’atto di disposizione asseritamente pregiudizievole. A parere della Corte, infatti, la causa dell’azione revocatoria consiste nella violazione delle obbligazioni che il debitore ha nei confronti del creditore ed il cui adempimento quest’ultimo cerca di tutelare mediante la dichiarazione di inefficacia dell’atto con cui il debitore si è spogliato di un elemento attivo del proprio patrimonio utilmente aggredibile in via esecutiva, da ciò conseguendo che quando queste obbligazioni siano state assunte
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sui criteri di giurisdizione in materia di azioni revocatorie proposte nell’ambito di una procedura di insolvenza transfrontaliera v. quanto rilevato infra nella nota 8 e nel successivo paragrafo. V. sempre il prossimo paragrafo per ulteriori approfondimenti sulla questione della giurisdizione infracomunitaria in materia di azione revocatoria fallimentare. Conviene qui ricordare, però, che secondo quanto di recente affermato da Cass. civ., sez. un., 26 aprile 2017 n. 10233 (in Giur. it., 2017, 2140, con nota di Boggio, La revocatoria ordinaria nell’insolvenza transazionale nell’evolversi del diritto UE) l’azione revocatoria ordinaria promossa dal curatore ai sensi dell’art. 66 L.F. deve ritenersi soggetta, anche con riferimento alla soluzione della questione di giurisdizione infra-comunitaria (atteso che la competenza interna del tribunale fallimentare anche su tale azione è espressamente sancita dal secondo comma dell’art. 66 L.F.), alla regola della vis attractiva concursus dettata (ratione temporis) dall’articolo 3 del reg. 1346/2000 trattandosi di azione direttamente derivante dalla procedura e ad essa strettamente connessa in quanto, se esercitata all’interno di una procedura, presenta talune peculiarità rispetto all’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. esercitata al di fuori della procedura concorsuale (per una critica a tale orientamento v. Boggio, op. ult. cit., 2148 e ss., ove si esclude che la revocatoria ordinaria, fondata sulla frode e non sull’insolvenza pur quando esercitata ai sensi dell’art. 66 L.F., sia un’azione direttamente derivante dalla procedura). Quanto detto dalla Corte di Giustizia in Feniks, anche se per escludere giustamente l’applicabilità del reg. 1346/2000 (ratione temporis applicabile), parrebbe in effetti confermare l’orientamento della nostra Suprema Corte, nel senso che l’azione revocatoria ordinaria, seppur è proponibile a prescindere dall’apertura di una procedura di insolvenza, deve considerarsi un’azione derivante dalla procedura o ad essa strettamente connessa quando e se esercitata dal curatore nell’ambito di una procedura concorsuale pendente ed a vantaggio dell’intera massa dei creditori anche in ragione della esistenza di una legittimazione esclusiva del curatore con conseguente esclusione di una concorrente legittimazione individuale dei creditori (v. comunque il paragrafo successivo per ulteriori considerazioni sulla vis attractiva concursus nel reg. 848/2015).
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mediante la conclusione di un contratto l’azione revocatoria deve dirsi senz’altro appartenere alla categoria delle azioni in materia contrattuale. Una tale conclusione volta a valorizzare, ai fini della risoluzione della quaestio iurisdictionis, la natura del credito che è al fondo dell’esercizio dell’actio pauliana e che con essa si intende tutelare, non è nuova per il nostro ordinamento nel quale non si esita ad attribuire rilevanza, al fine di individuare il giudice territorialmente competente per l’azione revocatoria ordinaria di cui all’art. 2901 c.c., ai criteri speciali di competenza dettati dall’articolo 20 del codice di rito per le cause relative a diritti di obbligazione applicati al credito in dipendenza del quale il creditore si legittima alla proposizione dell’azione piuttosto che all’atto e/o al contratto da dichiarare inefficace9.
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Nella giurisprudenza di merito v. Tribunale Roma, 3 luglio 2018 (in Pluris on-line) in un caso però in cui il Tribunale adito era quello di residenza del convenuto; Tribunale di Firenze, 5 giugno 2018 (in Pluris on-line) che attribuisce rilevanza al foro scelto dalle parti del contratto da cui derivava l’obbligazione tutelata in via revocatoria in cui un caso in cui, però, era convenuto in giudizio il solo debitore che aveva compiuto un atto unilaterale di destinazione patrimoniale dei suoi beni immobili; Tribunale Trento, 23 maggio 2016 (in Pluris on-line) in un caso in cui era stata proposta azione revocatoria dell’atto di costituzione di un fondo patrimoniale posto in essere da due coniugi entrambi debitori del creditore attore in revocatoria; Tribunale di Bologna, 7 gennaio 2015 (in Pluris on-line); Tribunale di Reggio Emilia, 5 novembre 2013 (in Pluris on-line); Tribunale di Salerno, 3 luglio 2013 (in Pluris on-line), Tribunale di Monza, 9 dicembre 2008 (in Pluris on-line). Nella giurisprudenza di legittimità v. Cass. civ., Sez. III, 6 luglio 1993, n. 7377 (in Pluris online) in un caso in cui l’azione revocatoria risultava proposta da parte del creditore nei confronti di due coniugi – entrambi debitori del soggetto che ha agito in revocatoria – che avevano costituito un fondo patrimoniale; in questo caso, dunque, l’applicazione del criterio di competenza territoriale di cui all’art. 20 c.p.c. era, evidentemente, comune ad entrambi i litisconsorti poiché entrambi erano parti del rapporto obbligatorio da cui traeva titolo il credito tutelato con l’azione revocatoria. V. anche Cass. Civ., Sez. III, 5 marzo 1988, n. 2307 (in Pluris on-line) che, tuttavia, ha quale principale ratio decidendi posta a fondamento della pronunciata cassazione della declinatoria resa dal giudice di merito quella consistente nella applicazione della regola (al tempo “vigente”) che sanciva l’inefficacia dell’eccezione di incompetenza proposta solo da uno dei più litisconsorti necessari; solo a supporto di tale principale ratio decidendi e, dunque, quale mero obiter dictum la S.C., in questa non recente pronuncia, ha affermato che l’azione ex art. 2901 c.c. è relativa a diritti di obbligazione e che, di conseguenza, l’eccezione di incompetenza deve essere svolta con riferimento a tutti i fori, generali e speciali, alternativamente concorrenti (così supponendo l’applicabilità di essi, in particolare di quello di cui all’art. 20 c.p.c.). Nel senso che in caso di azione revocatoria ordinaria l’unico foro applicabile è quello generale del convenuto ex artt. 18 e 19 c.p.c. e/o di uno dei convenuti ex art. 33 c.p.c. v. Tribunale di Milano, 24 settembre 2002 (in Pluris on-line), nonché Corte d’Appello di Roma, 7 maggio 1991 (in Pluris on-line). L’unica volta in cui, invece, la nostra Corte di Cassazione ha dovuto risolvere non una questione di competenza interna ma una questione di giurisdizione relativa ad un’azione revocatoria con elementi di internazionalità, il caso è stato risolto ritenendo applicabile il forum destinatae solutionis dell’obbligazione la cui attuazione pregiudica le ragioni del creditore, vale a dire quella derivante dall’atto di disposizione impugnato (Cass. Civ., Sez. Un., 7 maggio 2003, n. 6899). Quanto riportato in questa nota è, a nostro avviso, rilevante per dare sostegno all’idea che, assai verosimilmente, l’orientamento della nostra giurisprudenza in punto di competenza territoriale per l’azione revocatoria ordinaria sia, quantomeno, discutibile. In primo luogo, non sfuggirà che in molti casi in cui è stato affermato il principio della rilevanza, ai fini della competenza, del credito da tutelare in via revocatoria, il criterio di cui all’art. 20 riferito ad esso era, comunque, comune ai due convenuti entrambi obbligati nei confronti dell’attore in revocatoria. Diversamente, quando tale comunanza manchi parrebbe, in effetti, incongruo estendere l’applicazione anche al terzo del criterio fondato sull’esecuzione di un obbligo rispetto al quale egli è estraneo, per di più così violando l’art. 33 c.p.c. che consente il cumulo soggettivo solo dinanzi al giudice del foro generale di uno dei convenuti e non certo dinanzi al giudice del foro speciale applicabile solo per uno di essi. In secondo luogo, una volta che si escluda l’esistenza di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra causa sul credito e azione revocatoria con cui si voglia tutelare tale credito litigioso (e ciò in ragione dell’assenza di qualsiasi accertamento con efficacia di giudicato che consegua all’accoglimento della revocatoria sull’esistenza del credito in dipendenza del quale l’attore si era legittimato), non sembra coerente ritenere che quel credito possa dirsi costituire l’obbligazione dedotta in giudizio rispetto al quale determinare la competenza atteso che, come noto e a tacer d’altro, la competenza si determina in relazione a ciò su cui il giudice deve decidere con efficacia di giudicato e non invece su ciò che il giudice esamina solo incidenter tantum. In ordine a quest’ultimo rilievo deve, peraltro, precisarsi che, secondo quanto previsto dall’articolo 7, paragrafo 1, Reg. 1215/2012, al fine di individuare il giudice fornito di giurisdizione in materia contrattuale non si da più rilievo, allorché si abbia a che fare con un contratto di compravendita o di prestazione di servizi, alla obbligazione che costituisce in concreto l’oggetto del processo; al contrario, in tali ipotesi (regolate dalla lettera b dell’articolo 7, par. 1, Reg. 1215/2012), a prescindere da
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Per giungere alla conclusione racchiusa nel dispositivo, la Corte ha innanzi tutto richiamato il tradizionale principio della necessità di una interpretazione autonoma della nozione di materia contrattuale10 per poi evocare, a tal proposito, la anch’essa oramai tradizionale conclusione per la quale l’applicazione della norma che prevede un foro speciale, alternativamente concorrente con quello generale del domicilio del convenuto, presuppone l’esistenza di un obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti di un’altra e su cui si fonda l’azione in concreto proposta, non essendo quindi necessario che sia stato stipulato un vero e proprio contratto11. Nel caso di specie, tuttavia, la questione non era tanto quella di verificare se la controversia oggetto del procedimento principale riguardasse o meno una vicenda negoziale astrattamente riconducibile alla nozione di materia contrattuale autonomamente elaborata dalla Corte di Giustizia quanto, diversamente, era quella consistente nel dire se potesse avere rilevanza la natura contrattuale (pur nel suo autonomo concetto edificato europeo iure in dipendenza dei noti arresti della Corte di Giustizia indicati in nota) della pretesa tutelata con l’azione revocatoria, ovvero dell’atto impugnato e da dichiarare inefficace o se, al contrario, la “natura camaleontica dell’actio pauliana”12 non imponesse di escludere tout court la possibilità di fare applicazione di uno dei criteri speciali di cui all’art. 7 reg. 1215/2012 confinando l’azione revocatoria nell’ambito di applicazione del solo criterio generale del domicilio del convenuto (e/o di uno dei convenuti in ipotesi di litisconsorzio passivo del terzo beneficiario e del debitore disponente).
quale sia l’oggetto del processo (e quand’anche, dunque, esso abbia ad oggetto l’obbligazione del venditore o del prestatore di servizi di pagare il corrispettivo convenuto), per obbligazione dedotta in giudizio deve sempre intendersi quella “caratteristica”, ossia quella di consegnare il bene o di prestare il servizio. È il luogo di esecuzione di questa obbligazione individuata ex auctoritate e una volta per tutte dal legislatore comunitario a rilevare, sempre e comunque, ai fini della individuazione del giudice giurisdizionalmente competente. 10 V. il punto 38 della sentenza Feniks ove è richiamata, tra le tante e da ultimo, Corte di Giustizia, 7 marzo 2018, Cause riunite C-274/16, C-447/16 e C-448/16, Flightright. 11 La prima pronuncia al riguardo è la nota sentenza Handte (Corte di Giustizia, 17 giugno 1992, Causa C-26/91) in cui si è escluso che potesse rientrare nella nozione di materia contrattuale ai sensi dell’allora vigente art. 5, n. 1), Convenzione di Bruxelles del 1968 l’azione proposta dal sub-acquirente direttamente nei confronti del produttore di beni viziati, essendosi in quell’occasione testualmente rilevato che la materia contrattuale “non può ricomprendere le fattispecie in cui non esista alcun obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti dell’altra”. Nella sentenza Tacconi (Corte di Giustizia, 17 settembre 2000, Causa C-334/00), invece, la Corte di Giustizia ha escluso dalla materia contrattuale, riconducendola a quella degli illeciti dolosi o colposi olim disciplinata dall’art. 5, n. 1), della Convenzione di Bruxelles del 1968, la responsabilità precontrattuale, atteso che essa discende unicamente “dalla violazione di norme giuridiche”. Nella sentenza Engler (Corte di Giustizia, 20 gennaio 2005, Causa C-27/02) la Corte di Giustizia ha ritenuto rientrare nella nozione di materia contrattuale l’azione proposta da un consumatore nei confronti di un professionista per far valere una promessa di vincita, anche in assenza della conclusione di un contratto relativo alla fornitura di beni o servizi; e ciò sul presupposto dell’esistenza di un obbligo liberamente assunto dal professionista nei confronti del destinatario della comunicazione contenente detta promessa di vincita. Più di recente, la sentenza ERGO Insurance (Corte di Giustizia, 21 gennaio 2016, Cause riunite C-359/14 e C-475/14) ha richiamato tale fondamento dell’obbligo liberamente assunto al fine di ritenere applicabile il foro speciale in materia contrattuale per discriminare la nozione di obbligazione contrattuale di cui al Regolamento (CE) 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (c.d. Roma I) da quella di obbligazione extracontrattuale di cui al Regolamento (CE) 864/2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (c.d. Roma II). 12 Questa l’efficace espressione utilizzata dall’avvocato generale M. Bobek nelle conclusioni presentate nel caso Feniks (punti 76 e ss.)
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Secondo la Corte, come anticipato, l’actio pauliana ha il suo fondamento nel diritto personale del creditore nei confronti del debitore e mira a conservare la garanzia patrimoniale generica, di modo che la “causa di tale azione consiste, quindi, in sostanza, nella violazione delle obbligazioni che il debitore ha assunto nei confronti del creditore” perché con il compimento dell’atto di disposizione il debitore ha pregiudicato o, comunque, reso più difficoltosa la soddisfazione dei diritti del creditore che discendono dalla forza vincolante del contratto concluso tra creditore e debitore e che corrispondono ad obbligazioni liberamente assunte da quest’ultimo. Ne consegue, secondo il ragionamento sviluppato dalla Corte di Giustizia, che se il diritto di credito che si intende tutelare in via revocatoria deriva da un contratto o, comunque, nei casi in cui a tale credito corrisponda un obbligo – di natura “contrattuale” nel senso, più ampio, fatto proprio dall’interpretazione della Corte di Giustizia – liberamente assunto dal debitore nei confronti del creditore, allora il creditore che abbia l’intenzione di proporre un’azione revocatoria potrà farlo dinanzi al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione corrispondente a tale diritto e che, a tal fine e a prescindere dal fatto che essa costituisca o meno l’oggetto di un accertamento incidentale con efficacia di giudicato, deve considerarsi quale obbligazione dedotta in giudizio in relazione alla quale determinare la giurisdizione. In buona sostanza, allorché venga proposta un’azione revocatoria ordinaria – vale a dire un’azione che il creditore propone per far dichiarare inefficace nei suoi confronti un atto di disposizione del debitore che arreca pregiudizio alle sua ragioni diminuendo la garanzia patrimoniale a sua disposizione – per “obbligazione dedotta in giudizio” deve intendersi, secondo quanto rilevato dalla Corte nella sentenza Feniks, quella di cui è o, comunque, si afferma titolare, dal lato attivo, il soggetto che agisce nella sua dichiarata qualità di creditore ed il luogo di esecuzione di essa è quello cui riferirsi per individuare il giudice munito di competenza giurisdizionale . Una tale conclusione è ritenuta dalla Corte di Giustizia del tutto compatibile e coerente con i principi di prevedibilità e di prossimità che devono guidare l’interprete nell’individuare i limiti oggettivi e soggettivi di applicazione dei criteri speciali di giurisdizione: quanto al principio di prossimità la Corte rileva che se si riconoscesse al creditore la possibilità di agire solo dinanzi ai giudici del luogo di domicilio del convenuto (e/o di uno dei convenuti in caso di litisoconsorzio passivo ex art. 8, n. 1), Reg. 1215/2012), si finirebbe col radicare la lite innanzi ad un giudice che potrebbe essere privo di qualunque nesso con il luogo di esecuzione delle obbligazioni del debitore nei confronti del creditore per la cui tutela, come detto, quest’ultimo sostanzialmente agisce in giudizio; quanto al principio della prevedibilità la Corte, con argomentare sinceramente apodittico, si limita, per un verso, ad affermare che il mettere a disposizione del creditore “contrattuale” il foro del luogo di esecuzione dell’obbligazione il cui adempimento è tutelato in via revocatoria soddisfa “sia il requisito della certezza del diritto e di prevedibilità sia l’obbiettivo della buona amministrazione della giustizia” e, dall’altro, a dar atto della circostanza per cui “un professionista che abbia concluso un contratto di acquisto di beni immobili, quando il creditore della sua controparte reclama che tale contratto ostacola indebitamente l’esecuzione
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delle obbligazione di detta controparte nei confronti di tale creditore, può ragionevolmente aspettarsi di essere citato dinanzi al giudice del luogo di esecuzione di dette obbligazioni”. La pronuncia della Corte, a nostro avviso, pare essere il frutto di un’argomentazione forse sin troppo sbrigativa e superficiale. Pur a tacer di altre considerazioni, a noi sembra innanzi tutto che dare rilevanza al credito per la cui tutela si agisce con l’actio pauliana – mediante conservazione e/o reintegrazione della garanzia patrimoniale che ne dovrebbe assicurare il soddisfacimento in caso di inadempimento – non sembra possa essere ritenuto conforme al rispetto del principio di prevedibilità: da un lato, infatti, il terzo beneficiario e/o contraente potrebbe trovarsi a doversi difendere da azioni revocatorie intentate da soggetti che vantino un ragione di credito nei confronti della sua controparte contrattuale fondata su titoli assai diversi tra di loro e neppure, come ovvio, agevolmente percepibili e, comunque, individuabili ex ante13 e, dall’altro, quand’anche tale consapevolezza potesse predicarsi in ragione della mala fede del terzo contraente – perfettamente a conoscenza della natura del credito che viene pregiudicato con l’atto di disposizione di cui è risultato beneficiario – risulterebbe abbastanza chiaro che tale consapevolezza è qualcosa che può accertarsi, in concreto, solo all’esito del giudizio costituendo, in taluni casi ma non in tutti, una delle condizioni che devono ricorrere affinché l’azione revocatoria possa ritenersi fondata. Poiché sarà, quindi, la natura dell’obbligazione da tutelare con l’azione revocatoria a determinare l’applicabilità di un foro speciale, alternativamente concorrente rispetto a quello generale del domicilio del convenuto, e poiché, ancora, prima dell’instaurazione dell’azione e, comunque, al momento del compimento dell’atto di disposizione (ferma l’eventualità di una mala fede del terzo contraente rilevante, però, ai fini del merito e non invece ai fini della determinazione della competenza giurisdizionale), la natura contrattuale o extracontrattuale o altra e diversa natura della controversia non è e non può essere né noto al terzo convenuto né prevedibile ex ante da quest’ultimo, la conclusione più congrua in punto di determinazione del giudice competenza a conoscere di un’azione revocatoria pare proprio essere quella che, ragionevolmente esclusa la possibilità di classificare in astratto ed in generale un tale tipo di azione al fine di inserirla ex ante in un criterio di giurisdizione diverso e concorrente con quello generale, prenda atto della impossibilità di applicare ad essa – in ragione della natura del credito tutelato o dell’atto impugnato – un
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La conclusione cui giunge la Corte di Giustizia legittima, in effetti, l’ulteriore svolgimento per cui, allorché il credito che è al fondo dell’azione revocatoria derivi da un illecito doloso o colposo (nel senso di cui all’art. 8, n. 3), Reg. 1215/2012), detta azione potrà allora essere proposta, oltre che dinanzi ai giudici del luogo di domicilio del convenuto, innanzi ai giudici del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto; o ancora, che nel caso in cui il credito per la cui tutela si agisce in via revocatoria derivi da un obbligo alimentare, potranno allora applicarsi i criteri di giurisdizione di cui al Reg. 4/2009, e così via. In definitiva, la conclusione cui giunge la Corte pare essere quella, più generale, per la quale la giurisdizione in materia di azione revocatoria si determina (anche) in dipendenza del criterio di giurisdizione (speciale) applicabile al credito ed alla corrispondente obbligazione così (indirettamente) tutelata nella sua esecuzione e soddisfazione.
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criterio di giurisdizione speciale per ritenere invece applicabile solo il criterio generale del domicilio del convenuto e/o di uno dei convenuti14.
3. Azione revocatoria fallimentare e giurisdizione esclusiva dei giudici del luogo in cui è stata aperta la procedura di insolvenza.
In Wiemer & Trachte la Corte di Giustizia ha risolto una questione interpretativa relativa all’articolo 3, comma 1, del reg. 1346/2000 applicabile al caso di specie ratione temporis15. La norma oggetto della questione pregiudiziale prevede, a seguito e per effetto della nota pronuncia Deko Marty16, che la competenza dei giudici del luogo in cui si trova il
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Nel senso che per l’azione revocatoria ordinaria debba ritenersi applicabile il solo criterio generale del domicilio v. Franzina, La giurisdizione in materia contrattuale, cit., 261 ss. che fonda tale conclusione, tra l’altro, sull’osservazione per cui “un’ipotetica inclusione di tali fattispecie nella sfera di applicazione dell’art. 5, n. 1 del regolamento n. 44/2001 potrebbe, inoltre, rivelarsi incompatibile con le esigenze di prossimità e prevedibilità che debbono invece ispirare l’impiego di questa norma. Nulla infatti assicura che nel luogo della prevista esecuzione delle obbligazioni contrattuali si proietti l’elemento su cui si impernia l’azione del terzo (vale a dire, per restare all’esempio della revocatoria, la perdita patrimoniale subita dal debitore e suscettibile di provocarne o aggravarne l’insolvenza), e non è detto che quel luogo – la cui individuazione può dipendere dalle pattuizioni delle parti, al limite ignote al terzo – rappresenti, per tutti i soggetti coinvolti, una sede ragionevolmente pronosticabile della lite”. Nello stesso senso Biavati, Azione revocatoria e criteri italiani di competenza giurisdizionale, in Int’l Lis, 2004, Fascicolo 2, 86 ss., spec. 88 ove il rilievo per cui deve escludersi che per tutte le azioni di natura obbligatoria sussista un foro speciale dovendosi, al contrario, affermare che, in realtà, possono darsi fattispecie di tutela obbligatoria riconducibili al solo foro generale. Anche per Lupoi, Conflitti transazionali di giurisdizioni, Tomo I, cit., 457 ss. per il quale non esistono argomenti per sostenere che il sistema di Bruxelles debba garantire, per ogni categoria di controversie, un foro speciale di completamento del foro generale. Che l’unico foro a disposizione del creditore che intenda impugnare un atto di disposizione del proprio debitore sia quelo generale del domicilio di cui all’art. 4 Reg. 1215/2012 è anche la conclusione patrocinata dall’Avvocato Generale Bobek che, dovizia di argomenti e riferimenti, giunge infine a considerare che «in definitiva, allo stato attuale del diritto dell’Unione, l’actio pauliana sembra essere uno dei rari esempi che consente solo l’applicabilità della regola generale e una altrettanta rara conferma del fatto che “… non vi è alcuna ragione ovvia a sostegno dell’idea che dovrebbe esistere sempre, o anche spesso, un’alternativa al giudice del luogo del domicilio del convenuto”» (punto 98 delle conclusioni). 15 V. la nota 7 che precede. 16 Corte di Giustizia, 12 febbraio 2009, Causa C-339/07. Su tale sentenza v., se vuoi, Farina, La vis attractiva concursus nel regolamento comunitario sulle procedura di insolvenza, in Il Fallimento, 2009, 667 ss. Più in generale su questo tema v. Corsini, Profili transnazionali dell’azione revocatoria fallimentare, Torino, 2010, 3 ss. Prima della pronuncia Deko Marty, escludeva la sussistenza del principio della vis attractiva concursus Leandro, Il ruolo della lex concursus nel regolamento comunitario sulle procedura di insolvenza, Bari, 2008, 126 ss. Proprio in ragione di tale esegesi dell’art. 3, comma 1, del reg. 1346/2000 allora in vigore, l’articolo 6 del reg. 848/2015 (che ha abrogato, con effetti a decorrere dal 26 giugno 2017 e quindi per le procedure aperte dopo tale data, il reg. 1346/2000, fatta salva la “solita” continuità interpretativa tra le norme dei due regolamenti che si sono succeduti nel tempo ove equivalenti) prevede oggi una norma espressa in materia di competenza giurisdizionale in virtù della quale “i giudici dello Stato membro in cui è aperta una procedura di insolvenza ai sensi dell’articolo 3 sono competenti a conoscere delle azioni che derivano strettamente dalla procedura e che vi si inseriscono strettamente, come le azioni revocatorie. Se un’azione di cui al paragrafo 1 è connessa ad un’azione in materia civile o commerciale contro lo stesso convenuto, l’amministratore delle procedure di insolvenza può ottenere la riunione delle due azioni dinanzi ai giudici dello Stato membro nel cui territorio il convenuto ha il domicilio oppure, se l’azione è promossa contro più convenuti, dinanzi ai giudici dello Stato membro nel cui territorio uno dei convenuti ha il domicilio, purché tali giudici siano competenti ai sensi del regolamento (UE) 1215/2012”. Quanto alla possibilità di cumulare un’azione “fallimentare” con una “ordinaria” azione in materia civile e commerciale dinanzi ai giudici dello Stato membro del domicilio del convenuto e/o di uno dei convenuti può farsi l’esempio, tra gli altri, di un’azione di nullità e/o annullamento di un contratto proposta in via principale alla quale cumulare, in via di cumulo condizionato per subordinazione, un’azione revocatoria (fallimentare) volta alla dichiarazione di
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centro degli interessi principali del debitore ad aprire una procedura di insolvenza (principale) comprende anche la competenza a pronunciarsi sulle azioni che derivano da tale procedura e le sono strettamente connesse, quali ad esempio le azioni revocatorie fallimentari. Nel caso di specie, la Corte era chiamata a pronunciarsi (espressamente17) sulla questione della natura esclusiva o meno di tale competenza giurisdizionale per le azioni che derivano dalla procedura di insolvenza atteso che, nel procedimento principale, era stata proposta, innanzi ai giudici del domicilio del convenuto localizzato in Bulgaria, un’azione volta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia di un pagamento ricevuto dal convenuto successivamente all’apertura di una procedura di insolvenza principale decretata dai giudici tedeschi. A parere della Corte di Giustizia18, in ragione della circostanza per cui il reg. 1215/2012 (o il suo immediato predecessore, ossia il reg. 44/2001) e il reg. 1346/2000 (ed il suo im-
inefficacia del medesimo negozio o contratto, atteso che in tale caso sussiste certamente quello stretto legame evocato dall’ultimo paragrafo dell’articolo 6 non potendosi dichiarare inefficace un contratto nullo e/o annullato. Poiché l’articolo 6 Reg. 848/2015 precisa che il cumulo di una causa “fallimentare” con una ordinaria in materia civile e commerciale innanzi ai giudici del domicilio del convenuto e/o di uno dei convenuti può aversi solo quando tali giudici siano competenti ai sensi del Reg. 1215/2012 potranno verificarsi dei casi in cui non sarà possibile per il curatore instaurare un unico giudizio; si immagini il caso in cui il contratto che si vuole, prima di tutto, annullare o far dichiarare nullo (e solo a seguito del rigetto di tali domande, far dichiarare inefficace; v. supra in questa stessa nota), contenga una clausola di elezione del foro a favore di un giudice di uno Stato membro diverso da quello di (attuale) domicilio del convenuto (clausola che, in mancanza di apposita specificazione o limitazione, ha di per sé carattere esclusivo, escludendo quindi la competenza giurisdizionale, tra gli altri, anche e proprio dei giudici dello stato membro del domicilio del convenuto). La scelta del legislatore comunitario a tal riguardo appare, però, francamente opinabile perché non si comprende per quale motivo non potesse al contrario dettarsi una regola di attrazione (facoltativa, perché rimessa alla scelta dell’attore) della causa fallimentare a quella ordinaria in materia civile e commerciale davanti ai giudici competenti per quest’ultima ai sensi del reg. 1215/2012 tout court, senza quindi una limitazione al foro generale che, soprattutto nel caso di unico convenuto, non sembra tutelare alcun effettivo interesse delle parti (né del curatore, che vedrebbe a sua scelta incardinate presso un unico giudice le due controversie connesse, né del convenuto che verrebbe comunque citato innanzi ai giudici competenti in dipendenza delle norme applicabili e non verrebbe, quindi, in alcun modo distolto dal foro individuato in forza di queste). 17 Nella sentenza Deko Marty la questione della natura esclusiva o meno della regola di giurisdizione, ivi individuata, fondata sulla via attractitva concursus non fu espressamente affrontata, anche se (come notato in dottrina, v. Corsini, op. ult. cit., 47) alcuni passaggi di quella pronuncia potevano essere letti nel senso di una ritenuta natura esclusiva di detto criterio di giurisdizione. E ciò, peraltro, a dispetto di quanto in quell’occasione rilevò, nelle proprie conclusioni, l’Avvocato generale Damaso Ruiz-Jarabo Colomer per il quale, infatti, il criterio di giurisdizione fondato sull’applicazione della vis attractiva concorsus doveva ritenersi “relativamente esclusivo” consentendosi, così, al curatore di poter adire, a sua scelta, il foro del domicilio del convenuto. Il carattere esclusivo della competenza giurisdizionale per le azioni derivanti dalla procedura di insolvenza poteva farsi discendere, abbastanza agevolmente, dalla considerazione per cui tale competenza derivava da quella assegnata ai giudici del luogo in cui era stata aperta la procedura di insolvenza, così che il regime della competenza giurisdizionale valevole per il caso in cui tale criterio serviva per fondare il potere dei giudici di dichiarare aperta una procedura di insolvenza principale doveva considerarsi applicabile anche al caso in cui il (medesimo) criterio serviva (pur indirettamente) a radicare la giurisdizione sulle azioni ancillari. 18 La questione relativa al carattere esclusivo della competenza giurisdizionale per le azioni derivanti dalle procedura di insolvenza fondata sul principio della vis attractiva concursus era stata già portata all’attenzione della Corte di Giustizia nel caso F-Tex risolto con sentenza del 19 aprile 2012 (causa C-231/10) ove, però, tale questione non fu affrontata ex professo e fu, anzi, ritenuta giustamente assorbita dalla conclusione raggiunta sulla prima questione pregiudiziale che in quell’occasione fu rimessa alla Corte, ossia se un’azione revocatoria fallimentare instaurata da un cessionario di tale azione e non, invece, dal curatore (che tale azione ha legittimamente ceduto nell’ambito della procedura di insolvenza) ricadesse nell’ambito di applicazione del Reg. 44/2001, ovvero del reg. 1346/2000. Avendo la Corte ritenuto in quell’occasione che all’azione revocatoria fallimentare proposta da un terzo che se ne sia reso legittimo cessionario non è applicabile il reg. 1346/2000, bensì il reg. 44/2001, non vi era motivo di rispondere al quesito relativo alla natura esclusiva o meno della competenza giurisdizionale ex art. 3, comma 1, reg. 1346/2000 per le azioni che derivano da una procedura di insolvenza.
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mediato successore, ossia il reg. 848/2015) devono essere interpretati in modo da evitare qualsiasi sovrapposizione tra le norme giuridiche ivi contenute, nonché qualsiasi vuoto normativo, allorché un’azione sia esclusa dall’ambito di applicazione del reg. 1215/2012 ai sensi dell’art. 2, lett. b), questa deve ricadere necessariamente nell’ambito di applicazione del regolamento sulle procedure di insolvenza. Poiché, però, il reg. 1346/2000, così come il reg. 848/2015 attualmente in vigore non contengono nessuna norma generale che assegni tout court la competenza giurisdizionale a conoscere delle azioni revocatorie fallimentari anche ai giudici dello Stato membro in cui è domiciliato il convenuto19 e poiché, d’altro canto, tale competenza neppure potrebbe predicarsi in dipendenza dell’applicazione dell’art. 4 del reg. 1215/2012 attesa l’inapplicabilità di tale regolamento alle azioni che derivano direttamente da una procedura di insolvenza, non rimane che affermare il principio del carattere esclusivo della competenza dei giudici dello Stato membro nel cui territorio sia stata aperta la procedura di insolvenza da cui deriva l’azione revocatoria fallimentare proposta. Questa competenza giurisdizionale per le azioni ancillari fondata sul principio della vis attractiva concursus è, insomma, l’unica competenza che può venire in rilievo allorché si abbia a che fare con un’azione che deriva direttamente da una procedura di insolvenza e/o che ad essa è strettamente connessa20.
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Secondo quanto previsto oggi dal secondo comma dell’art. 6 del reg. 848/2015, la possibilità che un’azione revocatoria fallimentare sia proposta innanzi ai giudici del domicilio del convenuto sussiste solo qualora l’azione “fallimentare” ricompresa nell’ambito di applicazione del reg. 848/2015 sia strettamente connessa con altra, contestualmente proposta, in materia civile e commerciale e quindi rientrante nell’ambito di applicazione del reg. 1215/2012. È, quindi, chiaro che nel rinnovato contesto del reg. 848/2015, oggi in vigore, a favore della natura esclusiva della competenza giurisdizionale per le azioni che derivano dalla procedura di insolvenza fondata sull’applicazione del principio della vis attraciva concursus vi sia anche un decisivo argomento testuale. Per Leandro, A First Critical Appraisal of the New European Insolvency Regulation, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2016, 230-231, la natura esclusiva della giurisdizione dei giudici dello stato di apertura sulle azioni ancillari dovrebbe affermarsi in ragione del fatto che nel considerando 35 si fa riferimento ai “convenuti in altri Stati membri” e non, invece, ai convenuti domiciliati in altri Stati membri; dal che dovrebbe appunto desumersi che la giurisdizione su tali azioni ancillari spetta esclusivamente ai giudici dello Stato membro di apertura indipendentemente dalla localizzazione del domicilio del convenuto. A tale proposito deve, peraltro, osservarsi che il considerando 35, nel far riferimento ad azioni ancillari proposte “contro convenuti in altri Stati membri”, parrebbe introdurre una limitazione soggettiva all’applicazione del principio della vis attractiva concursus che la Corte di Giustizia (in Schmid, 16 gennaio 2014, causa C-328/12) aveva ritenuto insussistente dichiarando, infatti, che il criterio di giurisdizione fondato sul principio di attrazione innanzi ai giudici dello Stato membro di apertura ai sensi dell’allora vigente art. 3 reg. 1346/2000 era destinato ad applicarsi anche nei confronti di un convenuto domiciliato in uno Stato terzo (per questa soluzione, già all’indomani della pronuncia Deko Marty, v., se vuoi, Farina, op. ult. cit., 676). Le conclusioni raggiunte in quella pronuncia resa dalla Corte di Giustizia nel vigore del reg. 1346/2000, sembrano, però, dover trovare conferma anche nel vigore del nuovo reg. 848/2015, nonostante la poco perspicua formulazione del considerando 35. Le norme contenute nel regolamento sulle procedure di insolvenza, infatti, devono essere applicate sol perché una procedura avente le caratteristiche di cui all’articolo 1 Reg. 848/2015 sia stata aperta da parte dei giudici dello Stato membro in cui è localizzato il centro degli interessi principali del debitore; di modo che, proposta un’azione per cui è oggettivamente invocabile il criterio di giurisdizione di cui all’art. 6 Reg. 848/2015, a nulla rileverà il fatto che il convenuto sia domiciliato in uno Stato terzo o in un altro Stato membro. 20 La Corte di Giustizia si è pronunciata più volte in ordine alla corretta individuazione delle “azioni che derivano direttamente dalla procedura e che vi si inseriscono strettamente”. Al di là della già richiamata sentenza Deko Marty (in cui veniva in rilievo un’azione revocatoria fallimentare, ossia proposta dal curatore di una procedura di insolvenza aperta in Germania sul fondamento di una norma applicabile, al fine di dichiarare inefficace un atto di disposizione del debitore, solo a seguito e per effetto dell’apertura della procedura stessa), in ordine di tempo sulla questione la Corte di Giustizia si è pronunciata: (i) nel caso SCT Industri (2 luglio 2009, causa C-111/08) in cui si è ritenuta direttamente derivante da una procedura di insolvenza e strettamente connessa ad essa un’azione con cui è stata fatta valere in uno Stato membro diverso da quello dove era stata aperta la procedura la nullità di un atto di liquidazione forzata posto in essere
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dal curatore in pretesa assenza di poteri (così negandosi la possibilità che la decisione relativa a tale azione potesse essere riconosciuta nello stato di apertura secondo le pertinenti disposizioni del reg. 44/2001, al tempo applicabile), e ciò in quanto la dedotta nullità dell’atto di liquidazione derivava dal non corretto esercizio di poteri attribuiti al curatore da disposizioni applicabili solo a seguito dell’apertura di una procedura di insolvenza con conseguente esistenza di un nesso diretto ed indissolubile della azione con quest’ultima; (ii) nel caso German Graphics (10 settembre 2009, causa C-292/08) in cui si è esclusa dall’ambito di applicazione del regolamento 1346/2000 un’azione proposta dal venditore con riserva di proprietà di un bene detenuto da un compratore fallito per ottenere la restituzione del bene “trattandosi di azione autonoma, che non trova fondamento nel diritto delle procedure di insolvenza e non richiede né l’apertura di una procedura siffatta, né l’intervento di un curatore fallimentare” (punto 32 della motivazione) e non sussistendo, pertanto, un nesso “sufficientemente diretto, né sufficientemente stretto” con la procedura concorsuale nel frattempo aperta a carico del compratore; (iii) nel caso F-Tex (già citato supra alla nota 18) in cui è stata ritenuta rientrante nell’ambito di applicazione di applicazione del reg. 44/2001 (ratione temporis applicabile) l’azione revocatoria fallimentare proposta dal terzo cessionario di tale azione, in quanto, in tale caso, seppure il fondamento legale dell’azione era certamente da individuarsi nell’applicazione di norme speciali e derogatorie destinate ad applicarsi solo a seguito dell’apertura della procedura, è stata data prevalenza alla riscontrata assenza di un ineliminabile nesso di strumentalità strutturale e funzionale con l’ulteriore svolgersi di una procedura che potrebbe anche cessare senza determinare il venir meno di una azione i cui positivi esiti, peraltro, andrebbero a vantaggio esclusivo di tale terzo e non dell’intera massa dei creditori; (iv) nel caso Nickel & Goeldner (4 settembre 2014, causa C-157/13) nel quale è stata ritenuta soggetta all’applicazione del reg. 44/2001 e non del reg. 1346/2000 l’azione di adempimento contrattuale proposta dal curatore in virtù della legittimazione processuale sostitutiva del debitore a questi riconosciuta dalla legge dello Stato membro di apertura, e ciò in quanto azione che non deriva direttamente dalla procedura perché proponibile “dallo stesso debitore, prima che non fosse più legittimato a farlo in conseguenza dell’apertura di una procedura di insolvenza nei suoi confronti” di modo che “il fatto che, dopo l’apertura di una procedura di insolvenza nei confronti del prestatore di servizi, l’azione di pagamento sia esperita dal curatore […] e che quest’ultimo agisca nell’interesse dei creditori non modifica nella sostanza la natura del credito invocato, che continua ad essere soggetto, nel merito, a norme giuridiche invariate” (il considerando 35 del reg. 848/2015 espressamente esclude dal novero delle azioni direttamente derivanti dalla procedura quelle “per l’esecuzione degli obblighi derivanti da un contratto stipulato dal debitore prima dell’apertura della procedura”); (v) nel caso H. (4 dicembre 2017, causa C-295/13) in cui si è ritenuta direttamente derivante da una procedura di insolvenza l’azione proposta dal curatore di un fallimento tedesco nei confronti dell’amministratore della società fallita per la restituzione di somme corrispondenti a pagamenti da questi eseguiti dopo il verificarsi di una situazione di insolvenza in quanto, nonostante il fatto che secondo il diritto tedesco tale azione possa essere esperita anche a prescindere dell’apertura di una procedura di insolvenza, la stessa si fonda comunque sulla situazione oggettiva di insolvenza e deroga, dunque, alle ordinarie norme di diritto civile e commerciale; in ragione di ciò, quando una tale azione è proposta dal curatore nel contesto di una procedura di insolvenza non può negarsi lo stretto legale esistente con essa e, quindi, l’applicabilità del criterio di giurisdizione fondato sul principio della vis attractiva concursus; (vi) nel caso Tünker France (9 novembre 2017, causa C-641/16) in cui è stata esclusa la sussistenza della giurisdizione dei giudici dello Stato membro di apertura ai sensi dell’allora vigente articolo 3, paragrafo 1, Reg. 1346/2000 in relazione ad un’azione di accertamento di responsabilità per concorrenza sleale proposta contro un cessionario di un ramo di azienda appartenente alla società insolvente, e ciò sia perché tale azione non si fondava sull’applicazione di “norme derogatorie, specifiche delle procedure di insolvenza” bensì di “norme comuni del diritto civile e commerciale” (così facendo difetto il requisito fondato sulla esistenza di un nesso di derivazione diretta tra azione e procedura di insolvenza), sia perché il semplice fatto che il ramo di azienda cui si riferisce la contestata attività di concorrenza sleale sia stato acquisito nell’ambito di una procedura di insolvenza implica un collegamento tra azione e procedura né sufficientemente diretto, né sufficientemente stretto; (vii) nel caso Valach (20 dicembre 2017, causa C-649/16) in cui si è ritenuta soggetta alla norma di giurisdizione dettata dall’art. 3, paragrafo 1, reg. 1346/2000 l’azione di responsabilità proposta, tra gli altri, dai soci di una società ammessa ad una procedura di insolvenza contro i componenti del comitato dei creditori per aver questi illegittimamente esercitato il loro diritto di voto in occasione dell’approvazione di un piano di risanamento, sia perché azione direttamente derivante dalla procedura in quanto “gli obblighi sui quali è fondato l’esercizio di un’azione di responsabilità extracontrattuale contro un comitato dei creditori […] trovano la loro fonte nelle norme specifiche delle procedure di insolvenza”, sia perché un tale tipo di azione è fortemente connessa con la procedura in quanto impone di analizzare “la portata degli obblighi che incombono su tale comitato nell’ambito di una procedura di insolvenza e la compatibilità di tale rigetto con questi obblighi”; (viii) nel caso NK (6 febbraio 2019, causa C-535/17) si è ritenuta rientrare nella materia civile e commerciale l’azione avente ad oggetto una domanda di risarcimento del danno per responsabilità da fatto illecito, esercitata dal curatore nell’ambito di una procedura di insolvenza ed il cui ricavato va a beneficio, in caso di successo, della massa dei creditori, e ciò in quanto una azione come quella oggetto del procedimento principale può essere proposta dai creditori, individualmente, prima, durante e dopo lo svolgimento della procedura. Tale ultima pronuncia pare assai rilevante anche in ragione delle approfondite considerazioni svolte dall’Avvocato generale Bobek nelle sue conclusioni in cui, correttamente, si segnala che la giurisprudenza della Corte non è univoca nell’individuare il rapporto che corre tra il criterio della diretta derivazione dell’azione dalla procedura con quello della stretta connessione esistente tra azione e procedura: in alcune decisioni, come visto, il positivo e/o negativo riscontro dell’uno (che, il più delle volte, avviene in ragione della pur riscontrata applicazione al merito di norme derogatorie, specifiche della procedura di insolvenza, ovvero di norme ordinarie del diritto civile o commerciale) giustifica il mancato esame dell’altro, in altre al contrario la Corte provvede a formulare una sua conclusione sulla esistenza o inesistenza sia dell’uno che dell’altro. A parere dell’Avvocato generale Bobek il criterio determinante dovrebbe
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Tale conclusione in ordine alla natura unica o esclusiva della competenza dei giudici dello Stato membro in cui è stata dichiarata aperta la procedura di insolvenza a conoscere delle azioni che da essa derivano non è ostacolata, secondo quanto rilevato dalla Corte, né dal disposto dell’art. 25, comma 1, del reg. 1346/200021, né dalla norma contenuta nell’art. 18, comma 2, del reg. 1346/200022. Quanto alla prima disposizione – in virtù della quale le decisioni che derivano direttamente dalla procedura di insolvenza e le sono strettamente connesse sono automaticamente riconosciute ai sensi di quanto previsto dal primo comma dell’articolo 25 (oggi 32 reg. 845/2015) ed eseguite a norma degli articoli da 39 a 44 e da 47 a 57 del reg. 1215/201223 “anche se prese da altro giudice” – la Corte di Giustizia richiama quanto già dalla stessa rilevato nella pronuncia Deko Marty con riferimento al fatto che tale precisazione non giustificava la possibilità di attribuire la competenza per le azioni che derivano direttamente dalla procedura di insolvenza anche ai giudici di uno Stato membro diverso da quello in
essere quello fondato sulla base giuridica dell’azione: se si tratti, cioè, di un’azione basata su norme comuni o invece su norme specifiche in materia di insolvenza. Il positivo riscontro in ordine all’applicazione di norme specificamente dettate per ed in funzione di una procedura di insolvenza implica che l’azione debba dirsi direttamente derivante dalla procedura stessa, con le conseguenze applicative sopra evocate in punto di giurisdizione e riconoscimento delle relative decisioni. Per l’Avvocato generale Bobek, però, quand’anche dovesse concludersi nel senso dell’applicabilità al merito di norme ordinarie del diritto civile o commerciale, ciò non dovrebbe implicare l’esclusione tout court dell’azione dal novero di quelle per cui si applica il regolamento sulle procedure di insolvenza. In casi come questi, secondo quanto (a nostro parere, correttamente) sostenuto dall’Avvocato generale Bobek nelle sue conclusioni nella causa NK, occorrerebbe valutare se, alla luce del requisito della stretta connessione, un’azione di tale tipo (pur, cioè, non direttamente derivante dalla procedura perché chiama in vigore l’applicazione di ordinarie norme di diritto civile o commerciale) possa essere esercitata parallelamente a (o indipendentemente da) una procedura di insolvenza, perché se un’azione di tale genere può essere esercitata solo una volta aperta la procedura o, pur potendo essere esercitata anche prima, una volta dichiarata aperta la procedura l’azione non può che essere esercitata dal curatore (non in sostituzione del fallito ma) “in rappresentanza” della massa dei creditori, allora dovrebbe dirsi sussistente il requisito della stretta connessione in grado di sovvertire la conclusione che in ipotesi era stata raggiunta analizzando il requisito della diretta derivazione. In tale contesto, sempre a parere dell’Avvocato generale Bobek, sarebbe decisiva l’osservazione per cui se un’azione che non poteva essere esperita dal debitore ma solo dai creditori di esso anche prima e a prescindere dall’apertura della procedura (sempre evocando le norme ordinariamente applicabili alla responsabilità civile) potrà essere proposta, una volta aperta la procedura, solo dal curatore; in tal caso, la legittimazione esclusiva del curatore a far valere l’azione in nome e a favore dell’intera massa dei creditori dovrebbe far propendere per l’applicazione all’azione stessa del regolamento sulle procedure di insolvenza in ragione della indissolubile connessione con la procedura. Mentre nel caso in cui sussista una legittimazione concorrente nel senso che l’azione può essere esercitata, pur nel caso di attuale pendenza di una procedura di insolvenza, anche dai creditori, allora l’azione stessa non mostrerebbe più tale indissolubile connessione e, quindi, il negativo riscontro del requisito della diretta derivazione rimarrebbe confermato quanto alla esclusione della applicazione del regolamento sulle procedure di insolvenza. 21 Oggi trasfuso, senza sostanziali modificazioni, nell’art. 32 del reg. 848/2015 attualmente in vigore. 22 Oggi trasfuso, senza sostanziali modificazioni, nell’art. 21, comma 2, del reg. 848/2015 attualmente in vigore. 23 L’articolo 25, comma 1, del reg. 1346/2000 faceva riferimento, ovviamente, alle corrispondenti norme contenute nel reg. 44/2001. La sostanza, però, non cambia. Il principio che si desume dall’articolo 25, comma 2, reg. 1346/2000 e dalla omologa ed equivalente disposizione contenuta nell’art. 32, comma 2, reg. 848/2015 è che le decisioni su azioni che derivano direttamente dalla procedura di insolvenza e che le sono strettamene connesse sono riconosciute ed eseguite non secondo quanto previsto dal reg. 1215/2015 ma, diversamente, secondo quanto espressamente disposto – anche mediante rinvio selettivo alle norme di tale regolamento applicabile alla materia civile e commerciale – dal regolamento sulle procedure di insolvenza. Ciò significa, in concreto, che in caso di accoglimento da parte di un giudice italiano di una domanda di revoca di pagamenti che comporti condanna del convenuto alla restituzione del importo corrispondente al pagamento revocato, l’esecuzione di una tale decisione in altro Stato membro potrà avvenire senza necessità di ottenere una dichiarazione di esecutività (c.d. abolizione dell’exequatur, art. 39 Reg. 1215/2012) e l’unico motivo ostativo e/o di diniego dell’esecuzione sarà quello della violazione dell’ordine pubblico (sostanziale o processuale) come previsto dall’art. 33 Reg. 848/2015, non potendosi al contrario fare affidamento sul catalogo dei motivi ostativi al riconoscimento (e all’esecuzione) dettati dall’art. 45 Reg. 1215/2012 che, non a caso, non è richiamato dall’art. 32 Reg. 848/2015.
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cui è stata dichiarata aperta la procedura di insolvenza; tale disposizione, più limitatamente, serve solo a consentire che la competenza interna su tali azioni derivate possa essere esercitata – pur sempre nel territorio del medesimo Stato membro di apertura della procedura – da un organo giurisdizionale diverso da quello cui è attribuita la competenza ad aprire la procedura e prendere decisioni relative al suo svolgimento e alla sua chiusura24. Con riferimento alla seconda disposizione, la Corte di giustizia, forse sin troppo sbrigativamente, si limita ad osservare che il fatto che l’art. 18, comma 2, reg. 1346/2000 e, oggi, l’art. 21, comma 2, reg. 848/2015 ammetta il curatore di una procedura di insolvenza territoriale a far valere, in ogni altro Stato membro, in via giudiziale o stragiudiziale che un bene mobile è stato trasferito dal territorio dello Stato di apertura nel territorio di tale altro Stato membro dopo l’apertura della procedura di insolvenza territoriale, riconoscendogli altresì la possibilità di esercitare “ogni azione revocatoria che sia nell’interesse dei creditori”, non può rimettere in discussione la natura esclusiva della competenza dei giudici dello Stato membro di apertura a conoscere delle azioni che derivano direttamente dalla procedura perché l’art. 18, comma 2, reg. 1346/2000 e l’art. 21, comma 2, del reg. 848/2015 non riguardano il caso, che veniva in rilievo nel caso di specie, del curatore nominato nell’ambito di una procedura di insolvenza principale. A parere della Corte, insomma, la possibilità per il curatore di una procedura territoriale di agire in revocatoria innanzi ai giudici di uno Stato membro diverso da quello di apertura di tale medesima procedura di insolvenza territoriale si giustifica in ragione dei limitati poteri di cui gode tale curatore e dei limitati effetti territoriali prodotti dall’apertura di una procedura di insolvenza territoriale, di modo che tale da eccezionale
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Ai punti 25, 26 e 27 della motivazione della sentenza Deko Marty, in particolare la Corte di Giustizia aveva rilevato che “[…] l’interpretazione dell’art. 3, n. 1, del regolamento n. 1346/2000, come esposta al punto 21 della presente sentenza, è confortata da quanto disposto all’art. 25, n. 1, di tale regolamento. Infatti, il primo comma di quest’ultima disposizione istituisce l’obbligo di riconoscimento delle decisioni relative allo svolgimento e alla chiusura della procedura di insolvenza che siano state emesse da un giudice la cui decisione di avvio della procedura sia stata riconosciuta in conformità all’art. 16 del medesimo regolamento, cioè un giudice competente in forza dell’art. 3, n. 1, del medesimo regolamento. Orbene, in forza del secondo comma dell’art. 25, n. 1, del regolamento n. 1346/2000, il primo comma di tale n. 1 si applica anche alle decisioni che derivano direttamente dalla procedura di insolvenza e che vi si inseriscono strettamente. In altri termini, tale disposizione ammette la possibilità che i giudici dello Stato membro sul territorio del quale la procedura d’insolvenza è stata avviata, ai sensi dell’art. 3, n. 1, di detto regolamento, siano competenti a conoscere anche di un’azione del tipo di quella di cui trattasi nella causa principale. In tale contesto, i termini «anche se sono prese da altro giudice», che costituiscono l’ultima parte della frase di cui all’art. 25, n. 1, secondo comma, del medesimo regolamento, non implicano che il legislatore comunitario abbia voluto escludere la competenza dei giudici dello Stato sul territorio del quale la procedura di insolvenza è stata avviata per il tipo di azioni di cui trattasi. Detti termini significano, in particolare, che spetta agli Stati membri determinare il giudice competente sotto il profilo territoriale e materiale, il quale non deve essere necessariamente quello che ha avviato la procedura d’insolvenza. Inoltre, detti termini si riferiscono al riconoscimento delle decisioni di apertura della procedura d’insolvenza prevista all’art. 16 del regolamento n. 1346/2000”. Per la correttezza di tale rilievi v., se vuoi, quanto osservato in Farina, La vis attractiva concursus nel regolamento comunitario sulle procedura di insolvenza, cit., 673 ove avevamo avuto modo di rilevare, in sintesi, che anche in ragione della definizione di “giudice” somministrata dal reg. 1346/2000 allora in vigore se fosse mancata la specificazione “anche se prese da altro giudice” vi sarebbe potuto essere il rischio di accedere ad un’interpretazione in virtù della quale le decisioni direttamente derivanti dalla (e strettamente connesse alla) procedura di insolvenza prese da un “giudice” (i.e. da un organo giudiziario o altra autorità competente dello stesso Stato membro) diverso da quello che aveva pronunciato la decisione di apertura riconosciuta ai sensi dell’art. 16 del reg. 1346/2000 allora in vigore non avrebbero potuto godere dell’agevolato regime di riconoscimento ed esecuzione previsto dal regolamento stesso. Del resto è appena il caso di notare che se il legislatore comunitario avesse voluto, con la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 25, prendere atto della (im)possibilità di concentrare innanzi al foro fallimentare la giurisdizione per le azioni derivanti da (e strettamente ad) una procedura di insolvenza comunitaria, allora avrebbe potuto, molto più efficacemente, utilizzare in luogo della locuzione “altro giudice”, l’espressione «giudice di un altro Stato (membro)».
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disposizione non può trarsi un principio generale volto ad incrinare la conclusione cui deve giungersi con riferimento alla natura esclusiva della competenza giurisdizionale per le azioni ancillari fondata sulla via attractiva concursus25. In definitiva, le azioni revocatorie fallimentari esercitate dal curatore nell’ambito di una procedura di insolvenza aperta a carico di un debitore che abbia il proprio centro degli interessi principali in uno Stato membro devono essere proposte necessariamente dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui è stata aperta una procedura di insolvenza principale o territoriale, di modo che i giudici dello Stato membro di domicilio del convenuto che siano stati ciò nondimeno aditi (in assenza del requisito della stretta connessione con altra azione, contestualmene proposta, in materia civile e commerciale) dovranno senz’altro dichiararsi, anche d’ufficio, incompetenti26 con l’ulteriore conseguenza per cui, qualora ciò non facciano e decidano nel merito di tale azione, la loro decisione non potrà essere né riconosciuta, né eseguita in un altro Stato membro (compreso quello di apertura) atteso che l’articolo 25 del reg. 1346/2000 e, oggi, l’art. 35 del reg. 845/2015 prevedono che l’agevolato regime di riconoscimento ed esecutività spetta solo alle decisioni che siano prese dai giudici dello stato membro di apertura27.
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Quanto osservato nella sentenza dalla Corte di Giustizia a tale riguardo è, tuttavia, opinabile e, comunque, non facilmente comprensibile. La Corte, infatti, ricollega quanto previsto dal primo periodo dell’art. 18, comma 2, reg. 1346/2000 (oggi art. 21, comma 2, reg. 848/2015) anche al potere assegnato al curatore di una procedura territoriale di esercitare ogni azione revocatoria che sia nell’interesse dei creditori: dice espressamente la Corte, “poiché […] gli effetti di detta procedura [territoriale, ex art. 3, comma 2] sono limitati ai beni del debitore situati nel territorio dello Stato membro in cui è aperta la suddetta procedura di insolvenza […] il curatore deve pertanto disporre, in un caso del genere, della possibilità di proporre un’azione revocatoria connessa a tale procedura dinanzi ai giudici di uno Stato membro diverso da quello di apertura della procedura secondaria nel caso in cui le merci oggetto di tale procedura siano state trasferite, successivamente alla sua apertura, in un altro Stato membro”. In realtà, pare più congruo ritenere (alla luce del tenore letterale dell’articolo 21, secondo paragrafo; olim art. 18, secondo paragrafo, reg. 1346/2000) che non vi sia un collegamento inscindibile tra quanto previsto dal primo periodo del secondo paragrafo dell’articolo 18 e quanto previsto dal periodo immediatamente seguente in ordine al potere riconosciuto al curatore di una procedura di insolvenza territoriale di proporre qualsiasi azione revocatoria che sia nell’interesse dei creditori. Che vi sia, cioè, una chiara distinzione tra il potere del curatore della procedura territoriale di far valere diritti su beni che si trovano in uno Stato membro diverso da quello di apertura (per essere stati ivi trasferiti dopo l’apertura della procedura secondaria stessa) e quello di proporre “ogni azione revocatoria che sia nell’interesse dei creditori” è conclusione che emerge, crediamo abbastanza pianamente, dal fatto che l’articolo in questione disponga, per un verso, che il curatore possa “anche” esercitare tali azioni revocatoria (così attribuendosi un potere ulteriore rispetto a quello previsto dal primo periodo) e, dall’altro, che il riferimento è compiuto, come visto, ad “ogni azione revocatoria”. In tale contesto, allora, quanto previsto dal primo periodo del secondo paragrafo dell’articolo 21 del reg. 848/2015 (olim articolo 18, secondo paragrafo, reg. 1346/2000) non pare creare alcuna insuperabile contraddizione con la ritenuta esistenza, anche per le procedure territoriali (così come oggi, in effetti, emerge dal testo dell’art. 6 Reg. 848/2015 ove si fa riferimento, semplicemente, ai “giudici dello Stato membro nel cui territorio è aperta una procedura di insolvenza ai sensi dell’articolo 3”, senza alcuna limitazione quindi alle procedure di insolvenza cc.d. principali aperte, cioè, nello Stato membro in cui è situato il centro degli interessi principali del debitore) perché, in sintesi, da questa norma potrebbe, al più, ricavarsi l’esistenza di un foro alternativamente concorrente con quello del luogo di apertura della procedura secondaria, ossia il foro del luogo in cui è situato il bene illecitamente trasferito che non parrebbe idoneo (in ragione della sua specialità ed eccezionalità) a mettere in discussione la vigenza del principio generale della vis attractiva concursus. 26 Il rilievo della incompetenza dei giudici di uno Stato membro diverso da quello di apertura può ritenersi possa avvenire anche officiosamente perché, non potendo applicarsi il reg. 1215/2012, né le norme municipali che regolano il rilievo della questione della giurisdizione sul piano internazionale (perché ciò attenterebbe all’effetto utile del regolamento), è ragionevole fare applicazione di quanto oggi espressamente previsto dall’art. 4 del reg. 845/2015 che, appunto, prevede che il “il giudice investito di una procedura d’insolvenza verifica d’ufficio la propria competenza ai sensi dell’articolo 3”. 27 Né, d’altra parte, quella decisione assunta in materia di azione revocatoria fallimentare derivante da una procedura di insolvenza aperta in uno Stato membro dai giudici di uno Stato membro diverso potrà circolare nello spazio giudiziario europeo ai sensi delle
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disposizioni contenute nel reg. 1215/2012 attesa la inapplicabilità di tale regolamento a questo tipo di azioni e decisioni. Nei casi in cui un’azione direttamente derivante dalla procedura e/o ad essa strettamente connessa (secondo quanto ampiamente detto nella precedente nota 20) sia decisa da un giudice di uno Stato membro diverso da quello di apertura – e, pertanto, in violazione del criterio di giurisdizione esclusiva di cui all’articolo 6 Reg. 848/2015 – il riconoscimento e l’esecuzione della relativa decisione conclusiva potranno, pertanto, essere accordati in virtù delle norme municipali dettate da ciascun singolo Stato membro. In Italia, pertanto, potrà ammettersi ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 64 e 67 L. 218/1995 il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione (per esempio) emessa dal giudice francese su di un’azione revocatoria fallimentare proposta in funzione di una procedura concorsuale aperta in Germania (così anche Corsini, Profili transnazionali dell’azione revocatoria fallimentare, cit., 50). Una situazione particolare, tuttavia, potrà verificarsi allorché la competenza dei giudici dello Stato membro che hanno emesso la decisione sia stata da questi espressamente fondata sulla riconosciuta applicabilità delle regole di giurisdizione dettate dal Reg. 1215/2012 in materia civile e commerciale, ovvero di quella di cui all’art. 6 Reg. 848/2015. Si immagini, il caso in cui il giudice italiano conosca di un’azione da questi ritenuta direttamente derivante dalla procedura concorsuale ivi aperta (e/o direttamente connessa ad essa) e, pertanto, attratta alla sua giurisdizione solo in dipendenza dell’applicazione dell’art. 6 Reg. 848/2015; un caso in cui, cioè, applicando i criteri di giurisdizione di cui al reg. 1215/2012 la controversia non avrebbe potuto in nessun caso essere conosciuta dal giudice italiano. Si immagini, allora, che di tale decisione il curatore voglia ottenere l’esecuzione in un altro Stato membro; in un caso del genere il problema che può porsi è se quanto accertato dal giudice dello Stato membro di apertura quanto all’applicazione del criterio di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 6 Reg. 848/2015 (per aver ritenuto l’azione proposta direttamente derivante dalla procedura e/o ad essa strettamente connessa) vincoli o meno i giudici dell’altro Stato membro o se, al contrario, questi ultimi possano – fermi gli accertamenti di fatto che hanno consentito ai giudici dello Stato membro a quo di considerare la causa soggetta alle norme del reg. 848/2015 – rivedere tale conclusione al fine di negare il riconoscimento o l’esecuzione in dipendenza della riscontrata sussistenza di uno dei motivi ostativi di cui all’art. 43 Reg. 848/2015. Ovviamente un tale quesito ha pratica ragione di porsi nel caso in cui si ritenga che la violazione dell’ordine pubblico (sostanziale e processuale, è da credere) di cui vi è menzione nell’art. 33 Reg. 848/2015 quale unico motivo ostativo al riconoscimento (e all’esecuzione) non possa ricomprendere tutti i motivi di cui all’art. 43 Reg. 848/2015 (ci si potrebbe chiedere, ad es., se costituisca o meno violazione dell’ordine pubblico processuale il fatto che nello Stato membro di esecuzione sia stata pronunciata una decisione incompatibile con quella riconoscenda e destinata alla circolazione in virtù dell’art. 32 Reg. 848/2015) o, comunque, nei casi in cui la riscontrata sussistenza della giurisdizione “fallimentare” ex art. 6 Reg. 848/2015 abbia fatto seguito alla espressa esclusione dell’applicabilità, ad esempio, di un criterio di giurisdizione cui eccezionalmente il reg. 1215/2012 conferisce rilevanza al fine di negare il riconoscimento o l’esecuzione. Si faccia, ad es., il caso di una decisione pronunciata dai giudici dello Stato membro di apertura contro un lavoratore domiciliato in altro Stato membro sul presupposto dell’appartenenza della causa al novero di quelle direttamente derivanti dalla procedura: il quesito che in una tale situazione si pone è se il lavoratore possa, nello Stato membro di suo domicilio ove nel frattempo il curatore ha deciso di far valere la decisione assunta nello Stato membro di apertura, chiedere che la decisione non venga riconosciuta e/o eseguita ai sensi di quanto previsto dall’art. 45, lett. e, punto i), del reg. 1215/2012 (ossia per violazione della regola di giurisdizione esclusiva di cui alla sezione 5, capo II, di tale ultimo regolamento) rimettendo in discussione la conclusione attinta dal giudice a quo circa la riconducibilità dell’azione al novero di quelle direttamente derivanti dalla procedura, nonostante il fatto che, proseguendo nella esemplificazione, su tale circostanza si sia addirittura formato il giudicato esplicito nello Stato membro di origine (perché l’applicabilità del reg. 848/2015 in luogo del reg. 1215/2012 quanto alla questione di giurisdizione è stata decisa dai giudici dello Stato membro di origine e confermata nei successivi gradi di impugnazione). Alla soluzione positiva potrebbe opporsi il richiamo al principio generale, che è al fondo del complessivo sistema di (agevolato) riconoscimento delle decisioni comunitarie (sia in materia civile e commerciale, sia nell’ambito degli altri regolamenti comunitari in materia processuale), del c.d. divieto di riesame nel merito che escluderebbe, appunto, la possibilità per il giudice dello Stato membro di esecuzione di tornare su questioni già decise nel provvedimento dei giudici dello Stato membro di origine ed ivi oramai precluse. È anche però vero che il giudicato sulla giurisdizione (per usare una espressione semplificatrice) non preclude, nel sistema del Reg. 1215/2012, di far valere quale motivo ostativo al riconoscimento la violazione di una regola di competenza esclusiva fermo il vincolo all’accertamento “dei fatti sul quale l’autorità giurisdizionale d’origine ha fondato la propria competenza”, di modo che nel caso prospettato parrebbe incongruo negare al lavoratore di far valere tale motivo solo perché l’esclusione dell’applicabilità del foro esclusivo disegnato a suo favore è dipesa non dall’applicazione di altro criterio di cui al reg. 1215/2012, bensì in dipendenza della ritenuta applicabilità del criterio di giurisdizione (parimenti esclusiva) previsto per le azioni ancillari dal re. 848/2015. Identica questione, peraltro, potrebbe prospettarsi anche nel caso opposto, ossia allorché il giudice di uno Stato membro diverso da quello di apertura abbia deciso una controversia negandone la riconducibilità ad una di quelle direttamente derivanti dalla procedura di insolvenza e ritenendo ad essa applicabili, quindi, le regole di giurisdizione dettate in materia civile e commerciale dal reg. 1215/2012. In tale ipotesi, il quesito che ci si pone è se il giudice di un ulteriore Stato membro possa, beninteso su istanza del convenuto soccombente, negare il riconoscimento (e l’esecuzione) in ragione della ivi dedotta violazione della regola di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 6 reg. 848/2015, ancorché l’applicabilità di tale regola sia stata espressamente esclusa nel provvedimento reso nello Stato membro di origine, rimettendo in discussione l’accertamento compiuto dai giudici di quest’ultimo Stato membro in ordine alla riconducibilità dell’azione alla materia civile e commerciale anziché alla materia relativa alla procedura di insolvenza.
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Giurisprudenza Corte di cassazione, prima sezione civile; ord. 30 gennaio 2019, n. 2723; Pres. De Chiara; Rel. Nazzicone; P.M. Cardino; S.G., E.R., B.L. D.P. (avv. De Tilla) c. Soc. Coop. C. Rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa – Questione di competenza o di ripartizione interna degli affari dell’ufficio giudiziario – Rimessione alle Sezioni Unite. Va rimessa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione se il rapporto tra le sezioni ordinarie e la sezione specializzata per l’impresa del medesimo ufficio giudiziario si configuri come una questione di competenza in senso tecnico o, invece, di mera ripartizione interna degli affari.
(Omissis) Svolgimento del processo. Con atto di citazione notificato il 9 ottobre 2014, due soci della C.E.L.T. Cooperativa Edilizia Lavoratori Telefonici a r.l., prenotatari di alloggi dalla stessa realizzati, convennero in giudizio la società, per sentir determinare il costo degli alloggi medesimi, previo accertamento della erroneità dei criteri di riparto a tal fine adottati dalla cooperativa, con la condanna della stessa alla rettifica dei dati catastali ed al rimborso delle maggiori somme versate per l’assegnazione degli immobili, oneri condominiali, spese amministrative e fiscali ed imposte, nonché al risarcimento dei danni. Il Tribunale di Napoli dichiarò la propria incompetenza funzionale in favore del Tribunale di Napoli, sezione specializzata in materia d’impresa, che, a seguito della riassunzione del giudizio, ha sollevato conflitto negativo di competenza con ordinanza del 30 ottobre 2017, affermando che la controversia non è riconducibile al D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, art. 3, comma 2, lett. a), come sostituito dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 2, comma 1, lett. d), convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27. A fondamento della decisione, il Tribunale ha rilevato come, al di là della richiesta di deposito della documentazione sociale, avente una por-
tata meramente istruttoria, la domanda avrebbe un oggetto estraneo ai rapporti societari propriamente detti, non implicando l’impugnazione di una deliberazione dell’assemblea, nè la prospettazione della responsabilità degli amministratori e neppure la formulazione di questioni attinenti al contratto di società o ai rapporti mutualistici tra i soci, ma traendo origine dalla convenzione e dalla procedura di assegnazione degli alloggi ai prenotatari, i quali hanno agito in qualità non già di soci strictu sensu, ma di acquirenti, avendo contestato la correttezza del prezzo dovuto e le caratteristiche dei beni loro consegnati. La causa è stata dapprima inviata alla sezione 6-1, ove gli originari attori hanno depositato memoria, chiedendo la dichiarazione d’inammissibilità del regolamento d’ufficio, mentre la convenuta non ha svolto attività difensiva. Quindi, la causa è stata rimessa alla Prima Sezione civile, mediante l’ordinanza interlocutoria del 15 maggio 2018, n. 11884, ai fini della trattazione del ricorso in pubblica udienza. Motivi della decisione 1. La questione. 1. - La questione da affrontare è se l’ordinanza con cui il giudice assegnato ad una sezione ordinaria abbia declinato la propria potestà giurisdizionale in favore della Sezione specializzata dello stesso tribunale sia configurabile come una
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decisione sulla competenza, ai fini dell’ammissibilità del conflitto negativo di competenza, ai sensi dell’art. 45 c.p.c. Il regolamento pone, dunque, la questione pregiudiziale concernente la qualificazione della Sezione rimettente. 2. Le due tesi seguite dal giudice di legittimità ed i loro corollari. 1. - Le “sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale”, istituite ai sensi della L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 1 (e tuttora menzionate nella denominazione del D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168) hanno, com’è noto, lasciato il posto, in virtù del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 2, comma 1, lett. d), convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, alle attuali “sezioni specializzate in materia di impresa” (D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 1). L’ordinanza interlocutoria n. 11884 del 2018 della Sezione 6-1 ricorda come, circa l’ammissibilità del regolamento o del conflitto di competenza nell’ambito del riparto degli affari tra le sezioni specializzate in materia d’impresa e quelle ordinarie all’interno dello stesso Tribunale, dopo il triennio 2008-2010 - in cui prevalse l’idea della competenza in senso tecnico con riguardo alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale - la tesi negativa sia divenuta dal 2011 dominante presso la Corte di cassazione: la questione avrebbe, dunque, un rilievo esclusivamente tabellare, potendosi parlare di competenza in senso tecnico unicamente nell’ipotesi in cui la controversia sia da devolvere alla cognizione di un diverso ufficio giudiziario (cfr. Cass., sez. 6-3, 29 marzo 2018, n. 7882, non massimata; Cass., sez. 1, 24 novembre 2017, n. 28167; Cass., sez. 6-3, 23 ottobre 2017, n. 25059; Cass., sez. 6-1, 24 maggio 2017, n. 13138; Cass., sez. 6-2, 22 marzo 2017, n. 7227 e 22 marzo 2017, n. 7228; Cass., sez. 6-1, 7 marzo 2017, n. 5656; Cass., sez. 6-1, 27 ottobre 2016, n. 21774; Cass., sez. 1, 15 giugno 2015, n. 12326; Cass., sez. 1, 10
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giugno 2014, n. 13025; Cass., sez. 6-1, 23 maggio 2014 n. 11448; Cass., sez. 6-1, 20 settembre 2013, n. 21668; Cass., sez. 6-1, 22 novembre 2011, n. 24656, che operò il revirement rispetto all’orientamento accolto dalla corte di legittimità nel precedente triennio). Non si tratterebbe, dunque, di autonomi uffici giudiziari, potendosi utilizzare al più la nozione di “competenza in senso lato” od “interna” per indicare la concreta assegnazione della causa ad una determinata sezione nell’ipotesi di uffici giudiziari complessi suddivisi in varie sezioni tra cui si distribuiscono gli affari. L’orientamento minoritario si è tuttavia in seguito riproposto, avendo alcune pronunce continuato a configurare la questione in termini di competenza in senso tecnico (si vedano Cass., sez. 1, 2 febbraio 2018, n. 4706, in un obiter dictum; Cass., sez. 6-1, 27 ottobre 2016, n. 21775; Cass., sez. 6-L, 24 luglio 2015, n. 15619; Cass., sez. 6-1, 23 settembre 2013, n. 21762; sulla scia delle originarie Cass., sez. 1, 14 giugno 2010, n. 14251; Cass., sez. 1, 18 maggio 2010, n. 12153; Cass., sez. 1, 25 settembre 2009, n. 20690; Cass., sez. 1, 19 giugno 2008, n. 16744). Entrambe le posizioni qualificano, peraltro, come di competenza la questione, in taluni casi, affermando che, “se una controversia assegnata alle sezioni specializzate delle imprese sia promossa dinanzi a tribunali diversi da quelli in cui sono presenti dette sezioni, la pronunzia non può essere che di incompetenza perché si è adito l’ufficio giudiziario anche territorialmente sbagliato” (così, per tutte, Cass. sez. 6-3, 23 ottobre 2017, n. 25059; v. pure Cass., Sez. 1, 2 febbraio 2018, n. 4706; Cass., sez. 6-1, 20 marzo 2018, n. 6882, in motivazione; Cass. sez. 6-1, 27 ottobre 2016, n. 21774). La diversa qualificazione influenza la soluzione di plurime questioni (quali l’esistenza di un vizio dell’atto di citazione in caso di omessa intestazione alla sezione specializzata, il regime delle
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eccezioni ex art. 38 del codice di rito, la revocabilità della decisione di trasmissione della causa al Presidente ove sia di mera portata ordinatoria, la possibilità di sollevare il conflitto negativo ex art. 45, l’applicabilità della disciplina della riunione di cause identiche o connesse ex artt. 273-274 o dell’istituto della sospensione ex art. 295, ed altro ancora). 2. Gli argomenti a sostegno delle due tesi. 1. - Le considerazioni del primo orientamento, contrario a configurare una propria autonoma competenza delle sezioni specializzate in materia d’impresa con riguardo all’ufficio giudiziario cui appartengono, si sviluppano essenzialmente lungo le seguenti linee, esposte nelle summenzionate decisioni: a) argomenti di ordine letterale: a.1) se il legislatore, oltretutto in assoluta controtendenza, avesse voluto operare una scelta nel senso di creare uffici autonomi e distinti, avrebbe potuto usare la formula “tribunale per le imprese” (attualmente presente solo nel gergo giornalistico, e, solo in origine, nel D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 2 come risultante dopo la legge di conversione, ma che non trova riscontro nel D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, e per questo definita in dottrina una “ingannevole etichetta” o un’espressione “mendace”, utile a rafforzare negli investitori stranieri l’idea della c.d. competitività del Paese) e non quella di “sezione specializzata”, la quale rimanda, al contrario, all’idea di articolazioni facenti parte di un unico ufficio giudiziario; a.2) alla stregua del c.d. criterio esegetico del “legislatore consapevole”, invero, dal momento che analoga problematica si era già palesata nel vigore della originaria versione della disposizione, egli ben avrebbe potuto espressamente costruire la sezione come ufficio competente in senso proprio; a.3) il D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3 qualifica “competenza per materia” quella delle sezioni specializzate per l’impresa, ma ciò non diversa-
mente dall’art. 413 c.p.c., il quale attribuisce la “competeny” a decidere i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. al giudice del lavoro, e della L. Fall., art. 24, che prevede la “competenza” del tribunale fallimentare sulle controversie derivanti dal fallimento; a.4) lo stesso uso del concetto di “competenza”, nella rubrica e nel testo del D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3 come sostituito dal D.L. n. 1 del 2012, art. 2 conv. nella L. n. 27 del 2012, è alquanto “sovrastimato”: perché il riferimento alla competenza è operato appunto per individuare la “materia”, cioè la tipologia di controversie, da trattarsi dalla sezione, piuttosto che per evocare la relazione fra la sezione e il tribunale in cui essa è incardinata; a.5) a ben vedere, indizi letterali ben più pregnanti si ricavano dall’avere il legislatore fatto ricorso nel D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 2, comma 2, - laddove disciplina la composizione delle sezioni e l’attribuzione concreta della trattazione delle cause - al concetto di “assegnazione” degli affari, che, proprio al contrario, presuppone un potere esercitabile dal capo di uno stesso Ufficio, e dunque è incompatibile con la qualificazione come competenza e segnala l’inserimento organizzativo delle sezioni specializzate nell’articolazione del medesimo ufficio giudiziario, attribuendo la norma al titolari dell’Ufficio giudiziario in cui è istituita la sezione specializzata la facoltà di “assegnare” ad essa anche la trattazione di processi diversi, circostanza che esclude una autonomia organizzativa della sezione specializzata, ricompresa, al pari delle altre, nella disciplina tabellare della ripartizione e della assegnazione anche degli affari ex art. 7 - ter ord. giud.; a.6) ulteriormente, l’impiego atecnico del termine competenza da parte del legislatore risulta dal d.lgs. n. 168 del 2003, art. 5 la cui rubrica parla di “competenza del Presidente della sezione specializzata”: evocando questa volta il concetto, estraneo a quello di competenza in senso pro-
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prio, della c.d. competenza interna o distribuzione delle funzioni all’interno di uno stesso ufficio, ove il termine vale soltanto ad implicare che il presidente della sezione, se la causa è iscritta a ruolo con espressa indicazione ed evocazione della sezione specializzata, esercita direttamente le funzioni di cui all’art. 168-bis c.p.c., in vece del presidente del tribunale; del resto, è palese come sia stata così avvertita l’esigenza di una esplicita attribuzione di competenze direttive ai presidenti delle sezioni specializzate, con disposizione ad hoc altrimenti del tutto superflua; a.7) di ben altro tenore l’uso del termine “competenza territoriale” nel D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 4 novellato dal D.L. del 2012, ove è utilizzato in senso proprio, avendo il legislatore affermato la competenza della sezione anche riguardo al territorio di tribunali diversi da quello in cui essa è incardinata, così assumendo l’ufficio, in cui la sezione è incardinata, la posizione di destinatario di attribuzioni sottratte a distinti uffici per ragioni di territorio ed in quanto ricadenti nella materia di cui all’art. 3; a.8) più in generale, la terminologia giuridica, utilizzata nella rubrica e nel testo della singola disposizione di legge di cui all’art. 3, va esaminata alla stregua della complessiva ricostruzione della disciplina normativa del D.Lgs. n. 168 del 2003, onde individuare se il lessico usato sia effettivamente corrispondente alla sottesa categoria giuridica: laddove si evince, invece, un uso promiscuo delle nozioni di “competenza”, “assegnazione”, “trattazione”. Come appunto risulta dal ricordato art. 4, che attiene alla regola di riparto della competenza tra i diversi uffici giudiziari del medesimo distretto, eppure usa l’espressione “assegnazione alle sezioni specializzate”, che implicherebbe una distribuzione degli affari; così come l’espressione “competenze riservate” viene usata in senso atecnico nella rubrica e nel testo del menzionato art. 5, che concerne però l’attribuzione al presidente della sezione specializzata,
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in primo ed in secondo grado, della titolarità dei poteri già spettanti al presidente del tribunale od al presidente della corte d’appello ex art. 168bis c.p.p., comma 1, seconda parte; ed ancora, la norma transitoria di cui all’art. 6 prevede la “assegnazione alla trattazione” delle sezioni specializzate dei nuovi procedimenti iscritti a fare data dal 1 luglio 2003. Insomma, “la evidenziata modalità di impiego specifico del lessico giuridico nel testo normativo determina una netta svalutazione dell’argomento letterale posto a fondamento della individuazione della “competenza - in senso proprio - per materia” delle sezioni specializzate” (Cass., sez. 63, 29 marzo 2018, n. 7882, non massimata); b) argomenti storico-strutturali: b.1) con riguardo ad altre ripartizioni incardinate nello stesso tribunale, ossia organizzativamente e burocraticamente poste nell’ambito del medesimo ufficio, l’analogia va operata con riguardo ai rapporti tra sezione lavoro e sezione ordinaria e tra tribunale fallimentare e tribunale ordinario, da sempre ritenuti di mera organizzazione interna, al pari dell’assegnazione delle cause alla c.d. sezione societaria nel vigore del rito ordinario di cui al D.Lgs. n. 5 del 2003; b.2) non si può, invece, che operare una distinzione dalla sezione agraria, attesa la normativa diversa, anche storicamente, della stessa, connotatasi nel senso di suggerire che tale rapporto si iscriva nella nozione di competenza: infatti, la sezione agraria, pur istituita “presso” il tribunale o la corte d’appello, in ossequio al dettato dell’art. 102 Cost., comma 2, tuttavia si connota di tratti inequivoci nel senso della competenza in senso tecnico (il riferimento è all’uso, da parte del legislatore, del termine competenza per individuare la potestà giurisdizionale delle sezioni, all’espresso riferimento della competenza propria della sezione, all’essere la composizione della sezione scaturente dall’apporto di magistrati ordinari togati in servizio presso il tribunale e di ma-
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gistrati onorari, i c.d. esperti, altrimenti estranei al normale apparato organizzativo del tribunale) (es. Cass., sez. 6-3, 7 ottobre 2004, n. 19984); discorso analogo deve farsi per i tribunali regionali delle acque pubbliche, in relazione ai quali viene in rilievo la nozione di competenza rispetto al tribunale in cui sono incardinati (ex multis, Cass., sez. 6-3, 23 febbraio 2017, n. 4699), per il tribunale dei minorenni e le corrispondenti sezioni di corte di appello, per il tribunale di sorveglianza e per il giudice del registro delle imprese istituito presso i tribunali ove ha sede la camera di commercio (art. 2188 c.c. e L. 29 dicembre 1993, n. 580, art. 8); b.3) né assume rilievo decisivo la composizione collegiale, come emerge dagli artt. 50-bis e 50-ter c.p.c., il primo dei quali prevede analoga composizione collegiale in alcuni procedimenti ordinari, come per le sezioni che seguono il c.d. processo del lavoro; b.4) neppure assume rilievo decisivo la richiesta specializzazione dei componenti, trattandosi di requisito professionale previsto naturaliter per l’assegnazione del singolo magistrato alle diverse sezioni in cui è articolato un ufficio giudiziario organizzato secondo criteri di elevata specializzazione per materia: invero, la c.d. competenza specialistica per le materie trattate è tutt’altro, posto che la specializzazione per materie non è un indice sintomatico di diversità tra giudici e uffici, ma mero valore e strumento di più adeguata organizzazione per migliorare i tempi e la qualità della risposta giudiziaria, ferma restando l’identità di ufficio; onde resta al riguardo privo di rilievo che le sezioni specializzate per le imprese siano composte da “magistrati dotati di specifiche competenze” D.Lgs. n. 168 del 2003, ex art. 2, comma 1; b.5) sotto tale aspetto, si rimarca che l’assegnazione dei magistrati alle sezioni specializzate in materia di impresa avviene sulla base del pu-
ro principio tabellare, mancando l’intervento del C.S.M.; c) argomento logico-paradossale: c.1) potrebbe addirittura avvenire che il giudice debba spogliarsi di una causa con ordinanza di incompetenza, per vedersela poi ritornare come componente del collegio in materia di impresa, o viceversa; se, poi, due cause connesse fossero pendenti dinanzi al medesimo giudice, questi potrebbe dover dichiarare la litispendenza, qualificandosi per l’una giudice del tribunale e per l’altra giudice (componente del collegio) della sezione specializzata per le imprese: un vero e proprio “sdoppiamento” paradossale (Cass., sez. 6-3, 23 ottobre 2017, n. 25059); d) argomento teleologico sull’abuso del diritto: d.1) qualificato il rapporto tra sezione specializzata e sezione ordinaria in termini di competenza, il regolamento si presterebbe ad un uso strumentale, volto ad allungare i tempi di processi che il legislatore vuole invece particolarmente celeri; mentre la stessa istituzione del giudice unico, con accorpamenti delle preture nei tribunali, ha avuto il chiaro scopo di ridurre le questioni di competenza, eliminando i distinguo di competenza tra giudice del lavoro (ex pretore del lavoro) e giudice delle controversie ordinarie. In questo contesto di accorpamento e di riduzione dei conflitti di competenza, comprendente anche materie specialistiche e giudici altamente specializzati (quelli del lavoro), pare da escludere scelte in controtendenza solo per le sezioni specializzate per la proprietà industriale poi divenute sezioni specializzate per le imprese; e) argomento sistematico sulla tutela delle parti: e.1) il controllo sulla materia da assegnare alle sezioni è effettuato dal capo dell’ufficio, che è preposto per legge a tale compito, e ben possono le parti interloquire al riguardo, sollecitando dal giudice e dal presidente il rispetto dei criteri di
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assegnazione tabellare: la soluzione di chi debba trattare il fascicolo verrà trovata in via interna, attraverso i normali strumenti previsti nel caso di errata assegnazione tabellare di fascicoli, in quanto il giudice assegnatario rimette il fascicolo al presidente del tribunale, che lo ritrasmette al giudice a quo, se ritenga errato il rilievo tabellare di costui, oppure provvede all’eventuale riassegnazione alla sezione esatta; se il giudice ad quem nega la propria competenza interna, il conflitto sarà deciso dal presidente del tribunale; le parti ottengono quindi una decisione su chi sia il giudice della causa. Inoltre, nei gradi successivi ed in sede di impugnazione della sentenza, sarà possibile riproporre la questione al giudice superiore. La prospettata disparità di trattamento nel ricorso al mezzo impugnatorio, in definitiva, non ricorre, in quanto le individuate situazioni non appaiono omogenee e non sono pertanto comparabili, mentre ciascuna trova adeguati mezzi di tutela del diritto di difesa delle parti. 2. - Dal suo canto, l’orientamento opposto, che reputa la statuizione relativa alla devoluzione di una controversia ad una sezione specializzata in materia di impresa come di competenza in senso tecnico, ragiona come segue, nell’ambito delle motivazioni esposte dalle decisioni sopra ricordate: a) argomenti di ordine letterale: a1) il D.L. n. 1 del 2012, art. 1 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27 del 2012, nell’istituire la nuova figura delle sezioni specializzate in materia di impresa, ha utilizzato, benché solo nella rubrica, la dizione “Tribunale delle imprese” (dando atto, dunque, i fautori della tesi che solo li si rinvenga); a2) la formulazione letterale del D.Lgs. n. 168 del 2003, artt. 3 e 4 (come modificato dal D.L. n. 1 del 2012) depone per la qualificazione dell’ambito di cognizione delle sezioni specializzate per l’impresa come competenza in senso tecnico: ciò
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perché si utilizza esplicitamente il termine “competenza per materia”, mentre esso non ricorre quanto alla nozione di competenza utilizzata dall’art. 413 c.p.c. per le sezioni lavoro, ove la competenza è attribuita al tribunale (in funzione di giudice del lavoro) e non alla sezione; analoga considerazione vale per la sezione fallimentare L. Fall., ex artt. 9 e 24, avente ambito esclusivamente territoriale, rimanendo implicitamente esclusa una distinta competenza per materia all’interno del medesimo Ufficio tra sezione fallimentare e sezione ordinaria; del pari, così non era per il giudice delle controversie societarie, le cui attribuzioni, in precedenza, erano state delineate senza alcun richiamo ai profili di competenza; b) argomenti organizzativo-strutturali: b1) la peculiare distribuzione territoriale delle sezioni specializzate indica trattarsi di competenza: ed invero, il punto centrale della tesi viene appunto rinvenuto in ciò, che le sezioni specializzate non sono dislocate presso ogni tribunale e corte d’appello, ma solo presso alcuni di essi, sicchèé tali sezioni sono investite di una peculiare competenza per materia e per territorio, che si estende ad un bacino ben più ampio di quello del tribunale o della corte d’appello presso cui sono istituite: esse dispongono così di una propria autonoma competenza, quale misura della giurisdizione, diversa e più ampia di quella dell’ufficio giudiziario presso cui sono istituite, e sono cioè competenti, in parte, riguardo a controversie (quelle che, sulla base dei criteri di cui agli artt. 18-20 c.p.c., nonché delle altre disposizioni in tema di competenza eventualmente applicabili, si radicherebbero in altro circondario o distretto) per le quali il tribunale e la corte d’appello di appartenenza non lo sarebbero; b2) non rileva valorizzare, in contrario, il D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 2, comma 2, sulla possibilità di assegnazione anche di altri affari, che non può essere inteso nel senso che le sezioni specializzate siano “miste”, giacché la trattazione
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di processi diversi, alla luce del chiaro dato normativo, non è affidata alla sezione, ma ai magistrati che la compongono; b3) l’art. 102 Cost. prevede che le sezioni specializzate “possono” - non debbono - essere integrate con personale non togato, potendo quindi ricollegarsi il riparto di competenza per materia tra sezioni ordinarie e specializzate ad una diversificata composizione dell’organo giudicante, previsto D.Lgs. n. 168 del 2003, ex art. 2 come organo collegiale di tre magistrati dotati di specifiche competenze, non essendo determinante l’inclusione di componenti non togati (ipotesi che ricorre nel caso delle sezioni specializzate agrarie); b4) la ratio del provvedimento normativo istitutivo delle sezioni specializzate risiede nella “complessità delle controversie che possono insorgere in questa materia” e nella necessità di designare quali componenti “magistrati dotati di specifiche competenze in materia” (Relazione all’art. 2), motivazione analoga a quella posta a base dell’istituzione delle sezioni specializzate agrarie e che differisce, viceversa, da quella ispiratrice del giudice del lavoro e del (originario) giudice societario (Cass. 25 settembre 2009, n. 20690); c) argomento sistematico della “simmetria” del sistema: c1) si determinerebbe un’asimmetria del sistema tra l’ipotesi in cui la declinatoria di competenza venga pronunciata da un tribunale nel cui distretto non sia istituita alcuna sezione specializzata e quella in cui tale sezione vi sia dislocata, nel senso che solo nel primo caso la decisione sarebbe censurabile con il regolamento di competenza, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost.; d) argomento teleologico dello scongiurare l’abuso del diritto:
d1) al rischio che, qualificato il rapporto tra sezione specializzata e sezione ordinaria in termini di competenza, il regolamento possa prestarsi ad un uso strumentale, volto ad allungare i termini di processi che il legislatore vuole invece particolarmente celeri, si risponde che “l’eccezione di incompetenza non impedisce, per esigenze di effettività, il rilascio di una misura cautelare”, dal momento che la tutela cautelare è inutile se non viene data in limine, anche da un giudice incompetente, mentre poi “l’attuale assetto dell’eccezione di incompetenza, da adottarsi con ordinanza, unitamente alla previsione dell’art. 383-ter c.p.c., sembra idonea a garantire una sufficientemente rapida definizione della questione ed a paralizzare eventuali iniziative strumentali” (Cass., sez. 1, ord. 28 febbraio 2018, n. 4706); e) argomento sistematico sulla tutela delle parti: e1) si determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento delle parti, a seconda che la causa sia stata incardinata avanti una sezione ordinaria di tribunale presso cui è istituita anche la sezione specializzata in materia di imprese, oppure no, in quanto soltanto nel caso in cui si verificasse anche una modifica della competenza territoriale, la parte potrebbe avvalersi del mezzo impugnatorio ex art. 42 c.p.c. e del controllo della Corte di cassazione. 3. Rimessione alle Sezioni unite. Reputa il Collegio che il continuo riemergere di difformi opinioni al riguardo consigli la rimessione della causa al Primo Presidente della Corte di cassazione, perché valuti l’opportunità di rimessione alle Sezioni unite della decisione sulla questione. P.Q.M. La Corte rimette la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
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Giurisprudenza
La tormentata qualificazione del riparto delle funzioni tra sezioni specializzate in materia di impresa e sezioni ordinarie: (finalmente) la parola alle Sezioni Unite Sommario:
1. Il campo di indagine e l’ordinanza interlocutoria. 2. – Rationes dei diversi orientamenti. 3. – Implicazioni dell’accoglimento delle due teorie. Aspetti pratici e valori a confronto.
Con l’ordinanza interlocutoria in esame la Corte di Cassazione ha chiesto alle Sezioni Unite di fornire definitiva risposta alla questione se il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa sia configurabile in termini di competenza o ripartizione interna degli affari. In attesa della soluzione da parte delle Sezioni Unite, il presente contributo si concentra sugli effetti pratici a cui ciascuna soluzione conduce, esaminando, da un lato, l’intenzione del legislatore e, dall’altro, l’esigenza di rispettare i principi che attualmente governano il sistema processuale interno (ed europeo). By the here examined interlocutory judgement the Supreme Court asked the Grand Chamber to determine whether the relationship between Court ordinary Section and Court Section specialized in company matter is about jurisdiction or internal tasks organization. While waiting for the solution given by the Grand Chamber, the present paper focuses on the practical effects that each solution leads to, by investigating, on the one hand, legislator’s purpose and, on the other hand, the need to respect the current principles of the internal (and European) procedural system.
1. Il campo di indagine e l’ordinanza interlocutoria. Sulla natura delle sezioni specializzate in materia di impresa, introdotte nel d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 ad opera dell’art. 2, d.l. 24 gennaio 2012, n. 11, come convertito dalla
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Il cui comma 1 recita “1. Al decreto legislativo 26 giugno 2003, n. 168 sono apportate le seguenti modificazioni: a) agli articoli 1 e 2 le parole: «sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale» sono sostituite, ovunque compaiano, dalle seguenti: «sezioni specializzate in materia di impresa»; b) all’articolo 2, le parole: «in materia di proprietà industriale ed intellettuale» sono sostituite dalle seguenti: «in materia di impresa»; c) l’articolo 3 è sostituito dal seguente: «Art. 3 (Competenza per materia delle sezioni specializzate). 1. Le sezioni specializzate sono competenti in materia di: a) controversie di cui all’articolo 134 del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, e successive modificazioni; b) controversie in materia di diritto d’autore; c) azioni di classe di cui all’articolo 140-bis del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni. 2. Le sezioni specializzate sono altresì competenti, relativamente alle società di cui al Libro V, Titolo V, Capi V e VI del codice civile ovvero alle società da queste controllate
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l. 24 marzo 2012, n. 27, dottrina e giurisprudenza si interrogano da sempre, offrendo soluzioni altalenanti e opposte. Gli interrogativi si susseguono sin dall’introduzione, ad opera del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 1682, in attuazione della L. delega 12 dicembre 2002, n. 273, dei loro predecessori, le dodici sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale3 . Con la l. 21 febbraio 2014, n. 9 si è rinvigorito il dibattito in questione, in ragione dell’introduzione di una più ristretta competenza territoriale, espressamente inderogabile, con riferimento alle controversie in materia di impresa aventi tra le parti società con sede all’estero4. Il criterio di individuazione della competenza delle controversie di cui all’art. 3 d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 è così “doppiamente speciale”5, in quanto numericamente ridotto rispetto alle ipotesi di competenza “speciale” già previste per le sezioni specializzate in materia di impresa. Il dibattito ha poi trovato sul piano legislativo nuova linfa con l’introduzione di una ulteriore regola di “doppia specialità” della competenza ad opera dell’art. 18, comma 1, d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, il quale ha disposto l’introduzione del comma 1-ter all’art. 4 d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168. Tale norma, parallelamente a quanto previsto per le controversie aventi tra le parti società con sede all’estero, restringe, con riferimento alle controversie in materia di violazione di norme comunitarie antitrust e di abuso di posizione dominante6, il numero delle sezioni specializzate inderogabilmente competenti.
o che le controllano, per le cause a) tra soci delle società, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto di controversia; b) relative al trasferimento delle partecipazioni sociali o ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti; c) di impugnazione di deliberazioni e decisioni di organi sociali; d) tra soci e società; e) in materia di patti parasociali; f) contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari; g) aventi ad oggetto azioni di responsabilità promosse dai creditori delle società controllate contro le società che le controllano; h) relative a rapporti di cui all’articolo 2359, primo comma, n. 3, all’articolo 2497-septies e all’articolo 2545-septies codice civile; i) relative a contratti pubblici di appalto di lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria in cui sia parte una società di cui al Libro V, Titolo V, Capi V e VI del codice civile, quando sussiste la giurisdizione del giudice ordinario». 2 Sul punto, sia consentito rinviare alle riflessioni di Casaburi, Codice di proprietà industriale e Sezioni specializzate: una relazione virtuosa, in Dir. ind., 2008, 2, 124 ss. 3 Originariamente competenti “in materia di controversie aventi ad oggetto: marchi nazionali, internazionali e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità, disegni e modelli e diritto d’autore, nonché di fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la tutela della proprietà industriale ed intellettuale” (aventi sede a Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia), poi incrementate di ulteriori nove sedi (Trento, Perugia, Ancona, L’Aquila, Campobasso, Potenza, Catanzaro, Cagliari e Brescia) e, in ultimo, della sede di Bolzano per mano del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9. 4 Sul punto, sia consentito di nuovo rinviare alle riflessioni di Casaburi, Storia prima felice, poi dolentissima e funesta, delle sezioni specializzate, in Dir. ind., 2014, 2, 172 ss. 5 L’espressione è di Farina, Brevi note sul Tribunale delle società con sede all’estero (art. 10 D.l. 145/2013), in questa Rivista, 2014. 6 Il nuovo comma 1-ter dell’art. 4 testualmente recita “Per le controversie di cui all’articolo 3, comma 1, lettere c) e d), anche quando ricorrono i presupposti del comma 1-bis, che, secondo gli ordinari criteri di competenza territoriale e nel rispetto delle disposizioni normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari di seguito elencati, sono inderogabilmente competenti: a) la sezione specializzata in materia di impresa di Milano per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Brescia, Milano, Bologna, Genova, Torino, Trieste, Venezia, Trento e Bolzano (sezione distaccata); b) la sezione specializzata in materia di impresa di Roma per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Ancona, Firenze, L’Aquila, Perugia, Roma, Cagliari e Sassari (sezione distaccata); c) la sezione specializzata in materia di impresa di Napoli per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di corte d’appello di Campobasso, Napoli, Salerno, Bari, Lecce, Taranto (sezione distaccata), Potenza, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Messina, Palermo, Reggio Calabria”.
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Giurisprudenza
Sicché, il tenore letterale delle norme appena richiamate consente preliminarmente di notare che vi è discontinuità tra quanto disposto dall’art. 1, d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, ove non si fa menzione espressa della inderogabilità della competenza delle sezioni specializzate “semplici” e quanto disposto, per via delle intervenute modifiche sopra menzionate, all’art. 4, commi 1-bis e 1-ter, d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 con riferimento alla inderogabilità della competenza delle sezioni specializzate per la trattazione delle materie antitrust, di abuso di posizione dominante e operazioni di concentrazione e per le controversie di competenza delle sezioni specializzate in cui almeno una delle parti sia una società avente sede all’estero7. Da tale disallineamento discendono implicazioni processuali non irrilevanti in termini di rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza, possibilità di proporre regolamento di competenza d’ufficio, possibilità di aderire all’indicazione del giudice territorialmente competente in caso di eccezione di incompetenza formulata dalla controparte8. Eppure, il criterio della territorialità non è il solo a circoscrivere la potestà giurisdizionale attribuita alle sezioni specializzate. Difatti, ad accentuare la complessa ricostruzione della qualificazione delle sezioni specializzate, v’è che il criterio di attribuzione della competenza alle medesime appare essere ibrido o “misto”. Se l’art. 3 d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, come modificato dall’art. 2 d.l. n. 1 del 20129, convertito dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, rubricato “Competenza per materia”, individua le materie da attribuire alla competenza delle sezioni specializzate, il successivo art. 4, comma 1, rubricato “Competenza territoriale delle sezioni”, stabilisce al primo comma che “le controversie di cui all’art. 3 che, secondo gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale e nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nel territorio della regione sono assegnate alla sezione specializzata avente sede nel capoluogo di regione individuato ai sensi dell’articolo
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Sul punto, v. criticamente, Casaburi, La riforma del “tribunale delle imprese”, in Dir. ind., 2014, 2, 181. Baccaglini, Sezioni specializzate per l’impresa e competenza per materia, nota a Cass. 24 giugno 2015, n. 15619, in Riv. dir. proc., 2016, 3, 864. 9 Il cui comma 1 recita “1. Al decreto legislativo 26 giugno 2003, n. 168 sono apportate le seguenti modificazioni: a) agli articoli 1 e 2 le parole: «sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale» sono sostituite, ovunque compaiano, dalle seguenti: «sezioni specializzate in materia di impresa»; b) all’articolo 2, le parole: «in materia di proprietà industriale ed intellettuale» sono sostituite dalle seguenti: «in materia di impresa»; c) l’articolo 3 è sostituito dal seguente: «Art. 3 (Competenza per materia delle sezioni specializzate). 1. Le sezioni specializzate sono competenti in materia di: a) controversie di cui all’articolo 134 del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, e successive modificazioni; b) controversie in materia di diritto d’autore; c) azioni di classe di cui all’articolo 140-bis del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni. 2. Le sezioni specializzate sono altresì competenti, relativamente alle società di cui al Libro V, Titolo V, Capi V e VI del codice civile ovvero alle società da queste controllate o che le controllano, per le cause a) tra soci delle società, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto di controversia; b) relative al trasferimento delle partecipazioni sociali o ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti; c) di impugnazione di deliberazioni e decisioni di organi sociali; d) tra soci e società; e) in materia di patti parasociali; f) contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari; g) aventi ad oggetto azioni di responsabilità promosse dai creditori delle società controllate contro le società che le controllano; h) relative a rapporti di cui all’articolo 2359, primo comma, n. 3, all’articolo 2497-septies e all’articolo 2545-septies codice civile; i) relative a contratti pubblici di appalto di lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria in cui sia parte una società di cui al Libro V, Titolo V, Capi V e VI del codice civile, quando sussiste la giurisdizione del giudice ordinario». 8
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1. Alle sezioni specializzate istituite presso i tribunali e le corti d’appello non aventi sede nei capoluoghi di regione sono assegnate le controversie che dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nei rispettivi distretti di corte d’appello”. Dunque, la sezione specializzata in materia di impresa competente per territorio deve essere individuata secondo quanto disposto dall’art. 4 d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, in forza del quale le controversie che ratione materiae spettano alle sezioni specializzate e che spetterebbero, secondo gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale, agli uffici giudiziari compresi nel territorio della regione, devono essere assegnate alla sezione specializzata che ha sede nel capoluogo di regione; mentre alle sezioni specializzate istituite presso i tribunali e le Corti di appello che non hanno sede nei capoluoghi di regione sono assegnate le controversie che dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nei rispettivi distretti di Corte d’appello10. In buona sostanza, la competenza territoriale delle sezioni specializzate poggia su quella per materia, creando una interazione tra criteri di attribuzione della potestà giurisdizionale tale da mettere in dubbio che non ricorra alcuna questione di competenza in caso di spostamento da sezioni ordinarie a sezione specializzata all’interno del medesimo ufficio giudiziario o che le disposizioni sulla competenza per territorio derogabile possano trovare pacifica e agile applicazione nel caso di spostamento di una controversia in materia di impresa dall’ufficio giudiziario adìto territorialmente incompetente all’ufficio giudiziario competente, presso cui è incardinata la sezione della regione o distretto di riferimento. In questo terreno nasce e si sviluppa il dibattito sul quale si indaga nella presente sede. Il dubbio sulla natura delle sezioni specializzate in materia di impresa gravita attorno alla loro qualificazione quali autonomi e separati uffici giudiziari, dotati di propria competenza, ovvero quali articolazioni interne degli uffici giudiziari presso cui sono incardinate (Tribunali e Corti d’appello), suddivise sulla base delle ragioni di distribuzione degli affari giurisdizionali negli uffici giudiziari individuate dal CSM, a cui il d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, che ha introdotto l’art. 7-bis al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, ha attribuito “potere tabellare”11. Più precisamente, il dubbio attiene, con maggiore intensità, al rapporto tra sezioni ordinarie e specializzate del medesimo ufficio giudiziario, poiché, nelle ipotesi in cui il rapporto riguardi ufficio giudiziario non dotato di sezione specializzata e ufficio giudiziario dotato di sezione specializzata, è pacifico che la necessità di “spostare” la causa da un ufficio giudiziario all’altro implichi una questione di competenza (pur residuando l’interrogativo sulla natura di tale competenza, territoriale per i sostenitori dell’orientamento del riparto interno, ratione materiae o quantomeno ibrida per i sostenitori della teoria della competenza12).
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Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2014, 396. Verde, Il giudice fra specializzazione e “diritto tabellare”, in Riv. trim., 2013, 1, 135. 12 Al riguardo, l’orientamento in favore della competenza viene definito “formalista”, in contrapposizione all’orientamento “antiformalista” 11
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Giurisprudenza
Nella dottrina che si è interrogata ed espressa sul punto13 la riflessione si è così consolidata da tratteggiare un itinerario argomentativo consolidato, se non cementificato, caratterizzato da una certa metodicità nel ripercorrere le basi degli opposti orientamenti, non senza visibili indugi nel negare applicazione all’orientamento contrario a quello accolto, stante la ragionevolezza di alcuni principi posti a fondamento di entrambe le soluzioni. E ciò, vuoi per la nebulosità della tecnica legislativa adottata nella normativa di riferimento, che ha mancato di chiarire la natura giuridica delle sezioni specializzate, vuoi per ragioni di teorica processuale o di “fedeltà” letterale alle interpretazioni pacificamente fornite alle norme (anche costituzionali: i.e. art. 102 Cost.), vuoi per la molteplicità di principi che meritano di essere salvaguardati nel settore delle controversie in materia di impresa, questi ultimi espressamente menzionati dal legislatore. Risultato delle riflessioni svolte è stato un quadro frammentato in giurisprudenza e nettamente bipartito in dottrina. Le ragioni addotte a fondamento dell’una e l’altra soluzione sono dunque molteplici e articolate, talmente recepite nella riflessione giuridica da essere richiamate per singoli paragrafi dall’ordinanza interlocutoria che si annota, la quale, appunto, si caratterizza per la particolare struttura sistematica, che sembra svelare la consapevolezza del giudice di legittimità della sensazione di incertezza vissuta dagli operatori del diritto e della diffusa opinione di necessità di un intervento chiarificatore a riguardo14. L’ordinanza di rimessione origina dalla precedente ordinanza del 15 maggio 2018, n. 11884, con la quale era stata rimessa alla Prima Sezione, per la trattazione del ricorso in pubblica udienza, la questione relativa all’ammissibilità del regolamento di competenza d’ufficio proposto dal Tribunale di Napoli, sezione specializzata in materia d’impresa, a seguito della dichiarazione di incompetenza funzionale pronunciata dal medesimo Tribunale in composizione ordinaria. La Corte di Cassazione, riconoscendo che la diversa qualificazione attribuita alle sezioni specializzate sia idonea a influenzare la soluzione di plurime tematiche (“esistenza di un vizio dell’atto di citazione in caso di omessa intestazione alla sezione specializzata, il regime delle eccezioni ex art. 38 del codice di rito, la revocabilità della decisione di trasmissione della causa al presidente ove sia di mera portata ordinatoria, la possibilità di sollevare il conflitto negativo ex art. 45, l’applicabilità della disciplina della riunione di cause identiche o connesse ex artt. 273-274 o dell’istituto della sospensione ex art. 295, ed altro ancora”), rilevata la continua oscillazione tra le divergenti opinioni in giurisprudenza,
favorevole alla soluzione del riparto interno delle competenze: v. Prado, “Formalismi” e “antiformalismi” a confronto in tema di competenza delle sezioni specializzate, in Dir. Ind., 2018, 556, sub nota 8. 13 Senza pretesa di esaustività, tra i recenti contributi sull’argomento, v. Balena, L’istituzione del Tribunale delle imprese, in Il giusto processo civile, 2012, 339 ss.; Comoglio, Il giudice specializzato in materia di impresa, Torino, 2014, specialmente 97 ss; Ferretti e Zito, Ancora contrasti in giurisprudenza sulla ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate, in Dir. Ind., 2017, 5, 489 ss; nonché tutti i contributi richiamati nella seguente nota 14. 14 Prado, “Formalismi” e “antiformalismi”, cit., sub nota 559, che sembra prevedere gli esiti dell’ordinanza 15 maggio 2018, n. 11884.
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afferma l’opportunità di affidare la questione al Primo Presidente per la rimessione alle Sezioni Unite della decisione sulla questione. Scopo del presente lavoro è quello di indagare sui profili pratici ed applicativi che discendono dall’accoglimento dell’una o dell’altra soluzione e così verificare se, come adombrato dal passaggio dell’ordinanza appena riportato, tali implicazioni possano costituire allo stesso tempo conseguenza pratica e presupposto di partenza per preferire l’una o l’altra soluzione. Si può auspicare che il Supremo consesso, nel risolvere la questione, adotti, quale metodo di valutazione, il bilanciamento tra i diversi principi coinvolti - come sovente accade in ambito costituzionale - al fine di accogliere, tra le possibili soluzioni, quella più idonea a garantire la salvaguardia dei valori preminenti nel settore delle controversie in materia di impresa.
2. Rationes dei diversi orientamenti. Nell’epigrafe del d.l. 1/2012 si legge che scopo della normazione d’urgenza è quello di “favorire la crescita economica e la competitività del Paese, al fine di allinearla a quella dei maggiori partners europei ed internazionali”. Nella Relazione Illustrativa al d.l., al paragrafo relativo all’art. 2, vengono tratteggiati i valori cui la riforma tende per il raggiungimento di tale obiettivo ed in particolare “ampliare la competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale di cui al decreto legislativo 26 giugno 2003, n. 168, al fine di istituire delle vere e proprie sezioni specializzate in materia di impresa, a cui affidare la trattazione di quelle controversie in cui – tenuto conto dell’elevato tasso tecnico della materia – è maggiormente sentita l’esigenza della specializzazione del giudice” e “attraverso la concentrazione delle cause presso un numero ridotto di uffici giudiziari (…) ridurre i tempi di definizione delle controversie in cui è parte una società di medio/grandi dimensioni, aumentando in tal modo la competitività di tali imprese sul mercato”. L’ambiguità ontologica della natura delle sezioni specializzate, causata dalla scarsa chiarezza delle norme richiamate nel paragrafo che precede, mostra che la soluzione alla questione relativa al binomio ripartizione-competenza costituisce un punto nevralgico per rendere l’utopia legislativa un obiettivo raggiungibile. Come anticipato, l’ordinanza interlocutoria offre una ricostruzione dei due antitetici orientamenti assunti dalla giurisprudenza tramite una progressione argomentativa sistematica e autosufficiente. Vengono quindi ripercorse le ragioni poste alla base dell’orientamento contrario alla configurazione della autonoma competenza delle sezioni specializzate in materia d’impre-
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sa rispetto all’ufficio giudiziario presso cui sono incardinate15. In particolare, sono riportate le seguenti argomentazioni di ordine letterale:
• se il legislatore avesse voluto creare un ufficio giudiziario autonomo, avrebbe utilizzato la formula “Tribunale per le imprese” - invero presente solo nell’art. 2 D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 ma assente nel d.lgs. 168/2003 e per questo definita “ingannevole etichetta”16 utile a rafforzare negli investitori stranieri l’idea, auspicata dal legislatore, della competitività del Paese – e non l’espressione “sezione specializzata”, che invece rimanda alla struttura di articolazione interna di un ufficio giudiziario; tenuto conto che i medesimi dubbi sulla natura della sezione specializzata si erano posti con le previgenti sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale, il legislatore avrebbe potuto espressamente qualificare la sezione come ufficio giudiziario autonomo;
• l’espressione “competenza per materia” contenuta nella rubrica dell’art. 3 d.lgs. 168/2003 non si discosta da quelle contenute nell’art. 413 c.p.c. che attribuisce la competenza a decidere le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. al giudice del lavoro e nell’art. 24 l.fall., che prevede la competenza del tribunale fallimentare a conoscere delle controversie che derivano dal fallimento;
• l’utilizzo del termine “competenza” nel testo di legge appare essere stato sopravvalutato, in quanto il riferimento alla competenza è funzionale alla individuazione delle materie e delle categorie di controversie da devolvere alla sezione specializzata;
• sempre il tenore letterale della norma induce a ritenere che non di competenza in senso tecnico si tratti, laddove la norma utilizza l’espressione “assegnazione” degli affari, tipica dell’attività del titolare dell’ufficio giudiziario, per indicare l’atto di attribuzione della causa alla sezione specializzata, cui può essere altresì assegnata la trattazione di
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Stante il pacifico riconoscimento della qualificazione in termini di competenza del rapporto tra ufficio giudiziario adito privo di sezione specializzata e ufficio giudiziario dotato della relativa sezione specializzata anche da parte dell’orientamento favorevole alla soluzione del mero riparto. In giurisprudenza, l’indirizzo a favore della qualificazione in termini di riparto interno degli uffici giudiziari laddove nel medesimo ufficio giudiziario sia presente la sezione specializzata, dapprima minoritario, è da considerarsi oggi maggioritario: ex multis, Cass., 22 novembre 2011, n. 24656, in Foro it., 2012, I, 95 ss.; Cass., 20 settembre 2013, n. 21668, in De Jure; Cass., 23 maggio 2014, n. 11448, in Ced Cass., rv. 631473-01; Cass. 10 giugno 2014, n. 13025, in Foro it., 2014, I, 3514 ss.; Cass. 15 giugno 2015, n. 12326, in Dir. ind. 2015, 5, 502 ss., con nota di Prado, cit.; Cass., 27 ottobre 2016, n. 21774, in Ced Cass., rv. 642665-01; Cass., 7 marzo 2017, n. 5656, in Ced Cass., rv. 643990-01; Cass., 22 marzo 2017, nn. 7227 e 7228, in Foro It., 2017, I, 3130; Cass., 24 maggio 2017, n. 13138, in De Jure; Cass., 23 ottobre 2017, n. 25059, in Ced Cass., rv. 646632-01; Cass., 24 novembre 2017, n. 28167, in De Jure; Cass., 29 marzo 2018, n. 7882, in De Jure; in dottrina, accolgono la medesima conclusione Pilloni, Dalle “vecchie” sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale al “nuovo” tribunale delle imprese per la competitività del processo civile, in Studium Iuris, 2012, 1229 ss.; Vettori, op. cit., 80, il quale ritiene “ragionevole - e di buon senso - (...) ritenere che il rapporto fra Sezioni comuni e Sezioni specializzate esperte di un medesimo Ufficio non sia di competenza: ciò perché il concetto di competenza parrebbe riferirsi solo ai rapporti tra Uffici giudiziari diversi”. 16 Celentano, Le sezioni specializzate in materia d’impresa, in Società, 2012, p. 812 e Casaburi, “Liberalizzazioni” e sezioni specializzate, cit., 16.
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controversie ordinarie, così confermando la natura di articolazione interna dell’ufficio giudiziario;
• ancora, il carattere atecnico dell’utilizzo del termine “competenza” nel testo di legge è confermato dall’art. 5 d.lgs. 168/2003, rubricato “Competenza del Presidente della sezione specializzata”, laddove è fuori dubbio che si l’espressione evochi una forma di competenza interna ovvero di distribuzione delle funzioni all’interno dello stesso ufficio e miri ad attribuire una funzione direttiva al presidente di sezione (i.e. assegnazione al giudice istruttore) che, altrimenti, a norma dell’art. 168-bis c.p.c., spetterebbe al presidente del tribunale;
• la “competenza territoriale” di cui all’art. 4 d.lgs. 168/2003 è richiamata in senso proprio, atteso che il legislatore ha assegnato alla sezione la competenza anche riguardo al territorio di tribunali diversi ove le materie delle controversie rientrino nella previsione di cui all’art. 3 d.lgs. 168/2003;
• più in generale, l’impiego aspecifico del lessico giuridico nel testo normativo determina una netta svalutazione dell’argomento letterale posto a fondamento della individuazione della competenza per materia in senso proprio delle sezioni specializzate17. Sotto il profilo storico-strutturale, l’ordinanza evidenzia invece le seguenti ragioni:
• .burocraticamente e organizzativamente, le sezioni specializzate vanno analogicamente accostate, quanto al rapporto con le sezioni ordinarie, al pari della abrogata sezione societaria, alla sezione lavoro e alla sezione fallimentare, quali mere articolazioni interne degli uffici giudiziari;
• non v’è motivo di accostare, invece, le sezioni specializzate in materia d’impresa alle sezioni specializzate agrarie, stante la loro diversa origine storica e la presenza nelle seconde di tratti caratteristici, riconducibili all’art. 102 Costituzione e sintomatici della sussistenza di una competenza in senso stretto (utilizzo del termine competenza per individuare la potestà giurisdizionale, riferimento alla competenza propria della sezione e composizione mista dell’organo, costituito da magistrati togati ed esperti laici); analogamente deve sostenersi per i tribunali regionali delle acque pubbliche, i tribunali dei minorenni, i tribunali di sorveglianza;
• non assume alcun rilievo la composizione collegiale prevista dalla legge, riscontrabile anche per le altre categorie di controversie individuate dall’art. 50-bis c.p.c.; la specializzazione richiesta ai magistrati che compongono la sezione specializzata, lungi dal rappresentare un sintomo di diversità tra giudici e uffici, costituisce un mero strumento organizzativo per guidare ad una ripartizione più efficiente degli affari e promuovere
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Cass., 29 marzo 2018, n. 7882 in De Jure.
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la ragionevole durata dei procedimenti e la qualità delle risposte giudiziari; per il resto, non v’è nessuna disposizione normativa che regoli l’accesso dei magistrati a tale sezione, essendo tale accesso regolato dal medesimo principio tabellare applicato per la distribuzione e dislocazione dei magistrati nei vari uffici giudiziari; Sotto il profilo logico-paradossale, viene osservato che la conseguenza dell’accoglimento della tesi opposta potrebbe portare all’esito che il giudice debba spogliarsi di una causa con ordinanza di incompetenza, per poi tornare a trattarla come componente del collegio della sezione specializzata o, viceversa, che, in pendenza di due cause identiche dinanzi al medesimo giudice, questi si trovi a dichiarare la litispendenza, qualificandosi per una causa giudice del tribunale, per l’altra giudice della sezione specializzata (anziché procedere a norma dell’art. 273 c.p.c.18). Viene richiamato, come argomento teleologico afferente all’abuso del diritto, il rischio, segnalato prontamente dalla dottrina19, che, accogliendo della teoria della competenza ratione materiae, si finirebbe con l’incentivare l’utilizzo dello strumento del regolamento di competenza a fini dilatori, per ottenere la sospensione automatica del processo di merito (art. 48 c.p.c.). Infine, sotto il profilo sistematico della tutela delle parti, l’ordinanza riporta gli argomenti volti ad esaltare le possibilità per le parti di sollecitare presidente del tribunale e giudice in ordine alla assegnazione delle controversie nel rispetto del principio tabellare e di risolvere le questioni di competenza interna tramite il doppio scambio dialettico giudice a quo – presidente del tribunale e presidente del tribunale – giudice ad quem, ferma restando la facoltà della parte di riproporre la questione in sede di impugnazione20. Successivamente, il giudice di legittimità riporta le argomentazioni sostenute dall’orientamento favorevole alla configurazione della competenza per materia21. Sotto il profilo letterale viene evidenziato che:
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Cass., 23 ottobre 2017, n. 25059 in De Jure. Baccaglini, op. cit., 862 e 865, la quale osserva che “Da questo punto di vista (sia pur in una prospettiva de iure condendo) proprio questa conseguenza meriterebbe di essere ripensata, traendo spunto dalla modifica che, nel 1990, ha interessato l’art. 367 c.p.c. dove la sospensione del giudizio di primo grado, quando sia proposto regolamento di giurisdizione, è subordinata al vaglio della verisimile fondatezza ed ammissibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c.”. In dottrina l’auspicio era stato già formulato da Cipriani, Il regolamento facoltativo di competenza, in Riv. dir. proc., 1976, 552 ss.; Proto Pisani, Problemi e prospettive in tema (di regolamenti) di giurisdizione e di competenza, in Foro it. 1984, V, 89 ss.; nel senso che la valutazione in ordine all’opportunità di sospensione del giudizio fosse da assegnare alla Corte di Cassazione, Vocino, Ma la colpa è di Voltaire, in Riv. trim., 1976, 671. 20 Affermazione questa, che chi scrive ritiene non condivisibile, atteso che l’art. 83-ter c.p.c. (vd. supra), ritenuto applicabile nel caso di errata ripartizione interna degli affari in senso esteso, stabilisce che il decreto del presidente del tribunale sia non impugnabile e tenuto altresì conto che la differenza tra ripartizione e competenza si annida proprio nell’assenza di uno specifico diritto soggettivo processuale della parte alla corretta individuazione del giudice assegnatario della causa. 21 In giurisprudenza, a favore dell’autonomia delle sezioni specializzate quali organi giudiziari indipendenti, cfr. Cass. 25 settembre 2009, n. 20690, in Giur. It., 2010, 6, 1365 ss. e Dir. ind. 2010, 60 ss., con nota di Casaburi, Sezioni specializzate, sezioni ordinarie e devoluzione delle controversie industrialistiche; Cass., 14 giugno 2010, n. 14251, ivi, 2011, 230 ss., con nota di Ciccone, Sezioni specializzate e sezioni ordinarie: questione di competenza o ripartizione interna?; Cass., 23 settembre 2013, n. 21762, Ced Cass., rv. 627813-01; Cass. 24 luglio 2015, n. 15619, in Dir. ind., 2015, 5, 503 ss., con nota di Prado, Ancora su competenza/distribuzione interna. Due decisioni estive di segno opposto, e in Riv. Dir. Proc., 2016, con nota di Baccaglini, op. cit.; Cass. 27 ottobre 2016, n. 21775, 19
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• l’art. 2 d.l. 1/2012 è rubricato “Tribunale delle imprese”; • il dato testuale della norma istitutiva (rubriche degli artt. 3 e 4 d.lgs. 168/2003) è inequivoco nel qualificare il riparto in termini di competenza, individuando dapprima il criterio per materia e poi quello per territorio; del resto, anche da un punto di vista organizzativo, le sezioni specializzate sono investite di peculiare competenza territoriale “che non si limita a quella del tribunale nel quale sono incardinate ma che viene espressamente indicata dalla legge e che si identifica con quella di una o più corti di appello, escludendosi così una mera ripartizione interna ad uno specifico ufficio giudiziario”22; inoltre, l’espressione “competenza per materia” non ricorre con riferimento al giudice del lavoro e al giudice fallimentare agli artt. 413 c.p.c. e 9 e 24 l.fall.; Sempre da un punto di vista organizzativo e strutturale, l’ordinanza segnala i seguenti argomenti:
• non osta alla conclusione in termini di competenza la circostanza che agli stessi magistrati persone fisiche che compongono le sezioni specializzate siano assegnate anche controversie ordinarie, essendovi differenza tra l’entità sezione specializzata e l’entità giudice-persona fisica;
• il legislatore ha attribuito la denominazione di sezioni specializzate che si rinviene anche nell’art. 102 Costituzione (“sezioni specializzate per determinate materie”), il quale pacificamente attiene a questioni di competenza in senso tecnico e viene costantemente richiamato con riferimento alle sezioni agrarie, rispetto alle quali si concorda sulla qualificazione in termini di competenza. È vero che tra i due giudici specializzati sussiste un profilo di diversità quanto a composizione dell’organo giudicante, costituito da giudici togati e laici esperti nelle sezioni agrarie e da soli magistrati, ancorché specializzati (non di certo tramite una procedura selettiva specifica e ufficiale), nelle sezioni specializzate in materia di impresa; tuttavia, tale differenza non appare dirimente, atteso che l’art. 102 Costituzione prevede la presenza di giudici laici quale facoltà e non obbligo per l’istituzione di sezioni specializzate23;
in De Jure; Cass. 28 febbraio 2018, n. 4706, in Giur. It., 2018, 2672 ss., con nota di Ciccone, Sui rapporti tra sezioni specializzate e sezioni ordinarie del tribunale; tra le pronunce della giurisprudenza di merito, si segnalano Trib. Milano, 13 luglio 2006, in Dir. ind., 2006, 589 ss., con nota di Prado, Sezioni Specializzate e assegnazione della causa; Trib. Torino, 24 aprile 2008, in Foro it., 2009, I, 1285; Trib. Milano. 13 aprile 2010, in Dir. ind., 2011, 231; App. Napoli, 20 febbraio 2014, n. 763, in Società, 2015, 1, 63 ss., con nota di Vettori, Il tribunale delle imprese tra questioni di competenza e di “specializzazione”; Trib. Firenze, 16 luglio 2015, in Foro it., 2016, I, 721 ss.; in dottrina, accolgono la medesima conclusione Baccaglini, op. cit., 864 ss.; Consolo, op. cit., 394; Santagada, La competenza per connessione delle sezioni specializzate in materia di imprese, in Riv. dir. proc., 2014, 1361 ss.; Graziosi, Dall’arbitrato societario al tribunale delle imprese, in Riv. Trim., 2012, 103 ss; Balena, Il tribunale delle imprese, in Il giusto processo civile, 2012, 340 ss.; Ubertazzi, Ancora sulla competenza delle sezioni IP, in Dir. Ind., 2011, 422 ss.; Tavassi, Dalle sezioni specializzate della proprietà industriale e intellettuale alle sezioni specializzate dell’impresa, in Corr. Giur., 2012, 1115 ss. 22 Trib. Napoli, 31 maggio 2016, in Società, 2017, 1, 93 ss., con nota di Borriello e Guadagno, Rapporto tra sezione delle imprese e altre sezioni dello stesso ufficio giudiziario. 23 Graziosi, op. cit., 105-106.
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• il legislatore ha espresso la volontà di istituire un giudice ad hoc a cui devolvere le controversie di una certa difficoltà24, analogamente a quanto verificatosi con riferimento alle sezioni agrarie e a differenza di quanto invece caratterizza la ratio ispiratrice dell’istituzione del giudice del lavoro.
• Sotto il profilo sistematico della simmetria del sistema, l’ordinanza segnala l’argomento che sostiene che, se si accogliesse la teoria del riparto interno, si creerebbe una ingiusta asimmetria del sistema tra le ipotesi di attribuzione alla sezione specializzata o alla sezione ordinaria di uffici giudiziari diversi, rispetto ai quali continuerebbero a vigere le regole sulla competenza (quantomeno territoriale), rispetto alle ipotesi di attribuzione alle sezioni specializzata e ordinaria facenti parte del medesimo ufficio, ove alle parti sarebbe negato lo strumento dell’art. 42 c.p.c. (e al giudice quello di cui all’art. 45 c.p.c.), con violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Costituzione. All’argomento relativo al rischio di abuso del diritto tramite il ricorso al regolamento di competenza a meri fini dilatori, utilizzato a sostegno dell’orientamento contrario, si oppone quello che evidenzia la possibilità di ricorrere alla tutela cautelare, fermo restando che l’attuale assetto dell’eccezione di incompetenza e la previsione di cui all’art. 380-ter c.p.c. contribuiscono a garantire una rapida definizione della questione e a scoraggiare le iniziative strumentali25. Per completezza, si evidenzia che un ulteriore argomento adottato dai sostenitori dell’orientamento favorevole alla configurazione della competenza per materia, non richiamato dall’ordinanza in commento, è relativo alla natura della fonte istitutiva delle sezioni specializzate (legge o atti aventi forza di legge), diversa da quella delle fonti che hanno costituito le sezioni fallimentari o le sezioni lavoro, la cui qualificazione in termini di articolazione interna dei singoli uffici giudiziari risulta pressoché pacifica.
3. Implicazioni dell’accoglimento delle due teorie. Aspetti pratici e valori a confronto.
Giunti a tale punto della ricostruzione, si possono riunire e ordinare le osservazioni sparse in tema di risvolti pratici della questione rimessa alle Sezioni Unite. L’orientamento che sostiene si tratti sempre e indistintamente di competenza ibrida ovvero ratione materiae prima e territoriale poi, afferma per ciò solo che nelle controversie in materia di impresa (nel senso dell’art. 4 d.lgs. 168/2003) in capo alle parti si crei un vero e proprio diritto soggettivo processuale a che la decisione sia affidata a quei giudici
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Baccaglini, op. cit., 860. Cass., 28 febbraio 2018, n. 4706 in Foro It., 2018, I, 2770.
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individuati dal legislatore e non ad altri organi giudiziari26 e che l’erronea individuazione del giudice costituisca oggetto di eccezione in senso lato, dunque rilevabile anche ex officio ai sensi dell’art. 38 c.p.c. Corollario di tali conclusioni è che un’eventuale erronea decisione sulla questione della competenza potrebbe essere impugnata dalla parte con il regolamento di competenza, così come essere destinata a divenire, a seguito della riassunzione, oggetto di regolamento di competenza d’ufficio ex art. 45 c.p.c. Con tutti i rischi che ne derivano in termini di lungaggini processuali e irragionevole durata dei procedimenti, a detrimento della dogmatizzata portata del principio della ragionevole durata del processo, ancorata sui capisaldi costituiti dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e richiamata nella Relazione illustrativa del d.l. 1/2012 quale obiettivo perseguito con l’introduzione delle sezioni specializzate in materia di impresa. È evidentemente questa preoccupazione ad aver determinato la virata della giurisprudenza di legittimità dalla posizione favorevole alla questione di competenza in senso esteso, più oculata sul piano tecnico (perciò ricondotta al canone di giustizia formale), alla posizione favorevole alla questione ripartizione degli affari e dei carichi di lavoro all’interno del medesimo ufficio giudiziario, più imprecisa sul piano tecnico ma idonea a rispondere con maggiore fluidità alle questioni pratiche e all’esigenza di svolgere il processo entro un tempo ragionevole (perciò ricondotta al canone di giustizia sostanziale). Dall’accoglimento di tale ultimo orientamento, dunque, discende che la violazione della regola di attribuzione della causa potrebbe essere censurata nelle forme di cui all’art. 83-ter disp. att. c.p.c. ovvero, soltanto nel caso in cui vi fosse una contestuale violazione dell’art. 50-bis c.p.c., con l’impugnazione ordinaria in ragione di tale motivo di nullità del provvedimento emanato27. Nessun margine operativo verrebbe perciò riservato alla competenza per materia, quanto a declinazione delle sue possibili conseguenze nella dinamica processuale, venendo in rilievo unicamente questioni di competenza per territorio derogabile, ad eccezione delle ipotesi di cui all’art. 4, commi 1-bis e 1-ter, d.lgs. 168/2003. Sono questi risvolti pratici, invero, a suscitare nella Sezione rimettente l’urgenza e l’opportunità di risolvere la questione in via nomofilattica. Certo, se si accogliesse il secondo orientamento della competenza per territorio derogabile (applicata ai casi di divergenza tra ufficio giudiziario presso cui è stata instaurata la causa e ufficio giudiziario dotato di sezione specializzata del medesimo circondario o regione), si finirebbe per sottrarre ai giudici il potere di rilevare d’ufficio la propria incom-
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Baccaglini, op. cit., 864, la quale richiama Graziosi, Dall’arbitrato societario, cit., 105. Comoglio, op. cit., 134; Giussani, Questioni di competenza in senso stretto e in senso lato nella nuova disciplina delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale, in L’Enforcement dei diritti di proprietà intellettuale. Profili sostanziali e processuali, a cura di L. Nivarra, Quaderno di Aida n. 12, Milano, 2005, 20; Ferrari, Il sequestro dell’anima, In Quaderni di AIDA, 2016, 18.
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petenza, rimettendo alle sole parti la facoltà di eccepire l’incompetenza entro termini perentori28. Oltretutto, a governare la translatio iudicii, in caso di incompetenza territoriale, interverrebbe un rapporto tra uffici giudiziari nella loro interezza, cosicché non vi sarebbe alcun automatismo o certezza nel passaggio da sezione ordinaria del primo Tribunale adito a sezione specializzata del Tribunale territorialmente competente, con evidente rischio di erronee riassunzioni del giudizio o di erronee assegnazioni a sezioni interne. In tali casi, invero patologici e al confine con le ipotesi di scuola, verrebbe meno l’asimmetria di trattamento tra competenza e ripartizione che dottrina e giurisprudenza hanno invocato per caldeggiare l’accoglimento della teoria della competenza tecnica generale. Infatti, così come all’interno del medesimo ufficio giudiziario l’erronea instaurazione del giudizio dinanzi ad una sezione ordinaria in luogo della competente sezione specializzata costituisce una questione sottratta al potere processuale della parte di eccepire l’incompetenza ed impugnare la relativa statuizione erronea, così anche in caso di translatio iudicii tra ufficio giudiziario incompetente (poiché sprovvisto di sezione specializzata) e ufficio giudiziario competente (poiché incluso nel medesimo circondario e individuato dall’art. 4 d.lgs. 168/2003) si potrebbe teoricamente verificare il medesimo esito, stante la classificazione della competenza quale competenza territoriale derogabile (soggetta a termini per l’eccezione inevitabilmente preclusi al momento della translatio iudicii, sottratta alla rilevabilità d’ufficio e al regolamento di competenza d’ufficio). E ciò in quanto, stando a tale orientamento, una volta che la controversia sia stata riassunta presso l’ufficio giudiziario competente a norma dell’art. 4 d.lgs. 168/2003, la qualificazione della sezione specializzata cesserebbe di avere il carattere della competenza e “degraderebbe” a questione afferente alla ripartizione interna dell’ufficio giudiziario, non attinente ad alcun diritto soggettivo processuale delle parti su cui fondare l’impugnazione di un eventuale provvedimento finale. A meno che, come detto, non sia stata commessa contemporaneamente una violazione della norma relativa alla composizione dell’organo giudicante di cui all’art. 50-bis c.p.c., con conseguente nullità del procedimento censurabile, ai sensi dell’art. 50-quater c.p.c., con gli ordinari mezzi di impugnazione. Soluzione, questa, che appare più un “salvagente” di stampo pratico che un risultato tecnicamente corretto. Gli artt. 3 e 4 d.lgs. 168/2003, come già evidenziato, strutturano la competenza territoriale sul presupposto della competenza ratione materiae, plasmando un criterio di attribuzione a doppia fase ma sostanzialmente unico, di talché scomporlo atomisticamente negli elementi materia – territorio per separarne il meccanismo e i momenti di funzionamento potrebbe apparire operazione di tecnica processuale non perfettamente corretta. Né a chi scrive pare che tali osservazioni sul punto riducano la questione a meri “capricci formalistici”, atteso che l’asimmetria invocata a difesa della teoria della competenza tecnica è
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Baccaglini, op. cit., 864.
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solamente una delle conseguenze palesi che discendono dall’utilizzo di un criterio (della ripartizione) sbilanciato da un lato. In sostanza, la questione della competenza per materia non cessa di esistere solo perché è implicata anche una questione di competenza per territorio, vieppiù tenuto conto che la questione di competenza derogabile soffre un minus di operatività, non essendo esposta a rilievo d’ufficio e potendo essere sollevata con più strette facoltà e con gli adempimenti supplementari di cui all’art. 38, comma 1, c.p.c.29. Professare la resilienza del criterio di competenza per materia consentirebbe di conferire maggiore sicurezza alla corretta gestione delle controversie da parte delle sezioni individuate e così tendere all’obiettivo di garantire una risposta di giustizia di alta qualità (tramite la specializzazione dell’organo giudicante); d’altro verso, optare per la soluzione elastica del riparto interno consentirebbe di gestire con maggiore agilità e velocità le questioni, sia nella loro fase dinamica, che sotto il profilo della elusione del rischio di stasi dovuto alla sospensione automatica del processo in ipotesi di regolamento di competenza, tutelando, così, la garanzia della ragionevole durata del processo, che costituisce un argomento frequentemente adottato dalle Sezioni Unite per la soluzione delle questioni. Specializzazione dell’organo giudicante e ragionevole durata del processo sembrano così viaggiare su binari paralleli. In ultima analisi, sono molteplici e profondi i dubbi che il linguaggio enigmatico e lacunoso del legislatore ha suscitato negli operatori, sicché alla funzione nomofilattica che le Sezioni Unite sono chiamate a svolgere se ne accosterà una creatrice, auspicabilmente attenta a dosare i valori in gioco e ad attribuire preminenza a quello che più degli altri merita di essere salvaguardato in un’ottica sì di competitività del nostro Paese, ma anche di coerenza e logica del sistema e dell’ordinamento processuale. Alessia D’Addazio
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Prado, “Formalismi” e “antiformalismi”, cit., 559. Per una diversa visione, critica nei confronti della inderogabilità conferita alla competenza territoriale in materia antitrust e di controversie con società aventi sede all’estero e favorevole all’”operare dei criteri ordinari il che, in particolare, comporta la piena derogabilità del criterio di competenza per territorio”, v. Casaburi, La riforma del “tribunale delle imprese”, cit., 181.
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