Judicium 2/2019

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ISSN 2532-3083

Judicium n. 2/2019

il processo civile in Italia e in Europa

Rivista trimestrale

giugno 2019

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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini

In evidenza: Contro il giudicato implicito Francesco Paolo Luiso

Minime note sulle decisioni inespresse a carattere processuale, a margine di un interessante dibattito Giuseppina Fanelli

“Essere giusti” con Piero Calamandrei: noterelle a margine di un libro di Franco Cipriani Enzo Vullo

L’evoluzione del Collaborative law in Italia: la negoziazione assistita in materia familiare Olga Desiato

L’aggiornamento de la Cour de cassation française Loïc Cadiet

Il rito sommario di cognizione dieci anni dopo. Spunti di riflessione e prospettive future Ruggero Siciliano

ll Mugnaio di Roma, il giudicato implicito e il giudice di Karlsruhe Luigi De Propris



Indice

Saggi Francesco Paolo Luiso, Contro il giudicato implicito................................................................................» 181 Giuseppina Fanelli, Minime note sulle decisioni inespresse a carattere processuale, a margine di un interessante dibattito*................................................................................................................................» 189 Enzo Vullo, “Essere giusti” con Piero Calamandrei: noterelle a margine di un libro di Franco Cipriani......................................................................................................................................................» 203 Olga Desiato, L’evoluzione del Collaborative law in Italia: la negoziazione assistita in materia familiare....................................................................................................................................................» 217 Loïc Cadiet, L’aggiornamento de la Cour de cassation française............................................................» 253 Giurisprudenza commentata Tribunale di Termini Imerese, sezione civile, ord. 18 dicembre 2018, con nota di Ruggero Siciliano, Il rito sommario di cognizione dieci anni dopo. Spunti di riflessione e prospettive future*...» 273 Cass. civ. Sez. III, Sent., 5 ottobre 2018, n. 24534, con nota di Luigi De Propris, Il Mugnaio di Roma, il giudicato implicito e il giudice di Karlsruhe*............................................................................» 283

* Contributo sottoposto a procedura di revisione tra pari a doppio cieco


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Saggi



Francesco P. Luiso

Contro il giudicato implicito Sommario : 1. Il giudicato “implicito”. – 2. L’ambito della cognizione in sede di impugnazione. – 3. I limiti oggettivi di efficacia della decisione. – 4. La decisione “implicita” delle questioni di rito: inesistenza di un duplice oggetto del processo. – 5. Segue: portata potenzialmente illimitata del principio. – 6. Segue: impossibilità di ipotizzare una decisione “per saltum” del merito.

Lo scritto si occupa dell’istituto del c.d. «giudicato implicito», chiarendo anzitutto perché l’espressione è utilizzata in maniera impropria in relazione ad alcuni fenomeni in fase di impugnazione. L’Autore esamina poi le ipotesi di giudicato implicito sui presupposti processuali, individuando le principali argomentazioni per cui tale costruzione e la nozione del c.d. doppio oggetto del giudizio non possano essere condivise. The paper analyses on the so-called implicit res judicata, explaining the reasons why that notion does not properly fit some phenomenon in the appeal phases. The Author then analyses the implicit decisions on procedural pre-requisite, identifying the major arguments on the bases of which the implicit rei judicata and the so-called the doctrine of the duplicity of the proceedings’ objects cannot be maintainable.

1. Il giudicato “implicito”. Implicito dal vocabolario Treccani:” di giudizio o concetto o fatto che, senza essere formalmente ed espressamente enunciato, è tuttavia contenuto, sottinteso, in un altro giudizio o concetto o fatto”. Giudicato dall’art. 2909 c.c.: una regola di condotta concreta (sostanziale o processuale, a seconda dei casi) che si sostituisce ad una regola generale ed astratta. In questa accezione l’espressione “giudicato implicito” è un ossimoro: la regola di condotta concreta è solo quella che è espressa dalla sentenza (dal lodo, dal contratto). La regola di condotta o è espressa o non esiste: soprattutto tenendo conto del fatto che il giudicato obbliga a prendere in considerazione la decisione quale essa è, e non quale sarebbe dovuta essere.

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Francesco P. Luiso

2. L’ambito della cognizione in sede di impugnazione. Tuttavia l’espressione “giudicato implicito” è frequentissima in giurisprudenza, e da tempo immemorabile1: ma è utilizzata in maniera del tutto anòdina2. Iniziamo intanto ad escludere tutte le ipotesi in cui si parla di “giudicato implicito” a proposito dell’ambito della cognizione del giudice dell’impugnazione. Se una certa questione deve essere riproposta in appello ex art. 346 c.p.c. o fatta oggetto di appello incidentale, e non lo è, non ha senso parlare di giudicato implicito3. Perché il giudicato, se si rende necessario l’appello incidentale in quanto la questione o la domanda sono state decise, è esplicito; se, invece, esse sono state assorbite non c’è alcun giudicato ma – nel caso di questione – si verifica la preclusione al suo esame da parte del giudice di appello; e – nel caso di domanda – si verifica addirittura la sua riproponibilità in un nuovo processo. A maggior ragione, l’utilizzazione dell’espressione giudicato implicito in tema di rapporti fra sentenza di cassazione e giudizio di rinvio4 non ha senso, in quanto l’ambito della cognizione del giudice di rinvio è dato dalla sentenza della Cassazione, e quindi si tratta solo di individuare quali sono le questioni da trattare nella fase rescissoria.

3. I limiti oggettivi di efficacia della decisione. L’altro settore in cui l’espressione giudicato implicito è utilizzato dalla Cassazione riguarda l’ambito oggettivo della decisione, vuoi con riferimento all’identità di oggetto (preclusione del dedotto e del deducibile)5, vuoi con riferimento al c.d. antecedente logico necessario6. Nella prima ipotesi, si ha la pura e semplice applicazione del ne bis in idem: quando il giudice ha escluso la sussistenza di una servitù senza esaminare una potenziale fattispecie acquisitiva della stessa (ad es., la destinazione del padre di famiglia) non ha affatto “implicitamente” accertato l’insussistenza di una tale fattispecie. Tant’è che, una volta passata in giudicato la sentenza, non c’è alcuna differenza fra il caso in cui tale fattispecie acquisitiva fosse stata dedotta (e rigettata oppure per errore non esaminata) ed il caso in cui non fosse stata dedotta.

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Come osserva Allorio, Critica della teoria del giudicato implicito, in Riv. Dir. Proc. Civ. 1938, II, 246. Basti pensare che Cass. 1° ottobre 2004 n. 19652 parla di giudicato implicito anche a proposito di un’ordinanza ammissiva di una prova! Cass. 14 marzo 2013 n. 6550; Cass. 12 gennaio 2006 n. 443; Cass. 11 maggio 2005 n. 9878; Cass.10 agosto 2004 n. 15427. Cass. 22 agosto 2018 n. 20887; Cass. 20 maggio 2016 n. 10421; Cass. 16 ottobre 2015 n. 20981; Cass. 21 settembre 2015 n. 18600. Cass. 30 giugno 2009 n. 15343; Cass. 11 aprile 2008 n. 9544; Cass. 21 febbraio 2007 n. 4099. Cass. 1° dicembre 2015 n. 24442; Cass. 20 agosto 2009 n. 18540; Cass. Cass. 11 febbraio 2000 n. 1532.

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Contro il giudicato implicito

Nella seconda ipotesi, l’accertamento vincolante sull’esistenza, qualificazione e modo di essere del rapporto fondamentale dipende dal motivo portante della decisione7: il che è evidentissimo nelle ipotesi di rigetto (rectius, di dichiarazione dell’inesistenza dell’effetto giuridico), in quanto il giudicato si forma sul motivo del rigetto, ma può verificarsi anche nelle ipotesi di accoglimento (rectius, di dichiarazione dell’esistenza dell’effetto giuridico). Infatti, in virtù dell’applicazione del principio della ragione più liquida, se per accogliere la domanda non è necessario accertare la qualificazione del rapporto, la sentenza non farà stato su tale punto: ad es., chiesto il rilascio di un bene per finito comodato, ed eccepita dal convenuto la qualificazione del rapporto stesso come locazione, se il giudice dichiara che il rapporto deve considerarsi cessato anche se fosse qualificato come locazione, non vi sarà giudicato sulla qualificazione del rapporto stesso. Come si può facilmente constatare, in nessun caso può entrare in gioco un giudicato implicito: in queste fattispecie il giudicato è necessariamente esplicito. Infatti, delle due l’una: o la decisione (di accoglimento o di rigetto) si fonda sull’esistenza, qualificazione e modo di essere del rapporto fondamentale, e allora il giudicato è esplicito; oppure la decisione (di accoglimento o di rigetto) prescinde dall’esistenza, qualificazione e modo di essere del rapporto fondamentale, e allora non c’è alcun giudicato8.

4. La decisione “implicita” delle questioni di rito: inesistenza di un duplice oggetto del processo.

Arriviamo così al problema centrale: e, cioè, al giudicato implicito sulla questione pregiudiziale di rito allorché il giudice abbia deciso il merito senza, ovviamente, che tale questione sia stata esaminata. Naturalmente, occorre postulare che la questione di rito sia rilevabile di ufficio, altrimenti il problema non si pone perché delle due l’una: o la questione è stata sollevata, e quindi si avrà un giudicato esplicito se il giudice la decide, o una omissione di pronuncia se non la decide; oppure la questione non è stata sollevata, e quindi non potrà essere esaminata a causa della preclusione. Il punto di partenza è ovviamente la sciagurata sentenza delle sezioni unite sull’art. 37 c.p.c.9; sentenza sciagurata per tre ragioni: per l’impostazione dogmatica, perché introduce una nozione – quella del duplice oggetto del processo: di rito e di merito – che non ha fondamento; per la ratio decidendi, perché quella utilizzata – le decisione di merito comporta sempre il giudicato relativamente alla sussistenza dei c.d presupposti processuali – prova troppo ed è incoerentemente applicata dalla stessa Cassazione; per il dato testuale, perché contraddice palesemente quanto prescritto dall’art. 37 c.p.c.

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Cass. 30 marzo 2012 n. 5148; Cass. 16 maggio 2006 n. 11356; Cass. 7 novembre 2005 n. 21490; Cass. 11 settembre 2001 n. 11582. Da ultimo Cass. 3 aprile 2019 n. 9280. Cass. 9 ottobre 2008 n. 24883.

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Francesco P. Luiso

Iniziamo dalla prima: un duplice oggetto del processo non può esistere, per la ovvia ragione che le norme processuali (quelle che disciplinano il c.d. oggetto di rito) svolgono un ruolo del tutto diverso da quello che svolgono le norme sostanziali (quelle che disciplinano l’unico e vero oggetto del processo, quello di merito). Quest’ultime sono metro di giudizio per il decidente (sia esso giudice o arbitro), il quale quindi si viene a trovare, in questa sua attività, in una posizione specifica ed unica nell’ambito dell’ordinamento. Le prime sono regola di condotta per il decidente (sia esso giudice o arbitro), il quale quindi si viene a trovare, in questa sua attività, nella stessa posizione in cui si trova qualunque destinatario di una regola di condotta10. Pensare che il giudice o l’arbitro “decidano” della questione di rito allo stesso modo con il quale decidono la questione di merito è un assurdo: perché nel secondo caso stabiliscono, in posizione di indifferenza ed imparzialità, le regole di condotta che riguardano altri soggetti; nel primo caso ovviamente essi non possono stabilire quali sono le regole di condotta che riguardano il proprio comportamento: nessuno è giudice di se stesso! Ipotizzare, dunque, che la domanda giudiziale contenga una richiesta di rito (“dichiara che hai il potere di pronunciare nel merito”) che integra un primo oggetto del processo, ed una richiesta di merito (“dichiara che mi spetta questo diritto”), che integra l’altro oggetto del processo, ha tanto poco senso quanto ipotizzare che la domanda per ottenere la patente di guida contenga una doppia richiesta: “accerta che hai il potere di darmi la patente”; “dammi la patente”. E, del resto, se usciamo dal processo dichiarativo, a nessuno viene in mente di pensare che l’istanza di vendita nell’espropriazione forzata abbia un duplice contenuto: accerta che hai il potere di vendere il bene pignorato; disponi la vendita del bene pignorato. La verità è che “se ci fermiamo ora a considerare il rapporto che passa tra il giudice ed uno di questi concreti imperativi [contenuti nelle norme processuali], dinanzi ai quali egli si trova successivamente durante il procedimento, vediamo che la posizione del giudice di fronte alla legge non è qui diversa dalla posizione in cui può trovarsi di fronte alla legge qualsiasi funzionario di Stato investito di un pubblico ufficio che pur non abbia natura giudiziaria, o anche, per dirla più genericamente, qualunque privato cittadino che si trovi ad essere destinatario di una concreta volontà di legge sostanziale: qui si tratta per il giudice, come in altri casi si tratterebbe per il funzionario amministrativo o per il privato cittadino, di eseguire la legge, di agire secondo la legge11”. Dunque, non ha senso pensare che il processo di cognizione abbia un duplice oggetto: tant’è che la cognizione sull’invalidità della sentenza (e del lodo) costituisce necessaria-

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Calamandrei, Sulla distinzione tra «error in judicando» ed «error in procedendo», in Opere giuridiche, VIII, Napoli 1979, 293: “la deliberazione interiore che il giudice compie prima di eseguire qualunque azione non è che l’esercizio di quella facoltà di ragionamento, che guida in ogni contingenza la condotta degli esseri ragionevoli e che si chiama <<giudizio>> in senso volgare; ma non è già una manifestazione di quel giudicare in senso tecnico, che porta con sé la dichiarazione obbligatoria di una volontà concreta di legge”. 11 Calamandrei, La Cassazione civile, II, in Opere giuridiche, VII, Napoli 1976, 38.

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Contro il giudicato implicito

mente esercizio di pleine juridiction o, come dicono gli inglesi, di fresh factual and legal determination; mentre la cognizione sull’ingiustizia della sentenza ha (se ce l’ha) l’ambito che ciascun sistema attribuisce al singolo mezzo di impugnazione. Ciò dimostra che quella di merito è una vera e propria decisione, mentre quella di rito è solo una ricognizione del proprio corretto agire.

5. Segue: portata potenzialmente illimitata del principio. Seconda ragione: se fosse vero che la decisione di merito comporta sempre il giudicato (implicito: perché le questioni di rito non sono state rilevate e quindi non sono state trattate nel giudizio a quo) sulla sussistenza, appunto, delle condizioni per la decisione di merito, sicché il difetto di una di queste deve immancabilmente essere fatto vale con l’impugnazione principale o incidentale, allora tutte le questioni di rito, nessuna esclusa, dovrebbero essere assoggettate a questa disciplina, che verrebbe così ad unificare il giudicato implicito ed il giudicato esplicito. In altri termini: la insussistenza di un litisconsorzio necessario o la sussistenza della legittimazione ad agire verrebbero in egual misura accertate vuoi che il giudice abbia deciso la relativa questione vuoi che abbia deciso il merito senza affrontare tale questione. Di fronte, infatti, ad un principio logico: “se decidi il merito, vuol dire che hai implicitamente deciso in senso affermativo anche le questioni di rito”, non ci sono distinzioni che tengano fra questioni più o meno “fondanti” o “vitali”12. Se il principio vale, vale sempre e non a seconda della tipologia della questione di rito. Se due più due fa quattro, ciò vale sia per le mele che per le pere! Dunque, sulla base di tale principio tutte le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo diverrebbero in realtà questioni rilevabili di ufficio solo in primo grado; o, se nate in appello, solo in quel grado; con la conseguenza che la Corte di Cassazione non potrebbe rilevare di ufficio altro che le questioni di rito sorte dinanzi a lei. Oltretutto, affermare che debba essere oggetto di impugnazione la decisione implicita sulla questione di rito non ha senso, perché come si dovrebbe articolare la critica ad una non-decisione? Se la stessa Corte di Cassazione afferma che, in appello, debbono essere impugnate le questioni decise e riproposte ex art. 346 c.p.c. quelle non decise13, che contenuto si può dare alla pretesa impugnazione di una questione che non è stata trattata, se non quello di una mera proposizione di una questione di rito? Ma la ragione principale che contraddice il principio della decisione implicita delle questioni di rito è il seguente: se andiamo ad esaminare la giurisprudenza, vediamo che essa

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V. da ultimo Cass. s.u. 4 marzo 2016 n. 4248, con un’ampia illustrazione dell’argomento. Cass. 12 maggio 2017, n. 11799.

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Francesco P. Luiso

si guarda bene dall’applicare in tutta la sua estensione il principio affermato dalle sezioni unite 2008/24883. Già appena venti giorni dopo un’altra sentenza delle sezioni unite14 aveva fatto marcia indietro sulla portata della ratio decidendi utilizzata dalla sentenza 2008/24883, facendo riferimento al principio della ragionevole durata del processo anziché al giudicato implicito15. Principio passe-partout, con il quale si può giustificare a posteriori ogni opzione, anche la più arbitraria e stravagante. In seguito, poi, il criterio del giudicato implicito è stato disapplicato in tutta una serie di casi, fra i quali possiamo segnalare: - l’inammissibilità dell’appello16; - la decadenza del contribuente dal diritto di agire in giudizio17; - la legittimazione ad agire18. Si ammetterà che quantomeno le due prime questioni non sono affatto né fondanti né vitali.

6. Segue: impossibilità di ipotizzare una decisione “per

saltum” del merito.

Un’altra incongruenza logica delle sezioni unite del 2008 – ripetuta peraltro tralaticiamente anche da altre sentenze19 – riguarda le ipotesi in cui, a detta della Corte, il giudicato implicito non si produce, quando “la sentenza non contenga statuizioni che implicano

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Cass. 30 ottobre 2008 n. 26019. Questo il principio enunciato dalla sentenza: “Il potere di controllo delle nullità (non sanabili o non sanate), esercitabile in sede di legittimità, mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione, va ritenuto compatibile con il sistema delineato dall’art. 111 Cost., allorché si tratti di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio - in quanto tale ammissibilità consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il giudicato, attraverso la successiva proposizione dell’actio nullitatis o del rimedio impugnatorio straordinario ex art. 404 c.p.c. da parte del litisconsorte pretermesso – ovvero di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di potestas iudicandi – come il difetto di legitimatio ad causam o dei presupposti dell’azione, la decadenza sostanziale dall’azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza sociale (per il quale la legge prevede la declaratoria di improcedibilità in ogni stato e grado del procedimento); in tutte queste ipotesi, infatti, si prescinde da un vizio di individuazione del giudice, poiché si tratta non già di provvedimenti emanati da un giudice privo di competenza giurisdizionale, bensì di atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare, difettando i presupposti o le condizioni per il giudizio. Tale compatibilità con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo va, invece, esclusa in tutte quelle ipotesi in cui la nullità sia connessa al difetto di giurisdizione del giudice ordinario e sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto della pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al giudice di appello”. 16 Cass. 19 ottobre 2018 n. 26525; Cass. 7 luglio 2017 n. 16863. 17 Cass. 13 gennaio 2015 n. 322; Cass. 13 settembre 2013 n. 20978; Cass. 24 settembre 2009 n. 10027; Cass. 25 gennaio 2008 n. 1605; Cass. 26 giugno 2003 n. 9952. 18 Cass. 31 ottobre 2017 n. 25906; Cass. 4 maggio 2016 n. 8798; Cass. 13 settembre 2013 n. 20978; Cass. 4 aprile 2012 n. 5375; Cass. 13 ottobre 2009 n. 21703; Cass. 17 aprile 2003 n. 6169; Cass. 25 luglio1996 n. 6720. 19 Cass. 29 gennaio 2015 n. 1675; Cass. 18 dicembre 2008 n. 29523. 15

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Contro il giudicato implicito

l’affermazione della giurisdizione, come, ad esempio, quando l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo alla ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (es. manifesta infondatezza della pretesa), ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, superando la progressione stabilita dal legislatore, per ragioni, anche in questo caso, di economia processuale”. Orbene, mentre la prima eccezione è logica e fondata, in quanto il principio della ragione più liquida si applica, in linea di massima, anche all’interno delle questioni di rito, la seconda eccezione non lo è affatto. Se il rito è pregiudiziale al merito, come può il giudice decidere il merito “per saltum”, omettendo la (secondo la Cassazione) indispensabile decisione sul rito? Le questioni si assorbono quando sono sullo stesso piano, non quando sono ordinate secondo pregiudizialità – dipendenza! E poi come si fa a sapere se il giudice ha veramente assorbito la questione di rito, oppure l’ha riservatamente esaminata in pectore20, e l’ha decisa implicitamente in senso positivo? In definitiva, dunque (terza ragione) l’operazione – maldestramente portata avanti da Cass. 2008/24883 – ha avuto come risultato quello di abrogare il chiaro ed inequivocabile dettato dell’art. 37 c.p.c., sovrapponendo le proprie scelte a quelle del legislatore. La soluzione può anche essere opportuna, ed infatti è stata fatta propria dall’art. 9 del c.p.a., ma è contra legem, e soprattutto è stata fondata su argomenti sbagliati e pericolosi.

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Quindi con quella “deliberazione interiore” di cui ci parla Calamandrei (nota 10)

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Giuseppina Fanelli

Minime note sulle decisioni inespresse a carattere processuale, a margine di un interessante dibattito Sommario : 1. Premesse. – 2. La giurisdizione. – 3. La incompetenza per sussistenza di una convenzione di arbitrato. – 4. L’interesse ad agire e la legittimazione ad agire. – 5. Le questioni «vitali». – 6. Le altre questioni non precluse nelle fasi di impugnazione. – 7. Qualche considerazione finale.

Giuseppina FanelliL’articolo analizza le ipotesi in cui la Corte di cassazione ammette la formazione di decisioni implicite su presupposti processuali, distinguendole dai casi in cui è invece permessa la rilevazione officiosa degli impedimenti processuali anche nelle fasi di impugnazione. L’Autore riflette sul criterio utilizzato dai giudici della Suprema Corte, non ritenendolo adeguato e condivisibile. The paper analyses the cases in which the Corte di cassazione allows the formation of implicit decisions on procedural pre-requisite, distinguishing them from the cases in which these implicit decisions are not permitted and the procedural issues might emerge ex officio in the appeal phases. The Author examines the criterion used by the judges of the Supreme Court, which is not deemed to be suitable and embraceable.

1. Premesse. L’idea di queste brevi note nasce della partecipazione al seminario dottorale tenuto presso l’Università di Roma Tor Vergata sul tema «Il giudicato implicito e le questioni precluse»1.

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Il seminario, organizzato nell’ambito del Dottorato in diritto e tutela dell’Università di Roma Tor Vergata si è tenuto il 16 aprile 2019,

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Giuseppina Fanelli

La lezione dottorale ha preso le mosse dall’ordinanza n. 25254/20172 con la quale la Corte di cassazione ha affermato che nel nostro sistema processuale diversi indici normativi permettono di delineare una scala ordinata, non solo tra le questioni pregiudiziali di rito ed il merito, ma «all’interno di ciascun gruppo di questioni, in quanto risulta funzionale alla realizzazione del “giusto processo” ed alla attuazione dei princìpi di economica processuale e di ragionevole durata del processo.»3. Questa impostazione postula, a rime obbligate, che la decisione su un presupposto “dipendente” implichi la preventiva (invisibile) soluzione positiva circa l’esistenza del presupposto “poziore”4. Con tale pronuncia i supremi giudici hanno confermato la loro apertura alle decisioni inespresse sui presupposti processuali5, sui quali può formarsi giudicato (anch’esso inespresso e) implicito6. Per non rischiare di ripetersi affrontando temi a noi cari7, affidiamo a queste brevi note il modestissimo compito di provare ad effettuare una ricognizione delle ipotesi in cui la giurisprudenza di legittimità ritiene possano sussistere pronunce inespresse di rito e quelle in cui, invece, la Cassazione ritiene che la questione processuale possa sorgere nelle fasi di impugnazione. Solo in punta di penna, da ultimo8, si rifletterà sulla legittimità e/o opportunità di una siffatta distinzione.

con intervento dei Professori Marco De Cristofaro, Francesco Paolo Luiso (che si può leggere in questa Rivista, 2, 2019, 181 ss.), Andrea Panzarola e Bruno Sassani. 2 Cass., sez. VI-3, ord., 25 ottobre 2017 n. 25254. Con note critiche di Amadei, Giudicato implicito anche per la questione relativa alla convenzione di arbitrato: una discutibile pronuncia della Corte di Cassazione, in Riv. Arb., 2018, 688 ss.; Luiso, I guasti del giudicato implicito, in Giur. it., 2018, 876 ss.; e, si placet, nota nostra Progressione logico-giuridica tra i presupposti processuali, poteri delle parti e distorsioni del giudicato implicito, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 2018, 1569 ss. 3 Così, in motivazione, l’ordinanza citata: «È dunque possibile rinvenire nell’ordinamento processuale – interpretato alla stregua delle norme costituzionali sopra richiamate – il fondamento di un vincolo per il giudice di merito nell’ordine di esame delle questioni pregiudiziali e di merito, non limitato al disposto dell’art. 276 c.p.c., ma esteso anche all’interno di ciascun gruppo di questioni, in quanto risulta funzionale alla realizzazione del “giusto processo” ed alla attuazione dei princìpi di economica processuale e di ragionevole durata del processo, dovendo perciò stigmatizzarsi il frazionamento delle decisioni sulle questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito (ritualmente dedotte o rilevate)». 4 Il «presupposto del presupposto», cfr. Motto, L’ordine di decisione delle questioni pregiudiziali di rito, in Riv. dir. proc., 2017, 617 ss., spec. 626, e Id., Appunti in tema di ordine di decisione delle questioni pregiudiziali di rito nel processo civile di cognizione in primo grado, in Scritti offerti dagli allievi a Francesco Paolo Luiso per il suo settantesimo compleanno, a cura di Bove, Torino, 2017, 279 ss. 5 Espressione che verrà utilizzata in senso atecnico, come impedimenti processuali. Per tutti, Fornaciari, Presupposti processuali e giudizio di merito. Ordine di esame delle questioni nel processo, Torino, 1996, passim, spec. 3 ss. 6 Senza dubbio, l’espressione «giudicato implicito» è utilizzata impropriamente. Secondo A.A. Romano, Contributo alla teoria del giudicato implicito sui presupposti processuali, in Giur. it., 2001, 1293, perché si possa parlare di «giudicato implicito» è necessario che «sia dato di riconoscere in modo univoco e logicamente certo che l’organo giudicante, nel decidere espressamente una determinata questione, non possa che aver deciso in un determinato senso anche la questione del presupposto processuale: e ciò, pur senza farne menzione alcuna nel suo provvedimento». Carratta, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e uso improprio del «giudicato implicito», in Giur. it., 2009, 1468, parla di «preclusione a ridiscutere i presupposti processuali su cui si basa il giudicato sostanziale scaturito». Consolo, Il caso della soccombenza sulla giurisdizione fra struttura intima oggettuale del processo e dibattito odierno sulle tentazioni babeliche delle corti, in Riv. dir. proc., 2017, 1568 ss., parla di «preclusione al riesame officioso» della questione (1572), espressione che senza dubbio meglio descrive il fenomeno in esame. Secondo Luiso, Contro il giudicato implicito, cit., 181, di tratta di un «ossimoro». 7 Per i quali, si placet, Progressione logico-giuridica tra i presupposti processuali, cit., e Sull’ordine di esame delle questioni nel giudizio, in Giusto proc. civ., 2010, 889 ss., con altri riferimenti bibliografici. 8 Vedi il § 7.

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Minime note sulle decisioni inespresse a carattere processuale, a margine di un interessante dibattito

2. La giurisdizione. La regola sopra citata è stata confezionata, nella sua espressione più compiuta, in relazione alla giurisdizione9 ed è stata resa celebre dalla sentenza n. 24883/200810, secondo la quale «qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi; tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione sollevata di ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente) e acquista “visibilità” soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice adito venga negata. In linea di principio, se la questione della giurisdizione non viene sollevata in alcun modo, significa che non vi è nessuna necessità che il giudice “mostri le proprie credenziali”. Ma, il fatto che la decisione non sia visibile, non significa che sia inesistente.». Il principio sopra espresso è stato poi più volte ripreso e ridefinito marginalmente. Così, anzitutto, la Corte di cassazione ha chiarito che il giudicato implicito non può formarsi quando la sentenza non contiene alcuna statuizione che implica l’affermazione positiva della giurisdizione, avendo il giudice deciso per saltum, ignorando la progressione logico-giuridica delle questioni di rito. Ciò accade, secondo i giudici di legittimità, quando il giudice si è occupato con ogni evidenza (quale?) di un unico profilo (i.e., ammissibilità della domanda, manifesta infondatezza della pretesa, etc.)11. Sempre in tema di giurisdizione, la Cassazione ha ammesso una forma di rilievo officioso secundum eventum litis, ritenendo possibile il rilievo del difetto di giurisdizione per la prima volta in sede di legittimità nel caso in cui l’interesse a sollevare detto difetto sorga solo a seguito del percorso decisionale compiuto dal giudice (anche speciale) del gravame12. Tuttavia, questo approdo è talvolta temperato dalla considerazione che «non

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Senza pretese di esaustività, prima del 2008, cfr. Cass., sez. un., 18 dicembre 2007 n. 26620, in Corr. merito, 2009, 107; Cass., sez. un., 27 gennaio 2005 n. 1612, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 1389 ss.; Cass., sez. un., 5 febbraio 1999 n. 36, in Mass. Giur. it., 1999; Cass., sez. un., 18 marzo 1998 n. 2475, in Foro it., 1989, I, 180; Cass., sez. un., 5 settembre 1986 n. 5426, in Giust. civ., 1986, I, 2701; Cass., sez. un., 24 febbraio 1986 n. 1090, in Foro it., 1986, I, 3008 ss.; Cass. 28 aprile 1976 n. 1506, in Foro it., 1976, I, 2674; Cass., sez. un., 22 luglio 1960 n. 2084, in Gius. civ., 1960, I, 1932. 10 Cass., sez. un., 9 ottobre 2008 n. 24883, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 735 ss., con nota di Delle Donne, L’art. 37 c.p.c. tra giudicato implicito ed «evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione»: a margine di recenti applicazioni della ragionevole durata del processo; in Riv. dir. proc, 2009, 1080 ss., con nota di E.F. Ricci, Le sezioni unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame e Petrella, Osservazioni minime in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione e giusto processo (1086 ss.); in Foro it., 2009, I, 806, con nota G.G. Poli, Le sezioni unite e l’art. 37 c.p.c. (810 ss.); in Corriere giur., 2009, 372, con nota di Caponi, Quando un principio limita una regola (ragionevole durata del processo e rilevabilità del difetto di giurisdizione) (380 ss.) e Cuomo Ulloa, Il principio di ragionevole durata e l’art. 37: rilettura costituzionalmente orientata o riscrittura della norma (386 ss.); in Giur. it., 2009, 406, con nota di Vaccarella, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e translatio iudicii e Carratta, Rilevabilità, cit.; in Giusto proc. civ., 2009, 263, con nota di Basilico, Il giudicato interno e la nuova lettura dell’art. 37 c.p.c. Conformi, per citare alcune pronunce recenti e senza pretese di completezza, trattandosi di un orientamento che costituisce «diritto vivente», Cass., sez. un., 27 aprile 2018 n. 10265; Cass., sez. un., 20 aprile 2018 n. 9914; Cass., sez. un., 29 novembre 2017 n. 28503; Cass., sez. un., 22 aprile 2013 n. 9694. 11 Cfr. Cass., sez. un., 30 ottobre 2008 n. 26019, in Foro it., 2009, I, 806, con nota di G.G. Poli, cit. Vedi anche Cass. 29 gennaio 2015 n. 1675; Cass., sez. un., 22 aprile 2013 n. 9693; Cass., sez. un., 12 marzo 2013 n. 6081; Cass. 10 settembre 2013, n. 20698, in Mass. Giust. civ., 2013; Cass. 29 aprile 2009, n. 10027, in Mass. Giust. civ., 2009. 12 Cass., sez. un., 29 ottobre 2014 n. 22975; Cass., sez. un., 13 ottobre 2011 n. 21065. Contra, per il rilievo che il «criterio della ragionevole durata del processo … non può tollerare la deduzione di questioni secundum eventum litis» Cass., sez. un., 20 aprile 2018 n. 9915.

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può validamente prospettarsi l’insorgenza sopravvenuta di una questione di giurisdizione all’esito del giudizio di secondo grado, perché tale questione non dipende dall’esito della lite, ma da due invarianti primigenie, costituite dal “petitum” sostanziale della domanda e dal tipo di esercizio di potere giurisdizionale richiesto al giudice.»13. La Suprema Corte ha poi ribadito – pronunciandosi sul rapporto tra competenza e giurisdizione – che il giudice, qualora dubiti della propria competenza, deve sempre preventivamente verificare, anche di ufficio, la sussistenza della propria giurisdizione. Anche se tale verifica non è effettuata in modo espresso, nondimeno deve ritenersi che l’affermazione positiva circa la competenza “contenga” una implicita affermazione della sussistenza delle giurisdizione14. Di recente, la Suprema Corte si è pronunciata sul potere e sulle modalità di impugnazione della questione di giurisdizione risolta in modo inespresso, chiarendo che tale potere non possa essere concesso all’attore che ha incardinato il giudizio. L’attore, infatti, ancorché soccombente nel merito della pretesa, non potrà dirsi soccombente sull’autonomo capo di sentenza implicito relativo alla giurisdizione15. Infine, i giudici di legittimità16 hanno escluso la formazione di un giudicato implicito sulla giurisdizione che possa precludere il ricorso per cassazione per eccesso di potere giurisdizionale avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti emesse in grado di appello. A ben vedere, in quest’ultimo caso, il problema potrebbe porsi in termini diversi, poiché non si tratterebbe neppure di una vera questione di giurisdizione, ma di una questione di merito.

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Cass., sez. trib., 20 giugno 2019, n. 16557; Cass. n. 10265/2018 cit.; Cass. n. 29/2016, cit.; Cass. n. 28503/2017, cit.; Cass., sez. un., 22 febbraio 2007 n. 4109. 14 Cass., sez. un., 5 gennaio 2016 n. 29 (in Giusto proc. civ., 2017, 796 ss., con nota di G.G. Poli, Il resistibile primato della giurisdizione sulla competenza al vaglio delle Sezioni unite: ordine delle questioni, giudicato sulla giurisdizione e rilievo d’ufficio); in Corr. Giur., 2016, 843 ss., con nota di Glendi, Viene prima la competenza o la giurisdizione? Ovumne prius exiterit an gallina?; in Giur. it., 2016, 1383 ss., con nota di Ronco, Questione di giurisdizione e regolamento di competenza - sul rilievo del difetto di giurisdizione nell’ambito del regolamento di competenza), secondo la quale il «rapporto di pregiudizialità» tra la questione di giurisdizione e la questione di competenza risponde alle disposizioni della Carta costituzionale che, in coerenza con l’art. 24, primo comma, l’art. 25, primo comma, e con i princìpi del “giusto processo”, individua ogni magistratura, stabilisce i principali criteri di attribuzione della giurisdizione a ciascuna di esse e istituisce la Corte di cassazione quale unico giudice legittimato a dirimere in via definitiva questioni e conflitti di giurisdizione. La sentenza evidenzia altresì come la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza trovi conferma anche nell’art. 382 c.p.c., primo comma. L’ordinanza di rimessione Cass., 7 marzo 2014, n. 5434 è annotata da Fornaciari, L’ordine di esame tra giurisdizione e competenza, in Giusto proc. civ., 2014, 771 ss. Vedi anche Id., Note a caldo sull’ordine di esame, in questa Rivista online, 1 giugno 2016. Cfr. anche Cass., sez. un., 22 settembre 2016 n. 18567 e Cass., sez. un., 12 ottobre 2011 n. 20941, in Guida dir., 2011, 47, 76 ss. 15 Cass., sez. un., 20 ottobre 2016 n. 21260, in Corr. Giur., 2017, 257 ss., con nota di Asprella, Abuso del processo, cumulo di diritti connessi e impugnazione di rito del soccombente di merito, e di Consolo, Osservazione sistematica sulla n. 21260. Il «vecchio» rapporto giuridico processuale ed i suoi (chiari e non tutti antichi) corollari: inter multos l’inammissibilità per carenza di legittimazione ad impugnare e la inanità dell’inerziale richiamo della figura dell’abuso del processo (267 ss.); in Riv. dir. proc., 2017, 793 ss., con nota ancora di Consolo, Il caso della soccombenza sulla giurisdizione fra struttura intima oggettuale del processo e dibattito odierno sulle tentazioni babeliche delle corti e Ruffini, Interesse ad impugnare, soccombenza ed acquiescenza; in Giusto proc. civ., 2017, 3, 777 ss., con nota di Fornaciari, L’impugnazione in punto di giurisdizione da parte dell’attore soccombente nel merito (e, più in generale, la richiesta di una pronuncia sfavorevole). 16 Cass., sez. un., 17 aprile 2019 n. 10770; Cass., sez. un., 5 aprile 2019 n. 9680; Cass., sez. un., 18 novembre 2015 n. 23542.

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3. La incompetenza del giudice per sussistenza di una convenzione d’arbitrato.

Si già accennato che la Corte di cassazione ha recentemente ammesso la formazione del giudicato implicito anche sull’incompetenza per esistenza di una convenzione di arbitrato rituale. I giudici di legittimità, dopo aver ricostruito – nell’ordinanza n. 25254/2017 sopra citata17 – l’evoluzione del quadro legislativo e giurisprudenziale18 che ha portato alla configurazione dei rapporti tra arbitri rituali e giudici ordinari come rapporti di competenza, ha precisato che l’exceptio compromissi non può essere trattata come le altre eccezioni di difetto di competenza, con la conseguenza che la valutazione relativa alla eventuale esistenza di una convenzione di arbitrato è pregiudiziale rispetto alla trattazione delle altre questioni di competenza. Pertanto, se il giudice si pronuncia sulla questione di competenza per territorio19 in un caso in cui la parte abbia cumulativamente proposto anche una eccezione di incompetenza per esistenza di una convenzione di arbitrato, vorrà dire – d’ora in poi – che la decisione sulla competenza conterrà anche un implicito rigetto dell’exceptio compromissi, con tutte le conseguenze (già sviluppate dal provvedimento citato) sul regime di proposizione del regolamento di competenza.

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Vedi supra nota 2. Impossibile, in questa sede, dare conto di tale percorso evolutivo. Per tutti, Bove, La giustizia privata, 4° ed., Padova, 2018; Salvaneschi, Arbitrato, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Chiarloni, Bologna, 2014, 556 ss.; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, 2, vol. I, Padova, 2012; Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2013; Izzo, Appunti sull’eccezione di compromesso e sulla sentenza che la decide, in Sull’arbitrato. Studi in onore di Giovanni Verde, Napoli, 2010, 451 ss.; Ruffini, Art. 819-ter: rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Menchini, 2010, p. 365 ss.). La Corte costituzionale ha anzitutto affermato che il giudizio degli arbitri «è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione» [Corte cost., 28 settembre 2001 n. 376, in Riv. dir. proc., 2002, 351, con nota di E. F. Ricci, La «funzione giudicante» degli arbitri e l’efficacia del lodo (un grande arrêt della Corte costituzionale); in Giust. civ., 2001, I, 2883, con nota di Vaccarella, Il coraggio della concretezza in una storica decisione della Corte costituzionale; in Riv. arb., 2001, 657, con nota di Briguglio, Merito e metodo nella pronuncia della Consulta che ammette gli arbitri rituali alla rimessione pregiudiziale costituzionale; in Corr. giur., 2002, 1009, con nota di Fornaciari, Arbitrato come giudizio a quo: prospettive di una possibile ulteriore evoluzione]. Successivamente, oltre all’intervento del legislatore con il d.lgs. n. 40/2006, la Corte Costituzionale è tornata sui rapporti tra arbitro e giudice, ritenendo applicabile (in entrambi i sensi) l’istituto della translatio iudicii tra arbitri e giudici (Corte cost. 19 luglio 2013 n. 223, in Riv. dir. proc., 2014, 2, p. 374, con nota di Boccagna, Translatio Iudicii tra giudice e arbitri: la decisione della Corte Costituzionale e di Salvaneschi, Il rapporto tra arbitro e giudice dopo la decisione della Consulta; in Corr. giur., 2013, 1107, con nota di Consolo, Il rapporto arbitri-giudici ricondotto, e giustamente, a questione di competenza con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata e viceversa; in Foro it., 2013, I, c. 2690, con note di E. D’Alessandro, Finalmente! La Corte costituzionale sancisce la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva nei rapporti tra arbitro e giudice; Acone, “Translatio iudicii” tra giudice ed arbitro: una decisione necessariamente incompiuta o volutamente pilatesca?; Frasca, Corte cost. n. 223 del 2013 e art. 819-ter c.p.c.: una dichiarazione di incostituzionalità veramente necessaria?). Oltre alla sentenza in nota, qualificano espressamente i rapporti tra giudice ed arbitro come rapporti di competenza Cass., 21 gennaio 2016, n. 1101, con nota di Boccagna, Translatio iudicii tra giudice e arbitro: la Cassazione ribadisce la natura meramente ricognitiva della riforma del 2006 e la qualificazione dei rapporti tra giudice e arbitro come rapporti di competenza (traendone – finalmente – tutte le conseguenze), in Giur. it., 2016, 12, 2709 ss.; Cass., sez. un., 20 gennaio 2014 n. 1005; Cass., sez. un., 25 ottobre 2013 n. 24153. V. anche la recente analisi di Sassani, Eccezione di arbitrato estero e (non) regolabilità della giurisdizione, in Riv. arb., 2018, 339 ss. e Aniello, Alcune questioni in tema di arbitrato: i profili dell’exceptio compromissi e la sottile linea tra un oggetto disponibile e non disponibile, in Riv. arb., 2018, 701 ss. 19 Si trattava, nel caso di specie, di competenza per territorio inderogabile; si immagina che la soluzione valga anche per la competenza per materia e valore. 18

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4. L’interesse ad agire e la legittimazione ad agire. Le condizioni dell’azione20 non ricevono un trattamento unitario in punto di preclusione al successivo rilievo delle relative questioni nelle fasi di impugnazione. Se, da un lato, la Corte di cassazione ammette la preclusione al rilievo officioso del difetto di interesse ad agire21, dall’altro esclude che possa essere coperta da giudicato implicito la questione sulla legittimazione ad agire, applicando, quindi, a quest’ultima il regime – che andiamo appresso ad esaminare brevemente – delle nullità insanabili. Di conseguenza, il giudicato sulla legittimazione può essere solo espresso, non potendosi ammettere il giudicato implicito «qualora la questione non sia stata sollevata dalle parti ed il giudice (con implicita statuizione positiva sulla stessa) si sia limitato a decidere nel merito, restando in tal caso la formazione del giudicato sulla pregiudiziale impedita dall’impugnativa del capo della sentenza relativamente al merito.»22.

5. Le questioni «vitali». Come visto, i supremi giudici applicano la categoria del giudicato implicito sui presupposti processuali a pelle di leopardo (non solo a decisioni invisibili di rito “contenute” negli accertamenti di merito, ma) anche a decisioni invisibili di rito “contenute” negli “accertamenti” in rito.

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I riferimenti bibliografici sarebbero tantissimi ma esulerebbero dallo scopo di queste modeste note. Tralasciando il problema della determinazione della linea di confine tra presupposti processuali e condizioni dell’azione, v. per tutti, in relazione al diverso atteggiarsi delle due condizioni, Satta, Interesse ad agire e legittimazione ad agire, in Foro it., 1954, IV, 169 ss.; E. Grasso, Note per un rinnovato discorso sull’interesse ad agire, in Jus, 1968, 349 ss.; Attardi, L’interesse ad agire, Padova, 1955; Id., L’interesse ad agire, in Dig. it., disc. Priv. (sez. civ.), Torino, 1969, IX, 517 ss.; Lanfranchi, Note sull’interesse ad agire, in Riv. dir. proc., 1972, 1093 ss.; Tomei, Legittimazione ad agire, in Enc. dir., Milano, XXIV, 1974, 65 ss.; Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983; Id., voce Interesse ad agire (diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, vol. XVII; Costantino, voce Legittimazione ad agire, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 1 ss.; Marinelli, La clausola generale dell’art. 100 c.p.c. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli, Trento, 2005; Ruffini, Sulla legge regolatrice della legittimatio ad causam, in Riv. dir. proc., 2005, 1172 ss. Sullo specifico tema di nostro interesse, Vaccarella, Giudicato esplicito sulla improponibilità della domanda ed implicito sulla legittimazione ad agire, in Riv. arb., 1995, 85 ss., in nota a App. Roma, sez. I., 18 ottobre 1993. 21 Cass., sez. III, 18 aprile 2019 n. 10816; Cass., sez. II, 13 dicembre 2006 n. 26632; Cass, sez. II, 30 giugno 2006 n. 15084; Cass., sez. II, 5 febbraio 2002 n. 2721; Cass., sez. lav., 7 giugno 1999 n. 5593. Sul punto, Consolo, Il caso della soccombenza, cit., 1568, ci pare ritenere che l’interesse ad agire si sottragga all’inserimento nella categoria delle questioni fondanti per il suo più stretto legale con l’economia di attività processuale meritale. 22 Cass., sez. un., 20 marzo 2019 n. 7925, che prosegue in motivazione: «Non può ritenersi, invero, che un giudicato interno si sia formato in via implicita, semplicemente perché la legittimazione abbia costituito la premessa logica per la decisione, in quanto, affinché una questione possa ritenersi decisa dal giudice di merito occorre che essa sia stata oggetto di discussione tra le parti.». Vedi anche Cass., sez. III, 18 aprile 2019 n. 10813; Cass., sez. trib., 31 ottobre 2017 n. 25906; Cass., sez. I, 4 maggio 2016 n. 8798; Cass., sez. trib., 13 settembre 2013 n. 20978; Cass., sez. VI, 22 febbraio 2012 n. 2672, in Mass. Giust. civ., 2012, 200 ss.; Cass., sez. lav., 13 ottobre 2009 n. 21703.

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Qual è, allora, il criterio che ci permette di distinguere i presupposti sui quali sono ammesse decisioni implicite da quelli per i quali il fenomeno non è concepibile23 (soprattutto) al fine di calibrare – in maniera più cautelativa possibile – l’oggetto dell’impugnazione? Il discrimen è individuato nella natura «vitale» della questione24, natura che – per dirla con la Cassazione – si rinviene nelle questioni che «servono a salvaguardare l’ordinamento dal disvalore “di sistema” costituito dall’emissione di sentenze inutiliter datae»25. Il potere di controllo di queste nullità insanabili è, allora, esercitabile in sede di legittimità26 mediante emersione del tema per la prima volta in tale sede, su eccezione (se permessa) ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione27, in piena armonia – dicono i supremi giudici – con i canoni del «giusto processo». Stando a quanto si ricava dalla giurisprudenza di legittimità28 e dalla dottrina29, sono questioni «vitali» o «fondanti» quelle relative alla capacità di essere parte, alla capacità di

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Lucida in proposito la posizione di A.A. Romano, Contributo alla teoria del giudicato implicito, cit., 1292 ss. A proposito del giudicato implicito, l’A. afferma (1293) «bisogna che la categoria sia normativamente possibile, cioè sia in armonia o almeno in non-distonia con il dato positivo espresso; in secondo luogo, bisogna che essa sia praticamente utile, cioè consenta un guadagno sistematico in termini di semplificazione concettuale» (corsivi dell’A.). Partendo dalla fungibilità – dal punto di vista logico – tra decisione implicita e decisione esplicita sul presupposto processuale, l’A. ha, poi, dimostrato che non per tutti i presupposti processuali le disposizioni del codice di rito consentono una definizione implicita che possa assumere, all’interno dello stesso processo, caratteri di stabilità ed ha, di conseguenza, auspicato il ridimensionamento della teoria del giudicato implicito. Il fenomeno condizionante preclusivo – che non corrisponde ad un giudicato implicito – non potrebbe riguardare anzitutto la competenza in forza delle preclusioni previste dall’art. 38 c.p.c. (che l’A. esamina nel testo vigente dopo le modifiche intervenute con la l. n. 353/1990), ma più in generale per tutte le eccezioni che non siano rilevabili officiosamente e che siano assoggettate a preclusione nel corso del giudizio di primo grado. Invece, il fenomeno sarebbe possibile ove interessi l’ipotesi della giurisdizione, della legittimazione ad agire, dell’assenza di un precedente giudicato (ove se ne ammetta il rilievo officioso), della litispendenza, della continenza, dell’interesse ad agire, dell’integrità del contraddittorio, della regolare costituzione dell’organo giurisdizionale ai sensi dell’art. 158 c.p.c. e della capacità processuale delle parti (1294-1299) Ciò nondimeno, lo stesso A. avverte che anche tale impiego della nozione sarebbe «privo di apprezzabile rilevanza ed utilità.». 24 In particolare così Cass. n. 26019/2008 cit. supra nota 6 e Cass., sez. un., 4 marzo 2016 n. 4248. Vedi anche Cass., sez. II, 9 gennaio 2017 n. 190; Cass., sez. I, 9 maggio 2016 n. 9334; Cass., sez. VI, 11 luglio 2014 n. 16036. 25 Cass. n. 4248/2016, cit. 26 Ma non nel giudizio di rinvio dalla Cassazione. 27 In proposito, E.F. Ricci, L’esame d’ufficio degli impedimenti processuali nel giudizio di Cassazione, in Riv. dir. proc., 1978, 418 ss., il quale è critico con il rilievo officioso del difetto dei presupposti processuali nel giudizio per cassazione, trattandosi di un giudizio a critica vincolata che dovrebbe riguardare esclusivamente il motivo fatto valere dal ricorrente. 28 Cass. n. 26019/2008, cit., ha esemplificativamente chiarito che si tratta di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio – in quanto tale sistema di verifica consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il giudicato, attraverso la successiva proposizione dell’actio nullitatis o del rimedio impugnatorio straordinario ex art. 404 c.p.c., da parte del litisconsorte pretermesso – ovvero di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di potestas iudicandi, come il difetto di legitimatio ad causam o dei presupposti dell’azione, la decadenza sostanziale dall’azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza sociale. La Corte ha osservato che in tutte queste ipotesi si prescinde «dal vizio relativo all’individuazione del giudice», trattandosi di provvedimenti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare. 29 L’indicazione in giurisprudenza ricalca, ci pare, il pensiero di autorevole dottrina. V. Consolo, Travagli “costituzionalmente orientati” delle sezioni unite sull’art. 37 c.p.c., ordine delle questioni, giudicato di rito implicito, ricorso incidentale condizionato (su questioni di rito o, diversamente operante, su questioni di merito), in Riv. dir. proc., 2009, 1141 ss., secondo il quale: «questioni del tipo dell’integrità del contraddittorio (art. 102 c.p.c.), della legittimazione ad agire (ma forse non anche l’interesse ad agire che pur dovendo precedere l’accesso al merito, senza danno, poi potrebbe precludersi con il primo grado), della capacità di essere parte e di quella di agire, e ancora la questione della litispendenza e più vitale [corsivo nostro] ancora quella di precedente giudicato e qualche altra; ebbene queste saranno questioni vitali e così ex systema rilevabili sempre d’ufficio, fino in Cassazione, e a prescindere dal dato assai accidentale che, al riguardo, vi sia o meno un cenno in motivazione ossia una presa di posizione esplicita del giudice del grado precedente, che nella logica dell’oggetto di giudizio processuale non può mai integrare un micro-capo di sentenza suscettibile di

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agire, alla sussistenza di un precedente giudicato, all’integrità del contraddittorio in caso di litisconsorzio necessario e – probabilmente, come visto – alla legittimazione ad agire. In relazione al vizio di integrità del contraddittorio nelle ipotesi di litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102, comma 2°, c.p.c., eccepibile e rilevabile per la prima volta anche in Cassazione30, i giudici di legittimità hanno avuto un recente ripensamento. In particolare, la Corte, con sentenza n. 4428/201831, ha stabilito che non è possibile rilevare per la prima volta in Cassazione il difetto dell’integrità del contraddittorio nelle ipotesi di sentenza emessa inter pauciores, potendosi formare il giudicato implicito sulla questione nel caso in cui il giudice spenda il proprio potere decisorio pronunciando una sentenza non definitiva di merito e tale sentenza non venga contestata con specifico riguardo al vizio di integrità del contraddittorio.

consolidarsi ex art. 329 cpv. e così non vale di per sé a condizionare presso alcun giudice (…). Trattandosi di questioni che, se non ben risolte, compromettono alla radice la funzionalità del processo (se manca un litisconsorte necessario, ad esempio, la sentenza è inefficace, se si “va sopra” un precedente giudicato si ha una abnorme sua rimozione, o una sentenza inefficace secondo la tesi minoritaria, etc.), ogni giudice deve occuparsene quale custode della capacità del rapporto processuale di garantire un equo ed utile processo. Le libere scelte, impugnative od omissive od anche acquiescenti, delle parti non possono valere a deresponsabilizzare i giudici del secondo e terzo grado a questi riguardi. Invece, al pari delle varie tipologie di questioni di competenza ed anche, dal 1990, di quella “forte”, ossia per materia e/o funzionale, la questione di giurisdizione – dacché i giudici speciali (o stranieri) sono divenuti giudici pleno iure e pari ordinati, nonché collegati al giudice civile dalla translatio – non esprime più un plusvalore processuale assolutamente imperativo, da garantire appunto a pena di veder nascere una sentenza inutiliter data e così può ben, de iure condendo, ormai però con doverosità costituzionale, consumarsi anch’essa per intero nel primo grado del processo se le parti non si dolgono della sua (non virtuale) inesatta soluzione o anche della sua mancata considerazione. Il riparto giurisdizionale, seppur non integralmente disponibile come la giurisdizione italiana, non esprime da tempo più esigenze vitali (salvo, diremmo, il caso in cui sia chiesto l’annullamento dell’atto amministrativo che, se si consolida la giurisdizione civile, vedrebbe quel giudice senza poteri).» (1152-1153). Si veda, ancora, Id., Il caso della soccombenza sulla giurisdizione, cit., spec. 1568 ss., che distingue tra questioni graviores «davvero fondanti» e questioni leviores: «Almeno certo per tutte quelle graviores (le leviores essendo incompetenze anche gravi, accordi compromissorii per arbitrato speciale rituale, difetto di giurisdizione soggetto alla disponibilità del convenuto in liti transnazionali, si discute per i due tipi di litispendenze internazionali), si vuole evitare il blando regime della eccepibilità e conservare ancora il pur aggravante regime del rilievo officioso perlopiù in ogni tempo, cioè in ogni stato e poi in ogni grado, evidentemente per il grave rischio di veder nascere o consolidare decisioni di merito inutiliter datae. Decisioni suscettibili magari di illimitata opposizione ordinaria (per assenza di capacità di essere parte, di integrità del contraddittorio, valida rappresentanza, per presenza di un precedente giudicato se lo si intende come impediente in senso forte), oppure almeno del tutto distoniche e quindi pur sempre inefficaci a risolvere liti (assenza di legittimazione ad agire).» (1568). Ancora l’A., sulle conseguenze della suddetta distinzione: «In sintesi, per noi, il regime dovrebbe essere il seguente: se si tratta di questioni pregiudiziali di rito “fondanti” (nei termini che abbiamo più volte detto), il giudice del gravame – purché investito di una impugnazione ammissibile (anche se non relativa alla specifica questione) – potrà rilevare d’ufficio la carenza di quei requisiti. Questo potere-dovere non si atteggerà diversamente a seconda che la questione di rito sia stata decisa implicitamente o esplicitamente dalla sentenza gravata. Nel primo caso il silenzio configura sì riconoscimento implicito, ma del generale potere-dovere di decidere il merito della lite. (…) Se la questione è invece una di quelle che possono dirsi non fondanti, allora il suo rilievo officioso rimarrà pur sempre possibile ad opera del giudice del gravame (di nuovo, a fronte di un gravame ammissibile), ove la legge – pur potendolo – nulla dica in ordine alla necessità dell’iniziativa di parte in vista della devoluzione della questione al giudice superiore.» (1576-1577). 30 Per tutte, Cass., sez. trib., 30 marzo 2001 n. 4765. 31 Restano fermi i mezzi alternativi di tutela a disposizione del litisconsorte pretermesso. Cass., sez. VI, 23 febbraio 2018 n. 4428, in Giur. it., 2019, 91 ss., con nota di Ronco, Giudicato implicito sull’integrità del contaddittorio?, 93 ss. Conf. Cass., sez. VI, 11 settembre 2017 n. 21096; Cass., sez. lav., 18 gennaio 2011 n. 1075. Ci pare che non possa davvero giustificare la compressione del principio del contraddittorio in favore delle esigenze di celerità del giudizio. Diversamente forse potrebbe ritenersi (come abbiamo ritenuto in nota a Cass., sez. II, 8 febbraio 2010, n. 2723, Note sulla «sollecita» e «sostanziale» definizione del giudizio alla luce del principio di ragionevole durata del processo e del nuovo art. 360 bis, 2º comma, c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011, 224 ss.), nelle ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso non avrebbe potuto ottenere una tutela maggiore rispetto a quella avuta nel processo dal quale è stato illegittimamente escluso (i.e. il completo rigetto nel merito delle pretese della controparte).

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Minime note sulle decisioni inespresse a carattere processuale, a margine di un interessante dibattito

Resta, invece, sottratta alla preclusione della rilevabilità officiosa per stabilizzazione della pronuncia di prime cure la questione relativa alla legittimazione ad processum32, «la cui rilevabilità sine die risponde all’esigenza di evitare una sentenza emessa nei confronti di un soggetto incapace, e pertanto inutiliter data»33.

6. Le altre questioni non precluse nelle fasi di

impugnazione.

La distinzione tra questioni vitali, e non, arranca. Da una parte, infatti, alcune questioni, pur non considerate vitali, si sottraggono alla formazione del giudicato implicito; d’altra parte, la Suprema Corte ammette la formazione del giudicato implicito su questioni tradizionalmente ritenute vitali. Quest’ipotesi è stata appena esaminata, in riferimento al vizio del contraddittorio; la prima ipotesi concerne invece alcuni impedimenti processuali che, pur non risultando fondanti nel senso sopra chiarito, possono (ri)emergere nelle fasi di impugnazione. Il riferimento è in primo luogo alla questione circa la decadenza del contribuente dal diritto di agire in giudizio34, trattata come una nullità insanabile. In questo caso, la ratio della riconduzione di tale vizio alle questioni fondanti sembra riposare nella considerazione che, a fronte di una notificazione “inesistente” del ricorso introduttivo35 o di un ricorso tardivamente proposto oltre il termine di cui all’art. 21, 1° comma, d.lgs. 546/199636, vi sia una carenza assoluta di potestas iudicandi del giudice adito. Pure sempre rilevabili sarebbero le questioni circa l’ammissibilità del gravame37, con tutte le difficoltà nella concreta individuazione del contenuto di tali questioni a seguito dell’introduzione dei filtri di ammissibilità38 di cui agli artt. 348-bis e 360-bis c.p.c. che han-

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Cass., sez. II, 28 novembre 2014 n. 25353 ha rimesso alle sezioni unite la soluzione del contrasto insorto in seno alle sezione semplici circa la formazione del giudicato implicito, a seguito di una statuizione nel merito, sull’esistenza della legitimatio ad processum del rappresentante, questione poi risolta dalla già citata Cass. n. 4248/2016. Nel senso della possibile formazione del giudicato implicito, Cass., sez. I, 30 ottobre 2009 n. 23035; Cass., sez. trib., 4 dicembre 2009 n. 25573. 33 Cass., sez. lav., 21 dicembre 2011 n. 28078. Contra, Cass., sez. I, 30 ottobre 2009 n. 23035. 34 Cass., sez. trib., 7 settembre 2018 n. 21866; Cass., sez. VI, 13 gennaio 2015 n. 322; Cass., sez. trib., 13 settembre 2013 n. 20978; Cass., sez. trib., 24 settembre 2009 n. 10027; Cass., sez. trib., 25 gennaio 2008 n. 1605. 35 Cass., sez. trib., 19 aprile 2019 n. 11016, che ha rimesso alle sezioni unite la questione del regime di invalidità delle notificazioni a mezzo posta eseguite avvalendosi di un servizio privato. 36 Cass., sez. trib., 7 settembre 2018 n. 21866. 37 V. Cass., sez. II, 19 ottobre 2018 n. 26525, che ribadisce lo stesso principio di Cass., sez. I, 7 luglio 2017 n. 16863, nel senso del rilievo d’ufficio di «una causa di inammissibilità dell’appello che il giudice di merito non abbia riscontrato, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza di secondo grado, non potendosi riconoscere, al gravame inammissibilmente spiegato, alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione.». 38 Sia consentito, in questa sede, rinviare per tutti a Tiscini, L’impugnabilità dell’ordinanza filtro per vizi propri – L’apertura delle sezioni unite al ricorso straordinario (Nota a Cass. civ., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914), in Corr., giur., 2016, 1132 ss.; Balena, Nuove riflessioni sull’impugnabilità dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c. (Nota a Cass. civ., sez. II, ord. 12 gennaio 2015, n. 223), in Giusto proc. civ., 2015, 727; ss.; Dalla Bontà, Contributo allo studio del filtro in appello, Napoli, 2015; Tedoldi, Il maleficio del filtro in appello, in Riv. dir. proc., 2015, 751; Capponi, Il diritto processuale civile «non sostenibile», in Riv. trim.

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no snaturato la categoria dell’inammissibilità in fase di impugnazione. Tralasciando queste perplessità (che meriterebbero trattazione lunga ed autonoma) non si nasconde che v’è una qualche forzatura nel ritenere che la citata questione salvaguardi il sistema processuale complessivamente considerato, impedendo l’adozione di pronunce radicalmente nulle e che nessun giudice avrebbe potuto emettere. Non è, invece, sottratta al giudicato la questione relativa all’inammissibilità dell’azione per l’accertamento di un credito nei confronti del fallimento, quando non proposta dinanzi al giudice delegato ex artt. 52 e 93 l. fall.39, né quella relativa all’improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 c.p.c.40. Una certa dose di incertezza si sconta sulla questione della rappresentanza tecnica41, poiché la giurisprudenza esamina più spesso il problema, a monte, della capacità processuale (questione fondante) del soggetto che ha conferito il mandato al difensore.

dir. proc. civ., 2013, 854 s., spec. 873 ss.; Panzarola, Le prime applicazioni del c.d. filtro in appello, in Riv. dir. proc., 719 ss.; Consolo, Dal filtro in cassazione ad un temperato stare decisis: la prima ordinanza sull’art. 360 bis, in Corr. Giur., 2010, 1405 ss.; Luiso, La prima pronuncia della cassazione sul c.d. filtro (art. 360 bis c.p.c. Nota a Cass. civ., sez. un., ord. 6 settembre 2010, n. 19051, in Giusto proc. civ., 2010, 1131 ss.; Briguglio, Ecco il «filtro»! (l’ultima riforma del giudizio di cassazione), in Riv. dir. proc., 2009, 1275; Carpi, Il tormentato filtro al ricorso in cassazione, in Corr. giur., 2009, 1443; Cipriani, La corte di cassazione tra il filtro e lo spreco (a proposito della cessazione della materia del contendere nel regolamento di giurisdizione) in nota a Cass., sez. un., 18 febbraio 2009, n. 3824, in Giusto proc. civ., 2009, 869 ss.; Costantino, Contro l’abuso del «filtro» è pronta la «pillola del giorno dopo»: sono revocabili anche le ordinanze dichiarative della inammissibilità dei ricorsi per cassazione, in nota a Corte cost., 9 luglio 2009, n. 207, in Foro it., 2009, I, 3281. 39 V. Cass., sez. III, 4 ottobre 2018 n. 24156; Cass., sez. III, 21 gennaio 2014 n. 1115. Contra, Cass., sez. I, 13 agosto 2008 n. 21565. 40 Cass., sez. II, 2 febbraio 2011 n. 2427. 41 Per Cass., sez. II, 9 gennaio 2017 n. 190 trova «applicazione il principio per cui ne è ben possibile la configurazione alla stregua di “questione vitale”, senza vincolo di giudicato, nemmeno implicito. È stato, infatti, sostenuto che l’art. 372 c.p.c., che consente la produzione, nel giudizio di legittimità, dei documenti relativi alla nullità della sentenza impugnata, si applica anche quando si lamentino errores in procedendo idonei ad inficiare direttamente la validità della pronuncia impugnata, ove quest’ultima sia impugnabile solo con il ricorso in cassazione (E parimenti, sul presupposto che la prova dell’avvenuto conferimento del potere rappresentativo al soggetto che ha rilasciato la procura a stare in giudizio deve essere fornita dal rappresentante solo se venga negata l’esistenza dell’atto di conferimento, la questione della regolarità della procura può essere sollevata per la prima volta in cassazione anche con riferimento ai precedenti gradi di giudizio, in quanto essa riguarda un presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale.».

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7. Qualche considerazione finale. Il giudicato implicito, costruzione di impreciso e improvvido utilizzo, crea evidenti distorsioni nel nostro sistema processuale42, soprattutto in materia di impugnazione43. In chiusura di queste modeste note – evitando di ritornare su considerazioni altrove svolte44 – v’è da chiedersi se il criterio della «vitalità» di alcune questioni sia (normativamente appropriato45 e, comunque) decisivo per disegnare i confini della preclusione al rilievo della questione di rito nelle fasi di impugnazione, o se la Suprema Corte non stia semplicemente espandendo il raggio di azione del giudicato implicito46, in assenza di qualsiasi ragionevole criterio estensivo o integrativo47.

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L’esigenza di ammettere delle decisioni implicite sulle questioni attinenti al processo fa pendant con l’adesione alla teoria del doppio oggetto del processo, quasi come prolungamento concettuale di quella in un territorio attiguo (su tale costruzione, per tutti, Consolo, Il cumulo condizionale di domande, vol. I, Padova, 1985, spec. 105 ss.). Può dirsi, infatti, che il giudicato implicito sui presupposti processuali è il naturale rimedio delle distorsioni in termini di tempi del singolo processo (ma anche in termini di appesantimento del sistema in generale) cui porterebbe la necessità di accertare espressamente la validità di ogni processo in riferimento a tutti i presupposti processuali prima di poter esaminare il merito. Eppure, come rileva anche Turroni, La sentenza civile sul processo. Profili sistematici, Torino, 2006, 128, la decisione sembra servire l’ordine rito/merito ma, ad una riflessione più attenta, lo svilisce: «[l]a funzione dell’ordine di decisione rito/merito è essenzialmente di garanzia […]. Se invece si invoca la sequenza rito/merito per sostenere che la sentenza di merito senz’altro contiene la soluzione delle questioni pregiudiziali attinenti al processo, la ratio sottesa a quest’ordine di precedenze viene non solo fraintesa ma completamente frustrata» (vedi anche Turroni, Ammissibilità della domanda e accertamento giudiziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 55 ss.). Già nel 1938 Allorio riconosceva, in Critica, cit., 256, che la teoria sulla cosa giudicata «tacita» così come formulata – comprensiva, cioè, anche della teoria dell’implicito sui presupposti processuali – non potesse essere accolta: «Dovremmo allora ritenere che la teoria della cosa implicita giudicata s’applichi in relazione al nesso tra questioni che siano rilevanti rispetto non al medesimo rapporto, ma a rapporti giuridici differenti; in relazione al nesso tra questioni processuali e questioni di merito? In verità l’affermazione che, predisposta una sentenza interlocutoria l’indagine d’una questione di fatto attinente al merito, e divenuta irrevocabile l’interlocutoria, siano precluse le questioni processuali, le questioni insomma, la cui soluzione negativa rende inammissibile una decisione di merito» (Allorio, ult. op. cit., 255). Questo sulla base del rilievo che non vi sarebbe uno scarto temporale reale tra l’attività processuale di controllo della sussistenza dei presupposti processuali (se positivi o dell’assenza dei presupposti processuali, se negativi) e l’attività di esame del merito, attività che sarebbero tutte contestuali. 43 Dire che una pronuncia su una questione di rito giuridicamente pregiudiziale implichi una statuizione invisibile su un altro presupposto processuale (dipendente) significa dire che tale statuizione, seppur invisibile, dovrà essere impugnata a pena della formazione del giudicato – o di un fenomeno preclusivo allo stesso, forse, assimilabile – sulla stessa. In termini simili, Lasagno, Premesse per uno studio sull’omissione di pronuncia, in Riv. dir. proc., 1990, 454 ss., spec. 463. V. anche Turroni, La sentenza, cit., 254, secondo il quale vincolare le parti ad «una immaginaria decisione implicita sarebbe fonte di intollerabile incertezza e di vano sforzo; che indurrebbe il “soccombente implicito” a convertire tutte le questioni di rito sollevate [quando queste siano state sollevate, cosa che non è sempre vera] in altrettanti capi di impugnazione (principale o incidentale) della decisione resa su una sola di esse». 44 V., si placet, Progressione logico-giuridica, cit., spec. 1584 ss. 45 Vedi, al riguardo, Menchini, Eccezione di giurisdizione, regolamento preventivo e translatio: il codice di rito e il nuovo codice della giustizia amministrativa, in Giur. it., 2011, 219, secondo il quale: «Il limite di una simile operazione, però, è evidente: perché il regime della insanabilità deve valere per i vizi concernenti la legittimazione e non per quelli riguardanti altri presupposti processuali, come il giudicato o la litispendenza? In ogni caso, la nullità è assoluta e colpisce il rapporto giuridico processuale nel suo complesso; certo, è possibile che venga attribuito un rilievo diverso ad un vizio rispetto ad un altro, ma tale compito spetta non all’interprete ma al legislatore, come è accaduto per la competenza; tanto più l’operazione di adeguamento è inaccettabile, se si pone in chiaro conflitto con il testo della norma esistente.». In termini simili, Motto, L’ordine di decisione, cit., 630, nota 41. 46 L’orientamento dei giudici di legittimità è mantenuto fermo «nonostante le opinioni dottrinali, restie ad accettare un “uso improprio del giudicato implicito” e in particolare che il “vincolo dei principi” prevalga su quanto desunto dalle regole positivamente stabilite. Esso costituisce ormai diritto vivente (cfr. Cass. SU 29/2016) ed è stato recepito dal codice del processo amministrativo all’art. 9.», così in motivazione Cass. n. 4248/2016, cit. 47 Più in generale sugli atteggiamenti più recenti della Suprema Corte, Sassani, La deriva della cassazione e il silenzio dei chierici, in questa Rivista online, 3 giugno 2019; in Riv. dir. proc., 2019, 1, 43 ss.

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Questa riflessione – che può essere svolta qui solo superficialmente – è destinata a sfociare in un ripensamento profondo della funzione stessa delle regole processuali48, anche, se si vuole49, nella prospettiva della loro ontologica differenza rispetto alle regole sostanziali. Infatti, anche a voler ritenere possibili le pronunce implicite sugli impedimenti processuali50, non si vede in vista di quale fine gli interpreti dovrebbero cimentarsi in operazioni di identificazione, anche contra legem, di alcune questioni più fondanti di altre. In altri termini, ci pare che la diffusione delle decisioni inespresse in rito non sia imposta da (astratte) costruzioni dogmatiche né da (concrete) esigenze di giustizia; anzi, in spregio al principio del contraddittorio51 e a quello dispositivo52, le decisioni tacite evitano la (ri)emersione di un tema processuale (una non-questione53), proprio nel momento in cui la parte o il giudice intendono formalizzarlo perché lo ritengono decisivo. E, allora, in un clima in cui la giurisprudenza continua – in maniera divinatoria54, creazionista55 e metadottrinale56 – ad utilizzare i principi per far dire alle norme ciò che si vorrebbe dicessero57, se il valore da proteggere è quello (solito) della ragionevole durata del processo, evitando che nelle fasi di impugnazione si discuta per la prima volta dell’idonei-

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Si vedano in proposito le raffinate pagine di Panzarola, Una lezione attuale di garantismo processuale: le conferenze messicane di Piero Calamandrei, in Riv. dir. proc., 2019, 1, 162 ss., ma anche, sul ruolo dei principi in materia processuale, Id., Alla ricerca dei substantialia processus, in Riv. dir. proc., 2015, 680 ss. 49 In proposito, lucidamente, Luiso, Contro il giudicato implicito, in questa Rivista, 2, 2019, 184, secondo il quale: «Pensare che il giudice o l’arbitro “decidano” della questione di rito allo stesso modo con il quale decidono la questione di merito è un assurdo: perché nel secondo caso stabiliscono, in posizione di indifferenza ed imparzialità, le regole di condotta che riguardano altri soggetti; nel primo caso ovviamente essi non possono stabilire quali sono le regole di condotta che riguardano il proprio comportamento: nessuno è giudice di se stesso!». Un accenno anche in Biavati, Appunti sulla struttura della decisione e l’ordine delle questioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 1301 ss., spec. 1322-1323. Diversamente, ritengono che le regole sostanziali vengano accertate nello stesso modo delle regole processuali, Consolo, Il cumulo, cit., 225; Motto, L’ordine di decisione, cit., 623. 50 Come qui non si ritiene. 51 Rispetto al quale occorrerebbe rispolverare gli insegnamenti basilari, sui quali v. Tiscini, Le categorie del processo civile, Bologna, 2017, 47-59. 52 Che dovrebbe essere preso sul serio, v. Panzarola, Il principio dispositivo preso sul serio (a proposito di un recente volume), in Giust. civ., 2017, 701 ss. 53 Richiamiamo, mutatis mutandis (trattandosi, qui e non lì, di questioni di rito), la tradizionale distinzione tra «punto» e «questione» di Menestrina, La pregiudiciale nel processo civile, Milano, 1904, passim, spec. 119-120, 137-139, 150-152. Il punto, ci pare, si risolve in un tema di indagine che resta sullo sfondo o perché le parti non intendono formalizzarlo, e questo a prescindere dall’intrinseca problematicità del tema; o perché è stato già deciso; o perché non si tratta di un dubbio rispetto al quale non v’è necessità alcuna di accertamento. Tale tema di indagine, qualunque sia il motivo, resta fuori dal processo, non viene effettivamente discusso e non potrà essere, di conseguenza, oggetto di decisione da parte del giudice. V. anche Carnellutti, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1938, 122: «è manifesto l’equivoco tra le questioni che possono sorgere e le questioni che sono sorte nel processo. (…) Non è vero che le questioni che il giudice deve risolvere con la sentenza siano innumerevoli. Possono essere infinite; ma non sono. Ogni lite, tra le questioni possibili, presenta le sue questioni determinate. Le questioni, infatti, non sono i dubbi proponibili ma i dubbi proposti. Meglio: i dubbi proposti della parti, che non sono d’accordo su un punto di diritto o di fatto, e quelli che il giudice si deve proporre da sé». 54 «E non potrà essere distrutta, quella loro realtà, da nessun documento, poiché essi ci respirano dentro, la vedono, la sentono, la toccano!», Pirandello, Così è (se vi pare), Lamberto Laudisi, scena prima, 1917. 55 Dalfino, Creatività e creazionismo, prevedibilità e predittività, in Foro it., 2018, V, 385 ss., soprattutto § 1. 56 V. in proposito Sassani, La deriva cit., spec. § 8, testo e note, nonché Pardolesi-Sassani, Motivazione, autorevolezza interpretativa e “trattato giudiziario”, in Foro it., 2016, V, 299 ss. 57 L’espressione è di Carratta, Rilevabilità d’ufficio, cit., 6.

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tĂ del processo ad “ospitareâ€? una soluzione di merito, forse sarebbe opportuno cambiare le norme e non continuare a piegarle al (presunto) volere dei principi.

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Enzo Vullo

“Essere giusti” con Piero Calamandrei: noterelle a margine di un libro di Franco Cipriani Sommario : 1. Cipriani e la “demitizzazione” di Calamandrei. – 2. I rapporti fra Calamandrei e Chiovenda nell’interpretazione di Cipriani. – 3. Segue: … obiezioni - 4. Conclusione: Calamandrei fu un convinto e sincero ammiratore di Chiovenda.

Piero Calamandrei manifestò sempre, in molti suoi scritti, grande ammirazione per Giuseppe Chiovenda, contribuendo significativamente a crearne il mito quale “fondatore” del “moderno” diritto processuale civile italiano. Tale atteggiamento fu giudicato da Franco Cipriani – insigne autore di notevolissimi studi sulla storia di tale disciplina nella prima metà del Novecento – non sincero, ma dettato unicamente da ragioni oblique e “personali”: una tesi, a parere di chi scrive, non solo poco generosa nei confronti del maestro fiorentino ma contraddetta da vari argomenti, anche documentali, dei quali si dà conto in questo lavoro. Piero Calamandrei always expressed, in many of his writings, great admiration for Giuseppe Chiovenda, contributing significantly to creating his myth as the “founder” of the “modern” Italian civil procedural law. This attitude was judged by Franco Cipriani - distinguished author of remarkable studies on the history of this discipline in the first half of the twentieth century - not sincere, but dictated solely by oblique and “personal” reasons: a thesis, in the opinion of the writer of this article, not only little generous towards the Florentine master but contradicted by various arguments, including documentary ones.

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Enzo Vullo

1. Cipriani e la “demitizzazione” di Calamandrei. La scomparsa prematura e improvvisa di Franco Cipriani, oltre a lasciare un grande vuoto fra i suoi cari, gli amici e gli allievi1, ha privato chi si occupa delle vicende del diritto processuale civile nella prima metà del Novecento (e, in particolare, dei protagonisti di tali accadimenti e della genesi del codice di rito attualmente in vigore) dell’opportunità di dialogare e confrontarsi con la voce più autorevole, informata e straordinariamente feconda tra quelle (in verità non molte) che hanno arato questo campo d’indagine2. Una voce da cui si può dissentire, ma della quale è impossibile non tenere conto e da cui, certamente, non si cessa mai d’imparare e di essere affascinati. A questo pensavo mentre rileggevo, per l’ennesima volta, l’ottimo volume che l’insigne studioso barese dedicò un decennio fa a Piero Calamandrei e “la procedura civile” (ossia, con le parole dello stesso autore, a uno dei “Padri della nostra disciplina”)3. Un libro notevolissimo ed assai apprezzato, nel quale, tuttavia, l’autore giunge (talora) a conclusioni che importanti voci dottrinali non reputano – per me, giustamente – condivisibili4; un’opera che si caratterizza, se valutata nel suo complesso, per offrirci un ritratto del maestro

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A Franco Cipriani (Bari, 8 novembre 1939 - ivi, 27 aprile 2010) – uno dei più insigni processualisti della sua generazione e, fra l’altro, fondatore della rivista “Il giusto processo civile” – sono stati dedicati, dopo la morte, due volumi che testimoniano non solo l’affetto di chi lo ha conosciuto, ma anche la traccia lasciata come studioso: il primo (Aa.Vv., In ricordo di Franco Cipriani, a cura di Angiola Filipponio e Vincenzo Garofoli, Milano, 2010) è una silloge di studi in materie penalistiche, preceduta da un saggio dello stesso Cipriani (Una nuova interpretazione di Calamandrei, ivi, 1-14) e da una commossa presentazione della Filpponio (La promessa di Franco Cipriani, ivi, VII - VIII); l’altro (Aa.Vv., Sull’unità della giurisdizione. In ricordo di Franco Cipriani, Napoli, 2011) raccoglie i contributi di una giornata di studio tenutasi a Benevento il 19 maggio 2010 (evento che, essendo caduto a pochi giorni dalla scomparsa dello studioso barese, fu a lui dedicato). Per informazioni biografiche (e bibliografiche), vedi Balena, Cipriani, Franco, in Aa,.Vv., Dizionario Biografico dei giuristi italiani (XII – XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A Mattone, M.N. Miletti, I, Bologna, 2013, 549 s.; Proto Pisani, Ricordando Franco Cipriani, in Foro it., 2010, V, 137 ss.; Punzi, E.F. Ricci, Franco Cipriani, in Riv. dir. proc., 2010, 909 s.; Carpi, Franco Cipriani, in Riv. trim dir. proc. civ., 2010, 875 s.; Balena, In memoria di Franco Cipriani, in La previdenza forense, 2010, 100 ss. 2 Come noto, nell’ampia produzione scientifica di Franco Cipriani “si possono distinguere due linee ispiratrici”: la prima “prevalentemente dedicata all’analisi del diritto positivo”, l’altra, invece, rivolta “alla storia recente del processo civile, della relativa dottrina, della personalità dei suoi maggiori maestri” (Punzi, E.F. Ricci, Franco Cipriani, cit., 909). A questi principali filoni d’indagine va poi aggiunto quello, pure importante, sull’avvocatura e l’ordinamento giudiziario (Balena, Cipriani, Franco, cit., 550). Limitando qui l’attenzione alle ricerche di tipo “storico”, rammento che esse si concretarono, a partire dal 1989 (Tommaso Siciliani tra Mortara e Chiovenda, saggio all’epoca inedito e poi pubblicato in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 381 ss.), in una moltitudine di scritti e, in particolare, nei due volumi Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991 e Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti, Napoli, 1992, nonché in tre successive raccolte di saggi (Ideologie e modelli del processo civile, Napoli, 1997; Scritti in onore dei Patres, cit.; Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli, [1ª ed, 2007 e 2ª ed., 2009]) e, infine, in una quarta antologia dal titolo Il processo civile nello Stato democratico, Napoli, 2006 (ricorda Balena, op. ult. cit., 550, che “molti di questi saggi furono tradotti in lingua spagnola e pubblicati in Perù col significativo titolo Batallas por la justicia civil, Lima, 2003). 3 Mi riferisco, ovviamente, a Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., Napoli, 2009, spec. 11 (la prima edizione di tale volume, come detto supra alla nota 2, fu pubblicata, sempre per i tipi delle “Edizioni Scientifiche Italiane” di Napoli, nel 2007). 4 Così – vuoi occupandosi dell’opera evocata nel testo, vuoi, talvolta, di altri scritti (precedenti o coevi) in cui Cipriani anticipava o ribadiva in tutto o in parte il ritratto di Calamandrei tracciato nella monografia a lui dedicata – vedi, in particolare, E.F. Ricci, Chiovenda, Calamandrei e noi (riflessioni su un libro di Franco Cipriani), in Riv. dir. proc., 2007, 1247 ss.; Cavallone, «Peggio per te, che sei un postero!» (A proposito degli «Scritti in onore dei Patres» di Franco Cipriani, ivi, 2007, 909 ss.; Consolo, Un ondivago Calamandrei, qui fra Lessona e Mortara sulla Cassazione unificata a Roma, e in prospettiva su quant’altro … uno «strano» allievo poiché senza «osservanza», in Riv. dir. proc., 2008, 1319 ss.; Gambaro, Recensione a Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, in Quadrimestre, 1992, 227 ss., spec. 231 s. (in questo caso, il recensore esprime il proprio dissenso con riferimento a un’opinione di Cipriani poi riproposta nel volume del 2009 di cui alla nota precedente).

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fiorentino ingeneroso5 6 e in definitiva, come da altri osservato, “non con sicurezza […] appieno realistic[o]”7. Ora se è vero che gli uomini come Calamandrei, che hanno fatto la storia (nella specie, direi, soprattutto delle idee), espongono i “posteri” a due opposte tentazioni, l’agiografia (o l’apologia) e la dissacrazione (entrambe fatalmente destinate a offrire un’immagine parziale, a volte addirittura inesatta, di un certo personaggio), è indubbio che Cipriani abbia privilegiato la seconda prospettiva, ossia quella della “demitizzazione”8, con esiti, peraltro, che lasciano in certi casi perplessi (e ciò, nonostante egli costruisca le sue tesi, “utilizzando anche gli strumenti dello storico di professione”, su una formidabile base documentale ed archivistica, rafforzata da una capacità dialettica e argomentativa quasi ipnotica, da un’inesauribile e travolgente verve polemica). Non si vuole, sia ben chiaro, attribuire a Cipriani un approccio pregiudizialmente avverso nei confronti di Calamandrei o l’intento di svolgere un’indagine “a tesi” sul ruolo che costui ricoprì nella storia della nostra materia, bensì esprimere disaccordo col risultato di alcune sue scelte interpretative (a proposito delle quali, egli invocava, scherzosamente, il titolo di uno scritto di Satta, secondo cui Calamandrei dovrebbe essere, appunto, “interpretato”)9 a mio parere azzardate, laddove attribuiscono assertivamente (ma deduttivamente) al maestro fiorentino obiettivi, arrière-pensées e sentimenti in palese contrasto

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Sul punto occorre intendersi. Il ritratto è da considerare ingeneroso per chi ritiene, come me (ma suppongo di non essere solo), che - nella scivolosa distinzione fra bene e male - la dissimulazione, l’opacità dell’agire, la doppiezza, il rancore, lo spirito di vendetta, appartengano alla seconda categoria. In realtà Cipriani, e lo vedremo, si muove su un piano diverso, in cui non sembrano trovare spazio giudizi morali e dove, comunque, tali comportamenti non assumono necessariamente valenza negativa, ma sono considerati con un certo disincanto (a volte, direi, quasi con simpatia e apprezzamento: in tal senso vedi specialmente la lettera scritta da Cipriani a Mauro Cappelletti nell’aprile del 1992 e pubblicata in Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 288 s.), quali inevitabili ingredienti delle relazioni umane. 6 In proposito, Gambaro, Recensione, cit., 231, scrivendo con riferimento al volume del 1991 (Storie di processualisti e di oligarchi, cit.) in cui Cipriani proponeva alcune delle tesi su Calamandrei che, successivamente, avrebbe ribadito nel libro del 2009 (Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª, cit.), osservava come sia lo studioso fiorentino sia Carnelutti ne uscissero “malconci”. 7 Vedi Consolo, Un ondivago Calamandrei, cit., 1320; Da ultimo, sempre Consolo, Il codice processuale civile italiano del 1940 frutto di una preziosa stagione di scienza e di pratica, in Il giusto processo civile, 2018, 955 ss., spec. 956, definisce “iperrealiste” alcune delle conclusioni cui giungeva Cipriani nei suoi “studi” (peraltro “fondamentali”) sulla figura di Calamandrei. 8 L’espressione è di Proto Pisani, Ricordando Franco Cipriani, cit., 138 (da cui è tratto anche il prossimo virgolettato), secondo il quale dall’opera dello studioso barese emergerebbe “la demitizzazione di Piero Calamandrei come campione dell’antifascismo” [mio il corsivo]: di tale aspetto non intendo occuparmi in queste pagine, destinate solo a una breve riflessione sui rapporti tra lo studioso fiorentino e Chiovenda (e tuttavia premesso che, a mio parere, non è seriamente discutibile la “viscerale” e “integrale” ostilità di Calamandrei nei confronti del regime [così, Luzzatto, Introduzione, in Calamandrei, Uomini e città della resistenza, Bari, 2006, XIII, XIV], ricorderei che fu comunque lui stesso – paragonando la propria esperienza personale a quella di coloro che, durante l’infausto ventennio, furono “costretti dalle persecuzioni politiche o razziali a rifugiarsi all’estero per meglio combattere” la dittatura – a definirsi (con parole che in fondo potrebbero chiudere la “trita” polemica evocata da Proto Pisani) un’antifascista “non eroico, ma onesto”, che continuò ad “occupare la […] cattedra di procedura civile vinta per concorso fino dal 1915”, senza mai “prendere” o “chiedere” la tessera fino al crollo del fascismo (Calamandrei, Lettera a Luigi Preti del 14 febbraio 1955, in Calamandrei, Lettere (1915-1956), a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, II, Firenze, 1968, 446 ss., spec. 449). 9 Lo scritto de quo è Satta, Interpretazione di Calamandrei, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, 478 ss. Il monito di Satta è ricordato da Cipriani in più di un’occasione: vedi, per esempio, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 225; Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 24; Una nuova interpretazione di Calamandrei, in Aa.Vv., In ricordo di Franco Cipriani, cit., 1 ss., spec. 13. Che il richiamo allo scritto di Satta vada inteso in senso scherzoso (altrimenti sarebbe del tutto improprio), deriva dal fatto che, ovviamente, l’«interpretazione» evocata dallo studioso sardo si riferiva al pensiero e all’opera scientifica di Calamandrei, ma non certamente ai suoi comportamenti.

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con quanto egli scrisse e ribadì per decenni; una contraddizione, lo vedremo, che Cipriani non nega affatto, ma che spiega imputandola a una pretesa e spiccata capacità di “dissimulazione” di Calamandrei10, un tratto caratteriale che – sempre per lo studioso barese – offrirebbe la chiave di lettura per comprendere alcuni snodi fondamentali nella vita pubblica dell’illustre personaggio (vuoi in ambito scientifico e accademico, vuoi a fianco del legislatore nella fase finale della gestazione del codice di rito del 1940/42)11.

2. I rapporti fra Calamandrei e Chiovenda nell’interpretazione di Cipriani.

In particolare, tra le “ricostruzioni” di Cipriani che hanno suscitato maggiore dubbi, vi è quella dei rapporti tra Calamandrei e Chiovenda. Segnatamente, secondo lo scrittore barese (di cui riporterò fra virgolette le testuali parole), Calamandrei sarebbe stato “il più grande avversario di Chiovenda”12, così che i vari scritti “apologetici” che il primo dedicò al secondo tra il 1923 e il 1937 – scritti che avrebbero contribuito in modo determinante a costruire il “mito” del maestro di Premosello13 – sarebbero state in realtà “canzonature”14, o meglio “elogi solo apparenti”, con i quali Calamandrei “attaccava” e “strumentalizzava” il destinatario15; tali burle, peraltro, mentre in un primo momento – sostiene ancora Cipriani - sarebbero state finalizzate a colpire Chiovenda (e, in un caso, pure Lodovico Mortara)16, a partire dal 1927 avrebbero perseguito uno scopo diverso (e, a ben vedere, più impegnativo), ossia combattere Carnelutti per “impedirgli di diventare il dominus assoluto e incontrastabile della nostra materia”17.

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Quella “dissimulazione” che Cipriani non giudica negativamente, ma considera anzi “l’arma dei forti e dei grandi” (evocando, al riguardo, il volume di Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, 1987) e, dunque, tutt’altra cosa rispetto alla “volgare menzogna” (Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 29, alla nota 47). 11 Vicende che Cipriani trattò diffusamente soprattutto nel volume Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., passim, ma sulle quali ritornò, da ultimo, pure nel saggio Una nuova interpretazione di Calamandrei, cit. (un lavoro, quest’ultimo, pubblicato postumo e che, per la particolare collocazione editoriale, mi pare non sia molto noto). 12 Così, Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 89. 13 Scritti che sono stati esaminati, con la consueta attenzione, da Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., spec. 17-89. 14 Vedi Cipriani, La consulenza tecnica e i doni natalizi di Piero Calamandrei, in Giusto proc. civ., 2009, 143 ss., spec. 147 (nonché in Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 239 ss.); Id., Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 8. 15 Ancora Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 12. 16 Sempre secondo Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 33 ss., spec. 39, Mortara sarebbe stato il vero bersaglio di Calamandrei nell’articolo-recensione La terza edizione dei “Principii” di Giuseppe Chiovenda, in Arch. giur., 1924, 221 ss. (lavoro, pure questo, che appartiene al novero di quelli con cui lo studioso fiorentino creò il “mito” di Chiovenda). 17 Di nuovo Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 44. Sempre, secondo lo studioso barese, in seguito (p. es., nel 1937) Calamandrei, elogiando Chiovenda, non avrebbe più combattuto, ma – meno muscolarmente – “punzecchiato” Carnelutti (“che credeva di essere lui il nostro maestro”): Cipriani, La scomparsa di Carlo Lessona e La Cassazione di Piero Calamandrei (le acrobatiche piroette di uno scolaro che non dimentica), in Giusto proc. civ., 2008, 3 ss., spec. 6.

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Ora, per quanto Cipriani si astenga da ogni giudizio morale negativo e mostri, anzi, di apprezzare l’astuzia e la “sottigliezza” di Calamandrei18, la raffigurazione che fornisce di quest’ultimo risulta certamente poco lusinghiera (almeno, l’ho accennato, per chi reputa virtù la sincerità e la limpidezza dell’agire)19 e, soprattutto, colloca i rapporti tra lo studioso fiorentino e Chiovenda in una luce completamente diversa da quella tradizionale o “classica”, secondo cui, invece, il primo sarebbe stato un affezionato “discepolo” del secondo (o meglio, che “Calamandrei pur essendo allievo di Lessona rimase subito affascinato dal metodo di Chiovenda”)20. Non stupisce, quindi, che l’ipotesi interpretativa di Cipriani abbia suscitato il dissenso di vari studiosi i quali - pur non considerando, nel dettaglio, l’ampio materiale scrutinato dal processualista barese – si sono domandati, ad esempio, “perché non credere a Calamandrei sulla parola, quando dice di Chiovenda quello che ci ha tramandato?”, perché non credere alla “sincerità delle [sue] parole” e della sua “ammirazione” e, dunque, per quale motivo ritenere che egli non dica il vero quando – “pure [avendo] studiato con Lessona indica in Chiovenda il vero maestro dal punto di vista scientifico”, collocando “se stesso nell’alveo chiovendiano”21. Osservazioni sulle quali concordo e vorrei approfondire, in quanto ritengo - a fronte dell’estesissima, appassionata e minuziosa indagine svolta da Cipriani22 – che sia opportuno rimeditare alcune delle conclusioni cui egli giunse: non per il piacere della polemica, ma, richiamando il titolo del saggio in cui Jacques Derrida fece i conti con Sigmund Freud23, per “essere giusti con Calamandrei”, ovvero, in questo caso, per porre nella prospettiva più corretta i rapporti tra costui e il fondatore della nostra scienza processualcivilistica.

3. Segue: … obiezioni. Una prima considerazione di ordine generale: a me sembra che il metodo presuntivo, quando utilizzato - come fa talora Cipriani - per ricavare da fatti noti i sentimenti e le emozioni delle persone, le “vere” ragioni” del loro agire, esiga particolare cautela. Si tratta,

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Così, Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 28. Vedi anche, in tal senso e molto significativamente, la lettera (già ricordata supra alla nota 5) che Cipriani scrisse a Mauro Cappelletti nella primavera del 1992 e pubblicata in Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 288 s.). 19 Vedi supra alla nota 5. 20 Il virgolettato è di Gambaro, Recensione, cit., 232. 21 Sono parole di E.F. Ricci, Chiovenda, Calamandrei e noi (riflessioni su un libro di Franco Cipriani), cit., 1250. 22 In questa prospettiva, con riferimento a un precedente volume di Cipriani (Storie di processualisti e di oligarchi, cit.) – forse il più noto tra quelli “storici” scritti dallo studioso barese – si era parlato, giudizio da ribadire senz’altro anche per il libro su Calamandrei, di un “lavoro di scavo” e “pervaso da passione documentaristica” (Gambaro, Recensione, cit., 228. 23 Derrida, “Essere giusti con Freud”, Milano, 1994. La frase “essere giusti con Freud”, che dà il titolo a questo saggio, è presa da Michel Foucault, il quale l’aveva scritta nella sua celebre Storia della follia nell’età classica (Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, 1ª ed., Parigi, 1961, ripubblicata nel 1972, in una seconda edizione, da Gallimard, col più breve titolo di Histoire de la folie à l’âge classique; in Italia la prima traduzione comparve nel 1963 per i tipi della Rizzoli, nella collana BUR).

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infatti, di contesti in cui le regole sono sfumate e conoscono, comunque, frequenti eccezioni, con l’impossibilità (o l’estrema difficoltà) di giungere a conclusioni certe: non è raro il caso di persone che nutrano affetto o stima intellettuale verso chi le ha “maltrattate” per una vita intera, così come, di contro, alcuni coltivano avversioni inestinguibili e malevole apparentemente inspiegabili, che affondano le radici in piccoli sgarbi, in dettagli, in ricordi sgradevoli o penosi. Insomma, per quanto sia banale ricordarlo, le reazioni emotive sono spesso difficilmente intellegibili o prevedibili e, d’altra parte, le relazioni personali possono conoscere litigi, ma anche inattese riconciliazioni, svolte improvvise, esitazioni, scarti più o meno manifesti (anche negli «odiatori» apparentemente più determinati), che suggeriscono prudenza nel “dedurre” che a fronte di un certo comportamento di Tizio, Caio non potesse che reagire in un determinato modo (e che tale reazione si sarebbe protratta, implacabile, per un’esistenza intera)24. La seconda osservazione, pure di carattere (se si vuole) metodologico, è che quando una risposta appare evidente, non sempre svalutarla o demolirla per sostenere quella che, a prima vista, risulta meno probabile, contribuisce a una corretta ricostruzione dei fatti. Sovente, infatti, la soluzione giusta è proprio quella maestra, che abbiamo sotto gli occhi, mentre, di contro, battere strade alternative, benché intellettualmente accattivante, può essere meno proficuo25.

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Queste osservazioni – laddove segnalano le insidie che presenta un’indagine volta a ricostruire le “ragioni” intime dei protagonisti delle vicende in esame – trovano un’eco, direi, sia nelle parole di Gambaro, Recensione, cit., 234 s., il quale osservava, riguardo al metodo largamente utilizzato da Cipriani (nel caso con riferimento “al disegno di riforma del processo civile di cui si fece banditore [nei primi decenni del secolo scorso]”), che “in fondo una ricerca delle motivazioni psicologiche dei protagonisti del dibattito sulle riforme è utile e godibile solo se viene colta nei suoi limiti”, aggiungendo che fra questi ultimi “il principale serve a separare in modo reciso la valutazione del prodotto da quella delle sue cause”, sia ancora in quelle di Consolo, Un ondivago Calamandrei, cit., 1322, laddove ammonisce su quanto siano “intimi e insondabili” i rapporti “maestro-allievo” e, quindi, aggiungerei (quanto alle relazioni tra Lessona e Calamandrei e, poi, fra quest’ultimo, in qualità di discepolo “acquisito”, e Chiovenda), difficili da interpretare. 25 Faccio un esempio. Cipriani ricorda che la “Prefazione” di Chiovenda alla terza edizione del Trattato di Carlo Lessona, originariamente destinata al V e ultimo volume dell’opera, “fu subito posticciamente inserita nel III [edito nel 1922]” (Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 22; in tal senso depone l’incipit della Prefazione stessa [datata Roma, 8 luglio 1922], “Con la pubblicazione del presente volume si completa la terza edizione del Trattato delle prove di Carlo Lessona […]”, parole dalle quali si evince che Chiovenda la scrisse pensando, appunto, che sarebbe stata apposta al volume conclusivo dell’opera [vedi Chiovenda, Prefazione, in C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, III e V, a cura di S. Lessona, Firenze, 1922-1924, 3 s.; tale prefazione si può anche leggere per esteso in Calamandrei, Recensione a Lessona, Trattato delle prove in materia civile, in Arch. giur., 1923, 242 ss., spec. 242 s.]). Ebbene quest’anticipazione [vuoi dovuta al fatto che all’epoca il V volume non sarebbe stato ancora pronto (Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 223), vuoi frutto, invece, di una scelta editoriale (come sostiene, “re melius perpensa”, lo stesso Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 22, alla nota 21)], suggerirebbe immediatamente due (ovvie) spiegazioni: la prima è che chi l’aveva richiesta (pare Silvio Lessona, figlio di Carlo, forse dopo avere consultato Calamandrei) la considerasse elogiativa del Trattato e del suo autore e, dunque, avesse premura di divulgarla; l’altra è che, così facendo, il committente si volesse ingraziare l’illustre prefatore, dimostrando apprezzamento per quanto aveva scritto. Secondo Cipriani, invece, la risposta sarebbe “molto probabilmente” un’altra, ossia che “il frettoloso, posticcio ed «entusiastico» inserimento della prefazione nel III vol., [facesse] parte della studiatissima e agghiacciante difesa” (Cipriani, op. ult. cit., 28) che Calamandrei – ritenendo le parole di Chiovenda lesive della memoria di Lessona – avrebbe successivamente svolto in un articolo-recensione del 1923 (di cui parlerò subito nel testo: Calamandrei, Recensione a Lessona, Trattato delle prove in materia civile, cit. in questa stessa nota), scritto nel quale lo studioso fiorentino avrebbe sferrato (camuffandolo come elogio) un durissimo attacco, condito di veri e propri insulti, a Chiovenda stesso (sul punto ritornerò diffusamente tra breve).

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Se dunque, per esempio, si ammettesse anche – come asserisce Cipriani – che Chiovenda e Carlo Lessona fossero “acerrimi avversari”26 (affermazione peraltro, dalla quale, se espressa in termini così perentori, dissento)27, direi proprio che ricavarne con certezza (i.e. “dedurne”) il corollario per cui Calamandrei, in quanto allievo del secondo, ne avrebbe tratto motivo di eterna ostilità verso il primo, appare azzardato. A prescindere, infatti, che un’ipotetica (ma, per me, decisamente non credibile) avversione “personale” o umana di Calamandrei verso Chiovenda28, non escluderebbe affatto che l’illustre fiorentino (come tanti, del resto) subisse nel contempo l’indiscutibile “fascino scientifico” del pensiero e del metodo dell’altro (del quale, già alla fine del 1914 e poi l’anno successivo, aveva frequentato lo studio romano e la biblioteca, grazie a “un assegno di perfezionamento”)29, comunque le “prove” che lo studioso barese adduce a sostegno della propria tesi appaiono “indiziarie” e, in definitiva, poco convincenti. Cominciamo dalla prova “regina” della pretesa ostilità di Calamandrei verso Chiovenda, ossia dalla Recensione che il primo pubblicò, nell’aprile del 192330, al terzo volume della terza edizione del Trattato delle prove in materia civile di Lessona31, Recensione in cui Calamandrei – oltre a occuparsi dell’opera de qua – si dilungò pure sulla Prefazione scritta l’anno precedente da Chiovenda e inserita, in tutta fretta, nell’opera recensita (come ho già ricordato supra alla nota 25). Ebbene, secondo Cipriani, tale Recensione sarebbe stata l’opportunità (melius, il pretesto) che Calamandrei sfruttò per attaccare frontalmente lo

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La definizione è di Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 28. Come accennato, pure io sarei propenso a ritenere che Lessona non nutrisse particolare simpatia scientifica (o personale) per Chiovenda (dal quale, tra l’altro, fu sconfitto nel concorso del 1904/1905 per la cattedra di procedura civile nell’Università di Napoli: su questo e, più in generale, sui rapporti tra i due illustri studiosi, vedi Cipriani, Le peripezie di Carlo Lessona tra Mortara, Chiovenda e Calamandrei, in Riv. dir. proc., 1991, 754 ss., spec., quanto al concorso poc’anzi evocato, 764 ss. [questo saggio si può leggere anche in Cipriani, Scritti in onore dei Patres, cit., 145 ss.]), ma, diversamente da quanto sembra suggerire Cipriani, non parlerei di un’avversione così aspra, personale e totalizzante (e in questo senso, la “greve” lettera del 7 giugno 1912 indirizzata dal primo al secondo – vedi Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 167; Id., Le peripezie di Carlo Lessona tra Mortara, Chiovenda e Calamandrei, cit., 767; Id., Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 63 s. – potrebbe essere interpretata come uno “sfogo” estemporaneo, forse più uno scherzo “goliardico”, che la manifestazione di un odio inestinguibile); e, ancora, dissentirei soprattutto dallo studioso barese, laddove, se ben intendo (ma potrei sbagliare), dà per certo che tali sentimenti di “inimicizia” fossero ricambiati da Chiovenda. 28 Di questa avversione – come si è detto e si ribadirà – a me non pare davvero di trovare traccia in alcuno degli scritti che Calamandrei dedicò a Chiovenda nel corso di vari decenni. 29 Così, Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., 18 s. Dunque, i rapporti fra Chiovenda e Calamandrei s’instaurarono due anni dopo che quest’ultimo si era laureato a Pisa con Carlo Lessona (1 luglio 1912), discutendo una tesi sulla chiamata in garanzia, dissertazione che l’anno successivo diventò un libro (Calamandrei, La chiamata in garanzia, Milano, 1913): racconta Giuseppe Pera che, alcuni decenni dopo (precisamente nei primi anni Cinquanta), Calamandrei avrebbe “rinnegato” questa sua monografia giovanile, definendola – in un colloquio col futuro giuslavorista – una “schifezza” che Lessona volle “far[gli] pubblicare a tutti i costi” (Intervista a Giuseppe Pera, a cura di P. Ichino, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, 107 ss., spec. 120). 30 Vedi Calamandrei, Recensione a Lessona, Trattato delle prove in materia civile, cit., 242 ss. Su tale recensione, vedi diffusamente Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 22 ss. 31 Si trattava, precisamente, della terza edizione del Trattato: come ricorda Cipriani (Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 20), poiché Carlo Lessona “era deceduto [il 16 aprile 1919 a Firenze] lasciando il lavoro a metà”, “per completarlo, bisognava aggiornare il III e il V volume, che uscirono postumi, il III nel 1922 [ergo, l’anno prima che fosse pubblicata la Recensione di Calamandrei], il V nel 1924, entrambi a cura del figlio Silvio, allora libero docente di amministrativo nell’Università di Pisa”. Riassumendo, dunque, i cinque volumi della terza edizione del Trattato delle prove in materia civile, furono pubblicati – tutti per i tipi dell’editore fiorentino Cammelli – rispettivamente nel 1914, 1915, 1922, 1916 e 1924 (e, ripeto, i volumi I, II e IV quando era ancora vivo l’autore, mentre il III e il V, dopo la sua morte). 27

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studioso di Premosello, reo quest’ultimo - sempre nella ricostruzione proposta da Cipriani – di avere affermato nella Prefazione cose false e lesive del prestigio scientifico di Lessona32. In particolare, sostiene Cipriani33, Calamandrei si sarebbe riferito proprio a Chiovenda – seppure obliquamente, ossia guardandosi bene dall’indicarlo come destinatario dei suoi strali, ma, al contrario, ringraziandolo per le parole dedicate a Lessona - laddove evocava, in diversi passi di questi scritto, l’innominata figura di un “inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi”, “piccolo detrattore [di Lessona], “gretto erudito”, “sterile traduttore”, “classificatore delle idee altrui”. Ora l’identificazione di Chiovenda quale bersaglio degli “insulti” di Calamandrei contenuti nella Recensione del 1923 – già da altri smentita34 o ritenuta dubbia35 – risulta, a mio sommesso avviso, del tutto inverosimile. In primo luogo, essa appare incoerente con la lettera e la logica della Recensione stessa. Scriveva infatti Calamandrei, in un passo di quest’ultima, che “la limpida ed affettuosa prefazione, dovuta alla penna di Giuseppe Chiovenda, […] costituisce una generosa e nobile rivendicazione del valore di Carlo Lessona come scienziato, contro la balorda indifferenza ostentata verso l’opera sua da qualche inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi”36. In altre parole – se si aderisse all’interpretazione proposta da Cipriani – Calamandrei avrebbe scritto che Chiovenda con la sua Prefazione37 si era fatto vindice della memoria e della dignità scientifica di Lessona per l’indifferenza manifestata verso quest’ultimo … da Chiovenda stesso!38 Un pasticcio argomentativo, inimmaginabile per una penna raffinata e acuta come quella di Calamandrei39 e che, inoltre – se l’intento fosse stato veramente quello di

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Anche su questo punto – come spiegherò infra alla nota 40 – non concordo con l’opinione di Cipriani. Vedi soprattutto, Cipriani, Le peripezie, cit., 778 ss., spec. 781; in proposito, vedi anche Id., Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 22 ss., spec. 29 s.; Id. Storie di processualisti e oligarchi, cit., 224 ss., spec. 230 (in queste ultime due opere, diversamente che nella prima, tale identificazione è prospettata ancora come attendibile, ma non certa [in effetti, proprio con riferimento all’ultimo lavoro citato, vi è chi sostiene invece – Gambaro, Recensione, cit., 231 s. – che l’identificazione de qua sarebbe stata prospettata “con aperta titubanza”: a me pare, tuttavia, che Cipriani, pure in queste occasioni, volesse fare intendere che la sua interpretazione sia decisamente verosimile]). 34 Mi riferisco a Mauro Cappelletti, il quale – in una conversazione con Cipriani dell’inizio 1992 – avrebbe ipotizzato che “in quella recensione [Calamandrei] ce l’aveva con [Emilio] Betti” (Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 29, 288 s., ed ivi la replica a quest’individuazione). 35 È l’opinione di Gambaro, Recensione, cit., 231 s. 36 Sono parole di Calamandrei, Recensione a Lessona, Trattato delle prove in materia civile, cit., 242. 37 Prefazione che Calamandrei affermava (nella Recensione evocata nella nota precedente, passim) di apprezzare assai e della quale ringraziava Chiovenda, ma che invece – secondo la lettura proposta da Cipriani (Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 20 ss.; Le peripezie, cit., 778 ss.) – avrebbe in realtà considerato offensiva della memoria di Lessona (per una critica a quest’interpretazione, nel senso che non ritengo affatto che la Prefazione di Chiovenda fosse ingenerosa con Lessona, né penso che tale fosse l’opinione di Calamandrei, vedi infra alla nota 40). 38 Analogamente, Calamandrei prima rende merito a Chiovenda di avere dimostrato “col suo luminoso esempio” che “«il bagno di germanesimo», anziché fine a se stesso, debba essere soltanto il mezzo e lo stimolo per creare anche negli studi processuali una scuola sanamente e consapevolmente italiana”, e poi – sempre secondo l’interpretazione suggerita da Cipriani – affibbierebbe a Chiovenda stesso l’etichetta di “sterile traduttor[e] e classificator[e] di idee altrui”: la contraddizione è evidente, uno gnommero tanto incomprensibile quanto francamente improbabile. 39 Come ricorda, da ultimo, Cavallone, Calamandrei antifemminista? (il mistero di una fiaba scomparsa), in Riv. dir. proc., 2018, 1525 ss., spec. 1526, “tutti gli scritti di Calamandrei, da quelli più rigorosamente processualistici a quelli di carattere politico, storico o sociologico, hanno connotazioni e pregi stilistici ed estetici solitamente riservati alla miglior prosa stricto sensu letteraria”. E del resto, le doti di grande scrittore di Calamandrei appartengono, e non da oggi, al notorio (al riguardo, vedi, per esempio, Cipriani, Piero 33

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attaccare Chiovenda – avrebbe reso assolutamente non intellegibile il destinatario dei suoi strali (e, infatti, fino all’interpretazione suggerita da Cipriani, nessuno mai pensò che il bersaglio potesse essere lo studioso di Premosello). Vero è invece, a mio parere, che come la Prefazione di Chiovenda non fu affatto ingenerosa con Lessona40 41, così la Recensione di Calamandrei non intendeva essere un attacco rivolto a quest’ultimo, bensì riunire in unico elogio il maestro dell’illustre fiorentino e colui che egli considerava, per autorevolezza e merito, al vertice della nostra disciplina. Ma soprattutto, se si guarda all’opera scientifica di Calamandrei, è davvero pensabile che “il piccolo [e sottolineo piccolo!] detrattore” di Lessona, l’“inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi” fosse lo stesso Chiovenda del quale, solo tre anni prima, Calamandrei – scrivendone nella sua celebre monografia sulla Cassazione civile – diceva meraviglie, affermando che “non sono pochi gli argomenti processuali in cui [egli] ha portato per il primo, con metodi nuovi e con vedute originali, che hanno segnato l’inizio di una nuova fase per i nostri studî, chiarezza di idee in questioni fino a quel momento confuse”42, dialogando con le sue costruzioni concettuali43 menzionandone la “consueta profondità”44, riconoscendone l’“autorevolezza”?45 E, allora, è mai plausibile che lo studioso fiorentino, sollecitato dalle pagine scritte da Chiovenda su Lessona (pagine che comunque – lo ribadisco – non riesco in alcun modo a “interpretare” come offensive o provocatorie), avesse

Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 34 s., e ancor prima Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, spec. 2 s. 40 Rileggendo questa Prefazione, infatti, se è pur vero che Chiovenda sembra probabilmente sopravvalutare (ma è difficile pensare che inventi dal nulla) l’apprezzamento di Lessona nei confronti delle sue idee e della sua scuola, certamente non dice (né pare suggerire) che quest’ultimo “si riconosceva inferiore a lui” (come sostiene, invece Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 27), ma, soprattutto, lo studioso di Premosello è prodigo di complimenti ed elogi verso l’autore del Trattato, evocandone “il nobile ingegno”, la “somma diligenza”, la “sagacia”, la “genialità di spirito”, la “varia cultura” e, in particolare, definendolo “un maestro nel più pieno senso della parola”, dalla cui scuola “è uscito qualcuno dei migliori fra i nostri giovani processualisti” (e qui il riferimento era senz’altro a Calamandrei, che non poteva non apprezzare). E direi, inoltre, che tali lodi dovettero fare ancora più piacere allo stesso Calamandrei e a Silvio Lessona (figlio di Carlo), considerato invece lo “sgarbo” (questo sì, indiscutibile) fatto a Lessona, più di un decennio prima, da Alfredo Rocco (La scienza del diritto privato in Italia negli ultimi cinquant’anni, in Riv. dir. comm., 1911, I, 285 ss., spec. 302 s.), il quale non lo aveva menzionato tra i più autorevoli studiosi del processo civile nell’ambito di una “rassegna che riassumeva i progressi fatti dalla nostra scienza del diritto privato nel primo cinquantennio dell’unificazione nazionale” (Calamandrei, Recensione, cit., 244, il quale ricordava come tale dimenticanza avesse [comprensibilmente] amareggiato Lessona; in particolare, gli studiosi ricordati da Rocco erano, nell’ordine, Mortara, Castellari, Chiovenda, Cammeo, e Menestrina (nonché, con varietà di giudizi, i più risalenti, A. Scialoja, Mancini, Pisanelli, Pescatore, Viti e Mattirolo). Infine, è da segnalare la chiusura della Prefazione, ove Chiovenda afferma “m’è di conforto porre su questo volume il mio nome accanto al Suo [di Lessona], a testimonianza dell’amicizia e della stima ch’ebbi per Lui, e a dimostrazione d’un rimpianto che non cesserà in me se non colla vita [miei i corsivi]”: ebbene, è davvero arduo intravedere in queste parole (al netto di una certa retorica espressiva) una manifestazione di ostilità verso il recensito (e dubito che i contemporanei, compreso Calamandrei, avrebbero potuto interpretarle in tal senso). 41 D’altra parte, se davvero Calamandrei riteneva che la Prefazione scritta da Chiovenda fosse offensiva di Lessona, per quale ragione l’avrebbe riprodotta per esteso nella sua Recensione del 1923, perché mai dare ulteriore pubblicità, divulgando anche fra i lettori dell’Archivio giuridico, a parole (ipoteticamente) ingenerose nei confronti del suo maestro? Non è molto più ragionevole (e piano) pensare che Calamandrei fece ciò perché, al contrario, era convinto che il ritratto dipinto da Chiovenda si risolvesse in un encomio, in una “rivalutazione” di Lessona, ossia di uno studioso che, da vivente, non tutti avevano saputo apprezzare come avrebbe meritato. 42 Così, Calamandrei, La Cassazione civile, II, Milano-Torino-Roma, 1920, 328 (ripubblicato in Id., Opere giuridiche, VII, Napoli, 1976, 3 ss.). 43 Vedi Calamandrei, La Cassazione civile, II, cit., 197, 205. 44 Ancora Calamandrei, La Cassazione civile, II, cit. 326. 45 Sempre Calamandrei, La Cassazione civile, II, cit., 180.

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cambiato radicalmente opinione, smentendo quanto lui stesso scriveva non molto tempo addietro? Non penso proprio, anche perché – al netto di ogni altra considerazione – sarebbe stato un atteggiamento “autolesionista”, che avrebbe esposto al dileggio nella comunità scientifica lo stesso Calamandrei (e, pertanto, un’eventualità incompatibile, in primis, con l’astuzia e la spregiudicatezza che Cipriani gli attribuisce). D’altra parte, a mio parere, sarà lo stesso Calamandrei, due anni dopo, a sciogliere ogni dubbio circa l’impossibilità di individuare in Chiovenda “il rimasticatore dei rimasugli tedeschi”: e lo farà, contrapponendo (contrapposizione che esclude, logicamente, una relazione d’identità) da un lato coloro ai quali, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, “bastava essere stati sei mesi in Germania e aver tradotto alla meglio – magari senza citar la fonte – dieci pagine di un autore tedesco, per ottenere una cattedra”, ossia quelli che lo studioso fiorentino definiva “tardigradi traduttori”, “lacchè del dottrinarismo tedesco” o “supini adoratori del verbo germanico” (in altre parole, “i rimasticatori dei rimasugli tedeschi” evocati nella Recensione del 1922), dall’altro, il maestro di Premosello il quale, nei suoi Prinicipii, aveva compiuto invece “con spirito critico una sistematica revisione di tutta la letteratura processualistica straniera”, “misurandone con serenità i valori”, “respingendo senza feticismo tutto quello che v’era di mediocre e di artificioso” e, infine, acquisendo “alla scienza italiana la parte più vitale e più sostanziosa di quelle teorie”46. La realtà, dunque, mi sembra ben diversa da quella descritta dallo studioso barese: sono fermamente persuaso, infatti, che Calamandrei non abbia mai voluto “canzonare” Chiovenda, ma che al contrario – a partire dalla fine degli anni Dieci del secolo scorso e, poi, per tutta la vita47 – le lodi che rivolse costantemente allo studioso di Premosello siano state frutto di una sincera e disinteressata convinzione48 (seppure, a volte, manifestate con un’enfasi che – giudicando con la sensibilità di oggi – potrebbe suonare eccessiva, ma che tale, comunque, non risultò ai suoi contemporanei)49.

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Così, Calamandrei, La terza edizione dei “Principii” di Giuseppe Chiovenda, cit., 225, ove si legge, a conferma di quanto si sostiene nel testo, che, mentre prima di Chiovenda, “fino a quando la scienza tedesca era in gran parte per gli studiosi italiani un libro chiuso, era lecito ad ogni principiante épater les bourgeois, gabellando come una grande scoperta qualsiasi imparaticcio di marca germanica, per merito di Chiovenda, la dottrina tedesca ha perduto per noi tutta la misteriosa seduzione delle cose malnote” e, dunque, “i Principii sono stati veramente un superamento della scienza germanica, indispensabile affinché la dottrina italiana potesse riprendere il proprio glorioso cammino e progredire con forme originali: essi, nella storia degli studi processualistici italiani, chiudono un’epoca e ne inaugurano un’altra”. 47 Lo stesso Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 342 s., nel testo e alla nota 104, sottolinea come gli scritti “apologetici” di Calamandrei su Chiovenda non conobbero soluzione di continuità, susseguendosi numerosi fino alla scomparsa dello studioso fiorentino, avvenuta nel settembre del 1956. 48 Notava al riguardo Jemolo, Commemorazione di Chiovenda, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, vol. XIV, fasc. 5-6, Roma, 1938, 629 ss., spec. 638 che dove [e quando] le “concezioni” di Chiovenda “hanno trionfato e prevalso, è stato in virtù della sua opera di scrittore, attraverso il convincimento sincero e disinteressato di studiosi e di magistrati [mio il corsivo]”. 49 E infatti lo stesso Cipriani (Storie di processualisti e di oligarchi, 335 s.; Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 48 s.) ammette che molti altri studiosi diedero “man forte” o “credettero” a Calamandrei nel consolidare il mito chiovendiano: fra questi, per esempio, i suoi allievi diretti [Segni, Recensione a Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), I, in Studi Sassaresi, serie II, vol. VIII, fasc. I-II, 1930, 83; Liebman, Recensione a Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), I, in Riv. int. fil. dir., 1931, 124 s.], ma anche Zanzucchi (Recensione a Chiovenda, Saggi di dritto processuale civile, I, in Riv. dir. comm., 1930, I, 769 s., il quale – pur essendosi formato allo studio del processo civile con Alfredo Rocco – apre questo scritto con le parole “Noi primi allievi di Giuseppe Chiovenda …”, confermando, così, che un’intera generazione di cultori della nostra disciplina riconosceva

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Calamandrei, quindi, non fu affatto “il principale avversario” di Chiovenda, ma credette fermamente, senza infingimenti o dissimulazioni, nella grandezza “scientifica” di costui, nell’importanza del suo pensiero e delle sue opere, nel profondo rinnovamento concettuale e metodologico che aveva determinato negli studi del processo civile50: e del resto, verrebbe ancora da domandarsi, se così non fosse stato – e, dunque, Calamandrei avesse considerato Chiovenda un “nemico” da combattere – per quale misterioso motivo (se non per affetto e/o rispetto) avrebbe spedito omaggi alla sua vedova quattro anni dopo la scomparsa 51, perché lo avrebbe elogiato nelle sue lettere private52, perché l’avrebbe accostato a Lessona, con l’etichetta di “grande giurista”, nel suo Diario (laddove non c’era alcun motivo di “fingere”, ergo in quelle pagine in cui sarebbe naturale trovare prove o tracce - di contro inesistenti – dell’asserita ostilità per lo studioso di Premosello e della, sempre asserita, malafede di Calamandrei nel costruirne il “mito”)?53 Come accennato all’inizio del precedente paragrafo, uno snodo fondamentale nella ricostruzione di Cipriani è che, dal 1927 in poi, il vero (e ben camuffato) fine della “monumentalizzazione” di Chiovenda attuata da Calamandrei sarebbe mutato: non più, dunque, “vendicare” la memoria di Lessona (e assecondare, insieme, una generica e nascosta “avversione” nei confronti dello studioso di Premosello), bensì evitare che Carnelutti diventasse il pontefice massimo della nostra disciplina.

in costui il comune maestro, concetto ribadito dallo stesso Zanzucchi alcune righe più avanti [770], definendo l’insigne ossolano “il primo in ordine di tempo [e] certamente il primo per merito fra i Maestri [dello studio del processo]”), e poi Satta, Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anniversario della sua morte, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, 443 ss., spec. 444, secondo cui Chiovenda “non fu soltanto un giurista e un maestro, fu soprattutto un fondatore”, opinione confermata nel saggio Satta, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, 28 ss., spec. 36 [ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., 100 ss.), ove etichettava lo studioso piemontese quale fondatore di una [nuova] “scienza del processo”], e ancora – e direi soprattutto – Carnelutti (Giuseppe Chiovenda, Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 212, anch’egli acclamando l’illustre ossolano “fondatore della nuova scuola processuale italiana”; v. pure Id., Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 297 ss., spec. 297; Id., Scuola italiana del processo, in Riv. dir. proc., 1947, I, 233 ss., spec. 239). D’altra parte, ricorderei anche che Chiovenda era definito “creatore in Italia della scienza processuale” nella breve scheda biografica contenute nel Nuovo Digesto italiano, opera la cui fortuna editoriale travalicava i confini accademici, rafforzando così il “mito” del maestro ossolano anche fra coloro (avvocati, magistrati) che non si occupavano elettivamente della nostra disciplina: Gabrieli, Chiovenda Giuseppe, in Nuovo Dig. it., III, Torino, 1938, 111 s.). 50 Al riguardo, mi premetto di rinviare alle considerazioni svolte in Vullo, Prima di Chiovenda: Giuseppe Pisanelli studioso del processo civile, in Giusto proc. civ., 2017, 605 ss., spec. 605-620, 642-645. 51 Proprio Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 265, ricorda che Calamandrei inviò in omaggio a Lina Chiovenda (vedova di Giuseppe), in occasione del Natale del 1941, una delle trecento copie della prima edizione del libro Inventario della casa di campagna, “stampata da Le Monnier, illustrata con xilografie di Pietro Parigi”. 52 Mi riferisco alla ben nota lettera che Calamandrei spedì a Robert Wyness Millar (scozzese di nascita [Falkrik, 10 aprile 1876], ma americano di adozione [nazione dove morì: Evanston, Illinois, 10 febbraio 1959] e, all’epoca, professore alla Northwestern University di Chicago), il 3 aprile del 1924, nella quale lo studioso fiorentino – dopo avere riconosciuto, peraltro, il sicuro “valore scientifico” dei lavori di Mattirolo e Mortara – affermava perentoriamente che “il maestro dei proceduristi italiani è oggi indubbiamente il Chiovenda, del quale, oltre i Saggi e i Nuovi Saggi, è specialmente conosciuta l’opera fondamentale Principii di diritto processuale civile, che sono il miglior trattato sistematico di procedura civile che abbiamo oggi in Italia [miei il primo e l’ultimo corsivo]”(vedi Calamandrei, Lettere 1915-1956, a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, I, Firenze, 1968, 201 ss., spec. 202. Ebbene, a me pare che già solo questa lettera (ricordata pure da Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 38, nel testo e alla nota 82), per il suo carattere sostanzialmente privato (nel senso che era destinata a restare conosciuta solo al mittente e al destinatario), dovrebbe sgombrare il campo sulla sincerità e la convinzione del ruolo che Calamandrei attribuiva a Chiovenda nel panorama degli studi processuali del nostro paese. 53 Vedi Calamandrei, Diario, 1939-1945, a cura di G. Agosti, I, Firenze, 1982, 377.

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Ora, non vi è dubbio che il rapporto fra Carnelutti e Calamandrei sia stato sempre conflittuale54 (e che il secondo, nel suo intimo, non nutrisse un’opinione positiva del primo)55, così come è certo che, tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, lo studioso friulano si avviasse a diventare il dominus della nostra materia, grazie alla sua formidabile produzione scientifica, alla direzione della Rivista di diritto processuale civile (della quale era stato il vero ideatore e artefice)56 e al prestigio acquisito patrocinando in celebri processi57 (circostanza, quest’ultima, che lo avrebbe reso, tra l’altro, il più “popolare” dei giuristi italiani del Novecento). Detto ciò, tuttavia, le conseguenze che Cipriani trae da questi postulati risultano francamente poco attendibili, non dimostrate (e, comunque, difficilmente dimostrabili). Se infatti è vero, come nessuno contesta, che per circa quarant’anni Calamandrei non cessò mai di tessere le lodi di Chiovenda, la mancanza di soluzione di continuità in questo atteggiamento rende impossibile affermare – se non in via di mera (e non persuasiva) ipotesi – che a un certo punto (e, per Cipriani, precisamente dal 1927)58 l’asserita “macchinazione” dello studioso fiorentino avrebbe mutato obiettivo rivolgendosi, dunque, contro Carnelutti. Ma anche a trascurare l’impossibilità (direi oggettiva) di provare il cambiamento nell’animus (dissimulandi) di Calamandrei, la lettura suggerita da Cipriani non appare convincente. Si consideri, infatti, che fu proprio Carnelutti, più di altri, ad assecondare (enfatiz-

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Lo riconobbe lo stesso Carnelutti, quando – nell’incipit del necrologio dedicato a Calamandrei – descriveva la sua relazione con lo studioso fiorentino in termini di “amicizia faticata”, vissuta sempre su posizioni opposte, “nel campo della scienza”, “della professione”, “della vita pubblica”, e ancora di quella “che i tedeschi chiamano Weltanschauung” (Carnelutti, Piero Calamandrei, in Riv. dir. proc., 1956, I, 261 s., spec. 261). 55 Per esempio, in una pagina del suo diario (24 ottobre 1942), Calamandrei, dopo avere messo in dubbio (!) la “sincerità” della fede cristiana dello studioso friulano, si domandava: “Se a Carnelutti si togliesse l’oratoria, che rimarrebbe?” (Diario, 1939-1945, a cura di G. Agosti, II, Firenze, 1982, 74). 56 Com’è noto, Carnelutti coinvolse Chiovenda nella fondazione della Processuale (che iniziò le pubblicazioni nel 1924), consapevole che il successo dell’ambizioso progetto esigeva la “copertura” (Denti, in Denti, Taruffo, La Rivista di diritto processuale civile, in Quaderni fiorentini, 1987, 631 ss., spec. 632), l’“egida” (Consolo, Le opere e i giorni nel percorso vocazionale di Carnelutti: dalla “Commerciale” alla “Processuale”, in Aa.Vv., Impresa e mercato, Studi dedicati a Mario Libertini, III, Milano, 2015, 1807 ss., spec. 1823), il “nome” (A.C. Jemolo, Commemorazione di Giuseppe Chiovenda, in Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, XIV, Roma, 1938, 629 ss., spec. 638), la “protezione” (Micheli, Francesco Carnelutti e la rivista di diritto processuale civile, in Riv. dir. proc., 1967, 1 ss., spec. 2), la “garanzia” (Cavallone Una fondazione asimmetrica (Un carteggio inedito dell’autunno del 1923), in Riv. dir. proc., 2018, 611 ss., spec. 612), la sponsorship (Consolo, op. ult. cit., 1816, alla nota 19), dell’allora ben più autorevole (pur non ancora “monumentalizzato”) (Consolo, op. ult. cit., 1823) maestro di Premosello (in proposito, osserva sempre Denti, op. cit., 631 s., che, sebbene al momento della nascita della rivista Chiovenda fosse più anziano di Carnelutti di solo sette anni (uno, infatti, aveva 52 anni, l’altro 45), mentre il primo “aveva sostanzialmente concluso la sua vicenda scientifica” grazie alla quale aveva “acquisito nel ventennio precedente” un “grandissimo prestigio”, di contro Carnelutti “aveva appena inaugurato la sua stagione di processualista., avendo dietro di sé l’exploit de La prova civile ed avendo iniziato, con le Lezioni, la costruzione del proprio sistema”). In generale, sulla genesi della Rivista di diritto processuale civile, si rinvia, tra gli altri, ai contributi di Liebman, Quel lieto evento di sessant’anni fa, in Riv. dir. proc., 1984, 1 ss.; Cavallone, op. ult. cit., 611 ss.; Cipriani, Quel lieto evento di tanti anni fa (una visita a PremoselloChiovenda), ivi, 1991, 225 ss. (anche in Cipriani, Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 265 ss.) e Denti, op. cit., 631-633. 57 Come, per esempio, nel 1928, il processo Cannella-Bruneri (meglio noto come il caso dello “smemorato di Collegno”), e poi, dopo la guerra, quello a Rodolfo Graziani o quello conseguente alla morte di Wilma Montesi, nel 1953. 58 Afferma Cipriani, infatti, che proprio in quell’anno, “mentre Chiovenda era irrimediabilmente sconfitto [“sconfitta” che - sempre per lo studioso barese - sarebbe stata corollario della chiusura dei lavori della Sottocommissione C, dalla quale Carnelutti era uscito come “trionfatore”] e per di più in rotta col suo potente maestro Scialoja, Carnelutti […] strafaceva nella Procedura civile italiana”: ragione per cui “Calamandrei decise di scendere in campo contro [quest’ultimo] e di impedirgli di diventare il dominus assoluto e incontrastabile della nostra materia” (Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 43 s.).

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zandola, come rileva lo stesso Cipriani)59 la “costruzione” del mito di Chiovenda (e tuttavia, diversamente, non parlerei affatto in questo caso di “costruzione” – termine che evoca un quid indotto artificiosamente – bensì del naturale, spontaneo imporsi della grande lezione sistematica e concettuale, del fascino, dell’allure scientifico dell’insigne studioso piemontese)60. Ecco allora che, secondo l’interpretazione degli eventi che qui si contesta, Carnelutti sarebbe stato il primo complice di una manovra volta ad affossarlo, dimostrando così una sprovvedutezza inconcepibile in un uomo accorto come lui. E d’altra parte, non si comprenderebbe il motivo per cui Calamandrei avrebbe insistito nell’esaltare la figura di Chiovenda (che “grandeggia limpida nel campo degli studi giuridici [,] come certi monumenti, la cui imponenza si apprezza meglio quando si guardano da lontano, profilati sull’orizzonte”) ancora nel 1947, ossia a giochi ormai ampiamente chiusi61, nel senso che negli anni Quaranta il primato di Carnelutti tra i processualisti era da tempo acquisito (un dominio, quello dello studioso friulano, che gli elogi al maestro di Premosello – all’epoca considerato da tutti il fondatore della nostra disciplina - non potevano più in alcun modo intaccare o sminuire). Infine, e credo che questa sia una sensazione da altri condivisa, è mai pensabile che Calamandrei – il “nostro” Calamandrei, l’uomo che con le sue idee, gli scritti, i discorsi, ha rappresentato, e per molti costituisce ancora, un modello di morale laica e repubblicana – si trasformasse, quando si muoveva nell’orticello del diritto processuale civile, in un dissimulatore seriale e perennemente acrimonioso, spinto solo dal desiderio di portare a termine ritorsioni (per torti immaginari) o di ostacolare chi, nella nostra disciplina, correva più veloce di lui: non credo proprio, opinione che mi pare avallata, ad abundantiam, dalle pagine del suo Diario o dalle lettere che scriveva alle persone care, ove, se non erro, non vi è traccia di questo preteso Mr. Hyde (e ciò, conviene sottolinearlo, non significa in alcun modo “santificare” Calamandrei, ma sostenere che le coordinate del suo agire, anche nel piccolo mondo della nostra disciplina, non erano verosimilmente quelle ipotizzate da Cipriani).

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Vedi in tal senso Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, 2ª ed., cit., 49 s., nel testo e a nota 128. In proposito, sia consentito rinviare ancora a Vullo, Prima di Chiovenda: Giuseppe Pisanelli studioso del processo civile, cit., spec. 605-620, 642-645. 61 Così, Calamandrei, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc., 1947, I, 169 ss., spec. 169. Al riguardo – lo si è detto alla nota 47 – fu del resto proprio Cipriani (Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 342 s., nel testo e alla nota 104) a osservare come gli scritti “apologetici” di Calamandrei su Chiovenda non conobbero soluzione di continuità, susseguendosi numerosi fino alla scomparsa dello studioso fiorentino, avvenuta nel settembre del 1956. 60

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4. Conclusione: Calamandrei fu un convinto e sincero ammiratore di Chiovenda.

Vari studi su Calamandrei – fra i quali, ça va sans dire, l’ottimo volume di Cipriani – hanno posto in evidenza la molteplicità di interessi culturali e le “tante facce” di quest’insigne studioso62; altri contributi, invece, focalizzandosi sulla sua personalità, ne hanno disegnato un ritratto più complesso e tormentato di quanto suggerisse, in passato, la letteratura di stampo (prevalentemente) encomiastico o celebrativo63. Se questo è vero e se, dunque, Calamandrei fu un personaggio che – nella sua indiscutibile grandezza – sfugge a semplificazioni e bozzetti “di maniera”, credo tuttavia che l’esame sereno e oggettivo delle sue opere (e del suo agire) conduca a ribadire fermamente la linearità e la schiettezza dei rapporti con Chiovenda, la sincerità con la quale ne accettò la lezione scientifica e metodologica, cogliendone l’originalità e la fecondità, nonché (e in questo non da solo) assecondandone (e, quindi, non “costruendone”) il “mito” di fondatore della nuova scuola italiana di diritto processuale civile.

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Delle “tante facce di studioso” di Calamandrei, parlava Rodotà, Calamandrei, Piero, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVI, Roma, 1973 (leggilo in www.treccani.it/enciclopedia/piero-calamandrei_(Dizionario-Biografico)/). 63 Mi riferisco, tra gli studi che ci hanno offerto un ritratto meno convenzionale di Calamandrei, per esempio a quello di Luzzatto, Introduzione, cit. (uno scritto di grande interesse, ma che suscitò pure aspre polemiche, perché considerato da alcuni – per esempio, da Silvia Calamandrei, nipote di Piero, e dagli studiosi Giovanni De Luna e Aldo Agosti – nel complesso ingeneroso e, talvolta, inutilmente “dissacratorio” nei confronti dell’insigne fiorentino: v. S. Fiori, Piero Calamandrei un mito infranto, che si può leggere alla pagina web https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/01/24/piero-calamandrei-un-mito-infranto.html).

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L’evoluzione del Collaborative law in Italia: la negoziazione assistita in materia familiare. Sommario : 1. Premessa. – 2. Le esperienze offerte dai paesi nord americani. Il Collaborative law. – 3. La Uniform Collaborative Law Rules and Uniform Collaborative Law Act. – 4. Disqualification requirement e voluntary informal disclosure. – 5. Il Collaborative law europeo. – Segue…l’esperimento italiano della negoziazione assistita. – 6. Il procedimento che conduce alla sottoscrizione dell’accordo di separazione o divorzio. – 7. Il vaglio della magistratura requirente. – Segue… la struttura eventualmente trifasica del procedimento. – 8. L’efficacia dell’accordo. – 9. L’impugnabilità dell’accordo. – 10. Il ruolo della classe forense.

Il contributo analizza le caratteristiche distintive del Collaborative Law sviluppatosi con successo nei paesi nord americani. L’esame della disciplina dettata nell’Uniform Collaborative Law Rules and Act offre il destro per riflettere sulla bontà delle scelte legislative compiute in Europa ed in particolare sulla procedura di negoziazione assistita in materia familiare introdotta in Italia per effetto della l. 10 novembre 2014, n. 162, che conferisce al ceto forense un ruolo di primaria importanza. L’esegesi del dato normativo, anche straniero, e l’analisi della giurisprudenza edita consentono di risolvere alcune questioni problematiche che la disciplina di nuovo conio pone all’interprete. The paper analyzes the most important features of the Collaborative Law that has developed successfully in North America. That analysis of the Uniform Collaborative Law Rules and Act makes it possible to reflect on the quality of the legislative choices made in Europe, in particular on the Assisted Negotiation procedure in family matters introduced in Italy by the Law 10 November 2014, n. 162 which gives lawyers an important role in these matters. The critical interpretation of the laws and rules, including foreign ones, and the analysis of the case-law allow to resolve some of the problematic issues that the newest legislation places to the ones that need to interpret it.

1. Premessa. La crisi della giustizia civile, ormai costantemente avvertita dal legislatore italiano e dagli operatori, favorisce il proliferare di differenti tecniche di tutela: la degiurisdizionaliz-

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zazione costituisce il leitmotiv di una serie di interventi atta a dare linfa a nuovi strumenti di composizione autonoma delle controversie. In recepimento delle indicazioni che giungono dalle istituzioni d’Oltralpe, ai procedimenti giurisdizionali noti si affiancano oggi procedure che consentono alle parti di ricercare un accordo amichevole, di addivenire alla regolamentazione dei propri interessi fuori dalle aule giudiziarie sia pur con l’assistenza e l’ausilio dei rispettivi avvocati, chiamati ora ad assumere nuovi ruoli1. La logica adversarial cede il passo a quella più propriamente collaborative: la propensione a favorire lo spostamento della gestione della crisi dal potere giudiziario all’autonomia privata muove dalla considerazione – più o meno condivisibile – secondo cui l’intervento giudiziale accentua l’ottica oppositiva. Diversamente, l’approccio conciliativo, in uno al progressivo potenziamento del ruolo dell’autonomia delle parti, consente una più consapevole ed efficace modalità di composizione del conflitto. L’accordo pacificamente raggiunto, oltre a tutelare con maggior forza i particolari interessi in gioco, preserva le relazioni amichevoli tra i soggetti coinvolti e, con molta probabilità, è destinato ad essere onorato senza coercizioni2. La delocalizzazione del contenzioso civile in atto è, in verità, propugnata anche per fini meno nobili: è lo stesso legislatore a riconoscere che, sul piano ordinamentale, le procedure di composizione autonoma delle controversie incidono sulla deflazione dei carichi giudiziari, costituiscono un’occasione per decongestionare i ruoli e sopperire alle ormai note inefficienze della macchina giudiziaria migliorando, conseguentemente, l’accesso alla giustizia per i privati e per le imprese3. In virtù di detti intenti si ricorre a strumenti ontologicamente e strutturalmente differenti e così, accanto all’arbitrato e alla mediazione, condotti da una parte terza e neutrale, si affaccia nel panorama giuridico nazionale, per effetto del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella l. 10 novembre 2014, n. 162, la negoziazione assistita che istituzionalizza una procedura volta alla stipula di una convenzione contenente l’impegno reciproco delle parti a cooperare, con correttezza e lealtà, nella ricerca di una composizione amichevole, composizione che verrà poi formalizzata in un accordo.

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Sui percorsi negoziali volti alla soluzione delle controversie giuridiche, i quali offrono «un’alternativa alla giustizia» e non già una «giustizia alternativa», v. M. Bove, Le ADR e la composizione stragiudiziale delle controversie: obblighi ed opportunità per il sistema della giustizia civile, in Giusto proc. civ., 2017, 38 ss. V. sul punto le considerazioni di R. Caponi, Just Settlement or Just About Settlement? Mediated Agreements: a Comparative Overview of the Basics, in Judicium, 3, 2018, 314, il quale, richiamando le parole di Lord Bingham of Cornhill, sottolinea che un accordo transattivo liberamente stipulato tra le due parti gode di un grado di accettazione volontaria che un ordine imposto da un giudice sicuramente non ha. Nel senso che l’adozione di istituti diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione delle liti ricorrendo alle misure di ADR muove «dalla consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata», v. C. Cost. 19 aprile 2018, n. 77, in www.judicium.it. con nota di P. Licci, La compensazione delle spese di lite al vaglio della Corte costituzionale.

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2. Le esperienze offerte dai paesi nord americani. Il Collaborative law.

Le innovazioni legislative si ispirano consapevolmente alle esperienze francesi4 e, prima ancora, a quelle proprie dei paesi del Nord America5. Qui affonda, del resto, le sue radici il Collaborative law, sviluppatosi a partire dagli anni ‘80 in relazione al contenzioso familiare sulla scorta degli studi e delle teorie elaborate dal familiarista canadese Nester C. Kohut il quale, già negli anni ’60, propugna lo sviluppo di un diritto di famiglia cd. terapeutico6. Il movimento - anche culturale – prende piede grazie alle idee patrocinate con fermezza da un avvocato del Minnesota Stuart Webb e successivamente da un’avvocata californiana Pauline Tesler7. I metodi rivoluzionari da questi proposti offrono una differente modulazione del conflitto familiare incentrata sulla ricerca di soluzioni condivise: si tratta di una ricerca condotta dalle parti con l’assistenza dei rispettivi avvocati e di esperti volta, dapprima, all’emersione degli effettivi bisogni ed interessi dei partecipanti e, successivamente, all’individuazione della soluzione che meglio risponde alle loro singole esigenze8. Negli stessi anni anche Curtis J. Romanowski adopera il concetto di “Collaborative Dispute Resolution”9: focalizzando l’attenzione sulle forme di collaborazione e cooperazione

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V., da ultimo, B. Sassani, La composition non juridictionnelle des différends dans le droit italien: médiation et négociation assistée, in Judicium, 2018, 124. Così C. Perago, La compatibilità costituzionale della negoziazione assistita obbligatoria in tema di risarcimento del danno da sinistro stradale, in Resp. civ. e prev., 2016, 1914; D. Dalfino, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, in Misure urgenti per la funzionalità e l’efficienza della giustizia civile, Torino, 2015, 30 ss.; Id., La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra Collaborative law e procèdure partecipative, in Degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato: la riforma del 2014, in Foro it., 2015, V, 22 ss.; M. Bugetti, Nuovi modelli di composizione della crisi coniugale tra collaborative law e tutela della libertà negoziale, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 269 ss. N.C. Kohut, Therapy family law, a complete guide to marital reconciliation, Chicago, 1968. S.G. Webb, Collaborative Law: A Practitioner’s Perspective on Its History and Current Practice. J. Am. Acad. Matrimonial Law., 2008, 21, 155 e S.G. Webb e R. Ousky, The Collaborative Way to Divorce: the revolutionary method that results in Less Stress, LowerCosts, 2007, 130 ss. Per ulteriori riferimenti v. anche M. Engel, Collaborative Law, Tübingen, 2010, 67 ss.; C. Budruille Cardew, Qu’est-ce que le droit collaborative?, in Les Cahiers de la justice printemps, 2009, 4, 153 ss.; Id., Le droit de la famille collaborative, in Aj Fam., 2007, 28 ss.; L.R. Maxwell, The development of Collaborative law, in Alternative resolution, Summer/fall 2007, 22 ss.; P.H. Tesler e P. Thompson, Collaborative divorce: the revolutionary new way to restructure your family, resolve legal issues, and move on with your life, Harper Collins, 2006; G.G. Cox e R.J. Matlock, The case for Collaborative law, in Texas Wesleyan law rew, 2004, 45 ss.; L.R. Spain, Collaborative law: a critical reflection on whether a collaborative orientation can be ethically incorporated into the practice of law, in Baylor law rev., 2004, 140 ss.; P.H. Tessler, Collaborative Law: achieving effective resolution in divorce without litigation, America Bar Association , 2001. Sulle caratteristiche e sui vantaggi delle pratiche nord americane v. anche J. Land, The revolution in Family law dispute resolution, 24 J. Am. Acad. Matrim. Lawers, 2012, 411; J.H. Di Fonzo, A vision for Collaborative Practice: the final report of the Hofstra Collaborative Law Conference. Hofstra Law Review, 2008, 38 ss.; J. Lande e G. Herman, Fitting the Forum to the Family Fuss. Family Court Review, 2004, 42(2), 280-291; D.T. Sholar, Collaborative Law: a method for the madness, in Memphis State Law Review, 1993, 669 ss. Secondo gli studi condotti da J. Land, The revolution in Family law dispute resolution, cit., l’International Academy of Collaborative Professionals conta circa 4.300 membri in tutto il mondo; oltre 30.000 professionisti sono interessati alle pratiche collaborative perché convinti che offrano maggiore soddisfazione fornendo un servizio migliore ai clienti. Gli avvocati più collaborativi sono donne (secondo i sondaggi, in misura pari al 60-70%) molte delle quali con almeno 11-20 anni di pratica. Curtis J. Romanowski svolgeva attività professionale a Kansas City, nel Missouri, forniva servizi di consulenza e si occupava di risoluzione alternativa alle controversie in tutti gli Stati Uniti. Sebbene considerato pioniere di detta tecnica alternativa alla giustizia contenziosa, l’avvocato mutò nel tempo la sua opinione denunciando la complessità e la eccessiva onerosità del procedimento di cui aveva inizialmente tessuto le lodi. In particolare le criticità sollevate da Romanowski, in Progressive divorce: Making best practices

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atte a risolvere in via stragiudiziale le controversie, il familiarista di Kansas City propugna l’utilizzo di nuove tecniche puntando sull’“approccio di squadra” e quindi sull’utile coinvolgimento di esperti nella ricerca di una soluzione condivisa dalle parti. L’importanza strategica del dialogo attraverso il quale può concretamente assicurarsi un clima di cooperazione tra le parti ed il ruolo sempre più pregnante demandato alla classe forense rappresentano tuttora i punti cardine delle nuove procedure. Stante le iniziali reticenze, il fenomeno attira l’attenzione degli operatori e riscuote insperati successi: ne è prova il proliferare di associazioni ed enti che aderiscono al nuovo movimento giuridico e culturale e lo sviluppo di protocolli operativi elaborati al fine di addivenire – congiuntamente – alla definizione della lite senza l’ausilio degli organi giurisdizionali. Le idee di Webb, efficacemente sintetizzate in una ormai nota lettera indirizzata dall’avvocato a un giudice della Corte Suprema del Minnesota10, nascono dalla constatazione secondo cui la logica avversariale e le tradizionali modalità di svolgimento dei giudizi contenziosi di separazione e di divorzio pregiudicano i preminenti interessi della famiglia, sicché spetta agli avvocati abbandonare la logica conflittuale e prediligere strategie cooperative. Appurato che il punto più debole delle tecniche di mediazione è costituito dal mancato coinvolgimento degli avvocati, si propone un modello che si avvale della loro «capacità analitica e della abilità degli stessi nel trovare soluzioni ragionevoli ai problemi creando alternative costruttive ed un ambiente favorevole al reperimento di un nuovo assetto»11. Nell’auspicare che le parti, supportate dai rispettivi avvocati, possano relazionarsi abbandonando la logica faziosa e conflittuale, sviluppando o recuperando un livello di fiducia reciproca, il familiarista annovera tra i capisaldi del nuovo movimento: a) la necessaria presenza di un avvocato scelto da ognuna delle parti fin dalle fasi iniziali della procedura. Ogni professionista è così libero di utilizzare le proprie abilità in punto di analisi, problem solving, creazione di alternative, pianificando l’intera vicenda sotto i profili fiscali, patrimoniali, emotivi, etc. b) la ricerca di soluzioni atte a considerare vincitrici entrambe le parti: a differenza di quanto avviene nei processi giudiziari in cui alla parte vincitrice si contrappone quella soccombente, con la logica del “win - win” tutti perseguono la soluzione più confacente ai propri interessi, così generando un assetto di reciproca soddisfazione; c) l’obbligo dei professionisti che assistono la parte di non intraprendere azioni giudiziarie in caso di fallimento delle procedure. Si evita in tal modo che sotto la minaccia di un’a-

better by getting there first, in New Jersey Law Journal, 2002, CLXVII, no. 3 ss., attenevano essenzialmente al mutual recusal pact, all’approccio multidisciplinare e alla tecnica conciliativa concentrata «troppo sul procedimento e non abbastanza sui risultati». 10 I cui tratti salienti sono delineati da D. Dalfino, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, in Misure urgenti per la funzionalità e l’efficienza della giustizia civile, cit., 30 e ss., spec. nt. 9. 11 Così si legge nella citata lettera inviata all’On.le Giudice della Corte Suprema “Sandy” Keith, reperibile sul sito http://www. collaborativelaw.us/articles/Webb_ltr_re_Collaborative_Law_1990.pdf e riportata, nei suoi tratti essenziali, da D. Dalfino, in La negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 31, nt. 9.

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zione giudiziaria le trattative possano subire condizionamenti e che le parti stipulino un accordo non confacente ai propri interessi pur di evitare lungaggini e costi delle procedure contenziose. La preclusione condiziona in verità anche l’atteggiamento dei professionisti indotti a ricercare il componimento amichevole nella consapevolezza di non avere altra chance. d) l’obbligo di attenersi a rigidi canoni di trasparenza, riservatezza e buona fede nello svolgimento della procedura collaborativa, ecc. Al fine di diffondere il diritto collaborativo nasce nel 1990 il Collaborative law Institute of Minnesota, un’organizzazione senza scopo di lucro dedita allo sviluppo di strategie di problem solving ed alla formazione dei giuristi. Il diffondersi del modello collaborativo conduce poi alla nascita dell’International Academy of Collaborative Professionals (IACP), già American Istitute of Collaborative Professionals, fondata alla fine degli anni ’90 da un gruppo di avvocati e psicoterapeuti della California settentrionale e che oggi conta otre 5.000 membri e 350 gruppi di professionisti in tutto il mondo, dell’American Bar Association (“ABA”), dell’American Academy of Matrimonial Lawyers, dell’International Academy of Matrimonial Lawyers (“IAML”), ecc. Nella consapevolezza che lo sviluppo e l’efficace impiego del processo collaborativo in tutte le controversie civili e commerciali presuppone un’adeguata formazione del ceto forense e attività informative rivolte ai cittadini, ulteriori organizzazioni nazionali di Collaborative law sono istituite in Australia, in Austria, in Canada12, nella Repubblica Ceca, in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Israele, ad Hong Kong, in Kenya, in Nuova Zelanda, nel Nord Irlanda, nella Repubblica d’Irlanda, in Scozia, in Svizzera e in Uganda, oltre che negli Stati Uniti. È proprio negli Stati uniti che nel 2009 trova i natali, ad opera della Uniform Law Commission, l’Uniform Law Act, emendata nel 2010 e ribattezzata Uniform Collaborative Law Rules and Act. Nel giugno 2013, l’Uniform Collaborative Law Act è promulgata negli stati di Utah, Nevada, Texas, Hawaii, Ohio, Distretto di Columbia e Stato di Washington, Alabama e, a far data dal 1 gennaio 2018, negli stati del Massachusetts, Pennsylvania e Tennessee.

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Sui cui ampiamente M.A. Foddai, Dalla decisione alla partecipazione, Giustizia, conflitti, diritti, Napoli, 2017, 181 ss.; Id., Reshaping the practice of Justice: the case of Collaborative law, in Jusonline, 2/2017, 61 ss.; Id., Gli avvocati e le nuove forme di Adr: il diritto collaborativo, in www.dirittoestoria.it., 13/2015, §4.

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3. La Uniform Collaborative Law Rules and Uniform Collaborative Law Act.

Nel dichiarato intento di incoraggiare il continuo sviluppo del Collaborative law, la Uniform Collaborative Law Rules and Act standardizza le più importanti caratteristiche degli accordi di partecipazione. Sono quindi stabiliti i requisiti minimi per gli accordi di partecipazione, contenenti espressamente l’intenzione delle parti di risolvere la questione insorta attraverso un processo di Collaborative law, la volontà di non adire l’autorità giudiziaria, le modalità di inizio e conclusione del procedimento, la possibilità di sospendere il procedimento in particolari situazioni di emergenza a tutela della salute, ecc. La Uniform Collaborative Law Rules and Act precisa, già nella Preliminay Note, che il Collaborative law rappresenta un metodo di risoluzione alternativa della controversia svolto su base volontaria e contrattuale nell’ambito del quale le parti sono assistite dai rispetti difensori chiamati ad assumere l’obbligo di non rappresentare più le stesse in giudizio nell’ipotesi in cui la trattativa non sortisca gli effetti sperati. Le regole di base per il diritto collaborativo sono stabilite in un accordo scritto, cd. Partecipation Agreement, in cui le parti designano gli avvocati accettando, per tutta la durata della procedura, di non cercare la risoluzione giudiziaria della controversia. Unitamente alla obbligo assunto dalle parti di cooperare con lealtà e trasparenza, condividendo tutte le informazioni utili alla gestione del conflitto, l’accordo regolamenta le modalità di svolgimento degli incontri, il cui calendario è preventivamente fissato in relazione alle esigenze di ognuno, e prevede il coinvolgimento di esperti (notai, commercialisti, psicologi, mediatori, ecc.)13. Come si legge nel testo risultante dalle modifiche apportate nel 2010, l’obiettivo generale dell’Uniform Collaborative Law Rules and Act è quello di incoraggiare il continuo sviluppo del diritto collaborativo come opzione volontaria di risoluzione delle controversie. Nell’ottica della maggiore protezione degli utenti, un particolare ruolo assumono le attività divulgative tra potenziali avvocati collaborativi e potenziali parti in causa: spetterà ai primi informare le seconde in ordine ai benefici e ai rischi di tali procedure, alle regole procedurali e all’importanza del dialogo sì da consentire la sottoscrizione di accordi nella piena consapevolezza del percorso da seguire. Nello specifico, sono espressamente indicati i contenuti minimi degli agreements; per evitare che le parti entrino “inavvertitamente” in un processo di diritto collaborativo essi conterranno, a pena di inefficacia, l’indicazione esplicita della volontà di procedere secondo le regole del Collaborative law, la descrizione della questione da trattarsi (collaborative

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Sulla necessità di una completa ed informale attività di disclosure v. le considerazioni di G. Gaimo, La gestione della crisi attraverso il procedimento collaborativo. Uno studio comparatistico, in Eur. dir. priv., 2016, 563 ss.

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matter), nonché la designazione dei rispettivi avvocati (collaborative lawyers)14: tanto anche al fine di delimitare in un futuro giudizio le disposizioni attinenti al Disqualification requirement o agli evidentiary privileges. La Rule 4 (a) (6) richiede che gli accordi di partecipazione contengano una dichiarazione di ciascuno avvocato collaborativo di conferma della volontà di assumere il mandato per il procedimento collaborativo: la disposizione, volta a delimitare l’ambito di applicazione del Disqualification requirement in un futuro giudizio, non incide in alcun modo sulle norme che regolamentano le responsabilità dell’avvocato nei confronti del cliente. Nella prassi gli accordi di partecipazione al diritto collaborativo sono assai dettagliati e contemplano numerose disposizioni aggiuntive, tutte consentite se non contrastanti con le regole fondamentali del Collaborative law. Non potrà allora essere inserita una clausola che escluda il diritto delle parti di adire l’autorità giudiziaria, che deroghi le Rules 9, 10 e 11 in tema di “squalifica” o le norme in tema di consenso informato esplicitate nella Rule 14 o, infine, che limiti i doveri, sanciti dalla Rule 15, gravanti sull’avvocato che apprenda di abusi o maltrattamenti. La Rule 5 ha cura di specificare che un processo di diritto collaborativo ha inizio con la sottoscrizione dell’accordo delle parti e si considera concluso con la definizione della controversia documentabile con la sottoscrizione del documento che ne contiene le condizioni. È invece motivo di risoluzione la comunicazione di una parte della volontà di interrompere la procedura o di intraprendere un’azione giudiziaria. Nell’ipotesi in cui una parte revochi il mandato conferito al proprio avvocato o questi rinunci ad assisterla il processo di diritto collaborativo continua purché, entro 30 giorni decorrenti dalla comunicazione a tutte le parti della rinuncia o della revoca, sia nominato un altro difensore e sia dagli interessati ribadita la volontà di proseguire il procedimento15.

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Nella Rule 4 si legge infatti che «(a) A collaborative law participation agreement must: (1) be in a record; (2) be signed by the parties; (3) state the parties’ intention to resolve a collaborative matter through a collaborative law process under these rules; (4) describe the nature and scope of the matter; (5) identify the collaborative lawyer who represents each party in the process; and (6) contain a statement by each collaborative lawyer confirming the lawyer’s representation of a party in the collaborative law process. (b) Parties may agree to include in a collaborative law participation agreement additional provisions not inconsistent with these rules». 15 In virtù della Rule 5 infatti «(a) A collaborative law process begins when the parties sign a collaborative law participation agreement. (b) A tribunal may not order a party to participate in a collaborative law process over that party’s objection. (c) A collaborative law process is concluded by a: (1) resolution of a collaborative matter as evidenced by a signed record; (2) resolution of a part of the collaborative matter, evidenced by a signed record, in which the parties agree that the remaining parts of the matter will not be resolved in the process; or (3) termination of the process. (d) A collaborative law process terminates: (1) when a party gives notice to other parties in a record that the process is ended; (2) when a party: (A) begins a proceeding related to a collaborative matter without the agreement of all parties; or (B) in a pending proceeding related to the matter: (i) initiates a pleading, motion, order to show cause, or request for a conference with the tribunal; (ii) requests that the proceeding be put on the [tribunal’s active calendar]; or (iii) takes similar action requiring notice to be sent to the parties; or (3) except as otherwise provided by subsection (g), when a party discharges a collaborative lawyer or a collaborative lawyer withdraws from further representation of a party. (e) A party’s collaborative lawyer shall give prompt notice to all other parties in a record of a discharge or withdrawal. (f) A party may terminate a collaborative law process with or without cause. (g) Notwithstanding the discharge or withdrawal of a collaborative lawyer, a collaborative law process continues, if not later than 30 days after the date that the notice of the discharge or withdrawal of a collaborative lawyer required by subsection (e) is sent to the parties: (1) the unrepresented party engages a successor collaborative lawyer; and (2) in a signed record: (A) the parties consent to continue the process by reaffirming the collaborative law participation agreement; (B) the agreement is amended to identify the successor collaborative lawyer; and (C) the successor collaborative lawyer confirms the lawyer’s representation of a party in the collaborative process.(h) A collaborative law process does not conclude if, with the consent of the parties, a party

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Dei rapporti tra il processo giudiziario e il processo collaborativo si occupa la Rule 6 che espressamente contempla la possibilità di stipulare un Agreement anche in corso di giudizio. In tali ipotesi, dato tempestivo avviso al tribunale, il processo è dichiarato sospeso fino alla conclusione del procedimento collaborativo sebbene, durante la pendenza della fase stragiudiziale, il giudice inizialmente investito della controversia possa richiedere alle parti e ai rispettivi avvocati il deposito di una relazione (status report) avente ad oggetto lo stato del Collaborative law process. In realtà, in relazione alla sospensione del procedimento giudiziario, solo alcuni Stati aderenti contemplano la sospensione obbligatoria. In molti altri Stati la possibilità di concedere la sospensione del giudizio in corso è legata ad una valutazione meramente discrezionale dell’autorità16. Anche la Rule 7 regolamenta i rapporti intercorrenti tra procedura collaborativa e giudizio contenzioso, questa volta però in relazione all’ipotesi in cui l’intervento dell’autorità sia necessario per ragioni di sicurezza delle parti coinvolte nel processo collaborativo. È così chiarito che durante la pendenza di un procedimento di Collaborative law il tribunale possa emettere misure di protezione, cd. emergency orders, al fine di tutelare la salute, la sicurezza, il benessere o l’interesse di una parte o dei suoi familiari. La richiesta di intervento giudiziale determina in tal caso la conclusione anticipata della procedura negoziale. Alla possibilità che il tribunale omologhi un accordo concluso in esito alla procedura collaborativa è dedicata la Rule 8, in relazione alla quale la Commissione auspica un intervento normativo che regolamenti in maniera compiuta le relazioni tra procedimento condotto dalle parti secondo il Collaborative law e quello giudiziario.

4. Disqualification requirement e voluntary informal disclosure.

La caratteristica distintiva del Collaborative law è rappresentata dal Disqualification requirement, in virtù del quale, falliti i tentativi di raggiungimento di una soluzione consensuale, ogni parte avrà l’onere di affidarsi a professionisti nuovi e diversi nel procedimento giudiziario17. Nessun metodo di risoluzione delle controversie consensuali comunemente

requests a tribunal to approve a resolution of the collaborative matter or any part thereof as evidenced by a signed record. (i) A collaborative law participation agreement may provide additional methods of concluding a collaborative law process». 16 Nella Legislative Note contenuta nella Rule 6 si legge che «In enacting this Rule, states should review existing provisions concerning stays of pending proceedings when the parties agree to engage in alternative dispute resolution. As noted in the comment to Rule 6, some states treat party entry into an alternative dispute resolution procedure such as collaborative law or mediation as an application for a stay, which the court has discretion to grant or deny, while other states make the stay mandatory. Enacting states may wish to duplicate the practice currently applicable to collaborative law, mediation, or other forms of alternative dispute resolution». 17 V. J. Macfarlane, Evolution of the New Lawyer: How Lawyers are Reshaping the Practice of Law, in Journal of Dispute Resolution 2008, 1, 62 ss.; Id., The New Lawyer: How Settlement is transforming the Practice of Law, Vancouver Toronto, UBC Press, 2008; S.M. Gutterman, Collaborative Law: a new model for dispute resolution, Denver, 2004; D. Hoffman e P. Tesler, Collaborative Law and the Use

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impiegato contempla una simile clausola: ciò consente agli avvocati di concentrarsi esclusivamente sulla fase di negoziazione e sull’unico obiettivo costituito dal raggiungimento dell’accordo, ma comporta, in caso di fallimento della procedura, un considerevole aggravio per le parti in termini di tempo e costi. Del Disqualification requirement si occupa la Rule 9 ove si precisa che il divieto di assistere la parte nel giudizio contenzioso imposto all’avvocato che abbia partecipato al procedimento collaborativo concerne non soltanto giudizi aventi ad oggetto la collaborative matter, ma anche le questioni ad essa correlate18 e si estende ai colleghi appartenenti al medesimo studio legale. Un’eccezione è in ogni caso prevista dalla Rule 10 nelle ipotesi in cui la parte assistita abbia un reddito annuale che giustifichi il gratuito patrocinio19 e sempre che ciò sia previsto nell’accordo di partecipazione e che il collaborative lawyer resti estraneo alla trattazione della controversia. La possibilità, in tale specifico caso, di consentire la partecipazione di un avvocato appartenente al medesimo studio legale di quello interdetto è legata alla consapevolezza che l’infruttuosa conclusione del processo collaborativo espone le parti ad ulteriori esborsi e che le fasce di popolazione a basso reddito incontrano gravi difficoltà nell’ottenere assistenza legale. La Rule 9, che trova applicazione indipendentemente dal fatto che la prestazione sia compiuta a titolo oneroso o gratuito, contempla in ogni caso delle eccezioni valevoli allorché si intenda adire l’autorità giudiziaria unicamente per ottenere l’omologa di un accordo o per richiedere un emergency order a tutela della salute e della sicurezza di una parte (e sempre che non sia immediatamente disponibile un diverso avvocato)20.

of Settlement Counsel, in The Alternative Dispute resolution. Practice guide, R. Both ed., West Pubblishing 2002, § 4 ss.; H.L. Tindall e E.G. Wood, Uniforme Collaborative Act – An introduction, reperibile sul sito www.heinonline.com; W.H. Schwab, Collaborative lauyering: a closer look at an Emerging practice, 4 Pepp. Disp. Resol. L.J., 2004, 351 ss. Nella letteratura italiana v., per tutti, G.A. Parini, La negoziazione assistita da avvocati: tecniche e linee evolutive, Torino, 2017, 78 ss.; F. Ruscello, Diritto di famiglia, Pisa, 2017, 156 ss.; A. G. Gaimo, La gestione della crisi attraverso il procedimento collaborativo. Uno studio comparatistico, cit. 564; D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra collaborative law e procèdure partecipative, in Degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato: la riforma del 2014, in Foro it., 2015, V, 22 ss.; Id, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 31; T. Calfapietro, La mitezza nella professionalità dell’avvocato familiare e minorile, in Minorigiustizia, 1/2015, 146 ss.; C. Rimini, La gestione collaborativa del conflitto coniugale (collaborative law) in Italia?, Si può fare, in Dir. fam. pers., 2009, 1318 ss. V., inoltre, le considerazioni di M. Cappelletti, Dimensioni della giustizia nelle società contemporanee, Bologna 1994, 100. 18 Essendo così precluso all’avvocato rappresentare una parte, ad esempio, in un’azione esecutiva il cui titolo è rappresentato da una sentenza di divorzio nell’ipotesi in cui il divorzio stesso sia stato l’oggetto del processo di diritto collaborativo tra le stesse parti. 19 «After a collaborative law process concludes, another lawyer in a law firm with which a collaborative lawyer disqualified under Rule 9(a) is associated may represent a party without fee in the collaborative matter or a matter related to the collaborative matter if: (1) the party has an annual income that qualifies the party for free legal representation under the criteria established by the law firm for free legal representation; (2) the collaborative law participation agreement so provides; and (3) the collaborative lawyer is isolated from any participation in the collaborative matter or a matter related to the collaborative matter through procedures within the law firm which are reasonably calculated to isolate the collaborative lawyer from such participation». 20 In virtù della Rule 9 «(a) Except as otherwise provided in subsection (c), a collaborative lawyer is disqualified from appearing before a tribunal to represent a party in a proceeding related to the collaborative matter. (b) Except as otherwise provided in subsection (c) and Rules 10 and 11, a lawyer in a law firm with which the collaborative lawyer is associated is disqualified from appearing before a tribunal to represent a party in a proceeding related to the collaborative matter if the collaborative lawyer is disqualified from doing so under subsection (a). (c) A collaborative lawyer or a lawyer in a law firm with which the collaborative lawyer is associated may represent a party: (1) to ask a tribunal to approve an agreement resulting from the collaborative law process; or (2) to seek or defend an emergency order to protect the health, safety, welfare, or interest of a party, or [insert term for family or household member as defined

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Come si è già avuto modo di constatare, il buon esito delle procedura di Collaborative law dipende essenzialmente dalla correttezza delle parti e dalla loro volontà di instaurare un dialogo sincero, leale e informale. Per tali ragioni particolare attenzione è dedicata allo scambio, all’uso e alla divulgazioni delle informazioni relative alla vicenda oggetto della procedura collaborativa. Ciascuna parte ha il dovere di fornire informazioni relative alla vicenda e necessarie al raggiungimento dell’accordo in modo tempestivo, completo e trasparente; a seguito della informal disclosure le informazioni ricevute nel corso della procedura sono in ogni caso coperte dal vincolo di segretezza e non sono utilizzabili in un futuro giudizio come prova21. I rigorosi vincoli di segretezza non operano unicamente in caso di espressa rinuncia delle parti o qualora la collaborative law comunication configuri la minaccia di un crimine o sia intenzionalmente usata per pianificare, commettere o nascondere un altro crimine. La riservatezza nelle comunicazioni è, del resto, fondamentale per il diritto collaborativo in ragione del fatto che le parti non parteciperebbero in maniera efficace al procedimento collaborativo con il timore che le informazioni scambiate possano essere usate contro di loro in un successivo giudizio. Solo in casi eccezionali, il giudice potrà ammettere come prova le dichiarazioni rese nel procedimento collaborativo e sempre che si sia accertato che determinati fatti non siano suscettibili di diversa prova22. Con specifico riferimento agli avvocati coinvolti nelle procedure collaborative, le Rules 13 e 14 chiariscono che anche nel Collaborative law trovano applicazione gli obblighi e le norme di responsabilità professionale codificate in relazione ai procedimenti giudiziari, ivi compreso quello di segnalare alle autorità competenti abusi su minori o negligenze, casi di abbandono o sfruttamento. A questi si aggiungono numerosi doveri informativi attinenti in particolare ai rischi e ai benefici propri del processo di diritto collaborativo rispetto ad

in [state civil protection order statute]] if a successor lawyer is not immediately available to represent that person. (d) If subsection (c) (2) applies, a collaborative lawyer, or lawyer in a law firm with which the collaborative lawyer is associated, may represent a party or [insert term for family or household member] only until the person is represented by a successor lawyer or reasonable measures are taken to protect the health, safety, welfare, or interest of the person». 21 Al fine di assicurare un clima di fiducia e reciproca collaborazione, la Rule 17 espressamente sancisce che «(a) Subject to Rules 18 and 19, a collaborative law communication is privileged under subsection (b), is not subject to discovery, and is not admissible in evidence. (b) In a proceeding, the following privileges apply: (1) A party may refuse to disclose, and may prevent any other person from disclosing, a collaborative law communication. (2) A nonparty participant may refuse to disclose, and may prevent any other person from disclosing, a collaborative law communication of the nonparty participant. (c) Evidence or information that is otherwise admissible or subject to discovery does not become inadmissible or protected from discovery solely because of its disclosure or use in a collaborative law process». 22 Il divieto di divulgazione non è infine opponibile nei procedimenti giudiziali nei quali una determinata dichiarazione sia invocata al fine di contestare un’accusa di responsabilità professionale correlata al procedimento collaborativo in cui è resa.

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altri processi di risoluzione delle controversie23 e quello di riservatezza contemplato dalla Rule 1624.

5. Il Collaborative law europeo. – Segue…l’esperimento italiano della negoziazione assistita.

Il sistema appena delineato, seppur inizialmente testato in ambito familiare, allarga oggi il proprio raggio d’azione: lo sviluppo della nuovo modello si fa apprezzare anche in materia commerciale e consumeristica, tuttavia raggiunge i risultati più apprezzabili proprio nella risoluzione dei conflitti coniugali. Nei paesi in cui il Collaborative law è diventato la norma, il Collaborative Divorce process si conclude con successo nell’85 % dei casi25. Sulla scorta di questi esempi si fa apprezzare l’attività posta in essere anche in Europa da alcune Associazioni di professionisti che, scommettendo sul valore delle tecniche e delle regole del Collaborative law, ne promuovono l’utilizzo specialmente nella materia familiare.

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In virtù della Rule 14 infatti «Before a prospective party signs a collaborative law participation agreement, a prospective collaborative lawyer shall: (1) assess with the prospective party factors the lawyer reasonably believes relate to whether a collaborative law process is appropriate for the prospective party’s matter; (2) provide the prospective party with information that the lawyer reasonably believes is sufficient for the party to make an informed decision about the material benefits and risks of a collaborative law process as compared to the material benefits and risks of other reasonably available alternatives for resolving the proposed collaborative matter, such as litigation, mediation, arbitration, or expert evaluation; and (3) advise the prospective party that: (A) after signing an agreement if a party initiates a proceeding or seeks tribunal intervention in a pending proceeding related to the collaborative matter, the collaborative law process terminates; (B) participation in a collaborative law process is voluntary and any party has the right to terminate unilaterally a collaborative law process with or without cause; and (C) the collaborative lawyer and any lawyer in a law firm with which the collaborative lawyer is associated may not appear before a tribunal to represent a party in a proceeding related to the collaborative matter, except as authorized by Rule 9(c), 10(b), or 11(b)». 24 I principi sopra enucleati sono infatti recepiti a livello legislativo ancora in pochi stati, tra i quali rientrano il North Carolina, la California e il Texas. Ed è qui che il Family Code nel Chapter 15 codifica il Collaborative Family Law Act. Nel ribadire i tratti salienti che contraddistinguono questa nuova via di composizione del conflitto coniugale è espressamente contemplata la possibilità dei coniugi di ricorrere al Collaborative Law anche nel corso della procedura giudiziale già instaurata: in tali casi, oltre all’onere delle parti di rendere edotto, entro trenta giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo, il tribunale della procedura in corso, è espressamente contemplato quello di informarlo dello stato della procedura entro termini prestabiliti (180 giorni dalla sottoscrizione, un anno e due anni) depositando contestualmente una motion for continuance nel caso in cui non intendano abbandonare le trattative. Allo scadere del biennio il giudice competente può tuttavia respingere la richiesta e disporre la prosecuzione del procedimento giurisdizionale. In virtù della Rule 15.505 l’accordo raggiunto è esecutivo al pari degli accordi transattivi di cui alla Rule 154.071 e il giudice può a sua discrezione recepire i termini dell’accordo nel proprio provvedimento finale. In deroga alla Rule 11, una parte ha diritto a impugnare l’accordo transattivo se esso contiene una dichiarazione ben visibile in grassetto, in maiuscolo o sottolineato, che l’accordo non è soggetto a revoca e se è firmato da ciascuna delle parti e dai rispettivi avvocati. 25 Secondo i report statistici diffusi dall’American Bar Association, reperibili sul sito http://collaborative divorcetexas.com.

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La disciplina introdotta in Francia nel 2010 e in Italia nel 201426 rappresenta l’epilogo e, a tratti, l’evoluzione, di quel processo evolutivo nordamericano tanto difeso da Webb, ma che in America non gode ancora di una regolazione giuridica specifica27. In Francia, per effetto della l. 22 dicembre 2010, n. 1609 entrata in vigore il 23 gennaio 201228, trova i natali la procèdure partecipative29: una procedura di risoluzione alternativa delle liti, diversa sia dalla conciliation che dalla médiation, di carattere volontario ed esperibile per tutti i diritti disponibili (con l’eccezione del contenzioso di lavoro), incluse – sia pur con alcuni limiti – le questioni di diritto di famiglia, inserita nel titolo XVIII al libro terzo del Code Civil30 e poi normata dal Code de procèdure civil in virtù dell’art. 2 del Decreto n. 66 del 20 gennaio 2012. Mutuando i principi del Collaborative law il legislatore francese incentiva il ricorso a forme di composizione autonoma delle controversie e ne regolamenta procedure ed effetti. La collocazione dell’istituto di nuovo conio nel codice civile, che così completa la disciplina del contratto, palesa le caratteristiche principali dell’accordo stipulato dalle parti con la obbligatoria assistenza dei rispettivi avvocati (chiamati a promuovere la soluzione conciliativa e a svolgere attività di moral suasion nei confronti dei propri clienti per evitare il giudizio contenzioso)31. È l’art. 2062 c.c. a disciplinare la convention de procèdure participative attraverso la quale le parti si impegnano ad operare congiuntamente e in buona fede per la risoluzione amichevole della lite o per il pre-trial. In virtù delle modifiche apportate dall’art. 9 della

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Così A. Carratta, in M.G. Ruo (a cura di) Negoziazione assistita nelle separazione e divorzio e procedura davanti all’ufficiale di stato civile, Santarcangelo di Romagna, 2016, 157 ss.; D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra collaborative law e procédure partecipative, cit., 29 s. e M. Bugetti, Nuovi modelli di composizione della crisi coniugale tra collaborative law e tutela della libertà negoziale, cit., 269 ss. 27 In tal senso C. Perago, La compatibilità costituzionale della negoziazione assistita obbligatoria in tema di risarcimento del danno da sinistro stradale, cit., 1914 e D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra collaborative law e procédure partecipative, cit., 30,, cui si rinvia per l’analisi delle conseguenze negative che da detta assenza discendono. 28 V. in particolare l’art. 37 relative à l’exécution des décisions de justice, aux conditions d’exercice de certaines professions réglementées et aux experts judiciaires. Sulla procèdure partecipative francese A. D’Ippolito e P. Della Valle, La negoziazione assistita nella crisi coniugale, Torino, 2018, 53 ss.; N. Fricero, C. Butruille-Cardew, L. Benrais, B. Gorchs-Gelzer, G. Payan, Le guide des modes de rèsolution des differends 2017/2018, Dalloz, Pais, 2017; L. Cadiet e T. Clay, Le modes alternatifs de règlement des conflits, paris, 2017, 56 ss.; G.A. Parini, La negoziazione assistita da avvocati: tecniche e linee evolutive, cit., 71 ss.; D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra collaborative law e procèdure partecipative, cit., 30 ss.; L. Cadiet, E. Jeuland, Droit judiciaire privé, Parigi, 2013, 314 e ss.; L. Cadiet, Panorama des modes alternatifs de règlement des conflits en droit français, in Ritsumeikan law review, 2011, 28, 147 ss.; V. Larrybau- Terneyre, Nouvel essor pour les modes alternatifs et collaboratifs de règlement des litiges en matière familiale, in Droit fam., 2012, 13 ss.; N. Fricero, Le dècret du 20 janvier 2012: vers une rèsolution thèrapeutique des contentieux familiaux par la procèdure partecipative assistèe par avocat, in AJ fam., 2012, 66 ss.; Id., H. Poivey Leclerc e S. Sauphhanor, Procèdure partecipative assistèe par avocat, 2002, Lamy Axedroit; J.P. Chazal, Presèntation du dècret no 2012-66 du 20janvier 2012 relatif à la rèsolution amiable des diffèrends, JCP, 2012, X, 9 ss.; S. Cacace, La riforma francese su mediazione e conciliazione, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 726 ss. 29 Preceduta dal rapporto L’ambition raisonnée d’une justice apaisée di Serge Guinchard, Presidente della Commissione per la ripartizione del contenzioso e reperibile sul sito www.ladocumentationfrancaise.fr/var/storage/rapports-publics/084000392.pdf. 30 Art. 37 legge n. 1609 del 22 dicembre 2010 che ha introdotto gli artt. 2062 - 2067 del Code civil. 31 In relazione ai compensi per l’attività professionale dagli stessi espletata, la procedura partecipativa è accessibile anche tramite il gratuito patrocinio. Tanto in virtù dell’art. 10, comma 2°, della l. n. 91-647 del 10 giugno 1991 relative à l’aide juridique, secondo cui «Elle peut être accordée pour tout ou partie de l’instance ainsi qu’en vue de parvenir, avant l’introduction de l’instance, à une transaction ou à un accord conclu dans le cadre d’une procédure participative prévue par le code civil».

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legge de modernisation de la Justice del 18 novembre 2016, cd. «J21» (Justice of the 21st century), che parzialmente riforma le modalità alternative di risoluzione delle controversie nell’obiettivo di promuoverle, la procèdure non è più relegata alla fase anteriore al giudizio, potendo essere attivata anche nel corso del procedimento giudiziale o arbitrale32 e può divenire una componente del cd. pre-trial. Sono espressamente stabiliti i contenuti minimi della convenzione – redatta in forma scritta a pena di nullità – che dovrà indicare la durata della procedura33, l’oggetto della stessa, unitamente agli atti e ai documenti necessari per dirimere la controversia34. Il Codice di rito aggiunge alcuni elementi in relazione alla convenzione, che ad esempio dovrà menzionare i nomi, i cognomi e gli indirizzi delle parti e dei loro avvocati, che potrà prevedere l’intervento di un consulente tecnico35 e che dovrà precisare le modalità tramite cui debba avvenire la comunicazione delle memorie e dei documenti tra le parti. In forza delle modifiche intervenute ad opera della l. J21 e del Dècret del 6 maggio 2017 n. 892, la stipula della convenzione provoca la sospensione della prescrizione durante il corso del processo partecipativo36 e, in virtù dell’art. 2065 c.c., finché il procedimento è in corso ogni domanda giudiziale sul medesimo oggetto è irricevibile37, restando esperibili solo azioni d’urgenza e cautelari qualora ne ricorrano le condizioni di legge38. In caso di mancato raggiungimento di un accordo, le parti che intendano adire l’autorità giudiziaria sono esentate dall’esperimento del tentativo di conciliazione o di mediazione preventiva, ove previste dalla legge o dalle clausole contrattuali39. La procedura convenzionale si intende conclusa per effetto dello spirare del termine della convenzione partecipativa, della risoluzione anticipata della convenzione o per effetto della stipulazione dell’accordo. Solo in tal caso – e con l’eccezione delle domande di

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La precedente formulazione della norma escludeva la sottoscrizione di una convezione allorché la controversia fosse stata già sottoposta all’esame di un giudice o di un arbitro. Della riscrittura della norma ha poi tenuto conto il decreto 6 maggio 2017 n. 892 che ha modificato l’art. 1543 del codice di rito. Per indicazioni sulle modifiche normative v. N. Fricero, C. Butruille-Cardew, L. Benrais, B. Gorchs-Gelzer, G. Payan, Le guide des modes de rèsolution des differends 2017/2018, cit. e H. Croze e R. Laffly, Dispositions de procèdure civile generale du decret n° 2017-892 du 6 mai 2017, in JCP, 2017, 600 ss. 33 Ai sensi dell’art. 2062 c.c. infatti «Cette convention est conclue pour une durée déterminée». 34 Per effetto delle modifiche intervenute ad opera della l. 18 novembre 2016, cit., anche l’art. 2063 c.c. che elenca il contenuto della convenzione è arricchito con un ulteriore inciso in virtù del quale gli avvocati possono stabilire con controfirma che vengano compiuti determinati atti, secondo un modello predisposto con decreto dal Consiglio di Stato. 35 In forza degli artt. 1544-1555 del codice di rito, le parti possono scegliere di comune accordo di nominare un tecnico determinandone il mandato. Egli sarà remunerato dalle parti, secondo le modalità convenute tra di loro e, prima di accettare l’incarico, sarà tenuto a comunicare tutti i fatti che possono inficiare la propria indipendenza. L’esperto è del resto chiamato ad espletare la sua attività con coscienza, diligenza ed imparzialità nel rispetto del principio del contraddittorio. Il suo operato, che costituisce la base per la negoziazione tra le parti, si formalizza in un rapporto scritto che può, a determinate condizioni, essere prodotto in giudizio in caso di fallimento della negoziazione. 36 La prescription est également suspendue à compter de la conclusion d’une convention de procédure participative. Ed in tal caso, in forza dell’art. 2238, comma 2°, c.c., il termine di prescrizione ricomincia a decorrere dal termine della convenzione, per un tempo che non potrà essere inferiore ai sei mesi. 37 Fatta eccezione per i casi di inadempimento della convenzione ad opera di una delle parti. 38 Precisa, infatti, l’art. 2065 c.c che «En cas d’urgence, la convention ne fait pas obstacle à ce que des mesures provisoires ou conservatoires soient demandées par les parties». 39 V. l’art. 2066, comma 2°, c.c. secondo cui «Lorsque, faute de parvenir à un accord au terme de la convention, les parties soumettent leur litige au juge, elles sont dispensées de la conciliation ou de la médiation préalable le cas échéant prévue».

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divorzio o di separazione su cui è tenuto a provvedere a norma della sezione II del capo V del titolo I del libro III (ossia delle norme inerenti al divorzio e alla separazione) – il giudice può concedere, su istanza delle parti, l’omologa (o eventualmente decidere, in caso di accordo parziale, in merito alla parte del contenzioso rimasto in sospeso utilizzando, se del caso, i materiali probatori emersi in fase di negoziazione)40. L’omologa del tribunale conferisce all’accordo efficacia di titolo esecutivo. In relazione alle controversie aventi ad oggetto i rapporti coniugali, il dettato chiarisce che può essere stipulata una convenzione di procedura partecipativa, essa tuttavia, in forza dell’art. 206741, soggiace ad una regolamentazione specifica. In particolare, qualora i coniugi intendano cercare una soluzione consensuale di divorzio o di separazione42, è espressamente disposta l’inapplicabilità dell’art. 2066 c.c. che regolamenta la possibilità di ottenere l’omologazione dal giudice o di ottenere l’esenzione dal tentativo di conciliazione in caso di mancato accordo. Ne consegue che la domanda di divorzio o separazione legale presentata a seguito di una convention sottostà alla procedura ordinaria e alle norme contenute nel titolo VI del libro I della legge sul divorzio43, essendo possibile ottenere l’omologa dei soli accordi relativi all’esercizio dell’autorità parentale44. Nonostante gli iniziali entusiasmi, la procedure partecipative non gode di larghi consensi e nella pratica conosce rara applicazione, complice probabilmente una disciplina che non appresta sufficienti garanzie a tutela della informal disclosure (sicché lascia le parti esposte al rischio che l’attività svolta nel corso della procedura risulti pregiudizievole in un eventuale futuro giudizio) e che esalta i poteri di ingerenza del tribunale a scapito dell’autonomia delle parti45. Ciò è tanto più vero nella materia familiare, là dove il necessario ricorso alla procedure ordinarie nonostante l’intercorso accordo si pone in contrasto con le esigenze di speditezza ed economicità che dovrebbero informare l’istituto.

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E poi espressamente imposto che, qualora l’accordo richieda la capacità di discernimento di un minore, la richiesta di omologa dovrà dare atto dell’assolvimento degli obblighi informativi attinenti al diritto del minore ad essere ascoltato dal giudice e ad essere assistito da un avvocato. V. l’art. 1557, comma 3°, c.p.c. secondo cui «Lorsque l’accord concerne un mineur capable de discernement, notamment lorsqu’il porte sur les modalités de l’exercice de l’autorité parentale, la requête mentionne les conditions dans lesquelles le mineur a été informé de son droit à être entendu par le juge ou la personne désignée par lui et à être assisté par un avocat». 41 Toute personne, assistée de son avocat, peut conclure une convention de procédure participative sur les droits dont elle a la libre disposition, sous réserve des dispositions de l’article 2067. 42 Une convention de procédure participative peut être conclue par des époux en vue de rechercher une solution consensuelle en matière de divorce ou de séparation de corps. Così recita l’art. 2067 , primo comma, c.c. 43 In forza dell’ultimo inciso dell’art. 2067 c.c. «La demande en divorce ou en séparation de corps présentée à la suite d’une convention de procédure participative est formée et jugée suivant les règles prévues au titre VI du livre Ier relatif au divorce». I coniugi dovranno, quindi, comparire innanzi all’autorità giudiziaria la quale: tenterà la riconciliazione, richiamerà la loro attenzione sull’importanza degli impegni che intendono assumere e potrà modificare, con il loro consenso, gli accordi non conformi all’interesse della prole e del coniuge debole. 44 V. art. 1557, comma 3°, c.p.c. 45 Precisa, peraltro, C. Perago, La compatibilità costituzionale della negoziazione assistita obbligatoria in tema di risarcimento del danno da sinistro stradale, cit., 1914, che lo scarso successo dell’istituto in parola è anche da ascrivere alla convivenza con quello della transazione che nell’ordinamento francese è munita di efficacia esecutiva.

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Segue… In Italia la l. 10 novembre 2014, n. 162, recependo le indicazioni del ceto forense46, codifica la procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati volta alla ricerca di un componimento amichevole della lite 47 e ne estende l’ambito applicativo anche ai procedimenti di separazione, divorzio e di revisione delle condizioni di separazione o divorzio già precedentemente stabilite. Una buona novella questa, se si considera che circa il 75 % delle negoziazioni concluse positivamente e formalizzate in un accordo riguarda proprio la materia familiare48. Avvalendosi della procedura delineata dall’art. 6 della l. 162/14 i coniugi, con l’assistenza di almeno un avvocato per parte, si impegnano a risolvere in via amichevole la controversia insorta: si tratta di una novità assoluta nel contesto giuridico nazionale, una rivoluzione copernicana, si è detto49. Con la gestione collaborativa del conflitto coniugale si erode, di fatto, il principio secondo cui nelle controversie familiari è imprescindibile l’intervento dell’autorità giudiziaria, essendo ogni modifica in materia di status incasellabile nell’alveo della tutela giurisdizionale costitutiva necessaria. Per la prima volta è lasciato ai

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V. G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, in Giusto processo civ., 2015, 2 ss., il quale precisa che, constatati gli insuccessi dei precedenti tentativi, l’Avvocatura ha proposto la negoziazione assistita in risposta alla mediazione obbligatoria. Sui disegni di legge presentati in Parlamento che hanno preceduto il d.l. 132/2014 e la l. 162/2014 ancora Id., op. ult. cit., 3. Sulla disciplina della negoziazione assistita in relazione alla crisi familiare v., per tutti, C. Cecchella, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, Torino, 2018, 292 ss.; B. Poliseno, Profili di tutela del minore nel processo civile, Napoli, 2017, 179 ss.; Id., La procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e di divorzio, in Aa.Vv., Misure urgenti per la funzionalità e l’efficienza della giustizia civile, cit., 67 ss.; Id., La degiurisdizionalizzazione del “non contenzioso” familiare: l’impatto sulle prassi e la promozione del fenomeno anche per le unioni civili, in Aa. Vv., Scritti dedicati a Maurizio Converso, a cura di D. Dalfino, Roma, 2016, 473 ss.; Id., Negoziazione assistita e accordi «amministrativi» in materia di separazione e divorzio, in Giusto proc. civ., 2015, 191 ss.; Id., La convenzione di negoziazione assistita per le soluzioni consensuali di separazione e divorzio, in Foro it., 2015, V, 34; M. Bove, Vie stragiudiziali per la separazione e divorzio, in Riv. dir. proc., 2017, 891 ss.; C. Perago, La compatibilità costituzionale della negoziazione assistita obbligatoria in tema di risarcimento del danno da sinistro stradale, cit., 1912; S. Caporusso, Commento all’art. 6, in La nuova riforma del processo civile, a cura di F. Santangeli, Roma, 2016, 99 ss.; M. Giorgetti, Negoziazione assistita, Milano, 2015, 28 ss.; E. D’Alessandro, La negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, in Giur. it., 2015, 1278 ss.; G. Dosi, La negoziazione assistita da avvocati, Torino, 2015. 47 Ai sensi dell’art. 2 della l. cit., l’oggetto della controversia non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro. Nei casi espressamente indicati dall’art. 3 l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Per le analogie con la disciplina dettata in tema di mediazione obbligatoria, v. D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 53 ss. e G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 10 ss. In relazione alla negoziazione assistita obbligatoria v. Trib. Verona 27 febbraio 2018, in www.eclegal.it, 15 maggio 2018 con nota di E. Bertillo, Sulla (in)compatibilità tra negoziazione assistita obbligatoria e diritto europeo, ove si legge che la disciplina ex art. 3, comma 1°, del d. l. 132/14 cit. deve essere disapplicata in quanto in contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Le procedure ADR obbligatorie sono compatibili con i principi comunitari della tutela giurisdizionale effettiva purché non generino costi ingenti per le parti: la disciplina italiana della negoziazione, invece, presupponendo l’intervento di un difensore, comporta costi non contenuti, tenuto conto dei criteri di determinazione del compenso di avvocato attualmente vigenti. 48 Dato fornito dal Ministro della giustizia nell’intervento presso il Consiglio Nazionale Forense del marzo 2016. Per indicazioni in ordine ai procedimenti in materia familiare avviati all’indomani dell’entrata in vigore della l. 164/2014 cit., cfr. i dati statistici analizzati da B. Poliseno, La degiurisdizionalizzazione del “non contenzioso” familiare: l’impatto sulle prassi e la promozione del fenomeno anche per le unioni civili, cit., 474 ss. e D. Ravenna, ADR: le proposte della Commissione Alpa ed un analisi dei risultati più recenti, in Immobili e proprietà, 2017, 239 ss. V. anche G. Buffone, Mediazione e negoziazione assistita: i primi risultati e le prospettive di riforma, Sguardo all’Europa, in www.ilcaso.it. 49 Tra i tanti F. Danovi, Vie alternative per la risoluzione delle controversie di famiglia e nuove frontiere della tutela dei diritti, in Giusto processo civ., 2016, 1035.

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coniugi il potere di regolamentare i diritti, talvolta personalissimi, di cui essi sono portatori50. L’innovazione si fa ancora più evidente se si considera che, a differenza di quanto previsto originariamente dal d.l. 132/2014, la disposizione di nuovo conio apertis verbis allarga l’ambito applicativo del procedimento in parola anche alle ipotesi in cui vi siano figli minori, maggiorenni incapaci, portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti51. Il chiaro tenore letterale della norma esclude però di ipotizzare estensioni in via analogica del nuovo istituto ad ambiti non specificamente previsti ex lege. Il pensiero corre alle ipotesi di crisi della famiglia non fondata sul matrimonio, sicché, qualora cessi la convivenza, le questioni attinenti all’affidamento o al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio restano demandate all’autorità giurisdizionale52. Non sono chiare le ragioni che giustifichino siffatta esclusione e che abbiano indotto i conditores a non recepire le proposte contenute nel progetto di legge Contento – Paniz n. 4376 del 25 maggio 201153. In relazione invece alle ipotesi di scioglimento dell’unione civile è espressamente sancita dall’art. 1, 25° comma, della legge 20 maggio 2016, n. 76, l’applicabilità delle statuizioni contenute negli artt. 6 e 12 della l. 162/201454.

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Sulla forte accentuazione della struttura privatistica dei rapporti familiari, v. F. Tommaseo, Libertà negoziale e principio dispositivo nei procedimenti in materia di famiglia, in Fam. e dir., 2018, 419 ss. Per alcune riflessioni sulla presunzione di indisponibilità delle situazioni sostanziali coinvolte nella crisi del matrimonio, v. le considerazioni di B. Poliseno, Negoziazione assistita e accordi «amministrativi» in materia di separazione e divorzio, cit., 193 s. 51 Sulla formulazione originaria del d.l. 132/2014, v. le osservazioni di A. Bugetti, Separazione e divorzio senza giudice: Negoziazione assistita da avvocati e separazione e divorzio davanti al Sindaco, in Corr. giur., 2015, 515 ss. 52 In tal senso v. Trib. Como, 13 gennaio 2016, in www.osservatoriofamiglia.it., ove si precisa che lo strumento della negoziazione assistita nella materia familiare è previsto espressamente solo per le coppie coniugate, separande o divorziande, onde elaborare o modificare la disciplina delle condizioni di separazione e di divorzio, da sottoporsi al vaglio del pubblico ministero. Rilevato quindi che non è prevista la estensione di detto istituto ai fini della regolamentazione delle relazioni genitoriali per le coppie non coniugate, l’accordo deve essere depositato ed esaminato dal tribunale in camera di consiglio, ai fini della ratifica delle conclusioni condivise dalle parti, previa audizione dei genitori da parte del giudice relatore, in conformità al protocollo adottato dall’ufficio per i ricorsi proposti congiuntamente dai genitori naturali ex art. 337 bis cc. Sul punto si segnala che la Commissione di studio ministeriale incaricata di elaborare una disciplina organica di riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione presieduta dal Prof. Guido Alpa, reperibile su www.milianosservatorio.it/wp.content/TESTO-FINALECOMMISSIONE-ALPA-Aggiornato.pdf., ha in effetti proposto di allargare l’ambito oggettivo di operatività della negoziazione assistita nei procedimenti relativi alla famiglia, facendovi rientrare anche la soluzione di controversie in tema di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio. 53 In www.camera.it/_dati/lavori/spampati/pdf/16PDL0049450.pdf. Ivi era infatti contemplata l’estensione la disciplina della negoziazione anche agli accordi per l’affidamento e il mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio e la previsione di un’omologa da parte del tribunale anche senza la convocazione delle parti. 54 Sulla disciplina ivi prevista, v. le considerazioni di L. Prendini, Considerazioni in ordine a taluni profili processual-civilistici della convivenza di fatto, di cui alla legge n. 76 del 20176, in Giusto processo civ., 2017, 1185 ss.; F.S. Damiani, Aspetti processuali delle disciplina delle unioni civili, id., 2016, 695 ss, spec. 714; G. Casaburi, Le unioni civili tra persone dello stesso sesso nella l. 20 maggio 2016, n. 76, in Foro it., 2016, I, 2246 ss. e B. Poliseno, Un istituto ad hoc per le sole unioni civili di coppie omosessuali, in Guida al dir., 2016, fasc. 9, 22 ss., ai quali si rinvia per approfondimenti.

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6. Il procedimento che conduce alla sottoscrizione

dell’accordo di separazione o divorzio.

L’iter che conduce all’accordo è sommariamente disciplinato nell’art. 6 della l. 162/2014: all’invito che la parte ed il suo avvocato rivolgono alla controparte segue l’accettazione di quest’ultima e quindi la stipula della convenzione di negoziazione. Trovano applicazione, per quanto non espressamente disposto, le norme di carattere generale previste dal capo II della legge relative a tutte le ipotesi di negoziazione assistita, sicché l’invito a stipulare la convenzione deve indicare l’oggetto della controversia e contenere l’avvertimento che la mancata risposta allo stesso entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto possono essere valutati dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 e 642, 1° comma, c.p.c.55. All’invito, che può essere inoltrato in tutte le forme idonee a dare certezza della ricezione da parte del destinatario (e quindi sia tramite raccomandata, sia tramite posta elettronica certificata), segue l’accettazione e poi la redazione della convenzione – i cui contenuti minimi sono sanciti dall’art. 2 – mediante la quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza degli avvocati56. Esse restano libere di integrare il contenuto della convenzione prevedendo eventualmente la possibilità di ricorrere ad esperti o consulenti che facilitino la composizione bonaria. Le esperienze americane e i risultati raggiunti dal team collaborativo insegnano del resto che l’approccio multidisciplinare e di squadra consente una più efficace e consapevole gestione del conflitto e che l’esperienza e la professionalità di figure specializzate permettono di focalizzare l’attenzione sul benessere e sugli interessi dei minori, oltre che di ristabilire la comunicazione tra i coniugi. L’invito non è comunque presupposto di validità della convenzione: le manifestazioni reciproche di disponibilità pervenute anche oralmente non inficiano la convenzione. Un sicuro presupposto di validità dell’accordo, quantomeno in relazione alla negoziazione familiare, è invece rappresentato dalla convenzione ex art. 2 di negoziazione trattandosi di patti altrimenti non raggiungibili secondo il diritto comune57.

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Rispetto alla mediazione il nesso con il processo è qui più sfumato: le sanzioni incidono infatti unicamente sul profilo delle spese, della responsabilità e dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo. Per approfondimenti v. D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 44 s. Sulla portata deterrente della sanzione contemplata dall’art. 4 del d.1. 132/2014 v. A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018, 285 s. Sui contenuti essenziali della convenzione di negoziazione v., da ultimo, S. Deplano, Sul rapporto tra convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati e «accordo che compone la controversia», in Giusto processo civ., 2017, 1219 ss. 56 Per rilievi sulla portata delle norme che sanzionano il comportamento scorretto delle parti nelle procedure di composizione alternativa delle liti, v., per tutti, B. Zuffi, La tutela della buona fede negli obblighi (convenzionali e legali) di composizione alternativa delle liti, in Giusto proc. civ., 2017, 839 ss. 57 In tal senso F.P. Luiso, Le disposizioni in materia di separazione e divorzio, in Processo civile efficiente e riduzione arretrato, a cura di Luiso, Torino, 2014, 39.

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Dell’accordo si occupa l’art. 6, 3° comma, che espressamente ne disciplina contenuti ed efficacia. In relazione ai primi, merita di essere evidenziato che nell’accordo i difensori devono certificare di aver tentato di conciliare – o forse riconciliare – le parti58, di averle informate della possibilità di esperire la mediazione familiare, nonché dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori. Il riferimento espresso alla mediazione familiare merita di essere salutato con favore: è riconosciuto ora anche normativamente il valore di procedure stragiudiziali che finora si innestavano in un procedimento già avviato su iniziativa del giudice investito della controversia. La mediazione familiare, generalmente intesa alla stregua di una parentesi “infraprocessuale” rimessa al potere discrezionale dell’organo giurisdizionale e comunque normata a livello nazionale solo in poche e circoscritte ipotesi (cioè unicamente in relazione al caso in cui il giudice abbia emanato un ordine di protezione contro gli abusi familiari, ai sensi dell’art. 342 ter c.c., o allorché egli debba adottare uno dei provvedimenti di cui all’art. 337 ter c.c.59), entra così a gamba tesa nella procedura stragiudiziale prodromica all’accordo, là dove è destinata a sortire più benèfici effetti60. Mediazione e negoziazione, infatti – seppur strutturalmente differenti – condividono l’approccio conciliativo e non rappresentano due strumenti alternativi di gestione del conflitto: la negoziazione costituisce piuttosto un’occasione ulteriore per sperimentare l’utilizzo della mediazione familiare nella fase che più gli è consona (esterna e precedente alla fase giudiziale). L’accordo raggiunto regola (o modifica) le condizioni personali e patrimoniali della separazione o del divorzio: conterrà la modifica dello status dei coniugi, da sposati a separati o divorziati, gli aspetti economici della cessazione dell’unione coniugale, nonché le disposizioni riguardanti i figli e quindi la misura e il modo in cui i genitori dovranno contribuire al loro affidamento e mantenimento (tenendo conto – ci si augura – delle provvide Linee guida per La sezione famiglia predisposte dai tribunali).

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Sul pleonastico obbligo v. B. Poliseno, La procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, cit., 74, nt. 19, la quale non manca di osservare che dette attestazioni sono destinate a tradursi in mere formule di stile. 59 In virtù dell’art. 336 octies, comma 2°, c.c., infatti, il giudice qualora ne ravvisi l’opportunità, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 337 ter c.c. «per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli». 60 Ci si augura un mutamento di attitudine, una maggiore propensione alla mediazione familiare anche da parte degli avvocati: sebbene manchi una compiuta regolamentazione della mediazione familiare è sicuramente opportuno che essa si innesti regolarmente anche e soprattutto nella fase della negoziazione prodromica all’accordo. In quest’ottica si pongono il disegno di legge 2686, Istituzione ella figura del mediatore familiare e disposizioni in materia di mediazione familiare, e il disegno di legge 735, Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità, che nel disciplinarne compiti e funzioni e responsabilità, conferiscono cittadinanza alla figura del mediatore familiare così promuovendo la rilevanza pubblica e la funzione sociale dell’attività da questi svolta. In relazione alla mediazione familiare, con l’auspicio che ad essa possa essere assegnato il valore che in ambito internazionale le viene ormai comunemente riconosciuto, v. F. Danovi, Vie alternative per la risoluzione delle controversie, cit., 1049 s. V. anche D. D’Adamo, La mediazione familiare come metodo integrativo di risoluzione delle controversie, in Riv. dir. proc., 2015, 377 ss.; F. Tommaseo, Mediazione familiare e processo civile, in Fam. e dir., 2012, 831 ss.; Oberto, Gli aspetti della separazione e divorzio nella famiglia, Padova, 2012, 172 ss.; G. Impagnatiello, La mediazione familiare nel tempo della mediazione finalizzata alla conciliazione civile e commerciale, in Fam e dir., 2011, 525 ss.; M. Buzzi e J.M. Haynes, Introduzione alla mediazione familiare, Torino, 2011, 15 ss.

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7. Il vaglio della magistratura requirente. – Segue… la struttura eventualmente trifasica del procedimento.

Raggiunto l’accordo è normativamente contemplato l’onere degli avvocati di certificare l’autografia delle firme e la conformità dello stesso alle norme imperative e all’ordine pubblico, nonché di trasmetterlo al Procuratore della Repubblica presso il tribunale competente. Il procedimento delineato dall’art. 6 della l. 162/2014 cit. contempla infatti l’intervento dell’organo giurisdizionale nella fase finale della procedura61. Una deviazione questa rispetto alla disciplina dettata per la negoziazione in generale ai sensi dell’art. 2 e ss. della l. 162/2014, in relazione alla quale l’accordo sottoscritto dalle parti e vidimato dai difensori costituisce titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale senza necessità di omologa da parte del tribunale62. Nelle fattispecie in esame il deposito dell’accordo apre il varco al controllo demandato all’autorità giurisdizionale, controllo che, nelle ipotesi in cui non vi siano figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti, è circoscritto alla verifica della regolarità formale dell’accordo stipulato dai coniugi. In caso di esito positivo il pubblico ministero concede agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti indicati nell’art. 6, comma 3°, che si traducono nella trasmissione, entro dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, della copia autenticata dell’accordo munito delle certificazioni di cui all’art. 563. Si tratta di un’attività del tutto nuova i cui confini incerti sollevano le perplessità degli operatori: il controllo “meramente formale” riservato al pubblico ministero nelle ipotesi in cui non vi siano minori o soggetti meritevoli di particolare tutela è da intendersi limitato

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Critica nei confronti della scelta legislativa di investire - ancora una volta - della tutela degli status l’organo che forse meno si presta ad assolvere questo compito è S. Caporusso, Profili processuali delle nuove procedure consensuali di separazione e divorzio, in Riv. dir. civ., 10715 ss., a parer della quale sarebbe stato più opportuno affidare la tutela di quegli status direttamente al Presidente. 62 Sull’esecutività dell’accordo lì raggiunto e sulla bontà delle scelte legislative compiute dai conditores v. G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita, cit., 19 s e D. Dalfino, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 51 s. e F. Danovi, Il d.l. 132/2014: le novità in tema di separazione e divorzio, in Fam. e dir., 2014, 952. 63 E’ qui il caso di sottolineare il più ristretto ambito applicativo del procedimento in parola nella originaria formulazione del d.l. 132/204 che escludeva il ricorso alla negoziazione assistita in presenza di figli minori, maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti. La limitazione era comunque controbilanciata dalla mancata previsione dell’omologa da parte del tribunale. Per approfondimenti v. M. Gradi, Inefficienza della giustizia civile e “fuga” dal processo, Messina, 2014, 105 ss. Per approfondimenti e per ulteriori riflessioni sul ruolo che il pubblico ministero è chiamato ad assolvere a tutela dell’interesse del minore, v. B. Poliseno, Profili di tutela del minore nel processo civile, cit., 179 ss. E’ peraltro in tal caso normativamente imposta la trasmissione dell’accordo al Consiglio dell’ordine del luogo ove l’accordo è raggiunto o presso cui l’avvocato è iscritto. Ciò al fine di consentire al consiglio nazionale forense di monitorare le procedure (sebbene, precisa G. Trisorio Liuzzi, op. ult. cit., sarebbe stato preferibile ritenere obbligatoria la trasmissione in ogni caso, cioè anche nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’accordo o di rifiuto dell’invito, in modo da valutare non solo il successo della procedura ma anche il suo grado di accettazione da parte della classe forense). In relazione agli obblighi di trasmissione, si segnala l’iniziativa del Consiglio nazionale forense volta a mettere a disposizione degli avvocati un Gestionale che facilita il deposito degli accordi e fornisce agli operatori il fac-simile per l’invito, l’adesione, la convenzione ecc.

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alla verifica dei contenuti minimi dell’accordo così come stabiliti dalla legge e all’accertamento della non contrarietà dello stesso alle norme imperative e all’ordine pubblico. La legge espressamente adopera il sostantivo nullaosta, omette di definire quali siano i termini entro i quali esso deve pervenire 64 e le attività prodromiche al suo rilascio. Non è quindi chiaro se il procuratore possa svolere attività di indagine, senz’altro ipotizzabile in ragione della natura requirente dell’organo, se possa richiedere alle parti informazioni e documenti non forniti inizialmente65 e, soprattutto, non è chiaro l’oggetto del suo controllo con specifico riferimento al contenuto dell’accordo66. Esulano sicuramente dal controllo l’opportunità o la convenienza dei patti sottoscritti dai coniugi. Indiscusso è invece il potere-dovere del pubblico ministero di verificare documentalmente l’esistenza di un matrimonio validamente contratto, le condizioni stabilite dalla legge per procedere al divorzio, il rispetto dei termini imposti dalla l. 164/2014, l’adempimento, da parte degli avvocati, degli obblighi – anche informativi – loro imposti, la regolarità delle sottoscrizioni, ecc. 67. Il problema, tuttavia, si pone in merito alla valutazione della conformità dell’accordo ai principi di ordine pubblico e alle norme imperative68. Più precisamente, occorre domandarsi se, nell’ottica della tutela del coniuge debole, l’organo giurisdizionale sia tenuto a verificare, di volta in volta, l’esatta e corretta osservanza da parte dei coniugi dei criteri codificati e applicati nel diritto vivente. Non si vogliono ripercorrere e approfondire le questioni interpretative poste in relazione al dovere dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia (si allude a titolo esemplificativo alla querelle attinente alla corretta esegesi delle prescrizioni di cui all’art. 156 c.c. e all’art. 5 della legge 898/1970, in relazione al diritto del

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Sebbene ci si orienti, nella pratica, a ritenere che esso debba pervenire entro cinque giorni dal deposito dell’accordo, in simmetria con quanto disposto dalla norma in relazione all’ipotesi in cui vi siano minori o soggetti cd. deboli. 65 Ammette siffatta possibilità, nonostante i ristretti tempi a sua disposizione, A. Ronco, Negoziazione assistita e separazione personale dei coniugi, in Giur. it., 2015, 1043. In relazione ai documenti da sottoporre all’esame del pubblico ministero, le linee guida fornite dal CNF e dalle Procure della Repubblica consigliano di depositare: in caso di separazione personale, l’estratto per riassunto dell’atto di matrimonio, il certificato di residenza di entrambi i coniugi; se ci sono figli la dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni e la certificazione sanitaria, mentre in caso di divorzio: l’estratto per riassunto dell’atto di matrimonio; il certificato di residenza di entrambi i coniugi, il certificato di stato di famiglia di entrambi i coniugi, eventualmente la copia del verbale e l’omologa della separazione consensuale e della sentenza di separazione giudiziale passata in giudicato o la convenzione di separazione di negoziazione assistita da avvocati o l’accordo concluso innanzi all’ufficiale di stato civile, oltre alla dichiarazione dei redditi degli ultimi tre anni e alla certificazione sanitaria. 66 Nutre oltretutto dubbi sulla capacità delle procure di svolgere con la dovuta attenzione i compiti assegnati dal legislatore S. Chiarloni, Minime riflessioni critiche su trasferimento in arbitrato e negoziazione assistita, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 224 s. 67 Sulle attività di controllo demandate al pubblico ministero, v. A. Ronco, Negoziazione assistita e separazione personale dei coniugi, cit., 1403 s.; M.A. Lupoi, Separazione e divorzio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 293; M. Crescenzi, La degiurisdizionalizzazione nei procedimenti di famiglia, in www.questionegiustizia, 1, 2015 § 3 e G. Gabassi, Separazione e divorzio semplificati o complicati? Prime note agli artt. 6 e 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, in l.10 novembre 2014, n. 162, in Studium Juris, 2015, 139. 68 Nega al procuratore il potere-dovere di verificare la non contrarietà dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico, essendo a ciò deputati gli avvocati delle parti, E. D’Alessandro, La negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, cit., 1283, ma contra M. Bove, Vie stragiudiziali per separazione e divorzio, cit., 894, che peraltro si domanda come potrebbe il procuratore della Repubblica concedere un nullaosta in presenza di un evidente errore degli avvocati. In questo senso vedi anche F. Tommaseo, La separazione e il divorzio. Profili processuali e «degiurisdizionalizzazione» alla luce delle recenti riforme, in Corriere giur. 2015, 1141 ss., spec. 1146.

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coniuge di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, all’entità dell’assegno di mantenimento e ai criteri valevoli per determinarlo, ecc.), tuttavia non può qui non domandarsi se gli indici normativi relativi agli obblighi gravanti sui coniugi dopo la fine della convivenza o sugli ex coniugi, così come intesi e applicati dalla giurisprudenza anche di legittimità, siano da considerarsi liberamente derogabili o se, al contrario, nonostante l’intervenuto accordo restino configurabili alla stregua di norme imperative e, quindi, oggetto di valutazione da parte del pubblico ministero69. Se alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, la giurisprudenza della Cassazione è concorde nel ritenere alcuni diritti – anche di ordine patrimoniale – indisponibili sarà certamente tenuto il pubblico ministero a negare il nullaosta tutte le volte in cui le determinazioni assunte dai coniugi in sede di accordo implichino violazione dei principi valevoli in sede giudiziale: la conformità dell’accordo alle norme imperative dovrà investire allora anche determinazioni di tal fatta, non perdendo i criteri di legge il loro carattere di inderogabilità a fronte del mutuo consenso delle parti70. Ciò implica però valutazioni assai più complesse, presuppone competenze specialistiche ed un certo grado di esperienza che gli uffici della procura non possono sempre assicurare. La mancata previsione di una regolamentazione dettagliata indurrà poi il proliferare di prassi differenti da ufficio a ufficio: nessuna delle linee guida diffuse dai Tribunali d’Italia regolanti i termini e le modalità operative in caso di trasmissione dell’accordo, peraltro, specifica alcunché in relazione alle valutazioni rimesse al pubblico ministero nella specifica ipotesi in cui debba essere rilasciato un mero nullaosta71. Segue… Si è già detto che in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3°, della l. 104/1992, ovvero economicamente non autosufficienti, l’art. 6, comma 3°, della l. 162/2014 cit. delinea un procedimento più complesso e del tutto nuovo: il vaglio del pubblico ministero a cui l’accordo è trasmesso ha ad oggetto, questa volta, non soltanto la regolarità formale bensì anche la congruità dello stesso all’interesse dei soggetti deboli coinvolti e conduce in caso positivo ad un’«autorizzazione»72.

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Si pensi agli accordi economici che abbiano ad oggetto la rinuncia a un futuro diritto o la limitazione della libertà processuale delle parti, quale, ad esempio, la rinuncia al diritto agli alimenti, o al diritto di mantenimento o, ancora, o alla revisione dell’assegno, ecc. 70 Non manca chi demanda al pubblico ministero la verifica in ordine alla effettiva volontà dei coniugi di separarsi o divorziare, sì da evitare il raggiungimento di accordi fittizi, diretti a fini fiscali o pensionistici. In tal senso M. Crescenzi, La degiurisdizionalizzazione nei procedimenti di famiglia, cit., § 2, secondo cui il pubblico ministero dovrebbe, tra le altre cose, «verificare che siano indicati i diversi luoghi di residenza che assumeranno i coniugi o pretendere, quantomeno, una pianta della casa con un progetto di divisione, perché se si sospetta che una separazione sia finta non si può dare il nulla osta». 71 A maggior ragione il problema della tutela del coniuge debole si pone in relazione all’accordo concluso innanzi all’ufficiale di stato civile ai sensi dell’art. 12 della l. 162/2014, là dove la presenza dell’avvocato non è nemmeno obbligatoria. 72 Sulla portata del controllo richiesto, M. Giorgetti, La negoziazione assistita, cit., 30 ss.; A.N. Bugetti, Separazione e divorzio senza giudice: Negoziazione assistita da avvocati e separazione e divorzio davanti al Sindaco, cit., 522 s., la quale si interroga se la differente terminologia legislativa corrisponda ad una voluta differenziazione degli atti oppure se essi abbiano comuni effetti e funzioni.

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L’intervento più pregnante dell’organo giurisdizionale mitiga l’autonomia negoziale delle parti e – si è detto – la privatizzazione in atto73. Il ruolo del pubblico ministero, non assimilabile a quello che egli ricopre nell’ambito del procedimento giurisdizionale74, assume qui una particolare valenza: egli è ora chiamato a valutare il merito dell’accordo al pari dell’organo giudicante e a trasmetterlo al Presidente del tribunale allorché lo reputi non rispondente all’interesse superiore dei minori. In tal caso valgono, a maggior ragione, le osservazioni già svolte in ordine alla possibilità che il pubblico ministero svolga attività investigativa dovendo la sua verifica estendersi alla bontà e all’opportunità delle soluzioni accordate dai coniugi in vista di un sano ed equilibrato sviluppo psicofisico del minore75. Non è escluso che il pubblico ministero possa richiedere ai coniugi documenti fiscali, bancari o immobiliari atti a determinare le capacità contributive e di mantenimento di ognuno e spingersi ad estendere l’indagine sulle ragioni addotte per giustificare le modalità di affidamento dagli stessi prescelte. Si tratta di una valutazione in ogni caso sommaria svolta dall’organo requirente entro termini assai ristretti e senza il coinvolgimento dei coniugi76. La mancata autorizzazione dell’accordo innesta una ulteriore fase dal momento che il pubblico ministero adito, se ritiene che l’accordo non risponde all’interesse dei figli, lo trasmette entro cinque giorni al Presidente del tribunale il quale fissa entro i successivi trenta giorni la comparizione delle parti e provvede senza ritardo.

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Scrive B. Poliseno, Profili di tutela del minore nel processo civile, cit., 179; Id., La procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e di divorzio, cit., 77, che l’intervento del pubblico ministero denota una certa titubanza del legislatore nei confronti della liberalizzazione in atto, titubanza che lo induce a introdurre nella fase finale della procedura una sorta di surrogato dell’intervento giurisdizionale vero e proprio. In tal senso anche F. Danovi, I nuovi modelli di separazione e divorzio: un’intricata pluralità di protagonisti, in Fam e dir., 2014, 1144. 74 V. B. Poliseno, Profili di tutela del minore nel processo civile, cit., 181 ss., che sottolinea il duplice ruolo che il pubblico ministero riveste nella crisi del matrimonio: se nel procedimento giurisdizionale egli assume una valenza marginale limitandosi egli ad apporre il visto prima del provvedimento di omologa, in caso di negoziazione gli è conferito un ruolo invece centrale di valutazione dell’accordo. 75 Nel senso che la violazione dell’obbligo informativo posto a carico degli avvocati e avente ad oggetto l’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascun genitore, seppur non presidiato da sanzione di nullità della negoziazione, osta all’autorizzazione all’accordo qualora sia tale da comportare la determinazione di un calendario di visita in contrasto con l’interesse del minore a conservare una relazione continuativa con uno dei genitori nel rispetto del principio di bigenitorialità, v. Trib. Torino, 30 maggio 2017, in Foro it., Rep. 2017, voce Conciliazione in genere, n. 28 e in Merito, 2017, con nota di M. Giammarelli, L’omissione dell’obbligo informativo nella negoziazione assistita. Sugli eccessivamente elastici margini delle valutazioni rimesse al pubblico ministero v. A. Ronco, Negoziazione assistita e separazione personale dei coniugi, cit., 1044, a parer del quale l’organo requirente ha senz’altro il dovere di controllare la coerenza interna dell’atto, ossia «la consonanza tra le (eventuali) premesse descrittive e i patti riguardanti i figli, tra i singoli patti riguardanti i figli, tra i patti riguardanti le parti e quelli relativi ai figli»; egli poi dovrà considerare se gli accordi relativi alla permanenza con l’uno e l’altro genitore rischino di generare nel figlio situazioni di disagio o di difficoltà nella conduzione della quotidiana esistenza, ecc. 76 Precisa F. Danovi, Vie alternative per la risoluzione delle controversie, cit., 1042, che il procedimento qui descritto, semplificato e nelle sue linee portanti anche per ciò che concerne il coinvolgimento dell’organo requirente rappresenta un chiaro indice del generale intento di degiurisdizionalizzazione perseguito dal legislatore. Le attività di mero controllo ad egli affidate non valgono dunque a reintrodurre l’idea della giurisdizionalità.

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Anche in relazione al subprocedimento imbastito in caso di diniego dell’autorizzazione ad opera del procuratore della Repubblica la laconicità del dettato lascia all’interprete il gravoso compito di delinearne i confini77. Controversa è la natura stessa del procedimento che innanzi al Presidente si instaura. All’indomani dell’entrata in vigore della novella si era ipotizzato che per effetto della translatio dell’accordo dovesse ex officio attivarsi il procedimento di separazione consensuale ex art. 711 c.p.c., di divorzio congiunto ex art. 4, 16° comma, l. div. o quello camerale di revoca delle condizioni già stabilite ex art. 710 c.p.c., con l’ulteriore possibilità di adottare i provvedimenti temporanei ed urgenti di cui all’art. 708, terzo comma, c.p.c.78. Le ragioni che inducono ad escludere che, con l’imprecisa formula «provvede senza ritardo», il legislatore abbia voluto alludere alla trasformazione del rito in consensuale o congiunto sono molteplici. Prima tra tutte l’assenza di un atto introduttivo del processo ad opera delle parti – uniche legittimate ad agire – da cui si evinca la volontà delle stesse di esercitare il proprio personalissimo diritto a separarsi o divorziare79. Peraltro, se in caso di diniego ad opera del pubblico ministero del nullaosta le parti sono libere di sottoporre all’organo requirente un nuovo e diverso accordo o di fruire degli ordinari procedimenti giurisdizionali, non si rinvengono ragioni che inducano a ritenere esclusa siffatta autonomia di scelta tutte le volte in cui vi siano minori o altri soggetti meritevoli di tutela. La rispettosa osservanza del principio della domanda e di quello della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato induce ad avallare una linea interpretativa diversa e a ritenere che il nuovo subprocedimento, lungi dal comportare un’inversione della procedura

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All’indomani della novella si chiede infatti cosa avvenga dopo la comparizione delle parti F. Danovi, I nuovi modelli di separazione e divorzio: un’intricata pluralità di protagonisti, cit., 1142 ss. Per l’orientamento secondo cui la fase innanzi al Presidente apre le porte alla verifica di merito sulle condizioni della separazione pattuite dai coniugi v. G. Carmellino, Crisi familiare e degiurisdizionalizzazione, in Riv. dir. proc., 2018, 487 s. 78 In tal senso A. Carratta, in Carratta- D’Ascola, Nuove riforme per il processo civile: il d.l. 132/2014, in www.treccani.it § 2.3. Nel senso che la fase innanzi al Presidente avvia il procedimento giudiziale vero e proprio anche F.P. Luiso, Processo civile efficiente e riduzione dell’arretrato, Torino, 2014, 39; M.A. Lupoi, Separazione e divorzio, cit., 295; C. Punzi, La degiurisdizionalizzazioe della giustizia civile, in Aa. Vv., Il processo civile. Sistema e problematiche, Le riforme del quinquennio 2010-2014, Torino, 2015, 212. Sia pur in attesa di valutare la questione alla luce dell’avvicendarsi delle prassi, così si è espressa inizialmente anche B. Poliseno, Negoziazione assistita e accordi «amministrativi» in materia di separazione e divorzio, cit., 2012 s. e Id., La procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, cit., 79. Nella giurisprudenza v., per tutte, v. Trib. Pistoia, 16 marzo 2015, che, successivamente al diniego del PM e alla trasmissione al Presidente, ha omologato la separazione consensuale previa consultazione dei coniugi ed integrazioni documentali. Secondo Trib. Torino, 15 gennaio 2015 (in Fam. dir., 2015, 392 ss., con nota di F. Tommaseo, Separazione e negoziazione assistita e poteri giudiziali a tutela dei figli: primi orientamenti giurisprudenziali; in Giur. it., 2015, 1400, con nota di A. Ronco, Negoziazione assistita e accordi tra coniugi: il ruolo del pubblico ministero e del presidente del tribunale, cit.; in Nuova giur. civ. comm., 2015, 695, con nota di A. Nascosi, I poteri del presidente del tribunale nell’ipotesi di diniego dell’accordo da parte del pubblico ministero in sede di negoziazione assistita, nonché in www.eclegal.com, con nota di M. Ciccone, Negoziazione assistita familiare tra ADR e processo), allorché i coniugi non intendano recepire le osservazioni del pubblico ministero, saranno tenuti a depositare un ricorso ad hoc per l’avvio del procedimento giurisdizionale, contenente la rinuncia ad avvalersi del procedimento di negoziazione. Come sottolinea B. Poliseno, Profili di tutela del minore nel processo civile, cit., 184, nt. 106, nella stessa direzione muove il Tribunale di Bologna nelle cui linee guida è apertis verbis chiarito che la trasmissione determina l’attivazione di un ordinario procedimento di separazione consensuale, di divorzio o di revisione delle condizioni di separazione o divorzio già assunte. 79 Esclude l’instaurazione ex officio di un processo senza alcuna domanda di parte M. Bove, Vie stragiudiziali per separazione e divorzio, cit., secondo cui la «eufemisticamente «leggera» previsione certamente non possa essere intesa in un modo che si porrebbe in netto contrasto con principi fondamentali della giustizia civile».

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e l’instaurazione di un giudizio ordinario, introduce un nuovo procedimento camerale di volontaria giurisdizione, in parte atipico, in quanto assoggettato alla competenza di un organo monocratico e destinato a concludersi con un provvedimento che assume la forma del decreto80. La circostanza che, per effetto della trasmissione, si attivi un ulteriore genus di separazione o divorzio su accordo non desta meraviglia rappresentando uno sviluppo plausibile del procedimento in vista del superiore interesse dei minori o dei soggetti cd. deboli coinvolti81, né comporta un aggravio in termini di tempo e costi per i coniugi intenzionati a comporre con l’ausilio del Presidente il conflitto coniugale. Tanto in considerazione dei termini assai ristretti prescritti per la comparizione delle parti82, nonché della mancata debenza del contributo unificato. In virtù dell’orientamento interpretativo espresso dall’intervento ministeriale del 31 luglio 2015 e poi ribadito nella circolare 14 giugno 2018, l’esenzione dal contributo unificato di iscrizione al ruolo prevista per la trasmissione al pubblico ministero83 deve ritenersi, infatti, estesa anche alla fase successiva innanzi al Presidente, «considerata una mera continuazione (eventuale) del procedimento che per definizione di legge, è degiurisdizionalizzato»84. La fase “presidenziale” pone all’interprete un’ulteriore questione problematica, attinente questa volta ai poteri delegati al Presidente: la norma non chiarisce se, a fronte del diniego del PM, egli possa solo invitare le parti ad uniformarsi alle valutazioni dell’organo requirente o se possa autorizzare l’accordo a condizioni diverse da quelle indicate. In tal senso

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Così Trib. Torino, 20 aprile 2015, in www.eclegal.com, con nota di M. Ciccone, Negoziazione assistita familiare tra ADR e processo, cit., ove si legge che in caso di diniego del pubblico ministero nel concedere l’autorizzazione richiesta, la competenza demandata al Presidente non comporta una conversione della procedura e l’insaturazione di un giudizio ordinario di separazione, divorzio o modifica delle relative condizioni, ma introduce una procedura nuova e in parte atipica. Nel senso che il provvedimento finale assume la forma del decreto v. Trib. Palermo, 1° dicembre 2016, in Merito extra, n. 2017.505.1, che peraltro esclude la competenza del tribunale in composizione collegiale che dovrebbe pronunciare decreto di omologa, sentenza di divorzio o decreto di revisione: soluzione questa «che si scontra con l’assenza, fin dall’inizio, di una domanda giudiziale per cui pronunciare statuizione giurisdizionale decisoria e che finirebbe con il cancellare il ruolo dell’accordo di negoziazione che, invece, rimane centrale». 81 In senso fortemente critico, di quintum genus di separazione o divorzio su accordo (da aggiungersi alle ipotesi tradizionali, a quelle davanti al sindaco ai sensi dell’art. 12 della l. 162/2014 e a quelle contemplate dall’art. 6, per la negoziazione assistita senza figli o autorizzata dal pubblico ministero) parla F. Danovi, I nuovi modelli di separazione e divorzio: un’intricata pluralità di protagonisti, cit., 1143. 82 L’utilizzo dell’espressione letterale «deve» fa propendere per la perentorietà del termine. A favore della natura ordinatoria dello stesso v. G.A. Parini, La negoziazione assistita in ambito familiare e la tutela dei soggetti deboli coinvolti, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 20605, che fa leva sull’art. 152 c.p.c., in base al quale i termini giudiziari si presumono ordinatori, in mancanza di specifica previsione contraria. 83 V. la Circolare ministeriale 15 giugno 2018, n. 121894. Già la Circolare ministeriale del marzo 2015 aveva escluso il pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo di cui all’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, dovuto “per ciascun grado di giudizio” su richiesta di attività giurisdizionali delle parti al momento del deposito dell’accordo in vista del nullaosta o dell’autorizzazione. Nella medesima circolare, sempre in relazione al procedimento di negoziazione assistita, si esclude anche applicazione della sospensione feriale dei termini processuali di cui all’art. 1, l. 7 ottobre 1969 n. 742 «in coerenza con la natura del procedimento non giurisdizionale». 84 Così la Circolare ministeriale del 29 luglio 2015 che, in attesa dell’istituzione presso le singole Procure di un registro formale, auspica poi l’utilizzo in ogni segreteria giudiziaria di un registro di comodo contenente i dati essenziali di ciascun provvedimento di negoziazione assistita (e ciò anche per la fase (eventuale) di negoziazione assistita dinanzi al Presidente del tribunale «in quanto l’iscrizione nel registro informatico della volontaria giurisdizione falserebbe il dato statistico relativo alla tipologia di provvedimento in esame»).

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militano ragioni di opportunità e di coerenza del sistema. Sembrerebbe da escludere in primo luogo che un organo giudicante debba ritenersi vincolato alle verifiche, superficiali e cartolari, dell’organo requirente85. In secondo luogo non può non sottacersi che l’autonomia di valutazione da riservarsi al Presidente discende direttamente dalle più incisive attività cognitive a questi riservate dalla legge. Il tratto distintivo tra i due procedimenti è dato infatti dalla audizione delle parti, contemplata solo in relazione alla fase cd. presidenziale: in tale sede il Presidente potrà richiedere delucidazioni e potrà, sulla base delle indicazioni delle parti (e dei minori eventualmente ascoltati86) oltre che delle integrazioni anche documentali disposte, assumere liberamente qualsiasi giudizio di approvazione o disapprovazione dell’accordo. In tal senso si orienta la giurisprudenza più recente87 e la soluzione è ulteriormente rafforzata dalla lettura del testo finale del 18 gennaio 2017 predisposto dalla commissione di studio ministeriale incaricata di elaborare una disciplina organica di riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione presieduta dal Prof. Guido Alpa88. Ivi si auspica la riscrittura dell’ultima parte del 2° comma dell’art. 6 della l. 162/2014 che – più opportunamente – dovrebbe stabilire che il presidente del tribunale possa concedere con decreto l’autorizzazione in luogo del pubblico ministero 89.

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V., sul punto, G. Carmellino, Crisi familiare e degiurisdizionalizzazione, cit., 493. Sebbene sul punto non si registri unanimità di vedute. In senso favorevole, in piena simmetria con quanto avviene nell’udienza presidenziale con le forme e le garanzie previste dagli artt. 336 bis c.c. e 38 bis disp. att. c.c., si esprimono F. Tommaseo, La tutela dell’interesse dei minori dalla riforma della filiazione alla negoziazione assistita delle crisi coniugali, in Fam. e dir., 2015, 161 (secondo cui, peraltro, la mancata previsione di tale possibilità desta dubbi di legittimità costituzionale); A. Carratta, Le nuove procedure negoziate e stragiudiziali in materia matrimoniale, in Giur. it., 2015, 1260, ma contra v., per tutti, M. Crescenzi, La degiurisdizionalizzazione nei procedimenti di famiglia, cit., §3. In senso dubitativo si pone A. Ronco, Negoziazione assistita e accordi tra coniugi: il ruolo del pubblico ministero e del presidente del tribunale, cit.,1406. Sulla possibilità che i figli maggiorenni partecipino alla procedura di negoziazione assistita, esercitando in questa sede un diritto che - come si è detto – è loro riconosciuto nei giudizi di separazione o divorzio v. F. Tommaseo, La tutela dell’interesse dei minori dalla riforma della filiazione alla negoziazione assistita delle crisi coniugali, cit., 163. 87 V. Trib. Torino, 13 maggio 2016, in Fam. e dir., 2017, 236, con nota di A. Trinchi, Negoziazione assistita per la separazione o il divorzio: tutela dei figli minori e poteri del presidente e in Giur., it., 2017, 2162 ss., con nota di F. Tizi, Questioni varie in tema di negoziazione assistita in materia familiare, secondo cui in materia di negoziazione assistita avente ad oggetto negozi compositivi di crisi familiare, la fase avanti al presidente è da ricondurre lato sensu alle forme del rito camerale e al giudicante deve riconoscersi autonomia di valutazione rispetto al diniego del pubblico ministero quanto alla portata delle condizioni della separazione o del divorzio o della modifica delle originarie pattuizioni, anche sulla scorta delle delucidazioni che le parti possono fornire comparendo personalmente in udienza. In termini analoghi v. Trib. Palermo, 1° dicembre 2016, cit. Nel senso che, pur dovendosi escludere la possibilità di autorizzare condizioni troppo differenti da quelle depositate alla Procura della Repubblica, pena, diversamente opinando, lo svuotamento della funzione che la normativa attribuisce a tale organo, al Presidente è demandato il riesame delle conclusioni cui il pubblico ministero è pervenuto con il proprio diniego che, in qualche caso, potrebbe risultare non fondato o anche solo non condivisibile alla luce di una più attenta considerazione della condizione e delle esigenze dei figli, v. Trib. Torino 20 aprile 2015, in www.ilcaso.it. 88 Per indicazioni sui lavori si rinvia alla nt. 30. Sulla portata della proposta v. D. Ravenna, ADR: le proposte della Commissione Alpa ed un analisi dei risultati più recenti, cit., 239 ss. e L.T. Cerizzi, Commenti alla relazione della commissione di studio Alpa per la riforma della mediazione, in Contratti, 2017, 243 ss. 89 Osserva che i problemi di carattere interpretativo meritano comunque di essere ridimensionati alla luce delle rilevazioni statistiche dalle quali si evince che i casi di trasmissione al Presidente appaiono esigui un pò in tutta Italia, B. Poliseno, Profili di tutela del minore, cit., 186. Si interroga, tuttavia, sulla ragione per cui il legislatore, piuttosto che prevedere due distinte procedure, una innanzi al pubblico ministero e l’altra innanzi al Presidente del tribunale, non abbia pensato di affidare il compito di autorizzare o non autorizzare l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita ad un’unica procedura con la presenza di entrambi i magistrati, M.P. Calogero, 86

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Ulteriore punto oscuro è rappresentato, nell’attuale regolamentazione, dalla configurabilità di un potere di impugnativa avverso i provvedimenti del pubblico ministero o del Presidente del tribunale. È lecito domandarsi se il pubblico ministero possa impugnare l’autorizzazione concessa nonostante il proprio dissenso o, ancora, se le parti possano esperire un reclamo avverso il provvedimento negativo in applicazione, in via analogica, degli artt. 739 e ss. c.p.c. L’assenza di indicazioni normative in tal senso lascia presagire la non impugnabilità di dette pronunce (si badi, della pronuncia, non già dell’atto negoziale con cui le parti compongono la lite, ma sul punto v. oltre) potendo i coniugi recepire le eventuali indicazioni del pubblico ministero in un nuovo accordo o non recepirle ed in tal caso, stante la chiusura della procedura, essi potranno liberamente intraprendere la strada della tutela giurisdizionale.

8. L’efficacia dell’accordo. Allorché l’autorità giurisdizionale abbia fornito il nullaosta o l’autorizzazione, l’accordo, trasmesso all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione a margine dell’atto del matrimonio o per la sua trascrizione, produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o divorzio90. A differenza di quanto accade in relazione al Collaborative Divorce, nella negoziazione assistita sono compiutamente regolamentate le sorti dell’accordo raggiunto privatamente dai coniugi e autorizzato dall’autorità giudiziale. Esso costituisce titolo esecutivo per le previsioni a carattere patrimoniale in esso contenute ed è idoneo anche a fondare l’esecuzione diretta contro il terzo. Si tratta di un titolo esecutivo contenuto in un accordo privato che rientra nel novero della categoria “aperta” dei titoli esecutivi indicati nell’art. 474, comma 2°, n. 2 (ove si fa espresso riferimento agli altri «atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva») e che, in virtù di una lettura sistematica del codice di rito e delle perfetta simmetria esistente tra l’art. 474 e l’art. 475 c.p.c., non necessita della formula esecutiva. L’art

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Negoziazione assistita familiare: poteri del Procuratore della Repubblica e del Presidente del tribunale, in Giur. it., 2018, 2112. In forza dell’art. 6, terzo e quarto comma, della l. 162/2014 cit., entro 10 giorni dal placet del pubblico ministero è infatti onere degli avvocati trasmette copia dell’accordo all’ufficiale dello stato civile. Il deposito consente l’attivazione della procedura amministrativa volta all’annotazione dell’accordo a margine dell’atto di matrimonio, nonché la trascrizione dello stesso. L’inosservanza della trasmissione comporta una sanzione a carico dell’avvocato negligente che va dai 2.000 ai 10.000 euro. Nessuna sanzione o conseguenza è contemplata, invece, nel caso in cui vengano poste irregolarità dall’ufficiale dello stato civile nell’espletamento della procedura a lui delegata. Sull’efficacia dell’accordo con riferimento allo scioglimento della comunione legale v. F. Tizi, La nuova normativa sul divorzio breve: analisi della disciplina e aspetti problematici, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 1079 ss. Più in generale, sulla natura dell’”accordorisultato” S. Deplano, Sul rapporto tra convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati e «accordo che compone la controversia», cit., 1228 ss.

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475 c.p.c. individua infatti soltanto alcune delle categorie dei titoli esecutivi menzionati dall’art. 474 c.p.c. per i quali è necessaria l’apposizione della formula esecutiva. In particolare l’art. 475 c.p.c. fa riferimento alle sentenze e agli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria (richiamati dall’art. 474 n.1 c.p.c. primo periodo) e agli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. Non si fa riferimento invece a “gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”, nel cui novero rientra l’accordo. Pertanto, la circostanza che l’art. 475 c.p.c., che indica quali titoli necessitino dell’apposizione della formula esecutiva non richiami “gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”, fa sì che non sia necessario dover apporre la formula esecutiva per poter agire in executiviis91. Tale interpretazione è oggi suffragata dalla riscrittura dell’art. 12, comma 2°, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, modificato dall’art. 5, comma 4° bis della l. 162/2014, il quale prevede che l’accordo di conciliazione debba essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell’art. 480, secondo comma, c.p.c. Pertanto, analogamente a quanto avviene per l’assegno e la cambiale, per dare esecuzione all’accordo di conciliazione sarà sufficiente riportare il tenore letterale dell’accordo nel corpo del precetto, unitamente alla dichiarazione di conformità da parte dell’ufficiale giudiziario, senza necessità di spedire in forma esecutiva il titolo. L’accordo costituisce anche titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale senza necessità dell’autentica delle firme ad opera di un pubblico Ufficiale, al pari di quanto invece previsto in generale per la trascrizione dal comma 3° dell’art. 5. Proprio tal ultima disposizione genera incertezze interpretative legate alla discrasia esistente tra il dettato di cui all’art. 5, in virtù del quale, nel caso in cui con l’accordo siano conclusi i contratti o compiuti gli atti per i quali la legge prevede il regime di pubblicità immobiliare, ai fini della trascrizione è necessaria l’autentica del pubblico ufficiale a ciò autorizzato e quello contenuto nell’art. 6 che espressamente equipara gli accordi ivi contemplati ai provvedimenti giudiziali. È una questione non nuova che vede contrapposte le categorie professionali degli avvocati, da una parte, e quella dei notai dall’altra costantemente preoccupata di difendere il monopolio delle proprie competenze. Le pronunce finora edite si assestano su posizioni antitetiche. A favore della trascrivibilità degli accordi anche in assenza di autentica del pubblico ufficiale si esprime quella giurisprudenza di merito che fa leva sulla specialità della disciplina dettata in relazione alla negoziazione familiare e sulla totale equiparazione dell’accordo in seno ad esso concluso ai provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti in materia di separazione, divorzio e di modifica delle relative condizioni. In applicazione di una sorta di proprietà transitiva, si è detto, se le sentenze e le ordinanze dell’autorità giudiziaria, così come previsto dall’ art. 2657 c.c., costituiscono titoli idonei affinché si

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Analogamente a quanto accade in relazione al verbale di conciliazione e all’accordo ad esso allegato.

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possa procedere alla trascrizione presso la Conservatoria e se gli accordi di cui all’art. 6, comma 3° producono gli effetti e tengono luogo dei provvedimenti giudiziali in materia, ne consegue che essi sono idonei ad essere trascritti, sic et simpliciter, purché autenticati dai difensori delle parti ai sensi dell’art. 5, comma 2° e muniti del prescritto nulla-osta92. Maggioritaria appare tuttavia l’opzione interpretativa avallata da chi, argomentando dalla intrinseca differenza esistente tra l’accordo – che conserva la natura di negozio transattivo93 – e l’atto promanante dagli organi giurisdizionali, dalla particolarità della materia relativa alla trascrizione e dagli interessi di natura pubblica sottesi alla sua disciplina, esclude che «una previsione dettata in modo non certo specifico ed anzi di natura generica, possa essere interpretata come una deroga ad un principio codicistico fondamentale del nostro ordinamento». In ossequio al brocardo ubi lex voluit dixit, del resto, se il legislatore avesse voluto far dipendere dal potere di autentica dei procuratori delle parti anche la produzione degli effetti idonei a consentire la trascrizione dell’accordo nei registri immobiliari, avrebbe espressamente attribuito ai difensori tali specifiche pubbliche funzioni94.

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Così Trib. Pordenone, 17 marzo 2017, in Giur. it., 2017, 1601, con nota di P. Cardinale, Sulla trascrizione di accordi di negoziazione assistita contenenti trasferimenti immobiliari, in Fam. e dir., 2018, 333 ss., con nota di A. Trinchi, Negoziazione assistita per la separazione o il divorzio: tutela dei figli minori e poteri del presidente, cit., 234, in www.judicium.it, 23 marzo 2017, con nota di S. Izzo, L’accordo di negoziazione assistita in materia familiare può essere trascritto senza autenticazione delle sottoscrizioni, in Nuova gir. civ., 2017, con nota di A. Cardosi, Sulla trascrizione degli accordi di negoziazione assistita in materia familiare, 1163 ss. e in Notariato, 2017, 237 ss., con nota di F. Auletta, Notariato e giurisdizione. La trascrizione dell’accordo di negoziazione per nulla osta del pubblico ministero: il caso Pordenone. In senso analogo v. Trib. Roma, 17 marzo 2017 e 17 maggio 2016, ined., secondo cui gli avvocati delle parti sono gli unici soggetti abilitati dalla legge ad autenticare l’accordo raggiunto dai coniugi che si separano con lo strumento della negoziazione assistita. Merita di essere sottolineato, peraltro, che la piena trascrivibilità dell’accordo senza l’ulteriore autenticazione da parte del notaio è auspicata nel disegno di legge n. 1073 di iniziativa dei senatori Dal Mas, Caliendo, Modena e Vitali, che contempla nel comma terzo dell’art. 6 l’aggiunta del seguente periodo: «Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, la convenzione medesima, sottoscritta dalle parti ed autenticata dagli avvocati che le assistono, è titolo idoneo per la trascrizione ai sensi dell’articolo 2657 del codice civile». 93 Non essendo i controlli del pubblico ministero idonei a mutarne la natura, in quanto egli è chiamato dalla legge unicamente a verificare la regolarità della procedura onde assicurare effettività di tutela ai figli e al coniuge più debole, senza che possa spingersi a verificare l’autenticità delle sottoscrizioni o la regolarità dei trasferimenti immobiliari. 94 Così App. Trieste 30 maggio 2017, in www.judicium.it, 4 luglio 2017, con nota di S. Izzo, L’autenticazione notarile delle sottoscrizioni è requisito essenziale ai fini della trascrizione dell’accordo di negoziazione in materia familiare, che sconfessa Trib. Pordenone cit. escludendo che la previsione di cui all’art. 6, comma 3°, che regola gli effetti della negoziazione assistita in materia familiare, possa costituire deroga alla previsione generale di cui all’art. 5, comma 3°. In questo senso anche Trib. Genova, 8 aprile 2016, in Foro it., 2017, I, 1776; Trib. Napoli, 29 gennaio 2016, in Foro it., 2017, I, 1779 ed ivi per ulteriori riferimenti. In dottrina in tal senso E. Fabiani, Autenticità del titolo e trascrizione nei registri immobiliari, in Riv., dir. civ., 2018, 50 ss., che fa leva sul principio di autenticità del titolo quale parte integrante e ineliminabile del sistema della pubblicità immobiliare; A. Todeschini Premuda, La trascrizione degli accordi tra coniugi nell’ambito della negoziazione assistita, in Nuova giur. civ., 2018, 124 ss.; D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 52; I. Zingales, Art. 5 - Esecutività dell’accordo raggiunto a seguito della convenzione e trascrizione, in La nuova riforma del processo civile. Degiurisdizionalizzazione, processo e ordinamento giudiziario nel d.l. 132/2014 convertito in l. 162/2014, a cura di F. Santangeli, cit. 91 ss.; G. Frezza, “Degiurisdizionalizzazione”, negoziazione assistita e trascrizione, in Nuove leggi civ. comm., 2015, 18 ss. Ed in effetti, precisa B. Poliseno, La procedura di negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, cit., 75, nt. 23, le linee guida diffuse dalle Procure della Repubblica si esprimono nel senso di ritenere che la sottoscrizione del processo verbale di accordo debba essere autenticata dal pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

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9. L’impugnabilità dell’accordo. A differenza delle proposte presentate dall’avvocatura, nulla il legislatore stabilisce in relazione all’impugnabilità dell’accordo95. Solo l’art. 5, comma 4°, della l. 162/14 cit. specifica che costituisce illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione abbia partecipato, lasciando così presagire che le transazioni possano essere impugnate da altri legali96. Una disposizione questa che, vagamente, ricorda il Disqualification requirement del Collaborative law sebbene dettato qui più nell’ottica di assicurare il rispetto dei doveri deontologici a carico dei professionisti, che non in quella di favorire la fattiva collaborazione degli stessi alla procedura negoziale. Potrebbe in via di prima approssimazione asserirsi che, trattandosi di accordi che si fondano sulla volontà delle parti e da queste sempre modificabili, i coniugi siano privi di interesse ad impugnare l’accordo da essi stessi voluto. In realtà, l’esperienza insegna che la volontà delle parti può essere viziata e che le norme giuridiche possono essere violate. Riconosciuta quindi l’esperibilità di un rimedio, non sarebbe peregrino ipotizzare il ricorso all’impugnativa “processuale” da proporsi nelle forme dell’impugnazione esperibile avverso il provvedimento corrispondente. Se l’accordo tiene luogo e produce i medesimi effetti del provvedimento che «definisce» i procedimenti espressamente indicati, potrebbe ritenersi che il passaggio in giudicato serri ai coniugi la strada dell’impugnazione ordinaria lasciando percorribile unicamente quella dell’impugnazione straordinaria97. La soluzione, che meglio risponde alle esigenze di celerità e sicurezza nei rapporti giuridici ed è in linea con l’intento deflattivo perseguito dalle novelle, giacché consente l’instaurazione di un solo grado di merito, non sembra tuttavia coerente con le scelte legislative operate in punto di efficacia dell’accordo. Dal tenore letterale del testo normativo si evince, infatti, che l’equipollenza dell’accordo ai provvedimenti giudiziali opera infatti solo sul piano degli effetti: esso, sebbene subordinato all’assenso dell’organo giurisdizionale, non muta i suoi aspetti tipologici e, quindi, la sua natura di atto negoziale e rappresenta espressione della capacità e della volontà dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente. In ragione di ciò in dottrina è stata unanimemente riconosciuta l’ammissibilità dell’impugnativa negoziale per annullamento e per nullità nei casi in cui è ammessa l’impugna-

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Con riferimento alla mediazione sulla impugnabilità dell’accordo v. R. Caponi, Just Settlement or Just About Settlement? Mediated Agreements: a Comparative Overview of the Basics, cit., 2019, 309 ss., il quale mette in luce che, a differenza di quanto accade per la sentenza e per il lodo arbitrale, nei singoli processi di mediazione le parti hanno il controllo sul contenuto dell’atto che risolve la controversia (determinando i termini della transazione) e sugli effetti dello stesso. Questa differenza dovrebbe portare ad escludere una revisione statale e giudiziaria della liceità dei singoli processi di mediazione che danno origine all’accordo transattivo, sicché eventuali vizi procedurali dovrebbero risultare irrilevanti salvo solo l’ipotesi in cui sussistano circostanze idonee a rendere l’accordo inefficace. 96 Della bontà della disposizione dubita G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita, cit., 21 s., ben potendo verificarsi ipotesi di impugnativa dell’accordo che esulano dalla possibile condotta illecita del professionista (si pensi, ad esempio, al caso in cui siano stati scoperti nuovi documenti o sia stata rilevata la falsità degli stessi). 97 Così, «per assurdo», G. Finocchiaro, L’eventuale impugnazione dei patti conclusi, in Quotidiano, Enti locali e P.A., 11 dicembre 2014.

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zione della transazione98, da proporsi nelle forme del giudizio ordinario di cognizione davanti al tribunale competente o anche in sede di opposizione all’esecuzione nel caso in cui l’accordo debba essere utilizzato come titolo esecutivo99. Potrà allora sempre contestarsi la validità dell’atto con un’azione di impugnativa negoziale per vizi del consenso delle parti o con un’azione di nullità, per contrarietà alle norme imperative, alle norme di ordine pubblico, per illeceità dell’oggetto o della causa o per essere stato l’accordo concluso per un motivo illecito comune, ecc.100. Purché ne abbiano interesse, anche i terzi potranno esperire l’impugnazione: tra questi meritano di essere annoverati sicuramente i creditori o gli aventi causa di uno dei coniugi (o ex coniugi), compresi gli eventuali figli pretermessi dall’accordo101. Esperita vittoriosamente l’azione di impugnativa negoziale è però tutta da chiarire la sorte dei diritti e dei rapporti regolamentati dall’accordo invalidato dagli organi giurisdizionali. Se l’accordo produce i medesimi effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali pronunciati dal tribunale della famiglia, quid est allorché esso sia invalidato? Il ripristino della situazione ex ante è sempre possibile?

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Tra i tanti v. D. Dalfino, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 50; G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita, cit., 21 s ; M. Bove, Vie stragiudiziali per la separazione e divorzio, cit., 200, il quale, pur riconoscendo la possibilità che l’accordo sia dichiarato invalido o comunque privo di effetti, qualora raggiunto in violazione dei limiti che la legge ha posto al potere negoziale dei privati, distingue ipotesi in relazione alle quali la violazione della legge squalifica l’accordo da quelle per le quali la violazione della legge non è sanzionata con l’invalidazione dell’atto. Rientrano in quest’ultimo gruppo le ipotesi di violazioni dei doveri imposti agli avvocati: lungi dall’invalidare l’accordo le condotte eventualmente illecite dei professionisti non inficeranno l’atto, ma avranno valenza sul piano meramente disciplinare. Sull’impugnabilità all’accordo di conciliazione all’indomani dell’entrata in vigore del d. leg. 28/10, Id., L’accordo conciliativo rivisitato dal c.d. «decreto del fare», in www.judicium.it; Id., L’accorto conciliativo, in Società 2012, 82; D. Dalfino, Mediazione civile e commerciale, Bologna, 2016, 461 ss.; R. Tiscini, La mediazione civile e commerciale, Torino, 2013, 266 ss.; F. Valerini, L’efficacia esecutiva del verbale di accordo, in Aa. Vv., Corso di mediazione civile e commerciale, 2012, 222 s., a cura di R. Tiscini; R. Caterina, Natura e disciplina dell’accordo raggiunto dalle parti in sede di mediazione, in Giur. it., 2012, 234 ss.; in relazione invece al verbale di conciliazione ex d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 v. G. Miccolis, La conciliazione e la disciplina del nuovo processo introdotto con il d. legisl. n. 5 del 2003, 10 c, in Riv. dir. civ., 2004, 20097 ss. V., infine, F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 1213; 99 Sulla possibilità di ricorrere alle impugnative negoziali anche nelle ipotesi di accordi di separazione sottoposti ad omologazione o recepiti nella sentenza di divorzio, prevalendo l’elemento volontaristico che sorregge la dichiarazione negoziale dei coniugi sull’intervento dell’organo giurisdizionale (la cui attività, volta alla verifica delle compatibilità della convenzione alle nome cogenti ed ai principi di ordine pubblico, resta estranea al contenuto intrinseco dell’atto), v. Cass. 21 aprile 2015, n. 8096, in Foro it., Rep. 2015, voce Impiegato dello Stato e pubblico, n. 7; 20 agosto 2014, 18066, in Fam e dir., 2015, 357, con nota di C. Filauro, Gli accordi della crisi coniugale alla luce dell’interesse ad impugnare: una presa di posizione della giurisprudenza di legittimità. Sulla questione anche E. de Belvis, I rapporti tra simulazione e separazione consensuale, in Riv. dir. civ., 2015, 11437 s. Per un’ampia analisi delle ragioni che inducono l’interprete a riconoscere l’esperibilità del rimedio dell’impugnativa negoziale, l’unica idonea a garantire alle parti le utilità della cognizione piena e a permettere anche ai terzi di suscitare un controllo da parte del giudice, ove necessario, I. Pagni, Vizi del consenso e annullabilità della separazione consensuale omologata: lo sfuggente rapporto tra autonomia negoziale e controllo giudiziale, in Fam e dir., 2005, 508 ss. 100 Potrà sicuramente essere disposto l’annullamento dell’accordo entro 5 anni in caso di consenso viziato per errore, se uno dei coniugi ha mentito sulle proprie condizioni economiche, se sussiste un vizio che ha comportato la conclusione dell’accordo, in caso di accordo estorto con l’inganno o di false rappresentazioni, ecc. Per una analitica elencazione delle ipotesi che aprono il varco alla dichiarazione di nullità o all’annullamento dell’atto v. G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita, cit., 21 s. 101 Di modifica, non già di impugnazione, potrà discutersi in caso di figli sopravvenuti (si pensi alla separazione intervenuta dopo il concepimento), in caso di maggiorenni che abbiano raggiunto l’autosufficienza economica o, ancora, in caso di rilevanti modifiche delle condizioni economiche delle parti, ecc. Esclude la possibilità di invalidare l’atto stipulato in violazione dei diritti di figli M. Bove, Vie stragiudiziali per la separazione e divorzio, cit., 201, a parer del quale atto resta valido ed efficace, restando al figlio «dimenticato» il diritto al mantenimento da far valere nelle sedi giudiziarie utili.

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Si pensi al caso in cui prima del fruttuoso esperimento della procedura di negoziazione sia stato emesso un decreto ingiuntivo nei confronti di uno dei coniugi. Potranno considerarsi consolidati gli effetti dell’ingiunzione? Ancora, si pensi al caso in cui sia stato oggetto di regolamentazione un diritto nei confronti del quale l’intervenuta prescrizione renda non più azionabile la tutela giudiziaria. Qualora gli accordi abbiano apportato modifiche a quelli stipulati in precedenza e recepiti nella sentenza di separazione o di divorzio102, l’assetto dei rapporti intercorrenti tra le parti dovrà tenere conto della reviviscenza delle sentenze poste nel nulla per effetto della legge sulla deiurisdictio? L’eventualità di regolamentare la situazione ricorrendo nuovamente alla negoziazione assistita sembra in tali ipotesi fortemente compromessa: il conflitto tra le parti, alimentato dall’intercorso giudizio di impugnativa, lascia presagire che nessuno degli ex coniugi si impegni a cooperare con buona fede e lealtà per risolvere la controversia in via amichevole! Né, al fine di evitare distorsioni di tale natura, può ritenersi che l’efficacia dell’accordo resti subordinata all’inutile decorso del tempo prescritto dalle norme civilistiche per l’esperimento dell’azione di annullabilità. Soluzione peraltro nemmeno ipotizzabile in caso di vizi che consentano l’azione di nullità. Si tratta di una questione particolarmente spinosa, soprattutto in ragione delle molteplici ipotesi astrattamente configurabili che giustificano l’esperimento dell’azione di nullità o di annullamento e dell’assoluta assenza di indicazioni normative e giurisprudenziali. In relazione alla prescrizione i problemi potrebbero trovare ridimensionamento argomentando dall’art. 8 della l. 162/2014, là dove è espressamente chiarito che «dal momento della comunicazione dell’invito o dalla sottoscrizione della convenzione si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data è impedita la decadenza ma se l’invito è rifiutato o non è accettato nei termini la domanda può essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto, dalla mancata accettazione del termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati»103. In virtù di un’interpretazione letterale del dettato, lo svolgimento delle attività di negoziazione determina l’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione ai sensi l’art. 2943, 1° comma, c.c., effetto che dovrebbe perdurare sino alla vigenza dell’accordo frattanto perfezionatosi. Solo in ipotesi di intervenuta declaratoria di nullità e/o annullabilità dell’atto negoziale il termine, coerentemente, tornerà a decorrere cumulandosi con quello

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Ad analoghe considerazioni giunge del resto la giurisprudenza di legittimità V., per tutte, Cass. 2015, n. 24621, in Fam e dir., 2016, 747 ss., con nota di A. Carratta, La Cassazione e gli accordi tra i coniugi in pendenza di giudizio di separazione, con riferimento a una transazione avvenuta in pendenza di un appello proposto nei confronti di una sentenza di separazione, un giudizio d’appello poi estinto per inattività delle parti, evidentemente appagate del nuovo assetto dato ai loro rapporti patrimoniali dalla stipulata transazione. Ivi peraltro si precisa che l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali dei coniugi, concluso tra le parti in occasione di un giudizio di separazione, ha natura negoziale senza necessità di essere sottoposto al giudice per l’omologazione. 103 Sulla portata della prescrizione che riprende quella contenuta nel d. leg. 28/2010 v. D. Dalfino, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 43 s.; R. Tiscini, La mediazione civile e commerciale, Torino, 2013, 230 ss.; G. Impagnatiello, La domanda di mediazione: forma, contenuti ed effetti, in Giusto proc. civ., 2011, 715; R. Martino, La domanda di mediazione e i suoi effetti sostanziali, in Materiali e commenti sulla mediazione civile e commerciale, Bari, 2011, 63 s.; G. Arieta, La domanda di mediazione e le regole di instaurazione del procedimento, in Corr. giur., 2011, 569.

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maturato, con riferimento ai diritti controversi, anteriormente alla procedura di negoziazione. Tanto, prescindendo dal riconoscimento espresso del diritto richiamato dall’art. 2944 c.c., quale condizione per l’operatività degli effetti interruttivi. Analogamente, sul versante processuale, potrebbe ritenersi che l’avvio della fase di negoziazione valga a congelare i termini prescritti dal codice di rito per impugnare o per esperire opposizione, termini destinati a “rivivere” a far data dalla pronuncia giudiziale di invalidità dell’accordo. Assai più delicate appaiono però le questioni attinenti allo status: si pensi al caso in cui l’ex coniuge abbia contratto nuovo matrimonio. A seguito di una pronuncia giudiziale di invalidità dell’accordo dovrà ipotizzarsi lo scioglimento del nuovo vincolo coniugale. E ciò con buona pace dell’interesse alla certezza degli status?

10. Il ruolo della classe forense. Nella consapevolezza che la negoziazione assistita rappresenta una terza via per la gestione della disputa, alternativa sia al procedimento giudiziale sia alla mediazione, la procedura di nuovo conio presuppone un cambiamento paradigmatico del ruolo dell’avvocato104. Ciò è tanto più vero in relazione alla composizione del conflitto coniugale: qui i conditores conferiscono alla classe forense un ruolo ancor più pregnante rispetto a quello ad essa accordato in relazione alla negoziazione assistita in generale. È espressamente chiarito nell’incipit dell’art. 6, infatti, che la negoziazione assistita familiare presuppone la presenza di almeno un avvocato per parte. Si scommette in sostanza sulla professionalità e - perché no? - sulla sensibilità del ceto forense chiamato ora ad assistere le parti e a condurle fattivamente ad un accordo, da un lato, e a garantire la conformità dello stesso alle norme imperative e di ordine pubblico, dall’altro105. Le note prassi invalse tra i professionisti di tentare, con incontri deformalizzati tra coniugi, il raggiungimento di un accordo da sottoporre poi al vaglio del tribunale si evolvono. Di fronte al pericolo che l’autonomia delle parti possa compromettere la tutela effettiva dei particolari interessi in gioco sono allora ascritti all’avvocato nuovi compiti. Il suo inter-

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Sulle sfide lanciate al ceto forense con l’avvento della degiurisdizionalizzazione da intendersi non come “esternalizzazione” o “privatizzazione” della giustizia, ma come apertura a strumenti che si affiancano alla giurisdizione per consentire maggiore e migliore efficacia della stessa, v. M.P. Lessi, Cambiamenti e nuove possibilità per la professione forense, in Questione giustizia, 2015, 1. Nel senso che il ruolo del professionista assume ora colorazioni pubblicistiche pur non coincidendo con quello del pubblico ufficiale, v. D. Borghesi, La delocalizzazione del contenzioso civile: sulla giustizia sventola bandiera bianca?, in www.judicium.it, § 11. 105 Precisa che, in considerazione della funzione sociale assunta dall’avvocato, egli, nella doverosa assistenza del padre o della madre, deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite, in particolare assumendo una posizione comune a difesa del minore e non assecondando diverbi fondati su situazioni prive di concreta rilevanza, v. Trib. Milano, 23 marzo 2016, in Fam. e dir., 2016, 1151 ss., con nota di F. Danovi, I doveri deontologici dell’avvocato nel diritto minorile e la giurisdizione forense. Per ulteriori rilievi Id., La giurisdizione civile e la nuova cultura della professione di avvocato, in Corr. giur., 2018, 333 ss.

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vento nel ruolo di “calmiere” e di garante è enfatizzato, del resto, da diverse disposizioni – alcune di chiara matrice americana – contenute, sia pur in ordine sparso, nel testo di legge: si pensi ai doveri dei difensori, contemplati dall’art. 9, di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute, ai doveri d’informativa enucleati nell’art. 6, al dovere di certificare l’autografia delle firme e la conformità dell’accordo alle norme imperative e di ordine pubblico, al divieto di impugnare l’accordo alla cui redazione ha partecipato ai sensi del comma 4° dell’art. 5, all’obbligo di trasmissione dell’accordo all’ufficiale di stato civile contemplato dal comma 3° dell’art. 6. Si pensi, ancora, ai limiti imposti dal diritto vivente al fine di assicurare l’immunità gestionale dell’avvocato e quindi: al divieto di autodifesa (in deroga all’art. 86 c.p.c.), al dovere di astensione imposto allorché alla negoziazione assistano due professionisti appartenenti allo stesso studio legale106, ecc. Il legislatore italiano recepisce evidentemente alcune delle più importanti caratteristiche del diritto collaborativo americano: ci si riferisce in particolare agli obblighi informativi che gravano sugli avvocati, alle modalità di redazione della convenzione e ai doveri di riservatezza e segretezza. In piena simmetria con le garanzie che contraddistinguono l’informal disclosure, l’art. 9 della l. 162/2014 codifica l’obbligo degli avvocati e delle parti di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute. È espressamente chiarito che le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto, così come non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite coloro che partecipano al procedimento. Non trova, invece, cittadinanza nella negoziazione il Disqualification requirement, sicché in caso di fallimento delle attività di negoziazione gli avvocati restano liberi di rappresentare le parti assistite fino a quel momento. Una soluzione che merita consensi e da cui traspare la fiducia riposta dal legislatore nei confronti dell’avvocatura: non è la minaccia della “squalifica” a responsabilizzarla e ad assicurare un suo più efficace intervento. Tutt’altro, se si considera che il divieto di rappresentanza e assistenza nel futuro giudizio contenzioso potrebbe in alcuni casi indurre i professionisti a stipulare accordi “a tutti i costi”, anche in pregiudizio dei delicati interessi in gioco. Inizia a vacillare lo stereotipo secondo cui tutti i mali della giustizia sono da ascriversi agli avvocati: essi, del resto, hanno interesse quanto le parti a risolvere la controversia insorta in tempi brevi! In quest’ottica l’unica nota stonata è rappresentata dalla mancanza

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Nel senso che la nomina da parte dei coniugi di avvocati appartenenti al medesimo studio legale deve essere censurata anche alla luce dell’art. 24 del nuovo Codice Deontologico forense il quale, al fine di evitare conflitto di interessi, contempla espressamente un dovere di astensione a carico di avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocato o associazione professionale, v. Trib. Torino, 13 maggio 2016, in www.ordineavvocatifirenze.eu. Sull’importanza di mantenere distinte le posizioni degli avvocati assistenti e di assicurare immunità gestionale del professionista rispetto al coinvolgimento emotivo e d’interesse dei due coniugi si esprime anche Trib. Palermo 25 marzo 2016, ibidem, ove si legge che l’avvocato non può separarsi con la negoziazione assistita senza ricorrere a un altro collega che lo rappresenti e difenda. L’inapplicabilità in tali ipotesi dell’art. 86 c.p.c., che regolamenta la difesa personale della parte senza escludere le cause di famiglia, si legge nella parte motiva della pronuncia, è determinata dall’assenza di giudice terzo che gestisca i rapporti e decide del merito.

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di disposizioni che prevedano la possibilità di ricorrere al gratuito patrocinio per i non abbienti. Sebbene meriti di essere segnalato l’interessante disegno di legge S-2135 presentato al Senato, intitolato appunto “Patrocinio a spese dello Stato nella procedura di negoziazione assistita”, che promuove la riscrittura degli artt. 3 e 6 e che si aggiunge alle proposte presentate dalla commissione di studio ministeriale presieduta dal Prof. Alpa107, non è ad oggi assicurata alle parti che si affidano alla negoziazione assistita la possibilità di accedere al gratuito patrocinio per i non abbienti. A differenza di quanto accade nella procèdure partecipative, il compenso per l’opera professionale svolta dagli avvocati nel corso della procedura rimane a carico delle parti ed anzi, in virtù della stravagante disciplina di cui all’art. 3 della l. 162/2014, qualora la negoziazione costituisca condizione di procedibilità della domanda, all’avvocato non è dovuto compenso dalla parte che si trovi nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato108. Vero è che la possibilità di ricorrere al gratuito patrocinio è contemplata nel disegno di legge recante “Modifiche al Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al D.p.r. 30 maggio 2002, n. 115” approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 20 maggio 2019, su proposta del Ministro della giustizia, tuttavia ciò unicamente nelle ipotesi in cui la procedura in parola costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale e sia stato raggiunto un accordo. In relazione alla mediazione obbligatoria, è a tutti nota la querelle relativa alla possibilità di ricorrere al gratuito patrocinio allorché sia stato raggiunto l’accordo e non sia quindi stato necessario ricorrere all’autorità giudiziaria per comporre le controversie. In netta antitesi all’orientamento che riconosce siffatta possibilità a favore della parte in possesso dei requisiti reddituali richiesti109, si pone un altro filone interpretativo da ultimo avallato dal

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Ove si evidenzia che, per rendere effettiva la procedura di negoziazione in tema di famiglia (dove, com’è noto, occorre l’assistenza di almeno un avvocato per parte) e per assicurarne la pratica fruibilità anche ai non abbienti, è opportuno prevedere la possibilità di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato per accedere alla negoziazione, tanto al fine evitare che i non abbienti siano costretti a riversare sui tribunali la definizione di controversie che essi sarebbero disposti a risolvere attraverso la via convenzionale con l’assistenza di un avvocato. La disciplina di dettaglio che si propone di introdurre (nell’ambito dell’art. 6 del decreto-legge n. 132 del 2014) prevede: che le condizioni per l’ammissione siano quelle stabilite dall’art. 76 del testo unico in tema di spese di giustizia; che competente ad accogliere o respingere la domanda sia il consiglio dell’ordine del luogo in cui ha sede il tribunale che sarebbe competente per la relativa controversia; che, qualora il consiglio dell’ordine respinga o dichiari inammissibile l’istanza, questa possa essere proposta al procuratore della Repubblica; che il procuratore della Repubblica sia abilitato a liquidare il compenso all’avvocato (con provvedimento opponibile), entro i limiti, minimi e massimi, stabiliti da apposito decreto del Ministro della giustizia. Per ulteriori riferimenti sui lavori della Commissione v. nt. 67. 108 Sulla vessatorietà e la sospetta incostituzionalità della disposizione, che finisce col minare l’indipendenza e l’autonomia dei professionisti chiamati ad assumere un ruolo decisivo per il successo dell’istituto, si è espressa, in maniera unanime, la dottrina. V. G. Trisorio Liuzzi, La procedura di negoziazione assistita, cit., 12; D. Dalfino, La negoziazione assistita da uno o più avvocati, cit., 64; M. Marinaro, Negoziazione: cala l’incostituzionalità, in Guida al diritto, 2014, 49 s.; S. Chiarloni, Sempre aperto il cantiere delle riforme del processo civile, in Aa. Vv., Fuori dal processo: trasferimento in arbitrato,, negoziazione assistita e accordi sul matrimonio, in Giur. it., 2015, 1261, che peraltro rileva che gli avvocati difficilmente accetteranno la rappresentanza e la difesa a tali condizioni, con conseguente violazione del diritto di difesa della parte che non troverà un difensore disposto ad assisterla. 109 Trib. Firenze 13 dicembre 2016, in www.processocivile.it che apertis verbis chiarisce che il gratuito patrocinio vale anche nella mediazione obbligatoria conclusa con l’accordo. Ancor più liberale è l’orientamento avallato da Trib. Ascoli, 12 settembre 2016, in www.dirittoegiustizia.it, secondo cui anche in caso di mediazione facoltativa, conclusasi nel caso di specie con esito negativo, è dovuto all’avvocato il compenso a spese dello Stato.

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Tribunale di Roma che esclude l’applicabilità del patrocinio a spese dello Stato all’attività difensiva nei procedimenti di mediazione (anche) obbligatoria allorché si sia pervenuti all’accordo110. Le motivazioni addotte muovono dalla considerazione secondo cui il buon esito del procedimento non consente alle parti di rivolgersi all’autorità giudiziaria e quindi di instaurare la fase contenziosa: l’interpretazione letterale e restrittiva dell’art. 75, D.P.R. n. 115/2002, Testo unico in materia di spese di giustizia, limita infatti l’invocabilità delle norme in tema di gratuito patrocinio alla sola fase contenziosa in senso stretto e, sebbene la Consulta abbia nel tempo ampliato la nozione di attività giudiziale facendovi rientrare anche quella stragiudiziale che sia complementare e strumentale alla successiva azione giudiziaria e che sia svolta in virtù di un mandato alle liti111, detta attività può essere posta a carico dello Stato solo unitamente alla liquidazione delle spese per l’attività giudiziale effettivamente espletata. Non è questa la sede per approfondire la questione in relazione alla mediazione facoltativa e obbligatoria o alla negoziazione assistita in generale. La sopra citata pronuncia del giudice capitolino offre però il destro per riflettere sulla disciplina invocabile per la negoziazione in materia familiare. In ragione della peculiarità del procedimento delineato dall’art. 6 della l. 162/2014, le argomentazioni lì addotte sembrano, infatti, condurre proprio alla diretta applicabilità del D.P.R. n. 115/2002 cit.: l’innesto obbligato, ai fini della validità dell’accordo concluso tra i coniugi, di una subprocedura innanzi all’organo giurisdizionale induce a ritenere soddisfatte le condizioni imposte dall’art. 75 del D.P.R. in parola ove testualmente si legge che «l’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse» e dalla giurisprudenza della Suprema corte. All’attività stragiudiziale strumentale dell’avvocato segue in effetti, qui, un’attività “giudiziale” di controllo della procura e/o del Presidente: il diritto al compenso del difensore a carico dell’erario, oltretutto connesso alla obbligatoria presenza di almeno un avvocato per parte e alla peculiarità degli interessi ivi sottesi, sembra così trovare un opportuno, seppur indiretto, riconoscimento normativo.

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Trib. Roma, 11 gennaio 2018, in www.eclegal.com con nota di E. Bertillo, Procedura di mediazione obbligatoria e patrocinio a spese dello Stato. 111 V. per tutte Cass. 19 aprile 2013, n. 9529, in Foro it., Rep. 2013, voce Avvocato, n. 280 e 23 novembre 2011, n. 24723, id., Rep. 2011, voce Patrocinio a spese dello Stato, n. 13.

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L’aggiornamento de la Cour de cassation française* Résumé: I. L’adaptation de la Cour de cassation à son environnement social. – A. Au stade de l’instruction du pourvoi en cassation. – B. Au stade de la décision de la Cour de cassation. – II. L’adaptation de la Cour de cassation à son environnement juridictionnel. – A. L’amélioration du dialogue national des juges. – B. L’amélioration du dialogue européen des juges.

Juridiction judiciaire suprême, la Cour de cassation française est en train de connaître d’importantes évolutions afin de l’adapter à un environnement social et juridictionnel qui impose sa modernisation pour répondre aux besoins du temps présent. C’est son rôle disciplinaire historique de juridiction chargée de faire respecter l’application des règles de droit par les juges du fond qui pourrait s’en trouver transformer. La tendance est au renforcement de son rôle normatif et la tentation de la transformer en cour suprême choisissant les affaires sur lesquelles il conviendrait de statuer n’est pas loin. La Corte Suprema francese attualmente sta avviando cambiamenti significativi al fine di adattarsi al contesto sociale e giudiziario che richiede la modernizzazione del sistema per rispondere alle esigenze del presente. È la sua funzione disciplinare storica di giurisdizione incaricata di far rispettare l’applicazione delle norme di diritto dai giudici di merito che potrebbe trasformarsi. La tendenza è al rinforzo del suo ruolo normativo.

1. Comme beaucoup d’autres systèmes judiciaires, la justice française se présente sous la forme d’une pyramide comportant trois niveaux : le premier niveau est celui des juridictions de première instance, qui accueillent l’ensemble des litiges n’ayant pas fait l’objet d’une résolution extrajudiciaire ; le deuxième niveau est celui des juridictions d’appel, qui peuvent être saisies des jugements de première instance prononcés en premier ressort et à charge d’appel, c’est-à-dire au-delà de 4000 € en matière civile. Le troisième et dernier niveau est celui de la Cour de cassation qui est donc la plus haute juridiction en matière civile et en matière pénale1. Comme en dispose le Code français de l’organisation judiciaire : « Il y a, pour toute la République, une Cour de cassation » (art. L. 411-1 Code de

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Ce texte est la version enrichie d’une Lectio magistralis présentée à l’université de Brescia, à l’invitation du professeur Luca Passanante, le vendredi 10 mai 2019. L’auteur remercie le professeur Bruno Sassani de lui ouvrir les pages de sa revue. 1 Articles L. 411-1 à L. 451-2 et R. 411-1 à R. 461-1 du Code de l’organisation judiciaire (COJ).

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l’organisation judiciaire, l’art. R. 411-1 précisant de son côté : « La Cour de cassation a son siège à Paris »)2. En raison de la conception française de la séparation des pouvoirs, la Cour de cassation n’a cependant aucune compétence en matière constitutionnelle, qui relève du Conseil constitutionnel, ni en matière administrative, qui relève du Conseil d’Etat. N’ayant pas de compétence constitutionnelle et n’étant pas la seule juridiction supérieure de l’ordre juridictionnel, la Cour de cassation n’est donc pas, à proprement parler, une cour suprême ; il est plus exact de dire que la Cour française de cassation est juridiction suprême dans son ordre, qu’elle est la juridiction judiciaire suprême, de même que le Conseil d’Etat est la juridiction administrative suprême (art. L. 111-1 Code de justice administrative). Sur son site officiel, la Cour de cassation se présente d’ailleurs comme « la plus haute juridiction de l’ordre judiciaire français ». Mais elle n’est pas davantage une juridiction ordinaire puisqu’elle ne tranche pas les litiges et ne connaît pas, en principe, du fond des affaires3 comme peuvent en connaître les juridictions de première instance et d’appel qu’on appelle du reste juridictions du fond4 ; la Cour de cassation est juge du droit ; les faits ne peuvent plus être discutés devant la Cour de cassation : sa fonction, mise en œuvre par le pourvoi en cassation que forment les parties contre le jugement des juridictions du fond, est seulement de censurer la non-conformité de ce jugement aux règles de droit (art. 604 Code de procédure civile). Elle est juge des jugements plutôt que juge des litiges. Elle n’est donc pas à proprement parler un troisième degré de juridiction à défaut du pouvoir de rejuger l’affaire en droit et en fait, qu’elle doit au contraire renvoyer devant une juridiction du fond (art. L. 431-4 Code de l’organisation judiciaire et art. 625-626 Code de procédure civile). Telle est la singularité historique de la Cour de cassation en France qui a ainsi toujours été une juridiction à part ; elle n’a d’ailleurs pas toujours été une juridiction. 2. Dans sa conception originaire, sous l’ancien Régime, le Conseil des parties, ancêtre de la Cour de cassation, était, à côté du Conseil d’Etat, une composante du Conseil du Roi, héritier de l’ancienne Curia Regis. La cassation par le Roi des arrêts des parlements (qui étaient les ancêtres des cours d’appel) était une prérogative royale ; cette prérogative apparaissait comme « le complément naturel de son droit de légiférer » ; elle constituait « moins un acte de juridiction que de puissance ». Il s’agissait moins de protéger l’intérêt des parties, intérêt privé, que celui de la loi, intérêt public. Au 18ème siècle, le Parlement de Paris reprochait au Conseil des parties, juge de cassation, de vouloir s’ériger en juridiction et, au début de la Révolution, le Tribunal de cassation, remplaçant le Conseil des parties,

2

Sur l’île de la Cité, au 5 quai de l’Horloge, dans le 1er arrondissement de Paris, au Palais de justice de Paris, qui a été originairement, et durant une longue période, le palais des rois de France et, avant lui, une forteresse romaine où Julien l’Apostat fut proclamé empereur par ses soldats au 4ème siècle de notre ère. 3 Art. L. 411-2, al. 2 COJ : « La Cour de cassation ne connaît pas du fond des affaires, sauf disposition législative contraire ». 4 Voir par exemple l’article L. 311-1, alinéa 2 COJ : « La cour d’appel statue souverainement sur le fond des affaires ».

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sera établi près du Corps législatif, comme son auxiliaire. Ce n’est qu’en 1804, lorsque le Tribunal de cassation sera transformée en Cour de cassation que cette dernière deviendra véritablement une juridiction. Mais il faudra encore attendre les années 1970 pour que les textes relatifs à la Cour de cassation et au pourvoi en cassation, jusque là séparés des autres textes procéduraux, se trouvent dans le Code de l’organisation judiciaire (1978) et dans le Code de procédure civile (1975). Depuis sa création au début du XXème siècle, la Cour de cassation a fait l’objet de différentes réformes, qui ont principalement affecté son organisation. À son origine, la Cour de cassation ne comportait en effet que trois chambres : une chambre civile, une chambre criminelle, et une chambre des requêtes dont le rôle était simplement de statuer sur le bien-fondé d’un pourvoi, avant que l’affaire ne soit entendue par la chambre civile. Les pourvois formés en matière pénale échappaient à ce filtre et étaient portés directement devant la chambre criminelle, de même que les pourvois exercés en matière sociale devant la chambre sociale, créée par un décret-loi du 12 novembre 1938. La chambre des requêtes fut supprimée par la loi du 23 juillet 1947, car elle avait fini par développer une jurisprudence qui, parfois, entrait en contradiction avec celle de la chambre civile. Cette loi de 1947 créa en revanche une chambre commerciale, avant que deux chambres civiles supplémentaires soient créées par une loi du 21 juillet 1952 afin de répondre à l’augmentation du nombre de pourvois. La Cour de cassation atteignait alors la composition qu’elle a aujourd’hui, fixée par une loi du 3 juillet 1967, puis dans le code de l’organisation judiciaire de 1978, modifié à droit constant en 2006-2008 : trois chambres civiles, une chambre commerciale et financière, une chambre sociale et une chambre criminelle, sans compter les formations occasionnelles en assemblée plénière ou en chambre mixte. Quant à sa procédure, largement issue de la pratique, elle n’a pas fondamentalement évolué depuis le décret n° 79-941 du 7 novembre 1979 portant réforme de la procédure en matière civile devant la Cour de cassation qui l’a codifiée aux articles 604 et s. et 973 et s. du nouveau code de procédure civile. Elle a bien sûr fait l’objet d’un certain nombre de modifications, mais il s’est agi, principalement, d’ajustements techniques5.

3. Or, depuis quelques années, différents facteurs sont cependant de nature à justifier une évolution substantielle de plus grande ampleur. Ces facteurs, qui ne sont pas tous propres à la France, sont de deux sortes, hétérogènes et complexes. Les uns sont de nature économique, ou quantitative, et résultent, pour l’essentiel, du nombre très important de recours auxquels la Cour de cassation doit faire face. L’augmentation considérable du nombre de ces recours engendre la nécessité d’endiguer le flot afin de permettre à la plus haute juridiction d’accomplir sa mission dans un délai rai-

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Pour un point de vue plus général, V. L. Cadiet, Le rôle institutionnel et politique de la Cour de cassation en France : tradition, transition, mutation ?, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2011, pp. 183-222 ; Problèmes et perspectives de la Cour de cassation française, in C. Besso e S. Chiarloni, Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, pp. 55-69.

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sonnable de jugement. Pour prendre la mesure de ces défis, il n’est pas inutile de savoir que le personnel ordinaire de la Cour de cassation se compose de magistrats du siège, de magistrats du ministère public, de greffiers et d’auditeurs. Les magistrats du siège sont le premier président, les présidents de chambre (au nombre de sept), les conseillers (au nombre de 88) et les conseillers référendaires (au nombre de 65), soit 160 magistrats du siège exerçant des fonctions juridictionnelles. Cette composition est bien sûr à mettre en relation avec le nombre de décisions que rend la Cour de cassation en une année. Il n’est pas possible, autrement, de comprendre la place et le rôle de la Cour de cassation dans le système français de justice. Ainsi, en 2018, la Cour de cassation a prononcé 21 865 décisions en matière civile et 7 587 en matière pénale, soit environ un nombre moyen de 184 décisions par an et par magistrat, ce qui est un chiffre élevé pour une juridiction située au sommet de la hiérarchie judiciaire, même si toutes ces décisions n’ont bien sûr pas la même valeur, ni la même portée. En matière civile, 42 % des décisions étaient des arrêts de rejet, 9 % des arrêts de cassation ou d’annulation, le reste étant constitué de décisions de désistement (16 %), de déchéance (9 %) d’irrecevabilité (1 %) et autres (2 %). En matière pénale, 38 % des décisions étaient des arrêts de rejet, 31 % des arrêts de cassation, le reste étant constitué de décisions de déchéance (40 %), de désistement (7 %), d’irrecevabilité (1 %) et autres (4 %). Le délai moyen de traitement est de 402 jours en matière civile et de 183 jours en matière pénale et, surtout, le taux de couverture, c’est-à-dire le ratio entre le nombre d’affaires enregistrées et le nombre d’affaires réglées, tous contentieux confondus, est négatif : 93 % contre 105,5 % en 2016. Les autres facteurs sont de nature plus qualitative, ou politique, et tiennent principalement au développement continu de la protection des droits fondamentaux. Cette protection est assurée au moyen d’un double contrôle de conventionalité et de constitutionnalité des lois auxquels la Cour de cassation est associée dans un jeu complexe d’interactions juridictionnelles impliquant d’autres juridictions nationales (Conseil constitutionnel, Conseil d’Etat) et européennes (Cour européenne des droits de l’homme, Cour de justice de l’Union européenne), de sorte que la Cour de cassation, si elle demeure suprême dans son ordre, doit composer avec la primauté d’autres juridictions car elle est insérée dans un espace juridictionnel qui la dépasse. Dans l’ordre interne, par exemple, il faut signaler l’introduction en 2008/2010 de la question prioritaire de constitutionnalité, qui ouvre un contrôle de constitutionnalité ex post permettant, lors d’un procès, civil, pénal ou administratif, de faire juger par le Conseil constitutionnel le caractère inconstitutionnel de la loi applicable au litige. Ce contrôle incident de constitutionnalité place la Cour de cassation, comme le Conseil d’Etat, dans une certaine dépendance par rapport au Conseil constitutionnel, du moins pour les questions de constitutionnalité. Or, cette dépendance peut devenir problématique dès lors que le Conseil constitutionnel inclut dans son contrôle l’interprétation dont la loi contestée est l’objet par la Cour de cassation, ou le Conseil d’Etat6. De même,

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Voir du reste Conseil constitutionnel, 18 juin 2010, décision n° 2010-8 QPC, déclarant conforme à la Constitution une disposition du

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dans l’ordre européen, la Cour de cassation n’a pas échappé au contrôle de conventionalité exercé par la Cour européenne des droits de l’homme. D’abord, la procédure devant la Cour de cassation a été évaluée, et critiquée sur certains points, au regard de l’article 6 § 1 de la Convention et des exigences du procès équitable. En outre et surtout, la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme bouleverse l’économie du pourvoi et l’office du juge de cassation. La Cour de Strasbourg exerce en effet un contrôle de proportionnalité au cours duquel elle aborde tout à la fois les questions en droit et en fait, à la différence de la Cour de cassation dont le strict contrôle syllogistique de légalité, tourné vers la correcte application de la règle de droit, ne lui permet de répondre aux exigences qu’impose le contrôle de proportionnalité entre les droits fondamentaux en conflit. Il en résulte un hiatus dans la chaîne des recours, conduisant le juge européen à exercer un contrôle que le juge de cassation n’a pas exercé, ce qui atteint en plein cœur l’économie du pourvoi en cassation en tant que recours effectif. 4. C’est pourquoi, dès son entrée en fonctions, il y a 5 ans, le nouveau premier président de la Cour de cassation, M. Bertrand Louvel, accompagné dans cette voie par le procureur général de la Cour de cassation, M. Jean-Claude Marin, a, par lettre de mission du 19 septembre 2014, chargé M. Jean-Paul Jean, alors président de chambre, directeur du Service de documentation, des études et du rapport, de constituer et d’animer un groupe de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation, auquel j’ai eu le plaisir de participer7. Cette initiative originale a constitué le point de départ d’un processus réformateur inédit. Inédit, d’une part, dans son principe car jamais, à ce jour, la Cour de cassation n’avait pris la liberté de réfléchir proprio motu à sa propre réforme ; inédit, d’autre part, au regard de la méthode, associant membres de la Cour de cassation, avocats au Conseil d’Etat et à la Cour de cassation, représentants des cours d’appel et deux universitaires (l’autre universitaire était Cécile Chainais, professeur à l’université Paris 2). A l’issue de deux années et demie de travail intense, en avril 2017, la commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation a rendu un rapport de 350 pages, dense et richement documenté, y compris sur le terrain du droit comparé, contenant 70 propositions. Certaines de ces propositions ont été mises en œuvre, les unes en 2016/2107, à l’occasion de la réforme dite Justice du 21ème siècle par une loi du 18 novembre 20168, les autres à droit constant, par une modi-

Code de la sécurité sociale à la condition que cette disposition soit interprétée d’une certaine manière, qui n’est pas celle qu’avait retenue la Cour de cassation, et, sur ce point, F. Boucard, La question prioritaire de constitutionnalité et les cours suprêmes – Une partie de billard à trois bandes ? , Semaine Juridique (JCP) 2010, 804. 7 B. Louvel et J.-C. Marin, Ouverture 1 et 2, in Regards d’universitaires sur la réforme de la Cour de cassation, Semaine Juridique (JCP) 2016, suppl. au n° 1-2. - J.-P. Jean, 3. Propos introductif», in Regards d’universitaires sur la réforme de la Cour de cassation, Semaine Juridique (JCP) 2016, suppl. au n° 1-2. 8 Dans l’attente des résultats définitifs des travaux de la Commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation, MM. Louvel et Marin, saisissant l’occasion des débats parlementaires en cours sur le projet de loi sur la justice du 21ème siècle, qui ne comportait aucune disposition relative à la Cour de cassation, avaient pris l’initiative de quelques propositions d’amendements à l’occasion de leur audition par la commission des lois de l’Assemblée nationale le 6 avril 2016. Certains de ces amendements ont été retenus, d’autres ont été repoussés. D’autres amendements intéressant la Cour de cassation avaient également été déposés à l’initiative du

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fication de certaines pratiques de la Cour de cassation. Il s’est agi, en quelque sorte, d’une réforme avant la réforme car ces modifications, qui relèvent de l’adaptation de la Cour de cassation, sont principalement de nature procédurale ; elles occuperont la majeure partie de mon propos. En revanche, le cœur de la réforme envisagée, qui suppose une modification substantielle de l’organisation institutionnelle de la Cour de cassation susceptible d’en transformer la nature, reste encore en projet car elle est loin de faire l’unanimité ; j’en ferai état dans ma conclusion. Au moyen de différentes mesures d’ordre procédural, l’adaptation de la Cour de cassation a ainsi été recherchée dans deux directions, en direction de son environnement social (I) et en direction de son environnement juridictionnel (II). La démarche peut paraître impressionniste, mais elle contribue assurément à retoucher de manière assez significative le tableau qu’offre la Cour de cassation dans le paysage juridictionnel français.

I. L’adaptation de la Cour de cassation à son environnement social

5. La nécessité d’adapter la Cour de cassation à son environnement social repose sur le constat qu’une tension croissante est apparue entre l’affirmation du principe d’autorité des arrêts de cassation, qui est limitée au cas d’espèce, et un contexte dans lequel l’évolution des modes de communication amplifie l’impact attribué à ses décisions. La Cour de cassation, qui limite traditionnellement sa communication externe à la diffusion de sa jurisprudence en direction des juristes, n’avait pas véritablement pris la mesure de l’incidence générale, économique et sociale, de ses décisions, de sorte que celles-ci peuvent parfois paraître en décalage au regard du contexte social ou des contraintes économiques et financières des acteurs concernés. Le mode de rédaction concise de ses arrêts, étroitement lié à la conception légaliste de sa mission et au caractère strictement syllogistique de la technique de cassation, a contribué à accentuer cette difficulté de communication avec la société. L’adaptation de la Cour de cassation à son environnement social a donc été recherchée au stade de l’instruction du pourvoi en cassation (A) et à celui de la décision de la Cour de cassation (B).

gouvernement, avant d’être fort heureusement retirés dans la mesure où ils entraient directement en conflit avec la réflexion en cours au sein de la Cour de cassation . En définitive, la loi n° 2016-1547 du 18 novembre 2016 de modernisation de la justice du 21ème siècle contient cinq articles (art. 38-42) relatifs à la procédure devant la Cour de cassation ; ils se trouvent dans un titre III de la loi, consacré à « l’amélioration de l’organisation et du fonctionnement du service public de la justice ». V. L. Cadiet, La loi J 21 et la Cour de cassation : la réforme avant la réforme ?, en Procédures 2017, Etude 3.

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A.

Au stade de l’instruction du pourvoi en cassation

6. Le régime de l’instruction du pourvoi a été l’objet de deux modifications qui ont pour objet d’ouvrir la Cour de cassation à des informations dépassant la dimension strictement juridique de l’affaire qui lui est soumise. Ces informations proviennent du parquet général (1°) et de l’amicus curiae (2°) 1°) L’évolution du rôle du parquet général 7. En premier lieu, l’article L. 432-1 Code de l’organisation judiciaire, qui définit le rôle du parquet général près la Cour de cassation, s’est enrichi d’un nouvel alinéa (al. 3) précisant que le procureur général « rend des avis dans l’intérêt de la loi et du bien commun. Il éclaire la cour sur la portée de la décision à intervenir ». Introduit par voie d’amendement du gouvernement, cette disposition a été conçue pour clarifier le rôle du parquet général près la Cour de cassation, qui était devenu incertain à la suite des arrêts Reinhard et Slimane-Kaïd de la Cour européenne des droits de l’homme, prononcés en 19989. Il est vrai que le statut du parquet général près la Cour de cassation n’est pas sans ambiguïté. D’abord, il n’est pas un parquet au sens technique du terme dès lors que les avocats généraux à la Cour de cassation n’exercent pas l’action publique et n’ont pas vocation à porter une quelconque accusation pénale. Pour autant, si la Cour de cassation « se compose » de magistrats du parquet à côté de magistrats du siège et de greffiers (art. R. 421-1 Code de l’organisation judiciaire), le procureur général, les premiers avocats généraux, les avocats généraux et les avocats généraux référendaires, à la différence du rapporteur public au Conseil d’Etat, ne sont pas « un membre de la juridiction » (art. L. 7 Code de justice administrative). Ils sont, au regard des catégories procédurales, une partie jointe au sens de l’article 424 Code de procédure civile, chargée de « faire connaître son avis sur l’application de la loi dans une affaire dont il a communication ». A proprement parler, le nouvel alinéa 3 de l’article L. 432-1 ne dit rien d’autre. Cette innovation laisse cependant perplexe quand on sait le caractère éminemment polysémique de la notion de bien commun dont on ne voit pas, ici, ce qu’elle apporte positivement à l’intérêt de la loi, sauf à y voir, pour éviter une répétition, une autre manière de nommer l’intérêt général, ce qu’est précisément l’intérêt de la loi, expression de la volonté générale. Il serait bien hasardeux, à ce stade, d’aller au-delà et de lire, dans la référence au bien commun, une transformation du rôle même du parquet général de la Cour de cassation lui permettant de se déterminer selon d’autres considérations que l’intérêt de la loi. Plus utilement, le nouvel alinéa 3 de l’article L. 432-1 précise que le procureur général « éclaire la cour sur la portée de la décision à intervenir », ce qui peut être interprété comme pouvant fonder la possibilité, pour la Cour de cassation, de recourir à des études d’incidence, ou d’impact, pour l’éclairer sur les conséquences éventuelles de

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Cour européenne des droits de l’homme 31 mars 1998, Reinhard et Slimane-Khaïd c. France, n° 21/1997/805/1008 et 22/1997/806/1009.

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la solution qu’elle est susceptible de retenir. Ces études sont dans la vocation naturelle du parquet général de la Cour de cassation ; elles peuvent être particulièrement utiles lorsque le pourvoi en cassation soulève une question dont la solution peut avoir des effets au-delà du seul cas d’espèce, des effets que l’on pourrait qualifier de systémiques. 2°) La consécration de l’amicus curiae 8..La deuxième innovation est également utile ; elle était nécessaire pour inscrire dans la loi la pratique de l’amicus curiae, inaugurée dès le début des années 1990 devant la Cour de cassation10. Directement inspiré dans sa formulation de l’article R. 625-3 Code de justice administrative, l’article 39 de la loi du 18 novembre 2016 a inséré dans le code de l’organisation judiciaire un nouvel article L. 431-3-1 aux termes duquel : « Lors de l’examen du pourvoi, la Cour de cassation peut inviter toute personne dont la compétence ou les connaissances sont de nature à l’éclairer utilement sur la solution à donner à un litige à produire des observations d’ordre général sur les points qu’elle détermine ». Ce n’est pas là, comme on a pu l’écrire, l’introduction, dans le code, d’une base légale aux études d’incidence, ou d’impact11, qui relèvent plutôt de la mission du parquet général comme je viens de le dire, mais la consécration d’une forme particulière de mesure d’instruction devant la Cour de cassation : il s’agit de l’éclairer « sur la solution » elle-même, et non pas sur ses conséquences éventuelles ; c’est du reste bien ainsi que la mesure homologue est présentée devant le Conseil d’Etat12. Mais il ne suffit pas d’améliorer et d’étendre la connaissance qu’a la Cour de cassation des données du problème qui lui est soumis ; il est également nécessaire d’accroître l’autorité de ses décisions.

B.

Au stade de la décision de la Cour de cassation

9. Les modifications intervenues au stade de la décision de la Cour de cassation résultent, l’une, concernant l’office de la Cour de cassation, de la loi (1°), l’autre, relative à la rédaction de ses arrêts, de la pratique de la Cour de cassation elle-même (2°). 1°) L’adaptation par la loi de l’office de la Cour de cassation 10. A la suite d’un amendement du gouvernement, l’article 38 de la loi du 18 novembre 2016 a modifié la rédaction de l’article L. 411-3 du code de l’organisation judiciaire13.

10

A l’occasion des premières affaites dites de mères porteuses : V. Cour de cassation, assemblée plénière, 31 mai 1991, n° 90-20.105, Dalloz 1991, 417, rapport Chartier, note Thouvenin ; Semaine Juridique (JCP) 1991, II, 21752, concl. Dontenwille, note Terré et communication du prof. Jean Bernard, p. 377. 11 Malgré la présentation officielle qui en est régulièrement faite : V. not. J.-M. Clément et J.-Y Le Bouillonnec, Rapport sur le projet de loi (n° 3872), modifié par l’assemblée nationale en première lecture, de modernisation de la justice du XXIème siècle, Commission des lois de l’Assemblée nationale, n° 3904, 30 juin 2016, p. 71. 12 Art. R. 625-1 à R. 625-3 Code de justice administrative : « Les autres mesures d’instruction ». 13 V. H. Croze, Cour de cassation : la vraie révolution ?, Procédures 2016, Repère 12.

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Cet article règle le sort donné au pourvoi en cassation lorsque le jugement ou l’arrêt frappé de pourvoi est cassé. En principe, l’affaire est renvoyée devant la juridiction du fond car la Cour de cassation n’est que juge du droit. Mais ce principe est écarté dans quelques hypothèses limitées. La cassation se fait alors sans renvoi. L’alinéa 1 dispose que la Cour de cassation peut casser sans renvoi lorsque la cassation n’implique pas qu’il soit à nouveau statué sur le fond, par exemple en cas de contrariété entre deux jugements, l’un des deux étant simplement exclu. Cette disposition demeure inchangée. L’alinéa 2 disposait, quant à lui, que la Cour de cassation « peut aussi, en cassant sans renvoi, mettre fin au litige lorsque les faits, tels qu’ils ont été souverainement constatés et appréciés par les juges du fond, lui permettent d’appliquer la règle de droit appropriée ». La règle était traditionnelle14, d’abord issue de la pratique de la Cour de cassation, avant d’être consacrée par loi, en 1967 pour l’assemblée plénière15, puis en 1979 pour l’ensemble des formations de la cour16. La loi nouvelle la maintient en l’état en matière pénale (nouvel alinéa 3), mais elle la modifie en matière civile : la faculté offerte à la Cour de cassation de mettre fin au litige, « de statuer au fond » comme il est désormais écrit dans le code, est désormais justifiée plus largement par « l’intérêt d’une bonne administration de la justice » (nouvel al. 2). Il s’agit « de ne pas prolonger inutilement le litige et d’y mettre fin dans des cas où le renvoi à la juridiction ayant prononcé la décision cassée n’est pas opportun ». Le critère tenant à la bonne administration de la justice, également connu du Conseil constitutionnel français et de la Cour européenne des droits de l’homme qui s’en servent pour justifier certaines atteintes au droit au procès équitable, est plus souple et il élargit donc sensiblement le pouvoir de la Cour de cassation de régler définitivement le litige. 11. Cet élargissement avait déjà été envisagé avant que le processus de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation ne soit lancé. Il était né d’une comparaison entre le Conseil d’Etat et la Cour de cassation dans leur office de juge de cassation. Le nouvel article L. 411-3, al. 2, Code de l’organisation judiciaire est d’ailleurs directement inspiré de l’art. L. 821-2 Code de justice administrative. Pourtant, ce changement a été fraichement reçu. Sans doute, il peut susciter quelque réserve. Le risque est que la Cour de cassation se fasse ainsi juge du fond, ce qu’elle n’a jamais été au sens plein du terme, à la différence du Conseil d’Etat, qui peut l’être comme juge de première instance ou juge d’appel et qui, à cet effet, dispose de l’entier dossier de la procédure. L’inquiétude a ainsi été exprimée que cette modification marquerait la fin d’un système, celui du tribunal de cassation gardien de la loi, ce que, en vérité, il n’est pas seulement, et depuis très longtemps. Les premiers retours d’expérience montrent que l’in-

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V. L. Cadiet et E. Jeuland, Droit judiciaire privé, Paris, LexisNexis, 10ème éd. 2017, spéc. n° 1018. L. n° 67-523, 3 juill. 1967 relative à la Cour de cassation. 16 Décret n°79-941 du 7 novembre 1979 portant réforme de la procédure en matière civile devant la Cour de cassation et modifications de certaines dispositions de procédure civile. 15

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quiétude n’était pas fondée ; la Cour de cassation fait preuve de mesure dans l’usage de son pouvoir élargi de régler ainsi directement et définitivement l’affaire au fond. Il n’aurait pas été inutile, cependant, d’en circonscrire plus étroitement le domaine, en distinguant selon que l’affaire avait fait l’objet ou non d’un double examen devant les juridictions du fond, selon qu’elle relevait d’une procédure avec ou sans représentation obligatoire. Une autre option aurait consisté à renforcer plutôt l’autorité des arrêts de cassation en généralisant à tous les arrêts de cassation avec renvoi la règle, actuellement réservée aux arrêts d’assemblée plénière, qui consiste à imposer à la juridiction de renvoi de se conformer à la décision de la Cour de cassation sur les points de droit jugés par celle-ci (art. L. 431-4, al. 2 Code de l’organisation judiciaire). Cette solution n’est pas de nature à interdire le phénomène des divergences de jurisprudence, qui sont un facteur positif de développement du droit, dans la mesure où l’autorité alors imposée à la juridiction de renvoi ne l’est que pour l’espèce soumise à la Cour de cassation, et non pas à l’égard des autres juridictions à la faveur des nouvelles affaires dont elles pourraient être saisies. Mais cette solution alternative, qui finira par être adoptée, n’a pas encore les faveurs de la Cour de cassation. Il faut voir dans cette réticence l’expression d’une sorte d’autocensure, de self-restraint, tenant au statut traditionnel de la jurisprudence en droit français, prohibant les arrêts de règlement et faisant de la jurisprudence une source secondaire ou subordonnée du droit. Dans cette conception, un arrêt de la Cour de cassation ne s’impose pas par raison d’autorité, comme la loi, mais par l’autorité de ses raisons, auctoritate rationis sed non ratione auctoritatis. C’est pourquoi la Cour de cassation a également fait évoluer la pratique de rédaction de ses arrêts 2°) L’adaptation par la Cour de cassation de la rédaction de ses arrêts 12. Les défauts de la méthode traditionnelle de rédaction des arrêts de la Cour de cassation française étaient dénoncés depuis longtemps. La tournure en était surannée avec sa phrase unique, rédigée en style indirect et séquencée en attendus successifs (« La Cour, attendu que…, par ces motifs… »). L’extrême brièveté des arrêts de la Cour de cassation ne permettait pas toujours de comprendre la solution de la Cour de cassation et la manière dont elle s’insérait dans le récit jurisprudentiel, ce qui soulevait souvent des difficultés d’interprétation17 ; elle ne permettait plus d’assurer l’intelligibilité des décisions de justice qui participe de la prévisibilité du droit, donc de la sécurité juridique. L’adaptation, par la Cour de cassation, de la rédaction de ses arrêts faisait ainsi partie des principales recommandations de la Commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation. Son rapport consacrait 29 pages à la question de la rédaction des arrêts et formulait 10 propositions à cet effet18. Certaines de ces recommandations avaient fait l’objet d’une ex-

17

V. not. A. Touffait et A. Tunc, Pour une motivation plus explicite des décisions de justice, notamment de celles de la Cour de cassation, en Revue trimestrielle de droit civil 1974, p. 487 et s. 18 Cour de cassation, Rapport de la commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation, avr. 2017, spéc. pp. 129-157, recommandations n° 28, 29, 30, 31, 31 bis, 32, 32 bis, 33, 34, 58.

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périmentation, pour les arrêts19 comme pour les avis20. L’expérimentation ayant été jugée positive, la décision a été prise d’en généraliser le dispositif21. A partir du 1er octobre 2019, la Cour de cassation adoptera donc, de manière générale, de nouvelles règles de rédaction de ses arrêts. Sans que soit abandonnée la structure syllogistique du raisonnement, le style en sera direct, sans « attendu » ni phrase unique. Les grandes parties structurant l’arrêt seront clairement identifiées : 1. Faits et procédure ; 2. Examen du ou des moyens ; 3. Dispositif. Les paragraphes seront numérotés et assortis d’intitulés de plusieurs niveaux22. Par ailleurs, et cela touche davantage à la substance de la décision, les arrêts les plus importants bénéficieront à l’avenir, plus systématiquement, d’une motivation qualifiée de développée, ou enrichie. Il s’agira des arrêts qui opèrent un revirement de jurisprudence, qui tranchent une question de droit nouvelle ou une question de principe, qui procèdent à une unification de la jurisprudence, qui mettent en jeu la garantie de droits fondamentaux, et qui se prononcent sur une demande de renvoi préjudiciel à la Cour de justice de l’Union européenne ou sur une demande d’avis consultatif à la Cour européenne des droits de l’homme. La motivation développée consistera à mettre en évidence la méthode d’interprétation des textes pertinents retenue par la Cour, à évoquer les solutions alternatives écartées lorsque celles-ci ont été sérieusement discutées au cours du délibéré en expliquant les raisons pour lesquelles elles ont été écartées, à citer les « précédents », entendus ici comme les décisions antérieures, et non pas au sens du common law, pour assurer la traçabilité de la décision dans le récit jurisprudentiel et donner ainsi plus de lisibilité aux évolutions de la jurisprudence, à faire état, le cas échéant, des études d’incidence, ou d’impact, lorsqu’elles ont joué un rôle important dans le choix de la solution adoptée23. 13. Est-ce là « la fin d’un monde », ainsi qu’un auteur a pu l’écrire24 ? L’avenir le dira. Il s’agit en tout cas d’une révolution méthodologique importante qui rompt avec les usages séculaires d’un juge de cassation prisonnier de la règle de droit, qui ne devait être que la « bouche de la loi », selon l’expression de Montesquieu. Les juridictions du fond avaient déjà fait évoluer le style de leurs jugements. Le Conseil constitutionnel et le Conseil d’Etat viennent également de moderniser la rédaction de leurs décisions. Il fallait que la Cour

19

V. p. ex. Cour de cassation, chambre sociale, 11 juillet 2018, n° 16-27.825, arrêt de renvoi préjudiciel à la Cour de justice de l’Union européenne, procédant au surplus à des références à des arrêts de la Cour de justice de l’Union européenne et à la Cour de cassation. Puis Cour de cassation, assemblée plénière, 5 oct. 2018, n° 10-19.053, Mennesson, Dalloz 2019, p. 228, note Deumier et Fulchiron. – Cour de cassation, chambre commerciale, 26 sept. 2018, n° 16-28.281. – Cour de cassation, 3e chambre civile, 15 nov. 2018, n° 17-26.156. - Cour de cassation, chambre sociale, 19 déc. 2018, n° 18-14.520. V. au contraire, conservant l’usage ancien de la phrase unique en style indirect, Cour de cassation, 1re chambre civile, 20 févr. 2019, n° 17-21.006 20 V. p. ex. Cour de cassation, avis, 23 mai 2016, n° 16-70.002. 21 Cour de cassation, conférence de presse, 5 avr. 2019, Semaine juridique (JCP) G 2019, 409. 22 V. déjà Cour de cassation, chambre criminelle, 7 mai 2019, n° 19-81366 19-81494, sur lequel V. N. Molfessis, Le chameau vu pour la première fois, en Semaine juridique (JCP) 2019, 528. 23 V. Cour de cassation, commission de mise en œuvre de la réforme de la Cour de cassation, Note relative à la structure des arrêts et avis et à leur motivation en forme développée, déc. 2018. 24 N. Molfessis, La fin d’un monde, en Semaine juridique (JCP) G 2019, 447.

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de cassation se mette aussi au goût du jour. La légitimité de la justice n’a plus pour elle la transcendance de Dieu, comme c’était le cas sous l’ancien régime, ni celle de la loi, comme c’était le cas depuis la Révolution française. Elle ne peut se fonder aujourd’hui que sur sa capacité à faire accepter ses décisions, ce qui passe par la conformité de ses procédures aux exigences du procès équitable et par son aptitude à convaincre chacun de la pertinence de ses solutions. La Cour de cassation doit donc expliquer les « bonnes raisons » qui l’ont conduite à prendre telle solution plutôt que telle autre, en mettant en évidence chaque étape du raisonnement suivi. C’est un vrai changement de paradigme, dont la presse nationale généraliste s’est d’ailleurs faite l’écho25. L’adaptation, par la Cour de cassation, de la méthode de rédaction de ses arrêts n’est bien sûr pas qu’à usage interne ; elle est aussi tournée vers l’extérieur afin de mieux répondre aux attentes de son environnement juridictionnel européen.

II. L’adaptation de la Cour de cassation à son

environnement juridictionnel

14. Perchée au sommet de la hiérarchie judiciaire, la Cour de cassation était dans une sorte de superbe isolement qui la coupait du monde extérieur ; elle n’avait de compte à rendre qu’à elle-même, c’est-à-dire à personne. Les instruments contemporains de la protection des droits de l’homme l’ont conduite à sortir de son isolement et à conjuguer sa suprématie sur les juridictions judiciaires avec la primauté reconnue aux juridictions nationales et européennes chargées d’assurer le respect des droits fondamentaux. Cette mutation n’est pas allée de soi mais, en définitive, la Cour de cassation l’a acceptée en œuvrant elle-même à l’amélioration du dialogue auquel elle est désormais tenu avec les autres juridictions nationales (A) comme avec les juridictions européennes (B).

A.

L’amélioration du dialogue national des juges

15. L’introduction de la question prioritaire de constitutionnalité, que j’ai évoquée dans l’introduction, participe de ce dialogue national des juges. La Cour de cassation a en effet un rôle de filtrage des QPC qui lui sont transmises par les juges du fond ; elle est en quelque sorte le bastion avancé du Conseil constitutionnel. En outre, à partir du moment où le Conseil constitutionnel étend le contrôle de constitutionnalité à l’interprétation que la Cour de cassation fait de la loi contestée, la Cour de cassation est incitée à faire évoluer

25

V. J.-B. Jacquin, La Cour de cassation va rendre ses décisions plus intelligible, en Le Monde 6 avr. 2019. – P. Gonzalez, La Cour de cassation adopte le style direct », Le Figaro 7 avr. 2019. – B. Gorce, Les juges suprêmes simplifient la rédaction de leurs décisions, en La Croix 9 avr. 2019.

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sa jurisprudence afin de mettre en conformité son interprétation avec l’interprétation de la Constitution par le Conseil constitutionnel26. 16. Mais le dialogue des juges est aussi celui que la Cour de cassation entretient avec les juridictions du fond soumises à son contrôle. En dehors du pourvoi en cassation, ce dialogue emprunte la forme procédurale de la saisine pour avis de la Cour de cassation par les juridictions du fond. Ici, le rôle de la Cour de cassation n’est pas juridictionnel ; il est consultatif ; c’est une sorte de rescrit. Il s’agit de fixer, sans tarder, la jurisprudence de la Cour de cassation afin de stabiliser rapidement le droit positif sans avoir à attendre plusieurs années l’exercice aléatoire d’un pourvoi en cassation. Aux termes de l’article L. 4411 Code de l’organisation judiciaire, les juridictions de l’ordre judiciaire peuvent, par une décision non susceptible de recours, solliciter l’avis de la Cour de cassation lorsqu’elles ont à statuer sur une question de droit nouvelle, présentant une difficulté sérieuse et se posant dans de nombreux litiges. Cette procédure a été introduite en 2006. L’article 41 de la loi du 18 novembre 2016 a procédé à un aménagement pragmatique de cette procédure portant simplement sur la suppression de la formation particulière de la Cour de cassation qui pouvait jusque là en connaître. Il s’agissait d’une formation spéciale constituée d’une vingtaine de juges, dont la composition était plus ou moins calquée sur celle de l’assemblée plénière. La procédure de saisine pour avis étant entrée dans les mœurs et ne soulevant plus de difficultés majeures, la réunion de cette formation solennelle ne se justifiait plus, outre que sa lourdeur ne lui permettait pas d’atteindre pleinement ses objectifs d’unification rapide de la jurisprudence sur des questions de droit nouvelles. La loi nouvelle procède donc à sa normalisation en prévoyant que la demande d’avis sera désormais portée devant la chambre compétente de la cour, comme le sont les pourvois, sauf à la porter devant une formation mixte, si elle relève normalement des attributions de plusieurs chambres, ou une formation plénière, lorsqu’elle pose une question de principe (art. L. 441-2 nouv.). La solution nouvelle prévient aussi le risque de discordance entre avis et arrêts de la Cour de cassation comme cela avait pu se produire par le passé27. Le dialogue des juges n’est donc pas toujours coercitif ; il peut aussi être consultatif. L’observation vaut également pour le dialogue européen des juges dans lequel s’inscrit de plus en plus la Cour de cassation dans un souci d’amélioration croissant.

26

V. N. Maziau, Le revirement de jurisprudence dans la procédure de QPC…, en Dalloz 2012, 1833, et, par ex. Cour de cassation, 2e chambre civile, 10 juill. 2014, n° 13-25.985, Semaine juridique (JCP) 2014, 998, n° 12, obs. Loiseau. 27 Conf. p. ex., à propos de l’article 906 Code de procédure civile, Cour de cassation, avis, 25 juin 2012, n° 1200005 - 1200006 - 1200007 et Cour de cassation, 2e chambre civile, 30 janv. 2014, n° 12-24.145.

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B.

L’amélioration du dialogue européen des juges

17. Les exigences du contrôle européen de conventionalité sont largement à l’origine des évolutions en cours de la Cour de cassation française. L’amélioration du dialogue européen des juges est un objectif avéré de ces évolutions28. Sans parler ici du dialogue entretenu depuis longtemps avec la Cour de justice de l’Union européenne, deux manifestations récentes peuvent en être données en ce qui concerne les relations entre la Cour de cassation et la Cour européenne des droits de l’homme. Il s’agit de la procédure de réexamen (1°) et de la procédure d’avis consultatif (2°). 1°) Le réexamen des décisions définitives après condamnation par la Cour européenne des droits de l’homme 18. En premier lieu, sur le terrain du contrôle coercitif, une évolution majeure a été opérée par la loi du 16 novembre 2016 (art. 42) qui a introduit en droit français la procédure de réexamen des décisions civiles définitives rendues en matière d’état des personnes (art. L. 452-1 à L. 452-6 Code de l’organisation judiciaire). Cette procédure avait déjà été introduite en matière pénale, il y presque vingt ans29, sur le fondement d’une recommandation du Conseil de l’Europe en complément de l’article 41 conv. EDH30. Trois observations suffiront ici. La première est que ce réexamen est confié à une cour de réexamen, composée de treize magistrats de la Cour de cassation, dont le doyen des présidents de chambre, qui la préside (art. L. 452-3), le parquet général près la Cour de cassation assurant les fonctions du ministère public devant cette formation de jugement (art. L. 452-4). La deuxième est que le président de la cour de réexamen a le pouvoir de rejeter une demande manifestement irrecevable par ordonnance motivée insusceptible de recours, ce qui marque, d’une certaine manière, l’introduction notable, et peut-être reproductible, du juge unique au stade de la juridiction suprême (art. L. 452-4). La troisième est que si la cour estime la demande fondée, elle annule la décision querellée et renvoie le requérant, soit devant une juridiction de même ordre et de même degré, autre que celle qui a rendu la décision annulée, soit devant l’assemblée plénière de la Cour de cassation si le réexamen du pourvoi du requérant est de nature à remédier à la violation constatée par la Cour européenne des droits de l’homme (art. L. 452-6). La Cour de cassation a récemment eu l’occasion de mettre en œuvre ce nouveau dispositif, qui constitue assurément une

28

V. Cour de cassation, commission de mise en œuvre de la réforme de la Cour de cassation, Memento du contrôle de conventionalité au regard de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales, déc. 2018. 29 Loi n° 2000-516 du 15 juin 2000 renforçant la protection de la présomption d’innocence et les droits des victimes et, à ce jour, art. 622-1 et 622-2 Code de procédure pénale. 30 Recommandation n° R (2000) 2 du Comité des Ministres aux États membres sur le réexamen ou la réouverture de certaines affaires au niveau interne suite à des arrêts de la Cour européenne des Droits de l’Homme.

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petite révolution dans la culture judiciaire française31. Ce n’est pas la seule. La nouvelle procédure d’avis consultatif est appelée à renforcer le dialogue des juges. 2°) L’avis consultatif de la Cour européenne des droits de l’homme 19. En second lieu, il faut en effet avoir égard à l’adoption et à la ratification par la France du Protocole n° 16 à la Convention européenne des droits de l’homme, signé à Strasbourg le 2 octobre 2013 et ratifié par la France le 12 avril 2018. Ce protocole, entré en vigueur le 1er août 2018, permet aux hautes juridictions désignées par les États membres qui ont ratifié le texte d’adresser à la Cour européenne des droits de l’homme des demandes d’avis consultatifs sur des questions de principe relatives à l’interprétation ou à l’application des droits et libertés définis par la Convention ou ses protocoles. Ces demandes ne peuvent être formées que dans le cadre d’une affaire pendante devant la juridiction qui sollicite l’avis consultatif de la Cour de Strasbourg. Pour la France, le pouvoir de saisir la Cour européenne des droits de l’homme a été accordé à la Cour de cassation, au Conseil d’Etat et au Conseil constitutionnel. La Cour de cassation l’a déjà mis en œuvre dans l’affaire qui a également donné lieu à la première application de la procédure de réexamen en matière civile32, ce qui est extrêmement intéressant en raison de la combinaison ainsi réalisée du contrôle coercitif et du contrôle consultatif de conventionnalité. Dans cette affaire, la procédure de réexamen portait sur la question de savoir si l’existence d’une convention de gestation pour autrui, un contrat de mère porteuse comme on le dit familièrement33, fait obstacle à la transcription de l’acte de naissance établi à l’étranger. A cette question, la Cour de cassation s’était fait condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme pour avoir répondu positivement ; elle a donc corrigé sa réponse à la suite de la procédure de réexamen en jugeant que l’existence d’une convention de gestation pour autrui ne fait pas obstacle à la transcription de l’acte de naissance établi à l’étranger dès lors que cet acte n’est ni irrégulier ni falsifié et que les faits qui y sont déclarés correspondent à la réalité biologique. Mais il demeurait la question de savoir si, au regard de l’article 8 de la convention, la transcription de l’acte de naissance devait faire figurer ou non la “mère d’intention”, alors qu’elle n’est pas la mère biologique de l’enfant et que, cependant, la transcription de l’acte a été admise en tant qu’il désigne le “père d’intention”, père biologique de l’enfant. C’est sur cette question que la Cour de cassation a saisi la Cour européenne des droits de l’homme d’une demande d’avis consultatif qu’elle

31

V. Cour de cassation, réexamen, 16 févr. 2018, nos 001 et 002, Semaine juridique (JCP) G 2018, 344, note Gouttenoire (gestation pour autrui). Et, à la suite de cette décision, Cour de cassation, assemblée plénière, 5 oct. 2018, n° 12-30.138, Mennesson, Semaine juridique (JCP) G 2018, 1071, obs. Sudre et 1190, note Gouttenoire et Sudre ; Revue trimestrielle de droit civil 2018, p. 847, obs. Marguénaud, suivi de Cour européenne des droits de l’homme, communiqué, 23 oct. 2018, Semaine juridique (JCP) G 2018, p. 1952. 32 V. Cour de cassation, assemblée plénière, 5 oct. 2018, n° 10-19.053, précité. 33 La gestation pour autrui (GPA) désigne le fait pour une femme de porter un enfant pour le compte d’un couple. Elle implique donc trois figures : le couple parental, désigné sous le vocable “les parents d’intention”, la “mère de substitution” - ou “mère porteuse” - et l’enfant.

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a rendu le 10 avril 2019 sous la présidence de Guido Raimondi34. C’est une « première » dans le système de la Convention européenne des droits de l’homme. Cette innovation n’est sans doute pas la dernière. 20. Quid de la prochaine étape dans le processus de réforme de la Cour de cassation : se dirige-t-on vers une transformation de la Cour de cassation ? C’est sur cette question que je conclurai mon exposé en fournissant quelques éléments de réponse. Ainsi que je l’ai laissé entendre en introduction, le cœur de la réforme envisagée est encore à l’état de projet car il suppose une modification substantielle de l’organisation institutionnelle de la Cour de cassation, susceptible d’en transformer la nature. Or ce projet est très loin de faire l’unanimité. La Commission de réflexion sur la Cour de cassation a envisagé deux trajectoires différentes d’évolution qui structuraient du reste le plan de son rapport. La première, que j’avais supprimer défendue, ne remettait pas en cause la double fonction traditionnelle de la Cour de cassation, c’est-à-dire, d’une part, sa fonction disciplinaire ayant pour objet de censurer les décisions des juges du fond qui n’ont pas correctement appliqué la loi et, d’autre part, sa fonction normative ayant pour objet d’assurer le développement du droit, complémentairement à la législation, en prononçant des arrêts de principe. Ces fonctions ont toujours coexisté et cette coexistence permet à la Cour de cassation, à la fois, d’assurer l’égalité devant la loi et l’unité de la jurisprudence. Il s’agit là d’une conception démocratique de l’accès à la Cour de cassation. Dans le cadre maintenu de cette conception, la réforme consisterait à proportionner les moyens mis en œuvre par la Cour de cassation pour assurer un traitement efficace et équitable des pourvois car tous les pourvois ne nécessitent pas de mobiliser les mêmes moyens juridictionnels, procéduraux, humains. C’est un principe d’économie processuelle qui devrait notamment conduire à l’instauration de différents circuits procéduraux de traitement différencié des pourvois, plus précisément trois circuits différenciés clairement identifiés pour le traitement des affaires, avec des passerelles toujours possibles : un circuit court pour les affaires « simples », un circuit approfondi pour les affaires dites « importantes », le circuit dit « ordinaire » s’appliquant par défaut aux pourvois n’entrant pas a priori dans l’une de ces deux catégories, à quoi s’ajouterait un circuit spécifique pour le traitement des affaires urgentes, sur

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Cour européenne des droits de l’homme (grande chambre) 10 avr. 2019, n° P16-2018-001, Mennesson, Dalloz 2019, 759 ; Semaine juridique (JCP) G 2019, 430, obs. Sudre: “Dans la situation où, comme dans l’hypothèse formulée dans les questions de la Cour de cassation, un enfant est né à l’étranger par gestation pour autrui et est issu des gamètes du père d’intention et d’une tierce donneuse, et où le lien de filiation entre l’enfant et le père d’intention a été reconnu en droit interne : 1. le droit au respect de la vie privée de l’enfant, au sens de l’article 8 de la Convention, requiert que le droit interne offre une possibilité de reconnaissance d’un lien de filiation entre cet enfant et la mère d’intention, désignée dans l’acte de naissance légalement établi à l’étranger comme étant la « mère légale » ; 2. le droit au respect de la vie privée de l’enfant, au sens de l’article 8 de la Convention, ne requiert pas que cette reconnaissance se fasse par la transcription sur les registres de l’état civil de l’acte de naissance légalement établi à l’étranger ; elle peut se faire par une autre voie, telle que l’adoption de l’enfant par la mère d’intention, à la condition que les modalités prévues par le droit interne garantissent l’effectivité et la célérité de sa mise en œuvre, conformément à l’intérêt supérieur de l’enfant ».

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le modèle existant déjà en matière d’enlèvement illicite d’enfant ou d’hospitalisation sans consentement (art. 1009 et 1012 Code de procédure civile)35. Ces différents circuits procéduraux seraient mis en œuvre devant des formations de jugement à géométrie variable, depuis un juge unique pour les pourvois manifestement irrecevables jusqu’à l’assemblée plénière des chambres pour les pourvois présentant un intérêt pour le développement du droit ou pour l’unification de la jurisprudence36. La deuxième trajectoire envisagée par le rapport de la Commission de réflexion emprunterait le chemin d’une transformation radicale de la Cour de cassation en Cour suprême judiciaire, reposant sur un mécanisme de sélection des pourvois permettant à la Cour de cassation de ne se prononcer que sur les recours qu’elle aurait choisis parce qu’il lui paraissent les plus importants37. C’est une conception plus aristocratique de l’accès à la Cour de cassation, dans laquelle la fonction normative l’emporte sur la fonction disciplinaire qui devrait donc être assurée autrement que par l’exercice d’un pourvoi en cassation, par exemple en confiant aux cours d’appel le contrôle disciplinaire portant sur les griefs les moins importants38. C’est cette dernière perspective qui a eu, en définitive, les faveurs de la conférence des présidents de chambre de la Cour de cassation. Dans ce projet, l’exercice du pourvoi en cassation serait soumis à autorisation préalable donnée par une formation de trois magistrats appartenant à la chambre dont relève l’affaire en raison de la matière. Sauf dispositions contraires, l’autorisation ne serait alors accordée que : 1° si l’affaire soulève une question de principe présentant un intérêt pour le développement du droit ; 2° si l’affaire soulève une question présentant un intérêt pour l’unification de la jurisprudence ; 3° si est en cause une atteinte grave à un droit fondamental. C’est ce projet qui a été transmis le 15 mars 2018 par le premier président la Cour de cassation à la garde des Sceaux, ministre de la justice, et c’est lui qui constitue le socle de la mission « d’évaluation des principes et modalités à retenir pour mettre en place une réforme ambitieuse et partagée du pourvoi en cassation », que Mme Belloubet a confiée le 19 décembre 2018 à M. Henri Nallet, ancien ministre de la justice au début des années 1990. Le rapport final est attendu à la fin de l’été. Il est difficile de conjecturer ce qui en ressortira car ce projet fédère contre lui une majorité d’oppositions coalisant la plupart des organisations syndicales d’avocats et de magistrats, ainsi que la plupart des universitaires ; il ne fait d’ailleurs pas l’unanimité au sein même de la Cour de cassation dans la mesure où il opère une rupture brutale dans la conception traditionnelle de l’accès au juge de cassation, susceptible de porter atteinte à l’égalité des justiciables et laisser subsister des atteintes à la légalité dans l’ordre juridique.

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La proposition a également été faite par les avocats au Conseil d’Etat et à la Cour de cassation d’instaurer un pourvoi-liberté. Cour de cassation, Rapport de la commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation, précité, Propositions n° 1 à 27. 37 Cour de cassation, Rapport de la commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation, précité, Propositions n° 63 à 66. 38 La commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation estime que pourraient être traités par les cours d’appel les vices de forme de procédure et les griefs de dénaturation de l’écrit. Elle s’est interrogée s’agissant du défaut de réponse à conclusions et de la violation des principes fondamentaux de procédure : Cour de cassation, Rapport de la commission de réflexion sur la réforme de la Cour de cassation, précité, pp. 236-240. 36

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Une perspective cependant : il est impossible d’envisager une réforme de la Cour de cassation sans insérer cette évolution dans une réflexion d’ensemble sur le système des voies de recours, depuis la première instance jusqu’au pourvoi en cassation. Si l’on veut éviter que la Cour de cassation soit assaillie de recours mettant en œuvre sa fonction disciplinaire, il faut que la qualité de la justice s’améliore en première instance et que les cours d’appel soient elles-mêmes davantage en mesure d’assurer le contrôle de cette qualité dans un délai raisonnable. C’est en permettant pleinement aux deux premiers degrés de juridiction de jouer complètement leurs rôles respectifs que la Cour de cassation ne sera pas conçue comme un troisième degré de juridiction et pourra pleinement exercer sa mission dans le développement du droit. C’est donc toute la chaîne des recours qui doit être reconsidérée.

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Giurisprudenza commentata

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Giurisprudenza Tribunale di Termini Imerese, sezione civile, ord. 18 dicembre 2018; Dott.ssa Sara Marino; G. M.G., G. A., G. R. (avv. Vivona) c. V. S. (avv. Siciliano) Dichiara inammissibile il ricorso Rito sommario di cognizione – Domanda riconvenzionale – Cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale – Inammissibilità della domanda riconvenzionale – Inammissibilità del ricorso Nel rito sommario di cognizione, se il convenuto propone domanda riconvenzionale che deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, il ricorso introduttivo va dichiarato inammissibile se le domande sono tra loro strettamente connesse.

(Omissis) letti gli atti; sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 25/10/2018; rilevato che le ricorrenti hanno chiesto di essere riconosciute “titolari dell’eredità devoluta alla loro madre…con testamento olografo redatto da (omissis)” nonché di avere diritto al pagamento della somma di euro 5.238,31 da parte del convenuto in forza di quanto stabilito da questo Tribunale con la sentenza n. 149/17 del 09.02.2017 a titolo di risarcimento del danno per illegittima occupazione dell’immobile comune; considerato che si è costituito in giudizio il convenuto, il quale ha proposto in via riconvenzionale domanda di nullità del testamento olografo di (omissis); rilevato che la domanda riconvenzionale è di competenza del Tribunale in composizione collegiale ai sensi dell’art. 50 bis, n. 6 c.p.c. (“cause di impugnazione dei testamenti”) e che detta domanda è strettamente connessa a quelle proposte dalle ricorrenti, le quali hanno invero ancorato il loro

diritto alle disposizioni testamentarie della nonna materna (omissis) nonché alle statuizioni della sentenza n. 149/17 (peraltro non ancora irrevocabile) emessa dal Tribunale in composizione collegiale; rilevato che il rito sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c. è ammesso esclusivamente per “le cause in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica”; rilevato che le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, avuto riguardo ad importi medi tabellari in base al valore della causa per le sole fasi introduttive e studio (il processo si è chiuso in una sola udienza senza alcuna attività istruttoria e senza il deposito di note conclusive); P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente a pagare a parte resistente le spese di lite, che liquida nella misura di euro 1.615,00, oltre spese generali, IVA e C.P.A. come per legge. (Omissis)

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Giurisprudenza

Il rito sommario di cognizione dieci anni dopo. Spunti di riflessione e prospettive future Sommario : 1. L’ordinanza d’inammissibilità nella vicenda in esame. – 2. Premessa: la natura giuridica del rito introdotto con la l. 69/2009. –3. Il rito sommario di cognizione alla luce della sua evoluzione legislativa. – 4. L’inammissibilità della domanda riconvenzionale nel procedimento sommario di cognizione. – 5. Considerazioni conclusive sulla vicenda processuale e prospettive di riforma: verso un procedimento sommario 4.0?

Il tribunale di Termini Imerese con una recente ordinanza ha dichiarato l’inammissibilità della domanda riconvenzionale proposta dal convenuto in un giudizio sommario di cognizione, perché appartenente alle cause da trattarsi in composizione collegiale, estendendo però la declaratoria anche alla domanda principale in virtù della connessione c.d. forte tra le stesse. Il decidente ha così definito in rito l’intero giudizio. L’autore illustra le tematiche concernenti il giudizio sommario di cognizione sia sotto il profilo della sua natura giuridica, sia sotto l’aspetto, caratterizzante il caso in esame, attinente al rapporto tra la domanda principale e la domanda riconvenzionale inammissibile. The court of Termini Imerese declared with a recent ruling order, the inadmissibility of the counterclaim proposed by the defendant in a summary judgment motion. This is because it belonged to causes dealt with by a collective body, extending the declaration to the main claim by virtue of the connection so-called strong between themselves. The judge thus defined the entire judgment in the rite. The issues concerning the summary judgment motion will be illustrated from the point of view of its legal nature, as well as from the relationship between the main claim and the counterclaim.

1. L’ordinanza d’inammissibilità nella vicenda in esame. Con il provvedimento che si annota, il tribunale di Termini Imerese ha dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo di un giudizio sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. Ai fini di una maggiore comprensione della dinamica processuale, giova premettere che nel caso di specie, l’azione proposta nel contesto di una comunione ereditaria era atta ad ottenere il risarcimento a titolo di indennità d’occupazione sine titulo nei confronti del convenuto, sull’assunto che quest’ultimo avrebbe detenuto un immobile della comunione ereditaria sin dalla morte del de cuius, senza corrispondere alcunché agli altri coeredi. Il fondamento in diritto dell’azione risiedeva sulle disposizioni contenute nel testamento olografo redatto dal de cuius e sulle statuizioni contenute in una sentenza già intervenuta, ma non ancora passata in giudicato, tra il convenuto e gli altri coeredi, che aveva già riconosciuto in favore di quest’ultimi il risarcimento per gli stessi fatti.

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Ruggero Siciliano

Il convenuto si è costituito proponendo sia una domanda riconvenzionale di nullità del testamento olografo, sia un’eccezione di difetto di giudicato, non essendo parte attrice stata parte del precedente giudizio. Il Tribunale, a scioglimento della riserva assunta al termine della prima udienza, ha rilevato che l’oggetto della domanda riconvenzionale proposta dal convenuto non rientrava tra le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica ex art. 702 bis c.p.c. Il decidente ha ritenuto che vi fosse una stretta connessione tra l’oggetto della domanda riconvenzionale, la nullità del testamento olografo, e quello della domanda principale, basata sulle disposizioni testamentarie del de cuius, ed ha definito l’intero giudizio ai sensi dell’art. 702 ter, comma 2°, c.p.c., con la dichiarazione di inammissibilità di tutte le domande. Tralasciando in questa sede le tematiche attinenti ai limiti del giudicato, si vorranno qui illustrare i rapporti tra domanda principale e riconvenzionale, nel quadro processuale delineato dagli artt. 702 bis e 702 ter c.p.c., al fine d’individuare le motivazioni che hanno condotto, nel caso in esame, a definire l’intero giudizio sommario con un provvedimento d’inammissibilità.

2. Premessa: la natura giuridica del rito introdotto con la l. 69/2009.

Prima di intraprendere l’analisi della disciplina che regola il rapporto tra la domanda principale e quella riconvenzionale (inammissibile) nell’ambito del rito sommario di cognizione (aspetto caratterizzante il provvedimento annotato) si ritiene opportuno volgere l’attenzione, seppur nelle sue linee essenziali, al dibattito sviluppatosi in dottrina intorno alla natura del giudizio ex art. 702 bis c.p.c. Introdotto il rito sommario di cognizione nel codice di procedura civile (con la legge 18 giugno 2009, n. 69), nessun dubbio si è posto sull’appartenenza del nuovo rito alla c.d. tutela dichiarativa. Chiaro in questo senso è il dato normativo (art. 702 quater, c.p.c.), secondo cui l’ordinanza sommaria emessa ai sensi del sesto comma dell’art. 702 ter c.p.c. produce gli stessi effetti previsti dall’art. 2909 c.c., vale a dire la capacità di acquisire autorità di cosa giudicata1.

1

Per tutti, cfr. Tiscini, Commento all’art. 702 bis ter e quater, in Commentario alla riforma del codice di procedura civile, diretto da Saletti - Sassani, Torino, 2009, 228 ss; Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. it., 2009, 1568; Menchini, L’ultima «idea» del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il procedimento sommario di cognizione, in Corr. giur., 2009, 1031; Bove, Il nuovo processo civile tra modifiche attuate e riforme in atto, in Bove, Santi, Matelica, 2009, 81 ss.; Capponi, Il procedimento sommario di cognizione tra norme e istruzioni per l’uso, in Corr. giur., 2010, 1103; Lupoi, Procedimento sommario di cognizione: il “rito” e il “modello”, Torino, 2019.

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Nubi maggiori si addensavano, invece, attorno all’identificazione della natura giuridica del procedimento sommario di cognizione, nella dicotomia «cognizione piena» o «cognizione sommaria». Un’autorevole opinione dottrinale, divenuta poi anche maggioritaria, ritiene ancora oggi che si tratti di un procedimento semplificato a «cognizione piena», in ragione sia del dato normativo, sia della ratio dell’intervento legislativo2. Si ritiene che la sommarietà vada rintracciata nella semplificazione dell’attività istruttoria e non nella riduzione della cognitio. La deformalizzazione del processo avviene soltanto nel suo piano dinamico, senza incidere in maniera rilevante e sostanziale nell’accertamento dei fatti di causa. Si osserva poi che il terreno d’elezione del procedimento sommario di cognizione debba esser rintracciato in quei procedimenti che non necessitino di un’attività istruttoria oppure con cui la stessa possa apparire di non difficile svolgimento3. Il dato positivo (art. 702 ter, comma 5°, c.p.c.), consente inoltre di cogliere indici della cognizione piena, laddove stabilisce che «il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo più opportuno agli atti di istruzione rilevanti». La rilevanza dell’attività istruttoria che viene espletata dal decidente attiene infatti alla garanzia della formazione della prova stessa e si traduce semplicemente in una mera «semplificazione» processuale, senza che sia precluso a priori alcun mezzo di prova4. Nello stesso senso, la natura della cognizione piena si può rintracciare a livello normativo anche nell’art. 702 quater c.p.c., ove è previsto che l’istruttoria in appello sia limitata agli «atti indispensabili», segno distintivo pertanto di un’istruttoria già realizzatasi nella sua interezza nel giudizio di primo grado5. Sul piano della ratio sottesa all’introduzione del rito sommario è possibile ravvisare ulteriori elementi a sostegno della tesi della pienezza della sua cognizione. Com’è stato ancora opportunamente rilevato, il legislatore del 2009 ha voluto disciplinare un rito più agile rispetto a quello ordinario, ponendolo rispetto a quest’ultimo come un’alternativa nelle ipotesi d’istruttoria meno complessa, e rimettendo la scelta a chi esercita l’azione6.

2

A sostegno della tesi della pienezza della cognizione: Balena, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, 328; Biavati, Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 188; Caponi, Un modello recettivo delle prassi migliori: il procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, 337; Capponi, op. cit., 1103; Consolo, Una buona “novella” al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, 737; Dittrich, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2009, 1587; Fabiani, Le prove nei processi dichiarativi semplificati, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 795; Lupoi, Sommario (ma non troppo), in www.judicium.it; Mengali, Brevi note in tema di poteri istruttori del giudice e preclusioni nel processo sommario di cognizione ai sensi degli artt. 702-bis ss. c.p.c., in questa Rivista, 2019, 33. 3 Biavati, op. cit., 188; Capponi, op. cit., 1103; Lupoi, op. cit. 4 Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, fenomeno in via di gemmazione, in Riv. dir. proc., 2017, 112. 5 Il termine «indispensabili» è stato sostituito al termine «rilevanti» dall’art. 54 bis, decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modifiche, in legge 7 agosto 2012, n. 134. 6 Neri, Sulla presunta illegittimità dell’adozione del provvedimento di sospensione nell’ambito del procedimento di cognizione, in Riv. dir. proc., 2013, 214; Tiscini, op. ult. cit., 112.

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In posizione contraria in dottrina si colloca chi attribuisce al rito sommario di cognizione la natura giuridica di rito a cognizione sommaria7. Secondo quest’altra opinione, il procedimento ex art. 702 bis c.p.c. rivestirebbe il ruolo di rito con cognizione sommaria nella sua concezione effettiva, e non sul mero piano della forma, allineandosi alla cognitio stessa del procedimento cautelare ove il giudice potrebbe arrestare il suo operato ad una semplice valutazione prognostica in termini di fumus8. Volgendo lo sguardo, rapidamente, al piano empirico, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha a più riprese attribuito al rito sommario di cognizione la natura di procedimento a cognizione piena, seppur nelle forme semplificate. Nonostante la distinzione concettuale tra giudizio a cognizione piena e giudizio a cognizione sommaria in ordine alla qualificazione del rito sommario potrebbe ritenersi ormai non più al passo con i tempi, e pertanto superata o di scarso rilievo pratico, è proprio dal terreno della casistica che emergono spunti di riflessione che alimentano con sempre verde linfa il suddetto dibattito. La giurisprudenza, infatti, si è preoccupata, sin dalle prime applicazioni pratiche, di inserire il rito in esame nella categoria della cognizione piena semplificata o, estremamente di rado, in quella della cognizione sommaria9. L’orientamento maggioritario formatosi nella giurisprudenza di merito ha ricondotto il rito alla cognizione piena movendo da alcuni elementi caratteristici individuati nella disciplina positiva: a) una sostanziale identità tra il rito ordinario di cognizione e quello sommario che giustifica il mutamento del rito; b) la collocazione sistematica nell’alveo dei procedimenti civili di natura contenziosa; c) l’idoneità dell’ordinanza ex art. 702 quater c.p.c. a produrre gli effetti dell’art. 2909 c.c.; d) le prove che il giudice deve assumere sono quelle «indispensabili». Il solco tracciato nella giurisprudenza di merito è stato seguito anche da quella di legittimità ove è stato più volte ribadito che «il rito possiede una natura cognitiva e non cautelare», sicché la questione ha assunto ormai contorni più che pacifici10.

7

Carratta, Il nuovo procedimento sommario, in Mandrioli - Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 160; Carratta, Le condizioni di ammissibilità del nuovo procedimento sommario di cognizione, in Giur. it., 2010, 728; Luiso, La giustizia civile tra nuovissime riforme e diritto vivente, in Giur. it., 2009, 1568; Menchini, L’ultima idea, cit., 1031. 8 Menchini, op. cit., 1031; Carratta, Il nuovo procedimento sommario, cit., 160. 9 Cfr. ex multis, Trib. Varese 18 novembre 2009, in Corr. giur., 2010, 499; Trib. Prato 10 novembre 2009 e Trib. Mondovì 11 novembre 2009, in Giur. it., 2010, 900; Trib. Piacenza 26 maggio 2011, in www.ilcaso.it; ed ancora Trib. Pescara, ord. 25 ottobre 2014; Trib. Pescara, 23 febbraio 2016; Trib. Avezzano, 1 marzo 2016. 10 Tra le molte si vedano, Cass. 14 maggio 2013, n. 11465, ove l’art. 702 quater c.p.c. è definito un mezzo d’impugnazione con natura di appello, per cui alla mancata proposizione consegue il passaggio in giudicato dell’ordinanza ex art. 702 bis c.p.c.; ed ancora Cass. S.U. 10 luglio 2012, n. 11512; Cass. 25 febbraio 2014, n. 4485, in cui si afferma che la sommarietà del procedimento sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c. mira a definire la lite in modo rapido, in virtù della maggior o minore manifesta fondatezza o infondatezza della domanda e della dipendenza del relativo accertamento da poche e semplici acquisizioni probatorie; nello stesso senso, conforme, Cass. 5 ottobre 2018, n. 24538.

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3. Il rito sommario di cognizione alla luce della sua evoluzione legislativa.

Di qualche ulteriore utilità – ai fini dell’analisi del rapporto tra domanda principale e domanda riconvenzionale inammissibile nel giudizio sommario di cognizione – è una breve indagine intorno all’art. 183 bis c.p.c. nella dimensione della pienezza della cognizione del rito ex art. 702 bis c.p.c. Ciò al fine di leggere il provvedimento annotato nel più ampio quadro della disciplina generale11. L’art. 183 bis c.p.c. è ritenuto in dottrina come l’ultimo tassello di una consacrazione del rito sommario di cognizione quale processo alternativo a quello ordinario. La norma, infatti, rimette la scelta della conversione del rito ad una valutazione discrezionale ed insindacabile del giudice, seppur facendo salvo il diritto al contraddittorio tra le parti, ed esprime compiutamente la fungibilità esistente tra i due riti che pertanto non possono che essere entrambi a cognizione piena12. I parametri posti dal legislatore a presupposto per il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione sono la «complessità della lite» e dell’«istruzione probatoria». Com’è stato correttamente osservato, il nuovo articolo 183 bis c.p.c. conferma che la valutazione del giudice è «bidirezionale», poiché è la stessa discrezionalità del decidente ad essere indirizzata sui due binari obbligatori in punto di conversione del rito13. La complessità della lite inoltre investe, da un punto di vista sia teorico che pratico applicativo, gli elementi di fatto (allegazioni e prove) e le questioni di diritto sottese alla controversia. L’attività istruttoria infine è un’ulteriore conferma della pienezza della cognizione, in quanto se istruttoria dev’esservi questa deve atteggiarsi come una fase da realizzarsi in modo effettivo e compiuto anche se ispirata alla semplificazione delle sue forme14.

11

L’art. 183 bis c.p.c., inserito nel codice di rito dall’art. 14 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv., con modif., in l. 10 novembre 2014, n. 162, è rubricato «Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione» e dispone che «nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice nell’udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell’articolo 702 ter e invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui si intendono avvalersi e la relativa prova contraria. Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non superiore a quindici giorni per l’indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria». 12 Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 112; Martino, Conversione del rito in sommario e processo semplificato di cognizione, in Riv. dir. proc., 2015, 916; Capri, Le novità in materia di procedimento sommario di cognizione, in Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche. Le riforme del quinquennio 2010-2014, Torino, 2015, 215. 13 Tiscini, op. loc. ult. cit., 112; Tiscini, Commento all’art. 702 ter, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Comoglio Consolo - Sassani - Vaccarella, vol. V, 2, Milano, 2014, 633. 14 Tedoldi, La conversione del rito ordinario nel rito sommario ad nutum iudicis (art. 183 bis), in Riv. dir. proc., 2015, 490; ed ancora, Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 112; Martino, Conversione del rito in sommario e processo semplificato di cognizione, cit., 916; Neri, Sulla presunta illegittimità, cit., 214.

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4. L’inammissibilità della domanda riconvenzionale nel procedimento sommario di cognizione.

Veniamo dunque alla questione di pregnante interesse nel caso che ci occupa. Come anticipato, nella vicenda processuale in esame il giudice ha dichiarato la domanda riconvenzionale inammissibile, perché di competenza per materia del tribunale in composizione collegiale, definendo in rito l’intero procedimento sommario di cognizione in ragione della connessione stretta tra la domanda principale e la stessa riconvenzionale. La questione caratterizzante il caso concerne, dunque, le conseguenze dell’inammissibilità della domanda riconvenzionale nel rito sommario di cognizione. Ai sensi dell’art. 702 ter, comma 2°, c.p.c., se la domanda, oggetto della riconvenzionale, deve essere decisa dal collegio, il giudice la dichiara inammissibile. Dalla disposizione si ricava che il principio ispiratore della scelta del legislatore è quello della separazione della domanda riconvenzionale, ritenuta inammissibile perché proposta al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 702 bis c.p.c. e che pertanto dovrà essere riproposta, da quella principale. Principio che, come è stato sostenuto in dottrina, finisce per prevalere su quello del simultaneus processus15. Inoltre, alla base della separazione delle domande v’è l’esigenza, almeno nell’intento legislativo, di assicurare all’attore la possibilità di avvalersi del rito prescelto ed arrivare alla decisione nel merito16. Se problematiche particolari non si pongono per le ipotesi di connessione c.d. debole, la soluzione adottata dalla legge ha destato invece perplessità, non in linea meramente teorica ma nella prospettiva della sua applicazione pratica, per il più che probabile concretizzarsi di un contrasto di decisioni nelle ipotesi di connessione c.d. forte17. In dottrina sono state così avanzate alcune proposte per risolvere il nodo creatosi nella struttura del sommario di cognizione a causa della formulazione legislativa dell’art. 702 bis c.p.c. Una prima opinione rimasta tuttavia isolata, è nel senso di suggerire al giudice di separare le domande cumulate e di emettere una pronuncia di condanna con riserva, la cui esecutività ed efficacia sarebbero risolutivamente condizionate alla decisione del collegio sulla domanda riconvenzionale18. La giurisprudenza ha fornito un’ulteriore alternativa all’applicazione letterale del dato normativo, per ovviare all’incertezza emersa in punto teorico. In diversi arresti, le soluzioni

15

Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2017, 136. Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione, in Dir. giur., 2009, 389; Cataldi, Il procedimento sommario di cognizione, Torino, 2013, 109; Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Bologna, 2013, 159; 17 Ricci, La riforma del processo civile. Legge 18 giugno 2009, n. 69, Torino, 2009, 109; Tiscini, in Commentario alla riforma, cit., 228 ss.; Abbamonte, Il procedimento sommario di cognizione e la disciplina di conversione del rito, Milano, 2017. 18 In questo senso, Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 389. Questa opzione interpretativa, come evidenziato da Abbamonte, op. cit., 261, ha comunque generato, come già accennato, dei dubbi per il coinvolgimento di alcune «fattispecie tipiche e non estendibili analogicamente», quali le ipotesi di condanna con riserva delle eccezioni (cfr. artt. 35 e 665 c.p.c.). 16

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adottate sono state nel senso della definizione dell’intero processo mediante una dichiarazione d’inammissibilità di tutte le domande proposte19. Nel mettere in luce i pregi ed i difetti dello schema elaborato nel formante giurisprudenziale, va notato come un aspetto positivo stia sicuramente nell’applicazione del principio del simultaneus processus, mentre come ad essere invece compromessa sia l’area appartenente all’economia processuale. Inoltre, in simili casi, non sono mancati anche ulteriori rilievi da parte di alcune voci in dottrina, secondo cui i provvedimenti di tal genere finirebbero per ampliare i confini dell’inammissibilità20. Un altro modello, proposto dalla dottrina, consiste nel restringere l’ambito applicativo dell’art. 702 bis, comma 2°, c.p.c. alle sole ipotesi di connessione c.d. debole, così da assicurare a quelle di connessione c.d. forte l’applicazione del regime generale dettato dall’art. 40 c.p.c.21 In questo modo, sarebbe necessario procedere ad una conversione del procedimento da sommario ad ordinario attribuendo le cause connesse alla trattazione congiunta del tribunale in composizione collegiale. All’interno di questa parte della dottrina, però, v’è chi propone ai giudici di non procedere alla declaratoria d’inammissibilità della domanda riconvenzionale qualora si ravvisi subito che la complessità della domanda principale porterà alla conversione del rito, mentre sarebbe più incisiva una diretta conversione del giudizio sommario in ordinario ai sensi dell’art. 702 ter, comma 4°, c.p.c22. Tuttavia, non si può negare che la soluzione da ultimo illustrata sia di ardua realizzazione pratica, dal momento che il giudice difficilmente in prima udienza di comparizione giungerebbe ad una conoscenza piena della controversia pendente avanti ad esso tale da consentirgli anche una valutazione sulla sua complessità.

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Trib. Bari, 22 aprile 2010; nello stesso senso, Trib. Biella, 9 febbraio 2010, in www.lexform.it; Corte App. Milano, 29 giugno 2015, n. 2771. 20 In questo senso si veda: Cataldi, Il procedimento sommario di cognizione, cit.,109. 21 Tiscini, Commento all’art. 702 ter, in Commentario del codice di procedura civile, cit., 633; Abbamonte, op. cit., 261; Carratta, Procedimento sommario di cognizione (dir. proc. civ.), in Enc. giur., Roma, 2010; Arieta, Il rito “semplificato” di cognizione, in www. judicium.it; Balena, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 328; Lupoi, Sommario (ma non troppo), cit. 22 Cataldi, op. cit.,109; Lupoi, op. cit. Di diverso avviso, Abbamonte, op. cit., 261, secondo il quale questa opzione applicativa teorizzata porterebbe ad un’anticipazione dell’indagine sull’idoneità della causa ad essere trattata con istruzione sommaria rispetto a quella sull’ammissibilità della questione.

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5. Considerazioni conclusive sulla vicenda processuale e prospettive di riforma: verso un procedimento sommario 4.0?

Alla luce di quanto illustrato sopra, si può desumere che nel caso oggetto del provvedimento annotato, in presenza di un’ipotesi di connessione c.d. forte di cause, il giudice ha privilegiato il principio del simultaneus processus in luogo di quello della separazione delle cause cumulate, discostandosi dall’interpretazione letterale del dato normativo (art. 702 ter c.p.c.). Con questa decisione il tribunale di Termini Imerese si è allineato a quell’orientamento della giurisprudenza di merito, secondo il quale è opportuno definire l’intero processo mediante una dichiarazione d’inammissibilità di tutte le domande proposte nelle ipotesi di cui all’art. 702 ter, comma 2°23, c.p.c. Nell’ordinanza in commento si può scorgere la natura di cognizione piena del giudizio sommario di cognizione (coerentemente a quanto illustrato in precedenza e sostenuto da una dottrina ormai maggioritaria24). Le questioni di diritto sottese al caso in esame e gli elementi di fatto posti sia alla base della domanda principale che di quella riconvenzionale hanno condotto il decidente a non dichiarare inammissibile solo la domanda riconvenzionale, bensì entrambe le cause cumulate, al fine di garantirne la piena cognizione in sede collegiale. A prescindere da possibili valutazioni di merito e di fondatezza in diritto della domanda proposta da parte attrice, che non rilevano in questa sede e non competono a questo commento, la decisione va ritenuta eccessivamente penalizzante nei confronti delle parti. L’attore dovrà riproporre la domanda nelle forme ordinarie, con ciò che ne consegue da un punto di vista sostanziale e processuale, ed allo stesso modo dovrà fare il convenuto con riferimento alla domanda riconvenzionale25. In maniera concorde a quanto prospettato da un’autorevole dottrina sopra richiamata, sarebbe stato auspicabile da parte del giudice di merito (nonché e sicuramente più aderente a principi di economia processuale, oltre che del simultaneus processus) rimettere al tribunale in composizione collegiale l’intero giudizio cumulato, comprensivo sia della

23

Cfr., Trib. Bari, 22 aprile 2010; nello stesso senso, Trib. Biella, 9 febbraio 2010, in www.lexform.it; Corte App. Milano, 29 giugno 2015, n. 2771. 24 Sulla natura di procedimento a cognizione piena del rito sommario di cognizione si veda, già richiamati, Balena, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 328; Biavati, Appunti introduttivi, cit., 188; Caponi, Un modello recittivo, cit., 337; Capponi, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 1103; Consolo, Una buona novella, cit., 737; Dittrich, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 1587; Fabiani, Le prove nei processi dichiarativi semplificati, cit., 112; Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 112. 25 Riguardo gli effetti della dichiarazione d’inammissibilità e la riproponibilità della domanda si veda, Tiscini, in Commentario alla riforma, cit., 251.

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domanda principale che di quella riconvenzionale, ricorrendo ad un meccanismo simmetrico a quello disciplinato dall’art. 281 novies c.p.c.26. Con una simile soluzione, le parti (segnatamente, l’attore) non sarebbero state obbligate a intraprendere nuovamente l’iter processuale al fine di ottenere una pronuncia nel merito sulle situazioni giuridiche oggetto della controversia, e sarebbe stata altresì garantita la cognizione piena in fatto ed in diritto. A dieci anni dalla sua introduzione, il rito sommario di cognizione probabilmente continua risentire delle conseguenze derivanti da una tecnica legislativa frettolosa e imprecisa. Ciò, sebbene i plurimi interventi del legislatore degli ultimi anni siano stati mirati ad esortare (talvolta anche ad obbligare nel caso delle materie disciplinate dal decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, c.d. «semplificazione dei riti») gli operatori del diritto a ricorrere a tale rito per regolare le questioni controverse in alternativa a quello ordinario. Com’è stato osservato, oggi vi sono almeno tre riti sommari di cognizione: quello «da codice» (art. 702 bis c.p.c.), quello per la «semplificazione dei riti» (art. 14 d.lgs. 150/2011), quello «convertito» dell’art. 183 bis c.p.c.27.Tra ognuno di questi sussiste una sorta di complementarietà o di simbiosi reciproca, poiché ognuno consente di interpretare l’altro. All’orizzonte si prospetta – stando ai progetti allo stato pendenti – una nuova riforma del codice di procedura civile in cui il rito sommario di cognizione potrebbe assumere, ancora una volta, un ruolo da protagonista anche in un’ottica di maggiore spazio applicativo o, addirittura, di sostituzione dell’attuale rito ordinario. Si va, pertanto, verso un rito sommario di cognizione modello 4.0 e, in questo contesto, ciò che si può auspicare è che le scelte normative siano improntate al coordinamento effettivo delle disposizioni ed ispirate al rispetto sia dei principi fondamentali del processo sia di quelli costituzionali che costituiscono la bussola del nostro ordinamento giuridico. Ruggero Siciliano

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Tiscini, in Commentario del codice di procedura civile, cit., 633; Abbamonte, op. cit., 261; Carratta, Procedimento sommario di cognizione (dir. proc. civ.), in Diritto on line; Arieta, Il rito “semplificato” di cognizione, cit.; Balena, Il procedimento sommario di cognizione, 328; Lupoi, Sommario (ma non troppo), cit. 27 Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 112.

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Giurisprudenza Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 16-03-2018) 5 ottobre 2018, n. 24534; Pres. Raffaele Frasca – Rel. Gabriele Positano Condanna in futuro – Giudicato esterno – Limiti oggettivi del giudicato – Poteri sostanziali – Preclusione

Nei rapporti di locazione la previsione contrattuale di un potere unilaterale di impedire il verificarsi della futura scadenza naturale, allorquando si chieda e si ottenga di dichiararla con la tecnica della condanna in futuro, è circostanza che il soggetto, cui il potere de quo sia attribuito, deve far valere nel giudizio con cui la controparte abbia iniziato l’azione di finita locazione per la futura scadenza. Pertanto, nella lite con cui il locatore postuli la declaratoria della cessazione della locazione alla scadenza non è sostenibile che il detto potere possa restare salvo, rivestendo la natura di fatto impeditivo del diritto azionato dal locatore, basato sulla libera manifestazione di volontà di provocare la cessazione della locazione. In tal caso il conduttore avrebbe dovuto espressamente far salvo il possibile e futuro esercizio del potere contrattuale di prolungare il rapporto, pena l’incontestabilità dell’accertamento della scadenza futura come se vi fosse stata una rinuncia ad avvalersi del potere ovvero per la mancata deduzione di un fatto impeditivo del diritto fatto valere con la domanda di finita locazione. (Omissis) Svolgimento del processo 1.Con atto di citazione notificato il 20 gennaio 2014, BNP Paribas Real Estate Investment Management Italy, Società di gestione del risparmio P.A. ha esposto che in data 27 dicembre 2000 I’INPDAP aveva concesso in locazione alla SIGICI, Società Italiana Gestioni Commerciali Immobiliari Industriali s.r.l., ad uso esclusivo di uffici, un immobile sito in Milano per la durata di sei anni con inizio dal 1 gennaio 2001 e termine al 31 dicembre 2006. Era poi previsto all’art. 2, comma 1, il rinnovo tacito per ulteriori 12 anni (sei anni, più sei anni) se il conduttore non avesse comunicato disdetta a mezzo lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della scadenza. L’art. 2, comma 2 prevedeva che, alle successive scadenze, la rinnovazione sarebbe avvenuta, a semplice richiesta del conduttore, alle stesse condizioni economiche contrattuali maturate al momento

del rinnovo. Aggiungeva che, per effetto della costituzione con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, del fondo di investimento mobiliare di tipo chiuso, denominato “(OMISSIS)” e successivo decreto del 23 dicembre 2005, l’attrice era subentrata nel rapporto di locazione. Ciò premesso conveniva in giudizio la società SIGICI s.r.l. per sentir convalidare la contestuale intimazione di licenza per finita locazione. Precisava che con sentenza n. 1467 del 2013 il Tribunale di Milano, pronunziandosi sulla causa per finita di locazione instaurata da BNP Paribas, Società di gestione del risparmio P.A. nei confronti di SIGICI s.r.l. aveva dichiarato in dispositivo, con effetto di giudicato “la cessazione degli effetti del contratto di locazione... per la data del 31 dicembre 2018”. 2.La SIGICI, Società Italiana Gestioni Commerciali Immobiliari Industriali s.r.l. proponeva opposizione rilevando che, con riferimento al pre-

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teso giudicato nell’ambito di tale procedimento SIGICI s.r.l. aveva chiesto, con raccomandata del 16 gennaio 2009, la rinnovazione del contratto alla scadenza del 31 dicembre 2012 per ulteriori sei anni (31 dicembre 2018) ai sensi dell’art. 2, comma 1 e BNP Paribas aveva replicato inviando disdetta del contratto per la data del 31 dicembre, 2012. Pertanto BNP aveva chiesto giudizialmente la convalida dell’intimazione di licenza per finita locazione, con effetto dal 31 dicembre 2012. Il Tribunale, rigettando le domande di BNP Paribas, Società di gestione del risparmio P.A., aveva invece statuito che il contratto di locazione si era rinnovato, ai sensi dell’art. 2, comma 1, per 12 anni successivi alla scadenza del 31 dicembre 2006 e pertanto “per almeno due sessenni, quanto meno sino al 31 dicembre 2018”. Sulla base di tali premesse il Tribunale aveva limitato il proprio sindacato all’operatività dell’art. 2, comma 1 e cioè al rinnovo automatico per 12 anni; poichè quello costituiva l’ambito del giudizio prospettato dall’intimante BNP Paribas che aveva richiesto il rilascio dell’immobile alla data del 31 dicembre 2012, con l’opposizione di SIGICI s.r.l. che aveva chiesto in via riconvenzionale il rinnovo sino alla data del 31 dicembre 2018. Aggiungeva che prima della notifica del intimazione relativa al giudizio della cui efficacia di giudicato si discute, SIGICI s.r.l. aveva inviato autonoma raccomandata del 31 agosto 2011 chiedendo espressamente la rinnovazione del contratto sino alla data del 31 dicembre 2024, sulla base dell’art. 2, comma 2 del contratto e aggiungendo che rispetto a questa seconda data non vi era stata alcuna disdetta da parte di BNP Paribas e non assumeva valenza di giudicato la citata sentenza del Tribunale di Milano del 31 gennaio 2013. 3.Con sentenza del 12 ottobre 2015 il Tribunale di Milano dava atto dell’accertamento definitivo, in altra sede, della scadenza del contratto alla data del 31 dicembre 2018 condannando SIGICI s.r.l. a rilasciare l’immobile alla suddetta scaden-

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za, fissando per l’esecuzione la data del 1 gennaio 2019 e provvedendo sulle spese anche con condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3. 4. Il Tribunale rilevava che, approssimandosi la prima scadenza contrattuale del 31 dicembre 2006, senza che fosse intervenuta disdetta da parte della società locatrice, il contratto si era automaticamente rinnovato per 12 anni sino alla data del 31 dicembre 2018, ciò in quanto dal tenore letterale emergeva che i contraenti avevano sostanzialmente previsto che per i successivi 12 anni rispetto alla data del 31 dicembre 2006 la parte locatrice non potesse disdettare il contratto e ciò risultava in linea con la circostanza che l’immobile richiedeva importanti interventi di ripristino. Pertanto “si deve accogliere la domanda di parte convenuta SIGICI s.r.l. che ha chiesto l’accertamento della vigenza del contratto di locazione in essere con la parte attrice sino al 31 dicembre 2018” e l’accoglimento della domanda esime il Tribunale dal vagliare il profilo relativo al citato art. 2, comma 2 posto che tale ipotesi avrebbe dovuto operare per le scadenze del contratto successive al 31 dicembre 2018. 5. Avverso tale statuizione proponeva appello SIGICI, affidandosi a tre articolati motivi e resisteva BNP Paribas, Società di gestione del risparmio P.A. eccependo l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 436 bis c.p.c. e la condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e nel merito il rigetto del ricorso. 6.Rilevava l’appellante che con la sentenza n. 1467 del 2013 era stata accertata la vigenza del contratto “quantomeno fino al 31 dicembre 2018” e ciò consentiva di rigettare l’azione proposta da BNP Paribas, e non esaminare le scadenze del contratto successive al 31 dicembre 2018. Al contrario poiché il giudizio del quale si discute riguardava proprio le scadenze successive a tale data la sentenza citata non costituiva giudicato, poichè limitata alla prosecuzione del rapporto di locazione “quanto meno sino alla data del 31


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dicembre 2018”. D’altra parte poichè l’accertamento della cessazione del rapporto si riferisce ad un momento futuro, se dopo la convalida e prima della scadenza intervengono nuove disposizioni, le stesse sono applicabili, come nel caso di specie a seguito della richiesta del 31 agosto 2011 con la quale SIGICI s.r.l. aveva comunicato di volersi avvalere della facoltà prevista dall’art. 2, comma 2 e prorogare il rapporto sino al 31 dicembre 2024. 7.La Corte d’Appello rilevava che nella motivazione della citata sentenza n. 1467 del 2013 si dava atto dell’accoglimento della domanda di SIGICI s.r.l. che aveva chiesto “l’accertamento della vigenza del contratto di locazione sino al 31 dicembre 2018”, mentre nel dispositivo il Tribunale dichiarava la cessazione degli effetti del contratto per la data del 31 dicembre 2018. Poichè nel rito del lavoro il dispositivo della sentenza assume rilevanza autonoma ed è prevalente rispetto alla motivazione, ricorreva l’ipotesi di giudicato, come ritenuto dal Tribunale. Conseguentemente la Corte d’Appello di Milano con sentenza del 27 ottobre 2016 rigettava le doglianze di SIGICI s.r.l. relative a tale profilo e accoglieva il secondo motivo di appello sulla condanna per lite temeraria, disponendo la revoca di tale statuizione e confermando, nel resto la decisione impugnata con condanna dell’appellante SIGICI s.r.l. al pagamento delle spese di lite. 8.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione SIGICI, Società Italiana Gestioni Commerciali Immobiliari Industriali s.r.l. affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso BNP Paribas Real Estate Investment Management Italy, Società di gestione del risparmio P.A. Entrambe le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione. 1. È opportuno sintetizzare i termini della vicenda come delineati dalla Corte territoriale di Milano. 2. Con la sentenza n. 1467 del 31 gennaio 2013 il Tribunale aveva accolto la domanda di

SIGICI s.r.l. tesa all’accertamento della vigenza del contratto di locazione sino al 2018, ma in dispositivo aveva statuito la cessazione degli effetti del contratto alla data del 31 dicembre 2018. Il giudizio si era svolto secondo il rito delle locazioni, per cui, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, quando vi è contrasto tra dispositivo e motivazione, il dispositivo ha una autonoma rilevanza esterna (Cass. n. 23463/2015) che prevale sulla motivazione. Con seconda ed autonoma motivazione la Corte ritiene comunque corretta l’osservazione di BNP Paribas, secondo cui l’affermazione contenuta in motivazione “quantomeno sino al 31 dicembre 2018” viene riportata dal Tribunale solo per ricostruire la volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto e non per individuare l’oggetto del giudicato e cioè affermare che, quanto meno sino a quella data, il rapporto prosegue ed eventualmente oltre. 3.Prosegue la Corte rilevando che non sussiste contrasto interno allo stesso dispositivo, per il fatto che questo presenterebbe l’errato incipit del capo n. 2 “in accoglimento della domanda della convenuta SIGICI s.r.l.”. 4.Infine il giudicato copre anche gli effetti della richiesta del 31 agosto 2011 tesa alla proroga sino al 2024 poichè tale evento è precedente alla sentenza n. 1467 del 2013, per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile e non è possibile porre in discussione il giudicato attraverso argomentazioni che avrebbero potuto essere fatte valere dall’interessato in quel giudizio (Cass. n. 22316/2013 ed altre). Ciò in conseguenza del tenore letterale dell’art. 2 del contratto di locazione che prevede: 5.La durata della locazione è stabilita in anni sei e cioè dal 1 gennaio 2001 al 31 dicembre 2006. La scadenza il contratto si rinnoverà tacitamente, con lo stesso canone (compresi aumenti Istat), di sei anni più sei anni se il conduttore non

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abbia comunicato disdetta a mezzo lettera raccomandata almeno sei mesi prima della scadenza. 6.Alle successive scadenze la rinnovazione potrà sempre avvenire a semplice richiesta del conduttore (esclusa, quindi, la tacita riconduzione) alle stesse condizioni economiche contrattuali maturate al momento del rinnovo. 7.Con il primo motivo SIGICI s.r.l. deduce la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’art. 2909 c.c., in riferimento agli artt. 281 sexies e 429 c.p.c.. Ritiene errata la argomentazione della Corte secondo cui il principio per il quale il dispositivo della sentenza non può essere interpretato alla luce della motivazione, trattandosi di giudizio svolto secondo il rito delle locazioni, in cui il dispositivo possiede rilevanza esterna. Infatti, la citata sentenza del Tribunale di Milano n. 1467-2013 è stata pronunziata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. e cioè redatta contestualmente, al termine della discussione orale; ciò consente di escludere il richiamo alla giurisprudenza in tema di rito del lavoro. Conseguentemente il dispositivo può essere interpretato alla luce della parte motiva della decisione. Appare pertanto chiaro che il Tribunale intendeva semplicemente accogliere la domanda riconvenzionale di SIGICI s.r.l. che ha chiesto di accertare la vigenza del contratto di locazione “sino” al 31 dicembre 2018. In secondo luogo, la giurisprudenza richiamata si riferisce solo ai casi di contrasto insanabile tra dispositivo letto in udienza e motivazione, mentre nel caso di parziale incoerenza tra dispositivo e motivazione è consentito interpretare e integrare il dispositivo con la parte motiva. Nel caso di specie non ricorre contrasto insanabile, poichè il Tribunale ha accolto la domanda riconvenzionale della conduttrice, ma si è astenuto “consapevolmente” dall’esprimersi circa l’ammissibilità di ulteriori proroghe del contratto. 8.Con il secondo motivo deduce la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e dell’art. 2909

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c.c. in riferimento ai limiti oggettivi del giudicato esterno derivante dalla sentenza n. 1467-2013. 9.11 giudicato in questione fa stato circa l’intervenuta rinnovazione del contratto per sei anni con decorrenza 31 dicembre 2012, ma si limita all’oggetto specifico del giudizio, non potendo porre nel nulla i diritti potestativa attribuiti alle parti ed in particolare quello della conduttrice di optare, prima del 31 dicembre 2018, per una ulteriore rinnovazione di sei anni. Ciò in linea con l’orientamento della giurisprudenza secondo cui la convalida di licenza per finita locazione si riferisce ad un contratto non ancora scaduto e copre la scadenza futura del rapporto, con la conseguenza che ove sopravvenga un provvedimento di proroga che superi la scadenza dell’atto di intimazione, si determina un nuovo termine di scadenza (Cass. 13 dicembre 1982, n. 6837). 10. La valutazione contraria adottata dalla Corte territoriale, secondo la ricorrente, sarebbe errata sulla base di tre considerazioni. 11. In primo luogo, il giudizio di convalida riguardava la scadenza del contratto alla data del 31 dicembre 2012 e la domanda riconvenzionale per la rinnovazione sino al 31 dicembre 2018. Nessuna delle parti aveva formulato una domanda di rinnovazione sino alla data del 2024. 12. In secondo luogo, il Tribunale aveva rigettato la domanda di convalida per finita locazione riferita alla data del 31 dicembre 2012 e quindi il giudicato può riferirsi esclusivamente a tale questione, mentre nessuna delle parti aveva dedotto una proroga ulteriore per la scadenza successiva. 13. In terzo luogo, una siffatta pronunzia vanificherebbe il diritto potestativo della conduttrice di richiedere l’ulteriore proroga al 2024, fino all’ultimo giorno di durata del rapporto (31 dicembre 2018). 14. Il primo motivo non è idoneo a giustificare la cassazione della sentenza in quanto, pur procedendo conformemente alla natura ex art. 281-sexies c.p.c. della sentenza, alla lettura com-


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binata di dispositivo e motivazione, – come evidenziato dalla Corte d’Appello nella parte finale della motivazione sul punto – non ricorre l’ipotesi di contrasto fra l’una (motivazione) e l’altro (dispositivo). Infatti, il dire in motivazione che si accoglie la domanda (riconvenzionale) della qui ricorrente per la “vigenza” del contratto sino al 31 dicembre 2018 dopo avere rigettato la domanda della locatrice per il 31 dicembre 2012, ed il dire, poi, in dispositivo che in accoglimento di quella domanda il contratto cesserà al 31 dicembre 2018, non configura un contrasto. 15. D’altro canto, anche accedendo alla tesi della ricorrente, secondo cui non vi è contrasto insanabile e il dispositivo potrebbe essere valutato alla luce della motivazione, SIGICI s.r.l. avrebbe dovuto impugnare quella statuizione per la parte relativa alla dichiarazione di cessazione del contratto di locazione alla data del 31 dicembre 2018 ovvero con riferimento all’omessa pronunzia riguardo all’operatività dell’art. 2, comma 2 con riferimento alla data del 2024, sempre che nel relativo giudizio fosse stata prospettata. 16. Analogamente infondato è il secondo motivo. 17. Nel giudizio definito con sentenza del Tribunale del 2013 è stata accolta una domanda proposta da SI.Gi.CI., odierna ricorrente, intesa ad ottenere l’accertamento della futura scadenza del contratto al 31 dicembre 2018. Il bene della vita attribuito con la declaratoria di accertamento aveva ad oggetto la durata del contratto secondo l’efficacia convenzionale sino a quella data. 18. Ora, è vero che, quando si fa luogo ad un accertamento di una scadenza futura per una certa data, i poteri contrattuali ed eventualmente quelli discendenti da disciplina normativa, diversi da quello delle parti di provocare la mera cessazione del contratto alla scadenza, che è stato esercitato con la domanda con cui è stato chiesto detto accertamento, restano integri. Così, se il contratto o la legge prevedono un diritto di

recesso a favore di una o entrambe le parti prima della scadenza al verificarsi di certi presupposti diversi dalla scadenza, certamente la possibilità di esercizio di tali poteri non resta esclusa dal giudicato. Ma ciò si giustifica, perchè tali poteri riguardano un diritto diverso da quello accertato e che è riconosciuto dal contratto o dalla legge senza alcuna incompatibilità con la scadenza del contrato accertata de futuro. E tanto perchè i presupposti di esercizio di tali poteri suppongono fatti costitutivi che legittimamente possono sopravvenire prima della scadenza e possono assumere la rilevanza loro propria. Analogamente è a dirsi per i diritti reciproci di provocare la cessazione per risoluzione per inadempimento: essi si fondano su fatti sopravvenuti inerenti allo svolgimento del rapporto contrattuale. 19. Viceversa, la previsione di un diritto di impedire, come nella specie, tramite l’esercizio di un potere unilaterale previsto nel regolamento contrattuale, il verificarsi della scadenza naturale, se vien posto in relazione alla scadenza futura, allorquando si chieda e si ottenga di dichiararla con la tecnica della condanna in futuro, poiché la domanda di proclamazione della scadenza stessa si profila come incompatibile con il suo esercizio e contraria, dunque, al detto regolamento contrattuale, è circostanza che il soggetto, cui il potere de quo sia attribuito, deve far valere nel giudizio con cui la controparte abbia iniziato l’azione di finita locazione per la scadenza futura. L’accertamento richiesto, quello della futura scadenza, è accertamento che contraddice la previsione contrattuale che – come quella della fattispecie che si giudica, prevista nell’ultimo inciso dell’art. 2 del contratto (Alle successive scadenze la rinnovazione potrà sempre avvenire a semplice richiesta del conduttore (esclusa, quindi, la tacita riconduzione) alle stesse condizioni economiche contrattuali maturate al momento del rinnovo) – lascia ad una parte, la conduttrice, un potere immotivato di impedirne la verificazione per effetto del po-

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tere di disdetta dell’altra. Pertanto, nella lite con cui la parte avversa, quella locatrice, postuli la declaratoria della cessazione della locazione alla scadenza non è sostenibile che il detto potere possa restare salvo: è sufficiente osservare che la sua previsione riveste la natura di fatto impeditivo del diritto azionato dal locatore, basato sulla libera manifestazione di volontà di provocare la cessazione della locazione. 20. Ne segue che la ricorrente avrebbe dovuto domandare l’accertamento della scadenza al 31 dicembre 2018 con salvezza del possibile esercizio prima di essa del potere contrattuale di incidere su di essa, tramite il diritto potestativo dell’ultimo inciso dell’art. 2. 21. Il non averlo fatto ha determinato l’accertamento della scadenza come se vi fosse stata una rinuncia ad avvalersene, indipendentemente dalla reale consapevolezza di determinare tale effetto negoziale e comunque, se non si volesse intravedere in tale comportamento una rinuncia, la mancata deduzione di un fatto impeditivo del diritto fatto valere con la domanda di finita locazione. 22. D’altro canto – lo si osserva ad abundantiam – parte ricorrente nemmeno ha allegato, in contrasto con il dato che emerge dal contenuto della sentenza di secondo grado, che vi è stato l’accoglimento della sua domanda di accertare la vigenza del contratto sino alla data del 31 dicembre 2018, con la salvezza del suo diritto potestativo contrattuale di impedirne successivamente l’effettiva verificazione: detta allegazione avrebbe dovuto evidenziare che quella domanda era stata fatta con riserva di esercitare il diritto contrattuale.

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23. E ciò tanto più in considerazione della facoltà a suo tempo fatta valere dalla conduttrice con la raccomandata del 31 agosto 2011, riguardo alla quale nel giudizio conclusosi con la sentenza del 2013 si sarebbe dovuto prospettare una rilevanza, mentre in questa sede nulla si è detto sul se venne prospettata ed in che termini. 24. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. (Omissis)


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Il Mugnaio di Roma, il giudicato implicito e il giudice di Karlsruhe Sommario : 1. La fattispecie e la decisione. – 2. Un inconsueto approccio esegetico comparativo: il raffronto con la sentenza del BGH 25.02.1985. – 3. Gli apparenti elementi differenziali delle fattispecie esaminate: rapporto tra potere sostanziale (contrattuale) e cosa giudicata. – 4. L’oggetto della decisione preveniente nella vicenda italiana e il suo rapporto con il secondo processo. – 5. Il meccanismo della riserva di esercizio del potere sostanziale. – 6. Epilogo: l’ennesimo guasto del giudicato implicito.

L’autore, nell’affrontare il tema dei limiti oggettivi del giudicato portato da una sentenza di condanna in futuro, instaura una raffronto tra la riportata sentenza con un autorevole precedente del Bundesgerichtshof che aveva espressamente negato l’incidenza del provvedimento che pronuncia la finita locazione sul potere contrattuale volto alla prosecuzione del rapporto. Su tali basi l’autore contesta la stessa configurabilità di una riserva di futuro esercizio del potere sostanziale e riconduce la sentenza in commento alla tendenza della Corte di Cassazione ad estendere eccessivamente le maglie del giudicato cd. implicito. The author, dealing with the issue of the objective limits of res judicata led by a judgement of condemnation in the future, makes a comparison between the above judgement and an authoritative precedent in the jurisprudence of the German Bundesgerichtshof that had expressly denied the authority of the res judicata pronouncing the termination of the lease on the contractual right intended to continue the relationship. On this basis, the author contests the same grounds of a reservation of a right of option and brings back the judgement in question to the tendency of the Court of Cassation to excessively extend the scope of the so-called implicit res judicata.

1. La fattispecie e la decisione. Tra due società è in corso un rapporto di locazione ad uso commerciale per la durata di sei anni, dal 2000 al 31.12.2006. L’art. 2 del contratto di locazione prevede due distinte fattispecie di rinnovo: la prima, automatica, per un ulteriore periodo di sei anni più sei anni – dunque fino al 2018 – salva disdetta della conduttrice. Il secondo rinnovo, dal 2018 in poi per ulteriori sei anni, a semplice richiesta del conduttore. Dopo la prima scadenza contrattuale ed il primo rinnovo automatico, nel corso del 2011 la società locatrice propone domanda di licenza per finita locazione, intimando al conduttore la restituzione dell’immobile per la data del 31.12.2012. La società conduttrice: a) si oppone all’intimazione facendo valere il rinnovo automatico della locazione previsto

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dal primo comma dell’art. 2 del contratto fino al 31.12.2018; b) formula la richiesta di rinnovare il rapporto contrattuale fino al 31.12.2024 esercitando stragiudizialmente il diritto potestativo conferitole dal contratto. Sulla base dell’intervenuta tacita rinnovazione del contratto alla prima scadenza (31.12.2006), e dunque della sua prosecuzione fino al 2018, il Tribunale accoglie l’opposizione con il seguente dispositivo: “in accoglimento della domanda della convenuta”, dichiara “la cessazione degli effetti del contratto di locazione [...] per la data del 31.12.2018”. La motivazione ha però cura di precisare che, nel decidere, era stata messo da parte “qualsiasi profilo afferente il secondo comma [...] del testo contrattuale posto che tale secondo comma avrebbe dovuto operare per le scadenze del contratto di locazione successive al 31.12.2018”. In altre parole la sentenza stessa dichiara di aver lasciato impregiudicato il tema della permanenza del rapporto perché estraneo alla materia del contendere1. Passata in giudicato tale sentenza, la società locatrice propone nuova domanda di convalida di licenza per finita locazione, chiedendo la condanna al rilascio dell’immobile a decorrere dal 31.12.2018. La conduttrice si oppone nuovamente all’intimazione, allegando l’intervenuta opzione per il secondo rinnovo contrattuale – potere esercitato ancora prima della pendenza del primo processo – opzione ribadita con lo stesso atto di opposizione; chiede pertanto l’accertamento della prosecuzione del rapporto fino al 31.12.2024 sulla base del potere sostanziale esercitato. La Corte di cassazione, confermando le decisioni dei giudici di merito che avevano condannato il conduttore a rilasciare l’immobile, afferma che la questione relativa all’atto di esercizio del potere di rinnovo contrattuale alla seconda scadenza risulta coperta, e dunque preclusa, dal giudicato formatosi nel primo processo. Secondo la Suprema Corte con la sentenza del processo preveniente è stata accolta la domanda del conduttore “intesa ad ottenere l’accertamento della futura scadenza del contratto al 31 dicembre 2018. Il bene della vita attribuito con la declaratoria di accertamento aveva ad oggetto la durata del contratto secondo l’efficacia convenzionale sino a quella data”. è pur vero – ammette la Corte – che quando si fa luogo ad un accertamento di una scadenza futura, i poteri contrattuali restano integri, ma ciò si giustifica perché “tali poteri riguardano un diritto diverso da quello accertato e che è riconosciuto dal contratto o dalla legge senza alcuna incompatibilità con la scadenza del contratto accertata de futuro”. Viceversa “la previsione di un potere di impedire il verificarsi della scadenza naturale [...] è circostanza che il soggetto [...] deve far valere nel giudizio con cui la controparte abbia iniziato l’azione di finita locazione per la scadenza futura”2. In altre parole, sussisterebbe un onere di “far valere” in

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Non sembra fuori luogo rilevare come la sentenza venga adottata ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., e dunque con contestuale lettura della motivazione inserita nel verbale di udienza. 2 Ovvero, si legge ancora nella sentenza “L’accertamento richiesto della futura scadenza è accertamento che contraddice la previsione contrattuale che [...] lascia ad una parte, la conduttrice, un potere immotivato di impedirne la verificazione per effetto del potere di disdetta dell’altra”.

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giudizio una “circostanza” (l’esistenza del diritto potestativo) il cui mancato adempimento precluderebbe in futuro la possibilità di far valere in futuro non solo tale “circostanza”, ma anche diritti basati su tale “circostanza”. E ciò ancorché la sentenza emessa all’esito di quel giudizio abbia espressamente dichiarato che di quella “circostanza” non si occupava. A parere della Corte, la conduttrice avrebbe dovuto domandare, sin dal primo giudizio, “l’accertamento della scadenza al 31 dicembre 2018 [la prima rinnovazione contrattuale] con salvezza del possibile esercizio prima di essa del potere contrattuale di incidere su di essa, tramite il diritto potestativo dell’ultimo inciso dell’art. 2. Il non averlo fatto ha determinato l’accertamento della scadenza come se vi fosse stata una rinuncia ad avvalersene, indipendentemente dalla reale consapevolezza di determinare tale effetto negoziale e comunque, se non si volesse intravedere in tale comportamento una rinuncia, la mancata deduzione di un fatto impeditivo del diritto fatto valere con la domanda di finita locazione”.

2. Un inconsueto approccio esegetico comparativo: il raffronto con la sentenza del BGH 25.02.1985.

La sentenza solleva perplessità. L’attento lettore intuisce come il punto centrale dell’intera vicenda risieda nella ricostruzione operata dalla Suprema Corte dell’oggetto del primo giudizio e, conseguentemente, dei limiti oggettivi della cosa giudicata. In particolare – per quel che qui interessa – dei processi che, collocandosi a valle dell’esercizio stragiudiziale di un potere sostanziale o diritto potestativo, sono volti ad accertare l’effettiva incidenza del potere esercitato sul rapporto giuridico intercorrente tra le parti3. Approcciarsi dogmaticamente al tema segnalato rischia tuttavia di rivelarsi infruttuoso ai fini di una semplice annotazione a margine della sentenza. Non solo e non tanto perché la materia ha già formato oggetto di ampie e approfondite ricerche4, i cui risultati si tenterebbe invano di riassumere in questa sede; quanto soprattutto per non cadere nel

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Vale a dire l’accertamento del corretto esercizio e della sussistenza del potere esercitato, ovvero – a seconda di come lo si voglia ricostruire – l’accertamento di quel particolare modo di essere del rapporto così come inciso dall’esercizio stragiudiziale del potere sostanziale. Il tema è stato particolarmente trattato in relazione ai giudizi cd. “di impugnazione dei licenziamenti”, ma ancora ha trovato seguito anche in materia di potere di riscatto sorto a seguito della violazione della prelazione legale. Secondo parte della dottrina l’oggetto del processo e, correlativamente, dell’accertamento contenuto nella sentenza è il diritto o rapporto giuridico su cui ha inciso l’atto di esercizio del potere, e non invece la validità o l’efficacia dell’atto di esercizio del potere sostanziale. Per una primissima ricognizione della letteratura sul punto, si vedano Luiso, Rinnovazione dell’atto di licenziamento e limiti cronologici della cosa giudicata, in Giust. civ., I, 1985, 559 ss.; Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987; Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989; 151 ss., 227 ss.; Verde, Sulla “minima unità strutturale” azionabile nel processo (a proposito di giudicato e di emergenti dottrine, in Riv. dir. proc., 1989, 573 ss; Caponi, L’efficacia, cit., 133 ss.; Proto Pisani, Appunti sul giudicato civile e i suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. proc., 1990, 386 ss.; Attardi, In tema di limiti oggettivi della cosa giudicata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 475 ss.; Montesano, Limiti oggettivi di giudicati su negozi invalidi, in Riv. dir. proc., 1991, 15 ss., in part. 24 ss.; Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 215 ss.; da ultimo la materia è stata nuovamente indagata da Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012.

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vizio palesato dalla sentenza, figlia dell’esasperazione dogmatica e concettuale che sembra affliggere negli anni recenti una parte della giurisprudenza. La specificità del caso affrontato dalla sentenza in commento (nonché la specialità della materia) non consente di rinvenirne precedenti nella giurisprudenza italiana. E tuttavia sia consentito, nei limiti in cui la presente sede lo consenta, di tracciare un inconsueto raffronto comparativo tra la sentenza della Corte di cassazione sin qui commentata e un più risalente arresto della Corte federale tedesca in una fattispecie del tutto analoga. Il raffronto permetterà di valutare criticamente l’effettiva portata del principio affermato dalla Suprema Corte italiana, nonché di avanzare un’ipotesi di soluzione alternativa al caso deciso. In punto di legittimità dell’approccio comparativo, basti qui dire che esso si lascia percorrere per la pressoché perfetta sovrapponibilità non solo delle fattispecie esaminate, ma anche del quadro normativo sostanziale e processuale di riferimento. Del tutto sovrapponibile è l’oggetto delle due pronunce, intervenute in materia di locazione ad uso commerciale ove non sembra venire in rilievo alcuna diversità della disciplina sostanziale; sovrapponibile – o quanto meno equiparabile – risulta inoltre la tecnica di tutela destinata a venire in rilievo nelle due fattispecie, consistente nella condanna in futuro. L’indicato approccio si lascia addirittura preferire come espediente che valga ad evidenziare – quasi si trattasse di un esperimento di psicologia giudiziaria o di sociologia giuridica – le ben diverse sensibilità con quali le Corti supreme trattano la materia dei limiti oggettivi della cosa giudicata; permetterà inoltre di risolvere – senza incorrere nel rischio d’esser tacciati di condizionamento dogmatico – le questioni, processuali e non, che risultassero ancora insolute nella fattispecie esaminata. La sentenza BGH, Urteil v. 25. Februar 19855 aveva ad oggetto un rapporto di locazione che sarebbe venuto a naturale scadenza il 31.12.1985, ma il cui contratto costitutivo prevedeva, curiosamente proprio al § 2, la possibilità per il conduttore di prolungare il rapporto di locazione per altri dieci anni fino al 31.12.1995 attraverso un potere sostanziale da esercitarsi con dichiarazione unilaterale almeno dodici mesi prima della scadenza contrattuale, dunque fino al 31.12.1984. All’inizio del 1981 parte locatrice propone domanda di rilascio immediato dell’immobile per il 31.12.1985. La domanda è accolta con sentenza del 7.1.1983, sulla base della esplicita considerazione versata in motivazione per cui l’esistenza del suddetto diritto di opzione per il prolungamento del rapporto non si frapponeva alla condanna al rilascio; e che, d’altro canto, tale condanna non avrebbe comunque sottratto al conduttore la legittimazione ad esercitare l’opzione anche successivamente, rinviandosi per eventuali successive contestazioni al giudizio di opposizione all’esecuzione previsto dal § 767 ZPO.

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La sentenza del BGH 25. 2. 1985 – VIII ZR 116/84 può essere consultata in JuristenZeitung 1985, 750 ss. con Anmerkung adesiva di Arens. La sentenza è frequentemente citata come leading case in tema di limiti oggettivi della sentenza in relazione all’esercizio di un potere di opzione, anche in riferimento all’efficacia della sentenza nel tempo e, in particolare, in relazione all’esegesi del § 767 Abs. 2. ZPO. La si veda citata in Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 100, nt. 69

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Successivamente, con scritto del 31.1.1983 il conduttore esercitava il diritto di opzione, richiedendo al locatore la restituzione della copia esecutiva della condanna al rilascio nonché di confermare così il prolungamento del rapporto per ulteriori dieci anni. Di fronte al rifiuto frapposto da quest’ultimo, il conduttore si vedeva costretto a proporre opposizione all’esecuzione della sentenza di rilascio, contestando il diritto del locatore a procedere all’esecuzione successivamente all’esercizio del diritto di opzione. L’opposizione, accolta in primo e in secondo grado, perviene infine innanzi al Bundesgerichtshof, il quale – su ricorso presentato dal locatore – è chiamato a decidere la questione se l’esercizio del diritto di opzione costituisce un fatto che possa essere efficacemente proposto quale motivo di opposizione all’esecuzione in quanto non coperto dal giudicato formatosi nel primo processo6. La risposta positiva del BGH si fonda su un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo quella relativa all’efficacia della sentenza nel tempo. Si constata, in particolare, che l’esercizio del diritto di opzione è avvenuto dopo l’ultima udienza di trattazione, e dunque dopo il momento costituente il referente temporale di efficacia della sentenza. Dunque l’allegazione dell’avvenuto esercizio del diritto di opzione in sede di opposizione all’esecuzione non è preclusa dai limiti temporali di efficacia della sentenza. La tesi del locatore mirava tuttavia più sottilmente a dimostrare che l’accoglimento della domanda di rilascio dell’immobile implicasse anche l’inesistenza e la non spettanza in capo al conduttore di alcun diritto di opzione7, dal cui esercizio pertanto quest’ultimo non avrebbe potuto derivare alcun efficace motivo di opposizione, essendo rimasto del tutto assorbito dalla cosa giudicata formale formatasi nel primo processo8. A tale prospettazione il BGH replica risolutamente come una simile interpretazione disconosca fondamentalmente i limiti oggettivi della cosa giudicata: ad essere stato accertato con efficacia di giudicato nel processo preveniente era stata solo il diritto del locatore al futuro rilascio

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Queste sono le esatte parole con le quali il BGH riassume le questioni rilevanti ai fini della decisione: “Die Entscheidung des Rechtsstreits haengt somit allein davon ab, ob die Ausuebung der hier vereinbarten Option eine Einwendung im Sinne des § 767 Abs. 1 ZPO begruendet und – gegebenfalls – der Klaeger diese Einwendung im vorliegenden Prozess verfahrenrechtlich geltend machen kann”. La nuance emerge chiaramente dal seguente passaggio della sentenza, in cui è lo stesso BGH a interrogarsi sulla latitudine della Revision proposta: “Falls die Revision geltend machen will, durch die Zuerkennung des künftigen Räumungsanspruches sei auch rechtskräftig entschieden worden, daß dem Kläger keine Optionsbefugnis zustehe” Così il BGH riassume il motivo di Revision proposto: “Demgegenüber macht die Revision geltend, aus der Ausübung des Optionsrechts könne der Kläger keinen nachträglichen Einwand herleiten. Dem stehe die materielle Rechtskraft des Räumungsurteils entgegen. Sie schließe Einwände aus, mit denen Entstehung und Fälligkeit des Räumungsanspruches zum 31. Dezember 1985 in Abrede gestellt würden. Da nämlich in einem nach § 257 ZPO ergangenen Urteil auf künftige Räumung das kalendermäßige Fälligkeitsdatum des Räumungsanspruches festzulegen sei, müsse das Gericht abschließend bejahen, daß zu dem angegebenen Datum der materiellrechtliche Anspruch bestehen und fällig sein werde. Dies sei durch das Urteil des Vorprozesses geschehen. Durch die Entscheidung, daß der Beklagten zum 31. Dezember 1985 ein fälliger Räumungsanspruch zustehe, sei auch das Optionsrecht des Klägers in die Rechtskraftwirkung des Räumungsurteils einbezogen worden, weil das Bestehen und die Fälligkeit des Räumungsanspruches zum 31. Dezember 1985 durch die Nichtausübung der Option bedingt gewesen sei und ohne Verneinung des Optionsrechts der künftige Räumungsanspruch nicht habe festgestellt werden können”.

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dell’immobile, il ché tuttavia non implicava l’inesistenza del diritto di opzione in capo al conduttore9 Tanto è bastato al BGH per rigettare definitivamente il ricorso presentato dal locatore.

3. Gli apparenti elementi differenziali delle fattispecie

esaminate: rapporto tra potere sostanziale (contrattuale) e cosa giudicata. Occorre sgombrare il campo da un possibile dubbio che possa sopravvenire. Le due fattispecie non esibiscano elementi fattuali che possono rappresentare punti differenziali, tali da giustificare il diverso trattamento e il diverso segno delle decisione rilasciate dalle due Corte Supreme. Ciò è a dirsi, in primo luogo, in ordine alla diversa tempistica in cui il potere sostanziale di prolungamento del contratto di locazione è stato esercitato in rapporto al processo preveniente. Mentre, infatti, l’esercizio del potere sostanziale nella fattispecie tedesca è pacificamente avvenuto in un momento successivo al momento costituente il referente temporale del giudizio preveniente; in quella italiana sembrerebbe, al contrario, che l’esercizio del potere sarebbe avvenuto in momento precedente l’inizio del primo giudizio di licenza per finita locazione. Tale profilo è tuttavia destinato a restare del tutto irrilevante sol che si considerino le seguenti alternative: o, a seguito del corretto esercizio del diritto potestativo, era intervenuta una modificazione giuridica con la produzione di un diverso effetto giuridico (la prosecuzione del rapporto giuridico oltre il 31.12.2018) che esulava oggettivamente dal primo giudicato; ovvero la modificazione non si era ancora prodotta e il potere sostanziale era ancora pienamente esercitabile – come poi effettivamente avvenuto – con il secondo atto di opposizione alla intimazione di licenza per finita locazione10. Una diversa premessa (e cioè che il primo giudicato sia destinato oggettivamente a interferire con il potere sostanziale o con l’effetto prodotto dal suo esercizio) porterebbe all’indesiderabile esito di ritenere che un processo, instaurato a bella posta prima della scadenza del termine per l’esercizio dell’opzione e per un qualunque pretesto, possa pri-

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Queste le testuali parole del BGH: “Rechtskräftig geworden ist hier somit lediglich die im Urteil des Vorprozesses ausgesprochene Rechtsfolge, daß der Beklagten im Zeitpunkt der letzten mündlichen Verhandlung der damals geltend gemachte, auf den künftigen Ablauf der vertraglich vereinbarten Mietzeit gestützte Räumungsanspruch zustand. Das Optionsrecht des Klägers ist demnach durch das Urteil des Vorprozesses nicht rechtskräftig verneint worden”. 10 Ciò tanto più se si considera che – diversamente dalla fattispecie tedesca – nella vicenda italiana non era stato neanche contrattualmente fissato il termine per l’esercizio del secondo rinnovo contrattuale, e dunque il relativo potere non poteva di certo dirsi estinto per decadenza. In altre parole – come si è già avuto modo di dire – il potere stragiudiziale di opzione aveva come solo presupposto la vigenza del contratto al 31.12.2018; condizione soddisfatta proprio dalla sentenza del processo preveniente che, rigettando la domanda del locatore, aveva accertato la perdurante vigenza del rapporto sino a quella data.

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vare – surrettiziamente11 e senza che di esso si faccia neanche menzione – il titolare del termine dilatorio concesso per deliberare in merito al suo esercizio: ciò che costituisce l’essenza stessa del diritto di opzione12. Si tratta, tuttavia, di un profilo che non è stato assolutamente colto dalla Corte di Cassazione e che dovrebbe consigliare di distinguere – sotto il diverso ma affine profilo dei limiti temporali della cosa giudicata in relazione al loro esercizio – i poteri sostanziali di origine contrattuale rispetto a quelli di fonte legale. Mentre infatti questi ultimi resterebbero preclusi sol che essi siano meramente insorti in pendenza di un processo relativo al rapporto cui afferivano, al contrario per i primi il momento rilevante ai fini dell’assorbimento nel giudicato sarebbe costituito dall’atto di esercizio del relativo potere ovvero – e il caso che ci occupa sembra idoneo a porre l’interrogativo – lo spirare del termine assegnato per il suo esercizio13. Sopravvenendo il primo o il secondo14 al referente temporale del

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Al di là dell’ipotesi espressamente prevista dall’art. 1331 c.c. Tale considerazione è suggerita dallo stesso BGH, secondo il quale “Von den Gestaltungsrechten unterscheide sich eine Option, wie sie dem Kläger eingeräumt worden sei, gerade dadurch, daß sie dem Mieter als einen ihrer Hauptzwecke die Vergünstigung einräume, mit ihrer Ausübung bis zu dem vereinbarten Zeitpunkt warten zu können. Jede andere Auslegung führe dazu, daß der Vermieter diese Entschlußfreiheit des Mieters schon bald nach Vertragsschluß hinfällig machen könnte, wenn er durch Erhebung der gemäß § 257 ZPO jederzeit möglichen Klage auf künftige Räumung den Mieter zwingen könnte, sich schon frühzeitig über die Ausübung der Option klarzuwerden. 13 La peculiarità dei poteri sostanziali di origine contrattuale rispetto a quelli di fonte legale ai fini della preclusione nascente dal giudicato era stata tenuta presente dalla stessa sentenza del BGH 25.2.1985. Quest’ultima, infatti, affermava nettamente come i poteri sostanziali di fonte legale (gesetzliche Gestaltungsrechte) sarebbero risultati preclusi dal giudicato sol che gli stessi fossero meramente insorti in pendenza di un processo relativo al rapporto cui afferivano (“wenn die Partei – wie hier – schon während des Vorprozesses durch eine Erklärung die Rechtslage zu ihren Gunsten hätte beeinflussen können. Sie stellt insoweit nicht auf die Ausübung der Gestaltungsrechte, sondern auf den Zeitpunkt ihres Entstehens und die Befugnis zu ihrer Ausübung ab. Sie läßt dies als Entstehungstatbestand der Einwendung im Sinne des § 767 Abs. 2 ZPO mit der Folge genügen, daß die Gestaltungswirkung der erst nach der letzten mündlichen Tatsachenverhandlung des Vorprozesses abgegebenen Erklärung nicht geltend gemacht werden kann. In diesen Fällen verliert die gestaltungsberechtigte Partei also die Möglichkeit, frei darüber zu entscheiden, wann sie die Gestaltungsfolge herbeiführen will”). Al contrario invece, per i poteri sostanziali di origine contrattuale, il momento rilevante ai fini della preclusione sarebbe costituito dall’atto di esercizio del relativo potere (“Etwas anderes muß indessen [...] für die hier zu beurteilende Optionsbefugnis des Klägers gelten. Für dieses vertraglich eingeräumte Gestaltungsrecht ist der Zeitpunkt der Gestaltungserklärung maßgebend. Im Gegensatz zu Gestaltungsrechten, bei denen – wie bei der Aufrechnung oder Anfechtung – die Freiheit des Berechtigten, den Zeitpunkt der Abgabe der Gestaltungserklärung zu wählen, lediglich eine Nebenfolge, nicht aber der Zweck des Gestaltungsrechtes ist, liegt es gerade im Wesen eines dem Mieter gewährten Optionsrechtes, ihm die Entscheidungsfreiheit zu lassen, ob und gegebenenfalls wann er die Option ausübt. Dies gilt insbesondere, wenn, wie hier, die Mietsache gewerblich genutzt wird und daher der Entschluß, das Mietverhältnis auslaufen zu lassen oder durch Ausübung der Option zu verlängern, wesentlich von der oft schwer überschaubaren Entwicklung der wirtschaftlichen Verhältnisse abhängt. Dem Optionsberechtigten ist es daher im Gegensatz zum Aufrechnungs- oder Anfechtungsberechtigten nicht anzusinnen, von seiner Gestaltungsbefugnis ungeachtet seiner zeitlichen Wahlfreiheit immer schon dann Gebrauch zu machen, wenn er dadurch in einem gegen ihn geführten Prozeß die Rechtslage zu seinen Gunsten beeinflussen könnte”). Nella dottrina tedesca, nel medesimo senso, si veda Rosenberg/ Schwab/Gottwald, Zivilprozessrecht, 17. Aufl., Muenchen, 2010, 885, secondo cui “sachgerechter erscheint, dass das Prozessrecht die Ausuebung materieller Gestaltungsrechte grundsaetzlich nicht verkuerzen darf. Da die Ausuebung des Gestaltungsrechts eine neue Tatsache ist und erst sie die Rechtslage umgestaltet, ist sie nicht durch die Rechtskraft praekludiert und weiterhin zulaessig”. In senso analogo si veda anche Heiderhoff, Der entschiedene Lebenssachverhalt und die Rechtskraftsperre bei klageabweisenden Urteilen, in Zeitschrift fuer Zivilprozess, 118 (2005), 185 ff; Gottwald, § 322, in Muenchner Kommentar zur ZPO, I, Muenchen, 2015, Rdn. 241 ss.; nonché Arens, Anmerkung a BGH 25. 2. 1985 – VIII ZR 116/84, in JuristenZeitung 1985, 750 ss. 14 Sempre allorché non sia proprio l’esistenza di un termine per il suo esercizio in questione, o la sua assegnazione come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1331. 12

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giudicato – l’udienza di precisazione delle conclusioni –, il potere sostanziale (o l’effetto prodotto dal suo esercizio) sopravvive alla preclusione15. A ben vedere, dunque, l’unico punto differenziale degno di rilevanza tra le due fattispecie – che avrebbe dovuto peraltro scongiurare il diverso esito cui sono giunte le due Corti Supreme – è da individuare nel segno e nel contenuto delle pronunce dei processi prevenienti rispetto a quelli conclusivi delle vicende di cui si discorre. Solo quello tedesco si era infatti concluso con una condanna favorevole al locatore che ordinava al conduttore il rilascio dell’immobile alla scadenza del contratto di locazione. Al contrario, la sentenza del Tribunale del 2013, oltre a costituire un mero accertamento, si era conclusa con il rigetto della domanda del locatore e l’accoglimento di quella del conduttore – seppure con formulazione non certo perspicua – che disponeva “la cessazione degli effetti del contratto di locazione [solo, nda] per la data del 31.12.2018”.

4. L’oggetto della decisione preveniente nella vicenda italiana e il suo rapporto con il secondo processo.

È dunque la stessa ratio decidendi, nonché l’iter argomentativo seguito dalla Corte di cassazione, a sollevare serie criticità in punto di estensione oggettiva della cosa giudicata. Tuttavia, fedeli al proposito di mantenere il tono del discorso su di un piano squisitamente empirico, non si ritiene utile impiegare gli strumenti di critica offerti dal dogmatismo. Converrà piuttosto prendere le mosse da un interrogativo, quasi banale nella sua ovvietà, eppure rimasto negletto all’esame della Suprema Corte: ovverosia cosa sia stato deciso dalla sentenza del processo preveniente nella vicenda italiana e come tale decisum si relazioni al giudizio culminato nella sentenza che si annota. La sentenza preveniente conteneva innegabilmente la declaratoria di insussistenza del diritto del locatore alla restituzione dell’immobile alla data del 31.12.2012 e, dunque, l’accertamento della prosecuzione del rapporto almeno per tutto il 201816. Ora, per poter affermare che il primo giudicato (relativo alla infondatezza del diritto alla restituzione dell’immobile al 31.12.2012) produca effetti preclusivi o conformativi sul

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Ciò sempre che l’effetto prodotto dall’esercizio del potere sostanziale sia effettivamente ed oggettivamente incompatibile con la situazione sostanziale de qua agitur, condizione che – come si vedrà – era da escludere nella vicenda esaminata dalla Corte di cassazione. È noto infatti che il problema dei limiti temporali del giudicato è sempre da porsi in via subordinata rispetto a quello dei limiti oggettivi. 16 Solo apparentemente potrebbe sembrare che la sentenza preveniente contesse due diverse statuizioni: da una parte la dichiarazione di insussistenza del diritto del locatore alla restituzione dell’immobile alla data del 31.12.2012 e, dall’altra, la perdurante vigenza del rapporto – al di là dell’ambiguo tenore adottato nel dispositivo, su cui pure si ritornerà in seguito – fino a tutto il 2018. In realtà le due affermazioni costituiscono le due facce della stessa medaglia, due riformulazioni, rispettivamente, in termini positivi e negativi dello stesso decisum giudiziale. Per consonanti considerazioni circa la distinzione tra decisum e petitum, e il rilievo essenziale del primo nella determinazione dell’estensione della cosa giudicata, si veda Sassani, In tema di differenza di petitum e di limiti oggettivi del giudicato, in Giust. Civ., 1986, 2906 ss.

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secondo processo (restituzione dell’immobile al 31.12.2018) bisogna all’evidenza supporre che tra i due procedimenti sussista identità, quanto meno parziale, nell’oggetto di giudizio o almeno nelle questioni decise17. Ed infatti la sentenza che si commenta ritiene che “il bene della vita attribuito con la declaratoria di accertamento [all’esito del primo processo, n.d.a] aveva ad oggetto la durata del contratto secondo l’efficacia convenzionale sino a quella data”, e dunque che vertesse sul medesimo oggetto su cui era chiamata presentemente a pronunciare. Senonché tale ravvisata identità18 costituisce una pura illusione, che può essere solo in parte spiegata con l’ambiguo tenore letterale del dispositivo della prima sentenza e non, piuttosto, con la tendenza – cui una parte della giurisprudenza sembra indulgere – di trincerarsi dietro l’apparato concettuale di un esasperato dogmatismo, in vece di dedicarsi alla comprensione del caso concreto sottoposto al suo giudizio. Non è infatti dato comprendere come la statuizione portata dalla prima sentenza potesse interferire con la successiva domanda, formulata dal locatore, di restituzione dell’immobile alla data del 31.12.2018 posto che quella sentenza era stata pronunziata, in accoglimento dell’opposizione del conduttore, volta al rigetto della domanda del locatore e all’accertamento della persistenza del rapporto locatizio19 sulla base della prima fattispecie di rinnovo. Per scongiurare una simile conclusione sarebbe bastato dare la giusta rilevanza alla considerazione, espressamente contenuta nel dispositivo della sentenza preveniente – secondo cui si procedeva “all’accoglimento della domanda della convenuta” [conduttrice] – per interpretare diversamente “il bene della vita attribuito con la declaratoria di accertamento”. L’inciso avrebbe infatti permesso di comodamente individuare il senso e l’ambito di tutela sottoposto a giudizio che aveva guidato il giudice ad escludere dal proprio orizzonte cognitivo il secondo rinnovo contrattuale20. Neanche risulta intellegibile come l’accertamento che un dato rapporto sia stato prorogato fino ad un certo momento implichi necessariamente che lo stesso non possa essere ulteriormente prorogato sulla base di autonoma fattispecie, quale quella del successivo rinnovo contrattuale, frutto di espressa volontà del contraente e distinto dal precedente

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Solo su tale premessa può infatti acquistare senso l’affermazione della Corte secondo cui il potere di opzione al prolungamento contrattuale “riveste natura di fatto impeditivo del diritto azionato dal locatore” da far valere a pena di preclusione “nel [primo] giudizio con cui la controparte abbia iniziato l’azione di finita locazione per scadenza futura”. 18 Oltre a risultare del tutto apodittica, salvo conformarsi ad una ipertrofica concezione dell’oggetto del processo e dei suoi criteri di identificazione 19 L’unico indice che avrebbe astrattamente potuto congiurare verso la soluzione adottata dalla Cassazione era rappresentato dalla infelice formula del dispositivo, adottata dal giudice del processo preveniente, che comminava “la cessazione degli effetti del contratto di locazione [...] per la data del 31.12.2018”. Formula che, in uno con il principio della letteralità nell’interpretazione del dispositivo e della sua autonoma rilevanza esterna, assumeva per la Corte rilievo decisivo, pur obliterando del tutto che la sentenza fosse stata pronunziata ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., e cioè redatta contestualmente, al termine della discussione orale con immediata lettura della motivazione inserita nel verbale di udienza. 20 In senso non dissimile, si veda Verde, Sulla minima unità strutturale azionabile nel processo (a proposito di giudicato e di emergenti dottrine), in Riv. dir. proc., 1989, 573 ss., in part. 577, secondo il quale “in questa direzione l’unica norma utilizzabile e non utilizzata è l’art. 100 c.p.c., intesa nel senso che l’interesse è “misura dell’azione” non solo tanto in senso soggettivo, come indispensabilità del ricorso ai giudici per la tutela dei diritti, ma anche in senso oggettivo”.

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rinnovo automatico. Tanto più che anche il giudice del processo preveniente aveva apertamente dichiarato di lasciare impregiudicata la questione dei successivi rinnovi contrattuali. Infatti, il bene della vita attribuito dal primo giudicato non è in alcun modo messo in pericolo dagli effetti giuridici prodotti dall’atto di esercizio del potere proprio perché la questione che rimane impregiudicata – e che neanche poteva essere decisa nel primo processo dal momento che non era in contestazione – era quella relativa all’esistenza del rapporto (non fino al 31.12.2018, ma) a partire dal 1.1.2019. In buona sostanza, la sentenza resa nel processo preveniente non era in grado di incidere in alcun modo, da un punto di vista oggettivo, nel processo successivamente instaurato per la diversità delle questioni affrontate e dell’oggetto delle rispettive decisioni. Anzi, paradossalmente proprio il segno di tale sentenza – di rigetto della pretesa del locatore alla restituzione dell’immobile – veniva a precostituire la condizione per l’esercizio del potere stragiudiziale di opzione al secondo rinnovo contrattuale, il quale – a ben vedere – aveva proprio come unico presupposto la vigenza del rapporto di locazione sino al 31.12.2018.

5. Il meccanismo della riserva di esercizio del potere sostanziale.

Neanche convince il meccanismo della riserva di esercizio del potere sostanziale, che sembra piuttosto consapevolemente escogitato dalla Cassazione quasi a controbilanciare, in extremis, una così lata conformazione dell’oggetto dell’accertamento. Secondo la Corte, infatti, la conduttrice avrebbe dovuto domandare, sin dal primo giudizio, “l’accertamento della scadenza al 31 dicembre 2018 con salvezza del possibile esercizio prima di essa del potere contrattuale di incidere su di essa, tramite il diritto potestativo dell’ultimo inciso dell’art. 2”. In primo luogo non può farsi a meno di ricordarsi – come ancora di recente è stato autorevolmente affermato – che il “giudicato a sorpresa è un attentato alla parità delle armi, e quindi all’idea del giusto processo”21. Ed è proprio su tale sfondo che deve leggersi l’avvertimento per cui la prima e irrinunciabile giustificazione della ristretta determinazione dell’ambito oggettivo del giudicato risiede nella circostanza “che le parti debbono essere coscienti di ciò che si mette in gioco nel processo, quindi di cosa e quanto rischiano”22. Sembra invece evidente che tale preoccupazione non venga tenuta in nessun conto se si affida all’onere di parte di riservarsi comunque l’esercizio futuro di quei poteri sostanziali,

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Così Luiso, Voilà m’sieurs dames, les jeux sont faits! Giudicato a sorpresa e cultura del giusto processo, in Riv. Dir. Proc., 2012, 1343 ss., in part. 1345 22 In questo senso Chizzini, L’intervento adesivo, Padova, 1992, 641 s.; ma si veda anche, tra altri, Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Comm. c.p.c. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 133 s.

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di cui pur è titolare e che comunque non sono in contestazione, a rischio della loro preclusione sotto la scure del giudicato. A valle della considerazione che precede, è tuttavia d’uopo rilevare come una simile conformazione dell’iter di delimitazione dell’oggetto del giudizio – che si segnala per un inusitato meccanismo di opting out della sua estensione oggettiva, in antitesi con il consueto opting in (artt. 34, 99 e 112 c.p.c.) – era già stato impiegata dalla prima giurisprudenza formatasi in materia di frazionamento della domanda risarcitoria23. Tuttavia, anche a tacere degli atavici sospetti in ordine alla stessa legittimità del meccanismo della riserva già in relazione a situazioni giuridiche unitarie24, non può dubitarsi dell’autonoma rilevanza sostanziale del diritto di opzione al rinnovo contrattuale pur nell’ambito di un medesimo rapporto di durata25, ove è ontologicamente ed economicamente la stessa perduranza nel tempo del vincolo, secondo le tempistiche scandite dai paciscenti, a rappresentare un autonomo bene giuridico suscettibile di costituire oggetto di specifica tutela giuridica26. Non è dunque solamente il dato empirico, scaturente dall’esplicita affermazione del giudice del processo preveniente di voler prescindere dall’esame relativo ai successivi rinnovi contrattuali, a far ritenere che sul punto non si fosse formato giudicato implicito;

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Si è già detto che la giurisprudenza formatasi in materia di risarcimento del danno, affidava la possibilità del frazionamento di singole voci di danno alla formulazione di una riserva di successiva azione giudiziale. Ebbene, può essere utile ricordare come già in costanza di tale orientamento giurisprudenziale autorevole dottrina (tra tutti si vedano Cerino Canova, Unicità del diritto e del processo di risarcimento, in Riv. it. dir. lav., 1986, II, 448 ss., in part. 453; e Monateri, La scindibilità del giudizio su quantum, in Resp. civ., 1982, 411; nonché Menchini, I limiti oggettivi, cit.) consideravano del tutto inefficace l’eventuale ancorché espressa riserva formulata dalla parte processuale, ritenendo che non fosse consentito scindere, sul piano dell’accertamento processuale, una unitaria situazione sostanziale. Al contrario – ma sempre nel segno della inefficacia di una riserva – altra non meno autorevole dottrina (si vedano Allorio, Giudicato su domanda parziale, cit., nonché Verde, Sulla “minima unità strutturale”, cit.., 1989, 573 ss.) sembrava considerarla del tutto superflua sulla base di una ricostruzione già ex ante minimale e puntualizzata dell’oggetto del giudizio. Sulla questione si veda inoltre Menchini-Proto Pisani, Oggetto del processo e limiti oggettivi del giudicato in materia di crediti pecuniari, in Foro it., 1989, I, c. 2945 ss. 24 Si ricorda che la giurisprudenza formatasi in materia di risarcimento del danno, affidava la possibilità del frazionamento di singole voci di danno alla formulazione di una riserva di successiva azione giudiziale. Per la considerazione secondo cui a nulla varrebbe limitare espressamente la richiesta di provvedimento a determinati oggetti, se all’attore dovesse essere negato il potere di ritagliare, a proprio piacimento, l’oggetto della lite, scomponendo una situazione giuridica unitaria in una pluralità di figure processualmente autonome”, si veda Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 280. Anche Cerino Canova, Unicità del diritto e del processo di risarcimento, in Riv. it. dir. lav., 1986, II, 448 ss., in part. 453; e Monateri, La scindibilità del giudizio su quantum, in Resp. civ., 1982, 411, considerano inefficace l’eventuale riserva formulata dalla parte processuale; mentre Allorio, Giudicato su domanda parziale, cit., e Verde, Sulla “minima unità strutturale”, cit.., 1989, 573 ss., sembrano considerarla del tutto superflua. Sulla questione si veda inoltre Menchini-Proto Pisani, Oggetto del processo e limiti oggettivi del giudicato in materia di crediti pecuniari, in Foro it., 1989, I, c. 2945 ss. Prescinde invece dal meccanismo della riserva, concentrandosi su ciò che ha costituito oggetto di trattazione tra le parti nel corso del processo e di decisione da parte del giudice nella sentenza, Sassani, In tema di pronuncia su danno futuro e di preclusione della successiva autonoma domanda, in Giust. Civ., 1986, I, 1087 ss. 25 È indicativo che la tendenza a coordinare necessariamente l’azione civile alla tutela di una situazione soggettiva autonomamente rilevante sul piano sostanziale provenga già da quella dottrina che tende a far leva sul carattere pubblico dello strumento processuale, ma anche ad esigenze di certezza giuridica, di economia processuale e di durata del processo, per ricostruire in termini piuttosto ampi i limiti oggettivi del giudicato: cfr. Menchini, I limiti oggettivi, cit ,281 s., 48 ss. In senso critico, e ricollegando l’estensione del giudicato alle richieste delle parti, Verde, Sulla minima unità, cit., 577 s. 26 Il ché vale a dire – in termini più prosaici – che con la sentenza del 2013 era stata accertata la vigenza del contratto successivamente al primo rinnovo e, dunque, sino al 31.12.2018, nulla dicendo in relazione alle successive scadenze. A favore di una considerazione autonoma del diritto di opzione rispetto al complessivo rapporto giuridico cui esso accede può d’altro canto citarsi lo stesso disposto dell’art. 1331 c.c., nonché l’azione espressamente prevista dal suo secondo comma.

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ma è la stessa autonomia ontologica, strutturale ed economica del diritto di opzione a congiurare verso tale conclusione. Senza poi considerare che, nell’ipotesi di cui ci si occupa, ad essere oggetto di riserva non sarebbe il potere di agire in successivo e separato giudizio – come nell’ipotesi di frazionamento della domanda risarcitoria –, ma lo stesso esercizio stragiudiziale di un potere sostanziale. Di qui, a tanto maggior ragione, la difficile importabilità del meccanismo della riserva nell’ipotesi in considerazione27. È in tale ottica che si spiega la necessità, avvertita dalla Corte, di richiamarsi ad una pretesa rinuncia (implicita) del conduttore ad avvalersi del potere di prolungamento del rapporto di locazione, per giustificare l’assunto della sua preclusione nel giudicato. Rinuncia che – a parere della Corte – si sarebbe per l’appunto concretizzata nella proposizione della domanda di accertamento della perduranza del rapporto, scevra tuttavia dalla formulazione di una riserva di esercizio in futuro28 del relativo potere contrattuale29. È invece fatale che la ricostruzione operata dalla Cassazione dei limiti oggettivi e temporali della cosa giudicata ridondi in un inavvertito disconoscimento – non solo del principio dispositivo della domanda, ma anche – dello stesso principio di autonomia negoziale ex art. 1322 c.c., che permette ai privati – prima ancora di definire l’ambito oggettivo dei giudizi che li possano coinvolgere – di conformare contrattualmente i propri rapporti nel modo da essi ritenuto preferibile30.

6. Epilogo: l’ennesimo guasto del giudicato implicito. In chiusura di queste essenziali considerazioni31 sulla sentenza, si consenta in ultimo di compendiare in poche battute la massima e la morale che è possibile trarre dalla vicenda di cui si sta discorrendo.

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Il ché valga come argomento ad abundantiam: invero, se alla deduzione in giudizio di una singola occasione di rinnovo contrattuale non è riconosciuta la virtù di coinvolgere le successive, non è dato rinvenire a priori la funzione assolta da una riserva. 28 La tesi della Suprema Corte si appalesa peraltro insussistente ed illogica proprio in considerazione del fatto che la riserva avrebbe dovuto avere ad oggetto, alternativamente, un potere già esercitato ovvero esercitabile fino alla scadenza contrattuale. Non può allora negarsi che il ragionamento della Corte si risolve in una pura petizione di principio. 29 Si rileva incidentalmente, che la Corte riesce nell’arduo compito di precostituire una vera e propria contraddizione in termini, attribuendo efficacia di rinuncia – e dunque matrice negoziale, parificata all’efficacia del contratto – alla mancata riserva di esercizio del potere, per poi subito dopo negarla, ammettendo come non rilevi “la reale consapevolezza [del conduttore, nda] di determinare tale effetto negoziale”. 30 Le due società, parti contrattuali e processuali della fattispecie italiana, avevano infatti dettagliatamente voluto distinguere, nell’ambito del complessivo rapporto di locazione, le singole tranches cronologiche (cristallizzatasi nella formula contrattuale dei 6 anni + 12 anni + 6 anni) che avevano considerato – ancor prima dell’insorgenza della futura controversia – le unità temporali minime di svolgimento del rapporto. Non è un caso che la Suprema – presentendo l’ingerenza che la sua pronuncia avrebbe perpetrato al principio di autonomia contrattuale – abbia avvertito la necessità di adombrare una supposta rinuncia al diritto di opzione al rinnovo contrattuale implicita nella mancata riserva del suo esercizio. 31 Ben altre potevano farsene. Per esempio, la sentenza in commento sembra non concedere alcuno spazio di operatività al principio della ragione più liquida, e ciò a poco tempo di distanza dal suo parziale riconoscimento ad opera delle sentenze delle Sezioni Unite

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In particolare, è proprio il raffronto con la sentenza del BGH a costituire una utile pietra di paragone che, si crede, ha permesso di evidenziare – sine ira ac studio – non solo una radicale diversità di approccio e di sensibilità tra le Supreme Corti, ma anche una diversa atmosfera culturale che si respira nella giurisprudenza dei due paesi. È infatti proprio la ratio decidendi adottata dalla Corte di cassazione, perseguita con pervicacia e ostinazione, a denunciare il vero convitato di pietra che ne ha ispirato il senso e la logica: il giudicato implicito. Non si possono infatti nutrire dubbi che la sentenza annotata rappresenti un ulteriore (ma sicuramente evitabile) passo in avanti lungo la parabola disegnata dal giudicato implicito che da decenni informa ed anima alcuni dei più discussi arresti della Suprema Corte32, incalzata dall’impellenza di garantire una ragionevole durata ad un processo (non si saprebbe più dire quanto) giusto. Che si tratti dell’imposizione, a posteriori, di un ordine di risoluzione delle questioni diverso da quello effettivamente seguito nella sentenza33, o della individuazione di un “bene della vita” di cui né le parti né il giudice si figuravano di stare trattando – se non, anzi, per escluderlo espressamente34 –, sta di fatto che questi discutibili meccanismi stanno contribuendo a modificare profondamente la stessa natura della cosa giudicata e il suo oggetto. Quest’ultimo, infatti, appare sempre più coincidere – non più con ciò che il giudice ha effettivamente deciso nella sentenza (il dictum giudiziale), ma – con ciò che il giudice avrebbe dovuto decidere nel pronunciarsi su una determinata domanda, di fatto reintroducendo un’antistorica preclusione dell’azione per effetto del suo mero esercizio35. Tutto

in materia di rilievo ufficioso della nullità: cfr. Cass., Sez. unite, 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243. Nel qual caso potrebbe allora comunque obiettarsi che la sentenza in commento non sembra concedere alcuno spazio di operatività al principio della ragione più liquida, e ciò a poco tempo di distanza dal suo parziale riconoscimento ad opera delle sentenze delle Sezioni Unite in materia di rilievo ufficioso della nullità: cfr. Cass., Sez. unite, 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243. 32 Oltre alla giurisprudenza segnalata nelle note precedenti in materia di frazionamento della domanda di risarcimento del danno, può farsi riferimento alla oramai celebre Cass., Sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, in Riv. dir. proc. Civ., 2009, 1071 ss., e alla monolitica giurisprudenza che vi ha dato seguito, ove la forza insita nell’idea del giudicato implicito è giunta fino a far riscrivere ex novo l’art. 37 cod. proc. civ. Ancora, si rammentino le sentenze Cass., Sez. un., 19 aprile 2016, n. 7700 e Cass., Sez. un., 12 maggio 2017, n. 11799, che hanno riconosciuto, sancendone la legittimità nel nostro ordinamento, la possibilità di pensare a una decisione implicita su una questione (desumibile da una esplicita decisione su altra questione che tuttavia presupponga la definizione delle prime in un certo senso) per la quale resta esclusa la mera riproponibilità in appello ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ. Più di recente si veda Cass., 25 ottobre 2017, n. 25254, in Giur. it., 2018, 871 ss. (con nota critica di Luiso, I guasti del giudicato implicito, nonché di Fanelli, Progressione logico-giuridica tra i presupposti processuali, poteri delle parti e distorisioni del giudicato implicito, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2018, 1569 ss.) ove la Corte di cassazione, invertendo a posteriori l’ordine di risoluzione delle questioni seguito dal giudice del merito (si trattava, in particolare, dell’eccezione di incompetenza territoriale – poi accolta – e della exceptio compromissi), ritiene che la questione lasciata da quest’ultimo espressamente impregiudicata (la sussistenza di una convenzione di arbitrato) sia passata in cosa giudicata, in quanto quella decisa (l’incompetenza) la presupponeva quale presupposto logico-giuridico (dunque, la pronuncia di incompetenza presuppone a monte la verifica della potestas decidendi del giudice statale in quanto non derogata dalla convenzione di arbitrato). 33 Tale è il leit motiv della pronunce citate alla nota precedente. 34 È questo il caso della sentenza che ci occupa. 35 La novatio necessaria prodotta dalla litis contestatio; cfr. Kaser, Das roemische Zivilprozessrecht, 1966, §§ 42-43. Di “giudicato sulla domanda” in una fattispecie del tutto analoga a quella che ci occupa faceva già menzione Sassani, In tema di pronuncia su danno futuro e di preclusione della successiva autonoma domanda, in Giust. Civ., 1986, 1087 ss., in part. 1088.

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ciò rischia di far gravare oltre il giusto le disfunzioni del sistema su operatori ed utenti del servizio giustizia, ridotti ad anelare – novelli mugnai di Sans Souci – ad una decisione del giudice di Karlsruhe36.

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È ben noto che la sede del BGH è a Karlsruhe: si scuserà pertanto la forzatura imposta al celebre racconto, ammantato dei colori della leggenda.

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