ISSN 2532-3083
Judicium n. 3/2018
il processo civile in Italia e in Europa
Rivista trimestrale
settembre 2018
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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini
In evidenza: Nicola Picardi: un ricordo (ancora) Ferruccio Auletta
Piena conoscenza e motivazione del provvedimento amministrativo: per il diritto del cittadino di esperire consapevolmente l’eventuale azione di annullamento Fabio Saitta
Le dottrine del processo amministrativo telematico Luigi Viola
Just Settlement or Just About Settlement? Mediated Agreements: a Comparative Overview of the Basics Remo Caponi
The Pinocchio trial Roberta Tiscini
Pinocchio and the educational function of the trial Andrea Panzarola
La Corte Costituzionale conferma la stabilità del giudicato sostanziale e la tenuta degli artt. 395 e 396 c.p.c. di fronte alle censure della Corte EDU Alessia D’Addazio
Indice
Saggi Ferruccio Auletta, Nicola Picardi: un ricordo (ancora).........................................................................p 253 Fabio Saitta, Piena conoscenza e motivazione del provvedimento amministrativo: per il diritto del cittadino di esperire consapevolmente l’eventuale azione di annullamento...................................... » 255 Luigi Viola, Le dottrine del processo amministrativo telematico..............................................................» 263 Remo Caponi, Just Settlement or Just About Settlement? Mediated Agreements: a Comparative Overview of the Basics........................................................................................................................ » 295 Roberta Tiscini, The Pinocchio trial...........................................................................................................» 317 Andrea Panzarola, Pinocchio and the educational function of the trial.................................................» 325 Giurisprudenza commentata Corte Costituzionale, sent. 27 aprile 2018, n. 93, con nota di Alessia D’Addazio, La Corte Costituzionale conferma la stabilità del giudicato sostanziale e la tenuta degli artt. 395 e 396 c.p.c. di fronte alle censure della Corte EDU *.........................................................................................» 331
* Lavoro sottoposto a revisione esterna.
Saggi
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Ferruccio Auletta
Nicola Picardi: un ricordo (ancora) Quasi un anno fa, il 26 ottobre 2017, nella sede della Luiss “Guido Carli” sono stati presentati gli Scritti in onore di Nicola Picardi, opera in 3 tomi edita, mentre si compivano i giorni del Maestro (16 dicembre 2016), dagli allievi Antonio Briguglio, Roberto Martino, Andrea Panzarola e Bruno Sassani, per i tipi di Pacini editore. Mi fu data allora la parola davanti alla signora Nietta e le figlie, oltre che ai migliori rappresentanti della Sua generazione accademica: e ne avvertii tutto il peso. Il 7 maggio del 2009 mi era capitato di presenziare, per poi redigerne la nuda cronaca ne Il Giusto processo civile (p. 636), all’ultima Sua lezione alla «Sapienza», tenuta (come anche stavolta) davanti al Presidente dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile e (lì anche) al Primo presidente della Corte suprema. E se già non poteva allora competermi il dire veramente di Nicola Picardi magistrato e professore, così non avrei potuto nell’occasione nuova testimoniare (né potrei fare adesso) sopra l’uomo né il giurista. Soltanto mi piace ricordare come proprio a Lui, presidente della Commissione giudicatrice, io debba di svolgere pleno iure l’ insegnamento del diritto processuale: questo titolo di legittimazione, sia pur derivata e di certo non esclusiva, mi affranca da ricerche di basi ulteriori a conforto di queste parole, finanche nell’ambito di esperienze a noi magari comuni in modo più particolare (per es., quella di essere stato io, come o quanto Lui, in magistratura, svolgendovi talora funzioni simili). Per l’iniziativa di presentazione dei volumi dedicatiGli ho riletto L’educazione giuridica, oggi: il saggio di apertura dei 2 tomi nei quali si presentava la 2.nda edizione de L’Educazione giuridica, uscita quindi nel 2008, nell’ambito di un programma di studi co-finanziato dalla Luiss e curato, insieme con il suo Maestro, da Roberto Martino. In quel saggio, viene tratteggiato l’ideale tedesco del Volljurist, il giurista completo o unitario (Einheitjurist). E, in opposizione al modello inglese del giurista skills-oriented, quello del giurista liberally educated: ecco, Nicola Picardi continua ad apparirmi anzitutto uno di loro, in cui questi caratteri di completezza, unitarietà e formazione culturale si offrono in esemplare, compendiosa sintesi. La Sua dimensione di studioso è stata, tra i processualisti della generazione, quella intimamente più affrancata dal quasi inevitabile provincialismo tecnico-normativo al quale siamo ancora confinati un po’ tutti: Egli è stato il portatore di una vocazione internazionale degli studi ben più genuina e profonda di alcune esterofilie di maniera, presenti già al Suo tempo. Gli studi di Nicola Picardi sugli ordini giudiziari e la loro mutua legittimazione di derivazione professionale (che gli erano valsi il premio Justice in the world nel 2005, e che sono magistralmente esposti adesso da Andrea Panzarola, Nicola Picardi: processualista
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Ferruccio Auletta
e storico, in Historia et ius [www.historiaetius.eu], 11/2017 - paper 20) valgono e durano assai più di modelli didattici e tendenze della pubblicistica che nessun impatto hanno (mai avuto) da noi, né altrove. In modo particolare, il saggio su L’Educazione giuridica, oggi (che apre il tomo su Modelli di università e progetti di riforma) si esaurisce nella verifica di un’ipotesi, quella su tempo e normativa ai quali far risalire lo “scadimento del livello degli studi” e l’inizio di quella pratica che induce il corrente successo di persone e istituzioni universitarie definibili come (Lui diceva) “loci minoris resistentiae”. Ora: Nicola Picardi, l’uomo raffinatissimo che sapeva intrattenere sulle varietà del noce più adatto alla custodia dei libri antichi, non si batteva per l’affermazione di eserciti di plaudenti, non aspirava a formare milizie di devoti, piuttosto si esercitava nella libertà di ricerca del talento: una pratica e uno spirito che è sempre più raro vedere tra di noi. Sono certo che Egli, pure svolgendo la ricerca delle risalenze normative dello scadimento degli studi, non credesse davvero che una normativa possa causare o impedire le degenerazioni disgustose alle quali, per il vero, proprio i cultori del diritto processuale – pur attraverso l’avvicendarsi delle leggi – avevano singolarmente e per lo più resistito (infine, però, arrendendosi e consegnandosi al nemico senza più battersi). Nicola Picardi insegna ancora oggi, come a non molti altri riesce di fare, la bellezza di vivere circondati dalla stima per la moralità irreprensibile della propria persona. Sono figure come la Sua che (mi) ripropongono continuamente l’ interrogativo: ma come si fa a vivere altrimenti, circondati – cioè – dalla farisaica devozione di chi (si sa che) nell’intimo ti riprova? Ovvero: (consapevolmente) attorniati dalla disistima totale dei tanti che pur proclamano la loro festante gratitudine? Per questo, il mio ricordo del professor Picardi è, anzitutto, un richiamo attuale all’altezza, la serietà e la moralità degli studi, alla loro bellezza insomma. Io, però, assai diversamente da Lui, non sempre so trattenere il disprezzo per le bassezze e l’immoralità che sono sotto gli occhi di tutti noi.
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Fabio Saitta
Piena conoscenza e motivazione del provvedimento amministrativo: per il diritto del cittadino di esperire consapevolmente l’eventuale azione di annullamento* Sommario : 1. Ancora su piena conoscenza e termine per ricorrere: le perduranti oscillazioni di una giurisprudenza complessivamente restia a radicali cambiamenti. – 2. Timide aperture: l’impugnativa degli atti di gara e dei titoli edilizi. – 3. Il dies a quo del termine per ricorrere: è sufficiente che sia percepibile la lesività del provvedimento o deve potersene valutare anche l’illegittimità? – 4. Certezza e stabilità dell’azione amministrativa versus effettività della tutela giurisdizionale (senza trascurare l’analisi economica).
L’Autore torna sull’annosa questione della nozione di «piena conoscenza» e del termine per ricorrere a criticare la giurisprudenza amministrativa, tuttora attestata su posizioni incompatibili con il principio di effettività della tutela. The author returns to the age-old question of the notion of “full knowledge” and of the deadline for recourse to criticize the administrative jurisprudence still firm on positions incompatible with the principle of effectiveness of protection.
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Intervento alle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa («Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica») – Rapolano Terme/Siena, 8-9 giugno 2018.
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Fabio Saitta
1. Ancora su piena conoscenza e termine per ricorrere: le perduranti oscillazioni di una giurisprudenza complessivamente restia a radicali cambiamenti.
La problematica inerente alla nozione di «piena conoscenza», come dies a quo del termine decadenziale per proporre azione di annullamento di un provvedimento amministrativo (art. 41, comma 2, c.p.a.), è assai risalente nel tempo: essa affonda le sue radici nella modifica apportata all’art. 36 del testo unico del Consiglio di Stato dalla legge n. 88 del 19251. Lo stimolo a tornare ancora una volta sul tema deriva dalla constatazione che, a distanza di un decennio dall’interessante intervento sul rapporto tra motivazione del provvedimento e termine per l’impugnazione svolto da Leonardo Ferrara, proprio in un’edizione delle giornate di studio senesi sulla giustizia amministrativa2, sull’onda di un’innovativa pronuncia del Consiglio di Stato3 che sembrava preludere ad una svolta radicale della giurisprudenza, quest’ultima continua ad essere prevalentemente attestata su posizioni tradizionali, che a nostro avviso non tengono più il passo della mutata sensibilità degli operatori nei confronti dell’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva. All’epoca, i giudici di Palazzo Spada, in contrasto con un orientamento giurisprudenziale che, ancorché non unanime4, era sicuramente di gran lunga prevalente, avevano significativamente affermato che «gli elementi essenziali del provvedimento», la cui conoscenza integra la pienezza necessaria ai fini del decorso del termine di impugnazione, «devono consentire di percepirne almeno alcuni vizi, e non solo il carattere sfavorevole per il destinatario»; ciò in quanto «l’effetto lesivo non deriva solo dall’essere il provvedimento sfavorevole, ma dall’essere illegittimamente sfavorevole». Negli anni successivi, non sono certo mancate convinte adesioni a tale nuovo indirizzo, più attento alle esigenze di tutela del soggetto leso, essendo stato frequentemente affermato che «la piena conoscenza del provvedimento amministrativo non può essere legata alla semplice conoscenza del suo contenuto dispositivo sfavorevole, ma occorre anche la consapevolezza dei vizi da cui eventualmente l’atto è affetto, raggiunta solo mediante la valutazione della motivazione. Ciò perché il concetto di “lesione” di un proprio interesse
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Raimondi, La “piena conoscenza” ai fini della decorrenza del termine per ricorrere (Relazione al Convegno su: «Il cittadino e la pubblica amministrazione. Giornate di studio in onore di Guido Corso» - Palermo, 12-13 dicembre 2014), 1 del dattiloscritto; Pietrosanti, Piena conoscenza, termine per impugnare ed effettività della tutela nel rito “super accelerato” ex art. 120, co. 2 bis, c.p.a., in www. federalismi.it, n. 7/2017, 6-7. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi (Intervento alle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, «L’impugnabilità degli atti amministrativi», Siena, 13-14 giugno 2008), in Foro amm. – TAR, 2008, 1193 ss. Sez. VI, 8 febbraio 2007, n. 522, in www.giustizia-amministrativa.it. Nel senso che l’imposizione all’amministrazione dell’obbligo di comunicare integralmente la motivazione del provvedimento «non è fine a sé stessa, ma è correlata al principio secondo cui la piena conoscenza del provvedimento ai fini della decorrenza dei termini di impugnazione presuppone la consapevolezza dei vizi che lo rendono non soltanto incidente nella propria sfera giuridica ma anche lesivo della stessa», già Cons. St., Sez. IV, 15 maggio 1995, n. 320, in Cons. Stato, 1995, I, 620; in Foro amm., 1995, 869; in Giorn. dir. amm., 1995, 826.
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Piena conoscenza e motivazione del provvedimento amministrativo
sostanziale giuridicamente garantito non può essere considerato del tutto avulso ed indipendente da quello di “illegittimità” del provvedimento amministrativo che quell’interesse coinvolge nella realizzazione dei propri fini, dovendo anzi questi due aspetti essere considerati strettamente correlati»5. Tuttavia, se si esamina la giurisprudenza più recente, ci s’imbatte molto spesso nella riproposizione di vecchi concetti, evidentemente ben lungi dall’essere stati definitivamente superati. Soltanto due mesi fa, ad es., è stato ribadito che ciò che è «sufficiente ad integrare il concetto di piena conoscenza, il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne determinano la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente»6. Si continua ad escludere, in sostanza, che la piena conoscenza possa «essere intesa quale conoscenza piena ed integrale del provvedimento che si intende impugnare e delle sue motivazioni»7, le quali rilevano «solo ai fini della successiva proposizione dei motivi aggiunti»8. Assai deludente appare anche l’evoluzione giurisprudenziale con riguardo al caso in cui sia stata presentata istanza di accesso agli atti di un procedimento amministrativo ai fini della loro successiva impugnazione. Mentre negli anni scorsi era stato talvolta affermato che, in siffatta ipotesi, il termine per ricorrere decorre «dalla data in cui l’amministrazione dispone l’accesso, allorquando esso risulti indispensabile per acquisire elementi specifici necessari alla formulazione delle censure del ricorso»9, «ben potendo l’accesso essere finalizzato alle valutazioni preliminari in ordine al se proporre tale azione, e quindi a evitare iniziative giurisdizionali al buio»10, anche di recente si è tornati ad escludere che l’obbligo di consentire agli interessati l’accesso alla documentazione abbia innovato sul punto, essendo pur sempre consentito ovviare al ritardato adempimento dell’amministrazione che detiene i documenti mediante la proposizione di motivi aggiunti11. Sono ormai trascorsi più di vent’anni da quando, nell’analizzare le ripercussioni della disciplina del diritto d’accesso ai documenti amministrativi sull’onere di allegazione dei
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T.A.R. Sicilia-Catania, Sez. I, 23 maggio 2014, n. 1424, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. V, 16 settembre 2011, n. 5191 e 4 gennaio 2011, n. 8, ibidem; Sez. VI, 31 marzo 2011, n. 2006, ibidem. 6 T.A.R. Lombardia-Milano, Sez. II, 3 aprile 2018, n. 884, in www.giustizia-amministrativa.it; nello stesso senso, alcuni mesi prima, Cons. St., Sez. IV, 7 dicembre 2017, n. 5754, ibidem; Sez. VI, 27 novembre 2017, n. 5533, ibidem. 7 T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Trento, 13 ottobre 2017, n. 278, in www.giustizia-amministrativa.it. 8 T.A.R. Liguria, Sez. II, 4 novembre 2014, n. 1533, in www.giustizia-amministrativa.it. 9 T.A.R. Toscana, Sez. III, 20 novembre 2007, n. 4095 e 10 settembre 2007, n. 2338, in www.giustizia-amministrativa.it. 10 T.A.R. Puglia-Bari, Sez. I, 10 gennaio 2008, n. 11, in www.giustizia-amministrativa.it. Cfr., altresì, T.A.R. Lazio-Roma, Sez. I, 11 settembre 2015, n. 11213, ibidem, secondo cui, affinché la piena conoscenza del provvedimento lesivo possa collocarsi già alla data della presentazione dell’istanza di accesso, «è necessario che dalla formulazione della stessa emerga in maniera inequivoca la consapevolezza, da parte dell’istante, del contenuto lesivo del provvedimento; il che è da escludersi allorquando la richiesta riguardi genericamente tutti gli atti del procedimento senza alcun riferimento testuale esplicito al contenuto lesivo del provvedimento finale, dovendosi in ipotesi siffatte ricondurre la data della piena conoscenza solo al momento dell’effettivo rilascio degli atti richiesti». 11 T.A.R. Liguria, Sez. I, n. 1533/2014, cit.; T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III quater, 19 luglio 2012, n. 6669, in www.giustizia-amministrativa.it.
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Fabio Saitta
motivi di ricorso, eravamo pervenuti alla conclusione che, in mancanza di una diversa disciplina della decorrenza dei termini per l’impugnazione, il ricorrente non avrebbe tratto alcun sostanziale beneficio dalla riconosciuta accessibilità ai documenti ed avevamo visto come un segnale confortante la previsione, contenuta nel progetto di legge delega sulla riforma del processo amministrativo allora in cantiere, secondo cui il termine per ricorrere avrebbe potuto decorrere soltanto in presenza di una conoscenza piena e completa del provvedimento da impugnare12. Adesso abbiamo un codice, che però si disinteressa del tutto di questi problemi, ed una giurisprudenza che in gran parte continua ad essere orientata a dare un’interpretazione debole della normativa sostanziale sull’obbligo di motivazione che certo non agevola il consolidamento, sul versante processuale, dell’indirizzo maggiormente garantistico secondo cui la conoscenza integrale della motivazione sta alla base della nozione di piena conoscenza13.
2. Timide aperture: l’impugnativa degli atti di gara e dei titoli edilizi.
Una situazione, dunque, quantomai sconfortante, solo in parte temperata da alcune timide aperture giurisprudenziali. Si allude, innanzitutto, ai ricorsi in materia di procedure di affidamento, nel cui ambito – com’è ben stato evidenziato da chi mi ha preceduto – «si va delineando un orientamento che declina in termini ampiamente garantistici anche il tradizionale concetto di piena conoscenza»14: l’idea di fondo che si sta facendo strada è che il termine decadenziale per ricorrere non decorra sempre dal momento della comunicazione dell’aggiudicazione, ma possa «essere incrementato di un numero di giorni pari a quello necessario affinchè il soggetto (che si ritenga) leso dall’aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell’atto e dei relativi profili di illegittimità ove questi non siano oggettivamente evincibili dalla richiamata comunicazione»15. Ma appare di un certo interesse anche la giurisprudenza in tema di impugnazione dei titoli edilizi, che ha recentemente affermato che, in mancanza della prova della reale conoscenza dei caratteri del progetto assentito, la piena conoscenza idonea a far decorrere il termine per ricorrere può ritenersi raggiunta soltanto con il completamento, «quando le
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F. Saitta, Il sistema probatorio del processo amministrativo dopo la legge n. 241 del 1990: spunti ricostruttivi, in Dir. proc. amm., 1996, 19-25. 13 Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012, 173. 14 Così Martino nella sua ampia ed esaustiva relazione, alla quale si rinvia per maggiori approfondimenti. Da ultimo, sull’individuazione del termine per ricorrere contro gli atti di ammissione/esclusione dalle gare pubbliche, Sandulli, Ancora sui rischi dell’incertezza delle regole (sostanziali e processuali) e dei ruoli dei poteri pubblici, in www.federalismi.it, n. 11/2018, § 1.2. 15 In tal senso, da ultimo, Cons. St., Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 718, in www.giustizia-amministrativa.it.
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Piena conoscenza e motivazione del provvedimento amministrativo
opere abbiano oggettivamente raggiunto una consistenza tale da rendere chiara l’illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante»16. Non mancano, peraltro, decisioni, altrettanto recenti, improntate ad un maggiore rigore nei confronti del potenziale ricorrente, il quale, constatata la presenza di uno scavo, ben potrebbe ricorrere enucleando le censure senza differire il termine di proposizione del ricorso all’avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti già avviata17. Secondo questa impostazione, la richiesta d’accesso non sarebbe, dunque, idonea a far differire il termine per ricorrere, la cui decorrenza resterebbe fissata dalla data del titolo edilizio pubblicata sul cartello di cantiere18. Un rigore, a nostro avviso, davvero eccessivo, mentre ci sembra più ragionevole l’affermazione che, «ove il provvedimento amministrativo sia già conosciuto, l’accesso vale a segnare il dies a quo solo ove costituisca l’occasione per rilevare profili pregiudizievoli che non siano già emersi dal contenuto del provvedimento o dal concreto progredire dei lavori, e sempre che lo stesso non rappresenti un espediente finalizzato a differire nel tempo l’esperimento dell’azione di annullamento»19. Va da sé, poi, che «il ricorrente non può limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso alla relativa documentazione» e, «se lo stato di avanzamento dei lavori è già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica, […] ha, oltre che il diritto, anche l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, in guisa da verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa»20.
3. Il
dies a quo del termine per ricorrere: è sufficiente che sia percepibile la lesività del provvedimento o deve potersene valutare anche l’illegittimità?
Come si evince dalla, pur frettolosa, analisi giurisprudenziale sin qui svolta, la giurisprudenza più recente continua sostanzialmente ad ancorare il concetto di piena conoscenza alla percezione della sola lesività del provvedimento, ergo dell’attualità dell’interesse ad agire contro di esso21, ritenendo, di contro, superflua, ai fini del decorso del termine per l’impugnativa, la possibilità, per il ricorrente, di valutare anche l’illegittimità del provvedimento stesso.
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T.A.R. Sicilia-Catania, Sez. II, 5 ottobre 2017, n. 2303, in www.giustizia-amministrativa.it; nello stesso senso, Cons. St., Sez. IV, 14 febbraio 2017, n. 626, ibidem; T.A.R. Basilicata, Sez. I, 16 settembre 2016, n. 899, ibidem; T.A.R. Campania-Napoli, Sez. VIII, 23 agosto 2016, n. 4049, ibidem. 17 Così Cons. St., Sez. IV, 23 giugno 2017, n. 3067, in www.giustizia-amministrativa.it. 18 Cons. St., Sez. IV, 3 marzo 2017, n. 998, in www.giustizia-amministrativa.it. 19 Cons. St., Sez. IV, 21 gennaio 2013, n. 322, in www.giustizia-amministrativa.it. 20 T.A.R. Sicilia-Catania, Sez. I, 13 marzo 2013, n. 748, in www.giustizia-amministrativa.it. 21 In questi termini, T.A.R. Lombardia-Milano, Sez. II, n. 884/2018, cit.; Cons. St., Sez. IV, n. 5754/2017, cit.; Sez. VI, n. 5533/2017, cit.
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Fabio Saitta
A giustificazione di tale approccio, si è recentemente osservato che, «mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi»22. Senonché, a prescindere dal fatto che, tra conoscenza dell’esistenza e della lesività del provvedimento e conoscenza integrale dello stesso, ci possono essere delle vie di mezzo – ben potendosi, ad es., immaginare che, ai fini del decorso del termine per ricorrere, sia sufficiente la conoscibilità anche di un solo vizio dell’impugnando provvedimento23 –, la surriportata distinzione tra condizione dell’azione e causa petendi, pur astrattamente corretta, non spiega in alcun modo per quale ragione il cittadino dovrebbe essere costretto ad impugnare un provvedimento per lui lesivo senza essere in grado di articolare le censure a sostegno dell’impugnativa, anzi senza nemmeno sapere ancora se il provvedimento stesso presenti dei vizi tali da giustificare una domanda di annullamento.
4. Certezza e stabilità dell’azione amministrativa versus effettività della tutela giurisdizionale (senza trascurare l’analisi economica).
Come evidenziato un mese fa dal Consiglio di Stato nel ribadire il più rigoroso e tradizionale orientamento in tema di dies a quo del termine per impugnare i titoli edilizi, «[la concettualizzazione giuridica (non realistica) dello stato gnoseologico utile ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione, qui avallata, scaturisce dal bilanciamento degli opposti interessi in gioco: assicurare, da un lato, al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo; salvaguardare, dall’altro, l’interesse del titolare del permesso di costruire al sollecito esercizio di detta tutela al fine di evitare situazioni giuridiche d’incertezza, imputabili al colposo differimento dell’impugnazione, lesive ad un tempo dei principi d’affidamento e buon andamento dell’azione amministrativa»24. Già in precedenza, del resto, la giurisprudenza aveva detto chiaramente che, più in generale, la ratio della disciplina del termine per ricorrere dettata dall’art. 41, comma 2, c.p.a. «è nell’esigenza di contemperare il valore della certezza e stabilità dell’azione amministra-
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Così, da ultimo, Cons. St., Sez. IV, n. 5754/2017, cit. In tal senso, Raimondi, op. cit., 7. 24 Sez. VI, 8 maggio 2018, n. 2742, in www.giustizia-amministrativa.it. 23
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Piena conoscenza e motivazione del provvedimento amministrativo
tiva con quello dell’effettività della tutela giurisdizionale»25, per cui «la piena conoscenza del provvedimento non può ritenersi operante oltre ogni limite temporale, atteso che ciò renderebbe l’attività dell’Amministrazione e le iniziative dei controinteressati suscettibili d’impugnazione sine die, in aperta contraddizione con il limite temporale che la legge impone al soggetto di farsi parte diligente»26. Considerazioni in astratto pienamente condivisibili, alle quali, tuttavia, è necessario aggiungere che tale doveroso bilanciamento dei contrapposti interessi non si può tradurre in un’ingiustificata compressione del diritto di difesa del potenziale ricorrente27. In primis, è metodologicamente errato continuare a «dequotare» la motivazione28, che rappresenta lo strumento mediante il quale il cittadino può verificare la legittimità delle scelte amministrative e trarre indicazione su come articolare le censure da eventualmente rivolgere nei confronti del provvedimento che lo lede, al fine di proporre – com’è suo diritto (art. 113 Cost.) – non un ricorso qualsiasi, ma un ricorso che abbia concrete chances di accoglimento29. Com’è stato recentemente ribadito, infatti, «[c]ostringere il cittadino a sopportare i costi di un processo per capire cosa sorregge la decisione che lo riguarda non è solo dannoso sotto il profilo oggettivo, se ci si colloca in una prospettiva sistematicamente coerente con le regole della responsabilità civile, è anche negligente e scorretto»30. Lo stesso Consiglio di Stato, d’altronde, mostra di avere piena consapevolezza di tutto ciò, tanto da affermare che l’art. 3 della legge sul procedimento «non si limita a garantire al destinatario del provvedimento la possibilità di agire tempestivamente in giudizio avverso una determinazione amministrativa lesiva di carattere immotivato, ma è volto a garantire – in senso più ampio – un’adeguata partecipazione procedimentale e la piena e contestuale conoscenza delle ragioni sottese a un atto amministrativo illegittimo e svantaggioso. Non a caso, un consolidato e condivisibile orientamento esclude solitamente la possibilità di applicare il comma 2 dell’articolo 21-octies della l. 241 del 1990 (in tema di cc.dd. ‘illegittimità non invalidanti’) a fronte di un atto amministrativo che non sia stato adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, ma che risulti in radice
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T.A.R. Basilicata, Sez. I, 27 maggio 2017, n. 401, in www.giustizia-amministrativa.it. T.A.R. Campania-Napoli, Sez. VIII, 2 febbraio 2017, n. 696, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. V, 16 febbraio 2015, n. 777, ibidem. 27 Raimondi, op. cit., 4-5. 28 In argomento, da ultimo, Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 2017, 894 ss., la quale rammenta che, tra le molteplici funzioni assolte dalla motivazione, c’è quella di agevolare l’interpretazione del provvedimento amministrativo al fine di consentire un controllo consapevole ed informato dei cittadini sull’attività amministrativa; Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, ibidem, 1235 ss., il quale osserva come tale tendenza presenti vari risvolti processuali, uno dei quali è proprio l’orientamento giurisprudenziale incline ad escludere la motivazione dagli elementi essenziali del provvedimento la cui cognizione determina piena conoscenza (ivi, 1267-1268). 29 Petrosanti, op. cit., 8-9. 30 Puddu, Questioni attuali sul tema della motivazione postuma, in Dir. e proc. amm., 2018, 139; già prima, Merusi, Il principio di buona fede nel diritto amministrativo, in Scritti per M. Nigro, Milano, 1991, II, 224; Raimondi, op. cit., 5, secondo cui la lettura costituzionalmente orientata del concetto di «piena conoscenza» osta ad ammettere che l’interessato debba sostenere l’onere delle spese di difesa e del contributo di iscrizione a ruolo per proporre un ricorso che potrebbe rivelarsi inutile. 26
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carente di motivazione (in tal senso – ex multis – Cons. Stato, V, 27 giugno 2017, n. 3136; id., VI, 7 agosto 2015, n. 3099)»31. Dovrebbe risultare, quindi, di palmare evidenza che, «poiché un provvedimento sfavorevole non è necessariamente illegittimo, il suo destinatario – prima di accollarsi i costi di un’impugnazione – deve poter conoscere se l’atto è o meno affetto da vizi valorizzabili in sede giurisdizionale. […] il gravame contro un atto “al buio”, ignorando se è viziato, grava di costi inutili e gravosi il ricorrente, che rischia anche la condanna alle spese se il ricorso è infondato»32. La stessa analisi economica del diritto, d’altronde, c’insegna che, anche se colui che sia pregiudizialmente ostile a qualsiasi intrusione amministrativa tenderà ad impugnare ogni provvedimento di cui sia destinatario, ancorchè sia perfettamente consapevole di avere torto, e, all’opposto, chi ritenga compito del cittadino conformarsi alle decisioni amministrative rinuncerà a impugnarle anche quando sia convinto della loro illegittimità ed abbia buone chances di ottenerne l’annullamento, in linea di massima, le decisioni dei privati dipendono da una valutazione strategica, come predicato dalla teoria dei giochi; ne consegue che, nel decidere se agire o meno, il ricorrente valuta, di regola, le probabilità di un esito positivo del processo ed i presumibili costi del giudizio33. E allora, se si conviene su tutto ciò e si tiene presente che l’imprevedibilità del giudizio è un fattore disincentivante il ricorso alla giustizia34, sorge spontaneo un interrogativo: siamo sicuri che la ratio sottostante al contestato orientamento in tema di piena conoscenza non sia tanto quella di privilegiare la certezza e stabilità dell’azione amministrativa quanto, piuttosto, quella di scoraggiare ulteriormente (basterebbero invero già il contributo unificato e gli oneri processuali esagerati gravanti sul potenziale ricorrente, come ad es., quello di impugnare immediatamente le ammissioni degli altri concorrenti alle gare d’appalto35) il ricorso al giudice amministrativo? Come disse qualcuno tempo addietro, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.
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Sez. V, 4 agosto 2017, n. 3907, in www.giustizia-amministrativa.it. T.A.R. Lombardia-Brescia, Sez. II, 19 novembre 2010, n. 4660, in www.giustizia-amministrativa.it. 33 Napolitano – Abrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, 2009, 280. 34 D’Alessandro, La durata eccessiva del processo civile tra dinamiche interne al sistema della giustizia e cause macrosociali, in www. judicium.it (ottobre 2017), § 2.3. 35 Com’è noto, la previsione in tal senso contenuta nell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. è stata recentemente ritenuta di dubbia compatibilità con la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela: T.A.R. Piemonte, Sez. I, ord. 17 gennaio 2018, n. 88, in www.giustizia-amministrativa.it. 32
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Le dottrine del processo amministrativo telematico Sommario : 1. Le due (incerte) dottrine del P.A.T. – 2. Le innovazioni derivanti dal P.A.T.: costi e limitazioni di accesso alla giustizia. – 2.1. La necessità di ripensare le categorie dogmatiche: il caso del deposito del ricorso. – 3. Limiti e prospettive delle due dottrine del P.A.T. – 4. Il P.A.T. e il dibattito tra norme tecniche e norme giuridiche.
Lo scritto analizza le due principali impostazioni che si sono evidenziate nel primo periodo di applicazione del processo amministrativo telematico (cd. P.A.T.); la prima tendente a restringere l’innovatività del nuovo sistema alle sole modalità di redazione e trasmissione degli atti processuali e la seconda più incline a valutare nello specifico le sostanziali modificazioni delle regole processuali che derivano dal passaggio al telematico. In questa seconda prospettiva, sono analizzate due problematiche relative al ruolo che viene ad assumere la difesa personale della parte prevista dall’art. 23 del codice del processo amministrativo nel nuovo sistema ed alla nuova struttura sistematica del deposito degli atti processuali con modalità telematiche. Chiude lo scritto un primo tentativo di ambientare la regolamentazione dei processi telematici prescelta dal legislatore italiano nel dibattito moderno sul ruolo rispettivo delle norme giuridiche e delle norme tecniche The Author analyzes the two main settings that emerged in the first period of application of the electronic administrative trial (so-called P.A.T.); the first one tends to restrict the innovativeness of the new system to the modalities of drafting and transmitting the procedural documents and the second more inclined to evaluate specifically the substantial modifications of the procedural rules deriving from the passage to the telematic system. In this second perspective, two problems are analyzed regarding the role that the personal defense of the part foreseen by the art. 23 of the administrative process code in the new system and the new systematic structure of the filing of procedural documents by electronic means. The paper closes a first attempt to set the regulation of the telematic processes chosen by the Italian legislator in the modern debate on the respective role of legal norms and technical standard.
1. Le due (incerte) dottrine del P.A.T. Come ampiamente noto, gli scritti di Giovanni Tarello destinati alla formazione del codice di procedura civile del 1940 e ai “padri” del nostro diritto processuale civile sono stati
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raccolti in un volume1 intitolato alle dottrine del processo civile; una volta entrato in vigore il processo amministrativo telematico (di seguito indicato come P.A.T.2), verrebbe pertanto da chiedersi quali siano le dottrine del P.A.T., chi ne sia il “padre fondatore” e in quale sede si sia svolto il dibattito dottrinale che ha preceduto l’approvazione e l’entrata in vigore di un’innovazione destinata a modificare in maniera importante una serie di caratteristiche fondamentali del nostro diritto processuale amministrativo. Si tratta però di domande destinate a rimanere senza risposta; i tempi sono, infatti, decisamente cambiati e le riforme del diritto processuale non sono più precedute dall’elaborazione e da un dibattito tra gli studiosi, ma sono approvate e basta (nel caso del P.A.T. con la mediazione solo di un parere del Consiglio di Stato sul regolamento applicativo e qualche “tavolo tecnico” di incerta legittimazione), salvo poi essere valutate dalla dottrina e dai pratici solo in via successiva, con le relative (e spesso feroci) critiche. Il dibattito dottrinale in ordine alle riforme processuali tende pertanto a spostarsi dal periodo precedente all’approvazione della riforma alla fase successiva di valutazione e critica delle innovazioni; estendendo all’ambito processuale quello che Jorge Luis Borges ha scritto con riferimento a Kafka (e ad ogni scrittore) verrebbe da dire che, come “ogni scrittore crea i suoi precursori3”, anche le riforme processuali oggi evidenziano i propri precursori e le proprie dottrine solo a posteriori, ovvero dopo la loro entrata in vigore. Qualcosa di simile è accaduto anche con il P.A.T. che non è stato praticamente preceduto da un’elaborazione dogmatica da parte degli studiosi del diritto processuale amministrativo, ma solo nell’approssimarsi della sua entrata in vigore (e dopo il suo avvento) ha cominciato ad originare un dibattito che ha evidenziato due diverse impostazioni che è certo eccessivo chiamare dottrine4, ma che ben evidenziano i diversi modi dei giuristi di rapportarsi al nuovo processo telematico ed in definitiva all’innovazione tecnologica.
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Tarello, Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile, Guastini - Rebuffa (a cura di), Bologna, 1989. Tra i primi scritti in materia, si segnalano: Corona, Processo amministrativo telematico: regole e specifiche tecniche, in www.altalex. com, 2016; Fantigrossi, Per un processo amministrativo telematico giusto, in www.lexitalia.it, 2016, 1; Freni - Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, Milano, 2016; Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, in Urb. e appalti, 2016, 6, 632; Tamburro, Il processo amministrativo telematico (PAT), Vicalvi, 2016; Pisano, Il processo amministrativo telematico e la l. n. 132/2015, in Libro dell’anno del diritto-Encicl. giur. Treccani, Roma, 2016, 726; Volpe, Sarà davvero efficiente il processo amministrativo telematico?, in www.lexitalia.it, 2016, 2; Id., Il regime transitorio del processo amministrativo telematico, ivi, 2016, 6; Freni - Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, Milano, 2017; D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, in www.giustizia-amministrativa.it (si tratta di una delle relazioni al convegno sul P.A.T. organizzato dal Consiglio di Stato e svoltosi il 12 maggio 2017); Pisano, Prime riflessioni sull’avvio del PAT, tra principio di sinteticità e regime transitorio, in Giorn. dir. amm., 2017, 1, 41; Id. (con la collaborazione di Carollo - Barbujani), Il processo amministrativo telematico, Roma, 2017; Id., Commento all’art. 136 c.p.a. ed agli artt. 1-7 disp. att., in Chieppa (a cura di), Codice del processo amministrativo, Milano, 2017, 802 e ss.; Volpe, Il pat si regge su un sistema chiuso, www.lexitalia.it, 2017, 1; Id., Per la chiarezza di idee sulla forma digitale dell’atto processuale dopo l’entrata in vigore del p.a.t., ivi, 2; chi preferisce gli scritti a carattere compilativo, può leggere Trizzino, Il processo amministrativo telematico, in Libro dell’anno del diritto – Encicl. giur. Treccani, Roma, 2017, 723. Borges, Altre inquisizioni, (1952), ora in Id., Tutte le opere, I, Milano, 1984, 1009. In un precedente scritto (Viola, I diversi modi di guardare al P.A.T. e le strategie di adattamento dell’ambiente forense, in www. lexItalia.it, 2018, 4; § 1) si è pertanto preferito parlare di “due modi diversi di guardare al P.A.T.”, così sottolineando che non si tratta ancora di due orientamenti dottrinali compiuti.
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Il primo orientamento, che potremmo definire come “minimale”, tende a vedere nel P.A.T. una modificazione solo delle caratteristiche “esteriori” di formazione e deposito degli atti processuali che resterebbero sostanzialmente regolamentati dagli istituti del diritto processuale amministrativo sedimentati nel corso della pluridecennale (se non secolare) evoluzione del processo nella sua versione “cartacea”; con tutta evidenza, si tratta pertanto di un’impostazione che tende a restringere le modificazioni derivanti dall’informatizzazione del processo alle sole modalità “esterne” di manifestazione o di deposito/archiviazione degli atti processuali (siano essi delle parti o del giudice) e che ha trovato espressione nella plastica (e fortunata) formulazione secondo la quale “in fondo si tratta solo di mandare una PEC”5. A ben guardare, si tratta poi di un’impostazione che rispecchia, da un lato, il modo più generale di rapportarsi all’innovazione tecnologica di molti di noi (sostanzialmente caratterizzato da una qualche forma di “sottovalutazione” o addirittura rifiuto che appare poi destinata a scontrarsi con la realtà delle, spesso pesanti, modificazioni derivanti dall’avvento delle nuove tecnologie); dall’altro, appare evidente come si tratti di impostazione che appare sostanzialmente in linea ed è stata, in un certo senso, anche favorita dalle scelte sistematiche rispecchiate dalla stessa normativa fondamentale in materia di P.A.T. Come ampiamente noto, il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) ha operato, per quello che riguarda l’introduzione del processo amministrativo telematico, una scelta sistematica (cristallizzata nella disposizione dell’art. 13, 1° comma del Titolo IV delle disposizioni di attuazione al codice) che rinvia sostanzialmente ad un regolamento la definizione delle “regole tecnico-operative” del nuovo processo amministrativo digitale e, in definitiva, la stessa introduzione nell’ordinamento del cd. P.A.T.6. L’opzione per la sede regolamentare è stata giustificata, nella Relazione di accompagnamento al Codice del processo amministrativo, sulla base della necessità di assicurare i due requisiti fondamentali della flessibilità e tempestività di adattamento alle novità tecnologiche, in un contesto caratterizzato da una forte tecnicità e da una rapida obsolescenza dei sistemi: “il rinvio ad una normativa di livello regolamentare è stato ritenuto lo strumento
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Fantigrossi, Per un processo amministrativo telematico giusto, cit., par. 3 che ha formulato una delle prime critiche all’impostazione “minimalistica”; la posizione che potenzia il carattere “neutro” dell’introduzione delle tecnologie informatiche nel processo amministrativo è ben espressa da Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, in Foro amm., 2016, 2535; Nuovo dir. amm., 2016, 6, 135; www.giustizia-amministrativa.it; Aa.Vv., L’Italia che cambia: dalla riforma dei contratti pubblici alla riforma della pubblica amministrazione, Milano, 2017, par. 6.1 che rileva come “a differenza di quanto si è detto a proposito della spinta verso la razionalizzazione e semplificazione del procedimento amministrativo che proviene dalla sua digitalizzazione, nel processo amministrativo il ricorso agli strumenti telematici non ... (possa) certo incidere sulla struttura e sul modo di atteggiarsi dell’attività giurisdizionale, ma si present(i) come la mera messa a disposizione degli utenti di mezzi più rapidi e funzionali per lo svolgimento di alcune attività prima svolte presso le cancellerie o tramite gli ufficiali giudiziari” e limita le conseguenze dell’introduzione del P.A.T. ad una “nuova forma di comunicazione tra i soggetti del processo” (in un certo senso, si tratta di opinione particolarmente rappresentativa, trattandosi della relazione al LXXI convegno di studi di scienza dell’amministrazione tenutosi a Varenna il 22-24 settembre 2016). Una parte della dottrina (Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, in Freni - Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 9) ha però rilevato come, letteralmente, il potere regolamentare investisse “la sperimentazione, la graduale applicazione… (e) l’aggiornamento del processo amministrativo telematico” e non l’introduzione dello stesso.
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più idoneo per consentire l’introduzione del processo amministrativo telematico, analogamente a quanto avvenuto con il d.m. 17 luglio 2008 che ha fissato le regole tecnicooperative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile. Lo strumento regolamentare ha, infatti, il pregio della flessibilità e della tempestività di adeguamento, caratteristiche essenziali in un settore connotato da una continua evoluzione7”. Ed è sostanzialmente su questa linea ricostruttiva, tesa a valorizzare i pregi dell’opzione per la sede regolamentare in un contesto indubbiamente caratterizzato da una rapida evoluzione, che si è immediatamente attestata la prima dottrina relativa al P.A.T., che ha spesso sottolineato come il legislatore abbia “demandato ad una fonte di rango regolamentare il compito di disciplinare dettagliatamente il processo amministrativo telematico (analogamente a quanto avvenuto con i D.M. che hanno fissato le regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile), in quanto strumento maggiormente in grado di recepire i nuovi adeguamenti tecnologici8”. Con tutta evidenza, si tratta però di una scelta sistematica che presuppone e ben si inserisce nella “linea ricostruttiva minimalista” sopra richiamata; si può affidare ad un testo regolamentare separato la disciplina delle modalità di funzionamento del P.A.T. proprio perché si ritiene che queste modalità non modifichino (e non possano modificare) le regole giuridiche assicurate dal testo normativo di livello primario (il codice del processo amministrativo); come dire, che il regolamento è il luogo deputato a regolamentare le sole modalità di trasmissione/trattamento degli atti processuali, mentre il codice del processo amministrativo continua a rimanere il luogo di definizione delle regole giuridiche del processo. Appena dopo l’emanazione del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico), destinato a regolamentare il processo amministrativo telematico, una parte importante della dottrina ha però sostanzialmente mutato registro ed ha iniziato a sollevare una serie di dubbi in ordine alla stessa compatibilità con la riserva di legge in materia processuale di cui all’art. 111, 1° comma Cost. (ovviamente, nel testo modificato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2) dell’opzione normativa per la disciplina regolamentare del P.A.T.: “essendovi in materia processuale riserva assoluta di legge, ciò che si può demandare alla fonte regolamentare/tecnica sono solo le disposizioni che traducono in modalità tecniche le regole processuali fissate da fonte primaria9”.
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Relazione al Codice del processo amministrativo in www.giustizia-amministrativa.it. Pisano, Manuale di teoria e pratica del processo amministrativo telematico, Milano, 2013, 19; Id., Il processo amministrativo telematico (PAT), in Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 1322. Sulla stessa linea ricostruttiva della Relazione al Codice, sono anche Chieppa, Il processo amministrativo dopo il correttivo al codice - Le novità apportate al giudizio amministrativo dal correttivo al codice (d.leg. 15 novembre 2011 n. 195) e i primi orientamenti della giurisprudenza, Milano, 2012, 815 e Liguori, Commento all’art. 13 disp. att., in Leone - Maruotti- Saltelli, (a cura di), Codice del processo amministrativo, d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104 – Commentato e annotato con giurisprudenza, Padova, 2010, 1031 e ss. De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, Milano, III ed., 2016, 2680; Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, cit., 632 ritiene di poter giustificare l’opzione per la fonte regolamentare sulla base della risalente tradizione di “apertura” del processo amministrativo (per moltissimi anni regolamentato dal r.d. 17 agosto 1907, n. 642 e dall’ordinanza
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Del resto, si tratta di un dubbio sistematico di non poco momento e caratterizzato da immediati (e possibili) rischi applicativi che era stato immediatamente (e fortemente) avvertito già dal parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento applicativo dell’art. 13 disp. att. c.p.a. e che, in termini più direttamente applicativi, aveva già rilevato un possibile contrasto con alcune previsioni del codice (quelle di cui agli artt. 1, 2 nella parte non abrogata, 3, comma 1, 4 e 7 dell’Allegato II al Codice ed in generale, con le disposizioni processuali in materia di “procura alle liti, deposito degli atti processuali, comunicazioni di segreteria e notificazioni”) ed il rischio di “problemi interpretativi e di coordinamento fra norme … (e) di disapplicazione o impugnazione, mettendo così a repentaglio la piena operatività del processo telematico10”. L’evidente problematicità dell’intero sistema11 è stata poi notevolmente ridotta dallo stesso legislatore che ha successivamente e sostanzialmente cambiato registro, provvedendo, con l’art. 7 del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197), ad operare quella trasposizione a livello normativo delle più importanti regole del nuovo P.A.T.12 necessaria a neutralizzare, almeno in parte, il rischio di disapplicazione evidenziato dal parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di quello che sarebbe poi divenuto il d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40; in buona sostanza, si è pertanto passati da una prima linea ricostruttiva che confinava alla sede regolamentare le regole applicative del P.A.T. ad una nuova strutturazione che inserisce almeno parte di queste norme nel codice del processo amministrativo e, per certi versi (per quello che riguarda la possibilità per i collegi di primo grado di deferire all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni relative all’interpretazione delle norme in tema di processo amministrativo telematico prevista dal nuovo art. 13-bis del c.p.a. o la particolare composizione del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa quando debbano essere adottate “misure finalizzate ad assicurare la migliore funzionalità del processo amministrativo telematico” prevista dall’art. 7, 7° comma del d.l. 31 agosto 2016, n. 168),
1° marzo 1954, n. 38 del Presidente del Consiglio di Stato) alla fonte regolamentare, non avvedendosi così delle rilevantissime novità derivanti dall’intervento del nuovo testo dell’art. 111, 1° comma della Costituzione. Per l’approfondimento della problematica della compatibilità tra l’opzione per la sede regolamentare e la previsione dell’art. 111, 1° comma Cost., si rinvia a Viola, Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, www.federalismi.it, 2016, 22, 2; Id. Giusto processo e processo amministrativo telematico: un rapporto difficile, in Urb. e appalti, 2017, 2, 181; sulla questione, si veda anche D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 6. 10 Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016, in www.LexItalia.it, 2016, 2; www.giustiziaamministrativa.it. 11 Ulteriormente complicata dalla scelta operata dal d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 per un sistema dualistico, organizzato sulla compresenza di regole tecniche (i 21 articoli del d.P.C.M. caratterizzati dal carattere regolamentare e la cui modificazione è soggetta all’iter previsto per i regolamenti) e specifiche tecniche (i 18 articoli di cui all’Allegato A al d.P.C.M., modificabili e aggiornabili mediante la più snella procedura di cui all’art. 19, 2° comma del regolamento); sulla problematica, si rinvia a R. De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo - Formulario commentato, cit., 2680; contra, Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, cit., 14, sulla base di un’interpretazione restrittiva che riferisce la previsione dell’art. 19, 2° comma del d.P.C.M. alla modificazione dei soli “parametri tecnici che risultano non più compatibili con l’evoluzione tecnologica” siano essi compresi nel regolamento o nell’Allegato A. 12 Particolarmente importanti, appaiono, in questa prospettiva, l’introduzione del cd. domicilio digitale operata dall’art. 7, 1° comma lett. a) del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 e le modificazioni alle previsioni degli artt. 3, 4 e 5 disp. att. al c.p.a. disposte dal secondo comma della disposizione.
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attribuisce alle norme in materia di P.A.T. addirittura valore di “supernorme13” sottoposte ad un regime diverso rispetto alle ordinarie regole processuali. Ai fini che ci occupano assume però indubbia rilevanza il fatto che la “rilegificazione” delle norme relative al P.A.T. operata dall’art. 7 del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197) abbia costituito la sostanziale e migliore smentita (e il parziale abbandono) della prima e originaria scelta sistematica che attribuiva carattere secondario e neutrale al passaggio al telematico, ritenendo che si trattasse di modificazioni incidenti solo sull’aspetto esteriore del processo (quell’impostazione minimizzante sintetizzata nella frase: “in fondo si tratta solo di mandare una PEC”) e non di innovazioni destinate ad incidere sulle coordinate fondamentali del sistema. Del resto, anche sotto un profilo più generale, non è possibile farsi molte illusioni sul carattere “neutro” dell’introduzione delle nuove tecnologie e sull’effettiva possibilità di poter vedere all’opera un processo amministrativo immutato, se non per i supporti digitali e telematici utilizzati; a questo proposito, merita pertanto approvazione la lungimirante rilevazione della dottrina in ordine all’impossibilità di ravvisare campi “in cui la rivoluzione digitale non abbia condotto a modificare il modo di operare e la stessa natura degli operatori (dal mondo dell’informazione, al turismo, ai trasporti, ecc.). Non c’è dubbio quindi che anche la giustizia e i processi subiranno modifiche ben più sostanziali di quelle che si prospettano in questa fase di esordio dell’informatizzazione14”. Proprio sulla base di considerazioni di questo tipo, una parte della dottrina ha pertanto ritenuto di poter ravvisare nell’introduzione del P.A.T. una vera e propria rivoluzione copernicana: “gli esperti di informatica giuridica sanno che dietro ad una apparente innocenza (del resto, anche nella favola di Cappuccetto Rosso il Lupo arrivò travestito da nonna) si nasconde una vera e propria rivoluzione copernicana del processo amministrativo15”. In definitiva, i richiami sopra effettuati evidenziano la presenza nella dottrina di un secondo orientamento che appare decisamente più incline ad analizzare nel concreto le
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Sulla questione, si rinvia a Viola, Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, cit., 18; Id. Giusto processo e processo amministrativo telematico: un rapporto difficile, cit., 189. 14 Fantigrossi, Per un processo amministrativo telematico giusto, cit., par. 3, che continua rilevando, molto incisivamente, come “l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della telematica … (abbia) portato a vere e proprie rivoluzioni. Basti pensare alle Borse valori, dove con il passaggio dalle contrattazioni nei recinti delle grida alle contrattazioni on line si è addirittura eliminata totalmente dall’ordinamento una categoria di professionisti (gli agenti di cambio)”; è pertanto da sperare che alcuni principi e garanzie processuali non facciano, dopo l’avvento del P.A.T., la fine degli agenti di cambio. 15 Pisano, Il processo amministrativo digitale o “Al lupo! Al lupo!”, in www.federalismi.it, focus T.M.T., 2015, 1, 3; in questa prospettiva di “cambio di paradigma” del processo, si veda, per il processo civile telematico, Lettieri - Fabiani, Dati, computazione, scienza: estendere i confini del processo civile telematico, in Foro it., 2016, V, 53, con riferimento alle nuove prospettive di analisi che derivano dall’informatizzazione del processo. La ricostruzione in termini di vera e propria “rivoluzione copernicana del processo amministrativo” è, in buona sostanza, avvalorata anche da chi utilizza toni più soft e appare più aperto alla nuova disciplina regolamentare del processo amministrativo, come Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, cit., 633 che vede nel P.A.T. un vero e proprio “ordinamento processuale in sé concluso, che è l’ordinamento del processo telematico; questo processo, ferme restando le caratteristiche essenziali del processo amministrativo ordinario può ben essere retto da una disciplina specifica e particolare, che dipende da un lato dalle caratteristiche del sistema telematico, dall’altro dalle potenzialità del medesimo”; parlare di ordinamento processuale autonomo soggetto alle sole caratteristiche essenziali del processo amministrativo codicistico significa, infatti, ammettere il carattere innovativo e modificativo delle “vecchie” regole processuali delle nuove regole poste a base del P.A.T.
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modificazioni degli istituti processuali derivanti dal passaggio al telematico, in una visione delle cose “disincantata” e realistica che si propone di analizzare la realtà, per come si manifesta al giorno d’oggi, accettando la tecnologia e confrontandosi in concreto con le modificazioni che discendono dal ricorso alle nuove tecnologie. Del resto, si tratta di un dualismo di prospettive che non si è evidenziato solo nel diritto processuale amministrativo, ma anche nell’esperienza (peraltro meno caratterizzata dal ricorso all’informatizzazione rispetto al processo amministrativo) del processo civile telematico che ha registrato l’emersione di tesi tendenti a svalutare l’impatto delle nuove tecnologie su un sistema processuale che resterebbe, in fondo, immutato16 e di tesi che, al contrario, hanno ampiamente sottolineato le profonde innovazioni derivanti dal ricorso ad un sistema processuale telematico: “una rivoluzione del genere non può non comportare una profonda modifica del diritto processuale che necessita di essere integrato e/o modificato per renderlo al passo con l’avanzare della tecnologia. Sono lontani ormai i tempi in cui si affermava che l’obiettivo del processo telematico era quello di creare un sistema applicabile a tutti i modelli processuali, senza però modificare in alcun modo le disposizioni che li regolano. Oggi ormai si è compreso che l’informatica non svolge più soltanto una funzione servente e che la conversione delle modalità cartacee in quelle digitali non potrà lasciare invariato il sistema processuale17”. In questa seconda prospettiva tesa ad evidenziare le modificazioni concrete derivanti dall’entrata in vigore del P.A.T. saranno proposte, nelle prossime pagine, alcune considerazioni, articolate in una prospettiva che tenderà ad essere il più possibile law in action e relative all’aspetto dei costi e dell’accesso alla giustizia ed alla necessità di ripensare, anche radicalmente, le categorie processuali finora utilizzate (in questo caso, con riferimento esemplificativo all’istituto del deposito del ricorso); seguiranno un paragrafo destinato ad una piccola ripresa delle due dottrine del P.A.T. sopra richiamate tesa ad evidenziare alcuni limiti e qualche possibilità delle due impostazioni ed un paragrafo finale destinato all’“ambientazione” della vicenda all’interno del dibattito odierno sui rapporti tra diritto e tecnica.
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“Va infatti sottolineato sin d’ora che se da un lato il processo telematico non è un nuovo processo, bensì solo un processo con nuovi strumenti, dall’altro lato nel contesto di questi nuovi strumenti il documento informatico rappresenta l’elemento centrale”: Ferrari, Il codice dell’amministrazione digitale e le norme dedicate al documento informatico, in Riv. dir. proc., 2007, 2, 415, par. 7. 17 Brunelli, Misure minime di sicurezza per gli atti processuali digitali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, par. 2; Lettieri - Fabiani, Dati, computazione, scienza: estendere i confini del processo civile telematico, cit., 53 ss., con riferimento a più avanzate e futuribili intersezioni tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e le I.C.T. (Information and Communication Technology); Fabbrini, Il processo civile telematico, tra interpretazione del vigente e future evoluzioni, in Giusto proc. civ., 2013, 271 ss.
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2. Le innovazioni derivanti dal P.A.T.: costi e limitazioni di accesso alla giustizia.
L’introduzione delle nuove tecnologie in ambito processuale è una storia che viene “narrata”, in assoluta prevalenza con riferimento esclusivo ai recuperi di efficienza derivanti dal passaggio alle nuove tecnologie18; ed in effetti, al di là dei dubbi espressi da una parte della dottrina19, appare veramente impossibile negare il recupero di efficienza derivante dall’entrata in vigore del P.A.T. (se non altro, per effetto dall’introduzione della firma digitale dei provvedimenti giurisdizionali e della conseguente riduzione dei tempi di deposito delle decisioni); da non sottovalutare è poi la riduzione complessiva dei costi di gestione del sistema (soprattutto relativi al personale addetto alle segreterie degli uffici giudiziari) che rappresenta, probabilmente, un’occasione storica per ridisegnare una Giustizia amministrativa meno costosa in termini generali e più centrata sul personale di magistratura, piuttosto che sul personale amministrativo20. L’introduzione del P.A.T. è però suscettibile anche di un’altra “narrazione” in termini di riduzione dei costi di giustizia e più facile accesso al processo amministrativo dei cittadini. A questo proposito, chi scrive ed altri autori21 hanno già in passato sottolineato come il nostro processo amministrativo sia caratterizzato da altissimi costi di giustizia (sia riconoscibili, come per il livello davvero molto alto del contributo unificato, sia occulti, come per l’obbligo praticamente generalizzato di utilizzare il patrocinio dell’avvocato o per le tariffe forensi caratterizzate da compensi professionali più alti di quelli relativi al settore civile) che operano una sostanziale funzione di “selezione” nell’accesso alla giustizia, sia per quello che riguarda gli interessi tutelabili (che si restringono agli interessi di maggiore rilievo economico, visto l’effetto “dissuasivo” degli alti costi di giustizia), che per quello che riguarda la “platea” dei possibili ricorrenti (ristretta, anche in questo caso, dagli alti costi di accesso alla giustizia). In questa prospettiva, l’avvento del P.A.T. appare sicuramente destinato, sotto un primo profilo, a determinare un (piccolo) effetto di riduzione dei costi di accesso alla giustizia derivante, sia dall’abbandono del “cartaceo” (che veniva ad integrare, pur sempre, un co-
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Espressione di questa logica sembra essere il fatto che la voce relativa al processo civile telematico dell’Enciclopedia del diritto (Zan, Processo civile telematico, in Encicl. dir.-Annali, Milano, 2007, vol. I, 982) sia stata affidata ad un docente di teoria dell’organizzazione (anche se autore di studi in campo giudiziario) piuttosto che ad un processualcivilista; vedremo cosa succederà con il processo amministrativo. 19 Volpe, Sarà davvero efficiente il processo amministrativo telematico?, cit. che, per la verità, radica le proprie critiche sul mantenimento dell’autonomia del P.A.T. rispetto al processo civile (e, più in generale, della Giustizia amministrativa rispetto all’A.G.O.) e sull’affidamento della gestione del servizio informatico ad un concessionario. 20 Si veda, a questo proposito, quanto efficacemente rilevato da Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, cit., 6.2. in ordine alla necessaria riconversione di una parte dei funzionari amministrativi nell’Ufficio per il processo istituito dall’art. 8 del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197. 21 Si vedano, soprattutto, Viola, Introduzione breve all’analisi economica della responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Giurisd, amm., 2006, II, 331; Id., Giurisdizione condizionata e azione risarcitoria nei confronti della p.a: le incertezze della Corte costituzionale, ivi, 2008, 219; Saitta, Appunti preliminari per un’analisi economica del processo amministrativo, in A.I.P.D.A. (Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo), Analisi economica e diritto amministrativo, Milano, 2007, 285 e ss.
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sto a carico del ricorrente, vista la spesso enorme quantità di fotocopie da predisporre, con i relativi costi in termini di denaro e tempo22), sia dalla (piccola) riduzione dei tempi di attesa che potrà derivare dall’introduzione della firma digitale dei provvedimenti giurisdizionali ed in generale, dal recupero di efficienza dell’intero sistema23; da non sottovalutare, in questa prospettiva, è poi soprattutto la riduzione dei costi di accesso alla giustizia che deriva dalla “smaterializzazione delle procedure” e dalla prospettiva di eseguire a distanza adempimenti processuali (soprattutto deposito di ricorsi e atti del processo), senza la pratica necessità di utilizzare domiciliatari24. Soprattutto la possibilità di gestire “a distanza” il giudizio amministrativo (soprattutto di appello) attraverso la progressiva entrata a regime del cd. domicilio digitale o virtuale25 viene ad integrare quindi realmente una “rivoluzione copernicana” nella politica degli ultimi anni tesa a ridurre sostanzialmente l’accesso alla giustizia, attraverso una politica “occulta” (ma poi neanche tanto, trattandosi di caratterizzazione immediatamente evidente a chiunque, a diverso titolo, abbia a che fare con la giustizia amministrativa) di aumento dei costi di accesso al sistema; pur estremamente positiva, si tratta però di una modificazione sostanziale nell’accesso concreto alla giustizia che non risulta per nulla pubblicizzata (come, forse, sarebbe stato possibile) o valutata ai fini dell’opportunità (o meno) di “dare il via” al P.A.T., come risulta, al contrario, essere avvenuto nell’analogo esempio del processo amministrativo telematico francese (assicurato dall’applicazione Télérecours e dagli artt. R414-1 del code de justice administrative26) la cui progressiva introduzione risulta essere stata preceduta da valutazioni concrete riferite, non solo all’efficienza complessiva del sistema, ma anche ai costi di giustizia ed all’accessibilità degli utenti alla tutela giurisdizionale (particolarmente importante in un sistema che, a differenza del nostro, non prevede l’obbligatorietà del patrocinio dell’avvocato per una “fetta” importantissima del contenzioso di primo grado).
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La rilevazione si riferisce, ovviamente, al processo amministrativo telematico “a regime” e non alla fase transitoria in cui l’insistenza (ad avviso di chi scrive, eccessiva) sull’obbligo di depositare la cd. copia di cortesia (o le copie di cortesia nella prassi di alcuni Tribunali) rischia di vanificare un vantaggio non disprezzabile del passaggio al telematico. 23 In questo senso è orientato anche Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, cit., 9, che parla di “notevole riduzione degli aggravi amministrativi per l’attività dei difensori”. 24 Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, cit., 636 che rileva come “sarà facilmente possibile per chiunque sia operatore del processo agire avanti a tutti i Tribunali Amministrativi Regionali e avanti al Consiglio di Stato in modo diretto, con un’evidente riduzione dei costi”. 25 Napolitano, Il domicilio digitale, in Freni - Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 28 e ss.; Chieppa, Commento all’art. 25, in Chieppa (a cura di), Codice del processo amministrativo, cit., 141. 26 Sul processo amministrativo digitale francese, si rinvia, in lingua italiana, a Viola, Processo amministrativo telematico e accesso alla giustizia: il pasticcio italiano e la soluzione francese, in www.federalismi.it, 2016, 18, 4; Id., Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, cit., 10; Id., Giusto processo e processo amministrativo telematico: un rapporto difficile, cit., 189; in lingua francese, a Barray - Boyer, Contentieux administratif, Paris, 2015, 75; Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées? in J.C.P. A (Administrations et collectivités territoriales), 2016, 1, 2; Caprioli - Choukri, De la dématérialisation des contentieux au contentieux de la dématérialisation. État des lieux des procédures sur Télérecours, ivi, 7, 30 ; Pastor - Poupeau, Justice administrative : vers un usage obligatoire de Télérecours, in Dalloz avocats, 2015, 323 ; Bailleul, Le procès administratif, Paris, 2014, 64.
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In buona sostanza, si tratta pertanto di una conseguenza “occulta” (anche se, per una volta, positiva) di una scelta politico-amministrativa che non risulta per nulla percepita e valutata in tutte le sue implicazioni dai decisori pubblici. Sotto altro profilo, la strutturazione del P.A.T. viene però ad integrare anche un sostanziale aumento dei costi di accesso alla giustizia ed una riduzione delle possibilità di accesso da parte degli utenti; anche in questo caso, si tratta di una conseguenza “occulta” e sostanzialmente non valutata in tutte le sue implicazioni e che, per essere svelata, richiede una sintetica ricostruzione dei prerequisiti necessari per presentare un ricorso, nella nuova sistematica del P.A.T. Senza procedere ad inutili (e sovrabbondanti) analisi delle diverse prescrizioni del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, appare, a questo proposito, di tutta evidenza come la presentazione e gestione di un ricorso giurisdizionale amministrativo richieda, nella sistematica del P.A.T., almeno tre prerequisiti, costituiti da una posta elettronica certificata (cd. P.E.C., definita dal d.P.C.M. 40 del 2016, come un “sistema di posta elettronica nel quale è fornita al mittente documentazione elettronica attestante l’invio e la consegna di documenti informatici”), da una firma digitale (definita dal d.P.C.M. già citato in termini di “firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici”) e di un’abilitazione ad interagire con il nuovo sistema informativo della giustizia amministrativa (cd. S.I.G.A.), necessaria per procedere all’eventuale deposito del ricorso in modalità upload e/o comunque per accedere al sistema e seguire l’evoluzione del processo27; in mancanza di questi tre prerequisiti risulta, infatti, impossibile presentare un ricorso, difendersi in giudizio o risultare destinatari delle comunicazioni previste dal codice del processo amministrativo. Del resto, la necessità di essere in possesso dei tre prerequisiti sopra richiamati è espressamente confermata, anche con riferimento alla “parte privata, nei casi in cui è autorizzata a stare in giudizio personalmente”, dai commi 3 e 4 dell’art. 9 dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 4028; al di là dell’evidente improprietà dell’inserimento di norme che incidono sul diritto alla difesa personale all’interno delle cd “specifiche tecniche” del P.A.T., appare di tutta evidenza come si tratti di una norma che trova una copertura solo
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Nello stesso senso, si veda anche D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 2. 28 In questo senso, si veda De Nictolis (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, cit., 2694; il combinato disposto degli artt. 6, 8° comma e 9, 4° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (nella parte in cui limita il ricorso al deposito tramite upload della parte privata che eserciti il diritto di autodifesa alle sole ipotesi di “mancato funzionamento del sistema informatico”) esclude la possibilità di recepire la tesi dottrinale (D’Auria, Il deposito, in Freni - Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 89) che ha prospettato il diritto della parte privata che eserciti il diritto di autodifesa di utilizzare la modalità di deposito mediante upload “nel caso non sia munita di una PEC … utilizzando le credenziali di accesso fornite ad hoc dalla segreteria (in questo caso resta comunque irrisolto il problema della firma digitale da apporre al documento informatico da caricare sul portale)”.
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parziale nell’art. 136, 2° comma c.p.a. che, anche nella formulazione attualmente vigente (quella modificata dall’art. 7, 1° comma lett. b del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197), si limita a prevedere l’obbligo anche delle “parti nei casi in cui stiano in giudizio personalmente …(di depositare) tutti gli atti e i documenti con modalità telematiche”, non prevedendo nulla con riferimento alle credenziali di accesso al sistema (la cui richiesta diventa però, una volta soddisfatti gli obblighi più gravosi come l’ottenimento della P.E.C. e della firma digitale, una necessità per poter eventualmente effettuare depositi tramite upload e/o gestire pienamente il ricorso, esercitando il proprio diritto di difesa nel procedimento). La rilevazione dei prerequisiti indispensabili per poter presentare un ricorso non si ferma poi ai tre requisiti sopra individuati; anticipando quanto sarà rilevato nel prossimo paragrafo, deve anche darsi atto della funzione di filtro processuale esercitata dal sistema N.S.I.G.A. attraverso la funzione di controllo “della regolarità, anche fiscale, degli atti e dei documenti depositati da ciascuna parte” prevista dall’art. 3, comma 10 dell’Allegato A al D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 e che si concretizza solo attraverso la lettura dell’“elenco errori depositi”29 presente nella sezione Documentazione operativa del sito della Giustizia amministrativa; elenco che contiene un codice E005-“la casella P.E.C. del mittente non esiste nei Pubblici elenchi (ReGindE)” che, per effetto della funzione di “controllo” sopra richiamata, evidenzia sostanzialmente la necessità di un quarto prerequisito, costituito dall’inserimento della P.E.C. utilizzata per il deposito nel Registro generale degli indirizzi elettronici (cd. ReGindE), previsto dall’art. 7 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 e tenuto dal Ministero della giustizia (e che, come ampiamente noto, non prevede l’iscrizione obbligatoria dei “semplici” cittadini)30. Al di là di ogni considerazione in ordine alla copertura normativa dei quattro prerequisiti sopra richiamati (sicuramente e completamente assente nel caso del quarto requisito sopra richiamato), appare indubitabile come si tratti di strutturazione che può venire ad integrare un sostanziale ostacolo all’esercizio del diritto alla difesa personale riconosciuto dall’art. 23 c.p.a., anche se negli ambiti molto limitati (giudizi in materia di accesso e trasparenza amministrativa e in materia elettorale) previsti dal nostro diritto processuale amministrativo. Con ogni probabilità si tratta, infatti, di prerequisiti che diventeranno nei prossimi anni patrimonio comune di tutti gli utenti della giustizia amministrativa e non costituiranno
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www.giustizia-amministrativa.it; oggi consultabile anche in Freni - Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 64. La funzione di “blocco” derivante dalla mancata inserzione della P.E.C. nel cd. ReGindE non è percepita da Pisano, Commento all’art. 136 c.p.a., cit., 807 che, per il resto, conferma sostanzialmente la necessità degli altri tre requisiti sopra richiamati, facendo leva anche sulla previsione di cui all’art. 16, 7° comma del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (conv. in l. 17 dicembre 2012, n. 221) per quello che riguarda la facoltà del cittadino che scelga di difendersi personalmente di indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata al quale vuole ricevere le comunicazioni e notificazioni relative al procedimento (ma, nel nostro caso, l’utilizzazione della P.E.C. è resa obbligatoria dalle previsioni sopra citate).
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più un sostanziale ostacolo all’accesso alla giustizia, ma che oggi continuano a rimanere “oscuri” ed estranei ad una fetta importante dei potenziali utenti del servizio31. Risulta pertanto legittimo un dubbio su quanto rimanga in concreto del diritto alla difesa personale garantito dall’art. 23 del c.p.a. nella sistematica del P.A.T:, sembra, infatti, che si tratti sempre più di un diritto ancora previsto “sulla carta” (espressione, in questo caso, da intendersi in senso sia letterale, che traslato), ma difficilmente esercitabile, nella versione digitale del processo, dal “semplice” cittadino. In ogni caso, appare poi di tutta evidenza come la scelta del P.A.T. abbia caricato sugli utenti che decidano di optare per la difesa personale, oltre agli oneri economici (soprattutto contributo unificato) già previsti dal nostro sistema, gli ulteriori oneri derivanti dall’obbligo di acquisire i quattro prerequisiti sopra richiamati (P.E.C., firma digitale, iscrizione al ReGindE e acquisizione credenziali accesso al sistema) e, soprattutto, i costi da incertezza relativi alla necessità di gestire un processo digitale che, diciamocelo, può suscitare qualche perplessità in una popolazione, come quella italiana, non particolarmente giovane e addestrata all’utilizzo del digitale32; in buona sostanza, si tratta pertanto di un’innovazione tecnologica che ha mandato sostanzialmente in soffitta la difesa personale della parte prevista dall’art. 23 del c.p.a. In questa prospettiva attenta alla salvaguardia dell’accesso diretto alla giustizia da parte degli utenti, ben si apprezza pertanto la scelta francese di rendere obbligatorio l’utilizzo del canale telematico agli avvocati, alle amministrazioni pubbliche più grandi e alle personnes privées, escludendo però dall’obbligo i semplici cittadini (che, nel sistema francese, sono esentati dall’obbligo di utilizzare un avvocato, per una fetta importante del contenzioso di primo grado) che “n’auraient pas la même facilité à utiliser Télérecours (absence d’accès internet ou de scan pour numériser de parfois trop nombreux documents...) et certains d’entre eux, non habitués à consulter régulièrement leurs emails, pourraient également rencontrer des difficultés à être informés à temps de la procédure dans laquelle ils seraient engagés, faute de se connecter souvent sur Télérecours33”; in buona sostanza, il processo amministrativo francese ha pertanto seguito un percorso diverso di approccio al
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Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, cit., par. 5.2 rileva come l’Italia sia in grave ritardo rispetto agli altri Paesi per la diffusione delle competenze informatiche: “gli utenti regolari di Internet sono solamente il 56% della popolazione di età compresa tra 16 e 74 anni, contro una media europea pari al 72%, mentre per converso sono il 34% gli italiani che non hanno mai utilizzato Internet contro il 21% medio europeo. Il livello di utilizzo dei diversi servizi in rete è di norma inferiore alla metà del valore medio riscontrabile all’interno dell’Unione Europea e, di conseguenza, molto distante dagli obiettivi europei fissati per il 2015”. 32 In questa prospettiva, il riferimento di Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées?, cit., 2 all’abitudine di non consultare la posta elettronica (soprattutto, la P.E.C.) appare pienamente estensibile all’Italia e costituisce la migliore dimostrazione della difficoltà di alcune fasce della popolazione di utilizzare pienamente gli strumenti informatici; si tratta certamente di abitudine dei cittadini non digital natives che si prospetta forse più rilevante delle problematiche (pur sussistenti) relative ai “tempi di concentrazione, memorizzazione e comprensione del testo digitale rispetto al testo cartaceo da parte del giudice” richiamate da Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, cit., par. 6.2. 33 Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées?, cit., 2 che giustifica peraltro l’esclusione delle persone fisiche dall’estensione obbligatoria di Télérecours, anche sulla base del rischio di spamming e di piratage du système derivanti dall’apertura del sistema informatico ad utenti non esperti.
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telematico che salvaguarda esplicitamente delle enclaves di sopravvivenza del cartaceo, nella prospettiva prioritaria di non ostacolare l’accesso diretto alla giustizia di cittadini che continuano ad incontrare difficoltà nel governo degli strumenti informatici e che, per accedere al processo amministrativo, dovrebbero acquisire una strumentazione e delle abilità che si risolvono, alla fine, in costi occulti di accesso alla giustizia34. La scelta del processo amministrativo telematico italiano per la strada alternativa dell’obbligatorietà dell’opzione per il digitale (in questo senso, si veda l’art. 9, 2° comma del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40), temperata dalla previsione di minime enclaves di possibile sopravvivenza del cartaceo ha pertanto determinato un’evidente problematicità con riferimento alla difesa personale della parte ex art. 23 c.p.a. che rischia di andare (o è già andata) concretamente in desuetudine, superata da un contesto che presuppone la preacquisizione di competenze e requisiti informatici che non tutti i cittadini italiani possiedono. Del resto, non si tratta di un problema meramente teorico, ma di un punto critico del sistema già avvertito dagli organi della Giustizia amministrativa; la circolare 21 giugno 2016 prot. n. 10919 del Segretario generale della Giustizia amministrativa ha, infatti già rilevato il rischio che “non tutti i cittadini … (siano) in grado di utilizzare questi nuovi strumenti” (P.E.C. e firma digitale) e individuato un possibile correttivo negli Uffici relazioni con il pubblico, destinati a svolgere “un ruolo fondamentale di primo ausilio nelle attività materiali per … i cittadini che intendano proporre ricorso personalmente (e che dovranno essere aiutati) nella trasmissione e nel deposito degli atti processuali e dei documenti. In caso di bisogno, per esempio, il personale dell’URP potrebbe scansionare il documento cartaceo e aiutare gli utenti nella compilazione del modulo”; il tutto ovviamente al fine di evitare “che le nuove tecnologie finiscano per ostacolare la possibilità di esperire ricorso in proprio, nei casi (accesso ai documenti e ricorso elettorale) in cui il Codice del processo amministrativo lo prevede”. Al di là della buona volontà del Segretariato generale della Giustizia amministrativa e dei responsabili degli U.R.P. (poi ridenominati, chissà perché, mini-U.R.P. dalla circolare 21 febbraio 2017 prot. n. 2562 del Segretario generale della Giustizia amministrativa35) appare però evidente come, da un lato, la funzione di supporto possa risultare effettiva per quello
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In questa prospettiva, alcuni autori (Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées?, cit., 2) arrivano a concludere per la preferibilità dell’introduzione obbligatoria del patrocinio dell’avvocato rispetto all’introduzione di ostacoli occulti all’effettivo accesso alla giustizia derivanti dalla forzata informatizzazione del deposito del ricorso (come quelli del P.A.T.). 35 La circolare appare fortemente contraddittoria perché, da un lato, sembra presupporre il possesso della P.E.C. e della firma digitale in capo al cittadino che proponga il ricorso ex art. 23 c.p.a.(“il ricorrente deve essere in possesso della Pec e della firma digitale al fine di proporre ricorso”); dall’altro, prevede la sottoscrizione autografa del ricorso da parte del cittadino, la scannerizzazione del documento e l’asseverazione di conformità firmata digitalmente dal funzionario; in questa confusione, ampiamente condivisibile risulta la conclusione di Pisano, Commento all’art. 136 c.p.a., cit., 819 che così conclude: “la portata generale dell’art. 9 del d.P.C.M. n. 40/2016 … e la puntuale previsione dell’art. 9, commi 3 e 4 del d.P.C.M. n. 40/2016 inducono senza dubbio a prendere (atto) che, quando la parte si avvalga liberamente della facoltà di intervenire in giudizio senza l’assistenza del difensore ... la stessa debba procedere al deposito del ricorso introduttivo e degli atti del atti successivi al primo con le stesse modalità di cui agli articoli 7 e 8 del d.P.C.M. n. 40/2016”.
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che riguarda l’accesso del cittadino al sistema (permesso anche in via temporanea dall’art. 17, 3° comma del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40), ma non per quello che riguarda l’ottenimento della P.E.C. e della firma digitale, che sono rilasciate da enti esterni alla Giustizia amministrativa; dall’altro, appare sostanzialmente difficile prospettare una funzione di supporto degli U.R.P. che possa risultare veramente effettiva e seguire un cittadino non in grado di acquisire autonomamente i prerequisiti di accesso alla Giustizia amministrativa e di servirsi degli strumenti digitali in suo possesso (depositando correttamente il ricorso e gli altri atti processuali, ma anche consultando regolarmente la P.E.C.), in modo da annullare il gap tecnologico. Non è pertanto possibile non rilevare come la transizione al processo amministrativo telematico abbia determinato, sotto diverso angolo visuale, un’ulteriore riduzione concreta degli spazi assicurati alla difesa personale della parte nel processo amministrativo36, così confermando (e, per certi versi, inasprendo) una caratteristica tradizionale del processo amministrativo italiano che viene ad integrare una differenziazione importante rispetto alla tradizione francese. Si potrebbe obiettare che si tratta di una problematica “di nicchia”37 e che investe una parte quantitativamente poco rilevante del contenzioso amministrativo; la rilevazione (sicuramente vera) non considera però adeguatamente, sia l’importanza sistematica del diritto alla difesa personale della parte ex art. 23 c.p.a. (sicuramente da salvaguardare per il riferimento “ideale” ad un processo amministrativo meno tecnico e più aperto all’accesso diretto degli utenti, come è, in definitiva, quello francese), sia l’importanza non marginale (anche con riferimento all’aspetto quantitativo) che la problematica potrebbe acquisire per effetto dell’intreccio con altra tematica molto dibattuta, come quella relativa all’estensione delle previsioni del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Come ampiamente noto, la detta estensione è stata esclusa dal parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento applicativo dell’art. 13 disp. att. c.p.a., che ha espresso solo l’auspicio di una futura applicazione delle “norme del processo amministrativo telematico … anche a tale istituto, al fine di incrementare il grado di efficienza di questo strumento di giustizia38”; la dottrina successiva all’intervento del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 si è però divisa tra la soluzione che esclude con tutta sicurezza l’applicabilità del P.A.T. al ricorso straordinario39 e chi ha ritenuto di
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Riduzione che appare ancora più ingiustificata alla luce della previsione dell’art. 9, 8° comma del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 che ha dispensato dagli obblighi di deposito in forma telematica i soli ricorsi di cui “all’art. 10, 5° comma del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 1988, n. 574”. 37 Il riferimento al “numero esiguo di cause effettivamente introdotte senza l’assistenza del difensore” è operato anche da D’Auria, Il deposito, cit., 90, che ha sottolineato per primo i riflessi negativi dell’introduzione del P.A.T. sul diritto all’autodifesa della parte. 38 Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016, cit., 6.2. 39 Nello stesso senso, si vedano Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, cit., 11 che esclude tale applicazione, “nonostante la progressiva giurisdizionalizzazione del ricorso in seguito alle recenti pronunce della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato” e Barbujani, La redazione dell’atto, in Freni - Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 43.
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poter optare per l’opposta soluzione, sulla base della generica rilevazione della “natura giurisdizionale40” del gravame straordinario. Per effetto del possibile intreccio con l’altra tematica dell’estensione del P.A.T. al ricorso straordinario, la problematica sopra richiamata rischia pertanto di “debordare” dagli ambiti limitati della difesa personale ex art. 23 c.p.a. per interessare un campo molto più ampio di utenti e, soprattutto, un mezzo straordinario di ricorso che, nel corso degli anni, è riuscito a sopravvivere (come ampiamente noto, si tratta, infatti, di un sostanziale “relitto storico”), soprattutto per effetto dei minori costi di proposizione derivanti dalla non necessità del patrocinio legale, dal più lungo termine a ricorrere e dalla complessiva minore onerosità di un rimedio che permette di ottenere una decisione finale della controversia da parte del Consiglio di Stato (sia pure, nelle forme del parere) in unico procedimento41; non bisogna infatti, dimenticare che gli spazi di apertura che il diritto processuale amministrativo francese assicura mediante le ampie previsioni in materia di difesa personale delle parti in primo grado, sono sostanzialmente assicurati, nell’ordinamento italiano, proprio dalla sopravvivenza del “relitto storico” costituito dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. In questa prospettiva, le considerazioni sopra articolate evidenziano il rischio concreto di una modificazione più ampia e sostanziale dell’assetto complessivo del nostro sistema di giustizia amministrativa che non è per nulla necessitata dall’introduzione del P.A.T. e che sembra decisamente debordare (almeno per quello che riguarda l’estensione del processo amministrativo telematico al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica42) dalla copertura normativa assicurata dall’art. 13 disp. att. c.p.a.
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De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, cit., 2696. In questa logica sembra oggi muoversi Cons. Giust. Amm., sez. riunite parere 7 febbraio 2018, n. 57 (in www.giustizia-amministrativa.it e www.cameraamministrativasiciliana. it) che ha affrontato la problematica dell’ammissibilità della notifica via P.E.C. del ricorso straordinario attraverso un parallelismo con i principi affermati dall’Adunanza plenaria con riferimento al processo amministrativo, senza evidenziare gli aspetti comuni e le differenze tra i due rimedi; pur evidentemente influenzata dal parallelismo tra i due rimedi previsto dall’art. 9, 2° comma del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (che prevede che anche il ricorso straordinario sia “notificato nei modi e con le forme prescritti per i ricorsi giurisdizionali”), la decisione appare essere fondata su una generica equiparazione tra rimedio straordinario e ricorso giurisdizionale, senza le dovute differenziazioni, che potrebbe determinare proprio quell’effetto di forzata omologazione del rimedio straordinario evidenziata in queste pagine. 41 Al proposito, si rinvia a Viola, Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e codice del processo amministrativo: un rapporto problematico, in Foro amm.-T.A.R., 2011, n. 3, 1139; www.federalismi.it, 2011, 9; Id., La Corte costituzionale ed il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: problematiche di diritto intertemporale e prospettive future, in Foro amm., 2014, 2, 715 e ss.; Dapas Viola, L’ottemperanza alle decisioni dei ricorsi straordinari spetta al Consiglio di Stato: la posizione dell’Adunanza plenaria, in Urb. e appalti, 2013, 7, 785. 42 Ove dovesse prevalere la tesi proposta in queste pagine, l’informatizzazione del procedimento di decisione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica dovrebbe limitarsi all’introduzione della firma digitale dei pareri del Consiglio di Stato e del CGA prevista dall’art. 7, comma 8-bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (come modificato dalla l. di conversione 25 ottobre 2016, n. 197) ed alla possibilità per la parte (desunta dal diritto all’uso delle nuove tecnologie di cui all’art. 3, 1° comma del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, cd. codice dell’amministrazione digitale) di utilizzare mezzi informatici di trasmissione/notificazione del ricorso (oggi ammessi espressamente da Cons. Giust. Amm., sez. riunite parere 7 febbraio 2018, n. 57, cit.) o degli atti difensivi; una struttura caratterizzata quindi da una sostanziale facoltatività che non sembra incidere particolarmente sull’accesso al mezzo giustiziale.
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2.1. La necessità di ripensare le categorie dogmatiche: il caso del deposito del ricorso.
Per quello che riguarda le modalità di deposito del ricorso, il d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 ha previsto una disciplina complessiva che, come per gli altri aspetti del processo, presuppone una sostanziale “ginnastica” interpretativa43 tra la prima parte del D.P.C.M. destinata alle cd. regole tecniche (in questo caso, l’art. 9, inserito tra i primi 21 articoli) e la seconda parte destinata alle cd. specifiche tecniche (in questo caso, l’art. 6, inserito tra i 18 articoli di cui all’Allegato A al d.P.C.M. modificabili e aggiornabili mediante la snella procedura di cui all’art. 19, comma 2 del regolamento). In particolare, le modalità del deposito sono essenzialmente regolamentate dai primi cinque commi dell’art. 6, dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (destinato alla “redazione e deposito degli atti digitali”) che prevedono l’obbligo di utilizzare, a seconda dei casi, i moduli deposito ricorso o deposito atto scaricabili dal sito istituzionale compilati secondo le indicazioni ivi rese disponibili (primo e secondo comma) e, soprattutto, la necessità che “il ModuloDepositoRicorso e il ModuloDepositoAtto … (siano) in formato PDF (e) sottoscritti con firma digitale PAdES” (art. 6, comma 4, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40). Ad un primo approccio, verrebbe da dire (secondo i dettami del primo “modo di guardare” al P.A.T. tratteggiati al primo paragrafo) che, in realtà, non è cambiato molto e si tratta solo di mandare via PEC un modulo in PDF, sottoscritto con firma digitale PAdES (ovvero, con l’unica firma utilizzabile nel processo amministrativo telematico); in realtà, le modificazioni risultanti dalla nuova strutturazione del deposito sono però più profonde e investono la stessa natura sistematica dell’adempimento44. Per capirci qualcosa è necessario risalire a trattazioni più risalenti del processo amministrativo (successivamente, la problematica è decisamente passata in secondo piano) che ancora mantenevano il “gusto” per una ricostruzione sistematica più accurata degli adempimenti processuali; in quella prospettiva era quasi obbligatorio rilevare come il deposito del ricorso fosse caratterizzato da una natura sistematica diversa rispetto agli altri atti processuali di parte, essendo considerato dalla legge “un mero fatto; sicché non sarebbe possibile dare la prova della non volontarietà di esso. Per ciò l’ufficio giudiziario lo accetta senza appurare l’identità di chi lo compia45”. Il carattere non meramente teorico della precisazione dottrinale (già del tutto evidente dal riferimento presente nel testo di Paleologo alla prassi degli uffici giudiziari) è poi decisamente confermato dalla giurisprudenza relativa all’ammissibilità del deposito del ricorso a mezzo posta nel processo amministrativo (ovviamente nella “vecchia” versione
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Varone, Le modalità di redazione degli atti processuali e il loro formato, in Freni - Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 42 sottolinea giustamente come l’analisi completa di ogni adempimento processuale possa essere compiuta solo “affiancando ... alla disposizione regolamentare (già ad alto contenuto tecnico) la specifica corrispondente, affinché possa emergere la “norma”. 44 Anche Poli, Profili teorico-pratici del deposito degli atti nel processo civile telematico, in Foro it., 2014, V, 137 parla, con riferimento all’avvento del deposito telematico nel P.C.T., di un passaggio da “considerarsi epocale”. 45 Paleologo, L’appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989, 686.
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cartacea); nell’ammettere il deposito a mezzo posta anche nel processo amministrativo, una decisione del Consiglio di Stato ha, infatti rilevato come “si può dare per certo, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, che nella prassi universale del processo amministrativo, come di quello civile, non si richiede ad validitatem che il deposito di un atto (incluso il ricorso introduttivo) in segreteria venga effettuato manualmente e personalmente dalla parte ovvero dal difensore costituito; può essere effettuato da un qualsivoglia mandatario, non necessariamente accreditato o qualificato, al limite neppure identificato. Non risulta che all’atto del ricevimento il cancelliere o segretario accerti l’identità e/o la qualifica del latore, tanto meno che ne prenda nota a verbale. È illuminante, per antitesi, il confronto con la necessaria identificazione di chi riceve una notifica, o di chi compare all’udienza46”. Alla luce della ricostruzione sopra richiamata appare di tutta evidenza come la nuova disciplina del deposito del ricorso prevista dall’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 non sia per nulla neutra sotto il profilo sistematico come si potrebbe (forse frettolosamente) concludere, avendo importato la trasformazione di quello che era un comportamento materiale/consegna manuale nella versione tradizionale e “cartacea” del processo in un vero e proprio atto processuale caratterizzato, come gli altri atti processuali, da formalità sue proprie (l’utilizzazione del modulo PDF; l’invio via P.E.C. ad un certo indirizzo) e dalla necessaria individuazione del soggetto che lo effettua, sia per effetto dell’utilizzazione di una determinata P.E.C., che per effetto dell’apposizione della sottoscrizione digitale PAdES sul modulo di deposito. A questo proposito, appare altresì evidente come questa sostanziale “elevazione” del valore sistematico del deposito degli atti processuali dal campo dei fatti agli atti processuali in senso stretto abbia importato problematiche completamente nuove che non si ponevano neppure quando l’adempimento era confinato nel campo dei comportamenti materiali; e i primi due problemi sono risolti già da due successivi commi dello stesso art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40. Il primo problema attiene all’aspetto soggettivo e quindi all’individuazione dei soggetti abilitati al deposito del ricorso ed è regolamentato dal terzo comma dell’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 che prevede che “il deposito del ricorso introduttivo e dei relativi allegati, nonché degli altri atti processuali, p(ossa) essere effettuato autonomamente da ciascuno dei difensori della parte, anche nel caso in cui sia stata conferita una procura congiunta”; in buona sostanza, siamo pertanto in presenza di una disciplina che, da un lato, individua nel solo difensore il soggetto abilitato ad effettuare il deposito (senza possibilità di delega47) e, dall’altro, deroga ai principi generali, abilitando il singolo
46
Cons. Stato, Sez. III, 30 ottobre 2015, n. 4984 (in Foro amm., 2015, 10, 2506 e Foro it., 2016, 3, III, 176) basata sull’argomentazione sopra richiamata e sul riferimento alla “consegna ... (del) proprio fascicolo” presente nell’art. 5, comma 1 delle disp. att. c.p.a. che allude “inequivocamente ad una consegna manuale”. In senso contrario rispetto alla sentenza richiamata (che, ad avviso di chi scrive, ha anticipato, in maniera abbastanza paradossale, il passaggio alle nuove modalità di deposito, utilizzando sostanzialmente vecchi concetti, poi superati dal P.A.T.) si veda la giurisprudenza della Seconda Sezione del T.A.R Lazio, Roma (tra cui T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 6 luglio 2015, n. 9003 in De Jure; 8 giugno 2015, n. 8024, ivi; 19 marzo 2015, n. 4344, ivi). 47 A questo proposito assume un ruolo importante la previsione dell’art. 7, 1° comma dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40
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difensore ad effettuare da solo il deposito, anche nel caso in cui sia stata conferita una procura congiunta (con conseguenziale necessità, in linea di principio, che gli atti processuali siano sottoscritti da tutti i difensori). La seconda problematica attiene al contenuto ed agli effetti del deposito ed è regolamentata dal quinto comma dell’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 che, così recita, “i documenti digitali da allegare ai moduli di cui ai commi 1 e 2, compreso il ricorso, sono inseriti in un unico contenitore. La firma digitale PAdES, di cui al comma 4, si intende estesa a tutti i documenti in essi contenuti”. Per quello che riguarda il contenuto della disposizione (di fattura tecnica non particolarmente pregevole), è stato esattamente rilevato come il riferimento, presente nella prima parte della disposizione, ai “documenti digitali da allegare ai moduli di cui ai commi 1 e 2, compreso il ricorso” evidenzi, con tutta evidenza, la necessità di riferire la previsione “a tutti i documenti informatici, ivi compresi gli atti processuali48”; del resto, l’estensione della firma PAdES a tutti i documenti depositati non avrebbe alcun senso ove si dovesse operare un riferimento ai documenti in senso stretto (che non richiedono di essere sottoscritti dal difensore) e non alla categoria più ampia di documento prevista dalla prima parte della disposizione, comprensiva anche del ricorso e degli altri atti processuali (al contrario, soggetti all’obbligo della firma). Siamo pertanto in presenza di una sistematica complessiva in cui, “sulla scorta di tale previsione, dunque, una volta compilato e sottoscritto con chiave PAdES il modulo per il deposito del ricorso non è necessario sottoscrivere digitalmente anche gli ulteriori documenti allegati; in altre parole, la norma prevede che non è necessario sottoscrivere ogni singolo atto e/o documento inserito nel contenitore essendo sufficiente la sottoscrizione del solo modulo49”. A differenza della previsione del terzo comma (che non risulta aver dato vita a precedenti giurisprudenziali), la previsione del quinto comma dell’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 si è rivelata molto utile nel periodo di prima applicazione del P.A.T., con particolare riferimento alle (numerose) ipotesi di ricorsi caratterizzati da importanti difformità rispetto al nuovo modello di processo telematico, soprattutto per quello che riguarda la sottoscrizione del ricorso o della procura da parte del difensore, non in forma telematica (o con la chiave CAdES prescritta per il processo civile). In particolare, un’ordinanza della Terza Sezione-bis del T.A.R. Lazio sede di Roma50 ha attribuito alla sottoscrizione con chiave PAdES del modulo di deposito del ricorso da parte dell’avvocato valore sanante di un atto processuale (in quel caso, il ricorso) sottoscritto
(richiamata anche dall’art. 6, 7° comma del d.P.C.M.) che prevede espressamente che l’invio tramite P.E.C. dell’atto introduttivo, dei relativi allegati e degli altri atti di parte sia effettuato dalla casella P.E.C. individuale dell’avvocato difensore, “fermo restando quanto previsto dall’articolo 6, comma 3” sopra esaminato. 48 Aureli, Il ricorso, in Freni - Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 64. 49 Aureli, Il ricorso, cit., 64. 50 T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III bis, 8 marzo 2017, n. 3231, ord., in Foro it., 2017, parte III, 177, con nota di Cavalieri.
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solo con firma autografa; l’unica questione interpretativa affrontata dall’ordinanza attiene alla (necessaria) interpretazione estensiva del riferimento ai “documenti” contenuto nell’articolato a tutti gli atti processuali: “tale locuzione (sia per la ratio del PAT, sia per l’espresso riferimento dell’art. 6, comma 4, dell’All. A al D.P.C.M. n.40/2016 al “ricorso”, sia per l’ovvia considerazione che i documenti allegati non devono essere firmati dal difensore, ma al più autenticati), deve intendersi riferita, in senso onnicomprensivo, a tutti gli atti di parte allegati con il Modulo, che ove non sottoscritti ex ante dovranno ritenersi firmati soltanto al momento della sottoscrizione di invio del Modulo di deposito, (secondo quanto riscontrabile tramite il software Adobe)51”. In buona sostanza tutto è pertanto cambiato e si è passati da un deposito del ricorso che assumeva natura di comportamento materiale ad effetti processuali ad un deposito del ricorso che assume indubbia caratterizzazione in termini di atto processuale in senso stretto, che risulta essere caratterizzato da particolari oneri formali e regole processuali (quella sulla sottoscrizione del modulo in ipotesi di procura congiunta) e che può assumere anche valore sanante dell’omessa (o invalida) sottoscrizione degli altri atti processuali; un territorio quindi del tutto nuovo che, congiunto all’ulteriore caratteristica del nuovo processo telematico più oltre richiamata, appare essere foriero di importanti novità, da qualche opportunità (soprattutto, per il valore sanante della firma apposta al modulo di deposito) e da un nuovo assetto sistematico. L’approfondimento sistematico delle previsioni sopra richiamate evidenzia poi un contesto in cui la modificazione complessiva dei contenuti sistematici dell’istituto del deposito del ricorso appare, per un verso, necessitata dal passaggio al telematico (che indubbiamente permette ed impone necessità di identificazione di chi effettui il deposito sconosciute al processo “cartaceo”) e, per l’altro, sembrano adeguatamente neutralizzabili quei rischi di disapplicazione per contrasto con le norme di valore normativo primario stigmatizzati ed introdotti nell’esperienza del P.A.T. dal già citato parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento applicativo dell’art. 13 disp. att. c.p.a. (Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016)52. In questa prospettiva, la norma più problematica risulta sicuramente quella dell’ultima parte dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, relativa al
51
T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III bis, 8 marzo 2017, n. 3231, ord., cit.; nello stesso senso, si veda anche T.A.R. Calabria, Sez. Reggio Calabria, 15 marzo 2017, n. 209 in www.giustizia-amministrativa.it, che ha ritenuto valida una memoria priva della sottoscrizione digitale della parte, ma depositata utilizzando il modulo deposito atto regolarmente sottoscritto con firma digitale, sulla base dell’“ovvia considerazione che, poiché i documenti allegati non devono essere firmati dal difensore, l’estensione della firma digitale PAdES a tutti i documenti contenuti nel Modulo prevista dall’art. 6, V comma, seconda parte, dell’Allegato, deve intendersi riferita, in senso onnicomprensivo, a tutti gli atti di parte allegati con il Modulo. Ne deriva che tali atti, ove non sottoscritti ex ante, dovranno ritenersi firmati soltanto al momento della sottoscrizione di invio del Modulo di deposito, secondo quanto riscontrabile tramite il software Adobe”. Contra, ma senza particolare approfondimento, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 9 febbraio 2017, n. 50, in Ilprocessotelematico.it, 24 febbraio 2017, con nota di Barbujani. 52 Per l’approfondimento della problematica relativa al rischio di possibile disapplicazione delle altre previsioni dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 relative al deposito degli atti (impossibile in questa sede), si rinvia a Viola, Il deposito del ricorso dopo il P.A.T., tra sanatoria per raggiungimento dello scopo e automazione del processo, in Urb. e appalti, 2017, 6, 806.
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valore sanante della firma digitale apposta al modulo che “si intende estesa a tutti i documenti in essi contenuti”. A questo proposito, appare, infatti, quasi impossibile non rilevare come si tratti di una previsione che viene ad integrare una sostanziale sanatoria dell’invalidità/irregolarità derivante dalla mancata apposizione della sottoscrizione digitale ad un qualche atto depositato attraverso i moduli ModuloDepositoRicorso e ModuloDepositoAtto53; ed a questo proposito appare del tutto sufficiente il richiamo dell’orientamento giurisprudenziale già richiamato e che ha pienamente compreso il valore sanante dell’adempimento. Anche senza entrare nella tormentata problematica relativa all’inesistenza, nullità o irregolarità dell’atto mancante della firma digitale54 (o firmato con una firma digitale diversa dalla PAdES), è molto forte la tentazione di ritenere, almeno ad un primo approccio, che una tale forma di sanatoria/irregolarità sia evidentemente “fuori posto” in un testo regolamentare (anche perché inserita nell’Allegato A al d.P.C.M. destinato alle cd. specifiche tecniche del nuovo processo telematico), trattandosi di previsione da inserirsi a livello normativo primario; in questa prospettiva, il rischio di una disapplicazione della previsione regolamentare appare pertanto immediatamente evidente e non trascurabile55.
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La tesi è condivisa, in dottrina, da Pisano, Commento all’art. 136 c.p.a. cit., 813 che rileva come non ci sia “motivo per negare efficacia giuridica alla sottoscrizione degli atti diversi dal ricorso introduttivo (memorie difensive, istanze di prelievo e in generale tutti gli atti che possono essere redatti e depositati contestualmente) con le modalità di cui all’art. 6, comma 5, All. A d.P.C.M. n. 40/2016, tenendo conto che, in tal caso, la data, l’ora e l’autore dell’atto processuale saranno identificati con riferimento al momento e al soggetto che procede alla sottoscrizione del Modulo”. Per una sostanziale critica all’orientamento giurisprudenziale in discorso, si veda però Barbujani, La redazione dell’atto, in Freni - Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 44 che opera un riferimento all’orientamento giurisprudenziale maggioritario (peraltro non citato) che “ritiene che l’apposizione della firma digitale al singolo atto processuale debba essere ricondotta ai requisiti di cui all’art. 40 c.p.a., motivo per cui, in caso di deposito di atto processuale privo di firma digitale, il deposito digitale sarebbe irregolare. Di conseguenza, secondo tale orientamento, il collegio dovrebbe concedere alla parte un termine per consentire di regolarizzare il deposito”; probabilmente il riferimento è all’orientamento giurisprudenziale originato da Consiglio Stato, sez. IV, 4 aprile 2017, n. 1541 (in Ilprocessotelematico.it, 10 aprile 2017; in Guida dir., 2017, 18, 94 con nota di Ponte; Dir. proc. amm., 2017, 3, 990 con nota di Volpe, L’irregolarità dell’atto processuale amministrativo alla prova del processo telematico; Foro amm., 2017, 4, 828; Foro it., 2017, 5, III, 245, con nota di Cavalieri e Travi; D& G, 2017, 7 aprile con nota di Coticelli) che non risulta aver percepito e valorizzato (ma neanche escluso) il ruolo sanante ex art. 6, 5° comma dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 della sottoscrizione digitale apposto al modulo di deposito. 54 Su cui si veda oggi Consiglio Stato, sez. IV, 4 aprile 2017, n. 1541, cit. 55 In questa prospettiva si è posto T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 marzo 2017, n. 1694 (in D& G, 2017, 30 marzo) che ha sostanzialmente disapplicato la previsione in discorso, sulla base della seguente motivazione: “in un sistema processuale contraddistinto dai principi di legalità ex art. 111 della Costituzione e della gerarchia delle fonti, è evidente che le specifiche tecniche di natura non regolamentare contenute nell’Allegato A non possono contenere disposizioni contrastanti con le fonti normative superiori. Dette specifiche tecniche riguardano le concrete modalità di svolgimento delle operazioni tecniche necessarie per la redazione e la sottoscrizione degli atti, per il deposito e la consultazione dei medesimi, e per ogni altra attività informatica inerente il processo amministrativo digitale. Nel parere n. 66/2016 espresso sullo schema di regolamento, il Consiglio di Stato ha sottolineato un punto nodale e cioè che l’utilizzo di atti di natura non regolamentare è ammesso a condizione che questi ultimi disciplinino norme di carattere tecnico e non attengano a profili e materie facenti parte a pieno titolo della disciplina regolamentare (cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. Atti Normativi, n. 3128/2012; n. 3092/2010). Ne consegue che le specifiche tecniche vanno necessariamente coordinate con le disposizioni contenute nel codice del processo amministrativo (fonte primaria) e nelle regole tecnico - operative (fonte secondaria regolamentare). In altri termini, ad esse deve riconoscersi un valore essenzialmente “neutro”, inidoneo ad innovare o modificare le regole processuali fissate da fonti normative gerarchicamente sovraordinate o, ancora, ad integrare il contenuto precettivo di queste ultime. Deve quindi ritenersi che la disposizione contenuta nell’art. 6, comma 5 delle specifiche tecniche non possa in alcun modo derogare alle già richiamate previsioni processuali e regolamentari che espressamente sanciscono come indefettibile, salve ipotesi che non rilevano in questa sede, l’apposizione della “firma digitale conforme ai requisiti di cui all’articolo 24 del CAD” in calce “a tutti gli atti e i provvedimenti del giudice ... e delle parti” (cfr. art. 136, comma 2 bis, del c.p.a. e 9, comma 1, del D.P.C.M. n. 40/2016). Non è quindi
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Ad avviso di chi scrive è però possibile una diversa lettura tesa a “salvare” la previsione in una prospettiva più ampia che, per la verità, si traduce, in maniera sostanzialmente paradossale, in un’interpretazione che minimizza il tasso di innovatività della disposizione. Punto di partenza è la sostanzialmente indiscussa applicabilità anche al processo amministrativo56 della previsione dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. che così recita: “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”; sanatoria per raggiungimento dello scopo che, per tanti anni, è stata poco applicata nel processo amministrativo, ma che ha registrato un forte ritorno di interesse in dottrina57 e in giurisprudenza per effetto proprio del “rimescolamento” di categorie ormai sedimentate determinato dall’entrata in vigore del P.A.T. (e delle conseguenti problematiche di “primo impatto” originate da atti non sottoscritti digitalmente o sottoscritti con firma non valida). Riguardata nel prisma dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. anche la previsione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 cambia decisamente di prospettiva e si evidenzia immediatamente come una sostanziale applicazione del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo previsto dalla disposizione del codice di procedura civile (come già rilevato, indiscutibilmente applicabile anche al processo amministrativo); la giurisprudenza civilistica ben più avvezza ad applicare in concreto il principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo ha, infatti, ampiamente rilevato come uno dei campi più fecondi di applicazione della previsione dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. sia costituito proprio dall’“integrazione del requisito mancante...dell’atto nullo ad opera della stessa parte (sempre che, medio tempore, non si siano perfezionate decadenze o preclusioni impeditive)58” e, nella fattispecie, siamo proprio in presenza di una di quelle ipotesi in cui la mancanza originaria di un requisito dell’atto processuale (la sottoscrizione con firma PAdES) è successivamente surrogata dall’intervento di un atto successivo (i moduli ModuloDepositoRicorso o ModuloDepositoAtto) assistito da una valida sottoscrizione e, soprattutto, presupponente ed evidenziante all’esterno la volontà dell’avvocato di fare propri e sottoscrivere gli atti processuali depositati con il modulo59. In questa prospettiva polarizzata sulla previsione dell’art. 156, 3° comma, c.p.c., la problematica della possibile disapplicazione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 perde quindi indubbiamente di virulenza e si stempera; ad un primo livello, perché la previsione risulta, in buona sostanza, un semplice svolgimento del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo che è certamente assistito da una
sostenibile una interpretazione del citato art. 6 comma 5 che consenta di prescindere dalla sottoscrizione con firma digitale di ogni singolo atto processuale di parte”. 56 In questo senso, si veda, nella manualistica, Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 371. 57 Volpe, Per la chiarezza di idee sulla forma digitale dell’atto processuale dopo l’entrata in vigore del p.a.t., cit.; lo scritto più equilibrato e completo in materia è quello di D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 58 Poli, Commento all’art. 156, in Consolo e Luiso (a cura di), Codice di procedura civile commentato, Milano, III ed. 2007, 1433. 59 Barbujani, La redazione dell’atto, cit., 44 ha, del resto, rilevato come “una volta firmato digitalmente il modulo di deposito, il portfolio pdf e l’atto processuale, costituirebbero comunque un unico documento informatico, motivo per cui sarebbe comunque possibile attribuire al firmatario del modulo la paternità dell’atto processuale allegato”.
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copertura normativa primaria (l’art. 156, 3° comma, c.p.c.) e, comunque, viene ad integrare un principio generale applicabile anche al processo amministrativo, con conseguente esclusione del rischio di una disapplicazione della norma regolamentare per contrasto con la disciplina processuale primaria; ad un secondo livello, perché si tratta di un risultato che sarebbe possibile conseguire anche in mancanza della previsione dell’art. 6, 5° comma, dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 attraverso l’applicazione, ad opera della giurisprudenza, del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo e conseguente rivalutazione della firma digitale apposta al modulo di deposito in termini di sanatoria e appropriazione da parte dell’avvocato degli atti processuali depositati con il modulo, ma originariamente mancanti della sottoscrizione. In buona sostanza, la previsione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 è quindi molto meno innovativa di quanto potrebbe sembrare a prima vista, risolvendosi, alla fine, nella mera esplicitazione di una conseguenza derivante dall’applicazione del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo alla nuova strutturazione telematica del deposito degli atti nel processo amministrativo; la vera e propria rivoluzione quasi prescinde pertanto dalle norme processuali espresse, derivando, più dalla modificazione della sostanza delle modalità di deposito degli atti, che dalle norme espresse60. L’esame analitico dei nuovi contenuti che il deposito del ricorso giurisdizionale amministrativo ha assunto a seguito dell’entrata in vigore del P.A.T. e delle conseguenti modificazioni sistematiche non sarebbe poi completo ove non si considerasse anche un’importante novità del nuovo sistema che, per la verità, risulta meno evidente e di più difficile individuazione. L’art. 7, 7° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 ha condizionato l’esito del deposito degli atti processuali ad una verifica del rispetto delle “caratteristiche tecniche”, prevedendo, al proposito, l’invio all’interessato di un “messaggio di mancato deposito, attestante il mancato perfezionamento del deposito”. In termini più generali, l’art. 3, 10° comma dell’Allegato A al D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 ha poi previsto la possibilità che il S.I.G.A (sistema informativo della giustizia amministrativa) esplichi anche “funzionalità automatizzate per il controllo della regolarità, anche fiscale, degli atti e dei documenti depositati da ciascuna parte” e il successivo art. 4, 2° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. ha specificato le modalità di tale controllo con riferimento alla firma digitale, “subordinando all’esito positivo di tale controllo le operazioni di acquisizione e registrazione”.
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Per l’esame (impossibile in questa sede) di un consistente dubbio sistematico in ordine alla possibile inoperatività della particolare sanatoria prevista dall’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 nell’ipotesi in cui siano maturate decadenze, si rinvia a Viola, Il deposito del ricorso dopo il P.A.T., tra sanatoria per raggiungimento dello scopo e automazione del processo, cit., 810; sostanzialmente nello stesso senso si veda anche D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 17 che ha rilevato come “la problematica si po(nga), in linea generale, per gli atti diversi dal ricorso che deve, infatti, essere sottoscritto prima del deposito”, argomentando anche sulla base della natura di fictio iuris della disposizione.
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Il contenuto di tale controllo (più stringente per quello che riguarda la presenza della firma digitale, per effetto della citata previsione dell’art. 4, 2° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40) è poi ulteriormente specificato, non dalle previsioni del c.p.a. destinate alla materia o da altre disposizioni del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, ma solo dall’“elenco errori depositi” presente sul sito della Giustizia amministrativa61 che contiene due codici (“E003-La firma digitale sul modulo di deposito non è valida” e “E014Errore durante la convalida della firma”) riferiti alla mancanza/irregolarità della firma digitale e che rientrano pienamente nell’elenco degli errori espressamente qualificati in termini di “errori bloccanti, comunicati al mittente del deposito telematico nel messaggio PEC di Mancato Deposito”. Con buona pace di chi pensava solo che si trattasse di “mandare una PEC”, quanto sopra rilevato evidenzia, con plastica evidenza, come il passaggio al telematico non sia per nulla neutro e, soprattutto, non si esaurisca solo in una modificazione delle modalità di deposito degli atti, ma importi anche un nuovo ruolo del sistema informatico che assume anche un ruolo di “filtro” dei moduli di deposito non assistiti da una valida sottoscrizione; ruolo che risulta sostanzialmente inedito rispetto alla tradizionale strutturazione del deposito propria della versione “cartacea” del processo e che è stato ben descritto, dalla dottrina relativa alla “parallela” problematica emersa nel P.C.T., in termini di “inammissibilità di fatto62”. Alle modificazioni di struttura del deposito sopra richiamate (da comportamento materiale con effetti processuali a vero e proprio atto processuale con le regole particolari sopra richiamate) deve pertanto essere aggiunto anche l’ulteriore profilo relativo alla presenza di una (nuova) forma automatizzata di controllo della presenza di alcuni requisiti del deposito che aggiunge ulteriori contenuti alle modificazioni già importanti derivanti dal passaggio al telematico, così disegnando una sistematica complessiva che è molto lontana dalla vecchia versione del deposito del ricorso (che certo non era assistita da forme di controllo/rifiuto di atti processuali mancanti di requisiti essenziali come la sottoscrizione degli atti depositati) e che finisce con l’incidere anche sulla materia delle invalidità processuali63. Per quello che riguarda il processo amministrativo, l’avvento del P.A.T. sembra pertanto avere determinato una “rivoluzione” della strutturazione del processo che assume contenuti ben maggiori delle “futuribili” prospettive relative all’”acquisizione di informazioni determinanti per intervenire sull’organizzazione della giustizia civile contribuendo a
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www.giustizia-amministrativa.it; oggi consultabile anche in Freni - Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 64. Consolandi, Deposito telematico degli atti processuali, in Libro dell’anno del diritto-Encicl. giur. Treccani, Roma, 2016, 540 che però ritiene di poter escludere l’inammissibilità sulla base della rilevazione di una possibilità di “forzare” il sistema che non appare conforme, come si rileverà al § seguente, allo spirito del nuovo processo telematico, oltre che a caratteristiche fondamentali del nostro diritto processuale. 63 Del tutto esattamente, Consolandi, Deposito telematico degli atti processuali, cit. 537 rileva come il passaggio al deposito telematico nel P.C.T. comporti “regole e problematiche nuove, a fronte delle quali occorre elaborare nuove soluzioni e non bastano più le categorie tradizionali: si è abituati a ragionare in termini di nullità degli atti, eventualmente di inammissibilità o di inesistenza, ma queste sanzioni processuali appaiono difficilmente collegabili a violazioni di prescrizioni delle regole tecniche o addirittura delle specifiche tecniche … proprio per la natura regolamentare o sottoregolamentare delle prescrizioni”. 62
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contrastare la crisi in cui questa versa da tempo64”, venendo ad integrare anche aspetti di sostanziale “automazione” di alcune verifiche che, nella versione “cartacea” del processo, dovevano essere compiute, alla fine, dal giudice; ed una simile circostanza costituisce la migliore riprova di quanto sostenuto al primo paragrafo in ordine al carattere non neutro del passaggio alle nuove tecnologie ed alla necessità di valutare le conseguenti modificazioni sulla base dell’analisi approfondita del reale funzionamento dei meccanismi processuali e non di (troppo tranquillizzanti) semplificazioni. Certo quanto sopra rilevato attribuisce nuova forza alle eccezioni sollevate da una parte della dottrina con riferimento all’attribuzione delle funzioni di gestione del sistema informatico ad un privato65; nella prospettiva di chi scrive, il rilievo sopra formulato relativo all’automazione del processo assume interesse anche al fine dell’articolazione di due ulteriori considerazioni relative (la prima) ad un paradosso logico che appare oggi di immediata evidenza e (la seconda) allo scenario più generale che è alla base dell’innovazione in questione. La prima considerazione attiene alla problematica dell’omessa sottoscrizione degli atti processuali con firma digitale o della sottoscrizione con firma digitale non valida che costituisce, in un certo senso, il “convitato di pietra” delle considerazioni sopra articolate con riferimento al deposito ed al valore sanante della sottoscrizione digitale del modulo ex art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40. Da quanto sopra rilevato appare, infatti, evidente come il sistema accetti solo moduli di deposito assistiti da una valida sottoscrizione digitale; vale a dire che al giudicante sono sottoposti, per effetto della funzione di “filtro” sopra richiamata, solo atti depositati con moduli validamente sottoscritti e pertanto assistiti dal valore sanante dell’eventuale omessa sottoscrizione dell’atto depositato previsto dall’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40. Ne risulta pertanto che tutti gli atti depositati sono assistiti da una valida sottoscrizione, originariamente presente sull’atto processuale o “mutuata” dal modulo di deposito che, altrimenti, non sarebbe accettato dal sistema; appare pertanto evidente come l’intera problematica risulti soltanto apparente, essendo comunque sottoposti all’attenzione del giudice solo atti comunque assistiti da una valida sottoscrizione. Siamo pertanto in presenza di quel paradosso logico che è stato definito, dal titolo del bel libro di Joseph Heller66, come del comma 22 e che potrebbe essere formulato, nella materia che ci occupa, in questo modo: “sono invalidi/irregolari tutti gli atti processuali
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Si vedano, al proposito, Lettieri - Fabiani, Dati, computazione, scienza: estendere i confini del processo civile telematico, cit., par. 1, cui si deve anche la qualificazione in termini di “rivoluzione” dell’avvento del processo civile telematico. 65 Volpe, Sarà davvero efficiente il processo amministrativo telematico?, cit. che aveva già sollevato (in maniera, per la verità, abbastanza criptica) la problematica delle “conseguenze della mail di c.d. “mancato deposito” sulle sorti del giudizio”. 66 Heller, Comma 22, Milano, 2016; come ampiamente noto, si tratta di un romanzo (Catch-22) del 1961 che ruota intorno alle vicende di un gruppo di aviatori statunitensi in Italia durante la seconda guerra mondiale ed alla (pare inesistente) previsione di un regolamento militare così formulata: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.
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depositati non assistiti da una valida sottoscrizione digitale, ma tutti gli atti depositati sono assistiti da una valida sottoscrizione digitale (quanto meno apposta al modulo)”. Siamo pertanto in presenza di un paradosso logico che può essere superato solo acquisendo consapevolezza degli effetti derivanti dalla funzione di “filtro” processuale assunta dal sistema telematico, ovvero del motivo logico nascosto o poco evidente che è all’origine stessa del paradosso. La seconda considerazione tende ad ambientare meglio la problematica all’interno delle tendenze più recenti del diritto e della società della globalizzazione. A questo proposito, appare di tutta evidenza come il nuovo ruolo di filtro processuale attribuito al S.I.G.A. abbia ormai determinato quel passaggio epocale dal “computer archivio” al “computer funzionario67” tante volte auspicato (o temuto) e costituisca una delle prime concretizzazioni di un vecchio sogno che è riportabile almeno alle incursioni nell’ambito processuale di Condorcet e Laplace (attraverso le loro formule matematiche per valutare l’attendibilità dei testimoni) e che consiste nella sostituzione del giudice con una macchina di calcolo basata su formule matematiche “impermeabili” all’errore umano; ed in questa prospettiva non appaiono necessarie molte parole per evidenziare come il computer e l’informatica altro non siano che la proiezione moderna della logica matematica68. In buona sostanza, siamo pertanto ben all’interno di quella trasformazione complessiva che è stata plasticamente definita69 come la gouvernance par les nombres e che continua a trovare espressione a tutti i livelli dell’esperienza giuridica, ove emergono sempre di più nuove tendenze che attribuiscono a modelli matematico/informatici (ed alla moderna versione delle macchine di calcolo, il computer) funzioni sostitutive dei meccanismi classici dell’esperienza giuridica; a puro titolo esemplificativo, si pensi al ruolo che ha assunto, nell’esperienza dell’Unione Europea, il ricorso al “feticcio” degli indicatori di deficit/bilancio, ai sistemi di valutazione della performance sempre più presenti nel lavoro pubblico e privato o ad alcune (innovative) soluzioni di problemi del diritto privato proposte dall’analisi economica del diritto (soprattutto nella versione della Scuola di Chicago). Alle diverse ipotesi di gouvernance par les nombres sopra richiamate occorre ora aggiungere anche l’inedito ruolo di “filtro” processuale assunto dal S.I.G.A. nel processo amministrativo italiano; sicuramente una novità che non risulta, però, adeguatamente percepita e valutata dagli operatori del diritto processuale amministrativo.
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Otranto, Decisione amministrativa e digitalizzazione della p.a., in www.federalismi.it, 2017, 2.14 che cita, al proposito, Masucci, Atto amministrativo informatico, in Encicl. dir. – Aggiornamento, I, Milano, 1997, 221 ss.; lo scritto di Otranto assume particolare interesse per l’evidenziazione di alcuni parallelismi con la tematica dell’atto amministrativo informatico che attribuiscono ulteriore valore sistematico a quanto sopra rilevato. 68 Tutte e due le rilevazioni sopra richiamate sono prese da Supiot, La gouvernance par les nombres, Cours au Collège de France (20122014), Paris, 2015, cap. 5 par. Juger e cap 9, Les impasses de la gouvernance par les nombres (le citazioni sono dall’edizione digitale); il libro di Alain Supiot è fondamentale per la comprensione di alcuni aspetti della cd. globalizzazione, ma purtroppo non risulta ancora disponibile in lingua italiana. 69 Supiot, La gouvernance par les nombres, cit.
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Si può essere o non essere d’accordo con l’introduzione di meccanismi di “automazione” nel processo come quello sopra tratteggiato70 ed al proposito, il dibattito è certo aperto; quello che è certo è che la completa e moderna ricostruzione delle problematiche processuali non può oggi prescindere anche dalla valutazione di questi meccanismi di automazione del processo.
3. Limiti e prospettive delle due dottrine del P.A.T. La veloce sintesi di due problematiche concrete originate dal P.A.T. riportata ai due §§ precedenti permette, in un certo senso, di “tirare le somme” e di approfondire alcune caratteristiche fondamentali (ed alcuni difetti) dei due diversi modi di rapportarsi al processo amministrativo telematico sopra richiamati. In primo luogo, appare di tutta evidenza come la prima impostazione richiamata (quella che limita l’operatività del P.A.T. alla sola modifica esteriore delle modalità di trasmissione degli atti processuali, in un sistema processuale che risulterebbe inalterato nelle sue coordinate fondamentali) sia destinata ad entrare irreversibilmente in crisi ogni volta che la pratica o l’analisi concreta dei singoli istituti vengono ad evidenziare aspetti di sostanziale innovazione delle regole processuali derivanti dal P.A.T. In questo caso, la stessa dialettica tra disciplina di fonte legislativa (il codice del processo amministrativo) e disciplina di livello regolamentare (il d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40) o tecnico (come per l’“elenco errori depositi” presente sul sito della Giustizia amministrativa) alla base dell’impostazione non può, infatti, reggere all’evidenziazione di sostanziali modificazioni di regole processuali che derivano, in realtà, da fonti di carattere subordinato rispetto al codice del processo amministrativo; risulta quindi inevitabile il ricorso alla disapplicazione delle norme di carattere subordinato che è stato prospettato, già in termini generali, dal parere reso dal Consiglio di Stato sulla schema di regolamento (Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016) e che appare destinato a riemergere ogni volta che si evidenzi una qualche regola di livello regolamentare che costituisce una sostanziale modificazione della sistematica del c.p.a.71; in termini sostanzialmente analoghi risultano poi orientate anche la dottrina e giurisprudenza relative al processo civile telematico che, in ipotesi di “significativ(e) discrasi(e) tra quanto stabilito dalla normativa primaria e quanto previsto dalla disciplina tecnica del processo telematico”, ha spesso concluso per la prevalenza della fonte “successiva e gerarchicamente sovra-
70 71
In termini generali, una posizione radicalmente critica è quella già citata di Supiot, La gouvernance par les nombres, cit. Come nel caso della già richiamata T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 marzo 2017, n. 1694 cit. con riferimento alla previsione di cui all’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, apparentemente non in linea con la sistematica del c.p.a. (per una diversa interpretazione della previsione, si veda però quanto rilevato al § precedente).
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ordinata72”, così pervenendo praticamente alla disapplicazione della fonte regolamentare relativa al P.C.T. Ancora più problematico appare poi il quadro ricostruttivo ove si approcci la problematica, piuttosto che attraverso il prisma della teorica delle fonti e della disapplicazione (impostazione sostanzialmente affermatasi in ambito amministrativo), attraverso la problematica delle invalidità, come avvenuto in ambito civilistico; in questo caso, il tentativo di sistematizzare quelle nuove forme di rifiuto automatico di atti non conformi al nuovo standard telematico processuale (come dire qualcosa di analogo all’elenco di non conformità desumibile dall’“elenco errori depositi” presente sul sito della Giustizia amministrativa) attraverso il ricorso alla nuova categoria delle cd. “inammissibilità di fatto73” rischia, quasi inevitabilmente, di originare crisi di rigetto fondate sull’impossibilità di attribuire rilevanza a “violazioni di prescrizioni delle regole tecniche o addirittura delle specifiche tecniche… proprio per la natura regolamentare o sottoregolamentare delle prescrizioni” o sull’aperta teorizzazione della possibilità di “forzare” il sistema e costringerlo ad accettare l’atto, per il che occorre comunque un intervento umano che andrà sollecitato da chi, parte o giudice o cancelliere, si accorga dell’accaduto74”. In questo modo, si arriva pertanto, ad avviso di chi scrive, ad una sistematica che è decisamente peggio della neutralizzazione delle innovazioni del P.A.T. derivante dalla disapplicazione e che teorizza apertamente la “forzatura” del sistema, ovvero una forma di intervento discrezionale e attinente alla patologia piuttosto che alla fisiologia processuale; in buona sostanza, il peggiore dei mondi possibili in cui la necessità di tenere insieme sistematiche ormai in conflitto porta alla teorizzazione aperta della “forzatura” del sistema ovvero di una qualche forma di intervento umano discrezionale che è la negazione, da un lato, dell’utilità dell’innovazione tecnologica e, dall’altro, di una caratteristica fondamentale (l’uniformità di applicazione) del diritto processuale. In buona sostanza, siamo pertanto in presenza di una “prima” impostazione che appare essere caratterizzata da un’evidente reazione di “rigetto” di alcune innovazioni (forse le più importanti) derivanti dal P.A.T.; tutte le volte in cui le conseguenze dell’innovazione tecnologica vengono, infatti, a concretizzare delle sostanziali modificazioni di caratteristiche fondamentali del sistema processuale, si corre il rischio evidente di tornare alla sistematica precedente attraverso la disapplicazione della norma regolamentare innovatrice o la “forzatura” del sistema ad opera degli operatori. Come dire, si è sposata una concezione irrealistica dell’innovazione tecnologica che assegna alla tecnica un ruolo accessorio (quello relativo alla semplice trasmissione degli atti via P.E.C. senza ulteriori modifiche del sistema) e non innovativo e poi si è costretti, alla scoperta della prima reale innovazione derivante dalla tecnologia, a tornare indietro
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Poli, Profili teorico-pratici del deposito degli atti nel processo civile telematico, cit., § 3. Consolandi, Deposito telematico degli atti processuali, cit., 540. 74 Le citazioni sono sempre da Consolandi, Deposito telematico degli atti processuali, cit., 537 e 540. 73
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alle regole che appaiono essere assistite da una copertura normativa primaria attraverso lo strumento della disapplicazione; in questa prospettiva, lo stretto legame genetico evidenziato al § 1 tra la prima impostazione “minimalistica” e la scelta rispecchiata dall’art. 13, 1° delle disposizioni di attuazione al c.p.a. di demandare la disciplina applicativa del P.A.T. ad una fonte di livello regolamentare appare aver determinato una strettoia applicativa (o una serie di strettoie) che rischiano di dare vita, con riferimento a più problematiche, a quel meccanismo di “ritorno” sopra richiamato. Del resto, la problematica è resa ancora più stringente e complicata da una certa tendenza del sistema ad aumentare la propria complessità; il riferimento è, con tutta evidenza, all’“elenco errori depositi” presente sul sito della Giustizia amministrativa più volte citato e che, effettivamente, viene ad integrare una serie di “inammissibilità di fatto” di carattere subregolamentare e di incerta fonte, che aumentano ulteriormente la complessità del sistema e si prospettano di difficile inquadramento e soluzione. In questa prospettiva molto complicata, la seconda impostazione sopra richiamata (quella che parte dal riconoscimento del carattere innovativo della tecnologia) ha sicuramente assunto un ruolo positivo sotto il profilo dell’analisi disincantata e realistica delle novità derivanti dall’entrata in vigore del P.A.T. ed è sicuramente già tanto se si è riusciti a prendere consapevolezza di qualche conseguenza in concreto di un passaggio al digitale che, come già rilevato, non è stato preceduto da una qualche analisi ad opera dei processualisti. L’analisi della problematica relativa alla possibile disapplicazione della previsione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 4 fornita al § 2.2 ha poi evidenziato un’altra possibile evoluzione della seconda impostazione, attraverso il collegamento interpretativo tra una disciplina regolamentare o subregolamentare di problematica giustificazione ed alcuni principi generali del diritto processuale (come quello di cui all’art. 156, 3° comma, c.p.c.) dotati di tale estensione applicativa da poter “coprire” anche alcune innovazioni altrimenti non giustificabili. In buona sostanza, non tutto è perduto nelle secche della disapplicazione ed alcuni contenuti innovativi della disciplina regolamentare o subregolamentare possono essere “salvati” attraverso il collegamento interpretativo ai principi del diritto processuale, come quello espresso dalla già citata norma dell’art. 156, 3° comma, c.p.c.; prima di cedere alle sirene della disapplicazione, il giurista ha pertanto la possibilità di tentare una diversa strada, costituita dalla possibile integrazione tra la disciplina regolamentare e i principi generali del diritto processuale, ovvero una soluzione interpretativa che costituisce la naturale evoluzione del carattere realistico ed (in fondo) aperto all’innovazione tecnologica che abbiamo attribuito alla cd. seconda impostazione. Certo, si tratta di una qualche forma di approdo che appare in sostanziale contraddizione con la lettura in termini di riserva assoluta di legge della previsione di cui all’art. 111, 1°
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comma Cost.75 finora prevalentemente emersa in dottrina e che importa l’utilizzazione del diverso strumentario concettuale della riserva relativa di legge e/o dell’integrazione delle norme processuali ad opera di norme di livello non legislativo; del resto, si tratta di una soluzione che risulta, in un certo senso, imposta dalla soluzione prescelta dal legislatore con riferimento al passaggio ai processi telematici (in ambito civile, amministrativo; ecc.) e che risulta oggi di difficile contestazione.
4. Il P.A.T. e il dibattito tra norme tecniche e norme giuridiche.
L’esposizione delle due dottrine del processo amministrativo telematico sopra fornita non sarebbe poi completa ove non si operasse un sia pur breve riferimento allo sfondo più generale in cui si inserisce la scelta operata dall’art. 13, 1° delle disposizioni di attuazione al c.p.a. di rinviare ad una fonte regolamentare flessibile e più agevolmente modificabile la disciplina del P.A.T. (e quindi anche quell’impostazione dottrinale “minimalista” che tende a restringere alle sole modalità di trasmissione degli atti processuali le innovazioni derivanti dal passaggio al telematico e che costituisce un sostanziale “prolungamento” della sistematica delle fonti del P.A.T. sopra richiamata). A ben vedere, siamo in presenza di un’impostazione (sostanzialmente adottata da tutti i processi telematici conosciuti dall’ordinamento italiano) che non è per nulla limitata all’ambito processuale, ma che affonda le proprie radici ed origina in ambito completamente diverso, ovvero nel “nuovo approccio” al processo di armonizzazione tecnica e normalizzazione operato a partire dalla risoluzione CE 7 maggio 1985 (risoluzione del Consiglio relativa ad una nuova strategia in materia di armonizzazione tecnica e normalizzazione76) del Consiglio della Comunità Europea. In particolare, si tratta di una “nuova strategia” basata su una sostanziale dicotomia tra il livello dell’”armonizzazione legislativa (che) si limita all’approvazione, mediante direttive basate sull’articolo 100 del trattato CEE, dei requisiti essenziali di sicurezza (o di altre esigenze di interesse collettivo) ai quali devono soddisfare i prodotti immessi sul mercato che, in tal caso, possono circolare liberamente nella Comunità” ed il livello delle “specifiche tecniche” rinviato “agli organi competenti per la normalizzazione industriale (cui) è affidato il compito di elaborare le specifiche tecniche, tenendo conto del livello tecnologico del momento, di cui le industrie hanno bisogno per produrre ed immettere sul mercato
75 76
Cecchetti, Giusto processo (diritto costituzionale), in Encicl. dir., aggiornamento-V, Milano, 2001, § 8. In G.U.C.E. 4 giugno 1985, n. C 136; in queste pagine, viene ampiamente utilizzata la ricostruzione del rapporto tra diritto e tecnica proposta da Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI, Les figures de la norme, Paris, ed. 2007 (le citazioni sono dall’edizione digitale 2015) e non la diversa (e, per certi versi, non univoca) problematizzazione di Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2005 e Irti - Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001.
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prodotti conformi ai requisiti essenziali fissati dalle direttive” (risoluzione Consiglio CE 7 maggio 1985, Allegato II). In buona sostanza, si tratta pertanto di una dicotomia tra un livello propriamente normativo, destinato a regolamentare le caratteristiche essenziali di sicurezza o di interesse collettivo cui devono sottostare i produttori ed il livello delle “specifiche tecniche” rimesso agli organi di normalizzazione industriale e che si presenta evidentemente caratterizzato dai due requisiti della flessibilità di modificazione in funzione delle modificazioni tecnologiche77 e dell’autoregolamentazione da parte degli stessi soggetti destinati ad osservare le regole78; con tutta evidenza, si tratta pertanto di uno schema misto in cui una forma di ”autoreglementation, au statut hybride, est articulée avec le droit héteronome79”. La strutturazione fondamentale della “nuova strategia” di cui alla risoluzione del Consiglio CE 7 maggio 1985, non si è poi limitata al campo di origine, costituito dalla libertà di circolazione delle merci e dal processo di armonizzazione comunitario, ma si è estesa ad altri campi, come ad esempio, il diritto del lavoro80 che risultano oggi permeati dalla stessa strutturazione fondamentale e da un dualismo tra il livello propriamente normativo e il livello delle specifiche tecniche. A ben guardare, si tratta della soluzione che è stata prescelta dalle nostre fonti normative in materia di processo telematico e che risulta anche alla base della scelta rispecchiata dall’art. 13, 1° comma delle disp. att. c.p.a. per un rinvio alla fonte regolamentare della definizione delle regole tecnico-operative del P.A.T.; rinvio espressamente determinato dalla necessità di tenere conto delle “esigenze di flessibilità e di continuo adeguamento delle regole informatiche alle peculiarità del processo amministrativo” ovvero delle stesse esigenze che sono alla base del della “nuova strategia” di cui alla risoluzione del Consiglio CE 7 maggio 1985. Ancora più in linea con la sistematica della risoluzione del Consiglio CE 7 maggio 1985, sono poi i contenuti del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, sia per l’aspetto terminologico (l’espresso riferimento alle specifiche tecniche contenuto nell’art. 19 e nell’Allegato A), sia per la previsione di una più snella procedura di modificazione delle specifiche tecniche (quella prevista dall’art. 19, 2° comma del regolamento) che, in buona sostanza, attribuisce il potere di modificare le norme agli stessi soggetti (il responsabile del S.I.G.A. di cui all’art. 3, 2° comma del d.P.C.M., ovvero un organo della Giustizia amministrativa) destinati ad applicarle; la strutturazione fondamentale della risoluzione del Consiglio CE 7 maggio
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Caratteristica essenziale delle cd. specifiche tecniche è, infatti, quella di poter essere facilmente modificate “au gré du progrès technique, et un produit non conforme à la norme ne se trouve pas nécessairement exclu du marché” (Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI, Les figures de la norme, Sez. A, cit.); la flessibilità di adattamento è pertanto coessenziale alla stessa definizione di specifiche tecniche. 78 Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI, Les figures de la norme, Sez. A, cit. rileva come “le soin de fixer des régles est partiellement confié à ceux qui devront observer ces régles (dans la mesure où les organismes de normalisation sont dominés par les industriels appelés à observer les normes qu’ils définissent)”. 79 Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI, Les figures de la norme, Sez. A, cit. 80 A questo proposito, si rinvia al più volte citato Supiot, Critique du droit du travail, cit.
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Le dottrine del processo amministrativo telematico
1985 è pertanto espressamente recepita, sia per quello che riguarda la compresenza degli aspetti di regolazione eteronoma (il livello normativo espresso dal c.p.a. e dalla prima parte del regolamento) e autoregolamentazione (le specifiche tecniche definite dal responsabile del S.I.G.A.), sia per quello che riguarda la stessa definizione terminologica. Agli esempi già forniti da Alain Supiot della “forza espansiva” dei principi comunitari in materia di armonizzazione delle merci occorre quindi aggiungere, oltre a numerose problematiche del diritto del lavoro, anche i processi telematici (almeno, nella versione italiana). In termini più generali, la stessa strutturazione della risoluzione CE 7 maggio 1985 è però stata sottoposta, dalla dottrina francese, ad una penetrante critica, sia per l’evidente incertezza della stessa categoria di specifiche tecniche che, nella versione anglosassone, tende ad attrarre anche aspetti tradizionalmente propri del livello della regolamentazione eteronoma (come per le problematiche di tutela della salute e della sfera personale del lavoratore nel campo del diritto del lavoro) e, nella versione “latina”, viene inevitabilmente ad essere intesa in senso restrittivo. Ancora più evidente risulta poi la differenziazione delle due tipologie di norme alla luce di qualche considerazione di teoria generale del diritto. La norma tecnica (nella terminologia della risoluzione del Consiglio CE 7 maggio 1985 la specifica tecnica) è, infatti, “unidimensionelle, en ce sens qu’elle appartient à un seul monde: le monde des faits. Elle tire sa légitimité d’un savoir sur ces faits. D’où son caractère concret (elle doit correspondre étroitement à la diversité des faits)…(et) mobile (elle doit pouvoir évoluer avec la progression des connaissances)81”. Al contrario, la regola giuridica è inevitabilmente “bidimensionelle en ce sens qu’elle vise à rendre le monde des faits conforme à un monde idéal ; a rendre le monde tel qu’il est conforme à un monde tel qu’il devrait être… La règle de droit ne tire donc pas sa légitimité d’un savoir sur les faits, mais des valeurs auxquelles elle vise à soumettre ces faits. D’où son caractère général et abstrait (la diversité des faits doit pouvoir lui être subsumée), permanent et obligatoire (elle échappe aux critères de la vérité). Sa validité ne dépend pas en effet de son efficacité, mais de son insertion dans un système idéal de normes i.e. le système juridique82”. Una volta ricostruita la diversa natura e la diversa logica delle norme giuridiche e tecniche appare quasi inevitabile rilevare come la coesistenza alla base del nuovo approccio di cui alla risoluzione del Consiglio CE 7 maggio 1985 non sia per nulla facile e possa dare vita a risvegli dolorosi (ovvero ad ipotesi in cui la regolamentazione giuridica abbandona sostanzialmente alla regolamentazione tecnica aspetti essenziali per la tutela della persona
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Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI, Les figures de la norme, Sez. B, cit. che allarga inevitabilmente il discorso citando, a questo proposito, Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, 1999 (il libro è del 1964). 82 Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI, Les figures de la norme, Sez. B, cit. che sintetizza assai plasticamente il concetto evidenziando come il diritto del lavoro disegni un mondo ideale in cui l’uomo è uguale alla donna, i salari sono sufficienti; ecc.; tutto il contrario quindi delle norme tecniche e della logica delle “risorse umane” in cui predominano i fatti.
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Luigi Viola
umana); da cui la necessità di praticare due possibili soluzioni, tese a ridurre la problematicità di detta coesistenza. La prima è quella inaugurata dalla già molte volte citata risoluzione del Consiglio CE 7 maggio 1985 e consiste nell’abbandonare alla normazione tecnica solo ciò che effettivamente “reléve d’une rationalité technique”, così approfittando della flessibilità di modificazione propria delle specifiche tecniche, senza “contraccolpi” e lesioni di principi fondamentali; la seconda, strettamente complementare alla prima, è quella di affermare “le caractère juridique des choix essentiels i.e. des choix de valeur au service desquels est mis le savoir technique83”, così evitando l’inevitabile degradazione di valori e dell’intero sistema giuridico che deriva dall’inesatta attribuzione al livello della normazione tecnica di scelte essenziali che, al contrario, devono continuare ad essere garantite a livello normativo. A questo punto, il discorso è, ad avviso di chi scrive, completo e le tematiche relative al P.A.T. trattate in queste pagine si inseriscono in una prospettiva decisamente più ampia che è quella dell’incontro/scontro tra norme tecniche e norme giuridiche che è in atto in più campi dell’esperienza giuridica; in questa prospettiva, anche il dibattito relativo alle fonti del P.A.T. ed alla disapplicazione perde decisamente in astrattezza e si configura per quello che, in effetti, è, ovvero il tentativo di tenere insieme, senza “sconfinamenti” da un lato o dall’altro, una sistematica in cui sono destinate a convivere due diverse tipologie di norme, con gli inevitabili problemi che si è cercato di evidenziare in queste pagine.
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Le citazioni sono sempre da Supiot, Critique du droit du travail, Cap. VI Les figures de la norme, Sez. B, cit.
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Just Settlement or Just About Settlement? Mediated Agreements: A Comparative Overview of the Basics* Sommario : 1. Introduction. – 2. Definition of Mediation. – 3. Adjudication or consensual Dispute Resolution: no general Preference. – 4. Civil Justice and public Policy Concerns. – 5. Adjudication and consensual Dispute Resolution: Relationship. – 6. Essential Foundation of settlement Agreements: the Law of Contract. – 7. Effects. – 8. Formal Requirements. – 9. Judicial Review: general Remarks. – 10. Erroneous Assumptions, gross Disparity. – 11. Enforcement. – 12. Concluding Remark.
Il presente saggio ha ad oggetto, nella sua prima parte, una indagine comparata sulla mediazione come metodo consensuale di risoluzione delle controversie, considerata specialmente dal punto di vista delle sue differenze rispetto alla risoluzione delle controversie affidata al giudice statale. Nella sua seconda parte, l’articolo viene a focalizzarsi sui requisiti, gli effetti e le impugnazioni degli accordi conciliativi raggiunti con l’aiuto di un mediatore. Benché il saggio si valga di talune acquisizioni maturate dall’Autore nel corso della elaborazione dei suoi precedenti studi sul tema, pubblicati in
*
This is an expanded version of the general report presented on 12 September 2013 at the Conference “Commercial Litigation: Special Cases and Proceedings” in Athens, organized by the International Association of Procedural Law, the National and Kapodistrian University of Athens, the Research Institute of Procedural Studies and the Greek Union of Procedural Law. I am very grateful to Reinhard Zimmermann for helpful comments and suggestions on an earlier version of this report. In preparing the study for the Athens conference, I was supposed to ask colleagues for national reports. Soon after I started on the topic, an excellent edited work about mediation in a comparative perspective was published – Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, ed. by Klaus Hopt/Felix Steffek (2013). It analyses the law and practice of mediation in 22 major countries of the world. National reports were already on my desk. I did however ask some colleagues for further information. I am very grateful to those who provided me with materials about particular issues (Neil Andrews, Cambridge; Loic Cadiet, Paris; Natalie Fricero, Nice; Elisabetta Silvestri, Pavia; Astrid Stadler, Konstanz; Felix Steffek, Hamburg). This article was first published in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht, 2015, p. 117–141.
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Remo Caponi
lingua italiana, esso è completamente autonomo rispetto a questi ultimi, è stato pensato e realizzato con taglio di comparazione giuridica, e si indirizza a un pubblico internazionale. On the basis of a preliminary overview of the relationship between adjudication and consensual dispute resolution, the paper focusses on agreements resulting from mediation, in particular: legal nature, terms, formal requirements, legal effects, avoidance. The perspective has been broadened to cover legal rules applying to settlement agreements in general and comparing them, where appropriate, with the general law of contract. The attention has been drawn on those circumstances that, due to the activities of the mediator, are likely to occur more frequently in the mediation processes rather than in negotiations between the parties by themselves.
1. Introduction. The present paper is not so much about national legislation on mediation, nor is it about the law of the European Union, nor is it about mediation and settlement agreements in cross-border disputes. It is rather about variations on the theme of freedom of contract, its promotion and its restrictions on the field of dispute resolution, all from a comparative background. Freedom of contract is indeed a principle that forms part of a set of uncontested basic concepts fundamental to most legal systems of the world. Its universal nature reflects an element of a common political culture that places the rights of the individual at the centre of economic, social and legal activity. From the central position of the individual in the economic and legal order follow the principles of party autonomy and party disposition as principles that shape dispute resolution methods and their formats. Accordingly it is the parties and not the state who should in principle choose the dispute resolution mechanism along with its commencement, scope and termination. On the basis of a preliminary overview of the relationship between adjudication and consensual dispute resolution, the present paper will focus on agreements resulting from mediation, in particular: legal nature, terms, formal requirements, legal effects and avoidance. However it would not be advisable to deal exclusively with solutions stemming from recently adopted legislation on mediation, which would fail to adequately cover the subject matter. The perspective should be broadened to deal with legal rules applying to settlement agreements and comparing them, where appropriate, with the general law of contract. Attention will be drawn to those circumstances that, due to the activities of the mediator, are likely to occur more frequently in the mediation processes rather than in the simple process of party negotiation itself? The actual state of legislation, legal scholarship and case law on these topics is somewhat unsatisfactory. Typically laws and commentary lack an analysis that takes into account the interplay between different elements. There is a failure to address the interaction between legislation and legal literature on mediation on the one hand (these materials normally omitting to deal with topics such as contents, legal effects and avoidance of agreements
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Just Settlement or Just About Settlement?
resulting from mediation) and legislation and legal literature on settlement agreements on the other hand (these materials normally omitting to distinguish agreements resulting from mediation from all other settlement agreements). In order to achieve a systematic overview of the issue one should bridge this gap, analysing both levels of regulation together. As far as the relationship between adjudication and out-of-court settlement is concerned, the great debates on mediation in the mid-1980s in the United States and in the mid-1990’s in Europe as well as the subsequent implementation of mediation programmes in both areas was an essential turn in the landscape of dispute resolution in western countries. One may wonder whether this new institutional setting should challenge (or at least reframe) the starting point whereby the legal rules applying to settlement agreements achieved by the parties without the assistance of a mediator apply generally to agreements resulting from mediation schemes. Before the institutionalization of mediation in the western countries, settling a dispute through an out-of-court agreement or litigating the case before courts and seeking adjudication was an individual choice of the parties even if they could decide to be assisted by a mediator. After the large scale development of mediation schemes, the alternative between settlement and adjudication is rather an institutional choice, supported by a number of policies and different lines of argument. In this framework it is worth questioning if traditional and general rules on settlement agreements can be expanded by analogy to agreements resulting from mediation without being significantly adapted. It is worth asking if this new institutional setting whereby settlement agreements are promoted by mediation schemes has a role to play in interpreting the general rules on settlement agreements and in applying them to the agreements resulting from mediation, and if there is a need for new rules, bridging the gap between the traditional regulation on settlement agreements and the more recently adopted rules on mediation. To try to answer these questions is the main purpose of this article.
2. Definition of Mediation. At the outset a definition of mediation is called for that should encompass all relevant elements from a comparative perspective, i.e. (a) dispute, (b) voluntary participation of the parties1, (c) promotion of the communication between the parties by a professionally
1
In some jurisdictions the free will of the parties is limited as legislation or the court can compel parties to a legal dispute to engage in mediation. A notable example is the Italian Decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, in Gazzetta Ufficiale no. 53 of 5 March 2010, which essentially promoted mediation as a means to reduce the courts’ workload. It also attempted to introduce mediation as a mandatory precondition of court proceedings. For details on the development of this first Italian Mediation Act, its unconstitutionality following from a decision of the Corte costituzionale of 6 December 2012, n. 272, and on the strong opposition involved (particularly by legal practitioners)
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Remo Caponi
trained and neutral intermediary (mediator), and (d) the goal of achieving a resolution of the dispute for which the parties bear responsibility (without decision-making power on the part of the mediator)2. In this respect, the definition provided by the Austrian Mediation Act can be considered as a good starting point: “Mediation is an activity voluntarily entered into by the Parties, where a professionally trained and neutral intermediary (mediator), using recognized methods, promotes the communication between the Parties in a systematic manner, with the aim of enabling the Parties to themselves reach a resolution of their dispute”3. Like that of the EU Mediation Directive4, this definition excludes attempts to mediate the dispute made by a judge who has been placed in charge of solving the dispute by judicial decision, referred to by some national legislation as conciliation5, but includes mediation performed by a judge who is not in charge of adjudicating on the dispute, such as the German experience of the mediatives Güterichterverfahren6.
3. Adjudication or consensual Dispute Resolution: no general Preference.
As the main legal effect of settlement agreements is to settle a dispute, avoiding or terminating litigation before the courts, one cannot deal with this topic without briefly discussing the relationship between adjudication and consensual dispute resolution7. Taking this broader perspective is necessary in order to cover both general policy concerns and the specific and “paradoxical phenomenon of litigating in relation to a process
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against the introduction of mandatory mediation, cf. Caponi, Italian Civil Justice System: Most Significant Innovations in the Last Years (2009-2012), in Civil Litigation in Comparative Context, Supplement, ed. by Chase et Al., (2013); Silvestri, Jagtenberg, TweeluikDiptych: Juggling a Red Hot Potato: Italy, the EU and Mandatory Mediation, in Nederlands-Vlaams Tijdschrift voor Mediation en Conflictmanagement, 17, (2013), 29. Under the current regime (following Legge 9 agosto 2013, n. 98) there is a mandatory meeting of the parties with a mediator to explore whether promising mediation proceedings can be entered into. Moreover, during the judicial proceedings the courts can compel parties to pursue mediation by referring them to public or private mediation providers. Bar associations may arrange court-annexed mediation at the courts of first instance. Out-of-court mediation proceedings run by chambers of commerce and other professional associations are also available. Cf. Hopt, Steffek, Mediation: Comparison of Laws, Regulatory Models, Fundamental Issues, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 3, 11. § 1 Bundesgesetz über Mediation in Zivilrechtssachen (Zivilrechts-Mediations-Gesetz) of 6 June 2003, BGBl. I, no. 29/2003; English translation in Roth, Gherdane, Mediation in Austria: The European Pioneer in Mediation Law and Practice, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *) 247, 250. Directive 2008/52/EC of the European Parliament and of the Council of 21 May 2008 on certain aspects of mediation in civil and commercial matters, OJ 2008 L 136/3. Cf. Civil and commercial mediation in Europe, ed. by Esplugues Mota, Iglesias, Palao, (2013). Cf. Art. 21 French Code de procédure civile; Art. 185 Italian Codice di procedura civile. See § 278 para. 5 German Zivilprozessordnung (ZPO); cf. Hess, Vom Regierungsentwurf zum Mediationsgesetz, in Das neue Mediationsgesetz, Rechtliche Rahmenbedingungen der Mediation, ed. by Fischer - Unberath (2013) 17, 27 (for the only terminological difference between Richtermediator and Güterichter); Steffek, Rechtsfragen der Mediation und des Güterichterverfahrens – Rechtsanwendung und Regulierung im Spiegel von Rechtsvergleich und Rechtstatsachen, in ZEuP 21 (2013) 529, 538. Cf. Caponi, Mediation and State Civil Justice, in Opinio Juris in Comparatione, 2, (2011), 1, available at <http://lider-lab.sssup.it/ opinio>.
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designed to avoid litigation”8, be it the litigation on the enforcement or on the avoidance of mediated settlements9. There is no empirical evidence on the numbers and features of judicial proceedings related to mediated settlements, with the exception being the research carried out by Coben & Thompson in 2006 on the reported decisions of state and federal judges in the US10. As Hazel Genn put it, “the outcome of mediation is not about just settlement, it is just about settlement”11. However, as far as institutional settings are concerned, dispute resolution is not only just about dispute resolution. In a political community committed to the principle that relationships among its citizens must be governed by a system of law and not by the survival of the fittest there should be no “pure and simple” conflict solving mechanisms12. Accordingly the government is required to provide dispute resolution mechanisms. Since the government is involved as provider of dispute resolution services, the justice system has the duty to implement policies. The most fundamental policy is to enable the parties to choose dispute resolution mechanisms in a way that is truly free and informed, removing the various barriers to access to justice. It may well be that there is no general preference for one dispute resolution mechanism over another (judicial proceedings before state courts, arbitration, mediation, negotiation between the parties themselves, settlement agreement, etc.)13. Furthermore, it may well be that there is no preference of one dispute resolution criterion over another (adjudication14, interest-based resolution). Finally, it may well be that “court proceedings are not better or worse than alternative dispute resolution procedures, they are simply more suited for some disputes and less suited for others.”15. However, the inverse also applies: there is no general preference of consensual dispute resolution over resolution that has been forced on (one of) the parties, even where all involved have consented. At any rate litigation before the state court should not be a last resort16. State dispute resolutions, ultimately in the form of a court decision, may be
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Alexander, Harmonisation and Diversity in the Private International Law of Mediation: The Rhythms of Regulatory Reform, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *) 131, 134; idem, International Comparative Mediation, Legal Perspectives, (2009). 9 As to “avoidance” of a juridical act or legal relationship, the following definition is useful: “[it is] the process whereby a party or, as the case may be, a court invokes a ground of invalidity so as to make the act or relationship, which has been valid until that point, retrospectively ineffective from the beginning.”; see Principles, Definitions and Model Rules of European Private Law Draft Common Frame of Reference (DCFR), Outline Edition, ed. by von Bar, (2009), 546. 10 Coben, Thompson, Disputing Irony: A Systematic Look at Litigation About Mediation, in Harv. Negotiation L. Rev., 11, (2006), 43. 11 Genn, Judging Civil Justice, (2010), 117. 12 Damaska, The Faces of Justice and State Authority, (1986), 88. 13 Steffek et Al., Guide for Regulating Dispute Resolution (GRDR): Principles and Comments, in Regulating Dispute Resolution – ADR and Access to Justice at the Crossroads, ed. by idem - Unberath, in cooperation with Genn, Greger, Menkel-Meadow, (2013), 13, 15. 14 Adjudication is to be understood as the legal process by which an arbiter or judge reviews evidence and argumentation including legal reasoning set forth by opposing parties or litigants to come to a decision which determines rights and obligations between the parties involved. 15 Steffek et Al., GRDR (n. 13) 15. 16 Cf. Fiss, Against Settlement, in Yale L.J., 93, (1984), 1073. For the opposite view, see Woolf, Foreword to settlement under the civil procedure rules, in Foskett, The Law and Practice of Compromise7, (2010), XI.
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necessary and appropriate not only if one of the parties to the dispute does not agree on a consensual dispute resolution method, but also if there are concerns relating to the common interest or the public good which prove to be prevailing over the combined consent of the parties. This is not a view arising from a former socialist country of Eastern Europe. According to Adolf Wach’s view: “there must be norms ruling what parties are allowed to do and what they are not, as well as norms ruling what they are not allowed to do even if [the parties] are mutually ready to allow it”17.
4. Civil Justice and public Policy Concerns. The institutions of civil justice play fundamental social and political roles in the life of a polity. It is not only a matter of protecting individual rights. Nor simply is it a matter of restoring peace between the parties to a dispute. As Cappelletti put it: “Procedural law is not just about techniques – methods to regulate the business of courts. Procedural law, in the first place, details the role of government, through public courts, in settling disputes, creating new substantive rules and policies, and implementing policies through law. Important public policies are at stake in decisions about when to encourage parties to litigate, how to shape their factual and legal claims, and whether to promote a strictly legal resolution as opposed to a negotiated settlement. How much law regulates social behavior depends in large part on how the machinery of justice is constructed”18. This holds true not only in the United States, where the system of private civil justice has been seen from the outset as an important element in the effective regulation of social and economic actors19, but is increasingly true also in Europe, although traditionally in Europe private litigation before the courts is generally not intended to supplement the public regulation of economic and social actors. Certainly the basic structures of civil justice systems in continental Europe, from standing to sue to adjudication, still bear traces of their historical foundation in natural law theory which were aimed at protecting the “new bourgeois individual” and his economic freedom, in a fragmented and individualistic perspective of social relationships. As a consequence of adopting this approach over a long period of time the civil justice systems had significant difficulties in dealing with public policy concerns related to the litigation. However, public policy goals were also embodied in the functioning of the machinery of justice in Europe20. As polities embodying the rule of law, European states are committed to the principle that relationships among citizens and their government are to be governed by a system of public and private law, fairly
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Wach, Vorträge über die Reichs-Civilprocessordnung: gehalten vor praktischen Juristen im Frühjahr, 1879, (1896), 53. Cappelletti, Garth, Chapter 1: Introduction – Policies, Trends and Ideas in Civil Procedure, in International Encyclopedia of Comparative Law, vol. XVI: Civil Procedure, ed. by Cappelletti, (1987), 1. 19 Cf. Murray, Stürner, German Civil Justice, (2004), 575. 20 Genn, Judging, (n. 11), 78. 18
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applied and evenly enforced. This is the primary purpose of the civil justice system. The resolution of private disputes according to the norms of law is derived from this. The determination and enforcement of private rights leads to the ongoing development and improvement of the law itself. The law is preserved in judgments, and only judgments can develop and propagate the law. A further example of the presence of public policy concerns can be seen in the regulation of transnational litigation by the European law of civil procedure. It is the underlying rationale of the Brussels Convention on Jurisdiction and Enforcement of Judgments in Civil and Commercial Matters. The Brussels Convention of 1968 not only serves the interests of the parties involved in a cross-border dispute in Europe, but it should also be considered in the broader context of European integration. Thus, the “sound operation” of the internal market represents the public policy goal that led to the adoption of rules of judicial jurisdiction intended both to be highly predictable and to simplify the enforcement of judgments in the Member States21. Finally the idea of implementing forms of aggregate litigation in the courts as a means for providing not only individual relief to injured parties but also deterrence of harmful illegal acts against a relatively broad range of consumers is also attracting increasing attention in Europe22. This new (regulatory) function of the civil justice system can be placed in a historical perspective and contrasted with the classical model according to which the purpose of civil proceedings is the protection of individual rights. As an “essentially new turn in legal events”23, class action suits constitute a collective reaction by consumers against the mass torts of enterprises. They have a deterrent effect that would certainly not be achieved by individual actions of consumers before the courts or mediation bodies. In this area the private judicial initiative of the consumers (private enforcement) supports public efforts to prevent and control the misuse of a company’s economic power. It can be conceived as a sort of counter-power that emerges from society, as opposed to the economic power of the company. In this sense, the civil procedural laws of European countries which have introduced collective redress actions might be enriched with a new function, traditionally entrusted to the state and the public administration in continental
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ECJ 10 February 1994 – Case C-398/92 (Mund & Fester) [1994] ECR I-474 is a landmark decision on the link between the Brussels Convention and European integration. The Maastricht Treaty placed judicial cooperation within the competence of the Justice and Home Affairs Pillar of the European Union (the so-called third pillar). The Amsterdam Treaty amended Art. 65 of the EC Treaty to give the Community competence for “improving and simplifying [...] the recognition and enforcement of decisions in civil and commercial cases, including decisions in extrajudicial cases.”. On that basis the Brussels Convention was replaced by Council Regulation (EC) No 44/2001 of 22 December 2000 on jurisdiction and the recognition and enforcement of judgments in civil and commercial matters, OJ 2001 L 12/1, and the underlying public policy concerns have been widened towards the objective of maintaining and developing an area of freedom, security and justice, where the free movement of persons is ensured. Under the Lisbon Treaty, this subject matter is governed by Arts. 67 and 81 of the Treaty on the Functioning of the European Union (TFEU). 22 Cf. Commission Recommendation of 11 June 2013, 2013/396/EU, in OJ 2013 L 201/60, on common principles for injunctive and compensatory collective redress mechanisms in the Member States concerning violations of rights granted under Union Law. Cfr. Resolving Mass Disputes, ADR and Settlement of Mass Claims, ed. by Hodges, Stadler, (2013); Extraterritoriality and Collective Redress, ed. by Fairgrieve, Lein, (2012). 23 Yeazell, Group Litigation and Social Context: Toward a History of the Class Action, in Columbia L. Rev., 77, (1977), 866.
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Europe: the regulation of business activities that impact not so much on the interests of an isolated individual, but on the interests of a broad number of people. Such a regulatory function should be complementary to the control function of the public administration: private enforcement and public enforcement should go hand in hand.
5. Adjudication and consensual Dispute Resolution: Relationship.
The above overview recalls the profound differences between adjudication and negotiated settlement. If national governments and the European Union decide to develop and propagate alternative dispute resolution methods, it is to be expected that a number of the civil justice systems’ functions concerning public interests will be prejudiced. These include articulating legal norms and, as far as the European Union is concerned, integrating Union law by references for preliminary rulings24 as well as providing deterrence to engage in harmful illegal acts against a broad range of consumers. However, the trend towards private dispute resolution processes does not come “out of the blue”. It is fully understandable that the constitutional concept of courts as a basic public service provided by government is, as Judith Resnik recently pointed out, under siege: “Pressures come from the demands imposed by the host of new claimants who, because of twentieth-century equality movements, gained recognition as rights holders; from institutional defendants arguing the overuse of courts and proffering alternatives; and from competition for scarce funds in government budgets”25. Against this background, as far as western countries are concerned, “we have been presented with two competing narratives about civil justice: that there is not enough access to justice and that there is too much litigation”26. There are two possible ways out of the crisis: either broadening access to justice or reducing the courts’ workload. It goes without saying that they appear to be opposite solutions. However, the secret to the success of private dispute resolution processes, in particular mediation, is that they can serve both purposes, depending on the stories being told about access to justice and alternative dispute resolution methods. First of all there is Cappelletti’s story, which at a glance means: avoiding or terminating litigation before the courts through a settlement means renouncing the articulation of legal norms through the dispute resolution method, but it does not mean renouncing the goal of dealing with the case justly. It is not by chance that the development of alternative dispute
24
Art. 267 TFEU. Resnik, Fairness in Numbers: A comment on AT&T v. Concepcion, Wal-Mart v. Dukes, and Turner v. Rogers, in Harvard L. Rev., 125, (2011), 78. 26 Genn, Judging, (n. 11), 78. 25
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resolution methods has been placed in the framework of the “access-to-justice movement” by Cappelletti27. Beautiful legal ideas are not monuments like the Cupola of Brunelleschi in Florence, visible to all who pass by. Beautiful legal ideas – just because they are beautiful – meet with obstacles in the process of becoming legal realities and in fact are often destined to remain in books. In such cases legal scholarship has the task of recalling and sustaining them, until they can find themselves on the political agenda and become a reality. The idea of access to justice is such a beautiful idea. Barriers to justice are many and often interrelated, but they are most evident for small claims and for isolated individuals, especially those of limited means, and a complex strategy is needed in order to overcome them. Accordingly, the movement for access to justice is characterized by three “waves”. The first wave consists of developing mechanisms to provide legal aid. The second wave is the move to give representation to “diffuse” collective interests and/or to protect “homogeneous” individual interests through mechanisms such as class actions and granting standing to sue to consumer and environmental associations28. The third wave consists of the simplification of proceedings and the development of alternative methods of dispute resolution. The distinctive feature of Cappelletti’s approach is that only the harmonic and proportionate combination of the three waves can effectively and efficiently respond to the demand for justice from society. As Ugo Mattei put it “Cappelletti’s work […] witnessed a moment of general optimism in the public interest model, an idea of an activist, redistributive, democratizing, public-service-minded approach to the public sector in general and to private law in particular. In this intellectual mode of thought, the Welfare State in Western Societies was seen as a point of arrival in civilization, and access to justice was the device through which communities could provide law as a public good, after having provided shelter, healthcare and education to the needy.”29. Beginning in the early eighties, the global ideological picture had changed. “Neo-liberal policies, inaugurated by prime minister Thatcher in Great Britain, […] and imported on a much weaker institutional background in Reagan’s America, were based on the very basic assumption that the welfare state was simply too expensive. [...] Public shelter, health, education and justice for the poor were the natural ‘victims’ of such budget cuts.”30. The turn to neo-liberal policies has had an influence on the development of alternative dispute resolution methods, cutting off their relationship with the idea of access to justice
27
See Cappelletti, Garth, in Access to Justice, A World Survey, ed. by Cappelletti Garth, vol. I (1978), 9: “Effective access to justice can [...] be seen as the most basic requirement – the most basic ‘human right’ – of a modern, egalitarian legal system which purports to guarantee, and not merely proclaim, the legal rights of all.” 28 It is worth mentioning Galanter, Why the “Haves” Come Out Ahead: Speculations on the Limits of Legal Change, in L.&Soc’y Rev. 9, (1974), 95, drawing a distinction between individuals, who typically have isolated and infrequent contacts with the judicial system, and organizations with a long-term judicial experience, stressing the advantages of “repeat players”. 29 Mattei, Access to Justice, A Renewed Global Issue?, in General Reports of the XVIIth Congress of the International Academy of Comparative Law, ed. by Boele-Woelki, van Erp, vol. II, (2007), 383. 30 Mattei, Access to Justice (previous note), 383.
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and marking the beginning of another story. Facing this new political environment, mediation has increasingly been employed as a means to cut the costs of state civil justice as well as to reduce the caseloads of courts. However, it is not true that there is “too much” litigation just as it is not true that there are too many sick people or too many people who want to make use of public transport. There can be courts or hospitals that are not able to cope with their caseloads and patients. To relieve these imbalances between supply and demand of public services, governments can either boost supply, if there are enough resources to do so (which does not appear to be the case at present), or they can work in the long run and adopt measures in order to mitigate the social, economic and legal conditions that give rise to litigation. In the context of the latter solution promoting mediation, through proper education of the public and the legal profession, can play a major role in supplementing courts. However, it should be clarified that mediation should not be seen as a remedy for the inefficiencies of state machinery of justice. Instead it should have an “added value”, even though courts work effectively and efficiently. The promotion of mediation should always be accompanied by efforts to improve the efficiency of the public civil justice system and not by attempts at limiting access to courts. Thus the adjective “alternative” is misleading in relation to outof-court dispute resolution methods. The out-of-court dispute resolution methods ought not to be an alternative to the state civil justice system, but rather complementary because: (a) they are not available in all types of disputes, but only to those relating to rights and obligations on which the parties are free to decide themselves; and (b) they need the public machinery of justice, if (b1) the settlement agreement is not complied with or (b2) a provisional measure is needed to protect a right (especially of a weak party) involved in the dispute. Taking the interrelationship between the state civil justice system and out-of-court dispute resolution methods into account allows one to determine those types of disputes that are better suited than others to be resolved through mediation, instead of being resolved through legal action before the courts. A first group concerns cases where the parties are members of a group or maintain a long-term social or economic relationship. The civil process is intended to ascertain the past and, as a rule, does not take into account the future. For this reason it often results in a definitive break between the parties. On the other hand mediation can broaden the perspective and help maintain future relations between the parties. A further kind of dispute concerns small claims. Allegedly, small claims, especially in the field of consumer protection, are well suited for alternative dispute resolution methods. Here the average length of the proceedings and the counsel’s fees are disproportionate in relation to the small value of the dispute. As a result the consumer often does not claim his right before the courts. One could imagine in such a case that mediation is a more cost-effective alternative to filing a lawsuit. However, in numerous cases consumers injured by an illegal act are many and fall into a class. When there are issues of law or fact at stake which are common to the class, and the claims are typical, the most efficient solution is not an individual mediation but a class action eventually followed by a collective mediation. In other words, if there are issues common to a group of claims, the most
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efficient solution is a court-based mechanism that aggregates such a group of individual cases. If the damages suffered by each member of the class are mild, an individual judicial lawsuit is certainly not advisable but neither is individual mediation. Rather a class action is more convenient. The latter costs the individual consumer less time and money than the individual mediation. The class action encourages consumers to claim their rights. However, if the costs for the recovery are greater than the value of the sum to be recovered (if this is really very small), it is preferable to confiscate the profits the company unlawfully acquired (“skimming off excess profits”), as is the case under the German Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb (UWG)31. In addition, class actions organize a collective response by the consumers against the company’s wrongdoing. Therefore this reaction has a deterrent effect against the company which is much greater than that of a consumer’s individual lawsuit. Moreover, class actions serve to improve the functioning of mediation by strengthening the position of the weaker party, the consumer. He or she can refuse to enter into an unfair agreement, because he or she may well be aware that an effective remedy is available before the courts. To cut a long story short: an effective and efficient machinery of public justice is needed to ensure that the risk of unequal bargaining power between the parties giving rise to instances of unjust settlements remains as low as possible. This is especially the case in the field of consumer protection in Europe, as a system of dispute resolution with its own institutional structure independent of the courts is about to arise32.
6. Essential Foundation of settlement Agreements: the Law
of Contract.
Any legally binding result from a process of mediation is founded on the law of contract33. It is worth recalling this point at the beginning of the second part of this study, because it reveals the normative foundations upon which I will develop my reasoning. Regarding the legal nature of agreements resulting from mediation, it is useful to begin from the assumption that they can normally be defined as settlements of a dispute by mu-
31
§ 10 UWG: Gewinnabschöpfungsklage. It is a remedy to association suits aimed at depriving anyone who unfairly distorted competition of illegal gains. In the course of a recent reform of the German Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen (GWB), skimming-off actions have also been introduced into German antitrust law. See § 34a GWB, for which § 10 UWG served as a model. 32 Directive 2013/11/EU of the European Parliament and of the Council of 21 May 2013 on alternative dispute resolution for consumer disputes and amending Regulation (EC) no. 2006/2004 and Directive 2009/22/EC (Directive on consumer ADR), OJ 2013 L 165/63. Cfr. Hodges et Al., Consumer ADR in Europe, (2012) 389. 33 All legal systems considered share this point of view. The binding effect of a mediation agreement was long disputed in the Chinese legal system. Doubts have been overcome by the People’s Mediation Law 2010 (Art. 31); cf. Pissler, Mediation in China: Threat to the Rule of Law?, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 959, 973. It is also possible for parties to agree to a non-binding agreement, for example with a “cooling-off period” to allow them to reflect upon what has been agreed to before formalizing it a later time, such as in England; cf. Scherpe, Marten, Mediation in England and Wales: Regulation and Practice, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 365, 407.
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tual concessions: “compromise” in the English legal terminology, transaction in French, Vergleich in German. The history of dispute resolution methods based on negotiation activities between the parties is closely linked to the legal concept of settlement. In the past such forms of dispute resolution were frequently discussed in legal literature on legislation for settlement agreements. Settlements today remain the most important way for legally implementing the successful outcome of alternative dispute resolution processes34. Legal rules that apply to settlement agreements are therefore supposed to also apply to agreements resulting from mediation. Recent legislation on mediation processes35 does not need to thoroughly address topics such as legal effects and avoidance of agreements resulting from mediation. Instead they deal with selected aspects, such as formal requirements and enforceability. In turn the essential foundation for a legally binding settlement agreement is the ordinary law of contract36. The combined outcome of this definition of agreements resulting from mediation and of the claim that the true foundation of settlement is the law of contract is a good basis for most purposes of this paper. It will provide the basis for the development and articulation of a line of reasoning that takes into account, where appropriate, specific provisions on settlement agreements that operate as exceptions to the ordinary law of contract.
7. Effects. It is worth discussing these issues, starting with a brief overview of the effects of settlement agreements. An effective settlement agreement represents the end of the dispute between the parties. Issues of law that may have formed the subject matter of the original conflict are “buried beneath the surface” of the settlement agreement37. It is a matter of interpretation of the particular settlement agreement whether the preclusion of issues also determines the preclusion of original claims, giving rise to a claim grounded only on the compromise (novation)38.
34
Cfr. Hopt, Steffek, Mediation, (n. 2), 43. In the light of this circumstance it may well be justified to label the pertinent provisions on alternative resolution processes of the ALI/Unidroit Principles of Transnational Civil Procedure as “Settlement” (English version) and “Transaction et conciliation” (French version). Cf. Principle no. 24, which reads as follows: “Settlement. 24.1 – The court, while respecting the parties’ opportunity to pursue litigation, should encourage settlement between the parties when reasonably possible. 24.2 – The court should facilitate parties’ participation in alternative-dispute-resolution processes at any stage of the proceeding. 24.3 – The parties, both before and after commencement of litigation, should cooperate in reasonable settlement endeavors. The court may adjust its award of costs to reflect unreasonable failure to cooperate or bad-faith participation in settlement endeavors.” 35 In Europe one may take the Austrian regulation as a starting point of the recently adopted legislation on mediation. Austria had already established legal rules for mediation in family law cases back in 1999, and in 2004 it enacted the first Mediation Act in Europe, the Zivilrechts-Mediations-Gesetz; cf. Roth, Gherdane, Mediation in Austria, (n. 3), 249. 36 This sentence echoes Foskett’s “[t]he essential foundation for a legally binding compromise is the ordinary law of contract”; cf. Foskett, The Law and Practice, (n. 16), 3. 37 Foskett, The Law and Practice, (n. 16), 111. 38 Bork, Der Vergleich, (1988), 121; Franzoni, La transazione, (2001), 227.
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Legislation on mediation does not normally address the issue of typical terms that form part of agreements resulting from mediation directly. Instead the issue is dealt with indirectly in provisions about the definition of mediation. These definitions should therefore be compared with the legal concept of a settlement agreement, and we should look for intersections as well as overlaps that might reveal some systemic issues. At this stage it is useful to recall the definition of mediation provided by the Austrian Zivilrechts-Mediations-Gesetz mentioned above. This definition is well balanced as it avoids elements which are either redundant or are associated with types of mediation that are not focused on the aim of resolving disputes such as transformative mediation39. Moreover substantive aspects (the dispute and the aim of resolving it) are combined with procedural aspects (voluntary participation of the parties and promoting communication by the mediator). However, the substantive component is quite obvious. This may well be the reason why the procedural component prevails over the substantive in characterizing mediation, for example the definition of mediation as a “structured process” adopted by the EU Mediation Directive. At the same time mediation can be usefully associated with the legal concept of settlement (and scholarship on it) that in turn can provide valuable insights into the resolution of disputes. In many jurisdictions the legal concept of settlement requires the element of mutual concessions40. To enhance flexibility of mediation, other jurisdictions may well avoid this requirement41, or they may simply broaden the scope of mutual concessions, providing that: “through mutual concessions legal relationships other than the controversial one can also be created, modified or terminated”42. This definition of the scope of mutual concessions may convey the idea that a judicial decision and a settlement agreement are both able to solve a dispute, although in quite different ways. While judicial decisions fundamentally have to ascertain past relationships of the parties and stick to the issues of contention, settlement agreements can broaden the view of the parties. Past problems can be resolved with a view to future developments and controversial issues can be addressed with a view of the common ground between the parties. In most cases, compared with judicial proceedings, more flexible outcomes of a mediation process can be achieved without giving up the idea of viewing the agreement resulting from mediation as a settlement that bears the hallmark of mutual concessions. Mutual concessions may not interfere with public policy concerns. Accordingly the question of whether parties enjoy the freedom of choosing the method of dispute resolution (settlement agreements may not regard rights over which parties may not dispose)
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Bush, Folger, The promise of mediation. Responding to conflict through empowerment and recognition, (1994); Genn, Judging, (n. 11), 88. 40 See e.g. § 1380 Austrian Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB); cf. Roth, Gherdane, Mediation in Austria, (n. 3), 273; cf. also §779 German Bürgerliches Gesetzbuch (BGB). 41 See e.g. Art. 7:900 Dutch Burgerlijk Wetboek; cf. Schmiedel, Mediation in the Netherlands: Between State Promotion and Private Regulation, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 697, 719. 42 Art. 1965 para. 2 Italian Codice civile; para. 1 of that article provides: “A Settlement agreement is a contract by means of which parties, through mutual concessions, either resolve a current dispute or avoid a future one” (translation by the Author).
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and the terms of the settlement agreement, which may not infringe mandatory rules provided by the relevant applicable law, are influenced by public policy concerns43.
8. Formal Requirements. In relation to the formal requirements of agreements resulting from mediation, the principle of freedom of contract entails the freedom of forms. Compliance with particular formal requirements proves costly and time consuming. Therefore any formal requirement needs to be properly justified: “Formalities serve particular policies”44. There is a number of purposes that formal requirements can serve: documentation and evidence (which are the most frequent), authenticity of declarations, communication, information, warning, protection against haste, expert advice, market regulation, protection of creditors, public oversight, etc45. Generally legal rules on formal requirements of agreements arising from mediation fit quite well with the framework just mentioned. As a rule, an oral agreement is sufficient. However a written form is often required for documentary or evidentiary purposes46. The EU Mediation Directive requires a written form in order for the agreement to be enforceable47. The EU Directive on consumer ADR provides that parties be notified of the outcome of the ADR procedure in writing or on a durable medium and be given a statement of the grounds on which the outcome is based48. At times, such as in the case of transfer of real estate, certification by a public notary may be required. Following the idea that mediation is in principle a procedure enabling the parties themselves to reach a solution to their dispute, the signature of the mediator should not be required. This principle is reflected in the Italian regulation. In Italy the mediator records the settlement for documentation purposes and signs the documentation record but does not sign the agreement49. A few jurisdictions do however require the joint signature of the parties and the mediator50. The mediator or the legal counsel of the parties may give advice on the drafting of the agreement51. If the assistance of legal counsel is required, it amounts to a formal requirement of agreements resulting from mediation. The rationale
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As to the concept of mandatory rules, see Grigoleit, Mandatory Law (Fundamental Regulatory Principles), in The Max Planck Encyclopedia of European Private Law, ed. by Basedow, Hopt, Zimmermann, Stier, (2012), 1126. 44 von Mehren, Chapter 10: Formal Requirements, in International Encyclopedia of Comparative Law, vol. VII: Contracts in General, ed. by von Mehren (1998), 9; Mankowski, Formzwecke, JZ, 2010, 662. 45 Cf. Mankowski,in JZ, 2010, 662. 46 Cf. Art. 1967 Codice civile. 47 Cf. Art. 6. Directive on consumer ADR. 48 Article 9 lit. (c) Directive on consumer ADR. 49 Cf. Art. 11 para. 3 Decreto Legislativo no. 28/2010; Hopt, Steffek, Mediation, (n. 2), 44. 50 Such as Spain; cf. Villamarín López, Mediation in Spain: Dealing with Its First National Regulation, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 839, 848. 51 Such as in France; cf. Deckert, Mediation in France: Legal Framework and Practical Experiences, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 455, 472.
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of this provision should be investigated and related to the different styles of mediation. If “bargaining under the shadow of the law”52 is taking place, i.e. a rights-based mediation, the purpose of the mandatory assistance of legal counsels is clearly to provide parties with expert advice. If interest-based mediation is taking place, i.e. an approach to achieving settlement that does not depend on reference to legal rights or the legal merits of the dispute but regards the conflict as a problem capable of solution53, there is no rationale for the mandatory assistance of legal counsel except perhaps the goal of limiting competition from other professionals in the business of dispute resolution.
9. Judicial Review: general Remarks. As to the judicial review of agreements resulting from mediation, a pivotal distinction between such agreements, on the one side, and adjudication as well as arbitration, on the other side, should be made. In individual mediation processes parties together have control over the content of the act solving the dispute (they determine the terms of settlement agreements) as well as over the binding effect of it (settlements become binding for the parties after they have determined and agreed on the content of them)54. By contrast, in arbitration and in judicial proceedings the parties, as a rule, do not have control over either the content of the act solving the dispute nor over its binding effect. They are bound by judicial decisions or arbitral awards, without being able to determine by consent the content of them55. This difference is why there should not be state (judicial) review of the lawfulness of individual mediation processes that give rise to a settlement agreement. Even if there are procedural flaws, they become irrelevant after the parties have agreed on a settlement except where there are circumstances that may render the agreement ineffectual, much like under the ordinary law of contract.
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Cf. Mnookin, Kornhauser, Bargaining in the Shadow of the Law: The Case of Divorce, in Yale L.J., 88, (1979), 950. Cf. Genn, Judging, (n. 11), 81. 54 Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 58 (2004), 1201; Steffek et Al., GRDR, (n. 13), 16; in the text, individual mediation processes as opposed to collective mediation, where many participants are involved, were mentioned. As far as collective mediation processes are concerned, the most efficient solution proves to be that of granting participants only an opting out right in relation to a (mass) settlement agreement whose terms are negotiated by representative organizations and approved by the court, such as provided by the Dutch Act on Collective Settlements, Wet collectieve afwikkeling van massaschades (WCAM). On WCAM see Tzankova, Hensler, Collective Settlements in the Netherlands: Some Empirical Observations, in Resolving Mass Disputes, (n. 22), 133; Tzankova, van Lith, Class Actions and Class Settlements Going Global: The Netherlands, in Extraterritoriality and Collective Redress, (n. 22), 67 f. If that is the case, only the negotiating representative organizations have control over the terms of the mass settlement agreement. Members of the class have control only over the binding effect of settlement on themselves. 55 As far as judicial proceedings in particular are concerned, the principle of party disposition entails that parties’ claims determine the commencement, scope and end of proceedings; Stürner, The Principles of Transnational Civil Procedure, An Introduction to Their Basic Conceptions, in RabelsZ, 69, (2005), 201. But the principle of party disposition can never determine the course of the proceedings (there can however be room for procedural agreements: Wagner, Prozeßverträge, (1998); Caponi, Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 62, (2008), Supplement to Issue no. 3, nor the content of the act resolving the dispute (the final decision), nor its binding effects. 53
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Institutional settings and public oversight should reduce as far as possible the risk that the absence of review of the lawfulness of single mediation processes gives rise to mass instances of unlawful mediation processes. In this context it is irrelevant whether the parties together have control over the initiation of the mediation processes. The same rule (no judicial review of individual mediation processes) applies even if the parties have been forced to enter into a mediation process in the context of a dispute that is not subject to mandatory mediation. Even if it is apparent that a procedural flaw has occurred there is no room for impeachment if the parties have reached an effective settlement agreement. As an aside, the problem of mandatory mediation should be briefly addressed. Mandatory mediation, whether by law or by judicial decision, has always been a controversial subject that incites strong feelings56. It is clear that the purist form of mediation is that of a voluntary, consensual process in which the parties are assisted to reach settlement. Mediation is therefore most appropriate and successful when the parties enter the process voluntarily. The readiness of parties to mediate is an important factor in settlement. Cases are more likely to settle at mediation if the parties enter the process voluntarily rather than being pressured into the process57. However this is not a perfect world. Not all are fully aware of the options at their disposal and can make choices on a rational basis that reflects the full range of possibilities. On the other hand parties are often not aware of the costs of the process before the courts and of the considerable length of civil proceedings. Moreover parties are frequently unaware of the possibility of mediation. In order to enter into mediation voluntarily parties need to know about this method of solving disputes. Since the government is involved as a provider of dispute resolution services, the justice system has the duty to implement policies directed at enabling parties to make an informed choice regarding the dispute resolution mechanism. Introducing mandatory mediation processes, at least for a limited period of time, could be an appropriate means to that end. This provision could spread awareness of negotiated methods of dispute resolution and encourage parties to employ them to solve disputes.
10. Erroneous Assumptions, gross Disparity. At this stage, circumstances that may render a settlement agreement ineffectual must be discussed, particularly those events that may occur in a mediation process. The first topic to be addressed is that of erroneous assumptions, which can affect the making of contracts of all sorts. All legal systems deal with the problem of whether an underlying mistake can render a contract invalid. Modern legislation tends to regulate
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Genn, Judging, (n. 11), 106, 108, where mention is made to the Halsey judgment. Genn, Judging, (n. 11), 113.
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mistake, fraud, duress (threat, coercion, undue influence58) and sometimes misrepresentation59 as different types of “defects of the will”60. In this field, the fundamental problem is the conflict between respecting the parties’ intents and protecting the parties’ trust in the legal certainty and reliability of transactions. Therefore, all legal systems try to strike a balance between the setting aside of contracts on the basis of mistakes and the exclusion or restriction of remedies to ensure the continuing validity of contracts despite the existence of mistakes61. In the civil law systems a general tendency can be observed to restrict the impact of mistakes62 and other similar circumstances on the validity of settlement agreements. A relevant distinction in relation to the concept of mistake is drawn between mistakes of law and mistakes of fact. In particular the problem arises whether a party that entered into a contract on the basis of an incorrect legal assumption may subsequently avoid the effects of that contract. As in the field of settlement agreements, where the French and Italian Civil Codes provide that mistakes of law relating to the disputed issues (caput controversum) have normally no relevance on the validity of settlement agreements63, continental systems have long distinguished between mistakes of law and mistakes of fact. However Italian case law extends this rule to mistakes of fact64 and should be placed in a clear trend towards unifying doctrines. This encompasses mistakes in law and mistakes in fact and gives rise to the concept of fundamental mistake65. German law treats this problem within the doctrine of “basis of the contract” (Geschäftsgrundlage)66. The relevant rule of the German Civil Code provides that: “(1) A contract by which a dispute or uncertainty of the parties with regard to a legal relationship is removed by way of mutual concession (settlement) is ineffectual if the facts of the case on which the contents of the contract were based do not correspond to reality and the dispute or uncertainty would not have occurred if the facts had been known. (2) It is equivalent to uncertainty about a legal relationship if the realization of a claim is uncertain”67.
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In English law undue influence is an equitable doctrine that involves one person taking advantage of a position of power over another person. 59 In English contract law misrepresentation is a concept referring to a (fraudulent, negligent or innocent) false statement of fact made by one party to another party which has the effect of inducing that party into the contract. 60 Ernst‚ Mistake, in MaxEuP, (n. 43), 1175. 61 Ernst‚ Mistake, (previous note), 1175. 62 Hopt, Steffek, Mediation, (n. 2), 45. 63 Article 2052 para. 2 French Code civil: “[Les transactions] ne peuvent être attaquées pour cause d’erreur de droit, ni pour cause de lésion.” Art. 1969 Codice civile; cf. Franzoni, La transazione, (n. 38), 328. 64 Cass. 3 April 2013, n. 5139. 65 Article II.-7.201 DCFR; Art. 4:103 PECL; Art. 3.5 UNIDROIT PICC. Ernst‚ Mistake, (n. 60), 1175. 66 Bork, Vergleich (n. 38) 359. 67 § 779 BGB (translation provided by the Langenscheidt Translation Service). It is disputed whether or not this rule also covers issues of law. For the general rule on the frustration of contracts (Störung der Geschäftsgrundlage), see § 313 para. 2 BGB.
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Therefore, on the basis of this rule, only common mistakes relating to uncontroversial undisputed issues (caput non controversum) render a settlement agreement voidable?68 Where a mistake relates to the content of the declaration of will or where fraud or duress occurs, a settlement agreement can be voided69. English law has made no sharp distinction between mistakes in law and mistakes in fact. Instead it seems to be more likely to afford relief in case of mistakes where there has been some misunderstanding about the terms of settlement agreements – or where the parties have come to an agreement on the basis of some shared false assumption of fact. Against that background the Court of Appeal held in Brennan v Bolt Burdon that a mutual mistake of law could in principle invalidate a compromise although there was no operative mistake of law in that case70. However, the scope of this ruling has been somewhat reassessed by legal scholarship, arguing that the mere fact that parties compromise in a dispute involving competing assertions of law that are of debatable validity will not undermine the compromise provided the assertions are made in good faith71. A further restriction of the possibilities to avoid settlement agreements concerns circumstances normally referred to as gross disparity. In line with the modern policy of protecting weaker parties to a contract, recent European harmonization projects provide that one party may avoid a contract if it finds itself in a position of weakness – in particular, economic distress, urgent needs, improvidence, ignorance, inexperience and lack of bargaining skills are mentioned – and the other party has taken advantage of that position in a way which is grossly unfair or has taken an excessive benefit72. However, the possibility to assert such circumstances in order to set aside a settlement agreement has been explicitly excluded in some major civil law systems, as in France and in Italy73. That settlement agreements may not be set aside by asserting mistakes in law or in fact relating to the caput controversum as well as gross disparity fits very well with the principle of finality. The common good and general interest require that litigation must come to an end (interest rei publicae ut sit finis litium). French legislation expresses this principle in a very emphatic way, referring to the binding force of settlement agreements as autorité de la chose jugéé74, having force of res judicata. This expression is not meant to give the settlement agreement the nature of a judicial decision but rather to simply refer to the aforementioned rules, which leave less room for impeaching settlement agreements than general rules on avoidance of contracts. As mentioned above, settlement agreements can broaden the view of the parties and help them to solve past issues with a common view of future developments. What will
68
Bork, Vergleich, (n. 38), 362. § 119 para. 1, § 123 para. 1 BGB. 70 Brennan v Bolt Burdon, [2005] QB 303. 71 Foskett, The Law and Practice, (n. 16) ,59. 72 Art. II.-7.207 DCFR; Art. 4:109 PECL; Art. 3.10 UNIDROIT PICC. Finkenauer, Laesio enormis, in MaxEuP, (n. 43), 1029, 1032. 73 Article 2052 Code civil, Art. 1970 Codice civile. 74 Article 2052 Code civil; Malaurie et Al., Cours de droit civil, vol. VIII: Les contrats speciaux14, (2001), 650. 69
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happen if a common view, which has become a basis of a settlement agreement, is found to be incorrect? A similar problem arises if circumstances which became the basis of a settlement agreement have significantly changed since the agreement was concluded and if the parties would not have entered into the agreement or would have entered into it with different terms if they had foreseen this change. When I dealt with this problem in my first book in 199175, I came to the conclusion that the concerned party has a right to terminate the contract based on the general principle of good faith76. Upon further reflection, I would correct this point, arguing that the concerned party may demand adaptation of the settlement agreement to the extent that, taking account of all the circumstances of the specific case, he or she cannot reasonably be expected to uphold the contract without modification. Only if adaptation of the agreement is not possible or one party cannot reasonably be expected to accept it, may the concerned party terminate the contract77. Does mediation alter this picture in any way? Of course it does. It generates potentials for a more “just” resolution of the dispute than that resulting from negotiations between the parties without cooperation of a neutral. It is clear that the concept of justice in mediation is different from justice in adjudication78. Adjudication fundamentally entails two components: (a) a substantive element, i.e. predetermined legal rules or standards, and (b) a procedural one, i.e. the application of such rules by a judge or arbitrator to facts in the course of a due legal process. Mediation reveals parallel, but different, aspects. As to the substantive element, the rules, standards, principles and beliefs that guide the resolution of the dispute in mediation are those held by the parties, save the application of mandatory rules79. As to the procedural element, cooperation in a neutral, structured process and mediation techniques can help to introduce (or recover) a certain degree of fairness in a dispute resolution mechanism based on negotiations between the parties80. However, one should not overstate the ability of such a structure to redress the inequality of bargaining power between the parties81. As a rule one can effectively redress this inequality through both mandatory legal rules and an effective judicial protection of rights (if appropriate, by group litigation). On the other hand, in an evaluative mediation process, where the mediator can evaluate the strengths and weaknesses of each side’s argument and express a view on what might be a fair or reasonable settlement, his or her activity could be a source of erroneous assumptions by the parties, who in turn may be able to invalidate the resolution of the dispute if the mediator’s wrongful evaluations are nevertheless taken as common uncon-
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Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, (1991). Caponi, L’efficacia del giudicato (previous note), 214; on the principle of good faith, see Ranieri, Good Faith, in MaxEuP, (n. 43), 790. 77 Inspiring on this point is the German provision in § 313 BGB. 78 Genn, Judging, (n. 11), 117. 79 Hopt, Steffek, Mediation, (n. 2), 44. 80 Ganner, Vertragsgerechtigkeit durch Mediation, in ÖJZ, 2003, 710, 712; Hyman, Love, If Portia Were a Mediator: an Inquiry into Justice in Mediation, in Clin. L. Rev., 9, (2002), 157. 81 Cf. Wendenburg, Der Schutz der schwächeren Partei in der Mediation, (2013). 76
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troversial basis (caput non controversum) of the settlement agreement82. Furthermore, deception of one party by the mediator can provide grounds for the setting aside of the settlement agreement depending on the existence of other elements that may be required by the applicable law of contract83. It is worth sharing the view that a mediator failing to disclose all the circumstances can jeopardize his or her independence and neutrality and also give grounds for the existence of fraud84. However one cannot cover the category of settlement agreements based on erroneous assumptions caused by the negligent (or even deceptive) activity of a mediator by simply applying by analogy the rules on settlement agreements and the general law of contract. The new institutional setting, whereby settlement agreements are promoted by mediation schemes, gives rise to a need for new rules regarding the mediator contract (in particular concerning liability)85. Moreover, public oversight is needed to reduce as much as possible the risk that the limited judicial review of single settlement agreements gives rise to many instances of “unjust” outcomes of mediation processes.
11. Enforcement. Settlement agreements are more likely to be complied with voluntarily. As Lord Bingham of Cornhill put it: “a settlement agreement freely made between both parties to a dispute ordinarily commands a degree of willing acceptance denied to an order imposed on one party by court decision. A party who settles forgoes the chance of total victory, but avoids the anxiety, risk, uncertainty and expenditure of time which is inherent in almost any contested action, and escapes the danger of total defeat”86. Still it may well happen that a party fails to comply with the settlement agreement. In this case a legal system must provide the loyal party with a remedy to protect his or her performance interest. In a nutshell three reactions to non-performance are conceivable: specific performance, monetary compensation and termination of contract87. In the field of settlement agreements specific performance can be achieved without bringing an action in full ordinary proceedings if the parties have agreed on making their settlement enforceable. Most legal systems provide for the enforceability of agreements resulting from mediation by mutual consent of the parties if certain formal requirements are met or pro-
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Cf. Mediationsgesetz, Recht der alternativen Konfliktlösung, ed. by Grege - Unberath, (2012), 158. Cf. § 123 para. 2 BGB: “If a third party committed this deceit, a declaration that had to be made to another may be avoided only if the latter knew of the deceit or ought to have known it. If a person other than the person to whom the declaration was to be made acquired a right as a direct result of the declaration, the declaration made to him may be avoided if he knew or ought to have known of the deceit” (translation provided by the Langenscheidt Translation Service). Cf. also Art. 1439 Codice civile. 84 Härtling, Wirksamkeit und Vollstreckbarkeit der Abschlussvereinbarung, in Das neue Mediationsgesetz, (n. 6), 143, 149. 85 Hopt, Steffek, Mediation, (n. 2), 73. 86 Lord Bingham of Cornhill, Foreword to the Fourth Edition, (1996), in Foskett, The Law and Practice, (n. 16), IX. 87 Unberath, Contract, in MaxEuP, (n. 43), 377. 83
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Just Settlement or Just About Settlement?
cedural steps are taken – typically a declaration of enforceability by a court, by the parties’ counsels, by a notary public or by an administrative body88. In this case, the loyal party may pursue (compulsory) enforcement. In some jurisdictions, such as Australia, specific performance of a settlement agreement that the other party has failed to perform will be awarded only under exceptional circumstances89.
12. Concluding Remark. As Arthur T. von Mehren put it with regard to the comparative analysis of the problem of form, “[c]omparative study [...] analyzes and seeks to understand richer and more complex material than is encountered [...] in a single legal system. Moreover, when several legal systems are studied, different intellectual orderings of what is – economically and socially considered – essentially the same subject matter are frequently encountered. The variety of phenomena to be analyzed and comprehended for comparative research stimulates the imagination”90. One may go even further by referring von Mehren’s words to the research activity in the field of mediation. As with the topic of formal requirements, the topic of mediation “well illustrates how the juxtaposition of different intellectual structures or systems and the diversity of the materials to be analyzed and understood leads to a search for unifying
88
French Code de procédure civile, Art. 1565 f. (homologation, i.e. validation by the court, checking both the existence of parties’ consent and compliance with public policy), in connection with Art. 131 (conciliation, i.e. settlement agreement before the court or a conciliateur de justice), Art. 131-12 (court-annexed mediation), Art. 1534 (out-of-court mediation), Art. 1556 f. (procédure partecipative, a kind of out-of-court proceeding with participation of parties’ counsels – cf. Art. 2062 f. Code civile); Ferrand, La transposition en droit français et en droit allemand de la directive n° 2008/52/CE du 21 mai 2008 relative à certains aspects de la médiation en matière civile – Confrontation des conceptions nationales en matière de règlement amiable des différends, in ZZPInt, 16, (2011), 29, 56; D’Alessandro, Il conferimento dell’esecutività al verbale di conciliazione stragiudiziale e la sua circolazione all’interno dello spazio giudiziario europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 65, (2011), 1157. In German law the parties have several possibilities to make their settlement agreements enforceable. For court settlements (Prozessvergleich), judicial mediation conducted by a Güterichter or settlement agreements reached before a conciliator set up or recognized by the Land Administration of Justice, see § 794 para. 1 no. 1 ZPO. Furthermore, according to § 278 para. 6 ZPO if judicial proceedings are pending, the parties may also provide the court with their settlement agreement and ask the court to confirm the settlement by a court order. According to § 796a ZPO, if judicial proceedings are not pending, settlement agreements reached by parties’ counsel may be enforceable (but the procedure is rather cumbersome). Finally, according to § 796 ZPO, the parties may have their agreement recorded by a notary public, who then may declare it enforceable; Stürner, Mediation in Germany and the European Directive 2008/52/EC, in La mediazione civile alla luce della direttiva 2008/52/CE, ed. by Trocker - De Luca, (2011), 45; Tochterman, Mediation in Germany: The German Mediation Act – Alternative Dispute Resolution at the Crossroads, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 521, 545. In English law the parties may consent either to a judicial order directing them to perform the various obligations provided for under the settlement or to an order directing that the agreement “be filed and made a rule of court”. The effect of making the settlement agreement a rule of court enables the terms to be enforced without the necessity of bringing an action; Foskett, The Law and Practice, (n. 16), 169. Art. 6 of the EU Mediation Directive (n. 4) provides that agreements resulting from mediation be made enforceable upon request of the parties, unless the content of that agreement is contrary to the law of the Member State where the request is made or the law of that Member State does not provide for its enforceability. 89 Magnus, Mediation in Australia: Development and Problems, in Mediation: Principles and Regulation in Comparative Perspective, (n. *), 869; in the Australian legal system agreements resulting from mediation cannot be immediately enforced. If one party breaches the agreement, the normal remedy available to the other party is damages. 90 von Mehren, Formal Requirements, (n. 44), 5.
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Remo Caponi
theories that explain the significance of – and the reason for – divergent solutions and traditions”91 and thereby “enables us to formulate general laws without having to abstract the specificities”92.
91 92
Mehren, Formal Requirements, (n. 44), 5. Michaels, The Functional Method of Comparative Law, in The Oxford Handbook of Comparative Law, ed. by Reimann - Reinhard Zimmermann, (2006), 339, 381. von
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Roberta Tiscini
The Pinocchio trial The traditional interpretation Sommario : 1. The discovery of the Adventures of Pinocchio. – 2. Studies on Pinocchio. Pinocchio and social education. – 3. Continued: the other study profiles. – 4. Pinocchio and the law. General outlines. – 5. The “Pinocchio trial”. – 6. Continued: The traditional interpretation. The law upside down. – 7. Pinocchio and justice: an overview.
Gli autori descrivono l’episodio del processo a Pinocchio offrendo di esso due diversi significati. Roberta Tiscini segue la lettura tradizionale; Andrea Panzarola suggerisce un significato innovativo, proponendo una interpretazione originale del ruolo del processo, in generale, e di quello a Pinocchio, in particolare. The Authors tell about the Pinocchio trial giving two different meanings about it. Roberta Tiscini describes the traditional meaning of the tale; Andrea Panzarola suggests an innovative meaning, proposing a new interpretation of the sense of the trial, in general, and according to the Pinocchio figure, in particular.
1. The discovery of the Adventures of Pinocchio. On several occasions, in life, I came across the well-known book by Collodi (pseudonym of Carlo Lorenzini) The Adventures of Pinocchio. I came to know it as a child, when it was read to me in the evening in the low light of my bedroom. A text that has remained with me through my youth, in the faded version of the old volume my mother received as a gift and that still stands in the small bookcase of our country house. I then experienced The Adventures of Pinocchio as a mother and storyteller for my children. Meanwhile, the situation has changed, children no longer have the patience to listen, nor parents to stop and tell. However, precisely my impatience as a mother – striving to catch up with the many duties of life – was a perfect match for that book, fragmented into various stories, linked to each other by a single common thread, but at the same time susceptible to autonomous individual appreciation.
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Roberta Tiscini
I would have never thought, though, of encountering The Adventures of Pinocchio in my professional role, in the years of scientific maturity, as a student of law. Today I look at that text through a new eye, free from the conditionings of a mother or daughter who in those stories seek to find the taste of playful relaxation. It is now time to appreciate the text in the depth of its literary value; a depth that has not been missed by those who share the happy marriage between art and law, between literature and legal science. The latter is the profile on which we will focus our reflections; I will follow the “traditional” reconstruction of the meaning to be given to the law in The Adventures; professor. Panzarola, will offer innovative interpretations, but not therefore less current.
2. Studies on Pinocchio. Pinocchio and social education. Having abandoned the idea that The Adventures of Pinocchio should be relegated to a “children’s text” value – while aiming at an educational function nonetheless, as any fairy tail does – they are to be fathomed in the perspective of the multiple meanings they assume. Above all is the projection of the state-public education towards the social role (in a promotional, as much as polemic-impedimental dynamic, the latter more evident than the former at the time of the Adventures)1. It is the testimony of the refusal of schooling to be evident in the Collodian pages, in line with the political scene of the time2. Other writings3 of Collodi transmit the hostility towards schooling, a known reality at the time, as repulsion against social regulation. Such hostility is no longer a current perspective, in a system in which the reform movement that concerns the school and the University manifests clear interest in the education and formation of young people. The experience of the past – that one can read trough a disenchanted look in the Adventures – turnes today into an impulse towards opposed goals, with the aim of “doing well and better”. Legislative innovations involving cultural growth not always are in line with the function of social edification; it is role playing though, the gamble of all time in the presence of any reform4. This – far from discouraging – induces us to look with optimism to the future and thus to read the Adventures in a
1 2 3
4
On this point, Itzcovich, Pinocchio e il diritto, in Rivisteweb.it. One thinks of the opposition moved to the so called Coppino law of 1877 on compulsory education. In addition to the Adventures of Pinocchio, see Collodi, Pane e libri (A S.E. Minister Berti e C.), 1884 on La Vendetta. Gazzetta del popolo, collected in Id., Note gaie, Florence, 1892, 185-190. See also Bertacchini, Collodi educatore, Florence, 1964, 50 ss. Collodi, The Last Florentines, in Id., Eyes and Noses (Ricordi dal vero), 1881, now in Id., Opere, Milano, 1995, 315-320, 318; Collodi, Macchiette (1880), in Id., Opere, cit., 7. An example for all. In Italy the most recent university reform (law No. 240/2010, the so-called Gelmini law) can not be said to have achieved all merits; the notes of demerit overcome the appreciations, in the widespread feeling. However, one can not deny the projection of that reform – like the others that have affected the university system – towards some positive aspect, in terms of the educational system.
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The Pinocchio trial
positive light: image of an escape from the cultural education of young people that is no longer current. The legislation – from this point of view – is certainly evolving.
3. Continued: the other study profiles. Despite the apparent simplicity and friendly descriptive welcome, many are the profiles of appreciation of the Collodian message. Which, after all, is well reconciled with the simplicity of the exposition: the more accessible a text is to a diverse and widespread audience, the more it asserts itself to address multiple dialogues5. Over time, different studies have alternated; to the point that offering today an original interpretation is difficult at the very least. It is a fact that, far from being a banal children’s fairytale, the Adventures is a book for grownups, “mirror of the human story in time and space”6. The text has been interpreted in many ways. There is a Pinocchio pedagogue, an idealist Pinocchio (in search of the conquest of freedom and human dignity)7, a Pinocchio theologian (whose image is that of the “return to the Father”, with the intercession of a Fairy/Madonna/Church)8, a structuralist Pinocchio (formed by cell-sequences arranged in macro-sequences of resolution, temptation, fall, etc.)9. There is a psychoanalytic Pinocchio (on a ride to death »)10, a mythological and anthropological Pinocchio (in the interpretation of the «esoteric fairytale»11 that «hides, under the veil of realistic conventions, the stages and meanings of a ritual, initiatic and mystery itinerary»12). All these considerations had us wonder whether the Adventures is a “closed text” or an “open text”13: “closed text”, as a typical action, or “open text”, to be read as an autonomous system. We have wondered whether they are an allegory, a parabola oriented towards a destination point with confined boundaries, or whether it is a “cyclic narrative game, cir-
5
Gasparini, The Pinokkio case: between lies, violence and forgiveness, in Justice and literature, vol. II, edited by Forti, Mazzucato, Visconti, Milan, 2014, 156; Manganelli, Pinocchio: a parallel book, Milan, 2002, 19. 6 Gasparini, The Pinokkio case, cit., 158. 7 Fazio - Allmayer, Divagazioni e capricci on Pinocchio, Florence, 1958. 8 Religious interpretations of Bargellini, The Truth of Pinocchio, Brescia, 1942; Biffi, Against Master Cherry. Theological commentary on “The Adventures of Pinocchio”, Milan, 1977 (new edition Milan, 1998). 9 Genot, Analyze structurelle de “Pinocchio”, in Quaderni of the Carlo Collodi National Foundation, n. 5, Pescia, 1970, critically discussed by Nencioni, between grammar and rhetoric. From Dante to Pirandello, Turin, 1983, p. 164 ss. See also Genot., Le corps de Pinocchio, in Collodian Studies, Proceedings of the 1st International Conference (Pescia, 5-7 October 1974), Carlo Collodi National Foundation, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1976, p. 299-313. 10 Garroni, Pinocchio uno e bino, Rome-Bari, 1975, 49, 82 ss., 97 ss., 130. Psychoanalytic interpretations of Pinocchio also of Servadio, Pinocchio, in Id., The psychology of current affairs, Milan, 1962, 391-393; Grillandi, Pinocchio and psychoanalysis, in Studi Collodiani, cit., 23-328, which finds in the Adventures an interweaving of life drives and death instincts; Dedola, Pinocchio and Collodi, Milan, 2002, 171 ss. 11 Cited, An Esoteric Fairy Tale, 1976, in Id., The Black Veil, Milan, 1979, 210-214; Id., The blue-haired fairy, 1977, ivi, 214-220. 12 Zolla, Miti arcaici e mondo domestico nelle “Avventure di Pinocchio”, in Studi Collodiani, cit., 625-629; Rossi, Modelli culti (iniziazione) e connettivo popolare nella fiaba di Pinocchio, in Studi Collodiani, cit., 539-545; Gentile, L’albero di Pinocchio. I precedenti culturali de “Le Avventure”, Roma, 1982; Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino, 1997, 171 ss. 13 In this sense, Itzcovich, Pinocchio and the law, cit., Opting then for the qualification as “open text”.
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Roberta Tiscini
cular, eternally reproducible, capable of producing autonomous meaningful contents”14. Many classical studies around the Adventures make it a closed text, as a “typical fact”, an action aimed at a purpose15, which undoubtedly holds as a central perspective of the text in its educational role. However, the multifunctionality proved by the volume of Pinocchio, the incessant studies that concern it also confirm its projection towards the plurality of meanings, towards the multifunctionality of the messages it sends and of the underlying profiles; so many the curiosities it arouses, the questions it poses and the answers it assures16. Among the many profiles, we will focus on one: the link between Pinocchio and the law, the clash encounter of the marionette with the law and in particular the distorted (but not insignificant) image of the justice system.
4. Pinocchio and the law. General outlines. Numerous and varied interpretations are offered on the Adventures17, even in its strict link with the law. Law meets the Collodian narrative in several parts. It can even be said that it crosses the whole fabric of that novel, albeit in a form that swings between the comic, the metaphorical, the metaphysical, the grotesque, the fantasy. The law – and thus the application of the legislation through the tools that best allow the results – is an integral part of the events affecting the wooden marionette. Pinocchio experiences the law in various circumstances and the legal norm under multiple profiles. On the subjective level, he maintains relations with the “representatives of the law”, symbol of justice (the carabinieri18, the judges19). He then encounters the legal norm, often in its criminal implications20, in a context in which the latter operates “backwards”.
14
Itzcovich, Pinocchio and the law, cit., The liberation of the puppet from his wooden body and its transformation into a good boy. 16 A multitasking reading, one would say in the most modern language ... certainly not the one contemporary to our wooden puppet. 17 Marchesiello, In principio era il legno. Pinocchio e l’immagine della legge, Genova, 2002; Frosini, La filosofia politica di Pinocchio, 1967, Roma, 49 ss. 18 He meets the carabinieri in three places. In chap. III, after kicking Geppetto “on the tip of his nose”, he learns to “walk by himself” and flees from home. Geppetto follows him. “At last, by sheer luck, a Carabiniere happened along”, who catches Pinocchio by the nose – “a huge nose, which seemed to be made to be caught by the carabinieri” – then letting him go, and imprisons Geppetto instead, listening, writes Emilio Garroni, to a “compassionate crowd” that “speaks indifferently of “poor puppet and “boy”». In Cap. XIX, Pinocchio returns to the city of Catchfools to denounce the Cat and the Fox. The judge – “a monkey of the gorilla race, an old ape, respectable for his old age, for his white beard and especially for his gold glasses, without glasses” – after having listened “with much patience” to Pinocchio, he condemns him for a kind of crime of “theft suffered”, entrusting him to the care of “two mastiff dressed as gendarmes”. Pinocchio gets out of prison thanks to a pardon, after declaring himself to the jailer “theft too”, and not a victim (the story will be the center of attention in the following pages). Finally, in Chapter XXVI, Pinocchio, provoked, gets angry with his classmates. A brat hurls a treaty of arithmetic, “really heavy”, which hits a child. Pinocchio limits himself to rescuing him, but two Carabinieri, after a rather brief investigation (“no more is needed”), arrest him unjustly. 19 Pinocchio meets the gorilla judge in the episode that we will examine in the near future. 20 There are multiple crimes represented in the connective tissue of the Adventures, a case that in today’s world could easily fall into criminal cases (attempted and consumed murder, exploitation of vulnerable, fraud, corruption, animal abuse, private violence, 15
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The Pinocchio trial
The traditional interpretation of the relationship between Pinocchio and the law is that of an “upside down law”21; therefore the law in Pinocchio ends up being random and overturned, turned upside down, since it is split from morality. A law not projected towards social education, but a law contrary to the constructive perspective of cultural and social edification. The legal obligation also comes out sacrificed, whenever one is confronted with an unjustly punished Pinocchio22. The profile of the relationship between Pinocchio and the law that stands out among the others originates from the clash encounter mbetween the puppet and the justice. There are numerous examples in which the events of Pinocchio take on the role of the “court case”, assuming the role of a phenomenon that is relevant from a procedural point of view. In particular – and in a nutshell – there are three episodes of the Adventures that evoke judicial experiences23. A first episode occurs in chap. III, where, immediately after Geppetto has finished carving Pinocchio, the latter begins to have a mischievous attitude, running down the street until he meets a carabiniere who, however, cannot stop him. In the end, the carabiniere, after having caught Pinocchio at first, releases him and leads the poor Geppetto to prison. The second case – on which we will focus our attention24 – is that of Pinocchio’s trial narrated in chap. XIX, event taking place in the city of Catchfools (for which we postpone the discussion shortly). The third episode is described finally in chap. XXVII. Pinocchio, after a fight with some schoolboys, rescues his friend Eugene – the only one wounded – but then he is arrested for a deed not done. We are dealing – as is obvious – with cases of justice not served, of an undoubtedly “upside-down” image of the legal world.
5. The “Pinocchio trial”. The episode of greatest interest is described in chapter XIX, according to which “Pinocchio is robbed of his gold coins, and, as punishment, he is sentenced to four months in prison”. The event takes place in the context of the encounter between Pinocchio and the Cat and the Fox. The latter lead Pinocchio into the Field of Miracles and invite him to sow the four gold coins, suggesting that, once buried, those coins could “reproduce”, turning into two thousand in a few minutes; therefore, upon returning after some time, he would
injuries, hit and run, child abuse). On the topic Forti, Pinocchio e la fuga impossibile da “legno storto dell’umanità”, in Giustizia e letteratura, vol. II, cit., 170 ss, spec. 172. 21 Amplius infra § 5. 22 Even this will be best dealt with when the upside down justice is examined (§§ following). 23 Cattaneo, Penalistic suggestions in literary works, Milan, 1992, 224. 24 Infra § next.
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Roberta Tiscini
have witnessed a huge multiplication of the coins. Warned by the Parrot about the false illusion that the Cat and the Fox had engendered and therefore that the buried coins could never multiply, Pinocchio digs into the earth and realizes that the coins are gone. In desperation he rushes to the courthouse to report to the judge, a gorilla-like ape, the two scoundrels who have robbed him. In the judge’s presence, Pinocchio tells in great details the “infamous fraud” he has been the victim of, specifying with precision the name and surname of the scoundrels. After listening to him and being moved, the judge gives his “ruling” declaring: “this poor simpleton has been robbed of four gold pieces. Take him, therefore, and throw him immediately into prison”. Pinocchio is then imprisoned – not the two scoundrels – remaining in jail for four months. “Four long, weary months. And if it had not been for a very lucky chance, he probably would have had to stay there longer”. The young emperor who ruled over the city of Catchfools, the fantasy place where the story takes place – having gained a great victory over his enemy and willing to celebrate, orders the opening of all the prison doors and the releasing of all the scoundrels. Pinocchio therefore, also willing to get out, admits to being a scoundrel. The jailer, then – qualifying him as such – opens the prison door and lets him run away.
6. Continued: The traditional interpretation. The law upside
down.
The event of chapter XIX certainly describes a paradoxical and fantasy situation, where justice is administered by a gorilla who, after having acknowledged Pinocchio’s innocence, and indeed the fraud he had been the victim of, sends him to prison for this very reason. It is evident how the sense of justice is upside down here and how the message that the story sends out is precisely that of a law (“upside down”, in fact) in which the rule, since applied, leads to results which are the opposite of those the world of legality should ensure. In other words, it is a justice reversely administered, where the characters – the judge, the carabinieri – are those and those only who in a coherent system should assure it in the most rightful way, while here they project themselves on pathological results. As for the impact of this kind of pathological justice, it is not the innocent as such who suffers the consequences of the decision, but it is the robbed who suffers the severity of it. Pinocchio is the victim of a typical situation of “prevarication of power” where the poor puppet “is unequipped or vulnerable and can’t even find a way to defend himself; the innocent yields, weak and helpless, to the arbitrary act of the power cloaked with a semblance of legality”25.
25
Cattaneo, Penalistic suggestions in literary works, cit.
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The Pinocchio trial
Within this context, Pinocchio conforms himself and easily gets inside the upside down world, he role-plays, to the point of accepting to acknowledge himself as a scoundrel, just to get out of prison and regain freedom. On the level of symbolic value, this is one of the most complex episodes of the Adventures in which, on the one hand we are provided with the cross-section of an administration of justice, at least in appearance, representative of a faithful description of reality, on the other hand we see a depiction of a corrupt society, in which we find side by side exploiters and exploited, arrogants who clearly got rich with the help of the unfair laws of Catchfools and injured parties that , not only suffer the iniquities, but are even willing to come to terms with themselves in order to pursue the goal (a goal that is nonetheless noble, such as freedom). It is therefore not so much the relationship between the individuals and the human feelings to be sacrificed, but it is the sense of social righteousness – to be placed in the context of the law – to end up being compromised. The city of Catchfools is a place where people live the universal instincts, in good feelings, in fears of danger, in the temptations of fraud, in the interests of social appetite for wealth; a cross-section of the world that, from this perspective, ends up being not very far from reality. What distances itself from reality instead, is the world of institutions, the superstructures of positive law. Social distortions pulse in Catchfools due to the prevailing of political and economic interests. The image of a state law based on the original violence is therefore constructed, where the judge, “impartial figure”, is at the same time always in the service of the State, so that the law must constantly beware of the risk of going back to be pure instrument of strength and power26. We can then agree with the idea that the Collodian city of Catchfools describes “the danger of the prevalence of politics over justice in human society”, and that the depiction of the ape judge intends to “underline the misery of human justice, the totally inadequate and unsatisfactory nature of human tribunals”27.
7. Pinocchio and justice: an overview. How can we describe the relationship between Pinocchio and justice in the image emerging from the “upside down city” of Catchfools?
26
This is also the conclusive reflection of Cattaneo on the Collodian work (ibi, page 245), in which we see the realistic description of “situations that characterize the abuse of power, the oppression of innocence, the complete overthrow of the just and normal relations in a legal system”, which poses the “perennial problem of the philosophy of law, the distinction and delimitation between law and power: on the other hand the need to prevent the law, as too often happens, to be mere expression of the political power, of a dominant group, to be merely, as we often want to underline, a form of “social control”; on the other hand the problem to ensure that the fundamental purpose of law is a guarantee purpose, that the law has the task of essentially protecting human dignity and freedom, through a strict fidelity to the values of justice and legality, of certainty”. 27 Cattaneo Suggestioni penalistiche in opere letterarie, 238.
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Roberta Tiscini
According to the traditional interpretation that we are embracing for this episode – as for the others where the law takes on the role of protagonist in the Adventures – the justice Collodi describes comes out depleted of its fundamental role: the rectitude and correctness of the projection towards the search for truth. A rather sarcastic and paradoxical image is proposed28. It is not known whether this was truly the objective pursued by Collodi, or rather, whether it is an interpretation superimposed on a meaning of a different kind – whatever that may be – that the author meant to assign to the relationship between Pinocchio and justice. It may be doubted that this was the message the author wanted to send while describing the experimentation of law by the wooden puppet. It is a fact that this is the prevailing interpretation today. On the other hand, it has been noted that this interpretation demonstrates that “it is not so much the justice of the courts that interests Collodi, but a justice that goes beyond the applications of the laws and is rooted in deep human relationships”29. In the end, in human relationships justice ends up getting the upper end, when – at the end of the stories – the Cat and the Fox (characters immediately outlined as sinister in their ties to the righteousness of human action) are reduced to utter misery. In other words, what is meant to be conveyed here it’s not the image of a world projected – in the epilogue of events – towards the depravation of results; rather, the image of a legal system in which the ‘crime’ is not punished, not because of an injustice of the individual case, but because of the lack of an institutional justice in the traditional way in which it can be represented. It has been written: “like all the great archetypal stories of a literature directed primarily to youth, the Adventures of Pinocchio act on another level, that of the contrast between the opposing forces of evil and good, that finds support and expression well beyond the so called human justice. The latter, moreover, appears several times, as we have seen, in the itinerary followed by the thirty-six chapters that sustain the Pinokkio race”30. This – along the lines of traditional interpretations – can only be shared. In other words, it is not so much human justice to count as a pursued good, but the love between humans in individual relationships; which, however, acts as a payoff, the price to be paid for overrating the bond between individuals, to the detriment of the righteousness of society as a whole. Law is separated from morality; the first does not pursue the second. Hence – as a syllogistic consequence – if morality does not emerge from it exceedingly impoverished, it is the law that has to endure the hardest sacrifice, in the name of the paradoxical search for a world without law or – even worse – of an upside down law.
28
Gasparini, The Pinokkio case, cit., 166. Gasparini, Il caso Pinokkio, cit., 166. 30 Gasparini, Il caso Pinokkio, cit., 167. 29
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Andrea Panzarola
Pinocchio and the educational function of the trial 1. The core of chapter XIX can be thus summarized: “Pinocchio is robbed of his gold pieces and, in punishment, is sentenced to four months in prison”. It definitely looks like a paradoxical epilogue and a genuine form of upside-down justice, in which the person who has been robbed is punished and the real culprits, namely the Cat and the Fox, are exempted from the trial instead. The traditional interpretation of the episode, brilliantly outlined by Professor Roberta Tiscini, actually finds many validations. Such interpretation, however, does not adequately account for other elements that can be inferred from the entire chapter XIX of the book, which lead to diverge from the prevailing interpretation and suggest a different one based on the educational function of the trial. Such innovative interpretation (proposed by an Italian scholar, Bruno Cavallone31) allows to link the trial that Pinocchio stood to the theoretical lesson given to the puppet (the Marionette) by the Parrot. Furthermore, it contributes to explain the overall benevolent attitude shown by a Gorilla judge (a large Gorilla) towards the puppet. Finally, it promotes the understanding of Pinocchio’s final release from prison (which takes place only after the puppet has declared that he is also a scoundrel). In this recent interpretation, the punishment that Pinocchio suffers is not unjust but it is the consequence, if not of the violation of a legal or moral rule, of a precept of life and experience (which demands us to believe that only work makes money). The trial then serves to this, to educate he or she who (like Pinocchio) is lacking an adequate moral training and a solid life experience, to face existence with its eternal rules. 2. We were saying that first of all the new interpretation makes it possible to link the trial that Pinocchio stood to the theoretical lesson imparted to the puppet by the Pappagallo. The first lesson the puppet received, actually, took place in the Field of Wonders, albeit in a theoretical form, and it was delivered by the Parrot, at the beginning of chapter XIX. There has been talk - about the scene - of lessons of “moral philosophy and political economy” given by the parrot. Let’s stay on the point. Quivering, waiting for the buried coins to multiply, the Marionette hears laughter and turning his head sees on the branch of a tree “a large Parrot, busily preening his feathers”.
31
Cavallone, Pinocchio e la funzione educativa del processo, in La borsa di Miss. Flite. Storie e immagini del processo, Milano, 2016, 204.
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The Parrot makes himself very clear: “Today (but too late!) I have reached the conclusion that, in order to come by money honestly, one must work and know how to earn it with hand or brain”. To earn money, you need to work: here is the lesson given by the Parrot to the Puppet. A lesson also fruit of the experience, given that even the Parrot had once believed that “gold can be sown in a field just like beans or squash” and had presumably paid the consequences (so much so that the Parrot claims to have learned the truth “too late!”). 3. Also the description of the judge and the illustration of his overall behavior towards the puppet can justify the new interpretation proposed here which induces to talk of an example of the educational function that can be carried out by the trial (any trial, in the case under examination, the criminal trial stood by Pinocchio). The judge is certainly an animal, but an old animal (an old Gorilla). It is precisely from the elderly that one can expect a life lesson enriched by experience, to educate or try to educate an immature young man (or rather a puppet who will become such). The whole description of the Gorilla-judge evokes an impression of wisdom and experience, which prevails over any other consideration (including that which would draw from its animal identity a grotesque or derogatory connotation of the judge). To convince ourselves, let’s read Collodi’s page: “The Judge was a Monkey, a large Gorilla venerable with age. A flowing white beard covered his chest and he wore gold-rimmed spectacles from which the glasses had dropped out. The reason for wearing these, he said, was that his eyes had been weakened by the work of many years”. The Gorilla – “venerable with age” – wears a long beard and the eyes (covered by glasses without lenses) are weakened by years of work. The impression conveyed by the description of the Gorilla-judge is confirmed by the dialogue he has with Pinocchio: “Pinocchio, standing before him, told his pitiful tale, word by word. He gave the names and the descriptions of the robbers and begged for justice”. Pinocchio indicates the culprits and asks for justice (but neither the Cat nor the Fox are brought before the judge and the justice asked for by Pinocchio will result in his own conviction). The Gorilla-judge – Collodi specifies – “listened to him with great patience. A kind look shone in his eyes. He became very much interested in the story; he felt moved; he almost wept”. In addition to being patient and authoritative, the judge is described as very sensitive, to the point that, after having listened to Pinocchio, he is moved and is about to cry. Which cannot be surprising considering the fact that the puppet is very young, poor, a drifter and very naive. 4. But then – let us ask ourselves – why is Pinocchio punished? We can answer: for having naively been robbed by the Cat and the Fox. Gorilla-judge states this clearly when, turning to Pinocchio (“pointing to Pinocchio”), he delivers the verdict with a solemn voice: “This poor simpleton has been robbed of four gold pieces. Take him, therefore, and throw him into prison”. A sentence, this one, pronounced after a trial in which Pinocchio was able to tell his whole story “word by wordfinding a judge ready to
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listen to him (“The judge listened to him with great patience”). It could be said that Pinocchio’s right to be heard was duly respected (although he was not assisted by any lawyer). Pinocchio is punished not even though he was robbed, but because he was robbed, falling for the scams of the Cat and the Fox and cultivating the idea that one can become rich without having to work. The punishment from an expert and authoritative judge (the Gorilla-judge) appears to be, then, a healthy lesson in moral education for Pinocchio. Who, not without reason, can get out of jail only after having demonstrated to have understood it: after having admitted, that is, to being a scoundrel: “I beg your pardon” – says Pinocchio addressing the Jailer – “I, too, am a thief”. After this admission, also Pinocchio can be free again, benefiting from the pardon (i.e. from the opening of the prisons decreed by the Emperor after having achieved a great victory: “the young emperor who ruled over the City of Simple Simons had gained a great victory over his enemy, and in celebration thereof, he had ordered ... the opening of all prison doors”). At first, however, the jailer had denied the benefit to Pinocchio, answering to his demand for freedom: “Not you,” ... “You are one of those”. Only after the admission of guilt by the puppet, the jailer finally lets him out of prison (“In that case you also are free”, the Jailer said): “Taking off his cap, he bowed low and opened the door of the prison, and Pinocchio ran out and away, with never a look backward”. 5. To what has been said, it can be added, to corroborate the plausibility of this new interpretation, that it rejects the idea that this is a trial that reproduces and reflects an upside down world. In this respect this interpretation is consistent with the book as a whole, in which all the characters coherently interpret their roles and derive from them essentially what they are owed. A few examples will suffice. After many painful vicissitudes due to Pinocchio, the absolutely upright Geppetto will be rewarded with a true paternity that will comfort him in old age. The Cat and the Fox come to an ignominious end that matches the wrongdoings of which they are guilty. The boys who – to avoid studying – emigrate to the Land of Toys are eventually turned into donkeys. Similarly Pinocchio is punished (and at the same time educated) for having been made a fool of by the Cat and the Fox (ignoring the many warnings received from the most different characters, from the White Blackbird to the Blue Fairy, etc.). The scolding that the mangy parrot gives the puppet - for having believed that “gold can be sown in a field just like beans or squash” – is, so to speak, complemented by the punishment imposed on him by the Gorilla-judge, also inspired by the rule of life (which is a moral rule too) according to which (again using the words put by Collodi in the Parrot’s mouth) “in order to come by money honestly, one must work and know how to earn it with hand or brain”. It follows that Pinocchio’s fault is twofold: on the one hand he trusted the Cat and the Fox, on the other hand – fault much more serious than the other – he believed that wealth is generated by itself, while it’s only the product of labour and work. Precisely for not having understood the theoretical lesson of the Parrot, something more and different is needed for the education of Pinocchio (for his regeneration, one could say), the practical punishment, inflicted upon him by the judge Gorilla. This is a crucial element of the real “Bildungsroman” the Pinocchio of Collodi can
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be regarded as. Another matter is whether that of the trial with an educational function is a viable idea or (as I tend to believe, also in light of the experience of justice in the Soviet Union) a utopia from which to keep a safe distance.
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Giurisprudenza Corte Costituzionale, 27 aprile 2018, n. 93, Pres. Lattanzi - Red. Coraggio Questione di legittimità costituzionale – Artt. 395 e 396 c.p.c. – In riferimento ad art. 117, comma 1°, Costituzione e art. 46 CEDU – Inesistenza di motivo di revocazione straordinaria per sopravvenuta sentenza di condanna della Corte EDU – Infondatezza Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevedono, tra i casi di revocazione, quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
(Omissis) nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, promosso dalla Corte d’appello di Venezia, sezione per i minorenni, sul ricorso proposto da J. Z., con ordinanza del 18 luglio 2016, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2017. Visto l’atto di costituzione di (omissis); udito nella udienza pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore (omissis); udito l’avvocato (omissis) per (omissis) Ritenuto in fatto 1.− La Corte d’appello di Venezia, sezione per i minorenni, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa «si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo», deducendo la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 1.1.− Il rimettente espone in punto di fatto che: − il Tribunale per i minorenni di Venezia − all’esito di un procedimento radicato dal pubblico ministero in favore del minore (omissis), in ragione dell’assenza di notizie del padre e della carenza nell’accudimento da parte della madre (omissis) − aveva dichiarato, con sentenza n. 98 del 19 febbraio 2010, lo stato di adottabilità del minore medesimo, disponendo l’interruzione dei rapporti con la madre e nominando un tutore; − avverso tale sentenza la madre (omissis) aveva proposto appello, sostenendo l’assenza dei presupposti per la pronuncia della dichiarazione di adottabilità e lamentando che il tribunale − in violazione dell’art. 8 della CEDU − non avesse valutato la possibilità di dare luogo ad un’adozione non legittimante, in applicazione dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), che le avrebbe consentito il mantenimento di un rapporto con il figlio minore; − la Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. 126 del 19 novembre 2010, sul presupposto che
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l’ordinamento non prevede l’adozione «mite» richiesta dall’appellante, aveva confermato la sentenza di primo grado; − la Corte europea dei diritti dell’uomo, adita dalla madre (omissis), con sentenza del 21 gennaio 2014, divenuta definitiva il 2 giugno 2014, aveva accertato la violazione lamentata e condannato lo Stato italiano a pagare alla ricorrente la somma di euro 40.000,00, a titolo di indennizzo per il danno morale subito, oltre alle spese; − con la citata sentenza la Corte EDU aveva ritenuto che, a salvaguardia del rispetto della vita familiare da ingerenze non giustificate, le autorità italiane, prima di disporre l’affidamento del minore e avviare una procedura di adottabilità, avrebbero dovuto prendere misure concrete per permettergli di vivere con la madre, occorrendo preservare, per quanto possibile, il legame tra gli stessi e favorirne lo sviluppo; − sulla base di tali premesse, la ricorrente (omissis) ha agito per la revocazione della citata sentenza della Corte d’appello, chiedendo, in via principale, che vengano presi contatti con i genitori adottivi e con i servizi sociali, perché, nel rispetto dell’interesse del minore, si valutino quali possano essere le forme di attuazione della sentenza della Corte EDU; e, in via subordinata, qualora a ciò si consideri ostativa la formulazione dell’art. 395 cod. proc. civ., di sollevare questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione, nella parte in cui non prevede tra i casi di revocazione quello in cui tale rimedio sia imposto dalla necessità di dare attuazione ad una sentenza della Corte EDU; − si è costituito il tutore, aderendo alle richieste della ricorrente e chiedendo che i servizi sociali competenti siano incaricati di predisporre un progetto di recupero della relazione madre-figlio. 1.2.− Circa la rilevanza della questione, il rimettente osserva che l’impugnazione proposta è una revocazione straordinaria per fatti successivi al giudicato, la cui ammissibilità è soggetta al ri-
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spetto del termine di trenta giorni di cui all’art. 325 cod. proc. civ., termine decorrente, ai sensi dell’art. 326 cod. proc. civ., dalla data di conoscenza dell’evento considerato causa di revocazione. Aggiunge il rimettente che la ricorrente ha giustificato il ritardo dell’impugnazione proposta solo in data 16 ottobre 2015, invocando un legittimo affidamento nell’ottemperanza, da parte del Governo italiano, alla pronuncia della Corte EDU (divenuta definitiva il 2 giugno 2014); solo nel settembre del 2015, infatti, essa aveva appreso che il Governo si era opposto alla sua richiesta, inoltrata al Comitato dei ministri in data 3 marzo 2015, di individuazione delle modalità di corretta attuazione della citata sentenza. Tali circostanze, secondo la Corte d’appello di Venezia, evidenzierebbero come la ricorrente non possa considerarsi decaduta dall’impugnazione straordinaria, non essendo immediatamente percepibile la necessità di esperire tale rimedio e ricorrendo, pertanto, i presupposti per escludere «l’imputabilità alla parte di una eventuale decadenza» e giustificare la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, comma secondo, cod. proc. civ. L’ipotesi di contrasto della sentenza interna passata in giudicato con una successiva sentenza della Corte EDU non rientrerebbe in alcuno dei casi di revocazione previsi dall’art. 395 cod. proc. civ., né sarebbe possibile una interpretazione estensiva o analogica che renda tale disposizione compatibile con la necessità, costituzionalmente imposta, di rispettare la Convenzione: di qui la rilevanza della questione di costituzionalità, perché solo una eventuale pronuncia additiva della Corte costituzionale potrebbe rendere ammissibile l’impugnazione proposta. 1.3.− Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che nella sentenza n. 113 del 2011 la Corte costituzionale − nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del codi-
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ce di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di consentire la riapertura del processo per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU − ha valorizzato l’art. 46 della Convenzione, che impegna gli Stati contraenti a tale conformazione, richiamando la giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo che assicura alle vittime delle violazioni convenzionali, oltre alle misure risarcitorie, l’adozione di misure individuali che valgano ad assicurare la restitutio in integrum. Nel caso di specie, la Corte EDU, nell’accertare la violazione dell’art. 8 della Convenzione, avrebbe messo in discussione la necessità di procedere ad una adozione legittimante e di sopprimere il legame famigliare tra ricorrente e figlio, e avrebbe ritenuto lo Stato italiano inadempiente all’obbligo di adottare misure volte a preservare e favorire tale legame. La necessaria esecuzione ed attuazione della pronuncia sovranazionale postulerebbe, quale unico strumento idoneo, il riesame nel merito della questione già definita con la sentenza passata in giudicato. La mancata previsione nella elencazione tassativa delle ipotesi di revocazione del conflitto con sopravvenute sentenze della Corte EDU sarebbe in contrasto con l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost. Infine, secondo il rimettente, la questione di legittimità costituzionale andrebbe estesa al disposto dell’art. 396 cod. proc. civ., che completa la disciplina della revocazione. 2.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 15 maggio 2017, si è costituita (omissis), ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione di costituzionalità. Dopo avere ricostruito i fatti di causa, la parte privata ha aderito alla tesi del rimettente, secondo
cui non sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 395 cod. proc. civ., in quanto i casi di revocazione ivi elencati sarebbero tassativi e di stretta interpretazione, a tutela del valore fondante della res iudicata. 2.1.− Quanto alla rilevanza della questione di costituzionalità, la signora (omissis) ha dedotto che solo il suo accoglimento potrebbe consentire di rimuovere l’ostacolo del giudicato alla sua domanda di rivedere il figlio o anche solo di averne notizie. 2.2.− In punto di non manifesta infondatezza, la parte privata ritiene che il caso sottoposto all’esame della Corte sia del tutto analogo a quello già deciso con la sentenza n. 113 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la revisione del giudicato penale in caso di contrasto con una sopravvenuta sentenza della Corte EDU. Correttamente la Corte d’appello avrebbe individuato il parametro rilevante nell’art. 117, primo comma, Cost., che impone il rispetto degli obblighi nascenti dai trattati internazionali: sarebbe evidente, infatti, che l’assenza di un mezzo per riparare agli errori commessi dallo Stato italiano costituisce un vulnus agli artt. 8 e 46 della CEDU. La giurisprudenza europea avrebbe chiarito come il pagamento di una somma di denaro non possa mai considerarsi esaustivo degli obblighi di riparazione gravanti sullo Stato, dovendosi porre la vittima convenzionale in una situazione quanto più possibile identica a quella in cui si sarebbe trovata in assenza della violazione. In particolare, sarebbe ormai consolidata l’affermazione della Corte EDU secondo cui, in caso di accertata violazione della Convenzione, lo Stato convenuto ha l’obbligo non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa riparazione ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali e necessarie.
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Identiche conclusioni si trarrebbero anche dalla Raccomandazione R(2000)2 sulla riapertura dei processi, adottata dal Comitato dei ministri il 19 gennaio 2000. Nel senso della fondatezza della questione deporrebbe anche un’analisi di diritto comparato, dal momento che in tutti gli Stati contraenti si riscontrerebbero previsioni normative o indirizzi giurisprudenziali idonei a consentire la riapertura dei processi civili e amministrativi. Né sarebbe d’ostacolo all’accoglimento della questione la delicatezza del bilanciamento che dovrà essere operato dal giudice rimettente per determinare, nel caso concreto, le modalità di esecuzione della sentenza della Corte EDU e per consentire, quindi, di riallacciare i rapporti tra madre e figlio; in ogni caso, tale aspetto atterrebbe ad un momento successivo dell’iter logico da seguire nel giudizio di revocazione. 3.− Con memoria depositata il 27 febbraio 2018, la parte privata ha ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Venezia. Secondo la signora (omissis), all’accoglimento della questione non osterebbero le conclusioni raggiunte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 123 del 2017. Quest’ultima avrebbe ritenuto non estensibile ai processi civili e amministrativi l’obbligo di riapertura previsto per i processi penali, in ragione di tre considerazioni: la diversità di rango dei diritti protetti, la necessità di tutelare i terzi e la discrezionalità riconosciuta in capo ai singoli Stati contraenti nella scelta dei mezzi di attuazione delle sentenze della Corte di Strasburgo. 3.1.− Quanto al rango dei diritti fondamentali protetti, la parte privata osserva che per un genitore «il diritto ad un rapporto con il figlio, la possibilità di incontrarlo e di continuare quanto meno ad avere sue notizie, è un diritto di rango superiore a quello della libertà personale».
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3.2.− La necessità di tutelare i terzi non ricorrerebbe nel caso di specie, poiché i genitori adottivi non sono parti del procedimento di adottabilità e, in ogni caso, sarebbe preminente l’interesse del minore. 3.3.− In relazione alla discrezionalità nella scelta delle modalità di attuazione delle sentenze della Corte EDU, non andrebbe dimenticato che l’art. 46 della Convenzione impone agli Stati contraenti di fare quanto possibile per dare attuazione ai diritti fondamentali da essa tutelati. Da ciò discenderebbe l’obbligo di rimettere la ricorrente, per quanto possibile, nella condizione precedente la violazione convenzionale, il che postulerebbe la necessità di porre in discussione il divieto, recato dalla sentenza passata in giudicato, di qualsiasi relazione tra madre naturale e figlio. Considerato in diritto 1.− La Corte d’appello di Venezia, sezione per i minorenni, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa «si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo», deducendo la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 2.− Il rimettente è stato adito per la revocazione della propria sentenza n. 126 del 19 novembre 2010, di conferma di quella resa in primo grado dal Tribunale per i minorenni di Venezia, che aveva dichiarato l’adottabilità del minore (omissis) e disposto l’interruzione dei rapporti con la famiglia naturale.
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Riferisce la Corte d’appello di Venezia che la domanda di revocazione proposta dalla madre (omissis) fa seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, Zhou contro Italia, 21 gennaio 2014, che ha accertato la violazione, ad opera dello Stato italiano, dell’art. 8 della CEDU e lo ha condannato al pagamento in favore della ricorrente della somma di euro 40.000,00, a titolo di indennizzo per il danno morale subito, oltre alle spese. Il rimedio revocatorio, consentendo di riesaminare nel merito la questione già decisa con la sentenza passata in cosa giudicata, sarebbe l’unico idoneo a consentire l’esecuzione della pronuncia della Corte EDU, la quale avrebbe ritenuto che, a salvaguardia del rispetto della vita familiare da ingerenze non giustificate, le autorità italiane avrebbero dovuto, prima di disporre l’affidamento del minore e avviare una procedura di adottabilità, prendere misure concrete per permettergli di vivere con la madre, e, in ogni caso, non recidere il legame con quest’ultima con un’adozione legittimante. Ritiene il rimettente che, qualora l’ordinamento non apprestasse lo strumento della revocazione delle sentenze passate in giudicato per l’ipotesi di conflitto con sopravvenute sentenze della Corte EDU, ne risulterebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti dell’uomo] sulle controversie di cui sono parti». 3.− È non implausibile, e per ciò solo non sindacabile da questa Corte, il giudizio sulla rilevanza operato dal rimettente, il quale afferma di dover fare applicazione delle norme censurate per decidere, in sede rescindente, sull’ammissibilità della domanda di revocazione. La decisione della questione di costituzionalità, infatti, influisce concretamente sulla prima valutazione che la Corte d’appello di Venezia è chiamata
a fare circa la riconducibilità del caso di specie ad uno dei motivi revocatori previsti dalla legge (sentenza n. 123 del 2017). Non incide sulla rilevanza ogni aspetto estraneo al giudizio di ammissibilità della fase rescindente, ivi compresa la verifica dell’effettiva esistenza di un contrasto con la sentenza della Corte EDU, dei suoi esatti termini e, infine, della possibilità attuale e delle eventuali modalità per rimuoverlo (aspetto, quest’ultimo, che in sede rescissoria imporrebbe al giudice a quo di verificare, tenendo conto del best interest del minore, la possibilità di riallacciare i rapporti con la famiglia di origine a notevole distanza di tempo dalla loro interruzione e in probabile presenza del completo inserimento del minore in una nuova famiglia in forza di una successiva sentenza di adozione). 4.− Nel merito la questione non è fondata. Con la citata sentenza n. 123 del 2017, questa Corte, dopo avere esaminato la giurisprudenza della Corte EDU e valorizzato, in particolare, l’importante pronuncia della Grande camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina (n. 2), ha ritenuto che l’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, come letto dalla Corte di Strasburgo cui spetta la funzione di interprete «eminente» (sentenze n. 49 del 2015 e n. 348 del 2007) del diritto convenzionale, allo stato non imponga un obbligo di riapertura dei processi civili e amministrativi. La Corte EDU, infatti, nell’interpretare l’art. 46, paragrafo 1, si limita ad incoraggiare l’introduzione della misura ripristinatoria della riapertura dei processi non penali, lasciando, tuttavia, la relativa decisione agli Stati contraenti, e ciò in considerazione della necessità di tutelare i soggetti, diversi dal ricorrente a Strasburgo e dallo Stato, che, pur avendo preso parte al giudizio interno, non sono parti necessarie del giudizio convenzionale. Nella stessa sentenza n. 123 del 2017, tuttavia, questa Corte, data l’importanza del tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte EDU anche al di fuori della materia penale, ha auspicato sia un
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sistematico coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale (invocato anche in una opinione concorrente riportata in calce alla citata sentenza Bochan) sia un intervento del legislatore che permetta di conciliare il diritto di azione delle parti vittoriose a Strasburgo con quello di difesa dei terzi (su entrambi gli aspetti questa Corte è già tornata con la sentenza n. 6 del 2018). 5.− Ad oggi la giurisprudenza della Corte di Strasburgo non è mutata, come dimostra la sentenza della Grande camera, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira contro Portogallo (n. 2), ove si è nuovamente sottolineata la differenza tra processi penali e civili e la necessità, con riferimento a questi ultimi, di tutelare i terzi, la cui posizione processuale non è assimilabile a quella delle vittime dei reati nei procedimenti penali (paragrafi 66 e 67). La sentenza, anzi, si segnala per l’affermazione, ripresa da diverse angolazioni nelle opinioni dissenzienti, secondo cui la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte EDU di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione (paragrafo 60, lettera a). L’assenza di novità nella lettura, ad opera della Corte di Strasburgo, dell’art. 46, paragrafo 1, del-
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la CEDU in relazione all’obbligo di riapertura dei processi civili e amministrativi, del resto neanche affermato nel caso di specie, esaurisce, dunque, l’esame dell’odierno thema decidendum e comporta il rigetto della questione di legittimità costituzionale, sollevata dal rimettente esclusivamente sotto il profilo della violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato parametro interposto. 6.− Per le ragioni già esposte in punto di rilevanza, fuoriesce dall’alveo della presente questione di legittimità costituzionale il dibattito giurisprudenziale e dottrinale, in cui si inserisce la stessa pronuncia della Corte EDU posta a fondamento dell’istanza di revocazione nel giudizio a quo, sulla opportunità o meno di favorire in via interpretativa o di introdurre in via legislativa forme di adozione che consentano il mantenimento dei rapporti del minore con la famiglia di origine. P.Q.M. La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Venezia, sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe. (Omissis)
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La Corte Costituzionale conferma la stabilità del giudicato sostanziale e la tenuta degli artt. 395 e 396 c.p.c. di fronte alle censure della Corte EDU Sommario : 1. La decisione nella sua logica complementare – 2. Un rapido sguar-
do alla Corte di Giustizia europea. - 3. Questio facti e dinamica del giudizio. – 4. Affidamento e tutela dei terzi quali ragioni di esclusione della revocazione. – 5. Legittimazione ad agire. – 6. I possibili esiti della revocazione. – 7. Riflessione comparata conclusiva.
Con una recente sentenza la Corte Costituzionale ha escluso l’illegittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 c.p.c., nella parte in cui non prevedono un autonomo motivo di revocazione collegato alla necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il giudice delle leggi, con decisione di poco precedente a quella che si annota, aveva raggiunto la medesima conclusione con riferimento al processo amministrativo, mentre, in materia penale, con sentenza del 2011, è stata affermata l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede uno specifico caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna per conformarsi ad una sentenza definitiva della medesima Corte EDU. La pronuncia da ultimo resa offre l’occasione per trarre spunti riflessivi sulle rationes che hanno sorretto le diverse conclusioni raggiunte della Consulta e sulle prospettive ipotizzabili de iure condendo. A recent judgement of the constitutional court dismissed the issue of constitutionality of articles 395 and 396 of the Italian civil procedure code, in so far as they do not provide for an independent ground of revision connected to the need to align with binding decisions issued by the European Court of Human Rights. The constitutional court, with a judgement issued shortly before the one here examined, had reached the same conclusion with reference to administrative procedure, while, in the criminal field, a 2011 judgement of the constitutional court found constitutionally illegitimate article 630 of the Italian criminal procedure code, in so far as it does not provide for a specific ground of revision of the judgement or of the penalty order to allow alignment with binding decisions issued by the ECHR. The last issued judgment offers the opportunity to reflect on the reasons, relied upon by the different conclusions reached by the constitutional court, and on the potential prospects de iure condendo.
1. La decisione nella sua logica complementare. A poco meno di un anno dalla sentenza n. 123 del 2017, la Corte Costituzionale è tornata ad occuparsi della legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 c.p.c. con riferimento agli artt. 117, comma 1°, Costituzione e 46, paragrafo 1°, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
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La Corte d’appello rimettente ha prospettato l’illegittimità di tali norme nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa «si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo». La questione posta dalla Corte d’appello di Venezia si presta ad un confronto con l’ordinanza di rimessione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 4 marzo 2015, relativa al celebre caso Staibano1, la quale aveva invocato gli artt. 395 e 396 c.p.c., in quanto norme integrative dell’art. 106 c.p.a., con la differenza, però, che il Consiglio di Stato si era spinto a intravedere anche la violazione degli artt. 111 e 24 Costituzione, pur mancando di fornire una adeguata motivazione. In ragione di ciò, nella risposta fornita al giudice amministrativo (con la citata sentenza n. 123 del 2017), la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzione degli artt. 106 c.p.a., 395 e 396 c.p.c. con riferimento agli artt. 111 e 24 Costituzione, mentre ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzione degli artt. 106 c.p.a., 395 e 396 c.p.c. con riferimento all’art. 117, comma 1°, Costituzione. Così, in relazione alla dichiarazione di infondatezza della questione con riferimento all’art. 117, comma 1°, Costituzione, il contenuto della recente risposta fornita al giudice civile è sostanzialmente analogo, anzi, meramente ribadito, vista «l’assenza di novità nella lettura, ad opera della Corte di Strasburgo, dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU in relazione all’obbligo di riapertura dei processi civili e amministrativi». All’indomani di siffatta decisione, dunque, si possono trarre le somme della questione relativa alla possibilità che il giudicato sostanziale interno venga meno a seguito di una difforme decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, appurando, così, la differente soluzione fornita al processo penale. Difatti, con la sentenza additiva del 7 aprile 2011, n. 113, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza di condanna penale o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1°, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
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Corte Edu, 4 febbraio 2014, Staibano e a. c. Italia, 4.05.2014, in www.echr.coe.int. Tra i vari commenti alla decisione v. Abignente, Quando la Corte EDU manca il bersaglio (nota alla sentenza Staibano et autres c. Italie), in www.forumcostituzionale.it; Corleto, Il regime transitorio di giurisdizione nelle controversie sul pubblico impiego al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nota a sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Affaire Staibano et autres c. Italie, n. 29907/07 del 04 febbraio 2014, in Gazzetta forense, 2014, 194 ss. Tra i commenti all’ordinanza di rimessione dell’Adunanza Plenaria del 4.03.2015 v. Patrito, Revocazione - se sia ammissibile l’impugnativa per revocazione della sentenza del Consiglio di Stato per contrasto con decisione sopravvenuta della Corte EDU, nota a Cons. Stato, Ad. Ple., 4.03.2015, n. 2, in Giur. It., 2015, 12, 2710 ss.; Vitale, Revocazione del giudicato civile e amministrativo per violazione della CEDU? Il Consiglio di Stato porta la questione alla Corte Costituzionale, in Corr. giur., 2015, 11, 1429 ss. Tra i commenti alla decisione della Consulta n. 123 de 2017, v. Conti, L’esecuzione delle sentenze della Corte EDU e i processi non penali dopo Corte cost. n. 123 del 2017, in Consulta OnLine, 2017, II, 333 ss.; Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di rievocazione della sentenza passata in giudicato, in www.federalismi.it, 2017, 13; Randazzo, A proposito della sorte del giudicato amministrativo contrario a pronunzie della Corte di Strasburgo (note minime alla sent. n. 123 del 2017 della Corte costituzionale), in Osservatorio Costituzionale, 2017, 3.
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fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo2; nei processi civile e amministrativo, ove l’istituto della revocazione corre parallelo, mutatis mutandis, a quello della revisione processualpenalistica, nessuna illegittimità costituzionale è stata riscontrata dal nostro giudice delle leggi. Gli artt. 395 e 396 c.p.c. rappresenterebbero le uniche strade percorribili de iure condito nei processi civili e amministrativi per sacrificare il giudicato sostanziale interno ottenuto in violazione delle disposizioni della CEDU e dei relativi Protocolli, essendo «tipico proprio e solo della revocazione straordinaria di doversi destreggiare fra quelle due rive (certezza già acquisita e giustizia gravemente inappagata) correndo nella forte corrente che conduce alla riapertura dei processi conclusisi in modo perturbato»3; dunque, va predicata, allo stato, l’intangibilità di tale giudicato. Non risulta di difficile individuazione la ragione discriminante, che ha condotto a due esiti opposti con riferimento al giudicato penale e ai giudicati amministrativo e civile. Nel processo penale entra in gioco il diritto fondamentale alla libertà personale dell’individuo, inviolabile secondo la Carta Costituzionale e prevalente nel bilanciamento con valori, quali la certezza del diritto e la stabilità del giudicato (anch’esso, secondo l’insegnamento di Cerino Canova, annoverabile tra le garanzie costituzionali, attraverso gli artt. 24 e 111 della Carta4) indubbiamente recessivi rispetto alla sua importanza e primarietà. D’altro canto, il Consiglio di Stato, prima ancora che la dottrina5, ha osservato, con l’ordinanza di rimessione, che anche davanti al giudice amministrativo, così come a quello civile, viene in rilievo la tutela di diritti fondamentali e possono darsi casi «in cui la rimozione del giudicato si appalesi quale unico mezzo utile per rimuovere le perduranti violazioni di diritti fondamentali, analogamente a quanto si è riconosciuto nell’ambito del processo penale». Proprio quando ricorrono diritti inviolabili, di rango costituzionale primario, allora, va risolto il problema se la soluzione adottata dal nostro ordinamento di non arrendersi alla cedevolezza del giudicato interno sia adeguata e costituzionalmente legittima. V’è poi che, ai sensi del primo comma dell’art. 46 della CEDU, le «Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle
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Tra i vari commenti, v. R. Conti, La scala reale della Corte Costituzionale sul ruolo della CEDU nell’ordinamento interno, in Corr. giur., 2011, 9, 1243 ss; Canzio, Gli effetti dei giudicati “europei” sul giudicato italiano dopo la sentenza n. 113/2011 della Corte Costituzionale; Kostoris, La revisione del giudicato iniquo e i rapporti tra violazioni convenzionali e regole interne; Ruggeri, La cedevolezza della cosa giudicata all’impatto con la Convenzione europea dei diritti umani…ovverossia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere alla certezza dei diritti, tutti in http://www.astrid-online.it/Giustizia-1/Studi ric/Canzio-Kostoris-Ruggeri.pdf. In materia penale, una rassegna delle pronunce della Cassazione sul tema degli effetti delle sentenze di condanna pronunciate dalla CEDU sul precedente giudicato interno può leggersi, ex multis, in Aprile, I meccanismi di adeguamento del sistema penale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in AA.VV., La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di Manes e Zagrebelsky, Milano, 2011, 509 ss. 3 Consolo, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, 1, 237. 4 Cerino Canova, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Riv. dir. civ., 1977, 395 ss. 5 Corea, Il giudicato come limite alle sentenze della Corte Costituzionale e delle Corti europee, in questa Rivista, 2017, 1, 37 ss, passim.
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quali sono parti» e, in via residuale, ai sensi dell’art. 41 CEDU, «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa»6. Qualora lo Stato non disponga di un mezzo idoneo alla riparazione della violazione commessa, è la stessa Corte EDU, in via straordinaria, a determinare una “just satisfaction”. Conformazione alla sentenza e rimozione delle conseguenze della violazione costituiscono gli obiettivi, il risultato che la Corte EDU impone agli Stati, senza prescrivere una particolare forma. Pare dunque rientrare nella discrezionalità dello Stato l’individuazione dei mezzi opportuni per giungere all’uniformazione alla sentenza della Corte, tra quelli esistenti e disponibili nell’ordinamento7. In coerenza con il principio di libertà procedimentale gli Stati, allora, possono scegliere come riconoscere la portata della decisione adottata dalla Corte europea, ora apprestando rimedi di natura concreta sul caso portato all’attenzione della Corte8, così travolgendo la stabilità raggiunta dal giudicato interno, ora tenendo fermi i risultati del processo interno svoltosi, ma impegnandosi a compensare per equivalente monetario il ricorrente vincitore9. Tuttavia, all’interno del Consiglio d’Europa si registra anche un approccio meno cauto. Tanto emerge dal contenuto della Raccomandazione R (2000) 2 del 19.1.2000, che caldeggia lo strumento della riapertura dei processi e aggiunge che tale esigenza è avvertita, oltre che nel diritto penale, per ulteriori tipologie di casi, tra i quali quelli in cui «a person is unjustifiably denied certain civil or political rights» o «a person is expelled in violation of his or her right to family life or if a child has been unjustifiedly forbidden contacts with his or her parents».
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Nella sentenza Corte EDU, Nagmetov c. Russia, 30.03.2017, ricorso n. 35589/08, in https://www.echr.coe.int, la Corte afferma che: «the Court’s primary role of setting human-rights standards across Europe rather than allocating monetary compensation. (…) The awarding of sums of money to applicants by way of just satisfaction is not one of the Court’s main duties», e rigetta l’eccezione di ne ultra petita sollevata dallo Stato russo sull’argomento che le regole procedurali interne degli Stati non escludono che la Corte possa adottare un certo grado di flessibilità: «a degree of flexibility, essentially in respect of non-pecuniary damage (…) The Court emphasises in this connection that, in particular as regards just satisfaction on account of non-pecuniary damage, the Court’s guiding principle is equity, which involves flexibility and an objective consideration of what is just, fair and reasonable in all the circumstances of the case, including not only the position of the applicant but the overall context in which the breach occurred». 7 L’obbligazione è di risultato, essendo rimessa agli Stati la libera decisione dei mezzi con cui uniformarsi al dettato della Corte. Talvolta, la Corte però lascia scorgere la propria opinione nel senso che la riapertura dei processi risulti lo strumento più adeguato, soprattutto al ricorrere delle seguenti circostanze: a) che la parte vittoriosa a Strasburgo continui a soffrire conseguenze negative a causa della sentenza nazionale; b) che la Corte EDU abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di violazione degli obblighi convenzionali: v. Corea, op. cit., nt. 8, 40. 8 Nella sentenza Corte EDU, Karelin c. Russia, 20.09.2016, ricorso n. 926/08, par. 97 si legge che: «The Court reiterates that when an applicant has been convicted despite an infringement of his rights guaranteed by Article 6 of the Convention he should, as far as possible, be put in the position in which he would have been had the requirements of that provision not been disregarded, and that the most appropriate form of redress would, in principle, be the reopening of the proceedings, if requested». 9 Nella sentenza Corte EDU, Nagmetov c. Russia , cit., par. 65, si legge altresì che «The Court also reiterates that, in the context of the execution of judgments in accordance with Article 46 of the Convention, a judgment in which the Court finds a breach of the Convention imposes on the respondent State a legal obligation to put an end to the breach and make reparation for its consequences in such a way as to restore as far as possible the situation existing before the breach».
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Proprio questo ultimo è il caso che ha occupato la Corte EDU nella sentenza di condanna Zhou c. Italia - dalla quale si sono poi originate l’ordinanza di rimessione e la pronuncia della Consulta qui in esame - ove si è affermato che «le autorità italiane sono venute meno ai loro obblighi prima di prevedere la soluzione di una rottura del legame famigliare e non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per fare rispettare il diritto della ricorrente di vivere con il figlio, violando in tal modo il suo diritto al rispetto della vita famigliare, sancito dall’articolo 8. Pertanto, vi è stata violazione di tale disposizione». Dunque, in un caso richiamato dal Comitato dei Ministri tra le ipotesi di opportuna riapertura del processo (a child has been unjustifiedly forbidden contacts with his or her parents), il nostro giudice delle leggi ha ritenuto, cavalcando l’onda di una sua precedente – e invero meno problematica – decisione, di dover confermare la legittimità costituzionale (e, tramite il suo parametro interposto, la conformità all’art. 46 CEDU) dell’istituto revocatorio civile, così esaltando la portata dei valori della certezza del diritto, del legittimo affidamento dei terzi, che meriggiano dietro al vessillo della stabilità del giudicato.
2. Un rapido sguardo alla Corte di Giustizia europea. Nel senso della non necessità dell’introduzione da parte degli Stati di un apposito strumento di riapertura dei processi, non solo milita la Corte EDU, ma si esprime anche la (ormai) monolitica giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonostante proprio da alcune sue pronunce, tra le quali la celebre sentenza Lucchini del 18 luglio 200710, si sia generato un enorme “equivoco”, una scintilla, che ha acceso e alimentato un lungo e ampio dibattito sul tema della possibile cedevolezza del giudicato interno. Nella sentenza Lucchini, la Corte di Giustizia ha stabilito che «il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art, 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva». Ma, successivamente, la stessa Corte si è avveduta del rischio insito nel principio di diritto così formulato e ha tentato di correre al riparo affermando che una tale regula iuris trovava giustificazione in quel caso specifico, in cui lo Stato italiano, non attendendo il parere della Commissione europea su una materia di competenza esclusiva di quest’ultima, aveva usurpato la potestas iudicandi della Corte di Giustizia, depositaria del potere/dovere di applicare e interpretare le norme dell’Unione. Viene così corretto
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Procedimento C-119/05; ma v. altresì le sentenze della Corte di Giutizia Gerhard Köbler c. Repubblica d’Austria, 30.09.2003, C-224/2001; Fallimento Olimpiclub S.r.l. c. Agenzia delle Entrate, 3.09.2009, C-2/08; Asturcom Telecomunicaciones SL c. Cristina Rodriguez Nogueira, 6.10.2009, C-40/08, tutte in https://curia.europa.eu.
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il tiro e rimodulato il tenore delle affermazioni. Lo dimostra, ad esempio, la pronuncia del 10 luglio 201411 ove la Corte di Giustizia ha affermato che il principio della intangibilità del giudicato nazionale è assoluto e ineludibile, arrivando financo ad esprimere apertis verbis che «il diritto dell’Unione non esige, dunque, che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto offerta dalla Corte posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, quest’ultimo ritorni necessariamente su tale decisione»12. Sicché l’art. 2909 c.c. non risulta pregiudicato né prevaricato, ma semplicemente posto fuori gioco nel caso in cui il giudice domestico abbia interferito nelle attribuzioni riservate al diritto comunitario13, applicando così le norme processuali domestiche a un tessuto normativo cui esse non appartengono. Non può però dimenticarsi che è proprio dal caso Lucchini che sono scaturite le posizioni più avanguardiste e interessanti con riferimento alle possibili innovazioni che il nostro codice del processo civile avrebbe potuto accogliere14. Invero, il problema delle interferenze tra diritto comunitario e diritto domestico è di differente natura rispetto a quello che si pone con riguardo al rapporto tra CEDU e ordinamento interno. Ciò, poiché, a differenza di quanto è disposto con riguardo al ricorso (tanto del singolo cittadino, quanto dello Stato) alla Corte di Giustizia europea, nel caso di ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il previo esperimento dei mezzi di tutela giudiziaria apprestati dagli ordinamenti interni costituisce presupposto per la sua ammissibilità; il che, di norma, implica formazione del giudicato interno15. Nel caso Lucchini è emersa la questione delle possibili sovrapposizioni tra tessuti normativi (domestico e comunitario) che, tuttavia, è destinata a verificarsi in casi patologici, se non eccezionali, o infrequenti, di indebita invasione da parte del giudice nazionale nel campo di esclusiva competenza dell’Unione. Nell’ambito della CEDU, invece, la problematica ruota attorno al funzionamento del meccanismo giuridico nel passaggio dalla dimensione europea a quella domestica, in fase di esecuzione delle sentenze emanate dalla Corte europea. Il procedimento con cui i casi nazionali giungono dinanzi alla Corte di Strasburgo si articola sulla base di una collaudata struttura in cui il giudicato sostanziale interno costituisce, di norma,
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Corte di Giustizia, Impresa Pizzarotti & C. S.p.A. c. Comune di Bari e altri, 10.07.2014, C-213/13, che può leggersi anche in Riv. dir. proc., 2016, 2, 508 ss. 12 Ivi, par. 60. 13 Cordopatri, Giudicato nazionale e osservanza del diritto comunitario, Corte di Giustizia, Impresa Pizzarotti & C. S.p.A. c. Comune di Bari, in Riv. dir. proc., 2016, 2, 516. 14 Consolo, Il primato del diritto comunitario può spingersi fino a intaccare la “ferrea” forza del giudicato sostanziale, in Corr. giur., 2007, 9, 1189 ss.; Id., La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, cit., 225 ss. 15 Ciò, ovviamente, non significa che innanzi alla Corte di Giustizia europea non si pongano mai questioni per le quali si è formato un giudicato interno, ma solo che il passaggio in giudicato non funge da condizione di procedibilità. Anzi, i principali casi che hanno per primi scatenato la dottrina italiana sul tema della cedevolezza del giudicato interno per via di una contrastante decisione del giudice comunitario, derivano proprio da questo settore. Si tratta dei famosissimi casi, richiamati supra in nt. 10, Köbler c. Repubblica d’Austria, C-222/01, sent. 30.09.2003 e Min. Industria c. Lucchini S.p.A., C-119/05, Sez. gr. 18.07.2007, ampiamente commentati dalla più autorevole dottrina.
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il presupposto16 per l’accesso alla giurisdizione della Corte EDU, rappresentando una sorte di ponte, la cui percorribilità è limitata però ad un solo senso di marcia. Non risulta infatti possibile portare la decisione della Corte EDU “indietro” in quel processo di merito interno che ne ha costituito l’origine. E ciò, anche nei casi in cui lo strumento del risarcimento per equivalente del danno subìto dal ricorrente a causa della violazione convenzionale posta in essere dallo Stato sia manifestamente inidoneo alla funzione riparatrice che esso è chiamato a svolgere. Il che accade, sovente, quando sono in gioco libertà e diritti fondamentali della persona. Come nel caso di specie, che ha condotto all’ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità e alla pronuncia della Consulta in esame. A questo punto, senza alcuna pretesa ricostruttiva, tocca fare qualche passo indietro.
3. Questio facti e dinamica del giudizio. La sentenza della Corte Costituzionale origina da un caso di adozione legittimante disposta dalla Corte d’appello di Venezia nei confronti di un bambino di origine cinese, già in affidamento presso una famiglia, dopo varie vicissitudini tra la madre (rimasta sola), i servizi sociali e l’autorità giudiziaria. A seguito della dichiarazione dello stato di adottabilità da parte del Tribunale, la madre, impugnando la sentenza, chiedeva alla Corte d’appello di poter continuare a incontrare il figlio con modalità fissate dalla Corte. Invocando l’articolo 8 della Convenzione, ella lamentava che l’interruzione di ogni tipo di rapporto costituiva una violazione della CEDU. Il curatore del figlio chiedeva alla Corte d’appello di optare per una soluzione di compromesso quale l’adozione “mite” (o adozione semplice). Dal canto suo, la Corte d’appello riteneva estranea alla disciplina normativa dell’istituto dell’adozione tale forma “mite”, in quanto abrogata dal legislatore con l’introduzione della L. 184/1983, pur essendo consapevole dei differenti orientamenti di altri uffici giudiziari, i
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Non necessariamente, però, il ricorso alla Corte EDU postula il passaggio in giudicato del provvedimento gravato: non accade, infatti, nel caso in cui il provvedimento domestico impugnato sia stato emesso in un giudizio di secondo grado, e il ricorso venga presentato prima del decorso del termine lungo per il passaggio in giudicato di cui all’art. 327 c.p.c., (così come quando entrerà in vigore, una volta ratificato da parte di tutte le Alte Parti Contraenti, il Protocollo n. 15, che modifica l’art. 35 CEDU, riducendo da sei mesi a quattro mesi il termine per adire la Corte EDU, decorrente dalla decisione interna definitiva) oppure nel caso in cui venga ammessa, per la peculiarità della fattispecie, una sorta di ricorso diretto alla Corte di Strasburgo. Nel primo, come nel secondo caso, la valutazione sulla concreta disponibilità di mezzi di tutela effettivi da parte dell’autorità giudiziaria interna costituisce un parametro ermeneutico fondamentale per derogare, eventualmente, all’art. 35 CEDU. L’“effettività”, infatti, è stata interpretata in modo sempre più netto a Strasburgo: si deve trattare di ricorsi “adeguati”, in grado di offrire un rimedio concreto alle doglianze censurate, con una ragionevole prospettiva di successo da valutare anche alla luce della fattispecie, del contesto giuridico e politico, nonché della situazione personale del ricorrente. Con sempre maggior frequenza, infatti, la Corte di Strasburgo dichiara immediatamente ammissibile il ricorso, pur in mancanza del previo esperimento di qualsiasi rimedio interno di tutela, quando la violazione della CEDU discende da un atto legislativo nazionale, sul presupposto che l’ordinamento italiano non contempla uno strumento di impugnazione diretta della legge da parte del singolo (come accade in altri ordinamenti) ed il sistema incidentale di costituzionalità non costituisce un rimedio interno “effettivo”: costituiscono casi esemplari di questo trend le sentenze della Corte Edu Costa e Pavan c. Italia, II Sezione, 28.08.2012 e Parrillo c. Italia, 27.08.2015: v. Masciotta, “Il ricorso “diretto” a Strasburgo in deroga al principio del previo esaurimento, ex art. 35 CEDU: un possibile “cortocircuito” tra sistema costituzionale e convenzionale di tutela?”, in Osservatorio sulle fonti, 2018, 1.
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quali, operando una lettura estensiva dell’art. 44 lett. d) L. 184/1983, avevano disposto in taluni casi l’adozione semplice. Confermata l’adottabilità, si formava giudicato interno, senza che venisse esperito ricorso per Cassazione. La madre, poi, proponeva ricorso presso la Corte EDU, la quale, rimossa dal campo ogni pretesa di irricevibilità (eccepita dal Governo per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e rigettata dalla Corte per la ragione che «un eventuale ricorso per cassazione non avrebbe prodotto l’effetto di porre rimedio alla situazione lamentata dalla ricorrente»), ha ritenuto effettivamente violato l’art. 8 CEDU dallo Stato italiano. La Corte ha motivato la propria decisione ritenendo che le autorità nazionali non si siano adoperate a sufficienza per agevolare i contatti madre e figlio, né abbiano ritenuto di procedere disponendo l’adozione semplice in modo da poter mantenere il legame con il figlio (adoperando la lettura estensiva dell’art. 44 lett. d) L. 184/1983). La Corte ha riconosciuto che ciascuno Stato gode di un ampio margine di apprezzamento dei parametri ricorrenti nel caso concreto per giustificare l’ingerenza pubblica nella vita familiare di cui all’art. 8, paragrafo 2, CEDU, ma ha censurato la condotta delle autorità italiane che non hanno considerato soluzioni diverse dalla presa in carico del minore, pur non avendo quest’ultimo subìto o vissuto episodi di abusi o violenza fisica o psicologica, omettendo altresì di considerare che il comportamento della madre non era negativo per il minore e pertanto il rapporto madre-figlio meritava di essere preservato. Dopodiché, in applicazione dell’art. 41 CEDU, la Corte ha accordato alla ricorrente un risarcimento per il danno morale di euro 40.000. Di qui il successivo ricorso del 16 ottobre 2015 della madre alla Corte d’appello di Venezia, previa rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. per avere ella «solo nel settembre del 2015 (…) appreso che il Governo si era opposto alla sua richiesta, inoltrata al Comitato dei ministri in data 3 marzo 2015, di individuazione delle modalità di corretta attuazione della citata sentenza», per la revocazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello stessa e, in subordine, per il sollevamento della questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 395 c.p.c., nella parte in cui non prevede tra i casi di revocazione anche quello in cui tale rimedio sia imposto dalla necessità di dare attuazione ad una sentenza della Corte EDU, per contrasto con l’art. 117 della Costituzione della Repubblica. È infatti noto che il meccanismo con il quale vengono recepite le norme della CEDU nel nostro ordinamento si articola sulla funzione svolta dall’art. 117, comma 1°, Costituzione, quale norma interposta tra gli obblighi internazionali e le leggi ordinarie. Pertanto, nel caso in cui il giudice nazionale rinvenga nell’ordinamento una violazione delle norme CEDU, è suo compito sollevare la questione di costituzionalità17. Indi l’ordinanza di rimessione della Corte d’appello di Venezia.
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Corte Costituzionale, 24.10.2007, n. 348.
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A questo punto la Consulta, conscia degli argomenti della rimettente circa la «consolidata affermazione della Corte EDU secondo cui, in caso di accertata violazione della Convenzione, lo Stato convenuto ha l’obbligo non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa riparazione ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali e necessarie»18, semplifica non di poco il discorso. La risposta che rende, infatti, si contraddistingue per la sua succinta linearità e si articola in tre punti: l’art. 46 CEDU non garantisce la riapertura del processo interno che sia divenuto definitivo; pur non essendovi alcun diritto alla riapertura del processo garantito dalla CEDU, per il processo penale l‘esigenza di riapertura si giustifica in ragione della preminenza del diritto alla libertà personale; nel settore civile, invece, tale esigenza non è sentita, anzi, risulta recessiva rispetto ai principi di certezza del diritto e tutela dell’affidamento dei terzi. Il giudice delle leggi, richiamando una recente sentenza della Corte EDU in linea con tali principi (Grande camera, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira contro Portogal), considera così risolta la questione con riferimento al thema decidendum di consistenza costituzionale ad essa spettante.
4. Affidamento e tutela dei terzi quali ragioni di esclusione della revocazione.
Dalla digressione fattuale fin qui svolta, che dà atto della consistenza della fattispecie sostanziale oggetto del sindacato della Corte EDU, emerge con nitore la portata del diritto vantato dalla ricorrente, cui non può negarsi la natura di diritto fondamentale e inviolabile della persona, annoverabile nel nucleo essenziale (e irremovibile) della nostra Carta Costituzionale. Proprio alla luce di questa consapevolezza, diventa necessario rielaborare la giustificazione che si è fornita al differente trattamento del giudicato penale, a meno che non si voglia accogliere l’idea che la libertà dell’individuo abbia un valore maggiore del diritto alla vita privata e familiare, al punto che la prima avrebbe ragione di prevalere sulla certezza e stabilità del diritto, mentre il secondo risulterebbe recessivo. Allora, la ragione discriminante sembra piuttosto essere rinvenibile in due esigenze, comuni ai processi civili e amministrativi: l’esigenza di tutelare il legittimo affidamento dei terzi e la stabilità dei rapporti giuridici e quella di garantire il contraddittorio tra le parti, minacciato dal mancato coinvolgimento, nel procedimento svoltosi dinanzi alla Corte
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Nella decisione è altresì citato l’argomento della rimettente che «della fondatezza della questione deporrebbe anche un’analisi di diritto comparato», affrontato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza 123/2017, ove si riporta il risultato della Overview del Comitato di esperti del 12 febbraio 2016, dal quale emerge che a quella data erano ventitré gli Stati membri del Consiglio d’Europa ad aver introdotto strumenti di riapertura dei processi civili a seguito di sentenze della Corte EDU di accertamento di violazioni convenzionali. La Consulta poi cita singolarmente le esperienze di Germania, Spagna e, da ultimo, Francia.
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EDU, dei soggetti che sono stati parti del giudizio di merito interno e nei cui confronti si esplicano gli effetti dell’art. 2909 c.c.; il ruolo di tali soggetti risulta ontologicamente, funzionalmente e teleologicamente non comparabile con quello della persona offesa nel processo penale, di qui la differenza. Dal principio generale dell’affidamento discende che una certa situazione di fatto o di diritto è inoperante se non è nota a un determinato soggetto, o se è contrastata da un’opposta apparenza19. Si tratta, dunque, di un istituto che consente alla condizione soggettiva di taluno di prevalere sulla obiettività. Nell’ambito in esame, a ben vedere, l’affidamento dei terzi non costituisce un valore posto a rischio dalla eventuale riapertura dei processi interni a seguito di una pronuncia della Corte EDU di accertamento di una violazione della Convenzione. L’affidamento, invero, può costituire una ragione di cautela e protezione dei rapporti giuridici più pratica che tecnica, dal momento che, ad eccezione degli eredi e aventi causa (unici soggetti estranei al giudizio nei cui confronti la sentenza può spiegare gli effetti di res iudicata), i restanti terzi non sono soggetti agli effetti giuridici del giudicato sostanziale creatosi inter alios. La sfera giuridica dei terzi verrebbe incisa nel solo caso in cui lo Stato soccombente dinanzi alla Corte di Strasburgo, per porre rimedio alla propria violazione accertata, decidesse o dovesse adottare misure di portata generale20, applicabili erga omnes. Nel caso di revocazione della sentenza, invece, coloro che sono stati parti del giudizio tornerebbero a detenere tutti i poteri processuali loro spettanti. L’evenienza della riapertura del processo, peraltro, non si estende su un orizzonte temporale indeterminabile, stante il termine previsto dalla CEDU per la presentazione dei ricorsi, decorrente dall’emanazione del provvedimento interno. Passando al secondo aspetto, il mancato coinvolgimento dei soggetti che sono stati parti del giudizio di merito interno conclusosi con provvedimento idoneo a formare res iudicata è parso ad alcuni ragione convincente per escludere tout court la possibilità di riapertura dei processi interni chiusi con provvedimenti passati in giudicato. L’estromissione delle parti del processo di merito interno dal giudizio dinnanzi la Corte EDU è stato concepito quale fattore di rischio per la violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio. Ma, a ben vedere, la struttura e lo svolgimento del procedimento dinnanzi alla Corte EDU garantiscono il rispetto deli principi di legittimazione ad agire, petitum e legittimazione a resistere. Il ricorrente che decide di adire la Corte di Strasburgo, infatti, non richiede il riconoscimento del diritto dedotto nel giudizio domestico21, ma l’accertamento della violazione
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Sacco, Enciclopedia del diritto, sub voce Affidamento, Milano, 1958, 661 ss. Presupposto sarebbe l’accertamento di violazioni sistemiche delle norme convenzionali, quanto meno quelle di carattere sostanziale. 21 Potrebbe, tuttavia, ipotizzarsi che un soggetto, dopo aver cercato proposto revocazione contro un provvedimento interno passato in giudicato per violazione della CEDU, e aver visto la propria domanda inevitabilmente rigettata per inammissibilità, ricorra a Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 6 CEDU da parte dello Stato che non ha garantito la riapertura del processo. In tal caso, i due petita, quello proposto al giudice della revocazione e quello proposto alla Corte EDU, si avvicinerebbero non poco. Per un caso di inammissibilità del ricorso per la revocazione (ordinaria) di sentenza per errore di fatto, v. Cass., Sez. VI, 22.09.2016, Pres. Amendola – Rel Di Stefano, con nota di Colussa, Contrarietà della sentenza di cassazione ai principi della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e revocazione, in Riv dir. proc., 2017, 1, 283 ss. 20
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da parte dello Stato, per mano dell’autorità giudiziaria, di un obbligo convenzionale, cui la Costituzione stessa impone di attenersi (art. 117, comma 1°). L’oggetto del giudizio, pertanto, è relativo all’esercizio del potere giurisdizionale da parte dello Stato, mentre il petitum del processo interno “scivola” nella categoria della causa petendi della domanda proposta alla Corte EDU. Legittimato a resistere dinanzi a un tale petitum (mediato)22 altri non può essere che lo Stato medesimo, cui la violazione è addebitata, chiamato altresì, in caso di accoglimento del ricorso, a porre riparo alle conseguenze delle proprie violazioni. Ebbene, in tale cornice, l’intervento del terzo che è stato parte del giudizio di merito interno potrebbe giustificarsi e concepirsi solo in termini di intervento adesivo dipendente a sostegno delle ragioni dello Stato. Tale soggetto, infatti, vanterebbe un interesse non di mero fatto, ma giuridico, alla decisione della causa giunta a Strasburgo, nella misura in cui la sua sfera giuridica potrebbe essere incisa da un’eventuale misura dello Stato volta a riaprire il processo interno. Questo intervento, allo stato, è contemplato dalla Convenzione solamente in termini di invito della Corte EDU rivolto a ogni persona interessata, diversa dal ricorrente, a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze (art. 36, paragrafo 2° CEDU). Certamente, così architettata, la procedura dinanzi alla Corte di Strasburgo non contempla l’esistenza di un diritto di intervento in capo ai terzi interessati, ma semmai configura una possibile chiamata, a discrezione e piacimento della Corte EDU, in via adesiva dipendente nei confronti di «ogni persona interessata». Non si tratta, quindi, di garantire il coinvolgimento degli interessati, quanto di ampliare il coro di voci che interloquisce con la Corte, al fine di consentirle di avvicinarsi a delle realtà che, in quanto appartenenti ai singoli ordinamenti giuridici, sovente risultano di difficile intelligibilità. L’assenza del diritto di intervento preclude qualsiasi forma, potenziale ed embrionale, di contraddittorio, così come oggi concepito dalla prevalente giurisprudenza23. Tanto, però, avviene in piena conformità con i caratteri del procedimento in questione, in ragione della non coincidenza delle parti del processo interno con quelle, dotate di legittimazione attiva e passiva, del processo dinanzi alla Corte EDU. Le parti del processo interno, che non abbiano fatto ricorso alla Corte di Strasburgo, potrebbero sì avere interesse a sostenere le ragioni dello Stato, ma rimarrebbero sfornite di legittimazione passiva con riferimento al petitum del ricorso. In considerazione di ciò, l’introduzione del diritto all’intervento nel processo dinanzi alla Corte EDU rischierebbe di apparire un’arma giustificazionista e indulgente e di rafforzare le critiche sull’assenza del contraddittorio, sui diritti costituzionalmente garantiti alla difesa e al giusto processo che, a parere di chi scrive, non meritano accoglimento.
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Picardi, citando un passaggio della sentenza della Corte di Giustizia Köbler c. Repubblica d’Austria, C-222/01, par. 39 «un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata», Eventuali conflitti fra principio del giudicato e principio della superiorità del diritto comunitario, in Giust. Civ., 2008, I, 560. 23 Il diritto al contraddittorio è concepito nella sua natura potenziale, quale possibilità concessa alla parte, e non dovere imposto, di contraddire in giudizio e nella parità delle armi e non quale svolgimento del processo nella dialettica delle parti.
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5. Legittimazione ad agire. Qualora si ammettesse, sulla scorta dell’esclusione dei problemi appena esposti, l’introduzione nell’art. 395 c.p.c. del motivo di revocazione oggetto della pronuncia della Consulta, occorrerebbe ulteriormente chiarire se legittimati a tale tipo di revocazione siano solo le partiche abbiano fatto ricorso a Strasburgo, ovvero anche terzi, i quali lamentino la violazione dei medesimi diritti riconosciuti nella sentenza della Corte europea24. Vien da sé che la possibilità di valersi della sentenza della Corte europea resa inter alios non può che concernere la cosiddetta violazione strutturale della Convenzione, quella, cioè, «dovuta ad un ben individuato disfunzionamento legislativo o amministrativo di uno Stato»25, dovendo, per converso, escludersi a priori una siffatta possibilità nel caso in cui la violazione non concerna il sistema nel suo complesso, ma una singola vicenda giudiziaria, caratterizzata, cioè, dalla circostanza che la violazione della Convenzione è dipesa da un errore del giudice limitato al caso di specie26. Nonostante tale ragione sia sorretta da logica e convenienza con riguardo alle posizioni giuridiche dei soggetti che, pur estranei al giudizio dinanzi la Corte di Strasburgo, siano stati parti di quello interno (anche in virtù di un litisconsorzio facoltativo), non si ritiene di condividere questa estensione. E ciò per due ragioni: la prima è di natura tecnica e attiene all’estensione del petitum e degli effetti della sentenza, la quale, seppure in grado di rilevare vizi sistemici di uno Stato, vincola il solo rapporto giuridico di cui il giudizio si è occupato. La seconda ragione, invece, attiene al discostamento che si creerebbe rispetto alla posizione delle sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale, qualora si ammettesse una estensione di quelle rese dalla Corte EDU erga omnes. Infatti, se alle pronunce di incostituzionalità attinenti alla materia civile non è consentito estendere i propri effetti al giudicato sostanziale civile, altrettanto dovrebbe dirsi, ed effettivamente allo stato si dice, per le sentenze della Corte EDU. Se così non fosse, le sentenze rese dal nostro (sovraordinato) giudice delle leggi finirebbero per avere minor impatto di quelle pronunciate dalla Corte di Strasburgo. Peraltro, nell’ambito della possibilità di estendere erga omnes le misure idonee a trascendere il caso concreto, adottate all’esito di decisioni della Corte EDU riguardanti la rilevazione di difetti sistemici dell’ordinamento nazionale, la Cassazione penale ha sollevato
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Circostanza effettivamente verificatasi nel caso che ha occupato il Consiglio di Stato con l’ordinanza di rimessione 4.03.2015, n. 2, nel caso Staibano e altri c. Italia, ove, appunto, la domanda di revocazione era stata posta da soggetti che erano parti del giudizio domestico e che tuttavia non si sono poi rivolti al giudice europeo «lasciando tale compito ad altri più zelanti litisconsorti», Vitale, op. cit., 1434. 25 Salerno, Vincolo costituzionale all’attuazione dell’obbligo di riparazione stabilito dalla Corte EDU, in Bin - Brunelli - Pugiotto Veronesi, All’incrocio tra Costituzione e Cedu. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, Torino, 2007, 231. 26 Patrito, Revocazione - se sia ammissibile l’impugnativa per revocazione della sentenza del consiglio di stato per contrasto con decisione sopravvenuta della corte EDU, nota a Cons. Stato, 4.03.2015, n. 2, cit.
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questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. 341/2000, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, con riferimento agli artt. 3 e 117 Costituzione (quest’ultimo quale norma interposta rispetto all’art. 7 CEDU), nella parte in cui tali disposizioni interne operavano retroattivamente e, oltretutto, non consentivano l’applicazione del principio affermato in sede europea nei confronti di un soggetto il quale non aveva proposto ricorso alla Corte EDU27. La Consulta28, nell’accogliere il ricorso, ha comunque rammentato la «radicale differenza» tra coloro che si sono avvalsi del ricorso alla Corte EDU e coloro che, non facendolo, hanno comportato la formazione del giudicato, specificando che l’obbligo di adeguamento alla CEDU non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali si è formato un giudicato interno29. La pronuncia ha altresì sottolineato che le deroghe alla stabilità del giudicato vanno ricavate non nella Convenzione, ma nella legge nazionale. Sono infatti ammesse ipotesi di prevalenza della tutela della libertà personale sulla certezza del diritto e conseguente stabilità del giudicato, se tale libertà sia stata ristretta da una norma incriminatrice successivamente abrogata o modificata in favore del reo, con l’unico limite della irreversibilità degli effetti ormai esauriti. La deroga è, appunto, contenuta nell’art. 30, comma 4°, L. 87/1953, a mente del quale «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». Tenuto conto degli effetti della sentenza di accoglimento della Corte Costituzionale disposti dall’art. 136 Cost., l’art. 30, comma 4°, L. 87/1953 rappresenta una deroga al principio dell’intangibilità del giudicato da parte dello ius superveniens retroattivo (al quale sono assimilate le dichiarazioni di incostituzionalità) per la materia penale, nonché una implicita conferma della vigenza della regola per la materia civile30. Le considerazioni fin qui svolte inducono a ritenere preferibile una limitazione della legittimazione ad agire in revocazione alla sola parte che abbia tempestivamente proposto ricorso alla Corte EDU e che sia dunque vincolata dalla sentenza resa da quest’ultima.
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Cass. civ, Sez. Un. Ord., 19 aprile 2012, n. 34472. Corte Costituzionale, sentenza 18.7.2013, n. 210. 29 Queste le parole della Consulta: « Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza (sentenza n. 236 del 2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale». 30 Caponi, Giudicato civile e diritto costituzionale, in Giur. It, 2009, 12, 2827 ss. 28
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6. I possibili esiti della revocazione. Sotto il profilo della valutazione sulla fondatezza della domanda di revocazione, invece, occorre osservare che ammettere il rimedio revocatorio non significa affatto sconvolgere e ribaltare ciò che è stato accertato nel giudizio passato in giudicato. La struttura dell’istituto della revocazione implica un giudizio bifasico, il cui esito non è predeterminabile. L’accertamento della presenza di uno dei motivi di revocazione, infatti, non è decisivo per il contenuto della decisione finale. La prima fase (rescindente) della revocazione di cui ai nostri artt. 395 e 397 c.p.c. non è rivolta a porre nel nulla la sentenza impugnata, ma solo a dar adito al riesame della causa, in ragione della presenza di particolari circostanze che ne rendono probabile l’ingiustizia31. La valutazione del giudice, in questa prima fase, si risolve un una preliminare delibazione circa l’esistenza di un proprio dovere di procedere al riesame della causa, per via della esistenza di una delle ragioni espressamente indicate dalla legge, che costituiscono condizioni di ammissibilità della domanda di gravame32 e che rendono probabile l’ingiustizia del provvedimento impugnato33. Una volta risolta positivamente tale fase, il giudice è chiamato, nella successiva fase rescissoria, a pronunciarsi sulla domanda originaria, sostituendo sempre la decisione impugnata con la propria, anche nei casi di identico tenore. Nella prima fase, dunque, il giudice valuta dal «limitato angolo visuale del vizio revocatorio e della sua incidenza sulla decisione»,34 così verificando se tale vizio influisce causalmente sulla nullità della decisione, mentre, nella fase rescissoria, verifica se la nullità della decisione influisce sull’ingiustizia sostanziale35. Ciò equivale a dire che non sempre la violazione di una norma convenzionale da parte dello Stato risulterebbe di per sé idonea a determinare l’esito della fase rescissoria della revocazione, capovolgendo i risultati cui era pervenuta la decisione revocanda. Ben potrebbe darsi il caso in cui il giudice della revocazione, dopo aver risolto positivamente la prima delibazione, confermando il nesso tra vizio e nullità della decisione passata in giudicato, si avveda che il contenuto della medesima, in realtà, non sia fonte di ingiustizia sostanziale e così decida le domande proposte in modo analogo al provvedimento revocato36. Allo stato, però, tali valutazioni rimangono visionari esperimenti su carta, avendo la Consulta rifiutato l’occasione di dare impulso all’allargamento dei motivi di revocazione straordinaria,
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Attardi, La revocazione, Padova, 1959, 70. Ivi, 73. 33 Ivi, 76. 34 Di Stefano, La revocazione, Milano, 1957, 70. 35 Ivi, 72. 36 A titolo esemplificativo, potrebbe ipotizzarsi che la Corte EDU abbia condannato lo Stato per violazione dell’art. 6 CEDU e che il ricorrente vittorioso riesca a ottenere la revocazione della sentenza interna passata in giudicato ma che il giudice della revocazione, una volta rimossa la violazione del diritto al giusto processo, emetta una sentenza sostanzialmente analoga, in punto di decisioni sulle domande proposte, identica a quella revocata. Ancora, potrebbero essersi verificati dei mutamenti dello stato dei fatti, tali per cui la medesima decisione impugnata, allora causa di ingiustizia sostanziale, in un successivo momento si ponga quale soluzione assunta in conformità ai principi di giustizia. 32
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quale mezzo tipico deputato a destreggiarsi fra certezza del diritto e giustizia gravemente inappagata, al fine di ristabilire la compatibilità fra principii costituzionali e soggezione dei giudici nazionali agli obblighi internazionali37, come da dettato della nostra Carta.
7. Riflessione comparata conclusiva. La decisione della Consulta, seppure talvolta implicita nei suoi richiami alla di poco precedente sentenza resa sulla stessa questione in campo amministrativo, non appare irragionevole, né inaspettata. Certamente, essa offre l’occasione per riflettere sulle ragioni che hanno condotto il nostro giudice delle leggi a manifestare tale irremovibilità, soprattutto se si pongono a confronto le esperienze degli ordinamenti a noi vicini, in primis Germania e Francia, non certamente inclini all’eccessiva e spersonalizzante ingerenza europeista. In Germania, la CEDU e i suoi Protocolli integrativi sono stati introdotti mediante legge federale e, pertanto, si collocano al rango di legge federale (ordinaria). Ciò implica un dovere di osservanza da parte dei giudici e, soprattutto, la possibilità di far valere la violazione delle relative disposizioni con gli ordinari mezzi di impugnazione. In materia penale, l’intervento del legislatore tedesco, che ha introdotto nel § 359 della SPO la previsione della riapertura del processo penale conclusosi con il passaggio in giudicato della relativa sentenza successivamente censurata dalla Corte EDU, risale al 1998. In materia civile e amministrativa, invece, la questione, in un primo tempo, è stata affrontata dal Bundesverfassungsgericht38, con decisione, peraltro, non esente da critiche. Uno dei punti più problematici della decisione è quello relativo all’affermazione che i giudici interni sono tenuti, su istanza del ricorrente vittorioso in sede europea, a prendere in considerazione (berücksichtigen) le sentenze della Corte EDU in sede di riesame della controversia, pur non essendo obbligati a rispettarle, anzi, mantenendo un potere/dovere di discostamento in caso di contrasto con un diritto fondamentale connesso con il principio dello stato di diritto39. La Corte tedesca, del resto, tramite l’istituto del ricorso costi-
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Consolo, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuale intenri e in specie del nostro?, cit., 237. L’a., seppure con riferimento al contrasto del giudicato interno con il diritto comunitario come risolto dalla sentenza Lucchini, sostiene l’opportunità di un intervento legislativo, “se del caso stimolato e indirizzato da una sentenza della Consulta”, volto a coniare un motivo di revocazione straordinaria esperibile sia dalle parti sia dal p.m. 38 Beschluss des Zweiten Senats vom 14. Oktober 2004 - 2 BvR 1481/04, http://www.bverfg.de/e/rs20041014_2bvr148104.html, così massimata (versione inglese): «The principle that the judge is bound by statute and law (Article 20.3 of the Basic Law (Grundgesetz – GG)) includes taking into account the guarantees of the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms and the decisions of the European Court of Human Rights (ECHR) as part of a methodologically justifiable interpretation of the law. Both a failure to consider a decision of the ECHR and the “enforcement” of such a decision in a schematic way, in violation of prior-ranking law, may violate fundamental rights in conjunction with the principle of the rule of law. In taking into account decisions of the ECHR, the state bodies must include the effects on the national legal system in their application of the law. This applies in particular when the relevant national law is a balanced partial system of domestic law that is intended to achieve an equilibrium between differing fundamental rights». 39 Par. 62: «The situation is different only if observing the decision of the ECHR, for example because the facts on which it is based have
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tuzionale individuale, mantiene il primato nella funzione di controllo del rispetto da parte dei giudici di merito delle leggi federali e delle sentenze della Corte EDU40. A distanza di due anni, con legge del 22.12.2006, il legislatore ha inserito un ultimo comma (n. 8) al § 580 ZPO, rubricato Restitutionsklage (forma di Wiederaufnahme des Verfhrens), a norma del quale l’azione di restituzione può essere proposta se la Corte EDU ha stabilito che vi è stata violazione della Convenzione ovvero dei suoi Protocolli, e la decisione nazionale si fonda su tale violazione41. In Francia, invece, la CEDU e i suoi Protocolli integrativi sono posti ad un rango inferiore alla Costituzione e superiore alle leggi ordinarie. I giudici ordinari e amministrativi effettuano un controllo diffuso di “convenzionalità” e utilizzando il rimedio della disapplicazione della norma interna contrastante con quella convenzionale. In materia penale, dal 2000 è previsto un meccanismo di revisione delle decisioni definitive nazionali in seguito ad una condanna della Corte EDU. L’introduzione della revisione della sentenza definitiva civile a seguito di condanna per violazione della CEDU è invece avvenuta di recente, ad opera dell’art. 42, Legge 18 novembre 2016, n. 1547. Dinanzi a queste esperienze, il nostro stato dell’arte si mostra in una condizione di vigile e avveduta resistenza alla “flessibilizzazione” del giudicato. Potrebbe però verificarsi, prima o poi, una resa alla primauté europea, nei confronti tanto dell’Unione, quanto del Consiglio d’Europa (seppur con le dovute differenze). E ciò potrebbe derivare sia da una scelta del nostro legislatore in risposta al rischio di isolamento disarmonico rispetto alle altre Alte parti contraenti, sia da una risposta obbligata a qualche introduzione legislativa eterodiretta. Ad ogni modo, una soluzione possibile, in ragione dei non pochi timori che assalgono la Consulta nel dare il via libera alla cedevolezza del giudicato in materia civile con riferimento alle censure provenienti da Strasburgo, potrebbe anche essere quella di introdurre dei parametri selettivi che disegnino i confini del motivo di revocazione straordinaria in esame. Essi potrebbero consistere in due condizioni di “ammissibilità”: la limitazione ai soli casi in cui il diritto invocato dal ricorrente, all’esito di una delibazione primaria (fase rescindente), risulti prevalente rispetto ai valori della certezza del diritto e tutela dell’affidamento dei terzi42 e la circostanza che la violazione convenzionale commessa dallo Stato abbia cagionato un danno non riparabile per equivalente, se non con un vistoso sacrificio della giustizia sostanziale. Alessia D’Addazio
changed, clearly violates statute law to the contrary or German constitutional provisions, in particular also the fundamental rights of third parties. “Take into account” means taking notice of the Convention provision as interpreted by the ECHR and applying it to the case, provided the application does not violate prior-ranking law, in particular constitutional law. In any event, the Convention provision as interpreted by the ECHR must be taken into account in making a decision; the court must at least duly consider it». 40 Par. 63. 41 L’ultima parte della disposizione esprime la necessità, appunto, che si sia un nesso di causalità tra violazione e ingiustizia sostanziale del giudicato interno. 42 Caso che ricorre tanto nell’ipotesi di diritti di rango primario paragonabili alla libertà personale (caso Zhou), quanto nella circostanza di prevaricazione da parte dello Stato del potere giurisdizionale spettante all’Unione (caso Lucchini).
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