ISSN 2532-3083
Judicium n. 3/2019
il processo civile in Italia e in Europa
Rivista trimestrale
settembre 2019
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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini
In evidenza: Contro il cosiddetto giudicato implicito Andrea Panzarola
Le novità in materia di contratti pendenti nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza Giovanni Miccolis
Pienezza della giurisdizione e limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’Autorità antitrust alla luce della normativa europea e italiana sul private enforcement Donato Vese
Le Sezioni unite approdano ancora sulle coste del giudizio di appello per definire il termine (di decadenza) per la riproposizione ex art. 346 c.p.c. Alessia D’Addazio
L’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea: le Sezioni unite tracciano i punti cardinali Ruggero Siciliano
Opposizione a decreto ingiuntivo con rito sommario di cognizione Riccardo Fratini
Indice
Saggi Andrea Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito................................................................... p. 307 Giovanni Miccolis, Le novità in materia di contratti pendenti nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza...........................................................................................................................................» 321 Donato Vese, Pienezza della giurisdizione e limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’Autorità antitrust alla luce della normativa europea e italiana sul private enforcement.......» 347 Giurisprudenza commentata Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 21 marzo 2019, n. 7940, con nota di Alessia D’Addazio, Le Sezioni unite approdano ancora sulle coste del giudizio di appello per definire il termine (di decadenza) per la riproposizione ex art. 346 c.p.c.............................................................» 379 Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2840, con nota di Ruggero Siciliano, L’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea: le Sezioni unite tracciano i punti cardinali....................................................................................................................................................» 403 Trib. Bologna, sez. IV civ., ordinanza 25 giugno 2019, con nota di Riccardo Fratini, Opposizione a decreto ingiuntivo con rito sommario di cognizione..............................................................................» 437
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Saggi
Andrea Panzarola
Contro il cosiddetto giudicato implicito* Sommario: 1. Decisione implicita e giudicato implicito. Le ipotesi. – 2. Il giudi-
cato implicito su questione di rito. – 3. Il giudicato implicito su questione di rito nella ipotesi «merito-rito»: l’impiego selettivo nel caso della questione di giurisdizione. – 4. La eteronimia dei fini. – 5. Le garanzie delle parti, la responsabilità del giudice e la dequotazione delle regole processuali. – 6. Il giudicato senza motivazione nella ipotesi «merito-merito»: il principio dispositivo e il paradosso di «Bleak House».
Non si può ricavare dal silenzio del giudice una decisione. La teorizzazione del giudicato implicito non lede soltanto le garanzie individuali e i valori eterni del processo cancellando il diritto al contraddittorio fra le parti e tra loro e il giudice, dispensandolo dal dovere di motivare, ma può anche talora porsi in contrasto con il principio dispositivo. A decision cannot be derived from the silence of the judge. The theorization of implicit judgment does not only harm individual guarantees and the eternal values of the process erasing the adversarial principle between the parties and among them and the judge, dispensing him from the duty to motivate, but it sometimes represents a limitation of party control over allegations.
1. Decisione implicita e giudicato implicito. Le ipotesi. Quando si parla di «giudicato implicito» si ha in mente una «decisione implicita» che non sia stata impugnata. Il tema del giudicato implicito si manifesta pertanto in tutta la sua carica problematica proprio nella prospettiva dell’impugnante nel giudizio di impugnazione, quando gli si imputi la mancata contestazione di una decisione che (sostiene il giudice eventualmente su sollecitazione della controparte) c’è ma non si vede: una decisione per-
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Testo della relazione del 16 aprile 2019 nell’ambito del seminario coordinato dal prof. Bruno Sassani presso la Università di Roma Tor Vergata-Facoltà di Giurisprudenza.
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ciò, come si usa dire in modo anodino, «implicita», ma, meglio si dovrebbe dire, «invisibile» (in mancanza di segni grafici che impegnino la responsabilità del giudice), o «improvvisa» (malgrado la totale assenza in sentenza di cause apparenti e – almeno talora – senza alcun contraddittorio fra le parti previamente dispiegatosi). Si possono prescegliere tre angoli visuali per esaminare il fenomeno, che rappresentano altrettante forme nelle quali esso è solito mostrarsi: intendo denominarli «rito-rito», «meritorito» e «merito-merito». Nel primo caso («rito-rito») dalla decisione espressa su di un tema decisorio di rito dipendente dovrebbe discendere una decisione implicita su altro tema di rito pregiudiziale; nel secondo caso («merito-rito»), questa stessa decisione implicita di rito deriverebbe da una decisione espressa su un tema di merito (attesa la pregiudizialità della questione di rito rispetto al merito); nel terzo caso («merito-merito»), all’interno del merito dovrebbero rinvenirsi una decisione espressa e una implicita (per effetto della statuizione esplicita su uno degli effetti del rapporto giuridico fondamentale si avrebbe una decisione implicita su di esso, foriera di un giudicato senza motivazione). La giustificazione della decisione implicita nel primo caso viene additata nella idea che vi sia una progressione logica nell’esame delle questioni di rito; nel secondo caso la giustificazione viene rintracciata in questa progressione logica in quanto coordinata alla tesi del doppio oggetto del processo (pregiudiziale di rito e dipendente di merito); nel terzo caso, il quadro è probabilmente più complesso, il che mi spinge a rinviarne l’esame alla fine dell’intervento.
2. Il giudicato implicito su questione di rito. Mi concentro anzitutto sulle due ipotesi nelle quali si formerebbe una decisione implicita su un tema di rito, in dipendenza di decisione espressa, ora su altro tema di rito, ora su tema di merito. Quando la decisione implicita non fosse impugnata (o comunque ritualmente devoluta al giudice superiore), su di essa si formerebbe il cosiddetto giudicato implicito (che, come anticipato, preferirei chiamare «invisibile» o «improvviso»). Questo esposto è l’avviso della giurisprudenza: un avviso espresso in modo paradigmatico – quanto al rapporto che ho denominato «rito/rito» – nella pronunzia ripetutamente evocata in questo incontro (che chiamerei nel prosieguo – dal nome degli autori di due argute annotazioni presenti in questo convegno – la sentenza «Fanelli/Luiso»: Cass., sez. VI-3, ord., 25 ottobre 2017, n. 25254); un avviso manifestato – quanto al rapporto che ho denominato precedentemente «merito/rito» – nella notissima «sentenza Merone» (dal nome del relatore) che ha dedotto la sussistenza di una decisione implicita affermativa della giurisdizione dalla intervenuta statuizione sul merito (Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883). Quanto al rapporto che ho denominato «rito/rito», si ragiona così: visto che il giudice decide esplicitamente sul tema processuale a valle, ciò implica – non può non implicare secondo i dettami di una logica altrettanto elementare che astratta – una implicita pronunzia sul tema di rito a monte. Perché – si argomenta – se non avesse deciso sul tema a monte (nel senso della sua insussistenza o sussistenza a seconda della natura del presup-
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posto processuale, se negativo o positivo), non avrebbe potuto decidere sul tema a valle. Questo ricorso alla logica astratta, avulsa dal concreto, pare però inadatto per investigare la logica propria del processo. La riprova è offerta da numerosi elementi, ad iniziare dall’impiego giurisprudenziale crescente del principio cosiddetto della ragione più liquida di rigetto che, aderendo alla specificità della concreta controversia, scardina quel modello astratto per favorire il più sollecitamente possibile (su un presupposto purchessia) il risultato pratico della definizione della lite. Suggerire la fondazione della decisione su un presupposto purchessia quante volte (in dipendenza della sua – diremmo – maggiore «liquidità») valga ad accelerarne la adozione, contrasta – non può non contrastare – con la tesi secondo cui, per giungere alla decisione, il giudice sia tenuto ad esaminare gradatamente talune questioni, tra le quali intercederebbe una obbligata progressione logica. Questa supposta necessaria progressione ideale non si può conciliare con quell’anelito – intriso di concretissimo senso pratico – all’innesto della pronunzia del giudice sul presupposto purchessia più liquido. Non si può perciò presumere che la decisione su un tema (che si vorrebbe) dipendente («a valle») implichi la decisione (invisibile) su un tema (che si vorrebbe) pregiudiziale («a monte»). Non si può ricavare da una non-decisione (dal silenzio del giudice) una decisione. Ma la insufficienza di un approccio more geometrico si comprende anche considerando le singole ipotesi che sono state nel tempo vagliate in giurisprudenza. Potrei dilungarmi con le esemplificazioni. Circoscrivo per ovvie ragioni di concisione l’esame a tre ipotesi inerenti al gruppo che ho chiamato «rito-rito». Ecco la prima. Nella sentenza della Cassazione («Fanelli/Luiso») già richiamata si sostiene che la decisione espressa sulla eccezione di incompetenza per territorio sottintende una decisione implicita (nel senso della sua infondatezza) circa la exceptio compromissi (imperniata sulla presenza di una convenzione per arbitrato rituale); ritenuto il carattere pregiudiziale di questa seconda eccezione rispetto all’altra eccezione di rito, se ne ricava che la decisione espressa su quest’ultima eccezione di incompetenza per territorio, in quanto dipendente, racchiude una (quantunque implicita) affermazione della competenza del giudice a preferenza degli arbitri. Ciò perché – ubbidendo ai dettami di una elementare logica astratta – si sostiene che, in mancanza di siffatta implicita affermazione della competenza del giudice, non si sarebbe potuto affrontare il tema di quale fra i vari giudici è in concreto investito (di quella frazione di giurisdizione che consiste nel e) del potere di decidere. Tuttavia, è proprio l’affermazione alla base del ragionamento ad essere discutibile, vale a dire che tra i due temi decisori di rito sia reperibile quel rapporto illustrato di pregiudizialità/dipendenza, tale per cui l’eccezione di incompetenza ratione loci dovrebbe guadagnare la qualificazione di dipendente e l’exceptio compromissi il titolo di pregiudiziale. Tra i commentatori proprio Luiso ha dimostrato che quel rapporto non vi è sempre e comunque non si declina nei termini astratti pretesi dalla sentenza di Cassazione (quante volte in specie sia utile una pronuncia del giudice circa la insussistenza della propria potestas iuidcandi in dipendenza della convenzione di arbitrato da «spendere» in arbitrato, pronunzia che dovrebbe essere resa dal giudice dotato del potere di decidere il merito della controversia ove la convenzione di arbitrato fosse priva
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di effetti): con la conseguenza che l’aver deciso sulla eccezione di incompetenza non può ex necesse equivalere a decisione implicita circa la exceptio compromissi. Vi è una seconda ipotesi che vorrei segnalare, di cui tutti sono a conoscenza, quella del rapporto tra competenza e giurisdizione. Un rapporto che nel tempo ha vissuto vicende alterne. Oggi si torna a sostenere che la statuizione sulla competenza racchiude la positiva affermazione circa la giurisdizione; ciò perché, in caso contrario, il giudice, sempre secondo questa logica elementare, non avrebbe pronunciato sulla competenza e si sarebbe invece spogliato della giurisdizione. La quale è così elevata a presupposto processuale assolutamente pregiudiziale ed assurge nei fatti – fra i presupposti processuali (o condizioni di decidibilità della causa nel merito) – a presupposto «al quadrato» (a presupposto del presupposto o, se si preferisce, a condizione della condizione), dando vita ad una complicazione forse superflua (se si rammenta che «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem»). Peraltro, che sia tutt’altro che scontata la relazione testé descritta fra le due questioni di rito è confermato dalle oscillazioni giurisprudenziali sul punto e dalla circostanza che per molti anni la Cassazione ha abbracciato anche la soluzione diametralmente opposta, secondo cui cioè è la competenza a rivestire carattere prioritario (giacché l’accertamento della spettanza della giurisdizione – recitava il principio di diritto ripetutamente esposto dalla Suprema Corte – non può che essere effettuato dal giudice in astratto competente per materia, valore e territorio a conoscere della controversia, sulla base della prospettazione della domanda). Voglio chiudere con una terza ipotesi (esaminata in una mia nota sulla Processuale del 2013), una ipotesi che rafforza la convinzione che sia opportuno, volta per volta, curvarsi ad investigare la singola vicenda concreta. Che rapporto intercorre fra le questioni di rito rispettivamente della integrità del contraddittorio e della giurisdizione? Fra il 2008 e il 2012 le Sezioni Unite della Cassazione, facendo perno in via esclusiva sulla logica formale, hanno proposto soluzioni opposte, ritenendo dapprima che il giudizio sulla integrità del contraddittorio non può che spettare al giudice munito di giurisdizione (mentre sarebbe inutile richiederne la decisione da parte di un giudice che ne è carente) ed enunciando in altre occasioni il principio inverso per cui la verifica circa la giurisdizione va posposta alla integrazione del contraddittorio. In definitiva, per quanto la Cassazione – nella sentenza «Fanelli/Luiso» – si sforzi di documentare che la individuazione di un ordine di esame delle questioni non risponde ad una logica astratta e si conformi invece ad un criterio (e citiamo ad verbum da tale sentenza) «funzionale alla realizzazione del “giusto processo” ed alla attuazione dei princìpi di economica processuale e di ragionevole durata del processo», lo sforzo risulta vano: tutto lascia credere che quella logica astratta sfortunatamente finisce per prevalere (checché ne dica la sentenza «Fanelli/Luiso») su questo criterio innervato da una pratica razionalità. Gli espedienti retorici o le metafore (quale quella che in altre sentenze della Suprema Corte fa perno sulla differenziazione – delucidata a fondo da Giusy Fanelli – tra questioni cosiddette «vitali» e non, per dedurne la idoneità o meno a costituire oggetto di implicito giudicato) non servono, né possono servire per trapiantare nel processo quella che mi piacerebbe denominare la (superflua e nociva) rivoluzione dell’implicito.
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D’altronde, quando si affronta il tema dell’«ordine delle questioni», sarebbe bene richiamare alla memoria l’ammonimento aristotelico: «è proprio dell’uomo colto richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza quanta ne permette la natura dell’argomento» (Eth. Nic., 1094b, 23-25). Se l’argomento è il processo, sappiamo (grazie soprattutto alle ricerche di Picardi e Giuliani) che nel corso dei secoli, per investigarne la tessitura interna, non si è fatto ricorso ad un’unica nozione di «ordine», né tantomeno ad una nozione di carattere esclusivamente formale ed astratto (che è casomai apparsa solo nell’epoca moderna, nel contesto di quello che i due maestri testé menzionati hanno denominato l’«ordine asimmetrico»). Per lungo tempo l’ordo iudiciorum (e la locuzione è oltremodo significativa…) si è sviluppato intorno ad una diversissima nozione di ordine riannodata al ragionamento pratico e congiunta all’etica. E questa nozione pratica di ordine resta comunque connaturata al processo e alla sua dimensione umana.
3. Il giudicato implicito su questione di rito nella ipotesi
«merito-rito»: l’impiego selettivo nel caso della questione di giurisdizione. Le obiezioni finora evidenziate riguardo alla decisione implicita inerente al rapporto «rito/rito» possono estendersi anche alla decisione implicita pertinente all’altro rapporto che ho denominato «merito/rito». Rispetto ad esso è possibile ravvisare la presenza di un ulteriore puntello teorico. Voglio alludere alla ben nota (e altrettanto controversa, tanto più ultimamente) tesi del doppio oggetto del processo. Quando la si accolga, ne deriva che la pronunzia del giudice sull’oggetto di merito presuppone la decisione (anche implicita, frutto di un silenzio che si vorrebbe «significativo») sull’oggetto pregiudiziale di rito. A ben vedere, però, la tesi del doppio oggetto del processo, rispettivamente di rito e di merito, è stata certo ripresa dalla giurisprudenza ma ne è stata – deliberatamente o meno – travisata la caratteristica essenziale. La Cassazione, infatti, riconduce l’oggetto di rito (si pensi alla «sentenza Merone» e alla supposta implicita decisione affermativa della giurisdizione in dipendenza di statuizione che attinga il meritum causae) nella nozione di parte di sentenza dell’art. 329 co. 2 c.p.c., quando, al contrario, colui che autorevolmente ha elaborato la teoria in Italia, immaginava – nella situazione descritta – una riemersione integrale ed automatica nel grado superiore dell’oggetto processuale (esonerato dagli effetti della acquiescenza in conseguenza della «impugnazione parziale»). Contro questa tesi la Cassazione assevera che la statuizione sull’oggetto di merito comporta una decisione implicita sull’oggetto processuale, la quale, per essere stata omologata alla parte di sentenza ex art. 329 co. 2 c.p.c., ove non devoluta ritualmente al giudice superiore, dà vita (e lo fa praticamente sempre, se si pensa alle limitatissime eccezioni profilate dalla Suprema Corte) al giudicato implicito (circa la sussistenza della giurisdizione del giudice adito). Si può aggiungere che la tesi adesso imposta dalla Cassazione (circa la decisione implicita sulla giurisdizione) è in stridente contrasto con orientamenti risalenti. Ora si pretende,
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come tutti sanno, che la decisione sul merito presuppone la implicita affermazione della giurisdizione (perché se il giudice non fosse munito di giurisdizione – si osserva – non pronuncerebbe sul merito). Sicché la mancata impugnazione di tale statuizione implicita comporterebbe la formazione del giudicato (implicito) sul punto. Negli anni ’50 del secolo scorso le Sezioni Unite sostennero (e ne ho dato conto nel secondo volume della Cassazione civile giudice del merito del 2005 analizzando il ricorso incidentale condizionato) che la Corte di cassazione dovrebbe esaminare d’ufficio l’eccezione di difetto di giurisdizione, anche se il giudice d’appello l’abbia respinta in modo espresso e il soccombente non l’abbia risollevata nella sua impugnazione. Alla base di queste scelte vi sono senz’altro esigenze di politica giudiziaria (intorno al riparto di giurisdizione demandato alla cura della Cassazione) che soverchiano gli argomenti giuridici. Basti dire che si è disinvoltamente passati dalla tesi per cui è comunque rilevabile d’ufficio la questione di giurisdizione quantunque decisa espressamente nel grado inferiore, alla diversa tesi per cui è consentito il riesame della questione esplicitamente decisa solo dietro impugnazione della parte, alla tesi prospettata da ultimo (dopo la nota sentenza Merone del 2008) per cui il riesame della stessa questione presuppone comunque la impugnazione contro la decisione – anche implicita – sulla giurisdizione. È forte l’impressione che, come le salmerie seguono gli eserciti, in questa materia gli argomenti giuridici (quando vi siano) arrivano dopo che una scelta di politica giudiziaria sia stata compiuta. Se poi l’argomento è quello che richiama la discussa teorica del doppio oggetto del processo, è doveroso ripetere che non di integrale riproposizione di tale teoria si tratta, ma di sua parziale (ed in fondo infedele) utilizzazione da parte della giurisprudenza (considerato che – per ripeterci – il rinvio giurisprudenziale a siffatta teoria non si slarga al punto di consentire la riemersione automatica dell’oggetto processuale di fronte al giudice superiore ed inversamente la Cassazione omologa quoad effectum tale oggetto alla parte di sentenza ex art. 329 co. 2 c.p.c.: tale omologazione è predicata anche da Cass., sez. un., 12 maggio 2017, n. 11799, in rapporto alle eccezioni respinte «attraverso una enunciazione indiretta»). Ma che si tratti di utilizzazione parziale della teoria del duplice oggetto del processo è dimostrato dal fatto che la Cassazione vi fa ricorso, tutto sommato, nel solo caso della giurisdizione. Se vi fosse una impellente esigenza logica si dovrebbe consentire – quale immancabile conseguenza della pronunzia sul merito – sulla presenza di una decisione implicita relativamente a tutte le questioni processuali. Il che peraltro non accade, perché ciò significherebbe per la Suprema Corte rinunziare a rilevare d’ufficio in sede di legittimità (anche in funzione della cassazione senza rinvio dell’art. 382 co. 3 c.p.c.) questioni di rito impedienti che essa è solita – e lo è per lunga (e gelosamente custodita) tradizione – sollevare motu proprio (dalla mancata integrazione del contraddittorio in primo grado alla tardività dell’appello, ecc.). In conclusione, non si può fare a meno di segnalare che la radicale critica mossa negli ultimi tempi da Luiso alla teoria del doppio oggetto del processo, quando se ne condividessero (con gli argomenti molto seri sui quali si fonda) le conclusioni che prospetta, toglierebbe di mezzo anche questa parvenza di giustificazione alla scelta giurisprudenziale di ricavare una decisione implicita sul tema processuale della giurisdizione dalla decisione espressa sul merito della causa (giacché, in contemplazione di questa seconda, si dovrà
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presumere – ma soltanto ove si aderisca alla teorica del doppio oggetto – l’esistenza di un oggetto di rito sul quale anche implicitamente la sentenza avrà portato la sua attenzione; laddove invece, se si ricusi quella teorica, il silenzio del giudice in sentenza non è, né può essere omologato ad una valutazione implicita). Su questo punto non posso che sfruttare l’occasione offerta da questo convegno per registrare il contrasto totale fra le posizioni di due dei più autorevoli esponenti (Consolo e Luiso) della dottrina del processo civile. Un contrasto con implicazioni teoriche generali, se è vero che Luiso sottolinea che il giudice «decide» della decidibilità nel merito della controversia in modo diverso e con effetti differenti dalla decisione basata sulla applicazione di una regola di giudizio sostanziale al merito della lite. Si può confidare che il prof. Sassani riservi uno dei prossimi incontri del Suo dottorato (magari coinvolgendo i due importanti studiosi menzionati) al tema del doppio oggetto del processo.
4. La eteronimia dei fini. La profusione di energie della Corte nel somministrare elenchi di questioni da decidere prima o dopo (o «assolutamente» prima) conduce a risultati insoddisfacenti. Se l’obiettivo perseguito dalla giurisprudenza (che prospetta la decisione e il giudicato impliciti) consiste nella economia processuale in senso lato o comunque, insieme alla accelerazione, nella semplificazione del processo, si può immaginare che esso non sia raggiunto e, quel che è peggio, che la situazione sia destinata a complicarsi. Quell’obiettivo, per essere raggiunto, postula la leale collaborazione di tutte le parti coinvolte per attuare scelte chiare. L’avvocato, in particolare, deve commisurare le sue scelte in contemplazione di un quadro definito, modulare i suoi comportamenti nel quadro di una logica del prevedibile, non in un contesto dominato dall’imponderabile e inaspettato. Facile ne è la dimostrazione. Per timore che la pronunzia che conclude il processo contenga decisioni implicite (che non si vedono e nondimeno si presumono esistenti) e per evitare il rischio che si consolidino ove non censurate, l’avvocato si determinerà cautelativamente ad impugnarle (incrementando quelle impugnazioni cautelative che pure l’ordinamento – da lungo tempo e con oculata scelta imbevuta di pratica avvedutezza – tende a scongiurare: v., in specie, art. 334 c.p.c.). Ad esempio, tra le conseguenze della sentenza «Fanelli/Luiso» potrebbe esservi l’ampliamento nel numero dei regolamenti di competenza ex art. 819-ter c.p.c. per prevenire il pericolo che si stabilizzi (quale effetto «invisibile» ed «improvviso» della pronunzia espressa sulla eccezione di incompetenza ratione loci) una decisione implicita sulla inesistenza della convenzione di arbitrato. Più in generale, la (altrimenti usuale ed auspicabile) rastremazione dell’oggetto della lite, nel passaggio dal primo ai successivi gradi di giudizio, non sarà realizzata ed anzi la causa nel processo di impugnazione potrà presentare ulteriori temi decisori espliciti. Non avendo alcuna certezza intorno agli effettivi confini di un decisum – i cui estremi risultano non solo dal detto ma anche dal non detto – il difensore sarà posto nel processo di impugnazione nella spiacevole condizione di
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«apparecchiare uno sforzo di attacco e di difesa» sproporzionato. Peraltro – per continuare a mutuare liberamente la notoria espressione chiovendiana – questo «apparecchiare» avrà connotati del tutto inusuali tutte le volte in cui si richiede che esso assuma la forma della «impugnazione» avverso la decisione «implicita». Dire impugnazione a rigore significa dire motivo specifico di impugnazione (vuoi in Cassazione vuoi in appello, a maggior ragione adesso dopo la riscrittura dell’art. 342 c.p.c.). Sennonché è una contraddizione in termini esigere (come lo esigono alcune pronunzie della Corte Suprema – sull’abbrivio della «sentenza Merone» – in riferimento alla questione di giurisdizione implicitamente decisa) di formulare una censura, per di più specifica, avverso una decisione che non c’è (perché la decisione implicita non c’è, ed è improvvisamente inventata ex post per dedurne la formazione di un giudicato implicito, anch’esso improvviso ed invisibile). Se si insiste ad esigere la tecnica della impugnazione per evitare la acquiescenza sulla implicita decisione, lo si fa al prezzo di una finzione (trasformando in censura quel che in effetti è – e non può non restare – una mera devoluzione nel giudizio superiore di una questione «vergine», in quanto non previamente decisa, se non addirittura non discussa). Non saremo noi a negare il posto cruciale delle finzioni nel mondo del diritto. Ma se si esagera (come recentemente – oltre alla giurisprudenza della Cassazione – pure un legislatore un po’ autoritario inclina a fare, ad esempio qualificando in chiave di inammissibilità quel che è pura infondatezza: artt. 348-bis e 360-bis c.p.c.) si rischia nel delicato sistema processuale il cortocircuito. D’altronde non si può pretendere tutto e il contrario di tutto. Sappiamo che tra i principi «utilitaristici» che si vorrebbero trapiantare nel processo civile vi è anche il (presunto, ma – secondo noi – inesistente) principio di sinteticità nella redazione degli atti di parte. Ma – chiediamoci – come si può obbligare un avvocato ad essere sintetico nella redazione di un atto di impugnazione se al contempo gli si impone (con la minaccia del giudicato implicito) l’arduo compito di censurare – insieme alle statuizioni espresse – pure le decisioni implicite del provvedimento? La brevitas è certamente una cosa positiva, che è però difficile da perseguire quando la complessità delle prescrizioni legislative e giurisprudenziali costringe gli avvocati ad articolare, connettere ed organizzare nozioni e concetti sovente liquidi e cangianti. Soprattutto non si può pretendere sempre e comunque la brevitas quando malauguratamente si forza il difensore a divinare l’effettivo contenuto del provvedimento da impugnare e lo si obbliga (pena il giudicato) a censurare le (invisibili) decisioni implicite. Anziché da biasimare, sarà da lodare quell’avvocato che riservi allo sfuggente tema alcune pagine del suo appello o ricorso per cassazione per parare il pericolo che quella presunta decisione (immaginata, perché non figura nel testo del provvedimento impugnato) gli sia opposta quale base anzitutto per la reiezione della sua impugnazione, sforzandosi di spiegare che non vi è una decisione implicita, o che, ammesso che vi sia, è sbagliata. E visto che i giuristi non sono indovini, non si potrà criticare l’avvocato che, dilungandosi su quei possibili temi decisori «impliciti», allunghi l’atto di impugnazione per darne conto e difendersi.
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5. Le garanzie delle parti, la responsabilità del giudice e la dequotazione delle regole processuali.
Sono convinto che ritenere possibile una decisione implicita (prodromica al giudicato implicito) su un certo tema può tradursi nella lesione del diritto al contraddittorio. Sappiamo tutti che questo diritto non può più essere risolto unicamente in una dimensione formale e bilaterale. Ha infatti negli ultimi anni recuperato la sua tradizionale portata etico-ideologica. Ne sono stati in particolare rimodulati gli estremi applicativi ed è stato trasformato da ultimo in strumento operativo per il giudice che deve – lui per primo – osservarlo nel corso del processo. Di fronte agli artt. 101 co. 2, 183 co. 4, 384 co. 3 c.p.c. si può legittimamente parlare del passaggio da una nozione di contraddittorio «in senso debole» ad una «in senso forte». Orbene, se è fatto divieto al giudice di decidere in modo espresso una questione – pure rilevabile ex officio – senza sottoporla prima al contraddittorio delle parti, come si può convenire sulla ammissibilità nella stessa identica situazione di una decisione implicita? Non lo si può fare. Eppure, questo è proprio quanto si ricava dalla giurisprudenza della Cassazione a partire dalla «sentenza Merone», vale a dire la ritenuta ammissibilità di una decisione implicita su una questione rilevabile d’ufficio epperò mai discussa tra le parti nel corso del processo. La ritenuta ammissibilità di una decisione implicita contraddice la sicura inammissibilità nella identica situazione descritta di una decisione espressa. Questa obiezione che sto illustrando, come si adatta alla giurisprudenza sulla decisione implicita sulla giurisdizione (dalla «sentenza Merone» in avanti), così può essere riferita al giudicato senza motivazione nel caso di quello che ho chiamato rapporto «merito-merito» (e di cui parlerò nella parte finale del mio intervento). Non è invece integralmente riferibile anche alla sentenza «Fanelli/Luiso», nella quale il contraddittorio tra le parti era stato suscitato dalla doppia difesa del convenuto (che aveva prospettato ambedue le eccezioni di rito, tanto quella di esistenza di una convenzione di arbitrato rituale, quanto – in via subordinata – l’altra eccezione di incompetenza ratione loci del giudice adito). Che la giurisprudenza non si accorga che la teoria della decisione implicita (nelle ipotesi enumerate) vanifica la garanzia del contraddittorio è sorprendente. O forse si spiega, ma non giustifica, pensando alla evidente insofferenza che proprio la Cassazione sembra manifestare talvolta verso il contraddittorio «in senso forte», ad esempio neutralizzando il rilievo pratico dell’art. 384 co. 3 c.p.c. (con la perniciosa conseguenza che il rilievo officioso da parte della Corte Suprema di questione non sottoposta previamente alle parti è privo di alcuna sanzione), o, più ampiamente, pretendendo (nella sua veste conclamata di motore delle riforme degli ultimi due lustri) la eliminazione del cosiddetto opinamento (che avrebbe potuto garantire un più penetrante contributo scritto dei difensori alla correttezza della decisione) e insieme imponendo la pressoché integrale cameralizzazione del giudizio di legittimità (che confina il contributo orale degli avvocati alle rare udienze pubbliche). La teorizzazione della decisione implicita finisce fatalmente per deresponsabilizzare il giudice (come del resto fanno – in un clima generale preoccupante – norme del tipo
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dell’art. 348-ter co. 3 c.p.c. – che de iure sottrae il giudice che pronunzi l’inammissibilità dell’appello da alcun controllo – o principi di diritto quale quello che consente la integrazione postuma del titolo giudiziale, ecc.). Quella teorizzazione dell’implicito libera il giudice dall’ingombrante (eppure essenziale) dovere di attivare (ove occorrente) il contraddittorio tra le parti. Lo dispensa dal (fondamentale) dovere di prendere motivatamente posizione su un certo tema decisorio. Lo affranca da due compiti ai quali, però, corrispondono preziose garanzie per le parti, che vanno senz’altro perdute. Per recuperarle non resta altro da fare che negare la ammissibilità di quella teorizzazione dell’implicito, altrettanto infondata che pericolosa. In particolare, avallare una decisione senza motivazione significa contraddire la norma costituzionale che, come tutti sanno, all’art. 111 co. 6, stabilisce inequivocabilmente che «Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». Si tratta della ulteriore prova della scarsa considerazione (ricavabile pure dalla riscrittura dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.) che disgraziatamente viene negli ultimi tempi riservata alla motivazione ed al suo controllo. Nella rivoluzione dell’implicito intravedo, d’altra parte, altresì l’ennesimo segno della dequotazione delle regole processuali poste a presidio dei diritti delle parti (con le Sezioni Unite che parlano addirittura di una «innegabile evoluzione dell’ordinamento verso una progressiva relativizzazione della tutela apprestata dalle regole di rito»: così, letteralmente, Cass., sez. un., 23 gennaio 2015, n. 1238; par. 9.1. dei «motivi della decisione»). Al tema ho già dedicato alcuni contributi. Mi limiterò all’essenziale. Affermare che la questione posta da una certa regola processuale (quale ad esempio la questione della giurisdizione) è decisa…senza essere decisa, vuol dire disinteressarsi del valore che implica e della garanzia che pone (nel caso citato appena adesso, la garanzia del giudice naturale). Significa dimenticare che, nel sistema della legalità, la regola processuale (lo ha scritto da par suo Piero Calamandrei nelle indimenticabili lezioni messicane, di cui ho avuto la fortuna di occuparmi negli ultimi due anni) agisce da «forza frenante» contro l’arbitrio e la prepotenza. Ma l’arbitrio e la prepotenza di chi? Delle parti ma anche, se non soprattutto, del giudice, osserva Calamandrei. Fra le parti la regola processuale evita che «l’equilibrio del contraddittorio sia turbato, secondo i casi, dalla prepotenza del più forte o dalla abilità del più scaltro». Contro il giudice, la regola processuale è «forza frenante» perché assicura che la sua decisione «sia in ogni caso il prodotto, non dell’arbitro, ma della ragione». Il fatto è che l’esperienza collettiva (in cui si sorprende la genesi della regola) ha per tempo avvertito il pericolo che il giudice – «che anch’egli è un uomo» – possa nel condurre il processo e pronunciare la sentenza, anziché conformarsi a ragione equilibrio e ponderatezza, agire arbitrariamente. Da quando – scrive con la sua penna fatata Calamandrei – «il giudice scende di cielo in terra», e si vede da vicino «che anch’egli è un uomo», allora, «se si vuol dar credito alla sua sentenza, si cominciano a cercare nei meccanismi sempre più precisi della procedura le garanzie per assicurare» che si comporti e decida secondo ragione. Orbene, tutto ciò rischia di diventare lettera morta se si accetta l’idea della decisione implicita su un tema collegato ad una regola processuale (tema che si finge sia stato esaminato e deciso quando tutto all’opposto non è stato neppure prospettato).
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Contro il cosiddetto giudicato implicito
Siamo al crocevia di problematiche fondamentali. So bene che ci sono regole e regole. Io penso anzitutto alle regole del processo volte ad assicurare i diritti processuali delle parti nei loro reciproci rapporti e verso il giudice. Gli studiosi del processo hanno in quest’epoca storica il compito di ricordare (e di farlo anche quando si vorrebbe imporre la rivoluzione dell’implicito) il significato e l’importanza di regole processuali consimili, per distinguerle decisamente dalle altre regole (troppo note per dovere essere menzionate) che, essendo il prodotto dell’occasionalismo legislativo o di contingenze casuali o accidentali circostanze sociali, possono divenire «il peggior nemico del giusto processo» (e mi basta riferirmi – per farmi capire dai presenti al convegno – ai filtri di ammissibilità per i giudizi di appello e di cassazione introdotti dal legislatore – con scelta altrettanto rapsodica che nudamente volontaristica – e che finiscono per comprimere garanzie fondamentali correlate al diritto di difesa). Ma dietro la teorizzazione della decisione implicita non c’è solo il rischio di travolgere la portata garantistica di alcune regole processuali, ad iniziare da quella essenziale testé analizzata (che configura come dovere per lo stesso giudice la attivazione del contraddittorio con le parti su questioni rilevabili d’ufficio); c’è qualcosa di più, qualcosa di essenziale, che ha a che fare con il principio della domanda. Il che mi spinge ad occuparmi finalmente del giudicato senza motivazione nel caso che ho denominato «merito-merito».
6. Il giudicato senza motivazione nella ipotesi «merito-
merito»: il principio dispositivo e il paradosso di «Bleak House».
Oggi non sono certo nelle condizioni di rivisitare criticamente contenuto ed effetti delle cosiddette «sentenze gemelle» del 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243 (avendo del resto già fatto un tentativo in tal senso nella Giustizia civile del 2017, recensendo i penetranti scritti di Consolo sull’argomento). Dovrò per forza di cose limitarmi ad alcune brevi osservazioni che traggono spunto anche se non solo da quelle «sentenze-trattato» delle Sezioni Unite della Cassazione (che vorrebbero riannodarsi alla c.d. Begründungstheorie di Zeuner ed in effetti se ne distaccano sensibilmente). Tra le tante cose, come noto, la Cassazione enuncia in tali sentenze l’idea secondo cui – se vi è accoglimento della domanda di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento – la pronuncia del giudice «è idonea alla formazione del giudicato implicito sulla validità del negozio (salva rilevazione officiosa del giudice di appello)». Questa conclusione si riconnette alla tesi espressa dalla Suprema Corte secondo la quale il giudice dovrebbe sempre rilevare d’ufficio la nullità (anche in appello ma non in Cassazione, se non a costo di consentire, in antitesi con la tradizione, un sindacato sulla quaestio facti anche in tal sede). Il giudice sarebbe tenuto a farlo prima di pronunciare sulla domanda concernente il contratto, di modo che questa pronunzia, se adottata, implicherebbe il riconoscimento tacito della non-nullità.
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Questa tesi del giudicato implicito sulla non-nullità non soltanto ferisce quelle garanzie individuali e quei valori eterni sui quali abbiamo indugiato in precedenza, cancellando in particolare il diritto al contraddittorio fra le parti e tra loro e il giudice. Fa di più. Difatti, se si ritiene – come ritengo (per le ragioni espresse nel contributo menzionato nella Giustizia civile) in consonanza ad esempio con il pensiero espresso per lungo tempo da Consolo – che l’art. 34 c.p.c. debba applicarsi ad ogni forma di pregiudizialità (non solo a quella c.d. tecnica ma anche all’altra c.d. logica), consegue che la tesi del giudicato implicito sulla validità del contratto rappresenta (e non occorrono molte parole per spiegare quel che è ovvio) una manifesta violazione del principio dispositivo. Basti qui solo osservare – a suffragio di questa rapida considerazione – che non credo che la pregiudizialità logica rappresenti una forma impropria di pregiudizialità che incorpori una mera cognizione preliminare solo intellettiva o istruttoria. La relazione che intercede tra i singoli effetti del rapporto contrattuale e il rapporto contrattuale fondamentale non è tale da cancellare l’autonomia degli uni rispetto all’altro, tanto che è del tutto fisiologico che quegli effetti e il rapporto dal quale promanano siano elevati, per scelta di parte, ad oggetto di diversi processi o di un unico processo cumulativo (cioè con più «cause» distinte, suscettibili di essere decise con altrettante parti di sentenza). Ma la scelta esplicita di parte è essenziale e prescinderne (come vogliono prescinderne le Sezioni Unite con la azzardata teoria dell’implicito ritagliata sulla validità del contratto) non appare condivisibile. Questa conclusione potrebbe aprire un discorso assai più ampio che non posso affrontare. Dico solo che mi vengono in mente le pagine di un romanzo e un principio processuale fondamentale. In Bleak House di Dickens (occupato dalla interminabile causa ereditaria «Jarndyce and Jarndyce», di fronte alla «Court of Chancery») appare la figura di un uomo sfinito (Mr Gridley) che sta proprio lì, di fronte alla Corte di Giustizia del Lord Cancelliere, da 25 anni. Mr Gridley (universalmente noto come l’«uomo dello Shropshire») per spiegare la sua terribile condizione, racconta che il fratello gli fece causa per un lascito testamentario: «Badi bene. La questione era solo questa», precisa l’uomo dello Shropshire rivolgendosi al suo interlocutore, Mr Jarndyce. D’improvviso però – prosegue l’uomo – «il magistrato credette necessario informarsi se io fossi davvero figlio di mio padre, cosa che fino allora nessuno aveva dubitato». Ecco perché – conclude l’uomo dello Shropshire – «la causa, non ancora decisa, è diventata tormento, rovina e disperazione». Se questo ricordo vale a creare uno stato d’animo che influenza il mio complessivo giudizio, mi preme altresì annotare che non mi persuade la perimetrazione dell’oggetto del giudizio calata dall’alto a prescindere dalle intenzioni e dalle scelte delle parti (peggio ancora se calata a sorpresa dall’alto, secondo i pericolosi dettami della rivoluzione dell’implicito). Sottolineare a questo proposito il rilievo centrale della iniziativa della parte è altrettanto ovvio che doveroso. Riconoscere, più ampiamente, la compressione di questa libera iniziativa a contatto con le tesi estensive dell’oggetto del giudizio e del giudicato è – mi sembra – inevitabile. La rivoluzione dell’implicito rende questa problematica generale ancora più incandescente. Nell’affrontarla manifesto apertamente la mia contrarietà alla predeterminazione impersonale ed eteronoma dell’oggetto del giudizio. Tale contrarietà non deriva da mere ragioni di tecnica procedimentale, ma da un motivo (che quel ricordo letterario rinsalda sul piano
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Contro il cosiddetto giudicato implicito
della emotività) che vorrei chiamare sostanziale. Accade sempre più di rado – almeno così mi pare – che ci si chieda quale è il «senso» ultimo del cosiddetto principio dispositivo, che ci si domandi a che serve e quali valori soddisfa. Per rispondere a questi interrogativi suggerisco di tornare con la mente a quello che mi è piaciuto denominare (in un contributo sulla Processuale del 2019) «essenzialismo» delle lezioni messicane di Calamandrei: un «essenzialismo» che si rintraccia nell’anelito – che ne traspare – a comprendere il senso stesso del processo (perché il processo?) e nella inclinazione – che ne affiora – ad additare origine e scopo dei più importanti principi processuali (a cosa servono?). Fra questi principi svetta proprio quello dispositivo. Raccogliendo ed ordinando pensieri di una vita intera, Calamandrei assegna un valore assoluto alla «forza motrice del processo» e cioè alla responsabilità della parte sottesa al c.d. principio dispositivo («quel principio di iniziativa e di responsabilità che va sotto il nome di principio dispositivo»). Un principio che Calamandrei prende così sul serio da elevarlo a condizione «del rispetto della persona» nel processo. Chiudo questa mia relazione ponendo a confronto la logica (di libertà e responsabilità ad un tempo) sottesa al principio dispositivo con la aspirazione che si indovina nelle «sentenze gemelle» (e che è condivisa da una folta ed autorevole schiera di scrittori e ripresa in vario modo in altre sentenze di Cassazione, come per certi versi in quella ben nota del 2015 in tema di modificazione della domanda) a conseguire una decisione quanto più possibile esaustiva della controversia: una decisione “totale” (alla Bleak House, vorrei scrivere sul filo del paradosso), una decisione che regoli tutto quanto, senza lacune o smagliature, nella compiaciuta fiducia della sua unicità. Ma il principio dispositivo consegna una idea opposta (l’idea per cui non interessa definire tutte le relazioni intercorrenti tra le parti, ma dirimere la concreta e particolare situazione da esse perimetrata siccome controversa). La scelta libera e volontaria della parte, sottesa a quel principio, disegna inevitabilmente uno scenario sfrangiato, improntato alla flessibilità, piegato al particolare anziché slargato alla situazione della vita nel suo complesso (quella situazione della vita che – nella prospettiva qui avversata che altera la misurata strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale – finirebbe per inghiottire il processo civile di parti a tipo dispositivo e la sua logica di libera e personale modulazione dell’oggetto del giudizio). Rilevo conclusivamente che, se per ottenere quella sentenza “totale” che tutto decide si arriva addirittura al punto (al punto «estremo», ammettiamolo schiettamente) di teorizzare il giudicato implicito (invisibile e a sorpresa) sulla non-nullità del contratto, si creano le condizioni per fare uscire dal proscenio del processo proprio la parte o – per riprendere le parole di Calamandrei – la «persona».
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Le novità in materia di contratti pendenti nel codice della crisi di impresa e dell’insolvenza Sommario: 1. Premessa. – 2. La disciplina generale dei contratti pendenti nella liquidazione giudiziale e le novità in materia di prededucibilità dei crediti. – 3. Le ulteriori fattispecie contrattuali interessate dalla riforma. I contratti pubblici. – 4. Segue: i contratti preliminari. – 5. Segue: i contratti a carattere personale. – 6. Segue: la vendita con riserva di proprietà. – 7. Segue: la locazione di immobili e il rapporto tra norma speciale e disciplina generale. – 8. Segue: l’affitto d’azienda. – 9. Segue: la locazione finanziaria. – 10. La nuova disciplina in materia di contratti di lavoro subordinato. – 11. Segue: i licenziamenti collettivi. – 12. Segue: trasferimento di azienda e rapporti di lavoro. – 13. I contratti pendenti nella liquidazione coatta amministrativa. Rilievi critici. – 14. I contratti pendenti nel concordato preventivo. La disciplina generale. – 15. Segue: profili processuali.
Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ha introdotto importanti innovazioni in materia di contratti pendenti: lo scopo del presente contributo è quello di analizzarle, avendo a mente che la struttura di base della disciplina è rimasta sostanzialmente invariata sia che per quel che riguarda la liquidazione giudiziale, che per quanto concerne il concordato preventivo. Si è preferito organizzare il lavoro partendo dalle innovazioni relative alla liquidazione giudiziale, procedura che sostituisce il fallimento, perché ad una breve descrizione della disciplina generale è seguita l’analisi sui singoli contratti disciplinati dagli artt. 173 e ss. c.c.i.; successivamente è stato sollevato un rilievo critico concernente l’applicazione della disciplina di cui agli artt. 172-192 c.c.i. alla liquidazione coatta amministrativa; infine, sono state analizzate le novità in materia di concordato preventivo. Corporate Crisis and Insolvency Code has introduced important developements about outstanding contracts: the purpose of this paper is to analyse them, knowing that the basic structure of the discipline remained the same both for what concerns the judicial liquidation and for what concerns the arrangement with creditors. It was preferred to organize the work starting from the innovations relating to judicial liquidation, the procedure that replaces bankruptcy, because a brief description of the general rules was followed by an analysis of the individual contracts governed by Articles 173 et seq. of the Corporate Crisis and Insolvency Code; after, the application of the rules under Articles 172-192 of the Corporate Crisis and Insolvency Code to administrative liquidation was criticised; finally, there is an analysis of the novelties relating to arrangement with creditors.
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1. Premessa. A partire dal 15 agosto 2020, giorno in cui entrerà integralmente in vigore, il d.lgs. 14/2019, il c.d. Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (c.c.i.)1, sostituirà la Legge Fallimentare del 1942, ponendosi, almeno in teoria, come punto di arrivo di una complessa stagione riformatrice del diritto della crisi dell’impresa2, iniziata con la l. 80/2005 e proseguita con interventi normativi a cadenza quasi annuale, mirati a modificare integralmente i paradigmi della branca dell’ordinamento in esame3. Preso atto che la crisi e l’insolvenza sono situazioni non sempre imputabili al solo imprenditore e che il soddisfacimento delle ragioni creditorie non presuppone necessariamente una sua espulsione dal mercato, la dottrina ha, in passato4, più volte richiamato la necessità di una disciplina del tutto nuova, con cui passare dalla tradizionale concezione sanzionatoria delle procedure concorsuali ad una nuova visione delle stesse, intese, come si è già accennato5, come uno strumento diretto sì a soddisfare le ragioni creditorie, ma anche a regolare il dissesto economico in cui versa il debitore e determinarne il superamento6.
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Con cui si è dato attuazione alla Legge delega 155/2017, che aveva delegato al Governo il compito di emanare un decreto legislativo mediante il quale riformare sistematicamente la disciplina in materia di procedure concorsuali. Per un’analisi, almeno per sommi capi, delle linee guida della Legge, cfr. Lamanna, La riforma concorsuale in progress, dalla legge de-lega alla sua rapida attuazione, 2017, in www.ilfallimentarista.it. 2 In questa sede si preferisce utilizzare tale espressione, in virtù della nuova terminologia adottata dal Codice. È ben noto che una delle più interessanti novità della riforma, perlomeno su un piano culturale, ha riguardato la sostituzione del termine “fallimento”, portatore di disvalore sociale, con l’espressione più neutrale “liquidazione giudiziale”: già questo aspetto impedisce di parlare di un “diritto fallimentare”. Ma a ben vedere, nemmeno l’espressione “diritto delle procedure concorsuali”, già utilizzata in dottrina, appare oggi idonea ad individuare la materia in esame. Infatti, è lo stesso Legislatore che preferisce parlare di “procedure di regolazione della crisi di impresa”, in virtù di un’impostazione culturale del tutto innovativa, in cui l’accento non è posto esclusivamente sulla tutela dei creditori e della par condicio, ma anche sulla finalità di risanare lo stato di dissesto in cui versa il debitore, segnando così un mutamento di prospettiva, in cui l’impresa assume un rilievo centrale. (Si veda in tal senso: Sanzo. I principi generali e le disposizioni di immediata attuazione, in Il nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, a cura di Sanzo, Burroni, Bologna-Roma, 2019, 1-3. Il tema viene accennato anche in Giorgetti, Disposizioni generali, in Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, a cura di Giorgetti, Pisa, 2019, 3-4, con riferimento agli artt. 3-5 d.lgs 14/2019 che sanciscono gli obblighi e i doveri delle parti coinvolte nelle procedure disciplinate dal testo normativo). Sotto questo profilo, va però sottolineato che tali principi avevano già ispirato le riforme che, negli anni passati, avevano modificato la Legge Fallimentare (cfr., in tal senso: Vassalli, Note introduttive al Trattato. Le procedure concorsuali dalla legge fallimentare alla riforma, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, I, Torino, 2013, 28 e ss.; Cecchella, Diritto fallimentare, Padova, 2015, 29). 3 Si tenga conto che Legge Fallimentare del 1942, promulgata dal Legislatore fascista, si riferiva ad un contesto economico e giuridico completamente diverso da quello dell’Italia repubblicana, che presentava, da un lato, una visione del fallimento come sanzione, e, dall’altro, una concezione fortemente autoritaria dello Stato: ne derivava una disciplina caratterizzata da controlli e interventi particolarmente intensi da parte degli organi giurisdizionali, finalizzati prevalentemente ad “eliminare” dal mercato imprenditori ritenuti incapaci di concorrere allo sviluppo dell’economia nazionale. Cfr. Cecchella, Diritto Fallimentare, cit., 29; Vassalli, in Trattato, I, cit., 3 e ss.; Matteucci, Insolvenza e negoziazione in Italia: uno sguardo al passato per comprendere il presente e, forse, prevedere un po’ del futuro, 2013, in www.ilfallimentarista.it. 4 Già negli anni ‘70, la disciplina appariva inadeguata rispetto ad un’economia molto più avanzata e all’operatività della Costituzione del 1948 e dei trattati istitutivi delle Comunità Europee: cfr. Bonsignori, Inattualità del fallimento, in Dir. fall., 1978, I, 462-466. 5 Cfr. nota 2. 6 Vassalli, in Trattato, I, cit., passim; Cecchella, Diritto Fallimentare, cit., passim, ma in particolare 1 e ss.; Matteucci, Insolvenza e negoziazione in Italia, cit.; Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, Padova, 2015, passim; Trisorio Liuzzi, I presupposti del fallimento, in Diritto delle procedure concorsuali, a cura di Trisorio Liuzzi, Milano, 2013, 3 e ss.
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Se fino ad oggi, il Legislatore aveva preferito soddisfare tali esigenze “gradualmente”, attraverso importanti e corpose modifiche alla Legge del 1942 ovvero mediante l’introduzione di nuovi testi normativi7, il nuovo Codice ha l’indubbio vantaggio di sistematizzare la materia8, disciplinando in un unico testo tutte le procedure dirette a risanare uno stato di dissesto9, eccezion fatta per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza10, e superando (perlomeno nelle intenzioni) le problematiche legate all’armonizzazione delle norme “nuove” con quelle rimaste invariate11. Naturalmente, il Codice ha portato con sé ulteriori innovazioni alla materia in esame, la cui portata potrà essere analizzata una volta entrato in vigore. In questo contesto, si presentano interessanti novità anche per quel che riguarda il tema dei contratti pendenti, dove, come si vedrà, ad una disciplina rimasta invariata nella sua struttura di base, si affiancano delle innovazioni relative al profilo degli effetti della prosecuzione dei contratti in corso di esecuzione durante la procedura, nonché in materia di singoli contratti. Alcune di queste novità consistono, di fatto, in mere “precisazioni” o in un’espressa riproduzione testuale di orientamenti giurisprudenziali inerenti a problematiche interpretative sorte sotto la vigenza della Legge Fallimentare; altre norme, invece, sono fonte di una disciplina del tutto nuova, che talvolta potrebbe determinare un superamento di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali consolidati in passato.
2. La disciplina generale dei contratti pendenti
nella liquidazione giudiziale e le novità in materia di prededucibilità dei crediti.
Analogamente alla Legge Fallimentare, anche il Codice disciplina la sorte dei contratti pendenti nella liquidazione giudiziale, nonché nella liquidazione coatta amministrativa, e nel concordato preventivo. Soffermando l’analisi sulla procedura che ha sostituito il fallimento, già con riguardo al tema della definizione delle fattispecie, si rilevano alcune innovazioni. L’art. 172 c.c.i. definisce i contratti pendenti come i contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti nelle loro prestazioni principali da entrambe le parti al momento dell’apertura della liquidazione giudiziale12: rispetto agli artt. 72 l. fall., che la norma è chia-
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Si pensi alla l. 3/2012, che disciplina la procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento. Sanzo, in Il nuovo codice, cit., 1, afferma che il Codice rappresenta la prima riforma organica del diritto della crisi di impresa. 9 Comprese quelle applicabili ai soggetti che non sono sottoponibili alla liquidazione giudiziale. 10 Per la quale continua ad operare il d.lgs. 270/1999. 11 Tale osservazione si rinviene nella stessa Relazione illustrativa al d.lgs 14/2019: si fa altresì riferimento alla necessità di armonizzare la disciplina interna con gli interventi de Legislatore dell’Unione Europea. 12 Elemento essenziale della definizione è, dunque, la reciprocità/bilateralità dell’inadempimento: se una delle parti ha integralmente eseguito la sua prestazione, è pacifico che essa vanti un credito nei confronti dell’altro contraente, con tutte le conseguenze che ne derivano. Se parte adempiente è il contraente in bonis, vanterà un credito nei confronti del debitore e potrà insinuarsi al passivo; 8
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mata a sostituire, vi è un espresso riferimento alla necessità che a non essere eseguite siano le sole prestazioni principali. In realtà, sotto questo profilo, il Legislatore altro non ha fatto che richiamare un orientamento già consolidato in dottrina13 e in giurisprudenza14, che affermava che l’esecuzione di prestazioni accessorie, come ad esempio la consegna di titoli e di documenti relativi al trasferimento di un diritto, non determinasse la venuta meno della pendenza del contratto e quindi, la mancata applicazione della disciplina in esame. Chiarito questo punto, il Legislatore, come si è già accennato, ha lasciato sostanzialmente invariata la disciplina generale, perlomeno per quel che riguarda la struttura di base. Resta ferma, dunque, la regola generale per cui l’apertura della liquidazione giudiziale determina la sospensione dei contratti pendenti, così come rimane invariata la disciplina che consente al curatore di scegliere, previa autorizzazione del comitato dei creditori15, se proseguire il vincolo contrattuale, subentrando al debitore sottoposto alla procedura, ovvero se scioglierlo16, nonché la disposizione che consente al contraente in bonis di mettere in mora il curatore, facendosi assegnare dal giudice delegato un termine di sessanta giorni entro il quale il curatore deve dichiarare se intenda sciogliere il contratto o subentrarvi, il cui inutile decorso ne determina lo scioglimento di diritto. Sotto questo profilo, la scelta del Legislatore, diretta ad un contemperamento degli interessi in gioco, è condivisibile. La dottrina ha sempre giustificato una disciplina che deroga fortemente al diritto dei contratti partendo dalle caratteristiche tipiche del fallimento: la conservazione degli effetti del contratto secondo le regole del diritto civile sarebbe un ostacolo agli obiettivi perseguiti da una procedura che, pur avendo perso nel corso degli anni la sua connotazione sanzionatoria, risulta ancora applicabile a quei casi in cui il dissesto è tale che il suo superamento, con contestuale soddisfacimento dei creditori,
inoltre si applicherà la disciplina in materia di effetti delle procedure in esame nei confronti dei creditori di cui agli artt. 150-162 c.c.i. (la cui disciplina è sostanzialmente analoga a quella di cui agli artt. 51-63 l. fall.). Se invece, ad avere adempiuto è il soggetto sottoposto alla procedura, sarà il curatore ad esigere il pagamento della controprestazione, in ossequio al diritto dei contratti Da quanto affermato, deriva che per individuare le fattispecie contrattuali assoggettabili alla disciplina in materie di contratti pendenti, occorrerà, in primo luogo, distinguere i contratti ad esecuzione continuata e periodica (oggetto, tra l’altro, di una specifica disciplina che sarà analizzata nel prosieguo) e i contratti ad esecuzione istantanea. Questi ultimi dovranno essere distinti in contratti ad effetti obbligatori, assoggettabili alla disciplina qualora nessuna delle due obbligazioni sia stata integralmente adempiuta, e i contratti ad effetti reali, che, come prevede lo stesso art. 172 c.c.i., possono essere considerati pendenti solo quando il diritto non si è ancora trasferito, ad esempio perché il contratto è sottoposto ad un termine iniziale o ad una condizione sospensiva. Cfr.: Gabrielli, La disciplina generale dei rapporti pendenti, in Trattato di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, III, Torino, 2014, 122; Cecchella, Diritto fallimentare, cit., 316; Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare, cit., 368; Jorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova, 2009, 471 e ss. 13 Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare, cit., 368; Cecchella, Diritto fallimentare, cit., 316; Fiengo, Sub art. 72, in Commentario alla Legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, 347. 14 L’assunto è risalente: Cass.30 maggio 1983, n. 3708, in Fall., 1983, 1384. 15 A riguardo, occorre sottolineare che, a causa della formulazione letterale dell’art. 72, comma 1, l. fall., è sorto un dubbio in dottrina circa la possibilità che l’autorizzazione del comitato dei creditori sia necessaria solo per il subentro nei contratti. Il tema sarà ripreso nel paragrafo dedicato alla locazione di immobili, dal momento che la formulazione letterale dell’art. 185 c.c.i. potrebbe dare delle risposte in materia. 16 Si è discusso sulla natura dello scioglimento: la tesi preferibile, a parere di chi scrive, identifica un vero e proprio diritto potestativo in capo al curatore (cfr. Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare, cit., 373; Ticozzi, Fallimento del promittente venditore e trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica del preliminare, in Contratti, 2010, 796. In giurisprudenza, cfr. Cass. 22 aprile 2000, n. 5287, in Fall., 2000, 886).
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Le novità in materia di contratti pendenti nel codice della crisi di impresa e dell’insolvenza
presuppone non già la continuazione dell’impresa, ma la liquidazione dei beni del debitore17. Da qui la ragionevolezza di una disciplina che “sospende” il sinallagma contrattuale e riconosce al curatore la possibilità di valutare se la sua definitiva resiliazione o la sua prosecuzione sia idoneo a garantire una proficua liquidazione18. Tali riflessioni ben possono valere anche per la liquidazione giudiziale, e non è un caso, sotto questo profilo, che, analogamente a quanto previsto dall’art. 104 l. fall., anche l’art. 211 c.c.i. prevede che, in caso di esercizio dell’impresa, i contratti pendenti proseguono19: lì dove il superamento del dissesto e il soddisfacimento dei creditori si raggiungono attraverso la prosecuzione dell’impresa, il Legislatore preferisce la soluzione della continuità dei contratti20. Naturalmente, gli interessi della procedura vanno contemperati con quelli del contraente in bonis, che risultano tutelati dalla disciplina relativa agli effetti della scelta del curatore, ossia lo scioglimento o il subentro, e se per quel che riguarda lo scioglimento, si riscontra una conferma di quanto disposto dall’art. 72 l. fall., e cioè che il contraente ha diritto di far valere nel passivo della liquidazione giudiziale il credito conseguente al mancato adempimento, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno, in materia di effetti del subentro si riscontrano importanti novità. L’art. 72, comma 1, l. fall., si limita ad affermare che quando il curatore decide di subentrare nel contratto, se ne assume tutti gli obblighi relativi, ma nulla dispone in merito alla natura chirografaria o prededucibile dei crediti che dal contratto stesso sorgono. Ad una prima analisi del problema, esso potrebbe essere risolto ponendo in relazione il momento in cui il credito sorge e il momento in cui si instaura la procedura, ed infatti la giurisprudenza ha applicato il criterio temporale, distinguendo i crediti sorti prima dell’apertura del fallimento, qualificati come concorsuali, e quelli sorti dopo, considerati prededucibili21. Tuttavia, non sono mancati degli orientamenti che hanno ricollegato l’art. 72 l. fall. all’art. 111, comma 2, l. fall.22, che individua, tra i crediti prededucibili, quelli sorti in occasione o in funzione della procedura concorsuale in atto. La conseguenza sarebbe l’applicazione di un criterio teleologico e non temporale, in base al quale la qualificazione come prededucibili o chirografari dei crediti nascenti dal contratto pendente proseguito non dipenderebbe dal momento in cui essi sono sorti, ma dal loro collegamento funzionale con la procedura: se così fosse, ben potrebbe profilarsi la qualificazione come prededucibili non solo di crediti maturati dopo
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Frascaroli santi, op. cit., 369-370; Cecchella, Diritto fallimentare, cit., 314; De Santis, Gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, in Diritto delle procedure concorsuali, cit, 175. 18 Riferimenti al rapporto tra il concetto sinallagma e le procedure concorsuali si rinvengono in Gabrielli, in Trattato, III, cit., passim. 19 Una disciplina analoga si rinviene, tanto nella Legge Fallimentare, quanto nel Codice, anche in materia di concordato preventivo, come si vedrà in seguito, nonché in materia di amministrazione straordinaria. 20 Per un approfondimento, cfr. Giu. Miccolis, La gestione dell’azienda durante la liquidazione, in Trattato di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, a cura di Vassalli, Luiso, Gabrielli, II, Torino, 2014, 703 e ss., mentre, per quel che riguarda la disciplina in materia prevista nel Codice, cfr., De Carolis, Esercizio provvisorio dell’impresa e liquidazione dell’attivo, in Codice della crisi di impresa, cit., 191 e ss. 21 In tal senso, Cass. 25 settembre 2017, n. 22274, in cui, tra l’altro, si precisa che l’art. 74 l. fall., che prevede che in caso di continuazione dei contratti ad esecuzione continuata e periodica, il curatore deve pagare integralmente il prezzo delle consegne e dei servizi già erogati, è norma eccezionale, per tale ragione non applicabile a fattispecie diverse da quelle ivi indicate. 22 Si veda in tal senso, ex multis, Cass. 17 aprile 2014, n. 8958.
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l’apertura della procedura, ma anche di crediti sorti prima, così disciplinati in virtù del mantenimento “in vita” di un contratto a seguito di una valutazione del curatore in ordine alla funzionalità del negozio rispetto agli obiettivi della singola procedura23. Il Legislatore ha voluto mettere ordine, ed infatti assumono rilievo due importanti disposizioni che sottintendono la scelta di adottare il criterio temporale: nel primo comma dell’art. 172 c.c.i., si precisa che, in caso di subentro, il curatore assume le obbligazioni nascenti dal contratto, mentre al terzo comma si stabilisce espressamente la prededucibilità dei soli crediti sorti nel corso della procedura. La ratio sottesa va identificata nella finalità di limitare il più possibile le ipotesi di prededuzione, al fine di tutelare le ragioni creditorie e il principio della par condicio creditorum24, così come espressamente indicato nella Relazione al Codice. Sotto questo profilo, il Legislatore ha parzialmente modificato la disciplina relativa ad alcuni specifici contratti, rispetto ai quali emerge nuovamente la predetta finalità di limitare i crediti prededucibili. In particolare, in materia di contratti ad esecuzione continuata e periodica, la disciplina risulta notevolmente mutata: se l’art. 74 l. fall. prevede che, in caso di continuazione dei contratti di durata, il curatore dovrà pagare integralmente il prezzo delle consegne e dei servizi già erogati, l’art. 179 c.c.i. stabilisce, invece, l’obbligo di pagare integralmente solo il prezzo delle consegne e dei servizi erogati dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, potendosi presumere che i prezzi relativi alle prestazioni eseguite in precedenza corrisponderanno ad un credito concorsuale. Delle innovazioni in tal senso si rinvengono anche in materia di contratti di conto corrente, mandato e commissione: nell’ambito di una disciplina rimasta sostanzialmente immutata, che prevede lo scioglimento automatico dei contratti in esame, ma consente al curatore di subentrarvi25, l’art. 183, comma 3, c.c.i., stabilisce che in caso di subentro del curatore nella liquidazione giudiziale nei confronti del mandante, è prededucibile il solo credito del mandatario per le prestazioni eseguite dopo l’apertura della procedura, distinguendosi dall’art. 78, comma 3, l. fall., che invece prevede espressamente l’assoggettamento di tutti i crediti vantati dal mandatario alla disciplina in materia di prededuzione. Analoghe modifiche si rinvengono in materia di contratti di assicurazione: se, da un lato, l’art. 187, comma 1, c.c.i., riprende l’art. 83, comma 1, l. fall., che assoggetta i contratti di assicurazione alla disciplina generale, ma riconosce all’assicuratore il diritto di recesso se il rischio sottostante è aumentato26, al comma 2, dall’altro lato, è previsto che se il curatore subentra, sono pagati in prededuzione i soli premi scaduti dopo l’apertura della pro-
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Cfr. Baranca, Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti giuridici pendenti, in Codice della crisi di impresa, cit., 161. Baranca, op. cit., 162. 25 Per un approfondimento, cfr. Luminoso, Mandato e altri contratti di cooperazione gestoria, in Trattato, III, cit., 171 e ss. 26 Sotto questo profilo, la norma, richiama l’art. 1958 c.c.: cfr., per un approfondimento, cfr. Calvo, Il contratto di assicurazione, in Trattato, III, cit., 415 e ss. 24
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cedura, a differenza dell’art. 83, comma 2, l. fall., che invece qualifica come prededucibili tutti i premi assicurativi, ivi compresi quelli scaduti prima del fallimento. Ancora, modifiche sintomatiche della volontà di limitare le ipotesi di prededuzione si rinvengono in materia di locazione di immobili e affitto di azienda. Tali innovazioni saranno analizzate nel prosieguo, poiché tali fattispecie presentano ulteriori novità e, pertanto, meritano di essere analizzate specificamente.
3. Le ulteriori fattispecie contrattuali interessante dalla riforma. I contratti pubblici.
Le predette osservazioni dimostrano che il Codice ha innovato la disciplina avente ad oggetto talune determinate fattispecie contrattuali considerabili come pendenti al momento dell’apertura della procedura. È opportuno analizzare nello specifico le modifiche che non riguardano, o che non concernono esclusivamente, il già analizzato tema della prededucibilità dei crediti. Iniziando l’analisi dalle innovazioni relative ai contratti pubblici, si segnala che l’art. 172, comma 7, c.c.i., con riguardo a tali fattispecie, fa salva l’applicazione delle leggi speciali in materia. La disposizione è sicuramente condivisibile27: il Legislatore ha preso atto che i contratti stipulati con le Pubbliche Amministrazioni non sono sempre sussumibili nella fattispecie dell’appalto, la cui disciplina ex art. 81 l. fall. è rimasta sostanzialmente invariata all’art. 186 c.c.i.: pertanto viene richiamata la disciplina speciale28, assumendo rilievo, prevalentemente, il Codice dei contratti pubblici29, approvato con d. lgs. 50/2016 e successive modificazioni.
4. Segue: I contratti preliminari. In materia di contratti preliminari, il Codice, oltre ad aver innovato la disciplina, ha l’indubbio merito di averla sistematizzata30, predisponendo in un unico articolo (art. 173 c.c.i.) nuove disposizioni, nonché quanto, vigente la Legge Fallimentare, si desume dall’art. 72, commi 3, 7 e 8, l. fall., e dalle elaborazioni giurisprudenziali31.
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Dello stesso avviso è Caprino, La liquidazione giudiziale, in Il nuovo codice, cit., 214, che parla di un’innovazione auspicabile. Caprino, op. cit., ibidem. 29 Per un’analisi del rapporto tra crisi di impresa e disciplina dei contratti pubblici, cfr., ex multis, Imparato, La crisi di impresa nel nuovo codice degli appalti pubblici, 2017, in www.ilcaso.it. 30 Baranca, in Codice della crisi di impresa, cit., 164. 31 Nel contesto in esame, va ricordato anche l’art. 174 c.c.i., il cui contenuto coincide con quello dell’art. 72 bis l. fall.: I contratti di cui al d.lgs. 122/2005, ossia i preliminari aventi ad oggetto un immobile da costruire, si sciolgono se prima che il curatore comunichi la scelta tra esecuzione o scioglimento, l’acquirente abbia escusso la fideiussione a garanzia della restituzione di quanto versato al 28
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Il presupposto fondamentale da cui partire è che il contratto preliminare, in quanto tale, può essere considerato pendente, laddove le prestazioni cui le parti si obbligano, non sono state compiutamente eseguite fintantoché non venga stipulato il definitivo32: d’altro canto, l’art. 72, comma 3, l. fall., dispone espressamente in tal senso, affermando che il contraente in bonis può far valere al passivo un indennizzo da mancato adempimento, senza il riconoscimento del risarcimento del danno, e, nonostante questa disposizione non sia stata riportata espressamente nel Codice, la sua operatività è sottintesa, dato quanto stabilito dai quattro commi dell’art. 173 c.c.i.. In primo luogo, la norma fa riferimento a quei casi in cui un preliminare è stato trascritto e, prima dell’apertura della procedura, il promissario acquirente in bonis ha presentato e trascritto una domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c.33, da cui si è instaurato un giudizio pendente nelle more della liquidazione giudiziale. Il tema è già stato affrontato dalla dottrina, che ha, pressoché all’unanimità, affermato che la risposta al quesito vada trovata ponendo in relazione l’art. 45 l. fall.34 e l’art. 2652, comma 1, n. 2, c.c.35, per concludere che, pur potendo il curatore, in linea teorica, sciogliere un contratto preliminare oggetto di una domanda ex art. 2932 c.c. trascritta, la successiva sentenza di accoglimento renderebbe lo scioglimento inopponibile al promissario acquirente36. Quest’orientamento, fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità già in tempi risalenti37, oggi viene riprodotto nell’art. 173, comma 1, c.c.i., che risulterà coerente col sistema laddove si affermi che il curatore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio produce effetti che, per l’appunto, non sono opponibili al contraente in bonis nel caso di specie. Proseguendo nell’analisi, l’art. 173, comma 2, c.c.i. è sostanzialmente identico all’art. 72, comma 7, l. fall., in quanto stabilisce che se il curatore scioglie il preliminare trascritto, il promissario acquirente potrà essere ammesso al passivo per il proprio credito, senza che se gli sia dovuto il risarcimento del danno, e se gli effetti della trascrizione non sono cessati prima dell’apertura della procedura, il credito sarà assistito dal privilegio ex art. 2775 bis c.c. Una disciplina parzialmente innovativa è, invece, disposta dall’art. 173, comma 3, c.c.i., che riprende quanto previsto dall’art. 72, comma 8, l. fall.: se trascritto a norma dell’art.
costruttore, dandone altresì comunicazione al curatore. Se il quest’ultimo intende proseguire il contratto, la fideiussione non potrà essere escussa. 32 Cfr. Luminoso, Vendita, preliminare di vendita e altri atti traslativi, in Trattato, III, cit., 238, cui si rinvia anche per un’analisi sul rapporto tra il preliminare e il definitivo. 33 Che, come noto, prevede che in caso di obbligo a contrarre inadempiuto, la parte interessata alla conclusione del contratto, può domandare al giudice di pronunciare una sentenza che produce i medesimi effetti che si sarebbero prodotti se il contratto fosse stato effettivamente stipulato. 34 Che rende opponibili al fallimento le formalità a ciò finalizzate compiute prima dell’apertura della procedura. 35 A mente del quale la trascrizione della sentenza che accoglie la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre prevale su tutte le formalità eseguite dopo la trascrizione della predetta domanda. 36 Luminoso, in Trattato, III, cit., 237 e ss.; Id, La compravendita, Torino, 2015, 443 e ss.; Di Marzio, Il contratto preliminare immobiliare nel fallimento, Contratti in esecuzione e fallimento, a cura di Di Marzio, Milano, 2007, 72. Ma a ben vedere, alle medesime conclusioni si era giunti già da prima delle riforme del triennio 2005-2007: Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, II, 1248 e ss.; Ferrara, Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 384; SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 287. 37 Cfr. ex multis, Cass. Sez. Un. 7 luglio 2004, n. 12505; Cass. Sez. Un. 16 settembre 2015, n. 18131.
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2645 bis c.c., è precluso lo scioglimento del preliminare di compravendita avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado, ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente. La ratio della norma va identificata nella necessità di tutelare esigenze considerate preminenti, quali esse sono quelle abitative e lavorative del promissario acquirente38. La novità, rispetto alla Legge Fallimentare, consiste nella fissazione di un limite temporale: la preclusione allo scioglimento opera solo se, al momento dell’apertura della procedura, gli effetti della trascrizione non siano cessati; inoltre, il promissario acquirente deve chiedere l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura. Infine, l’art. 173, comma 4, c.c.i., introduce ex novo una disciplina avente ad oggetto l’ipotesi in cui il curatore subentra nel contratto preliminare. Nel primo periodo, si stabilisce che, in caso di esecuzione del contratto, l’immobile deve essere trasferito e consegnato all’acquirente nello stato di fatto in cui si trova: la finalità della norma, descritta anche dalla Relazione al Codice, è quella di evitare che il promissario acquirente possa sollevare eccezioni relative allo stato dell’immobile, e dunque che in capo alla massa dei creditori possano gravare ulteriori oneri derivanti dalla non corrispondenza tra lo stato dell’immobile e quanto contrattualmente pattuito39. In secondo luogo, la norma prevede che nel caso in cui siano stati versati acconti prima dell’apertura della procedura, essi sono opponibili alla massa, in misura pari della metà dell’importo che il promissario acquirente dimostra di aver versato. La disposizione presta il fianco a serie critiche: laddove il promissario acquirente riesca a dimostrare il versamento di acconti, soltanto la metà di essi sarà opponibile, il che significa che, nel momento in cui si procederà alla vendita del bene, egli dovrà versare non solo il prezzo residuo di vendita, ma anche la metà degli acconti già versati, dunque sarà tenuto a pagare un prezzo maggiore rispetto a quello precedentemente pattuito. Se da un lato è vero che tale disciplina opera a vantaggio della massa dei creditori, che, a fronte del rischio di veder fuoriuscire dall’attivo un bene immobile (con eventuali garanzie), comunque vedrebbe, in un certo senso, “limitati i danni”40, è altrettanto vero che la legittimità di una norma che impone “d’ufficio” il pagamento di un prezzo maggiorato può essere messa fortemente in discussione41. Ancora, mutuando l’art. 108 l. fall.42, la norma prosegue, stabilendo che, una volta eseguita la vendita e incassato il prezzo, il Giudice delegato deve disporre la cancellazione delle iscrizioni relative a diritti di prelazione, nonché di ogni altro vincolo, come pignora-
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Baranca, in Codice della crisi di impresa, cit., 166; Luminoso, in Trattato, III, cit., 246. Sotto questo profilo, si è dato attuazione all’art. 19 l. 155/2017: Baranca, op. cit., 167. Ma si veda anche Caprino, in Il nuovo codice, cit., 215, ove, al contrario, si afferma che la finalità sia quella di tutelare il promissario acquirente, assicurando una coincidenza tra lo stato del bene al momento della consegna e quanto pattuito. 40 In tal senso, Caprino, op. cit., 216. 41 Di questo avviso Baranca, op. cit., 167. 42 Baranca, op. cit., 167. 39
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menti e sequestri preventivi: è evidente come in questo caso la finalità sia quella di tutelare il promissario acquirente, consentendogli di acquistare un bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli43.
5. Segue: i contratti a carattere personale. Il Legislatore delegante aveva affidato al Governo il compito di predisporre una specifica disciplina avente ad oggetto i contratti di carattere personale, ossia quei contratti in cui le caratteristiche personali del singolo contraente assumono un rilievo fondamentale per il contenuto e/o la formazione del consenso: l’art. 7, comma 6, l. 155/2017, infatti, prevedeva, come disciplina da introdurre, lo scioglimento automatico di tali fattispecie44. Di tutta risposta, l’art. 175 c.c.i. prevede che i contratti di carattere personale si sciolgono per effetto dell’apertura della procedura, ma consente al curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori e assenso del contraente in bonis, di subentrare negli stessi. La norma in esame si configura come un “ritorno al passato”, dal momento che essa sembrerebbe reintrodurre, in via generale, un criterio interpretativo ed applicativo già utilizzato sotto la vigenza della formulazione originaria della Legge Fallimentare. Come noto, infatti, prima delle riforme che hanno interessato la materia in esame a partire dal 2005, la Sezione IV del Titolo II della Legge (artt. 72-83 l. fall.) non prevedeva una disciplina generale dei contratti pendenti, ma regolamentava talune specifiche fattispecie: in questo contesto, l’art. 72 l. fall. disciplinava gli effetti del fallimento sulla vendita e da questa normazione si individuava la regola generale in materia. A tale fattispecie si affiancavano altri contratti, descritti nelle norme successive, in cui, per effetto della procedura, il contratto si sarebbe sciolto automaticamente o sarebbe proseguito nei confronti del fallito, in virtù di specifiche caratteristiche dei contratti: prevalentemente, nel primo caso l’intuitus personae e, nel secondo caso, la convenienza per la procedura. La dottrina e la giurisprudenza, nel corso degli anni, ricondussero le fattispecie non espressamente disciplinate in una delle tre predette regole, facendo leva sulle analogie con i contratti descritti nelle norme45. A ben vedere, dunque, l’introduzione della norma è sicuramente un elemento positi46 vo : già in passato il concetto di intuitus personae aveva assunto un certo rilievo in materia e, d’altro canto, essa risulta coerente col sistema e con una serie di ulteriori disposizioni presenti nel nostro ordinamento che fanno riferimento a tali fattispecie, come ad esempio l’art. 1429, n. 3, c.c., che tra le cause di annullabilità del contratto individua l’errore sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente, quando tali caratteristiche siano
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Baranca, op. cit., ibidem; Caprino, op. cit., 216. Baranca, op. cit., 168. 45 Cfr. Ferrara, Il fallimento, Milano, 1974, 330 e ss. Per una casistica di tali fattispecie, si rinvia a GUGLIELMUCCI, Lezioni di diritto fallimentare, Torino, 1999, I, Cap. IV, Sez II. 46 Caprino, in Il nuovo Codice, cit., 217. 44
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state determinanti per la formazione del consenso, o l’art. 2558, comma 1, c.c., che, in materia di cessione di azienda, prevede che l’acquirente subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa, a meno che essi non abbiano carattere personale.
6. Segue: la vendita con riserva di proprietà. In materia di vendita con riserva di proprietà, in un contesto in cui una disciplina speciale opera in caso di procedura nei confronti del compratore, il Codice ha predisposto una tutela ulteriore nei confronti del venditore in bonis. L’art. 73 l. fall. prevede che, se il prezzo deve essere pagato a termine o a rate, il curatore può subentrare nel contratto e il venditore può chiedere cauzione a meno che il curatore paghi immediatamente il prezzo con lo sconto dell’interesse legale, mentre, se il curatore si scioglie dal contratto, il venditore deve restituire le rate di prezzo già riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa. Si era discusso circa la compensabilità tra il compenso spettante al venditore e l’obbligo di restituzione delle rate già riscosse: un orientamento consolidato in giurisprudenza47 ha dato risposta positiva al quesito, ma in dottrina il tema è stato oggetto di dibattito48, dal momento che alcuni studiosi hanno posto l’accento sulla considerazione che una simile soluzione integra una deroga alla disciplina generale, che vorrebbe che il compenso integri un credito concorsuale e l’obbligo restitutorio come un credito della massa49. Il Codice ha risolto questo dubbio in senso positivo: infatti, la novità rispetto alla Legge Fallimentare sta nell’espressa previsione che il credito relativo all’equo compenso spettante al venditore può essere compensato con il debito relativo alla restituzione delle rate già riscosse.
7. Segue: la locazione di immobili e il rapporto tra norma speciale e disciplina generale.
La nuova disciplina in materia di locazione di immobili merita di essere analizzata compiutamente non perché vi siano degli stravolgimenti rispetto alla Legge Fallimentare, ma perché la formulazione letterale della norma del Codice potrebbe contribuire a risolvere un problema interpretativo relativo alla disciplina generale dei rapporti pendenti.
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Si veda, ex multis, Cass. 29 maggio 1992, n. 6512, in Fall., 1993, 24. In senso favorevole: Barba, Sub art. 73, in La Legge Fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, Sandulli, Santoro, Torino, 2010, I, 1054; Meoli, Sica, Effetti sui rapporti giuridici preesistenti, in Trattato di Diritto Fallimentare, diretto da Buonocore, Bassi, coordinato da Capo, De Santis, Meoli, II, Padova, 2010, 413. 49 Cfr., ex multis, Zanarone, Sub Art. 73, in Guglielmucci, Zanarone, Di Chio, Mangini, Tedeschi, Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, 1979, 165. 48
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Procedendo con ordine, si segnala che, per quando riguarda la sorte di tali fattispecie nella liquidazione giudiziale, l’art. 185 c.c.i. riprende la disciplina di cui all’art. 80 l. fall.50. Ciò significa che resta fermo il principio della continuazione del contratto come regola generale51, ma si mantengono distinti il caso in cui ad essere sottoposto alla liquidazione giudiziale sia il locatore dal caso in cui ciò avvenga nei confronti del conduttore: nella prima ipotesi, al curatore è data facoltà di recedere dal contratto solo se la sua durata residua supera i quattro anni, e l’esercizio della facoltà è sottoposto ad un termine annuale, a partire dall’apertura della procedura; nel secondo caso, la facoltà accordata allo stesso curatore non è soggetta ad alcun presupposto o limitazione temporale. Va però notato che, a differenza dell’art. 80 l. fall., l’art. 185 c.c.i. prevede espressamente, in entrambi i casi, che lo scioglimento del contratto da parte del curatore necessiti dell’autorizzazione del comitato dei creditori. Apparentemente, tale precisazione sarebbe superflua, laddove si partisse dal presupposto che essa corrisponda alla disciplina generale in materia. Tuttavia, la formulazione letterale dell’art. 72, comma 1, l. fall., ha in passato generato un dubbio, in tal senso, tra gli studiosi. In particolare, il periodo “l’esecuzione […] rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo” potrebbe essere letteralmente interpretato sia nel senso che l’autorizzazione è necessaria per qualsiasi decisione del curatore52, che nel senso che essa serva solo nell’ipotesi in cui il curatore decida di subentrare nel contratto e non già di scioglierlo53. Poiché il relativo periodo di cui all’art. 172, comma 1, c.c.i., mantiene la stessa struttura, sarebbe lecito porsi nuovamente il dubbio nel momento in cui il Codice entrerà in vigore. Tuttavia, a favore della seconda tesi, potrebbe giocare la considerazione che, nell’ambito della disciplina speciale in materia di locazione di immobili (a differenza di altre ipotesi,
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Per un’analisi del quale si rinvia a Orestano, I contratti di locazione e leasing, in Trattato, III, cit., 288 e ss. La dottrina ha identificato la ratio sottesa alla deroga alla disciplina generale ex art. 72 l. fall. nell’interesse del contraente in bonis, ossia l’interesse del conduttore a rimanere nell’immobile, in caso di fallimento del locatore, e viceversa, l’interesse del locatore a ricevere il pagamento dei canoni successivi al fallimento, in caso di procedura aperta nei confronti del conduttore. Cfr., in tal senso: Orestano, in Trattato, III, cit., 290-291; Guglielmucci, Sub art. 80, in Guglielmucci, Zanarone, Di Chio, Mangini, Tedeschi, Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, cit., 364. 52 Cfr., ex multis, Frascaroli Santi, Il diritto fallimentare, cit., 372, che afferma che l’autorizzazione del comitato dei creditori consente all’organo rappresentativo del ceto creditorio di valutare le rilevanti conseguenze derivanti dalla sorte di ogni contratto pendente, e per tale ragione ritiene necessario che tale valutazione abbia ad oggetto anche le conseguenze derivanti dallo scioglimento dei rapporti. Apparentemente, aderiscono a tale tesi anche Cecchella, Diritto fallimentare, cit., 317, e De Santis, in Diritto delle procedure concorsuali, cit. 175. 53 In tal senso giocherebbero una serie di argomentazioni logico/giuridiche, come ad esempio la considerazione che lo scioglimento del contratto per il decorso del termine ex art. 72, comma 2, l. fall., non necessita dell’autorizzazione in esame, o, ancora, il fatto che l’art. 104, comma 7, l. fall. (nonché l’art. 211, comma 8, c.c.i.), nello stabilire che in caso di esercizio provvisorio dell’impresa i contratti pendenti proseguono, fa salva la possibilità, per il curatore, di scegliere se sospenderli o scioglierli, ma non menziona l’autorizzazione del comitato dei creditori. In linea generale, poi, si fa riferimento alla considerazione che l’autorizzazione del comitato risulta necessaria solo in quei casi in cui, per effetto della prosecuzione, potrebbero sorgere dei crediti prededucibili, per tale ragione potenzialmente “pregiudizievoli” nei confronti dei creditori concorsuali. Cfr., in tal senso: Gabrielli, in Trattato, III, cit.145-146; Fiengo, in Commentario, cit., 351; Vattermoli, Sub art. 72, in La riforma della Legge Fallimentare, a cura di Nigro, Sandulli, I, Torino, 2006, 416. 51
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come quella di cui all’art. 211, comma 8, c.c.i., in materia di esercizio dell’impresa54), l’autorizzazione per lo scioglimento è espressamente richiesta. In sintesi, si potrebbe affermare che tale necessità sia una deroga alla disciplina generale che non vorrebbe l’intervento dell’organo rappresentativo dei creditori concorsuali in caso di scioglimento, la cui ratio andrebbe individuata nei medesimi peculiari interessi che giustificano una norma che prevede la prosecuzione ex lege dei contratti55. D’altro canto, tale chiave di lettura dell’art. 172, comma 1, c.c.i., viene favorita anche dalla Relazione al Codice: nel commentare l’art. 172 c.c.i., si afferma che l’effetto della sospensione permane “fino a quando il curatore, eventualmente messo in mora dall’altro contraente che può fargli assegnare dal giudice un termine non superiore a sessanta giorni per decidere, dichiari di sciogliersi dal contratto (effetto che comunque si verifica se il curatore non si pronuncia nel termine assegnato) oppure, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, di subentrare”. Ciò premesso, un’altra innovazione riguarda la disciplina in materia di effetti dello scioglimento: analogamente all’art. 80 l. fall., anche l’art. 185 c.c.i. dispone che in caso di recesso, il contraente in bonis ha diritto ad un indennizzo; tuttavia, in ossequio alla già citata finalità di limitare i crediti prededucibili nella procedura56, tale indennizzo non viene più assoggettato alla disciplina in materia di prededuzione, ma viene qualificato espressamente come un credito concorsuale.
8. Segue: l’affitto di azienda. La disciplina in materia di affitto di azienda ex art. 184 c.c.i. diverge sensibilmente rispetto alla disciplina ex art. 79 l. fall.57, avvicinandosi ai criteri che hanno ispirato l’art. 185 c.c.i. e risolvendo i problemi legati all’individuazione della disciplina applicabile in caso di retrocessione dell’azienda. Con riferimento al primo punto, laddove l’art. 79 l. fall. stabilisce che il contratto prosegue, ma il curatore può recedervi entro sessanta giorni, riconoscendo al contraente in bonis un indennizzo qualificato come prededucibile, l’art. 184 c.c.i., che in linea generale prevede ancora la prosecuzione del contratto, distingue i casi in cui ad essere sottoposto alla liquidazione giudiziale sia il concedente o l’affittuario. Infatti, nella prima ipotesi, il curatore può, previa autorizzazione del comitato dei creditori, recedere dal contratto entro sessanta giorni dall’apertura della procedura, mentre, se la procedura è aperta nei confronti dell’affittuario, la facoltà di recesso non è soggetta
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Che, come si è già visto nella nota precedente, sostituisce l’art. 104, comma 7, l. fall. Cfr. supra, nota 51. 56 Cfr. supra, par. 2. 57 Per un’analisi del quale si rinvia a Fimmanò, L’affitto di azienda pendente in caso di dichiarazione di fallimento, in Trattato, III, cit., 334 e ss. 55
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ad alcun limite temporale. In entrambi i casi, il contraente in bonis ha diritto ad un equo indennizzo, determinato dal giudice delegato in caso di dissenso tra le parti, che non è più considerato prededucibile, bensì come un credito concorsuale. Con riferimento al secondo profilo, in passato ci si è chiesti quale fosse la sorte dei contratti pendenti in caso di retrocessione dell’azienda in conseguenza del recesso del curatore del fallimento del concedente: la dottrina ha individuato la risposta nell’applicazione dell’art. 104 bis, comma 6, l. fall., che, in materia di retrocessione dell’azienda nel caso in cui essa sia stata affittata per effetto dell’apertura della procedura, esclude la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli artt. 2112 e 2560 c.c., e prevede l’applicazione della disciplina generale in materia di rapporti pendenti nel fallimento58. Il Legislatore ha aderito a tale orientamento, poiché l’art. 184, comma 2, c.c.i., prevede che in caso di retrocessione dell’azienda da parte dell’affittuario, si applica il sesto comma dell’art. 212 c.c.i., ossia la norma destinata a sostituire l’art. 104 bis l. fall. in materia di affitto di azienda nelle more della liquidazione giudiziale.
9. Segue: la locazione finanziaria. L’art. 177 c.c.i. sostituisce l’art. 72 quater l. fall., che disciplina gli effetti del fallimento sulla locazione finanziaria. La norma prevede, in materia di fallimento dell’utilizzatore, che il concedente ha diritto alla restituzione del bene, ma è tenuto a versare alla procedura una somma che corrisponde alla differenza tra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso, avvenute a valori di mercato, rispetto al credito residuo in linea capitale59. Tale disciplina è confermata dall’art. 177 c.c.i., ma un’importante differenza sta nel fatto che il valore di mercato del bene sarà determinato a seguito di una stima disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo60. La ratio della nuova disciplina va identificata nell’esigenza di semplificare le procedure e, in particolar modo, la fase dell’accertamento del passivo61, dal momento che un elemento che concorre a tale accertamento, ossia il valore di mercato del bene oggetto di una locazione finanziaria, sarà determinato già in sede di accertamento “complessivo” e non in un momento successivo. Sotto questo profilo, giova segnalare già in questa sede, che modifiche alla disciplina della locazione finanziaria dello stesso taglio si rinvengono anche in materia di concordato preventivo: l’art. 169 bis, comma 5, l. fall. prevede che in caso di scioglimento del contratto di locazione finanziaria, il concedente ha diritto alla restituzione del bene, ma è tenuto a versare alla procedura l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da
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Cfr. Fimmanò, ult. op. cit., 341, nonché i numerosi riferimenti bibliografici ivi contenuti. Per un approfondimento, cfr. Orestano, in Trattato, III, cit., 307 e ss. 60 L’art. 177, comma 1, c.c.i., con riguardo alla determinazione del valore di mercato del bene, richiama l’art. 97, comma 12, primo periodo, c.c.i. 61 Caprino, in Il nuovo codice, cit., 217. 59
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altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale, con contestuale riconoscimento un credito determinato nella differenza tra il credito vantato alla data del deposito della domanda e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene, riconosciuto come credito concorsuale. L’art. 97, comma 12, c.c.i., predispone una disciplina analoga, ma è previsto che dalla somma che il concedente deve versare alla procedura, vanno dedotti eventuali canoni scaduti e non pagati fino alla data dello scioglimento canoni a scadere, solo in linea capitale, e l’eventuale prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, rispetto al credito residuo in linea capitale.
10. La nuova disciplina in materia di contratti di lavoro subordinato.
La Legge Fallimentare non prevede norme specifiche relative agli effetti del fallimento sui rapporti di lavoro subordinato62; di conseguenza, la dottrina e la giurisprudenza si sono a lungo interrogate circa l’individuazione di una regolamentazione idonea ad armonizzare i caratteri propri delle procedure concorsuali e le esigenze di protezione sociale sottese alla normativa giuslavoristica in materia di interruzione dei rapporti di lavoro63, partendo dal presupposto che l’applicazione della disciplina generale ex art. 72 l. fall. comporta, in tale ambito, una serie di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore. Ad esempio, la sospensione del contratto di lavoro fa venir meno ogni diritto del lavoratore in ordine alla retribuzione e gli altri oneri previsti dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, nonché agli oneri di carattere assistenziale e previdenziale: tale situazione può risultare estremamente problematica per il lavoratore, tanto più se si tiene presente che la durata della sospensione non è sottoposta ad un termine (ferma restando la possibilità per il lavoratore di mettere in mora il curatore). Ancora, in materia di scioglimento, fermo restando che l’art. 72 l. fall. esclude che il contraente in bonis abbia diritto al risarcimento del danno64, nel caso in cui esso sia conseguenza della messa in mora ex art. 72, comma 2, l. fall., l’assenza di una disciplina specifica o di una norma di collegamento mette in dubbio la possibilità che il lavoratore possa percepire la Naspi, dato che non è chiaro se in tale ambito sussista il presupposto della perdita involontaria dell’occupazione65. Con gli artt. 189, 190 e 191 c.c.i., il Legislatore delegato ha colmato una lacuna rilevata anche nell’art. 2 l. 155/2017.
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Emerge, in tal senso, una differenza rispetto alla disciplina in materia di concordato preventivo, poiché l’art. 169 bis, comma 4, l. fall., esclude espressamente la sua applicazione a tali rapporti. 63 Cfr. Vallebona, Martire, Rapporti di lavoro e fallimento, in Trattato, III, cit., 427 e ss. 64 La regola generale vale anche in materia di rapporti di lavoro: Cass. 14 maggio 2012, n. 7473. 65 Tali rilievi critici si rinvengono in De Cesare, Rapporti di lavoro subordinato, in Il nuovo codice, cit., 355-356.
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In primo luogo, l’art. 189, comma 2, c.c.i., impone al curatore di trasmettere all’Ispettorato territoriale del Lavoro del luogo dove è stata aperta la liquidazione giudiziale l’elenco dei lavoratori in forza al momento dell’apertura della procedura, entro un termine di trenta giorni prorogabile per altri trenta se i dipendenti sono più di cinquanta. Per quanto riguarda la sorte dei contratti, si prevede espressamente che la liquidazione giudiziale non è causa ex se dello scioglimento dei rapporti di lavoro, dal momento che essi si sospendono, fintantoché il curatore non dichiari se sciogliere i contratti ovvero subentrarvi: le decisioni necessitano dell’autorizzazione del giudice delegato e del parere del comitato dei creditori. La lettera dell’art. 189, comma 3, c.c.i,, suggerisce che la decisione del curatore circa la sorte dei rapporti di lavoro sia conseguenza di una valutazione relativa agli assetti organizzativi dell’impresa, nonché alla possibilità che l’azienda, o rami della stessa, sia ceduta, ovvero che l’impresa continui: se da un lato, si può affermare che il Legislatore abbia voluto vincolare la sorte dei rapporti a tali previsioni, con la conseguenza che la valutazione del curatore potrebbe essere oggetto di contestazione da parte del lavoratore, dall’altro lato è innegabile che i criteri valutativi introdotti risultano molto generici e lasciano ampia discrezionalità all’organo della procedura66. Ad ogni modo, a differenza della disciplina generale ex art. 172 c.c.i., la decisione del curatore deve pervenire entro un termine di quattro mesi dall’apertura della procedura, decorso inutilmente il quale il contratto si intende sciolto di diritto. La disciplina sembra essere finalizzata a tutelare il lavoratore da quella situazione di incertezza che sussisterebbe se il curatore nulla disponesse in merito e non vi fosse un termine per la sospensione del contratto; tuttavia il Legislatore ha dato rilievo a quei casi in cui quattro mesi non sono sufficienti per una valutazione compiuta ed esauriente circa una possibilità di ripresa per l’impresa, con la conseguenza che lo scioglimento non gioverebbe al lavoratore, che vedrebbe persa la propria occupazione in virtù di motivazioni non ancora accertate. A tal proposito, è previsto che il curatore, ovvero il direttore dell’Ispettorato territoriale del Lavoro competente67, possano richiedere al giudice delegato una proroga del termine, ma solo se ritengono sussistenti possibilità di ripresa dell’impresa o di trasferimento a terzi dell’azienda o di un suo ramo. Se il giudice delegato accoglie l’istanza, che può essere presentata non oltre quindici giorni prima della scadenza del termine iniziale di quattro mesi, concede una proroga la cui durata non può superare gli otto mesi e che inizia a decorrere dalla data della pubblicazione del provvedimento. Si noti che l’istanza in esame può essere presentata anche dal lavoratore68, ma in questo caso la proroga opera solo nei confronti di lavoratori che l’hanno richiesta.
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Dello stesso avviso De Cesare, in Il nuovo codice, cit., 358. Ossia, come si è visto, l’Ispettorato del luogo ove la procedura è stata aperta. 68 Che può presentare l’istanza personalmente o per mezzo di un difensore. 67
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Va poi notato, sempre con riguardo al tema della proroga, che a favore dei lavoratori nei cui confronti essa ha operato, è riconosciuta un’indennità69 di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del t.f.r. per ogni anno di servizio. Tale credito è ammesso al passivo della procedura come credito successivo alla sua apertura. Per quanto riguarda la disciplina circa gli effetti della decisione del curatore sulla sorte dei contratti, si segnala che il subentro decorre a partire dalla comunicazione ai lavoratori, mentre per quanto riguarda lo scioglimento, la cui efficacia retroagisce al momento dell’apertura della procedura, assumono rilievo due disposizioni, che a ben vedere trovano applicazione ogni qual volta il rapporto di lavoro cessa secondo le modalità di cui all’art. 189 c.c.i. La prima è l’art. 189, comma 8, c.c.i., che prevede che in caso di recesso, dimissioni, o risoluzione del rapporto di lavoro secondo le disposizioni della norma in esame, il lavoratore con rapporto a tempo indeterminato vanta un’indennità da mancato preavviso che, ai fini dell’ammissione al passivo, è qualificata, unitamente al t.f.r., come credito concorsuale. La seconda è l’art. 190 c.c.i., che qualifica la cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 189 c.c.i. come una perdita involontaria dell’occupazione ai sensi dell’art.3 d. lgs. 22/2015: la conseguenza è che al lavoratore è riconosciuto il trattamento Naspi, a condizione che ricorrano i requisiti di cui al predetto articolo. Infine, si segnala che ai fini dell’applicazione dell’art. 2119 c.c., le dimissioni del lavoratore si intenderanno rassegnate per giusta causa solo se ciò avviene decorsi quattro mesi dall’apertura della procedura, e quindi dalla sospensione del contratto. Anche in questo caso, la cessazione del rapporto di lavoro produrrà i suoi effetti a partire dall’instaurazione della liquidazione giudiziale.
11. Segue: i licenziamenti collettivi. La disciplina appena descritta si riferisce a quei casi in cui il curatore intende recedere da rapporti individuali di lavoro; se, invece, intende procedere a licenziamenti collettivi, la disciplina va integrata con la l. 223/1991 che disciplina tale fattispecie, e con l’art. 189, comma 6, c.c.i., che, relativamente alla procedura di licenziamento, deroga all’art. 4, commi 2-8, l. 223/1991, secondo quanto segue. Il curatore che intende procedere a licenziamenti collettivi ne deve dare comunicazione alle associazioni rappresentative dei lavoratori indicate all’art. 189, comma 6, lett. a, c.c.i.70, nonché all’Ispettorato territoriale del lavoro del luogo dove i lavoratori interessati prestano prevalentemente la propria attività e a quello del luogo dove la liquidazione giudiziale è
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Che comunque non è assoggettata a contribuzione previdenziale. Ossia le rappresentanze sindacali aziendali costituite a norma dell’art. 19 l. 300/1970, ovvero le rappresentanze sindacali unitarie, nonché le rispettive associazioni di categoria. La norma precisa che in mancanza delle predette rappresentanze, la comunicazione va effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Si noti che la comunicazione in esame può essere effettuata per il tramite dell’associazione dei datori di lavoro cui l’impresa aderisce o conferisce mandato.
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stata aperta. A questo punto, inizia a decorrere un termine di sette giorni entro il quale le predette associazioni possono chiedere per iscritto al curatore un esame congiunto, in cui vengono valutate le cause che hanno portato ad un’eccedenza del personale e se vi siano soluzioni dirette ad evitarne la riduzione71, ovvero se sia possibile ricorrere a misure sociali di accompagnamento dirette a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. L’inutile decorso del suddetto termine comporta l’esaurimento della procedura. Se l’avvio della procedura è determinato da cause diverse dalla cessazione dell’attività dell’azienda o di un suo ramo, l’esame può essere convocato dall’Ispettorato territoriale del lavoro, e in questo caso, il termine per la convocazione è di quaranta giorni. Una volta convocato l’esame congiunto, l’art. 189, comma 6, lett. f, c.c.i., concede ai soggetti che vi partecipano dieci giorni per trovare un accordo, altrimenti la procedura si intende esaurita; tuttavia la stessa norma dà loro la possibilità di chiedere al giudice delegato, prima della scadenza del termine, una proroga di ulteriori dieci giorni, ma solo se vi sono giustificati motivi. La disciplina è diretta a velocizzare i tempi della procedura di licenziamento collettivo72: rispetto alla disciplina generale, che prevede una durata massima dell’esame congiunto di settantacinque giorni, il Codice predispone una disciplina in base alla quale il procedimento può durare al massimo venti giorni.
12. Segue: trasferimento di azienda e rapporti di lavoro. In ultima analisi, il Legislatore si è preoccupato di armonizzare la disciplina in materia di crisi di impresa e la legislazione giuslavoristica anche per quel che riguarda i casi in cui l’azienda, o uno o più rami di essa, sia soggetta a trasferimento. L’art. 191 c.c.i., infatti, richiama
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L’art. 189, comma 6, lett. d, c.c.i., menziona tra queste soluzioni anche la possibilità di predisporre contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro. 72 De Cesare, in Il nuovo Codice, cit., 360.
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testualmente l’operatività dell’art. 47 l. 428/199073, dell’art. 11 d. lgs. 145/2013, convertito in
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La norma, anche a seguito delle innovazioni apportate dall’art. 368 c.c.i., così recita: “Art. 47. Trasferimenti di azienda. 1. Quando si intenda effettuare, ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile, un trasferimento d’azienda in cui sono complessivamente occupati più di quindici lavoratori, anche nel caso in cui il trasferimento riguardi una parte d’azienda, ai sensi del medesimo articolo 2112, il cedente ed il cessionario devono darne comunicazione per iscritto almeno venticinque giorni prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, se precedente, alle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali costituite, a norma dell’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nelle unità produttive interessate, nonché ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. In mancanza delle predette rappresentanze aziendali, resta fermo l’obbligo di comunicazione nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi e può essere assolto dal cedente e dal cessionario per il tramite dell’associazione sindacale alla quale aderiscono o conferiscono mandato. L’informazione deve riguardare: a) la data o la data proposta del trasferimento; b) i motivi del programmato trasferimento d’azienda; c) le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori; d) le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi. 1 bis. Nei casi di trasferimenti di aziende nell’ambito di procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, la comunicazione di cui al comma 1 può essere effettuata anche solo da chi intenda proporre offerta di acquisto dell’azienda o proposta di concordato preventivo concorrente con quella dell’imprenditore; in tale ipotesi l’efficacia degli accordi di cui ai commi 4-bis e 5 può essere subordinata alla successiva attribuzione dell’azienda ai terzi offerenti o proponenti. 2. Su richiesta scritta delle rappresentanze sindacali o dei sindacati di categoria, comunicata entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 1, il cedente e il cessionario sono tenuti ad avviare, entro sette giorni dal ricevimento della predetta richiesta, un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. La consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo. 3. Il mancato rispetto, da parte del cedente o del cessionario, degli obblighi previsti dai commi 1 e 2 costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300. 4. Gli obblighi d’informazione e di esame congiunto previsti dal presente articolo devono essere assolti anche nel caso in cui la decisione relativa al trasferimento sia stata assunta da altra impresa controllante. La mancata trasmissione da parte di quest’ultima delle informazioni necessarie non giustifica l’inadempimento dei predetti obblighi. 4 bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile, fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso i contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, qualora il trasferimento riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai sensi dell’articolo 84, comma 2, del codice della crisi e dell’insolvenza, con trasferimento di azienda successivo all’apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno carattere liquidatorio; c) per le quali è stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività. 5. Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario. Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi dell’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in deroga all’articolo 2112, commi 1, 3 e 4, del codice civile; resta altresì salva la possibilità di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma del codice civile. 5 bis. Nelle ipotesi previste dal comma 5, non si applica l’articolo 2112, comma 2, del codice civile e il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda. Il Fondo di garanzia, in presenza delle condizioni previste dall’articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente; nei casi predetti, la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro, anche ai fini dell’individuazione dei crediti di lavoro diversi dal trattamento di fine rapporto, da corrispondere ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80. I predetti crediti per trattamento di fine rapporto e di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 sono corrisposti dal Fondo di Garanzia nella loro integrale misura, quale che sia la percentuale di soddisfazione stabilita, nel rispetto dell’articolo 85, comma 7, del codice della crisi e
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l. 9/201474, e di ogni altra disposizione in materia75.
13. I contratti pendenti nella liquidazione coatta
amministrativa. Rilievi critici.
All’interno di una disciplina rimasta sostanzialmente invariata rispetto a quella di cui al Titolo V della Legge Fallimentare76, l’art. 304 c.c.i., in materia di contratti pendenti nella liquidazione coatta amministrativa, ha un contenuto analogo a quello dell’art. 201 l. fall.: se quest’ultima norma richiama gli artt. 72-83 l. fall., la prima fa riferimento agli artt. 172192 c.c.i., il che significa che alla procedura in esame si applica la disciplina prevista per la liquidazione giudiziale. La scelta del Legislatore può lasciare perplessi, perché già sotto la vigenza della Legge Fallimentare sono emerse delle criticità relative al rapporto tra la disciplina fallimentare e le peculiarità proprie della liquidazione coatta amministrativa, che evidentemente il Codice non riesce a superare. Ad esempio, limitando l’analisi alle problematiche concernenti la disciplina generale, ci si è chiesti come armonizzare la disposizione che subordina la decisione del curatore circa la sorte dei contratti pendenti all’autorizzazione del comitato di creditori: se il punto di partenza è che il comitato di sorveglianza, nonostante le analogie con il comitato dei
dell’insolvenza, in sede di concordato preventivo. 5 ter. Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante. 6. I lavoratori che comunque non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile.” 74 Si riporta il testo della norma predetta, limitatamente alle disposizioni in materia di cessione di azienda: “1. […] 2. Nel caso di affitto o di vendita di aziende, rami d’azienda o complessi di beni e contratti di imprese sottoposte a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa, hanno diritto di prelazione per l’affitto o per l’acquisto le società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell’impresa sottoposta alla procedura. 3. L’atto di aggiudicazione dell’affitto o della vendita alle società cooperative di cui al comma 2, costituisce titolo ai fini dell’applicazione dell’articolo 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223, nonché dell’articolo 8 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, ai soci lavoratori delle medesime, ferma l’applicazione delle vigenti norme in materia di integrazione del trattamento salariale in favore dei lavoratori che non passano alle dipendenze della società cooperativa. 3 bis. […] 3 ter. […] 3 quater. […] 3 quinquies. […]” 75 Quest’ultimo richiamo rappresenta una disposizione di chiusura. 76 Per un’analisi della quale si rinvia a Castiello D’Antonio, Falcone, Le liquidazioni coatte amministrative, in Trattato di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, IV, diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, Torino, 2014, 614 e ss.
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creditori, non possa esercitare tale potere autorizzativo77, ci si chiede se lo stesso debba essere esercitato dall’autorità amministrativa78, ovvero se non ci sia bisogno di nessuna autorizzazione in tal senso, dati i maggiori poteri del commissario liquidatore rispetto al curatore79. Ancora, è stato affermato che la norma che consente al contraente in bonis di chiedere al giudice delegato, dunque un organo giurisdizionale, un termine di messa in mora, decorso inutilmente il quale il contratto sospeso si scioglie, non è applicabile in questo caso, perché tale decisione non rientrerebbe tra quelle di competenza dell’autorità amministrativa80. La conseguenza sarebbe che nella liquidazione coatta amministrativa, il contraente in bonis non godrebbe di alcuno strumento di tutela contro l’inerzia del commissario liquidatore, dovendo limitarsi a subirne gli effetti per lui pregiudizievoli.
14. I contratti pendenti nel concordato preventivo. La
disciplina generale.
Passando all’analisi dei contratti pendenti nel concordato preventivo, anche in questo caso si fa riferimento ad una disciplina rimasta invariata nei suoi aspetti generali e che presenta delle interessanti novità per quanto riguarda alcuni profili specifici. In primo luogo, va notato che l’art. 97 c.c.i., che sostituisce l’art. 169 bis l. fall., consente di superare un problema definitorio. La norma riprende la nozione di contratti pendenti di cui all’art. 172 c.c.i., e anche in tal caso, il riferimento alle sole prestazioni principali rappresenta una novità81, ma rispetto all’art. 169 bis l. fall., è stata altresì aggiunta la precisazione che le prestazioni devono risultare ineseguite o non compiutamente eseguite da entrambe le parti. Sul punto, va precisato che già sotto la vigenza della formulazione originaria dell’art. 169 bis l. fall.82, che non dava una definizione dei contratti pendenti, ma si limitava a parlare di “contratti in corso di esecuzione”, l’orientamento dominante in dottrina e in giurisprudenza equiparava le fattispecie in esame a quelle ex art. 72 l. fall.83.
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Castiello d’Antonio, Falcone, ult. op. cit., 731; Vattermoli, Sub art. 201, in La riforma della Legge fallimentarem a cura di Nigro, Sandulli, cit., 1165. 78 In tal senso Nardo, Sub art. 201, in La Legge Fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di Ferro, Padova, 2007, 1569. In senso contrario: Del Vecchio, La liquidazione coatta amministrativa. In generale, delle assicurazioni e delle banche, Milano, 1998, 112. 79 In tal senso Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 596. 80 Nardo, in La Legge fallimentare, a cura di Ferro, cit., 1569; Castiello d’Antonio, Falcone, in Trattato, IV, cit., 733. 81 Cfr. supra, par. 2. 82 La disciplina dei contratti pendenti nel concordato preventivo è stata introdotta con il d.l. 83/2012, convertito in l. 134/2012. 83 La tesi si fondava su due ragioni. La prima era la coerenza col sistema: si pensi non solo all’art. 72 l. fall. e all’art. 50 l. 270/1999, che disciplina la sorte dei contratti pendenti nell’amministrazione straordinaria, ma anche ad alcune disposizioni di diritto comune, come l’art. 1406 cod. civ. che disciplina la cessione del contratto. La seconda era che se l’altro contraente avesse eseguito la prestazione da lui dovuta, avrebbe trovato applicazione l’art 169 l. fall., che richiama gli artt. 55-63 l. fall., perché la fattispecie avrebbe integrato un credito antecedente all’apertura della procedura.
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Tuttavia, alcuni autori, avallati da decisioni giurisprudenziali in tal senso, sostenevano che la norma potesse applicarsi anche a quei rapporti contrattuali che avevano assunto struttura unilaterale perché una delle parti aveva compiutamente eseguito la prestazione84, e se è vero che oggi l’art. 169 bis l. fall. specifica cosa siano i contratti pendenti nel concordato preventivo85, è altrettanto vero che l’assenza, nella norma, del sintagma “da entrambe le parti”, presente invece nell’art. 72 l. fall., non ha fatto venir del tutto meno l’orientamento in esame86, che però può dirsi pienamente superato con la coincidenza tra le definizioni di cui agli artt. 97 e 172 c.c.i. Ciò premesso, l’art. 97, comma 1, c.c.i., sancisce espressamente il principio della continuità dei contratti come regola generale87, e prevede, analogamente all’art. 169 bis l. fall., che il debitore può chiedere all’autorità giudiziaria competente (il Tribunale, prima della pronuncia del decreto di apertura della procedura, il Giudice delegato, dopo la pronuncia del suddetto decreto)88, tramite istanza autonoma, l’autorizzazione a sospendere o scio-
In dottrina, cfr. Ambrosini, Gli effetti dell’ammissione al concordato e i contratti in corso di esecuzione, in Trattato, IV, cit., 286; Gabrielli, in Trattato, III, cit., 132-133; Patti, I rapporti giuridici pendenti nel concordato preventivo, Milano, 2014, 19-20; Bozza, I contratti in corso di esecuzione nel concordato preventivo, in Fall, 2013, 1124; Panzani, Concordato preventivo e contratti pendenti. Questioni applicative sull’art. 169-bis l. fall., 2014, in www.ilfallimentarista.it; Censoni, La continuazione e lo scioglimento dei contratti pendenti nel concordato preventivo, 2013, in www.ilcaso.it, 2. In giurisprudenza: Trib. Milano 11 settembre 2014, in www.ilcaso.it; App. Venezia 26 novembre 2014, in www.ilcaso.it; App. Venezia 11 marzo 2015, in www.ilfallimentarista.it; App. Milano 29 gennaio 2015, in www. ilcaso.it. 84 In particolare, si affermava che se il Legislatore avesse voluto prevedere la stessa disciplina per il fallimento e per il concordato sarebbe stato sufficiente richiamare analogicamente gli artt. 72 e ss. l. fall. o quantomeno predisporre all’art. 169 bis l. fall. una definizione analoga e, partendo da questo presupposto, si concludeva che nella definizione di contratti in corso d’esecuzione rientravano anche quei contratti in cui la prestazione era unilaterale, ma non esaurita, con la conseguenza che gli artt. 55-59 l. fall. trovavano esclusiva applicazione per quei contratti in cui l’unica prestazione era il pagamento da parte dell’imprenditore ammesso al concordato di un debito scaduto. In dottrina: Fabiani, Per una lettura costruttiva della disciplina dei contratti pendenti nel concordato preventivo, 2013, in www.ilcaso.it, 6-7; INZITARI, Speciale decreto sviluppo - I contratti in corso di esecuzione nel concordato: l’art. 169-bis l. fall., 2012 in www.ilfallimentarista.it. In giurisprudenza: cfr. Trib. Genova 17 ottobre 2013, in www.icaso.it; Trib. Rovigo 7 ottobre 2014, in www.ilcaso.it, App. Genova 10 febbraio 2014, in www.ilfallimentarista.it. 85 A seguito delle modifiche apportate dal d.l. 83/2015, convertito in l. 132/2015. 86 In dottrina, Pezzano, Sub Art. 169 bis, in La nuova miniriforma della legge fallimentare, a cura di D’Attorre, Sandulli, Torino, 2015. In giurisprudenza, da ultimo, Trib. Como, 3 ottobre 2016, in www.ilfallimentarista.it. 87 La scelta è condivisibile, laddove si fa riferimento ad una procedura “pensata” per quelle situazioni in cui lo stato di crisi può essere superato attraverso la prosecuzione dell’impresa. Sotto questo profilo, va notato che questa considerazione di carattere generale opera non solo nell’ipotesi di concordato in continuità d’azienda, ma anche in caso di concordato liquidatorio: fermo restando che il Codice ha reso più stringenti i requisiti per l’ammissione al concordato con cessione dei beni (il piano deve prevedere il soddisfacimento di almeno il 20% dei crediti chirografari; inoltre, l’apporto di risorse esterne deve essere tale da garantire che i creditori siano soddisfatti in misura superiore al 10% rispetto a quanto sarebbero soddisfatti in caso di apertura della liquidazione giudiziale), anche tale fattispecie può prevedere una prosecuzione dell’attività di impresa. Il discrimen tra i due istituti va individuato nelle modalità di soddisfacimento, laddove il concordato sarà considerato “in continuità” se le ragioni creditorie saranno soddisfatte prevalentemente con i proventi dell’impresa, mentre sarà considerato “liquidatorio” se lo stesso si otterrà in prevalenza con la cessione dei beni dell’imprenditore. Cfr., per un approfondimento, Ambrosini, Il piano di concordato. Continuità aziendale e cessione dei beni, in Trattato, IV, cit., 97 e ss., nonché i numerosi riferimenti bibliografici ivi contenuti. 88 In tal senso, si rinviene un’importante differenza rispetto alla disciplina prevista per la liquidazione giudiziale. In linea generale, la disciplina dei contratti pendenti nelle procedure di regolazione della crisi è finalizzata a contemperare degli interessi che confliggono tra di loro, facenti capo al debitore, ai creditori e al contraente in bonis. L’art. 97 c.c.i. produce degli effetti che incidono su tali interessi a seguito di un’iniziativa di uno dei soggetti titolari di tali interessi, ossia il debitore: per tale ragione, il Legislatore ha evidentemente ritenuto opportuno che tali interessi e il loro rilievo venissero valutati da un organo terzo quale è il tribunale o il giudice delegato (Moreschini, I contratti pendenti nel concordato preventivo, Milano, 2015 81 e 89; FABIANI, Per una lettura costruttiva, cit., 5; PATTI, Rapporti giuridici pendenti, cit., 131 e ss.).
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gliere i contratti pendenti la cui prosecuzione non è coerente con le previsioni del piano, né funzionale alla sua esecuzione. Quest’ultima precisazione, introdotta dal Legislatore del Codice, non aggiunge molto alla disciplina sostanziale, dal momento che essa ripropone su norma un principio già consolidato in dottrina89 e in giurisprudenza90, secondo cui la sospensione o lo scioglimento dei contratti pendenti devono essere considerati una componente della proposta e del piano concordatari. Ben più rilevante sembra essere la disposizione di cui all’art. 97, comma 2, c.c.i., ai sensi del quale la sospensione può essere chiesta sia contestualmente, che dopo la presentazione della domanda di ammissione alla procedura, mentre lo scioglimento può essere domandato solo dopo la presentazione del piano e della proposta concordatari. La norma consente di superare un problema interpretativo relativo al rapporto tra l’art. 169 bis l. fall. e la fattispecie del concordato “con riserva” o “in bianco”. Come noto, l’art. 161, comma 6, l. fall., consente al debitore di depositare una domanda di ammissione ad un concordato preventivo, riservandosi di presentare, entro il termine stabilito dal Tribunale, la proposta e il piano concordatario, ovvero un accordo di ristrutturazione dei debiti: stanti queste premesse, ci si è chiesti se, nelle more del termine summenzionato, sia possibile o meno applicare l’art. 169 bis l. fall., e quindi, richiedere lo scioglimento o la sospensione di uno o più contratti pendenti. Il tema è risultato particolarmente complesso, tanto più perché, attraverso un’interpretazione letterale delle norme, entrambe le risposte sono accettabili91, ma, tra chi negava l’applicabilità dell’art. 169 bis l. fall. alla fattispecie del concordato “con riserva”92, e chi,
Nel fallimento (rectius, nella liquidazione giudiziale), tali finalità di contemperamento possono essere raggiunte senza un “intervento giurisdizionale”, perché il curatore, cioè colui che amministra il patrimonio fallimentare e decide sulla sorte dei contratti, in quanto organo della procedura, è già un soggetto “terzo” rispetto agli interessi che entrano in gioco dinanzi al rapporto fra una procedura concorsuale e i contratti pendenti (Vassalli, Il curatore, in Trattato, II, cit., 204 e ss.). L’autorizzazione del comitato dei creditori si spiega alla luce della funzione di tutela degli interessi del ceto creditorio, esercitata dall’ organo esponenziale dei relativi interessi, mentre nel concordato preventivo, tali interessi saranno adeguatamente tutelati nel momento in cui i creditori procederanno alla votazione per l’approvazione, posto che si terrà conto della sorte che in concreto avranno subito i contratti pendenti. 89 Patti, I rapporti giuridici pendenti, cit., 131 e ss.; Moreschini, I contratti pendenti, cit., 70 e ss; Benassi, I contratti in corso d’esecuzione nel concordato preventivo: il compito dell’imprenditore di dar forma alla proposta e la tutela del terzo contraente, 2014, in www.ilcaso. it, 5. 90 Trib. Modena 7 aprile 2014, in www.ilcaso.it; Trib. Pistoia 9 luglio 2013, in www.ilcaso.it. 91 Se, da un lato, l’art. 169 bis l. fall. fa esclusivamente riferimento al deposito dell’istanza ex art. 161 l. fall., dunque alla domanda di ammissione al concordato preventivo, senza alcuna distinzione tra l’ipotesi di cui al comma 1 e quella di cui al comma 6 (Fabiani, Per una lettura costruttiva, cit., 8), quest’ultima disposizione, dall’altro lato, individua le norme applicabili al concordato “in bianco”, senza citare la disposizione in materia di contratti pendenti (Lamanna, La problematica relazione tra preconcordato e concordato con continuità aziendale alla luce delle speciali autorizzazioni del tribunale, 2012, in www.ilfallimentarista.it; Scognamiglio, Concordato preventivo e scioglimento dei contratti in corso di esecuzione, 2013, in www.judicium.it, 33). 92 I sostenitori di questa tesi hanno sollevato due considerazioni. In primo luogo, si è affermato che consentire, in tale fase, di sciogliere o sospendere i contratti pendenti comporterebbe un indebito vantaggio al debitore, non solo perché egli potrebbe opportunisticamente liberarsi da rapporti contrattuali la cui resiliazione non è funzionale all’eventuale successivo piano concordatario, ma anche perché si potrebbe configurare un ingiustificato vantaggio concorrenziale nei confronti di altri imprenditori, magari meno “disinvolti” (Scognamiglio, op. cit., 34-35). In secondo luogo, alcuni autori hanno notato che sarebbe sistematicamente incoerente applicare l’art. 169 bis l. fall. in una fase della procedura in cui mancano una serie di informazioni necessarie per la decisione del giudice e che si ricavano dalla documentazione relativa al piano di concordato e alla proposta concordataria: il rischio sarebbe quello di una decisione sulla sorte dei contratti pendenti presa “al buio” (Cfr. BOZZA, I contratti in corso di esecuzione nel contratto preventivo, cit., 1130, Cavallini, “Spigolature” e dubbi in
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invece, riteneva ciò possibile93, si è sviluppato un orientamento intermedio94, che ha ipotizzato che prima della presentazione del piano concordatario, il debitore possa richiedere soltanto la sospensione dei contratti pendenti, ponendo l’accento sulla situazione di incertezza in cui si versa nella fase in esame e sulla natura “cautelare” della sospensione dei contratti95. Questa terza soluzione è, forse, quella più ragionevole, ma la facile critica che le si poteva porre è che essa determina un superamento del dato letterale dell’art. 169 bis l. fall., che non pone distinzioni particolari tra lo scioglimento e la sospensione96. A ben vedere, tuttavia, è proprio questa la soluzione scelta dal Codice: è confermata la possibilità, ai sensi dell’art. 44, comma 1, n. 1, c.c.i., di presentare una domanda di ammissione ad una procedura di regolazione negoziata della crisi, riservandosi di depositare, entro un termine fissato dal Tribunale tra i trenta e i sessanta giorni, la proposta di concordato preventivo con il piano, l’attestazione di veridicità dei dati e di fattibilità e la documentazione di cui all’art. 39, comma 1, c.c.i., ovvero un accordo di ristrutturazione dei debiti, ma l’art. 97, comma 2, c.c.i., consente, in tale fase, di presentare solamente un’istanza di autorizzazione alla sospensione dei contratti pendenti. Restano fermi, in tal senso, dei dubbi relativi al rapporto tra una disciplina che onera al debitore di dimostrare che la prosecuzione del contratto non è compatibile col contenuto del piano, e una norma che consente di incidere sulla sorte di un rapporto pendente già prima che il piano venga depositato: sotto questo profilo, potrebbero valere le riflessioni di chi si è posto tale problema prima della promulgazione del Codice, affermando che, in tale ipotesi, gli oneri informativi gravanti sul debitore avrebbero ad oggetto la sola deduzione dello stato
tema di (pre)concordato, continuità aziendale e sospensione/scioglimento dei contratti pendenti, 2013, in www.ilfallimentarista.it; Ambrosini, in Trattato, IV, cit., 290) In giurisprudenza: Trib. Verona 31 ottobre 2012, in www.ilcaso.it; App. Brescia 19 giugno 2013, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Milano 28 maggio 2014, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Milano 11 settembre 2014, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Ravenna 22 ottobre 2014, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Firenze 23 aprile 2015, in www.ilcaso.it; Trib. Roma 3 luglio 2015, in www.ilfallimentarista.it. 93 Quest’ultimo orientamento si fondava sulla considerazione che negare l’applicabilità dell’art. 169 bis l. fall. al concordato “con riserva” pregiudicherebbe la finalità dell’istituto, ossia di consentire al debitore di beneficiare di alcuni effetti del concordato preventivo, in un momento in cui è consapevole dello stato di crisi, ma non è ancora in grado di predisporre un piano o una proposta concordataria (BENASSI, I contratti in corso d’esecuzione nel concordato preventivo, cit., 17-18; Vella, Il controllo giudiziale sulla domanda di concordato preventivo “con riserva”, in Fall., 2013, 95 e ss.). In tal senso, si è notato che la mancata applicazione dell’art. 169 bis l. fall. e, di conseguenza, la continuazione di un contratto pendente, potrebbe comportare dei costi eccessivamente gravosi per il debitore, che potrebbero fungere da ostacoli che rischiano di pregiudicare la soluzione concordataria (Cfr. Benassi, op. loc. cit., 15). In giurisprudenza: Trib. Piacenza 5 aprile 2013, in www.ilcaso.it; Trib. Terni 27 dicembre 2013, in www.ilcaso.it; App. Genova 10 febbraio 2014, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Busto Arsizio 24 luglio 2014, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Treviso 24 febbraio 2015, in www.ilfallimentarista.it; App. Milano 4 aprile 2015, in www.ilfallimentarista.it. 94 In dottrina: Moreschini, I contratti pendenti, cit., 75; AMATORE, Autorizzazione allo scioglimento di contratto di affitto di azienda, 2013, in www.ilfallimentarista.it. In giurisprudenza: Trib. Roma 20 febbraio 2013, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Vercelli 20 settembre 2013, in www.ilcaso.it; Trib. Udine 25 settembre 2013, in www.ilcaso.it. 95 In dottrina, si parla di natura cautelare della sospensione perché il contratto entra in uno “stato di quiescenza”, in conseguenza del quale entrambi i contraenti sono provvisoriamente liberati da qualsivoglia effetto obbligatorio e/o reale, in ordine all’adempimento delle prestazioni nascenti dal contratto stesso (Cfr. Nardo, I contratti pendenti, in La nuova legge fallimentare, a cura di Santangeli, Milano, 2016, 216; Patti, I rapporti giuridici pendenti, cit., 124) 96 Cfr. Scognamiglio, Concordato preventivo e scioglimento dei contratti in corso di esecuzione, cit., 33.
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d’incertezza che caratterizza questa fase, da cui deriverebbe la necessità di sospendere il rapporto contrattuale97. Ancora, sempre in tema di istanza di sospensione in caso di concordato “in bianco”, l’art. 97, comma 7, c.c.i., prevede che la durata della sospensione non può eccedere i termini concessi dal Tribunale per il deposito del piano e della proposta concordatari e che, depositati questi ultimi, essa possa essere prorogata per un termine comunque non superiore ai trenta giorni dalla data del decreto di apertura. Non è chiaro, invece, quale sia la durata massima della sospensione nel caso in cui l’istanza venga presentata dopo il deposito del piano e della proposta, dal momento che l’art. 97 c.c.i., a differenza dell’art 169 bis l. fall. 98, non dispone espressamente in merito: sebbene da un punto di vista letterale, sia ammissibile un’interpretazione che arrivi ad escludere l’esistenza di un limite massimo di durata della sospensione, la Relazione al Codice suggerisce che l’art. 97, comma 7, c.c.i., è espressione di un principio generale per cui la sospensione disposta dopo la presentazione del piano può durare al massimo trenta giorni a partire dall’apertura della procedura, e che tale termine non sia prorogabile99. Infine, laddove ce ne sia bisogno, giova ricordare che in ordine alla tutela sostanziale per il contraente in bonis, l’art. 97 c.c.i. confermando la disciplina dell’art. 169 bis l. fall., prevede che questi abbia diritto ad un indennizzo, equivalente al risarcimento del danno da inadempimento e sodisfatto come credito chirografario antecedente alla procedura, quindi, qualificato come concorsuale, ferma restando la prededucibilità del credito conseguente ad eventuali prestazioni eseguite legalmente e in conformità agli accordi o agli usi negoziali dopo la pubblicazione della domanda di accesso al concordato e prima della notificazione del provvedimento che autorizza la sospensione o lo scioglimento100.
15. Segue: profili processuali. Per quel che riguarda la disciplina del procedimento che segue alla presentazione dell’istanza, l’art. 97 c.c.i. introduce delle importanti innovazioni che seguono il solco già tracciato dall’art. 169 bis l. fall.. In particolare, la norma della Legge Fallimentare, che predisponeva una disciplina “essenziale” finalizzata a garantire una celere decisione in ordine ai contratti pendenti101, comunque prevede che il contraente in bonis debba essere sentito102: questo principio
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In tal senso, Moreschini, I contratti pendenti, cit., 75. Che fissa la durata massima della sospensione in sessanta giorni, prorogabili una sola volta. 99 Sotto questo profilo, sarebbe evidente la finalità di non dilungare per un tempo eccessivo una situazione di incertezza relativa alla sorte del contratto. Cfr. Burroni, in Il nuovo codice, cit., 171. 100 A partire da tale notificazione, infatti, il provvedimento produce i suoi effetti. 101 Benassi, Contratti pendenti nel concordato preventivo e audizione del terzo contraente nel nuovo art 169 bis l. fall.: prime riflessioni, 2015, in www.ilcaso.it, 7-8. 102 A riguardo, sono comunque sorti dei dubbi in merito alle ipotesi in cui si debba instaurare il contraddittorio. Leggendo l’art. 169 98
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viene confermato dall’art. 97 c.c.i., che impone al debitore di notificare l’istanza di autorizzazione al contraente in bonis e di depositarne prova al momento dell’esperimento del ricorso, ma anche sistematizzato, poiché si predispone una disciplina relativa alle modalità di instaurazione del contraddittorio. Vigente la Legge Fallimentare, si è affermato che la necessità che il contraente in bonis venga sentito non deve essere necessariamente soddisfatta in udienza, poiché è possibile e sufficiente che il giudice instauri il contraddittorio assegnando alle parti un termine per la produzione di scritti e di documenti103. La soluzione, che può essere condivisa se si tiene conto che la necessaria fissazione di un’udienza, non prevista dalla norma, potrebbe determinare un irrigidimento delle forme del procedimento in esame, è quella fatta propria dal Legislatore del Codice: l’art. 97, comma 4, c.c.i., consente al contraente in bonis di opporsi alla richiesta depositando una memoria scritta entro sette giorni dalla notifica dell’istanza. Ci si può tuttavia chiedere se l’autorità giudiziaria competente possa fissare un’udienza, dove eventualmente sentire il contraente in bonis, laddove lo ritenga comunque necessario. Il dubbio è lecito, perché l’art. 97 c.c.i., a differenza dell’art. 169 bis l. fall., non fa alcuna menzione all’assunzione di sommarie informazioni da parte del giudice; tuttavia, a parere di chi scrive, ciò non esclude necessariamente tale possibilità, poiché è da ritenersi che il modello adottato dal Legislatore del Codice per procedimenti come quello di cui all’art. 97 c.c.i. sia quello del procedimento in camera in consiglio104, rispetto al quale è indubbia la possibilità di assumere sommarie informazioni se ciò risulta necessario105 Resta da segnalare che ai sensi dell’art. 97, comma 3, c.c.i., il debitore, nell’istanza, può proporre una quantificazione dell’indennizzo dovuto alla controparte, della quale si tiene conto nel piano per la determinazione del fabbisogno concordatario.
bis, comma 1, l. fall., si può notare che il sintagma “sentito l’altro contraente” è inserito nel primo periodo, in cui si fa riferimento al solo scioglimento, mentre la disciplina in materia di sospensione viene stabilita al secondo periodo della norma; questo aspetto ha indotto dottrina minoritaria ad affermare che il contraddittorio debba instaurarsi solo in quei procedimenti in cui viene chiesta l’autorizzazione allo scioglimento dei contratti (Benassi, ult. op. cit., 2 e ss.). Tuttavia, la tesi non può essere condivisa, perché essa sembra partire da un presupposto non del tutto corretto. Non si può “minimizzare” l’incidenza che può avere la sospensione di un contratto pendente sulla sfera giuridica del contraente in bonis: già solo la situazione di “incertezza” in cui egli versa nelle more della sospensione potrebbe produrre effetti estremamente pregiudizievoli e si tenga poi conto che potrebbero configurarsi delle fattispecie in cui già la sospensione produce danni irreversibili, come ad esempio avviene quando il contratto è funzionale ad un’attività stagionale svolta dall’altro contraente (Trib Reggio Emilia 8 luglio 2015, in www.ilfallimentarista.it). Del resto, ogni dubbio in materia viene dissipato dall’art. 97 c.c.i., la cui formulazione letterale non lascia nessun dubbio in ordine alla necessità che il contraddittorio si instauri indipendentemente dalla richiesta del debitore. 103 Benassi, ult. op. cit.,7-8. 104 In tal senso, il Codice riprende i modelli processuali della Legge Fallimentare: cfr. Cecchella, I precedenti e la transizione, in Trattato, II, cit., 18 e ss. 105 Si veda in tal senso, Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2016, III, 317 e ss.
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Pienezza della giurisdizione e limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’autorità antitrust alla luce della normativa europea e italiana sul private enforcement* Sommario : 1. Il problema della pienezza della tutela sugli atti dell’autorità antitrust nella normativa europea. – 1.1. Introduzione. – 1.2. La recezione della direttiva europea in materia di private antitrust enforcement nell’ordinamento italiano. – 1.3. L’efficacia vincolante della decisione dell’autorità antitrust per il giudice civile – 1.4. La normativa europea ed il rafforzamento del sistema di private antitrust enforcement. – 2. La cognizione piena sui fatti e sui profili tecnici come elemento essenziale della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo. – 2.1. L’estensione del problema sui limiti della giurisdizione alla persona. – 2.2. L’elaborazione dei concetti di processo e di sindacato nel diritto europeo e italiano. – 2.3. La giurisprudenza della Corte edu sulla full jurisdiction. – 3. Pienezza del sindacato e giurisdizione amministrativa nel diritto italiano ed europeo. – 3.1. La limitazione della giurisdizione sugli atti dell’autorità antitrust come violazione del diritto di difesa. – 3.2. L’art. 6, par. 1, cedu e il principio della full jurisdiction sul merito degli atti dell’autorità antitrust per la tutela effettiva della persona. – 3.3. L’art. 24 Cost. e il diritto di agire in giudizio come norma che postula il sindacato pieno del giudice amministrativo sul merito degli atti dell’autorità antitrust per la tutela effettiva della persona. 4. Conclusioni. Il sindacato pieno e sostitutivo del giudice amministrativo nella concezione del potere pubblico come potere funzionalizzato al godimento pieno ed uguale dei diritti fondamentali della persona.
Muovendo dalla interpretazione del dato positivo offerto dal diritto italiano (artt. 24, 111 e 113 Cost.) ed europeo (artt. 6 e 11 Cedu e 47 cdfue) come dato che postula la giurisdizione piena, il presente scritto intende offrire una soluzione al problema del sindacato di merito del giudice amministrativo sulle decisioni dell’autorità antitrust a partire da una diversa concezione della natura e della funzione del potere pubblico come potere che, in virtù della spettanza della sovranità al popolo (art. 1), è funzionalizzato al godimento pieno ed uguale (art. 3 Cost.) dei diritti fondamentali delle persone (art. 2 Cost.).
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Il presente scritto è frutto in parte di un periodo di ricerca svolto dall’autore alla University of Oxford, Faculty of Law, presso il Centre for Socio-Legal Studies.
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Starting from the interpretation of the rules in the Italian (Articles 24, 111 and 113 Const.) and European law (Articles 6 echr) as elements that admit the full jurisdiction, this paper aims to offer a solution to the problem of administrative judge’s review over the antitrust authority’s decisions, offering a different notion of nature and function of public power that, in view of people’s sovereignty (Article 1 Const.), shall guarantee the full and equal legal protection (Article 3 Const.) of the fundamental rights (Article 2 Const.).
1. Il problema della pienezza della tutela sugli atti dell’autorità antitrust nella normativa europea.
1.1. Introduzione. La recente normativa italiana in materia di private antitrust enforcement ha posto non pochi problemi in ordine al tema della tutela giurisdizionale e della relativa tutela dei soggetti lesi a fronte di una decisione dell’autorità antitrust. Il legislatore italiano, recependo la direttiva europea 2014/104/UE, ha stabilito in sostanza che l’accertamento dei fatti e la ricostruzione dei profili tecnici compiuti dall’autorità antitrust nelle sue decisioni non siano più sindacabili dal giudice civile in sede di risarcimento del danno, laddove tali decisioni non vengano impugnate dinnanzi al giudice amministrativo o non vengano annullate da tale giudice se impugnate. Il dato positivo svela, dunque, una evidente criticità. Se il giudice civile, in virtù della recente normativa, non può più sindacare la ricostruzione dei fatti e dei profili tecnici compiuta dall’autorità antitrust in una sua decisione, allorché tale decisione non sia più soggetta ad impugnazione davanti al giudice amministrativo perché inoppugnabile o perché la richiesta di annullamento sia stata respinta da quel giudice, si avrà che in simili casi l’unico organo giurisdizionale legittimato a sindacare la ricostruzione fatta da tale autorità sia proprio il giudice amministrativo. Il problema della pienezza della giurisdizione sulle decisioni dell’autorità antitrust, quindi, sarebbe risolto dalla logica estensione dei poteri cognitori, istruttori e decisori del giudice amministrativo ai fatti e alle valutazioni tecniche così come ricostruiti dall’autorità antitrust. Senonché, nel silenzio della legge, la tesi del sindacato di merito del giudice amministrativo su fatti e profili tecnici resi dall’autorità antitrust è oggi confutata dalla prevalente giurisprudenza e da significativa parte della dottrina. In questa prospettiva ciò che emerge in modo nitido è la forte limitazione che il giudice amministrativo incontra in ordine al suo potere di riformulare le valutazioni tecniche e di rivedere i fatti per come delineati dall’autorità. In quest’àmbito a farsi largo sono le note tesi che – più e meno recentemente – hanno inquadrano il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche entro i confini del sindacato ‘esterno’ (limitato cioè al vaglio della sola legalità esterna dell’esercizio del potere) e ‘debole’ (in cui cioè la decisione del giudice non può mai sostituire la decisione dell’autorità). Sicché allo stato attuale delle cose si prospetta
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il seguente paradosso: se il controllo sul merito delle decisioni dell’autorità antitrust del giudice civile è impedito dalla legge e quello del giudice amministrativo, nel silenzio di questa, dalla giurisprudenza e – in parte – dalla dottrina si avrà che mai alcun giudice, nel rispettivo giudizio, sindacherà la ricostruzione dei fatti e dei profili tecnici compiuta unilateralmente dall’autorità. Tale risultato si pone verosimilmente in contrasto con il principio della pienezza della tutela giurisdizionale, così come sancito nell’ordinamento interno dal dato costituzionale e nell’ordinamento europeo dal dato convenzionale. Per tale ragione, muovendo dall’interpretazione del dato positivo offerto dal diritto italiano ed europeo come dato che postula la c.d. full jurisdiction, si intende offrire una soluzione al problema del sindacato di merito del giudice amministrativo sulle decisioni dell’autorità antitrust a partire da una diversa concezione della natura e della funzione del potere pubblico come potere che, in virtù della spettanza della sovranità al popolo, è funzionalizzato al godimento pieno ed uguale dei diritti fondamentali delle persone. In quest’ottica, scopo della ricerca sarà anzitutto quello di mostrare, attraverso l’elaborazione del concetto di processo e di sindacato, come la cognizione autonoma di fatti e profili tecnici costituisca tratto essenziale dell’esercizio della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo. Una volta preso atto che la cognizione autonoma del merito amministrativo rappresenta elemento basilare della funzione giurisdizionale, la cui insindacabilità sfocia nella violazione del diritto di difesa costituzionalmente e convenzionalmente garantito dal diritto italiano ed europeo, scopo della ricerca sarà quello di ricostruire la disciplina dell’art. 24 della Costituzione italiana e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in vista di affermare la pienezza del sindacato del giudice sulle decisioni dell’autorità antitrust in ordine alle valutazioni tecniche e all’accertamento dei fatti che questa abbia svolto nell’esercizio del potere assegnatogli dall’ordinamento per la cura dell’interesse pubblico, vale a dire per la massimizzazione dei diritti della persona da parte di quell’autorità. Nella parte finale, ricondotto il potere dell’autorità amministrativa all’assolvimento dei diritti come richiesto dal tessuto costituzionale, si sosterrà la tesi dell’ampliamento del sindacato del giudice amministrativo, attraverso un controllo anche di tipo sostitutivo, sugli atti dell’autorità antitrust in vista di assicurare la pienezza della tutela della persona.
1.2. La recezione della direttiva europea in materia di private antitrust enforcement nell’ordinamento italiano.
Negli Stati membri dell’Unione Europea il recepimento della normativa in materia di private antitrust enforcement ha posto non pochi problemi per ciò che riguarda la pienezza della giurisdizione sulle decisioni dell’autorità nazionale antitrust1. Ciò particolarmente,
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La letteratura italiana sull’argomento è ampia, per limitarci alla dottrina amministrativistica che ha affrontato la questione del controllo
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come si vedrà per l’ordinamento italiano, ha sollevato fondati dubbi di legittimità costituzionale e più in generale ha posto il tema della adeguatezza del sindacato del giudice rispetto alla tutela effettiva delle posizioni soggettive incise dai provvedimenti adottati dall’autorità nazionale antitrust. Si fa riferimento alla direttiva europea 2014/104/UE2 riguardante le norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni del dirit-
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giudiziale sugli atti dell’autorità antitrust si v. I. Marino, Autorità garante della concorrenza e del mercato e giustizia amministrativa, in Dir. econ., 1992, p. 573 ss.; M.G. Roversi Monaco, Note su alcune «autorità garanti» e sulla tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 257 ss.; F. Pellizzer, Interessi pubblici e situazioni soggettive nella disciplina della concorrenza e del mercato, Trento, 1993, p. 32 ss.; M. Clarich, Per uno studio sui poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Dir. amm., 1993, p. 646 ss.; Id., Le autorità indipendenti tra regole, discrezionalità e controllo giudiziario, in Foro amm., 2002, p. 3865 ss.; M. Antonioli, La legge «antitrust» dinanzi al giudice amministrativo, in Riv. dir. pubbl. com., 1993, p. 1260 ss. e Id., Giudice amministrativo e diritto antitrust: un dibattito ancora aperto, in Giust. civ., 2001, p. 93 ss.; A. Perini, Autorità amministrative indipendenti e tutela giurisdizionale, in Dir. amm., 1994, p. 71 ss.; S. Cassese, C. Franchini, I garanti delle regole, Bologna, 1996, p. 107 ss.; S. Crisci, Poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Tutela giurisdizionale, in Cons. Stato, 1996, p. 555 ss.; G. Morbidelli, Procedimenti amministrativi delle Authorities, in A. Predieri (a cura di), Le autorità indipendenti nei sistemi istituzionali ed economici, Firenze, 1997, p. 251 ss.; G. Amato, Il potere e l’antitrust. Il dilemma della democrazia liberale nella storia del mercato, Bologna, 1998, p. 11 ss.; M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, p. 649 ss.; M. Scuffi, La tutela antitrust avanti al giudice amministrativo, in M. Tavassi, M. Scuffi (a cura di), Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, p. 143 ss.; A. Scognamiglio, La legittimazione del denunciante ad impugnare le delibere di non avvio dell’istruttoria e di archiviazione adottate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Foro amm., 1999, p. 1149 ss.; F. Denozza, Discrezione e deferenza: il controllo giudiziario sugli atti delle autorità indipendenti “regolatrici”, in Mercato Concorrenza Regole, 2000, p. 469 ss.; F. Cortese, Momenti e luoghi salienti di una transizione: la tutela giurisdizionale amministrativa e i suoi sviluppi al cospetto delle amministrazioni indipendenti, in Dir. proc. amm., 2001, p. 430 ss.; A. Travi, Giudice amministrativo e Autorità indipendenti: il caso del sindacato sugli atti dell’Autorità antitrust, in Anal. giur. econ., 2002, p. 425 ss.; R. Caranta, I limiti del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Giur. Comm., 2003, p. 170 ss.; Id., Il sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in E. Ferrari, M. Ramajoli, M. Sica (a cura di), Il ruolo del giudice di fronte alle decisioni amministrative per il funzionamento dei mercati, Torino, 2006, p. 245 ss.; R. Chieppa, Il controllo giurisdizionale sugli atti della Autorità Antitrust, in Dir. proc. amm., 2004, p. 1060 ss.; F. Cintioli, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e “giurisdizionalizzazione”, Milano, 2005, p. 112 ss.; A. Police, Tutela della concorrenza e pubblici poteri. Profili di diritto amministrativo nella disciplina antitrust, Torino, 2007, p. 303; S. Screpanti, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche e sui poteri sanzionatori dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Rass. Avv. St., 2008, p. 393 ss.; M. Allena, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche complesse: orientamenti tradizionali versus obblighi internazionali, in Dir. proc. amm., 2012, p. 1602 ss.; L. Torchia, Il diritto antitrust di fronte al giudice amministrativo, in Merc. reg. conc., 2013, p. 519 ss.; Id., Venti anni di potere antitrust: dalla legalità sostanziale alla legalità procedurale nell’attività dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in C. Rabitti Bedogni, P. Barucci (a cura di), 20 anni di potere antitrust: l’evoluzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Torino, 2010, p. 385 ss; A. Catricalà, A. Lolli, L’antitrust in Italia, Milano, 2010, p. 33 ss. Di recente il dibattito dottrinale, specie per quanto che riguarda il tipo di controllo che il giudice amministrativo deve esercitare sugli atti dell’agcm, ha ripreso un certo vigore proprio in virtù dell’emanazione della direttiva europea del 2014 prima e del decreto legislativo del 2017 poi. In tal senso si v. G. Greco, L’accertamento delle violazioni del diritto della concorrenza e il sindacato del giudice amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, p. 999 ss.; B. Giliberti, Public e private enforcement nell’art. 9, co. I della Direttiva antitrust 104/2014. Il coordinamento delle tutele: accertamento amministrativo e risarcimento danni nei rapporti privatistici, in Riv. it. dir. pubbl. comun., p. 76 ss.; F. Cintioli, Giusto processo, CEDU e sanzioni antitrust, in Dir. proc. amm., 2015, p. 507 ss.; Id., Giusto processo, sindacato sulle decisioni antitrust e accertamento dei fatti (dopo l’effetto vincolante dell’art. 7, d. lg. 19 gennaio 2017, n. 3), in Dir. proc. amm., 2018, p. 1207 ss.; F. Goisis, La Full jurisdiction sulle sanzioni amministrative: continuità della funzione sanzionatoria v. separazione dei poteri, in Dir. amm., 2018, 1 ss. Direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014. In Italia, su tale direttiva cfr. M. Siragusa, L’effetto delle decisioni delle Autorità Nazionali della Concorrenza nei giudizi per il risarcimento del danno: la proposta della Commissione e il suo impatto nell’ordinamento italiano, in Concorrenza e mercato, 2014, spec. p. 303 ss.; M. Libertini, La determinazione del danno risarcibile nella proposta di direttiva comunitaria sul risarcimento del danno « antitrust ». Alcune osservazioni preliminari, in Concorrenza e mercato, 2014, p. 265 ss.; S. Bastianon, La proposta di direttiva sulle azioni risarcitorie « antitrust » e le prospettive di ricorso ai « consensual settlements », ivi, p. 331; G. Bruzzone, A. Saija, Verso il recepimento della direttiva sul « private enforcement » del diritto « antitrust », ivi, p. 257; Taddei, Il risarcimento dei danni « antitrust » tra compensazione e deterrenza. Il modello americano e la proposta di direttiva Ue del 2013, ivi, p. 183; R. Rordorf, Il ruolo del giudice e quello dell’autorità nazionale della concorrenza e
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to della concorrenza negli Stati membri e nell’Unione europea ai sensi degli artt. 101 o 102 tfeu o del diritto nazionale3. Particolare rilievo assumono le disposizioni della direttiva europea, in cui si prevede che la decisione dell’autorità nazionale antitrust sia insindacabile dal giudice civile laddove tale decisione non venga impugnata o non venga annullata dal giudice amministrativo se impugnata. Nello specifico l’art. 9, par. 1, dir. 104/2014 stabilisce che «Member States shall ensure that an infringement of competition law found by a final decision of a national competition authority or by a review court is deemed to be irrefutably established for the purposes of an action for damages brought before their national courts under Article 101 or 102 TFEU or under national competition law». Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, la direttiva è stata recepita con l’art. 7, comma 1, del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 34. Tale norma, con riguardo all’azione per il risarcimento del danno, ha stabilito che una violazione del diritto alla concorrenza debba intendersi «definitivamente accertata» nei confronti del soggetto autore dell’infrazione, quando la constatazione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in poi agcm) compiuta in sede di public enforcement non possa essere più sottoposta ad impugnazione davanti al giudice amministrativo («giudice del ricorso»). Stessa cosa vale per i casi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato senza che il giudice amministrativo abbia riformato le determinazioni dell’autorità, vale a dire quindi di un provvedimento amministrativo inoppugnabile perché non impugnato o perché la richiesta di annullamento sia stata respinta da quel giudice. La norma italiana, inoltre, sempre in conformità con la direttiva europea, specifica che l’efficacia vincolante dell’accertamento effettuato in sede di public antitrust enforcement dall’agcm «riguarda la natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non il nesso di causalità e l’esistenza del danno», i quali potranno essere messi in discussione dal convenuto (l’impresa cui è stata contestata la violazione della disciplina sulla concorrenza) in sede di private antitrust enforcement dinnanzi al giudice civile.
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del mercato nel risarcimento del danno antitrust, in Società, 2014, p. 784; G. Villa, La direttiva europea sul risarcimento del danno antitrust: riflessioni in vista dell’attuazione, in Corr. giur., 2015, p. 301. Nell’ordinamento italiano si fa rifermento agli artt. 2 o 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287. Su cui si v. F. Goisis, Il canone della full jurisdiction, tra proteiformità e disconoscimento della discrezionalità tecnica come merito. Riflessioni critiche sull’art. 7, co. 1, d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, in PA Persona e Amministrazione, n. 2/2018, p. 199 ss.; G. Bruzzone, A. Saja, Private e public enforcement dopo il recepimento della direttiva. Più di un aggiustamento al margine?, in Mercato Concorrenza Regole, 2017, p. 9 ss.; P. Comoglio, Note a una prima lettura del d.lgs. 3/2017. Novità processuali e parziali inadeguatezze in tema di danni antitrust, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, 3, p. 991 ss.; G. Villa, L’attuazione della direttiva sul risarcimento del danno per violazione delle norme sulla concorrenza, in Corr. giur., 2017, p. 441 ss.
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1.3. L’efficacia vincolante della decisione dell’autorità antitrust per il giudice civile.
Appare chiaro che il dato positivo di matrice comunitaria, così come trasposto da ultimo nell’ordinamento italiano tramite il d.lgs. n. 3/2017, per quanto lo si voglia interpretare diversamente, pone il giurista dinnanzi ad una lettura obbligata di tali norme. Questa lettura impone all’interprete di tenere presente come l’acquis comunitario conferisca alla decisione amministrativa dell’autorità antitrust, con la quale essa compie le sue valutazioni di carattere tecnico ed espleta l’accertamento dei fatti attribuendo loro una certa qualificazione giuridica, un’efficacia vincolante che “fa stato” erga omnes per il rito risarcitorio dinnanzi al giudice civile in sede di private enforcement allorché, giova ribadirlo, tale decisione per le ragioni anzidette: i) non sia impugnata dinnanzi al giudice amministrativo, divenendo così un provvedimento inoppugnabile per quanto concerne le valutazioni tecniche e gli accertamenti fattuali svolti dall’autorità antitrust in sede di public enforcement; ii) pur essendo impugnata dinnanzi al giudice amministrativo, non sia annullata da quest’ultimo che così implicitamente conferisce valore di cosa giudicata alle valutazioni tecniche ed agli accertamenti di fatto compiuti dall’autorità antitrust in sede di public enforcement. In ragione di ciò il giudice civile, chiamato a pronunciarsi in sede di private enforcement per il riconoscimento dei danni eventualmente patiti dalla vittima dell’illecito concorrenziale, non potrà più accertare in modo autonomo la vicenda posta alla sua cognizione, ma dovrà giudicare sulla base delle sole constatazioni fattuali, delle valutazioni tecniche e delle qualificazioni giuridiche compiute dall’autorità antitrust nel procedimento con il quale tale autorità ha accertato la violazione della normativa sulla concorrenza che non sono state oggetto di impugnazione dinnanzi al giudice amministrativo. Nel giudizio civile per il risarcimento del danno da illecito concorrenziale, stessa efficacia vincolante avranno quelle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato, per le quali tale giudice non abbia annullato il provvedimento amministrativo dell’autorità antitrust, così implicitamente confermando le ricostruzioni fattuali, le valutazioni tecniche e le qualificazioni giuridiche compiute prima facie da tale autorità. Quello appena delineato non è l’unico punto di osservazione da cui guardare la normativa europea. A ciò se ne aggiunge un altro strettamente connesso al primo ed a cui si ricollega una problematica di non poco conto in materia di pienezza della tutela delle posizioni soggettive incise dalle decisioni adottate dall’autorità antitrust sul versante del public enforcement. Tale altro angolo visuale suggerisce di valutare la coerenza fra le norme emanate in sede europea, specialmente per ciò che riguarda l’efficacia vincolante delle decisioni dell’autorità antitrust, e la categoria processuale dell’interesse a ricorrere, con particolare attenzione ai profili temporali di quest’ultimo. Da questa angolatura non sembra secondario considerare come un’impresa che abbia subìto l’accertamento negativo dell’autorità antitrust possa avere non un unico, ma una pluralità di interessi ad impugnare il provvedimento emanato da tale autorità. Inoltre, non è dato escludere che alcuni degli interessi dell’impresa si possano palesare solo eventualmente e quindi in un tempo non coincidente con l’emanazione del provvedimento. Bisogna osservare pure come l’impresa
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oggetto di accertamento di un illecito antitrust, ad esempio perché abbia concluso un’intesa restrittiva della concorrenza o perché abbia abusato della posizione dominante tenuta sul mercato di riferimento, possa essere propensa a non contestare dinnanzi al giudice amministrativo il provvedimento negativo emanato in sede di public enforcement dall’autorità antitrust; ciò, infatti, avverrebbe nel caso in cui l’intesa non sia più di interesse strategico o la posizione dominante non sia più produttiva di un significativo valore commerciale. Sembra evidente che quella stessa impresa, sebbene non abbia interesse ad impugnare il provvedimento dell’autorità antitrust per le ragioni anzidette, potrebbe comunque avere un interesse a non vedere compromessa la sua sfera patrimoniale dalle eventuali azioni risarcitorie esperite da terzi soggetti che avranno contestato l’intesa illecita o la condotta abusiva dell’impresa in sede di private enforcement5 dinnanzi al giudice civile. Come si può notare, benché ci si trovi di fronte ad un’unica vicenda che presenta una pluralità di interessi apparentemente distinti non può non osservarsi come la decisione dell’autorità antitrust renda attuale il solo interesse dell’impresa che voglia impugnare tale decisione in vista dell’annullamento delle relative sanzioni e non anche l’interesse della medesima impresa a contestarne la legittimità allo scopo di evitare un giudizio negativo in sede civile per il risarcimento del danno in favore dei terzi controinteressati6 e causato dalla sua (ipotetica) condotta abusiva o dall’intesa (eventualmente) restrittiva della concorrenza. Dal momento che l’azione per il risarcimento del danno in sede di private enforcement dinnanzi al giudice civile è solo eventuale e quindi potrebbe non essere mai esperita dai soggetti ipoteticamente danneggiati dall’illecito antitrust accertato in sede di public enforcement, l’interesse a contestare la legittimità del provvedimento dell’autorità antitrust a tali fini rimane sullo sfondo come non attuale. Ora, appare chiaro che la soluzione normativa individuata in sede europea dall’art. 9, dir. 2014/104/UE oltre a determinare una perdita di tutela per le ragioni sopra esposte, determina anche la sua anticipazione in un momento in cui alcuni interessi sono solo ipotetici, con ciò causando un’identificazione, sul versante dell’obbligo di ricorrere al giudice amministrativo, tra interessi non omogenei e non coincidenti dal punto di vista temporale. Il che costituisce a sua volta un problema di certezza del diritto dal momento che si viene a configurare un’alea per le imprese sottoposte al procedimento sanzionatorio in sede di public enforcement sulla possibilità di ricorrere o meno al giudice amministrativo ai soli fini di non veder compromesso il proprio diritto di difesa nel caso di una o più azioni risarcitorie eventualmente esperite dai soggetti terzi controinteressati (imprese concorrenti e privati consumatori) davanti al giudice civile in sede di private enforcement.
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Ciò a maggior ragione si verifica tenuto conto del “luogo” che il potere pubblico pone in luce come “luogo” evidentemente multipolare. Sul punto si v. L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Milano, 2005, p. 122 ss.; B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, p. 928. Si v. M. Ramajoli, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano, 1998, pp. 370-371.
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1.4. La normativa europea ed il rafforzamento del sistema di private antitrust enforcement.
Tornando all’esame delle recenti riforme in materia di rapporti fra public e private antitrust enforcement vanno ora svolte alcune considerazioni sulle normative in parola. Se in effetti, come visto, l’intento perseguito a livello legislativo da parte della disciplina comunitaria è stato quello di rendere vincolanti nel rito civile risarcitorio le decisioni dell’autorità antitrust che abbiano definitivamente accertato una violazione della legislazione europea sulla concorrenza, ciò, è bene osservare, si è compiuto senz’altro nell’ottica di rendere più effettivo, oltre che più efficiente, il sistema di private antitrust enforcement e quindi il meccanismo dei risarcimenti per la platea dei soggetti (imprese concorrenti e consumatori) che abbiano potuto subire un danno dalle condotte anticoncorrenziali altrui. Tale aspetto è alla base della disposizione di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria 104/2014/UE, come si può leggere nelle sue premesse, e precisamente al considerando n. 34, dove viene evidenziata l’importanza che assume la stabilità processuale di una decisione dell’autorità antitrust o del giudice nazionale amministrativo al fine di «migliorare la certezza del diritto, evitare contraddizioni nell’applicazione degli articoli 101 e 102 TFUE» e, per quel che qui più interessa, «aumentare l’efficacia e l’efficienza procedurale delle azioni per il risarcimento del danno». In questo senso va letta la porzione della disposizione del considerando in parola, laddove esso prevede che la decisione con cui l’autorità nazionale antitrust o il giudice amministrativo constatino un illecito concorrenziale non debba «essere rimessa in discussione in successive azioni per il risarcimento del danno» dinnanzi al giudice civile. Ciò che non si ben comprende, alla luce di quanto detto in precedenza (cfr. supra parr. 1.2.), è il motivo per cui l’architettura della normativa europea, in nome dell’efficienza, dell’effettività e della certezza del diritto garantite al sistema di private antitrust enforcement, debba essere disegnata in modo da limitare significativamente il diritto di difesa dei soggetti che vogliano dimostrare, con tutti gli strumenti processuali che gli ordinamenti degli stati offrono, di non aver commesso alcuna violazione accertata in sede di public antitrust enforcement dalle autorità amministrative nazionali. Va detto, a tal riguardo, che la legislazione europea più recente non rappresenta certo una novità assoluta. Anzi, è bene osservare come essa rappresenti una sorta di punto d’approdo di un percorso più ampio e articolato compiuto dal legislatore comunitario e costituito da alcune importanti tappe normative di cui appresso si darà conto, in vista proprio di comprendere le ragioni dell’affermarsi di un simile sistema di private antitrust enforcement. La prima di queste tappe va individuata nel Regolamento CE n. 1/2003 del Consiglio europeo del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 TCE (ora 101 e 102 TFUE). L’art. 16, par. 1, del Regolamento CE n. 1/2003 prevede che le corti nazionali (ordinarie e amministrative), quando siano chiamate a pronunciarsi in ordine alla violazione degli artt. 81 e 82 TCE (ora 101 e 102 TFUE), per le quali in precedenza sia intervenuta una decisione della Commissione europea, non possano emettere una sentenza in contrasto con quella decisione. La disposizione, poco dopo, prosegue stabilendo che i giudici nazionali «devono inoltre evitare
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decisioni in contrasto con una decisione contemplata dalla Commissione in procedimenti da essa avviati». A ciò va aggiunto l’importante considerando n. 22 del Regolamento CE n. 1/2003, dove il Consiglio europeo si sofferma sulla rilevanza che hanno gli effetti delle decisioni e dei procedimenti della Commissione sulle giurisdizioni e sulle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri, onde garantire il rispetto dei principi della certezza del diritto e dell’applicazione uniforme delle regole di concorrenza comunitarie in un sistema di competenze parallele come quello vigente, ciò anche al fine di evitare conflitti fra le decisioni dei vari organi. In quest’ordine di idee va fatta rientrare la proposta di direttiva7 avanzata in sede di politica del diritto da parte della Commissione europea, originatasi dapprima dalla comunicazione COM (2005) 672 inerente il Libro verde8 e poi dalla comunicazione COM (2008) 165 con cui è stato invece redatto il Libro bianco in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust9, che costituiscono senza dubbio un’altra importante tappa nel processo evolutivo della legislazione europea in materia di private antitrust enforcement. In questa prospettiva, particolare rilievo rivestono nel Libro bianco i propositi della Commissione nella parte in cui essa afferma che non vi è «alcuna ragione per cui una decisione definitiva adottata ai sensi dell’articolo 81 o 82 [ora artt. 101 e 102 TFUE] da un’autorità nazionale della rete europea della concorrenza (ECN) e una sentenza definitiva emessa da una corte d’appello, che conferma la decisione dell’autorità nazionale o che constata essa stessa un’infrazione, non debbano essere accettate in ogni Stato membro come prova inconfutabile dell’infrazione in successive cause civili per il risarcimento dei danni antitrust». Nel documento in parola la Commissione europea sottolinea i benefici che, de jure condendo, si avrebbero nell’ambito del private enforcement dall’emanazione di una norma che stabilisca un effetto vincolante, in sede di rito civile risarcitorio, dei provvedimenti di constatazione delle violazioni antitrust, divenute definitive, adottate dalle autorità nazionali di concorrenza o dalle giurisdizioni di ricorso. Tra questi benefici particolare enfasi è posta proprio sui profili di «efficacia e di efficienza procedurale» che tale norma «accrescerebbe significativamente» con riguardo alle «azioni per il risarcimento
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Proposta di Direttiva 2013/0185 (COD) dell’11 giugno 2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a determinate norme che regolamentano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi della legislazione nazionale a seguito della violazione delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea. Libro verde della Commissione europea su Azioni di risarcimento del danno per violazione di norme antitrust. Su tale documento si v. S. Bastianon, Il risarcimento del danno antitrust tra esigenze di giustizia e problemi di efficienza, in Mercato Concorrenza Regole, 2006, p. 321 ss. Si v. Libro bianco, punto 2.3. rubricato «Effetto vincolante delle decisioni delle autorità nazionali di concorrenza. Sui profili che riguardano da vicino la sindacabilità in punto di fatto delle decisioni agcm si v. S. Bariatti, L.R. Perfetti, Prime osservazioni sulle previsioni del “Libro Bianco in materia di azioni per il risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust” della Commissione e del Codice del Consumo quanto alle relazioni tra procedimenti antitrust e giurisdizione, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2008, p. 1151 ss.
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dei danni causati da violazioni delle norme antitrust», profili che, come visto, sono stati richiamati nelle premesse alla direttiva 2014/104/UE10. Appare chiaro come tali ultime considerazioni della Commissione non siano rimaste solo un flatus vocis, ma abbiano trovato dignità giuridica nelle recenti riforme promosse dall’Unione. Il che è senza dubbio evidente nell’ordinamento europeo, dove con l’art. 9 della direttiva 2014/104/UE il legislatore comunitario prescrive che gli Stati membri stabiliscano quando una violazione del diritto della concorrenza, constatata da una decisione definitiva dell’autorità nazionale garante della concorrenza o del giudice del ricorso, sia da intendersi definitivamente accertata ai fini della proponibilità dell’azione per il risarcimento del danno dinanzi al giudice ordinario, così pure come nell’ordinamento italiano ciò è ora previsto dal d.lgs. n. 3/2017, che di quella direttiva è il frutto, e dove all’art. 7 viene precisato che una violazione del diritto alla concorrenza debba intendersi definitivamente accertata quando la constatazione dell’autorità amministrativa non può essere più sottoposta ad impugnazione davanti al giudice amministrativo o quando è intervenuta una sentenza passata in giudicato dello stesso giudice senza che questi abbia annullato quella decisione.
2. La cognizione piena sui fatti e sui profili tecnici come elemento essenziale della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo.
2.1. L’estensione del problema sui limiti della giurisdizione alla persona. Nelle pagine che seguono, attraverso l’elaborazione dei concetti di processo e di sindacato a partire dall’esame del dato positivo europeo e italiano (cfr. sub par. 2.2.) e della giurisprudenza di un’autorevole corrente della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Corte edu) sulla disciplina della full jurisdiction (cfr. sub par. 2.3), scopo della ricerca sarà anzitutto quello di dimostrare come la cognizione autonoma dei fatti e dei profili tecnici costituisca tratto essenziale dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Non pare superfluo, d’altra parte, anticipare come dalla corretta ricostruzione dei concetti di processo e di sindacato dipendano in misura rilevante le possibilità di tutela che i soggetti
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Cfr. Libro bianco, punto 2.3. D’altra parte, osserva la Commissione, «se i convenuti possono mettere in dubbio la violazione degli articoli 81 o 82 [ora 101 e 102 TFUE] stabilita in una decisione di un’autorità nazionale per la concorrenza ed eventualmente confermata da una corte d’appello, i giudici dinanzi ai quali venga intentata un’azione per danni dovranno riesaminare i fatti e gli aspetti giuridici già oggetto di indagine e valutazione da parte di un’autorità pubblica specializzata (e da una corte d’appello). Simile evenienza, osserva ancora la Commissione, determinerebbe «considerevoli costi aggiuntivi, nonché una durata ed un’imponderabilità notevoli per l’azione di risarcimento danni intentata dalle vittime».
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giuridici (persone e imprese) hanno in relazione all’esercizio dei pubblici poteri, anche di quelli propri dell’autorità antitrust11. Per far ciò è il momento di guardare a tale questione da un punto di vista teorico. Non è escluso in effetti che il problema della pienezza della giurisdizione amministrativa sia principalmente un problema di ordine teorico e culturale, vale a dire di definizione del contenuto degli elementi di analisi e delle prospettive interpretative dalle quali si muove. Nell’intento di offrire una soluzione speculativa adeguata alla questione, còmpito del giurista positivo è senz’altro quello di avviare l’indagine dalle norme di diritto rilevanti. E ciò in vista di confutare, attraverso l’interpretazione del dato positivo, quelle tesi che, nell’àmbito delle vicende oggetto delle statuizioni dell’agcm, restringono il sindacato del giudice amministrativo, limitando non marginalmente la protezione dei diritti della persona in relazione all’esercizio del potere di quella autorità. In relazione a quest’ultima conseguenza, vale a dire alla limitazione della protezione dei diritti per la persona, appare chiaro che ad essere direttamente interessate dalle decisioni con cui l’agcm accerta un illecito antitrust, come l’abuso di posizione dominante o l’intesa restrittiva della concorrenza, siano essenzialmente le imprese. Ora, è evidente che la giurisdizione piena del giudice amministrativo sia pensata per la protezione dei diritti di tutti i soggetti giuridici e, quindi, tanto per la tutela delle persone quanto per la tutela delle imprese12. Dal momento che il tema oggetto di analisi riguarda la protezione dei diritti fondamentali della persona (del soggetto) in un caso in cui il soggetto è l’impresa, è importante anticipare – giacché non è indifferente per la tesi che si sostiene e su cui ci si intratterrà specialmente nella parte conclusiva del lavoro (cfr. sub par. 4) – come l’attenuazione della protezione in quel caso non è senza effetti rispetto ad un indebolimento
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Il problema della sindacabilità degli atti delle autorità amministrative è particolarmente avvertito nella dottrina nordamericana più e meno recente. In tal senso cfr. D.P. Currie, F.I. Goodman, Judicial Review of Federal Administrative Action: Quest for the Optimum Forum, in Colum. L. Rev., 1975, 75, pp. 62-85; C.H. Koch, Judicial Review of Administrative Discretion, in Geo. Wash. L. Rev., 54, 1986, pp. 485-487; P.L. Strauss, One Hundred Fifty Cases per Year: Some Implications of the Supreme Court’s Limited Resources for Judicial Review of Agency Action, in Colum. L. Rev., 87, 1987, pp. 1121-1122; K.W. Starr, C.R. Sunstein, R. Willard, R. Levin, Judicial Review of Administrative Action in a Conservative Era, in Admin. Law Rev., 1987; S.W. Merrill, Judicial Deference to Executive Precedent, in Yale L. J., 101, 1992, pp. 998-999; L.R. Cohen, M.L. Spitzer, Judicial Deference to Agency Action: A Rational Choice Theory and Empirical Test, in South. Cal. L. Rev., 69, 1996, p. 431 ss.; J.F. Manning, Constitutional Structure and Judicial Deference to Agency Interpretations of Agency Rules, in Colum. L. Rev., 96, 1996, pp. 617-619 and pp. 631-680; A. Bhagwat, Separate But Equal?: The Supreme Court, the Lower Federal Courts, and the Nature of the “Judicial Power”, in B.U. L. Rev., 80, 2000, pp. 992-1015 (2000); H.T. Edwards, The Effects of Collegiality on Judicial Decision Making, in U. Pa. L. Rev., 151, 2003, p. 1639; M.C. Stephenson, Mixed Signals: Reconsidering the Political Economy of Judicial Deference to Administrative Agencies, in Admin. L. Rev., 56, 2004, pp. 659-660; T.J. Miles, C.R. Sunstein, Do Judges Make Regulatory Policy? An Empirical Investigation of Chevron, in U. Chi. L. Rev., 73, 2006, p. 823; M.C. Stephenson, Legislative Allocation of Delegated Power: Uncertainty, Risk, and the Choice Between Agencies and Courts, in Harv. L. Rev., 119, 2006, pp. 1042-1049; R.J. Pierce, What Do the Studies of Judicial Review of Agency Actions Mean?, in Admin. L. Rev., 63, 2011, p. 77; J.J. Czarnezki, An Empirical Investigation of Judicial Decision making, Statutory Interpretation, and the Chevron Doctrine in Environmental Law, in U. Colo. L. Rev., 79, 2008, pp. 793-795; S. Kumar, Expert Court, Expert Agency, in U.C. Davis L. Rev., 44, 2011, p. 1547; S.A. Shapiro, R. Murphy, Politicized Judicial Review in Administrative Law: Three Improbable Responses, in Geo. Mason L. Rev., 19, 2012, pp. 355-361; B. Miller, B. Curry, Experts Judging Experts: The Role of Expertise in Reviewing Agency Decision Making, in L. & Soc. Inquiry, 38, 2013, p. 55 ss.; J.D. Wright, A.M. Diveley, Do Expert Agencies Outperform Generalist Judges? Some Preliminary Evidence from the Federal Trade Commission, in J. Antitrust Enforcement, 1, 2013, p. 82 ss. 12 Cfr. F. Francario e M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa in ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
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anche per la persona, dal momento che la diminuzione delle garanzie dei diritti avviene attraverso categorie generali, vale a dire mediante i limiti della giurisdizione del giudice amministrativo.
2.2. L’elaborazione dei concetti processo e di sindacato nel diritto europeo e italiano.
Appare utile, in ragione del risultato da raggiungere, mettere sùbito sul tavolo i dati normativi a disposizione per poi, in un secondo momento, analizzarli nella sede dello scritto più appropriata. Un criterio di ordine sistematico suggerisce di cominciare dai dati positivi offerti dal diritto comunitario vigente. Nel panorama europeo le principali norme che disciplinano l’istituto del processo e del sindacato giurisdizionale, e che maggiormente rilevano ai fini dell’indagine, si ritrovano nelle disposizioni di cui agli art. 6, par. 1, e 13 della Convenzione dei diritti dell’uomo13 (d’ora in poi cedu) ed in quelle di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (d’ora in poi cdfue). Partendo dall’esame di quest’ultima norma può notarsi come essa stabilisca, in modo inequivoco, il diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo ed a un giudice imparziale. In dettaglio, l’art. 47 cdfue prevede che ogni soggetto «i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati» debba aver accesso «a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice». La norma, a tal fine, dispone che la causa sia «esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole» e si svolga dinnanzi ad un «giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge» e che, in vista di ciò, ogni soggetto possa «farsi consigliare, difendere e rappresentare». In questi termini, per quanto concerne le disposizioni della cedu, si pone anche l’art. 13, il quale è significativamente rubricato «diritto ad un ricorso effettivo». Tale norma, in particolare, dispone che il soggetto i cui diritti e le cui libertà siano stati violati abbia «diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale» e ciò – sottolinea la disposizione – «anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali». Significativa è poi la disposizione di cui all’art. 6, par. 1, della cedu sul «diritto a un equo processo», che, sulla stessa lunghezza d’onda delle due precedenti norme, stabilisce il diritto «a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un ter-
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Sulla rilevanza della cedu per il diritto amministrativo italiano, si v. C.E. Gallo, La Convenzione europea per i diritti dell’uomo nella giurisprudenza dei giudici amministrativi, in Dir. amm., 1996, p. 499 ss.; G. Greco, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto amministrativo in Italia, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2000, p. 25 ss.; A. Travi, L’influenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sull’evoluzione del controllo giurisdizionale, in AIPDA, Il diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Annuario 2007, Napoli, 2008, p. 291 ss.; S. Mirate, Giustizia amministrativa e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’« altro » diritto europeo in Italia, Francia e Inghilterra, Napoli, 2007; F. Manganaro, Il potere amministrativo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. proc. amm., 2010, p. 428 ss.; M. Allena, L’art. 6 cedu come parametro di effettività della tutela procedimentale e giudiziale all’interno degli stati membri dell’unione europea, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2012, p. 267 ss.
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mine ragionevole». Esame della causa – sottolinea la norma – che deve essere sottoposto necessariamente ad «un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge» che «sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti». Nell’ordinamento italiano i dati di diritto positivo inerenti al concetto di processo e di sindacato sono agevolmente ricavabili dalla lettura coordinata delle disposizioni di matrice costituzionale di cui agli artt. 24, 111 e 113. In particolare, la fondamentale norma di cui all’art. 24 Cost. stabilisce la regola di diritto secondo cui «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». L’art. 111 Cost., per parte sua, sancisce il canone del «giusto processo regolato dalla legge» e fissa il precetto in base al quale «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»14. Infine, la disposizione di cui all’art. 113 statuisce la regola in virtù della quale «è sempre ammessa la tutela dei diritti e degli interessi legittimi» avverso «gli atti della pubblica amministrazione». Si può osservare come dall’esame delle disposizioni comunitarie e italiane rammentate siano agevolmente individuabili alcune coordinate normative di sistema utili per la ricostruzione dei concetti di processo e di sindacato propri della giurisdizione del giudice amministrativo. Nell’ambito delle disposizioni del diritto europeo ciò avviene particolarmente per l’argomento del giudizio effettivo come si evince dall’art. 6, par. 1, cedu, dove è detto che la «causa» deve essere esaminata «equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole»; dall’art. 13 cedu, dove è prescritto il «diritto a un ricorso effettivo»; dall’art. 47 cdfue, dove è rimarcato che tutti hanno «diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice […] indipendente e imparziale, precostituito per legge». Allo stesso modo ciò avviene nell’ambito delle disposizioni del diritto italiano, dove il giudizio effettivo è contemplato, rispettivamente, all’art. 24 Cost («tutti possono agire in giudizio»), all’art. 111 Cost., («la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge») e all’art. 113 («contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale»). Basterebbe il riferimento all’art. 24 Cost.15 per dire che
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Sul principio del giusto processo, tra molti, si v. V. Caianiello, Riflessioni sull’art. 111 Costituzione, in Riv. dir. proc., 2001, p. 42 ss.; L.P. Comoglio, Le garanzie fondamentali del giusto processo, in Nuova giur. civ. comm., 2001, p. 1 ss.; S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo. Studio sull’effettività della tutela giurisdizionale nella prospettiva europea, Milano, 2004; Id., voce Giusto processo (dir. proc. amm.), in Enc. dir., Annali, vol. II, p. 377 ss.; P. Ferrua, Il giusto processo, II ed., Bologna, 2007, p. 91 ss.; M. Mengozzi, Giusto processo e processo amministrativo. Profili costituzionali, Milano, 2009; F. Merusi, Sul giusto processo amministrativo, in E. Catelani, A. Fioritto, A. Massera (a cura di), La riforma del processo amministrativo. La fine dell’ingiustizia amministrativa?, Napoli, 2011, p. 2 ss.; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2013, p. 101 ss. Sulle relazioni fra l’art. 111 Cost. e l’art. 6, paragrafo 1 cedu, si v. G. Spadea, Il giusto processo amministrativo secondo l’art. 6 della CEDU e con cenni al caso italiano, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2000, p. 369 ss.; V. Dominichelli, La parità delle parti nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2001, p. 859; L.P. Comoglio, Il « giusto processo » civile nella dimensione comparatistica, in Etica e tecnica del «giusto processo», Torino, 2004, p. 225 ss.; S. Cassese, A Global Due Process of Law?, in G. Anthony et al. (eds.), Values in Global Administrative Law, Oxford, 2011, p. 17 ss. 15 Su cui cfr. B. Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983; Id., Interesse ad agire, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; L.R. Perfetti, Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004. Per ulteriori riferimenti cfr. sub nota 62.
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l’effettività della tutela – da intendere come capacità del processo di assicurare l’accesso al bene della vita per come protetto dal diritto sostanziale – sia già contenuto nel diritto fondamentale di agire in giudizio «per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». Come si può evincere tali coordinate normative conferiscono una certa fisionomia ai concetti di processo e di sindacato. Fisionomia che, come si può intuire, si pone non poco in controtendenza rispetto all’affermarsi odierno di letture notevolmente limitative dei poteri giurisdizionali del giudice amministrativo dinnanzi agli atti delle autorità indipendenti. Ciò vale a maggior ragione per quei poteri che consentono al giudice di accedere pienamente ai fatti della causa e di sindacarne nel merito la ricostruzione, anche dal punto di vista della valutazione tecnico-scientifica16, offerta dall’agcm. È vero invece che la fisionomia dei concetti di processo e di sindacato, emergente dalle coordinate normative poste, fa cogliere come la cognizione piena dei fatti e dei profili tecnici costituisca tratto essenziale dell’esercizio della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo. Che le cose stiano in questo modo è confermato non solo dal dato positivo, ma anche da una parte significativa della giurisprudenza della Corte edu.
2.3. La giurisprudenza della Corte edu sulla full jurisdiction. Un autorevole indirizzo della Corte edu ha affermato in più occasioni che, nella prospettiva della c.d. full jurisdiction, il giudice debba conoscere e sindacare tutte le questioni di fatto e di diritto rilevanti per la soluzione della causa17. In tal senso, secondo quest’indirizzo della Corte di Strasburgo, non si può parlare di pienezza della giurisdizione a fronte di un giudice che ritiene di non avere il potere di verificare la decisione dell’amministrazione in relazione alle circostanze fattuali ed ai profili tecnici della vicenda posta alla sua cognizione18. Si tratta, a dire della stessa Corte, di un giudice cui mancherebbe la fondamentale garanzia dell’indipendenza come invece richiesto dal diritto convenzionale europeo e che, in quanto tale, sarebbe sprovvisto del potere di verificare la decisione dell’amministrazione in ordine agli aspetti fattuali e tecnici della causa. In quest’ottica, si è affermato in modo netto «that only an institution that has full jurisdiction and satisfies a number of requirements, such as independence of the executive and
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Già in passato si v. la fondamentale opera di M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1976. In tal senso già in passato cfr. Corte edu, Albert and Le Compte v. Belgium, 28 gennaio 1983, casi n. 7299/75 e n. 7496/76, § 29; Corte edu, Terra Woningen B.V. v. the Netherlands, 17 dicembre 1996, caso n. 1996-VI, § 52; Corte edu, Tinnelly and Sons ltd and others and McElduff and others v. the United Kingdom, 10 luglio 1998, casi n. 20390/92 e n. 21322/92, § 48. Recentemente cfr. Corte edu, Haralambi Borisov ANCHEV v. Bulgaria, casi n. 38334/08 e n. 68242/16, 11 gennaio 2018, dove è detto come «one of the requirements flowing from Article 6 § 1 of the Convention is that a “tribunal” which determines “civil rights and obligations” must be able to examine all questions of fact and law which are relevant to the case». Nello stesso senso si v. Corte edu, Capital Bank AD v. Bulgaria, 24 novembre 2005, caso n. 49429/99, § 98; Corte Edu, I.D. v. Bulgaria, 28 aprile 2005, caso n. 43578/98, § 45; Corte edu, Družstevní záložna Pria and Others v. the Czech Republic, 31 luglio 2008, caso n. 72034/01, § 107; Corte edu, Družstevní Záložna Pria and Others v. the Czech Republic, 31 luglio 2008, caso n. 72034/01, § 111; Corte edu, Putter v. Bulgaria, 2 dicembre 2010, caso n. 38780/02, § 47; Corte edu, Fazliyski v. Bulgaria, 16 luglio 2013, caso n. 40908/05. 18 Corte edu, Tsfayo v. the United Kingdom, 14 novembre 2006, caso n. 60860/00, §§ 40 ss. 17
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also of the parties, merits the designation “tribunal” within the meaning of Article 6 § 1»19. Si è osservato pure come la giurisdizione del giudice amministrativo possa definirsi in linea con il dettato dell’art. 6, par. 1, cedu solo «if the proceedings before that body are subject to subsequent control by a judicial body that has “full” jurisdiction»20. È anche quest’ultimo aspetto – il controllo pieno di fatti e profili tecnici – che, sempre secondo la Corte edu21, caratterizza il concetto di full jurisdiction. Sul tema l’analisi di una significativa parte della giurisprudenza dalla Corte edu rivela inoltre come il tribunale amministrativo, per considerarsi organo di giurisdizione piena, debba sempre poter sindacare la ricostruzione dei fatti e dei profili tecnici compiuta dall’autorità. Non è inutile, in tal senso, osservare che «for the determination of civil rights and obligations by a “tribunal” to satisfy Article 6 § 1, the “tribunal” in question must have jurisdiction to examine all questions of fact and law relevant to the dispute»22. L’indirizzo della Corte edu sull’argomento dell’intensità del sindacato è significativo e dimostra come non vi debbano essere ostacoli di sorta che impediscano la piena giurisdizione del giudice su tutti i punti, di fatto e di diritto, riguardanti la controversia posta alla sua cognizione. In quest’ordine di idee si inseriscono quelle pronunce in materia di valutazioni tecniche complesse dove si è affermato che il provvedimento amministrativo, sebbene si basi su di un concetto indeterminato, ciò non esime il giudice amministrativo di sindacare tale valutazione al fine di offrire una diversa interpretazione dei fatti e dei profili tecnici posti alla base della decisione amministrativa assunta dall’autorità23. Proprio in relazione alla sindacabilità delle valutazioni tecniche di natura complessa, i giudici di Strasburgo hanno stabilito che nei casi in cui «the full jurisdiction is contested proceedings might still satisfy requirements of Article 6 § 1 of the Convention if the court deciding on the matter considered all applicant’s submissions on their merits, point by point, without ever having to decline jurisdiction in replying to them or ascertaining facts»24.
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Corte edu, Chevrol v. France, 13 febbraio 2003, caso n. 49636/99, § 76; Corte edu, Tsfayo v. the United Kingdom, cit., § 40; Corte edu, Ringeisen v. Austria, 16 luglio 1971, caso n. 13, § 95; Corte edu, Le Compte, Van Leuven and De Meyere v. Belgium, 23 giugno 1981, caso n. 6878/75 e n. 7238/75, § 55; Corte edu, Belilos v. Switzerland, 29 aprile 1988, caso n. 132, § 64; Corte edu, Beaumartin. v. France, 24 novembre 1994, caso n. 296-B, §§ 38-39. 20 Corte edu, Steininger v. Austria, 17 aprile 2012, caso n. 21539/07, § 49 dove è aggiunto che il requisito della full jurisdiction «will be satisfied where it is found that the judicial body in question has exercised “sufficient jurisdiction” or provided “sufficient review” in the proceedings before it». In senso analogo cfr. Corte edu, Sigma Radio Television Ltd v. Cyprus, 21 luglio 2011, casi n. 32181/04 e n. 35122/05, §§ 151-152. 21 Corte edu, Sigma Radio Television Ltd. v. Cyprus, cit., § 157. 22 Corte edu, Chevrol v. France, cit., § 77; In senso analogo, mutatis mutandis, cfr. Corte edu, Le Compte, Van Leuven and De Meyere, cit., § 51 (b); Corte edu Fischer v. Austria, 26 aprile 1995, caso n. 312, § 29; Corte edu Terra Woningen B.V. v. the Netherlands, caso 17 dicembre 1996, § 52. 23 In tal senso cfr. Corte edu, Capital Bank AD v. Bulgaria, 24 novembre 2005, caso n. 49429/99, § 113 dove è detto che «the difficulties encountered in this respect could also be overcome through the provision of a right of appeal against the BNB’s decision to an adjudicatory body other than a traditional court integrated within the standard judicial machinery of the country, but which otherwise fully complies with all the requirements of Article 6 § 1, or whose decision is subject to review by a judicial body with full jurisdiction which itself provides the safeguards required by that provision». Nello stesso senso cfr. Corte edu, Langborger v. Sweden, 22 giugno 1989, caso n. 155; Corte edu, McMichael v. the United Kingdom, 24 febbraio 1995, caso n. 307-B; Corte edu, Bryan v. the United Kingdom, 22 novembre 1995, caso n. 335-A; Corte edu, AB Kurt Kellermann v. Sweden, n. 41579/98, 26 ottobre 2004. 24 Corte edu, Družstevní záložna Pria and Others v. the Czech Republic, 31 luglio 2008, caso n. 72034/01, § 111. Negli stessi termini cfr.
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Si tratta, dunque, di uno scrutinio particolarmente intenso che si estende alla verifica delle valutazioni tecniche compiute dall’autorità nella sua decisione, la quale deve essere quindi sindacata point by point dal giudice ammnistrativo. Pena un evidente diniego di giustizia che si concreta, sempre secondo la Corte edu, in una «violation of the right to access to a court» laddove un soggetto «could not challenge before a court an assessment of facts in a decision adopted by an administrative authority», e ciò quand’anche tale autorità agisce «within its discretionary power»25. Nella prospettiva della full jurisdiction, parte significativa della giurisprudenza della Corte edu ha ravvisato che non si potrà parlare di giurisdizione piena laddove il giudice non possa sindacare «the merits of the case» o non possa compiere «review of the facts»26, mediante un sindacato di tipo sostitutivo. A tale scopo, si è precisato che non basta determinare se il potere discrezionale di cui godono le autorità amministrative27 «has been used in a manner compatible with the object and purpose of the law»28, ma occorre che il sindacato del giudice amministrativo si spinga «in order to verify whether grounds in fact existed»29, di modo che questi «should have full jurisdiction to review the facts»30. Sicché ove il giudice «did not have jurisdiction to rehear the evidence or substitute its own views»31 in relazione alle valutazioni tecniche ed ai fatti della causa, la full jurisdiction non può dirsi realizzata, giacché a mancare in uno stato di diritto sarà una giurisdizione amministrativa realmente efficace ed effettiva. Sulla disciplina della full jurisdiction particolarmente rilevante è la nota sentenza resa dalla Corte di Strasburgo sul caso Menarini32. Sulla vicenda, riguardante l’accertamento da parte dell’agcm di pratiche anticoncorrenziali nel mercato dei test per la diagnosi del diabete da parte della nota società farmaceutica italiana, la Corte edu ha stabilito alcuni punti fermi in materia di giurisdizione piena del giudice amministrativo. In primo luogo, si è ribadito che solo ad «un organe jouissant de la plénitude de juridiction et répondant à une série d’exigences telles que l’indépendance à l’égard de l’exécutif comme des parties en cause» spetti «l’appellation de “tribunal” au sens de l’article 6 § 1»33. In secondo luogo, si è
Corte edu, Zumtobel v. Austria, 21 settembre 1993, caso n. 268-A, § 31-32; Corte edu Fischer v. Austria, cit., § 34 Corte edu, Družstevní záložna Pria and Others v. the Czech Republic, cit., § 111. Sul punto si v. anche Corte edu, Tinnelly & Sons Ltd and Others and McElduff and Others v. the United Kingdom, 10 luglio 1998, caso n, 1998-IV, § 74. 26 Corte edu, Albert and Le Compte v. Belgium, cit., § 36, dove i giudici di Strasburgo si sono espressi sui limiti del giudizio di cassazione, rilevando appunto come «the public character of the cassation proceedings does not suffice to remedy the defect found to exist at the stage of the disciplinary proceedings». In senso analogo cfr. Corte edu, Le Compte, Van Leuven and De Meyere, cit., § 60, dove è ribadito come «the public character of the proceedings before the Belgian Court of Cassation cannot suffice to remedy this defect. In fact, the Court of Cassation “shall not take cognisance of the merits of cases” (Article 95 of the Constitution and Article 23 of Royal Decree no. 79)». 27 Corte edu, Družstevní Záložna Pria and Others v. the Czech Republic, cit., § 111, secondo la quale la full jurisdiction non può dirsi realizzata quando il giudice amministrativo si sia limitato a verificare se l’amministrazione non abbia agito oltre il suo potere discrezionale. 28 Corte edu, Obermeier v. Austria, 28 giugno 1990, caso n. 11761/85, § 70. 29 Corte edu, Tsfayo v. the United Kingdom, cit., § 47. 30 Corte edu, Tsfayo v. the United Kingdom, cit., § 31. 31 Corte edu, Tsfayo v. the United Kingdom, cit., § 47. 32 Corte edu, A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia, 27 settembre 2011, caso n. 43509/2008. 33 Corte edu, A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia, cit., § 61. In modo non dissimile si v. soprattutto Corte edu, Beaumartin c. France, 24 novembre 1994, caso n. 15287/89, §§ 38-39; ma anche cfr. Corte edu, Ringeisen c. Autriche, 16 luglio 1971, caso n. 2614/65, § 95; 25
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affermato che per essere effettivamente organo «de la plénitude de juridiction» il giudice amministrativo deve esercitare il potere sindacatorio «sur les différentes allégations de fait et de droit»34 sottoposte alla sua cognizione, non potendosi altresì limitare «à un simple contrôle de légalité»35. Più in dettaglio, secondo la Corte, il giudice amministrativo deve: i) «vérifier si, par rapport aux circonstances particulières de l’affaire l’agcm avait fait un usage approprié de ses pouvoirs»; ii) «examiner le bien-fondé [il merito] et la proportionnalité des choix de l’agcm»; iii) «vérifier ses évaluations d’ordre technique»36. In ragione di siffatti poteri, così come configurati nel caso Menarini, la Corte edu ha affermato che il sindacato del giudice amministrativo sulle decisioni dell’autorità antitrust «en allant au delà d’un contrôle “externe” sur la cohérence logique de la motivation de l’agcm»37, precisando che «parmi les caractéristiques d’un organe judiciaire de pleine juridiction figure le pouvoir de réformer en tous points en fait comme en droit, la décision entreprise»38. In quest’ordine di idee non appare difficile evidenziare come in Italia il recente indirizzo assunto dalle corti amministrative39 con riguardo ai limiti che il giudice incontrerebbe nel sindacare pienamente i fatti e le valutazioni tecniche rese dall’agcm nelle sue decisioni si ponga in evidente contrasto con una parte autorevole della giurisprudenza della Corte edu in materia di full jurisdiction. Vero è che simile indirizzo della Corte edu, unitamente al dato positivo del diritto europeo e di quello italiano, fanno cogliere come il sindacato pieno su fatti e profili tecnici sia invece elemento basilare della giurisdizione amministrativa. Se ciò è vero, e quindi il controllo sulla discrezionalità tecnica40 costituisce tratto essenziale
Corte edu, Belilos c. Suisse, 29 aprile 1988, caso n. 10328/83, § 64. Corte edu, A. Menarini Diagnosticts s.r.l. c. Italia, cit., § 63. 35 Corte edu, A. Menarini Diagnosticts s.r.l. c. Italia, cit., § 64. 36 Corte edu, A. Menarini Diagnosticts s.r.l. c. Italia, cit., § 64. 37 Corte edu, A. Menarini Diagnosticts s.r.l. c. Italia, cit., § 66. 38 Corte edu, A. Menarini Diagnosticts s.r.l. c. Italia, cit., § 59, dove è aggiunto che «la décision d’une autorité administrative ne remplissant pas elle-même les conditions de l’article 6 § 1 subisse le contrôle ultérieur d’un organe judiciaire de pleine juridiction». In senso analogo si v. Corte edu, Schmautzer, Umlauft, Gradinger, Pramstaller, Palaoro et Pfarrmeier c. Autriche, 23 ottobre 1995, caso n. 15523/89, n. 15527/89, n. 15963/90, n. 16718/90, rispettivamente §§ 34, 37, 42 e 39, 41 e 38. 39 In questa prospettiva, fra molte, si vedano almeno le seguenti sentenze: Cons. di Stato, sez. VI., 19 febbraio 2019, n. 1160; Cons. di Stato 12 ottobre 2017, n. 4733 in Il foro amm., 10, 2017, p. 2027-2028; Cons. di Stato, sez. VI, 24 ottobre 2014, n. 5274, in Il foro amm., 10, 2014, p. 2581; Cons. di Stato, sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 896; in Foro amm. CdS, 2, 2011, p. 562; Tar, Lazio, Roma, sez. I, 2 dicembre 2009, n. 12313, in Foro amm. Tar, 12, 2009, p. 3467; Cons. di Stato, sez. VI, 3 aprile 2009, n. 2092, in Rass. dir. farm., 4, 2009, p. 767; Tar Lazio, Roma, sez. I, 7 aprile 2008, n. 2900, in Foro amm. Tar, 4, 2008, p. 1018; Tar Lazio, Roma, sez. I, 8 maggio 2007, n. 4123, in Foro amm. Tar, 5, 2007, p. 1642; Tar Lazio, Roma, sez. I, 29 luglio 2016, n. 8801; Tar Lazio, Roma, sez. I, 10 novembre 2015, n. 12708; Tar Lazio, Roma, sez. I, 31 gennaio 2015, n. 372; Tar Lazio, Roma, sez. I, 8 maggio 2014, n. 4801. Meno recentemente cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I, 10 maggio 2010, n. 10571, in Foro amm. Tar, 5, 2010, p. 1679; Tar Lazio, Roma, sez. I, 2 dicembre 2009, n. 12312; in Foro amm. Tar, 12, 2009, p. 3467; Tar Lazio, Roma, sez. I, 7 aprile 2008, n. 2900, in Foro amm. Tar, 4, 2008, p. 1018; Tar Lazio, Roma, sez. I, 8 maggio 2007, n. 4123, in Foro amm. Tar, 5, 2007, p. 1642. 40 Non vi è dubbio che il tema dell’intensità di sindacato del giudice amministrativo in punto di pienezza di tutela si intersechi con quello della discrezionalità tecnica e del suo controllo in sede giudiziale. Non è questa la sede per approfondire un argomento così complesso. Sicché è doveroso rinviare alla dottrina (per lo più contemporanea) che se ne occupata. In tal senso si v. F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Dir. proc. amm., 1983, p. 371 ss.; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; G. Parodi, Tecnica, ragione e logica nella giurisprudenza amministrativa, Torino, 1990; D. De Pretis, Valutazioni amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; L.R. Perfetti, Il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, in Foro amm., 1997, p. 1742 ss.; F. Liguori, Attività liberalizzate e compiti dell’amministrazione, Napoli, 1999; P. Lazzara, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001; D. Mastrangelo, La tecnica nell’amministrazione fra discrezionalità 34
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dell’esercizio della funzione giurisdizionale, lo è nella misura in cui si può effettivamente affermare la necessità di un sindacato pieno da parte del giudice amministrativo, nel senso di prevedere la possibilità che il potere giudiziale si spinga sino a sostituire la decisione del giudice con quella dell’amministrazione. A questo scopo nelle pagine che seguono, una volta riannodate le fila del discorso e ripreso per sommi capi il fulcro del problema, si soffermerà l’attenzione sull’art. 6, par. 1, della cedu e sull’art. 24 della Costituzione italiana e in base all’ipotesi che solo da una corretta interpretazione della disciplina di tali norme possa derivare una sindacabilità piena delle decisioni dell’autorità antitrust, anche in ordine alla ricostruzione dei fatti e dei profili tecnici, da parte del giudice amministrativo. Nella parte conclusiva (cfr. sub par. 4), nella prospettiva della full jurisdiction si avanzerà la tesi del sindacato sostitutivo del giudice amministrativo sulle decisioni dell’autorità antitrust a partire da una diversa concezione della natura e della funzione del potere pubblico come potere che, in virtù della spettanza della sovranità al popolo (art. 1 Cost.), è funzionalizzato al godimento pieno ed uguale (art. 3 Cost.) dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost.).
3. Pienezza del sindacato e giurisdizione amministrativa nel diritto europeo ed italiano.
3.1. La limitazione della giurisdizione sugli atti dell’autorità antitrust come violazione del diritto di difesa.
In apertura della trattazione si è visto come il recente recepimento della normativa europea in materia di private antitrust enforcement (dir. 2014/104/UE) da parte del legislatore italiano (d.lgs. n. 3/2017) abbia posto un grave problema per ciò che riguarda la pienezza della giurisdizione sulle decisioni dell’autorità antitrust e, di conseguenza, un vero e proprio vulnus per la tutela dei soggetti giuridici allorché alcun giudice – civile o amministrativo – possa essere chiamato a sindacare l’accertamento dei fatti e dei profili tecnici compiuto da quell’autorità. Allo stato attuale delle cose, se la piena cognizione dei fatti e dei profili tecnici della decisione dell’autorità antitrust per il giudice civile è impedita dalla legge, appare chiaro che spetti al giudice amministrativo il sindacato di merito sulle decisioni di tale autorità,
pareri e merito, Bari, 2003; A. Travi, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubbl., 2004, p. 439 ss.; A. Giusti, Contributo allo studio di un concetto giuridico ancora indeterminato: la discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, Napoli, 2007; F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell’atto amministrativo, in Dir. amm., 2008, p. 791 ss.; G.C. Spattini, Le decisioni tecniche dell’amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 2011, p. 133 ss.
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altrimenti, in caso contrario, la conseguenza estrema sarebbe di ritenere che non vi sia alcun giudice in grado di esercitare simile sindacato. Sta qui un punto decisivo del problema. Se alcun giudice può essere invocato per chiedere che siano sindacati l’accertamento dei fatti e la ricostruzione dei profili tecnici svolti dall’autorità antitrust, ad esser violato sarà il diritto di difesa convenzionalmente (art. 6, par. 1, cedu) e costituzionalmente (art. 24 Cost.) sancito dall’ordinamento europeo ed italiano. Tale diritto è garantito sia dall’art. 6, par. 1, della cedu per ciò che riguarda l’ordinamento europeo, sia dall’art. 24 della Costituzione per ciò che riguarda l’ordinamento italiano. È a queste due norme ed alla loro disciplina che, in definitiva, si potrà fare riferimento per offrire una soluzione adeguata al problema della insindacabilità nel merito delle decisioni dell’autorità antitrust da parte del giudice amministrativo.
3.2. L’art. 6, par. 1, cedu e il principio della full jurisdiction sul merito degli atti dell’autorità antitrust per la tutela effettiva della persona.
La pienezza del sindacato del giudice amministrativo sulle decisioni dell’autorità antitrust è confermata, nell’ambito dell’ordinamento europeo e particolarmente di quello convenzionale41, dall’art. 6, par. 1, cedu42 e dalla sua applicabilità all’ordinamento italiano43. L’art. 6, par. 1, cedu è così formulato: «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa
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Su cui cfr. A. Travi, L’influenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sull’evoluzione del controllo giurisdizionale, cit., p. 291 ss. 42 Nella dottrina europea, P. Craig, The Human Right Act, Article 6 and Procedural Rights, in Publ. L., 2003, p. 753 ss.; C. Forsyth, Procedural Justice in Administrative Proceedings and art. 6(1) of European Convention on Human Rights and Fundamental Freedoms, in Cambr. L. Journ., 2003, p. 244 ss.; F.J. Rodriguez Pontón, Las articulación de las garantías administrativas y jurisdiccionales en el sistema del CEDH, Navarra, 2005; D.J. Harris, M. O’Boyle, C. Warbrich, Article 6: the Right to a Fair Trail, in Law of the European Convention on Human Rights, Oxford, 2009; J.C. Bonichot, L’application de l’article 6 § 1 de la C.E.D.H. aux autorités de régulation : la position du Conseil d’Etat, in Petites Affiches, 2000, p. 3 ss.; J.F. Brisson, Les pouvoirs de sanction des autorités de régulation et l’article 6§1 de la Convention européenne des droits de l’homme, in AJDA, 1999, p. 847 ss.; G. Polis e M.R. Staffen, Circulação de modelos jurídicos: a influência da corte europeia de direitos humanos na ideia brasileira de razoável duração do processo, in Rev. da Univ. Catòlica de Brasilia, 2017, p. 237 ss. Nella dottrina italiana si v. M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, cit., passim; F. Goisis, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e modi irrisolti, cit., p. 546 ss.; E. Follieri, Sulla possibile influenza della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo sulla giustizia amministrativa, in Dir. proc. amm., 2014, p. 685 ss.; B. Giliberti, Sulla pienezza del sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi, cit., p. 1057 ss.; C. Focarelli, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: contributo alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione, Padova, 2001; A. Carbone, Il contraddittorio procedimentale. Ordinamento nazionale e diritto europeoconvenzionale, Torino, 2016, p. 110; Id., Rapporti tra ordinamenti e rilevanza della cedu nel diritto amministrativo (a margine del problema dell’intangibilità del giudicato), in Dir. proc. amm., 2016, p. 456 ss. 43 Come noto, l’applicabilità dell’art. 6 cedu e più in generale dell’intera Convenzione nell’ordinamento italiano avviene in virtù dell’art. 117, comma 1, della Costituzione che vincola il legislatore statale al rispetto degli obblighi internazionali. Tale norma, anche per via dell’attività interpretativa delle Corte Costituzionale italiana che si è espressa in tal senso con le sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007, attribuisce alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo il ruolo di norma interposta, ponendola al di sotto della Costituzione ed al di sopra della legge ordinaria.
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penale formulata nei suoi confronti». Con tale norma, come noto, si è inteso attribuire natura para-penale alle sanzioni inflitte dalle autorità amministrative indipendenti. L’art. 6 cedu, par. 1, nella prospettiva della full jurisdiction impone che la decisione di applicare tali sanzioni, emanata a seguito di un procedimento che non soddisfi le condizioni di cui al primo paragrafo della disposizione44, sia soggetta ad un controllo a posteriori da parte di un organo giurisdizionale avente cognizione piena45. Tale approccio si basa sulla condivisibile considerazione unitaria del procedimento amministrativo e della successiva fase di controllo giurisdizionale – per come prospettata anche da una parte della dottrina italiana46 – per cui il processo innanzi al giudice amministrativo diviene sede di possibile correzione, sia pure ex post e in via eventuale, della potenziale carenza di garanzie – in primis in termini di contraddittorio47 – del momento di accertamento del fatto e di conseguente imposizione della relativa sanzione48. Una simile impostazione, che in linea teorica richiederebbe un vero e proprio ri-esercizio del potere, allo scopo di assicurare che i diritti procedimentali vengano garantiti nella fase di assunzione della decisione49, impone quantomeno che al giudice non sia sottratta la possibilità di verificare la corretta individuazione della fattispecie sanzionabile da parte dell’autorità, soprattutto quando tale individuazione coinvolga valutazioni complesse co-
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Nella dottrina italiana, per la rilevanza dell’art. 6 cedu quale norma che assicura il “giusto” procedimento si v. S. Cassese, Le basi costituzionali, in Id. (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, Milano, 2003, I, p. 173 ss., spec. pp. 239-240; G. Della Cananea, Al di là dei confini statuali. Principi generali del diritto pubblico globale, Bologna, 2009, in part. da p. 27 ss. 45 Cfr. Corte edu, A. Menarini Diagnostics c. Italia, cit., § 63. 46 Si fa riferimento a quella dottrina che ha ricostruito il procedimento alla luce delle categorie del processo. Per questa tesi si v. F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 118 ss., poi in Id., Scritti giuridici, Milano, 2006, vol. II, p. 1117 ss. La stessa idea è alla base degli scritti dove si sostiene la parità dei rapporti tra amministrazione e persona e su cui, almeno, Id., Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, p. 807, poi in Id., Scritti giuridici, vol. IV, Milano, 2006, p. 3223 ss.; nonché in quelli sull’amministrazione “oggettivata” su cui cfr. Id., L’amministrazione oggettivata: un nuovo modello, in Riv. trim. sc. amm., 1978, p. 6 ss., ora in Scritti giuridici, vol. IV, cit., p. 3467 ss. La tesi della giurisdizionalizzazione del procedimento o, se si vuole, dell’apertura del procedimento ad una dialettica tipicamente processuale è di G. Berti, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, cit., p. 779 ss.; Id., La struttura procedimentale dell’amministrazione pubblica, in Dir. soc., 1980, p. 437 ss. Lo sviluppo della tesi sulla continuità procedimento-processo – nel senso che processo e procedimento amministrativi siano entrambe procedure destinate ad assicurare la garanzia delle posizioni soggettive delle persone nel rapporto con il potere pubblico – si deve particolarmente agli studi di G. Pastori, Introduzione generale, in Id. (a cura di), La procedura amministrativa, Milano, 1965; Id., La legge generale sull’azione amministrativa, in Id., Scritti scelti (1962-1991), I, 2010, p. 249 ss.; Id., Il procedimento amministrativo tra vincoli formali e regole sostanziali, ivi, p. 361 ss.; Id., L’interesse pubblico e interessi privati fra procedimento, accordo, e auto amministrazione, ivi, (1992-2010), II, 2010, p. 523 ss. In questo solco, più recentemente, L.R. Perfetti, Funzione e còmpito nella teoria delle procedure amministrative. metateoria su procedimento e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, p. 53 ss.; M. Bellavista, Il rito sostanziale amministrativo - Parte prima: Contenuto e struttura, Padova, 2012. 47 Tale aspetto è ben presente, ad esempio, nella dottrina anglosassone. In tal senso, almeno, P. Craig, The Human Right Act, Article 6 and Procedural Rights, in Public Law, 2003, p. 753 ss. 48 Per questa tesi, nell’ambito del sindacato amministrativo sulle decisioni dell’agcm, cfr. M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, cit., passim; Id., Art. 6 CEDU: nuovi orizzonti per il diritto amministrativo nazionale, cit., passim; Id., La rilevanza dell’art. 6, par. 1, CEDU per il procedimento e il processo amministrativo, cit., p. 569 ss.; F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, cit., passim; Id., Verso una nuova nozione di sanzione amministrativa in senso stretto: il contributo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 337 ss.; Id., Un’analisi critica delle tutele procedimentali e giurisdizionali avverso la potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, alla luce dei principi dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 669 ss. 49 Cfr. Corte edu, Kyprianou v. Cyprus, 27 gennaio 2004, caso 73797/01, § 44.
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me accade sovente nella normativa antitrust con riguardo all’identificazione del mercato rilevante50. Nell’ambito della full jurisdiction sulle decisioni dell’autorità antitrust, la disciplina dell’art. 6, par. 1, cedu, come visto a proposito della ricostruzione dei concetti di processo e di sindacato offerta da una significativa parte della giurisprudenza della Corte edu51 (cfr. supra par. 2.3), rappresenta senz’altro uno snodo fondamentale per l’elaborazione della giurisdizione del giudice amministrativo sulle decisioni dell’autorità antitrust in termini di pienezza della tutela delle posizioni soggettive variamente incise dall’esercizio dei pubblici poteri. In linea generale, si può interpretare l’art. 6, par. 1, cedu nel senso di garantire un effettivo controllo giudiziale da parte dei tribunali amministrativi nazionali in materia di diritti civili e quindi anche in relazione alle posizioni soggettive incise dalle decisioni dell’autorità antitrust. In quest’ottica si ben comprende perché una «limited review cannot be considered to be an effective judicial review»52. Non è un caso, inoltre, che a tal proposito si sia enunciato «the principle that a court should exercise full jurisdiction required it not to abandon any of the elements of its judicial function»53. Vero è che si deve ritenere violato l’art. 6, par. 1, cedu laddove il giudice non sia in grado di conoscere a fondo il merito della causa e pertanto non possa sottoporre a scrutinio i fatti ed i profili tecnici per come ricostruiti dall’autorità54. Allo stesso modo, si deve ritenere una violazione della full jurisdiction il fatto che il giudice tramite il suo sindacato non si sia spinto alla questione di merito, ma si sia limitato a verificare che l’autorità non abbia agito oltre il suo potere discrezionale55. Nell’ottica della pienezza del sindacato, appare senz’altro evidente che il vaglio del giudice amministrativo non debba limitarsi ad un semplice controllo di legalità, bensì debba essere esteso ad appurare che la ricostruzione dei fatti e dei profili tecnici compiuta dall’autorità non sia smentita da quella offerta dal privato56. In questa direzione, la pienezza del sindacato del giudice amministrativo va verificata anche con riguardo alla circostanza che tale giudice non deve determinare solo se il potere discrezionale sia stato correttamente usato dall’autorità pubblica senza poter sostituire le decisioni assunte da questa con quelle proprie (secondo la più recente tesi del sindacato debole), ma deve
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Cfr. Corte edu, Credit and Industrial Banck v. the Czech Republic, 21 ottobre 2003, caso n. 29010/95, §§ 64-65. L’elaborazione della Corte edu, inoltre, rende manifesta la necessità della pienezza dei poteri di cognizione e decisione del giudice. In tal senso cfr. Corte edu, Zumtobel v. Austria, cit., § 32. Più recentemente cfr. Corte edu, Steininger v. Austria, 17 aprile 2012, caso n. 21539/07, § 50. 52 In questi termini si è espressa Corte edu, Obermeier v. Austria, cit., § 70, dove i giudici di Strasburgo hanno aggiunto: «this means, in the final result, that the decision taken by the administrative authorities, which declares the dismissal of a disabled person to be socially justified, remains in the majority of cases, including the present one, without any effective review exercised by the courts». 53 In tal senso è la pronuncia della Corte edu, Chevrol v. France, cit., § 63, dove si è discusso anche dell’indipendenza del giudice amministrativo dal potere esecutivo. In tal senso, scrivono i giudici di Strasburgo, «the court’s independence from the parties and the executive meant that, where it was dealing with a dispute that came within its jurisdiction, it could not have the solution dictated to it by one of the parties or by a representative of the executive». 54 È questa la posizione espressa da Corte edu, Albert and Le Compte v. Belgium, cit., § 29. 55 Concordemente a Corte edu, Družstevní Záložna Pria and Others v. the Czech Republic, cit., § 111. 56 Come si può ricavare ancora in Corte edu, A. Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italie, cit., § 63. 51
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rivedere le valutazioni tecniche ed i fatti resi dalla stessa autorità e semmai ripeterli57. Allo stesso modo, ed in un senso ancor più limitativo (secondo la più risalente tesi del sindacato esterno), non può ridursi la cognizione del giudice a tal punto da impedire a questi di verificare se esistano effettivamente i fatti per come ricostruiti dall’autorità ammnistrativa58. È evidente che la lettura dell’art. 6, par. 1, cedu, anche per ciò che emerge da una significativa parte della giurisprudenza della Corte edu59, sembra smentire quelle linee interpretative che ritengono il giudice amministrativo strutturalmente incompatibile con lo stato di diritto e con il sistema di tutele garantito dalla Convenzione, oltre che dalla stessa Costituzione italiana. Non è un caso che la disciplina dell’art. 6, par. 1, cedu e dell’art. 24 Cost. rendano urgente l’esigenza di assicurare la pienezza dei poteri di cognizione e decisione del giudice60. Di qui, pertanto, è avvertita la necessità di una concezione convenzionalmente e costituzionalmente orientata dell’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice amministrativo e non certo la smentita del suo ruolo, in disparte, in questa sede, la considerazione per cui il giudice civile è – nella prassi e per gli strumenti processuali di cui dispone – assai più incline alla deference nei confronti dell’autorità pubblica e meno efficace di quello amministrativo.
3.3. L’art. 24 Cost. e il diritto di agire in giudizio come norma che
postula il sindacato pieno del giudice amministrativo sul merito degli atti dell’autorità antitrust per la tutela effettiva della persona.
Tra i diritti fondamentali che la Costituzione italiana prevede vi è quello di agire in giudizio per la tutela delle proprie posizioni soggettive di cui all’art. 24 Cost.61. In questo senso tale norma stabilisce che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi»62. In altri termini, con l’art. 24 Cost. può dirsi stabilito nell’ordinamento
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In questa prospettiva di interesse è la pronuncia della Corte edu, Obermeier v. Austria, cit., § 70. Cfr. Corte edu, Tinnelly & Sons ltd and others and McElduff and others v. the United Kingdom, cit., § 48. 59 I giudici di Strasburgo, come più volte visto, sono intervenuti più volte rispetto a processi nazionali che si celebravano davanti al giudice amministrativo, senza mai ravvisare che in capo ad esso difettassero i requisiti necessari per essere giudice di full jurisdiction. 60 In questa prospettiva, tra molte, cfr. Corte edu, Zumtobel v. Austria, cit., § 32 e, più recentemente, cfr. anche Corte edu, Steininger v. Austria, 17 aprile 2012, caso n. 21539/07, § 50. 61 Sulla natura del diritto di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost. quale diritto pubblico di prestazione si v. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, p. 197; C. Vitta, Diritto amministrativo, I, Torino, 1937, p. 5, S. Romano, Principi di diritto amministrativo, Milano, 1906. Più in generale esso è stato ricondotto al novero dei diritti pubblici subiettivi anche dalla dottrina processual-civilistica, in considerazione delle impostazioni pubblicistiche del processo, in tal senso cfr. N. Troker, Processo civile e Costituzione. Profili di diritto tedesco e italiano, Milano, 1974, p. 34 e L.P. Comoglio, Garanzia costituzionale del diritto di azione e il processo civile, Padova, 1970, p. 47. Vi è anche chi lo ha ricondotto ai diritti civici, ed in tal senso, tra molti, cfr. F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale, I, Padova, 1936, p. 890, ma anche Id., Riforma tedesca e riforma italiana del processo civile di cognizione, in Riv. dir. proc. civ., 1934, I, p. 289. 62 Su cui si v. E. Betti, Diritto processuale civile, II ed., Roma, 1936; Id., Legittimazione ad agire e rapporto sostanziale, in Giur. it., 1949, I, 1, p. 765 ss.; A. Schönke, A., Il bisogno di tutela giuridica - Un concetto giusprocessualistico fondamentale, in Riv. dir. proc., I, 1948, 132 ss.; D. Barbero, Diritto soggettivo, IV, Firenze, 1939, p. 42 ss.; F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, p. 1 ss., poi in Id., Scritti giuridici, Milano, 2006, vol. I, p. 9 ss.; A. Attardi, A., L’interesse ad agire, Padova, 1955; E. Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, p. 316 ss.; V. Denti, Il diritto di azione e la Costituzione, in Riv. dir. proc., 1964, p. 116 ss.; E. Grasso, Note per un rinnovato discorso sull’interesse ad agire, in Jus, 1968, p. 349 ss.; M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, 58
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italiano il diritto ad ottenere tutela piena ed effettiva dei propri diritti ed interessi attraverso l’esercizio dell’azione (e della funzione) giurisdizionale. In tal senso, può anche dirsi che l’art. 24 Cost. fissi un autonomo concetto costituzionale di azione e che esso sia un diritto fondamentale inviolabile, come tale ricompreso nel novero di quei diritti previsti dall’art. 2 Cost. Stante questa definizione dell’art. 24 Cost., si intuisce come tale disposizione abbia il pregio di conferire una certa fisionomia al processo, anche a quello amministrativo, nel momento in cui richiede che il giudizio di legittimità sia configurato per la tutela effettiva della posizione sostanziale compressa dall’esercizio del potere pubblico. E ciò perché l’effettività della tutela – intesa quale capacità del processo di garantire l’accesso al bene della vita per come protetto dal diritto sostanziale in via diretta o indiretta – è già contenuta nel diritto fondamentale di agire in giudizio «per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». L’interpretazione della disposizione costituzionale suggerisce, in sostanza, che al ricorrere di una posizione sostanziale lesa, resa incerta o sofferente, vi sia sempre un’azione giurisdizionale (una garanzia secondaria) ad assisterla. In questi termini l’art. 24 Cost. fornisce una actio utilis al soggetto per la tutela della propria sfera giuridica. D’altra parte, se si indaga la giurisprudenza italiana degli ultimi decenni, non si faticherà a scorgere come il giudice talora utilizzi questo schema, leggendo le norme relative alla singola azione processuale alla luce dell’art. 24 Cost. e del principio europeo di pienezza della tutela, per costruire un’azione effettivamente utile in quel caso. Senonché, appare del tutto evidente in tale prospettiva, che la disposizione costituzionale di cui all’art. 24 debba ritenersi violata ogni qual volta il giudice non abbia pieno accesso al merito della causa, attraverso un sindacato interno e sostitutivo. Non è sufficiente, infatti, che si celebri un ‘giusto’ processo fra parti che agiscono nel proprio interesse e in posizione di ‘parità’ con il ‘pieno’ dispiegarsi del principio dispositivo, perché vi possa essere tutela effettiva della posizione sostanziale dedotta in giudizio. Nel caso di specie, occorre che la parte possa chiedere al giudice di riesaminare i fatti ed i profili tecnici oggetto delle ricostruzioni compiute dall’autorità pubblica e, ove possibile, ottenerne una diversa interpretazione. D’altra parte, non potrà dirsi ‘giusto’ il processo che si celebra senza la possibilità di contestare i fatti e le valutazioni tecniche per come resi nella decisione dell’autorità. Né potrà dirsi che vi sia stata ‘parità’, laddove una delle parti non abbia potuto far conoscere al giudice una diversa realtà fenomenica od una diversa
I, in Riv. dir. proc., 1963; P. Comoglio, Garanzia costituzionale del diritto di azione e il processo civile, Padova, 1970; L. Lanfranchi, Note sull’interesse ad agire, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, p. 1093 ss.; V. Caianiello, Le azioni proponibili e l’oggetto del giudizio, in Foro amm., 1980, Id., Sub art. 24, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Roma, 1981; Id., La riforma del processo amministrativo e le garanzie del “giusto processo”, in Riv. dir. proc., 2001, p. 633 ss.; B. Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983; Id., Interesse ad agire, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; G. De Vergottini, Il diritto di difesa come principio fondamentale della partecipazione al processo, in Dir. soc., 1986, p. 97 ss.; E. Fazzalari, Tutela giurisdizionale dei diritti, in Enc. Dir., XLW, Milano, 1992, p. 402; Id., Istituzioni di diritto processuale, VI ed., Padova, 1992, p. 272 ss.; M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004; C: Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, I soggetti e gli atti, II ed., Torino, 2010, p. 12 ss.; L. Cadiet, E. Jeuland, Droit judiciaire privé, VII ed., Paris, 2011, § 356; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Torino, 2014, 559 ss.
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spiegazione tecnica di un elemento rilevante del fatto materiale consegnatogli dalle statuizioni dell’autorità. Né, infine, potrà definirsi ‘pieno’ il diritto di fornire tutte le prove in giudizio, allorché alcun elemento in ordine alle valutazioni tecniche ed ai fatti compiuti dall’autorità sia disponibile per la parte che vuole dimostrare una diversa ricostruzione materiale della vicenda. Il giudice non può dunque limitarsi ad un sindacato debole o addirittura esterno sui fatti ed i profili tecnici della causa, perché in tal caso verrebbe meno all’esercizio della funzione giurisdizionale per come disegnata dalla norma costituzionale dell’art. 24, in una materia, peraltro, specificamente assegnata al giudice amministrativo dall’art. 133 del codice del processo amministrativo («sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti […] adottati […] dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato»). La sottrazione delle constatazioni fattuali e delle valutazioni di carattere tecnico compiute dall’agcm nelle proprie decisioni si tradurrebbe, invero, in una negazione del controllo giurisdizionale sull’accertamento di elementi basilari per l’emanazione del provvedimento amministrativo di quell’autorità. Il che implica, senza ombra di dubbio, il sacrificio del diritto di difesa in giudizio della persona, costituzionalmente garantito proprio dall’art. 24. Il sindacato di merito da parte del giudice amministrativo, specialmente su elementi basilari del provvedimento come i fatti ed i profili tecnici della causa, assume, dunque, un particolare rilievo in ordine al concreto dispiegarsi del diritto di difesa della persona nell’ordinamento costituzionale. Il che pone, evidentemente, la disciplina dell’art. 24 Cost. a sostegno della tesi della pienezza del sindacato amministrativo sulle decisioni dell’agcm. Vero è che tali considerazioni fanno emergere in modo nitido proprio il contrasto che si crea fra quelle tesi di matrice giurisprudenziale sul sindacato esterno e debole diffusesi – più e meno recentemente – in Italia ed il principio della pienezza della tutela giurisdizionale affermato chiaramente dagli artt. 6, par. 1, cedu e 24 Cost. Eppur tuttavia, in questa prospettiva nella quale ben si comprende la necessità di ricorrere a norme cardine del sistema democratico, quali le disposizioni europee e italiane sulla full jurisdiction e sul diritto di agire in giudizio a difesa delle proprie prerogative, resta ancóra sullo sfondo il problema della pienezza della tutela di fronte all’esercizio del potere pubblico e, in specie, di quello (tecnico-)discrezionale ove non si ponga particolare attenzione proprio alla natura e alla funzione del potere pubblico. È qui che si colloca un problema teorico decisivo cui è dedicata la parte conclusiva dello scritto.
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4. Conclusioni. Il sindacato pieno e sostitutivo del giudice
amministrativo nella concezione del potere pubblico come potere funzionalizzato al godimento pieno ed uguale dei diritti fondamentali della persona.
Nella cultura giuridica italiana63 per lungo tempo si è coltivata l’idea del potere pubblico come espressione di volontà della persona giuridica pubblica64 – lo stato o l’amministrazione che lo incorpora65 – che s’impone a tutti i destinatari in virtù della sua esecutorietà, del suo monopolio della forza e della determinazione circa l’interesse pubblico. In tale impostazione è ben presente il principio della legittimazione politica dell’autorità pubblica per il tramite della rappresentanza, di conseguenza l’amministrazione è descritta come una serie di enti, a loro volta intesi quali centri di imputazione subiettiva della volontà autoritativa dello stato e serventi materialmente il potere legislativo. Tuttavia, la forte identificazione con uno dei tre poteri pubblici – stante il dato per cui gli enti assieme al governo formano il potere esecutivo – fa si che nell’amministrazione la connotazione politica sia meno influente ed emerga, da un lato, I) il profilo istituzionista alla luce del quale l’ente pubblico è istituzione in sé, da sé si dà norme di funzionamento e fa originare da sé stesso il suo ordinamento66, dall’altro II) il profilo normativista secondo
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Non diversamente ciò vale per la cultura giuridica tedesca, dove è nota la tesi di G. Jellinek, Sistema dei diritti pubblici subbiettivi, Milano, 1991, p. 52 ss., per il quale se il diritto deve essere vantato nei confronti dello stato dovrà ritenersi necessariamente che esso si fondi sulla concessione che ne faccia l’ordinamento per volontà dello stato, non potendosi ammettere soggettività di diritto pubblico alla pretesa sorta nello spazio della libertà: in essa vivranno le posizioni soggettive che si fondano sulla mera liceità (Dürfen), ma nel rapporto con lo stato non esiste diritto senza che lo stato medesimo assegni al singolo uno specifico potere (Können) in ordine ad esso senza che uno specifico status sia a questi assegnato in ragione del coincidere di interesse pubblico ed individuale (p. 106). Nella dinamica delle posizioni soggettive che possono esprimersi nei confronti del potere pubblico è assai chiaro, dunque, come esse possono fondarsi solo nella sovranità dello stato e che quest’ultimo le costituisca; anzi, come si sottolinea, «concepire il diritto subbiettivo come qualche cosa di originario che derivi da sé medesimo la sua autorità ed il suo valore, non è altro che scambiare il fatto col diritto» (p. 11). Nel panorama italiano si v. S. Romano, Teoria dei diritti pubblici subiettivi, in Primo trattato di diritto amministrativo italiano, Milano, 1900. 64 Non è disagevole mostrare come nell’impostazione classica tutta la costruzione si regga sul presupposto che la sovranità sia la fondamentale posizione di diritto pubblico – da cui le altre derivano – ed essa spetti allo stato. Per un approfondimento sul tema e la comprensione dei relativi problemi, in generale, si v. L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001; A. Sandulli, Costruire lo Stato. La scienza del diritto amministrativo in Italia (1800-1945), Milano, 2009. Sulla situazione in Italia cfr. B. Sordi, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale. La formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, 1985. Su quella in Germania cfr. M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano, 1979. 65 Non è difficile sostenere, in quest’ordine di idee, che lo stato si mostri alla stregua di un’unità organica o Genossenschaft (su cui cfr. J.C. Bluntschli, Lehre von modern Staat. Allgemeines Staatsrecht, vol. I e II, 1885/1886, ora Aalen, 1965) e, quindi, legittimi la cittadinanza attiva per il tramite della Selbstverwaltung (su cui cfr. O. von Gierke, Das Deutsche Genossenschaftsrecht, Band III (1881), rist. anast. Akademischer Druck, Graz, 1954). Sia che le posizioni soggettive si mostrino come il riflesso dell’azione dell’autorità (su cui cfr. F.C. von Gerber, Über öffentliche Rechte, Tubinga, 1852, ora Id., Lineamenti di diritto pubblico tedesco, in Id., Diritto pubblico, a cura di P.L. Lucchini, Milano, 1971), sia che si strutturino nella Obrigkeit statuale (su cui cfr. R. von Jhering, La nascita del sentimento nel diritto, in Id., La lotta per il diritto e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Milano, 1989), non è difficile osservare come ogni posizione soggettiva individuale di diritto pubblico scaturisca dalla sovranità statale. Sicché pure quando la legge riconosce tale posizione essa potrà essere pur sempre investita da un successivo atto di volontà dello stato, rimanendo condizionata alla determinazione dell’autorità pubblica titolare della sovranità. 66 Si possono distinguere due nozioni di ordinamento giuridico. Una sul piano della realtà sociale, come insieme di condotte distinte per il loro riferimento alle norme. Un’altra sul piano logico-formale, come insieme di norme, di posizioni giuridiche, di atti giuridici
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il quale il potere è attribuito all’ente pubblico dall’ordinamento positivo unitamente all’attitudine di concretizzare la regola astratta con regole discrezionalmente definite, in base ad una volizione autoritaria sorretta dall’interesse pubblico. In quest’ordine della questione la decisione dell’amministrazione potrà apparire ben sindacabile, pure quando sia ampiamente discrezionale, e purtuttavia la cognizione del giudice amministrativo sarà rivolta al mero controllo ‘esterno’ di legalità, attenendo appunto il suo giudizio solo alla legalità ‘esterna’ del potere amministrativo e non anche al nucleo fondamentale della valutazione e volizione dell’autorità sovrana che rimane estranea ad un simile scrutinio, e comunque non ripetibile e sostituibile da una decisione giudiziale poiché il sindacato del giudice sarà limitato all’indagine sulla ‘erroneità’, ‘logicità’, ‘proporzionalità’ e ‘ragionevolezza’ della scelta compiuta dall’autorità. Ne sono esempio, come visto, proprio le decisioni dell’agcm che sono assoggettate da preminente giurisprudenza ad un sindacato di tipo esterno, come tale limitato ai classici profili dell’errore, oltre che della logicità, proporzionalità e ragionevolezza e a un sindacato di tipo debole, vale a dire non sostitutivo della decisione dell’autorità con quella propria del giudice. Appare chiaro, dunque, come al centro del problema sulla sindacabilità delle decisioni dell’autorità oltre a quella della pienezza della tutela, vi sia in misura rilevante anche la questione sulla concezione della natura e della funzione del potere pubblico. In tal senso si può osservare come nella cultura giuridica italiana vi siano tutti gli elementi per affermare la pienezza della giurisdizione amministrativa, anche sulle decisioni dell’autorità antitrust: i) il processo delineato come lite fra parti in condizione di parità; ii) il giudice quale organo pienamente indipendente e munito di poteri tali da garantire una tutela soddisfacente; iii) la causa retta dal principio dispositivo in materia di prove; iv) l’istruttoria adeguata ed efficace. Ciò nondimeno il potere dell’autorità – particolarmente quello discrezionale – è e resta assai poco sindacabile. Il che è evidentemente indice del fatto che il potere sia tuttora inteso come entità spettante allo stato e, per il suo tramite, all’autorità. Da più parti il potere pubblico è raffigurato quale attributo essenziale della sovranità, la quale a sua volta è posta esclusivamente in capo allo stato. Per questa ragione, una volta intestata la sovranità allo stato, si è potuto considerare il potere pubblico come
compresenti nella società. Due, difatti, sono le teorie dell’ordinamento che sono emerse storicamente: la teoria “istituzionale” e la teoria “normativa”. Mentre la seconda deriva propriamente dalla teoria generale del diritto, la prima nasce dalla nozione sociologica (cfr. S. Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1977, p. 52 ss. – su cui cfr. S. Cassese, Ipotesi sulla formazione de «L’ordinamento giuridico» di Santi Romano, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1972, I p. 243 ss. – nonché S. Romano, Principii di diritto costituzionale generale, Milano, 1947, p. 53 ss.; O. Von Gierke, Die Grundbegriffe des Staatsrechts und die neuesten Staatsrechttheorien, in Z. Staatsw., 1874, p. 27 ss.) e M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social), 1929 tr. it. Teoria dell’istituzione e della fondazione, Milano, 1967; ma, in argomento, si v. pure R. Orestano, Concetto di ordinamento giuridico e studio storico del diritto romano, in Jus, 1962, p. 41 ss.;), ma è stata poi trasposta sul terreno di quella teoria (su cui si v. ancora S. Romano, L’ordinamento giuridico, cit., p. 57; e pure R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, cit., p. 13 ss.; e L. Lombardi Vallauri, Il diritto come ordinamento, in Aa.Vv., Il diritto come ordinamento, Atti del X congr. naz. soc. it. di fil. giur. e pol., Milano, 1976, p. 9 ss. Per cogliere il progressivo spostamento della concezione di Santi Romano da posizioni per così dire sociologiche a posizioni di teoria generale del diritto si devono confrontare le due edizioni – quella del 1918 e del 1951 – de L’ordinamento giuridico, nonché dalle tesi sostenute nel suo saggio Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, Modena, 1925.
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appartenente all’autorità che lo esercita in conformità della legge. Viene così radicato il potere pubblico in un soggetto, l’amministrazione, di cui è a sua volta predicata la natura pubblicistica; tale soggetto è titolare del potere in via generale ed astratta ed è destinato ad attivarsi ogni qual volta che ne ravvisi un’esigenza di pubblico interesse, in disparte poi la definizione del tutto insufficiente di quest’ultimo che lo connota per una riserva quasi inesauribile di potestà. In simile costruzione l’insindacabilità della decisione discrezionale viene fatta comunemente discendere anche dalla sua intrinseca opinabilità e questo spazio di valutazione viene riservato all’autorità. Logica vuole, quindi, che le decisioni discrezionali siano rimesse all’apprezzamento dell’autorità, sicché le valutazioni opinabili – più esattamente l’esigenza di compiere un giudizio con riguardo al loro possibile contenuto – costituiscono tratto essenziale della discrezionalità amministrativa. Ciò che non appare logico – o che comunque non viene spiegato in modo convincente da giurisprudenza e dottrina – è il perché la valutazione dell’autorità, anche quella discrezionale, non possa essere ripetuta e sostituita67. La soluzione risiede proprio nella concezione che si ha del potere pubblico e della sua funzione. Tutto difatti appare più logico – e, se si vuole, anche convincente – una volta che si sia intestata la sovranità allo stato e per il suo tramite all’autorità, e questi la esercitino tutte le volte che vi ravvisino un’esigenza di pubblico interesse. In questa prospettiva è evidente come trovino ampia giustificazione le tesi del sindacato esterno e del sindacato debole, ora anche rafforzate dal dato positivo europeo e italiano in materia di private enforcement, oltre che dal dato giurisprudenziale. Concezione del potere pubblico che presso la cultura giuridica italiana giustifica poi il tradizionale riparto fra sfere giuridiche, vale a dire fra diritti soggettivi e interessi legittimi sulla base proprio della natura vincolata o discrezionale del potere68; sicché rispetto ai primi le decisioni dell’autorità sarebbero pienamente sindacabili, mentre riguardo ai secondi si avrebbe un certo spazio, sempre riservato all’autorità, contraddistinto dall’essere manifestazione di un comando politico che, come tale, quindi, risulta insindacabile ed essenzialmente libero. La concezione del potere pubblico e della relativa spettanza della sovranità allo stato e, più in generale, all’autorità è tuttavia fortemente disattesa dal dato positivo emergente in modo limpido dalla Costituzione. Che la sovranità non appartenga allo stato69, né all’autorità, la Costituzione lo spiega nelle disposizioni che collegano la sovranità al popolo (art. 1) ed in quelle ove avviene il
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Da ultimo, cfr. F. Cintioli, Giusto processo, CEDU e sanzioni antitrust, cit., p. 537, secondo il quale il sindacato del giudice amministrativo è di tipo «non sostitutivo, perché esiste pur sempre una riserva di amministrazione legata ad una sfera di merito» e che «si sviluppa perciò lungo le linee di un controllo di ragionevolezza e proporzionalità della decisione amministrativa». 68 Per una critica sulla contrapposizione fra diritti soggettivi e interessi legittimi ed una diversa ricostruzione in merito si v. L.R. Perfetti, Pretese procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2012, p. 850 ss. Sull’argomento, sia pure in relazione all’art. 113 Cost., si v. G. Berti, Art. 113, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, IV, Bologna, 1987, p. 134. 69 Si v. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. III, La civiltà-liberale, Bari-Roma, 2001; nonché i lavori del convegno “Crisi e metamorfosi della sovranità”, Atti del XIX Congresso nazionale della società italiana di filosofia giuridica e politica, Trento, 29-30 settembre 1994, a cura di M. Basciu, Milano, 1996, in cui si v., almeno, G. Marramao, Stato, soggetti e diritti fondamentali, pp.
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“riconoscimento”70 dei diritti inviolabili delle persone71 (art. 2) nei quali la sovranità si trattiene, giacché, appunto, al popolo «appartiene» e permette di porre in essere l’ordinamento, esercitando il potere costituente. Dal momento che i diritti fondamentali delle persone (art. 2), non potendo essere altrimenti creati, modificati o corretti, vengono riconosciuti72 quali entità giuridiche nell’esercizio del potere costituente, essi appartengono chiaramente alla sovranità. L’appartenenza della sovranità al popolo si spiega, da un lato, con la legittimazione democratica dell’autorità, dall’altro, come mostrano i diritti fondamentali, trattenendosi nell’area della sovranità popolare, senza snodarsi in forme istituzionali73 (stato e amministrazioni) ed esprimendosi con l’esercizio dei diritti inviolabili che la Costituzione stessa « riconosce » e non crea. Tant’è che il riconoscimento e la garanzia apprestati ai diritti inviolabili della persona appare l’elemento di maggiore rottura con la teoria ottocentesca dei diritti pubblici subiettivi74 e di alterazione profonda dei presupposti teorici della dot-
235-253. Per un approfondimento sulle teorie giuridiche della sovranità ed in ordine alle sue criticità, D. Quaglioni, La sovranità, BariRoma, 2004. Sulla recessione dell’idea della sovranità, L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Bari-Roma, 2004. 70 Il testo costituzionale dell’art. 2 usa il verbo «riconosce», che lascia intendere la preminenza dei diritti inviolabili della persona rispetto all’ordinamento giuridico e soprattutto allo stato. Il principio personalista enunciato dalla disposizione costituzionale stabilisce in sostanza che lo stato e le sue articolazioni (amministrazioni centrali e periferiche) siano in funzione delle persone e non viceversa. In questa prospettiva appare chiaro che il “riconoscimento” dei diritti inviolabili implichi un’attività di estrazione e di scoperta e non un’opera di invenzione degli stessi. 71 Si v. L. Ferrajoli, Per una teoria dei diritti fondamentali, in Dir. pubbl., 2010, p. 141 ss. e p. 167 dove è spiegato come «lo Stato costituzionale di diritto, attraverso la sua funzionalizzazione alla garanzia dei diversi tipi di diritti fondamentali, viene a configurarsi come “strumento” per fini non suoi». In quest’ordine delle cose, secondo l’A., «sono infatti le garanzie dei diritti fondamentali – dal diritto alla vita ai diritti di libertà e ai diritti sociali – i “fini” esterni o, se si vuole, i “valori” e, per così dire, la “ragione sociale” costituzionalmente stipulata di quegli artifici che sono lo Stato e le altre istituzioni politiche». Più in generale sulla sua teoria dei diritti fondamentali cfr. anche Id., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, in E. Vitale, (a cura di), Roma-Bari, 2001; Id., Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, in Anal. e dir., 2002-2003, p. 331 ss. 72 Nucleo comune dei diritti inviolabili è proprio il fatto che essi non possano essere fondati, modificati o corretti, ma soltanto appunto riconosciuti svelati individuati. Si v. A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, p. 11, nonché Id, voce Diritti inviolabili, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, p. 10 ss.; e anche A. Barbera, Sub art. 2, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, p. 50. 73 In questa impostazione sarà difficile ritenere che la sovranità sia esaurisca costituendo le istituzioni democratiche ed assegnandola allo stato. Allo stesso modo sarà difficile credere che essa si esprima solo attraverso la legittimazione di quei poteri mediante il voto. L’opinione che il cittadino sia attivo solo con la legittimazione democratica di chi è chiamato alla funzione legislativa – il Parlamento in primis, ma anche le assemblee politiche degli enti locali – comporterebbe la conservazione della sua posizione di suddito rispetto all’esercizio degli altri poteri pubblici, a partire da quello esecutivo. L’impianto della Costituzione impone di rivalutare la condizione del cittadino come tale solo in quanto legittimato, attraverso gli istituti della democrazia rappresentativa, ad eleggere le assemblee legislative o politiche o, indirettamente, le autorità, anch’esse intestate del potere normativo, che si suole definire indipendenti. 74 Sulla teoria dei diritti pubblici subbiettivi – anche in ordine alla configurazione delle posizioni giuridiche soggettive – per un inquadramento storico circa l’influenza esercitata dai giuristi tedeschi dell’epoca nel panorama europeo si v. M. Fioravanti, Giuristi e Costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano, 1979, nonché Id., Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano, 1979; E.W. Böckenförde, Gesetz und Gesetzgebende Gewalt, Berlin, 1981, p. 221 ss., mentre, per quella specifica nella dogmatica pubblicistica italiana, si rimanda ai due basilari contributi di U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello Stato liberale, Bologna, 1989 e A. Massera, Contributo allo studio delle figure giuridiche soggettive nel diritto amministrativo, Milano, 1986, passim ma spec. da p. 281 ss. Sul tema è indispensabile la lettura di S. Cassese, Lo Stato “stupenda creatura del diritto” e “vero principio di vita” nei primi anni della Rivista di diritto pubblico (1909-1911, in Quaderni fiorentini per una storia del pensiero giuridico moderno, 1987, p. 501 ss., anche in opposizione alla diversa tradizione anglosassone, su cui, in particolare, si v. A.V. Dicey, Introduction to the study of the Law of the Constitution, VIII ed., London, 1915. Non è inutile rilevare come dalla impostazione di C.F. Gerber, Über öffentlichen Rechte, Tübingen, 1852, trad. it. Sui diritti pubblici, in Diritto pubblico, Milano, 1971, p. 5 ss. (su cui, in Italia, si v., almeno, M. Nigro, Il segreto di Greber, in Quaderni fiorentini per una storia del pensiero giuridico moderno, 1973, p. 293 ss.) si svolga un’accesa polemica nei confronti del contrattualismo e del giusnaturalismo e si faccia largo l’idea dello stato come soggetto nel e per il quale la pluralità dei cittadini diviene soggetto di diritto, persona giuridica, non quale somma di
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trina dello stato moderno e contemporaneo. In quest’ottica, la disposizione di cui all’art. 2 Cost. determina il venire meno del presupposto teorico dello stato amministrativo, vale a dire quello per cui solo allo stato spetta la capacità giuridica di diritto pubblico e alle persone tale capacità derivi in considerazione di uno status concesso dallo stato stesso. Esiste, dunque, una fonte meta-positiva che si impone per una forza propria fondata sulla sovranità delle persone e che la Costituzione riconosce. In quest’ottica, la sola spiegazione possibile del potere pubblico, che è una delle forme con cui la sovranità si manifesta e viene esercitata, è la sua funzionalizzazione al godimento pieno ed uguale dei diritti fondamentali (art. 3 Cost.) che quel potere pongono in essere e che permanentemente si trattengono nel nomos costituzionale della sovranità popolare. Ed è proprio nel rapporto tra mezzi istituzionali e fini sociali e nel conseguente primato dei diritti fondamentali sui pubblici poteri, delle persone sulle macchine politiche e sugli apparati amministrativi, che può in fondo rivelarsi il significato profondo della democrazia75. Se poi, in tale concezione, i diritti delle persone non sono l’oggetto del potere e, invece, essi sono la fonte del potere e la loro massimizzazione il fine da raggiungere, viene anche a chiarirsi il concetto di interesse pubblico, il quale non sarà altro che il còmpito dello stato fissato in Costituzione, vale a dire la massimizzazione del godimento dei diritti della persona76 da parte dell’autorità (amministrativa e giudiziaria). Vero è che ove l’autorità amministrativa – anche quella indipendente come l’autorità antitrust di cui si è trattato – venga correttamente intesa come organizzazione della sovranità popolare, come funzione della società e, quindi, come struttura servente i diritti delle persone, non vi sarà più spazio per limitare il controllo giudiziale quanto alle sue decisioni, le quali ben potranno essere soggette ad un sindacato del giudice amministrativo particolarmente incisivo, capace cioè di verificare anche il merito della decisione amministrativa (fatti e profili tecnici) e ove occorra di sostituirla con una soluzione migliore emersa dal contraddittorio processuale fra le parti. A questo scopo, sulla falsariga di quelli previsti per il giudice civile, depongono gli ampi poteri cognitori e istruttori – consulenza tecnica in primis77 – oltre che decisori – giurisdizione esclusiva e di merito – di cui allo stato attuale
individui singoli, liberi, legati da un contratto sociale o da diritti innati. Non diversamente con ciò che accade per la persona privata (la quale risulta titolare della capacità di agire di diritto privato), sul versante del diritto pubblico si nega che la capacità giuridica possa esser propria di più soggetti, sicché la stessa è da concentrarsi nello stato (C.F. Gerber, Über öffentlichen Rechte, cit., p. 200 ss.). Tale impostazione produce delle rilevanti ricadute sul versante del diritto di azione. Infatti, dal momento che il diritto d’azione è inteso quale pretesa che si attiva nei confronti dello stato e degli organi giudiziari in ispecie, non vi sarà spazio per pensare ad un diritto d’azione al di fuori dall’espresso riconoscimento da parte della legge. In questa prospettiva, dunque, è demandato allo stato il “diritto di dominare” (Herrschaftsrecht) sugli altri soggetti giuridici (persone in primis) in conseguenza dell’attribuzione ad esso di tutta la capacità giuridica della società. 75 Si v. L. Ferrajoli, Per una teoria dei diritti fondamentali, cit., p. 167, «del resto, in tempi come quelli in cui viviamo, è proprio questa concezione garantista della democrazia che deve essere affermata e difesa contro le derive maggioritarie e tendenzialmente plebiscitarie della democrazia rappresentativa e le sue degenerazioni video-cratiche». 76 A proposito dell’estensione dei diritti alla persona (il soggetto) in una vicenda in cui il soggetto è l’impresa vale quanto detto supra par. 2.1. L’estensione del problema sui limiti della giurisdizione alla persona. 77 Su cui si v., almeno, A. Travi, Valutazioni tecniche ed istruttoria del giudice amministrativo, in Urb. e app., 1997, p. 1266; Id., Giudice amministrativo e Autorità indipendenti, cit., p. 433; Id. Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche, cit., p. 439 ss.; L.R. Perfetti, Il sindacato giudiziale sulla discrezionalità tecnica, in Il foro amm., 1997, p. 1727 ss.; Id., Ancora sul sindacato giudiziale
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dispone il giudice amministrativo per accedere, valutare e, se del caso, sostituire fatti e profili tecnici della decisione dell’autorità antitrust.
sulla discrezionalitĂ tecnica, in Il foro amm., 2000, p. 422 ss.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sent. 21 marzo 2019, n. 7940; Pres. Petitti; Rel. Falaschi; P.M. Salvato; G.M. c. S.V. SO.CA., SO.DE., V. A., UN., M. A., Istituto Scolastico (omissis) Domanda condizionata di regresso del convenuto – Assorbimento in primo grado – Reiterazione nel giudizio di appello – Qualificazione come appello incidentale – Erronea – Riproposizione di domande ed eccezione – Termine di decadenza – Sussiste – Primo atti difensivo e non oltre la prima udienza Nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353 del 1990 e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel “thema probandum” e nel “thema decidendum” del giudizio di primo grado.
(Omissis) So.Ca. e S.V., genitori di So.De. (divenuto maggiorenne in corso di causa e intervenuto nel giudizio) evocavano, dinanzi al Tribunale di Verona, G.G. ed O.E., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul minore G.M. (il quale, raggiunta la maggiore età, interveniva nel giudizio, oltre a proseguirlo anche come erede del padre, nelle more deceduto) per ottenere il risarcimento dei danni per le lesioni riportate dal proprio figlio, il giorno (omissis), in conseguenza di incidente sciistico cagionato da G.M.. Instaurato il contraddittorio, nel costituirsi i convenuti, oltre a contestare la responsabilità del figlio, chiedevano ed ottenevano di chiamare in causa l’Istituto Scolastico (omissis) S.c., organizzatore della settimana bianca, in quanto tenuto alla vigilanza sugli studenti minorenni ex art. 2048 c.c., nonché la Fondiaria SAI Assicurazioni (oggi Unipolsai) e la Vittoria Assicurazioni per essere da queste tenuti indenni in forza di polizza assicurativa. Le compagnie assicuratrici si associavano alle difese dei convenuti e l’istituto scolastico (omissis), negata ogni responsabilità, chiedeva ed otteneva di chiamare in causa la Previdente Assicurazioni (poi Milano Assicurazioni,
oggi UNIPOL SAI) per essere manlevato in caso di condanna. Il Tribunale di Verona, istruito il giudizio, rigettava la domanda attorea e condannava gli attori a rifondere le spese alle altre parti. In virtù di appello interposto dai So. e dalla S., la Corte di appello di Venezia, nella resistenza degli appellati, che riproponevano con la comparsa di costituzione le domande in manleva, con la sentenza n. 2410 del 31 ottobre 2014, accoglieva il gravame principale e riformando la decisione di primo grado, riconosceva dovuto agli originari attori il risarcimento dei danni, con accoglimento delle domande restitutorie svolte dagli stessi, mentre dichiarava inammissibile l’(implicita) impugnazione incidentale degli appellati/originari convenuti, perché tardivamente proposta con comparsa di costituzione depositata dopo la scadenza del termine ex art. 343 c.p.c., comma 1. Avverso la sentenza della Corte di appello veneta hanno proposto ricorso per cassazione O.E. e G.M., anche nella qualità di eredi di G.G., sulla base di quattro motivi, cui hanno resistito con controricorso gli originari attori, l’istituto Scola-
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stico (omissis), la Vittoria Assicurazioni e la Unipolsai. Fissata la trattazione della causa all’adunanza camerale del 26.09.2017, sia i ricorrenti sia le parti controricorrenti, So. S., l’istituto Scolastico (omissis) e la Unipolsai, hanno depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c.. All’esito della camera di consiglio, la Terza Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 29499 del 2017, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, sia per la mancanza di precedenti univoci o pienamente convincenti, sia per la sentita esigenza nomofilattica caratterizzante l’interpretazione di norme disciplinanti il rito dell’impugnazione di appello, la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del ricorso. Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista della quale le originarie parti, attrice e convenuta, hanno depositato memoria illustrativa. Considerato in diritto. – Con il primo motivo, proposto solo in via prudenziale (in tal senso si esprime testualmente il ricorso), viene denunciata la violazione e la falsa applicazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) dell’art. 2048 c.c., comma 2, ed in parte qua dell’art. 2055 c.c., per il caso in cui si ritenga che la sentenza impugnata abbia voluto addossare la responsabilità dell’accaduto ai soli genitori dell’allora minore G.M., passaggio motivazionale – ad avviso dei ricorrenti – non del tutto chiaro e ciò per una ragione autonoma, da sola rilevante e che prescinde dall’essersi poi affermata l’inammissibilità dell’istanza articolata nei confronti dell’Istituto scolastico (omissis) (quest’ultimo in effetti tenuto a prestare il risarcimento dovuto in quanto il minore era affidato alla sorveglianza del personale docente della scuola stessa, con responsabilità così insorta a carico di detto soggetto), per avere imputato agli
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stessi culpa in educando (esclusa solo quella in vigilando). Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 346 c.p.c., con riferimento all’art. 2048 c.c., comma 2, e art. 2055 c.c., nonché dell’art. 343 c.p.c., con riferimento all’art. 1917 c.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – per avere la Corte distrettuale ritenuto che le domande di manleva, sia nei confronti dell’istituto sia delle compagnie assicurative, dovessero essere oggetto di appello incidentale, sebbene fossero state non disattese, ma assorbite dal giudice di primo grado. Ad avviso dei ricorrenti il motivo va scomposto in due distinte doglianze: l’una, prioritaria, relativa alla domanda di manleva svolta nei confronti della scuola privata che aveva organizzato la gita sciistica; la seconda concernente la domanda di garanzia esperita nei confronti della SAI s.p.a. e della Vittoria Assicurazioni s.p.a., società con le quali i G. – O. erano assicurati per responsabilità civile. Aggiungono che le due domande di manleva, garanzia e/o regresso, sul piano processuale, hanno in concreto subito il medesimo trattamento, di modo che l’illustrazione delle ragioni dell’erronea declaratoria di inammissibilità, in appello, dell’una istanza, in particolare quella nei confronti della scuola, presenta i medesimi profili della trattazione della domanda formulata nei confronti delle compagnie assicuratrici; di qui la trattazione cumulativa delle stesse. Proseguono che avendo il giudice di primo grado rigettato la domanda attorea per ragioni di merito, per essere il sinistro occorso imputabile allo stesso danneggiato, le domande svolte in via di manleva avrebbero dovuto ritenersi tutte assorbite, in quanto la loro operatività presupponeva il riconoscimento di un danno risarcibile, invece escluso. Detta situazione processuale avrebbe dovuto comportare, una volta accolto l’appello interposto, la sufficienza della pura e semplice riproposizione delle domande ritenute assorbite.
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Con il terzo motivo il G. e la O. deducono la nullità della sentenza con violazione dell’art. 112 c.p.c., in rapporto agli artt. 343 e 346 c.p.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere la Corte territoriale interpretato la richiesta di andare indenni dalle conseguenze risarcitorie del sinistro per cui è causa, chiedendo la condanna dell’Istituto scolastico e delle Compagnie di assicurazione, già parti del processo di prime cure (e ciò per il caso di riforma anche parziale della sentenza resa dal Tribunale di Verona in senso interamente vittorioso ai G. – O.), come una domanda proposta con appello incidentale (e quindi tardivo) in luogo di pura e semplice riproposizione ex art. 346 c.p.c., con erronea applicazione, poi, delle ricadute disciplinate, in punto di diritto, dall’art. 343 c.p.c., comma 1. Ad avviso dei ricorrenti la Corte d’appello avrebbe errato dichiarando inammissibile (e, perciò, non esaminandola) la domanda di regresso proposta nei confronti dell’istituto scolastico (cor)responsabile dell’incidente per omessa sorveglianza sul minore, nonché le istanze di manleva rivolte alle compagnie assicuratrici chiamate in causa. In particolare, O.E. e G.M. sostengono di non aver avanzato un’impugnazione incidentale – soggetta al termine decadenziale stabilito dall’art. 343 c.p.c., comma 1, (nella specie, pacificamente non rispettato) – avverso la decisione di prime cure che aveva rigettato le richieste risarcitorie degli attori e dichiarato assorbite le istanze dei convenuti nei confronti dei chiamati in causa, bensì di aver ritualmente riproposto (ex art. 346 c.p.c.) le proprie domande al momento della costituzione in appello; conseguentemente, la Corte veneziana avrebbe errato nel comminare la sanzione di inammissibilità di dette domande omettendo poi di esaminarle nel merito. Infine con il quarto motivo – in via del tutto residuale – i ricorrenti lamentano la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e la violazione e/o la falsa applicazione ex art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 2909 c.c., artt. 324 e 329 c.p.c., letti in combinato disposto con l’art. 2048 c.c., comma 2, per non avere la Corte di appello rilevato e di conseguenza per non essersi conformata al giudicato prodottosi all’esito della sentenza del giudice di prime cure, in forza del quale l’evento dannoso era riconducibile in via esclusiva alla responsabilità dell’Istituto Scolastico (omissis) per essere stato il minore G. affidato alla sorveglianza del corpo docente di quella struttura. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, siffatta statuizione del primo giudice non sarebbe stata oggetto di impugnazione da alcuna delle parti, né in via principale né in via incidentale. Vanno esaminate in via prioritaria e trattate unitariamente le censure con le quali si allega la violazione dell’art. 346 c.p.c., con riferimento all’art. 2048 c.c., comma 2, e art. 2055 c.c., nonché dell’art. 343 c.p.c., con riferimento all’art. 1917 (secondo motivo) e dell’art. 112 c.p.c., sempre in rapporto agli artt. 343 e 346 c.p.c. (terzo motivo), in quanto entrambe volte alla pregiudiziale affermazione della proponibilità (o meno) delle domande di garanzia ex art. 346 c.p.c., anche con comparsa di costituzione depositata oltre il termine di cui all’art. 167 c.p.c.. Esse sono meritevoli di accoglimento. L’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione, del 7 dicembre 2017 n. 29499, evidenzia che la sentenza impugnata appare non in linea con i principi recentemente sanciti anche da queste Sezioni Unite, in particolare con le sentenze n. 7700 del 2016 e n. 11799 del 2017, laddove ha dichiarato inammissibili le domande di manleva e di regresso proposte in primo grado dagli odierni ricorrenti – che avevano domandato, in via principale, il rigetto delle richieste risarcitorie degli attori e, logicamente in via subordinata, che l’obbligazione risarcitoria scaturita dall’applicazione dell’art. 2048 c.c., fosse attribuita o quantomeno estesa all’istituto scolastico, nonché di essere
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manlevati dalle compagnie con le quali avevano stipulato polizze assicurative – perché oggetto di riproposizione e non di appello incidentale, mentre proprio alla luce del consolidato orientamento richiamato non era necessario, atteso che le stesse erano rimaste assorbite nel giudizio di primo grado, in quanto rigettata nel merito la domanda attorea. Ad avviso della Terza Sezione rimettente, però, altra questione appare preliminarmente indispensabile definire onde poter pervenire all’esame delle domande (subordinate) degli originari convenuti, odierni ricorrenti: accertare se le stesse siano state tempestivamente riproposte in secondo grado e, quindi, se siano ammissibili, pacifico che le predette istanze nei confronti delle compagnie assicuratrici e dell’istituto scolastico erano state riproposte al momento della costituzione in appello, avvenuta con comparsa depositata il 25 ottobre 2006 e, cioè, meno di 20 giorni prima dell’udienza fissata per l’8 novembre 2006. Con la conseguenza che nella fattispecie viene in rilievo, dunque, non già il termine di 20 giorni prescritto dall’art. 343 c.p.c., comma 1, per l’appello incidentale, bensì quello indicato dall’art. 347 c.p.c., comma 1, disposizione che – nel richiamare per la costituzione in appello “i termini per i procedimenti davanti al tribunale” e, segnatamente, quello previsto dall’art. 166 c.p.c. per la parte “convenuta” in secondo grado – impone all’appellato di costituirsi “almeno venti giorni prima dell’udienza” fissata nell’atto introduttivo del giudizio di gravame. In altri termini si domanda se la mancanza di una tempestiva costituzione comporti la decadenza dalla facoltà di riproporre, a norma dell’art. 346 c.p.c., le domande condizionate e/o le eccezioni rimaste assorbite dal rigetto delle istanze avversarie oppure se, al contrario, tali domande ed eccezioni possano essere riproposte in appello in un momento processuale successivo, finanche all’udienza di precisazione delle conclusioni,
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giacché negli invocati pronunciamenti del giudice della nomofilachia non è possibile rinvenire un chiaro indirizzo ermeneutico sulle modalità e, soprattutto, sui termini per esercitare la facoltà di riproporre domande ed eccezioni. All’uopo lo stesso giudice rimettente premette che la controversia è regolata, ratione temporis, dalle norme codicistiche introdotte con la riforma del D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito dalla L. 20 dicembre 1995, n. 534, ed applicabile ai giudizi instaurati dopo il 30 aprile 1995, novella che ha (re-)introdotto per il giudizio di primo grado un sistema fondato su rigide preclusioni che si sostanzia, rispetto alle difese del convenuto, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., nella previsione per la quale lo stesso è tenuto, a pena di decadenza, a proporre nella comparsa di costituzione e risposta tempestivamente, depositata almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione, eventuali domande riconvenzionali. In detto assetto normativo, invece – a differenza di quello successivo alla riforma degli anni 2005/2006, che ha anticipato al tempestivo deposito della comparsa di risposta anche detta preclusione processuale – le eccezioni in senso stretto potevano essere proposte nel termine, non inferiore a venti giorni prima dell’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., concesso dal giudice all’udienza di comparizione. La Sezione rimettente ricorda che la giurisprudenza della Corte che ha avuto occasione di pronunciarsi sul punto, con riguardo alle disposizioni introdotte dalla riforma di cui alla L. n. 534 del 1995, ha ritenuto che la riproposizione ex art. 346 c.p.c., potesse essere effettuata dall’appellato in ogni momento del giudizio di secondo grado, sino alla precisazione delle conclusioni, confutando le argomentazioni critiche che erano state espresse dalla dottrina dominante a seguito della novellazione normativa sulle preclusioni nel giudizio di primo grado (v. Cass. 10 agosto 2004 n. 15427); tuttavia andava considerato che il menzionato precedente cronologicamente non aveva
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potuto tenere conto della (successiva) evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha riguardato le barriere preclusive, pronunciamento che peraltro aveva riguardato fattispecie concernente la riproposizione ex art. 346 c.p.c., di un’eccezione (di prescrizione) formulata rispetto alla domanda attorea (che era stata respinta in primo grado), mentre nella causa de qua sono state riproposte in appello le domande di garanzia e di regresso già avanzate nei confronti di terzi e rimaste assorbite dal rigetto in prime cure delle istanze dell’attore principale. Questo è il perimetro oggettivo della rimessione. Come chiarito dalla medesima ordinanza interlocutoria, il processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla L. n. 353 del 1990, e dalle successive modifiche, ha reintrodotto il principio di preclusione (previsto nella versione originaria del codice di rito, ma largamente abbandonato in seguito alla novella di cui alla L. n. 581 del 1950). La controversia è peraltro regolata, ratione temporis, dalle norme codicistiche introdotte con la riforma del D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito dalla L. 20 dicembre 1995, n. 534, applicabile ai giudizi instaurati dopo il 30 aprile 1995, con esclusione delle successive modifiche di cui alla L. n. 80 del 2005. Va premesso che per consolidato orientamento di questa Corte, la disciplina dettata dall’art. 346 c.p.c., fa sì che in appello viga un effetto devolutivo limitato e non automatico, con la conseguenza che la mancata riproposizione delle domande o delle eccezioni respinte o ritenute assorbite comporta che in capo alle parti si verifichi una vera e propria decadenza, con formazione di giudicato implicito sul punto. Del resto detta norma costituisce applicazione rigorosa del principio della domanda, di cui all’art. 112 c.p.c., e la rinuncia di cui parla la disposizione opera solo all’interno del processo, ma non chiarisce con quale modalità e in quali tempi debba avvenire la riproposizione.
L’onere della riproposizione posto dall’art. 346 c.p.c., di certo non opera per le questioni rilevabili d’ufficio dal giudice in sede di gravame, ove non oggetto di esame e decisione in primo grado. Ciò comporta che le questioni pregiudiziali di rito che non siano state fatte oggetto di alcuna soluzione nella motivazione della sentenza di primo grado rimarranno rilevabili anche ad opera del giudice di appello, pur in mancanza di un motivo di gravame o della riproposizione di esse. Il principio secondo cui l’art. 346 c.p.c., non si applica con riferimento alle questioni rilevabili d’ufficio deve coordinarsi con il sistema delle preclusioni e con l’art. 342 c.p.c., che sancisce la specificità dei motivi d’impugnazione, in virtù dei quali la libera iniziativa del giudice con riguardo alle questioni rilevabili d’ufficio trova un limite nel caso in cui una di tali questioni sia stata espressamente decisa nel precedente grado di giudizio ed il relativo punto non abbia formato oggetto di impugnazione ovvero, nel caso di parte praticamente vittoriosa, non sia stato comunque riproposto al giudice di appello. Il riferimento dell’art. 346 c.p.c., alle sole eccezioni non accolte comporta, inoltre, che non sia necessaria, per la considerazione delle stesse da parte del giudice d’appello, la riproposizione delle c.d. mere difese: come noto, invero, se le eccezioni comportano la deduzione di un fatto dotato di un’efficacia giuridica diversa da quella propria delle circostanze di fatto invocate dall’attore a sostegno della propria domanda (come fatti aventi efficacia impeditiva, modificativa o estintiva del diritto fatto valere dallo stesso), le mere difese si limitano alla contestazione o alla negazione del fatto costitutivo, nell’ambito dei fatti che il giudice è già chiamato a conoscere, e ciò anche laddove il convenuto deduca nuove e diverse circostanze di fatto, purché le stesse, ove provate, possano determinare l’inesistenza del fatto principale. In altri termini, la norma si occupa solo delle domande e delle eccezioni sulle quali non vi sia stata una parte praticamente soccombente, con
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la conseguenza che la mera riproposizione, che deve essere contenuta nella comparsa di risposta dell’appellato, è onere della parte che sia rimasta totalmente vittoriosa nel merito. Quanto alla riproposizione, per orientamento consolidato di questa Corte, la stessa può avvenire in qualsiasi forma idonea ad evidenziare in modo non equivoco la chiara e precisa volontà della parte di sottoporre la questione alla decisione del giudice di appello (Cass. n. 12345 del 2003), sebbene non sia sufficiente, a tal fine, il richiamo alle conclusioni e deduzioni operate nel giudizio di primo grado, dovendo la riproposizione avvenire in maniera specifica (Cass. n. 16360 del 2004). Proprio in detto ordine di ricostruzione della disciplina del giudizio di appello questo giudice della nomofilachia ha identificato con chiarezza la parte che ha l’onere di proporre l’appello incidentale e quella che invece può limitarsi a riproporre le domande e le eccezioni ai sensi dell’art. 346 c.p.c.: la parte totalmente vittoriosa in primo grado non deve, perché non ne ha l’interesse, proporre appello incidentale e può riproporre le domande (anche riconvenzionali) o le eccezioni non accolte o non esaminate perché assorbite nella sentenza di primo grado nella comparsa di costituzione (Cass. Sez. Un. 12067 del 2007; Cass. n. 24989 del 2013; Cass. n. 13411 del 2014). Per domanda subordinata che può essere riproposta ai sensi dell’art. 346 c.p.c., va intesa anche la chiamata in garanzia, svolta in primo grado dal convenuto totalmente vittorioso nel merito, visto il rigetto della domanda dell’attore (Cass. Sez. Un. 7700 del 2016). Per quanto attiene al momento in cui la riproposizione può avvenire, con riguardo alla parte appellata, che costituisce il proprium della decisione rimessa a questo Collegio, il precedente richiamato dall’ordinanza interlocutoria (Cass. n. 15427 del 2004 cit.) è stato massimato nei seguenti termini: “Per sottrarsi alla presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., la parte vittoriosa in primo grado ha l’onere di riproporre, a pena di formazio-
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ne del giudicato implicito, in modo chiaro e preciso le domande e le eccezioni (in senso stretto) respinte o ritenute assorbite, in qualsiasi momento del giudizio di secondo grado, fino alla precisazione delle conclusioni, non essendo applicabile al giudizio di appello il sistema di preclusioni introdotto per il giudizio di primo grado, con il D.L. n. 432 del 1995, conv. nella L. n. 534 del 1995”. Nella motivazione della pronuncia viene puntualmente argomentato il dissenso rispetto all’incidenza del regime delle preclusioni poste per il giudizio di primo grado rispetto alla questione che ne occupa. Nello specifico, era denunciata la violazione da parte del giudice di primo grado dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere lo stesso ritenuto inammissibile la riproposizione di un’eccezione in quanto non avvenuta nella comparsa di risposta in appello. La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso evidenziando che, dopo la novella del 1995, ad una giurisprudenza pressoché consolidata secondo la quale la riproposizione è ammissibile fino alla precisazione delle conclusioni, si contrappone la dottrina dominante la quale sostiene che tale posizione determina una disparità di trattamento sia tra appellato ed appellante (al quale è inibita la proposizione di censure successive e diverse rispetto a quelle contenute nell’atto di appello), sia tra il convenuto nel giudizio in primo grado, assoggettato a rigorose preclusioni, e quello in secondo grado. In primo luogo la Corte, in tale pronuncia, ha rilevato che il richiamo operato dall’art. 347 c.p.c., comma 1, alla costituzione in appello secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al tribunale, deve essere inteso, in conformità alla formulazione letterale della disposizione, nel senso che non può ricomprendere anche le decadenze poste per tali procedimenti alle difese delle parti. Per altro verso, nella medesima decisione è evidenziata l’incompatibilità delle preclusioni del giudizio di primo grado rispetto al sistema dell’ap-
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pello, essendo la distinzione tra udienza di prima comparizione ed udienza di trattazione, e la concessione, quindi, di un termine previsto dall’art. 180 c.p.c., comma 2, incompatibili con la disciplina e la struttura del processo di appello, con l’effetto, ritenuto “artificioso” e privo di valide basi testuali, di ritenere limitato il richiamo operato dall’art. 347 c.p.c., comma 1, alle modalità di costituzione in causa del giudizio di primo grado al solo art. 167 c.p.c., comma 1, laddove prevede che nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese. Nella decisione si fa riferimento anche al più generale problema di compatibilità del sistema con il principio di parità dei diritti di difesa tra le parti in causa, richiamando la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 345 c.p.c., comma 2, sollevata, in relazione all’art. 3 Cost., per il diverso trattamento riservato, nel giudizio di appello, all’appellante, che può proporre o riproporre le eccezioni solo con specifico motivo di impugnazione nell’atto di appello, e all’appellato, che, invece, può proporre le predette eccezioni fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, trattandosi di una disparità giustificata dalla diversa posizione processuale delle predette parti. La questione va meditata in ragione dell’assunto per il quale, attraverso il generale rinvio, da parte dell’art. 359 c.p.c., alla disciplina del giudizio di primo grado per quanto non espressamente regolato in appello, troverebbero applicazione anche in sede di gravame le previsioni contenute negli artt. 167 e 171 c.p.c., per il giudizio di primo grado. Nell’ambito dell’elaborazione relativa alla disciplina applicabile ratione temporis nella fattispecie concreta qui in esame, ossia quella successiva alla richiamata riforma del 1995 ed anteriore a quella di cui alla L. n. 80 del 2005, in primo grado il convenuto è tenuto a proporre, a pena di decadenza,
le sole domande riconvenzionali (nonché a richiedere di chiamare in causa terzi) mediante la comparsa di risposta tempestivamente depositata ex art. 167 c.p.c., potendo sollevare le eccezioni non rilevabili d’ufficio entro il termine concesso dal giudice all’udienza di comparizione, nella misura non inferiore a venti giorni prima dell’udienza di trattazione (diversamente, a seguito della novellazione operata dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, che ha modificato l’art. 167 c.p.c., nel senso di “anticipare” alla comparsa di costituzione e risposta depositata entro venti giorni prima dell’udienza, ormai unica, di comparizione e trattazione ex art. 183 c.p.c., la decadenza per il convenuto, anche ai fini della proposizione delle eccezioni in senso stretto). Ferma la necessità che la riproposizione da parte dell’appellato totalmente vittorioso debba avvenire all’atto della costituzione nel giudizio di appello, in quanto la riproposizione per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni determina un vulnus al diritto di difesa dell’appellante (ma anche dell’eventuale altro appellato destinatario della riproposizione), il dubbio attiene al se a tal fine la costituzione debba necessariamente essere tempestiva (venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione in appello ovvero differita) o possa avvenire direttamente all’udienza ex art. 350 c.p.c.. Del resto il solo riferimento al combinato disposto dell’art. 167 c.p.c., e art. 171 c.p.c., comma 2, ratione temporis applicabile, stante il richiamo che l’art. 347 c.p.c., comma 1, fa a “le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale”, non è da solo risolutivo circa il significato da attribuire all’attività di riproposizione ex art. 346 c.p.c., per cui vanno chiariti i limiti di compatibilità delle attività che ex art. 167 c.p.c., si precludono per la parte convenuta in primo grado con la tempestiva costituzione in giudizio, con la struttura del giudizio di appello. Indubbiamente la riproposizione ex art. 346 c.p.c., concorre a delimitare l’ambito della de-
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voluzione al giudice di appello sia con riguardo all’oggetto del giudizio di impugnazione, per la riproposizione delle domande assorbite, sia con riguardo all’ampiezza della cognizione del giudice del gravame in relazione alle eccezioni su cui dovrà pronunciare. Tuttavia le domande e le eccezioni non accolte attengono pur sempre alla trattazione di circostanze già rientranti nel thema probandum e nel thema decidendum del giudizio di primo grado, poiché non introducono, nel giudizio pendente, nuovi diritti (come si può argomentare dall’art. 345 c.p.c., comma 1) o nuovi fatti concretanti eccezioni (come si può argomentare dall’art. 345 c.p.c., comma 2) e quindi non viene ampliato l’oggetto del giudizio, ma solo mostrato l’interesse, comunque condizionato all’accoglimento dell’appello, alla decisione su diritti od eccezioni già a suo tempo ritualmente introdotti in giudizio. Precisato che la mancata riproposizione di una domanda non esaminata in primo grado non dà luogo a giudicato ma ad una preclusione processuale ed attribuito alla preclusione il significato comune e generalmente accolto – di perdita (piuttosto che di ostacolo all’esercizio) di una facoltà processuale, deve restringersi l’ambito d’indagine necessitato dal caso in esame, vista l’accezione complessa di tale concetto, che si deve alla più autorevole e risalente dottrina processualcivilistica. Può rettamente parlarsi di preclusione, infatti, in presenza di una facoltà estinta perché non esercitata nel rispetto di un termine perentorio, ovvero consumata perché già esercitata, ovvero ancora incompatibile rispetto ad altra attività processuale svolta in precedenza. Tralasciate le ultime due ipotesi, intuitivamente estranee alla fattispecie in esame, occorre focalizzare l’attenzione sulla prima, che predica una espressa previsione che correli (come fa l’art. 343 c.p.c., per l’appello incidentale) alla mancata tempestiva costituzione dell’appellato la impossibilità di riproporre domande od eccezioni rimaste assorbite in primo grado. In mancanza di basi siste-
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matiche che impongano di assimilare l’attività di riproposizione a quella di formulazione ex novo di domande ed eccezioni in appello (come previsto dall’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2), non può operare il principio di preclusione, elaborato per selezionare le facoltà processuali esercitabili nella progressione del procedimento, secondo il punto di osservazione imposto dalla dialettica processuale del caso di specie, per cui la visuale elettiva dell’art. 346 c.p.c., sarebbe deviata in un ambito diverso da quello suo proprio, che va correttamente impostata sulla base della dicotomia difesa/eccezione ed altrettanto esattamente risolta nel senso della mera difesa. Diversamente si finirebbe con l’attrarre nella disciplina dell’appello incidentale anche la riproposizione di domande condizionate e/o di eccezioni non altrimenti esaminate dal primo giudice. Né si può accedere alla diversa soluzione, per cui la costituzione dovrebbe avvenire nei venti giorni antecedenti l’udienza fissata nell’atto introduttivo dell’appello, invocando l’interesse pubblico al corretto e celere svolgimento del processo (il c.d. principio del giusto processo), in quanto la parte destinataria della riproposizione di domande e di eccezioni assorbite in primo grado avrà la possibilità di argomentare l’infondatezza delle domande o delle eccezioni – peraltro sulla base di fatti già ritualmente allegati in causa – fino alla comparsa conclusionale. L’unica questione che al riguardo può presentare criticità concerne l’ipotesi in cui la riproposizione attenga a domande e/o eccezioni che abbiano comportato lo svolgimento di istanze di prove costituende, non assunte in primo grado. Per il caso in cui, poi, le domande e/o le eccezioni riproposte siano accompagnate da istanze probatorie non esaminate o comunque non ammesse in primo grado, deve ritenersi che il giudice di appello possa pronunciare i provvedimenti necessari all’esito dell’udienza di trattazione, se del caso anche riservando la decisione sul punto. Deve, infatti, favorirsi l’approccio interpretati-
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vo secondo cui l’eventuale assunzione di mezzo istruttorio che appaia idoneo, per lo spessore contenutistico che lo connota, a sovvertire il verdetto di primo grado, nel senso di mutare il contenuto di uno o più giudizi di fatto sui quali si basa la pronuncia impugnata, fornendo un contributo decisivo all’accertamento della “verità materiale”, è esso stesso espressione coerente con i principi del giusto processo (art. 111 Cost., commi 1 e 2). Né, infine, un fattore impeditivo alla interpretazione sistematica sopra illustrata può essere individuato nel c.d. filtro in appello (di cui alla novella realizzata dalla L. n. 134 del 2012), che indurrebbe a ritenere obbligatoria la definizione dell’oggetto della cognizione del giudizio di appello limitatamente ai rispettivi atti introduttivi. Infatti il termine della riproposizione delle domande e delle eccezioni, nonché di deduzioni istruttorie, è da ritenere irrilevante in relazione all’applicazione dell’art. 348 bis c.p.c. e ss., in quanto disposizioni previste per il solo caso in cui l’appello appaia ab origine manifestamente infondato (quindi, a prescindere dalle difese di controparte, da dichiarare inammissibile), con la conseguenza che non si pone neanche un problema di potere-dovere decisorio su dette domande ed eccezioni riproposte e, per l’effetto, del tempo della loro (re)introduzione del giudizio di impugnazione. Le considerazioni fin qui svolte non sono contrastate dalla previsione dell’art. 281 sexies c.p.c., esteso dalla L. n. 183 del 2011, anche al giudizio di appello (art. 352 c.p.c., u.c., aggiunto dalla L. n. 183 cit., art. 27, comma 1, lett. d), attraverso il quale è stata codificata la possibilità di definire con il meccanismo di immediata decisione anche il giudizio di impugnazione, all’esito della discussione orale della causa, espressione di una potestà facoltativa riconosciuta in via esclusiva al giudice, che verrebbe ad essere incisa dalle scelte processuali della parte appellata. Ma anche in questa ipotesi occorre osservare che il nostro ordinamento non esclude la facoltà di costituzione tardiva del-
la parte appellata ed anche ove questa riterrà di svolgere mere difese, con la sua scelta “attendista” costringerà comunque l’appellante ad assumere una posizione solo durante la fase di trattazione e quindi, eventualmente, richiedendo un rinvio per controdedurre, oltre ad indurre il giudice ad acquisire conoscenza delle medesime difese per la eventuale trattazione orale dell’appello nella medesima udienza. D’altra parte, proprio il contemperamento del principio del giusto processo inteso ad una più rapida decisione della causa con le altre garanzie, essendo le preclusioni processuali – come sopra detto collegate all’espressa previsione della decadenza, comporta una valutazione di compatibilità, equivalente a quella imposta dall’art. 359 c.p.c.. In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto: “Nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla L. n. 353 del 1990, e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione – che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae – nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale: art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c., le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel thema probandum e nel thema decidendum del giudizio di primo grado”. La decisione di accoglimento dell’appello (principale), con conseguente dichiarazione di inammissibilità delle difese svolte dagli appellati (originari convenuti), adottata dalla corte distrettuale, che ha ritenuto non tempestiva la costituzione dei G. – O. ai sensi dell’art. 343 c.p.c., comma 1, si pone in contrasto con tale principio, sicché il secondo ed il terzo motivo di ricorso vanno accolti.
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I restanti motivi di ricorso, formulati in via subordinata ovvero residuale, che attengono alla corresponsabilità dell’Istituto scolastico, non esaminati dalla corte territoriale per avere ritenuto tardive le difese dei ricorrenti, sono assorbiti dall’accoglimento dei mezzi due e tre. La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con rinvio alla medesima corte territoriale che si dovrà nuovamente pronunciare tenendo conto dell’indicato principio di diritto.
Al giudice del rinvio è rimessa anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 385 c.p.c. P.Q.M. La Corte, accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso, assorbiti i restanti motivi; cassa la decisione impugnata e rinvia a diversa Sezione della Corte di appello di Venezia, anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 17 aprile 2018.
Le Sezioni Unite approdano ancora sulle coste del giudizio di appello per definire il termine (di decadenza) per la riproposizione ex art. 346 c.p.c. Sommario: 1. Lo svolgimento del processo. – 2. Il panorama giurisprudenziale.
– 3. Le discontinuità tra ordinanza interlocutoria e pronuncia delle Sezioni Unite. – 4. … Continua (percorsi argomentativi a confronto). – 5. Note di riflessione.
Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla sussistenza e individuazione del termine di decadenza per la riproposizione nel giudizio di appello delle domande ed eccezioni prescritta dall’art. 346 c.p.c., il cui confine con l’impugnazione incidentale è stato recentemente delineato dal Supremo Consesso. Discostandosi dalla soluzione suggerita dall’ordinanza interlocutoria (e dai limiti temporali imposti ratione temporis per via della disciplina applicabile alla controversia da cui è scaturita la rimessione), così come dalla giurisprudenza maggioritaria e dalla dottrina più numerosa, le Sezioni Unite forniscono un principio di diritto sofisticato e ragionevole, non senza alcuni tentennamenti di natura “sistemica”. The Grand Chamber of the Supreme Court has been demanded to determine the existence and identification of the deadline to submit the renewal pursuant to article 346 of the civil procedure code, whose substantial boundaries with the incident appeal have been recently marked by the Grand Chamber itself. The Supreme Court, diverging from the solution given by the referring order (and from time limits governing ratione temporis the dispute from which the interlocutory order arose), as well as from the prevailing jurisprudence and doctrine, states a reasonable principle, with some systematic hesitations.
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1. Lo svolgimento del processo. Tutto iniziava da un incidente sciistico che aveva coinvolto due minori in gita scolastica, a seguito del quale uno dei due aveva riportato delle lesioni. I genitori esercenti la potestà (oggi responsabilità genitoriale) sul minore rimasto ferito convenivano allora in giudizio, dinanzi al Tribunale di Verona, i genitori dell’altro minore che aveva cagionato le lesioni al fine di ottenere il risarcimento del danno. I convenuti chiamavano in causa l’Istituto Scolastico che aveva organizzato la gita, invocandone la responsabilità per omessa vigilanza ai sensi dell’art. 2048 c.c., unitamente a due compagnie assicurative. L’Istituto Scolastico, a sua volta, chiamava in causa la propria compagnia assicurativa per essere manlevato in caso di condanna. Il giudice di prime cure rigettava la domanda degli attori, cosicché questi ultimi proponevano appello dinanzi alla Corte d’appello di Venezia. Gli appellati, originari convenuti, provvedevano, dunque, a riproporre le rispettive domande di manleva con comparsa depositata il 25 ottobre 2006, cioè meno di venti giorni prima dell’udienza fissata per l’8 novembre 2006. A definizione del giudizio di appello, la Corte d’appello di Venezia, in riforma della sentenza impugnata, accoglieva la domanda degli attori e dichiarava inammissibile, in quanto tardivamente proposto, quello che qualificava come implicito appello incidentale, proposto dagli appellati, con riferimento alle domande di manleva svolte in primo grado. Avverso tale pronuncia, dunque, gli originari convenuti proponevano ricorso per cassazione con quattro motivi. Di qui la rimessione alle Sezioni Unite da parte della Sezione Terza, la quale, dopo aver affermato l’erroneità della qualificazione, operata dalla corte d’appello di Venezia, dell’attività svolta dagli appellati quale implicito appello incidentale anziché di riproposizione, in ragione dell’assorbimento delle domande di manleva svolte in primo grado, ha ritenuto, comunque, indispensabile stabilire se le domande dei ricorrenti fossero state tempestivamente riproposte in appello, atteso che la suddetta riproposizione era contenuta nella comparsa di costituzione e risposta ex art. 347 c.p.c., depositata oltre il termine di 20 giorni dall’udienza ex art. 350 c.p.c. Con ordinanza interlocutoria 7 dicembre 2017, n. 29499, quindi, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se – nel sistema delle preclusioni introdotto dal D.L. n. 432/1995, convertito con L. n. 534/1995, in forza del combinato disposto degli artt. 346, 347, 166 e 167 c.p.c. – la domanda di garanzia o di regresso condizionata all’accoglimento della domanda principale già respinta in primo grado debba essere riproposta all’appellato, a pena di decadenza, con la tempestiva costituzione in appello e, cioè, entro i termini stabiliti per la costituzione nei procedimenti davanti al tribunale, oppure se, in mancanza di una barriera preclusiva, la riproposizione possa essere effettuata anche successivamente e fino alla precisazione delle conclusioni.
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Le Sezioni Unite compongono il contrasto ampliando l’ambito oggettivo delineato dall’ordinanza di remissione1 (limitata alla disciplina processuale previgente e alle sole domande di garanzia e regresso, con esclusione delle eccezioni) con affermazione del seguente principio di diritto: “Nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla L. n. 353 del 1990, e dalle successive modifiche, le parti del processo di impugnazione che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale: art. 343 c.p.c.), a riproporre, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel thema probandum e nel thema decidendum del giudizio di primo grado”.
2. Il panorama giurisprudenziale. La questione relativa al termine finale entro il quale la riproposizione ex art. 346 cod. proc. civ. può essere formulata è stata per lungo tempo variamente e difformemente risolta e se, da una parte, la dottrina maggioritaria ha assunto un approccio restrittivo, escludendo che la riproposizione potesse essere formulata nel corso del giudizio di appello financo in sede di precisazione delle conclusioni2, dall’altra, la giurisprudenza maggioritaria ha accolto una visione più estensiva, concludendo per l’assenza di una espressa barriera preclusiva per compiere la riproposizione di domande ed eccezioni (in senso stretto) nel giudizio in appello. La Sezione rimettente si esprime a favore della soluzione restrittiva che ammette la riproposizione entro la costituzione dell’appellato tempestivamente depositata, definita “maggiormente corrispondente al principio costituzionale della ragionevole durata del processo”, per mezzo del richiamo a varie argomentazioni che vengono in gran parte e sinteticamente riprese, per adesione o per scostamento, dalle Sezioni Unite, le quali, sulla scorta di un voluto “contemperamento del principio del giusto processo inteso ad una più rapida decisione della causa con le altre garanzie”, giungono ad accogliere una soluzione restrittiva “a metà” rispetto a quella più limitativa invocata nell’ordinanza interlocutoria. Il giudice della nomofiliachia ritiene dunque di ammettere che la formulazione della ri-
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Come auspicato da Godio, La riproposizione ex art. 346 c.p.c. ritorna alle SS. UU.: v’è un termine di decadenza anteriore all’udienza di p.c. (e se sì, quale?), nota a Cass. civ., ord. 7 dicembre 2017, n. 29499, in Corr. giur., 2018, 2, 235 ss. 2 A titolo esemplificativo, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2017, 445; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 151; Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2017, 386, il quale sostiene che la riproposizione debba essere formulata nella comparsa di risposta tempestivamente depositata secondo i termini previsti per il giudizio di primo grado; Arieta- De Santis, Corso base di diritto processuale civile, Vicenza, 2016, 534; Andrioli - Carratta, Diritto processuale civile, II, Torino, 2017, 484, nota 26; Tedoldi, L’appello civile, Torino, 2016, 214 ss.
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proposizione possa avvenire entro il primo atto difensivo dell’appellato e sino alla prima udienza in caso di costituzione tardiva, con esonero dall’obbligo del rispetto del termine di decadenza di venti giorni prima dell’udienza ex art. 350 c.p.c. La pronuncia delle Sezioni Unite in esame si colloca nel solco di una giurisprudenza di legittimità che negli ultimi anni si è dimostrata molto attenta a circoscrivere e definire i meccanismi di funzionamento degli istituti che governano il giudizio di appello3. Tra questi, la riproposizione è stata oggetto di particolare attenzione con riguardo agli incerti confini che la separano dall’istituto dell’appello incidentale, alla interpretazione dell’espressione “non accolte” di cui all’art. 346 c.p.c. e, ancora, con la pronuncia in esame, alla questione relativa alla sussistenza e all’individuazione del termine di decadenza per la sua formulazione. Dal 2016 al 2019 si sono infatti susseguiti tre interventi delle Sezioni Unite che hanno risolto alcune delle problematiche interpretative connesse a tale istituto4. Con la sentenza 19 aprile 2016, n. 7700, le Sezioni Unite, sottolineando l’irrilevanza della qualificazione dell’appello quale revisio prioris istantiae ovvero novum judicium per il profilo oggetto di esame, ha precisato che “al concetto di riproposizione deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata”, essendo limitato ad una proposizione al giudice di appello di domande od eccezioni così come esse sono state poste in primo grado (conclusosi con rituale assorbimento di tali domande ed eccezioni) e con conseguente riconducibilità all’onere di impugnazione incidentale, in caso di vittoria in primo grado, anche delle eccezioni che siano state implicitamente, ma “chiaramente ed inequivocamente”, rigettate5. L’anno successivo, con la sentenza 16 novembre 2017, n. 27199, le Sezioni Unite, confermando la qualificazione della riproposizione ex art. 346 c.p.c. in termini restrittivi, vale
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Tra le più rilevanti, v. Cass. civ., Sez. Un., 4 maggio 2017, n. 10790 in tema di prova nuova ammissibile in appello secondo il ristretto canone di cui all’art. 345, comma 1, c.p.c.; Cass. civ., Sez. Un., 19 aprile 2016, n. 7700, relativa al rapporto tra riproposizione e appello incidentale nelle domande di garanzia; Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199 con riferimento alla corretta interpretazione dei canoni di specificità prescritti dagli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012 e Cass. civ., Sez. Un., 12 maggio 2017, n. 11799 sulla possibilità di rilievo officioso da parte del giudice dell’impugnazione delle eccezioni in senso lato, in caso di previa formulazione da parte del convenuto nei gradi precedenti e relativo assorbimento o rigetto o mancato rispetto della gradazione di eccezioni formulata dal convenuto. 4 Cass. civ., Sez. Un., 19 aprile 2016, n. 7700; Cass. civ., Sez. Un., 12 maggio 2017, n. 11799 e Cass. civ., Sez. Un., 21 marzo 2019, n. 7940, oggetto del presente esame. Più risalente, ma di fondamentale importanza in relazione al profilo del rapporto tra riproposizione e appello con riferimento all’eccezione di giurisdizione respinta in primo grado ma con vittoria nel merito, v. Cass. civ., Sez. Un., 16 ottobre 2008, n. 25246 (intervenuta una settimana dopo la “storica” Cass. civ., Sez. Un., 9 ottobre 2008, n. 24883, che ha annullato l’operatività dell’art. 37 c.p.c., sostanzialmente abrogandone la parte in cui prescrive la rilevabilità del difetto di giurisdizione “in ogni stato e grado”). 5 Consolo - Godio, Un ambo delle Sezioni Unite sull’art. 345 (commi 2 e 3). le prove nuove ammissibili perché indispensabili (per la doverosa ricerca della verità materiale) e le eccezioni (già svolte) rilevabili d’ufficio, nota a Cass. civ., Sez. Un., 4 maggio 2017, n. 10790 e Cass. civ., Sez. Un., 12 maggio 2017, n. 11799, in Corr. giur., 2017, 11, 1416. V. altresì Consolo, Breve riflessione esemplificativa (oltre che usi totalmente adesiva) su riproposizione e appello incidentale, nota a Cass. civ., Sez. Un., 19 aprile 2016, n. 7700, in Corr. giur., 2016, 7. Invero appartiene alla successiva pronuncia Cass. 16 novembre 2017, n. 27199 l’espressione “l’art. 346 c.p.c. con l’espressione eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado (…) intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione né attraverso un’enunciazione in modo espresso, né attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara e inequivoca”.
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a dire escludendo i casi in cui le domande ed eccezioni non siano state legittimamente assorbite (con onere di impugnazione in caso di pretermissione della domanda o eccezione e di implicito rigetto delle stesse) nonché la natura dell’appello quale revisio prioris istantiae6, hanno individuato il campo di operatività del potere-dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni di cui all’art. 345 cpv., c.p.c., sulla premessa che sull’eccezione non esaminata in primo grado non si forma il giudicato ex art. 329 cpv., c.p.c., così affermando che il rilievo d’ufficio dell’eccezione in senso lato da parte del giudice investito del giudizio di appello concorre o con l’onere di impugnazione incidentale, qualora il convenuto (o l’attore che abbia formulato eccezione in senso lato avverso la domanda riconvenzionale ex adverso spiegata) sia soccombente in primo grado, o con l’onere di riproposizione, in caso di sua totale vittoria. Di qui la terza pronuncia in esame, che, specificando ancora una volta la natura dell’appello quale revisio prioris istantiae (e confermando in obiter dicta taluni dei principi di recente affermazione appena richiamati) vira la propria rotta verso il profilo temporale del termine di decadenza previsto per la riproposizione. Con stile piano, in alcuni passaggi succinto, le Sezioni Unite giungono in poche pagine a fornire una soluzione sicuramente ragionevole e fedele agli auspici della dottrina e al canone, di ormai quotidiana invocazione in seno al Supremo consesso, della ragionevole durata del processo, ma anche, forse, espressiva di una ormai conclamata tendenza alla creazione giurisprudenziale della regula iuris7.
3. Le discontinuità tra ordinanza interlocutoria e pronuncia delle Sezioni Unite.
Come anticipato, la disciplina processuale applicabile alla controversia di merito si pone nel decennio di mezzo tra le due riforme del 1995 e del 2005, all’indomani della riforma del 1995 (D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, conv. con mod. dalla L. 20 dicembre 1995,
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Par. 5.1. Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199. V., da ultimo, in tema di riproposizione delle istanze istruttorie nel rito del lavoro, Cass. civ., 3 maggio 2019, n. 11703: “Nell’appello del rito del lavoro, l’appellante che contesta integralmente la sentenza di primo grado, non ha l’onere di reiterare le istanze istruttorie proposte in primo grado, risultando la riproposizione insita nella stessa istanza di accoglimento delle domande; di contro la parte appellata deve manifestare in maniera univoca – quanto meno richiamandosi alle difese di primo grado – la volontà di devolvere al giudice del gravame anche il riesame delle proprie richieste istruttorie su cui il primo giudice non si è pronunciato” con nota di P. Farina in Ilprocessocivile.it, la quale, giustamente, osserva come la distinzione delineata dal giudice di legittimità tra la posizione dell’appellante e quella dell’appellato si ponga in aperto contrasto con il diritto di difesa dell’appellato, al quale è demandata un’attività difensiva non richiesta all’appellante, ledendo “al contempo il principio di parità delle armi posto che le istanze istruttorie non esaminate in primo grado sono tutte soggette all’onere di espressa riproposizione” e ciò sulla base dell’assunto secondo cui le richieste istruttorie sono strumentali al grado in cui sono proposte: “la prova se non è coltivata nei termini decadenziali dalla parte (che non insiste per la sua assunzione in sede di precisazione delle conclusioni), si intende rinunciata, senza possibilità alcuna di essere nuovamente richiesta ed ammessa in appello”.
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n. 534), che ha irrigidito la dinamica del processo con l’introduzione del meccanismo delle preclusioni processuali, e prima della successiva riforma del 2005 (D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. dalla L. 14 maggio 2005, n. 35), che ha abolito l’udienza di comparizione di cui all’art. 180 c.p.c. (unificandola all’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c.) e modificato l’art. 167 c.c., introducendo l’obbligo di formulare tempestivamente, ossia nel termine di cui all’art. 166 c.p.c., a pena di decadenza, le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio. L’ordinanza interlocutoria si concentra quindi sulla disciplina processuale applicabile alla causa ratione temporis al fine di circoscrivere la materia devoluta all’esame delle Sezioni Unite e segnala l’opportunità di verificarne la idoneità a prescrivere una barriera preclusiva per l’onere di riproposizione delle domande nei confronti dell’appellante o di altri appellati. In tal senso, dunque, la sezione rimettente si premura di formulare una richiesta orientata a risolvere, puramente e semplicemente, la fattispecie sostanziale rimessa al suo esame8, escludendo dal perimetro oggettivo della remissione i profili collegati alla successiva riforma del 2005 che, uniformando la disciplina delle domande e delle eccezioni in senso stretto, avrebbe richiesto di includere nella questione rimessa alle Sezioni Unite tanto la riproposizione di domande quanto la riproposizione di eccezioni. Infatti, la corte distrettuale aveva erroneamente dichiarato inammissibile quello che qualificava come appello incidentale proposto dagli appellati con riferimento alla domanda di manleva già proposta in primo grado, la cui reiterazione nel giudizio di impugnazione doveva, invece, essere correttamente ricondotta al genus della riproposizione ex art. 346 c.p.c. (stante il rituale assorbimento compiuto dal giudice di prime cure); tanto accadeva, appunto, in un quadro processuale in cui la disciplina processuale applicabile ratione temporis era tale da escludere le eccezioni in senso stretto dalla decadenza di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c., essendovi una doppia barriera preclusiva che consentiva di formulare le eccezioni in senso stretto sino alla memoria successiva all’udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c., entro venti giorni prima dell’udienza di trattazione. Sotto tale profilo, quindi, l’ordinanza espressamente avverte che “difettando nel secondo grado un termine intermedio tra le udienze di comparizione e di trattazione, la barriera preclusiva del primo grado non era compatibile con l’appello e, perciò, le eccezioni potevano essere riproposte ex art. 346 c.p.c. fino all’udienza di precisazione delle conclusioni” e poi puntualmente avverte che, a seguito della riforma del 2005, siffatta differenza non è più percepibile e pertanto anche per le eccezioni in senso stretto deve ritenersi applicabile la barriera preclusiva della comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata9. Nel comporre il contrasto, la pronuncia delle Sezioni Unite amplia i confini tracciati dall’ordinanza di remissione e include le eccezioni nel perimetro del principio di diritto
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Come caldeggiato dal Primo Presidente della Corte di cassazione con decreto del 14 settembre 2016, v. Godio, La riproposizione ex art. 346 c.p.c., cit., sub nota 4, 236. 9 Godio, La riproposizione ex art. 346 c.p.c., cit., sub nota 8, 237.
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affermato, “declassando” così la forza argomentativa inerente alla cornice evolutiva processuale puntualmente delineata dall’ordinanza interlocutoria, la quale, appunto, ha motivato la sua soluzione “iper-restrittiva” richiamando l’applicazione all’appello delle barriere preclusive individuate dall’art. 167 c.p.c. per il giudizio di primo grado, prima e dopo la riforma ad opera del D.L. 35/2005, in forza del rinvio operato dall’art. 347 c.p.c. e previa valutazione di compatibilità secondo quanto disposto dall’art. 359 c.p.c. Tale disallineamento tra ordinanza interlocutoria e pronuncia nomofilattica svela una differenza di vedute di non poco conto. Il generico richiamo nell’incipit dell’enunciazione del principio di diritto alla “novella di cui alla L. n. 353 del 1990, e (…) successive modifiche” rende manifesto l’allontanamento delle Sezioni Unite dall’approccio adottato dall’ordinanza interlocutoria nell’indagare il diverso operare dei termini di decadenza nell’evoluzione diacronica della disciplina processuale, all’esito della quale il procedimento di primo grado è risultato governato da rigidi meccanismi di preclusioni, da estendersi – sempre a detta dell’ordinanza interlocutoria – al giudizio di appello con riferimento agli istituti disciplinati da eadem ratio. In effetti, le Sezioni Unite hanno, pur senza troppo sforzo argomentativo, negato la possibilità di traslare in appello tali preclusioni, non ravvisando alcuna compatibilità (nel senso individuato dall’art. 359 c.p.c.) tra i termini di decadenza per le domande ed eccezioni in primo grado e la riproposizione in appello, così concretamente tralasciando la valutazione dell’evoluzione normativa dei termini di decadenza in primo grado per le domande e le eccezioni, introdotta dalla sezione rimettente quale chiave interpretativa per la soluzione della questione. La decadenza per la riproposizione viene così spostata ad un momento posteriore (primo atto difensivo non oltre la prima udienza di comparizione) rispetto al termine individuato dall’art. 167 c.p.c., sul presupposto che l’attività di riproposizione vada inscritta nella categoria delle “mere difese”10 e non in quella delle eccezioni, così escludendo una sua qualificazione “ontologicamente avvicinabile a quella di formulazione di riconvenzionali o eccezioni in senso stretto”11 e dunque la possibilità di applicare in via analogica gli artt. 166 e 167 c.p.c. Le Sezioni Unite, nell’affrontare il tema con approccio “maieutico” al giudizio di appello, salvo poi fornire una risposta originale e innovativa, trascurano il caso in cui l’interesse alla riproposizione sorga solo in seguito alla proposizione, da parte di uno degli appellati, dell’appello incidentale in prima udienza ai sensi dell’art. 343, cpv., c.p.c. (essendo l’inte-
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Nella sentenza si legge che “in mancanza di basi sistematiche che impongano di assimilare l’attività di riproposizione a quella di formulazione ex novo di domande ed eccezioni in appello (come previsto dall’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2), non può operare il principio di preclusione, elaborato per selezionare le facoltà processuali esercitabili nella progressione del procedimento, secondo il punto di osservazione imposto dalla dialettica processuale del caso di specie, per cui la visuale elettiva dell’art. 346 c.p.c., sarebbe deviata in un ambito diverso da quello suo proprio, che va correttamente impostata sulla base della dicotomia difesa/eccezione ed altrettanto esattamente risolta nel senso della mera difesa. Diversamente si finirebbe con l’attrarre nella disciplina dell’appello incidentale anche la riproposizione di domande condizionate e/o di eccezioni non altrimenti esaminate dal primo giudice”. 11 L’espressione è di Godio, La riproposizione ex art. 346 c.p.c., cit., 238.
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resse all’impugnazione incidentale sorto dalla proposizione di altra precedente impugnazione incidentale)12: l’applicazione rigorosa del principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite a tale ipotesi finirebbe per precludere alla parte, in capo a cui sorge solo in prima udienza l’interesse alla riproposizione, l’effettiva possibilità di usufruire di tale strumento processuale (con possibile violazione delle garanzie costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost.).
4. … Continua (percorsi argomentativi a confronto). L’ordinanza interlocutoria menziona un precedente della S.C. particolarmente espressivo dell’orientamento estensivo della giurisprudenza di legittimità maggioritaria13, teso a consentire la formulazione della riproposizione in qualsiasi momento del giudizio di appello, sino all’udienza di p.c. Si tratta di Cass. civ., Sez. III, 10 agosto 2004, n. 15427 (alla cui lettura si rinvia), che, sul presupposto che la riforma del 1995 sia rivolta al solo giudizio di primo grado con esclusione dell’applicazione della disciplina riformata al giudizio di appello, ritenendo che la facoltà di formulare la riproposizione ex art. 346 c.p.c. (rimasto immutato a seguito della riforma del 1995) senza termini di decadenza non cagioni alcuna disparità tra appellante e appellato14, né tra convenuto in primo grado e appellato in grado di appello, ed escludendo che ciò determini una potenziale violazione del principio del contraddittorio15, ha affermato il seguente principio di diritto: “Per sottrarsi alla presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 cod. proc. civ., la parte vittoriosa in primo grado ha l’onere di riproporre, a pena di formazione del giudicato implicito, in modo chiaro e preciso le domande e le eccezioni (in senso stretto) respinte o ritenute assorbite, in qualsiasi momento del giudizio di secondo grado, fino alla precisazione delle conclusioni, non potendosi in alcun modo ri-
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V. infra nota 27. Con riferimento a posizioni di giurisprudenza più restrittive, vengono segnalate dall’ordinanza interlocutoria: Cass. civ. 27 aprile 2005, n. 8758; Cass. civ., sez. Lav., 27 gennaio 1987, n. n. 756; Cass. civ., sez. Lav., 16 luglio 1996, n. 6426. 14 Viene sul punto richiamata la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 345, comma 2, c.p.c. in relazione all’art. 3 Cost., per il diverso trattamento riservato all’appellante, che deve svolgere tutte le attività, ivi compresa la riproposizione, nell’atto di appello, e all’appellato, che può (ma non dopo la pronuncia oggetto del presente esame) formulare la riproposizione fino all’udienza di p.c., in ragione della diversa posizione processuale rivestita dalle parti e dei diversi oneri ricondotti a ciascuna di esse: Corte Cost., 22 aprile 1977, n. 1484 (invero il richiamo nella pronuncia è a Cass. civ., 1 febbraio 1995, n. 1141, che menziona quanto stabilito dalla Consulta). 15 Invero l’ordinanza interlocutoria elenca con precisione l’iter argomentativo della pronuncia del 2004, così a sommi capi articolato: l’art. 347 c.p.c. rinvia a “forme e termini” della costituzione e non alle decadenze prescritte nel giudizio di primo grado e pertanto il rinvio deve intendersi limitato all’art. 166 c.p.c. e non anche al successivo art. 167 c.p.c.; la riforma del 1995 ha innovato la disciplina del primo grado e non anche la disciplina dell’appello; non vi è disparità di trattamento tra appellante, tenuto ad inserire l’eventuale riproposizione che non discenda dall’attività difensiva svolta successivamente dall’appellato nel proprio atto di appello, e appellato, in grado di formulare la riproposizione in qualsiasi momento nel corso del giudizio di appello, attesa la diversità delle posizioni ricoperte dalle parti processuali. 13
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tenere applicabile all’appello, neppure in parte o con adattamenti, il sistema di preclusioni introdotto per il primo grado (art. 167 e segg. c.p.c.) con la novella del 1995”. L’ordinanza interlocutoria, precisando che oggetto della pronuncia del 2004 era una eccezione di prescrizione formulata in primo grado (e non una domanda di manleva come nel caso sottoposto al suo esame), ritiene condivisibile il risultato finale della sentenza citata con riferimento alla fattispecie sostanziale ivi dedotta in giudizio, seppure sul diverso presupposto teorico che in quel caso, essendo la disciplina applicabile ratione temporis sicuramente precedente alla riforma del 2005, la riproposizione delle eccezioni in senso stretto non soggiaceva ad alcuna preclusione temporale (essendo in primo grado le eccezioni soggette ad una preclusione diversa e incompatibile con la struttura del giudizio di appello). Quanto, invece, agli argomenti adottati dalla S.C. nel 2004, l’ordinanza interlocutoria ne prospetta (e auspica) il superamento argomentando sotto molteplici profili. In primo luogo, la terza Sezione ritiene che il richiamo contenuto nell’art. 347 c.p.c. alle forme e ai termini per la costituzione in primo grado non possa ritenersi limitato alla disciplina contenuta all’art. 166 c.p.c., che prescrive le modalità per la costituzione “almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione” senza estendere il richiamo all’art. 167 c.p.c., che disciplina le sanzioni prescritte in caso di irregolare – ovvero tardiva – costituzione. L’ordinanza interlocutoria sottolinea, poi, come prima della riforma del 1995, in mancanza di preclusioni previste in primo grado per la proposizione di domande riconvenzionali o per la formulazione di istanza di chiamata in causa del terzo, non fosse ragionevole sostenere che la riproposizione di domande ed eccezioni in appello dovesse avvenire entro la tempestiva costituzione dell’appellato in quanto, diversamente opinando, si sarebbe attribuito all’appello una disciplina più rigorosa e restrittiva di quella prevista per il giudizio di primo grado; tale limite temporale, invece, dovrebbe trovare applicazione all’indomani della riforma del 1995 e ancor più dal 2006 (a posteriori dell’inserimento delle eccezioni in senso stretto tra le attività soggette a decadenza in primo grado ex art. 167 c.p.c.) anche in ossequio al principio tantum devolutum quantum appellatum, che impone una celere definizione dell’oggetto dell’appello in un momento anteriore all’udienza ex art. 350 c.p.c., nel rispetto della ragionevole durata del processo e delle esigenze di difesa delle parti. Si osserva altresì che l’unione delle due udienze ex artt. 180 e 183 c.p.c. da parte della riforma del 2005, con conseguente fissazione di un’unica barriera preclusiva, consentirebbe di escludere l’attuale esistenza di profili di incompatibilità tra giudizio di appello e giudizio di primo grado tali da precludere l’applicazione alla riproposizione della disciplina di decadenza di cui all’art. 167 c.p.c., “posto che il rinvio ex art. 347 c.p.c., comma 1, alle norme per la costituzione del convenuto ex artt. 166 e 167 c.p.c. consente una lettura simmetrica della disciplina dei due gradi di giudizio”. Convincimento di fondo che muove l’opinare della Sezione rimettente è che il sistema delle preclusioni è posto a presidio non solo delle esigenze di difesa delle parti, ma anche “dell’ordine pubblico al corretto e celere andamento del processo”, come comprovato dalla rilevabilità d’ufficio che è prescritta al riguardo; in tale ottica, consentire la riproposizione ex art. 346 c.p.c. in un momento successivo alla costituzione del convenuto pregiudiche-
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rebbe il diritto di difesa delle altre parti del processo, posto che l’udienza ex art. 350 c.p.c. è destinata al compimento di altre e diverse attività (art. 343, comma 2, c.p.c.). Viene infine sottolineato che l’istituto del cd. “filtro in appello” di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. richiede una “completa esposizione di tutte le argomentazioni dei contendenti affinché il giudice possa immediatamente pronunciare, se del caso, l’ordinanza di inammissibilità dell’appello”. Negli ultimi capoversi dell’ordinanza non manca quindi l’invito alle Sezioni Unite a fornire la “soluzione ermeneutica maggiormente corrispondente al principio della ragionevole durata del processo”, invito che, come prevedibile, è stato strategicamente colto (seppure non fino in fondo) dal Supremo Consesso. Le Sezioni Unite, sulla premessa che l’art. 346 c.p.c. introduce un effetto devolutivo non automatico delle domande condizionate e delle eccezioni formulate in primo grado e rimaste assorbite dalla relativa pronuncia16 e che, in assenza di riproposizione, in capo alle parti si verifica “una vera e propria decadenza, con formazione di giudicato implicito sul punto”17, discostandosi da alcune ragioni prospettate e dalla soluzione finale suggerita dall’ordinanza interlocutoria, hanno argomentato sulla base dei seguenti punti:
- l’art. 346 c.p.c. è formulato in maniera tale da escludere l’onere di riproposizione con riferimento alle “mere difese”, ossia all’attività di contestazione o negazione dei fatti costitutivi fatti valere dall’attore, e riguarda solo le domande ed eccezioni “sulle quali non vi sia stata una parte praticamente soccombente”, quando, cioè, la parte “sia rimasta totalmente vittoriosa nel merito”;
- quanto al termine per la riproposizione, da un lato si impone la necessità che essa avvenga “all’atto di costituzione nel giudizio di appello”, poiché, qualora si accogliesse la soluzione estensiva che la rende possibile sino alla precisazione delle conclusioni, si determinerebbe “un vulnus al diritto di difesa dell’appellante” (ovvero di altro appellato destinatario della riproposizione); dall’altro, invece, occorre verificare la compatibilità delle attività di cui all’art. 167 c.p.c., che si precludono al convenuto con la tempestiva costituzione in giudizio in primo grado ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c., con la struttura dell’appello e con la ratio della riproposizione;
- dall’analisi dei connotati della riproposizione nel giudizio di appello emerge che tale istituto ontologicamente non amplia l’oggetto del giudizio per mezzo dell’introduzione
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Invero nella sentenza si parla di “riproposizione delle domande e delle eccezioni respinte o ritenute assorbite” ma l’espressione “respinte” deve ritenersi non attuale alla luce delle pronunce Cass. civ., Sez. Un., 19 aprile 2016, n. 7700 e Cass. civ., Sez. Un., 12 maggio 2017, n. 11799, richiamate nel primo paragrafo. 17 Espressione corretta nel prosieguo del provvedimento, ove si precisa che “la mancata riproposizione di una domanda non esaminata in primo grado non dà luogo a giudicato ma ad una preclusione processuale” nel senso di perdita di una facoltà processuale “estinta perché non esercitata nel rispetto di un termine perentorio, ovvero consumata perché già esercitata, ovvero ancora incompatibile rispetto ad altra attività processuale svolta in precedenza”.
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di nuovi diritti o nuovi fatti costituenti eccezioni in senso stretto (che sarebbero soggetti alla disciplina dell’art. 345 c.p.c.), ma si limita a veicolare e introdurre l’interesse, condizionato all’accoglimento dell’appello, alla decisione su diritti ovvero eccezioni già introdotti in primo grado. In tale ottica, allora, l’attività di riproposizione non può essere ricondotta alla logica dell’introduzione ex novo di fatti dotati di autonoma efficacia giuridica rispetto a quelli costitutivi (i.e. eccezioni) o di diritti – logica questa che è posta alla base della ratio che governa il contenuto dell’art. 345 c.p.c., laddove prescrive un generale divieto di introduzione dei nova – ma va piuttosto inscritta nell’insieme di quelle attività che si traducono nella pura contestazione ovvero negazione dei fatti costitutivi e dei diritti ex adverso allegati, ossia nella categoria delle “mere difese”. Nel binomio eccezione/difesa le Sezioni Unite, quindi, evidenziano la collocazione della riproposizione nella seconda categoria e su tale premessa individuano il regime temporale ad essa applicabile nella dinamica processuale, che, quindi, non può coincidere con quello prescritto in primo grado per la formulazione di eccezioni in senso stretto e di domande riconvenzionali;
- tanto, quindi, conduce ad escludere la soluzione, prospettata dalla sezione rimettente, secondo cui la riproposizione debba avvenire nel termine di cui all’art. 167 c.p.c. di venti giorni prima dell’udienza indicata nell’atto di appello. Né l’invocazione dell’interesse pubblico al corretto e celere svolgimento del processo potrebbe rilevarsi sufficiente a superare i rilievi svolti, atteso che la parte destinataria della riproposizione avrebbe a disposizione la comparsa conclusionale per argomentare le proprie difese; in ogni caso, ove si optasse per la decisione a seguito di trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c. e l’appellato, costituendosi tardivamente in udienza, formulasse la riproposizione di domande o eccezioni, la parte destinataria di tale riproposizione potrebbe richiedere un legittimo rinvio per controdedurre in merito18 inducendo l’organo giudicante ad “acquisire conoscenza delle medesime difese per la eventuale trattazione orale dell’appello” in una successiva udienza;
- infine, le Sezioni Unite correttamente puntualizzano l’irrilevanza dell’argomentazione relativa all’applicazione dell’art. 348-bis c.p.c. svolta nell’ordinanza interlocutoria, atteso che l’istituto del “filtro in appello” è rivolto alla individuazione di motivi di manifesta infondatezza dell’appello e al preventivo rigetto dello stesso, a mezzo di una dichiarazione di “inammissibilità” (ove, in effetti, di infondatezza si tratta) che si pone a monte della dinamica processuale instauranda e non implica alcun “problema di potere-dovere decisorio” sulle domande o eccezioni riproposte19.
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Non escludendosi, tuttavia, che tali controdeduzioni siano state già svolte in primo grado e che la parte possa, in ogni caso, richiamare le proprie argomentazioni ivi svolte. 19 Del resto, come è ovvio, se l’appello viene rigettato alle porte della sua trattazione, mai si concretizzerà l’interesse dell’appellato alla
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5. Note di riflessione. Una volta ripercorso l’itinerario argomentativo che ha condotto il giudice della nomofiliachia al revirement rispetto all’orientamento che ammetteva la possibilità di formulare la riproposizione sino alla precisazione delle conclusioni, senza tuttavia adottare l’approccio rigorista favorevole all’applicazione della disciplina di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c. prevista per le attività vincolate tipiche del giudizio di primo grado, ci si può soffermare su taluni profili di particolare interesse che emergono dalla pronuncia e che suscitano alcuni interrogativi. Le Sezioni Unite passano in rapida rassegna i connotati che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha conferito al giudizio di appello, enfatizzandone la natura di revisio prioris istantiae e l’effetto devolutivo non automatico con riguardo sia all’onere di formulazione specifica dei motivi di appello (art. 342 c.p.c.), sia alla necessità di riproposizione ex art. 346 c.p.c., occorrendo una corretta individuazione dell’ambito di devoluzione al giudice di appello delle parti della sentenza impugnate (capi), così come delle domande ed eccezioni assorbite che vengono sottoposte alla cognizione del giudice dell’impugnazione20. Non risulta, invece, valorizzato il distinguo tra eccezioni rilevabili d’ufficio (le quali, per essere ancora rilevabili dal giudice del gravame, qualora siano state sollevate dalla parte, devono non aver costituito oggetto di rigetto o di “implicita valutazione di infondatezza”21 da parte del giudice di prime cure e dunque essere state assorbite e possono concorrere, a seconda dei casi, con la possibilità di impugnazione o di riproposizione22) ed eccezioni in senso stretto, di talché deve ritenersi che sotto il profilo temporale sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite la disciplina sia unica. Le Sezioni Unite impostano il tema di indagine sulla dicotomia eccezione/difesa e sui relativi riflessi che tali attività comportano al giudizio: la prima apporta nuovo materiale all’oggetto di cognizione del giudice (anche se non amplia il thema decidendum), la seconda, invece, limita i propri effetti all’interno del perimetro fattuale già delineato dall’attore (o dal convenuto che, formulando domanda riconvenzionale, faccia valere de-
riproposizione di domande o eccezioni assorbite in primo grado. Con la dovuta precisazione che “oggetto della cognizione decisoria del giudice di secondo grado è direttamente la controversia già decisa dal giudice di primo grado (…) l’ampiezza della cognizione del giudice di appello, però, dipende dalla capillarità delle doglianze mosse avverso la sentenza di prime cure. L’effetto devolutivo non è, in altri termini, automatico, ma discende dai motivi di appello fatti valere”, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2014, 462-463. 21 Consolo - Godio, Un ambo delle Sezioni Unite, cit., 1415. 22 Nell’ipotesi di eccezione in senso lato sollevata dal convenuto (ma lo stesso, a termini invertiti, vale per l’eccezione formulata dall’attore rispetto alla domanda riconvenzionale proposta dal convenuto), in caso di mancata valutazione dell’eccezione (per applicazione della regola della ragione più liquida o per rituale assorbimento) è l’esito della lite a determinare lo strumento processuale con cui l’eccezione, pur sempre rilevabile ex officio, può essere portata dalla parte all’attenzione del giudice del gravame: in caso di vittoria dell’attore, la mancata valutazione dell’eccezione andrà censurata dal convenuto soccombente con lo strumento dell’appello, mentre in caso di vittoria del convenuto, quest’ultimo potrà riproporre ex art. 346 c.p.c. l’eccezione rimasta assorbita in primo grado. 20
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terminati fatti costitutivi). In questi termini, allora, l’effetto “innovativo” dell’eccezione è estraneo alla funzione della riproposizione, la quale attiene “pur sempre alla trattazione di circostanze già rientranti nel thema probandum e nel thema decidendum del giudizio di primo grado” ed in tal senso si avvicina alla struttura della difesa, avendo ad oggetto la richiesta, condizionata all’accoglimento dell’appello avversario, di “decisione su diritti od eccezioni già a suo tempo ritualmente introdotti in giudizio” (senza alcun apporto di stampo “innovativo” all’oggetto del giudizio di appello). Secondo questa visuale esegetica, allora, il principio affermato conferisce al giudizio di appello una logica di funzionamento fedele al suo carattere effettivamente sostitutivo rispetto al giudizio di primo grado sfociato nella decisione impugnata23, nella misura in cui consente di cogliere e conservare una continuità di fondo delle attività difensive svolte dalle parti nel corso dell’intero processo. Così opinando, le Sezioni Unite rifiutano di assoggettare l’attività della parte appellata, priva di contenuto impugnatorio, di mera “perorazione della propria difesa”, alle preclusioni dettate in primo grado per le attività “innovative” rispetto all’oggetto della cognizione (eccezioni) o della decisione (domande riconvenzionali) del giudice ed in tal senso viene avvalorata la convinzione circa la natura dell’appello quale revisio prioris istantiae, in luogo della precedente concezione di novum judicium24. Dalla premessa scandita dalle Sezioni Unite con riferimento all’accostamento della riproposizione alle “mere difese” dovrebbe discendere, stando alla logica del parallelismo così strutturato, che la soluzione accolta sia quella della possibilità di formulazione sino all’udienza di p.c. (trattandosi di attività difensiva che nel giudizio di primo grado non è soggetta a barriere preclusive); invece, il Supremo Consesso, tradendo la logica delle proprie assunzioni, ma richiamando al contempo ragioni che definiamo, tutto sommato, di buon senso, mascherate dalle più eloquenti espressioni di “legittimo affidamento” e “autoresponsabilità” (e non di ragionevole durata, come ci si poteva attendere in ragione delle premesse), afferma una regola a metà tra le due opposte soluzioni prospettate: non la libertà di proposizione, ma neppure la stretta decadenza. Suscita altresì interesse, cambiando di poco angolatura visiva, il richiamo al criterio differenziale tra oggetto dell’impugnazione e oggetto della cognizione del giudice, il quale non costituisce un novum nel panorama giurisprudenziale, ove si rintracciano tentativi di regolamento e analisi dei confini tra oggetto del processo, oggetto della domanda giudiziale e oggetto del giudicato. Di particolare risonanza sotto tale profilo risultano essere i
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Ad eccezione delle ipotesi di appello rescindente di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. e delle ipotesi di dichiarazione di inammissibilità a seguito del filtro di cui agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. nonché dell’ipotesi (patologica) di estinzione del medesimo giudizio di appello (art. 338 c.p.c.). 24 Del resto la formulazione dell’art. 346 c.p.c. “denota come, già nel sistema originario del codice del 1940 (…) uno dei tradizionali caratteri dell’appello, ossia il suo effetto devolutivo, non tanto potesse operare solo all’interno del capo di sentenza impugnato o di quelli rispetto ad espso dipendenti, ma pur in questo ambito sia stato discipinato in modo significativamente diverso e più stretto (…) quale effetto devolutivo non automatico in quanto subordinato ad una iniziativa selettiva e chiarificatrice di parte”, Consolo, di diritto processuale civile, II, Torino, 2014, 486.
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noti arresti delle Sezioni Unite del 2014 relativi alla questione del giudicato implicito sulla nullità nelle azioni ex contractu25, in cui si afferma che “oggetto del processo, oggetto della domanda giudiziale e oggetto del giudicato risultano cerchi sicuramente concentrici, ma le cui aree non appaiono sempre perfettamente sovrapponibili”. La discontinuità tra tali aree si può verificare sia nei casi in cui il giudice, prima di poter emanare una decisione, debba risolvere questioni relative ai fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio e che rappresentano un antecedente logico necessario del medesimo diritto, sia nei casi in cui il giudice emani la decisione accogliendo o rigettando la domanda sulla base dell’esame di una sola questione, costituente la “ragione più liquida”, in grado di assorbire le altre questioni, così derogando alla regola dell’ordine di trattazione delle medesime (di cui, appunto, alcune rimangono escluse dalla cognizione del giudice); se nel primo caso l’oggetto del giudicato ricopre un’area più vasta dell’oggetto della domanda, nel secondo caso l’oggetto del giudicato copre un’area minore dell’oggetto della domanda. Anche la regola secondo cui la decisione della causa copre sia il dedotto che il deducibile, precludendo ogni successivo riesame della questione già decisa sulla base di nuovi argomenti ed elementi che siano collegati allo stesso petitum, costituisce una ipotesi di estensione dell’oggetto del giudicato oltre l’area dell’oggetto del processo. Riprendendo questi paradigmi teorici, la pronuncia in esame sembra voler riflettere sulla formazione frazionata e diacronica del giudicato nel passaggio da un grado all’altro di giudizio e così delineare nel giudizio di appello un ventaglio di dinamiche relative al rapporto tra oggetto del processo e oggetto della cognizione del giudice, variamente declinate a seconda delle attività delle parti (impugnazione, riproposizione e acquiescenza) che definiscono la fisionomia concreta dell’effetto devolutivo. Se l’attività di impugnazione (principale o incidentale) concorre a definire l’oggetto del processo26, pur sempre in continuità con il giudizio di primo grado in ragione della sua natura sostitutiva e di revisio prioris istantiae (quest’ultima garantita dalla regola del divieto dei nova), la riproposizione mantiene invece immutato l’oggetto del processo, incidendo in senso estensivo sulla cognizione del giudice di appello, chiamato a pronunciarsi per la prima volta (in caso di accoglimento dell’appello, principale o incidentale che sia) su domande ed eccezioni appartenenti al thema decidendum e al thema probandum del processo sin dal principio ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (così come, invero, a chi scrive pare potersi sostenere con riguardo alle domande ed eccezioni su cui vengono fondati i motivi di appello). Per quanto di estensione in senso proprio non si possa o voglia, stando al ragionamento seguito dal Supremo Consesso, parlare, non di meno risulta evidente come la riproposizione sia in grado di incidere sulle attività concretamente richieste al giudice del gravame, proprio in forza del meccanismo che impedisce l’operare della presunzione di rinuncia e
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Cass. civ., Sez. Unite, 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243. In caso di impugnazione incidentale, quanto meno nell’ipotesi in cui essa si riferisca ad un macro-capo diverso rispetto a quello oggetto dell’impugnazione principale e quindi ad un diritto diverso di quello che già costituisce oggetto del giudizio di appello.
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preclude la formazione del cd. giudicato interno (o preclusione), con tutte le implicazioni in termini di attività e tempi processuali. Tanto peraltro dimostra come la soluzione estensiva, volta a posticipare il termine per la riproposizione sino al momento della precisazione delle conclusioni, a valle della fase di cognizione, sia, in fin dei conti, poco ragionevole, oltre che ontologicamente incompatibile con la natura e il fine cui l’istituto di cui all’art. 346 c.p.c. è preposto. Non essendovi modo di rintracciare il termine per la riproposizione nelle norme stabilite per l’appello, né di mutuarle (ai sensi degli artt. 347 e 359 c.p.c.) dalle regole stabilite per il primo grado, interviene a colmare la lacuna di disciplina l’applicazione del principio della ragionevole durata del processo e così le Sezioni Unite stabiliscono tale termine individuando la sede in cui effettuare la riproposizione (atto di costituzione o prima udienza, a seconda dei casi27), con evidente propensione del giudice della nomofiliachia a spingersi sempre più oltre il confine dell’ermeneutica e verso i lidi della creazione giurisprudenziale della regula iuris. In ultima analisi, la soluzione fornita non pare in sé irragionevole, anzi, merita di essere apprezzata sotto i profili della parità di trattamento delle parti e del principio della ragionevole durata del processo (con particolare riguardo ai giudizi di appello che patiscono tempi di definizione biblici); essa, però, rende manifesta l’ormai incontrollata tendenza del giudice di legittimità che, sotto l’egida del giusto processo, non indugia a sostituirsi al legislatore nella proclamazione della regola (e non solo della sua interpretazione). Alessia D’Addazio
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Se l’interesse di un appellato a riproporre domande od eccezioni sorge “in reazione” alla riproposizione svolta da altro appellato o da un appello incidentale proposto da altro appellato con comparsa di costituzione depositata tempestivamente ma dopo il deposito della comparsa da parte del primo, la riproposizione sarà allora consentita alla prima udienza ex art. 350 c.p.c. Laddove, invece, uno degli appellati proponesse appello incidentale in prima udienza ai sensi dell’art. 343, cpv., c.p.c. (in quanto il suo interesse all’impugnazione è sorto, a sua volta, da altra impugnazione incidentale svolta con comparsa di risposta ex art. 343, comma 1, c.p.c.) e da tale (secondo) appello incidentale sorgesse l’interesse di altra parte appellata alla riproposizione di domande o eccezioni, si dovrebbe ritenere preclusa, in capo a tale parte, secondo la soluzione fornita dalle Sezioni Unite, la possibilità di formulare siffatta riproposizione, non potendo procedervi in udienza di p.c.. Si ricreerebbe allora quel vulnus che ha condotto alla remissione e alla pronuncia de quo (v. per ipotesi esemplificative di tali casi, Godio, La riproposizione ex art. 346 c.p.c., cit., sub nota 23, 240). Per evitare l’aporia, si dovrebbe pertanto consentire in tali ipotesi di formulare la riproposizione anche dopo la prima udienza (vale a dire, secondo la struttura del giudizio di appello, in udienza di p.c.).
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Giurisprudenza Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2840 Presidente: Mammone; Estensore: Frasca; AOAG c. BG. Accoglimento ricorso Ingiunzione di pagamento europea – Poteri del giudice – Opposizione – Disciplina applicabile – Introduzione della domanda – Termine – Inosservanza – Estinzione del giudizio Nel caso di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea il giudice italiano deve fissare un termine al creditore invitandolo ad introdurre la richiesta di tutela, restando escluso il potere del giudice di individuare le forme processuali che il creditore dovrà rispettare. L’inosservanza del termine comporta l’estinzione del processo secondo il terzo comma dell’art. 307 c.p.c. Ingiunzione di pagamento europea – Procedimento monitorio – Litispendenza – Effetti della domanda Nel caso di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea la litispendenza si verifica al momento della proposizione della domanda d’ingiunzione europea. Ingiunzione di pagamento europea – Opposizione ad ingiunzione di pagamento europea – Decreto ingiuntivo –Opposizione – Giurisdizione – Eccezione – Difetto di giurisdizione Nel caso di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea l’opponente non ha l’onere di sollevare l’eccezione di difetto di giurisdizione nell’atto di opposizione ex art. 17 Regolamento (CE) n. 1896 del 2006, che non può essere considerato un equivalente dell’opposizione a decreto ingiuntivo.
(Omissis) Fatti di causa. – 1. La Adam Opel Aktiengesellschaft GmbH, società di diritto tedesco (di seguito AOAG), ha proposto ricorso per cassazione contro la Bertone Glass s.r.l. (di seguito BG) avverso la sentenza del 20 aprile 2016, con la quale la Corte d’Appello di Torino ha rigettato il suo appello avverso la sentenza non definitiva ed accolto parzialmente quello contro la sentenza definitiva, pronunciate dal Tribunale di Torino a seguito del procedimento seguito all’introduzione, con deposito dell’8 agosto 2011, da parte della BG, di una domanda di c.d. ingiunzione europea ai sensi del Reg. CE 1896 del 2006 (di seguito IPE), per l’importo di Euro 577.748,03 oltre interessi e spese. 2. Con la sentenza non definitiva del 5 novembre 2012 il Tribunale dichiarava “inammissibili le eccezioni di difetto di competenza giurisdiziona-
le del Tribunale di Torino e di giurisdizione del Giudice italiano (anche sotto il profilo della clausola compromissoria), nonché di prescrizione”, disponendo la rimessione della causa nella fase istruttoria. Con la sentenza definitiva, resa nel 2013, il Tribunale riteneva fondata la domanda e condannava la qui ricorrente al pagamento della somma pretesa dalla BG. 3. Il ricorso per cassazione contro la sentenza di appello prospetta due motivi, il primo dei quali diretto a censurare la decisione di appello là dove ha confermato la sentenza parziale che aveva dichiarato inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano ed il secondo, proposto in via consequenziale all’accoglimento del primo, inerente alla fondatezza della questione di giurisdizione.
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4. Al ricorso ha resistito con controricorso la BG. 5. La presenza del motivo di giurisdizione ha determinato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite. 6. La ricorrente ha depositato memoria. Ragioni della decisione. – 11. Con il primo motivo di ricorso si deduce: “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 24 Cost., dell’art. 101 c.p.c., nonché dell’art. 17 del reg. CE 1896/2006, degli artt. 645, 163, 166 e 167 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. – Nullità della sentenza e/o del procedimento ex art. 360 n. 4 c.p.c.”. Con il secondo motivo si prospetta: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24, 111 Cost., degli artt. 101, 645, 163, 166 e 167 c.p.c., dell’art. 24 del reg. CE 44/2001; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5, 22, 24 e 26 Reg. CE 44/2001 e degli artt. 5 e 112 c.p.c. – Nullità della sentenza e/o del procedimento ex art. 360 n. 4 c.p.c.”. 1.1. Il primo motivo si articola in una esposizione che pone la “questione interpretativa dell’art. 17 Reg. Ce 1896/2006 circa gli effetti dell’opposizione all’IPE” sotto distinti profili e precisamente: a) sub (I)1 in termini di: “interruzione ovvero estinzione del procedimento ingiuntivo europeo”; b) sub (I)2 in termini di: “perdita di efficacia del solo provvedimento di ingiunzione ovvero anche della domanda. Configurabilità della dicotomia tra domanda e provvedimento”; c) sub (I)3 in termini di: “natura del procedimento ingiuntivo europeo: procedimento monitorio puro”; d) sub (I)4 in ordine: a “le modalità di passaggio al rito ordinario nella giurisprudenza di merito disponibile La soluzione adottata nel caso di specie”. In chiusura dell’illustrazione si prospetta, in fine, per il caso che sia ritenuta problematica l’interpretazione proposta delle norme del Regolamento CE 1896 del 2006 (d’ora in avanti Regolamento) e segnatamente del suo art. 17, anche
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una questione interpretativa pregiudiziale ex art. 267, comma 2, TFUE. 1.2. Il secondo motivo espone le ragioni per cui, sulla base dell’esegesi della normativa del Regolamento, l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano sarebbe stata ritualmente sollevata e, di seguito, le ragioni per cui essa si sarebbe e si deve ritenere fondata. 1.3. In tal modo, rilevano le Sezioni unite che, poiché le questioni poste dal primo motivo e dal secondo in via preliminare riguardano una doglianza mossa alla sentenza impugnata là dove ha ritenuto tardiva l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano e denunciano la violazione di norme del procedimento che ha indotto i giudici di merito a ritenere quella tardività ed il secondo motivo, nella sua seconda parte, prospetta le ragioni di fondatezza dell’eccezione di giurisdizione, in realtà entrambi i motivi afferiscono alla giurisdizione. Infatti, la violazione delle norme del procedimento che conduce a ritenere precluso l’esame di una questione di giurisdizione concerne sempre questa questione, perché inerisce alla nozione di questione di giurisdizione tanto l’applicazione delle norme che in senso statico la regolano quanto l’applicazione delle norme dello svolgimento del processo che sono rilevanti in senso dinamico ai fini del suo esame. 2. Ai fini della comprensione delle questioni poste dal primo motivo appare opportuno preliminarmente: aa) riferire lo svolgimento processuale avutosi dinanzi al Tribunale di Torino; bb) dar conto della motivazione enunciata dal Tribunale nella sentenza non definitiva di primo grado; cc) dar conto della motivazione con cui la corte territoriale ha confermato tale sentenza. 2.1. Quanto al procedimento di primo grado si rileva che: a1) a seguito del deposito della domanda di IPE in data 8 agosto 2011, redatta sul modulo A di cui all’Allegato al Regolamento, nel quale la
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BG indicava al punto 6 a fondamento della propria pretesa creditoria l’esistenza di un accordo tra le parti per fornitura di merce e l’omesso pagamento alla scadenza di fatture, che indicava al punto 10, il Tribunale di Torino emetteva l’IPE il 12 agosto 2011 sul modulo E di cui al detto Allegato ed essa veniva notificata dalla BG alla AOAG il 22 ottobre successivo; a2) il 15 novembre l’AOAG depositava presso la cancelleria del tribunale un atto denominato “opposizione all’ingiunzione di pagamento”, redatto sul modulo F del citato Allegato, al fine di impedire – secondo le previsioni del Regolamento – la formazione dell’esecutività dell’IPE, e la Cancelleria provvedeva all’iscrizione a ruolo, cui seguiva la designazione del magistrato designato alla trattazione; a3) quest’ultimo emetteva decreto con cui, previo richiamo degli artt. 24, 17 e 26, del citato regolamento, disponeva – previo rilievo dell’assenza «de iure condito, di un paradigma procedimentale uniforme, qualificabile alla stregua di un procedimento (europeo) ordinario» e assumendo che per tale ragione «il passaggio al procedimento civile ordinario ai sensi del Regolamento, come previsto dal citato art. 17, non possa che essere disciplinato dalla legge dello Stato membro di origine e, quindi, nel caso di specie, dalla legge italiana, con la conseguenza che la procedura di cui si discute debba essere ricondotta nell’alveo di una procedura ordinaria (italiana)» – che l’opponente, il quale – come consentito dal Regolamento – aveva depositato l’opposizione senza ministero di difesa tecnica, provvedesse: a1) a munirsene a pena di improcedibilità dell’opposizione; a2) a regolarizzare dal punto di vista fiscale la procedura con il versamento del c.d. contributo unificato. Con lo stesso decreto il Tribunale, per quello che interessa, fissava udienza dinanzi a sé per il 30 marzo 2012, mandando all’opponente «di notificare l’atto di opposizione, unitamente al presen-
te provvedimento, alla controparte nel rispetto del termine per comparire ex artt. 163-bis, 645 e 645 cpv. c.p.c., avvertendo sin d’ora la parte creditrice opposta che la costituzione oltre i termini di legge implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c.» e ciò nel presupposto della «necessità di dare attuazione [...] al fondamentale principio del contraddittorio, procedendo alla fissazione dell’udienza di prima comparizione delle parti e trattazione della causa, ex art. 183 c.p.c., al fine di consentire a questo procedimento di incamminarsi sui binari di un procedimento ordinario promosso ad iniziativa della parte opponente e dunque secondo le formalità di cui all’art. 645 c.p.c.»; a4) la AOAG si muniva di difensore e provvedeva a notificare alla BG un atto, nel quale riportava lo svolgimento del procedimento, sintetizzava il provvedimento del Giudice e indicava alla creditrice gli adempimenti prescritti ai fini della costituzione. Allegava all’atto il detto provvedimento e il Modulo F contenente l’opposizione; a5) la BG si costituiva tempestivamente depositando una comparsa di costituzione e risposta, nella quale eccepiva la nullità dell’opposizione della AOAG, adducendo la «evidente carenza sia degli aspetti formali previsti dall’art. 163 c.p.c., e sia, sotto il profilo sostanziale, l’assenza della causa petendi e del petitum dell’opposizione ex adverso notificata», e chiedeva confermarsi l’IPE per le causali di cui alle fatture; a6) all’udienza fissata ai sensi dell’art. 183 c.p.c. la AOAG eccepiva – per quanto interessa – il difetto di giurisdizione del giudice italiano (e la prescrizione dei crediti azionati) e, quindi, ribadiva dette eccezioni nella memoria ai sensi dell’art. 183 c.p.c. 2.2. Nella sentenza non definitiva il Tribunale affermava, per quanto qui interessa, che l’eccezione di difetto di giurisdizione sarebbe stata tempestiva qualora fosse stata sollevata «vuoi nel ricorso “informale”» di cui al modulo F del re-
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golamento comunitario, «vuoi con la successiva citazione conforme ai canoni del diritto italiano (diritto, quest’ultimo richiamato dal Regolamento europeo per la determinazione delle regole da seguire nella procedura d’opposizione, ritualmente instaurata a mezzo di presentazione del citato modulo F, ma bisognosa poi di incardinamento nelle forme del diritto processuale civile italiano, secondo quanto richiesto dalle stesse norme Europee, come detto)». Soggiungeva, quindi, che: «nel caso di specie, però, la parte opponente è rimasta del tutto silente sul tema in ciascuno dei due predetti atti. Il primo rilievo in causa è, come detto, quello effettuato a verbale d’udienza. Ora, secondo il vigente sistema processuale civile italiano, la determinazione dell’oggetto della controversia si ha esclusivamente con l’atto introduttivo. È noto infatti che la memoria ex art. 183, n. 1, c.p.c. consente le sole “precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte”. Ciò significa che ogni domanda non contenuta nelle conclusioni già proposte nell’atto introduttivo (nella specie: con l’atto di opposizione) deve ritenersi nuova e pertanto inammissibile». 2.3. La motivazione della sentenza impugnata si è articolata nei termini seguenti: aa) dopo avere rilevato che l’appellante censurava la ritenuta tardività delle eccezioni sostenendo di averle sollevate tempestivamente alla prima udienza e poi con la prima memoria di trattazione, adducendo che a seguito della contestazione l’IPE era priva di ogni efficacia, onde la BG era tenuta a riproporre la domanda, cosa che era avvenuta solo con la comparsa di risposta, di modo che la qui ricorrente aveva sollevato le eccezioni con la prima difesa utile al relativo deposito, la corte territoriale ha affermato di ritenere che «l’opposizione di cui al modello F non priva di efficacia la domanda introdotta con il ricorso introduttivo del procedimento di ingiunzione europeo»;
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bb) ha, quindi, rilevato che la domanda di IPE, siccome formulabile nel modulo A dell’Allegato del Regolamento «ha l’ampio contenuto indicato nelle lettere da a) a f) dell’art. 7 comma 2» e che esso «consente di individuare le parti – il credito azionato – il fondamento dell’azione – le prove offerte a dimostrazione del credito – i motivi della competenza giurisdizionale»; cc) soffermandosi sull’art. 17 del Regolamento e richiamando il suo contenuto in quanto attuativo del Considerando 24, là dove è precisato che l’opposizione dovrebbe interrompere il procedimento europeo, ma che, qualora il creditore non abbia manifestato una volontà estintiva del procedimento in caso di opposizione del debitore, il procedimento prosegua davanti “ai giudici competenti dello stato membro di origine” con l’applicazione delle norme di procedura civile ordinaria, ha affermato che, in mancanza di una disciplina nazionale italiana in proposito (consentita dal paragrafo 3 dell’art. 17), i dati rappresentati dalla previsione da parte del Regolamento della prosecuzione, da quelli del “trasferimento automatico del caso ad un procedimento civile ordinario” e della sola “interruzione” del procedimento di IPE, con la previsione però dell’estinzione solo su esplicita richiesta del ricorrente, «valutati unitamente all’espressa esigenza di non pregiudicare la posizione del ricorrente» contenuta nel comma 2 del paragrafo 1 dell’art. 17, inducevano «a ritenere l’univoca volontà del legislatore comunitario di preservare l’efficacia della domanda introduttiva del procedimento, formulata nel rispetto del Reg. CE., anche in caso di opposizione e di passaggio al procedimento civile ordinario». La corte torinese ha, quindi, ulteriormente motivato tale conclusione: a1) affermando che essa era pure giustificata considerando la «funzionalità del nuovo strumento processuale uniforme» all’esigenza di «agevolare il recupero dei crediti non contestati ma senza aggravio, anche in caso di opposizione, per il creditore che abbia operato
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la scelta del procedimento europeo», osservando altresì che l’art. 25 del Regolamento prevede che le spese dell’IPE, combinate con il procedimento civile ordinario avviato a seguito dell’opposizione, non devono superare le spese di un procedimento civile ordinario non preceduto dal procedimento europeo di ingiunzione; a2) sostenendo che tale interpretazione sarebbe «rispettosa dei principi di ordine pubblico processuale interno di economia processuale, attraverso la conservazione degli atti, e di ragionevole durata dei processi», tenuto conto che «se anche la domanda d’ingiunzione europea fosse travolta dall’inefficacia dell’IPE il ricorrente che non intenda estinguere il processo sarebbe, comunque, costretto a riproporre la domanda o notificando un nuovo atto di citazione o depositando un ricorso ai sensi dell’art. 633 c.p.c., con le conseguenze sui costi e sui tempi di esame della domanda» ed il risultato che «dinanzi a tale prospettiva, l’asserito creditore italiano sarebbe indotto a scegliere gli strumenti processuali nazionali, e la potenzialità e la finalità dei nuovo strumento processuale comunitario sarebbero frustrate». La corte torinese ha, poi, osservato che: 1a) il Tribunale aveva, peraltro, «affermato che l’opposizione aveva privato di ogni efficacia il “provvedimento” e non anche la domanda, e sul punto non è stata proposta una specifica censura», onde, «in presenza di una efficace domanda di condanna al pagamento, il prosieguo con il processo di cognizione ordinario italiano imponevano: la comunicazione dell’opposizione alla ricorrente, la regolarizzazione della difesa tecnica per la parte che ne era priva (nel caso di specie per la sola convenuta), l’integrazione dell’opposizione con le ragioni che, in precedenza, la parte non era tenuta a precisare e l’instaurazione del contraddittorio con la controparte»; 1b) da tanto conseguiva «che il primo atto successivo alla domanda di pagamento efficace non poteva che provenire dalla Opel che, quale convenuto sostanziale, era tenuto a redigere un atto avente il contenuto tipico della comparsa
di risposta, comprensivo delle eccezioni non rilevabili d’ufficio». Sulla base di tali considerazioni la corte territoriale ha, quindi, osservato nelle pagine 6-7 che gli argomenti dell’appellante non erano idonei a superarle ed ha concluso, per quanto interessa, che non poteva esaminarsi l’eccezione di difetto di giurisdizione, reputando in sostanza che la AOAG avrebbe dovuto proporla con il primo atto del procedimento civile ordinario che aveva notificato a seguito dell’ordine del Tribunale di cui al decreto dell’8 febbraio 2012. 3. La critica a tale motivazione viene svolta nel primo motivo assumendosi nel primo dei paragrafi sopra indicati che essa sarebbe stata occasionata da una erronea esegesi dell’art. 17 del Regolamento 1896 del 2006, là dove prevede che in caso di opposizione «il procedimento prosegue dinanzi ai giudici competenti dello Stato membro d’origine applicando le norme di procedura civile ordinaria... a meno che il ricorrente non abbia esplicitamente richiesto in tal caso l’estinzione del procedimento». L’errore risiederebbe nell’avere frainteso la corte torinese il senso della previsione del Considerando 24 del regolamento, quando dispone che «l’opposizione presentata entro il termine dovrebbe interrompere il procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento e determinare il trasferimento automatico del caso ad un procedimento civile ordinario a meno che il ricorrente abbia esplicitamente richiesto in tal caso l’estinzione del procedimento». Alla luce di una lettura comparata delle traduzioni nelle lingue inglese, francese, tedesco e spagnolo del detto Considerando si prospetta che in base ad essa «non vi è dubbio che anche l’interpretazione della norma in italiano non possa che essere assunta nel senso che la caducazione è risolutiva e definitiva, fermo restando che con un atto introduttivo (non sicuramente del debitore)
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il processo può essere trasferito nell’ordinamento giurisdizionale italiano». Non essendosi attenuta a tale esegesi la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un primo profilo di «falsa applicazione (e comunque violazione)» del citato art. 17 del regolamento. 3.1. La critica esposta nel secondo paragrafo prospetta una dicotomia fra l’estinzione dell’ingiunzione e la conservazione della domanda, in cui la sentenza impugnata sarebbe incorsa, reputando che l’opposizione non priverebbe di efficacia la domanda introdotta con il procedimento di IPE, sul presupposto che l’opponente sarebbe «in grado di valutare la pretesa e di decidere se contestare o meno» e traendone la conclusione che chi si oppone sarebbe gravato di integrare le ragioni dell’opposizione notificando al creditore «un atto avente il contenuto tipico della comparsa di risposta», sostanzialmente equiparabile ad un’opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c., e ciò pur essendo pacifico che nel modulo F l’opposizione non deve specificare le ragioni dell’opposizione. L’esegesi corretta dell’art. 17 del regolamento sarebbe invece nel senso che il giudizio secondo le regole ordinarie dovrebbe procedere su un atto di impulso del creditore, perché la fase dell’ingiunzione sarebbe caducata dall’opposizione. La corte territoriale, avallando il procedere del tribunale, avrebbe determinato un ribaltamento degli oneri di allegazione identificativi della domanda e di prova, onerando la debitrice di «proporre eccezioni o pregiudiziali prima ancora di conoscere la domanda così come configurata in tutti gli atti introduttivi di una controversia in sede giurisdizionale», con violazione del principio del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., di quello di difesa, di cui all’art. 24 Cost. e dell’art. 101 c.p.c., nonché degli artt. 2697 c.c., 163, 166 e 167 c.p.c., ed istituendo una modalità di introduzione di un giudizio ordinario con l’applicazione dell’art. 645 c.p.c. nonostante la caducazione della fase dell’ingiunzione.
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3.2. Nel terzo paragrafo del primo motivo la critica viene ulteriormente sviluppata sostenendosi, con invocazione di quanto affermato da Cass., Sez. un., n. 10799 del 2015, che l’impianto ricostruttivo dell’IPE abbracciato dai giudici di merito sarebbe in contrasto con la natura di procedimento monitorio puro dell’ingiunzione europea, la quale emergerebbe anche dalle proposte programmatiche contenute nel Libro Verde della Commissione europea del 2002, nelle quali la considerazione dei modelli di monitorio (come quello italiano), fondato sulla prova, e quello senza prova, aveva indotto ad esprimere la preferenza per il modello “no-evidence”, cioè per il secondo, con la conseguenza che la mera proposizione dell’opposizione renderebbe invalida l’IPE e quella ulteriore che «qualunque siano i riferimenti che sono di fatto contenuti nella domanda di cui al Modulo A con la quale si chiede la pronuncia dell’ingiunzione europea, rimane fissato il principio, per così dire istituzionale che non si tratta di una domanda giudiziale riconducibile a quella che nell’ordinamento italiano può essere proposta esclusivamente in ottemperanza all’art. 163 c.p.c.». A sostegno dell’assunto si invocano le argomentazioni svolte dall’Avvocato Generale presso la Corte di GGUE nella causa C-144/2012 e quelle della sentenza del 13 giugno 2013 di detta corte, particolarmente nel paragrafo n. 39, nonché quelle svolte dalla dottrina italiana. 3.3. In fine nel quarto paragrafo si richiama giurisprudenza di merito di vari tribunali che hanno escluso che, una volta proposta l’opposizione possa trovare applicazione l’art. 645 c.p.c., e ritenuto che la prosecuzione del giudizio con le forme processuali ordinarie debba avvenire con un atto di impulso da notificarsi da parte del creditore, che deve avere tutti i requisiti di cui all’art. 163 c.p.c., «al fine di consentire all’opponente medesimo (e cioè l’asserito debitore) di svolgere a sua volta le proprie difese conformemente a quanto previsto dagli artt. 166 e 167 c.p.c.».
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4. Il primo motivo è fondato per le ragioni che si verranno precisando ed il suo esame costituisce l’occasione che consente alle Sezioni unite di prendere posizione sulla disciplina che nell’ordinamento italiano deve avere la vicenda processuale insorta a seguito dell’emissione dell’IPE e della proposizione dell’opposizione avverso di esso. Vicenda sulla quale il silenzio serbato dal legislatore italiano circa la disciplina di quella che l’art. 17, paragrafo 1, del Regolamento più volte citato, definisce come “prosecuzione” dinanzi al giudice competente dello Stato membro d’origine con l’applicazione delle “norme di procedura civile ordinaria”, ha comportato, com’è noto, in presenza peraltro anche di non univoche opinioni dottrinali, differenti soluzioni applicative da parte dei giudici di merito, una delle quali è quella avallata dai giudici torinesi. 4.1. In via preliminare mette conto di disattendere un’eccezione di cosa giudicata interna che la resistente ha prospettato nel controricorso con riferimento alla prospettazione svolta dalla ricorrente nel secondo paragrafo del motivo in esame. L’eccezione è svolta adducendosi che la ricorrente avrebbe sostenuto che la proposizione dell’opposizione determina la perdita dell’efficacia della domanda del creditore proposta ai sensi dell’art. 7 del regolamento. Si assume che la corte territoriale torinese ha espressamente affermato che invece su quel punto la ricorrente non aveva impugnato l’affermazione del tribunale che l’opposizione aveva privato di ogni efficacia l’IPE e non anche la domanda. E si sostiene che la ricorrente prospetterebbe la tesi della perdita di efficacia della domanda creditoria contro il giudicato interno affermato esistente dal giudice d’appello. 4.1.1. La tesi non è fondata per la ragione che l’attenta lettura di quanto si espone nel suddetto secondo paragrafo evidenzia che la ricorrente ha solo sostenuto che l’opposizione avrebbe l’effetto di escludere che la domanda di IPE possa considerarsi allo stesso modo della domanda che nell’or-
dinamento interno il creditore propone con un ricorso per decreto ingiuntivo, sì da potersi trarre la conseguenza che ne ha tratto il tribunale in primo grado ai fini della prosecuzione con le regole di proceduta ordinaria nel modo dell’opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c. 4.2. Venendo all’esame della doglianza si rileva che erroneamente il Tribunale di Torino ha ritenuto che, a seguito dell’opposizione all’IPE della ricorrente, la norma dell’art. 17 del Regolamento, là dove prevede che «il procedimento prosegue dinanzi ai giudici competenti dello Stato membro d’origine applicando le norme di procedura civile ordinaria» nel caso in cui all’atto della proposizione dell’IPE (utilizzando l’apposita parte del modello A indicata come “appendice 2 alla domanda di ingiunzione di pagamento europea”) oppure tramite una comunicazione al giudice prima dell’emissione (a mente dell’art. 7, comma 4, secondo inciso, del regolamento) il creditore non abbia espresso volontà contraria a detta prosecuzione, implichi che la prosecuzione debba avvenire con l’imposizione all’opponente da parte del giudice dell’IPE di un modus procedendi simile a quello che, a seguito dell’emissione e notificazione di un decreto ingiuntivo secondo la disciplina nazionale italiana di cui agli artt. 633 e segg. c.p.c., deve seguire il debitore ingiunto che voglia reagire avverso il decreto notificatogli. Il modus procedendi imposto dal Tribunale con il decreto del 5 dicembre 2011 ed avallato dalla corte territoriale non risulta condivisibile per le seguenti ragioni. 4.3. Mette conto in primo luogo esprimere una prima considerazione: nell’economia del Regolamento, l’individuazione del modus procedendi a seguito della proposizione dell’opposizione avverso una IPE richiesta dal creditore senza dichiarazione attributiva all’opposizione dell’effetto dell’estinzione del procedimento non rappresenta un profilo di disciplina che si deve ricercare al di fuori del Regolamento stesso.
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In realtà, appare da esso disciplinato, sia pure con la tecnica di un rinvio alle legislazioni degli stati membri. Tanto si desume sia dal Considerando n. 24 del regolamento, là dove è detto chiaramente che l’opposizione «dovrebbe interrompere il procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento e determinare il trasferimento automatico del caso ad un procedimento civile ordinario», sia dall’art. 12, paragrafo 4, lett. c), là dove si dispone che nell’IPE il convenuto è informato del fatto che «se è presentata opposizione, il procedimento prosegue dinanzi ai giudici competenti dello Stato d’origine applicando le norme di procedura civile ordinaria», sia dall’art. 17, là dove si ripete questa stessa formula. L’espressa previsione emergente direttamente dalle due norme ora citate e il correlato criterio esegetico suggerito dal Considerando nel senso che il procedimento che ha portato all’emissione dell’IPE riguardo alla quale il creditore non abbia manifestato volontà estintiva debba proseguire con le regole della procedura civile ordinaria, hanno il valore in primo luogo di un disposto esplicito del Regolamento, come tale vincolante gli ordinamenti degli stati membri. Tale disposto ha due distinti contenuti: esprime in via diretta la prescrizione che il procedimento non si debba ritenere concluso, conforme alla richiesta del creditore, come fa manifesto l’uso del verbo “proseguire” (la quale implica il mantenimento di un collegamento con la fase processuale di emissione dell’IPE e di notifica al preteso debitore); esprime in via invece indiretta, cioè attraverso la tecnica di un rinvio formale, la previsione del modo in cui il procedimento giurisdizionale debba seguire dinanzi al giudice dello stato membro d’origine dell’IPE: ciò deve avvenire secondo le regole della procedura civile ordinaria del diritto interno di esso, id est secondo quello che è lo schema procedimentale della tutela giurisdizionale civile che in via ordinaria in ciascuno stato svolge
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la funzione di forma di tutela “normale” per la situazione giuridica azionata con la domanda di IPE. 4.4. Le implicazioni sottese alle emergenze del disposto del citato Considerando e delle due citate disposizioni sono allora che, al contrario di quanto si è talvolta ipotizzato, gli Stati membri d’origine, in ordine all’individuazione del modus procedendi della prosecuzione non vedono affatto regolata la loro posizione dalla norma dell’art. 26 del Regolamento, la quale, com’è noto, dice che «tutte le questioni procedurali non trattate specificamente dal presente regolamento sono disciplinate dal diritto nazionale». Si vuol dire, cioè, che la posizione degli Stati membri non è regolata da detta norma quanto allo svolgimento della tutela giurisdizionale a seguito dell’opposizione non avente voluntate creditoris effetti estintivi dell’IPE, giacché le regole di tale svolgimento non rappresentano una «questione procedurale non trattata specificamente nel Regolamento». Al contrario, il Regolamento, con il disposto sopra richiamato, detta una regola specifica, quella che il procedimento deve necessariamente aver luogo secondo le regole che nell’ordinamento nazionale esprimono la forma di tutela processuale civile ordinaria, in tal modo operando un rinvio formale. Corollario di quanto osservato è allora che i singoli Stati membri d’origine non hanno alcuna libertà di individuare le regole dello svolgimento della tutela giurisdizionale successiva all’opposizione all’IPE, ma sono tenuti a garantire tale svolgimento secondo la forma corrispondente alla tutela ordinaria, normale, della situazione giuridica in base alla loro legislazione interna. La pienezza ed indefettibilità di tale garanzia è confermata dal paragrafo 1, comma 2, dello stesso art. 17 quando dispone che «qualora il ricorrente abbia perseguito il recupero del credito attraverso la procedura d’ingiunzione europea, nessuna disposizione del diritto nazionale può pregiudicare la sua posizione nel successivo procedimento ci-
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vile ordinario»: disposizione che sottolinea come all’opposizione debba conseguire uno svolgimento della tutela ordinaria in modo tale che la posizione del creditore debba essere quella stessa che egli avrebbe avuto ove avesse tutelato il credito in via diretta secondo la forma di tutela ordinaria. Questa previsione consente di intendere il senso di una precisazione altrimenti oscura che si coglie nel secondo inciso del Considerando 24 del Regolamento. Ivi, infatti, si dice che «ai fini del presente regolamento la nozione di procedimento civile ordinario non dovrebbe essere necessariamente interpretata secondo il diritto nazionale». La precisazione, che non trova alcun riscontro possibile nelle previsioni del regolamento ed anzi è contraddetta dall’espresso riferimento alle norme di procedura civile ordinaria, appare spiegabile nel senso che si sia inteso lasciare agli Stati membri nei quali vi siano distinte procedure civili ordinarie di scegliere fra di esse quale applicare, a condizione, però, del rispetto del sopra ricordato comma 2 del paragrafo 1 dell’art. 17. In questo senso si può ritenere che si configuri un limitato potere degli Stati membri di scegliere quale, fra quelle di diritto interno, la forma di tutela ordinaria applicabile in relazione alla prosecuzione del giudizio. 4.5. La sua fonte si desume, poi, dallo stesso art. 17 e precisamente dalla disposizione del comma 2, la quale prevede che «il passaggio al procedimento civile ordinario ai sensi del paragrafo 1 è disciplinato dalla legge dello Stato membro d’origine». È a tal proposito che i singoli Stati hanno ricevuto l’autorizzazione a dettare eventualmente una normativa regolatrice del passaggio dalla fase di domanda, emissione e notificazione dell’IPE e della successiva opposizione dell’ingiunto al procedimento di diritto interno rappresentante la forma di tutela ordinaria. Ed è nel quadro di tale possibilità di legiferare che lo Stato membro, regolando il modo del passaggio al procedimento civile ordinario, può eventualmente individuare
quella fra più forme di tutela ordinaria con cui intende garantire la prosecuzione. Se non lo fa, cioè se non detta alcuna norma relativa al c.d. passaggio, opera invece il ricordato rinvio formale e resta da chiarire quale sia e come debba rinvenirsi la disciplina del c.d. passaggio. Se lo fa senza però scegliere quale forma di tutela ordinaria fra quelle di diritto interno è esperibile opera parimenti il detto rinvio. 4.6. Lo Stato Italiano, com’è noto, si è astenuto dal dettare le modalità di passaggio dal procedimento di IPE alla tutela ordinaria di diritto interno. La conseguenza è che, ferma la conseguenza che la tutela ordinaria andrà individuata sulla base del cennato rinvio formale, ci si deve domandare quale sia la disciplina del c.d. passaggio a detta tutela. Ritengono le Sezioni unite che tale disciplina sia desumibile sempre dallo stesso Regolamento e che ancora una volta non debba desumersi sulla base dell’applicazione dell’art. 26 del regolamento. Non si tratta anche qui di una «questione procedurale non trattata specificamente nel Regolamento», perché la relativa disciplina è in realtà desumibile dallo stesso Regolamento, che non può ritenersi silente riguardo a detta modalità. D’altro canto, in presenza di una norma che ha abilitato gli stati membri a legiferare, l’inerzia del singolo Stato non può essere intesa come situazione riconducibile ad una questione non trattata dal Regolamento e ciò perché quest’ultimo è da ritenere esprima comunque una disciplina seppure minimale relativa al passaggio. Essa si desume considerando che il Regolamento si occupa, in realtà, del passaggio alla trattazione con le regole di procedura ordinaria. Invero, il procedimento volto all’emissione dell’IPE e seguito dall’opposizione è ancora un procedimento che risulta coinvolgere l’ufficio giudiziario adito e, quindi, il giudice che ha emesso l’IPE: lo stesso art. 17, comma 3, espressamente dispone che «il ricorrente è informato dell’eventuale opposizione pre-
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sentata dal convenuto e dell’eventuale passaggio al procedimento civile ordinario». Si prevede cioè un potere del giudice oltre che di informazione sull’opposizione, anche in ordine al detto passaggio. Se lo Stato membro ha dettato una disciplina evidentemente tale potere sarà esercitato secondo quanto essa avrà dettato. Se lo Stato membro non ha dettato alcuna disciplina, come accade per l’Italia, la norma è sufficiente a giustificare lo stesso che il giudice possa esercitare il potere in modo funzionale al detto “passaggio”. Tale conclusione è rafforzata dal rilievo che il Considerando 24 usa l’avverbio “automaticamente” per il “passaggio”, il che significa che si esige che esso debba avvenire comunque almeno in termini potenziali, sicché la sua assicurazione non può che spettare al giudice dell’IPE. L’assenza di regolamentazione da parte dello Stato membro e, quindi, da parte dello Stato Italiano, delle modalità del “passaggio” ai sensi del citato paragrafo 2 dell’art. 17 giustifica il ritenere che la fattispecie sia direttamente regolata dal paragrafo 3 del Regolamento nel senso al giudice nazionale dello Stato membro che non abbia esercitato il potere di disciplinare il passaggio e, dunque, al giudice italiano che ha emesso l’IPE, spetta di adottare un proprio provvedimento con cui dispone il passaggio. Il problema a questo punto diviene quello di individuare quali siano i limiti di tale potere ed in particolare si pone la questione del se competa al giudice italiano di individuare la disciplina processuale ordinaria per la prosecuzione oppure non gli competa affatto e gli competa un potere di contenuto più limitato. 4.7. Prima di chiarire quali siano questi limiti e prescindendo da essi le considerazioni già svolte consentono a questo punto di procedere all’esame della correttezza o meno del modus procedendi affermato dai giudici torinesi già sulla base del solo rilievo del dato normativo emergente dal Regola-
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mento nel senso che la prosecuzione del giudizio a seguito della proposizione dell’opposizione deve avvenire secondo le regole della proceduta civile ordinaria di diritto interno italiano. Queste le ragioni. 4.7.1. Detto modus, che consta essere stato seguito, sebbene in via minoritaria, anche da altri giudici di merito, per potersi considerare corretto, supporrebbe, secondo una prima opzione esegetica che guardi al solo svolgimento dell’opposizione disciplinata dagli artt. 645 e segg. c.p.c., che essa possa considerarsi tale da potersi identificare con le «norme di procedura civile ordinaria», cui fanno riferimento tanto l’art. 12, paragrafo 4, lett. c), quanto l’art. 17, paragrafo 1, del Regolamento e ciò a prescindere dalla relazione con la disciplina che nell’ordinamento italiano ha la fase procedimentale monitoria fino alla proposizione dell’opposizione. Una suggestione in tal senso potrebbe discendere dal secondo comma dell’art. 645, il quale, com’è noto, dispone che a seguito dell’opposizione all’ingiunzione di diritto italiano il giudizio si svolga secondo le norme del procedimento ordinario, peraltro identificabili, com’è noto, non solo in quelle del c.d. rito ordinario di cognizione di cui agli artt. 163 e segg. c.p.c., ma anche in quelle del rito speciale lavoristico (e locatizio e agrario), quale rito “ordinario” per talune tipologie di controversie. Senonché, il processo di opposizione a decreto ingiuntivo emesso secondo il diritto italiano ai sensi degli artt. 633 e segg. c.p.c., ancorché il secondo comma dell’art. 645 c.p.c. dica che «in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario di cognizione davanti al giudice adito» non può identificarsi con le «norme di procedura civile ordinaria» vigenti nell’ordinamento italiano. Nonostante la proclamazione del secondo comma dell’art. 645 lo svolgimento del giudizio di opposizione a decre-
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to ingiuntivo non corrisponde in modo pieno allo svolgimento di un processo di cognizione ordinario, cioè disciplinato dagli artt. 163 e segg. c.p.c. (o di rito lavoristico), ma assume rispetto ad esso una serie di scostamenti che derivano in ultima analisi dalla circostanza che l’opposizione non pone nel nulla il decreto ingiuntivo (e ciò al di là della qualificazione anche come mezzo di impugnazione del decreto e delle sue implicazioni, su cui le Sezioni unite ebbero a pronunciarsi ormai molti anni orsono: Cass., Sez. un., n. 9769 del 2001). Tali scostamenti sono espressi sia nelle norme degli artt. 648 e 649 c.p.c., sia nell’art. 653 stesso codice, quando al rigetto dell’opposizione o all’estinzione del processo fa conseguire l’esecutività del decreto, cioè la sua permanenza. Questi scostamenti, che sono espressione del perdurare di profili di tutela giurisdizionale privilegiata della situazione del creditore, non consentono allora di considerare quali «norme di procedura civile ordinaria» le norme regolatrici dell’opposizione a decreto ingiuntivo nazionale e ciò nemmeno valorizzando il già ricordato secondo inciso del Considerando 24 del Regolamento. La scelta dei giudici torinesi non può, dunque, ritenersi corretta alla stregua di questa prima opzione esegetica. 4.7.2. Detta scelta non appare, peraltro, giustificata nemmeno alla luce di una opzione esegetica che si muova in una logica per cui il modello del secondo comma dell’art. 645 c.p.c. potrebbe essere considerato espressione delle norme di proceduta civile ordinaria se questo riferimento del Regolamento si intendesse fatto alle norme dell’ordinamento interno in quanto previste in relazione ad una disciplina processuale antecedente simile a quella che porta all’IRE, cioè se si procedesse all’apprezzamento del carattere dell’ordinarietà non in via per così dire assoluta, ma in quanto correlato ad una normativa processuale nazionale simile a quella prevista dal Regolamento. In pratica domandandosi se la disciplina ordinaria possa
identificarsi in quella che regola lo svolgimento del procedimento per decreto ingiuntivo di diritto italiano quale risultante dalla fase senza contraddittorio e dalla fase di opposizione. Questa ipotesi interpretativa è già di per sé difficilmente giustificabile per il fatto che all’interno degli ordinamenti degli stati membri la presenza di figure processuali eventualmente simili alla figura dell’IPE non si sarebbe dovuta richiamare nel Regolamento con l’espressione «norme di procedura civile ordinaria», che sottende chiaramente un riferimento alle norme regolatrici del modello processuale “normale” di ogni paese membro, applicabile cioè a prescindere da una fase pregressa simile a quella che mette capo all’emissione dell’IPE. Ma, in aggiunta a tale rilievo, di per sé decisivo, si tratta di un’opzione esegetica che è smentita dal modo in cui il legislatore comunitario ha disciplinato l’IPE sia nella fase precedente l’opposizione, sia con riferimento al contenuto di quest’ultima. La disciplina del regolamento, infatti, sia sull’uno che sull’altro versante, è tale che entrambi i profili risultano regolati in modo del tutto diverso da quello con cui l’ordinamento interno italiano disciplina la figura del procedimento per decreto ingiuntivo quanto a profili analoghi. Sicché ogni giudizio di similarità sarebbe privo di giustificazione. In primo luogo, la domanda con cui viene richiesto l’IPE non deve basarsi sulla somministrazione al giudice di una prova (sebbene in senso speciale e relativo come nella logica della prova scritta cui alludono le norme degli artt. 633 e segg. c.p.c.), ma si basa sulla semplice rappresentazione della fattispecie costituiva del credito e sulla semplice indicazione delle prove da cui essa discenderebbe. Tali prove non debbono, però, offrirsi al giudice, ma debbono solo indicarsi nell’apposito modulo F. 4.7.3. Queste Sezioni unite hanno, per tale ragione, già avuto modo di affermare, del resto, che: «l’IPE risulta strutturata come un provvedimento
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fondato su una dichiarazione asseverata del creditore in specie in ordine all’indicazione delle parti, all’oggetto della pretesa, al fondamento dell’azione, ai mezzi di prova disponibili, nonché ai motivi della competenza giurisdizionale e alla natura transfrontaliera della controversia (cfr. art. 7 del Reg. e modulo standard A) – e sospensivamente condizionato alla mancata opposizione dell’ingiunto nel termine di giorni trenta dalla sua notificazione. Lo schema è quello del c.d. procedimento monitorio puro, o se si vuole, secondo altra, più precisa, terminologia suggerita dalla dottrina, del procedimento “puro attenuato” o “misto”, per la considerazione che, a differenza che nel monitorio “puro”, per il quale è sufficiente la mera allegazione dell’oggetto e del titolo della pretesa creditoria, è richiesta anche, ai sensi dell’art. 7, lett. e), «una descrizione delle prove a sostegno della domanda». Non si deve trattare di prove necessariamente precostituite, tant’è che ne è prevista la mera “descrizione” (e a tal fine nel modulo standard A, sono contemplate varie voci e precisamente: “prove scritte”, “prova testimoniale”, “perizia”, “ispezione”, “altro”) e non anche la loro allegazione alla richiesta di ingiunzione; il che dimostra che la relativa indicazione è funzionale non tanto alla verifica da parte dell’autorità che emette il provvedimento della “sostenibilità” del credito in sede di cognizione ordinaria conseguente all’opposizione [...], quanto, piuttosto, a consentire all’ingiunto di valutare l’opportunità di proporre o meno l’opposizione. Invero la natura pura, sia pure attenuata del procedimento e l’espressa previsione della mera “descrizione” delle prove nella domanda ingiuntiva, non sollecitano alcuna verifica da parte del giudice in merito alla fondatezza e all’ammissibilità della domanda stessa, risultando tutte le indicazioni al riguardo affidate alla dichiarazione del creditore che «in coscienza e in fede» dichiara che esse sono veritiere, riconoscendo «che dichiarazioni deliberatamente false potrebbero comportare penalità adeguate in base alla legislazione dello
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Stato membro d’origine» (art. 7, comma 3). Ne consegue che la verifica richiesta al giudice ai fini della pronuncia del decreto è, nella sostanza, una verifica di “non manifesta infondatezza”, così come è reso palese dalla lettura combinata degli artt. 8, 9, 11 e 12 del Regolamento; inoltre il controllo che essa presuppone è meramente estrinseco e formale, potendo avere esito negativo solo in caso di incompletezze e/o incongruenze interne alla domanda; come è confermato dalla circostanza che il provvedimento è pronunciato (con il modulo standard E), con la testuale dicitura che «l’ingiunzione è stata emessa soltanto in base alle informazioni fornite dal ricorrente e non verificate dal giudice» (art. 12, comma 4, lett. a). La scelta compiuta è strettamente legata alla soluzione adottata in materia di difesa tecnica delle parti che non è necessaria per tutto il corso del procedimento (art. 24), alla configurazione dell’opposizione come mera manifestazione di contestare il credito, idonea, per il sol fatto di essere avanzata, a porre nel nulla l’ingiunzione (art. 16) e, correlativamente, alla qualificazione dell’ingiunzione di pagamento europea come decisione giudiziaria avente efficacia esecutiva in ragione della “non contestazione” del credito (art. 18), come tale idonea a costituire automaticamente titolo esecutivo europeo (art. 19)» (così Cass., Sez. un., n. 10799 del 2015). Il modo in cui è regolato il procedimento di emissione dell’IPE, per tutte le ragioni già indicate dalla citata pronuncia, è del tutto disomogeneo da quello del procedimento per decreto ingiuntivo di diritto italiano e tanto, se ve ne fosse bisogno, impedisce ulteriormente di condividere la seconda opzione esegetica qui in discussione. La disomogeneità non concerne l’attività di individuazione ed enunciazione della domanda giustificativa della richiesta di IPE, atteso che il confronto fra il contenuto che essa deve avere ai sensi dell’art. 7, paragrafo 2, del Regolamento non solo è tale da contenere gli elementi identificatori della domanda e le sue ragioni giustificative ed anzi
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anche la descrizione delle prove che evidenzierebbero gli uni e le altre, ma è anche tale da presentarsi sostanzialmente non dissimile da quello che l’art. 125 c.p.c., richiamato dall’art. 638 c.p.c., quanto alla forma della domanda monitoria secondo il diritto italiano, individua con la prescrizione che il ricorso contenga l’indicazione delle parti, dell’oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni. La disomogeneità concerne, invece, l’onere di corredare la domanda con le prove, sebbene di valore relativo, o per la loro stessa natura o, comunque, per l’assenza del contraddittorio (si pensi alla scrittura privata, che nella fase monitoria non è prova per effetto di mancato disconoscimento), che la sorreggono. Di esse l’istante deve solo fornire una “descrizione”, cioè una individuazione che non si risolve, cosa possibile fra l’altro solo per i documenti, nella riproduzione del loro contenuto, ma soltanto, conforme al significato della parola “descrizione” ed all’assenza di riferimenti al suo contenuto, in un’attività che identifichi ed individui la natura della prova (esempio: fattura, contratto, perizia, etc.), cioè la sua dimensione per così dire fenomenica. In conseguenza di detta disomogeneità il vaglio del giudice dell’IPE non ha la stessa estensione e lo stesso oggetto di quello del giudice del ricorso per decreto ingiuntivo italiano, giacché la sua cognizione, a differenza di quella del giudice italiano, non si estende all’apprezzamento, sebbene da svolgersi senza contraddittorio, delle prove indicate dal creditore. Tant’è che l’art. 12, paragrafo 4, lett. a), dispone che nell’IPE «il convenuto è informato del fatto che [...] l’ingiunzione è stata emessa soltanto in base alle informazioni fornite dal ricorrente e non verificate dal giudice». È sufficiente la constatazione di questa disomogeneità, anche senza aggiungervi quella discendente dal fatto che le prove che debbono solo essere descritte possono anche non essere documenti (a differenza di quanto accade per il proce-
dimento ex artt. 633 e segg. c.p.c.), per evidenziare che, pur apprezzando il riferimento alle norme di procedura civile ordinaria nel senso di norme correlate sul piano del diritto italiano ad una vicenda processuale complessiva che si postuli, in thesi, simile a quella che viene introdotta dalla domanda di IPE, non può non constatarsi che risulta impraticabile considerare la situazione di chi abbia ottenuto l’IPE come sostanzialmente simile a quella del creditore che abbia ottenuto il decreto ingiuntivo di diritto italiano, sì da giustificare l’individuazione delle norme di procedura civile ordinaria da applicarsi a seguito dell’opposizione in quelle che regolano lo svolgimento dell’opposizione di cui agli artt. 645 e segg. c.p.c. 4.7.4. Tanto basterebbe ad evidenziare l’erroneità dell’orientamento seguito dal Tribunale di Torino ed avallato dalla sentenza qui impugnata. E ciò senza che possa in contrario evocarsi, come si potrebbe essere tentati di fare, la forza del comma 2 del paragrafo 1 dell’art. 17 del Regolamento, già sopra richiamato, per addurre che in tal modo la posizione del creditore che abbia scelto di tutelare il suo credito con il procedimento di IPE, pur potendo utilizzare il procedimento per decreto ingiuntivo italiano, risulterebbe pregiudicata se a seguito dell’opposizione ex art. 16 del Regolamento nel successivo procedimento civile ordinario non trovassero applicazione le norme degli artt. 645 e segg. c.p.c. In disparte il rilievo che un siffatto argomento potrebbe riguardare solo il creditore che abbia ottenuto l’IPE sulla base di una descrizione della prova del suo credito di natura tale che, se essa fosse stata prodotta a sostegno di un ricorso ai sensi degli artt. 633 e segg. c.p.c., gli avrebbe consentito di ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo di diritto interno, si deve rimarcare che anche in tal caso il creditore che abbia ottenuto l’IPE, avendolo ottenuto senza fornire la prova, sebbene nei termini relativi richiesti per un decreto ingiuntivo di diritto interno, non si potrebbe
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affatto ritenere “pregiudicato” dalla mancata applicazione delle regole di cui agli artt. 645 e segg. c.p.c. La sua posizione sarebbe più vantaggiosa nella fase dell’IPE. 4.7.5. L’orientamento che qui si considera risulta poi ulteriormente incompatibile con un dato che non inerisce alla regolamentazione dell’IPE nella fase che porta alla sua emissione, bensì alla stessa regolamentazione dell’opposizione avverso di esso. Ai sensi del paragrafo 3 dell’art. 16 il preteso debitore ingiunto, nel proporre l’opposizione «indica [...] che contesta il credito senza esserne tenuto a precisarne le ragioni». L’opposizione all’IPE, dunque, si risolve in una mera manifestazione di contestazione generica della sua fondatezza. È evidente che essa non può in alcun modo essere assimilata all’opposizione al decreto ingiuntivo di diritto italiano, la quale, a norma del primo inciso del primo comma dell’art. 645, si propone con atto di citazione, nel quale, in ragione della posizione di convenuto in senso sostanziale dell’opponente rispetto alla domanda per come formulata e provata dal creditore nella sede monitoria, egli è tenuto – secondo lo schema della citazione ex art. 163 c.p.c. o, secondo un’esegesi consolidata, di quello del ricorso secondo il rito del lavoro o equiparato, se la natura del credito giustifica l’applicazione delle regole di cognizione ordinaria di quel rito – a svolgere l’attività che in un processo introdotto dal creditore con una citazione (o con l’atto introduttivo corrispondente al rito speciale applicabile) dovrebbe svolgere con la comparsa di risposta (o con la memoria di costituzione) e, dunque, un’attività assertiva che prenda posizione sull’avversa domanda. L’opposizione di diritto italiano è, dunque, un atto motivato e lo è non solo perché il ricorso monitorio identifica la domanda, ma anche perché è supportato dalla produzione della prova scritta, che è stata apprezzata del giudice. L’opposizione all’IPE è, invece, atto immotivato.
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La tesi avallata dai giudici torinesi, là dove si è concretata nella imposizione all’opponente e qui ricorrente, dopo la proposizione dell’opposizione immotivata ai sensi dell’art. 16 del regolamento, dell’onere di proporre un’altra opposizione secondo il rito di cui all’art. 645 c.p.c., si risolve in una scelta che non implica l’individuazione delle regole di procedura civile interne di diritto italiano applicabili a fronte di un esaurimento della fase procedimentale regolata dalla fonte comunitaria, verificatosi con la sequenza IPE – opposizione, come risulta sotteso alle previsioni dell’art. 17, paragrafo 1, bensì l’imposizione al debitore di un’attività che si concreta in una nuova opposizione, che però risulta ancora rivolta verso l’IPE. In tal modo risulta contraddetto il valore del Considerando 24 del Regolamento, là dove dice che la sola proposizione dell’opposizione disciplinata da esso, quella dell’art. 16, “dovrebbe interrompere”, cioè porre termine al procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento e, dunque, dal punto di vista delle attività dell’ingiunto, alla necessità di reagire alla domanda di IPE ed al relativo provvedimento. La scelta dei giudici torinesi invece, implicando che l’ingiunto debba proporre un atto di opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c. necessariamente “oppositivo” all’IPE ed alla domanda che ha portato alla sua emissione, comporta all’evidenza che il procedimento di ingiunzione europea continui, dopo l’opposizione ai sensi dell’art. 17, ad assumere una funzione. 4.7.6. La tesi è, inoltre, in manifesta contraddizione con la previsione della idoneità dell’immotivatezza dell’opposizione a neutralizzare l’IPE e, dunque, ad impedirle di divenire titolo esecutivo suscettibile del riesame nei termini indicati dall’art. 20 (su cui vedi Cass., Sez. un., n. 7075 del 2017), che è il solo onere che il Regolamento impone all’ingiunto. La tesi si risolve nell’imposizione di un onere ulteriore, quello di attivarsi per la prosecuzione del procedimento e fra l’altro di farlo con
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un atto ulteriore, la notificazione di un’opposizione rispettosa dell’art. 645 c.p.c., che, se non fosse compiuto, dovrebbe dare luogo alle conseguenze dell’art. 647 c.p.c. Ne deriverebbe l’implicazione che, contro il Considerando 24, l’IPE resterebbe ancora rilevante. La stessa implicazione si avrebbe per effetto della possibilità di applicazione dell’art. 648 c.p.c. e dell’art. 653 c.p.c. A meno di non ritenere che tutte dette norme non dovrebbero trovare applicazione. Ma allora resterebbe incomprensibile la logica della tesi qui criticata ed anzi, una volta esclusa la permanenza dell’IPE e la conseguenza dell’applicabilità di quelle norme, espressione di tutela privilegiata del creditore, non solo la posizione del creditore – in modo manifestamente contradditorio rispetto all’idea di attribuire alla disciplina dell’opposizione ai sensi degli artt. 645 e segg. c.p.c. il valore di regole di procedura civile ordinarie in subiecta materia sarebbe pregiudicata ai sensi del comma 2 del paragrafo 1 dell’art. 17, ma, soprattutto, sarebbe pregiudicata dalla rimessione sostanziale al debitore, contro la volontà non estintiva del procedimento introdotto dalla domanda di IPE nonostante l’opposizione, della scelta di proseguire il giudizio secondo il diritto nazionale. Infatti, il debitore, salvo che abbia interesse a discutere comunque sulla situazione creditoria e ad ottenere un accertamento del suo modo di essere, sarebbe indotto a non ottemperare all’ordine del giudice di notificare l’opposizione per l’udienza fissata ai sensi dell’art. 183 c.p.c. (o ex art. 420 c.p.c. nel caso di rito locativo) ed in tal caso, essendo l’atto di adempimento dell’ordine del giudice un atto di prosecuzione del giudizio, il processo, secondo l’art. 307, terzo comma, c.p.c., si estinguerebbe, con la conseguenza – certamente contraria al sopra citato comma 2, del paragrafo 1, dell’art. 17 – che il creditore vedrebbe perduta l’attività processuale svolta con la domanda di IPE e ciò contro l’attribuzione a lui del potere di esclu-
dere che l’opposizione determini l’estinzione del procedimento. Per tutte tali ragioni l’opzione esegetica scelta dai giudici torinesi non risulta in alcun modo condivisibile. 4.8. Ritengono le Sezioni unite, a questo punto sciogliendo la riserva fatta in chiusura del paragrafo 4.6., che, ai fini dell’ordinamento italiano, la disciplina della prosecuzione debba essere individuata considerando che, come si è già sopra rimarcato, il Regolamento sostanzialmente affida al giudice dell’IPE il compito di notiziare dell’opposizione il creditore e quindi di disporre la prosecuzione. Si tratta, dunque, di individuare i limiti del potere del giudice in tal senso previsto direttamente dal Regolamento ed operante in mancanza da parte dello Stato Italiano di un intervento legislativo sulle modalità della prosecuzione del giudizio in via ordinaria. Poiché il Regolamento impone che tale prosecuzione deve avvenire secondo le regole della procedura civile ordinaria e non prevede alcun potere del giudice dell’IPE di individuarle, essendovi un rinvio al diritto nazionale nei termini di cui si è detto ed essendo attribuito agli stati membri solo il potere di regolare eventualmente il passaggio alla trattazione con quelle regole, il mancato esercizio da parte dello Stato membro e, dunque, di quello italiano della facoltà di regolare le modalità del passaggio implica che il giudice italiano che ha emesso l’IPE, una volta proposta l’opposizione debba limitarsi ad adottare un provvedimento con cui, essendo pendente un procedimento dinanzi al suo ufficio, dispone che esso prosegua secondo le regole di ordinaria procedura civile, per come dice il comma 1 del paragrafo 1 dell’art. 17. Al giudice dell’IPE italiano non compete in primo luogo di individuare quali siano queste regole e particolarmente quali siano fra quelle che hanno tale natura nel diritto interno, in dipendenza della presenza di due riti a cognizione piena e, dunque,
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ordinaria, quali il rito ordinario di cui agli artt. 163 e segg. c.p.c. e quello del lavoro (ancorché l’art. 1 del d.lgs. n. 150 del 2011 chiami “ordinario” il primo). Tale individuazione compete allora al creditore che intenda appunto proseguire il giudizio. Se si attribuisse al giudice dell’IPE nonostante il silenzio del legislatore italiano in punto di regolamentazione del passaggio al procedimento civile ordinario, si finirebbe per avallare una conseguenza applicativa contraria al Regolamento, il quale, avendo previsto la facoltà dello stato membro di origine di dettare una disciplina del passaggio, in caso di mancanza di esercizio del potere di disciplina, ha voluto che sia lo stesso Regolamento a disporre. Ed esso, come si è veduto, si limita a dire che il processo prosegue secondo le regole di procedura civile ordinaria senza dire ulteriormente che esse vengono individuate dal giudice. D’altro canto, l’applicazione delle dette regole deve – proprio perché l’IPE è stato posto nel nulla – necessariamente aver corso anche quanto alla disciplina che regola la proposizione della domanda, che è atto di parte e del quale è la parte che deve individuare il referente normativo. 4.9. Invero, la ricerca nell’ordinamento italiano del modo in cui ha corso la tutela secondo le regole della procedura civile ordinaria evidenzia in primo luogo che spetta a chi si fa attore e, dunque, nella specie al creditore che ha chiesto l’IPE ed ha manifestato la volontà che l’opposizione non estingua il procedimento incoato con la relativa domanda, esercitare l’azione individuando quale sia la forma di tutela ordinaria apparecchiata dall’ordinamento italiano. Ne segue che il giudice italiano che ha emesso l’IPE deve limitarsi, unitamente all’avviso al creditore della proposizione dell’opposizione all’IPE, ad invitare il creditore ad esercitare l’azione secondo quella che sarà suo onere individuare come procedura civile ordinaria di tutela della situazione giuridica soggettiva posta a fondamento dell’IPE.
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Poiché l’esercizio dell’azione con le regole della procedura civile ordinaria serve a proseguire la tutela giurisdizionale introdotta con la domanda di IPE l’esistenza del potere del giudice giustifica l’assegnazione di un termine entro il quale quell’esercizio deve avvenire, perché altrimenti la lite pendente resterebbe tale indefinitamente, mentre la logica del Regolamento è che, se il creditore lo abbia chiesto, di fronte a quella che viene definita interruzione del procedimento di ingiunzione europea e, quindi, della tutela giurisdizionale con esso esercitato, debba seguire con le forme ordinarie e tale prosecuzione non può restare possibile sine die. Sicché, allo stesso modo in cui, nei casi nei quali, a differenza di quanto non ha fatto lo Stato Italiano, gli stati membri di origine abbiano regolato il passaggio alla trattazione secondo la procedura civile di diritto interno non è pensabile che la legislazione interna non debba regolare tale passaggio imponendone la realizzazione entro un certo termine, perché non è concepibile che una prosecuzione della tutela giurisdizionale interrotta dall’opposizione all’IPE possa essere consentita senza un termine, nei casi in cui la regolamentazione dello stato membro sia mancata, com’è accaduto per l’Italia, non può non valere la stessa regola e, venendo in rilievo il potere del giudice, è al giudice che compete di assicurare la stessa esigenza, stabilendo un termine per la prosecuzione. Questo è quanto implicitamente prevede in via diretta il Regolamento secondo un’esegesi teleologica. La mancata osservanza del termine che il giudice dell’IPE è autorizzato a fissare – il cui referente normativo, dovendosi ritenere che sia lo stesso Regolamento autorizzi a fissarlo, può nel diritto italiano essere rinvenuto nel secondo inciso del terzo comma dell’art. 307 c.p.c., per cui il giudice dell’IPE lo stabilirà come ivi indicato – comporterà, secondo il diritto italiano, l’estinzione del processo nella sua interezza e, quindi, il venir meno
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della pendenza della lite ricollegata alla proposizione della domanda di IPE. L’estinzione potrà essere rilevata ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 307 c.p.c. se la tutela ordinaria venga introdotta oltre il termine e, in mancanza, eccepita qualora la situazione creditoria venga azionata dopo la scadenza del termine senza alcuna postulazione di collegamento con il procedimento di IPE. Poiché la prosecuzione secondo la disciplina ordinaria italiana concerne l’azione introdotta con la domanda di IPE dal creditore e il Regolamento esaurisce la disciplina della posizione del debitore nella proposizione dell’opposizione, si deve ritenere che la prosecuzione sia rimessa esclusivamente all’iniziativa del creditore. Non è necessario domandarsi ai fini del nostro ordinamento se uno stato membro che regoli il passaggio possa disporre diversamente. La soluzione qui proposta nel senso di affidare al creditore l’iniziativa di individuare la tutela ordinaria che l’ordinamento italiano appresta alla situazione giuridica azionata con la domanda di IPE appare l’unica praticabile in mancanza di previsioni nel Regolamento che sottendano un potere del giudice dell’IPE di individuare la forma ordinaria di tutela con cui il processo può proseguire e in assenza di esercizio da parte dello Stato Italiano del potere di regolamentare il “passaggio” e non potendosi, come s’è già detto, nemmeno ricercare ai sensi dell’art. 26 del regolamento una disciplina di diritto interno che risulti idonea a regolare la peculiare vicenda della proposizione di un’opposizione all’IPE non avente carattere estintivo. 4.10. Mette conto di osservare che nella ricostruzione qui sostenuta, ancorché l’opposizione ex art. 16 interrompa il procedimento di ingiunzione europea, l’affidare alla parte creditrice l’onere di individuare la forma di tutela ordinaria e di introdurla nella forma che sarebbe prevista per il normale esercizio dell’azione non esclude che il processo iniziato secondo la forma così in-
dividuata prevista dall’ordinamento italiano possa rappresentare la prosecuzione del procedimento di IPE, come esige il Regolamento, sì che possa essere assicurata l’implicazione “naturale” di tale prosecuzione (nonostante il venir meno dell’efficacia dell’IPE). Essa è rappresentata dal ricollegarsi della tutela giurisdizionale, introdotta a seguito del provvedimento del giudice che emise l’IPE dal creditore secondo la disciplina italiana, all’iniziale domanda di emissione dell’IPE e, dunque, dalla conseguenza che la litispendenza secondo il diritto italiano si ricollega alla proposizione di quella domanda. Tale conseguenza è, del resto, consentanea rispetto alla regola espressa nel comma 2 del paragrafo 1, del Regolamento, in quanto consente di non rendere la posizione del creditore, che ha scelto di avvalersi dell’IPE, “pregiudicata” rispetto all’ipotesi in cui avesse scelto di agire in via ordinaria, posto che l’ordinamento italiano ancora alla litispendenza una serie di effetti favorevoli a beneficio di chi esercita l’azione. Le Sezioni unite rilevano, altresì, che quanto appena affermato non è in alcun modo in contrasto con quanto la Corte di Giustizia CE ha affermato nella sentenza 13 giugno 2013, resa nella causa C-144/2012, là dove ha espressamente negato che il procedimento di emissione dell’IPE e quello che in ipotesi di opposizione segue secondo le regole della procedura civile ordinaria di diritto interno sono due procedimenti distinti: l’affermazione è stata fatta solo per sottolineare che l’opposizione all’IPE senza contestazione della giurisdizione del giudice adito non ha alcun effetto ai fini del giudizio che venga proseguito secondo quelle regole. Non si è trattato di un’affermazione diretta anche implicitamente a negare la litispendenza unitaria, bensì soltanto di un’affermazione ricollegata al carattere immotivato dell’opposizione ed alla decisività di tale carattere pure quando, come era accaduto nel caso di specie, l’opposizione all’IPE venga proposta non sul modulo F, bensì in forma
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Giurisprudenza
libera (come ammette il secondo inciso del Considerando 23 del Regolamento). 4.11. La soluzione individuata implica, naturalmente, che spetti al creditore di valutare se l’introduzione della tutela ordinaria secondo l’ordinamento italiano postuli il doversi avvalere della difesa tecnica. 5. La prospettata ricostruzione della c.d. disciplina della prosecuzione segna un dissenso dall’approccio alla questione di dottrina e giurisprudenza di merito, le quali hanno privilegiato soluzioni tendenti a ricercare il modus della prosecuzione in discipline di diritto interno italiano e che sono tutte accomunate dal difetto di “caricare”, sul giudice di diritto interno che ha emesso l’IPE in un ordinamento di uno Stato membro che non ha regolato il c.d. “passaggio”, l’esercizio di poteri che il Regolamento non gli riconosce. Così dicasi per la soluzione dottrinale che ha opinato che quel giudice debba assicurare il passaggio alla trattazione con le regole di procedura ordinaria disponendo la riassunzione ai sensi dell’art. 125 disp. att. c.p.c. a carico dell’attore, con la conseguenza che costui dovrebbe in una comparsa riassuntiva e il debitore nella sua comparsa di costituzione provvedere ad integrare le rispettive prospettazioni secondo le regole del rito ordinario di cognizione. La stessa considerazione meritano sia la tesi che ha proposto di applicare l’art. 616 c.p.c., con la conseguenza che il giudice dell’IPE dovrebbe dare un termine per l’introduzione del giudizio di merito, come se avesse esaurito la fase sommaria di un’opposizione all’esecuzione, sia quella che ha proposto di applicare un modello simile a quello di coordinamento fra la fase presidenziale e quella a cognizione piena dei processi di famiglia. Parimenti non condivisibili sono quelle soluzioni giurisprudenziali di merito che si sono articolate con il riconoscimento al giudice dell’IPE di un potere di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 183 c.p.c., talora imponendo al creditore
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di avvisare l’ingiunto del dovere di costituirsi con comparsa ai sensi dell’art. 167 c.p.c., talaltra imponendogli di notificare per detta udienza un atto avente i requisiti dell’art. 163 c.p.c. Tutte tali tesi suppongono che, secondo la disciplina del Regolamento e in mancanza di disciplina del passaggio da parte dello stato membro, come nel caso italiano, il giudice che ha emesso l’IPE abbia il potere di individuare la forma di tutela secondo le norme di procedura civile ordinaria, ma s’è già veduto che così non è. 5.1. Inoltre, l’attribuzione al detto giudice di un siffatto potere dovrebbe implicare certamente che egli compia delle valutazioni sul rito applicabile in relazione alla natura della situazione azionata, a meno di ritenere che tale valutazione non debba compiersi e la prosecuzione debba fissarsi sempre secondo il rito degli artt. 163 e segg. c.p.c. (quale rito ordinario “normale), salva poi l’emersione del problema del rito applicabile allorquando la prosecuzione sia realizzata. Parimenti quella attribuzione dovrebbe implicare una nuova (rispetto a quella prevista per l’emissione dell’IPE dall’art. 6) valutazione sulla competenza, anche qui a meno di ritenere il contrario, il che comporterebbe che nel provvedimento prosecutorio non si possa intravedere alcuna decisione affermativa della competenza, risultando ogni questione al riguardo rinviata alla prosecuzione: la conseguenza sarebbe che lo stesso creditore, ove fosse convinto che non è competente il giudice che ha emesso l’IPE, sarebbe abilitato a manifestare tale dissenso con l’atto prosecutorio. Tutte le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali di cui si è detto si scontrano con il dato normativo del Regolamento che non prevede che il giudice dell’IPE individui come il processo deve proseguire secondo la disciplina della procedura civile ordinaria e, quindi, quale sia tale disciplina, sicché esse attribuiscono al giudice dell’IPE, in mancanza di esercizio del potere di regolamentare il passaggio da parte dello Stato Italiano, un pote-
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re sull’erroneo presupposto che venga in rilievo, nonostante quella mancanza, che invece impone di applicare il Regolamento in via diretta nel senso sopra precisato, una questione procedurale non trattata in esso, per parafrasare l’art. 26 di esso. 6. All’esito delle considerazioni svolte debbono essere enunciati i seguenti principi di diritto: «In tema di ingiunzione europea ai sensi del Regolamento CE n. 1896 del 2006, qualora l’ingiunzione emessa dal giudice italiano venga opposta dal debitore ingiunto a norma dell’art. 16 del Regolamento ed il creditore abbia chiesto all’atto della domanda di emissione dell’ingiunzione europea oppure prima della sua emissione che il processo, per il caso di opposizione, prosegua secondo la disciplina della procedura civile ordinaria, si deve ritenere che, nella situazione di mancato esercizio da parte dello Stato Italiano del potere di dettare una disciplina delle modalità della prosecuzione, quest’ultima sia regolata direttamente dalle disposizioni emergenti dall’art. 17, del Regolamento ed al lume del Considerando 24 di esso, con la conseguenza che la regola per la prosecuzione si rinviene reputando spettante al giudice italiano che emise l’ingiunzione, all’atto della comunicazione al creditore della proposizione dell’opposizione ai sensi del paragrafo 3 dell’art. 17, il potere di fissare un termine al medesimo creditore invitandolo ad introdurre la tutela secondo la disciplina processuale civile ordinaria secondo la forma che egli individuerà in base alla disciplina processuale italiana ed in relazione alla natura della situazione giuridica creditoria azionata con la domanda ingiuntiva, restando escluso il potere del giudice di procedere a tale individuazione». «L’inosservanza del termine sarà regolata dal secondo inciso del terzo comma dell’art. 307 c.p.c. e produrrà l’estinzione del giudizio». «Per effetto della prosecuzione del giudizio con la forma di introduzione dell’azione individuata dal creditore, la litispendenza resterà ricollegata
alla proposizione, cioè al deposito, della domanda di ingiunzione europea». 7. Alla luce delle considerazioni svolte il primo motivo di ricorso dev’essere accolto e la sentenza dev’essere cassata là dove la corte territoriale, condividendo il modus procedendi del tribunale ha ritenuto che la ricorrente avrebbe dovuto eccepire il difetto di giurisdizione del giudice italiano nell’atto che il tribunale le aveva imposto di notificare alla creditrice, come se quell’atto fosse equivalente ad un’opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c. e, dunque, equivalesse, quanto alle difese da svolgervi ad una sostanziale comparsa di risposta, come tale rilevante evidentemente ai sensi dell’art. 4, comma 1, della l. n. 218 del 1995 quale primo atto difensivo. L’erronea applicazione della modalità di prosecuzione del processo da parte del Tribunale esclude che la preclusione si sia verificata, atteso che il procedere del Tribunale ha attribuito alla qui ricorrente l’onere di compimento di quell’atto in modo illegittimo, dovendo invece essere attribuita nei sensi precisati alla qui resistente l’iniziativa di dar corso alla prosecuzione del giudizio. La proposizione dell’eccezione di difetto di giurisdizione soltanto all’udienza fissata ai sensi dell’art. 183 c.p.c. risulta, in conseguenza, rituale, in quanto, dovendo l’iniziativa della prosecuzione e quindi della proposizione della domanda secondo le regole del processo civile italiano imporsi alla creditrice ed avendo essa compiuto la sua prima attività utile in tal senso con la comparsa di costituzione, la sede di cui a detta udienza era quella in cui la ricorrente poteva e doveva – sebbene in ragione dell’illegittimo modus procedendi – svolgere la prima difesa. 8. La censura dell’irrituale valutazione di tardività dell’eccezione di difetto di giurisdizione impone di passare all’esame del secondo (formale) motivo, cioè di esaminare se sussista oppure no la giurisdizione del giudice italiano.
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Giurisprudenza
La ricorrente ha sostento l’insussistenza della giurisdizione del giudice italiano alla stregua del Regolamento CE n. 44 del 2001. Ha addotto che il credito azionato dalla BG con la domanda di IPE concerne forniture di merce alla AOAG, la cui consegna doveva avvenire presso la sede di quest’ultima, che trovasi in Germania ed in conseguenza, vertendosi in tema di vendita internazionale, ha addotto la sussistenza della giurisdizione del giudice tedesco sia sulla base dell’applicabilità del foro del convenuto di cui all’art. 2 del Regolamento CE n. 44 del 2001 sia postulando l’applicabilità del foro di cui all’art. 5, lett. b), dello stesso Regolamento, siccome interpretato da Cass., Sez. un., n. 21191 del 2009. La resistente ha preso atto del precedente invocato ed ha infondatamente sostenuto che esso non sarebbe pertinente al caso, là dove invece il principio di diritto affermato da quella decisione lo è certamente, in quanto, nell’ipotesi in cui, come nella specie, la merce doveva consegnarsi ad un vettore incaricato dall’acquirente per essergli dal medesimo recapitata, il luogo di consegna agli effetti della citata lett. b) dell’art. 5 resta pur sempre quello in cui il vettore deve recapitare la merce all’acquirente. Il principio di diritto della sentenza del 2009 è così espresso: «In tema di vendita internazionale di cose mobili, qualora il contratto abbia ad oggetto merci da trasportare, il “luogo di consegna” va individuato in quello ove la prestazione caratteristica deve essere eseguita e come “luogo di consegna principale” va riconosciuto quello ove è convenuta l’esecuzione della prestazione ritenuta tale in base a criteri economici – ossia il luogo di recapito finale della merce, ove i beni entrano nella disponibilità materiale e non soltanto giuridica dell’acquirente -, con la conseguenza che sussiste la giurisdizione del giudice di tale Stato rispetto a tutte le controversie reciprocamente nascenti dal contratto, ivi compresa quella relativa al pagamento dei beni alienati».
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Il principio di diritto ora richiamato è stato più volte ribadito: vedasi Cass., Sez. un., (ord.) n. 1134 del 2014; (ord.) n. 24279 del 2014; (ord.) n. 3558 del 2017. La resistente, oltre a contestare senza alcun valido argomento e del tutto genericamente l’individuazione del luogo di consegna espressa dal principio di diritto riprodotto, adduce, sebbene solo per alcune fatture, che la merce non sarebbe stata ritirata dalla ricorrente e che, pertanto, il principio non potrebbe per i relativi crediti avere valore: l’assunto è privo di pregio, atteso che l’art. 5, lett. b), dispone che «La persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro» e che «nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto» in modo espresso fa riferimento anche al luogo in cui i beni avrebbero dovuto essere consegnati, così comprendendo anche l’ipotesi in cui la consegna non sia avvenuta, come nel caso delle dette fatture. 9. Conclusivamente il ricorso dev’essere accolto e dev’essere dichiarato il difetto della giurisdizione del giudice italiano. 10. La novità delle questioni esaminate in ordine alla prosecuzione del giudizio a seguito di opposizione all’IPE giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso e dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
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L’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea: le Sezioni Unite tracciano i punti cardinali Sommario: 1. La questione rimessa alle Sezioni Unite. – 2. Cenni sui titoli esecutivi europei. – 3. L’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea: problematiche ed incertezze applicative. – 4. La soluzione delle Sezioni Unite con la sentenza n. 2840 del 31 gennaio 2019. – 5. Considerazioni conclusive.
Le Sezioni Unite si sono pronunciate in materia di opposizione ad ingiunzione di pagamento europea, ex regolamento (CE) n. 1896/2006, sulla questione inerente la modalità di passaggio dal rito monitorio europeo al giudizio a cognizione piena, affermando che spetta al creditore che ha interesse alla prosecuzione del procedimento individuare la disciplina applicabile alla tutela in via ordinaria. Il giudice che ha emesso l’ingiunzione di pagamento europea ha il solo potere di disporre il passaggio. In particolare egli deve fissare un termine perentorio al creditore per l’introduzione della tutela secondo la disciplina processuale ordinaria nella forma da esso individuata. L’autore illustra la disciplina dell’ingiunzione di pagamento europea ed esamina le tematiche concernenti il giudizio di opposizione ed il dibattito sviluppatosi in dottrina ed in giurisprudenza sull’individuazione delle soluzioni per regolare il passaggio dal rito monitorio europeo al giudizio di cognizione ordinario. Joined Chambers of the Court of Cassation ruled on opposition to a European order for payment, formerly Regulation (EC) No 1896/2006, on the question of how to move from the European monitoring rite to full-knowledge judgment. asserting that it is for the creditor who has an interest in continuing the proceedings to determine the rules applicable to ordinary protection. The judge who issued the European order for payment has the sole power to order the transfer. In particular, he shall set a time limit for the creditor to introduce protection in accordance with the ordinary procedural rules in the form it has determined in relation to the nature of the creditor’s legal situation. The author illustrates the discipline of the European order for payment, with particular reference to the issues concerning the judgment of opposition and the debate developed in doctrine and jurisprudence on the identification of solutions to regulate the transition from the European monitoring rite to ordinary cognition judgment.
1. La questione rimessa alle Sezioni Unite. A seguito del deposito della domanda d’ingiunzione europea da parte della Bertone Glass s.r.l. (d’ora in avanti BG) nei confronti della Adam Opel Aktiengesellschaft Gmbh
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(d’ora in poi AOAG) il Tribunale di Torino emetteva il provvedimento ai sensi del regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1896/2006 del 12 dicembre 2006. La società AOAG depositava presso la cancelleria del tribunale l’opposizione all’ingiunzione di pagamento redatta sul modulo F allegato al detto regolamento comunitario del 2006. Il tribunale emetteva il decreto di fissazione udienza e disponeva il passaggio al procedimento civile ordinario ex art. 17 del regolamento (CE) n. 1896/2006, onerando l’opponente di notificare l’atto di opposizione unitamente al detto decreto alla controparte, nel rispetto del termine a comparire di cui al combinato disposto degli artt. 163 bis e 645 c.p.c.; nello stesso decreto il tribunale inseriva l’avvertimento alla parte creditrice delle decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c. La società BG si costituiva per chiedere la conferma dell’ingiunzione. All’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. la società AOAG eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Con sentenza non definitiva il tribunale di Torino dichiarava l’inammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano, mentre con sentenza definitiva riteneva fondata la domanda e condannava parte opponente al pagamento della somma chiesta da BG. La corte di appello di Torino confermava la sentenza impugnata affermando che l’opposizione di cui al modello F allegato al regolamento non priva di efficacia la domanda introdotta con il ricorso monitorio europeo. Secondo il giudice d’appello del capoluogo piemontese, inoltre, la domanda d’ingiunzione europea consente di acquisire la piena conoscenza di tutti gli elementi fondamentali della domanda giudiziaria e dal tenore letterale del regolamento comunitario del 2006 si evince un’univoca volontà del legislatore europeo di preservare l’efficacia della domanda introduttiva del procedimento anche in caso di opposizione e passaggio al rito civile ordinario di diritto interno. In ordine all’eccezione di difetto di giurisdizione, la corte torinese affermava che l’eccezione doveva essere proposta con il primo atto del giudizio civile ordinario notificato a seguito dell’opposizione e non poteva essere proposta nella prima udienza di trattazione. Avverso la pronuncia della corte di appello di Torino la società AOAG ricorreva in cassazione per il motivo numero 4 dell’art. 360 c.p.c. Con il primo motivo, la ricorrente deduceva la violazione dell’art. 17 del regolamento (CE) n. 1896/2006 che regola gli effetti dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea e, segnatamente, il passaggio dal rito monitorio europeo a quello ordinario, mentre con il secondo motivo esponeva le ragioni a sostegno di un’avvenuta rituale proposizione dell’eccezione di giurisdizione. Il ricorso che aveva ad oggetto questioni di giurisdizione è stato assegnato alle Sezioni Unite le quali si sono determinate per una trattazione unitaria dei due motivi di ricorso. In questa sede non ci si soffermerà sull’eccezione di giurisdizione esaminata dalla corte, ma si andranno ad esaminare gli effetti dell’opposizione all’ingiunzione europea, volgen-
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do lo sguardo alla disciplina del passaggio dal procedimento d’ingiunzione europea al processo civile ordinario a cognizione piena.
2. Cenni sui titoli esecutivi europei. Ai fini di una maggiore comprensione delle tematiche oggetto della pronuncia che si annota, giova illustrare, seppur in modo quanto più sintetico, il ruolo svolto dal regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1896/2006 del 12 dicembre 2006, in materia di ingiunzione di pagamento europea, all’interno del panorama della legislazione comunitaria. A causa della pluralità di fonti normative nazionali vigenti il legislatore comunitario ha avvertito la necessità di operare un coordinamento tra le diverse legislazioni. Obiettivo talvolta di difficile realizzazione, ma che è sempre stato ben presente almeno nelle intenzioni del legislatore comunitario, in particolar modo dalla fine degli anni novanta del secolo scorso1. Il trattato di Amsterdam del 1997 ha istituito lo «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» nel contesto della materia del processo civile. Tra le «misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile» che il Consiglio e gli altri organi comunitari possono adottare a questo scopo quando «vi siano implicazioni transfrontaliere […] e siano necessarie per il corretto funzionamento del mercato» (art. 81 TFU2, ex art. 65 TCE) un ruolo preminente è stato ricoperto dai regolamenti. All’interno dello «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» uno degli obiettivi primari ricercati è stato quello dell’attuazione di un reciproco riconoscimento, tra i paesi della Comunità Europea, delle decisioni in materia civile e commerciale al fine di garantire la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. La stagione dei regolamenti comunitari volti ad armonizzare le legislazioni nazionali per consentire la circolazione dei provvedimenti è stata inaugurata con l’emanazione del reg. (CE) n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, detto anche Bruxelles I, poiché nei rapporti tra gli Stati ha sostituito la convenzione di Bruxelles del 1968, che da un lato disciplina la competenza giurisdizionale (armonizzando anche le norme nazionali) e dall’altro assume tale competenza come presupposto per attribuire efficacia alle decisioni giurisdizionali rese nel territorio degli altri stati contraenti.
1
Porcelli, I regolamenti Ce n. 805 del 2004 sul titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati e n. 1896 del 2006 sul procedimento d’ingiunzione europeo, in Regole europee e giustizia civile, a cura di Biavati e Lupoi, Bologna, 2017, 155. 2 L’art. 81 TFUE prevede al 1° paragrafo che «l’Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l’adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri».
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Giurisprudenza
La decisione giudiziaria straniera è riconoscibile in altro paese dell’UE una volta che siano rispettati i presupposti indicati dal regolamento, mentre l’efficacia esecutiva è subordinata al superamento di una fase di verifica nello Stato in cui il provvedimento deve essere eseguito, il c.d. «exequatur». Di recente il regolamento (UE) n. 1215/2012 del 12 dicembre 20123, denominato Bruxelles I bis per via della rifusione del reg. (CE) n. 44/2001, ha apportato importanti modifiche in ordine al regime dell’efficacia esecutiva delle decisioni, finendo per sancire l’abolizione dell’«exequatur» per tutte le decisioni in materia civile e commerciale4. Le decisioni pronunciate a conclusione delle procedure regolate dalla legislazione dei singoli Stati possono valere immediatamente come titoli esecutivi europei in tutti gli altri Stati membri. Il regolamento Bruxelles I bis porta a termine un percorso iniziato nel 2001 e che ha gradualmente condotto all’abolizione dell’exequatur nell’ambito delle decisioni in materia civile e commerciale relative a crediti non contestati, offrendo agli operatori la possibilità di ottenere un provvedimento che abbia un’immediata efficacia “paneuropea”. Dopo l’esordio avvenuto con il regolamento Bruxelles I, un marcato passo in avanti è stato compiuto dal legislatore comunitario con il regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 805/2004 del 21 aprile 2004 che istituisce il «titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati»: un titolo che per la prima volta si forma all’interno di un singolo Stato dell’Unione Europea ed è di per sé idoneo a fondare l’azione esecutiva negli altri Stati membri senza bisogno di exequatur o di altre procedure5. L’aspetto innovativo del regolamento (CE) n. 805/2004 sta nel fatto che la competenza per certificare l’esecutività europea di un titolo emesso in forza della normativa nazionale viene attribuita al giudice dello Stato che ha emesso il titolo6. Un ulteriore progresso nel contesto della legislazione processuale civile comunitaria si è avuto con l’emanazione del regolamento (CE) n. 1896/2006 del 12 dicembre 2006, di recente modificato dal regolamento (UE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2421/2015 del 16 dicembre 2015, che disciplina un procedimento regolato dalla normativa comunitaria e che si conclude con un provvedimento finale che nasce come titolo esecutivo europeo. Nel regolamento (CE) n. 1896/2006 l’ingiunzione di pagamento europea costituisce di per sé titolo esecutivo europeo grazie al superamento dell’«exequatur» e ad una significativa uniformazione delle legislazioni processuali degli Stati membri7.
3
D’Alessandro, Il titolo esecutivo europeo nel sistema del regolamento n. 1215/2012, Riv. dir. proc., 2013, 1044 ss.; Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012, Giusto proc. civ., 2013, 583 ss. 4 L’art. 39 del reg. (UE) n. 1215/2012 del 12 dicembre 2012 dispone che «la decisione in uno Stato membro che è esecutiva in tale Stato membro è altresì esecutiva negli altri Stati membri senza che sia richiesta una dichiarazione di esecutività». 5 De Stefano, L’insindacabilità del titolo esecutivo europeo nell’ordinamento italiano, Riv. esec. forz., 2009, 53 ss. 6 De Cesari, Decisioni giudiziarie certificabili quali titoli esecutivi europei nell’ordinamento italiano, Foro it., 2006, V, 103. Sul titolo esecutivo europeo per crediti non contestati sia consentito anche rinviare a Siciliano, Il titolo esecutivo europeo per crediti non contestati: presupposti e rimedi, Riv. esec. forz., 2015, 31. 7 Sul regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1896/2006 del 12 dicembre 2006 si veda senza pretesa di completezza:
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L’intento perseguito dal legislatore europeo è stato quello di semplificare il recupero dei crediti pecuniari non contestati nelle controversie transfrontaliere8, in virtù della necessità avvertita di realizzare un procedimento europeo comune più nel contesto comunitario che in ambito interno9. Il procedimento europeo d’ingiunzione è stato quindi istituito per soddisfare le esigenze degli operatori commerciali nei rapporti economici internazionali ed il loro affidamento sull’esistenza del medesimo procedimento per la riscossione di crediti pecuniari non contestati10. È opportuno chiarire, tuttavia, che il procedimento monitorio ha carattere meramente facoltativo e non già sostitutivo della procedura d’ingiunzione di pagamento interna11. Sulla base della struttura e dell’impianto formale adottato dal legislatore comunitario per realizzare le finalità di tutela giurisdizionale del credito ispiratrici del regolamento, la dottrina italiana12 ha tentato d’individuare in quale categoria, tra quelle elaborate nel
Porcelli, in Regole europee e giustizia civile, cit., 155; AA.VV., Verso il decreto ingiuntivo europeo, a cura di Carratta, Milano, 2007; AA.VV., Commento al Regolamento CE n. 1896/2006, in Nuove leggi civili commentate, a cura di Biavati, Padova, 2010; Bastianon, Prime osservazioni sul Regolamento (CE) n. 1896/2006 che istituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, Giur. merito, 2010, 304; Barreca, Il decreto ingiuntivo europeo, Riv. esec. forz., 2010, 1-2; Biavati, Il regolamento (CE) 1896/2006 del 12 dicembre 2006, che istituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, in AA.VV., sul decreto ingiuntivo europeo, in Manuale di diritto processuale civile europeo, a cura di Taruffo e Varano, Torino, 2011, 311 ss; Campeis - Arrigo, Prime riflessioni sul procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento (Regolamento n. 1896/2006/Ce), in Giust. civ., 2007, 355 ss; Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo e la “comunitarizzazione” del diritto processuale civile, in Riv. dir. proc., 2007, 1534; Cultrera, Il procedimento d’ingiunzione europeo. Le ragioni della scelta regolamentare, Nuove leggi civ., 2008, 4; D’Alessandro, Il procedimento monitorio europeo con particolare riferimento alla fase di opposizione ex art. 17 Reg. N.1896/2006, Giusto proc. civ., 2011, 719; Lupoi, Di crediti non contestati e procedimenti di ingiunzione: le ultime tappe dell’armonizzazione processuale in Europa, Riv. trim., 2008, 185 ss; Lupoi, Reg. CE n. 1896/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio che istituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, Leggi civ. comm., 2010, 449 e 457 ss; Marinelli, Note sul Regolamento CE n. 1896/2006 in tema di procedimento ingiuntivo europeo, in Giusto proc. civ., 2009, 63 ss; Proto Pisani, L’ingiunzione europea di pagamento nell’ambito della tutela sommaria in generale e dei modelli di procedimenti monitori in specie, Giusto proc. civ., 2009, 181; Romano, Il procedimento europeo di ingiunzione di pagamento, Regolamento (CE) n. 1896/2006, del 12 dicembre 2006, Milano, 2009; Zancan, Ingiunzione di pagamento europea. Forma e procedura dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea, Giur. it., 2015, 3, 635; 8 L’art. 3, 1° paragrafo, del regolamento (CE) n. 1896/2006 definisce «transfrontaliera una controversia in cui almeno una delle parti ha domicilio o residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello del giudice adito». 9 Porcelli, in Regole europee e giustizia civile, cit., 155. All’art. 2 del regolamento (CE) n. 1896/2006 è disposto al 1° paragrafo che «Il presente regolamento si applica, nelle controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale, indipendentemente dalla natura dell’organo giurisdizionale. Esso non concerne, in particolare, la materia fiscale, doganale ed amministrativa, né la responsabilità dello Stato per atti od omissioni nell’esercizio di pubblici poteri («acta iure imperii»)». Al 2° paragrafo del medesimo articolo è contenuta un’elencazione delle materie escluse dal campo di applicazione del regolamento «sono esclusi dal campo di applicazione del presente regolamento: a) il regime patrimoniale fra coniugi o i regimi assimilati, i testamenti e le successioni; b) i fallimenti, i concordati e le procedure affini; c) la sicurezza sociale; d) i crediti derivanti da obblighi extracontrattuali, salvo se i) sono stati oggetto di accordo tra le parti o se vi è stata ammissione di debito, o ii) riguardano debiti liquidi risultanti da comproprietà di un bene». 10 Lupoi, Reg. CE n. 1896/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio, cit., 449; Porcelli, in Regole europee e giustizia civile, op. ult. cit., 155; Cultrera, Il procedimento d’ingiunzione europeo, cit., 4. L’art. 4 del regolamento (CE) n. 1896/2006 dispone che «il procedimento europeo di ingiunzione di pagamento è istituito per il recupero di crediti pecuniari di uno specifico importo esigibili alla data in cui si propone la domanda di ingiunzione di pagamento europea». 11 D’Alessandro, Il procedimento monitorio europeo, cit., 719. 12 Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, cit., 1534; Romano, Il procedimento europeo di ingiunzione, cit., 10.
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diritto interno rispetto ai procedimenti monitori, inserire il procedimento di ingiunzione europea. Nell’ambito della disciplina della tutela monitoria, con riferimento ai profili dell’onere probatorio o di allegazione sussistenti in capo al ricorrente, si distinguono l’ingiunzione con prova e l’ingiunzione senza prova13. Nel caso del modello d’ingiunzione con prova al ricorrente è richiesto da parte del legislatore di dimostrare la fondatezza della pretesa creditoria con documenti. Questo tipo di ingiunzione detta documentale conduce ad un esame nel merito della domanda, anche sommario, cosicché tutte le domande che presentano caratteri di manifesta infondatezza sulla base delle informazioni fornite dal creditore o perché non posseggono sufficienti prove scritte a sostegno vengono rigettate dal giudice all’esito dell’esame effettuato. Nell’ipotesi di ingiunzione senza prova, detta anche pura, non è richiesto al giudice di svolgere alcun esame nel merito della domanda, l’ingiunzione potrà essere emessa al solo adempimento delle condizioni formali richieste alla domanda e l’esito del procedimento dipende esclusivamente dal comportamento processuale tenuto dal debitore (altrimenti resistente). La domanda d’ingiunzione di pagamento europea, ai sensi dell’art. 4, 2° paragrafo, del regolamento (CE) n. 1896/2006 deve contenere, oltre all’indicazione delle generalità delle parti ed all’importo del credito e del tasso d’interesse, il fondamento dell’azione, compresa una descrizione delle circostanze invocate, ed una descrizione delle prove a sostegno della domanda. Il ricorrente, in forza della previsione contenuta nell’art. 4 del regolamento può limitarsi ad un’attività probatoria solo in senso lato, per non dire insussistente, stante l’unico onere sotto questo profilo ad esso richiestogli che è quello della descrizione delle prove a sostegno della domanda. Le previsioni dell’indicazione del fondamento dell’azione, compresa una descrizione delle circostanze invocate come base del credito, e la descrizione delle prove a sostegno della domanda, non rispondono, com’è stato osservato14, ad esigenze probatorie ma servono a consentire al debitore di conoscere le difficoltà cui andrà incontro nella fase di opposizione e a garantire il rispetto dei principi del contraddittorio. Il procedimento europeo d’ingiunzione, pertanto, è stato ricompreso, sotto il profilo dell’onere probatorio disciplinato dal legislatore comunitario, nella categoria dell’ingiunzione senza prova o altrimenti detta pura15, anche se, com’è stato osservato, il procedimen-
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Per tutti si veda Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991 (poi, a cura di Romano, Milano, 2012). Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, op. ult. cit., 1534; Porcelli, in Regole europee e giustizia civile, op. ult. cit., 155. 15 Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, op. ult. cit., 1534; Romano, Il procedimento europeo di ingiunzione, cit., 10; Porcelli, in Regole europee e giustizia civile, op. ult. cit., 155. 14
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to d’ingiunzione europea per esser considerato in toto come modello d’ingiunzione puro non dovrebbe contenere alcun riferimento agli elementi probatori16. Alla luce delle diversità sussistenti tra gli ordinamenti dei paesi comunitari sotto l’aspetto delle norme in materia di onere probatorio, il legislatore europeo ha adottato un modello d’ingiunzione non documentale, tendente a quello senza prova o puro, anche in conformità con l’idea di avvalersi dei moduli standard allegati al regolamento per presentare la domanda d’ingiunzione. Prima di proseguire nell’analisi delle tematiche rilevanti nel provvedimento che si annota, è opportuno, infine, menzionare un ulteriore titolo esecutivo europeo ovvero la sentenza emessa nel quadro del «procedimento europeo per le controversie di modesta entità», disciplinato dal regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 861/2007 dell’11 luglio 2007. Si tratta di un titolo che è efficace in tutti gli Stati membri, senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al suo riconoscimento (art. 20 del regolamento CE n. 861/2007)17. La previsione di differenti titoli esecutivi disciplinati dai regolamenti comunitari e idonei a valere come titoli esecutivi, senza la necessità dell’«exequatur», ha condotto la dottrina18 ad utilizzare l’espressione «titoli esecutivi europei». Può definirsi «europeo» un titolo che trova la propria fonte e disciplina direttamente nell’ordinamento dell’Unione. I regolamenti su i diversi titoli esecutivi disciplinati formano un’unica categoria di «titolo esecutivo europeo», al cui interno è possibile individuare differenti species tipizzate in apposite disposizioni comunitarie.
3. L’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea: problematiche ed incertezze applicative.
Prima di esaminare il contenuto della decisione in commento, si ritiene di utilità accennare alla disciplina dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea nei suoi punti essenziali e nei suoi risvolti applicativi maggiormente problematici. L’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea è disciplinata dagli artt. 16 e 17 del regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1896/2006 del 12 dicembre
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Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, op. ult. cit., 1534; Per una disamina chiara della procedura si veda: D’Alessandro, Il procedimento europeo per le controversie di modesta entità, Torino, 2008, 92 ss. 18 D’Alessandro, Choosing Among The Three Regulations Creating a European Enforcement Order (EEO Regulation, EOP Regulation, ESCP Regulation): Practical Guidelines, Int’l Lis, 2010, 39 ss; Pozzi, voce Titolo esecutivo europeo, Enc. dir., Milano, Annali I, 2007, 1095 ss. 17
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200619 e si propone mediante il modulo F, allegato VI, del regolamento n. 1896/2006, entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della notifica dell’ingiunzione medesima. Com’è stato ritenuto in dottrina20, l’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea non ha natura impugnatoria, ma mira esclusivamente ad evitare che il provvedimento acquisti esecutività ed irrevocabilità. All’interno del modulo standard per l’opposizione non devono essere specificate le ragioni della stessa, ma il debitore opponente si deve limitare esclusivamente ad una mera contestazione del credito coerentemente con la natura di procedimento monitorio puro21. L’art. 1722 del regolamento dispone che in caso di opposizione, a meno che il ricorrente non abbia esplicitamente chiesto l’estinzione del procedimento23, il giudizio proseguirà dinanzi ai giudici competenti dello Stato membro d’origine.
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L’art. 16 del regolamento, rubricato «Opposizione all’ingiunzione di pagamento europea», stabilisce al 1° paragrafo che «Il convenuto può presentare opposizione all’ingiunzione di pagamento europea dinanzi al giudice d’origine utilizzando il modulo standard F riprodotto nell’allegato VI, che gli viene consegnato unitamente all’ingiunzione di pagamento europea»; al 2° paragrafo è previsto che «il termine per l’invio dell’opposizione è di 30 giorni che decorrono dal momento in cui l’ingiunzione è stata notificata al convenuto» ed al 3° paragrafo è ancora disposto che «il convenuto indica nell’opposizione che contesta il credito senza essere tenuto a precisarne le ragioni». 20 Romano, Il procedimento europeo di ingiunzione di pagamento, cit., 147; Porcelli, Commento all’art. 17, in Commento al Regolamento CE n. 1896/2006, in Nuove leggi civili commentate, a cura di Biavati, Padova, 2010, 443, il quale osserva inoltre che la sentenza conclusiva del giudizio di opposizione non può avere ad oggetto la validità dell’ingiunzione di pagamento europea e l’esistenza in origine delle condizioni per il suo rilascio, ma soltanto l’esistenza o l’inesistenza del diritto di credito del ricorrente originario. 21 La previsione del mancato onere in capo all’opponente di specificare le ragioni dell’opposizione è simmetrica rispetto all’assenza dell’obbligo per il creditore ricorrente di allegare prove e di argomentare in ordine alla causa petendi nel modulo di domanda d’ingiunzione. 22 L’art. 17 del regolamento, rubricato «Effetti della presentazione di un’opposizione», è stato oggetto di modifica ad opera del legislatore comunitario mediante il regolamento (UE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2421/2015 del 16 dicembre 2015. Nel nuovo testo è così disposto «1. Se l’opposizione è presentata entro il termine stabilito all’art. 16, paragrafo 2, il procedimento prosegue dinanzi ai giudici competenti dello Stato membro d’origine, a meno che il ricorrente non abbia esplicitamente richiesto in tal caso l’estinzione del procedimento. Il procedimento prosegue in conformità delle norme: a) del procedimento europeo per le controversie di modesta entità di cui al regolamento (CE) n. 861/2007, laddove applicabile; oppure b) di un rito processuale civile nazionale appropriato. 2. Qualora il ricorrente non abbia indicato quale delle procedure elencate al paragrafo 1, lettere a) e b), chiede che si applichi alla sua domanda nel procedimento avviato in caso di opposizione o qualora il ricorrente abbia chiesto che si applichi il procedimento europeo per le controversie di modesta entità di cui al regolamento (CE) n. 861/2007 a una controversia che non rientra nel campo di applicazione di tale regolamento, il procedimento viene trattato secondo l’appropriato rito civile nazionale, a meno che il ricorrente non abbia esplicitamente chiesto che tale mutamento di rito non avvenga. 3. Qualora il ricorrente abbia perseguito il recupero del credito attraverso il procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, nessuna disposizione del diritto nazionale può pregiudicarne la posizione nel successivo procedimento civile. 4. Il passaggio al procedimento civile ai sensi del paragrafo 1, lettere a) e b), è disciplinato dalla legge dello Stato membro d’origine. 5. Il ricorrente è informato dell’eventuale opposizione presentata dal convenuto e dell’eventuale passaggio al procedimento civile ai sensi del paragrafo 1». 23 Come attentamente ed opportunamente osservato da Marinelli, Note sul Reg. Ce n. 1896/06, cit., 78 e da D’Alessandro, Il procedimento monitorio europeo, cit., 719, la dichiarazione allegata in appendice alla domanda, ai sensi dell’art. 7, 4° paragrafo (modificato recentemente dal regolamento (UE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2421/2015 del 16 dicembre 2015), con cui il creditore istante manifesta la volontà che il procedimento prosegua o si estingua è preventiva rispetto alla proposizione dell’opposizione e «non impedisce al ricorrente» stesso «di informare il giudice anche successivamente, ma in ogni caso prima che sia emessa l’ingiunzione». La ratio di questa previsione è, infatti, quella di scongiurare che il creditore istante si possa trovare a dover resistere in un giudizio di cognizione piena in conseguenza di un atto di voluntas dell’ingiunto.
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L’art. 17, 4° paragrafo, del regolamento (CE) n. 1896/2006 prevede che in caso di opposizione il passaggio al procedimento civile ordinario è disciplinato dalla legge dello Stato membro che ha emesso l’ingiunzione. La disciplina dell’opposizione rappresenta una questione controversa e dibattuta tra gli interpreti, proprio in virtù del vuoto normativo nell’ordinamento italiano circa le modalità di svolgimento del passaggio dalla fase monitoria europea alla fase di cognizione piena. Le incertezze applicative e la possibilità per il creditore di ricorrere al procedimento monitorio nazionale hanno reso poco attrattivo lo strumento regolamentare del 2006, disincentivandone l’utilizzo da parte degli operatori24. A causa della mancanza di una disciplina interna è sorto un vivace dibattito dottrinale. Tra le autorevoli opinioni si ricorda, in primo luogo, quella che ha suggerito di ricorrere alla disciplina dei procedimenti di separazione e divorzio, in particolare orientandosi secondo le modalità di passaggio tra la fase presidenziale a quella a cognizione piena ed esauriente25. É il giudice avanti al quale è stata proposta l’opposizione a dover fissare la prima udienza di comparizione e trattazione e ad assegnare un termine all’attore per integrare la domanda ed un ulteriore termine al convenuto per costituirsi ex art. 167 c.p.c. Altresì degna di menzione è la tesi26 che propone un’applicazione analogica dell’art. 616 c.p.c., per cui il giudice deve concedere i termini per l’istaurazione del giudizio di merito nel rispetto di quelli a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c. Ad avviso di altri autori27 occorre utilizzare il modello della riassunzione del processo. In particolare, lo schema proposto prevede che il giudice, contestualmente al provvedimento con cui da atto dell’intervenuta opposizione, disponga la riassunzione ex art. 125 disp. att. c.p.c. Sarà cura dell’attore e del convenuto integrare, rispettivamente, le difese mediante l’atto di riassunzione e la comparsa di risposta. Nonostante le diversità delle soluzioni interpretative proposte, è opportuno evidenziare come vi sia stata una tendenziale uniformità di vedute sull’impossibilità di applicare l’art. 645 c.p.c., stante la sola apparente analogia tra il modello di opposizione a decreto ingiuntivo di diritto interno e la fattispecie disciplinata dal regolamento (CE) n. 1896/2006, da ritenersi, pertanto, non equiparabili28. La giurisprudenza di merito è intervenuta più volte sulla questione soprattutto alla luce della necessità di dare una risposta alle incertezze applicative sul terreno dell’esperienza pratica.
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Porcelli, Il passaggio alla fase di merito dopo l’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea resta un problema aperto, nota a Trib. Verona 26 maggio 2012, in Int’l Lis, 2011, 92, con nota di Porcelli, Il passaggio alla fase di merito dopo l’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea resta un problema aperto. 25 Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, cit., 1534. 26 Lupoi, Di crediti non contestati, cit., 185. 27 Marinelli, Note sul Reg. Ce n. 1896/06, cit., 78 e Porcelli, Commento all’art. 17, cit., 445. 28 Concordi nel ritenere inapplicabile alla fattispecie dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea nel passaggio tra la fase sommaria e quella a cognizione piena: Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, op. ult. cit., 1534, Lupoi, Di crediti non contestati, op. ult. cit., 185, Porcelli, Commento all’art. 17, cit., 445.
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Giurisprudenza
Così come nell’ambito del dibattito dottrinale, anche la via del formante giurisprudenziale ha registrato l’alternarsi di più orientamenti. Una delle prime pronunce che ha suscitato interesse è stata emessa dal tribunale di Firenze29, ormai un decennio fa, il quale, a seguito della conversione del rito europeo nel giudizio ordinario civile mediante la fissazione dell’udienza di trattazione e comparizione ex art. 183 c.p.c., ha assegnato al solo convenuto i termini per effettuare la costituzione ai sensi degli artt. 166 e 167 muovendo dal presupposto che la domanda d’ingiunzione europea ha un contenuto equipollente a quello dell’atto di citazione ex art. 163 c.p.c. Ulteriori provvedimenti di merito30 che hanno affrontato la questione del passaggio dal rito monitorio europeo a quello ordinario civile di diritto interno hanno fatto leva su altri elementi, discostandosi dalla posizione assunta dal giudice toscano. In particolar modo i tribunali di Piacenza, Varese e Mantova non hanno considerato l’opposizione all’ingiunzione europea idonea a rivestire un ruolo assimilabile a quello dell’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 c.p.c., né hanno pure escluso che gli atti del processo monitorio possano essere considerati equivalenti agli atti introduttivi del giudizio ordinario di cognizione. Secondo quanto affermato dai suddetti giudici di merito, deve essere il giudice a fissare l’udienza di prima comparizione per la prosecuzione del procedimento, e ad entrambe le parti va garantita la facoltà d’integrare le difese e compiere gli atti in modo da raggiungere il livello di tutela minimo proprio della fase introduttiva del rito civile ordinario. Conformemente alle pronunce già richiamate anche il tribunale di Milano31 ha affermato la non applicabilità dell’art. 645 c.p.c. all’opposizione dell’ingiunzione di pagamento
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Trib. Firenze (decr.) 25 novembre 2019, in Guida al dir., 2009, 46, con nota di Mondini, Trascurata la posizione del creditore che non ha facoltà grave di integrare l’istanza. Il tribunale di Firenze ha affermato che «all’opposizione a decreto ingiuntivo europeo consegue la prosecuzione del procedimento di fronte al giudice dello Stato membro d’origine, secondo le norme della lex fori, ed il giudice deve fissare con decreto l’udienza di prima comparizione delle parti, ordinare al ricorrente di comunicare il relativo decreto all’opponente ed avvisare quest’ultimo che dovrà costituirsi in giudizio nelle forme di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c., munito di difensore. Il decreto che fissa l’udienza per la prosecuzione del procedimento deve essere comunicato dalla cancelleria al ricorrente». La scelta applicativa del tribunale fiorentino ha destato perplessità proprio per il pericolo di veder trascurata la posizione del creditore al quale è precluso integrare la domanda e non gli viene dato avviso della possibilità di munirsi di difensore. Com’è stato osservato da Cataldi, L’opposizione all’ingiunzione europea di pagamento e la prosecuzione del procedimento: prime decisioni di merito, in Corr. Giur., 2011, 1127, la soluzione adottata dal tribunale di Firenze pregiudicherebbe altresì il debitore opponente, perché al creditore non è imposto alcun onere di rispettare i termini di comparizione di cui all’art. 163 bis c.p.c. tra la notifica del decreto di fissazione udienza e la prima udienza di comparizione. Ciò andrebbe a ledere il principio di difesa e di parità delle armi. 30 Trib. Piacenza (decr.) 18 settembre 2010 e Trib. Varese (decr.) 12 novembre 2010, in Foro it., 2011, I, 1571 ed in Corr. Giur., 2011, 1127, con nota di Cataldi, op. ult. cit., in senso conforme si veda anche Trib. Mantova (ord.) 25 febbraio 2014, in Giur. it., 2015, 3, 635, con nota di Zancan, Ingiunzione di pagamento europea - forma e procedura dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea. 31 Trib. Milano (decr.) 28 ottobre 2010, in Int’l Lis, 2011, 92, con nota di D’Alessandro, L’opposizione al decreto ingiuntivo europeo rende vano l’impiego del Reg. n. 1896/20016. Il tribunale milanese ha affermato che: «il passaggio dal procedimento europeo di ingiunzione di pagamento al procedimento civile ordinario deve avvenire su impulso del creditore per la tutela del proprio diritto. Né si potrebbe considerare il debitore gravato dall’onere di dare impulso ad un giudizio d’opposizione all’ingiunzione europea, in applicazione analogica dell’opposizione al decreto ingiuntivo ex articolo 645 codice di procedura civile considerate le peculiarità del contenuto della domanda d’ingiunzione europea e della relativa opposizione».
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europea, rilevando l’asimmetria funzionale tra il modulo F predisposto per la suddetta opposizione e l’atto di citazione introduttivo del giudizio ordinario a cognizione piena. V’è stato anche chi, come il tribunale di Torino32, ha imposto alla parte opponente di notificare il provvedimento all’opposto, ed ha implicitamente ammesso l’applicabilità delle norme relative al procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo interno (art. 645 c.p.c.). Ancora da menzionare è poi la posizione del tribunale di Verona33 secondo il quale, in forza dell’art. 17, 3° paragrafo del regolamento, il giudice nel fissare l’udienza ex art. 183 c.p.c. nel rispetto dei termini di comparizione di cui all’art. 163 bis c.p.c., deve onerare la cancelleria di notificare al creditore l’opposizione del debitore, assegnando al creditore medesimo un termine perentorio per integrare la domanda ed al convenuto per depositare la comparsa di risposta. Il tribunale di Taranto34 ha proposto di seguire il modello della riassunzione mediante l’applicazione in via analogica dell’art. 125 disp. att. c.p.c., senza notifica di una nuova citazione a carico dell’opposto. Ad avviso del giudice tarantino la soluzione avanzata offrirebbe un’adeguata garanzia del diritto di difesa e di parità delle armi, in virtù di una prosecuzione del processo introdotto con la domanda monitoria europea che viene ad essere riassunto mediante l’opposizione. Alla luce delle illustrate contraddittorietà emerse nelle opzioni applicative l’intervento delle Sezioni Unite attraverso il provvedimento annotato si è reso di fondamentale importanza per comporre i contrasti giurisprudenziali di merito e, soprattutto, al fine di scongiurare ogni possibile forma di c.d. forum shopping in virtù dei differenti approcci delle corti territoriali, più o meno attraenti per gli operatori.
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Trib. Torino (decr.) 29 settembre 2011 che, a seguito del deposito del modulo standard F, ha fissato la data della prima udienza ex art. 183 c.p.c. e ha mandato «a parte opponente di notificare l’atto di opposizione, unitamente al presente provvedimento, alla controparte nel rispetto del termine per comparire ex artt. 163 bis - 645 cpv c.p.c., avvertendo parte creditrice opposta che la costituzione oltre i termini di legge implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c.». 33 Trib. Verona (decr.) 26 maggio 2012, in Foro it., 2012, I, 2867 ed Int’l Lis, 2012, 153, con nota di Porcelli, Il passaggio alla fase di merito dopo l’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea resta un problema aperto. Il tribunale ha affermato che il passaggio dal rito monitorio europeo alla fase di cognizione piena deve effettuarsi ricalcando le fattispecie di «transito fisiologico del procedimento da una legittima fase sommaria (ovvero ordinaria ma in forma “semplificata”) ad altra tradizionalmente a cognizione piena». Critico nei confronti della scelta interpretativa del tribunale veronese è, per l’appunto, Porcelli, il quale afferma che le conclusioni cui è giunto il giudice non sembrano essere in linea con l’impostazione non documentale dell’ingiunzione europea e con la funzione cui la stessa è destinata. 34 Trib. Taranto (decr.) 15 settembre 2016, in Foro it., 2016, I, 3978.
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4. La soluzione delle Sezioni Unite con la sentenza n. 2840 del 31 gennaio 2019.
La corte con la sentenza annotata affronta il problema dell’individuazione del modus procedendi a seguito della proposizione dell’opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento europea e della disciplina delle modalità di passaggio dal procedimento d’ingiunzione europea al rito civile ordinario a cognizione piena. La corte di cassazione ha preso atto dell’assenza di una disciplina interna ad hoc ed ha supplito al vuoto normativo, pronunciandosi su una questione che per oltre dieci anni ha costituito motivo d’incertezza per gli interpreti. La motivazione della sentenza si presenta tuttavia molto articolata e talvolta di difficile lettura. Com’è possibile constatare, le Sezioni Unite non condividono l’impostazione adottata dai giudici del merito della sentenza impugnata. La corte di appello di Torino aveva affermato il principio secondo cui, nelle ipotesi di opposizione ad ingiunzione di pagamento europea, qualora il creditore non abbia espresso la volontà contraria alla prosecuzione del giudizio ai sensi dell’art. 17 del regolamento, il procedimento deve proseguire con l’imposizione all’opponente, da parte del giudice che ha emesso l’ingiunzione di pagamento europea, di un modus procedendi simile a quello che deve seguire il debitore ingiunto che vuole reagire avverso il decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c. Per le Sezioni Unite l’individuazione del modus procedendi, a seguito della proposizione dell’opposizione avverso un’ingiunzione di pagamento europea richiesta dal creditore, non rappresenta un profilo di disciplina che si deve ricercare al di fuori del regolamento stesso. I giudici di legittimità ritengono, infatti, che il passaggio dal rito monitorio europeo al procedimento civile ordinario sia disciplinato dal regolamento, seppur attraverso la tecnica del rinvio alle legislazioni nazionali. Tra le questioni affrontate la corte chiarisce, in particolare, due profili di fondamentale importanza: in primo luogo le Sezioni Unite pongono l’onere d’introdurre il giudizio ordinario a cognizione piena in capo al creditore - opposto, eliminando, in questo modo, ogni possibile nube attorno all’individuazione della parte cui compete l’iniziativa processuale. Al giudice italiano che ha emesso l’ingiunzione di pagamento europea, secondo le Sezioni Unite, è pertanto precluso il potere di individuare quali siano le regole che disciplinano il passaggio dal rito monitorio europeo a quello a cognizione piena di diritto interno, mentre tale onere compete al creditore che intende proseguire il giudizio. In mancanza, come detto più volte, di una previsione normativa regolatrice della materia, il giudice che ha emesso l’ingiunzione di pagamento europea deve assegnare soltanto un termine allo stesso creditore entro il quale instaurare il giudizio di merito attraverso il provvedimento con cui dispone la prosecuzione del processo. La corte afferma, conseguentemente, che la mancata osservanza del termine che viene fissato dal giudice che ha emesso l’ingiunzione di pagamento europea produce un’estin-
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zione del processo, ex art. 307 c.p.c., nella sua interezza con il venir meno della pendenza della lite ricollegata alla proposizione della domanda d’ingiunzione. Le Sezioni Unite chiariscono, infatti, che in considerazione del principio per cui, a seguito dell’opposizione, il giudizio prosegue e non se ne instaura uno ex novo, la litispendenza deve essere individuata nel momento di proposizione della domanda monitoria. Per quanto concerne il secondo dei due aspetti fondamentali precisati dalla corte, i giudici di legittimità affermano che il procedimento volto all’emissione dell’ingiunzione di pagamento europea ha natura di procedimento monitorio puro, aderendo così all’opinione di una parte della dottrina35. In virtù di ciò, l’introduzione del giudizio di opposizione all’ingiunzione di pagamento europea non determina una situazione di equipollenza rispetto al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo di diritto interno ex art. 645 c.p.c. e pertanto non si può avere un’inversione dell’iniziativa processuale così come avviene nell’ambito della disciplina italiana. Una volta che sia stato instaurato il giudizio di merito, l’opponente è parte convenuta nel giudizio ordinario e come tale ha tutte le tutele tipiche ad esso riconosciute dal diritto processuale civile interno.
5. Considerazioni conclusive Per quanto illustrato, la pronuncia in commento merita in linea generale di essere condivisa per l’apparato concettuale adottato dalla corte, seppur la sentenza si presenti a tratti di difficile lettura. La corte individua nel creditore il soggetto onerato dell’instaurazione del giudizio di cognizione a seguito della proposizione dell’opposizione all’ingiunzione di pagamento europea. Inoltre la natura di procedimento monitorio puro del rito d’ingiunzione europeo conduce la stessa corte ad escludere nettamente qualsivoglia forma d’inversione dell’iniziativa processuale assimilabile a quelle della disciplina italiana ex art. 645 c.p.c. Gli aspetti della sentenza appena evidenziati sono di notevole importanza, soprattutto se considerati all’interno di una disciplina caratterizzata dall’assenza di una normativa di dettaglio e che è stata arata dalla compulsiva attività della giurisprudenza di merito36 e dai lodevoli tentativi risolutori della dottrina37.
35
Su tutti cfr. Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, cit., 1534. Trib. Firenze (decr.) 25 novembre 2019, cit., 46; Trib. Piacenza (decr.) 18 settembre 2010 e Trib. Varese (decr.) 12 novembre 2010, cit., 1571; Trib. Milano (decr.) 28 ottobre 2010, cit., 92; Trib. Verona (decr.) 26 maggio 2012, cit., 2867; Trib. Mantova (ord.) 25 febbraio 2014, cit., 635; Trib. Taranto (decr.) 15 settembre 2016, cit., 3978. 37 Carratta, Il procedimento ingiuntivo europeo, cit., 1534; Lupoi, Di crediti non contestati, cit., 185; Romano, Il procedimento europeo di ingiunzione, cit., 10; Marinelli, Note sul Reg. Ce n. 1896/06, cit., 78 e Porcelli, Commento all’art. 17, cit., 445. 36
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Giurisprudenza
La decisione delle Sezioni Unite mostra, tuttavia, ad avviso di chi scrive, oltre a diffusi tratti di complessità sotto il profilo argomentativo, un’alea di indeterminatezza nel suo tratto finale, mantenendosi al confine tra il piano del definito ed il piano del non definito o del non compiutamente risolto. Nel tentativo di regolare nell’opposizione ad ingiunzione di pagamento europea il passaggio dal rito monitorio europeo al giudizio di cognizione piena, la decisione della corte di affidare al creditore che intende proseguire il giudizio il compito dell’«individuazione delle regole di ordinaria procedura civile» potrebbe creare il paradossale effetto di ampliare ulteriormente i margini operativi dell’interprete seppur comprimendo i poteri a disposizione del giudice. Un possibile compimento del sentiero tracciato dalle Sezioni Unite potrebbe essere un tardivo intervento del legislatore mediante un atto interno di modifica del codice di rito ad integrazione della normativa regolamentare del 2006. Si può ritenere, dunque, che al legislatore nazionale, atteso come Godot in questa materia, nell’ipotesi di una sua eventuale azione, si presenterebbero due plausibili alternative: recepire in apposite disposizioni codicistiche quanto affermato dalla corte di cassazione con la sentenza in commento, anche apportando correttivi, oppure esercitare in totale autonomia creativa il potere legislativo discostandosi dalla soluzione proposta dai giudici di legittimità senza restare inerte. Resta infine da accertare quale sarà poi l’impatto della sentenza annotata nel panorama giurisprudenziale, alla luce della sua portata quasi normativa, e con quali motivazioni potrebbero discostarsene i giudici di merito. Ruggero Siciliano
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Giurisprudenza Trib. Bologna, sez. IV civ., dott.ssa A. Rimondini, ord. 25 giugno 2019 Massima Processo Civile – Opposizione a decreto ingiuntivo 702 bis – Opposizione a decreto ingiuntivo – Ricorso ex art. 702 bis – Ammissibilità È ammissibile l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta con il rito sommario di cognizione di cui all’art. 702bis c.p.c., quando la causa rientra nella competenza del giudice monocratico e le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione sommaria, rappresentata da prove documentali. Il riferimento letterale alla “citazione”, quale forma di introduzione dell’opposizione, prevista all’art. 645 c.p.c. non può essere intesa come modalità esclusiva dell’opposizione, costituendo solo quella tipica per promozione il giudizio ordinario.
(Omisis) rilevato che P. (omissis) ha agito in giudizio in via monitoria deducendo di essere creditrice sulla base di un rapporto di leasing di I. s.r.l. dell’importo di € 13.489,72, del quale si era costituito garante C.A.. Stante l’inadempimento alle obbligazioni assunte, P. ha ottenuto ingiunzione di pagamento immediatamente esecutiva nei confronti della debitrice principale e del garante; considerato che C.A. ha proposto opposizione con ricorso per rito sommario ex art. 702bis c.p.c. (omissis) tenuto conto che nel giudizio di opposizione si è costituita la sola P. eccependo, preliminarmente, la tardività dell’opposizione e l’inammissibilità del rito ex art. 702bis c.p.c. OSSERVATO CHE – il rito sommario prescelto dall’opponente appare compatibile con la controversia in esame, atteso che: a) la causa rientra nella competenza del giudice monocratico; b) le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione sommaria, rappresentata da prove documentali. Qualsiasi controversia che presenti queste caratteristiche, infatti,
può essere introdotta con rito sommario, incluse le opposizioni a decreto ingiuntivo. Il riferimento letterale alla “citazione”, quale forma di introduzione dell’opposizione, prevista all’art. 645 c.p.c. non può essere intesa come modalità esclusiva dell’opposizione, costituendo solo quella tipica per promozione il giudizio ordinario. Del resto, è pacificamente previsto che nelle cause disciplinate dal rito del lavoro, l’opposizione si proponga con ricorso (cfr., tra le tante, Cass., sez. VI-III, ord. 19.9.2017, n. 21671); – qualora il giudizio sia introdotto con ricorso, per verificare la tempestività dell’azione occorre aver riguardo alla data del deposito dell’atto e non a quella della notifica. Conseguentemente, si deve ritenere che nel caso in esame il termine per proporre opposizione sia stato rispettato, essendo trascorsi meno di quaranta giorni tra la data della notifica del decreto ingiuntivo (10 agosto 2018, con decorrenza del termine, per effetto della sospensione feriale, dal 1.9.2018) e quella del deposito del ricorso in Cancelleria (28.9.2018); (Omissis)
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Opposizione a Decreto Ingiuntivo con rito sommario di cognizione Sommario: S1. Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e il caso in com-
mento. – 2. Incompatibilità per espressa previsione normativa di applicazione del rito ordinario, connessa all’interpretazione letterale dell’art. 645 c.p.c. – 3. La questione dell’incompatibilità del rito sommario a garantire la cognizione piena. – 4. Conclusioni.
Il Tribunale di Bologna riteneva ammissibile l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta con il rito sommario di cognizione di cui all’art. 702bis c.p.c., quando la causa rientra nella competenza del giudice monocratico e le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione sommaria, rappresentata da prove documentali. Da un lato, infatti, il riferimento letterale alla “citazione” quale forma di introduzione dell’opposizione, prevista all’art. 645 c.p.c. non indicherebbe nel giudizio ordinario la sola forma utile per l’opposizione, mentre dall’altro il rito sommario sarebbe un giudizio pienamente idoneo a restituire alle parti il contraddittorio sottratto in fase monitoria. The court of Bologna hold as admissible the opposition against an injunction filed with the so-called “rito sommario ex art. 702bis” of the Italian code of civil procedure when the proceeding is subject to the jurisdiction of a single judge and the defences brought by the parties are limited to a summary discovery, including only documents. First, the referral made in art. 645 of the Italian code of civil procedure to the summons (“atto di citazione”) as the way to introduce an opposition, does not imply that the ordinary proceeding is the only way to oppose an injunction and, on the other hand, the “rito sommario” is a proceeding that is compliant with the need to give the parties the opportunity to open a debate on the matter at issue, that was denied in the phase of injunction.
1. Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e il caso in commento.
Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è stato configurato come mezzo di impugnazione del decreto1, non in senso proprio, ma quale mezzo di realizzazione di un
1
L. Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, 137; F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, III, Roma, 1956, 136; G. Chiovenda, Istituzione di diritto processuale, Padova, 1986, 159; P. Calamandrei, Il procedimento monitorio nella legislazione italiana, Milano, 1926, 120; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, III, 20ª ed., Torino, 2009, 38; Altri studiosi hanno ritenuto che l’opposizione rappresenta una sorta di condizione dell’esercizio dell’azione di condanna, azione instaurata contestualmente alla
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contraddittorio posticipato con assimilazione, per identità di funzione, dell’opposizione alla comparsa di risposta. Rileva, dunque, la constatazione dell’intimo rapporto tra le due fasi processuali dell’ingiunzione e dell’opposizione, dato che l’opposizione non rappresenta un processo autonomo rispetto all’ingiunzione. E, difatti, tramite l’opposizione a decreto ingiuntivo si instaura un giudizio ordinario di cognizione nel quale il giudice non deve limitarsi a stabilire se l’ingiunzione fu emessa legittimamente ma deve accertare il fondamento o meno della pretesa fatta valere col ricorso per ingiunzione. In questo senso, qualora la pretesa creditoria risulti fondata, il giudice dovrà accogliere la domanda, indipendentemente dalla circostanza della regolarità, sufficienza e validità degli elementi probatori alla stregua dei quali l’ingiunzione fu emessa, rimanendo irrilevanti, ai fini di tale accertamento, eventuali vizi della procedura monitoria che non importino l’insussistenza del diritto fatto valere con tale procedura. Conseguentemente, l’eventuale mancanza delle condizioni che legittimano l’emanazione del provvedimento monitorio può spiegare rilevanza soltanto sul regolamento delle spese processuali relative alla fase monitoria. Per l’introduzione del giudizio di opposizione, l’art. 645 c.p.c. dispone chiaramente la forma statuendo che “l’opposizione si propone davanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto con atto di citazione notificato al ricorrente nei luoghi di cui all’articolo 638”, e quindi facendo espresso riferimento alle forme descritte dagli artt. 163 e ss. c.p.c. che formano il complesso di norme che riassumiamo ellitticamente con il nome di “procedimento ordinario”. Ovviamente, a scanso di equivoci, è opportuno rammentare che tale nome non deriva dalla contrapposizione di questo procedimento con altri procedimenti “extra-ordinem”, ma piuttosto dal fatto che, numericamente parlando, tale procedimento è quello utilizzato più di consueto e, in ogni caso, quello da applicare in via residuale quando nessun altro procedimento risulti applicabile ad una determinata controversia. Ciò non toglie, altrettanto ovviamente, che dal punto di vista giuridico tutti i riti abbiano pari dignità di legge, con l’unica differenza che la stessa legge stabilisce i presupposti per l’applicazione di ciascun rito. La sentenza in epigrafe analizza e risolve la questione attinente all’interpretazione dell’articolo citato, in particolare, se esso, facendo allusione all’atto di citazione, indichi restrittivamente nel rito ordinario la forma da adottare in fase di opposizione a decreto ingiuntivo ovvero se esso debba interpretarsi in senso ampio, indicando la necessità di instaurare in fase di opposizione un giudizio funditus, lasciando alle parti la scelta sul rito applicabile.
domanda di ingiunzione A. Segni, L’opposizione del convenuto al processo monitorio, in Scritti giuridici, II, Torino, 1965, 977; N. Lipari, Mancanza di presupposti processuali nel processo ingiunzionale, in Il circolo giuridico, 1972, II, 155;
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Nel caso in commento, la parte opposta aveva lamentato la tardività dell’opposizione proposta con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. depositato entro i 40 giorni di rito, ma notificato a seguito dell’emissione del decreto di fissazione dell’udienza, quando il termine era già scaduto e non potevano più prodursi gli effetti di conversione degli atti processuali, necessari, ad avviso di parte opposta, per la salvezza dell’atto. La ragione della necessità della conversione risiederebbe nell’incompatibilità del rito sommario di cognizione con la fase di opposizione. A favore della tesi dell’”incompatibilità” si potrebbero individuare, almeno in via teorica, due argomentazioni: la prima muove da un’interpretazione letterale, dato che, come si è detto, l’art. 645 c.p.c. fa espresso riferimento all’ “atto di citazione”; la seconda si basa sulla necessità di instaurare, a seguito dell’opposizione, un giudizio a cognizione piena (funditus), che sarebbe incompatibile con un giudizio sommario ex art. 702 bis c.p.c..
2. Incompatibilità per espressa previsione normativa di
applicazione del rito ordinario, connessa all’interpretazione letterale dell’art. 645 c.p.c.
La prima argomentazione, relativa alla necessità del rito ordinario per la fase di opposizione, come chiaramente affermato dalla sentenza, sembrerebbe smentita dalla risalente giurisprudenza in materia di lavoro2, che pur essendo vigente la stessa lettera dell’art. 645 c.p.c., ha ritenuto che il rito speciale del lavoro si applicasse anche alla fase di opposizione a decreto ingiuntivo per le controversie enunciate dall’art. 409 c.p.c., qualora ne sussistessero i presupposti. In aggiunta, in caso di erronea emissione degli stessi da parte del Tribunale civile, si potrebbero applicare i più favorevoli termini, sospesi per la pausa estiva, previsti per il rito enunciato dalla pronuncia monitoria3, con successivo mutamento del rito in fase di
2
La sentenza più risalente in tema sembrerebbe essere quella enunciata nella massima di Cass. 15 ottobre 1992, n. 11318, in Foro it., 1993, I, 1534, con nota di richiami: “Nelle controversie in materia di lavoro e previdenza, l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta con atto di citazione invece che con il ricorso di cui all’art. 414 c.p.c., dà luogo ad un caso di inammissibilità rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, se l’atto non viene depositato in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641, 1º comma, c.p.c., ancorché sia stato notificato entro detto termine”. Conformi in giurisprudenza Cass. 2 gennaio 1998, n. 8, in Foro it., 1998, I, 3273, con nota di R. Frasca, Il rito dell’opposizione a decreto ingiuntivo in materia locativa prima e dopo la riforma del processo civile e le questioni connesse, in Foro it. 1998, I, 3274; Cass. 24 agosto 1991, n. 9099, Foro it., Rep. 1991, voce Ingiunzione (procedimento), n. 25; 26 marzo 1991, n. 3258, ibid., n. 26; 14 marzo 1991, n. 2714, ibid., n. 27; 9 giugno 1989, n. 2801, id., Rep. 1989, voce cit., n. 12; 1° giugno 1989, n. 2669, ibid., n. 13; Pret. Viterbo 26 gennaio 1987, id., Rep. 1988, voce cit., n. 30; Pret. Roma 24 aprile 1988, id., 1988, I, 3634, con nota di richiami. In dottrina G. Pezzano (V. Andrioli, C.M. Barone, A. Proto Pisani), Le controversie in materia di lavoro, 2ª ed., Bologna-Roma, 1987, 1047 ss.; E. Fazzalari, Decreto ingiuntivo e nuovo rito del lavoro, in Giur. it., 1974, I, 2, 781 ss.; O. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 3ª ed., Giuffrè, Milano, 1987, 254; L. Montesano, R. Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, 2ª ed., Napoli, 1989, 249, , 1987, 191; 3 Cass. 7 maggio 2002, n. 6523, in Foro it., Rep., 2002, Ingiunzione (procedimento per), n. 30: “ Ove il decreto ingiuntivo, pur riguardando un rapporto tra quelli indicati dall’art. 409 o dall’art. 442 c.p.c., sia stato emesso, anziché (prima dell’istituzione
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opposizione una volta sollevata la questione di rito, con ciò dimostrandosi che sarebbe l’enunciazione contenuta nell’ingiunzione a reggere il decreto, ma solo fintanto che essa non sia mutata per effetto della eccezione proposta dall’opponente, che quindi ben potrebbe ottenere il mutamento anche in questa fase. Inoltre, rileva il fatto dell’intima connessione tra le due fasi, che implicherebbe di trattarle come se fossero una sola, dovendosi ritenere che l’atto di costituzione dell’opposto (attore sostanziale) sia riconducibile non alla memoria difensiva, ma ad un atto integrativo della domanda azionata con la richiesta di decreto ingiuntivo4. Ciò quindi, soprattutto nel rito del lavoro, è dirimente considerate le rigide preclusioni5 che regolano il contraddittorio e ciò ovviamente impone l’applicazione del rito speciale alla fase di opposizione, che altrimenti si tramuterebbe in una distorsione del sistema giuridico tale per cui si tratterebbero le questioni inerenti all’opposizione monitoria con un rito più lento e con preclusioni meno rigide di quello ordinario. Lo stesso ragionamento non potrebbe dunque non applicarsi al rito sommario di cognizione, in quanto, ove ne ricorrano i presupposti, esso garantisce senza dubbio all’opponente di far valere le proprie ragioni in modo più celere, se esse siano basate su prova scritta e si possa limitare la discussione alle sole prove documentali. D’altronde, al contrario, a propria tutela, l’opposto ben potrebbe chiedere ed ottenere dal giudice il mutamento del rito in favore di quello ordinario, qualora nell’atto difensivo di costituzione rilevi elementi che necessitano, a suo avviso, di una prova costituenda per essere valutati.
del giudice unico di primo grado) dal pretore in funzione di giudice del lavoro, dal presidente del tribunale, ai fini della relativa opposizione è applicabile il regime della sospensione dei termini nel periodo feriale, in conformità del principio secondo cui il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della controversia, indipendentemente dalla esattezza della relativa valutazione, e perciò detto rito costituisce per le parti criterio di riferimento anche ai fini del computo dei termini processuali, secondo il regime previsto dagli art. 1 e 3 l. 7 ottobre 1969 n. 742”. In senso conforme, più di recente, si vedano Cass. 9 novembre 2010, n. 22738, in Foro it., Rep., 2010, Impugnazioni civili [3460], n. 22. 4 Così Cass. 25 gennaio 2005, n. 1458, in Foro it., Rep., 2005, Ingiunzione (procedimento per), n. 70; Cass. 22 aprile 2004, n. 7688, in Foro it., Rep., 2004, Ingiunzione (procedimento per), n. 56; Per le stesse ragioni, al contrario, Cass. 4 agosto 2004, n. 14962, in Foro it., Rep., 2004, Ingiunzione (procedimento per), n. 55, affermava che “ al ricorso per ingiunzione per crediti inerenti a rapporti di lavoro o di previdenza e assistenza obbligatorie non si applicano le prescrizioni dell’art. 414 c.p.c. sul contenuto del ricorso introduttivo, nel senso che, fermo restando che il creditore che agisce in via monitoria deve indicare gli elementi essenziali dell’azione e cioè la causa pretendi e il petitum, nella memoria di costituzione a seguito di opposizione egli può specificare l’una e l’altro e formulare ulteriori prove, costituende o costituite, a sostegno della pretesa azionata con il ricorso per ingiunzione, nonché modificare la domanda introdotta nel ricorso per ingiunzione, senza tuttavia poter formulare domande nuove; in ogni caso, eventuali nullità del ricorso per decreto ingiuntivo non possono determinare automaticamente la nullità della memoria di costituzione in giudizio, potendo rilevare solo ai fini del regolamento delle spese della fase monitoria”. 5 Cass. 20 novembre 2002, n. 16386, in Foro it., Rep., 2002, Ingiunzione (procedimento per), n. 58. “ Nel giudizio di opposizione instaurato dal datore di lavoro contro il decreto ingiuntivo per il pagamento di somme richieste dal lavoratore, dovendo la domanda del creditore opposto essere individuata in relazione alle richieste formulate con il ricorso per ingiunzione, è inammissibile la richiesta di una somma ulteriore avanzata con la memoria di costituzione, trattandosi di modificazione non consentita della domanda, senza che assuma alcun rilievo in contrario la eventuale accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, in quanto il regime di preclusione delle domande, eccezioni e conclusioni risponde, nel rito del lavoro, ad esigenze di ordine pubblico, attinenti al funzionamento del processo in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano; trattandosi di modificazione inammissibile della domanda inizialmente formulata, non è configurabile in relazione ad essa il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di appello, in quanto la proposizione di una domanda inammissibile non determina l’insorgere di alcun potere-dovere del giudice di pronunciarsi su di essa”.
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Giurisprudenza
In un precedente caso, peraltro, si era garantita, al contrario, la conversione da rito ordinario a rito sommario di cognizione in fase di opposizione a decreto ingiuntivo6 con l’affermazione chiara che l’art. 645 c.p.c., nella sua formulazione letterale non osterebbe alla conversione, alla luce del fatto che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione partecipa della stessa idoneità al giudicato, formale e sostanziale, che contraddistingue la sentenza, mentre, al contrario, l’intento acceleratorio perseguito dal legislatore con l’introduzione rito sommario rende pienamente percorribile la strada del mutamento del rito. Se dunque l’art. 645 c.p.c. non osta al mutamento del rito, nemmeno potrebbe ostare alla diretta introduzione del giudizio con la forma del rito sommario, a meno che non si voglia affermare che il rito sommario sia del tutto inidoneo ed incompatibile con la natura della fase di opposizione.
3. La questione dell’incompatibilità del rito sommario a garantire la cognizione piena.
Quanto a questa seconda argomentazione, essa sarebbe stata pure in astratto sostenibile fino a qualche anno fa, con l’argomento che la fase di opposizione implicava un giudizio funditus incompatibile con una nuova fase sommaria, che non sarebbe stata sufficiente a restituire alle parti il contraddittorio sottratto nella fase monitoria. Tuttavia, ad oggi, risulta ormai chiaro che il legislatore non ha inteso il rito sommario come un rito minore, affidandogli chiaramente la stessa efficacia e dignità della sentenza emessa all’esito del rito ordinario, nonché applicando tale rito in via del tutto esclusiva ad un numero sempre crescente di controversie tra cui, è il caso di ricordare:
- le controversie previste dall’art. 28, L. 13.6.1942, n. 794, e l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali (si rimanda al commento dell’art. 645 per ulteriori approfondimenti) (art. 14, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 170, D.P.R. 30.5.2002, n. 115 in materia di opposizione avverso decreto di pagamento di spese di giustizia (art. 15, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
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Trib. Vercelli 23 marzo 2016, in Banca Dati Leggi D’Italia, secondo cui “la norma di cui all’art. 183-bis c.p.c., che riguarda i procedimenti introdotti successivamente all’11.11.2014, e che consente al Giudice di disporre il passaggio dal rito ordinario a quello sommario di cognizione, è applicabile anche ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo; non ostano a tale interpretazione ragioni di carattere letterale (art. 645 c.p.c.), alla luce del fatto che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione partecipa della stessa idoneità al giudicato, formale e sostanziale, che contraddistingue la sentenza; al contrario, l’intento acceleratorio perseguito dal Legislatore con l’introduzione della norma in parola (pensata specificamente per le liti “meno complesse”, tra le quali rientrano sovente quelle incardinate a fini defatigatori o dilatori) rende pienamente percorribile la soluzione prospettata”.
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- le controversie previste dall’art. 8, D.Lgs. 6.2.2007, n. 30 in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari (art. 16, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari per motivi imperativi di pubblica sicurezza e per gli altri motivi di pubblica sicurezza di cui all’art. 20, D.Lgs. 6.2.2007, n. 30, nonchè per i motivi di cui all’art. 21 del medesimo decreto legislativo (art. 17, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del decreto di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea pronunciato dal prefetto ai sensi del D.Lgs. 25.7.1998, n. 286 (art. 18, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti previsti dall’art. 35, D.Lgs. 28.1.2008, n. 25 in materia di riconoscimento della protezione internazionale (art. 19, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 30, co. 6, D.Lgs. 25.7.1998, n. 286 aventi ad oggetto l’opposizione al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonchè agli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare (art. 20, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 5, L. 13.5.1978, n. 180 in materia di opposizione alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio (art. 21, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 82, 1° e 2° co., D.P.R. 16.5.1960, n. 570, quelle previste dall’art. 7, 2° co., L. 23.12.1966, n. 1147, quelle previste dall’art. 19, L. 17.2.1968, n. 108, e quelle previste dall’art. 70, D.Lgs. 18.8.2000, n. 267 relative alle azioni popolari e delle controversie in materia di eleggibilità, decadenza ed incompatibilità nelle elezioni comunali, provinciali e regionali (art. 22, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 44, L. 24.1.1979, n. 18 in materia di eleggibilità e incompatibilità nelle elezioni per il Parlamento europeo (art. 23, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 42, D.P.R. 20.3.1967, n. 223 sull’impugnazione delle decisioni della Commissione elettorale circondariale in tema di elettorato attivo (art. 24, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 4, D.L. 22.9.2006, n. 259, convertito, con modificazioni, dalla L. 20.11.2006, n. 281 in materia di riparazione a seguito di illecita diffusione del contenuto di intercettazioni telefoniche (art. 25, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
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Giurisprudenza
- le controversie in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai e quelle in materia di impugnazione delle misure cautelari rispettivamente previste dagli artt. 158 e 158-novies, L. 16.2.1913, n. 89 (art. 26, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie previste dall’art. 63, L. 2.2.1963, n. 69 di impugnazione delle deliberazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti (art. 27, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie in materia di discriminazione di cui all’art. 44, D.Lgs. 25.7.1998, n. 286, quelle di cui all’art. 4, D.Lgs. 9.7.2003, n. 215, quelle di cui all’art. 4, D.Lgs. 9.7.2003, n. 216, quelle di cui all’art. 3, L. 1.3.2006, n. 67, e quelle di cui all’art. 55-quinquies, D.Lgs. 11.4.2006, n. 198 (art. 28, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie aventi ad oggetto l’opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità di cui all’art. 54, D.Lgs. 8.6.2001, n. 327 (art. 29, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150);
- le controversie aventi ad oggetto l’attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria di cui all’art. 67, L. 31.5.1995, n. 218 (art. 30, D.Lgs. 1.9.2011, n. 150). Tra queste controversie spiccano moltissimi procedimenti a carattere impugnatorio in cui il contraddittorio è posticipato (es. opposizione a decreto ingiuntivo in materia di parcelle degli avvocati) o, addirittura, dove uno dei due soggetti si trovi in una posizione subordinata rispetto all’altro (es. provvedimenti disciplinari), con ciò confermando la piena fiducia che il legislatore ha inteso affidare a questo rito, non in via alternativa, ma esclusiva7, destinando così tante materie a questa forma processuale, nonché statuendo esplicitamente che tale rito è necessario e che quando una controversia venga promossa in forme diverse da quelle previste dal decreto, il giudice deve disporre il mutamento del rito con ordinanza8. Dunque, non solo il rito sommario è da ritenere compatibile con i giudizi impugnatori o di opposizione, ma la legge prevede ormai tale rito come necessario in molte fattispecie analoghe.
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Cass. 10 maggio 2017, n. 11479, in Foro it., Rep., 2017, Avvocato [0770], n. 157: “L’opposizione, ex art. 645 c.p.c., al decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato per prestazioni giudiziali è regolata dal rito sommario di cognizione ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., secondo quanto previsto dall’art. 14 d.leg. n. 150 del 2011, sicché il relativo atto introduttivo deve avere la forma del ricorso e non dell’atto di citazione.” 8 Cass. 14 maggio 2019, n. 12796, in Banca Dati Leggi D’Italia: “A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, la controversia per la liquidazione delle prestazioni professionali può essere introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo e la relativa opposizione va proposta con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., così pure l’attività di costituzione dell’opposto. Nel caso in cui l’opposizione sia stata proposta con citazione, la congiunta applicazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 prevede che il giudice debba disporre il mutamento del rito e, in tale evenienza, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, restando ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento”. (Cassa senza rinvio, TRIBUNALE LATINA, 02/10/2014)
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D’altronde il problema non dovrebbe risiedere nella sommarietà dell’istruttoria9, che caratterizza il rito, ma semmai nella garanzia che il rito sia idoneo a restituire il contraddittorio alle parti. Sul punto la dottrina10 aveva già chiarito che le formule, contenute nel testo della norma, secondo cui il giudice nel rito sommario può omettere solo le formalità “non essenziali al contraddittorio”, sarebbero indicative del fatto che il rito è sommario solo nell’istruttoria, ma non nell’esame degli elementi allegati e provati dalle parti, che costituisce il complesso di atti idonei a garantire il contradditorio e la parità delle armi.
4. Conclusioni. In conclusione, il rito sommario di cognizione non dovrebbe essere ritenuto incompatibile con la fase di opposizione a decreto ingiuntivo né sul piano della contrarietà all’art. 645 c.p.c. né sul piano, più generale, della sua idoneità a garantire il contraddittorio. Sotto il primo profilo, infatti, si è visto che il riferimento contenuto nell’art. 645 c.p.c. all’ “atto di citazione” deve essere inteso in senso lato e ciò in quanto la norma viene di volta in volta coordinata con le altre disposizioni che regolano i riti speciali, con l’unico limite dei presupposti per essi stabiliti in base alla materia o agli altri requisiti prescritti. Pertanto, la sentenza in commento parrebbe condivisibile ove ha rilevato che il “riferimento letterale alla “citazione”, quale forma di introduzione dell’opposizione, prevista all’art. 645 c.p.c. non può essere intesa come modalità esclusiva dell’opposizione, costituendo solo quella tipica per promozione il giudizio ordinario”. Il Giudice di merito, quindi, ragionando come se si trovasse dinnanzi ad una domanda proposta in via ordinaria con il mezzo del rito sommario, si è limitato a vagliare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge ai fini dell’applicazione del rito ex art. 702 bis c.p.c.,
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Sul punto si veda Cass. 5 ottobre 2018, n. 24538, con nota di A. Mengali, La Corte di Cassazione interviene sulle preclusioni istruttorie e sui poteri del giudice nel procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it, secondo cui “la specificità del rito sommario ex art. 702 bis c.p.c., risiede anche nella necessità che le parti, ma soprattutto il ricorrente, deducano negli atti di costituzione tutte le istanze istruttorie che ritengono di formulare per adempiere al loro onere probatorio ex art. 2697 c.c.. Solo attraverso le concrete allegazioni del thema decidendum e probandum delle parti il giudice può, infatti, valutare nell’ambito di quel processo se la causa possa o meno essere decisa con una istruzione sommaria e in caso di valutazione negativa disporre il mutamento del rito ex art. 702 ter c.p.c.”. 10 Sul punto C. Ferri, Il Procedimento somamrio di cognizione, in Riv. Dir. Proc., 2010, 1, 92; R. Tiscini, I provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009; V. G. Olivieri, Al debutto il rito sommario di cognizione (e altri saggi sul procedimento sommario), in Guida dir. 2009, n. 28, 37 ss.; V. G. Olivieri, Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico la semplificazione e la competitività, Napoli 2009, 79 ss.; C. Mandrioli, A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 123 ss.; contra G. Costantino, Tutela dei Diritti e regole del processo, in Riv. Dir. Proc., 2017, 6, 1418 ss., secondo cui il processo sommario non garantirebbe una vera e propria cognizione piena, essendo un “patchwork” di norme contraddittorie; M. Bove, A. Santi, Il nuovo processo civile tra modifiche attuate e riforme in atto, Matelica, 2009, 81, secondo cui se l’attore può scegliere e poi il giudice stabilisce come è meglio procedere il convenuto “soggiace alle scelte e alle determinazioni altrui potendo non aver più l’occasione di pretendere un processo a cognizione piena”. Sul tema del valore del giudicato si veda E. F. Ricci, Ancora novità (non tutte importanti non tutte pregevoli sul processo civile), in Riv. dir. proc., 2008, 1358 ss.
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statuendo che “il rito sommario prescelto dall’opponente appare compatibile con la controversia in esame, atteso che: a) la causa rientra nella competenza del giudice monocratico; b) le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione sommaria, rappresentata da prove documentali. Qualsiasi controversia che presenti queste caratteristiche, infatti, può essere introdotta con rito sommario, incluse le opposizioni.” Sotto il secondo profilo, relativo all’idoneità del rito sommario a garantire il pieno contraddittorio tra le parti, si dovrebbe ritenere che, nell’attuale assetto, il rito ex art. 702 bis c.p.c. non sia più da considerare “estraneo” alla cognizione piena, ma un mezzo processuale del tutto equiparabile, su questo piano, al rito ordinario, dato che il legislatore ha previsto l’applicabilità dello stesso, in via esclusiva, ad una serie di controversie, tra cui rientrano anche i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo in materia di liquidazione degli onorari degli avvocati. Inoltre, la giurisprudenza sembra unanime nel ritenere che tale rito configuri una cognizione piena e che l’ordinanza, emessa all’esito del procedimento, abbia un’idoneità al giudicato pari a quella della sentenza di primo grado, differendo i due procedimenti solo in merito alla fase istruttoria. Resta, in ogni caso, in capo alla parte opposta la possibilità di chiedere la conversione del rito in modo tale da poter raggiungere la piena prova del credito vantato qualora non ritenga di poterlo provare con l’istruttoria sommaria. Riccardo Fratini
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