Judicium 2 2020

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ISSN 2532-3083

Judicium n. 3/2020

il processo civile in Italia e in Europa

Rivista trimestrale

Settembre 2020

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Diretta da:

In evidenza: Riflessioni sull’art. 2953 c.c. Intorno a un saggio in materia di diritto civile Roberta Tiscini

La questione di autodichia nel processo (ovvero degli incerti confini tra regolamento di giurisdizione e conflitto di attribuzioni) Clarice Delle Donne

Giudice ordinario e decisione amministrativa Annalaura Giannelli

Per una riqualificazione dei poteri sanzionatori del giudice civile come nuova ipotesi di tutela costitutiva necessaria, a contenuto oggettivo Marina Sfarzo

Brevi note in tema di opposizione all’esecuzione e vicende del titolo esecutivo Biagio Limongi

Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio Ulisse Corea



Indice

Saggi Roberta Tiscini, Riflessioni sull’art. 2953 c.c. Intorno a un saggio in materia di diritto civile............ p. 289 Clarice Delle Donne, La questione di autodichia nel processo (ovvero degli incerti confini tra regolamento di giurisdizione e conflitto di attribuzioni)........................................................................» 301 Annalaura Giannelli, Giudice ordinario e decisione amministrativa......................................................» 325 Marina Sfarzo, Per una riqualificazione dei poteri sanzionatori del giudice civile come nuova ipotesi di tutela costitutiva necessaria, a contenuto oggettivo.................................................................» 363 Biagio Limongi, Brevi note in tema di opposizione all’esecuzione e vicende del titolo esecutivo............» 387 Ulisse Corea, Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio..................................................» 407

Giurisprudenza commentata Tribunale di Brescia,sez. civ. IV, sentnza 23 giugno 2020, n. 1176, con nota di Marta Magliulo, Nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust: fatto costitutivo e smarrimenti giurisprudenziali.................................................................................................................» 425 Corte di appello di Milano, sentenza, 17 aprile 2019, n. 1701, con nota di Fabio Valerini, Opposizione di terzo al lodo nel caso di lite tra pretendenti al credito..................................................» 449


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Saggi

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Roberta Tiscini

Riflessioni sull’art. 2953 c.c. intorno a un saggio in materia di diritto civile* Sommario : 1. Oggetto di indagine. – 2. L’ actio iudicati nel pensiero di Chioven-

da. – 3. Art. 2953 c.c. e actio iudicati in Montesano. – 4. Segue: e in Liebman e Menchini. – 5. Il pensiero civilistico. – 6. Art. 2953 c.c. e la cosa giudicata. – 7. L’efficacia innovativa del giudicato. – 8. Art. 2953 c.c. tra actio iudicati e cosa giudicata. – 9. Art. 2953 c.c., sentenza di condanna generica e obbligazioni solidali.

Traendo spunto dalle riflessioni svolte da Bonanno all’interno di un saggio sugli effetti della cosa giudicata sostanziale sulle prescrizioni brevi, l’A. esamina la logica sottesa all’art. 2953 c.c. nel pensiero dei processualisti e in quello dei civilisti. Drawing inspiration from Bonanno’s essay on the effects of res iudicata on short limitation period, the Author examines ratio of art. 2953 of the Italian Civil Code.

1. Oggetto di indagine. Queste brevi riflessioni traggono spunto da un interessante saggio di Luigi Bonanno, giovane studioso del diritto civile, dal titolo “Europeizzazione degli ordinamenti giuridici ed effetti della cosa giudicata sostanziale sulle prescrizioni brevi: verso una riforma dell’articolo. 2953 c.c.?”1 Il lavoro affronta il tema della conversione del termine di prescrizione breve in decennale a seguito della pronuncia di sentenza di condanna passata in giudicato (art. 2953 c.c.), istituto che, nel sentire comune, ripropone la cd. actio iudicati di origini romanisti-

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Intervento al Seminario a distanza ADP, “Dialogo con i giovani studiosi”, 15 luglio 2020. In Rass. dir. civ., 2020, in corso di pubblicazione.

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che (così, tanto nel pensiero scientifico, quanto nell’esperienza giurisprudenziale). Intorno alla disposizione ruotano consolidati convincimenti che attraversano la storia del diritto sostanziale e processuale, nel transito dai vecchi codici sostanziali – civile e commerciale – al nuovo codice civile del 1942 (in cui quella disposizione ha per la prima volta visto la luce). Tuttavia, lo scritto di cui si discute apre le porte a talune perplessità e interrogativi certamente meritevoli di attenzione. Istituti centrali del sistema processuale valgono quali fondamenta su cui si erige la regola. Volendo circoscriverne i confini, e al contempo individuarne la logica, si dirà che l’art. 2953 c.c. opera quando: 1) oggetto della sentenza sono diritti assoggetti (originariamente) a un termine prescrizionale breve2; 2) la sentenza che su di essi pronuncia ha contenuto condannatorio; 3) si tratta di sentenza passata in giudicato. Attribuendo priorità all’uno o all’altro di tali requisiti, finisce per uscire fortificata una soluzione interpretativa piuttosto che un’altra. Il pendolo in realtà oscilla tra due contrapposte opzioni: l’una volta ad accordare prevalenza al requisito della funzione condannatoria della sentenza sottoposta all’actio iudicati, nel senso che essa trova conforto nel fatto che la sentenza di condanna non esaurisce la tutela giurisdizionale, bensì solo apre le porte all’esecuzione forzata assicurando così una tutela potenziale per l’eventualità in cui il debitore non adempia spontaneamente all’obbligazione (sicché la prescrizione si converte in ordinaria per assicurare all’avente diritto un maggiore agio temporale per la sua soddisfazione). L’altra, volta invece a porre l’accento sulla stabilità del giudicato che la sentenza deve avere e sull’effetto novativo che il giudicato stesso produce rispetto al diritto sostanziale protetto (sicché, essendo nuovo e diverso il diritto tutelato – novato – anche il termine prescrizionale muta rispetto a quello breve originario).

2. L’actio iudicati nel pensiero di Chiovenda. Nodo centrale della questione sta nel fatto che la trasformabilità delle prescrizioni brevi in decennali è consentita solo nel caso di sentenze di condanna. Di qui la tradizionale riconduzione dell’istituto alla actio iudicati. Nella vigenza dei precedenti codici sostanziali, dominava nel pensiero di Chiovenda l’idea che l’actio iudicati – trasmessa dalla tradizione anche se non consacrata nella legge – “collega sotto lo scopo comune dell’attuazione della legge i due stadi autonomi della

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La disposizione non si applica ai diritti assoggettati a prescrizioni più lunghe di quella ordinaria che perciò non si riducono a seguito del passaggio in giudicato della sentenza.

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cognizione e dell’esecuzione: colla domanda giudiziale iniziale (citazione) si chiede solo una sentenza, non l’esecuzione. Quale sia la volontà concreta della legge all’attuazione della quale si tende con l’actio iudicati si desume dalla sentenza e solo dalla sentenza. Non si può risalire ai fatti anteriori alla sentenza, considerati come esistenti dal giudice, se non per interpretare, ove occorra, la sentenza”3. Pertanto, “l’actio iudicati è, come ogni azione, prescrittibile, ma da quanto si è detto testé, si deduce che essa logicamente non può essere soggetta che alla prescrizione generalissima, cioè la trentennale”4. Ne deriva come l’actio iudicati non sia da ritenere un requisito in sé del giudicato, bensì una nuova azione, sol per questo assoggettata a un nuovo temine di prescrizione (all’epoca trentennale, oggi decennale), da riferire appunto all’azione piuttosto che al diritto sottostante consacrato in sentenza. In un inquadramento del genere, finisce per essere residuale l’effetto novativo della sentenza. Anzi, ciò induce a rigettare ogni idea che davvero il passaggio in giudicato di una sentenza possa “novare” il rapporto sottostante, sicché da un diritto originario (quello fatto valere con la domanda originaria) derivi un diritto nuovo, quello consacrato in sentenza. Il diritto è quello riconosciuto in sentenza (la quale a sua volta fotografa la situazione esistente al tempo della domanda5). Il passaggio in giudicato della sentenza non ha su di esso alcun effetto novativo. Nuova e diversa è invece l’azione che segue al passaggio in giudicato della pronuncia condannatoria, la quale apre la strada a una nuova azione, l’actio iudicati. Sicché oggetto dell’effetto novativo è l’azione (esecutiva) e non il diritto sottostante”6.

3. Art. 2953 c.c. e actio iudicati in Montesano. Vigente l’art. 2953 c.c., chi maggiormente si è occupato della sentenza di condanna, quale titolo esecutivo giudiziale, non ha esitato a porre a fondamento delle peculiarità della funzione condannatoria proprio l’istituto dell’actio iudicati. Muovendo dall’esigenza di delineare il ruolo della sentenza di condanna, in quanto preordinata all’esecuzione forzata, Montesano utilizza l’art. 2953 c.c. (unitamente all’art. 2818 c.c.) a dimostrazione del fatto che tale sentenza e quella puramente dichiarativa sono da considerare “due categorie

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Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. I, Napoli, 1950, 154. “Qualunque ragione pratica si assegni poi alla prescrizione diversa dalla trentennale, essa viene meno di fronte al giudicato”. Id., op. cit., 155. Sul tema si tornerà infra § 7. È questo il pensiero ancora una volta lucidamente espresso da Chiovenda, laddove afferma che “la sentenza di accoglimento, in quanto afferma la volontà concreta di legge che garantisce un bene all’attore, nulla aggiunge a questa volontà nei rapporti fra attore e convenuto, molto meno le sostituisce una volontà nuova: il concetto che il giudicato produca una novazione semplice o accrescitiva è estraneo al nostro diritto. Ma il giudicato produce una novità giuridica: poiché, attuando la legge con l’accertamento, esso esaurisce il potere giuridico dell’attore, cioè consuma l’azione: nel momento medesimo nasce a favore dell’attore un nuovo potere giuridico, cioè una nuova azione, che consiste nel potere giuridico di porre in essere la condizione per l’ulteriore attuazione della volontà della legge accertata nella sentenza” (Chiovenda, op. cit., 154). Sull’effetto novativo del giudicato, si tornerà infra par. 7.

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distinte ed autonome di tutela giurisdizionale dei diritti”7. Non è infatti un caso che l’art. 2953 c.c. (non diversamente dall’art. 2818 c.c.) attribuisca gli effetti in essa previsti alla sola sentenza di condanna e non alle altre sentenze civili, riferendosi perciò ai soli rapporti obbligatori (non anche a quelli ulteriori che pure la tutela giurisdizionale dichiarativa può assicurare, costitutivi o di mero accertamento). Sicché, la sentenza di condanna, pur se volta a garantire certezza al rapporto obbligatorio in essa consacrato, se ne colloca al di fuori, ma al contempo anticipa la tutela esecutiva. Abbinando l’art. 2953 c.c. all’art. 2818 c.c., Montesano rileva come si tratti in entrambi i casi di norme che impongono all’interprete: “a) di mettere la funzione della condanna civile in rapporto con l‘adempimento di una obbligazione; b) di considerare utili ad individuare la funzione in discorso quegli effetti dell’ipoteca giudiziale e della speciale prescrizione del giudicato, che, per espresso disposto di legge, conseguono solo alla condanna e non ad altre sentenze civili”8. Pur collocandosi tra gli effetti cd. “secondari” della sentenza, e non identificandosi col suo contenuto, sia quello dell’ipoteca giudiziale, sia quello che incide sulla prescrizione sono comunque effetti idonei a connotare questa particolare tipologia di decisione, non potendo confondersi in una troppo generica definizione di “efficacia della sentenza come fatto giuridico”, a cui appartengono tutti gli effetti non tipici della condanna9. In altri termini, l’art. 2953 c.c. è argomento forte su cui Montesano insiste per dimostrare che la condanna civile non assolve solo all’accertamento sostanziale, ma anche ha la funzione di valere quale “preparazione della tutela processuale esecutiva del diritto medesimo”10. La speciale regola sulla prescrizione del giudicato, infatti, non è compatibile con la funzione della sentenza di mero accertamento, che consiste esclusivamente nella dichiarazione giurisdizionale di un diritto o di un rapporto, non comportando essa alcuna modifica nella struttura o nella funzione sostanziale; la medesima neppure è compatibile con una funzione di tutela giurisdizionale consistente nel creare nuovi effetti sostanziali, giacché in questo caso opera la sola prescrizione propria dei diritti giudizialmente costituiti11. “Si conclude, pertanto, facilmente che la speciale prescrizione del giudicato significa che la condanna produce o dichiara, nel giudizio di cognizione, un’ulteriore tutela processuale a favore del creditore, la quale, come s’è visto, si identifica necessariamente con la soggezione del debitore alla sanzione processuale esecutiva”12. È questa l’impostazione dominante nel pensiero processualcivilistico già autorevolmente sostenuto e nell’art. 2953 c.c. puntualmente consacrato.

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Montesano, La condanna nel processo civile. Anche tra privati e pubblica amministrazione, Napoli, 1957, 3. Id., La sentenza, cit., 6. 9 Id., op. cit., 9. 10 Id., op. cit., 15. 11 “E non è possibile una prescrizione riferita – come quella prevista dalla norma in esame – al preesistente rapporto sostanziale dedotto in giudizio, al quale, appunto, si sostituiscono quei nuovi effetti creati in forza del giudizio medesimo” (Id., op. cit., 17). 12 Id., op. cit., 17. 8

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D’altra parte, proprio muovendo dal ruolo fondamentale dell’art. 2953 c.c. quale strumento dotato di una funzione preparatoria rispetto all’esecuzione forzata, Montesano nota come il riferimento ai “diritti” nella norma consacrato, sia in realtà frutto di un “errore teorico” del legislatore, dal momento che “oggetto della prescrizione medesima è, in realtà, il potere di sottoporre il debitore all’esecuzione forzata”13. A questa ricostruzione – che si fonda sulla qualificazione della condanna quale sanzione giurisdizionale del rapporto obbligatorio, che trasforma l’obbligo in soggezione alla tutela esecutiva – potrebbe muoversi l’obiezione incentrata sull’esistenza di titoli esecutivi stragiudiziali (diversi dalla sentenza) inidonei a produrre la speciale prescrizione del giudicato, da ciò potendosi dedurre che l’actio iudicati “non sia identificabile con l’azione esecutiva costitutivamente accertata in sede giurisdizionale giacché, da un lato si avrebbe l’esecuzione forzata senza condanna, dall’altro la speciale prescrizione apparirebbe collegata non all’azione esecutiva in quanto tale, ma solo al giudicato di condanna”. Si tratta però – secondo Montesano – di una obiezione che non impedisce di vedere nella condanna non solo l’accertamento, ma anche la sanzione esecutiva, dal momento che “l’esistenza di titoli esecutivi diversi dalla condanna non significa che la detta sanzione non sia inflitta giurisdizionalmente, ma deriva dal principio che è di generale applicazione e di fondamentale importanza nei processi civili, in forza del quale il tempo necessario per il funzionamento della tutela giurisdizionale non deve arrecare danno a chi ha diritto alla tutela medesima”14. È perciò, nell’approccio in termini di strumentalità della tutela di condanna rispetto alla tutela esecutiva (e nella sua qualificazione come sanzione) che ben si colloca la prescrizione del giudicato quale rimedio (di diritto sostanziale) per evitare che la durata del processo (esecutivo) vada a danno della parte che ha ragione e si consenta così la tutela dell’avente diritto non solo sotto il profilo dell’accertamento della situazione sostanziale protetta, ma anche sotto quello della propaggine esecutiva verso cui è volto.

4. Segue: e in Liebman e Menchini. Un approccio non dissimile è elaborato da chi pone al centro dei propri interessi la cosa giudicata, quale stabilizzazione degli effetti prodotti dalla sentenza. Secco e senza particolari argomenti è il pensiero di Liebman, determinato nel negare che l’actio iudicati sia da collocare tra gli effetti del giudicato. Nel ricostruire tali effetti, afferma l’Autore come “è invece completamente da negare l’esistenza della cosiddetta actio iudicati; l’azione esecutiva è un effetto della condanna, cioè una manifestazione dell’effet-

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Montesano, La sentenza, cit., 19 (“onde l’art. 2953 c.c. risolve normativamente l’antica controversia dottrinale sull’esistenza e sulla natura dell’actio iudicati, ponendo questa come effetto processuale della condanna e identificandolo con l’azione esecutiva”). 14 Montesano, op. cit., 22.

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to sanzionatorio prodotto dalla condanna, e ad essa deve riportarsi la nota questione del termine di prescrizione”15. Affrontando il tema degli effetti del giudicato, Menchini16 ricorda la cd. actio iudicati (trasformazione della prescrizione breve in quella decennale ai sensi dell’art. 2953 c.c.), precisando da subito che in realtà non è questo un effetto del giudicato in sé, bensì “un effetto delle sentenze di condanna divenute immutabili”17. Il testo della norma – nella lettura che autorevolmente ha incontrato il consenso dei più – evidenzia come la trasformazione delle prescrizioni brevi in decennali non sia un effetto in sé dell’accertamento del diritto (della sua immutabilità), bensì sia piuttosto un effetto da collegare alla condanna “nel senso che essa incide sul temine per il promovimento dell’azione esecutiva, ampliando dal punto di vista cronologico il potere del creditore di attuazione coattiva del proprio diritto” (Menchini, op. cit., 5). Si recepisce così l’insegnamento chiovendiano18 secondo cui il fondamento dell’actio iudicati sta nel fatto che quando il giudice fissa il modo di essere del rapporto controverso, nel caso di sentenza di condanna fa nascere anche a favore dell’attore “un nuovo potere giuridico, cioè una nuova azione, che consiste nel potere di porre in essere la condizione per l’ulteriore attuazione della volontà di legge accertata nella sentenza”19. Sicché, il novum prodotto dalla sentenza (di condanna) e tale da incidere anche sulla prescrizione, non è l’accertamento in sé, ma la condanna all’adempimento del diritto, la quale, aprendo la strada ad una nuova eventuale esecuzione forzata, necessiterà di un allungamento dei termini per la sua attuazione e per la soddisfazione della pretesa20. Precisando inoltre che per promovimento dell’azione esecutiva deve intendersi “attuazione della sentenza di condanna” e non solo necessariamente esecuzione forzata21.

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Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza (ed altri scritti sulla cosa giudicata), Milano, 1962, 42. Menchini, Il giudicato civile, Torino, 2002, 50. 17 Menchini, op. loco cit. La riconduzione della cd. actio iudicati alle sole sentenze di condanna passate in giudicato è condivisa dalla maggioranza della dottrina, sia prima dell’entrata in vigore dell’art. 2953 c.c. (per tutti Chiovenda, Istituzioni, cit. I, 155, su cui par. precedente), sia successivamente (Satta, Gli effetti secondari della sentenza, in Riv. dir. proc., 1934, I, 251 ss., spec. 264; Andrioli, “Actio iudicati” derivante da sentenza di condanna generica?, in Foro it., 1949, I, 478; Id., “Actio iudicati” e sentenze costitutive, in Giur. civ. comm., 1945, 2, 207; Liebman, Efficacia e autorità della sentenza, cit., 42; Proto Pisani, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, I, 1104 ss., spec. 1144; Azzariti, Della prescrizione, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 320). 18 Su cui retro § 2. 19 Chiovenda, Istituzioni, cit., 158 20 Menchini, op. loco cit. 21 Proto Pisani, Appunti, cit., 1145. 16

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5. Il pensiero civilistico. Dalle pagine che precedono risulta evidente come la dottrina processualistica sia per lo più orientata nel senso di inquadrare l’istituto in esame come legato alla tutela di condanna ed in funzione dell’esecuzione forzata. Il fronte civilistico, invece, opta per l’attribuzione di diversa natura alla disciplina, riconducendone la ratio alla cosa giudicata. A giustificare la conversione del termine di prescrizione da breve in ordinario si colloca, secondo questa opzione, il giudicato22. È cioè la stabilità dell’accertamento raggiunta con la cosa giudicata (un accertamento incontestabile) a dare senso alla trasformazione delle prescrizioni brevi in decennali. A nulla rileva, invece, la prospettiva dell’actio iudicati, essendo l’effetto novativo prodotto dal giudicato sul diritto sostanziale a motivare il decorso di un nuovo termine di prescrizione (da agganciare appunto al nuovo diritto). È qui che si incardina principaliter la capacità del giudicato di (in-)novare, la quale, dopo la stabilizzazione degli effetti, provoca l’insorgere di un diritto nuovo e diverso sulle ceneri di quello precedente. Una volta novato il diritto, a seguito della formazione del giudicato, viene meno il senso del termine breve di prescrizione per talune situazioni sostanziali, ratio da ricercare nell’esigenza, per essi, di necessitare di una rapida definizione essendo diritti particolarmente esposti al rischio di dispersione delle relative prove. Il passaggio in giudicato della sentenza fa infatti venire meno le esigenze di protezione e giustifica così l’assoggettamento dei diritti ivi riconosciuti ad un termine di prescrizione ordinario. Quanto al requisito della condanna – pure richiesto dalla norma – questa opzione interpretativa ne riconduce la ragione al fatto che la tutela condannatoria punta a dimostrare l’attuazione concreta della volontà di legge, quale espressione positiva di esercizio del diritto.

6. Art. 2953 c.c. e la cosa giudicata. Veniamo all’impostazione che l’Autore del saggio che qui si commenta vuole offrire del fenomeno in esame. Secondo Bonanno, entrambe le ricostruzioni finiscono per accordare valore alla funzione (in-)novativa della cosa giudicata, nel senso che entrambe si fondano sull’esigenza di innovare. Con la differenza che, in un caso, la funzione novativa andrebbe ricondotta alla tipologia del provvedimento emanato (la condanna), mentre nell’altro tale funzione

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In questi termini, Ruperto, Commento all’art. 2953, in La prescrizione, a cura di Vitucci, in Il codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano, 2014, 281.

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sarebbe da ricollegare solo alla cosa giudicata23, id est alla incontestabilità che da esso deriverebbe. Di qui la lettura prediletta intorno all’art. 2953 c.c. Alla base si pone la ratio dei due istituti, giudicato e prescrizione, entrambi accomunati dall’unica funzione di assicurare la certezza del diritto (per la prescrizione, certezza dei rapporti controversi). Recede dunque il ruolo da accordare alla tutela di condanna, data l’incertezza che ad essa conseguirebbe ove riferita a sentenze non ancora passate in giudicato. In altri termini, è intorno alla certezza del giudicato che può darsi senso all’art. 2953 c.c., non anche alla capacità condannatoria di talune sentenze (o meglio, non solo ad essa, se non accompagnata dalla stabilità della cosa giudicata). L’A. opta quindi per la “valorizzazione del giudicato, che costituisce elemento discretivo ai fini della conversione del termine di prescrizione del diritto. Colgono quindi nel segno le teorie in esso individuanti un requisito necessario per la produzione degli effetti dell’art. 2953 c.c.”. Detto questo, però, e volgendo lo sguardo verso una più attenta indagine (anche comparatistica) intorno alla natura della cosa giudicata (tra le due alternative, sostanziale o processuale), al centro delle critiche l’A. colloca la teoria dell’efficacia novativa del giudicato (come sopra evidenziato, posta a fondamento di entrambe le ricostruzioni dell’art. 2953 c.c.). Bonanno rigetta la teoria dell’efficacia novativa del giudicato, ritenendo, di contro, che il diritto accertato nella sentenza passata in giudicato resta pur sempre quello dedotto in giudizio con la domanda originaria. Si tratterebbe infatti di letture fondate su di un “equivoco concettuale connesso alla funzione della tutela giuridica di cui il provvedimento giurisdizionale costituisce una espressione. Essa mira ad accertare la realtà preesistente ed, in particolare, la sussistenza o meno del diritto controverso”. Quanto alla tutela di condanna, ancorché volta ad accordare protezione all’avente diritto consentendo l’effettiva concretizzazione di quest’ultimo, anche in assenza dell’adempimento spontaneo, osserva l’A. che essa, né per il tramite della natura condannatoria, né mediante l’effetto del giudicato è in grado di innovare la realtà materiale: “il giudicato non crea un nuovo diritto, il quale, per tal via, potrebbe risultare persino discordante rispetto a quello oggetto del rapporto sostanziale”. In altri termini, e se ben si comprende il pensiero, il giudicato non innova il diritto, ma solo attribuisce certezza al diritto preesistente. Quanto all’art. 2953 c.c. così conclude l’A. “il giudicato, pertanto, conferisce incontestabile certezza al rapporto esistente. In tale prospettiva può rileggersi l’art. 2953 c.c., il quale prevede la conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale. La dottrina italiana è concorde nel reputare che il giudicato, mediante la sua efficacia (in-) novativa, muti il diritto e così il suo termine prescrizionale. Alla luce della ricostruzione offerta, deve invece riconoscersi che il mutamento del termine non coincide affatto con la nascita di un nuovo rapporto. È la definitività garantita alla cosa giudicata che di per sé consente la fissazione di un più lungo termine di prescrizione. […] È dunque il definitivo

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Cita l’A. l’opera di Busnelli, Considerazioni sul significato e sulla natura della cosa giudicata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 1327.

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rafforzamento del rapporto sostanziale – e non già la sua trasformazione per mezzo della decisione – che autorizza l’individuazione di un più lungo termine prescrizionale (il quale può o meno coincidere con quello ordinario). Ciò proprio al fine di eludere la problematica giuridica relativa all’efficacia (in-)novativa della sentenza. L’interpretazione del testo dell’art. 2953 c.c. segue tale logica. Esso senz’altro prevede il mutamento del termine breve di prescrizione del diritto in uno più lungo, ma quel cambiamento non costituisce l’esito della emanazione di una nuova fonte regolamentare (di natura giudiziale) dei rapporti. La conversione si fonda su una valutazione discrezionale del legislatore, il quale reputa che un più lungo termine sia coerente con la incontrovertibilità inespressa del giudicato alla situazione giuridica primordiale. La sola alternativa plausibile alla ricostruzione offerta sottende – non già il riconoscimento della sussistenza di un nuovo regolamento, bensì – una rinnovazione del termine breve di prescrizione dell’originario diritto, che inizierebbe nuovamente a decorrere dal momento in cui la sentenza diviene incontestabile. È un esito certo contrario a quello suggerito dal dato letterale dell’art. 2953 c.c., ma l’unico davvero coerente, sul piano tecnico, con la descritta operatività del giudicato”.

7. L’efficacia innovativa del giudicato. Volendo prendere posizione sulla tesi appena esposta, due sono i nodi da sciogliere: l’uno intorno all’efficacia innovativa del giudicato, l’altro (più specificamente attinente all’art. 2953 c.c.) relativo alla riconducibilità (o meno) della regola di conversione della prescrizione alla tutela di condanna. Quanto al ruolo del giudicato rispetto al diritto sostanziale, non è questa la sede per esaminare le ampiamente discusse e fin troppo note questioni circa la natura sostanziale o processuale della cosa giudicata, problematiche che aprirebbero la stura ad altrettanto complesse indagini intorno all’oggetto del processo (più o meno doppio24), ai limiti del giudicato, alla funzione della tutela giurisdizionale in generale (tra principio dispositivo, garanzie costituzionali e ragionevole durata). Basti solo accennare al modo in cui la cosa giudicata si colloca rispetto al diritto tutelato e funge da ponte che riconduce alla realtà sostanziale dopo la parentesi processuale. È corretto affermare che il diritto consacrato in sentenza è quello fatto valere nella domanda introduttiva del processo e dunque esistente prima di esso25; il che d’altra parte trova conferma nel noto brocardo chiovendiano secondo cui “la durata del processo non

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Senza nessuna pretesa di completezza, ci si limita qui a rinviare alla più recente ed aggiornata indagine di Fanelli, L’ordine delle questioni di rito nel processo civile in primo grado, Pisa, 2020, passim. Storicamente, sul doppio oggetto del processo, Consolo, Il cumulo condizionale di domande, vol. I e II, Padova, 1985, passim. 25 Questa la tesi da ultimo condivisa da Bonanno. Retro § precedente.

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deve andare a danno della parte che ha ragione”. Tuttavia, è anche vero che il processo è una complessa macchina la cui attivazione non è certo “a costo zero”. Proprio per assicurare che l’esperienza giudiziale (la sua durata) non provochi danni irreversibili alla protezione sostanziale, è lo stesso processo a giovarsi di regole destinate ad incidere sul diritto sostanziale, tali che – di fatto – finiscono per “innovarne” i contenuti. Basti pensare – per tutti e non a caso – agli effetti prodotti dalla litispendenza sulla prescrizione, interrompendone e sospendendone contestualmente il decorso fino al passaggio in giudicato della sentenza (ma non diversamente regole quali quelle sull’anatocismo – art.1283 c.c. – sui frutti fatti propri dal possessore di buona fede – art. 1148 c.c. – sulla successione nel diritto controverso – art. 111 c.c.). Né d’altra parte, il diritto tutelato può essere insensibile al normale correre del tempo, in misura non dissimile da come accadrebbe se la gestione dei rapporti avvenisse a prescindere dalla lite giudiziale: anche i fatti successivi alla litispendenza sono idonei a incidere sul diritto protetto analogamente a come accadrebbe nelle normali relazioni tra consociati. Qui si collocano le regole che governano i limiti temporali della cosa giudicata, i quali assumono come referente temporale, con riferimento alla quaestio facti, l’udienza di precisazione delle conclusioni (in primo grado). Sicché, la fotografia scattata dal giudicato non è quella relativa allo stato di fatto esistente al momento di proposizione della domanda, bensì quella riferibile alla data di precisazione delle conclusioni (per la quaestio iuris, anch’essa idonea a innovare i contenuti del diritto sostanziale, il referente temporale è invece la data di pubblicazione della sentenza”). In altri termini, la cosa giudicata cristallizza la realtà sostanziale in un momento dato e fotografa una ben precisa situazione soggettiva. Combinando insieme le regole (sostanziali e processuali) che impediscono che la durata del processo pregiudichi l’avente diritto, con quelle (processuali e sostanziali) che collocano il diritto in una inevitabile dimensione temporale e lo descrivono come una realtà in divenire, individuando il referente temporale del giudicato con riferimento alla quaestio facti nell’atto di precisazione delle conclusioni, e con riferimento alla quaestio iuris nella pubblicazione della sentenza, si può ben dire che il diritto sostanziale consacrato nel giudicato non è quello esistente al momento in cui è stata esercitata l’azione, bensì quello riferibile alla data in cui il potere processuale si è esaurito. Si tratta dunque di un diritto (mutato, o innovato, che dir si voglia) che da quello originario trae fonte, ma che da esso si distingue quantomeno per l’incidenza del correre del tempo. È in questi termini che si può intendere la capacità (in-)novativa della cosa giudicata, senza con ciò voler alterare gli equilibri di un sistema processuale che non deve “creare” il diritto sostanziale, ma solo porsi al servizio di esso.

8. Art. 2953 c.c. tra actio iudicati e cosa giudicata. Veniamo al rapporto tra l’art. 2953 c.c., la tutela esecutiva e l’actio iudicati. Chi si è occupato ex professo del tema – e il cui pensiero si è voluto sintenticamente esporre in

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Riflessioni sull’art. 2953 c.c. intorno a un saggio in materia di diritto civile

precedenza – ha lucidamente dimostrato come la regola sulla trasformazione delle prescrizioni brevi in ordinarie sia espressione del necessario collegamento tra tutela dichiarativa e tutela esecutiva. È la prospettiva di dover invocare nuovamente la giurisdizione (o anche solo esercitare il diritto in via stragiudiziale) a valere quale ragione giustificatrice della necessità di giocare sulla “durata” del diritto (o dell’azione ad esso sottesa). Vero è – come osserva Bonanno – che a motivare l’allungamento del termine prescrizionale sta anche il venir meno delle ragioni che alimentano la scelta legislativa di imporre termini brevi di prescrizione (ragioni lato sensu di celerità e urgenza, conseguenti al rischio di dispersione della prova dei fatti su cui quei diritti si fondano)26. Ma così è proprio perché tali diritti non sono soddisfatti dalla sola tutela dichiarativa, aprendosi perciò le porte (pur solo eventualmente) dell’esecuzione forzata. Mentre il mero accertamento (nelle sentenze di accertamento), ovvero l’effetto costitutivo (per quelle costitutive) sono sufficientemente satisfattivi per la parte che chiede tutela, non altrettanto vale per i diritti di obbligazione per i quali è stata esercitata un’azione di condanna, la quale – quand’anche conduca all’accoglimento della domanda – non è in grado di assicurare la pienezza della tutela per il caso in cui l’obbligato non adempia. In quest’ultima ipotesi, non solo è opportuno verificare che il diritto sia vitale e rendere attuale il suo potenziale esercizio, ma anche è bene che quest’ultimo sia collegato ad un nuovo e più lungo termine prescrizionale. Che poi la (nuova) prescrizione abbia una durata diversa da quella incidente sul diritto originario trova giustificazione in un effetto novativo ulteriore rispetto a quello (in-novativo) già descritto che produce tradizionalmente il giudicato27: l’effetto novativo relativo alla azione esecutiva. Se di novazione si può parlare è proprio qui, nel senso che all’azione dichiarativa esercitata in principio si aggiunge e sostituisce quella (eventuale) esecutiva i cui tempi di durata non possono non essere diversi (e più ampi) di quelli originari28. Quale è, in questo contesto, il ruolo del giudicato? Perché il legislatore richiede – ai fini della trasformabilità della prescrizione – non solo la pronuncia di una sentenza di condanna, ma anche la stabilizzazione dei suoi effetti? È una ragione di certezza a giustificare la regola, è la stabilità dell’accertamento a dare forza all’esigenza di imporre un nuovo e più lungo termine prescrizionale. Per logica del sistema giurisdizionale, si può pensare ad un diritto davvero consacrato in sentenza, non in presenza di una decisione quale che sia (precaria, instabile, sub iudice), bensì in relazione a una pronuncia che abbia assunto i crismi dell’incontestabilità e rispetto alla quale si possa dire (in maniera incontrovertibile, appunto) che il diritto accertato è parte della realtà sostanziale.

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Per tutti, Gentili, Regime di prescrizione in materia di responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 1958, 294. V. paragrafo precedente. 28 Si rinvia così alle osservazioni di Montesano, su cui retro, § 3. 27

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9. Art. 2953 c.c., sentenza di condanna generica e obbligazioni solidali.

Un paio di ultime brevi riflessioni. A sostegno della propria tesi, Bonanno invoca due orientamenti giurisprudenziali, non del tutto dall’A. condivisi. A me sembra che si tratti in entrambi i casi di letture interpretative dotate di una loro logica29. Il primo riguarda la sentenza di condanna generica. La storia di questo istituto dimostra, non solo che si tratta di disciplina che ha incontrato nel tempo parecchie difficoltà ad affermarsi30 (e tuttora di essa non se ne fa un grande uso), ma anche che la sua compatibilità con l’art. 2953 c.c. ha tanto faticato ad imporsi presso il pensiero scientifico, quanto trovato migliore linfa vitale nella giurisprudenza (anch’essa tuttavia assestatasi nel senso della piena compatibilità tra i due istituti, non senza esitazioni31). In effetti, se un pregio va accordato alla sentenza di condanna generica, tale pregio sta proprio nel fatto di potersi giovare dei vantaggi (collaterali) della condanna specifica pur senza avvalersi di quello (principale) di operare quale titolo esecutivo. In altri termini, per sua natura la condanna generica punta ad anticipare alcune facoltà della condanna prima e in prospettiva dell’esecuzione forzata, pure in mancanza di essa (potere di iscrivere ipoteca giudiziale, effetto sulla prescrizione di cui si è detto): sicché, è proprio sulla base di regole quali quella dell’art. 2953 c.c. che si misura l’appetibilità dell’istituto. D’altra parte, se pure non attuale nella sua concretezza, in presenza di una condanna generica, il programma dell’azione esecutiva resta potenziale32 e su di esso può sempre costruirsi un progetto di azione che l’allungamento del termine prescrizionale mira a preservare. Il secondo orientamento oggetto di osservazioni critiche interessa le obbligazioni solidali. La giurisprudenza è stabile nel ritenere che la trasformazione della prescrizione breve in decennale operi non solo per il coobbligato in solido che sia stato parte del processo, ma anche per gli altri coobbligati che al processo non abbiano partecipato33. A giustificare la regola soccorre qui il fondamento su cui si erige la solidarietà: fintanto che l’obbligazione resterà solidale, è bene che essa – anche sotto il profilo dei tempi di esercizio – sia trattata in termini unitari da e nei confronti di tutti i coobbligati. Logica, questa, a cui si ispira, inoltre, una tutt’altro che irrilevante ragione di semplificazione processuale e sostanziale. La eccessiva rigidità spesso non paga.

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A parte il fatto che si tratta di orientamenti allo stato talmente consolidati da doverli necessariamente assumere per buoni. Per tutti, Calamandrei, La condanna “generica” ai danni, in Riv. dir. proc., 1933, 357. 31 La giurisprudenza attuale è stabile nel senso dell’applicabilità dell’art. 2953 c.c. alla sentenza di condanna generica (per tutte Cass. 14 febbraio 2019, n. 4318). Per la dottrina più datata che si è occupata del tema quando ancora regnava su di esso una maggiore incertezza, Andrioli, “Actio iudicati” derivante da sentenza di condanna generica?; Gentili, Regime della prescrizione, cit., 294. 32 La sentenza dell’art. 278 c.p.c. si può infatti definire quale “condanna potenziale” (Carnelutti, Condanna generica al risarcimento dei danni, in Riv. dir. proc., 1952, 324). 33 Per tutte, Cass. 13 gennaio 2015, I, 286; Cass. 6 dicembre 2000, I, 15511, in Danno e resp., 2001, 702. 30

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La questione di autodichia nel processo (ovvero degli incerti confini tra regolamento di giurisdizione e conflitto di attribuzioni) Sommario :

1. Premessa. – 2. Questione di autodichia e conflitto di attribuzioni nella giurisprudenza costituzionale: un duplice modo di leggere la sentenza n. 120 del 2014. – 3. La giurisprudenza successiva a Corte cost. n. 120/2014 e lo spartiacque della sentenza costituzionale n. 262/2017. – 4. Questione di autodichia e poteri del giudice: argomenti per una ricostruzione. – 5. Questione di autodichia e regolamento di giurisdizione: scenari in evoluzione. – 5.1. Segue: carattere “oggettivamente giurisdizionale” degli organi di autodichia e regolamento preventivo. – 5.2. Segue: “difetto assoluto” di giurisdizione e regolamento preventivo. – 6. Dal difetto assoluto al difetto relativo di giurisdizione: il regolamento preventivo scardina silenziosamente l’assetto dei rapporti tra giurisdizione ed autodichia disegnato dalla Consulta. – 7. Giurisdizione vs autodichia: quale giudice supremo per il regolamento di confini?

L’Autore si sofferma sulla questione di autodichia nel processo e sulle sue possibili implicazioni sia in ordine ai poteri del giudice che a quelli delle parti. The Author dwells on “autodichia” issue in a civil proceeding and on its entailments reganding powers of judge and parties.

1. Premessa. La natura della questione di autodichia e la dinamica della sua emersione e dei suoi possibili sviluppi nel processo civile sono intessute oggi in una trama complessa e sotto molteplici profili ancora sfuggente.

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Diversi sono infatti gli attori giurisdizionali cui tale trama si deve e diversi i ruoli e le forme che ne legittimano l’investitura: si tratta a volte di giudici supremi come la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione, a volte di giudici “comuni,” per così dire, come i tribunali ordinari e quelli amministrativi. Diversi sono poi i tempi in cui i relativi provvedimenti si sono succeduti e dunque i contesti che li hanno condizionati ed ove hanno attecchito, a volte reciprocamente influenzandosi altre volte invece, dietro un formale ossequio ai precedenti, mutando completamente prospettiva. Infine. Le Corti supreme non mostrano, allo stato attuale, una visione condivisa del ruolo di ciascuna nella delimitazione dei confini tra giurisdizione ed autodichia. È questo un dato fondamentale perché contribuisce alla fluidità di tali confini che, insieme alla sostanziale fungibilità/sovrapponibilità degli strumenti atti a delimitarli, è causa di profonda irrazionalità del sistema.

2. Questione di autodichia e conflitto di attribuzioni nella

giurisprudenza costituzionale: un duplice modo di leggere la sentenza n. 120 del 2014. Punto di partenza nella ricostruzione del contesto, e della cronologia che ne è parte essenziale, è senz’altro la sentenza della Corte costituzionale n. 120/2014 (relatore Amato)1. Ribadendo il proprio risalente orientamento sulla insindacabilità, in sede di giudizio di (il)legittimità costituzionale in via incidentale, dei Regolamenti parlamentari, la Corte ha affermato che la sede idonea a stabilire se la controversia tra una Camera parlamentare (o, più in generale, un organo dotato di autonomia normativa)2 ed un dipendente rientri nelle

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Corte cost., 9 maggio 2014, n. 120, commentata da Dickman, Autonomia costituzionale e principio di legalità a garanzia dell’indipendenza delle Amministrazioni degli organi costituzionali, in www.forumcostituzionale.it; da Brunetti, Un significativo passo avanti della giurisprudenza costituzionale sull’autodichia delle Camere, nella pronuncia della Corte che conferma l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, ivi; da Buonuomo, Il diritto pretorio sull’autodichia tra resistenze e desistenze, ivi; ancora da Dickman, Tramonto o rilegittimazione dell’autodichia delle Camere? (nota a Corte cost. 5 maggio 2014, n. 120), in www.federalismi.it; da Lo Calzo, Il principio di unicità della giurisdizione costituzionale e la giustizia domestica delle Camere, ivi; da Testa, La Corte salva (ma non troppo) l’autodichia del senato. Brevi note sulla sent. Corte cost. n. 120/2014, ivi. V. altresì, si vis, Delle Donne, Autodichia degli organi costituzionali e universalità della giurisdizione nella cornice dello Stato di diritto: la Corte costituzionale fa il punto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 141 ss. L’universo “autodichia” nel nostro ordinamento è piuttosto variegato. Gli organi costituzionali cui essa è oggi riconosciuta quantomeno o anche nelle controversie di lavoro con i propri dipendenti sono le Camere parlamentari (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica), il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. Ciascuna di esse ha tuttavia fonti normative, fisionomia strutturale e dinamiche e tempi di consolidamento molto diversi ed in alcun modo uniformabili. Nel testo si farà perciò riferimento, in modo generico, all’autodichia ora delle Camere ora del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, perché su tali fattispecie si è formata la giurisprudenza che viene esaminata. Per una compiuta ricostruzione di storia e attuale configurazione di ciascuna di esse, e delle relative basi culturali e normative, non può invece che rinviarsi, da ultimo, al bel lavoro monografico di Lo Calzo, L’autodichia degli organi costituzionali, Napoli, 2018, spec. 129 ss.

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prerogative riconosciute all’Organo in virtù della sua natura costituzionale o sia invece attratta alla giurisdizione è quella del conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. I Regolamenti parlamentari sono infatti espressione delle prerogative di indipendenza ed autonomia delle Camere (artt. 64 e 72 cost.) sicché consentirne la dichiarazione di illegittimità costituzionale equivarrebbe ad intaccare o limitare proprio quelle prerogative che ne fondano l’esistenza. E tuttavia proprio i Regolamenti restano ad ogni effetto fonti dell’ordinamento giuridico e perciò sottoposti agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei quali valutarne il rispetto della sfera di competenza (fisiologica perché) assegnata dalla Carta. Il sindacato in tal senso, sempre indefettibile, va dunque assicurato non attraverso la tecnica “verticale” dell’annullamento della fonte in contrasto con i parametri costituzionali violati, ma attraverso la tecnica “orizzontale” del bilanciamento tra valori egualmente protetti dalla Costituzione, che lascia intatta la fonte ma di volta in volta ne ridimensiona, se (ritenuta) esorbitante rispetto alla sfera di competenza, la portata applicativa. Ne consegue che il dubbio se i rapporti giuridici delle Camere con i dipendenti e/o con i terzi ricadano nell’ambito oggettivo delle loro prerogative o siano attratti alla giurisdizione non va coltivato, una volta per tutte, attraverso il giudizio incidentale di illegittimità costituzionale delle norme che l’autodichia sanciscono. Esso va invece coltivato di volta in volta nella sedes del conflitto di attribuzioni tra il potere di ciascuna Camera di esplicare tali prerogative anche attraverso l’autodichia e quello del giudice di apprestare tutela alle situazioni soggettive davanti a lui azionate e di cui la controparte eccepisca invece l’attrazione all’autodichia. Inammissibilità del sindacato incidentale di (in)costituzionalità e conflitto di attribuzioni si mostrano dunque, nella logica della Consulta, facce della stessa medaglia: se la fonte che sancisce l’autodichia non può essere espunta una volta per tutte dall’ordinamento per illegittimità costituzionale, se ne deve tuttavia garantire l’applicazione solo entro la sua sfera di competenza. Ma qual è in concreto la dinamica che porta al conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato? È cioè il giudice adito a doversi attivare in tal senso al cospetto di una eccezione di autodichia rilevata d’ufficio o dall’organo costituzionale? O è invece quest’ultimo, ove ritenga che il giudice adito, decidendo la controversia, interferisca con le sue prerogative, ad avere l’onere di provocare il responso della Consulta? Il giudice può autonomamente interpretare i Regolamenti parlamentari o le altre fonti che sanciscono l’autodichia per stabilire se la situazione soggettiva su cui è chiamato a pronunciarsi è attratta, in base a causa petendi e/o petitum, all’autodichia dell’organo costituzionale involgendone profili di autonomia/indipendenza? Rispetto alla fonte di autonomia normativa di un organo costituzionale che sancisce anche l’autodichia egli mantiene cioè per intero il potere-dovere di qualificare la domanda ai fini della valutazione della sussistenza di una posizione tutelabile? O tale potere gli è invece sottratto perché appartenente, data la natura di quella fonte, in via originaria ed esclusiva alla Corte costituzionale quale arbitro dei conflitti tra poteri dello Stato?

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Entrambi i corni di questa alternativa sono presenti nello scenario giurisprudenziale delineatosi all’indomani della sentenza costituzionale n. 120 del 2014.

3. La giurisprudenza successiva a Corte cost. n. 120/2014 e lo spartiacque della sentenza costituzionale n. 262/2017.

La Corte di Cassazione, giudice remittente della questione di (il)legittimità costituzionale, solleva appunto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione alle stesse due controversie da cui era nata la questione di illegittimità dichiarata inammissibile con la sentenza n. 120/20143. Riproponendo i medesimi dubbi di costituzionalità già posti alla base della precedente rimessione, la Corte chiede così alla Consulta di dichiarare, stavolta in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, che gli organi costituzionali (Senato e Presidenza della Repubblica) che le norme sull’autodichia hanno adottato non avevano il potere di farlo (quantomeno) in quei termini perché invasivi degli spazi riservati alla giurisdizione e, per l’effetto, di annullarle. Di lì a poco un giudice del lavoro4, adito ex art. 700 cpc da un dipendente del Senato per ottenere la condanna datoriale al ripristino nelle precedenti (superiori) mansioni ed alla corresponsione delle relative indennità, proprio richiamando la scelta della Cassazione di sollevare il conflitto di attribuzioni, declina la propria giurisdizione. Ciò sul presupposto che il conflitto di attribuzioni, unico strumento attraverso il quale potrebbe contestare l’(indubbia) attrazione della controversia all’autodichia del Senato, appare allo stato precluso contrastando con la natura cautelare del procedimento. Il tribunale cioè, ponendosi nel solco della Cassazione, interpreta l’opzione della sentenza costituzionale n. 120 del 2014 per il conflitto di attribuzioni nel senso che debba essere sempre il giudice comune, chiamato a dirimere una controversia con un organo costituzionale, a promuovere il conflitto di attribuzioni a fronte di una eccezione di autodichia5. Ciò in quanto la barriera posta alla giurisdizione dalla normativa (sub-regolamentare) di

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Si tratta di conflitti di attribuzione sollevati in riferimento a due controversie distinte: il primo, riguardante l’autodichia delle Camere parlamentari, è sollevato con ord. 19 dicembre 2014, n. 26934, in Corr. giur., 2015, 841 ss.; il secondo, riguardante una controversia di lavoro con il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, è sollevato con ord. 19 gennaio 2015, n. 740, in www.dejure. it. T. Roma 27 luglio 2015, Sez. I Lavoro (Ord.), in Lavoro e Previdenza oggi, 2016, 321 ss., con nota di Delle Donne, L’autodichia delle Camere ancora alla prova della giurisprudenza di merito: una declinatoria di giurisdizione che non convince; e di Diana, Controversie di lavoro dei dipendenti del Senato. O, è da credere, in seguito a rilievo d’ufficio dell’esistenza di una normativa (nel caso delle Camere Parlamentari si tratta di un intreccio di Regolamenti e altra normativa sub-regolamentare) che proprio all’autodichia attrae la controversia.

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riferimento6 sarebbe, allo stato, insuperabile, solo alla Consulta competendone l’abbattimento quale arbitro del rispetto delle sfere di competenza di ciascun potere7. Nel frattempo però il contesto di riferimento muta arricchendosi della sentenza n. 262 del 2017 (relatore Zanon)8 che decide del conflitto di attribuzioni sollevato dalle Sezioni unite della Cassazione. Rileva la Corte costituzionale, riprendendo il proprio precedente del 2014, che l’autonomia normativa dalla Costituzione riconosciuta in modo diretto (Camere) o indiretto (Presidenza della Repubblica) agli organi costituzionali ha per oggetto anche il profilo organizzativo della loro struttura, essendo funzionale a garantirne l’indipendenza da altri organi. All’autonomia normativa devono dunque ritenersi naturalmente attratti anche l’organizzazione e il funzionamento degli apparati serventi, e quindi i rapporti di lavoro con i dipendenti, perché proprio da tale organizzazione e dai criteri di reclutamento dipende il libero esercizio delle prerogative costituzionali. Ma l’autonomia normativa non può che accompagnarsi all’autonomia interpretativa ed applicativa che, in quanto emanazione di quella, si traduce in sottrazione delle controversie al giudice e contestuale loro attrazione, in via esclusiva e definitiva, agli organi interni di autodichia9. “L’affidamento a collegi interni del compito di interpretare e applicare le norme relative al rapporto di lavoro dei dipendenti con gli organi costituzionali di cui si tratta, nonché la sottrazione delle decisioni di tali collegi al controllo della giurisdizione comune è, in definitiva, un riflesso dell’autonomia degli stessi organi costituzionali: tali collegi non sono dunque giudici, neppure speciali, ed avverso le loro decisioni deve perciò coerentemente escludersi il ricorso ex art. 111, comma 7, cost.”. A svolgimento delle premesse la Corte aggiunge poi che “(…) se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipen-

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Nel suo chiaro tenore letterale e comunque nella fisionomia plasmata dal diritto vivente. 7 Sulla stessa lunghezza d’onda si muove il quasi coevo T. Roma, sez. II Lavoro, 26 ottobre 2015, che ha sollevato conflitto di attribuzioni presso la Consulta nei confronti della Camera dei Deputati. Il Tribunale era stato adito da alcuni dipendenti della Camera sul presupposto che il sistema di autodichia sancito dal Regolamento per la tutela giurisdizionale dei relativi dipendenti fosse facoltativo e non esclusivo. Il Tribunale invece, preso atto dell’esistenza di un sistema di giustizia domestica esclusivo, e rilevato altresì il contrasto dello stesso con i principi costituzionali in materia di tutela giurisdizionale, solleva il conflitto di attribuzioni anche sulla scorta della scelta già compiuta dalla Cassazione e di cui si è detto nel testo. Ricostruisce ed esamina diffusamente questi profili Lo Calzo, L’autodichia degli organi costituzionali, cit., 380 ss. Corte cost. 13 dicembre 2017, n. 262, in www.federalismi.it, con note di Dickmann, La Corte costituzionale consolida l’autodichia degli organi costituzionali; e di Dalla Balla, I paradossi dell’autodichia; in Forum di Quaderni Costituzionali, con note di Lupo, Sull’autodichia la Corte Costituzionale, dopo lunga attesa, opta per la continuità; di Buonomo, La Corte, la sete e il prosciutto; di Brunetti, Giudicare in autonomia: il nuovo vestito dell’autodichia; di Barcellona, I “paradisi normativi” e la grande regola dello Stato di diritto: l’autodichia degli organi costituzionali e la tutela dei diritti dei “terzi”; di Marolda, Fumata nera per il punto di equilibrio tra l’autonomia costituzionale delle Camere e del Presidente della Repubblica e il potere giudiziario. Breve nota alla sentenza n. 262/2017 della Consulta; di D’Amico, La Corte adegua la sua autodichia alla «propria» giurisprudenza ma fino a che punto?; in Osservatorio Costituzionale AIC, con nota di Castelli, Il “combinato disposto” delle sentenze n. 213 e n. 262 del 2017 e i suoi (non convincenti) riflessi sull’autodichia degli organi costituzionali. I commentatori evidenziano giustamente, a conferma del carattere particolarmente sofferto dell’iter della sentenza, il mutamento del Relatore, in origine Amato, relatore, tra le altre, della sentenza n. 120 del 2014, ma nel testo finale Zanon: v amplius, sul punto, Lo Calzo, L’autodichia degli organi costituzionali, cit., spec. 386 ss., ove anche i riferimenti alle impressioni dei primi commentatori. “D’altra parte, ammettere che gli organi costituzionali possano, in forza dell’autonomia loro riconosciuta, regolare da sé i rapporti con il proprio personale, per poi consentire che siano gli organi della giurisdizione comune ad interpretare ed applicare tale speciale disciplina, significherebbe dimezzare quella stessa autonomia che si è inteso garantire”, aggiunge, significativamente, la Corte.

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denti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali). Del resto, queste ultime controversie, pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte alla giurisdizione comune”. La Corte dunque, pur ribadendo la natura interna degli organi di autodichia e la loro estraneità alla giurisdizione persino se speciale, mostra una abissale distanza dal precedente del 2014 nella misura in cui traccia, a differenza di quello, il confine tra autodichia e giurisdizione in modo rigido ed una volta per tutte: i rapporti con i dipendenti attengono sempre all’autonomia e quindi all’autodichia, quelli con i terzi invece no. Il distinguo tra parti e terzi, indifendibile per una serie di ragioni puntualmente messe in rilievo dai primi commentatori10, fornisce tuttavia alla giurisprudenza comune l’occasione di reinterpretare il proprio ruolo al cospetto delle fonti che sanciscono l’autodichia di un organo costituzionale. Proprio tale distinguo diventa infatti il cavallo di troia che porta all’altro modo di leggere la pronuncia costituzionale del 2014 cui si è fatto cenno: quello, cioè, di mantenere in capo al giudice adito, secondo le regole generali, il potere-dovere di qualificare la domanda ai fini della valutazione se, per petitum e causa petendi, essa sia attratta all’autodichia pure in via generale ed astratta sancita dalla fonte di autonomia normativa di un organo costituzionale (ad esempio regolamento parlamentare cd. “minore”). Davanti ad un tribunale amministrativo11 viene infatti impugnata la delibera con cui il Senato aveva stabilito di condurre una gara di appalto per la gestione di un servizio at-

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V., ad esempio, quanto rilevato da Dalla Balla, I paradossi dell’autodichia, cit., la quale fa giustamente notare come anche i rapporti giuridici instaurati dagli organi costituzionali a seguito, ad esempio, di procedure di appalto per le forniture di servizi e/o altre prestazioni professionali, in quanto fondati, dopo la scelta del contraente, su strumenti contrattuali, sono rapporti tra parti, stazione appaltante da un lato e contraente, appunto, dall’altro. E che dire poi delle procedure concorsuali deputate proprio al reclutamento del personale dipendente? Applicando il distinguo della Corte bisognerebbe dedurre che coloro che sono stati assunti siano “parti”, e quindi attratti all’autodichia, e coloro che sono stati esclusi siano invece “terzi”, e quindi attratti alla giurisdizione. Ma come potrebbe strutturarsi, ad esempio, l’impugnativa (di atti) della procedura concorsuale da parte degli esclusi, senza coinvolgere la posizione di chi è stato assunto, ad ogni effetto controinteressato? E quest’ultimo in quale sede potrebbe, ad esempio, proporre un ricorso cd. escludente, volto cioè ad allegare che l’impugnante principale non avrebbe mai dovuto essere ammesso a partecipare alla procedura concorsuale per difetto dei requisiti? È evidente che si tratta di posizioni reciprocamente implicate e che impongono la decisione presso un unico giudice. V. altresì le considerazioni di Miccù e Francaviglia, Autonomia gestionale e finanziaria delle Camere e controllo contabile: qualcosa di nuovo ma dal cuore antico, in www.federalismi.it del 31 luglio 2019. 11 Tar Lazio, sez. I, 11 settembre 2018, n. 9268, in www.giustizia-amministrativa.it (su cui v. anche le interessanti considerazioni di Miccù e Francaviglia, Autonomia gestionale e finanziaria delle Camere e controllo contabile: qualcosa di nuovo ma dal cuore antico, in www.federalismi.it del 31 luglio 2019, cit.) che, in merito all’eccezione di carenza di giurisdizione, rileva quanto segue: “La previsione (del Regolamento sulla tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento) è generica nell’estendere la giurisdizione domestica del Senato ad ‘atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale’ e offre margini interpretativi di segno opposto a quanto rilevato dalla controinteressata, atteso che fino alla delibera del 2005 le controversie oggetto di giurisdizione domestica erano solo quelle relative al personale dipendente. A tale riguardo, già con la sentenza n. 120 del 2014, la Corte costituzionale ha affermato che la legittimità dell’autodichia dipende dalla sua estensione e, quindi, dal rispetto o dal superamento dei limiti costituzionali che delimitano la sfera di competenza del potere dell’organo parlamentare di organizzarsi in modo autonomo. Di conseguenza, ‘le

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traverso la procedura negoziata, cui non aveva invitato il ricorrente, gestore uscente del medesimo servizio12. A fronte della eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla controinteressata, il giudice si confronta con il “Regolamento sulla tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento”, approvato con deliberazione del 5 dicembre 2005, n. 180/2005 del Consiglio di Presidenza del Senato, a mente del quale (art. 1, comma 1) “sulla tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale, sono competenti gli Organi di autodichia istituiti con deliberazione del Consiglio di Presidenza del Senato del 18 dicembre 1987, modificata nella riunione del 9 dicembre 1990, nella composizione prevista dal comma 2”. Ebbene, il giudice ritiene infondata l’eccezione in base al duplice assunto che: a) la norma del regolamento minore che tale attrazione prevede in via esclusiva non è di così univoco tenore letterale nell’includere anche controversie che “riguardino rapporti con soggetti terzi, in alcun modo assimilabili a quelle relative ai dipendenti del Senato o alle procedure di reclutamento”; b) sulla scorta delle sentenze n. 120 del 2014 e 262 del 2017 della Consulta, appunto, delle fonti che sanciscono l’autodichia va verificato, in via interpretativa, il rispetto delle sfere di competenza. Rispetto che è da escludersi nel caso di specie, le cui concrete caratteristiche non involgono affatto l’autoorganizzazione, e quindi la autonomia costituzionale, dell’organo. Ciò anche in ragione della circostanza che si tratta di materia di appalti, disciplinata da normativa statale ed eurounitaria e quindi estranea all’autonomia normativa, ancora una volta, delle Camere parlamentari. La decisione del Tar13 mostra tutta la sua abissale distanza sia da quella del Tribunale ordinario di cui sopra, sia dalla Cassazione che ha sollevato il conflitto di attribuzioni da

disposizioni dei regolamenti parlamentari che prevedono l’autodichia, in ordine a vicende e rapporti che ‘esulano dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare’, pur costituendo ‘norme non sindacabili’ in sede di giudizio di legittimità costituzionale, nondimeno rappresentano ‘fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili’. Con la più recente sentenza n. 262/2017, la Corte costituzionale, richiamato il suddetto precedente, dopo avere riconosciuto la legittimità dell’autodichia di Camera e Senato in materia di rapporto di lavoro con i propri dipendenti, in quanto funzionale alla più completa garanzia della propria autonomia, statuendo che detta riserva ‘costituisce (...) il razionale completamento dell’autonomia organizzativa degli organi costituzionali in questione, in relazione ai loro apparati serventi, la cui disciplina e gestione viene in tal modo sottratta a qualunque ingerenza esterna’, ha precisato che, ‘se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali). Del resto, queste ultime controversie, pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte alla giurisdizione comune’. Alla luce delle suddette pronunce appare al Collegio che la previsione Regolamentare non possa estendersi anche alle controversie in materia di appalti, le quali hanno la loro disciplina in atti di normazione statale e comunitaria e non riguardano questioni interne all’organo costituzionale. La previsione del Regolamento in discussione è, peraltro, di un tenore tale da non offrire alcuno spunto per ritenere che essa abbia ad oggetto controversie che riguardino rapporti con soggetti terzi, in alcun modo assimilabili a quelle relative ai dipendenti del Senato o alle procedure di reclutamento (…)”. 12 Si trattava in particolare di una delibera a firma del Collegio dei Senatori Questori, recante autorizzazione “ad effettuare la procedura negoziata di cui all’art. 63 del d.lgs. n. 50/2016 per l’affidamento in appalto, con il criterio del minor prezzo, del servizio di facchinaggio ad un certo costo”. 13 Che ritiene il ricorso in parte infondato e in parte improcedibile.

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cui è nata la sentenza costituzionale n. 262 del 2017. Essa non si arresta sulla soglia della fonte che sancisce l’autodichia, ma la interpreta autonomamente alla stregua del criterio della competenza riservata, secondo l’alternativa competenza/giurisdizione, e scioglie il dubbio a favore di quest’ultima. Linea guida l’esame della natura della controversia, che non coinvolge profili di autoorganizzazione ed indipendenza dell’organo costituzionale, come dimostra l’attrazione alla normativa statale ed eurounitaria.

4. Questione di autodichia e poteri del giudice: argomenti per una ricostruzione.

Dei due percorsi seguiti all’indomani delle pronunce della Consulta è quest’ultimo quello che cattura lo spirito della sentenza costituzionale n. 120 del 2014 al contempo mostrandosi coerente con il quadro normativo dei poteri del giudice “comune” investito di una domanda di tutela. Sotto il primo profilo la pronuncia del 2014, attraverso il richiamo a due archetipi codificati di prerogative, quello dell’insindacabilità ex art. 68, comma 1º, cost. e quello dei cd. reati ministeriali, mostra il diverso atteggiarsi dei poteri del giudice proprio in ordine alla valutazione della domanda a seconda che sia codificato il cd. “effetto inibente” oppure no. Nell’insindacabilità ex art. 68, comma 1°, cost. è infatti imposta al giudice adito da chi si assuma leso dalle opinioni espresse dal membro di una Camera, e che non ritenga sussistere la prerogativa eccepita da quest’ultimo, l’investitura della Camera stessa, unico soggetto14 cui per legge compete la qualificazione del comportamento asseritamente lesivo del parlamentare come esercizio, o meno, di una prerogativa, con conseguente alternativa tra insindacabilità o sindacabilità giurisdizionale. Se la delibera è effettivamente di insindacabilità, essa ha un effetto definito “inibente” perché impedisce al giudice di disco-

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La Camera di appartenenza ha, secondo la l. 20 giugno 2003, n. 140, di attuazione dell’art. 68, comma 1°, cost., il potere di valutare la condotta addebitata ad un proprio membro, «con l’effetto, qualora sia qualificata come esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità, sempre che il potere sia stato correttamente esercitato» Ai sensi dell’art. 3, commi 2° e 3°, della legge, quando in un procedimento giurisdizionale è rilevata o eccepita l’applicabilità dell’art. 68, comma 1°, cost., il giudice provvede con sentenza in ogni stato e grado del processo penale, a norma dell’art. 129 c.p.p.; nel corso delle indagini preliminari pronuncia decreto di archiviazione ai sensi dell’art. 409 c.p.p. Nel processo civile, il giudice pronuncia sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione e nello stesso modo provvede in ogni altro procedimento giurisdizionale, anche d’ufficio, quale che ne siano stato e grado. Se tuttavia egli non accoglie l’eccezione di insindacabilità, «provvede senza ritardo con ordinanza non impugnabile, trasmettendo direttamente copia degli atti alla Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto. Se l’eccezione è sollevata in un processo civile dinanzi al giudice istruttore, questi pronuncia detta ordinanza nell’udienza o entro cinque giorni» (comma 4°). «Se il giudice ha disposto la trasmissione di copia degli atti, a norma del comma 4°, il procedimento è sospeso fino alla deliberazione della camera e comunque non oltre il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della camera predetta». La sospensione non preclude il compimento degli atti urgenti. Infine, ai sensi del comma 8° della disposizione, «Nei casi di cui ai commi 4°, 6° e 7° e in ogni altro caso in cui sia altrimenti investita della questione, la Camera trasmette all’autorità giudiziaria la propria deliberazione; se questa è favorevole all’applicazione dell’articolo 68, comma 1°, della Costituzione, il giudice adotta senza ritardo i provvedimenti indicati al comma 3° e il pubblico ministero formula la richiesta di archiviazione».

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starsi dalla valutazione della Camera e gli impone l’alternativa tra rigetto della domanda e proposizione del conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Possibilità, quest’ultima, che si apre allorché il giudice continui a non ravvisare alcun nesso funzionale tra il comportamento assunto in giudizio come lesivo e l’esercizio della prerogativa riconosciuta dall’art. 68, comma 1, cost., così ritenendo che proprio la delibera di insindacabilità abbia indebitamente sottratto terreno all’esercizio della funzione giurisdizionale. Nei casi invece di reati ministeriali o di altre prerogative ove un effetto inibente non è codificato, primo fra tutti quello dell’insindacabilità delle opinioni dei consiglieri regionali ex art. 122, comma 4°, cost., il giudice non trova ostacoli nelle sue valutazioni di merito che, ove escludenti la prerogativa, spostano sull’organo costituzionale che si ritenga leso sotto tale profilo l’onere di sollevare il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato presso la Consulta. Quest’ultimo modello dovrebbe dunque considerarsi di generale applicabilità in base a due convergenti rilievi. Il primo è quello dell’eccezionalità dell’effetto inibente codificato da un intreccio di legge costituzionale e legge ordinaria di attuazione dell’art. 68, comma 1°, cost., così come di tutti i congegni che sottraggono al giudice adito la decisione su presupposti processuali o sull’interpretazione delle norme applicabili alla controversia (si pensi al regolamento di giurisdizione o alla rimessione della questione di illegittimità costituzionale alla Consulta). Il secondo è che se l’autodichia è il precipitato di una prerogativa costituzionale, come tale derogatoria della giurisdizione, la questione se ci si trovi al cospetto di una prerogativa o di una posizione soggettiva tutelabile rientra a pieno titolo nel novero di quelle che il giudice investito della controversia è chiamato a risolvere di volta in volta. E tale valutazione scaturirà dall’interpretazione della fonte che pone l’autodichia stessa sotto il profilo del rispetto della sfera di competenza, alla luce della causa petendi e del petitum della domanda. Altrimenti argomentando, invece, si finisce per riproporre, sotto le mentite spoglie del conflitto di attribuzioni, la logica e gli esiti del giudizio di (il)legittimità costituzionale in via incidentale, di cui è tipica l’alternativa tra necessaria applicazione15 delle norme censurate e loro espunzione dall’ordinamento (ma solo) da parte della Corte costituzionale, cui dunque il giudice comune non può che rimettere la decisione. Ma è proprio questo che invece la Consulta ha inteso escludere con la sentenza n. 120/2014. Il ripudio del sindacato di (il)legittimità riservato alle fonti primarie e l’opzione per il conflitto di attribuzioni rimanda infatti ad un sistema ove la fonte della prerogativa non può essere espunta una volta per tutte dall’ordinamento attraverso la sanzione dell’illegittimità costituzionale. Ma questa sua maggiore resistenza è anche il suo maggiore limite, dovendosene garantire l’applicazione concreta, attraverso i comuni canoni ermeneutici, solo entro la sua «sfera di competenza».

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Poco importa se secondo il tenore letterale o il diritto vivente.

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Il che vuol dire, mi sembra, che il primo e fisiologico protagonista della ricostruzione della sfera di competenza della fonte, e quindi del perimetro della prerogativa, è proprio il giudice comune. A quest’ultimo compete la verifica che di vera e propria prerogativa si tratti, in quanto funzionale allo “statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari”, e non invece di ipotesi (che, ad onta dell’attrazione all’area della autoregolamentazione e quindi dell’autodichia, resta) governata dalle ordinarie regole dello Stato di diritto. È incontestabile che siffatta verifica si basi sul confronto delle norme che sanciscono l’autodichia con quegli stessi parametri costituzionali che potrebbero in astratto consentirne un sindacato di legittimità in via incidentale. È intuitivo infatti che ove si ritenessero le norme sull’autodichia non in contrasto con altri diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, nel nostro caso quello di accesso alla giustizia, se ne dovrebbe anche inferire il nesso funzionale con una prerogativa costituzionale, ed il problema sarebbe risolto a monte. Ma è altrettanto indubitabile che oggetto di sindacato non sono leggi o atti equiparati ma norme a competenza limitata per le quali proprio l’esclusione del sindacato di (in) costituzionalità impone che il confronto con altri valori costituzionali ed il giudizio di prevalenza (attraverso la ricognizione della sfera di competenza) avvenga fisiologicamente da parte del giudice investito della concreta controversia. Per il quale, dunque, la valutazione del contrasto delle norme che sanciscono l’autodichia con uno o più parametri costituzionali è già un giudizio di (superamento della competenza e perciò di) esclusione della prerogativa, che gli impone la continuazione del giudizio e la decisione di merito. È allora insostenibile l’idea che il giudice comune, posto di fronte ad una norma che sancisce l’autodichia, non ne possa fornire una interpretazione autonoma o non ne possa scardinare la portata di diritto vivente, dovendo rimettere la questione alla Corte costituzionale quale arbitro del conflitto tra poteri. La barriera del diritto vivente, insuperabile dal giudice comune quanto la lettera della legge che si ritenesse incostituzionale, ha infatti senso nei rapporti verticali tra fonte primaria e norme costituzionali, e si giustifica nell’ottica dell’eliminazione della prima quale sanzione del contrasto con la seconda. Diversa è la logica che ispira invece la ricostruzione della sfera di competenza di una fonte di autonormazione al servizio di una prerogativa. Essa va condotta caso per caso in relazione alla singola controversia con valutazione che, sia da parte del giudice comune che da parte della Consulta in sede di conflitto di attribuzioni, ha normalmente efficacia solo nel giudizio da cui è originata, essendo agganciata all’episodio concreto che ha dato origine prima alla controversia e poi, eventualmente, al conflitto di attribuzioni. Ne consegue, mi pare, che quella di autodichia sia questione di merito e non di rito (in specie di giurisdizione)16.

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Non è escluso, naturalmente, che possano porsi anche vere e proprie questioni di giurisdizione se il giudice investito della controversia ritenga che la posizione soggettiva risultante dalla domanda, pur estranea all’autodichia, sia tuttavia attratta alla potestas di altro plesso giurisdizionale. In tal caso si assisterà ad una declinatoria di giurisdizione in senso tecnico, con indicazione del diverso giudice dell’ordinamento dotato di potestas iudicandi, con innesco dei meccanismi di riproposizione della domanda di cui all’art. 59 della l. n. 69 del 2009 e 11 del cpa.

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Sicché, a fronte della richiesta di tutela giurisdizionale nei confronti di una Camera o della Presidenza della Repubblica il giudice, posto davanti all’eccezione di autodichia in ragione dell’applicabilità del regolamento parlamentare o della diversa fonte che la prevede, da un lato non è autorizzato a darne senz’altro una interpretatio abrogans; dall’altro però neppure è obbligato a chiudere il processo in rito declinando la giurisdizione (o eventualmente a sollevare il conflitto di attribuzioni), perché non al cospetto di questione di giurisdizione si trova. Egli deve invece valutare se ricorrano i presupposti (esterni) di applicazione della prerogativa, se cioè la situazione in concreto azionata assuma la consistenza di diritto soggettivo o interesse legittimo o se invece, essendo incisa dall’esercizio di una prerogativa costituzionale, sia priva di tutela giurisdizionale e resti perciò attratta all’autodichia dell’organo. Situazione, quest’ultima, che potrebbe, ad esempio, verificarsi nelle domande di tutela relative, genericamente, alla fruizione delle ferie non godute o alla strutturazione del lavoro notturno dei dipendenti, in riferimento al calendario dei lavori parlamentari. In tali casi il giudice dovrebbe infatti, per decidere della domanda, sostituirsi all’organo costituzionale proprio nella gestione della sua organizzazione, cioè impingere nel merito delle modalità dell’uso del personale, il che non pare francamente ammissibile. La posizione vantata si rivela cioè così intrecciata all’autoorganizzazione dell’organo costituzionale da impedirne la riconoscibilità in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo: l’esito sarà perciò quello del rigetto nel merito (attrazione all’autodichia). Un altro àmbito di intreccio inestricabile potrebbe essere rappresentato non dalla posizione vantata in sé, ma dalla necessità che a fini probatori sia richiesto l’accesso alla sede delle Camere di ausiliari del giudice, ciò che è precluso (come per tutti gli estranei) dai Regolamenti, oppure l’accertamento di circostanze delle quali i Regolamenti stessi prevedano la conoscibilità da parte dei soli membri delle Camere coinvolti nei lavori parlamentari17.

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È questa l’ipotesi, adombrata da Buonuomo, Il diritto pretorio, cit., delle richieste economiche dei collaboratori di un parlamentare che non si siano visti accreditare sulla competente gestione previdenziale i contributi pensionistici dovuti dal parlamentare stesso, e adiscano il giudice del lavoro chiamando in garanzia la Camera di appartenenza in quanto fornitore del “pass” di accesso al Palazzo e di una postazione di lavoro, e chiedendo la nomina di un consulente tecnico che accerti il tutto previo accesso ai Palazzi, appunto. Anche in tal caso la valutazione del giudice attiene al merito della rilevanza del fatto da provare: se esso involge profili così intrecciati con le prerogative dell’organo costituzionale da non potersene prescindere, vuol dire che la posizione vantata ricade in tali prerogative, con l’esito del rigetto ipotizzato nel testo. Lo stesso è a dirsi per eventuali accessi ai luoghi, ad esempio da parte del consulente: se tale accesso è precluso da norme regolamentari di inviolabilità della sede, il giudice dovrebbe escluderne l’utilizzo e, ove la prova possa essere acquisita solo in tal modo, dovrebbe dedurne, ancora una volta, che l’intreccio con la prerogativa è tale da escludere la tutelabilità della situazione azionata. Certo, non si può escludere che il giudice ammetta siffatti mezzi di prova: in tale ipotesi (immaginata da Buonuomo, Il diritto pretorio, cit.), che a mio avviso rappresenta un classico caso di errata interpretazione della sfera di competenza del regolamento, a fronte del rifiuto della Camera a consentire l’ingresso nella sua sede, il giudice potrebbe verosimilmente, ove non ritenesse, re melius perpensa, di rigettare la domanda, sollevare conflitto di attribuzioni, non potendo in alcun modo superare l’ostacolo all’ingresso in sedi dotate di inviolabilità. Si tratta comunque di una ipotesi di crisi tra due poteri, quello giurisdizionale e quello dell’organo costituzionale, superabile stavolta solo attraverso il conflitto se il giudice ritiene di non poter decidere in assenza di consulenza tecnica. Alla stessa conclusione dovrebbe accedersi in tutti i casi in cui venga in rilievo l’acquisizione di materiale in possesso delle Camere a fini probatori, ma l’ordine giudiziale in tal senso si scontri con un diniego dell’organo costituzionale motivato con l’esistenza di una prerogativa. È questo il caso, ad esempio, del giudice penale che trasmetta alla procura regionale della Corte dei conti gli atti relativi al fittizio rimborso di spese mediche, mai effettuate, ottenuto da un parlamentare. Ove la procura aprisse un procedimento per danno erariale a carico del parlamentare stesso

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Viceversa, le rivendicazioni economiche o le impugnative di atti amministrativi non involgono, nella normalità dei casi, specifiche prerogative. Se la questione è sciolta a favore della prerogativa ne consegue una pronuncia di rigetto nel merito, sicché l’attore potrà eventualmente, e salvo l’esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione, coltivare l’istanza di tutela presso gli organi interni di autodichia. In caso contrario invece il giudice dovrà decidere la controversia nel merito accogliendo o rigettando la domanda secondo le regole generali. La controparte-organo costituzionale, se non intende coltivare la questione di autodichia che l’abbia vista eventualmente soccombente con i rimedi impugnatori potrà, già in corso di causa, sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Consulta.

5. Questione di autodichia e regolamento di giurisdizione: scenari in evoluzione.

La cronologia di cui si è detto conta, da ultimo, su due nuovi interventi della Corte di Cassazione che arricchiscono notevolmente lo statuto della questione di autodichia nel processo civile. In entrambi i casi la sede in cui la Corte si è pronunciata è quella del regolamento preventivo di giurisdizione ma diversi sono i contesti in cui il rimedio si è innestato. La circostanza non è irrilevante perché su di essa si fondano gli sviluppi di cui la Corte si è resa protagonista e gli scenari che lascia prefigurare. Nel primo caso in ordine di tempo18 la Corte viene adita da un ex parlamentare. Dopo aver proposto ricorso al Consiglio di Giurisdizione della Camera dei deputati al fine di ottenere sia l’annullamento della deliberazione dell’Ufficio di Presidenza per effetto della quale aveva subito la decurtazione dell’assegno vitalizio sia l’accertamento del proprio diritto a percepirne per intero, questi chiede che venga dichiarata la non spettanza della giurisdizione al Consiglio di Giurisdizione della Camera e la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario o, in subordine, di quella di legittimità del giudice amministrativo. Resistendo con controricorso la Camera chiede in via principale che il ricorso sia dichiarato inammissibile non essendo il regolamento di giurisdizione esperibile nel corso di un procedimento in autodichia, estraneo alla giurisdizione e quindi alla potestà regolatoria della Corte; e, in subordine, che sia dichiarata la sussistenza della propria autodichia. Nel secondo caso19 il regolamento di giurisdizione si innesta invece in un giudizio instaurato di fronte ad un Tribunale ordinario nel quale il ricorrente, anch’egli ex parla-

richiedendo all’amministrazione parlamentare gli atti, e questa opponesse un rifiuto motivato con l’autodichia sui rapporti disciplinati esclusivamente dal regolamento del fondo di previdenza dei parlamentari (in base alla sentenza della Corte cost. n. 129 del 1981), la procura non potrebbe che sollevare conflitto di attribuzioni cd. “per menomazione”, attesa l’efficacia inibente del rifiuto. 18 Cass. 8 luglio 2019, n. 18265 (ord.). 19 Cass. 8 luglio 2019, n. 18266 (ord.).

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mentare, chiedeva l’accertamento e la dichiarazione della illegittimità della delibera con la quale la Camera di appartenenza aveva inibito l’erogazione dell’assegno vitalizio, con la conseguente condanna della controparte al pagamento dell’assegno stesso e dei relativi accessori. A seguito dell’eccezione di inammissibilità della domanda per difetto assoluto di giurisdizione in favore degli organi di autodichia formulata dalla Camera, l’ex parlamentare propone regolamento preventivo con il quale chiede in via principale che venga dichiarata la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario e, in subordine, che venga sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera dei deputati davanti alla Corte costituzionale. Resistendo con controricorso la Camera chiede invece che sia dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione a favore dei propri organi di autodichia. In entrambi i ricorsi la invocata attrazione alla giurisdizione si basa sul fatto che i ricorrenti sono ex parlamentari e dunque, in base alla sentenza costituzionale n. 262 del 2017, “terzi” rispetto alla Camera e sottratti all’area della relativa autodichia. Il percorso motivazionale delle ordinanze si basa su premesse identiche per divaricarsi poi in modo significativo, e proprio in ragione dei diversi contesti da cui il ricorso è scaturito, sia nel dispositivo, inammissibilità nel primo caso, difetto assoluto di giurisdizione nel secondo, sia nelle ragioni a sostegno. Le premesse comuni, a loro volta, si collocano nel quadro generale dei rapporti tra autodichia e giurisdizione come plasmati, da ultimo, dalle pronunce della Corte costituzionale nn. 120 del 2014 e 262 del 2017, ma anche dalla pronuncia del 2010 con cui la stessa Cassazione, e sempre in sede di regolamento di giurisdizione, aveva legittimato l’autodichia del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica sulle controversie di lavoro con i propri dipendenti20. Anzitutto la Corte ribadisce che, nella sua stessa giurisprudenza, “per autodichia si intende, comunemente, la capacità di una istituzione – ed in particolar modo degli organi costituzionali che siano muniti di autonomia organizzativa e contabile – di decidere direttamente, con giudizio dei propri organi, ogni controversia attinente all’esercizio delle proprie funzioni senza che istituzioni giurisdizionali esterne possano esercitare sui relativi atti controlli e sindacati di sorta, applicando la disciplina normativa che gli stessi organi si sono dati nelle materie trattate (vedi, per tutte: Cass. SU 17 marzo 2010, n. 6529)”. In punto di rapporti tra questione di autodichia e rimedio preventivo, la Corte rileva poi che benché la normativa di base applicata dai Collegi di autodichia “– regolamenti parlamentari ‘maggiori’ e ‘minori’, integrati da atti ad essi equiparati, come le delibere dell’Ufficio di Presidenza (Cass. SU 16 aprile 2018, n. 9337) – sia sottratta al sindacato di legittimità costituzionale e le decisioni ivi assunte siano del pari immuni rispetto al sindacato di legittimità previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, (trattandosi di decisioni rese

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Cass., S.U. 17 marzo 2010, n. 6592, (ord.), in Riv. dir. proc., 2011, 399 ss., con nota di Vanz, L’autodichia della presidenza della Repubblica sulle cause dei dipendenti del segretariato generale: un revirement delle SS.UU. poco convincente; v. inoltre Scoca, Autodichia e Stato di diritto, in Dir. proc. amm., 2011, 25 ss., e, si vis, Delle Donne, Le Alte Corti e le cd. giurisdizioni domestiche: il recente paradosso dell’“autodichia” del Quirinale, in Riv. dir. proc., 2012, 692 ss.

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al di fuori di alcuna giurisdizione speciale, vedi Cass. SU 19 giugno 2018, n. 16153 e n. 16155)”, tuttavia “non può ipotizzarsi la sottrazione anche alla verifica che compete per intero a queste Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione”. Tale verifica “riguarda il fondamento costituzionale per l’esercizio del potere decisorio degli organi di autodichia ed è finalizzata ad accertare se esiste un giudice del rapporto controverso o se quel rapporto debba ricevere una definitiva regolamentazione domestica, anche alla luce del ‘confine’ entro il quale legittimamente possono essere previste l’autonomia normativa degli organi costituzionali e l’attribuzione della decisione di eventuali controversie agli organi di autodichia, quale delineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2017 cit. (vedi, in tal senso: Cass. SU 17 marzo 2010, n. 6529 cit.; nonché Cass. SU 29 dicembre 2014, n. 27396)”. Siffatta verifica è dunque diretta, prosegue la Corte, “ad accertare se gli organi di autodichia (nella presente fattispecie della Camera dei Deputati) possano essere considerati, in relazione alla singola controversia volta per volta evidenziata nei ricorsi, una sede decisoria bensì peculiare ma non estranea alle linee che la Costituzione detta per la tutela dei diritti” (vedi Cass. SU n. 6529 del 2010 cit.), ivi compreso il rispetto del proprio ambito di attribuzione”. Ciò in quanto “l’esistenza di una sfera di autonomia speciale garantita alle Camere in cui va inserita anche l’autodichia in oggetto, non esclude, in linea teorica l’utilizzabilità del regolamento preventivo di giurisdizione – nei limiti e per le finalità dianzi precisati”. Si tratta di passaggi cruciali perché danno il senso di due rilievi. Il primo è che la questione di autodichia ha consistenza di merito posto che impone appunto di accertare “se esiste un giudice del rapporto controverso o se quel rapporto debba ricevere una definitiva regolamentazione domestica”, regolamentazione a sua volta precipitato, nelle premesse espressamente adottate, dell’autonomia normativa dell’organo costituzionale. Il secondo rilievo è che il confine va calibrato sulla singola controversia, vale a dire in base al confronto tra causa petendi e competenza quale ambito della potestà di autoregolamentazione. È questa infatti la logica del regolamento di giurisdizione: causa petendi e petitum sono la base della qualificazione della domanda ai fini dell’identificazione del giudice fornito di potestas iudicandi. Ma vi è di più. Per la Corte infatti “(…) la finalizzazione dell’autodichia a garantire meglio la speciale autonomia che la Costituzione riconosce agli organi costituzionali comporta che sia riconosciuta l’utilizzabilità di uno strumento – peraltro non impugnatorio, quale è il regolamento preventivo di giurisdizione – idoneo a stabilire se la regolamentazione e la decisione delle controversie sui diritti attribuite agli organi di ‘giurisdizione domestica o interna’ risultino conformi all’art. 2 Cost., comma 1, e all’art. 3 Cost., oltre che all’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in particolare nella sentenza 28 aprile 2009, Savino e altri contro Italia”. La sottolineatura, a prima vista inusuale, è in realtà cruciale. La verifica se il sistema di giustizia domestica sia compatibile con la garanzia costituzionale dei diritti inviolabili (art. 2 Cost.) e del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), oltre che con i parametri del processo

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equo sanciti dall’art. 6 della CEDU21 nella lettura datane dalla Corte EDU (il richiamo al “caso Savino” è emblematico)22, è infatti, come si vedrà, la premessa logica per l’esercizio dei poteri regolatori della Corte. Il profilo va tuttavia per il momento accantonato per essere ripreso alla fine del § 5.2 e più oltre. A questo punto, infatti, il percorso delle due ordinanze si divarica in modo significativo e di ciascuno occorre dare atto in modo separato.

5.1. Segue: carattere “oggettivamente giurisdizionale” degli organi di autodichia e regolamento preventivo.

Nella prima delle ordinanze la Corte accoglie l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla difesa erariale ma non per le ragioni evidenziate dall’Avvocatura generale (estraneità dei collegi di autodichia alla giurisdizione), bensì per la mancanza di interesse concreto ed attuale a risolvere in modo definitivo la questione di giurisdizione. È cioè consolidata l’interpretazione che attrae all’autodichia della Camera le controversie in tema di vitalizi mancando così una obiettiva incertezza in ordine alla spettanza del potere decisorio. “(…) deve escludersi”, rileva infatti la Corte, “l’ammissibilità del presente ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per l’assorbente ragione che non si profila l’eventualità che l’organo di autodichia al quale il ricorrente si è rivolto possa non decidere la controversia e che quindi l’attività già svolta in quella sede dal ricorrente possa risultare inutile, in considerazione della natura della controversia stessa e delle deduzioni della Camera dei deputati convenuta”. La Corte va tuttavia oltre, aprendo in un obiter un diverso scenario: “(…) la suddetta formula conclusiva”, quella cioè dell’inammissibilità, “appare la più appropriata, visto che è anche da escludere che possa propriamente parlarsi di ‘difetto assoluto di giurisdizione’, dato il carattere sostanzialmente giurisdizionale dal punto di vista oggettivo riconosciuto dalla Corte costituzionale alle funzioni svolte dagli organi di autodichia nell’esame delle controversie loro attribuite (vedi: Cass. SU 16 aprile 2018, n. 9337; Cass. SU 4 maggio 2018, n. 10775) e l’utilizzabilità (nei limiti indicati) del regolamento preventivo di giurisdizione”. Il riconoscimento del carattere “oggettivamente giurisdizionale” degli organi interni di autodichia serve cioè alla Cassazione da grimaldello per scardinare il limite esterno del suo potere regolatorio, puntualmente svelato dalla difesa erariale: quello cioè delle sfere

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Collegi, questi ultimi, che peraltro “(…) oggi, in seguito alle ultime modifiche, risultano costituiti secondo regole volte a garantire la loro indipendenza ed imparzialità e sono quindi chiamati a svolgere funzioni obiettivamente giurisdizionali per la decisione delle controversie loro attribuite come del resto, in relazione alla funzione del giudicare, impongono i principi costituzionali ricavabili dagli artt. 3, 24, 101 e 111 Cost. e come ha richiesto la Corte Europea dei diritti dell’uomo, in particolare nella sentenza 28 aprile 2009, Savino e altri contro Italia”. 22 Corte eur. dir. Uomo, Causa Savino e altri c. Italia – Seconda Sezione – sentenza 28 aprile 2009 (su cui v., ad esempio, Randazzo, L’autodichia della Camera, e il diritto al giudice: una condanna a metà, in Giorn. dir. amm., 2009, 1051 ss., E. Pesole, A proposito della sentenza Corte eur. dir. uomo sull’autodichia: le decisioni più radicali sono lasciate all’ordinamento nazionale, in www. federalismi.it., n. 8/2010), per la quale non è in astratto incompatibile con la Conv. eur. dir. uomo una autodichia, purché i soggetti chiamati a giudicare siano in concreto diversi da quelli competenti ad adottare gli atti impugnati.

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di competenza dei (soli!!) giudici. Gli organi di autodichia, per definizione della stessa Cassazione e della Corte costituzionale non- giudici tanto che è, tra l’altro, inammissibile il ricorso ex art. 111, comma 7 cost., lo sono invece… “oggettivamente,” abbastanza cioè da legittimare il regolamento di giurisdizione23!

5.2. Segue: “difetto assoluto” di giurisdizione e regolamento preventivo. Veniamo alla seconda ordinanza in ordine di tempo, quella resa in esito a regolamento di giurisdizione innestatosi in un giudizio davanti ad un tribunale ordinario. La Corte, premessa l’astratta ammissibilità del rimedio preventivo, decide del regolamento statuendo che le controversie su vitalizi di ex parlamentari rientrano pacificamente nell’ambito dell’autodichia. Ed anche in questo caso, come nel precedente, l’indagine è condotta, come è fisiologico in una decisione che ha ad oggetto la ricostruzione del perimetro della sfera di competenza giurisdizionale, in relazione a causa petendi e petitum della domanda. Il distacco dalla precedente ordinanza è tuttavia netto e matura nei seguenti, cruciali passaggi. “(…) come sottolineato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 262 del 2017 (…)”, rileva infatti la Cassazione, “(…) la deroga alla giurisdizione qui in discussione, di cui costituisce riflesso la connessa limitazione del diritto al giudice, non si risolve in un’assenza di tutela, in quanto tale limitazione risulta compensata dall’esistenza di rimedi interni affidati ad organi che, pur inseriti nell’ambito delle amministrazioni in causa, garantiscono, quanto a modalità di nomina e competenze, che la decisione delle controversie in parola sia assunta nel rispetto del principio d’imparzialità, e al tempo stesso assicurano una competenza specializzata nella decisione di controversie che presentano significativi elementi di specialità”. Ne consegue che “la verifica spettante a questa Corte sulla effettività e congruità della autodichia della Camera dei deputati, condotta al fine di accertare o negare la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia introdotta dal ricorrente innanzi al Tribunale di Roma, non può che concludersi con l’affermazione per la quale su detta controversia sussiste carenza assoluta di giurisdizione”. L’affermazione che sorregge il dispositivo non può che suscitare sconcerto. Riprendendo quanto rilevato in fine al § 5, appare chiaro che l’indagine della Cassazione finalizzata alla verifica della capacità degli organi di autodichia di assicurare effettività e congruità alla tutela delle posizioni (pacificamente) ad essi attratte è la necessaria premessa logica del riconoscimento della natura di giudicante dei collegi di autodichia e quindi dell’esistenza del suo potere regolatorio.

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Questa patente contraddizione è bene evidenziata da Lo Calzo, L’autodichia degli organi costituzionali, cit., spec. 397 ss., e da Ferro, Lo straordinario virtuosismo manicheo dell’autodichia degli organi costituzionali, in ambiente-diritto.it, 23 marzo 2018.

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Ciò si evince anche dal “difetto assoluto di giurisdizione”, dispositivo stavolta adottato ma ritenuto nella precedente ordinanza, vertente su identica posizione controversa, non consono al carattere “oggettivamente giurisdizionale,” appunto, dei collegi interni. Ne esce confermata l’impressione che la sottolineatura di tale carattere sia funzionale esclusivamente a giustificare l’ammissibilità, altrimenti finora da escludersi in quella ipotesi, del regolamento di giurisdizione.

6. Dal difetto assoluto al difetto relativo di giurisdizione: il

regolamento preventivo scardina silenziosamente l’assetto dei rapporti tra giurisdizione ed autodichia disegnato dalla Consulta. La linea di tendenza che pare emergere, nella giurisprudenza della Cassazione quale giudice supremo della giurisdizione, dal 2010 ad oggi mostra come, nello scenario complesso degli strumenti volti ad accertare i confini tra giurisdizione ed autodichia, un ruolo da protagonista vada delineandosi proprio per il regolamento di giurisdizione. Ciò si evince dalla distanza siderale che separa il precedente del 2010 dalle pronunce del 2019 di cui si è detto, segnata da due circostanze. La prima è che tra l’uno e le altre è intervenuta la sentenza costituzionale n. 120 del 2014 che ha individuato nel conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato lo strumento per stabilire i confini tra potere giurisdizionale e (potere di autoregolamentazione fondante anche la) autodichia, e quindi nella Consulta l’(unico) arbitro del relativo regolamento. La seconda è che, mentre nel 2010 il regolamento di giurisdizione si innestava in un giudizio incardinato davanti al giudice amministrativo muovendosi nella sua fisiologica dinamica, in una delle pronunce del 2019 la Cassazione lo ritiene utilizzabile anche se nato in un giudizio davanti agli organi di autodichia, cioè in una sede dichiaratamente estranea alla giurisdizione e quindi al potere regolatorio storicamente riconosciuto alla Corte in via preventiva24. Quale allora la fisionomia che viene assumendo il regolamento di giurisdizione nell’impatto con la questione di autodichia? Due sono i contesti da considerare.

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Alla Corte appartiene storicamente, già nel complesso disegno della legge 31 marzo 1877, n. 3761 sui “conflitti di attribuzione,” anche il ruolo di risolutore di conflitti positivi e negativi tra giudici o tra giudici e pubblica amministrazione. Nel codice di rito vigente, che recepisce nella sostanza quel disegno, l’art. 362, comma 2, attribuisce ancora oggi alla Corte stessa il potere di risoluzione: a) dei conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali o tra questi ed i giudici ordinari; b) i conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario. Ma si tratta, in entrambi i casi, di conflitti cd. reali, che cioè arrivano al cospetto della Corte dopo i pronunciamenti dei giudici o dopo che sia il giudice che l’amministrazione si siano dichiarati sprovvisti di legittimazione a provvedere. Nulla a che vedere, perciò, con il regolamento di giurisdizione, che è un rimedio preventivo. Amplius, su questi profili ed i numerosi altri presupposti ed implicati, il sempre attuale affresco di Cipriani, Il regolamento di giurisdizione, Napoli, 1977.

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Quando il regolamento nasce nell’ambito di un processo davanti all’autorità giurisdizionale, di qualunque plesso, esso si muove nella sua dinamica fisiologica ed attuale, posto che investe il giudice che, sulle questioni di spettanza del potere giurisdizionale, “statuisce” in via definitiva e vincolante per ogni altro giudice dell’ordinamento. All’impatto con la questione di autodichia il regolamento assume tuttavia quella dimensione, figlia della sua stessa storia, di arma di elevazione del “conflitto” nell’accezione della legislazione ottocentesca. I dispositivi di “carenza assoluta di giurisdizione” appaiono significativi in tal senso. Da tale punto di vista viene perciò in rilievo l’origine stessa del mezzo preventivo. Il tipo di sindacato svolto dalla Corte, nell’alternativa secca tra giurisdizione ed autodichia, rievoca infatti le suggestioni del cd. difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della PA25 e con esso l’origine e la funzione stessa dell’istituto. Quel “mezzo straordinario” che la legge del 1877, progenitore della disciplina attuale, derivò dalla legge Rattazzi quale tecnica per ottenere la decisione del “conflitto”26 direttamente dal giudice

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E della vicina figura della cd. “improponibilità assoluta della domanda tra privati” determinata dall’assenza di norme in grado di sorreggere la invocata tutela. La vicenda, ampiamente ripercorsa in chiave storico-critica da Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, II, Torino, 2005, 357 ss., si compendia nel noto teorema della Cassazione (inaugurato da S.U. 29 maggio 1951, n. 1330, in Giur. comm. Cass. civ., 1952, I, 13, con nota critica di Andrioli, Improcedibilità assoluta della domanda tra privati): è possibile distinguere le domande semplicemente infondate da quelle assolutamente improponibili per inesistenza di una norma che tuteli posizione azionata; per queste ultime la declaratoria di “improponibilità assoluta” può essere adottata in via preliminare, sulla base cioè della sola prospettazione di parte dalla quale emerga prima facie la carenza di posizione tutelabile; tale declaratoria preliminare può essere resa in sede di regolamento di giurisdizione. La natura di merito, in specie di rigetto della pretesa, della decisione veniva invece limpidamente svelata dalla dottrina: v., ad esempio, oltre al commento di Andrioli, op. cit., i successivi interventi sul tema di Proto Pisani, A proposito di stile delle sentenze, effettività del diritto di azione e credibilità della giustizia dello Stato, in Foro It., 1977, I, 2422, e Regolamento di giurisdizione per mancanza di domanda giudiziale?, ivi, 1979, I, 2704. Ampio rilievo anche in Cipriani, Il regolamento di giurisdizione, cit., 206. L’orientamento venne abbandonato a partire da Cass. 15 giugno 1987, n. 5256, in Foro It., 1987, I, 2015, con nota adesiva di Cipriani. 26 L’art. 1 della legge Rattazzi (l. 20 novembre 1859, n. 3780), varata nel Regno di Sardegna in un contesto caratterizzato dalla convivenza tra tribunali ordinari e sistema del contenzioso amministrativo, stabiliva infatti che “Vi è conflitto quando l’Autorità giudiziaria si occupa di questioni riservate alle determinazioni dell’Autorità amministrativa, o quando un Tribunale ordinario si occupa di una questione riservata ai Tribunali del contenzioso amministrativo”. Su questa premessa venivano poi individuati i conflitti positivi fra i Tribunali del contenzioso amministrativo ed i Tribunali ordinarii, che si verificavano quando “verta dinanzi ad un Tribunale ordinario una causa che il Governatore creda di cognizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo” (art. 2). Tale situazione legittimava il Governatore stesso in prima battuta a sottoporre al giudice la questione di incompetenza e, in caso di rigetto della relativa eccezione, ad “eccitare il conflitto” (deciso con decreto dal Re sentito il parere del Consiglio di Stato) con sospensione del processo in corso. I conflitti positivi tra l’Autorità amministrativa e l’Autorità giudiziaria si verificavano invece “quando siavi causa vertente innanzi ad un Tribunale ordinario intorno ad oggetto che il Governatore creda di esclusiva competenza dell’Autorità amministrativa” (art. 15), situazione anch’essa legittimante il Governatore stesso al rilievo della relativa eccezione e, in caso di rigetto, ad “eccitare il conflitto”. Chiudeva il sistema il conflitto negativo, suscettibile di verificarsi “Quando un Tribunale ordinario ed un Tribunale del contenzioso amministrativo si saranno rispettivamente dichiarati incompetenti a conoscere di una stessa controversia” (art. 16, comma 1), o “nel caso in cui l’Autorità giudiziaria e l’Autorità amministrativa si dichiarino incompetenti a statuire sovra un ricorso” (art. 16, comma 2). Solo in tali ipotesi “la parte più diligente ricorrerà al Ministero dell’Interno, e verrà determinata la competenza per Decreto Reale (…)”. Il mezzo preventivo per “eccitare il conflitto” era dunque appannaggio esclusivo del Governatore e il sistema era fortemente sbilanciato in favore della amministrazione, posto che non operava per sottrarre una controversia incardinata davanti ai tribunali del contenzioso allo scopo di portarla davanti al tribunale ordinario. Se poi si considera che i tribunali del contenzioso attingevano ai ranghi dell’amministrazione appare evidente come l’intento della legge fosse, in buona sostanza, quello di impedire al giudice civile ogni interferenza negli affari che l’amministrazione, o la sua longa manus-tribunale del contenzioso, rivendicava (proprio attraverso l’iniziativa del Governatore) come oggetto di esclusiva pertinenza. Nella legge n. 3762 del 1877, varata nell’oramai Stato unitario, lo strumento riconosciuto al Governatore diviene “il mezzo straordinario”: l’art. 1, comma 1, disponeva infatti che “La pubblica Amministrazione, oltre la facoltà ordinaria di opporre, in qualunque stato di causa, la incompetenza dell’autorità giudiziaria, quando sia parte nel giudizio od abbia diritto d’intervenirvi, può anche in tutti i casi usare del mezzo straordinario di promuovere direttamente sopra tale incompetenza la decisione della Corte di cassazione, nel modo e cogli effetti determinati negli articoli seguenti”.

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supremo. Si trattava infatti di un mezzo riservato esclusivamente al Governatore e destinato ad operare in modo unilaterale, a sottrarre cioè al giudice davanti al quale pendeva la controversia27 la decisione sulla spettanza del potere decisorio per devolverla (nella legge Rattazzi al Re, nella legge n. 2248/1865, all. D al Consiglio di Stato ed infine, proprio nella legge del 1877) alle Sezioni Unite della Cassazione romana, con sospensione necessaria del processo in corso. Il rimedio si nutre perciò della pendenza del processo, che ne è presupposto indispensabile, e in tale configurazione transita nel codice di rito vigente28. La pronuncia della Corte si colloca allora coerentemente in un quadro ordinamentale in cui è giudice supremo in riferimento alla questione decisa. Ed è per tale ragione che la sua decisione si impone nello stesso modo ad ogni giudice dell’ordinamento come alle parti. Ammettendo l’utilizzabilità del regolamento anche nel corso di un giudizio davanti agli organi di autodichia, la Corte compie perciò una operazione che va ben oltre la storia e in alcun modo ascrivibile al “difetto assoluto di giurisdizione” che pure essa stessa ha applicato, nei regolamenti nati (nel 2010 e nel 2019) nel corso di un processo, riconoscendo la sussistenza dell’autodichia. Proprio il contesto, la procedura in autodichia, presuppone infatti la presa d’atto: a) che tale procedura è un vero e proprio processo giurisdizionale, posto che solo nel corso di un processo può nascere, quantomeno de iure condito, la legittimazione delle parti (legittimazione “di secondo grado”, dunque) a utilizzare il rimedio; b) che i collegi di autodichia sono giudici, solo così giustificandosi il vincolo alle decisioni assunte, in punto di giurisdizione, da quello che si è autodefinito, nell’ammettere il rimedio, loro giudice supremo (la Cassazione, appunto). Si tratta, all’evidenza, dello stesso concetto declinato da due differenti punti di vista. Ma se i collegi di autodichia non sono, in base alle premesse espressamente adottate dalla Consulta e recepite (almeno in astratto) dalla Cassazione, giudici neppure speciali, tanto da essere immuni al controllo di legittimità ex art. 111, comma 7, cost., come potrebbero invece considerarsi vincolati alle decisioni della Cassazione in sede di regolamento?

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Che fosse il “tribunale ordinario” o il tribunale del contenzioso amministrativo. È importante a tale proposito precisare come il mezzo fosse precluso nell’ipotesi in cui si ponesse quella che oggi chiameremmo “questione di difetto relativo di giurisdizione” del tribunale del contenzioso amministrativo in favore del tribunale ordinario. L’esclusione, ingiustificabile sotto il profilo meramente tecnico, ha un suo preciso significato proprio alla luce della funzione storica del rimedio, volto a sottrarre al giudice ordinario materie che il Governatore ritenesse di esclusiva pertinenza dell’amministrazione attiva o del suo alter ego tribunale del contenzioso. Sul clima culturale in cui nacque e si sviluppò quello che è oggi il regolamento di giurisdizione v. amplius, si vis, oltre al classico studio di Cipriani, Il regolamento di giurisdizione, cit., passim, Delle Donne, Sub art. 362, in Commentario del Codice di procedura civile, a cura di Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Torino, 2013, IV, 657 ss., ove anche le indicazioni bibliografiche del caso. 28 La diretta derivazione dalla legge del 1877 appare evidente sia pure attraverso un percorso evolutivo del tutto peculiare. La nascita della IV Sezione del Consiglio di Stato aveva reso recessiva la figura del conflitto tra giurisdizione ed amministrazione attiva e fatto cadere in desuetudine l’“arma di guerra” di cui agli artt. 1 e 3, n. 1 della Legge 3761/1877. Al contempo aveva invece ridato vigore al conflitto tra giudice ordinario e giudici speciali contemplato dall’art. 3, n. 3 della stessa Legge. Poiché però la Cassazione riteneva che siffatti conflitti dovessero essere solo quelli reali (e non virtuali), si pensò che un mezzo di decisione preventiva del tipo di quello riconosciuto ai Governatori, ove generalizzato anche alle parti private e per far valere qualsiasi questione di giurisdizione, avrebbe potuto risolvere il problema. Nacque così il comma 1 dell’art. 41 del vigente codice di rito, che ha codificato il regolamento di giurisdizione ad istanza di parte (lasciando l’originario “mezzo straordinario” alla regolamentazione del comma 2 dello stesso articolo).

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La Corte non fornisce una risposta all’interrogativo, limitandosi all’affermazione apodittica (e ripetuta in modo tralaticio nelle tre ordinanze citate) che esiste una differenza tra il sindacato di legittimità ex art. 111, comma 7, cost. e quello tipico del regolamento preventivo, deputato alla verifica, tra l’altro, dell’esistenza di “una sede decisoria bensì peculiare ma non estranea alle linee che la Costituzione detta per la tutela dei diritti” (vedi Cass. SU n. 6529 del 2010 cit.) (…)” perché capace di assicurare le garanzie del processo equo ex art. 6 CEDU. Il punto è che però proprio questa differenza, indiscutibile sotto il profilo strutturale, non appare idonea a fondare, da sé sola, l’ammissibilità del regolamento di giurisdizione nato in un contesto che si assuma estraneo alla giurisdizione. Pur essendo un mezzo preventivo, il regolamento presuppone infatti, esattamente come il mezzo di impugnazione ex art. 111, comma 7 cost., quel rapporto di sovraordinazione ordinamentale tra giudice supremo ed altri giudici29 in base al quale le decisioni del primo si impongono ai secondi. Proprio ciò, insomma, che in base alle premesse espressamente adottate, e prima ancora secondo la logica intrinseca dell’autodichia, sarebbe invece da escludere. Non resta dunque che prendere atto di una contraddizione di fondo che, veicolata dall’ammissibilità del regolamento di giurisdizione30, muta inesorabilmente, riportandolo nel limbo precedente alle sentenze costituzionali nn. 120/2014 e 262/2017, il rapporto tra giurisdizione e autodichia. La Cassazione passa infatti dal quesito “se esiste un giudice del rapporto controverso o se quel rapporto debba ricevere una definitiva regolamentazione domestica”, e quindi dallo schema del “difetto assoluto di giurisdizione” adottato nei regolamenti nati nel corso di processi giurisdizionali, alla verifica del carattere “oggettivamente giurisdizionale” degli organi di autodichia e della loro capacità di assicurare le garanzie dell’equo processo. Indagine, questa, rivendicata come tipica del regolamento31 perché presupposto logico dell’esistenza stessa del potere regolatorio. Un potere che però finisce fatalmente per avere ad oggetto, ed è questa la trasformazione silenziosa ma inesorabile, la distribuzione della competenza giurisdizionale tra due ordini di giudicanti (cd. difetto relativo di giurisdizione). Il ragionamento si compendia in pochi serrati passaggi: poiché l’esito dell’indagine è positivo, i collegi di autodichia sono sostanzialmente (“oggettivamente”) giudici, il regolamento di giurisdizione nato nel corso di giudizi ivi pendenti è dunque ammissibile e la Corte esercita a pieno titolo i poteri di giudice supremo delle questioni di “giurisdizione”.

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Sia pure, nel nostro caso, sotto il solo profilo della delimitazione delle sfere di giurisdizione. Occorre infatti sempre tenere presente che l’inammissibilità del regolamento di giurisdizione non ha riguardato la carenza di legittimazione della parte istante per non essere parte di un processo giurisdizionale, ma il requisito “interno” dell’assenza di controversia sulla potestà decisoria, pacificamente appartenente ai collegi di autodichia. 31 Che resta sotto traccia sia quando il regolamento nasce dal processo giurisdizionale, posto che è scontato che si tratti di regolamento di confini tra giudici, sia nello schema del “difetto assoluto” di giurisdizione, essendo del pari scontato che si tratta di verificare se esiste o meno una posizione tutelabile davanti al giudice, o se l’affare debba essere appannaggio dell’amministrazione “attiva”. 30

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Privata dalla Consulta del ruolo di giudice supremo di legittimità ex art. 111, comma 7 cost., la Cassazione se ne riappropria dunque, almeno in parte, nella sede del regolamento di giurisdizione.

7. Giurisdizione vs autodichia: quale giudice supremo per il regolamento di confini?

La Cassazione sconfessa dunque, almeno nell’ipotesi in discorso, i risultati cui è giunta la Corte costituzionale sui rapporti tra giurisdizione ed autodichia dando surrettiziamente a quest’ultima le stimmate della giurisdizione, di “una sede decisoria bensì peculiare ma non estranea alle linee che la Costituzione detta per la tutela dei diritti” (vedi Cass. SU n. 6529 del 2010 cit.) (…)”. Una “sede decisoria” che tuttavia, in contrasto con l’art. 111, comma 7 cost., parrebbe restare immune al sindacato di legittimità da parte di quella stessa Corte suprema le cui decisioni è invece vincolata a rispettare in punto di “giurisdizione”. Quale è allora il quadro dei rapporti tra giurisdizione ed autodichia all’indomani delle pronunce rese in sede di regolamento preventivo? Laddove il regolamento scaturisce da processi giurisdizionali, il dispositivo di “difetto assoluto di giurisdizione” rimanda, come accade per il difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della PA, ad un rigetto definitivo nel merito per assenza di posizione tutelabile. Con la conseguenza che al ricorrente privato si offrirà la sola via dell’autodichia, all’esaurimento della quale neppure potrà, allo stato, ricorrere ex art. 111, comma 7 cost., posto che non di pronuncia giurisdizionale si tratta. In tale ipotesi la Corte legittimamente decide di una questione di giurisdizione sì peculiare, ma che è pur sempre la legge, per complesse ragioni storiche, ad attribuire ad essa32. Laddove invece il regolamento nasce nell’ambito dell’autodichia, la sua ritenuta ammissibilità, a prescindere dal dispositivo adottato, trasforma inevitabilmente, se ci si muove sul terreno del diritto positivo, il rapporto tra giurisdizione ed autodichia in quello tra giudici e “altre sedi decisorie” che giudici speciali non sono ma che, tuttavia, sono “oggettivamente giurisdizionali” tanto da essere sottoposte al potere regolatorio della Cassazione in punto di “giurisdizione”. La pronuncia della Corte sarà perciò vincolante sia per le parti che per i giudici ed i collegi di autodichia, ma parrebbe comunque da escludersi il ricorso straordinario ex art. 111, comma 7. Su tale profilo la Cassazione non ha infatti preso posizione diversa da quella assunta dalla Corte costituzionale. In questa ipotesi assisteremmo dunque alla nascita di un tertium genus intermedio tra la giurisdizione e l’autodichia che

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Si tratta, in effetti, di questione di giurisdizione solo perché la legge, in ossequio alla storia, la chiama così, afferma categoricamente ma ineccepibilmente Cipriani, Il Regolamento di giurisdizione, cit., 298. Una questione di squisito merito è devoluta al giudice supremo sub specie di questione “di giurisdizione” in modo artificioso, e quindi assolutamente straordinario.

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legittima il controllo della Cassazione in sede di regolamento preventivo ma non il sindacato di legittimità ex art. 111, comma 7 cost. È evidente non solo la insostenibilità di quest’ultima conclusione ma altresì la forte irrazionalità del sistema che ne deriva. È infatti inevitabile la parziale sovrapposizione oggettiva tra conflitto di attribuzioni e regolamento di giurisdizione e la compresenza di ben due giudici supremi chiamati a decidere, in sedi diverse, quella che, al di là dei profili definitori, resta sostanzialmente la stessa questione: se cioè una controversia debba essere decisa da un giudice o in autodichia. Né la differenza di presupposti e di legittimazioni mitiga questa irrazionalità. Al contrario, rischia di acuirla nella misura in cui non esclude che entrambi i rimedi siano utilizzati, a processo pendente, su iniziativa di parti diverse. Si pensi solo all’ipotesi, appena esaminata, dell’attore che, a fronte dell’eccezione di autodichia della controparte organo costituzionale propone il regolamento di giurisdizione, e vi si aggiunga la possibilità che la controparte stessa, ove il giudice non sospenda il processo e dia corso all’istruttoria, sollevi il conflitto tra poteri presso la Consulta. Per quanto improbabile appaia questo scenario, come dovrebbero coordinarsi i due procedimenti ed in base a quali norme? E i profili di criticità non finiscono certo qui. Entrambi gli strumenti si mostrano infatti estremamente inadeguati alla tutela della posizione del privato in ipotesi di esclusione del potere decisorio del giudice. Nel regolamento di giurisdizione l’assenza di posizione tutelabile è consacrata in una pronuncia di merito in unico grado, resa in un giudizio che pone ristretti limiti all’istruttoria. Nel conflitto di attribuzioni l’ambito oggettivo è delimitato dal regolamento di confini tra organi costituzionali33 ai quali compete perciò in via esclusiva la legittimazione ad agire e resistere. E la Corte costituzionale si mostra molto restia ad ammettere l’intervento delle parti private dei giudizi a quibus, ritenendo che la tutela delle loro posizioni soggettive debba restare appannaggio esclusivo delle ordinarie sedi giurisdizionali34. Il corto circuito evidenziato è in buona parte, occorre pur riconoscerlo, frutto della storia del regolamento di giurisdizione. Un mezzo che nasce, e come tale è conservato dal codice di rito vigente, proprio per risolvere in via definitiva una questione squisitamente di merito, quella compendiata cioè nel cd. difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione. Deriva del resto da questa constatazione di fondo l’idea35,

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E sulla base di norme costituzionali: v. l’art. 37, comma 1, l. n. 87/1953, letto in combinato disposto con l’art. 24, comma 1, della Delibera della Corte costituzionale 7 ottobre 2008, recante Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, a mente del quale il ricorso previsto, appunto, dall’art. 37, deve contenere, oltre all’esposizione delle ragioni di conflitto, “l’indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia”. 34 Ciò anche ad evitare un generale e surrettizio aggiramento del giudicato. Il tema è complesso ed in questa sede non può che essere accennato, rinviando per più diffuse indicazioni anche bibliografiche, per tutti ed a titolo solo esemplificativo, a Marone, L’intervento nei conflitti costituzionali: porta chiusa al deputato e porta aperta al consigliere regionale (corte cost. 9 giugno 2015, n. 107), in www.giurcost.it, e a Logroscino, La Corte costituzionale ancora sulla “impossibile” legittimazione del singolo cittadino al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (a margine dell’ordinanza 39/2019 della Corte costituzionale), in www.federalismi.it. 35 E trasfusa nelle proposte di Mortati e Tosato, convergenti nella direzione di precisare che i conflitti dovevano ritenersi i medesimi regolati dalla Legge del 1877. Il successivo dibattito condusse invece alla necessità di distinguere i nuovi conflitti tra organi

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La questione di autodichia nel processo

pure avanzata durante i lavori preparatori della Costituzione repubblicana, di mantenere la figura dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, a partire da quello tra giurisdizione e amministrazione “attiva”, nello stesso ambito oggettivo di quelli riservati, dalla legislazione vigente, alla Corte di cassazione mantenendo altresì la competenza di quest’ultima36. Che vi sia una zona di interferenza oggettiva è dunque inevitabile in astratto. Occorre valutare se sia scongiurabile in concreto. La risposta positiva passa per la presa d’atto che se l’autodichia, in quanto precipitato di una prerogativa costituzionale, è intrinseca al sistema e va mantenuta, come ha ritenuto la Consulta, allora bisogna essere disposti ad accettarne le conseguenze: i relativi organi non sono giudici, a nessun effetto, e non vanno perciò sottoposti al controllo della Cassazione quale giudice supremo né ex art. 111, comma 7 cost. né ex art. 41 cpc.37. La Corte dovrebbe allora fare una chiara scelta di campo: dichiarare inammissibili, sull’abbrivio del self restraint utilizzato in passato per l’“improponibilità assoluta della domanda tra privati” ed in qualche caso anche per il “difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della pa”38, i regolamenti di giurisdizione proposti, nel corso di processi giurisdizionali ed a maggior ragione di procedure in autodichia, per risolvere la questione di autodichia stessa. Quest’ultima resterebbe così appannaggio esclusivo del giudice comune nei vari gradi di giudizio, salvo il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato sollevabile dall’organo costituzionale parte del processo. La Corte costituzionale, a sua volta, dovrebbe ammettere davanti a sé l’intervento delle parti private del giudizio a quo, posto che dalla decisione sul conflitto può dipendere la stessa possibilità, in capo ad esse, di ottenere tutela giurisdizionale39.

costituzionali da quelli “classici”: amplius Verrienti, Conflitti di attribuzione e di giurisdizione (giustizia amministrativa), in Dig. Disc. pubbl., III, Torino, 1999, 388 ss.; Grassi, Conflitti costituzionali, ivi, 366 ss. 36 L’assetto attuale, consacrato nell’art. 134 cost., si deve invece ad una nuova prospettiva innestatasi sul vecchio schema dei conflitti del 1877: si tratta l’emersione della figura, fino ad allora sconosciuta alla nostra legislazione ma sviluppatasi in Germania dal primo ottocento (Amplius Grassi, Conflitti costituzionali, cit., 365 ss.), delle cd. “controversie costituzionali”, insorgenti cioè tra poteri dello Stato in ordine all’esercizio di attribuzioni sancite, appunto, dalla normativa costituzionale. Sono ancora oggi estremamente istruttive a tal proposito anche le pagine di Redenti, Il “conflitto di attribuzione” nella Costituzione e nel codice di procedura civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 247 ss. 37 Nessun rilievo hanno, in contrario, le circostanze che i membri dei collegi siano reclutati tra giuristi e che vengano assicurate “garanzie procedurali” che imitano le forme giurisdizionali, tra cui quella di sollevare le questioni di (il)legittimità costituzionale delle norme dello Stato cui i Regolamenti parlamentari fanno rinvio, e da cui deriva la qualificazione dei collegi di autodichia come “oggettivamente giurisdizionali”. A tal proposito estremamente fuorviante risulta il richiamo, operato da entrambe le ordinanze del 2019, alla sentenza costituzionale n. 376/2001 con la quale la Corte costituzionale legittimò gli arbitri proprio a sollevare q.l.c. In quel contesto infatti il carattere “oggettivamente giurisdizionale” attribuito agli arbitri era, ed è, conseguenza della loro natura privata e perciò estranea all’organizzazione statuale della giurisdizione. Il contesto è quello della giurisdizione (quale funzione) basata sul consenso delle parti, che come tale abdica alla precostituzione ordinamentale (ed a quella procedurale). Tutt’altro scenario è quello dell’autodichia: qui la sottoposizione a giudizio non si fonda affatto sul consenso ma sull’autorità e tuttavia non è regolata dalla legge. Essa sarebbe perciò extra ordinem se non se ne ammettesse la natura di prerogativa di organi costituzionali. Sul tema, che in questo scritto si dà per presupporto salvo fugaci riferimenti, v. amplius, per tutti, Lo Calzo, L’autodichia degli organi costituzionali, cit., passim, ove anche gli indispensabili riferimenti di dottrina. 38 V., per i riferimenti, oltre a quanto già rilevato supra, alla nota 25, anche i rilievi di Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, II, cit., 357 ss. 39 Quando tale intervento ha ammesso la Consulta ha, giustamente, motivato la scelta proprio con la considerazione che le proprie

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Clarice Delle Donne

Il recupero della razionalità del sistema impone dunque che alla vindicatio potestatis di ciascuna Corte Suprema si sostituisca il dialogo costruttivo e alle logiche di supremazia la pratica di soluzioni (se non ineccepibili, quantomeno) certe e rispettose delle garanzie dell’effettività della tutela dei cittadini.

valutazioni in ordine all’esistenza di una prerogativa escludente la giurisdizione si sarebbero sovrapposte a quelle del giudice comune, con il rischio di compromettere la stessa possibilità per la parte di agire in giudizio. V. amplius Marone, L’intervento nei conflitti costituzionali: porta chiusa al deputato e porta aperta la consigliere regionale (corte cost. 9 giugno 2015, n. 107), cit.

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Annalaura Giannelli

Giudice ordinario e decisione amministrativa Sommario : 1. Il perimetro dell’indagine. – 2. La giurisdizione dell’a.g.o. derivante

da puntuali norme di legge. – 2.a. Segue. La giurisdizione ordinaria ex lege: le decisioni inerenti la gestione dei rapporti di impiego privatizzati alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: la fuga verso le garanzie procedimentali. – 2.b. Segue. La giurisdizione ordinaria ex lege: le decisioni in tema di sanzioni irrogate dalla Consob e dalla Banca d’Italia. – 3. La giurisdizione dell’a.g.o. “assegnata” dalla giurisprudenza: la tutela per lesione del legittimo affidamento derivante dal ritiro di un provvedimento favorevole. – 4. La giurisdizione ordinaria “contratta”: il risarcimento del danno per condotta oggetto di accertamento da parte dell’Antitrust. – 5. Conclusioni.

Il contributo esamina il tipo di sindacato giurisdizionale che il giudice ordinario esercita sulle decisioni amministrative. L’analisi del diritto positivo e della giurisprudenza recente inducono a ritenere che la giurisdizione del giudice ordinario non si abbini necessariamente a una maggiore profondità del sindacato. Al contrario, sembra che il giudizio dinnanzi all’a.g.o. spesso sia contraddistinto da una sottovalutazione delle garanzie procedimentali che dovrebbero caratterizzare il processo decisionale delle pubbliche amministrazioni. Di qui l’idea per cui le tendenze interpretative che auspicano un ampliamento dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario possano rappresentare un serio pericolo per la salvaguardia del principio costituzionale dell’effettività della tutela. The paper aims to examine the type of judicial review that the ordinary Courts exercise over administrative decisions. The analysis of positive law and recent jurisprudence suggest that the jurisdiction of the ordinary Courts does not necessarily combine with a greater depth of the review. On the contrary, it seems that the proceedings before the ordinary Courts it is often characterized by an underestimation of the guarantees that should characterize the decision-making process of public administrations. The interpretative trends that call for an expansion of the external limits of the jurisdiction of the ordinary Courts may represent a serious danger for the safeguarding of the Constitutional principle of effective judicial protection.

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1. Il perimetro dell’indagine. Il tema del sindacato del giudice ordinario sulla decisione amministrativa necessita di uno sforzo preliminare di perimetrazione del campo di indagine. Questo sforzo, in realtà, costituisce sempre un passaggio indispensabile, indipendentemente dall’oggetto dell’approfondimento. Tuttavia la necessità di delimitare i confini dell’analisi risulta ancora più ineludibile laddove il tema abbia ad oggetto le caratteristiche del sindacato giurisdizionale: l’esercizio dell’attività giurisdizionale, infatti, rispecchia e, a sua volta, determina, secondo un peculiare nesso di causalità circolare, il contenuto e l’effettività del diritto alla tutela che l’ordinamento riconosce come inscritto nella carta costituzionale. Questa circolarità, per non tradursi in una serie di più o meno riconoscibili tautologie, deve essere fronteggiata attraverso puntuali ed esplicite scelte di metodo. In particolare, per quanto concerne il sindacato del giudice ordinario sulle decisioni amministrative, la trattazione può, in astratto, dipanarsi lungo una delle seguenti direttrici di indagine. La prima è quella dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario, da valutarsi, evidentemente, tenendo in particolare considerazione i confini con quella del giudice amministrativo. La seconda, invece, attiene ai limiti interni, da intendersi sia come limiti “verticali”, ossia di “profondità ed incisività del sindacato”, sia come limiti riferiti (potremmo dire “in orizzontale”) all’ampiezza dell’oggetto del sindacato, soprattutto in caso di giudizi risarcitori che presuppongano accertamenti in sede amministrativa relativi alla illiceità di determinate condotte. Ciascuna delle direttrici da ultimo descritte reca con sé un rischio: quello di imprimere alla trattazione un taglio descrittivo e casistico. Il tentativo da coltivare, dunque, sarà quello di cercare un collegamento tra il profilo dei limiti esterni e quello dei limiti interni. Questo collegamento verrà indagato “stressando” il seguente interrogativo: quali sono i vantaggi (veri o presunti) in termini di effettività e pienezza della tutela che orientano, in materia di sindacato sulle decisioni amministrative, le dinamiche di spostamento dei confini tra la giurisdizione del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo? In altre parole: quali risultati si ottengono facendo slittare in una direzione o nell’altra la linea di confine tra le giurisdizioni? In coerenza con il titolo del contributo verranno esaminati gli “spostamenti” verso la giurisdizione ordinaria (tralasciando quelli “in direzione contraria”). Verranno cioè prese in considerazione le ipotesi in cui la giurisdizione sulle decisioni amministrative venga assegnata, dal legislatore o dagli interpreti, al giudice ordinario sulla scorta dell’idea che quest’ultimo sia maggiormente in grado di erogare una tutela effettiva e, dunque, conforme al dettato costituzionale, nonché alle prescrizioni derivanti dalla Cedu. Le considerazioni introduttive sinora svolte danno contezza della sostanziale tripartizione che caratterizza la successiva analisi. In essa, infatti, la giurisdizione del giudice ordinario sulle decisioni amministrative verrà distinta, ed esaminata, a seconda che essa:

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Giudice ordinario e decisione amministrativa

si radichi in una precisa assegnazione da parte del legislatore; sia frutto di una interpretazione ermeneutica (che talvolta travalica il criterio di riparto) ovvero sia “nell’ordine delle cose” (cioè sia coerente con il criterio di riparto) per quanto concerne l’an, ma sia incisa (sul piano dell’ampiezza della cognizione) da parte di specifiche norme di legge o di peculiari correnti interpretative.

2. La giurisdizione dell’a.g.o. derivante da puntuali norme di legge.

Non sono poche, né tantomeno insignificanti, le norme di legge che devolvono al giudice ordinario la giurisdizione sulle decisioni amministrative. Il settore più significativo, in quest’ottica, è quello dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni: la giurisdizione dell’a.g.o. è, in questo caso, risvolto di un dato sostanziale, relativo alla privatizzazione del sottostante rapporto di impiego. A ben vedere, dunque, nel caso in questione può parlarsi di giurisdizione ordinaria sulle decisioni amministrative a patto di accogliere l’accezione minima di tale locuzione, ossia quella di decisioni soggettivamente ascrivibili ad organi della pubblica amministrazione. Sul piano oggettivo, di contro, è innegabile che gli atti in questione ormai presentino la natura di determinazioni negoziali di gestione del rapporto di lavoro. Altrettanto importante, sempre in tema di devoluzione ex lege della giurisdizione in favore del giudice ordinario, è il caso delle sanzioni Consob, rispetto alle quali, la certezza sul giudice presso cui incardinare le eventuali controversie si accompagna ad una duplice ambiguità. La prima è di natura pratica, e coinvolge il novero dei provvedimenti attratti alla giurisdizione dell’a.g.o. La seconda attiene, invece, alla teoria generale, e chiama in causa l’imperituro problema della discrezionalità come elemento identificativo del potere: la ragion d’essere della assegnazione, per mano del legislatore, della giurisdizione in capo all’a.g.o. in materia di sanzioni risiede, infatti, nell’asserita mancanza di profili di discrezionalità in capo all’amministrazione procedente, circostanza quest’ultima idonea – in tesi – a smentire la riscontrabilità della dialettica potere/interesse legittimo.

2.a. Segue. La giurisdizione ordinaria ex lege: le decisioni inerenti la

gestione dei rapporti di impiego privatizzati alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: la fuga verso le garanzie procedimentali.

Il sindacato del giudice ordinario si abbina, per espressa previsione di legge, alla titolarità di poteri sostitutivi rispetto a quelli facenti capo alla pubblica amministrazione in veste

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Annalaura Giannelli

di datore di lavoro. L’art. 63 del d. lgs. n. 165/20011 attualmente prevede che «Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro». Accogliendo come unico punto di osservazione quello della incisività dei poteri decisori assegnati dalla legge non si ravvisano, dunque, elementi che possano far dubitare della effettività della tutela in concreto erogata dal giudice del lavoro2. Più interessante, ai fini dell’indagine che ci occupa, è, invece, la disamina avente ad oggetto il tipo di sindacato esercitato dall’a.g.o., con particolare riferimento alla individuazione dei paradigmi legali rispetto ai quali viene compiuto lo scrutinio in merito alla fondatezza della pretesa azionata in giudizio. La casistica più interessante è quella offerta dalle controversie in tema di assegnazione o revoca degli incarichi dirigenziali, rispetto alla quale si è sviluppato, in giurisprudenza, un dibattito relativo al problema della ricostruzione dei “punti di riferimento” cui ancorare lo scrutinio circa il carattere antigiuridico o meno della decisione posta in essere dall’amministrazione. È chiaro, infatti, che l’alternativa che si pone è quella tra uno scrutinio focalizzato sulla verifica del rispetto dei principi di correttezza e buona fede (quali regole di condotta generali, applicabili anche ai rapporti tra datore di lavoro pubblico e dipendente) e uno scrutinio che, invece, non trascuri il rilievo delle regole procedimentali sancite dalla l. n. 241/903. Tra le due posizioni, come si avrà modo di riferire, sussistono numerose sfumature, certamente più sofisticate ed interessanti delle letture “estremizzanti”. È da queste ultime, tuttavia, che giova prendere le mosse, per comprendere le dinamiche profonde che animano il dibattito in tema di “adeguatezza” della scelta di devolvere al giudice ordinario la giurisdizione sulle fattispecie in esame. Ebbene, la prima lettura, che per sintesi possiamo definire panprivatistica, si fonda su un ragionamento all’apparenza semplice e lineare: la natura privatistica del rapporto di lavoro conforma il sindacato giurisdizionale al punto da impedire che quest’ultimo possa prendere in considerazione elementi come il mancato rispetto delle garanzie procedurali ex l.n. 241/90, essendo queste ultime del tutto inconferenti nell’ambito di rapporti privatizzati dal punto di vista sostanziale. Solo la correttezza e buona fede, nell’ambito di tali

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La norma riproduce il contenuto dell’art. 68 del D.Lgs. n. 80/1998. Ma sul punto si veda Cerbo, Giudice ordinario e “sostituzione” della pubblica amministrazione, in Sindacato giurisdizionale e «sostituzione» della pubblica amministrazione, Atti del convegno di Copanello, a cura di Manganaro-Romano Tassone-F. Saitta, Milano, 2013, 91, che chiarisce come la sostituzione del giudice all’amministrazione non si verifichi a fronte di attività discrezionale, rispetto alla quale l’ambito di apprezzamento di cui dispone la p.a. è intrinsecamente infungibile da parte del giudice. In generale, sul fatto che la norma sopra citata non perimetri una sorta di giurisdizione esclusiva del giudice ordinario, essendo pienamente coerente con l’oggetto del sindacato giurisdizionale che, ritiene l’Autore, non consiste nella legittimità di atti amministrativi: Travi, La giurisdizione civile nelle controversie di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. proc. amm., 2000, 259. Di diverso avviso, invece, Figorilli, Giurisdizione piena del giudice ordinario, Torino, 2002, cap. 3. Pioggia, Giudice e funzione amministrativa, Milano, 2004, 162 ss.; Id., Il giudice e la funzione, Il sindacato del giudice ordinario sul potere privato dell’amministrazione, in Dir. pubbl., 2004, 1, 219.

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rapporti, possono fungere da “metro di giudizio” rispetto all’operato della pubblica amministrazione in veste di datore di lavoro. La seconda lettura, di contro, si fonda sull’idea per cui l’operatività delle garanzie procedurali previste dalla l. n. 241/90 prescinda dalla natura del rapporto che si instaura tra cittadino e p.a., essendo un risvolto ineludibile dello statuto costituzionale della p.a. Questa seconda impostazione, apparentemente, presenta tratti di accentuata attenzione alle garanzie, tratti che, tuttavia, devono essere verificati alla luce del concreto “peso specifico” che, nell’ambito dello scrutinio giurisdizionale, viene riconosciuto ai profili procedurali rispetto (o “a discapito”, ma sul punto cfr. infra) di quelli sostanziali. Prima di concentrarsi su questa verifica occorre, tuttavia, precisare che la seconda lettura – quella che predica il rilievo del rispetto delle garanzie procedurali da parte della p.a. come datore di lavoro – è tutt’altro che “compatta” sul piano argomentativo. La sensibilità verso le garanzie procedurali, anche rispetto ad un rapporto di lavoro privatizzato, si manifesta in una duplice veste. La prima è quella originariamente fatta propria dalla Consulta4, che si interessa del tema del rispetto delle garanzie nell’ambito di uno scrutinio più propriamente incentrato sulla legittimità del fenomeno dello spoil system. A ben vedere, quindi, il tema delle garanzie è trattato incidentalmente, quale parametro per valutare non già il rispetto dei principi di democraticità che innervano la disciplina generale sul procedimento ma, più precisamente, il rispetto del principio di buon andamento, che evidentemente confligge con fenomeni di perdurante commistione tra politica e amministrazione. In quest’ottica, dunque, il rispetto delle garanzie è funzionale ad obiettivi che trascendono la tutela del dirigente, la cui posizione, per usare un’espressione obsoleta ma a tutti familiare, risulta quasi “occasionalmente protetta”. Esiste, tuttavia, sempre nell’ambito dell’orientamento favorevole al rilievo delle garanzie procedurali ex l. n. 241/90 anche nei giudizi dinnanzi al giudice del lavoro, una giurisprudenza più focalizzata sull’importanza della dialettica procedimentale in sé considerata, non solo quale mezzo di inveramento di principi di natura prevalentemente organizzatoria come quello del buon andamento. In questa prospettiva il sindacato dell’a.g.o. sul rispetto delle garanzie procedimentali viene ad essere valorizzato quale modalità attraverso cui operare in concreto la verifica sul rispetto dei canoni, di per sé astratti e quindi bisognosi di “riempimento semantico”, della correttezza e della buona fede5.

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Cfr. Corte Cost., 23 marzo 2007, n. 103, in cui si puntualizza come «L’esistenza di una preventiva fase valutativa si presenta essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (…), il rispetto dei principi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale». In termini analoghi si veda anche Cass. civ., Sez. lav., 18 aprile 2017, n. 9728. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995.

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In quest’ottica, dunque, la distanza con l’orientamento pan-privatistico6 sembra ridursi, attraverso “l’espediente” argomentativo che conduce ad interpretare i vizi procedurali alla stregua di “figure sintomatiche” del difetto di correttezza e buona fede. Questa conclusione, tuttavia, è solo apparentemente rassicurante. Essa, infatti, presuppone l’adesione ad un’idea tutt’altro che scontata: quella per cui possa realizzarsi (a “costo zero” ossia senza alcuna deminutio sul piano dell’effettività della tutela) una sostanziale osmosi, o di «transito»7 (da e per), tra le regole di validità dell’atto e le regole di liceità di un comportamento. La procedimentalizzazione (e il rispetto delle annesse garanzie) sarebbe, dunque, un particolare, e necessario, modo di essere della condotta datoriale. A non convincere, in questa prospettiva, è la sottovalutazione dell’orientamento teleologico delle regole procedimentali. Queste ultime sono state concepite per disciplinare il “farsi” della decisione amministrativa, rendendo quest’ultima sindacabile non solo per il suo intrinseco contenuto, ma anche per le modalità all’esito delle quali essa è stata assunta. Se, invece, abbandoniamo questo scenario (tipico della giurisdizione di legittimità dinnanzi al g.a.) per addentrarci in quello del giudizio civile sulla condotta (nel caso di specie quella datoriale) le regole procedimentali perdono la loro metaforica centratura (quella sull’atto) finendo per rappresentare, paradossalmente, un ostacolo rispetto all’obiettivo della cognizione piena sulla condotta o, se si preferisce, sul famigerato “rapporto”. I timori appena rappresentati trovano un significativo riscontro nella giurisprudenza del giudice ordinario. Il dato che emerge, dall’esame delle pronunce in tema di incarichi dirigenziali, è quello di una giurisprudenza che, proprio invocando la correttezza e buona fede declinate in chiave “procedimentale”, orienta il proprio sindacato per lo più su aspetti inerenti il “come”8 della decisione assunta, anziché sull’intrinseco contenuto della decisione stessa. Vero è che sul piano quantitativo le sentenze di accoglimento dei ricorsi avverso i datori di lavoro pubblici tendono a superare quelle di rigetto. Questo dato empirico, pur non privo di interesse, tuttavia nulla toglie al profilo che si è cercato di evidenziare, ossia quello della “egemonia” del sindacato sulla procedura rispetto a quello sul contenuto della decisione. Quanto appena rappresentato suscita alcune rapide considerazioni di sintesi. In primo luogo il “cambio di paradigma” tra garanzie procedimentali e canoni di correttezza è buona fede non sembra praticabile “a costo zero”. Il rischio che si profila, tuttavia, è esattamente contrario a quello originariamente paventato, ossia la dequotazione delle garanzie previste per l’attività amministrativa. A manifestarsi è, piuttosto, la tendenza

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Su di esso cfr. le considerazioni di Cerbo, L’organizzazione dei pubblici uffici “in forma privatistica” a vent’anni dalla privatizzazione, in Studi in onore di Antonio Romano Tassone, Napoli, 2017, vol. I, 562 ss. L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell’azione amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento: verso il tramonto del processo di legittimità?, in Dir. amm., 2006, § 4. Si veda ad esempio Cass. civ., Sez. lav., 1° dicembre 2017, n. 28880, nella quale, in tema di assegnazione di struttura complessa, si censura l’operato dell’Azienda sanitaria per mancata concertazione (rectius mancata dimostrazione circa l’avvenuta concertazione) delle scelte sul piano sindacale. Si veda pure, sempre in tema di violazioni procedimentali, Cass. civ., Sez. lav., 16 aprile 2019, n. 10567.

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ad appiattire la portata semantica delle nozioni di correttezza e buona fede su aspetti di immediato riscontro, come l’omissione di determinati passaggi procedimentali, rendendo di fatto meno praticato un sindacato sulla correttezza intrinseca della scelta compiuta dall’amministrazione. Il tutto secondo una traiettoria diametralmente opposta a quella che sta seguendo la giurisdizione amministrativa, la quale tendenzialmente si orienta verso decisioni motivate dal riscontro di vizi di natura sostanziale, anche al fine di conferire alla pronuncia un più diretto effetto conformativo, e, per esso, un più sostanziale rispetto del principio costituzionale di effettività della tutela. Molto si è detto circa gli effetti collaterali di tale processo di dequotazione delle garanzie procedurali, puntualizzando come esso sia solo in parte ascrivibile alla ben nota norma sui cd. vizi formali9, dovendosi piuttosto in larga parte ricondurre alla tensione, culturale prima che giuridica, verso la realizzazione del cd. giudizio sul rapporto. Quest’ultimo, si è detto, se “preso sul serio” per l’appunto comporterebbe, quale “frutto avvelenato”, la progressiva perdita di rilievo dei vizi procedimentali: basti, in proposito, pensare all’ipotesi della motivazione “ricostruibile”, proprio in un’ottica di cognizione estesa al rapporto, dagli atti dell’istruttoria. Ebbene, è paradossale – ma non troppo, come ci si accinge a rilevare – che il giudizio civile, che nell’immaginario collettivo rappresenta il tempio del giudizio sul rapporto (essendo il sindacato esercitabile senza lo schermo rappresentato dallo scrutinio sulla legittimità dell’atto), ci consegni uno scenario contrassegnato non già dalla prevalenza della sostanza sulla forma (per usare un linguaggio impreciso ma di immediata comprensione) ma da una, forse più preoccupante, fuga dalla sostanza verso la forma o, meglio, verso le garanzie procedurali. Sono queste ultime, infatti, ad assumere un rilievo inedito nello scrutinio giurisdizionale dinnanzi all’a.g.o., il che ovviamente non rappresenterebbe un problema se i vizi procedurali non rischiassero di fornire un metaforico alibi per non sindacare il corretto esercizio delle prerogative di valutazione di cui l’amministrazione, anche in veste di datore di lavoro, resta titolare. La profondità del sindacato sull’eccesso di potere, in estrema sintesi, rischia di smarrirsi in una ipertrofica attenzione alla legalità procedurale, la quale, se da un lato rappresenta un ineludibile presidio di democraticità, dall’altro non può certo tramutarsi, sulla scorta di un grottesco meccanismo di eterogenesi dei fini, nello strumento per contrassegnare nuove aree di insindacabilità. Lo scenario appena descritto non può essere interpretato solo ricorrendo ad una chiave di lettura “culturale”, che indurrebbe ad individuare nel giudice ordinario il “responsabile”

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Il riferimento è, ovviamente, all’art. 21 octies della l. n. 241/90. La norma in questione è oggetto di una applicazione di carattere palesemente estensivo. Ad esempio, in tema di omissione del preavviso di rigetto ex art. 10 bis della l. n. 241/90 la norma sui vizi formali viene sfruttata non solo per “salvare” i provvedimenti di diniego non preceduti da preavviso, ma anche per rigettare le censure aventi ad oggetto la mancata confutazione, in sede di diniego, delle osservazioni pervenute in “risposta” al preavviso di rigetto ritualmente trasmesso: Cons. St., Sez. IV, 2 gennaio 2019, n. 18. In dottrina sull’applicazione dell’art. 21 octies cit. all’omissione del preavviso di rigetto, con particolare riguardo al tema della applicabilità o meno del secondo periodo del comma 2 dell’articolo in questione, dedicato alla mancata comunicazione di avvio del procedimento, si veda: L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell’azione amministrativa, cit., § 2; Provenzano, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, Milano, 2015, 193.

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del descritto fenomeno della fuga verso le garanzie procedurali. Il fenomeno in questione, infatti, ha una puntuale, e talvolta sottovalutata, origine nel diritto positivo, ossia nella norma del codice civile che sancisce il principio dell’irrilevanza dei motivi10. Vero è che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha, rispetto a tale principio, introdotto importanti mitigazioni, che consistono nella riscoperta dell’istituto della exceptio doli11 così come della nozione, alquanto controversa, di abuso del diritto12. Si tratta di segnali non trascurabili ma, al contempo, inidonei a neutralizzare il suddetto principio di irrilevanza dei motivi e le annesse conseguenze, sopra evidenziate, in tema di “profondità” del sindacato praticabile dal giudice ordinario sugli atti negoziali. Tanto l’istituto dell’exceptio doli, per lo più richiamato nella giurisprudenza in tema di contratto autonomo di garanzia, quanto quello dell’abuso del diritto, sfruttato soprattutto nelle controversie inerenti l’esercizio del diritto di recesso, sono frutto dell’adesione, tutt’altro che unanime, all’idea del ruolo creativo della giurisprudenza e, al contempo, dell’ermeneutica dei principi come strumento in grado di operare anche contra legem. Non è questa la sede per soffermarsi sulla condivisibilità o meno di questo duplice assunto. Ci si limita, piuttosto, ad evidenziare come la giustiziabilità intrinseca delle decisioni assunte dalla p.a. in veste di datore di lavoro non possa essere affidata alle ondivaghe opzioni di una giurisprudenza “avanguardista”, ossia di quella giurisprudenza che, proprio nel rivendicare orgogliosamente un ruolo creativo, di fatto denuncia l’instabilità delle regole da se medesima prodotte, nonché la loro facile confinabilità nell’ambito di circoscritte casistiche. Inoltre, ed in conclusione, pare di poter riscontrare che il sindacato sull’eccesso di potere – pur non praticabile in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a., stante l’intervenuta privatizzazione, ma del quale si auspica13, talvolta, il superamento anche rispetto all’attività amministrativa vera e propria – abbia una portata ben più ampia del concetto di esercizio abusivo di una posizione giuridica attiva, concetto che abbraccia soltanto alcune delle figure sintomatiche del predetto vizio di legittimità, lasciandone “fuori” altre (la disparità di trattamento, ma anche la stessa illogicità, contraddittorietà della decisione). L’equivalenza tra eccesso di potere e clausola di buona fede non è dunque assoluta, anche laddove, come si è visto, alla clausola civilistica si voglia attribuire una portata estensiva, tale, cioè, da contravvenire/travalicare (al)la norma del codice civile che sanci-

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Cass. civ., Sez. lav., 30 ottobre 2014, n. 23062; id., Sez. lav., 22 febbraio 2006, n. 3880. In dottrina, ex multis, P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2018, 193. 11 Cass. civ., Sez. III, 22 novembre 2019, n. 30509. In termini critici sull’applicabilità della nozione in questione alla tutela giurisdizionale Tropea, L’abuso del processo amministrativo, Napoli, 2015, 308. 12 In termini critici l’applicabilità della nozione in questione alla tutela giurisdizionale Tropea, L’abuso del processo amministrativo, cit. Per una analisi delle ambiguità della nozione di abuso del diritto, declinata in chiave sostanziale, si veda Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali, Napoli, 2012, 237. La dottrina civilistica sull’abuso del diritto è sconfinata, ci si limita quindi a richiamare uno dei contributi che hanno avviato il dibattito sulla nozione in questione: Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205. 13 Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela. Dall’eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, 2008, 341, passim; in termini critici recentemente M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo, Pisa, 2013, 230, che, in particolare non condivide l’idea per cui la connotazione soggettiva della tutela giurisdizionale assicurata dal giudice amministrativo necessariamente implichi la “rinuncia” a contemplare, nella teoria dell’invalidità dell’atto, ogni riferimento all’interesse pubblico.

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sce l’irrilevanza dei motivi negli atti negoziali. Nel caso della giurisprudenza sui rapporti di lavoro privatizzati, rispetto alla quale il sindacato sull’eccesso di potere non è praticabile per ragioni attinenti alla natura delle decisioni fondanti la controversia, la profondità del sindacato non si avvantaggia della duttilità dei paradigmi civilistici della correttezza e buona fede, ma al contrario sembra “incastrarsi” in un sorta di loop tra forma e sostanza, in cui la prima – come si è visto – tende a rubare la scena alla seconda, sebbene quest’ultima venga, “a parole”, sacralizzata dall’idea per cui il giudizio ordinario sarebbe la sede per liberare le energie del sindacato dagli orpelli dell’attenzione alle vuote forme14.

2.b. Segue. La giurisdizione ordinaria ex lege: le decisioni in tema di sanzioni irrogate dalla Consob e dalla Banca d’Italia.

La giurisdizione sulle sanzioni irrogate dalle autorità indipendenti è stata sostanzialmente ridisegnata dagli interventi della Corte costituzionale. La scelta compiuta dal c.p.a. era stata in favore della giurisdizione del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. Scelta, quest’ultima, che avrebbe dovuto assolvere allo scopo di risparmiare agli interpreti gli sforzi di identificazione delle situazioni giuridiche coinvolte, oggettivamente di ambigua natura. Sappiamo tuttavia che, quantomeno a partire dalla storica sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale, a prevalere è stata l’idea per cui la previsione di una clausola di giurisdizione esclusiva non determini affatto l’irrilevanza, ai fini della individuazione del giudice munito di giurisdizione, del profilo della rintracciabilità o meno del potere in capo all’autore del provvedimento impugnato. Solo in presenza di situazioni di autentico potere, infatti, la clausola di giurisdizione esclusiva ad oggi può considerarsi, secondo l’insegnamento della Consulta, compatibile con la Carta costituzionale. In questo contesto si colloca la giurisprudenza costituzionale in tema di sanzioni, alla quale si deve l’attuale assetto del riparto, riassumibile nei seguenti termini: la giurisdizione sulle sanzioni irrogate dalla Consob e dalla Banca d’Italia compete al giudice ordinario, mentre, in base all’art. 133 c.p.a. (non raggiunto da alcuna pronuncia di incostituzionalità15) è ancora il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, ad esercitare il sindacato sulle sanzioni irrogate dall’Antitrust16.

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La stessa dicotomia tra forma (garanzie procedurali) e sostanza spesso perde di pregnanza, ad esempio con riguardo al tema dell’ammissibilità della motivazione postuma. Sul punto la Cassazione (Sez. lav., 9 agosto 2013, n. 19095) ha affermato, con riguardo ad un giudizio sul trasferimento di un lavoratore, la possibilità per il datore di lavoro pubblico di modificare in giudizio la motivazione della precedente decisione. In questo scenario non è possibile distinguere tra profili formali e sostanziali, dal momento che il diritto ad essere edotti delle ragioni che ispirano una scelta impattante come un trasferimento difficilmente può essere annoverata alla stregua di una garanzia di natura formale, in quanto tale sacrificabile – secondo la logica del giudizio sul rapporto – a fronte della natura intrinsecamente “giusta” della decisione datoriale. 15 La legittimità della assegnazione al g.a. della giurisdizione sulle sanzioni irrogate dall’Autorità Antitrust è stata confermata, sia pure nell’ambito di un giudizio avente specificamente ad oggetto la legittimazione processuale ex lege dell’AGCM, da Corte Cost., 31 gennaio 2019, n. 13. 16 La norma non si riferisce solo alle sanzioni irrogate dall’Autorità Antitrust, ma anche, ad esempio, a quelle di competenza dell’AGCOM, dell’AEEGSII e dell’ANAC.

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Lo scenario appena descritto suscita molti dubbi. Per ragioni di sintesi ci si limita a rappresentarne due. Il primo attiene alle ragioni sottese alla traslazione in favore del giudice ordinario della giurisdizione sulle sanzioni della Consob e della Banca d’Italia: tali ragioni risiederebbero nella presunta assenza di profili di autentica discrezionalità in capo all’amministrazione che disponga la sanzione. Il secondo attiene alla “disparità di trattamento” tra diverse Autorità indipendenti: anche a voler accogliere la premessa relativa al carattere vincolato del potere sanzionatorio della Consob e della Banca d’Italia resta difficilmente comprensibile la ragione per cui lo scenario dovrebbe essere diverso con riguardo al potere sanzionatorio dell’Antitrust. In realtà, volendo ulteriormente approfondire il tema del riparto, ci sarebbe da interrogarsi: – sul carattere effettivamente vincolato17 del potere sanzionatorio di Consob e della Banca d’Italia, che pare smentito dagli ambiti apprezzamento relativi non solo al quantum della sanzione, ma anche all’accertamento stesso dell’illecito, la cui fattispecie legale è per lo più delineata dal diritto positivo facendo ampio ricorso alle clausole generali; – sull’effettivo carattere dirimente, ai fini della rintracciabilità del potere, della discrezionalità, o, volendo diversamente formulare lo stesso concetto, sulla condivisibilità dell’idea per cui in assenza di apprezzamento discrezionale non sarebbe tecnicamente riscontrabile alcun potere (a dispetto dell’attitudine, di determinati atti vincolati, ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei destinatari). I due profili meritano di essere segnalati, ma non possono essere attentamente sviluppati: essi chiamano in causa rilevantissimi problemi di teoria generale, la cui disamina trascende l’oggetto della presente indagine. Più coerente, con gli obiettivi di questo contributo, è l’analisi relativa al “come” in concreto si stia esprimendo il sindacato del giudice ordinario, valutando, anche in confronto con la giurisprudenza amministrativa sempre in tema di sanzioni, il grado di effettività della tutela assicurata. Per giungere a conclusioni attendibili occorre prendere in considerazione tanto l’approccio del giudice ordinario circa la sussistenza delle violazioni sanzionate quanto la sensibilità manifestata dallo stesso giudice circa il rispetto, da parte dell’Autorità sanzionante, delle garanzie procedurali. Il tema delle garanzie procedurali è stato maggiormente indagato, anche in ragione dell’impatto diretto che, sul profilo medesimo, ha avuto la giurisprudenza della Corte di

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Sul carattere vincolato del potere in questione si veda: Capaccioli, Principi in tema di sanzioni amministrative: considerazioni introduttive, in Le sanzioni in materia tributaria, Milano, 1979, 138. In termini critici circa l’idea dell’ assenza di discrezionalità relativa al potere sanzionatorio: Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 2017, 104; Ramajoli, Le forme della giurisdizione: legittimità, esclusiva, merito, in Il codice del processo amministrativo, a cura di Villata-Sassani, Torino, 2012, 188 e 189; Goisis, Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013, 132.

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Strasburgo. È, tuttavia, imprescindibile prendere in considerazione innanzitutto la profondità della cognizione che il giudice ordinario in concreto esercita sui fatti che hanno dato luogo all’esercizio sanzionatorio, o meglio sulla ascrivibilità degli stessi alle fattispecie legali di illecito previste dalla legislazione di settore. Quest’ultima, come si è detto, è essenzialmente contraddistinta da una tipicità “debole” dell’illecito sanzionato: le fattispecie punite sono, in altre parole, descritte facendo ampio ricorso a clausole generali18. A ciò si aggiunge, quale ulteriore dato rilevante nell’esercizio della cognizione sui fatti, l’estremo tecnicismo delle nozioni necessarie per comprendere, in concreto, il grado di antigiuridicità di una determinata condotta. Si pensi, ad esempio, alle valutazioni inerenti l’adeguatezza delle operazioni di profilatura del grado di rischio di specifici prodotti finanziari19. Ebbene è sulla scorta di questo duplice dato (legislazione densa di clausole generali e tecnicità della materia oggetto del sindacato) che occorre valutare la pienezza della giurisdizione esercitata dal giudice ordinario. Il riscontro, ovviamente, è da ricercarsi nelle pronunce di merito, non certo in quelle della Corte di Cassazione, il cui sindacato giocoforza non attinge i profili inerenti la natura lecita o illecita della condotta sanzionata. L’analisi delle recenti pronunce delle Corti di Appello delinea un quadro caratterizzato da una tangibile resistenza a mettere in discussione gli esiti dell’accertamento compiuto dall’Autorità amministrativa in merito al carattere lecito o illecito della condotta20. Questa ritrosia si riflette in un duplice dato: – lo scarso ricorso a strumenti istruttori come la ctu21, nonostante l’elevato tecnicismo della materia su cui verte lo scrutinio, e la riluttanza a scrutinare, nell’eventuale successivo giudizio dinnanzi alla Corte di Cassazione, la legittimità della mancata ammissione del mezzo istruttorio in sede di merito (addossando al ricorrente l’onere di dimostrare la decisività del mezzo non ammesso, traslando quindi in sede processuale la discutibile logica ispiratrice dell’art. 21 octies l. n. 241/90)22;

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Basti a tal proposito, richiamare l’art. 21 del D.Lgs. n. 58/1998 (TUF) ove si prevede che «Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività». In dottrina si veda Police, Tutela della concorrenza e pubblici poteri. Profili di diritto amministrativo nella disciplina antitrust, Torino, 2007, 245, che, con riguardo alla disciplina in materia antitrust, dal carattere complesso delle valutazioni in punto di liceità della condotta desume il carattere non vincolato del potere sanzionatorio di cui è titolare l’Autorità. 19 Corte App. Torino, Sez. I, 16 settembre 2019, n. 1503, in cui si vaglia anche il profilo, meno tecnico, della adeguatezza della profilatura relativa al grado effettivo di consapevolezza degli investitori presso cui i prodotti venivano collocati. In termini analoghi anche Corte App., Catania, Sez. I, 22 gennaio 2019, n. 136. 20 Ramajoli, op. ult. cit., 189. 21 Si veda, tra le numerose sentenze che negano l’ammissione della ctu nonostante lo spiccato carattere tecnico della materia del contendere: Corte App. Firenze, Sez. I, 20 novembre 2019, n. 2749; Corte App., Torino sez. I, 29 ottobre 2018, n. 1860. 22 Cass. civ., Sez. II, 21 giugno 2019, n. 16780, in cui alle censure avanzate dal ricorrente si contesta il difetto «di specificità, posto che la ricorrente non chiarisce per quale motivo la ctu che essa aveva invocato nel giudizio di merito sarebbe stata decisiva» (in termini analoghi anche: Cass. civ., Sez. I, 22 febbraio 2007, n. 4178; id., Sez. VI-1, ord. 4 ottobre 2017, n. 23194) Questa impostazione sconta una fallacia logica, che si annida nell’impossibilità di valutare il carattere decisivo di un mezzo istruttorio laddove esso, proprio in

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– le frequenti pronunce di rigetto motivate dalla asserita genericità delle censure formulate dalla parte ricorrente23, aspetto (questo relativo alla genericità delle censure avverso le sanzioni) che suona quasi paradossale se letto assieme al carattere (questo sì) davvero ampio delle clausole generali presenti nelle norme “tipizzanti” i vari illeciti sanzionati24. Il senso di quanto precede è riassumibile in questi termini: l’elevato grado di tecnicismo della materia è una “criticità” che, in sede di giudizio civile, viene allocata in capo all’attore (quindi al soggetto sanzionato) quale titolare dell’onere della prova. Ciò a dispetto del fatto che il sanzionato, nella formulazione delle censure avverso il provvedimento, spesso sconti non solo le difficoltà derivanti dal sopra evidenziato profilo tecnico della materia ma anche, se non soprattutto, lo squilibrio derivante dal tendenziale appiattimento del giudice ordinario sui contenuti tecnici della documentazione prodotta in giudizio, a fini probatori, dall’Autorità sanzionante. Il quadro non è migliore spostando il fuoco dell’analisi dai profili sostanziali (ossia quelli inerenti l’accertamento e la qualificazione delle condotte) a quelli procedurali. Rispetto a questi ultimi, come ormai a tutti noto, fortissima è stata l’incidenza della giurisprudenza Cedu la quale, a partire dalla nota sentenza Grande Stevens25, ha puntualizzato come i principi del giusto processo sanciti dall’art. 6 della Carta europea dei diritti dell’uomo dovessero essere applicati non solo all’esercizio dell’attività giurisdizionale, ma anche ai procedimenti orientati all’irrogazione di sanzioni che (a prescindere dalla formale qualificazione fornita dal diritto positivo) presentassero carattere sostanzialmente penale, in ragione del loro grado di afflittività26. La prima impressione, dunque, che sembrerebbe

quanto non ammesso, non abbia potuto fornire l’apporto conoscitivo su cui, in ipotesi, dovrebbe compiersi il test di “decisività”. In parole povere, se il mezzo non è stato ammesso viene a mancare “la materia prima” su cui la valutazione di decisività dovrebbe insistere. Inoltre, e dal punto di vista più strettamente giuridico, non sembra possibile traslare sulla parte un compito di competenza del giudice, per l’appunto quella di valutare nel giudizio di merito, ed eventualmente in quello di legittimità, l’utilità di un determinato mezzo istruttorio a fornire informazioni rilevanti rispetto all’oggetto della controversia. L’ottica fatta propria dalla Corte di Cassazione, nella sentenza del 2019 sopra menzionata, sembra un maldestro tentativo di trapiantare in un contesto giurisdizionale la logica ispiratrice dell’art. 21 octies della l. n. 241/90, norma non priva di criticità, le quali sembrano destinate ad aggravarsi in un contesto giurisdizionale, ossia nella sede in cui si concretizza il controllo sull’esercizio del potere. La tendenza ad applicare la logica dell’art. 21 octies cit. in sede processuale si rintraccia anche nella giurisprudenza amministrativa che nega la nullità delle sentenze “a sorpresa”, ossia emanate in violazione dell’art. 73, co. 3, c.p.a.: Cons. giust. amm. reg. siciliana, 22 maggio 2012, n. 448; Cons. St., Sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2175; id., Sez. V, 19 giugno 2012, n. 3557; id., Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462; id., Sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1127; con riferimento ai giudizi in materia tributaria si veda anche: Cass. civ., Sez. V, 23 maggio 2014, n. 11453. 23 Si veda la sopracitata Corte App. Torino, Sez. I, 16 settembre 2019, n. 1503, la genericità della censura viene riscontrata proprio in ragione della mancata dimostrazione, da parte dell’attore, della decisività del mezzo istruttorio non ammesso (cfr. supra nota precedente). Si veda, con riferimento alla genericità delle censure avanzate dall’attore: Corte App., Sez. I, 22 gennaio 2019, n. 134. 24 Supra nota 18. 25 Corte Edu, Sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia. 26 Corte Edu, Plenaria, 8 giugno 1976, Engel and Others v. the Netherlands, nonché Grande Chambre, 21 febbraio 1984, Ozturk c. Germania. I criteri in questione, da intendersi come alternativi, sono i seguenti: 1) la qualificazione del diritto interno; 2) il carattere punitivo della sanzione 3) la severità della sanzione. La dottrina recente ha puntualizzato come, a ben vedere, l’intero sistema delle sanzioni debba ritenersi sostanzialmente penale secondo l’accezione della Cedu, in ragione del carattere afflittivo di tutte le sanzioni amministrative: Provenzano Sanzioni amministrative e retroattività in mitius: un timido passo in avanti, in Dir. penale contemporaneo, 2016, n. 3. In termini generali, sul carattere punitivo della sanzione amministrativa si veda Paliero-Travi, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, 13; nonché Travi, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1983, 235, in cui si evidenzia come,

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potersi ritrarre da tale giurisprudenza è quella di una attitudine della stessa ad imprimere all’ordinamento nazionale una forte spinta verso l’irrobustimento delle garanzie procedimentali, le quali evidentemente connotano in senso maggiormente incisivo il processo penale rispetto al “tradizionale” procedimento amministrativo. Tale sensazione, tuttavia, deve essere in qualche misura mitigata dal fatto che la stessa giurisprudenza Cedu sancisce un principio che efficacemente è stato sintetizzato dalla dottrina come principio della “capacità curativa”27 del controllo di full jurisdiction rispetto ad eventuali carenze procedimentali occorse nell’iter amministrativo prodromico all’emanazione del provvedimento sanzionatorio28. La combinazione tra i due elementi sopra richiamati (irrobustimento delle garanzie procedurali e attitudine “curativa” del sindacato di full jurisdiction) si traduce in una rinnovata posizione di centralità del ruolo del giudice (ordinario) nella tenuta del sistema, intesa come conformità dell’ordinamento nazionale alle prescrizioni Cedu e, mediatamente, alla Carta costituzionale. È in quest’ottica, dunque, che occorre esaminare come in concreto il sindacato del giudice ordinario si stia esprimendo. A tal proposito le tendenze che si rintracciano sono due, tra loro pienamente coerenti. La prima è quella che potremmo definire come “fuga” dalla connotazione sostanzialmente penale delle fattispecie sanzionatorie. La seconda è quella che si sostanzia nella interpretazione “riduzionistica” della portata delle garanzie procedimentali. Le due tendenze sono tra loro connesse.

a fronte del suddetto carattere punitivo che accomuna la sanzione amministrativa a quella penale, il tratto distintivo dalla sanzione amministrativa debba essere individuato (non nelle caratteristiche della norma violata, bensì …) nel carattere non giurisdizionale della decisione e nella connessione della funzione sanzionatoria con quella di amministrazione attiva. All’origine dell’idea per cui la sanzione amministrativa debba considerarsi una pena in senso tecnico si colloca il pensiero di Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, 2. 27 Goisis, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e nodi irrisolti, in Dir. proc. amm., 2015, 546; E. Follieri, Sulla possibile influenza della giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo sulla giustizia amministrativa, ivi, 2014, 3. Su questi temi si veda altresì: Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012. 28 Peraltro, non può tacersi il fatto che l’attitudine curativa di cui si è detto viene interpretata dalla giurisprudenza nazionale in modo ancora più radicale di quanto sopra descritto, ossia come “non necessità” di assicurare il giusto processo allorquando l’ordinamento abbia scelto di anticipare alla fase procedimentale il rispetto degli standard di cui all’art. 6 Cedu. In questo senso si è espresso il Consiglio di Stato nella sentenza della Sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1596, in cui per l’appunto si afferma che «Non vi è alcun obbligo di estendere le garanzie del giusto processo alla fase amministrativa. (…) Nel caso in cui tale estensione dovesse avvenire, allora, nell’ambito del procedimento amministrativo connotato in senso quasi-judicial, l’autorità che applica la sanzione, nonostante la sua natura formalmente amministrativa, verrebbe già considerata un “tribunale indipendente e imparziale” e non vi sarebbe la necessità, ai fini del rispetto dell’art. 6, par. 1, della CEDU, di assicurare al soggetto sanzionato la possibilità di un successivo ricorso giurisdizionale di piena giurisdizione di fronte ad un’autorità giudiziaria indipendente e imparziale». Aderendo a questa prospettiva l’irrobustimento delle garanzie procedimentali determinerebbe una sorta di inedito effetto boomerang, destinato a tradursi in uno speculare abbassamento della soglia di garanzie poste a presidio del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Il tutto in spregio, non solo dei principi Cedu, ma anche e soprattutto dell’art. 24 della Carta costituzionale, che concepisce il diritto alla difesa giurisdizionale non come un succedaneo dei principi vigenti in tema di attività procedimentale (che in quanto tale viene condotta da un soggetto imparziale ma non terzo) ma come un imprescindibile diritto della persona, non barattabile né “compensabile” in nessuna forma o misura. Sul tema Cimini (Il potere sanzionatorio, cit., 175 e la giurisprudenza ivi richiamata) evidenzia come anche la Corte Edu intenda l’osmosi tra procedimento e processo in chiave bidirezionale, con la conseguenza per cui le eventuali carenze di garanzie in fase processuale possano essere «pareggiate con le garanzie riconosciute a livello procedimentale».

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È chiaro, infatti, che nessuna dequotazione dei vizi procedimentali potrebbe essere prospettata laddove, stante la riscontrata natura sostanzialmente penale della sanzione, si rientrasse nel perimetro contrassegnato dalle stringenti prescrizioni Cedu in materia di giusto processo29 (le quali senza dubbio implicano il rispetto di standard di legalità procedurali più impegnativi di quelli propri dell’attività amministrativa in generale). Ad esempio, laddove il g.o. riconoscesse la natura sostanzialmente penale di una determinata sanzione di competenza della Consob non potrebbe più operare, rispetto alla fattispecie scrutinata, la regola pretoria secondo cui il termine di legge previsto per l’esercizio del potere sanzionatorio sarebbe un termine ordinatorio30, il cui decorso non farebbe venir meno la sussistenza del potere medesimo31. Dovrebbero, nel caso di specie, trovare piuttosto applicazione i principi garantistici sottesi alla disciplina penalistica della prescrizione. La fuga dalla connotazione penalistica32 delle fattispecie rappresenta il presupposto ineludibile per portare avanti un sindacato che, trincerandosi dietro lo slogan del giudizio

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Per alcune fattispecie sanzionatorie la natura sostanzialmente penale non può essere revocata in dubbio perché accertata dalla Corte Edu o dalla Corte Costituzionale. La prima, nella notissima sentenza Grande Stevens, ha ad esempio riscontrato la natura sostanzialmente penale nella sanzione prevista dall’art. 187 ter punto 1 del D.Lgs. n. 58/1998 (TUF; sanzione per condotte di manipolazione di mercato); la Corte costituzionale ha, per converso, riscontrato la natura sostanzialmente penale della sanzione ex art. 187 bis TUF, relativa alle condotte qualificabili come abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate. Il punto delicato, tuttavia, riguarda il tema del “controllo diffuso”, ossia della possibilità, per il giudice dinnanzi al quale è incardinata la controversia, di qualificare autonomamente come sostanzialmente penali le fattispecie non raggiunte da puntuali pronunce Cedu o della Consulta, con conseguente diretta applicazione ad esse del regime di garanzie derivante dal principio del giusto processo di cui all’art. 6 della Cedu. La Corte costituzionale sembra esprimersi negativamente sulla possibilità del controllo diffuso, come emerge dalle sentenze 14 gennaio 2015, n. 49; 6 luglio 2016, n. 63 (sul punto cfr. infra nota 36 e 38). In dottrina si veda: Ramajoli, Il giudice nazionale e la CEDU: disapplicazione diffusa o dichiarazione diffusa o dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma interna contrastante con la Convenzione, in Dir. proc. amm., 2012, 3, 825. 30 Peraltro interessante notare come la giurisprudenza individua il dies a quo. Si veda, ad esempio, Corte App. Catania, Sez. I, 22 gennaio 2019, n. 134: «In tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata della violazione, l’attività di accertamento dell’illecito, in relazione alla quale collocare il “dies a quo” del termine per la notifica degli estremi della violazione deve essere intesa come comprensiva del tempo necessario alla valutazione dei dati acquisiti afferenti gli elementi (oggettivi e soggettivi) dell’infrazione e, quindi, correlata alla complessità, nella fattispecie, delle indagini tese a riscontrare la sussistenza dell’infrazione medesima e ad acquisire conoscenza della condotta illecita sì da valutarne la consistenza agli effetti della corretta formulazione della contestazione». In termini analoghi, meno recentemente, si era espressa anche la Corte di Cassazione: Sez. VI, ord. 3 settembre 2014, n. 18574. 31 Cass. civ., Sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18574; id., Sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2363. 32 Si esprime in termini nettamente critici rispetto a questo approccio Provenzano, Note minime in tema di sanzioni amministrative e “materia penale”, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 6, 1097, ove si puntualizza come, in base ad una interpretazione rigorosa dei cd. criteri Engel (in cui compare, in alternativa al criterio della severità, quello del carattere punitivo della sanzione), tutte le sanzioni amministrative (eccezion fatta per quelle a carattere ripristinatorio) debbano considerarsi sostanzialmente penali, indipendentemente dall’entità economica della sanzione (si vedano anche le considerazioni, di analogo tenore, svolte dallo stesso Autore in La retroattività in mitius, cit., 887). Il che implica, sul piano sostanziale, la generalizzata applicazione del principio del giusto processo, con conseguente automatico superamento delle remore che attualmente si riscontrano in giurisprudenza in tema di controllo diffuso sulla natura (amministrativa o sostanzialmente penale) delle sanzioni. In dottrina non sono mancate voci inclini a ritenere che, con riferimento alla potestà sanzionatoria delle Autorità indipendenti la matrice punitiva propria del modello sanzionatorio generale delineato dalla l. n. 689/81 sia poco riconoscibile, giacché a prevalere risulterebbe la strumentalità della sanzione rispetto all’esercizio dei compiti di regolazione assegnati alle Autorità medesime: Ramajoli, La regolazione amministrativa dell’economia e la pianificazione economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione, in Dir. amm., 2008, 56; Troise Mangoni, Il potere sanzionatorio della Consob, Milano, 2012, 21; Monteduro, I principi del procedimento nell’esercizio del potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti. Tessuto delle fonti e nodi sistematici, in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, cit., 133. In termini critici, rispetto a queste posizioni, si esprime invece Trimarchi, Funzione di regolazione e potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti, in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, cit., 92, in cui si opta per una ricostruzione in chiave polifunzionale del potere sanzionatorio delle Autorità, quale premessa per riconoscere a tale potere (anche) una matrice

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sul rapporto, condanna alla sostanziale ineffettività molte norme procedimentali, facendo sì che proprio in materia di sanzioni l’asticella delle garanzie rischi di collocarsi ad un livello più basso di quello proprio dell’attività amministrativa non avente carattere punitivo. Ad essere qualificate come “non sostanzialmente penali” – e dunque non assoggettate agli standard procedurali imposti dal principio del giusto processo – sono state, ad esempio, le sanzioni previste dal TUF per presentazione di un’offerta al pubblico non preceduta dalla pubblicazione di un prospetto33 o quelle vigenti in caso di violazione della disciplina degli intermediari34. Non è utile indugiare sulla casistica, ma vale la pena evidenziare, come elemento sintomatico del tentativo dell’a.g.o. di contenere il più possibile gli effetti della sopracitata giurisprudenza Cedu, il fatto che nella maggior parte delle pronunce di merito o della Cassazione che negano il carattere sostanzialmente penale di una determinata sanzione ricorra l’affermazione per cui la sanzione in questione non è tanto afflittiva quanto quella scrutinata nella sentenza Grande Stevens, ossia quella prevista dal TUF per le condotte qualificabili come manipolazione di mercato. In concreto, dunque, la singola fattispecie sanzionatoria su cui si è appuntato il sindacato della Corte di Strasburgo è diventata una sorta di paradigma generale in tema di carattere penale/non penale della sanzione: le fattispecie sanzionatorie che non superano in afflittività il livello previsto dalla norma sulla manipolazione di mercato restano confinate, secondo l’approccio del giudice nazionale, nell’area delle sanzioni meramente amministrative, con tutte le note conseguenze in termini di standard di legalità procedurale applicabili. Siamo oltre, dunque, la discutibile enfatizzazione della Corte di Strasburgo come giudice del caso concreto35: le corti domestiche, in ciò appoggiate dalla giurisprudenza costituzionale36, non si ritengono legittimate ad applicare in prima persona il “test” Engel, e dunque riconoscono natura sostanzialmente penale solo alle sanzioni su cui si sia espressa la Corte Edu o eventualmente a sanzioni più afflittive di quelle espressamente prese in considerazione dalla Corte stessa. Ciò indubbiamente assicura al sistema un certo grado di certezza, fornendo una risposta univoca, sebbene di matrice pretoria, ad un problema complesso come l’individuazione di uno specifico test sulla natura della sanzione. Tale risposta, tuttavia, è frutto di una lettura degli obblighi di adeguamento alla Cedu in chiave “minimalista”: il giudice nazionale, in

spiccatamente punitiva. Cass. civ., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8047. 34 Cass. civ., Sez. II, 3 gennaio 2019, n. 5; id., Sez. II, 10 aprile 2018, n. 8805; id., Sez. II, 16 aprile 2018, n. 9261; id., Sez. I, 20 aprile 2018, n. 9919. In tutte le sentenze appena citate la natura non penale della sanzione viene argomentata in ragione del fatto che la severità della sanzione scrutinata è inferiore a quella prevista per la fattispecie legale della sanzione per manipolazione del mercato, oggetto della nota sentenza Grande Stevens. 35 Provenzano, Sanzioni amministrative e retroattività, cit. 36 Cfr. sentenza 6 luglio 2016, n. 63, su cui cfr. infra nota 38. La tendenza ad enfatizzare il fatto che la Corte di Strasburgo è giudice del caso concreto, con conseguente sottovalutazione delle conseguenze “di sistema” delle pronunce della stessa è un fenomeno criticato da Provenzano, Note minime, cit. Sul punto, invece, si esprime in termini non marcatamente sfavorevoli: Cartabia, I diritti in Europa: la prospettiva della giurisprudenza costituzionale italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 50. 33

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altre parole, ottempera a quanto statuito Corte di Strasburgo, ma con riferimento quasi esclusivo alla specifica fattispecie scrutinata dalla Corte medesima. Il “quasi” di cui al precedente periodo si spiega in ragione del fatto che, se da un lato il giudice ordinario, come si è visto, non individua fattispecie ulteriori (rispetto a quella scrutinata dalla Cedu) di sanzioni amministrative sostanzialmente penali, lo stesso non può dirsi con riferimento al giudice costituzionale. Nel 2019 la Consulta ha riscontrato la natura sostanzialmente penale della sanzione prevista dal TUF per le condotte di insider trading37 (tecnicamente abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate), stabilendo, quale conseguenza di tale riconoscimento, la necessaria applicazione, nelle fattispecie de qua, del principio (penalistico) di retroattività della lex mitior38, in luogo di quello, proprio dell’attività amministrativa, del tempus regit actum. L’operazione di contenimento dell’impatto garantista della giurisprudenza Cedu portata avanti dal giudice ordinario sembra, dunque, trovare un valido argine nella giurisprudenza costituzionale, più sensibile all’effettività dei diritti fondamentali. Questo dato potrebbe suscitare qualche ulteriore riflessione circa il fatto che, a ben vedere, i principi della Cedu sono in buona parte già rintracciabili nella Carta costituzionale, mediante una interpretazione evolutiva della Carta medesima. Il carattere sovranazionale della Corte di Strasburgo ha senza dubbio agevolato il processo ermeneutico di emancipazione dalle qualificazioni

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Cfr. Corte cost., 21 marzo 2019, n. 63, nonché 10 maggio 2019, n. 112. Sulle pronunce da ultimo citate si veda: Provenzano, Illecito amministrativo e retroattività in bonam partem: da eccezione alla regola a regola generale, in Banca Borsa Titoli di credito, 2020, fasc.1; Baldari, Un nuovo statuto costituzionale e convenzionale delle sanzioni amministrative?, in Giust. amm., 3, 2020; in senso favorevole all’applicazione del principio di retroattività della lex mitior si erano già espressi, prima delle citate pronunce del 2019: Provenzano, La retroattività in mitius delle norme sulle sanzioni amministrative, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2012, 5, 889; Pantalone, Principio di legalità e favor rei nelle sanzioni amministrative, in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, a cura di Allena-Cimini, 2013, 37; Pampanin, Retroattività delle sanzioni amministrative, successione di leggi nel tempo e tutela del destinatario, in Dir. amm., 2018, 1, §3. 38 Il principio di retroattività della lex mitius è stato individuato, sebbene con riferimento ad una sanzione penale “in senso proprio”, come risvolto del principio del giusto processo dalla sentenza della Corte Edu, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. Con riferimento alle sanzioni Antitrust l’applicazione di questo principio (in luogo di quello amministrativistico del tempus regit actum) era stata in sostanza già prefigurata dal TAR, Lazio, Roma, Sez. I, 20 aprile 2015, n. 5758. La fattispecie scrutinata aveva ad oggetto un provvedimento dell’Agcm che, nel rideterminare l’entità di una precedente sanzione, aveva applicato il minimo edittale previsto dalla normativa vigente al momento della commissione dell’infrazione anziché la più favorevole disciplina entrata in vigore successivamente al compimento dell’illecito. Il Tar annulla il provvedimento gravato, sul piano argomentativo tuttavia non fonda il decisum sulla violazione del giusto processo ex art. 6 Cedu (e in particolare del risvolto rappresentato dal principio retroattività della lex mitior) ma sul mancato rispetto del parametro della proporzionalità principio di proporzionalità, quale canone fondante dell’ordinamento dell’UE, ai sensi dell’art. 5 del TFUE (così confermando la già descritta ritrosia in tema di controllo diffuso sulla natura sostanzialmente penale delle sanzioni). La Corte costituzionale, come già accennato nella precedente nota 29, è stata puntualmente interpellata sulla “necessità costituzionale” di applicare all’intero sistema delle sanzioni amministrative il principio di retroattività della lex mitior, direttamente discendente da quello del giusto processo. Con la sentenza del 6 luglio 2016, n. 63, cit. la Consulta si è pronuncia negativamente, in continuità con la precedente giurisprudenza costituzionale (il riferimento è soprattutto alla già richiamata sentenza del 14 gennaio 2015, n. 49). In disparte del dispositivo di rigetto, la sentenza del 2016 è stata commentata, in termini non troppo critici, da Provenzano Sanzioni amministrative e retroattività in mitius: un timido passo in avanti, in Dir. penale contemporaneo, 2016, n. 3, il quale mette in luce come la pronuncia di fatto indirizzi una sorta di sollecitazione al legislatore nazionale, invitandolo a disporre espressamente circa l’applicazione del principio de qua al sistema generale delle sanzioni amministrative. Per queste ragioni l’Autore, pur non condividendo il presupposto relativo alla necessaria positivizzazione del principio in questione, rileva con favore come la Consulta dimostri una crescente consapevolezza del carattere sostanzialmente penale dell’intero panorama delle sanzioni amministrative.

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formali delle fattispecie sanzionatorie, consentendo di “anticipare” un approdo cui, con ogni probabilità, anche la Consulta sarebbe giunta, garantendo così piena effettività a principi costituzionali imprescindibili come quello di effettività della tutela39. Ad ogni modo non sembra opportuno soffermarsi su questi aspetti, non solo perché rischiano di condurre il discorso sui binari delle mere ipotesi, ma anche perché si tratta di profili che esulano dal tema centrale della presente trattazione. Più coerente con gli obiettivi di questo contributo sembra, piuttosto, soffermarsi sulla sensibilità che il giudice ordinario, nel perimetro (come si è visto molto ampio) delle sanzioni riconosciute dallo stesso g.o. come non sostanzialmente penali, dimostra rispetto al tema delle garanzie formali e procedimentali. Se, infatti, il carattere non penale della singola fattispecie “evita il problema” dell’innalzamento degli standard procedimentali verso livelli paragonabili a quelli propri della sede giurisdizionale, resta pur sempre da comprendere, più in generale, quale rilievo il giudice ordinario riconosca alle garanzie formali procedurali espressamente previste dalla normativa di settore e, più precisamente, quali conseguenze faccia derivare dalla loro pretermissione. Ebbene, come anticipato, l’analisi della giurisprudenza conferma la fondatezza dei timori di quanti, commentando con disincanto le prospettive di transizione del giudizio amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto, hanno individuato proprio nell’ambigua formula del “giudizio sul rapporto” il rischio di una progressiva irrilevanza40 di tutti quei vizi che per ragioni di sintesi siamo soliti chiamare vizi formali o procedimentali, ma che più propriamente dovremmo indicare “in negativo”, ossia come i vizi che non toccano direttamente i contenuti di una scelta discrezionale. I profili di maggiore interesse sono quelli attinenti al difetto di motivazione (quale ipotetico vizio formale) e quelli inerenti il deficit di contraddittorio in ragione della mancata audizione dell’incolpato (ipotetico vizio “procedurale”). Molto, ovviamente, si potrebbe dire circa la asserita natura formale del vizio di motivazione. Tuttavia, per non deragliare rispetto agli obiettivi dell’indagine, conviene accontentarsi dell’accezione onnicomprensiva della nozione di vizio formale, pur nella consapevolezza della sua fragilità dogmatica. Ebbene, il giudice ordinario in molteplici occasioni ha avuto modo di puntualizzare come l’assenza del corredo motivazionale di per sé non esprima conseguenze di alcun tipo sulla spettanza del credito sanzionatorio. Ciò proprio in forza del fatto che il giudizio che si svolge dinnanzi al giudice ordinario si contraddistin-

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Si veda, sul punto, la riflessione di Perfetti, La full jurisdiction come problema. Pienezza della tutela giurisdizionale e teorie del potere, del processo e della Costituzione, in Il controllo di full jurisdiction sui provvedimenti amministrativi, a cura di Giliberti, Napoli, 2019, 421-422, secondo cui l’innovatività “percepita” della full jurisdiction è inversamente proporzionale alla consapevolezza della rilevanza della Costituzione anche in ambito processuale. 40 Sul punto, in termini critici, Cerbo, Giudice ordinario e “sostituzione” della pubblica amministrazione, in Sindacato giurisdizionale e «sostituzione» della pubblica amministrazione, Atti del convegno di Copanello, a cura di Manganaro-Romano Tassone-F. Saitta, Milano, 2013, 104.

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gue quale giudizio sul rapporto41, ragion per cui l’omissione della motivazione potrebbe essere utilmente “compensata” dalla cognizione piena del giudice, il quale dovrà prendere in considerazione tutte le eventuali deduzioni prodotte in sede procedimentale dall’ incolpato (il cui esame, per l’appunto, non sia comprovato da un adeguata motivazione)42. Conclusione, quest’ultima, che lascia perplessi sotto almeno un duplice punto di vista. Innanzitutto essa confligge con l’idea che la motivazione sia un diritto in sé, quale estrinsecazione del principio generale dello di giustiziabilità del potere. Secondariamente, essa avalla l’idea, in più sedi circolante, secondo cui il processo possa a buon titolo rappresentare la sede in cui “per la prima volta” si compiono gli apprezzamenti in punto di fatto e di diritto sottesi all’adozione della decisione amministrativa. Il che a sua volta solleva il problema dello slittamento “in avanti” della sede del controllo sulla decisione, controllo che sembra confinato nel giudizio di legittimità (dinnanzi alla Corte di Cassazione). È chiaro, infatti, che il giudice di merito che “di fatto” assume la decisione amministrativa, esercitando poteri sostitutivi rispetto a quelli della p.a., non possa essere considerato un giudice autenticamente terzo rispetto ai contenuti della decisione medesima. Quanto al vizio procedurale della mancata audizione dell’incolpato, nell’ambito di procedimenti sanzionatori condotti alla Consob, l’approccio seguito dal giudice civile è duplice, ma convergente verso un obiettivo finale di ridimensionamento del rilievo delle garanzie procedimentali. Da un lato, infatti, l’irrilevanza della mancata audizione viene supportata da affermazioni con cui si evidenzia come, nella singola fattispecie scrutinata, il soggetto sanzionato (dunque l’attore) non avesse in giudizio indicato gli elementi che in sede procedimentale avrebbe dedotto in sede di audizione. Ancora una volta, dunque, a trovare spazio nel tessuto argomentativo delle pronunce del giudice ordinario è la logica della dimostrazione in giudizio del carattere decisivo, ai fini del contenuto della decisione, del passaggio procedurale pretermesso43. Dall’altro, e più in generale, la mancata audizione viene in buona sostanza giustificata sulla base del fatto che il TUF non prevede tale garanzia procedurale e che, al contempo, essa non discenda dal diritto alla difesa giurisdizionale in tutte le ipotesi (in concreto molto numerose) in cui la sanzione scrutinata non abbia carattere sostanzialmente penale. Il circuito argomentativo è quello già descritto: si sottraggono al perimetro delle sanzioni

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Cfr. Corte App. Catania, Sez. I, 22 gennaio 2019, n.134; Corte App. Genova, Sez. I, 31 gennaio 2019, n. 150; Corte App. Firenze, Sez. I, 15 febbraio 2016, n. 98; id., Sez. I, 1° luglio 2014, n. 933; Corte App. Bologna, Sez. III, 3 marzo 2015, n. 202; id., Sez. III, 3 marzo 2015, n. 200. 42 Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 1276, il quale prende in considerazione il tema della motivazione (e dell’annesso rischio di dequotazione) nell’ambito di una più ampia disamina volta a mettere in luce le insidie della cultura “assimilazionista” (intendendosi con tale aggettivo alla tendenza ad avvicinare processo civile ed amministrativo sulla scorta della auspicabile comune riconducibilità al modello del giudizio sul rapporto). 43 Corte App. Catania, Sez. I, 22 gennaio 2019, n. 134. Si veda anche, sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, e in particolare: Cass. civ., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8046; in tema di sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia Cass. civ., Sez. II, 3 dicembre 2013, n. 27038; con riguardo alle sanzioni irrogate dalla CONSOB Cass. civ., Sez. II, 25 novembre 2015, n. 24048.

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sostanzialmente penali gran parte delle sanzioni previste dal TUF (salvo quelle raggiunte da pronunce della Cedu o della Consulta) e di conseguenza si nega che rispetto ad esse debbano osservarsi garanzie equivalenti a quelle vigenti nel contesto processuale. A suscitare interesse, rispetto allo specifico profilo della mancata audizione, è soprattutto la distanza che si registra tra la “sensibilità procedurale” dimostrata dal giudice ordinario rispetto al giudice amministrativo. Quest’ultimo, sia pure in un (lunghissimo) obiter44, si è espresso in termini netti circa l’illegittimità del regolamento (illo tempore vigente) relativo alle sanzioni di competenza della Consob, giacchè in esso non troverebbe spazio un modello di contraddittorio di natura “orizzontale” ossia assimilabile a quello a quello assicurato, in sede processuale, dal principio della parità delle armi. La Cassazione, ponendosi in una prospettiva di puntuale e dichiarata replica alle affermazioni del Consiglio di Stato45, non ha invece riscontrato alcuna violazione procedimentale nella mancata audizione, e ciò in base ad un duplice e concorrente assunto: quello di tipo letterale, consistente nella mancata espressa previsione di tale obbligo procedimentale nelle norme di rango primario dedicate al potere sanzionatorio della Consob, e quello più profondo consistente nell’idea per cui nella fattispecie scrutinata debba ritenersi sufficiente il rispetto del contraddittorio verticale proprio dell’azione amministrativa, anche in ragione del fatto che il provvedimento sanzionatorio è suscettibile di un sindacato pieno. Questa conclusione è opinabile di per sé, sulla scorta di quanto si è detto sulla sostanziale irrilevanza dell’omissione della motivazione, ma a non convincere è soprattutto la scorciatoia argomentativa che la Cassazione sembra imboccare, laddove nega la natura sostanzialmente penale della sanzione (per scongiurare l’applicazione degli standard procedurali del giusto processo) ma poi pretende di sfruttare la giurisprudenza Cedu solo “in bonam

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Cons. St., Sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1596, cit. La sentenza dichiara l’inammissibilità del ricorso introduttivo, in quanto avente, per l’appunto, ad oggetto il (solo) regolamento Consob in tema di sanzioni (reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086), considerato privo di immediata lesività. Ad ogni modo il Consiglio di Stato, in sede di obiter, puntualizza come il regolamento in questione risulti illegittimo in quanto il modello di contraddittorio in esso realizzato non presenta i connotati di un contraddittorio “rafforzato” rispetto al modello di contraddittorio collaborativo di cui alla l. n. 241/90. Ciò essenzialmente in ragione del fatto che il regolamento de qua non prevedeva la possibilità per il soggetto interessato dagli addebiti di interloquire direttamente con l’organo decidente, ma solo con l’ufficio incaricato dell’istruttoria. La portata delle affermazioni del Consiglio di Stato deve, tuttavia, essere correttamente intesa. Vero è che il Supremo Consesso della giustizia amministrativa espressamente sposa la tesi del “contraddittorio rafforzato” (non condivisa dalla Corte di Cassazione, cfr. infra nota successiva), ma deve altresì di essere sottolineato il fatto che la necessità di adottare tale modello di contraddittorio viene fatta derivare non dall’applicazione dell’art. 6 Cedu (che, secondo il Consiglio di Stato, non sarebbe applicabile al procedimento sanzionatorio in quanto relativo alla sola attività giurisdizionale) ma dalla necessità di rendere il regolamento conforme alla legislazione di rango primario, ossia alla legge n. 262 del 2005, con la quale il legislatore «pur non essendo obbligato a farlo né in base all’art. 6, par. 1, CEDU, né in base a precetti costituzionali, ha, comunque, scelto di estendere al procedimento sanzionatorio di competenza della Consob alcune garanzie tipiche del c.d. giusto processo». 45 Cfr. Cass. civ., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8046, in cui la Corte dichiara di «non condivide[re] l’affermazione, svolta nella sentenza n. 1596/15, che “il contraddittorio richiamato per i procedimenti sanzionatori della CONSOB sia un contraddittorio rafforzato rispetto a quello meramente collaborativo già assicurato dalla disciplina generale del procedimento amministrativo”. Al contrario, proprio la previsione normativa di un procedimento giurisdizionale destinato ad assicurare il controllo del provvedimento amministrativo sanzionatorio da parte di un giudice terzo ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e vincolato al rispetto di regole procedimentali necessariamente informate ai principi di cui all’art. 24 Cost., induce a ritenere che le garanzie del contraddittorio previste dalla legge per il procedimento davanti alla CONSOB siano da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, il quale non è coperto dall’art. 24 Cost.».

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partem”, ossia con riferimento alla (discutibile) idea per cui il processo sia portatore della già menzionata attitudine curativa rispetto ai deficit di garanzie propri del procedimento. Il quadro complessivo, dunque, anche in tema di scrutinio sul “come” viene assunta la decisione amministrativa non è rassicurante, nonostante il tentativo di edulcorare tale scenario ricorrendo al mantra del giudizio sul rapporto. Quel che è certo è che, al di là di tali infingimenti, a risultare, paradossalmente, indebolita dal sindacato – da alcuni definito con schiettezza “deferente”46 – del giudice ordinario sembra essere la stessa posizione delle Autorità indipendenti. Rispetto a queste ultime, infatti47, non sembra più realisticamente predicabile l’idea per cui la legalità procedurale – e dunque l’irrobustimento degli standard di garanzia dettati in termini generali dalla l. n. 241/90 – costituisca una fonte di legittimazione indiretta, tale da compensare così il difetto di copertura costituzionale che, stando all’interpretazione letterale della Carta, interesserebbe le Autorità in questione. Così come non risulta nemmeno percorribile, a fronte del sopradescritto fenomeno di dequotazione delle garanzie, la tesi per cui il deficit di legalità derivante dalla “tipicità debole” di molte condotte sanzionabili (il riferimento concerne essenzialmente le condotte anticoncorrenziali) sarebbe in qualche modo compensato dalle garanzie del giusto procedimento48.

3. La giurisdizione dell’a.g.o. “assegnata” dalla

giurisprudenza: la tutela per lesione del legittimo affidamento derivante dal ritiro di un provvedimento favorevole. Il criterio di riparto fondato sulla natura delle situazioni soggettive coinvolte nella controversia ha costretto gli interpreti, e in primis la giurisprudenza, ad elaborare complesse, e mutevoli, teorie circa gli elementi “sintomatici” della riscontrabilità di situazioni riconducibili alla dialettica potere/interesse legittimo ovvero a quella obbligo/diritto. Le maggiori difficoltà, in queste operazioni di qualificazione, si riscontra con riferimento alle situazioni in cui la tutela invocata non sia direttamente connessa all’illegittimo esercizio di un determinato potere, ma ad una più articolata sequenza di decisioni amministrative, la cui successione abbia determinato, anche in ragione della scansione temporale delle decisioni medesime, la frustrazione dell’affidamento del cittadino interessato dagli effetti dell’azione amministrativa. Il caso più significativo, in tal senso, è rappresentato dalla lesione del legittimo affidamento relativo alla stabilità degli effetti di un provvedimento

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Ramajoli, Le forme della giurisdizione, cit., 189. Cons. Stato, sez. VI, 20 aprile 2006, n. 2206. Si vedano, inoltre, le considerazioni critiche e i riferimenti giurisprudenziali offerti da Pantalone, Autorità indipendenti e matrici della legalità, Napoli, 2018, 303. 48 Lazzara, Funzione antitrust e potestà sanzionatoria. Alla ricerca di un modello nel diritto dell’economia, 2015, 4, 776. 47

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amministrativo favorevole successivamente interessato da un legittimo atto di ritiro. Qui il problema della identificazione delle situazioni soggettive coinvolte risiede nella mancata coincidenza tra provvedimento lesivo e provvedimento illegittimo, circostanza che, secondo un determinato approccio ricostruttivo, varrebbe a far transitare le fattispecie in questione nell’ambito delle responsabilità da comportamento, in quanto tali soggette alla giurisdizione del giudice ordinario. L’esercizio dei poteri di ritiro relativi a precedenti provvedimenti favorevoli per lo più fa sorgere una domanda di tutela. Il contenuto di questa domanda e la sede presso la quale essa può essere azionata non sono, tuttavia, di semplice individuazione. I due interrogativi, peraltro, sono tra loro strettamente interconnessi. Per ragioni di chiarezza espositiva conviene intraprendere la riflessione partendo dal secondo problema, quello relativo al giudice – ordinario o amministrativo – presso il quale la domanda di tutela del legittimo affidamento leso dall’autotutela possa trovare soddisfazione. L’individuazione del giudice munito di giurisdizione deriva, rectius dovrebbe derivare, da una analisi delle situazioni soggettive coinvolte. Nel caso di specie essa sembra, tuttavia, intimamente legata anche al problema delle tecniche di tutela praticabili. Il punto di partenza è rappresentato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che ormai da quasi un decennio49 si esprimono nel senso della sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario circa le domande risarcitorie aventi ad oggetto il pregiudizio patito in conseguenza dell’esercizio del potere di autotutela relativamente a pregressi provvedimenti favorevoli. La posizione propugnata dalla Suprema Corte si fonda sull’idea per cui, ad essere leso dall’esercizio legittimo dell’autotutela, sarebbe il diritto soggettivo all’integrità patrimoniale e non una posizione di interesse legittimo connessa all’esercizio del potere originariamente esercitato in “direzione” favorevole. Sul punto le critiche rivolte dalla dottrina sono state severe e numerose. L’obiezione più radicale è relativa proprio alla qualificazione delle situazioni soggettive: si è osservato, infatti, che la lettura della Cassazione sarebbe stata contraddistinta da una grave fallacia, consistente nell’idea per cui l’interesse legittimo sarebbe rintracciabile solo a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non già nell’illegittimo (e in quanto tale in-

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Cfr. Cass. civ., ordinanze 23 marzo 2011, n. 6594-6596, in termini critici si veda Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., 2011, 896. Più recentemente cfr.: Cass. civ., SS.UU., 22 giugno 2017, n. 15640; id., SS.UU., ord. 24 settembre 2018, n. 22435; id., Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 25919; id, SS. UU., 8 marzo 2019, n. 6885. Su questi temi si veda anche Cass., SS.UU., 29 aprile 2020, n. 8236, in cui il tema della tutela dell’affidamento viene esaminato con riferimento ad una fattispecie in cui non vi era stato il ritiro di un precedente atto favorevole, ma una condotta dell’amministrazione, dispiegatasi negli anni, contraddittoria e fuorviante, dalla quale il cittadino aveva tratto elementi per presumere il buon esito dell’istanza presentata. Rispetto a tale fattispecie la Suprema Corte rintraccia gli estremi per ascrivere all’amministrazione una responsabilità da mero comportamento (con conseguente giurisdizione del giudice ordinario), da inquadrarsi, peraltro, nel paradigma della responsabilità contrattuale. Quest’ultimo, invero, è già stato individuato da parte della dottrina come modello in cui inquadrare anche la responsabilità derivante da violazioni di tipo procedimentale: si veda, in tal senso, Renna, Obblighi procedimentali e responsabilità della pubblica amministrazione, in Dir. amm., 3, 565. Più in generale, per una disamina critica sulle numerose opzioni che, in tema di inquadramento della responsabilità civile della p.a., animano il dibattito in dottrina e in giurisprudenza si veda sempre: Renna, Responsabilità della pubblica amministrazione: a) Profili sostanziali, in Enc. dir. Annali, Milano, 2016, 800 ss.

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trinsecamente instabile) riconoscimento del bene medesimo50. Ciò, tuttavia, appare non coerente con il criterio di riparto sancito dalla Costituzione che, come noto, non condiziona la natura delle situazioni soggettive, e per essa il “funzionamento” del criterio di riparto, al carattere satisfattivo o meno dell’azione amministrativa. E ancora, da un punto di vista sistematico non pare neppure trascurabile il fatto che il legislatore abbia assegnato al giudice amministrativo la tutela del danno da ritardo, il quale – almeno per quanti riconoscano la tutelabilità del danno da mero ritardo51 – è indifferente rispetto al tema della “direzione” favorevole o sfavorevole del potere tardivamente esercitato. Il dibattito in tema di riparto di giurisdizione, rispetto a fattispecie di autotutela su provvedimenti favorevoli, è stato ed è ricco di spunti, che in questa sede non possono, neppure per sommi capi essere rievocati. In coerenza con le premesse metodologiche esplicitate in apertura l’analisi verrà piuttosto indirizzata verso le conseguenze dell’opzione prevalente in tema di giurisdizione, per valutare poi quali possano essere stati gli elementi ispiratori di tale opzione. In quest’ottica ad essere indagate saranno le conseguenze della assegnazione all’a.g.o. della tutela per lesione dell’affidamento frustrato dall’esercizio dell’autotutela, al fine ulteriore di comprendere se, al netto delle criticità di teoria generale già ampiamente indagate dalla dottrina, vi siano anche elementi “empirici” in grado di orientare in favore di una o dell’altra giurisdizione o, comunque, meritevoli di essere presi in considerazione anche nel dibattito teorico sui limiti esterni della giurisdizione. Il principale aspetto da esaminare è, al contempo, causa e conseguenza della opzione propugnata dalla Corte di Cassazione in tema di giurisdizione del giudice ordinario. Si tratta dell’idea per cui la lesione dell’affidamento determinata dall’esercizio del potere di autotutela (lesione per lo più ascrivibile alla tempistica di adozione dell’atto di ritiro) sia una fattispecie idonea a generare una pretesa riparatoria, e non ad incidere sulla validità dell’atto lesivo, ossia il provvedimento di autotutela. Questo profilo è facilmente percepibile nel tessuto argomentativo delle pronunce della Suprema Corte, in cui si ribadisce spesso come non sia riscontrabile alcun interesse legittimo leso, perché la lesione sofferta è stata arrecata non mediante l’esercizio del potere, ma attraverso una condotta illecita secondo il paradigma aquiliano. Se, dunque, si ritiene che non sia stato il (cattivo uso del) potere ad aver causato la lesione, giocoforza la giurisdizione del giudice amministrativo perde ragion d’essere. Non solo. Postulando la non rintracciabilità del potere, come fonte del pregiudizio, cambia anche la tecnica di tutela in concreto praticabile. Il “sottotesto”, neppure troppo implicito, della giurisprudenza della Corte di Cassazione consiste nell’idea per cui la lesione dell’affidamento – dovuta, ad esempio, all’ampiezza della finestra temporale che separa l’atto favorevole dal provvedimento di autotutela – non possa trovare tutela al di fuori del para-

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Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro it., 2011, 2398. Sul punto si veda anche: Villata, Ancora “spigolature” sul nuovo processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 4, 1513; con riguardo al profolo della giurisdizione: R. Masera, Danni da atto amministrativo positivo, ma illegittimo, e giudice competente, in Urb. app., 2011, 916. 51 Contra: Cons. St., Sez. VI, 5 aprile 2012, n. 2035; id., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 472.

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digma riparatorio e dunque non possa determinare l’annullamento giurisdizionale dell’atto di ritiro. Il che equivale a dire, passando dal piano processuale a quello sostanziale, che l’idea veicolata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione è quella per cui la lesione dell’affidamento sarebbe irrilevante in punto di legittimità del provvedimento che arreca tale lesione. Rispetto a questo approdo gli interrogativi con cui fare i conti sono più di uno. È convincente questo approccio, che confina la tutela nell’area della riparazione per equivalente? Le ragioni che lo ispirano sono di tipo pratico o di natura teorica? E in entrambi i casi, si tratta di ragioni insormontabili o astrattamente suscettibili di una rivisitazione critica? È indubbio che l’approccio che potremmo definire pan-risarcitorio porti con sé degli indiscutibili vantaggi in termini di certezza dell’assetto delle situazioni giuridiche: l’opposta prospettiva, quella volta a inquadrare il problema della tutela nel più ampio contesto della legittimità/illegittimità dell’iniziativa di autotutela, implica un notevole ambito di apprezzamento in capo al giudice52. Questa premessa, deve, tuttavia, essere sottoposta ad un duplice “test” di persuasività. Il primo “opera” de jure condito, e si concretizza nella seguente domanda: siamo certi che il diritto positivo vigente in tema di autotutela non rechi spunti idonei a sorreggere uno scrutinio di legittimità (sull’atto di autotutela) che prenda in considerazione, proprio quale sintomo di potenziale illegittimità del provvedimento, l’entità della lesione arrecata al legittimo affidamento? In proposito la disciplina sull’annullamento è particolarmente interessante. Essa, come noto, si sofferma sui profili cronologici dell’esercizio di tale potere, stabilendo che esso debba esprimersi entro un termine ragionevole, precisando che tale termine per i provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici coincide con i diciotto mesi53.

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La giurisprudenza, peraltro, non esclude categoricamente l’incidenza dei profili temporali sul paradigma di validità del provvedimento di revoca, sebbene in concreto tenda a riqualificare strumentalmente il provvedimento oggetto di impugnazione in termini di annullamento di ufficio, per poter applicare lo sbarramento temporale dei diciotto mesi espressamente previsto dall’art. 21 nonies. Paradigmatica, in questo senso, Tar Veneto, Sez. III, 28 ottobre 2019, n. 1160, nella quale viene riqualificato come annullamento d’ufficio (per poterne poi riscontrare l’illegittimità in ragione dell’esercizio tardivo, i.e. successivo al limite dei diciotto mesi) un provvedimento di ritiro motivato dalla sopravvenuta perdita, in capo al cittadino beneficiario di determinati finanziamenti, dei necessari presupposti per il godimento degli stessi: « è illegittima, per lesione del legittimo affidamento nutrito sul regolare esito della procedura valutativa, la revoca (recte: l’annullamento) di un finanziamento avvenuta a distanza di un lungo lasso di tempo: il principio della tutela del legittimo affidamento nell’operato della Pubblica Amministrazione – cui è stato dato un ruolo centrale in ambito europeo – in ambito nazionale, trovando origine nei principi affermati dagli artt. 3 e 97 Cost., è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa ed amministrativa. (…)». Al di là della discutibile riqualificazione della revoca in annullamento, sembra interessante valorizzare le affermazioni di tenore generale contenute nella sentenza in questione, quelle che richiamando gli articoli 3 e 97 della Costituzione sembrano indicare la via della loro valorizzazione, in termini precettivi, nell’ambito del sindacato sulla validità degli atti, oltre che come risvolto dei principi di buona fede vigenti in materia di comportamenti. 53 L’applicazione del termine di diciotto mesi risulta, peraltro, oggetto di un’interpretazione estensiva da parte della giurisprudenza. Ciò si riscontra non solo nelle pronunce che applicano tale termine anche alle fattispecie che, ratione temporis, non sono soggette alla versione dell’art. 21 nonies (della l n. 241/90) riformata nel 2015, facendo leva sul fatto che i diciotto mesi comunque rappresenterebbero un imprescindibile elemento utile «a fini interpretativi e ricostruttivi del sistema» (Tar Calabria, Sez. I, 22 luglio 2019, n. 463; Cons. St., Sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625 e 31 agosto 2016, n. 3762). Talvolta il termine dei diciotto mesi viene addirittura sfruttato come limite cronologico per l’esercizio di poteri diversi da quello di autotutela. Si veda, in proposito, Tar Lazio, Sez. II, 1 agosto 2019, n. 10212, in cui, in una controversia in materia di s.c.i.a., si afferma che «una volta decorso il termine di trenta

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La previsione di un termine legale (mediante clausola generale o puntuale quantificazione del periodo rilevante) merita di essere “presa sul serio”, ossia di essere riguardata come scelta espressamente volta ad includere nel paradigma di legittimità del provvedimento l’aspetto relativo alla potenzialità “offensiva” dello stesso rispetto alle posizioni di affidamento. Quest’ultima, al di fuori dell’ambito di operatività del limite specifico dei diciotto mesi, dovrà essere scrutinata in funzione delle caratteristiche della fattispecie concreta, le quali per l’appunto serviranno a rendere più o meno ampia la finestra cronologica di legittimo esercizio del potere di autotutela. Di contro, nel settore in cui opera il limite dei diciotto mesi, la lesione del legittimo affidamento si presume nei casi in cui, per l’appunto, tale termine non venga rispettato, ferma restando, ovviamente, la necessità di provare, nel caso in cui si ambisca anche ad una tutela di tipo risarcitorio, la sussistenza degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (elemento soggettivo, nesso di causalità, etc.). Sul punto il ragionamento intrapreso deve fare i conti con la delicata nozione di lesività. La domanda di annullamento, come noto, presuppone la lesività dell’atto, il che vale anche per i casi di impugnazione dei provvedimenti autotutela relativa ad atti favorevoli, rispetto ai quali la lesività si configura, per l’appunto, in termini di frustrazione dell’affidamento. Diverso ed autonomo è, invece, il profilo del danno economico eventualmente oggetto di tutela risarcitoria, il quale deve essere oggetto di puntuale prova, avente ad oggetto non già la lesività tout court del provvedimento di ritiro (ad esempio in termini di sacrificio della libertà del cittadino di intraprendere l’attività originariamente assentita) ma la concreta attitudine del provvedimento in questione a determinare un effettivo danno economico (ad esempio il danno relativo ad eventuali investimenti già sostenuti con riguardo all’attività oggetto del provvedimento favorevole poi annullato). Il fatto, dunque, che l’eventuale danno economico derivante dall’esercizio dell’autotutela debba essere risarcibile secondo il paradigma aquiliano non scalfisce l’idea di partenza, ossia quella per cui la lesione dell’affidamento (opportunamente apprezzata in sede giurisdizionale in funzione delle caratteristiche della fattispecie concreta) sia una delle componenti idonee ad incidere strutturalmente sulla legittimità dell’atto di autotutela. Le osservazioni che precedono hanno preso in considerazione l’annullamento d’ufficio, la cui disciplina, come rilevato, reca spunti puntuali relativi alla tempistica di adozione dell’atto di autotutela. Lo stesso non può dirsi per il provvedimento di revoca: nessuna espressa menzione si rinviene, infatti, nell’art. 21 quinquies della l. n. 241/90 al termine entro il quale tale provvedimento possa essere emanato. Questa omissione può essere criticabile in un’ottica di politica del diritto. Al contempo, tuttavia, risulta difficile sostenere

giorni per l’esercizio dell’ordinario potere inibitorio in ordine alla s.c.i.a., se quest’ultima è in contrasto con la normativa urbanisticoedilizia, la p.a. non deve attivare il procedimento di secondo grado di annullamento in autotutela (con comunicazione di avvio ed instaurazione del contraddittorio procedimentale), ma può direttamente procedere all’emanazione del provvedimento repressivo, nel rispetto, tuttavia, delle condizioni sostanziali che legittimano l’esercizio del potere di autotutela ai sensi dell’art. 21 nonies l. n. 241 del 1990: i) ragioni di interesse pubblico; ii) termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi; iii) valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati».

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l’idea per cui il mancato riferimento normativo ai profili temporali sia da intendersi come una inconsapevole “leggerezza” da parte del legislatore. Più convincente risulta, invece, l’idea per cui l’assenza di riferimenti cronologici debba leggersi assieme alla previsione del rimedio indennitario54, che, come noto, riguarda solo il potere di revoca e non quello “limitrofo” dell’annullamento d’ufficio. La revoca risulta contraddistinta da un surplus di discrezionalità, che si rintraccia non solo nell’an del suo esercizio, ma anche nel quando. Tale supplemento di discrezionalità (rispetto al modello dell’annullamento d’ufficio) è bilanciato dalla previsione di una tutela di natura indennitaria, in favore di quanti risultino pregiudicati dell’esercizio legittimo del potere in questione. Per questa ragione non sembra persuasiva la tesi della interpretazione estensiva della previsione in tema di indennizzo, anche a fattispecie come quella dell’annullamento d’ufficio. La norma sull’indennizzo da revoca, al contrario, sembra fungere da necessario fattore di bilanciamento/mitigazione dell’ampio margine di discrezionalità che il diritto positivo riconosce soltanto in caso di esercizio del potere di revoca. Questa discrezionalità, evidentemente, non può trascendere in arbitrio, e ciò implica che il sindacato di legittimità sui provvedimenti di revoca ben possa appuntarsi sui tempi di attivazione del potere in questione (si pensi, ad esempio, ad un provvedimento di revoca immotivatamente adottato molto tempo dopo la “scoperta” della mancata copertura finanziaria relativa a determinata iniziativa comportante flussi di spesa). Ciò nulla toglie al carattere discrezionale dei profili inerenti la tempistica delle decisioni di revoca, ma semplicemente vale a collocare il potere in questione, per quanto connotato dal surplus di discrezionalità sopra descritto, nel vigente paradigma costituzionale, contrassegnato dal principio di giustiziabilità degli atti di esercizio del potere. Si può, ovviamente, coltivare la critica in una prospettiva de jure condendo, chiedendosi se sia opportuna la totale assenza di spunti normativi circa l’orizzonte cronologico di esercizio del potere di revoca. Così come può ci si può chiedere se sia sufficiente, in materia di annullamento d’ufficio, la previsione – per le fattispecie non soggette al limite legale dei diciotto mesi – del limite generico del “termine ragionevole”55. Anche assumendo questo punto di vista occorre, tuttavia, tenere distinti i piani del ragionamento. La disciplina sulla tempistica dell’esercizio dei poteri di autotutela forse non è particolarmente stringente (anche se, come si è evidenziato, il limite di diciotto mesi a ben vedere riguarda l’annullamento d’ufficio della totalità dei provvedimenti ampliativi, gli unici rispetto

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Prima che il legislatore, nel 2005, prevedesse espressamente l’indennizzo per lesione dell’affidamento arrecata da un provvedimento di revoca la dottrina si esprimeva sulla necessità di ricavare dal sistema l’obbligo di ristorare della lesione patita dal privato: Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999, 197. Su questi temi, più recentemente, si veda Giani, Funzione amministrativa ed obblighi di correttezza. Profili di tutela del privato, Napoli, 2005; La Rosa, La revoca del provvedimento amministrativo. L’instabilità delle decisioni amministrative tra esigenze di funzionalizzazione e tutela degli interessi privati, Milano, 2013; Id., Il “costo” del ripensamento dell’amministrazione: riflessioni sull’indennità di revoca, in Diritti fondamentali, 2020, fasc. 1. 55 Sulla tendenza a sfruttare i diciotto mesi come parametro di riferimento per il sindacato sul termine ragionevole relativo alle fattispecie pre-2015 vedi supra nota 53.

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ai quali ha senso parlare di lesione dell’affidamento) ma questo dato – pur criticabile in un’ottica di politica del diritto – di per sé non può sorreggere l’idea per cui la lesione dell’affidamento sarebbe ineluttabilmente priva di conseguenze in termini di illegittimità il provvedimento di autotutela recante la lesione medesima. La giurisprudenza amministrativa, invero, non ha assunto una posizione puntuale in tal senso. È ovvio, e non stupisce, che il g.a. abbia riscontrato l’illegittimità dei provvedimenti di annullamento assunti in contrasto con il limite puntuale dei diciotto mesi, anche se la rigidità di tale limite è stata, invero fortemente ridimensionata dalla tesi per cui il dies a quo di tale termine consisterebbe nel momento della “scoperta” del vizio e non in quello della adozione del provvedimento oggetto di annullamento56. Più delicata risulta, ovviamente, la situazione relativa ai provvedimenti di autotutela non soggetti ad uno specifico limite cronologico, essenzialmente la revoca. Sul punto la giurisprudenza amministrativa appare meno incline ad accordare la tutela demolitoria motivata in funzione della lesione dell’affidamento, e tale ritrosia non viene giustificata dall’analisi delle caratteristiche della fattispecie concreta, ma mediante un cenno sbrigativo all’assenza di uno specifico limite cronologico esplicitato dalla normativa57. Anche la giurisprudenza amministrativa, quindi, sembra incline a confinare nell’ambito della tutela risarcitoria il tipo di tutela praticabile per chiunque si ritenga leso dalle “modalità cronologiche” di esercizio del potere di autotutela (fatta salva, ovviamente, l’ipotesi della violazione del limite puntuale dei diciotto mesi). Sotto questo profilo si realizza, quindi, una sorta saldatura “al ribasso” con le posizioni espresse dalla Suprema Corte che, come riscontrato in apertura di paragrafo, si è espressa in favore della giurisdizione del giudice ordinario sui danni da ritiro del provvedimento favorevole. Tale posizione, radicandosi nell’idea per cui il danno in questione non sarebbe riconducibile, neanche mediatamente, all’esercizio del potere, di fatto preclude la praticabilità di una tutela demolitoria a salvaguardia delle posizioni di affidamento incolpevole, tutela della quale il giudice amministrativo potrebbe invece, a buon diritto, essere protagonista.

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Secondo l’Adunanza Plenaria, il termine ragionevole decorrerebbe soltanto dal momento (di per sé non conoscibile né contestabile dall’esterno, ossia da un potenziale ricorrente) della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro: Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8. 57 Tar Campania, Sez. I, 11 febbraio 2016, n. 829, in cui, trattando il profilo della potenziale “tardività” del provvedimento di revoca, si afferma che «non è richiesto per l’esercizio del relativo potere di autotutela il rispetto di un “termine ragionevole” così come previsto per l’annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21 nonies della medesima legge. Il posticipato esercizio del potere di autotutela potrebbe al più rilevare come condotta che, unitamente agli ulteriori elementi costitutivi (elemento soggettivo, rapporto di causalità, danno) potrebbe fondare una responsabilità dell’amministrazione».

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4. La giurisdizione ordinaria “contratta”: il risarcimento

del danno per condotta oggetto di accertamento da parte dell’Antitrust. Ad essere esaminate, nei paragrafi precedenti, sono state fattispecie in cui la giurisdizione del giudice ordinario è stata individuata, dagli interpreti o mediante una puntuale previsione di diritto positivo, a “discapito” della cognizione del giudice amministrativo. Si è trattato, in altre parole, di ipotesi in cui si sono posti, almeno prima di specifiche prescrizioni di diritto positivo, problemi di limiti esterni di giurisdizione, i quali sono stati per l’appunto risolti in favore del giudice ordinario, con le conseguenze pratiche e teoriche che si è cercato sinora di esaminare. Il presente paragrafo, invece, ha ad oggetto una fattispecie in cui la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario è un dato di per sé pienamente coerente con il sistema, e dunque non oggetto di puntuali iniziative, interpretative o legislative, di regolamentazione dei confini rispetto all’ambito di cognizione del g.a. Cionondimeno la fattispecie in questione merita di essere esaminata perché la cognizione dell’a.g.o., sebbene incontroversa nell’an, subisce una peculiare contrazione ad opera di puntuali scelte legislative, maturate dapprima in ambito europeo e successivamente recepite sul fronte nazionale. La fattispecie in questione concerne le cd. azioni risarcitorie follow on relative ai danni da condotta anticoncorrenziale. La norma di riferimento, in tal senso, è l’articolo 7, comma 1, d.lg. 19 gennaio 2017, n. 3, ove si prevede che “Ai fini dell’azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell’autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all’articolo 10 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato. Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima. Quanto previsto al primo periodo riguarda la natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non il nesso di causalità e l’esistenza del danno”58. I profili delicati, sottesi alla previsione soprarichiamata, sono molti e forieri di delicate implicazioni sistematiche.

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Si esprime in termini sostanzialmente favorevoli al contenuto della disciplina in questione: Delsignore, Le regole di convivenza della sanzione amministrativa, in Dir. amm., 2017, §3. Sul tema si veda: Cintioli, Giusto processo, sindacato sulle decisioni antitrust e accertamento dei fatti (dopo l’effetto vincolante dell’art. 7, d.lg. 19 gennaio 2017, n. 3), in Dir. proc. amm., 2018, 1207; Greco, L’accertamento delle violazioni del diritto della concorrenza e il sindacato del giudice amministrativo, relazione al Convegno “L’accertamento delle violazioni e dei danni da illecito antitrust”, Milano, 14 novembre 2016, in Riv. it. di dir. pubbl. com., 2016, 999; Giliberti, Public e private enforcement nell’art. 9, comma 1, della direttiva antitrust 104/2014. Il coordinamento delle tutele: accertamento amministrativo e risarcimento dei danni nei rapporti interprivatistici, ivi, 2016, 77; Fonderico, Public e private enforcement, in AIDA, 2015, 3.

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L’elemento più eclatante, che traspare dalla previsione in questione, concerne la riduzione dell’ambito di cognizione propria del giudice ordinario in tema di risarcimento danni da condotta anticoncorrenziale. Laddove, infatti, tale condotta sia stata oggetto di un accertamento definitivo da parte dell’Antitrust (i.e. non impugnabile oppure già oggetto di una sentenza passata in giudicato) le eventuali successive azioni risarcitorie intentate da chi si affermi danneggiato dalla condotta medesima sono decise dall’a.g.o. all’esito di un giudizio che abbia ad oggetto soltanto il nesso di causalità e l’esistenza del danno, essendo già state previamente accertate in sede amministrativa (o nell’eventuale giudizio impugnatorio) la natura della violazione della disciplina sulla concorrenza, la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale. La ratio della norma è intuitiva, e consiste nell’alleggerire l’onere probatorio del danneggiato ogniqualvolta la sua azione segua l’accertamento della violazione in sede amministrativa (per questo si parla di azioni follow on). Di contro, ovviamente, nelle azioni risarcitorie non precedute da un accertamento in sede amministrativa (le cd. azioni stand alone) l’onere probatorio dell’attore si riespande fino a ricomprendere tutti gli elementi costitutivi dell’illecito. La norma in esame, invero, non rappresenta una assoluta novità. La contrazione della cognizione dell’a.g.o., quale conseguenza dell’attivazione di meccanismi di public enforcement, era stata anticipata sia dalla legislazione che dalla giurisprudenza. Quanto a quest’ultima occorre ricordare che la Corte di Cassazione59, pur in assenza di una puntuale norma “di copertura”, avesse già riconosciuto (nei giudizi attivati con azione cd. follow on) agli accertamenti compiuti dall’Antitrust valore di “prova privilegiata”, con le inevitabili ambiguità che a tale locuzione evidentemente si accompagnavano. Sul fronte, invece, del diritto positivo, la norma in questione – che recepisce l’art. 9 della direttiva 104/2014 – trova il proprio antecedente nell’art. 16, par. 1, del regolamento CE 1/2003, il quale stabiliva che in tema di condotte anticoncorrenziali le giurisdizioni nazionali chiamate a pronunciarsi sulle domande risarcitorie cd. follow on non potessero prendere decisioni che fossero in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione europea. Rispetto allo scenario risultante dal regolamento CE del 2003 nell’assetto disegnato dal d.lgs. n. 3/2017 l’incidenza del public enforcement sul sindacato risarcitorio è molto più significativa. In primo luogo, in base al regolamento il vincolo sul giudizio risarcitorio riguardava soltanto le decisioni assunte dalla Commissione, e non dalle Autorità nazionali preposte alla tutela della concorrenza e del mercato. In secondo luogo, e soprattutto, a segnare un’importante discontinuità rispetto allo scenario anteriore alla direttiva del 2014 (e alla disciplina recepimento nazionale) è il tema relativo al presupposto “contenutistico” del vincolo: il tenore letterale dell’art. 16 del regolamento del 2003 lasciava, infatti, intendere che il vincolo sul giudizio risarcitorio si producesse indipendentemente dagli esiti del

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Cass. civ., Sez. VI, 23 aprile 2014, n. 9116; id., Sez. VI, ord. 4 marzo 2013, n. 5327.

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procedimento svoltosi dinnanzi alla Commissione. Il che in concreto si traduceva in una situazione di potenziale diniego di tutela per il soggetto danneggiato da una condotta anticoncorrenziale oggetto di un accertamento negativo da parte dell’Antitrust. In questo caso il danneggiato (rectius colui che asseriva di aver patito un danno) si trovava, di fatto, preclusa la fruizione della tutela risarcitoria in ragione degli esiti di un procedimento amministrativo, esiti che, restando fedeli alla fisionomia tradizionale dei presupposti dell’azione, egli non avrebbe potuto impugnare, non essendo direttamente attinto dagli effetti della decisione amministrativa. Per scongiurare un simile scenario si sarebbe, allora, dovuta prendere in considerazione l’ipotesi di una legittimazione attiva connotata da significativi tratti di peculiarità, in quanto fondata su una lesione derivante non propriamente dal contenuto dispositivo della decisione amministrativa (il provvedimento dell’Antitrust) quanto dagli effetti “riflessi” che tale decisione avrebbe determinato sull’ambito della cognizione del giudice del risarcimento. Con l’entrata in vigore della direttiva 2014 lo scenario appena descritto è mutato60 in senso favorevole rispetto alle prospettive di tutela di colui che si ritenga danneggiato dalla condotta anticoncorrenziale. L’art. 9 della direttiva in questione, infatti, dispone che il vincolo sulla cognizione del giudice del risarcimento derivi (soltanto) da “una violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione definitiva di un’autorità nazionale garante della concorrenza o di un giudice del ricorso”. Il tenore della norma europea e della previsione nazionale di recepimento depongono in favore di una interpretazione che subordina il determinarsi del vincolo (rispetto alla cognizione dell’a.g.o. in sede risarcitoria) all’accertamento in positivo della violazione da parte dell’Antitrust o del giudice presso il quale l’accertamento sia stato, in ipotesi, impugnato. Così ricostruita la fattispecie mitiga, ma non esclude del tutto, i problemi di deficit di tutela che il meccanismo di “intersezione” tra public e private enforcement rischia di determinare. In estrema sintesi, nel panorama odierno residuano quantomeno tre elementi di criticità circa l’effettività della tutela fruibile dai soggetti a vario titolo coinvolti nella fattispecie in esame.

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La soluzione era stata prefigurata dal «Libro Bianco della Commissione Europea in materia di azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie» (2008), ove si suggeriva che le decisioni Antitrust avessero effetto vincolante per i giudici nazionali quanto all’accertamento dell’illiceità del comportamento delle imprese (al pari di quanto già previsto dal regolamento UE del 2003 per le decisioni della Commissione). In dottrina tale ipotesi, poi confermata dalle direttive 2014/104/UE, è stata aspramente criticata, in quanto ritenuta in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione: si veda Bariatti-Perfetti, Prime Osservazioni sulle previsioni del “Libro Bianco in materia di azioni per il risarcimento del danno per violazione delle norme Antitrust” della Commissione e del Codice del consumo quanto alle relazioni tra procedimenti antitrust e giurisdizione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, 1151. Un decennio prima che il predetto Libro Bianco prefigurasse il vincolo oggi operante nel giudizio risarcitorio la dottrina (Ramajoli, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano, 1998, 380) aveva messo in luce la doppia anima della disciplina antitrust (una pubblicistica, governata dalla AGCM, ed una privatistica, rimessa alle iniziative dei singoli avanti la giurisdizione ordinaria) facendo ciò derivare l’assenza di impliciti vincoli tra il giudizio di private enforcement e l’accertamento prodottosi in sede di public enforcement: al giudice ordinario, pertanto, non si riteneva fosse richiesto di disapplicare il provvedimento dell’AGCM, potendolo semplicemente considerare irrilevante.

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Il primo, più evidente e non a caso maggiormente indagato, concerne la posizione del convenuto nel giudizio risarcitorio, la cui condotta sia stata accertata come anticoncorrenziale all’esito di un procedimento condotto dall’Antitrust. Il soggetto in questione, ovviamente, può reagire impugnando il provvedimento dell’Autorità dinnanzi al giudice amministrativo, non solo al fine immediato di ottenerne l’annullamento, ma anche nell’ottica di scongiurare il prodursi del sopra descritto vincolo nell’ambito di eventuali giudizi risarcitori follow on. In un’ottica di teoria generale occorre quindi soffermare l’attenzione sulla fisionomia dell’interesse all’azione, il quale viene ad assumere connotati “spuri” rispetto alle categorie tradizionali. Non è, infatti, assurdo ipotizzare che rispetto ad un accertamento che non si accompagni all’irrogazione di sanzioni, l’impresa autrice della condotta anticoncorrenziale possa non avere alcun interesse diretto a contestare il provvedimento dell’Antitrust (perché, ad esempio, la prosecuzione della condotta accertata come anticoncorrenziale non è foriera di alcun vantaggio per l’impresa in questione) ma, di contro, possa essere interessata ad ottenere, dal giudice amministrativo, una pronuncia che (smentendo i contenuti dell’accertamento compiuto in via amministrativa) scongiuri il prodursi del vincolo in un giudizio risarcitorio soltanto eventuale61. Il tutto, evidentemente, in un palese contesto di difetto della attualità e della concretezza dell’interesse all’azione62. Questo tipo di interesse, sul piano delle categorie

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Il carattere eventuale dell’appendice risarcitoria è particolarmente percepibile in tema di responsabilità per i danni patiti dai cd. acquirenti indiretti a causa del fenomeno degli umbrella pricing (ossia dei prezzi guida la cui entità risenta di un’intesa anticoncorrenziale). I sopracitati acquirenti indiretti non sono parte di un rapporto contrattuale diretto con gli autori della condotta anticoncorrenziale, ma per l’appunto risentono del trasferimento dei sovrapprezzi. La giurisprudenza europea (20 settembre 2001, C-453/99, Courage; 13 luglio 2006, da C-295/04 a C-298/04, Manfredi; 5 giugno 2014, C-557/12, Kone AG) e successivamente la direttiva 2014/104/UE poi (cfr. artt. 12 e 14) hanno riconosciuto il diritto al risarcimento anche agli acquirenti indiretti, nell’ambito di giudizi in cui a figurare come convenuti risultano le imprese coinvolte nella intesa anticoncorrenziale. Il problema che si pone, nell’ambito di questi giudizi risarcitori, è sempre quello dell’onere probatorio, e dell’eventuale sussistenza di vincoli derivanti da accertamenti compiuti in sede di public enforcement. L’art. 14 della direttiva del 2014 stabilisce che il primo elemento che l’acquirente indiretto deve provare, per avere accesso al risarcimento, è il fatto che convenuto abbia commesso una violazione del diritto della concorrenza. Il tenore dell’articolo 14 induce l’interprete a dubitare del fatto che operi, anche in tema di danni indiretti, l’intersezione tra public e private enforcement sancita dall’art. 9 della direttiva del 2014. Si tratta, tuttavia, di una impressione non corretta. Il considerando 42 della direttiva rinvia a delle successive linee guida della Commissione per la determinazione delle «modalità di stima della parte del sovrapprezzo trasferita sugli acquirenti indiretti». Tali linee guida («Linee guida per i giudici nazionali in ordine alle modalità di stima della parte del sovrapprezzo trasferita sull’acquirente indiretto», 2019/C 267/07), lungi dall’occuparsi solo dei profili di quantificazione del danno, forniscono spunti anche in tema di onus probandi, precisando (nota 18 a pag. 11) che il danneggiato (i.e. l’acquirente indiretto) può provare la sussistenza dell’intesa anticoncorrenziale «facendo riferimento agli effetti vincolanti di una decisione della Commissione o di un’autorità nazionale garante della concorrenza». Il vincolo derivante dalla decisione amministrativa, dunque, sembra destinato ad operare anche in questi peculiari giudizi risarcitori. Ciò è fonte di non trascurabili criticità sul fronte dell’interesse a ricorrere delle imprese partecipanti all’intesa. Tale interesse, infatti, sembra destinato ad assumere i connotati di un interesse potenziale avente ad oggetto la “paralisi” del meccanismo presuntivo che potrebbe determinarsi nell’ambito di un novero estremamente ampio e imprevedibile di giudizi risarcitori, attivabili anche da soggetti che non abbiano avuto alcun rapporto negoziale con le imprese destinatarie del provvedimento dell’Autorità, per l’appunto gli acquirenti indiretti. 62 Di diverso avviso Goisis, L’efficacia di accertamento autonomo del provvedimento AGCM: profili sostanziali e processuali, in Dir. proc. amm., 2020, 88-89, che invece ravvisa la sussistenza dell’interesse al ricorso, evidenziando, quale possibile effetto lesivo dell’accertamento compiuto dall’AGCM, la preclusione dell’operatore alla partecipazione ad eventuali successive gare pubbliche. Questa lettura non convince perché l’art. 7 limita all’eventuale sede risarcitoria l’effetto di definitivo accertamento prodotto dal provvedimento dell’AGCM. In coerenza con questo dato letterale la recente giurisprudenza in materia di contratti pubblici ha puntualizzato che la stazione appaltante, a fronte di un provvedimento dell’AGCM che accerti la natura anticoncorrenziale di una determinata condotta, sia titolare di un ambito di apprezzamento autonomo, sebbene, ovviamente, contenuto nei limiti del canone

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generali, non ha la dignità di una autentica condizione della azione. Al contempo pare comunque inadeguata la sua qualificazione in termini di interesse di mero fatto: il vincolo presuntivo nel giudizio risarcitorio rappresenta, infatti, una lesione non attuale ma diretta, sebbene consistente in una preclusione rispetto al dispiegarsi della cognizione del giudice civile. Sebbene, dunque, l’interesse in questione non presenti gli elementi caratterizzanti la nozione di interesse ad agire “in purezza”, il principio di effettività della tutela sembra indurre gli interpreti a forzare i limiti della nozione originaria, per adeguarli ad uno scenario di intersezioni tra public e private enforcement che, non a caso, non è stato concepito dal legislatore nazionale. Questo adeguamento, tuttavia, difficilmente può avvenire in assenza di spunti di diritto positivo, dei quali si avverte un urgente bisogno, proprio per scongiurare scenari di illegittimità costituzionale, nonché di contrasto con la Cedu. Ma non è tutto. L’aspetto più delicato, con riferimento alla posizione del convenuto di un giudizio risarcitorio per danno da condotta anticoncorrenziale, concerne l’intensità del sindacato del giudice amministrativo relativamente alle risultanze del procedimento amministrativo. Il tema in parte esula dall’oggetto della presente trattazione, e verrà pertanto menzionato solo per le sue connessioni con il giudizio risarcitorio. L’art. 7 del d. lgs. 3/2017 dispone che il sindacato del g.a. sul provvedimento dell’Autorità Antitrust sia limitato «ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità». La norma non vanta alcuna premessa nella direttiva europea del 2014: la scelta (o il tentativo) di limitare la profondità del sindacato del g.a. è, dunque, frutto di una autonoma scelta del legislatore nazionale, che appare in controtendenza rispetto alla giurisprudenza Cedu in tema di full jurisdiction. La giurisprudenza e la dottrina nostrana hanno, infatti, tentato di arginare le conseguenze della improvvida scelta del legislatore nazionale, seguendo percorsi ermeneutici diversi. La giurisprudenza ha proposto una interpretazione costituzionalmente orientata nonché “adeguata” rispetto sia ai principi del diritto europeo che alle posizioni della giurisprudenza Cedu. In concreto, secondo una recente e innovativa pronuncia del Consiglio di Stato63, il tenore dell’art. 7, pur infelice dal punto di vista linguistico, non avrebbe alcun effetto limitativo sulla profondità del sindacato del g.a. dal momento che le norme di diritto sostanziale che “tipizzano” le condotte anticoncorrenziali forniscono elementi descrittivi di un fatto storico, rispetto al quale il compito del giudice amministrativo consisterebbe nella mera operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella tipizzata. In quest’ordine di idee il problema della profondità del sindacato sembrerebbe destinato a perdere di consistenza: il sindacato del g.a. verrebbe sostanzialmente equiparato, nelle modalità

di ragionevolezza (evocato, infatti, di recente da Cons. St., Sez. Sez. V, 24 gennaio 2020, n. 580). Anche le linee guida n. 6 di Anac confermano la sussistenza di profili di apprezzamento in capo alla stazione appaltante che «deve valutare» (si legge a pagina 6) il contenuto dei provvedimenti dell’AGCM. Su tale valutazione, ovviamente, potrà esprimersi il sindacato del giudice amministrativo, in tal senso sollecitato dall’ impugnazione di un ipotetico provvedimento di esclusione. 63 Cons. St., Sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990. Tra i primi commenti a questa sentenza si veda: Colangelo, Antitrust, regolazione ed incertezza scientifica: riflessioni a margine della sentenza del Consiglio di Stato nel caso Avastin-Lucentis, in Rivista della regolazione e dei mercati, 2019, fasc. 1.

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della sua esplicazione, a quello del giudice civile che «nelle azioni risarcitorie cd. stand alone (…) è chiamato a verificare direttamente ed in prima persona i presupposti dell’illecito, senza che occorra alcuna intermediazione di potere pubblico». L’equiparazione del sindacato del g.a. sul provvedimento dell’Autorità al sindacato del giudice del risarcimento soddisfa una istintiva pulsione verso la giustizia sostanziale: quella che ci induce a ritenere che il convenuto in un giudizio risarcitorio attivato con azione stand alone debba beneficiare dello stesso standard di tutela giurisdizionale di un convenuto in un giudizio risarcitorio attivato con un’azione follow on. Cionondimeno l’equiparazione prospettata dalla giurisprudenza in esame sottintende una volontà di correzione del dato normativo che esorbita dal perimetro delle prerogative della giurisdizione. Non sembra, in altre parole, possibile obliterare il fatto che l’intento del legislatore fosse proprio quello di “impermeabilizzare” l’accertamento compiuto dall’Autorità rispetto al successivo sindacato, sia quello dinnanzi al g.a. sia quello (eventuale) di natura risarcitoria dinnanzi all’a.g.o. Per questa ragione la disparità tra la cognizione del giudice del risarcimento a seguito di azioni follow on rispetto a quella relativa alle controversie che scaturiscono da azioni stand alone non può essere considerata come una sorta di effetto collaterale (neutralizzabile in via interpretativa) della norma nazionale, ma consiste proprio nel deliberato (sebbene discutibile) obiettivo sotteso alla peculiare efficacia probatoria assegnata dalla norma in questione all’accertamento amministrativo della condotta anticoncorrenziale64. Anche la dottrina si è impegnata nel tentativo di neutralizzare le conseguenze in termini di deficit tutela che, di primo acchito, sembrerebbero destinati a prodursi, ai danni dei destinatari dei provvedimenti Antitrust, in ragione del tenore dell’art. 7 cit. In quest’ottica si è osservato che65 le limitazioni ivi previste al sindacato del g.a., essendo espressamente riferite con riferimento al giudizio di legittimità, sarebbero di fatto inoperanti, dal momento che l’art. 134 c.p.a. assegna alla giurisdizione di merito il sindacato sulle sanzioni

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Peraltro, le interferenze tra public e private enforcement non si riscontrano solo sul fronte della prova della condotta anticoncorrenziale, ma toccano anche il profilo della quantificazione del danno, di competenza del giudice del risarcimento. Sul punto il considerando 46 della direttiva 2014/104/UE dispone che «Gli Stati membri dovrebbero assicurare che, su richiesta, le autorità nazionali garanti della concorrenza possano fornire orientamenti riguardo alla quantificazione». Il D.Lgs. n. 3/2017 ha recepito questo spunto stabilendo, all’art. 14 co. 3, che «Il giudice può chiedere assistenza all’Autorità garante della concorrenza formulando specifiche richieste sugli orientamenti che riguardano la quantificazione del danno. Salvo che l’assistenza risulti non appropriata in relazione alle esigenze di salvaguardare l’efficacia dell’applicazione a livello pubblicistico del diritto della concorrenza, l’Autorità garante presta l’assistenza richiesta nelle forme e con le modalità che il giudice indica sentita l’Autorità medesima». La previsione sembra lasciare pochi dubbi sul fatto che l’intervento dell’Autorità debba intendersi come non vincolante, lasciando, dunque, intatto l’apprezzamento del giudice in merito al quantum del danno da risarcire. Ciò non toglie che tale intervento comunque rifletta la tendenza a coinvolgere l’Autorità nel processo decisionale che fa capo al giudice civile, che sotto molteplici punti di vista vede compressa, o comunque condizionata la propria, cognizione. Piuttosto oscuro, nel dettato della norma nazionale sopracitata, è il riferimento al carattere inappropriato della richiesta in relazione (non alle caratteristiche del giudizio risarcitorio, bensì …) all’obiettivo pubblicistico di salvaguardare l’efficacia dell’applicazione del diritto della concorrenza. Non si comprende, infatti, come l’eventuale supporto in favore del giudice del risarcimento potrebbe ostacolare le funzioni regolatorie facenti capo all’Autorità, se non, banalmente, in termini di sottrazione di tempo ed energie. In dottrina si veda recentemente Vese, Pienezza della giurisdizione e limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’Autorità Antitrust alla luce della normativa europea e italiana sul private enforcement, in questa Rivista, 2019, n. 3. 65 Goisis, Il canone della full jurisdiction, tra proteiformità e disconoscimento della discrezionalità tecnica come merito. Riflessioni critiche sull’art. 7, co. 1, d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, in Il controllo di full jurisdiction, cit., 338.

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AGCM. Questa lettura persegue l’obiettivo di “correzione” della norma in esame facendo leva su quella che in buona sostanza sembra essere una svista lessicale (il richiamo alla giurisdizione di legittimità). Questa “svista” tuttavia, non sembra possa essere eccessivamente enfatizzata. In primo luogo perché, proprio trattandosi di una palese improprietà lessicale, non è improbabile che su di essa si appuntino successivi interventi correttivi da parte dello stesso legislatore. Tali interventi in concreto, peraltro, neppure sembrano allo stato utili o necessari, perché la “neutralizzazione” della norma in questione è già ampiamente concretizzata dalla giurisprudenza, che ad oggi circoscrive il sindacato di merito al tema del quantum della sanzione. Questa linea interpretativa è discutibile66 sul piano dogmatico (nonostante le sue autorevoli premesse). Tuttavia, in disparte della sua debolezza euristica, resta impregiudicato il fatto che tale impostazione ha indubbiamente ispirato il tenore dell’art. 7, che con ogni probabilità sarebbe stato diverso in un contesto giurisprudenziale incline ad interpretare giurisdizione di merito in materia di sanzioni in modo più ampio (ossia come idonea a comprendere non solo la quantificazione della sanzione ma anche l’accertamento sulla violazione della disciplina in tema di concorrenza). Inoltre, e soprattutto, resta scoperto il fronte dei provvedimenti di accertamento dell’Antitrust cui non si accompagni l’irrogazione di alcuna sanzione: in questo caso l’argine della giurisdizione di merito non può operare, e torna quindi a farsi sentire il problema dei limiti imposti dall’art. 7 cit. alla cognizione del g.a. in sede di legittimità. Lo stesso legislatore nazionale sembra, invero, consapevole delle criticità che il meccanismo congegnato dall’art. 7 (vincolo della decisione amministrativa in sede risarcitoria e limitata profondità del sindacato del g.a. sulla decisione medesima) porta con sé in termini di vulnus ai principi costituzionali in tema di esercizio della giurisdizione e accesso alla tutela. Questa consapevolezza emerge, in particolare, nella relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, ove si indica che, in base a una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 7, comma 1, del futuro decreto, si deve escludere che il giudice civile sia in ogni caso vincolato da una decisione dell’AGCM divenuta definitiva, anche nell’ipotesi in cui a fronte di una “evidente illegittimità” il giudice ritenga “irrimediabilmente viziato” il provvedimento. In tale ipotesi, considerata dalla relazione allo schema di decreto “residuale se non eccezionale”, fermo restando che la decisione non può più essere contestata dall’autore della violazione, il giudice del risarcimento dovrebbe mantenere la possibilità di discostarsene nella singola controversia sottoposta al suo sindacato. La sensazione che si ritrae dalle righe che precedono è quella di un maldestro tentativo di “correzione del tiro”. Ciò per molteplici ragioni, che in questa sede possono essere solo assertivamente elencate: (I) la palese inidoneità della relazione di accompagnamento ad introdurre regole sostanzialmente derogatorie rispetto alla lettera della legge (a nulla rilevando le nobili finalità di ordine costituzionale sottese al tentativo di deroga); (II) la contrarietà di una simile deroga rispetto alla “retrostante” normativa europea (il riferimento è

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In termini critici: Ramajoli, Le forme della giurisdizione: legittimità, esclusiva, merito, cit., 193.

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all’art. 9 della direttiva 2014/104/UE, che non conosce temperamenti in ordine al vincolo della decisione dell’Autorità in sede di giudizio risarcitorio); (III) il grado di incertezza che una deroga di questo tipo (ove comparisse nella sede consona, ossia nell’art. 7 anziché nella relazione di accompagnamento) imprimerebbe al sistema, a causa del generico riferimento al carattere eccezionale dell’ipotetico “azzeramento del vincolo” derivante dalla palese illegittimità della decisione amministrativa (riscontrata, peraltro, d’ufficio o su eccezione di parte? Della stessa parte, peraltro, che avrebbe lasciato divenire inoppugnabile il provvedimento Antitrust). Non è, tuttavia, solo rispetto al destinatario del provvedimento Antitrust (potenziale convenuto in un giudizio risarcitorio attivato con azione follow on) che si profilano criticità in termini di pienezza della tutela. Anche il danneggiato, infatti, vede condizionata la possibilità di fruire della tutela risarcitoria dagli esiti di un procedimento amministrativo del cui avvio potrebbe non aver avuto, a suo tempo, notizia (a meno che, ovviamente, il danneggiato in questione non avesse assunto le vesti del denunciante dinnanzi all’Antitrust67) e i cui esiti non sono da lui impugnabili davanti al g.a., in quanto non direttamente lesivi. Sul punto, invero, si rende necessaria una puntualizzazione. Nei precedenti capoversi si è affermato che il vincolo rispetto alla cognizione del giudice del risarcimento si determina soltanto a fronte di un accertamento “in positivo” della condotta anticoncorrenziale da parte dell’Autorità. Questa lettura non elide, comunque, il problema della tutela fruibile in sede civile. Il punto delicato risiede nel fatto che, in base all’art. 7 cit., la decisione dell’Autorità esprime un vincolo rispetto alla cognizione dell’a.g.o. per quanto concerne «la natura della violazione e la sua portata materiale». Ebbene, nel caso in cui il danneggiato ritenga che la portata materiale della violazione (e dunque la sua gravità) sia stata sottostimata dalla decisione amministrativa, gli strumenti di reazione a sua disposizione rischiano di essere sostanzialmente inesistenti. Difficilmente praticabile può considerarsi l’impugnazione dinnanzi al g.a., se non al prezzo di una radicale rivisitazione delle categorie delle condizioni dell’azione, rivisitazione che – tuttavia – non pare percorribile in assenza di spunti di diritto positivo. Al contempo, è innegabile che la sottovalutazione della portata della condotta anticoncorrenziale da parte dell’Autorità sia destinata ad incidere sul quantum (se non addirittura sull’an) del risarcimento, nonostante l’art. 7 cit. espressamente riservi alla cognizione del giudice civile il profilo inerente la quantificazione del danno e, a monte, il riscontro sulla sussistenza dello stesso. Il danneggiato, quindi, vede condizionate le proprie prospettive di tutela in ragione di un accertamento amministrativo rispetto al quale non ha modo di sollecitare alcun sindacato giurisdizionale68.

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Nel caso in cui il danneggiato non sia colui che abbia segnalato la condotta anticoncorrenziale all’Autorità si parla di azione risarcitoria “quasi follow on”. 68 Il tema del vincolo determinato dalla decisione amministrativa nel giudizio risarcitorio si pone anche nelle ipotesi in cui il procedimento dinnanzi all’Antitrust si concluda con la sottoscrizione di impegni. La giurisprudenza più risalente attribuiva ad essi la portata di confessione stragiudiziale: si veda ad es.: Cons. St., Sez. VI, 20 novembre 2011, n. 4393. Si tratta, tuttavia, di una

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Inoltre, non ultimo, residua il problema del potere di autotutela di cui è titolare l’Autorità, e delle conseguenze dell’esercizio dello stesso sul giudicato risarcitorio. Il potere di ritirare o rideterminare i contenuti di un atto di accertamento non può essere seriamente messo in discussione, sia per ragioni di teoria generale che per esigenze di natura pratica aventi ad oggetto la tutela dei soggetti interessati dagli accertamenti in questione. Al contempo, sul piano tecnico, il problema che si pone è quello dell’intangibilità del giudicato civile, formatosi anche in forza del vincolo espresso (per l’appunto in sede risarcitoria) dall’atto di accertamento oggetto dell’iniziativa di ritiro o modifica. Il ricorso allo strumento della revocazione parrebbe dunque necessario, ma, stando alla lettera dell’art. 395 c.p.c. non praticabile. La fattispecie de qua, infatti, non rientra nell’ipotesi di errore di fatto revocatorio di cui alla lettera 4 del co. 169, che la giurisprudenza intende come errore derivante da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto materiale degli atti del giudizio. Né, per converso, la fattispecie in esame può essere ricondotta all’ipotesi contrassegnata dalla n. 3 del comma 1 dell’art. 395 c.p.c., poiché essa si riferisce al ritrovamento in un momento successivo allo svolgimento del giudizio di uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre, il che chiaramente presuppone che i documenti in questione fossero già esistenti al momento del giudizio70. Del resto, ogni tentativo di interpretazione estensiva delle ipotesi di revocazione sarebbe destinato ad entrare in rotta di collisione con la giurisprudenza costituzionale che, chiamata a valutare la legittimità dell’art. 305 c.p.c. nella parte in cui non prevede come causa di revocazione il contrasto della sentenza con la sopravvenuta giurisprudenza Cedu, ha puntualizzato in termini generali come «nel nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore»71. L’approccio è chiaro: se si mette in discussione, anche in nome di importanti e condivisibili obiettivi di giustizia sostanziale,

impostazione superata. Del resto, per quanto in questa sede rileva, né la direttiva del 2014 né il D.Lgs. n. 3/2017 prevedono che gli impegni equivalgano ad una decisione di accertamento della condotta anticoncorrenziale. Ciò non implica, però, che essi siano considerati tamquam non esset dalla giurisprudenza civile, che anzi tende a riconoscere loro un peculiare rilievo probatorio. Si veda, ad es: Trib. Milano, 3 ottobre 2013, n. 12227, in cui si legge che: «anche alla decisione dell’AGCM con cui sono rese vincolanti le misure proposte dalle parti può riconoscersi in sede civile il valore di prova privilegiata quanto alla posizione rivestita dalla parte sul mercato ed al suo abuso». Queste affermazioni si affiancano tuttavia ad altre non altrettanto nitide (Trib. Milano, 23 dicembre 2019, n. 11893, nonché nella giurisprudenza amministrativa: Tar Lazio, Sez. I, 7 aprile 2008, n. 2900). In dottrina si rinvia a: Rabai, La conclusione del procedimento sanzionatorio antitrust mediante accettazione di impegni. Considerazioni sul rapporto tra public e private enforcement, in Dir. amm., 2018, 165. 69 Cons. St., Sez. V, 5 maggio 2016, n. 1824, in cui si puntualizza come l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli articoli 106 c.p.a. e 395, co. 1, n. 4 c.p.c., debba rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa. In termini anche: Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2015, n. 2431. 70 Cass., Sez. lav., 20 settembre 2012, n. 15860; Cons. St., Sez. VI, 13 novembre 2017, n. 5195; id., Sez. III, 29 settembre 2014, n. 4546. 71 Corte cost., 26 maggio 2017, n. 123, punto 17.

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la tassatività delle fattispecie di revocazione ad essere ineluttabilmente compromessa sarà la certezza del diritto, e, per essa, la funzione stessa del processo, come sede per la composizione delle controversie in vista di un sereno e non (più) contestabile esercizio delle situazioni soggettive riconosciute alle parti in causa. Meno convincente, invero, è il self restraint della Corte costituzionale, che sul punto avrebbe potuto pronunciare una sentenza di carattere additivo. Ma questa, come si dice in narrativa, è un’altra storia. Quel che in questa sede occorre rilevare è il fatto che, allo stato, la non praticabilità della revocazione relativa al giudicato risarcitorio, in caso di ritiro o modifica dell’accertamento dell’Antitrust, se da un lato deriva – come si è visto – dall’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 395 c.p.c., dall’altro pone un problema grave, quello dell’evidente deficit di tutela a discapito dell’impresa interessata dalle decisioni Antitrust. Deficit che pare destinato a durare fintantoché ad esso non porrà rimedio il legislatore, o la Corte Costituzionale attraverso, per l’appunto, una pronuncia di carattere additivo. Il quadro finora descritto, e le annesse importanti criticità, riflettono una precisa cultura di fondo, quella animata da una sconfinata fiducia nelle Autorità di settore e, di contro, da una tangibile diffidenza rispetto al circuito della decisione giurisdizionale. Diffidenza che, purtroppo, si autoalimenta: la contrazione degli ambiti di cognizione del giudice civile in sede risarcitoria e, al contempo, del giudice amministrativo in tema di impugnazione di provvedimenti di public enforcement, oltre ad essere frutto di un comune seme culturale, è un elemento che comporta un indebolimento, della credibilità stessa del potere giurisdizionale come sede di protezione sia rispetto all’esercizio arbitrario dei pubblici poteri che rispetto alle condotte anticoncorrenziali poste in essere dagli attori del mercato.

5. Conclusioni. La disamina sinora svolta ha avuto ad oggetto fattispecie eterogenee, il che rende difficile formulare conclusioni generali. L’impressione che, ad ogni modo, emerge dall’analisi ha a che fare con una sorta di disillusione. Qual è l’oggetto di tale disillusione? Il mito del giudizio nei confronti della p.a. come giudizio rapporto, da un lato, e il risvolto di tale mito sul fronte della giurisdizione, ossia l’idea che il giudice ordinario, per ragioni culturali e di sistema, sia in grado di assicurare maggiore effettività alla tutela, per l’appunto innescando l’auspicata transizione dal modello del giudizio dell’atto al giudizio sul rapporto. La fragilità di questo duplice convincimento emerge con particolare evidenza adottando come punto di vista la dicotomia forma/sostanza. I giuristi più sensibili individuano in essa uno dei più insidiosi espedienti per conservare aree di sostanziale insindacabilità, rispetto alle quali si ritiene che il giudice amministrativo assuma le vesti di rigido difensore. Di qui l’idea che il giudizio ordinario possa rappresentare una sede in cui sperimentare forme di tutela più avanzate, ossia più capaci di perseguire la giustizia del caso concreto. Questo convincimento, tuttavia, si scontra con un dato di realtà di segno diverso. Il rispetto delle garanzie procedimentali, se viene in rilievo in un giudizio non focalizzato sul-

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la legittimità dell’atto ma sulla giuridicità/antigiuridicità del comportamento, subisce una sorta di torsione finalistica. In concreto la procedura, e la portata garantistica che ad essa si accompagna, rischia di trasformarsi da mezzo di ampliamento dell’area del giustiziabile a schermo in grado di interferire con il pieno dispiegarsi della cognizione giudiziale. Se l’oggetto del giudizio non è più il potere (per come esso si esprime nell’emanazione di un provvedimento) ma il comportamento, ecco che i profili attinenti al “come” della decisione rischiano di relegare in una sorta di cono d’ombra i profili inerenti il contenuto della decisione medesima. Questo paradossale effetto non può essere frettolosamente ascritto ad una diversa cultura giuridica di cui, in ipotesi, il giudice civile sarebbe portatore. Esso, al contrario, è il risultato di una scelta giuridica, quella di cambiare l’oggetto del giudizio (e dunque, ma solo conseguentemente, la sede dello stesso): dal potere al comportamento. È questo slittamento a far sì che nel metaforico muro portante dello stato di diritto rappresentato dal diritto alla tutela si aprano pericolose crepe, su cui è inutile, se non addirittura dannoso, il tentativo di rimediare con lo stucco posticcio della retorica sul giudizio sul rapporto. Quanto precede vale anche con riferimento al tema, più specifico, della cognizione sul risarcimento dei danni da condotta anticoncorrenziale, condizionata al rispetto delle risultanze dell’istruttoria condotta in sede amministrativa (con l’eventuale appendice rappresentata dal giudizio impugnatorio sulla decisione dell’Autorità Antitrust). In questo caso è la penna del legislatore (europeo) ad aver ristretto l’ambito della cognizione del giudice ordinario. Ciò, tuttavia, non rappresenterebbe un problema, ma forse persino un’opportunità, laddove tale condizionamento avesse avuto solo l’effetto di collocare in un contesto pubblicistico (il procedimento sanzionatorio e l’eventuale processo sugli esiti del primo) l’apprezzamento sul carattere anticoncorrenziale della condotta dannosa. In concreto, tuttavia, ad essersi verificato è l’effetto opposto, ossia quello di un drastico, ma consapevole, effetto di contrazione dell’area del giustiziabile, ottenuto grazie ad una norma che esclude i profili tecnici opinabili dalla cognizione del giudice amministrativo, quale giudice della legittimità del potere sanzionatorio attivato dall’Autorità Antitrust. Il giudizio amministrativo “depotenziato” si riverbera, dunque, in un giudizio risarcitorio (in sede civile) incapace di erogare una tutela effettiva, con buona pace della narrazione prevalente che vede nel giudice ordinario la chimera del giudizio a cognizione piena.

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Per una riqualificazione dei poteri sanzionatori del giudice civile come nuova ipotesi di tutela costitutiva necessaria, a contenuto oggettivo Sommario : 1. Rilievi introduttivi e premesse metodologiche. – 2. Tipologie di pe-

ne irrogabili dal giudice civile e loro rapporti. – 3. Le cc.dd. Sanzioni pecuniarie processuali. – 4. Sulla possibile natura penale delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 7/2016. – 5. La natura civile delle pene conseguenti alle condotte depenalizzate quale condizione di legittimità costituzionale del nuovo modello sanzionatorio. – 6. Una nuova ipotesi di tutela costitutiva necessaria, tra incremento dei poteri del giudice civile e deficit di effettività. – 6.1. Il giudizio sanzionatorio ex art. 8 D.Lgs. n. 7/2016 come forma di giurisdizione a contenuto oggettivo. – 7. Assenza di poteri “para-penalistici” del giudice civile ed immutata funzione del processo di cognizione.

I recenti interventi normativi in tema di depenalizzazione e pene pecuniarie, nonché il diffondersi di nuovi orientamenti giurisprudenziali in materia di punitive damages, hanno favorito l’incremento dei poteri del giudice civile. L’autrice intende verificare se le novità normative e giurisprudenziali abbiano modificato la funzione del processo civile e rafforzato il ruolo del giudice. Ci si chiede, in particolare, se questi sia abilitato ad irrogare sanzioni penali e se la fisionomia del processo di cognizione risulti modificata, in quanto esso, oltre a costituire il luogo di accertamento, costituzione, modificazione od estinzione dei rapporti tra privati, ovvero di erogazione della tutela di condanna, sia altresì capace di assumere funzione deterrente, divenendo finanche il luogo di repressione di fatti depenalizzati, ma che conservano un chiaro disvalore sociale. Il quesito sorge alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui l’accertamento della natura giuridica delle sanzioni va condotto non solo in base al nomen iuris, bensì sulla scorta di ulteriori criteri, ed a prescindere dal fatto che esse siano comminate nel corso di un processo civile. La risposta a tali interrogativi passa per il tentativo di razionalizzazione e riordino della materia, attraverso l’elaborazione di categorie omogenee di sanzioni civili, pene pecuniarie e sanzioni processuali civili. Recent jurisprudence and regulatory action about decriminalization, fines and punitive damages have increased the power of the civil judge. The author aims to verify if new law and jurisprudence have mod-

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Marina Sfarzo

ified the purpose of civil proceeding and the role of the civil Courts. She wonders if a civil judge could now impose penal sanctions and if the functions of civil proceedings are increased as well, because of the repression of illicit facts different from torts. The issue arises from the jurisprudence of the European Court of Human Rights, which allows to find out the juridical nature of the punishment according to several parameters, apart from the name of the sanction and the type of the proceeding. In order to answer to these questions it is necessary to try to re-order the matter and process homogenous categories of civil sanctions, fines and procedural sanctions.

1. Rilievi introduttivi e premesse metodologiche. I recenti interventi normativi (D.Lgs. n. 7/20161 e D.Lgs. n. 3/20172) ed il diffondersi di nuovi orientamenti giurisprudenziali in materia di punitive damages3 – significativamente coevi ai primi – hanno reso particolarmente complesso il quadro normativo e giurisprudenziale in materia di sanzioni irrogabili dal giudice civile. L’introduzione di fattispecie sanzionatorie nuove ha consentito un incremento dei poteri dell’autorità giurisdizionale, nonché il relativo inasprimento, dovuto alla particolare afflittività4 delle pene pecuniarie che il giudice civile è ora abilitato ad applicare. Tale rafforzamento, a propria volta, si riferisce ad un potere già sensibilmente implementato in via pretoria, ancorché nella contigua materia delle pene private, ove la giurisprudenza aveva riconosciuto al giudice civile il potere di ridurre ex officio il quantum della clausola

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Tale decreto ha derubricato i reati di falsità in scrittura privata ed in foglio firmato in bianco (artt. 485 e s. c.p.), di ingiuria (art. 594 c.p.), di sottrazione di cose comuni (art. 627 c.p.), di appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito (art. 647 c.p.). Le rispettive condotte, se dolose, integrano ora dei meri illeciti civili ed obbligano l’autore del fatto al pagamento di sanzioni pecuniarie. Ai sensi degli artt. 8 e s. del D.Lgs. 7/2016, del giudizio di risarcimento e del procedimento di irrogazione della sanzione conosce il giudice civile: ciò ha prodotto un notevole effetto “di sistema”. Il D.Lgs. n. 3/2017 disciplina il diritto al risarcimento in favore di chiunque abbia subito un danno a causa di una violazione del diritto della concorrenza da parte di un’impresa o di un’associazione di imprese. Le norme del secondo capo contengono la disciplina di taluni aspetti procedurali del giudizio risarcitorio prevedendo, in particolare, la comminazione di ingenti sanzioni pecuniarie alla parte che rifiuti l’esibizione in giudizio di cose o documenti, disposta dal giudice nel corso dell’istruttoria. Più in particolare, l’art. 8 del decreto in esame dispone che: «alla parte o al terzo che rifiuti senza giustificato motivo di rispettare l’ordine di esibizione del giudice a norma dell’articolo 3 o non adempia allo stesso il giudice applichi una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000 a euro 150.000 che è devoluta a favore della Cassa delle ammende». La norma prevede altresì che «salvo che il fatto costituisca reato, alla parte o al terzo che distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio di risarcimento il giudice applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000 a euro 150.000 che è devoluta a favore della Cassa delle ammende. Alla parte o al terzo che non rispetta o rifiuta di rispettare gli obblighi imposti dall’ordine del giudice a tutela di informazioni riservate a norma dell’articolo 3, comma 4, il giudice applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000 a euro 150.000 che è devoluta a favore della Cassa delle ammende. Alla parte che utilizza le prove in violazione dei limiti di cui all’articolo 5 il giudice applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000 a euro 150.000 che è devoluta a favore della cassa delle ammende». Cass., ord. 16 maggio 2016, n. 9978, con commenti di: L. Lambo, I danni punitivi e l’intenzionalità dell’offesa, in Il foro italiano, 2017, I, 5, 1730 ss.; A. Di Majo, Riparazione e punizione nella responsabilità civile, in Giurisprudenza italiana, 2016, 8-9, 1854 ss.; E. D’Alessandro, Riconoscimento di punitive damages: in attesa delle Sezioni Unite, in Int’l Lis, 2/2016, 90 ss. e in Il foro italiano, 2016, I, 6, 1981 ss. (Riconoscimento in Italia di danni punitivi: la parola alle Sezioni Unite); C. Scognamiglio, I danni punitivi e le funzioni della responsabilità civile, in Il corriere giuridico, 2016, 7, 909 ss.; M. Gagliardi, Uno spiraglio per i danni punitivi: ammissibile una sfumatura sanzionatoria nel sistema di responsabilità civile, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2016, I, 10, 1285 ss. Fino a 12000 euro, ai sensi degli artt. 3 e 4 D.Lgs. n. 7/2016 e fino ad euro 150000, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs. N. 3/2017.

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penale5 ed, ancorché indirettamente, quello della caparra confirmatoria6, inaugurando un orientamento che rivela una vocazione pubblicistica delle pene private e culminato nel 20177, con riferimento ai danni puntivi. La moltiplicazione degli strumenti sanzionatori e la più marcata rilevanza pubblicistica che le pene private sono venute assumendo impongono allora un’operazione di riordino e razionalizzazione della materia. Quest’ultima verrà condotta dalla prospettiva dei poteri del giudice civile, la quale, per un verso, risulta innovativa, atteso che in dottrina ci si è soffermati prevalentemente sul concetto di depenalizzazione sui generis che ha determinato la trasformazione del reato in illecito civile; qui s’intende invece concentrarsi sul possibile nuovo ruolo assunto dal giudice civile. D’altra parte, la suddetta prospettiva non risulta del tutto peregrina in letteratura8, poiché complementare ad una già assunta per lo studio della funzione deterrente del processo civile, alla quale non può assolversi se non dotando il giudice di adeguati poteri sanzionatori9. Invero, il rafforzamento dei poteri del giudice civile è già stato evidenziato in quella indagine espressamente condotta in chiave «teleologica10» e poi corroborata da recenti orientamenti giurisprudenziali. Ci si chiede se tale fenomeno si accompagni ad una nuova ed inedita funzione del processo civile di cognizione, la cui fisionomia risulta sensibilmente modificata, in quanto esso non è più mero luogo di accertamento, costituzione, modificazione od estinzione dei

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Cass. Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128, con commento di R. Rascio, Le sezioni Unite consacrano il potere del giudice di ridurre d’ufficio la penale, in Diritto e giurisprudenza, 2005, 4, 582 e di E.F. Ricci, Sui poteri ufficiosi del giudice in tema di interruzione della prescrizione e di riduzione della penale, in Rivista di diritto processuale, 2006, 2, 715; con nota di A. Palmieri, in Il foro italiano, 2006, 1, 106 ss., e commenti di: A.L. Bitetto, Riduzione “ex officio” della penale: equità a tutti i costi?, in Il foro italiano, 2006, I, 2, 432 ss.; C. Cicala, La riducibilità d’ufficio della penale, in Rivista di diritto privato, 2006, 3, 683 ss.; A. Riccio, Il generale intervento correttivo del giudice sugli atti di autonomia privata, in Danno e responsabilità, 2206, 4, 424 ss.; G. Gandolfi, Il potere di riduzione ad equità della clausola penale può essere esercitato dal giudice anche d’ufficio, in Giurisprudenza italiana, 2006, 12, 2279 ss.; C. Abatangelo, La richiesta di riduzione della clausola penale: un’ipotesi di eccezione in senso lato?, in Rivista di Diritto Civile, 1/2007, 20043 ss. 6 La Corte costituzionale, negando la pronuncia additiva del dato testuale di cui all’art. 1385 c.c., ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionalità della norma, in ragione del potere del giudice civile di rilevare d’ufficio la nullità ex art. 1418 c.c. della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà); la dichiarazione di nullità parziale si risolverebbe, pertanto, in una riduzione ex officio dell’importo della caparra, entro i limiti in cui l’entità della stessa risulti non eccessiva né sproporzionata. Così, Corte cost., ord. 2 aprile 2014, n. 77, in Il foro italiano, 2014, I, 7-8, 2035 ss., con commenti di: R. Pardolesi, Un nuovo super-potere giudiziario: la buona fede adeguatrice e demolitoria, G. Lener, Quale sorte per la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva?, E. Scoditti, Il diritto dei contratti tra fra costruzione giuridica e interpretazione adeguatrice. 7 Cass. Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, in Il foro italiano, 2017, I, 9, 2613 ss., con commenti di: A. Palmieri-R. Pardolesi R. (I danni punitivi e le molte anime della responsabilità civile) – E. D’Alessandro, (Riconoscimento di sentenze di condanna a danni punitivi: tanto tuonò che piove) – R. Simone, (La responsabilità civile non è solo compensazione: punitive damages e deterrenza) – P.G. Monateri, (I danni punitivi al vaglio delle Sezioni Unite.); Ponzanelli G., Polifunzionalità tra diritto internazionale privato e diritto privato, in Danno e responsabilità, 2017, 4, 435 ss.; A. Di Majo, Principio di legalità e di proporzionalità nel risarcimento con funzione punitiva (Risarcimento anche con funzione punitiva), in Giurisprudenza italiana, 2017, 8-9, 1787 ss.; A. Briguglio, Danni punitivi e delibazione di sentenza straniera: “turning point nell’interesse della legge”, in Responsabilità civile e previdenza, 2017, 5, 1597 ss. 8 A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018, passim. 9 Ivi, 22, ove si legge che «l’evoluzione dei giudizi civili nel senso di rafforzare i poteri del giudice...risponde al progresso delle tecniche processuali». 10 A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente, cit., 1, ove l’A. introduce la trattazione dichiarando di condurla in prospettiva teleologica.

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rapporti tra privati, ovvero di erogazione della tutela di condanna, ma è altresì capace di assumere funzione deterrente11 e, probabilmente, diviene finanche il luogo di repressione di fatti depenalizzati, ma che conservano un chiaro disvalore sociale. In altri termini, se è vero che «la moltiplicazione degli strumenti sanzionatori è un indice di cambiamento della funzione del processo12», occorre verificare se a ciò faccia da pendant l’affermazione di un nuovo ruolo del giudice civile. Fatte queste necessarie premesse, lo studio muove da due quesiti fondamentali: ci si chiede se i poteri del giudice civile siano mutati qualitativamente, oltre che quantitativamente, per effetto dell’evidente rafforzamento subito ope legis e, in caso affermativo, se a ciò si accompagni l’emergere di un’ulteriore funzione del processo civile, stricto sensu sanzionatoria.

2. Tipologie di pene irrogabili dal giudice civile e loro rapporti.

La risposta al primo quesito presuppone una puntuale disamina dei tipi di sanzione irrogabili dal giudice civile, soprattutto in quanto trattasi di categorie di conio dottrinale, che sfuggono a criteri classificatori legali predeterminati. La genericità della locuzione “sanzioni civili” impone un’ulteriore precisazione, poiché ad esse si riconducono, promiscuamente, pene private, punitive damages e sanzioni di diritto civile; invero, come condivisibilmente osservato in dottrina, il termine “sanzione” «può ricevere impiego sia in un’accezione estremamente lata, sia attribuendovi un significato più ristretto13». Ai fini che occupano, si ritiene di dover aderire a tale ultima accezione, relegando al margine della trattazione quegli istituti che, a parere di chi scrive, non sono capaci di revocare in dubbio la tradizionale tripartizione del processo civile di cognizione in tutela di mero accertamento, di condanna e costitutiva né, tanto meno, di snaturarlo, rendendolo il luogo di applicazione di sanzioni propriamente penali. L’apparato di sanzioni processuali, già efficacemente rappresentato in dottrina14, sarà allora riconsiderato al netto di: a) Pene private – tra cui possono con certezza esser compresi ben pochi istituti, quali la clausola penale e la caparra penitenziale15 o, al più, le misure di coercizione indiretta16

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Ibidem. A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente, cit., 125. 13 R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie punitive e giusto processo, in Giustizia civile, 2/2019, 379. 14 Ivi, 373 ss.; A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente, cit., passim. 15 sempre che non se ne affermi la prevalente funzione indennizzante-risarcitoria. 16 Che qui si annoverano tra le pene private in considerazione della recente giurisprudenza: l’Adunzanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 7/2019, richiamando la precedente del 2014, n. 15 (entrambe in www.giustizia-amministrativa.it), ha espressamente 12

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– che vengono irrogate dal giudice su istanza di parte, in favore del privato richiedente (e, dunque, sostanzialmente comminate da un privato all’altro17), il cui è importo è pattuito dalle parti e non già liquidato dal giudice nei limiti di una cornice edittale (invero mancante nella struttura della fattispecie18); b) Punitive damages – cui va ascritta anche la misura sanzionatoria prevista all’art. 96, co. 3, c.p.c19 – in quanto, malgrado presentino tratti strutturali analoghi alle sanzioni di diritto civile, come la liquidazione giudiziale del quantum debeatur, in essi, la destinazione dell’importo alla controparte (sostanziale o processuale) comporta un sensibile stemperamento del carattere pubblicistico dell’imposizione. D’altra parte, la stessa determinazione giudiziale e non negoziale dell’importo avviene secondo criteri meramente equitativi (art. 96, co. 3, c.p.c.), ovvero in base a parametri che richiamano l’art. 133 c.p. e che, pertanto, costituiscono meri limiti infra-edittali e giammai una cornice edittale autonoma20, che è invece un elemento strutturale necessario del modello sanzionatorio tout court. A ciò va aggiunto che la causa dell’obbligazione, nei ccdd. punitive damages, non è stricto sensu punitiva, ma la ragione giustificatrice dello spostamento patrimoniale è quella di evitare ingiuste locupletazioni in favore del danneggiante, in applicazione della teoria

qualificato “pena privata” l’omologo istituto della penalità di mora, previsto all’art. 114 c.p.a. Se si afferma che la condanna al pagamento della pena pecuniaria comminata alla PA su richiesta privato è pena “privata”, si ha maggior ragione di ritenere che tale sia anche quella che, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., un privato procuri ad un altro. In dottrina, nel senso della qualificazione della misura di cui all’art. 614 bis c.p.c. come pena privata, v. F. De Stefano, Note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme sul processo esecutivo ed in particolare dell’art. 614 bis c.p.c., in Rivista dell’esecuzione forzata, 4, 2009, 529 ss. In realtà, a parere di chi scrive, la dubbia collocazione delle astreintes nell’alveo delle pene private sorge in quanto il potere del giudice che si frappone tra l’istanza del creditore ed il sorgere dell’obbligazione accessoria pare troppo “invadente” per poter ascrivere con certezza le misure coercitive indirette alla categoria in esame, e ciò malgrado l’art. 614 bis c.p.c. preveda che il giudice «fiss[i]» la somma dovuta al creditore, quasi fosse un potere vincolato. La funzione precipua della misura coercitiva indiretta è quella, prevalentemente compulsoria, finalizzata a coartare l’adempimento, come statuito dalla Corte di cassazione con la sentenza del 15 aprile 2015, n. 7613, annotata da V. Giugliano, nella Rivista di diritto processuale. Ivi si evidenzia che la astreinte non ripara il pregiudizio in favore di chi l’ha subito, ma minaccia un danno nei confronti di chi si comporterà nel modo indesiderato, il quale sarà dunque condotto a preferire l’adempimento. Conf., in dottrina A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente, cit., 206. Pertanto, l’aver svincolato la condanna accessoria dal presupposto dell’infungibilità della prestazione disattesa non vale a conferire carattere stricto sensu sanzionatorio all’istituto di cui all’art. 614-bis c.p.c., il quale potrebbe, al più, venire a configurarsi in termini di punitive damage, come invero sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità (per cui v. amplius nt. 17). 17 Cfr. G. Branca, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 1975, 659. 18 O, comunque, liquidato dal creditore, venendo completamente a mancare la valutazione del giudice analoga a quella di cui all’art. 133 c.p. Trattasi della clausola penale, della caparra penitenziale e, probabilmente, della penalità di mora, ove l’an debeatur è previsto dalla legge, ma il quantum è liquidato dal creditore; considerazioni parzialmente analoghe valgono per talune fattispecie di punitive damages. 19 Per la (largamente condivisa) riconducibilità della condanna di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c. alla categoria dei danni punitivi, sia consentito rinviare alla citata ordinanza n. 9978/2016, nonché alla precedente sentenza n. 7613/15, in cui la suprema Corte si è fatta carico di «formare [un] elenco per definizione mai completo», cui va senz’altro ricondotto l’art. 96, co. 3, c.p.c. Come rilevato dalle Sezioni Unite che hanno definito la questione ad essa rimessa con l’ordinanza del 2016, «entrambe le pronunce annettono precipuo rilievo […] al novellato art. 96, comma 3, c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una “somma equitativamente determinata”, in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (nel processo amministrativo l’art. 26, comma 2, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104)». Cfr., in dottrina, A. Di Majo, Riparazione e punizione nella responsabilità civile, cit., 1857, ove l’A. qualifica la norma di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c. come indice normativo delle «“sembianze punitive” del rimedio risarcitorio»; nel senso che la fattispecie in esame costituisce «un’ipotesi di sanzione punitiva civile […], sulla falsariga dei punitive damages dei sistemi di common law», v. P. Nappi, in C. Consolo (a cura di), Codice di procedura civile commentato6, sub art. 96, co. III, I, 2018, 1077. 20 Per la questione della prevedibilità del minimo e del massimo edittali quale condizione di legittimità costituzionale dell’istituto delle sanzioni civilli, v. amplius R. Donzelli, op. cit., 397 ss.

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della retroversione degli utili21. Invero, l’istituto dei danni punitivi sottende pur sempre una funzione (prevalentemente) risarcitoria. La curva deterrente-sanzionatoria tracciata dal sistema di responsabilità civile, come emerge dalla motivazione della sentenza delle Sezioni Unite impegnate nella formulazione del principio di diritto ex art. 363, co. 3, c.p.c., non vale a mutare l’essenza riparatoria e compensativa dell’istituto22. c) Al netto, infine, della categoria dottrinale delle “sanzioni processuali23”, finalizzate alla ricerca della verità storica24, poiché esse non hanno carattere pecuniario. Si ritiene che le sanzioni capaci di incidere, almeno potenzialmente, sulla tradizionale funzione del processo civile di cognizione siano quelle caratterizzate da: – l’officiosità del potere di irrogazione; – la natura esclusivamente pecuniaria della sanzione;

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Teoria che trova il proprio terreno di elezione in materia di proprietà industriale: l’art. 125, co. 3, D.L. n. 30/2005 prevede un meccanismo di liquidazione del danno, introdotto con il D.Lgs. n. 140/2006, in forza del quale il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento. Cfr. P. Pardolesi, La retroversione degli utili nel nuovo Codice dei diritti della proprietà industriale, in Diritto industriale, 2005, 37; A. Vanzetti, La restituzione degli utili di cui all’art. 125, n. 3 c.p.i. nel diritto dei marchi, ivi, 2006, 323; G. Casaburi-S. Di Paola, Guida al codice della proprietà industriale, in Il foro italiano, 2005, V, 69; Floridia G., Il codice della proprietà industriale, disposizioni generali e principi fondamentali, in Diritto industriale, 2005, 11; A. Plaia, Proprietà intellettuale e risarcimento del danno, Torino, 2005, passim. Ad analoga ratio, sostanzialmente riconducibile al divieto di arricchirsi cum aliena iactura (v. Iorio C., La retroversione degli utili: fattispecie e disciplina, in Judicium, 4, 2020, passim), risponde la tecnica risarcitoria del danno da illecito antitrust. L’art. 10, co. 2, D.Lgs. n. 3/2017 prevede che «il risarcimento del danno emergente...non supera il danno da sovrapprezzo..., fermo il diritto del soggetto danneggiato di chiedere il risarcimento per il lucro cessante derivante dal trasferimento integrale o parziale del sovrapprezzo». Ed invero, nella Relazione illustrativa del decreto del 2017, si legge che «l’obbligo del risarcimento deve adeguarsi al danno effettivamente subito dalla vittima dell’illecito, che non deve ricevere né più né meno di quanto necessario a rimuovere gli effetti economici negativi dell’illecito». Conf., in dottrina, L.P. Comoglio, Note a una prima lettura del d.lgs. n. 3 del 2017. Novità processuali e parziali inadeguatezze in tema di danno antitrust, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 3/2017, 1010 ss.; Cfr., in senso parzialmente difforme, F. Mezzanotte, Il trasferimento del sovrapprezzo anticoncorrenziale, in Le nuove leggi civili commentate, 1/2018, 223; F. Rossi Dal Pozzo, Trasferimento del sovrapprezzo, in P. Manzini (a cura di), Il risarcimento del danno nel diritto della concorrenza: commento al d.lgs. n. 3/2017, Torino, 2017, 108 ss. 22 Nella citata sentenza n. 16601/2017, al punto 5.1 della motivazione, si legge che «questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una “qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”. Se si completa quest’avvertenza con il richiamo, altrettanto pertinente, all’art. 23 Cost., si può comprendere perché mai, perfino nello stesso ambito temporale, ritornino (l’esempio più significativo: SU n. 15350/15) dinieghi circa la funzione sanzionatoria e di deterrenza della responsabilità civile». 23 Dalle stesse sanzioni processuali sono escluse, per espressa intenzione dell’autore che le ha teorizzate (cfr. A.D. De Santis, op. cit., 133), le nullità e forme di invalidità, già definite come ipotesi che tecnicamente non possono considerarsi sanzioni, ma che si «appalesano […] come la tecnica più raffinata e perfetta di controllo [giudiziale] esercitato dall’ordinamento» (così G. Ponzanelli, voce Pena privata nell’Enciclopedia giuridica Treccani, vol. 25°, Roma, 5). Anche altra dottrina aveva escluso il carattere sanzionatorio di quelle forme di assicurazione dell’efficacia della norma giuridica come, ad esempio, la nullità, la prescrizione, la decadenza, nella misura in cui consistenti in mezzi di attuazione diretta della norma stessa (cfr. zanobini g., Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, 1). Del resto, trattandosi di conseguenze che l’ordinamento fa discendere dall’inosservanza di mero onere (con ciò intendendosi la “subordinazione di uno o più interessi dell’onerato ad un altro interesse di lui, imposta col farne una condizione per il raggiungimento di quest’ultimo” (F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, vol. I, Roma, 1951, 218) è evidente che di sanzione non possa veramente trattarsi. Su un piano intermedio sembra peraltro collocarsi l’invalidità degli atti processuali, pure definibili come “sanzioni” (Cfr. F. Auletta, Nullità e «inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999, 64 ss., 72, 77). 24 A.D. De Santis, op. cit., 124, ove si legge che «solo la verità rende conveniente la predisposizione di un apparato di sanzioni, che, in caso contrario, non potrebbero avere alcuna efficacia dissuasiva, giacché conseguirebbero in base a parametri arbitrari e avrebbero soltanto una ratio punitiva».

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– la destinazione alla Cassa delle ammende e non già al privato; – la tendenziale accessorietà dell’iter sanzionatorio ad altro procedimento, dal momento che la gran parte delle sanzioni pecuniarie processuali costituisce lo sbocco di un subprocedimento volto all’irrogazione della pena. Tali elementi strutturali, in cui sembra concentrarsi il carattere pubblicistico della sanzione25, si riscontrano, a propria volta: i) nelle «sanzioni pecuniarie processuali» – così testualmente definite dall’art. 3 lett. u) del d.P.R. n. 115/2002 (Testo unico in materia di spese di giustizia) – disciplinate agli artt. 54, 67, 118, 220, 226, 255, 257-bis, 408, 476, 709-ter del Codice di procedura civile26, nonché all’art. 6 D.Lgs. n. 3/201727; ii) nelle «sanzioni civili pecuniarie» derivanti da illeciti originariamente penali, ma poi depenalizzati ex D.Lgs. n. 7/2016. Tali istituti, oltre che per l’omogeneità strutturale, presentano forti interconnessioni sul piano storico-sistematico. La tesi per cui le sanzioni introdotte dall’art. 4 del D.Lgs. n. 7/2016 rinvengono il proprio precedente storico in quelle pecuniarie processuali emerge dalla Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 7/2016 e, dunque, da un’interpretazione teleologica della normativa rilevante, nella parte in cui prevede la devoluzione dell’importo alla Cassa delle ammende, ove si legge che «la previsione generale della destinazione del provento della sanzione allo Stato trova, nell’art. 709 ter comma 2, n. 4, c.p.c., un significativo precedente legislativo». Ancora nella Relazione si legge che va richiamato, «come importante precedente di sistema, la disposizione già menzionata dell’art. 709 ter comma 2, n. 4, c.p.c., circa il potere del giudice di condannare il genitore inadempiente in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore proprio della Cassa delle ammende28». È appena il caso di aggiungere che tale ultima norma, introdotta ex L. n. 54/2006, rifluisce, a propria volta, nell’autonoma e tecnica categoria delle pene pecuniarie processuali, di cui al citato d.P.R. n. 115/2002, all’art. 3 lett. u).

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«Una pena che potesse essere irrogata dai privati porrebbe in crisi la stessa concezione della statualità della pena», atteso che la potestà di punire è, nel diritto moderno, una prerogativa esclusiva dello Stato e, pertanto, «non può essere esercitata dai privati, né tanto meno [essere] in funzione della tutela di interessi esclusivamente privati». Così E. Moscati, voce Pene private, nell’Enciclopedia del diritto, XXXII, Milano, 1982, 772, con ricchezza di note, cui sia consentito rinviare per un’esaustiva disamina, tra l’altro, sociologica e filosofica. 26 Tali norme contemplano fattispecie sanzionatorie, rispettivamente, in materia di: ricusazione, custodia, ispezione, giudizi di verificazione e falso, testimonianza, opposizione di terzo, rilascio di copie in forma esecutiva, inottemperanza a provvedimenti giudiziali adottati nell’interesse della prole. 27 Con cui il legislatore ha previsto l’irrogazione di sanzioni, a carico della parte o del terzo, in caso di rifiuto ingiustificato di rispettare l’ordine di esibizione del giudice di cui all’art. 3 del citato decreto, ovvero in caso di distruzione di prove rilevanti, inottemperanza agli obblighi di tutela delle informazioni riservate imposti dal giudice e/o abuso delle informazioni ottenute tramite l’accesso al fascicolo di un’autorità garante. 28 Cfr. lett. C) della Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 7/2016, reperibile in www.penalecontemporaneo.it .

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Pertanto, gli istituti previsti agli artt. 3 e 4 D.Lgs. n. 7/2016 non discendono – come sostenuto da parte della dottrina29, ancorché in base ad un’interpretazione della Relazione al citato decreto pure consentita dal relativo tenore letterale – dalle categorie delle pene private, bensì da altra tipologia di sanzioni irrogate dal giudice civile. Del resto, nemmeno le pene private che non consistono in obbligazioni pecuniarie, poiché troppo difformi, dal punto di vista strutturale, dalle sanzioni risultanti da depenalizzazione, sarebbero capaci di rappresentare un «comodo punto di riferimento per quelle figure che non si riesce a spiegare in modo più soddisfacente30». Emerge che la funzione meramente repressiva del fatto illecito (priva od avulsa da pregiudiziali esigenze risarcitorie del privato) era stata già sperimentata nel processo civile di cognizione proprio in materia di sanzioni pecuniarie processuali, le quali potrebbero dunque esprimere un siffatto potere stricto sensu sanzionatorio del giudice civile.

3. Le cc.dd. Sanzioni pecuniarie processuali. Vale allora la pena ricostruire il sistema delle sanzioni pecuniarie processuali, categoria negletta e però affine, per quanto detto, alle fattispecie sanzionatorie introdotte ex D. Lgs. n. 7/2016. Muovendo, ancora una volta, dall’angolo prospettico di osservazione dei poteri del giudice civile, va rilevato che esse sono espressione dei poteri di polizia attribuiti all’istruttore ex art. 128, co. II, c.p.c. 31. Tuttavia, in taluni casi, svolgono una funzione più simile a quelle delle sanzioni pecuniarie civili risultanti da depenalizzazione, poiché reprimono condotte parzialmente coincidenti con quelle descritte da norme incriminatrici. Mutuando la summa divisio autorevolmente proposta in dottrina, occorre distinguere le cc.dd. «multe per soccombenza»32, cui si ascrivono le pene pecuniarie previste dagli artt. 54; 220; 226; 408; 709 ter c.p.c. – non a caso comminate nei confronti di uno dei soggetti costituitosi in giudizio – da «tutte le altre sanzioni». Queste ultime, irrogabili anche nei confronti di soggetti terzi rispetto al processo, sono disciplinate agli artt. 67; 118; 255; 257 bis, 476 c.p.c., cui si aggiungono le sanzioni extra-codicistiche, introdotte dall’art. 6 D.Lgs. n. 3/2017.

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Cfr. B. Lavarini, I profili processuali dei recenti provvedimenti di depenalizzazione, in Archivio penale, 2016, 3, 846, ove l’A. rileva che «nelle intenzioni del legislatore delegante, il modello sanzionatorio di riferimento era rappresentato, in parte, dalla controversa categoria delle pene private – a cui vengono ricondotti taluni istituti oggi indicati come i “parenti più prossimi” della nuova sanzione (ad esempio la sanzione pecuniaria ex art. 12 l. 8 febbraio 1948, n. 476, e quella ex art. 96 co. 3 c.p.c. 7) –, in parte, dai punitive damages di matrice anglosassone». In senso parzialmente conforme, C. Faone, Le sanzioni civili previste dal D.Lgs. n. 7/2016 tra responsabilità e danno, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 5, 2017, 1729. 30 E. Moscati, voce Pene private, cit., 771. 31 Cfr. S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I-II, sub art. 179, Milano, 1959-1960, 74 s., ove si legge che «la condanna a pena pecuniaria non è che una delle forme in cui si manifesta il potere disciplinare del giudice del processo: forma repressiva accanto e in contrapposto alle forme preventive (es. allontanamento dall’udienza, udienza a porte chiuse, ammonimenti ecc.)». 32 F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, Roma, 1956, 227 s.

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Per una riqualificazione dei poteri sanzionatori del giudice civile

La tesi della natura penale delle pene pecuniarie previste dal Codice di rito è stata sostenuta da una nutrita corrente dottrinale, tanto risalente quanto autorevole. Così, per il Carnelutti, al fine di porre ulteriore freno all’azione delle parti, stimolandone la prudenza, all’obbligo del soccombente per le spese (ed eventuali danni), è aggiunto un obbligo di pagare una somma allo Stato; «tale somma costituisce l’oggetto di una multa che, essendo determinata dalla soccombenza, può chiamarsi multa di soccombenza33; è superfluo aggiungere che si tratta di una pena (cfr. la formula degli artt. 54, co. 3 e 226, co. 1) e perciò di responsabilità penale34 sebbene essa non si accerti nel processo penale e sia meramente oggettiva. […] La multa è imposta talora per la soccombenza rispetto a una questione incidente (art. 54 in tema di ricusazione; art. 220 in tema di verificazione di scrittura; art. 226 in tema di falso documentale)». L’Autore rileva altresì che «non bisogna credere però che rispetto a qualsiasi pretesa punitiva operi il processo penale; di regola è così, ma vi sono delle pene alla cui applicazione si provvede non tanto mediante il processo civile quanto senza il processo penale; tali sono, tra le altre, le pene pecuniarie stabilite, per certe infrazioni di obblighi processuali, dallo stesso codice di procedura civile (es. art. 54, co. III, c.p.c.)». Significativa anche la riflessione sulla natura penale della condanna del consulente tecnico al pagamento di una pena pecuniaria: «succede qui…che il processo civile serve anche al raggiungimento di altro scopo, allo stesso modo che, viceversa, nel processo penale può essere esercitata l’azione civile per la restituzione e per il risarcimento del danno; condanne a pena pecuniaria pronunciate dal giudice del processo civile – e precisamente, se la legge non dispone altrimenti, dal giudice istruttore con ordinanza (art. 179 c.p.c.) – in danno d’una parte (art. 54, comma terzo, 220, 226,408) o di terzi (art. 118, comma terzo, 255, comma primo) non sono del resto infrequenti nel sistema della nostra legge…rettamente interpretato, l’art. 60 n. 2 c.p.c. esclude in sede civile dalla cerchia della condannabilità a pena pecuniaria tanto il consulente che ha agito con dolo come quello che è incorso in colpa lieve…da un lato il comportamento doloso entra nella competenza del giudice penale, sicché la condanna da parte del giudice civile costituirebbe una specie di bis in idem; dall’altro la colpa lieve, non presa in considerazione nello stabilire le responsabilità degli organi giudiziari principali, doveva conseguentemente ignorarsi anche per gli ausiliari35». Tali osservazioni, di poco successive all’entrata in vigore del Codice di procedura civile del 1942, vanno allora riferite esclusivamente alle fattispecie sanzionatorie illo tempore previste; sicché, occorre operare una preliminare distinzione tra queste ultime e quelle successivamente introdotte.

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F. Carnelutti, op. cit., 227. Evidenziazione dell’Autore. 35 F. Menestrini, in M. D’Amelio (a cura di), Il nuovo codice di procedura civile (Commentario), I, Torino, 1943, 312 s. 34

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Nell’ambito delle sanzioni ab initio presenti nel Codice di rito, la natura penale delle “multe per soccombenza” va esclusa per la particolare esiguità del relativo importo, oggi compreso tra un minimo di due euro ed un massimo di venti. Pertanto, atteso che l’art. 10 L. n. 689/1981 prevede che la sanzione amministrativa pecuniaria (cd. fissa) «consiste nel pagamento di una somma non inferiore ad euro 10 e non superiore a euro 15000», si ha maggior ragione di escludere la natura penale delle multe previste agli artt. 220; 226 e 408 c.p.c.36. Ad analoghe conclusioni può giungersi analizzando forma e regime del provvedimento di irrogazione delle «altre sanzioni» pecuniarie processuali che, nel silenzio della legge (artt. 6737; 11838; 25539c.p.c.), si ricava dall’art. 179 c.p.c., a mente del quale la condanna a pena pecuniaria è pronunciata con ordinanza non impugnabile del giudice istruttore o, al più, sottoposta a reclamo, il cui procedimento è destinato, comunque, a concludersi con ordinanza non reclamabile40. Si ritiene che il provvedimento che commina la sanzione penale sia incompatibile con l’impegno motivazionale richiesto per le ordinanze – invero succintamente motivate – nonché con la preclusione del ricorso per cassazione avverso lo stesso provvedimento o, quanto meno, si ritiene che la predetta incompatibilità derivi dalla combinazione tra forma e regime del provvedimento41. Tale ricostruzione pare trovare conforto anche nel dato storico-sistematico per cui il vigente Codice penale, ancorché antecedente al Codice di procedura civile, previde, nel 1930, talune norme (artt. 366; 388 bis; 650 c.p.) in potenziale concorso con quelle appena esaminate, e però già presenti del Codice di rito civile preunitario42. Il legislatore penale, lungi dall’aver introdotto inutili doppioni, ha compiutamente disciplinato lo statuto penale delle condotte di taluni soggetti del processo, anche civile. Si tratta di un’opzione interpretativa capace altresì di scongiurare il rischio che la stessa autorevole dottrina aveva paventato e, cioè, quello di punire due volte lo stesso fatto, incorrendo nel divieto di bis in idem sostanziale; o quanto meno, per questa via, si dispen-

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Sulla capacità dell’entità della sanzione di incidere sulla natura giuridica di quest’ultima, v. subito infra, special. nt. 44. Si riporta il testo dell’art. 67: «Ferme restando le disposizioni del Codice penale, il custode che non esegue l’incarico assunto può essere condannato dal giudice a una pena pecuniaria da euro 250 a euro 500. Egli è tenuto al risarcimento dei danni cagionati alle parti, se non esercita la custodia da buon padre di famiglia». 38 L’art. 118, co. 3, c.p.c. disciplina la condotta del terzo che impedisca l’esecuzione dell’ordine di ispezione di persone o cose: «Se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 a euro 1500». 39 «Il giudice, in caso di mancata comparizione [del testimone] senza giustificato motivo, può condannarlo ad una pena pecuniaria non inferiore a 100 euro e non superiore a 1000 euro». 40 Più precisamente, l’art. 179 c.p.c. prevede che «se la legge non dispone altrimenti, le condanne a pene pecuniarie previste nel presente Codice sono pronunciate con ordinanza del giudice istruttore. L’ordinanza pronunciata in udienza in presenza dell’interessato e previa contestazione dell’addebito non è impugnabile; altrimenti il cancelliere la notifica al condannato, il quale, nel termine perentorio di tre giorni, può proporre reclamo con ricorso allo stesso giudice che l’ha pronunciata. Questi, valutate le giustificazioni addotte, pronuncia sul reclamo con ordinanza non impugnabile. Le ordinanze di condanna previste dal presente articolo costituiscono titolo esecutivo». 41 Sebbene il diritto processuale penale contempli dei riti speciali, come, ad esempio, il procedimento per decreto, il regime dei provvedimenti che definiscono tali giudizi è di certo ben più garantista di quello delle ordinanze non impugnabili di cui all’art. 179 c.p.c. (cfr. artt. 461 ss. c.p.p.). 42 Cfr. artt. 127; 295; 314 del Codice di procedura civile del 1865, ove si ravvisano alcuni significativi precedenti storici delle sanzioni de quibus. 37

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serebbe l’interprete dall’ardua definizione dei rapporti sincronici tra norme (non sempre) penali, per poi rilevare un mero concorso apparente tra norme poste a presidio di interessi omogenei. Infine, per quel che concerne le fattispecie di successiva introduzione43, va rilevato che gli artt. 709 ter c.p.c. e 6 D.Lgs. n. 3/2017 espressamente qualificano come “amministrative” le rispettive misure sanzionatorie, fugando, almeno nell’intenzione del legislatore, ogni dubbio in ordine alla loro natura giuridica. Accanto al nomen iuris – di per sé non dirimente, come si dirà subito infra – si collocano i seguenti dati normativi e giurisprudenziali. Da un lato, la giurisprudenza di legittimità, muovendo dalle caratteristiche strutturali e dal dato teleologico dell’istituto di cui all’art. 709-ter c.p.c., ebbe a ricondurli ai punitive damages44, restando certamente esclusa la natura incriminatrice di tale ultima norma. Dall’altro, l’art. 6 D. Lgs. n. 3/2017 contiene una clausola di sussidiarietà espressa, a mente della quale il giudice civile applica la sanzione amministrativa salvo che il fatto costituisca reato45: si deduce che i fatti previsti dal citato art. 6 tali non siano.

4. Sulla possibile natura ulteriormente penale delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 7/2016.

Resta da verificare se il potere di irrogare sanzioni penali sia conferito, al giudice civile, in forza del D.Lgs n. 7/2016. L’approccio dubitativo, malgrado il dichiarato scopo di decriminalizzazione, si giustifica alla luce dei recenti orientamenti sovranazionali e in virtù dei rapporti tra diritto interno e sovranazionale, i quali imporrebbero l’accertamento della natura giuridica delle sanzioni non solo in base al nomen iuris ed a prescindere dal fatto che siano comminate nel corso di un processo civile, bensì anche sulla scorta di ulteriori criteri46. Del resto, per stabilire se la devoluzione delle controversie ex art. 8 D.Lgs. 7/2016 al giudice civile abbia dotato quest’ultimo di poteri nuovi ed inediti, nella misura in cui stricto sensu sanzionatori, è necessaria una corretta qualificazione delle nuove fattispecie.

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Per le riflessioni sulla natura giuridica della pena pecuniaria di cui all’art. 257 bis c.p.c., in materia di testimonianza scritta, si rinvia alle argomentazioni addotte con riferimento alla condotta del testimone citato per la deposizione orale, poiché la fattispecie di cui all’art. 257-bis è disciplinata con un mero rinvio all’art. 255 c.p.c. 44 Così Cass., sent. n. 7613/15, cit.; ord. n. 9978/2016, cit. 45 E non «salvo che il fatto costituisca più grave (o diverso) reato»; formula invece ricorrente nelle clausole di sussidiarietà espressa, che regolano i rapporti tra leggi penali aventi ad oggetto la stessa materia. 46 Cfr. Corte EDU, decisioni 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi; 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania; 1 febbraio 2005, Ziliberberg contro Moldavia Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, in www.echr:coe.int), da cui emerge che la Corte, sulla scorta dei noti criteri Engel, ritiene che la natura giuridica di una sanzione, al di là del relativo nomen iuris, si accerti secondo indici quali lo scopo preventivo e repressivo (e non meramente risarcitorio), nonché il grado di afflittività della sanzione, non necessariamente consistente in una compressione e privazione della libertà personale; tali caratteri sembrerebbero sussistere nel caso delle sanzioni pecuniarie civili.

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Occorre chiarire se la “trasposizione”47 della sanzione penale nel processo civile sia capace di incidere sulla predetta natura giuridica, restando sullo sfondo la questione del se l’applicazione delle norme sul rito civile valga a conferire carattere civile e non più penale alla sanzione da irrogare. Il quesito è più che lecito poiché, «usciti dalla pena che limita almeno la libertà siamo […] nelle sabbie mobili, perché l’afflittività e la proporzione conoscono ulteriori declinazioni comunque di rilevanza punitiva para-penale o anche semplicemente amministrativa48», ovvero – a parere di chi scrive – finanche civile. Costituiscono elementi a sostegno dell’inalterata natura penale delle cc.dd. “sanzioni pecuniarie civili” la struttura dell’illecito che mirano a reprimere (atteso che rileva il solo fatto doloso) e le caratteristiche della sanzione irrogata. Sotto tale ultimo aspetto, infatti, nell’art. 5 D.Lgs. n.7/2016 sembra riecheggiare l’art. 133 c.p. sui criteri che orientano il giudice penale per la determinazione della pena, parametrandola in base alla concreta offensività del fatto49. Sotto il primo profilo, invece, occorre rilevare che la fattispecie prevista dal citato decreto è immancabilmente caratterizzata da un nesso psichico (doloso), oltre che da quello meramente eziologico tra fatto ed evento. In parte qua gli illeciti depenalizzati si differenzierebbero notevolmente rispetto all’illecito civile, il quale – anche per il consistente numero di fattispecie codicistiche (artt. 2048 ss. c.c.) ed extracodicistiche di responsabilità oggettiva50 – ben può essere imputato all’autore sulla base del mero nesso di causalità. Va altresì rilevato che il dato giurisprudenziale sovranazionale «concorre a rendere assai dubbia la natura “civile” formalmente attribuitale, inquadrandola, piuttosto, nell’ambito della matière pénale, come definita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (a partire dal caso Engel c. Paesi Bassi per arrivare al più recente, e a noi vicino, Grande Stevens c. Italia): ad evitare tale inquadramento non basta, infatti, l’entità relativamente contenuta della nuova sanzione pecuniaria (applicabile nella misura massima di dodicimila euro, nei casi più gravi), posto che, per la più recente giurisprudenza convenzionale, anche sanzioni di

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Sempre che si tratti di un innesto del previgente modello sanzionatorio nel rito civile, più che di un’autentica depenalizzazione. M. Donini, Septies in in idem. Dalla «materia penale» alla proporzione delle pene multiple nei modelli italiano ed europeo, in Cassazione Penale, fasc.7, 2018, 2298. 49 Si riporta per comodità il testo dei citati articoli: «l’importo della sanzione pecuniaria civile è determinato dal giudice tenuto conto dei seguenti criteri: a) gravità della violazione; b) reiterazione dell’illecito; c) arricchimento del soggetto responsabile; d) opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito; e) personalità dell’agente; f) condizioni economiche dell’agente» (art. 5 D.Lgs. n. 7/2016). L’art. 133 c.p. prevede invece che «nell’esercizio del potere discrezionale […] il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo». 50 In dottrina è stata di recente rilevata la svalutazione della colpa come componente centrale dell’illecito civile extracontrattuale: cfr. R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie punitive e giusto processo, cit., 379. 48

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limitata entità vanno qualificate “penali” ove assolvano alle funzioni tipiche della pena, anziché a mere funzioni compensativo-riparatorie51». Il D.Lgs. n. 7/2016 va altresì interpretato alla luce della legge di delega e della Relazione illustrativa, da cui emerge che lo scopo del legislatore era quello di alleggerire il carico della giustizia penale, più che quello di adattare il quadro normativo al(l’im)mutato disvalore sociale. L’interpretazione teleologica e quella convenzionalmente orientata della normativa sulla depenalizzazione de qua depongono verso la persistente offensività dell’illecito derubricato, sicché devolverne la cognizione al giudice civile potrebbe implicare l’attribuzione a quest’ultimo di poteri sanzionatori più penetranti, analoghi a quelli del giudice penale. Tale ricostruzione parrebbe consentita dalla (ipotetica) neutralità della natura del processo rispetto a quella della sanzione irrogata, affermata dalla giurisprudenza della Corte EDU52, secondo cui finanche il mero procedimento amministrativo può concludersi con l’applicazione di una sanzione penale, purché si tratti di un procedimento informato ai principi di cui ai §§ 6 e 13 Cedu. L’iter procedimentale condotto dal giudice civile, comunque organo giurisdizionale, potrebbe, a maggior ragione, sfociare nell’esercizio di un potere siffatto. Il carattere penale dei nuovi istituti sanzionatori emergerebbe, infine, dal dato che segue. Il necessario rapporto di accessorietà tra l’obbligazione risarcitoria e quella pecuniaria sanzionatoria – testualmente prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 7/2016 – non vale a rendere omogenea la natura giuridica delle due prestazioni, ma esprime la sussidiarietà della pena rispetto alla condanna al risarcimento del danno. La necessaria sussistenza di un danno risarcibile cui la sanzione debba accedere, in altre parole, pare espressione del principio di frammentarietà, tipicamente operante in diritto penale, per cui non più solo la sanzione penale, bensì anche quella civile derivante da depenalizzazione deve rappresentare l’extrema ratio. L’obbligazione accessoria ha dunque finalità autonoma e indipendente rispetto a quella risarcitoria.

5. La natura civile delle pene conseguenti alle condotte

depenalizzate quale condizione di legittimità costituzionale del nuovo modello sanzionatorio. Il principale limite alla suesposta tesi della natura sostanzialmente penale delle sanzioni pecuniarie civili è costituito dalla mancanza del presupposto dell’indisponibilità della pretesa punitiva, in quanto la persona offesa, da querelante nel processo penale, diviene

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B. Lavarini, I profili processuali dei recenti provvedimenti di depenalizzazione, cit., 847. Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, in www.echr.coe.int., ove si legge che «il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata [e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta]».

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attore del processo civile. Il legislatore del 2016 ha invero elevato l’atto di impulso della persona offesa, già presupposto processuale per l’azione penale, ad atto costitutivo del processo (civile). Né tale indisponibilità può farsi discendere dall’officiosità del potere del giudice civile di irrogare la sanzione53, e ciò per almeno due ordini di ragioni: innanzitutto, secondo parte della dottrina54 e della giurisprudenza55, il monopolio del pubblico ministero per la domanda punitiva sarebbe immediato corollario del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, consacrato all’art. 112 della Costituzione. Pertanto, consentire l’azione ad un diverso organo, ancorché afferente all’ordine delle magistrature, recherebbe vulnus al predetto principio. Tale argomento non appare tuttavia irresistibile, atteso che il monopolio del pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale è sostenuto «da ragioni teoriche e pratiche, ma non sembra trovare fondamento costituzionale56» e che «dalla prescrizione di un dovere in capo ad un soggetto non discende affatto che questi ne abbia anche la titolarità esclusiva57»58, come invero accade, ad esempio, in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati, ove si ravvisa la contitolarità – ancorché disgiunta e asimmetrica59 – dell’azione, spettante sia al Procuratore generale presso la Corte di cassazione che al Ministro della Giustizia. L’insussistenza dell’indisponibilità della pretesa punitiva si ricava piuttosto dalla struttura del nuovo modello di tutela allestito dal D.Lgs. n. 7/2016. Invero, sebbene la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria civile non necessiti di domanda di parte, essa è pur sempre dipendente dalla questione risarcitoria. Dato l’intrinseco requisito di accesso-

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Cfr. B. Lavarini, I profili processuali dei recenti provvedimenti di depenalizzazione, cit., 850 e s., ove l’A. osserva che «nel testo normativo non c’è infatti alcuna indicazione da cui possa ricavarsi una diversa titolarità dell’actio punitiva, dovendosi escludere, in particolare, che la medesima competa all’attore, a cui spetta soltanto porne, attraverso l’azione risarcitoria, una “prima condizione”, sulla falsariga del pregresso schema penalistico querela-azione penale». 54 G. Conso, Pubblico ministero e accusa penale, in G. Conso (a cura di), Problemi e prospettive di riforma, Bologna, 1979. 55 Corte cost., 5 dicembre 1963, n. 154, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1964, 261. 56 G. D’Elia, in R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, sub art. 112, Milano, 2006, 2129. 57 O. Dominioni, voce Azione penale, in Digesto (disc. Pen)., I, Torino, 1987, 409. 58 Cfr., nello stesso senso, G. Neppi Modona, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1987, sub art. 112, 51. Conforme, in giurisprudenza, Corte cost., 26 luglio 1979, n. 84, in Giurisprudenza costituzionale, 1979, 640; Corte cost., 30 dicembre 1993, n. 474, ivi, 1193, 3909. 59 Cfr. S. Di Amato, Titolarità dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati e poteri del Ministro della giustizia, in Cassazione penale, 7-8, 2011, 2842. Invero, per il Procuratore generale, il vigente art. 14 del D.Lgs. n. 109/2006 prevede l’obbligo di promuovere l’azione disciplinare nei confronti del magistrato, purché questi risulti aver integrato uno degli illeciti disciplinari tipizzati (alimentando, così, dubbi di compatibilità tra l’obbligatorietà dell’azione disciplinare ed «il vigente sistema disciplinare tipizzato»: cfr. M. Fresa, Azione disciplinare, in F. Auletta, S. Boccagna, N. Rascio (a cura di), La responsabilità civile dei magistrati: commentario alle leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, 2017, 342). Per il Ministro della Giustizia, invece, il promovimento del procedimento disciplinare è meramente facoltativo ma, nella sostanza, tale facoltatività rischia di essere sensibilmente vulnerata dalla co-legittimazione del Procuratore generale, «contraddice[ndo] il senso della previsione dell’art. 107, co. 2, Cost., ovvero il senso dell’attribuzione di un potere» il cui esercizio, nel disegno costituzionale, avrebbe dovuto comportare, ancorché in un contesto di tipizzazione dell’illecito disciplinare, l’attribuzione al Ministro del compito di individuare concretamente le condotte sanzionabili (cfr. F. Auletta, Azione e giudizio disciplinare dopo le riforme dell’ordinamento giudiziario, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2009, 1106).

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rietà60, l’iter sanzionatorio dipende dal giudizio risarcitorio61, con la conseguenza che se questo dovesse estinguersi per qualunque motivo (rinuncia agli atti, conciliazione ecc.), la procedura relativa all’irrogazione della [pena] non potrebbe nemmeno partire62». In altre parole, la repressione della condotta originariamente criminosa avviene in un giudizio oggettivamente complesso, caratterizzato da un cumulo sui generis, poiché esso non sussiste tra due o più domande di parte, ma tra domanda (o domande) della parte privata e pretesa punitiva dello Stato. Sicché, nel procedimento delineato dal legislatore del 2016, pur essendo soddisfatto il principio di “pubblicità” dell’azione punitiva63, verrebbe comunque meno quello dell’obbligatorietà dell’azione eventualmente qualificabile penale, nella misura in cui finalizzata all’applicazione di sanzioni di natura corrispondente. Occorre allora concludere nel senso della diversa natura giuridica degli istituti in esame, a meno di non tacciare di incostituzionalità la tecnica di tutela introdotta col D.Lgs. n. 7/2016. L’applicazione di una sanzione “di diritto penale”, infatti, ben può essere subordinata alla proposizione della querela della persona offesa, ove richiesto dalla legge, ma giammai può dipendere dall’azione del privato danneggiato (e quindi, in ipotesi, soggetto non necessariamente coincidente con la persona offesa). Al contrario, continuare ad affermare la natura penale delle sanzioni in esame importerebbe la violazione dell’art. 112 Cost. che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale64, è compatibile con l’istituto della querela, che – a propria volta – «non ha nulla a che vedere con l’azione privata65», ma di certo non è compatibile con quest’ultima. Né può utilmente essere evocato il modello del procedimento dinanzi al giudice di pace, in cui, per la repressione dei reati procedibili a querela, è prevista la cd. citazione a giudizio da parte della persona offesa – la quale sortisce gli stessi effetti sostanziali e processuali della querela (art. 21, co. 5, c.p.p.) – ma che è sottoposta al parere del pubblico ministero, cui compete – in ultimo – la scelta

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Cfr. il comma 2° dell’art. 8: «Il giudice decide sull’applicazione della sanzione civile pecuniaria al termine del giudizio, qualora accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa». 61 Si ritiene, invero, che il capo di sentenza contenente l’irrogazione della sanzione sia accessorio rispetto a quello di condanna al risarcimento e non già mero capo “corollario”. In particolare, va accolta la nozione estesa di accessorietà, proposta dalla dottrina impegnata a distinguere tra loro i concetti di capo accessorio e capo “corollario” – ancorché allo scopo di definire l’ambito applicativo del novellato art. 282 c.p.c. – sì da ricondurre il rapporto tra sanzione processuale e risarcimento del danno al concetto stesso di accessorietà. Cfr. F. De Vita, Provvisoria esecutività della sentenza, capi accessori, condanna alle spese: la Consulta interviene, in Rivista di Diritto Processuale, 2005, 597 ss., secondo cui è da intendersi accessoria qualsiasi domanda che, pur dotata di autonomia, sia legata a un’altra da un nesso di consequenzialità logico-giuridico, tale che l’accoglimento della domanda accessoria trovi il proprio fondamento nell’accoglimento di quella principale (e non solo le domande che, cumulate a quella principale, siano capaci di derogare alla regola di competenza del giudice adito e rilevino ai fini della determinazione del valore della causa, ex artt. 10 e 31 c.p.c.). 62 A. Villa, Il giudizio per l’applicazione delle sanzioni pecuniarie civili, in Rivista di Diritto Processuale, 1/2017, 187 ss. 63 Per la cui definizione sia consentito rinviare a G. Neppi Modona, op. cit., 46. 64 Corte Cost., 12 luglio 1967, n. 105, Giurisprudenza costituzionale, 1967, 1166; nello stesso senso Corte Cost., 28 dicembre 1984, n. 300, ivi, 1984, 2224; Corte Cost., 18 giugno 1982, n. 114, ivi, 1982, 1097; Corte Cost., 19 febbraio 1965, n. 5, ivi, 1965, 37; Corte Cost., 18 giugno 1963, n. 94, ivi, 1963, 782; Corte Cost., 16 maggio 1963, n. 17, ivi, 109; Corte Cost., 5 maggio 1959 n. 22, ivi, 1959, 319, da cui emerge il principio per cui «la riaffermazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale non esclude che, indipendentemente dall’obbligo del pubblico ministero, l’ordinamento stabilisca determinate condizioni per il promovimento o la prosecuzione dell’azione penale». Sulla ragionevole discrezionalità del legislatore ordinario circa la previsione di deroghe al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, cfr. Corte cost., 18 febbraio 1988, n. 204, in Giurisprudenza costituzionale, 1988, 763. 65 Così, testualmente, U. Dinacci, voce Querela, nell’Enciclopedia del diritto, XXXVIII, Milano, 1987, 39.

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di formulare o meno l’imputazione, confermando o modificando l’addebito contenuto nel ricorso. Invero, secondo la prevalente giurisprudenza costituzionale66 e di legittimità67, in caso di inerzia del pubblico ministero in ordine alla emissione del parere, il giudice di pace non può trascrivere l’addebito formulato dalla persona offesa col ricorso, ma deve restituire gli atti alla pubblica accusa, affinché proceda nelle forme ordinarie. Pertanto, l’ammissibilità di una sorta di “azione penale privata” è bilanciata dal ruolo che lo stesso legislatore ha attribuito, nei suddetti procedimenti dinanzi al giudice di pace penale, al pubblico ministero, la cui presenza non è invece prevista nel giudizio di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 7/201668. Infine, malgrado secondo talune affascinanti teorie sul “diritto soggettivo (pubblico) di querela”69 vi siano punti di contatto tra la posizione del querelante e quella dell’attore70, va comunque segnalato il drastico cambiamento di ruolo rivestito dalla persona offesa dal fatto decriminalizzato. Nei primi commenti al decreto del 2016 è stato evidenziato che «la vittima perde i mezzi e si accolla i costi di quelle che nel processo penale sarebbero state le indagini, non essendo più disponibile lo strumento della denuncia contro ignoti per giungere eventualmente all’individuazione del responsabile. Tale individuazione, peraltro, deve avvenire con precisione al fine dell’instaurazione del processo civile: l’esito in concreto della riforma è dunque che il titolare della situazione di appartenenza lesa da ignoti perde contemporaneamente i vecchi e i nuovi rimedi, comprensivi anche dell’azione risarcitoria, divenuta oramai de facto inesperibile71». «La privatizzazione della soluzione del conflitto instaurato tra vittima e aggressore può forse consentire soddisfazioni materiali maggiori alla singola vittima. Al patto che egli identifichi l’aggressore, al patto che egli abbia la forza di mettere in moto, da solo, il meccanismo processuale. Resta il problema delle vittime di delitti di autore ignoto72». La natura extra penale del nuovo modello sanzionatorio si rivela dunque condizione di legittimità costituzionale della tecnica di tutela prevista dal D.Lgs. n. 7/2016, altrimenti in contrasto con l’art. 112 Cost.

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Corte cost., ord. 28 settembre-7 ottobre 2005, n. 381; ord. 28 settembre-4 ottobre 2005, n. 361. Cass., 17 gennaio 2006, n. 20559, in CED 234186; Cass., 25 ottobre 2005, in CED 233501. 68 La non obbligatorietà della presenza del pubblico ministero trova anche conferma nella composizione dell’organo giudicante, monocratico e non collegiale, cui il legislatore ha devoluto la cognizione dei fatti depenalizzati, laddove la necessaria partecipazione della parte pubblica al procedimento costituisce ulteriore fondamentale condizione per l’affermazione della natura penale della sanzione irroganda. 69 Teorie per vero fondate sul dato testuale di cui all’art. 120 c.p., rubricato «diritto di querela»: cfr. G. Battaglini, La querela, Torino, 1958, 203 e B. Calderano, Contributo allo studio del diritto di querela, Padova, 1978, 86. 70 Laddove il primo vanta un diritto potestativo sul se procedere, atteso che la remissione della querela determina l’improcedibilità del giudizio, così come la rinuncia all’azione – ricorrendo gli ulteriori presupposti previsti dall’art. 306 c.p.c. – produce l’effetto estintivo del processo civile e, dunque, parimenti ostativo alla pronuncia nel merito. 71 C. Masieri, Responsabilità da illecito sottoposto a sanzioni pecuniarie civili: nuova forma di tutela (minorata) delle situazioni di appartenenza, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 6, 2016, 2049. 72 P. Marconi, La strategia abolizionista di Louk Hulsmank, in Dei delitti e delle pene, 1983, 232 s. Nello stesso senso, cfr. F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2015, 1, 1704. 67

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A ciò va aggiunto che, diversamente opinando, l’anzidetto iter sanzionatorio risulterebbe privo di ulteriori garanzie, invece necessarie per l’assegnazione della natura penale della condanna ex artt. 3 e 4 del ridetto decreto. Poiché, come osservato in dottrina, «dato per scontato un determinato apparato di garanzie penalistiche, la “materia penale” serve per fare da spartitraffico nell’uso di tali garanzie, o almeno è questa l’utilizzazione prevalente della categoria della “materia penale” nella sede propria della Corte europea di Strasburgo73», il nuovo modello di tutela non risulta assistito dalla garanzia della revisione del giudicato di condanna che sia in contrasto con una sentenza definitiva della Corte EDU, oggi prevista, dal vigente art. 630 c.p.p., per il solo giudicato penale. Al contrario, la condanna del giudice civile al pagamento della sanzione pecuniaria, una volta passata in giudicato, resta intangibile nonostante l’eventuale sopravvenienza di sentenze definitive della Corte EDU, per via del rinvio operato dal D.Lgs. n. 7/2016 alle norme del Codice di procedura civile e, in particolare, all’art. 395 c.p.c. Tale norma disciplina un rimedio a critica vincolata, il quale non contempla, tra i vizi revocatori, il contrasto della sentenza del giudice civile con altra resa dalla Corte EDU, né tale irrevocabilità può essere ricavata attraverso una lettura convenzionalmente orientata della norma, alla luce degli artt. 41 e 46 CEDU74. Pertanto, la commutatività tra processi civile e penale ai fini dell’irrogazione della sanzione, va esclusa anche per la diversa resistenza allo ius superveniens delle corrispondenti res iudicatae, oltre che per garantire la conformità del sistema al citato art. 112 della Costituzione. Del resto, il fenomeno della depenalizzazione si colloca su un piano antitetico rispetto al principio di obbligatorietà dell’azione penale, e costituisce un percorso “obbligato”, allorquando, nonostante l’immutato disvalore sociale delle condotte decriminalizzate, l’insufficienza delle risorse giudiziarie non consenta la repressione di tutti i fatti penalmente rilevanti. In questo contesto si colloca l’intervento del legislatore del 2016, il cui dichiarato scopo era quello di attuare una depenalizzazione, ancorché sui generis, delle fattispecie di cui agli artt. 485; 486; 594; 627; 647 c.p. Ciò sul presupposto per cui, come rilevato in dottrina, l’ordinamento italiano si caratterizza per la «creazione di strumenti legislativi [capaci] di incidere sul paradigma legalità-obbligatorietà», secondo un principio di obbligatorietà dell’azione penale inteso «in forma razionalizzata75».

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Palazzo F., Il limite della political question tra Corte costituzionale e Corti europee. Che cosa è “sostanzialmente penale”?, in Cassazione penale, 2/2018, 467. 74 Cfr. F. De Santis Di Nicola, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte EDU tra problematico ampliamento dei motivi di revocazione e (sostanziale) neutralizzazione del giudicato nazionale non-penale, in Il giusto processo civile, 3/2018, 829. L’A. osserva che «Corte cost. 123/2017 […] ha ritenuto infondato il dubbio di costituzionalità relativo agli artt. 106 c.p.a. e 395-396 c.p.c. sulla base di due ordini di motivi, riproposti poi, più sinteticamente, a fondamento delle analoghe conclusioni raggiunte da Corte cost. 93/2018. Il primo ordine di motivi si sintetizza nell’affermazione secondo cui, «nelle materie diverse da quella penale, [...] non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo» per dare esecuzione alla sentenza della Corte EDU, sicché non può ritenersi violato l’art. 117, l comma, Cost. A tale conclusione, salutata favorevolmente da autorevole dottrina, Corte cost. 123/2017 addiviene ricostruendo la pertinente portata precettiva degli artt. 41 e 46 CEDU». 75 G. D’Elia, op. cit., 2135.

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6. Una nuova ipotesi di tutela costitutiva necessaria, tra

incremento dei poteri del giudice civile e deficit di effettività. Una volta esclusa la natura penale delle sanzioni in esame, occorre assegnarvi natura civile: tertium non datur, poiché è il legislatore stesso ad escluderne altresì la natura amministrativa, per via della peculiare depenalizzazione attuata, che non mira alla derubricazione del reato in illecito amministrativo (come invece accaduto ex L. n. 689/1981, nonché col D.Lgs. n. 8/2016), bensì in illecito civile. L’attributo “pecuniarie civili”, riferito alle nuove sanzioni, altro che dato neutro, rappresenta un significativo ed eloquente sigillo nominalistico per l’istituto. Peraltro, malgrado sia da escludersi che l’intervento legislativo del 2016 abbia previsto un nuovo potere del giudice civile, di natura para-penale, occorre comunque chiedersi se l’introduzione di nuove fattispecie sanzionatorie abbia prodotto un rafforzamento dei poteri sanzionatori di quest’ultimo, rendendoli più compositi e complessi, così come sostenuto nei primi commenti al D.Lgs. n. 7/2016, ove si legge che «il processo civile nel quale è, oggi, prevista la possibile applicazione officiosa delle nuove sanzioni pecuniarie è, nella sostanza, un processo nel quale il giudice dispone di ulteriori (rispetto a quelli fin qui previsti) poteri ufficiosi…La possibile irrogazione, in determinati giudizi, delle sanzioni pecuniarie ex D.Lgs. n. 7/2016, [ha] quindi [determinato] l’incremento dei poteri sanzionatori del giudice civile76». Tuttavia, a ben vedere, quest’ultimo, pur essendo abilitato ad irrogare sanzioni pecuniarie caratterizzate da limiti edittali più elevati, non vede qualitativamente mutato il proprio potere, poiché il provvedimento di irrogazione costituisce – a parere di chi scrive – espressione del potere costitutivo tipicamente conferito al giudice della cognizione. Trattasi, in particolare, di un’ipotesi di tutela costitutiva (poiché il diritto non preesiste rispetto al processo) necessaria, atteso che il credito nei confronti dell’erario non può che sorgere per effetto della sentenza del giudice e giammai attraverso atti di autonomia negoziale77. Invero, sul formante dottrinale era già stata autorevolmente prospettata la possibilità di qualificare come pronuncia costitutiva quella che definisce il giudizio di opposizione a provvedimenti sanzionatori avverso illeciti penali contravvenzionali, ma poi depenalizzati ex L. n. 689/198178. Il dubbio classificatorio è lecito in materia di impugnazione delle ordinanze ingiunzione, essendo «controverso…se oggetto del processo sia la validità dell’atto amministrativo di irrogazione della sanzione [nel qual caso pure si tratterebbe di tutela costitutiva, nella misura in cui volta all’eventuale annullamento del provvedimento] … oppure, al di là di quell’atto, l’esistenza del diritto di credito a titolo di sanzione a favore

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A. Villa, op. loc. cit., 200. Ove, cioè, «il processo si presenta come elemento costitutivo indispensabile e non surrogabile»: così Protopisani A., Appunti sulla tutela cd. costitutiva (e tecniche di produzione degli effetti sostanziali), in Rivista di diritto processuale, 1991, 95. 78 Così C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civileXI, I, Torino, 2017, 60 s. 77

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della PA e contro il trasgressore79». Mentre con riferimento alla fattispecie di cui al previgente art. 22 bis L. n. 689/1981 non può aprioristicamente escludersi che trattasi di tutela di mero accertamento80, data la preesistenza di un diritto di credito sorto per effetto del provvedimento amministrativo impugnato81, il successivo episodio di depenalizzazione ex D.Lgs. n. 7/2016 sembra aver introdotto una nuova ipotesi di tutela costitutiva necessaria, atteso che i provvedimenti di irrogazione delle sanzioni del giudice civile in esame si configurano quali elementi (costitutivi) della fattispecie creditoria. Tale conclusione appare altresì rispettosa del principio di tipicità di siffatta forma di tutela di cognizione, poiché il decreto del 2016 contempla degli illeciti civili tipici, e cioè fonti di obbligazioni pecuniarie nei soli casi previsti dalla legge, venendo così a configurarsi una di quelle «vicende processuali – tipic[he] e tassativ[e] – cui allude l‘art. 2908 c.c.82» Se è vero che l’inasprimento dei poteri sanzionatori del giudice non si è accompagnato ad un incremento qualitativo degli stessi, venendo così ad avvalorarsi la tesi del potere sanzionatorio quale forma del naturale potere costitutivo del giudice civile, va peraltro rilevato che tale ricostruzione presta il fianco ad alcune obiezioni o, quanto meno, necessita di talune precisazioni. E non solo in quanto l’intervento legislativo del 2016 si rivela in controtendenza rispetto al contesto normativo e giurisprudenziale in cui si innesta, caratterizzato dalla progressiva erosione dell’area della tutela costitutiva necessaria, in favore di quella non necessaria, attraverso l’istituto della negoziazione assistita83; ma anche per ciò che la facoltatività dell’azione del danneggiato non esclude che l’obbligo di pagamento della sanzione pre-esista al processo e che la sua fonte sia la legge, a mente della quale chiunque commetta il fatto tipico depenalizzato, va punito con la sanzione pecuniaria

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Ivi, 61. E tuttavia ciò è stato escluso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, in sede di composizione del contrasto giurisprudenziale sopra la rilevanza (o meno) dei vizi dell’ordinanza-ingiunzione in quanto atto amministrativo, nonché del suo eventuale deficit motivazionale in ordine alla sussistenza dell’illecito stesso. Secondo la Corte, i predetti vizi non sono capaci di influire sulla cognizione del giudice dell’impugnazione ex artt. 22 ss. L. n. 689/1981, in quanto «il sindacato del giudice del merito si estende alla validità sostanziale del provvedimento impugnato attraverso un autonomo esame circa la ricorrenza dei presupposti di fatto e di diritto della infrazione contestata, essendo oggetto della opposizione il rapporto sanzionatorio». (Cass. Sez. Un., 28 gennaio 2010, n. 1786, in Giustizia Civile Massimario, 2010, 1, 113 e ne Il Corriere giuridico, 3/2010, 299, con nota a cura di V. Carbone, Ordinanza ingiunzione e vizi motivazionali). Una volta escluso che trattasi di un giudizio sull’atto, il giudice dell’impugnazione, in caso di accoglimento, ben può annullare ovvero modificare l’ordinanza-ingiunzione, venendo ad estinguere o modificare un precedente rapporto giuridico. 81 Invero, secondo autorevole dottrina, nella suddetta ipotesi ci si trova di fronte ad una giurisdizione costitutiva d’annullamento (cfr. G. Verde, Diritto processuale civile5, I, Bologna, 2017, 142); sotto il vigore dell’art. 23 L. n. 689/1981 (ora, però, abrogato), poteva infatti «apparire superfluo interrogarsi sulla consistenza delle posizioni giuridiche del privato destinatario dell’attività di irrogazione e quantificazione della sanzione amministrativa», poiché, ai sensi del citato art. 23, co. 11, «il giudice, quando accoglie l’opposizione, può annullare in tutto o in parte l’ordinanza ovvero modificarla anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta» [N. Rascio, voce Sanzioni amministrative, in G. Verde (a cura di), La giurisdizione. Dizionario del riparto, Bologna, 2010, 592]. 82 C. Consolo, voce Domanda giudiziale, nel Digesto ipertestuale, disc. Priv., VII, Torino, 1991, 61. L’obbligazione pecuniaria sorgerà, per effetto della sentenza costitutiva del giudice, solo in casi tassativi previsti dalla legge, ove risulti accertata la sussistenza del fatto tipico; tale tipicità degli illeciti giustifica la doverosa iniziativa del giudice civile. Mutatis mutandis, la doverosa azione disciplinare nei confronti dei magistrati prevista dal citato art. 14 del D.Lgs. n. 109/2006, mal si attaglia ad un sistema tipizzato di illeciti punibili, ove l’obbligo – e non più la facoltà – per il Procuratore generale presso la Corte di cassazione di agire nei confronti del magistrato, mal si concilia con la tipicità degli illeciti disciplinari reprimibili, in assenza dei quali, cioè, al titolare dell’azione dovrebbe essere riconosciuto il potere di non agire (Cfr. M. Fresa, op. loc. cit., 342). 83 Introdotta, ex L. n. 162/2014 in materia di separazione dei coniugi, per esempio. 80

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civile. In tal caso, il giudizio risarcitorio, più che costituire il presupposto processuale per l’irrogazione della sanzione, rappresenterebbe momento di specificazione del contenuto di un obbligo preesistente, e la sentenza che definisce il giudizio determinerebbe il quantum della pena pecuniaria, venendo a configurarsi come sentenza determinativa. Viene emessa sentenza determinativa, invero, nel caso in cui sia necessario integrare o specificare il contenuto di un diritto preesistente sul piano sostanziale ma non già compiutamente determinato, di talché «la produzione degli effetti è [fenomeno] non interno ma esterno [e preesistente] al processo84. Orbene, la qualificazione del potere sanzionatorio come potere di pronunciare sentenza determinativa in materia di illeciti depenalizzati, si risolve in una conferma della tesi fin qui proposta, nella misura in cui le sentenze determinative – ove se ne voglia ammettere incondizionatamente l’esistenza – altro non sono che una species del genus sentenze costitutive85. Resta da verificare se tale rafforzamento dei poteri del giudice sia concretamente capace di tradursi in un implemento di tutela, poiché, secondo i primi commenti all’intervento di decriminalizzazione, «la “ritrazione” del sistema penale dalla repressione di una fattispecie determinata comporta una diminuzione sensibile della tutela delle situazioni di appartenenza sui beni, solleva problemi di coordinamento con i rimedi civilistici già previsti dall’ordinamento86» e paventa addirittura il vuoto di tutela nel caso in cui l’autore del fatto resti ignoto87. In dottrina è stato evidenziato che le parti del processo «sono provviste – insieme alla parte potenziale destinataria della sanzione – di tutti gli ordinari poteri dispositivi rispetto al “contenitore” processuale88». Pertanto, l’adattamento della risposta punitiva alla tecnica sanzionatoria comunemente adottata nel rito civile renderebbe irragionevolmente oneroso il ruolo dell’attore-persona offesa, cui spetta non più la mera querela, bensì, in via esclusiva, l’azione giurisdizionale, con l’ulteriore e nondimeno irragionevole onere di fornire la prova degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, cui accede quella sanzionatoria. Più in particolare, l’attore dovrebbe provare l’elemento psicologico del dolo, al fine di consentire la condanna alla sanzione pecuniaria civile di cui non è neppure destinatario. A ciò va aggiunto che l’art. 3, comma 2, del citato decreto ha previsto un termine di prescrizione quinquennale decorrente dalla commissione dell’illecito e spirato il quale il giudice, pur potendo pronunciare condanna al risarcimento del danno, non potrà più irrogare le sanzioni pecuniarie civili.

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L. Montesano, Contratto preliminare e sentenza costitutiva, Napoli, 1953, 130 s., ove si legge che gli effetti prodotti da talune sentenze costitutive hanno la propria fonte giuridica in un atto pregresso ed estraneo alla sentenza stessa, quale l’atto di autonomia privata, ovvero, come nel caso che ci occupa, il fatto illecito. 85 L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985, 138 ss. 86 C. Masieri, Responsabilità da illecito, cit., 2049. 87 Sul punto sia consentito rinviare al § 5. 88 A. Villa, Il giudizio per l’applicazione delle sanzioni pecuniarie civili, cit., 187 ss.

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6.1. Il giudizio sanzionatorio ex art. 8 D.Lgs. n. 7/2016 come forma di giurisdizione a contenuto oggettivo.

Tale deficit di effettività potrebbe, a propria volta, essere sopperito attraverso una più precisa qualificazione del giudizio avente ad oggetto la condanna al pagamento della sanzione: limitarsi ad affermarne, genericamente, il carattere costitutivo importerebbe adesione alla «dottrina classica, tedesca e soprattutto italiana, che ravvede nell’azione costitutiva un fenomeno peculiare e distinto dalle altre azioni di cognizione, ma non radicalmente difforme: anche qui l’attore compirebbe l’affermazione di un proprio diritto soggettivo, volto ad ottenere la creazione di una situazione sostanziale nuova tramite il processo, ma pur sempre di consistenza sostanziale ed esistente quindi prima e fuori dal processo, quale è inteso il diritto cosiddetto potestativo, anche quando la sua soddisfazione possa avvenire solo attraverso un processo ed una sentenza (cosiddetto Gestaltungsklagerecht)»89. È allora il caso di ricordare che, accanto alla deduzione in giudizio del diritto potestativo, «v’è anche un altro modo di ricostruire il funzionamento della modificazione giudiziale e l’oggetto della relativa cognizione: il potere sostanziale della parte avrebbe ad oggetto la costituzione del dovere del giudice di operare, attraverso una sentenza di accertamento costitutivo, una certa trasformazione giuridica, dirigendosi non verso la controparte, bensì verso lo Stato… Può allora in questo circoscritto campo tornare proficuamente a parlarsi di azione in senso concreto, ma proprio come oggetto del giudizio in cui è dedotto il potere giudiziario ad ottenere una prestazione decisoria costitutiva dallo Stato-giudice, secondo un’impostazione suadente [soprattutto] per le ipotesi di tutela costitutiva necessaria»90. Nel caso che occupa, infatti, l’attore non fa valere un proprio diritto di credito (che spetta, invece, all’erario) ma si limita a realizzare una sorta di condizione processuale per la condanna officiosa al pagamento della sanzione. Pertanto, l’attore del pregiudiziale giudizio risarcitorio, lungi dal proporre una vera e propria domanda di irrogazione della sanzione, si limita, in parte qua, a porre in essere mero esercizio del diritto di azione91, secondo uno schema che sembra rievocare la categoria dei procedimenti a contenuto oggettivo, ove la res in iudicium deducta non è un diritto soggettivo o un interesse legittimo, ma il dovere giurisdizionale di provvedere92. Quest’ultimo, più in particolare, «sorge non per effetto della proposizione d’una domanda, bensì per il fatto che il giudice è venuto

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C. Consolo, voce Domanda giudiziale, cit., 61. Ivi, 63. 91 Cfr. F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, nella Rivista di diritto civile, 1988, I, 504 s., ove l’Autore teorizza il potere di mera azione, attribuito dalla legge al pubblico ministero e ad altri determinati soggetti, non coordinato con l’affermazione di un diritto proprio o altrui, come invece avviene nei casi di sostituzione processuale ed afferma altresì che «sarebbe errato, tuttavia, il ritenere che l’impulso al processo oggettivo determinato dall’esercizio di una mera azione si risolva puramente e semplicemente in un atto di denuncia, volto allo scopo di provocare l’intervento ufficioso dell’autorità giurisdizionale». Tale affermazione appare pienamente compatibile con l’attuale disciplina in materia di illeciti civili tipici, ove alla persona offesa non spetta più la mera querela, bensì l’azione giudiziale. 92 Ivi, 500. 90

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[nel corso del giudizio risarcitorio] a conoscenza d’una situazione in presenza della quale egli deve attuare la fattispecie normativa che la contempla93». Tale opzione interpretativa ci consentirebbe di superare le perplessità sopra emerse in punto di accertamento e di onere della prova nei neo-procedimenti sanzionatori, regolati – come previsto dall’art. 8 dello stesso decreto n. 7/2016 – dalle norme del Codice di procedura civile, il quale si informa al principio dispositivo anche in caso di tutela costitutiva necessaria. L’adesione alla teorica dei processi a contenuto oggettivo consente invece di derogare al contenuto dell’art. 99 c.p.c. e dei relativi corollari che danno sostanza al principio dispositivo; in altre parole, «la mancanza dell’atto determinativo del “chiesto” fa venir meno […] l’indispensabile premessa per rendere operante, nel loro ambito, il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato scolpito nell’art. 112 c.p.c.»94. L’attuazione del diritto oggettivo e l’accertamento dell’esistenza delle condizioni di fatto che fondano il dovere del giudice di provvedere conferiscono caratteri marcatamente inquisitori ai processi a contenuto oggettivo, nei quali «la deduzione probatoria…è riferita alla verifica d’una situazione drasticamente diversa da quella che è oggetto della norma di cui all’art. 2967 c.c. … ed il giudice è svincolato, nella ricerca della verità, dalle iniziative probatorie delle parti95». Tali considerazioni appaiono quanto mai attuali nella misura in cui siano capaci di appagare quelle esigenze specificamente (e dunque più recentemente) avvertite con riferimento al procedimento sanzionatorio in esame. Ad analoghe conclusioni auspica si giunga parte della dottrina che – muovendo dalla natura pubblicistica dell’oggetto del processo di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 7/2016 – ha proposto che il giudice debba «preoccuparsi di accertare il dolo del convenuto, senza che qui egli sia limitato dal divieto di scienza privata o dal principio dispositivo per quanto riguarda l’assunzione dei mezzi di prova, e, se esso non risulta provato, evidentemente il convenuto, magari condannato al risarcimento del danno, non può anche subire la sanzione pecuniaria civile. Qui, se il principio inquisitorio…raggiunge la sua massima espansione, sia nella ricerca dei fatti sia nella spendita dei poteri istruttori d’ufficio, resta ovviamente il rilievo per cui lo Stato deve evidentemente farsi carico dell’onere della prova96». Né all’operazione ricostruttiva appena proposta pare porsi d’ostacolo la ridetta Relazione illustrativa al decreto del 2016. Nel silenzio del legislatore delegante, infatti, «non è stata introdotta alcuna norma di disciplina volta a incidere sul quantum di prova necessario ai fini dell’inflizione della sanzione punitiva, ritenendosi sufficiente il raggiungimento dello standard di prova normalmente occorrente in un processo civile97 […]: la scelta di uniformare lo standard probatorio, allineandolo a quello contemplato nell’ordinamento civi-

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F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, cit., 511. Ivi, 686 s. 95 In tal senso, ancora F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, cit., 689 s. 96 M. Bove, Sull’introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie dal punto di vista del processualcivilista (note a margine del d.lgs. n. 7 del 15/1/2016), in La Nuova Procedura Civile, 2016, 1, 6. 97 Contra: B. Lavarini, I profili processuali, cit., 853. 94

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Per una riqualificazione dei poteri sanzionatori del giudice civile

le, è dettata da esigenze di coerenza e di funzionalità pratico-applicativa…Il riferimento all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile serve anche ad assicurare circa il rispetto delle garanzie processuali minime per l’irrogazione di una sanzione che, per quanto di natura civilistica, ha una ineliminabile componente afflittiva che in qualche modo potrebbe assimilarla ad una sanzione tipica della “materia penale” … in ogni caso, le garanzie offerte dal rito civile pongono al riparo dal timore che il nuovo sistema possa essere esposto a censure di incompatibilità con le statuizioni convenzionali98». Ebbene, è lo stesso rito civile a ricomprendere nel proprio ambito le “controversie” a contenuto oggettivo, ove, infatti, non sbiadisce del tutto l’onere della prova, ma è piuttosto accolto il concetto di «onere obiettivo della prova, nozione che…pone l’accento sulla necessità di provare, collaborando con il giudice, i fatti rilevanti per la decisione99», dovendo senz’altro escludersi che le parti del processo rappresentino dei meri “informatori” o “collaboratori” dell’organo giudicante.

7. Assenza di poteri “para-penalistici” del giudice civile e funzione del processo di cognizione.

Esclusa la possibilità per il giudice civile di irrogare sanzioni penali, poiché – come testé emerso – nessun tipo di pena irrogata da quest’ultimo è capace di assumere connotati propri della risposta punitiva di diritto penale, non resta che abbandonare l’opzione della simmetria tra i ruoli dei giudici civile e penale, supra riportata100. Non è dato, infatti, ravvisare alcuna commistione tra funzioni delle autorità giurisdizionali civile e penale; mentre quest’ultimo ben può pronunciare condanna al risarcimento del danno derivante da illecito civile (oltre che penale), ai sensi degli artt. 76 e 538 ss. c.p.p, il giudice civile è invece sprovvisto di poteri stricto sensu penali. Egli non è abilitato ad applicare pene tout court, atteso che la pena pecuniaria conseguente al fatto illecito originariamente rilevante sul piano penalistico costituisce una “sanzione di diritto civile”. I recenti interventi di depenalizzazione non hanno inciso sulla tradizionale tripartizione della tutela di cognizione, che tuttora si esaurisce nei giudizi costitutivo, di condanna e di mero accertamento, poiché la “condanna” al pagamento di pene pecuniarie altro non è che una forma di tutela costitutiva necessaria, ancorché a contenuto oggettivo. Attraverso un procedimento di tipo logico-induttivo che inizia dalla verifica empirica delle sanzioni irrogabili nell’ordinamento processual-civilistico, è possibile ricostruire il più generale potere che esse esprimono e, a tal uopo, a monte conferito all’autorità giudiziaria, in ossequio al principio di legalità. Più precisamente, il potere in esame si declina in:

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Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 7/2016, cit. F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, cit., 692. 100 Proposta da F. Menestrini, in M. D’Amelio (a cura di), Il nuovo codice di procedura civile (Commentario), cit., 312 special. nt. 30. 99

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– Potere di polizia (art. 128 c.p.c.) di cui è munito il giudice durante l’udienza; la condanna al pagamento di sanzioni pecuniarie processuali costituisce, cioè, manifestazione di quel potere disciplinare conferito all’autorità giudiziaria per un corretto e leale svolgimento del processo, in omaggio ai principi di cui agli artt. 128 e 175 c.p.c. Tale potere è «diverso e distinto da quello di giurisdizione (sia in senso decisorio che in senso istruttorio) al quale peraltro è ordinato strumentalmente. Esso mira soltanto a rendere possibile l’attuazione della regola del processo101». È appena il caso di ricordare che esso si manifesta non solo attraverso la condanna al pagamento di pene pecuniarie, ma anche mediante l’ordine di celebrazione dell’udienza a porte chiuse per ragioni di ordine pubblico e/o buon costume102, ovvero di allontanamento di soggetti presenti in aula. Mentre il potere di polizia del giudice è strumentale alla tutela del diritto sostanziale, sì da evitare che l’abuso di diritti processuali soggettivi possa pregiudicare l’attuazione del diritto sostantivo della controparte, è il diritto processuale obiettivo ad essere strumentale alla tutela dell’interesse protetto ab origine dalla norma penale di disciplina del reato, poi formalmente derubricato, per effetto del D.Lgs. n. 7/2016. – Poteri prodromici all’assolvimento della funzione deterrente, cui si correlano le restanti tipologie di sanzioni processuali, le quali «sorte in occasione del processo, sono a loro volta strumentali al fine ultimo del processo stesso103». – Potere di costituire, secondo il modello della tutela costitutiva necessaria a contenuto oggettivo, diritti di credito nei confronti dello Stato, in assenza dei quali, a seguito della depenalizzazione ex D.Lgs. n. 7/2016, resterebbero privi di tutela taluni rilevanti beni della vita; – Potere di ingerenza nell’ambito di manifestazioni di autonomia negoziale quali le pene di diritto privato, nonché poteri di quantificazione dell’importo dovuto a titolo di punitive damages. Ciò rappresenta il normale giudizio di meritevolezza della cd. “causa punitiva”, la quale costituisce uno schema di carattere generale cui è riconducibile ogni atto di autonomia privata con funzione sanzionatoria. In questi termini, «la pena (privata) va incontro agli stessi limiti dell’autonomia privata. [Una volta accertata la liceità della funzione sanzionatoria] è da chiedersi se risponda anche al canone della meritevolezza dell’interesse (art. 1322, co. 2, c.p.c.)104». Può conclusivamente osservarsi che, più che di potere sanzionatorio tout court, oltre al naturale potere di controllo della meritevolezza della causa punitiva, il giudice civile è dotato di poteri pan-pubblicistici, quali quelli di polizia, ma non di poteri para-penalistici, dovendosi così escludersi che il processo civile possa costituire luogo di applicazione di sanzioni penali.

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P. Pagliardi, Dei poteri del giudice istruttore in generale, in E. Allorio (a cura di), Commentario al codice di procedura civile, II, Torino, 1980, 539. 102 Cfr. R. Marengo, voce Udienza civile, nell’Enciclopedia del diritto, 1992, 486. 103 A.D. De Santis, op. cit., 1, alla cui trattazione sia consentito rinviare. 104 E. Moscati, voce Pene private, cit., 785.

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Brevi note in tema di opposizione all’esecuzione e vicende del titolo esecutivo Sommario : 1. Il titolo esecutivo e le opposizioni. – 2. Il potere del giudice dell’e-

secuzione di rilevare la caducazione del titolo esecutivo. – 3. Gli effetti della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo sul giudizio di opposizione all’esecuzione. – 3.1. Gli orientamenti della Corte di Cassazione. – 3.2. La cessazione della materia del contendere. – 3.3. L’oggetto dell’opposizione all’esecuzione. – 3.4. Il riparto delle spese.

La giurisprudenza e la maggior parte della dottrina riconoscono al giudice dell’esecuzione il poteredovere di verificare la sussistenza del titolo esecutivo, condizione necessaria per intraprendere l’esecuzione forzata, in tutto il corso dell’esecuzione. Analogo potere è assegnato dalla giurisprudenza anche al giudice dell’opposizione all’esecuzione. Se è ormai pacifico che il giudice dell’esecuzione, rilevata la carenza del titolo, chiude il processo esecutivo con un’ordinanza di estinzione c.d. atipica o improcedibilità, più incerto è il contenuto del provvedimento che in analoghe circostanze deve adottare il giudice dell’opposizione. L’analisi degli orientamenti emersi in giurisprudenza della Corte di Cassazione è l’occasione per esaminare alcuni profili dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., anche con riguardo al riparto delle spese di lite. Jurisprudence and doctrine pacifically recognize the power and duty of the execution judge (giudice dell’esecuzione) to verify the existence of the enforceable title (titolo esecutivo), prerequisite for undertaking the forced execution, throughout all the execution process. Similar power is assigned by the jurisprudence also to the opposition judge (giudice dell’opposizione). If today it is common ground that the execution judge closes the execution process with an order of extinction (ordinanza di estinzione c.d. atipica o improcedibilità) – once realized that the necessary condition of the enforceable title is missing – what continues to remain uncertain is the content, that in these specific circumstances, the decree of the opposition judge must hold. A close analysis of the different guidelines of the Supreme Court of Cassation is an opportunity to examine closely the abovementioned issues regarding the opposition process and the forced execution in general, also respect to the allocation of litigation costs.

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1. Il titolo esecutivo e le opposizioni. Il primo comma dell’art. 474 c.p.c., codificando il principio nulla executio sine titulo, esprime la c.d. efficacia incondizionata del titolo esecutivo, intendendosi che con ciò che esso è condizione necessaria e sufficiente per intraprendere l’esecuzione forzata1 (la quale pertanto è tendenzialmente indifferente ad eventuali difformità o mutamenti della realtà sostanziale). La dottrina tradizionalmente ricostruisce intorno al titolo esecutivo il ruolo di garante dell’astrattezza dell’azione esecutiva2. Con ciò si intende che l’azione esecutiva è indifferente, nel momento del suo inizio e nel corso del suo svolgimento, alle vicende del diritto sostanziale tutelato per mezzo dell’esecuzione, inclusa l’inesistenza, originaria o sopravvenuta, dello stesso. La presenza del titolo esecutivo consente di evitare che facciano ingresso nell’esecuzione questioni di diritto sostanziale: nelle intenzioni del Codice del 1942, il giudice dell’esecuzione, titolare del solo potere d’ordinanza, non avrebbe dovuto preoccuparsi di risolvere questioni relative al diritto sostanziale (neppure avrebbe dovuto trovarsi di fronte ad esse). L’esecuzione forzata sarebbe stata così libera dal peso della cognizione: l’eseguire avrebbe dovuto consistere esclusivamente nel compimento delle attività materiali che fanno conseguire al procedente quanto, secondo il titolo esecutivo, gli spetta3.

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Si tratta di principio estremamente noto, e l’espressione frequentissima; a mero titolo d’esempio, senza alcuna pretesa di completezza, si segnala, nella manualistica più recente, Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2019, 165 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Torino, 2017, 275; Farina, L’opposizione all’esecuzione, in La nuova espropriazione forzata, a cura di Delle Donne, Bologna, 2017, 794; Luiso, Diritto processuale civile, III, Il processo esecutivo, Milano, 2017, 34; si rinvia inoltre agli scritti citati nel prosieguo del testo e nelle note. Per tutti v.: Furno, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze, 1942, 15 e ss.; Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, in Giur. sist. dir. proc. civ., diretta da Proto Pisani, Torino, 1993, 2 ss.; recentemente Capponi, Manuale, cit., 165 ss., Farina, L’opposizione all’esecuzione, cit., 794; Cirulli, Valori funzionali del processo esecutivo e poteri officiosi, in Rass. Esec. Forz., 2019, 250 ss., anche per la distinzione tra “autonomia” ed “astrattezza” dell’azione esecutiva. L’evoluzione giurisprudenziale e gli studi della dottrina hanno dimostrato che il successo conseguito dal Codice, e celebrato nella Relazione al Re, fosse almeno in parte illusorio. Effettivamente il legislatore del 1942 aveva sostituito la forma della citazione con quella più snella del ricorso ed eliminato i provvedimenti emanati con sentenza collegiale rimpiazzandoli con ordinanze o decreti: R. Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, cit., 55 ss. Ma, allo stesso tempo, il Codice ammetteva l’intervento dei creditori del debitore esecutato non assistiti da titolo esecutivo (art. 499, comma 1, c.p.c., nel testo anteriore alla sostituzione operata nel 2005). La dottrina già aveva dimostrato la difficoltà di concepire l’intervento del creditore non titolato quale esercizio di un’azione schiettamente esecutiva: ad es., osservava il Liebman che «in quanto i creditori possano intervenire senza essere muniti di titolo esecutivo, sono essi che con la loro domanda propongono un giudizio di cognizione per procurarselo in questa forma speciale»: E. T. Liebman, Le opposizioni di merito nel processo di esecuzione, Roma, 1936, 202 e ss. Per ampi riferimenti sulla dottrina successiva al Codice v. Vaccarella, op. cit., 60 e ss., che osserva: «estremamente significativa non può non apparire la circostanza che, nonostante la nuova disciplina del processo esecutivo sia marcatamente… «esecutiva», nella dottrina posteriore al codice si rinvengano sostanzialmente, mutatis mutandis, le medesime correnti di pensiero affacciatesi sotto la «cognitiva» disciplina del c.p.c. del 1865; e che anzi, si siano moltiplicati gli sforzi per inserire – in un contesto normativo indubbiamente ostile – un’attività cognitiva nel seno stesso dell’esecuzione». Anteriormente alle riforme del 2005-2006, era comune, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, l’adozione dello schema secondo cui mentre al giudice dell’esecuzione spettava solo un controllo di ritualità degli interventi, il giudizio di vera e propria cognizione sul credito doveva avvenire nelle forme di cognizione previste dall’art. 512 c.p.c. Con le citate riforme, da un lato, si è novellato l’art. 499 c.p.c. prevedendo un procedimento che conferisce centralità, più che all’attività di cognizione del giudice, al debitore; dall’altro, si è riscritto l’art. 512 c.p.c. attribuendo al giudice dell’esecuzione il compito di risolvere, con provvedimento ordinatorio ad effetti endoesecutivi, le controversie distributive. Per ulteriori osservazioni, per tutti v. Capponi, La

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Brevi note in tema di opposizione all’esecuzione e vicende del titolo esecutivo

In questa prospettiva il creditore munito di titolo esecutivo finiva per godere di una posizione di netto vantaggio sul debitore: era infatti in grado di esercitare l’azione esecutiva, dando luogo ad un processo nel quale le contestazioni del debitore, volte a negare l’esistenza del diritto a procedere ad esecuzione forzata – anche sotto il profilo della legittimità sostanziale dell’esecuzione – non trovavano spazio. Oggi, peraltro, è chiara a tutti l’esigenza di interpretare la disciplina del processo esecutivo in modo da ritenere pienamente garantiti al suo interno i principi del contraddittorio e della parità delle armi, a meno di non volerne porre in dubbio la legittimità costituzionale4. Tuttavia, ciò che non faceva ingresso nel processo esecutivo (le eccezioni del debitore intorno al diritto di procedere ad esecuzione forzata e all’inesistenza del diritto sostanziale fatto valere) doveva trovare una sede idonea ad ospitarlo. In altri termini, l’esigenza di un’esecuzione celere – che garantisse al creditore la soddisfazione del diritto nel minor tempo possibile, senza dare spazio ad atteggiamenti dilatori del debitore – andava contemperata con la garanzia che l’esecuzione fosse “giusta” sia processualmente (fondata su un valido titolo esecutivo), sia secondo il diritto sostanziale (che non si fosse data esecuzione a un diritto inesistente). Le eccezioni del debitore venivano così convogliate nelle opposizioni del Titolo V, Capo I del Codice: l’opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.), l’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), l’opposizione di terzo all’esecuzione (art. 619 c.p.c.). La prima e la terza sono dette anche opposizioni di merito; l’opposizione ex art. 617 c.p.c. invece, per il suo oggetto, opposizione formale. Per mezzo dell’opposizione all’esecuzione il debitore contesta il «diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata». Sul punto si tornerà più diffusamente, ma è bene ricordare da subito l’insegnamento tradizionale e assolutamente prevalente5 secondo

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verificazione anticipata dei crediti nell’espropriazione forzata: vecchie soluzioni, nuovi problemi, in Riv. esec. forz., 2010, 312 ss.; Id., Manuale, cit., 67 ss. Alla stessa tendenza, per cui il giudice dell’esecuzione non più solamente esegue, ma anche «conosce allo scopo di eseguire», l’A. riconduce la modalità dell’accertamento del credito pignorato nell’espropriazione presso terzi, l’istituto delle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c., nonché la previsione dell’art. 2929 bis c.c. Tale considerazione è avvalorata dal nuovo testo dell’art. 111 Cost. Sebbene ora non si dubiti del fatto che il processo esecutivo sia soggetto al principio del contraddittorio e della parità delle armi, che informano di sé, per ineludibile principio costituzionale e convenzionale, tutta l’attività giurisdizionale (art. 111, comma 2, Cost. e art. 6 CEDU), non erano infrequenti, nella dottrina più risalente, opinioni che lo negavano. Queste trovavano fondamento in argomenti di varia natura: la disponibilità di un titolo esecutivo che legittimamente attribuisce al creditore rispetto al debitore una posizione di vantaggio; l’idea che l’esecuzione sia attività pratica e operativa; l’esistenza di opposizioni esecutive, giudizi di cognizione, quali (unici) luoghi deputati al contraddittorio (sul punto si v. nota 6). A prescindere dalla riforma dell’art. 111 Cost., la dottrina processualistica aveva già sottolineato la necessità di riconoscere definitivamente che il processo esecutivo fosse soggetto ai principi del contraddittorio e della parità delle parti: per tutti v. Tarzia, Il contraddittorio nel processo esecutivo, in Riv. dir. proc., 1978, 193 ss. In particolare, si sono valorizzate alcune disposizioni (su tutte l’art. 485 c.p.c. collocato tra le norme generali sull’espropriazione forzata, e corrispondentemente, per l’esecuzione in forma specifica, l’art. 612 c.p.c.), istituti quali la conversione del pignoramento; si è altresì osservato (Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 66), che «è assurdo negare che nel processo esecutivo si attui il principio del contraddittorio, perché le parti non possono interloquire su qualcosa che è irrilevante per l’emanazione della misura esecutiva: l’esistenza del diritto sostanziale di cui si chiede la tutela». Le più recenti riforme hanno previsto, tra l’altro, in consonanza con i principi costituzionali, la possibilità di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo dal giudice dell’opposizione a precetto (art. 615, comma 1, c.p.c.) (v. per questo ed altri rilievi Capponi, op. ult. cit., 66). Peraltro, proprio l’ampliamento dei poteri latu sensu cognitivi del giudice dell’esecuzione, cui si è fatto cenno e su cui si ritornerà infra, richiede una più rigorosa attenzione al rispetto del principio del contraddittorio all’interno dell’esecuzione. Per una diversa proposta interpretativa, si v. infra, in part. nota 39.

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cui con l’opposizione ex art. 615 c.p.c. il debitore è abilitato a contestare a) il fondamento processuale dell’esecuzione, e cioè, appunto, la valida esistenza del titolo esecutivo durante l’intero corso del processo esecutivo; b) l’esistenza del diritto sostanziale sottostante a tutela del quale il creditore ha agito in executivis; c) infine, come espressamente disposto dal legislatore a preventiva risoluzione di eventuali incertezze, la pignorabilità dei beni assoggettati all’esecuzione. Ampi dibattiti si sono svolti intorno alla collocazione sistematica dei giudizi di opposizione all’esecuzione rispetto al processo esecutivo6. Piuttosto che procedere in rassegna di tutte le autorevoli opinioni espresse sul tema, giova rimarcare i profili su cui si è consolidato un certo consenso. In primo luogo, pressoché nessuno degli autori dubita della totale autonomia strutturale che contraddistingue i processi di opposizione rispetto all’esecuzione (dimostrata, ad esempio, dalle disposizioni in materia di competenza dettate per le opposizioni, di spettanza del giudice della cognizione, e non del giudice dell’esecuzione). Autonomia strutturale oggi è riconosciuta anche all’opposizione agli atti, sebbene in precedenza la peculiarità del suo oggetto (la «regolarità formale» di titolo esecutivo e precetto, della loro notificazione, e dei singoli atti dell’esecuzione) avesse sollecitato letture che la riducevano a mera fase del processo esecutivo7.

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Emerge in effetti una certa difficoltà nel definire unitariamente le opposizioni esecutive (per il momento si farà riferimento ad un concetto unico delle opposizioni, ma delle rispettive differenze occorrerà tenere conto); numerose le formule utilizzate: «fasi dell’esecuzione», «parentesi cognitive nell’esecuzione», «incidenti di cognizione». Molti i tentativi di fornire una soddisfacente collocazione sistematica alle opposizioni; tra i più illustri si ricorda quello di Furno, Disegno sistematico, cit., in part. 15 ss., e 83 ss. il quale, definite le opposizioni una «accidentalità possibile, un episodio eventuale, che imprime al corso del processo esecutivo un andamento anormale», spiega che l’eccezionalità delle stesse è dovuta proprio al fatto che esse hanno tutte indole dichiarativa e non esecutiva, e afferma che “incidenti” del processo di esecuzione siano solo le opposizioni agli atti esecutivi, e che a differenza di esse, le opposizioni di merito sono “giudizi principali”. Nel vigore del vecchio Codice, Liebman, Le opposizioni di merito, cit., 247 ss., affermava che il rapporto processuale che si costituisce con la domanda d’opposizione, «non è semplicemente una fase del rapporto processuale esecutivo», presenta infatti delle marcate caratteristiche di autonomia da esso, e però, la relazione tra i due resta di dipendenza del processo oppositivo dal primo; proprio dall’opera del Liebman si ricavano le nozioni di processo esecutivo in senso lato e di processo esecutivo in senso stretto, la seconda delle quali non include le opposizioni. In relazione alla accennata questione della rispondenza del processo esecutivo ai principi del contraddittorio e della parità delle parti, la collocazione delle opposizioni all’interno dell’esecuzione ha condotto alcuni Autori alla conclusione che proprio la presenza delle stesse valesse ad assicurare le necessarie garanzie al debitore, e per conseguenza, ad espungere ogni elemento dall’esecuzione c.d. in senso stretto: si v. Mazzarella, Sul contraddittorio nel processo esecutivo, in Riv. dir. civ., 1979, 623 ss.; posizione questa che la prassi ha dimostrato insoddisfacente, viste le esigenze cognitive, cui già si è fatto cenno, che si sono manifestate nell’esecuzione: per questa ed ulteriori considerazioni v. Vaccarella, op. cit., 82 e ss. La vicenda dell’opposizione agli atti esecutivi è stata ricostruita da Oriani, L’opposizione agli atti esecutivi, Napoli, 1987, in part. Capp. I e II. Come è noto, l’opposizione agli atti esecutivi nasce quale sede deputata al controllo degli atti esecutivi. Varie le ipotesi susseguitesi in dottrina circa la natura di questo peculiare rimedio. Senza alcuna pretesa di completezza, si ricordano qui quella del Carnelutti, che ne riscontrava una fase incidentale del processo esecutivo, partecipe della natura esecutiva, e tale da concludersi proprio con un provvedimento, che ha la forma di sentenza, ma in realtà opera da atto esecutivo, prendendo il posto di quello erroneamente adottato dal giudice dell’esecuzione o dall’ufficiale giudiziario (si v. Carnelutti, Istituzioni di diritto processuale civile, III ed., Roma, 92 e ss.); quella del Furno, Disegno sistematico, cit., 178 e ss., che, critico nei confronti della tesi dal Carnelutti ora brevemente riferita, limita l’autonomia dell’opposizione 617 c.p.c. rispetto alle altre, perché questa costituisce «semplice fase incidentale dichiarativa» del processo esecutivo, nel cui ambito chiuso si svolge. L’utilità dell’opposizione agli atti emerge soprattutto quando, ammessa la proponibilità della stessa sia da parte del debitore che del creditore e verso tutti i provvedimenti del giudice dell’esecuzione, nonché la possibilità di far valere a mezzo di essi non solo l’irregolarità ma anche l’inopportunità degli atti del g.e., venne riconosciuta la ricorribilità per cassazione della sentenza ai sensi dell’art. 111, comma 7 (olim comma 2), Cost. Così l’opposizione agli atti pervenne a quella configurazione che l’ha resa lo strumento del controllo anche sui poteri latu sensu cognitivi che il giudice dell’esecuzione deve necessariamente (malgrado il contrario auspicio del legislatore) esercitare nel corso del processo

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Brevi note in tema di opposizione all’esecuzione e vicende del titolo esecutivo

In secondo luogo, va tenuto in conto il ruolo di cerniera tra il processo esecutivo e le opposizioni assegnato all’istituto della sospensione. La proposizione dell’opposizione all’esecuzione e dell’opposizione agli atti non determina una automatica sospensione del processo esecutivo: l’art. 624 c.p.c. dispone infatti che il giudice dell’esecuzione sospende il processo se, in presenza di opposizione ai sensi degli artt. 615 e 619 c.p.c., sia stata proposta istanza e ricorrano gravi motivi. Dunque, il processo esecutivo non si arresta a seguito dell’opposizione (così avrebbe potuto ritenersi solo a fronte di una sospensione necessaria); né pare sostenibile che il giudizio di opposizione ne costituisca semplicemente una fase. A giustificare la separatezza tra il processo esecutivo e i giudizi di opposizione soccorre la stessa costruzione dell’azione esecutiva come astratta ed autonoma, per effetto del titolo esecutivo; allo stesso tempo, c’è un collegamento indissolubile tra le opposizioni e il processo esecutivo nell’ambito del quale sono proposte. Ciò è dimostrato dalle tecniche procedimentali disciplinate dall’art. 615 c.p.c.8 e dall’ampio dibattito circa la natura del giudizio di opposizione all’esecuzione (su cui si tornerà) che è d’interesse pratico soprattutto sotto il profilo degli effetti che la sentenza che statuisce sull’opposizione può produrre nel processo esecutivo, nonché delle modalità di coordinamento tra tale sentenza e l’esecuzione. A ciò si aggiunga l’evidenza che la proposizione delle opposizioni può avvenire non prima che l’esecuzione sia stata almeno “minacciata” con il precetto, e non dopo la sua conclusione. Il Liebman, sostenitore dell’autonomia dell’azione esecutiva, configura l’opposizione all’esecuzione quale processo volto a conoscere di un atto del processo esecutivo; e per quanto egli sostenga che con la domanda di opposizione all’esecuzione si costituisca un rapporto processuale autonomo (con presupposti e natura propri e diversi da quelli del processo esecutivo), allo stesso tempo afferma che «il rapporto di processuale di cognizione che si viene così a costituire non è però senza qualche particolare relazione col rapporto esecutivo, relazione che è visibile perché esso è generato e si distacca da questo come un ramo dal tronco principale»9. Per il Liebman dunque – ed è questo uno dei motivi di critica avanzati dal Furno – processo esecutivo e giudizio di opposizione sono contestualmente autonomi e dipendenti fra loro. Il Furno, invece, in epoca successiva

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esecutivo; configurazione che sembra definitivamente accolta dal legislatore, il quale intende l’opposizione ex art. 617 c.p.c., ora espressamente richiamata nei novellati artt. 512 e 529 c.p.c quale «vero rimedio di chiusura» dell’esecuzione forzata. Sul punto, oltre alla già citata opera di Oriani, si vedano Vaccarella, Titolo esecutivo, cit., 67 ss.; più recentemente, Capponi, Manuale, cit., 464 ss. Le modalità d’introduzione del giudizio di opposizione all’esecuzione sono disciplinate dall’art. 615 c.p.c., che per l’ipotesi in cui l’opposizione sia proposta a processo esecutivo già iniziato, prescrive la forma del ricorso al giudice dell’esecuzione. La prima fase si svolge davanti allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale è chiamato essenzialmente a svolgere due attività: fissare un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito, e pronunciare, su istanza di parte, l’eventuale provvedimento sospensivo dell’esecuzione. La seconda fase, innanzi al giudice della cognizione, è volta all’esame del merito dell’opposizione. Questa configurazione, adottata con la riforma del 2006, è chiamata comunemente “struttura bifasica” ed è comune a tutte le opposizioni (tranne, per evidenti ragioni, l’opposizione c.d. a precetto). Sulla struttura bifasica delle opposizioni, e in particolare, nel senso che è esclusa la possibilità di “saltare” la fase sommaria, per introdurre direttamente il “merito” dell’opposizione, si vedano: Cass., 11 novembre 2018, sent. n. 25170; Cass., 12 novembre 2018, ord. n. 28848. Liebman, Opposizioni di merito, cit., 247 ss.

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all’entrata in vigore del nuovo Codice, qualifica tale rapporto in termini di una più sfumata «occasionalità»10. E insiste sulla distinzione tra autonomia formale – questa sì indiscutibile – che è comune a entrambe le opposizioni, e natura di giudizio principale, che è possibile riconoscere solo a quello ex art. 615 c.p.c., «parallelo allo svolgimento del processo esecutivo e svincolato dal contenuto di esso: collegato peraltro con l’esecuzione per via di quelle ragioni di merito che, avendo tratto ai presupposti di questa, non possono formarne in concreto il contenuto, dato che essa consta esclusivamente, per sua istituzionale natura, di operazioni materiali, di attività strettamente e tecnicamente esecutive»11. Sulla scia del pensiero scientifico così brevemente sintetizzato, ciò che si vuole qui mettere in luce è soltanto che, ferma restando l’autonomia sul piano strutturale, la ricostruzione teorica dell’opposizione all’esecuzione appare in tensione tra due poli: da un lato, preservare l’astrattezza del processo esecutivo, dall’altro garantire una tutela effettiva delle ragioni del debitore, pure sotto il profilo del diritto sostanziale cui attinge l’opposizione all’esecuzione c.d. di merito.

2. Il potere del giudice dell’esecuzione di rilevare la caducazione del titolo esecutivo.

Conseguenza primaria dell’autonomia tra esecuzione e opposizioni è che il debitore, per proporre le eccezioni, deve farsi attore nel giudizio di opposizione: per questa ragione, quest’ultimo viene definito eccezione in veste d’azione12. La dottrina si è interrogata se in tale quadro residui al giudice dell’esecuzione un potere specifico di rilevare la carenza del titolo esecutivo13. Secondo la giurisprudenza14, il giudice

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Furno, Disegno sistematico, cit., 104 ss. Ibidem. 12 Che le opposizioni siano eccezioni in veste d’azioni è affermazione tradizionale e frequente: a titolo d’esempio cfr. Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv. esec. forz., 2007, par. 4.3, e Id., Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, cit., 81, con riferimento all’opposizione all’esecuzione: «non è contestabile che è soltanto la struttura del processo di esecuzione […] ad imporre la veste di azioni a tali motivi, i quali non cessano, per sola virtù di tale veste esteriore, di essere fatti estintivi, impeditivi o modificativi», con rinvio a S. Satta, Commentario; Capponi, Manuale, cit., 436. 13 Il controllo del giudice dell’esecuzione sul titolo esecutivo è tradizionalmente condizionato dalla distinzione tra intrinseco ed estrinseco del titolo, operante in particolare per i titoli esecutivi giudiziali. La tendenza originaria era di limitare il controllo al solo c.d. estrinseco, e cioè alla sola esistenza del titolo-documento: per tutti Capponi, Manuale, cit. L’esperienza dell’improcedibilità dell’esecuzione ovvero della sua estinzione atipica, su cui si v. nota seguente, ha comportato il superamento di tale impostazione, ed ora in giurisprudenza è ammesso pacificamente che il giudice dell’esecuzione possa spingersi al controllo dell’esistenza effettiva del credito che è portato dal titolo. In giurisprudenza si veda Cass., 22 giugno 2017, ord. n. 15605, (insieme a tutte le altre sentenze indicate alla nota seguente), che riconosce al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di verificare la sussistenza del titolo esecutivo, rilevando eventualmente anche l’inesistenza del credito portato dal titolo a seguito di pagamento. 14 Il giudice dell’esecuzione, secondo la giurisprudenza, sarebbe chiamato a pronunciare, ove rilevasse la carenza del titolo esecutivo, un provvedimento di estinzione c.d. atipica (e cioè diversa rispetto alle fattispecie estintive disciplinate nel Codice) del processo esecutivo: tra le tante, Cass., 22 giugno 2017, ord. n. 15605 (su cui v. sotto); Cass., 12 luglio 2019, ord. n. 18743; Cass., 7 dicembre 2018, ord. n. 31694; Cass., 2 ottobre 2018, ord. 23902. Le figure di estinzione atipica, per definizione individuate dalla prassi, sono ormai numerose, al punto che il legislatore ne ha tenuto conto quando ha riformulato con la l. 80/2005 l’art. 187-bis disp. att. c.p.c., menzionando, accanto all’estinzione, i casi di «chiusura anticipata del processo esecutivo». Sono ricondotti ad estinzione atipica, ad 11

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dell’esecuzione è titolare del potere-dovere di rilevare l’inesistenza del diritto a procedere ad esecuzione forzata, e pertanto deve rifiutare il compimento degli atti esecutivi. Titolare del solo potere di ordinanza, è chiamato a rispondere negativamente alle istanze rivoltegli dal creditore procedente, e a dichiarare l’estinzione c.d. atipica (o di improcedibilità) del processo esecutivo. Il creditore, a fronte della negazione della tutela richiesta, è abilitato a proporre opposizione agli atti esecutivi (d’altra parte, l’ordinanza che chiude l’esecuzione è un atto esecutivo), ottenendo così il controllo (ineliminabile, per ragioni costituzionali) del provvedimento negativo del giudice dell’esecuzione. A favore di questa soluzione si adducono alcuni argomenti di rilievo. In primo luogo, in questo modo si evita che il debitore debba instaurare un giudizio a cognizione piena anche quando sia assolutamente manifesto che il diritto a procedere ad esecuzione forzata sia inesistente. Si tratta in sostanza di un’applicazione del principio di economia dei giudizi, che ridurrebbe il numero di opposizioni ex art. 615 c.p.c.; economia che, al contempo, rischia di essere frustrata se si tiene conto che il creditore insoddisfatto è comunque abilitato a proporre l’opposizione agli atti. Inoltre, secondo tale opinione, appare logica conseguenza della struttura del processo esecutivo ammettere il giudice dell’esecuzione al rilievo della carenza titolo esecutivo, e cioè della condizione necessaria della sua stessa attività. In dottrina si sono levate voci contrarie all’ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione nel senso indicato. Il riferimento è all’opinione del Luiso, il quale osserva che la medesima questione, e cioè l’insussistenza del diritto a procedere ad esecuzione forzata15

es., le ipotesi in cui il bene pignorato viene meno in corso d’esecuzione, oppure sia giuridicamente impossibile espropriarlo (è il caso della “quota” del bene ricompreso nella comunione legale tra i coniugi, ove il debito gravi su solo uno di essi), ma soprattutto, per quanto qui interessa, le circostanze in cui l’esecutato avrebbe potuto proporre opposizione di merito, ma ciò non è avvenuto (e dunque, il provvedimento del giudice dell’esecuzione tiene luogo di una pronuncia di accoglimento di opposizione all’esecuzione). Sull’estinzione atipica, si v. tra i più recenti, Olivieri, Note sulla chiusura atipica del processo esecutivo, in Rass. Esec. Forz., 2020, 80 e ss.; Iannicelli, Sul provvedimento del g.e. che dichiara improcedibile il processo esecutivo rilevando il pagamento del credito portato dal titolo azionato, in Rass. Esec. Forz., 2019, 606 ss.; Capponi, Dall’esecuzione civile all’ottemperanza amministrativa, in Riv. Dir. Proc., 2018, 370 ss. In giurisprudenza di legittimità si segnala, in particolare, la già citata Cass., 22 giugno 2017, ord. n. 15605, con nota di Vincrè, L’«improcedibilità» dell’espropriazione e l’opposizione all’esecuzione, in Riv dir. proc., 2018, 1651. La Corte afferma che il giudice dell’esecuzione, qualora rilevasse, a prescindere dall’opposizione del debitore, l’inesistenza del titolo esecutivo (compresa l’ipotesi del pagamento del credito portato dal titolo), deve dichiarare l’improseguibilità dell’esecuzione per difetto di valido titolo esecutivo, ovvero l’estinzione c.d. atipica. Tra le due, la Suprema Corte esprime preferenza per la prima formula, poiché il termine estinzione andrebbe riservato alla sole ipotesi nominate nel Codice (artt. 629 c.p.c. e ss.) anche per evitare equivoci terminologici. La sentenza, inoltre, merita d’essere segnalata in quanto si occupa del rapporto tra improcedibilità (o chiusura anticipata con provvedimento del g.e.) dell’esecuzione e opposizione all’esecuzione pendente. Viene riconfermata poi la possibilità per il debitore di far valere l’inesistenza del titolo (e del credito) sia proponendo l’opposizione all’esecuzione, sia limitandosi a sollecitare il potere officioso del g.e., e si ribadisce che il creditore, a fronte del provvedimento del g.e. che chiude il processo esecutivo, dispone del rimedio dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. 15 L’A. distingue tra «titolo esecutivo in senso sostanziale» e «titolo esecutivo in senso documentale». Il primo è la fattispecie che fa sorgere il diritto (processuale, a dispetto del nome) alla tutela esecutiva di una certa fattispecie sostanziale protetta; la sua esistenza fa nascere, nel rapporto tra istante e ed organi esecutivi, il dovere di questi ultimi di attivarsi per la soddisfazione del diritto (questo sì sostanziale) che risulta dal titolo. Titolo esecutivo in senso documentale è il «documento che rappresenta in modo non completo la fattispecie del diritto a procedere ad esecuzione forzata», non completo perché in esso può mancare (occasionalmente) la rappresentazione di fatti costitutivi, e (necessariamente) quella dei fatti estintivi e modificativi del diritto fatto valere, perché temporalmente successivi alla formazione del documento (ma pur sempre rilevanti per l’esistenza del titolo esecutivo in senso

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viene in tal modo ad essere possibile oggetto, tanto di opposizione all’esecuzione, se essa è fatta valere dal debitore, quanto di opposizione agli atti, ove il giudice dell’esecuzione l’abbia rilevata nell’esercizio dei propri poteri officiosi. Ecco la contraddizione: la carenza del titolo esecutivo è motivo di opposizione all’esecuzione e opposizione agli atti, a seconda di chi prende l’iniziativa di proporre l’opposizione16. Né può questa duplicità di vie giustificarsi nella sostanziale equipollenza tra i due rimedi, rimanendo tra di essi la differenza, di non secondario rilievo, che il primo si conclude con sentenza appellabile, mentre il secondo con una sentenza che l’art. 618 dichiara «non impugnabile»: dunque, ferma restando l’esperibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso la sentenza che statuisce sull’opposizione ex art. 617 c.p.c., ove il giudice dell’esecuzione rilevi la carenza del diritto a procedere ad esecuzione forzata, un grado di giudizio viene perso17. Malgrado le perplessità appena riportate, in dottrina, pur solitamente riconoscendo il maggior rigore dell’impostazione che riduce al c.d. intrinseco del titolo esecutivo il controllo del giudice dell’esecuzione, si ammette che questi acceda al rilievo di «questioni che impediscono di portare a termine l’esecuzione», e che in conseguenza «non ci siano questioni targabili da “opposizione all’esecuzione”»18. La giurisprudenza fortemente prevalente (se non unanime) afferma che il giudice dell’esecuzione è titolare del potere-dovere di verificare l’esistenza e la permanenza durante l’intera esecuzione del titolo esecutivo19. Il debitore esecutato pertanto potrà scegliere se rendere la questione della carenza del titolo esecutivo un motivo d’opposizione all’esecuzione, oppure sollecitare il potere di rilevazione d’ufficio da parte del giudice per ottenere un provvedimento (atipico, perché non legislativamente previsto) di chiusura del processo esecutivo, che sarà opponibile ex art. 617 c.p.c. da parte del creditore procedente. Si è parlato pertanto di «doppio binario» su cui viaggiano il controllo del diritto di procedere ad esecuzione forzata e la tutela del debitore esecutato. Peraltro la giurisprudenza più recente, inoltre, non sembra porre particolari limiti a tale potere del giudice dell’esecuzio-

sostanziale). Il titolo esecutivo in senso documentale costituisce, ad avviso dell’A., il limite alla cognizione dell’ufficio esecutivo: constatata l’esistenza del titolo esecutivo in senso documentale, l’ufficio deve procedere; solo un’opposizione dell’esecutato può condurre ad una cognizione piena sul diritto a procedere ad esecuzione forzata (titolo esecutivo in senso sostanziale): Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 36 ss. 16 Luiso, op. cit., 62. 17 A questi rilievi si è replicato che l’ordinamento garantisce ai portatori di contrapposti interessi nell’esecuzione strumenti adeguati ad esercitare un controllo sull’operato del giudice dell’esecuzione, attraverso gli strumenti che ritiene più opportuni; se l’opposizione all’esecuzione garantisce al debitore un provvedimento che impedisce la successiva instaurazione di una nuova esecuzione fondata sul medesimo titolo esecutivo, l’opposizione agli atti esecutivi permette al creditore di ottenere la sospensione ex art. 618 c.p.c. dell’ordinanza, inibendone gli effetti caducatori; si rileva inoltre che la tesi discussa produce l’inconveniente di condurre immancabilmente all’istaurazione di un processo di cognizione anche laddove sia pacifica tra le parti la circostanza della caducazione del titolo esecutivo: Scala, Sugli effetti della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo nel giudizio di opposizione all’esecuzione, in AA.VV., Scritti sul processo esecutivo e fallimentare in ricordo di Raimondo Annecchino, Napoli, 2005, 676 ss. 18 Capponi, Manuale, cit., 121 ss.; si v. anche Oriani, voce Opposizione all’esecuzione, in Digesto delle discipline privatistiche, Torino 1995, 596, (che riconosce la possibilità di un concorso tra opposizione all’esecuzione ed istanza esecutiva ex art. 486 c.p.c.), anche per riferimenti alla giurisprudenza più risalente sul limite dell’impignorabilità dei beni e rilievi problematici circa la possibilità di rilevare l’insussistenza del diritto. 19 Oltre alla già citata Cass., 22 giugno 2017, ord. n. 15605, si v. anche tutta la giurisprudenza citata in note 22 e 23.

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ne: segnatamente, appare superato quello, che in dottrina è spesso ritenuto invalicabile proprio in virtù dell’astrattezza dell’azione esecutiva, della controllo sul solo estrinseco del titolo esecutivo, per tale intendendosi il controllo sui vizi formali del documento; infatti, la giurisprudenza ammette che la chiusura officiosa dell’esecuzione possa conseguire anche al rilievo dell’estinzione del credito che nel titolo è rappresentato20.

3. Gli effetti della sopravvenuta caducazione del titolo

esecutivo nel corso giudizio di opposizione all’esecuzione.

3.1. Gli orientamenti della Corte di Cassazione. La giurisprudenza prevalente assegna – oltre che al g.e. – anche al giudice dell’opposizione all’esecuzione il potere di rilevare d’ufficio la carenza del titolo, in ogni stato e grado del processo e anche in sede di legittimità21. Più incerto è il contenuto del provvedimento che il giudice deve adottare in tale circostanza. In giurisprudenza di legittimità si sono manifestati due orientamenti. Secondo il più risalente, ravvisata la carenza del titolo esecutivo, l’opposizione andrebbe accolta nel merito22. Altri arresti, più recenti, qualificano la caducazione del titolo esecutivo quale fatto sopravvenuto che comporta la cessazione della materia del contendere dell’opposizione, ma, al contempo, ritengono l’opposizione fondata, qualunque sia il motivo per cui era stata proposta, soprattutto agli effetti del regolamento delle spese giudiziali23.

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V. nota 14. Tra le più recenti: Cass., 17 gennaio 2020, ord. n. 1005; Cass., 9 agosto 2019, sent. n. 21240; Cass., 11 dicembre 2018, n. 31955; Cass., 19 novembre 2018, sent. n. 30857; Cass., 6 settembre 2017, ord. n. 20868; Cass., 13 marzo 2012, sent. n. 3977; contra: Cass., 7 marzo 2002, sent. n. 3316. 22 Si riscontrano varie pronunce che, distinguendo tra opposizione agli atti e opposizione all’esecuzione, affermano che, in caso di estinzione del processo esecutivo, solamente per la prima si verifica la cessazione della materia del contendere per sopravvenuto difetto d’interesse, permanendo invece l’interesse, in ordine all’esistenza del titolo esecutivo o del credito, ove si tratti delle seconde: Cass., 10 luglio 2014, sent. n. 15761; Cass., 31 gennaio 2012, sent. n. 1353; Cass., 24 febbraio 2011, sent. n. 4498. 23 Cass., 6 settembre 2017, ord. n. 20868: «In sede di opposizione all’esecuzione con cui si contesta il diritto di procedere all’esecuzione forzata perché il credito di chi la minaccia o la inizia non è assistito da titolo esecutivo, l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione sui motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione. Pertanto, dichiarata cessata la materia del contendere per effetto del preliminare rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo esecutivo nelle more del giudizio di opposizione, per qualunque motivo sia stata proposta, l’opposizione deve ritenersi fondata, e in tale situazione il giudice dell’opposizione non può, in violazione del principio di soccombenza, condannare l’opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti, risultando detti motivi assorbiti dal rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo con conseguente illegittimità “ex tunc” dell’esecuzione» (massima ufficiale). Conforme a tale orientamento la più recente Cass., 9 agosto 2019, sent. n. 21240, in Giur. it., 2020, 328, con nota di Barafani, La caducazione del titolo esecutivo in sede di opposizione. In motivazione: «Nonostante qualche oscillazione nella recente giurisprudenza di questa Corte (n. 30857/2018; n. 31955/2018), deve confermarsi il principio che l’esecuzione diviene ingiusta se, durante lo svolgimento del processo esecutivo – che può essere rilevata anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, importa l’accoglimento dell’opposizione all’esecuzione». Più indietro nel tempo Cass., 13 marzo 2012, sent. n. 3977. 21

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L’orientamento più recente invece prospetta la chiusura dell’opposizione all’esecuzione con pronuncia dichiarativa della sopravvenuta cessazione della materia del contendere, con conseguente applicazione del criterio della soccombenza virtuale per la distribuzione delle spese24. A definitiva soluzione del contrasto, anche in considerazione delle importanti ricadute pratiche in punto di spese, è stato da ultimo sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite25. Quale che sia l’orientamento prediletto, tutte le pronunce sul tema prendono le mosse da due punti fermi. Il primo è la natura dichiarativa del giudizio di opposizione all’esecuzione, qualificata quale domanda di accertamento negativo del diritto a procedere ad esecuzione forzata26. L’altro è che «l’esistenza del titolo esecutivo costituisce la condizione necessaria dell’esercizio dell’azione esecutiva», pertanto «deve convenirsi che la sua esistenza, indipendentemente dall’atteggiamento delle parti, deve essere sempre verificata d’ufficio dal giudice»; e che, in sede di opposizione all’esecuzione «l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione dei motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione»27. Il giudice dell’opposizione, quindi, all’esito dell’esercizio di tale potere-dovere di controllo, può rilevare tanto la carenza originaria, quanto la sopravvenuta caducazione, del titolo esecutivo, determinando entrambe l’illegittimità dell’esecuzione forzata ex tunc. Orbene, secondo le sentenze che si ascrivono al primo orientamento, una volta compiuto tale rilievo, il giudice dell’opposizione non deve diffondersi nell’esame dei motivi proposti con l’opposizione (come si vedrà, ciò è quanto invece sostiene l’orientamento che predilige la definizione dell’opposizione con la formula della cessazione della materia del contendere), perché essi risultano assorbiti dalla rimozione ex tunc di quel titolo, e pertanto, l’opposizione risulta fondata28.

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Cass., 17 gennaio 2020, ord. n. 1005, (con nota di Siciliano, La sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo non determina la fondatezza dell’opposizione ed il suo accoglimento, bensì la cessazione della materia del contendere con applicazione del principio della soccombenza virtuale, in questa rivista, online): «In sede di opposizione all’esecuzione, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, in conformità del generale principio della domanda, non determina “ex se” la fondatezza dell’opposizione e il suo accoglimento, bensì la cessazione della materia del contendere per difetto di interesse, sicché, nel regolare le spese dell’intero giudizio, il giudice dell’opposizione non può porle senz’altro a favore dell’opponente, ma deve utilizzare il criterio della soccombenza virtuale, secondo il principio di causalità, considerando, a tal fine, l’intera vicenda processuale» (massima ufficiale); Cass., 11 dicembre 2018, n. 31955, in Foro it., 2019, 3728, con nota di Nicolella, Gli effetti della sopravvenuta carenza del titolo esecutivo nel giudizio di opposizione; Cass., 19 novembre 2018, sent. n. 30857. 25 Cass., 6 marzo 2020, ord. int. n. 6422. 26 In giurisprudenza di legittimità, ex multis, oltre alle pronunce già citate alle note 21 e successive, Cass., 28 luglio 2011, sent. n. 16610; Cass., 24 aprile 2008, sent. n. 10676: «Il giudice dell’opposizione all’esecuzione, ove ritenga che la corretta interpretazione del titolo esecutivo giudiziale comporti la riduzione della pretesa azionata “in executivis” dal creditore, non può pronunciare una sentenza di condanna del debitore al pagamento della minor somma così determinata, perché in questo caso si duplicherebbe il titolo esecutivo, ma deve limitarsi ad accertare quale sia l’esatto ambito oggettivo e soggettivo del suddetto titolo e, conseguentemente, pronunciarsi sulla legittimità o meno dell’esecuzione già intrapresa, configurandosi, per l’appunto, siffatto giudizio come causa di accertamento negativo, totale o parziale, dell’azione esecutiva esercitata» (massima ufficiale); Cass., 3 settembre 2007, sent. n. 18512. Per gli orientamenti della dottrina v. anche infra, par. 3.3. 27 Ex multis, Cass., 11 dicembre 2018, n. 31955. 28 In dottrina v. Oriani, voce Opposizione, cit., 606: «È consolidato il principio che si deve tener conto della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, così che un’opposizione originariamente infondata, può diventare fondata nel corso del giudizio. E ciò anche qualora sopravvenga un pagamento nel corso del giudizio». Poi aggiunge: «ma in questo caso non potranno attribuirsi all’accoglimento dell’opposizione effetti maggiori di quelli che conseguono ad una rinuncia da parte del creditore procedente agli atti del processo».

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A conforto di questo ragionamento, in alcune pronunce, è addotto l’argomento per cui «chi aziona in via esecutiva un titolo provvisoriamente esecutivo lo fa a suo rischio e pericolo», pertanto, il creditore deve subire le conseguenze della sopravvenuta caducazione del titolo anche sul piano della regolazione delle spese dell’opposizione all’esecuzione29. Questo orientamento, in sostanza, ravvisa nell’opponente la parte sostanzialmente vincitrice, e per l’effetto esclude che le spese possano essere poste a suo carico, in ossequio agli artt. 91 e 92 c.p.c.30. Come si è detto, l’altro orientamento non pone in discussione la rilevabilità officiosa della caducazione titolo esecutivo, né l’illegittimità dell’esecuzione che in un certo momento del suo svolgimento dovesse risultare non sostenuta da un titolo esecutivo. Ritiene però che le conclusioni sopra esposte siano in ingiustificato contrasto con il principio della domanda, che nelle opposizioni esecutive «riceve una ulteriore cristallizzazione in virtù della individuata tipologia dei motivi legittimanti la proposizione di ciascuna categoria di opposizione e della delimitazione dell’oggetto della opposizione all’esame dei motivi concretamente proposti»31. Così, la soluzione più corretta appare quella della cessazione della materia del contendere, ove, nel caso concreto, sia stata «ritualmente acquisita o concordemente ammessa una situazione dalla quale emerga che è venuta meno ogni ragione di contrasto tra le parti».

3.2. La cessazione della materia del contendere. La cessazione della materia del contendere32 è un istituto di creazione pretoria, di utilizzo frequente, e che si manifesta in una casistica vasta e varia. In particolare, la dottrina

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Così la già citata Cass., 13 marzo 2012, sent. n. 3977. L’art. 91 c.p.c. stabilisce il principio della soccombenza; principio da stemperarsi, nel rigore di certe sue applicazioni, con quello di causalità, di cui è espressione il secondo periodo del comma 1 dello stesso art. 91 c.p.c. L’art. 92 c.p.c. prevede la compensazione parziale o totale delle spese di lite, oltre che nei casi di soccombenza reciproca, anche in quelli di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza. L’art. 92 c.p.c. è stato novellato dal d.l. 132/2014 dopo che già il testo aveva già subito modifiche nel 2006 e nel 2009; tutti gli interventi che si sono susseguiti sulla disposizione esprimevano un intento restrittivo della possibilità del giudice di compensare le spese, anche semplicemente attraverso l’imposizione di specifici oneri di motivazione. È peraltro pacifico nella giurisprudenza della Corte che in caso di cessazione della materia del contendere, per i casi in cui manchi l’accordo tra le parti sulle spese, queste debbano essere allocate secondo il principio della soccombenza virtuale, e cioè sulla base della delibazione, in base agli atti di causa, dell’«ipotetico esito che la lite avrebbe avuto ove non fosse cessata la materia del contendere», e deve liquidare le spese in conseguenza. Ex multis, Cass., 18 ottobre 2018, ord. n. 26299: «La cessazione della materia del contendere postula che sopravvengano nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e, con ciò, dell’interesse al ricorso; la composizione in tal modo della controversia giustifica non già l’inammissibilità del ricorso in cassazione bensì, da un lato, la rimozione, con cassazione senza rinvio, delle sentenze già emesse, prive di attualità e, dall’altro, una pronuncia finale sulle spese, secondo una valutazione di soccombenza virtuale» (massima ufficiale); Cass., 11 febbraio 2015, ord. n. 2719; Cass., 7 maggio 2009, sent. n. 10553; Cass., 13 settembre 2007, sent. n. 19160; Cass., 11 gennaio 2006, sent. n. 271. Sulle spese giudiziali, per tutti, Luiso, Diritto processuale civile, I, cit., 429 ss., Consolo, Spiegazioni, I, cit., 645. 31 In giurisprudenza di legittimità, si v., oltre alle pronunce cit. alla nota 24, Cass., 20 gennaio 2011, ord. n. 1328; Cass., 7 marzo 2003, sent. n. 3477. 32 Sul tema v. Sassani, Cessazione della materia del contendere (Diritto processuale civile), in Enc. giur., VI, Roma 1988; Vianello, Cessazione della materia del contendere, in Dig. disc. priv., sez. civile, agg., Torino 2000, 129; Scala, La cessazione della materia del contendere nel processo civile, Torino 2002; Panzarola, Cessazione della materia del contendere (Diritto processuale civile), in Enc. Dir., VI agg., Milano 2002. 30

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ha distinto tra fattispecie di natura sostanziale e fattispecie processuali. Tra le prime ha un posto di rilievo la transazione intervenuta tra le parti nelle more del giudizio; tra le seconde sono state classificate: a) le ipotesi in cui l’attore abbia ottenuto in altra sede le utilità cui mirava per mezzo del processo; b) la fine del processo condizionante nel quale è sorto il giudizio condizionato; c) il caso in cui, in due giudizi collegati, l’intervenuta decisione di uno di essi determini l’inutilità della prosecuzione dell’altro33. All’ipotesi sub b) è ricondotta la dichiarazione di cessazione della materia del contendere che sia pronunciata dal giudice dell’opposizione agli atti esecutivi quando il processo esecutivo si estingua34. È stato altresì affermato che la dichiarazione di cessazione della materia del contendere è alternativa ad una pronuncia di rigetto nel merito della domanda35. A tal proposito, sembra opportuno rilevare che la dichiarazione di cessazione della materia si manifesta, in questa circostanza, alternativa ad una pronuncia di accoglimento e non di rigetto della domanda. L’anomalia è soltanto apparente: le opposizioni, come si è detto, sono «eccezioni in veste di azioni»; dunque, poiché l’iniziativa grava sul debitore-opponente, il loro accoglimento equivale ad una normale pronuncia di rigetto della domanda (domanda che può essere identificata nell’azione esecutiva intrapresa dal procedente). La natura della pronuncia di cessazione della materia del contendere è dibattuta, non essendovi consenso sugli effetti – se di merito o di rito – che essa è in grado di produrre. Parte della dottrina ne sostiene, seppure limitatamente ad alcune fattispecie, la natura di pronuncia di merito, e la capacità di produrre efficacia di giudicato36. Una convergenza su questa seconda ipotesi appare auspicabile perché, se si riconosce alla cessazione della materia del contendere pronunciata dal giudice dell’opposizione all’esecuzione l’attitudine

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Scala, La cessazione, cit., 265 ss., in part. 324 ss. Scala, La cessazione, cit., 324. In giurisprudenza di legittimità Cass., 10 luglio 2014, sent. n. 15761; Cass., 31 gennaio 2012, sent. n. 1353; Cass., 24 febbraio 2011, sent. n. 4498; Cass., 11 gennaio 2006, sent. n. 271. 35 Sassani, Cessazione, cit., 2, ritiene che il corretto inquadramento del fatto sopravvenuto determinante la cessazione della materia del contendere «comporta l’esame della qualificazione che esso meriterebbe se fosse accaduto ante litem. E poiché a questa circostanza consegue talora una valutazione di infondatezza, talora un’improponibilità dell’azione, simmetricamente, in seguito all’instaurazione del giudizio, l’alternativa si porrà tra improseguibilità del processo e rigetto nel merito della domanda». 36 Favorevole al riconoscimento della natura di pronuncia di merito Scala, Op. cit., passim, seppure contrario all’identificazione con una pronuncia di rigetto nel merito, poiché quest’ultima conclusione escluderebbe la possibilità di applicare il principio della soccombenza virtuale. In giurisprudenza di legittimità, si segnala la recente Cass., 11 aprile 2018, sent. n. 8980 in Foro it., 2019, parte 1, 2916, con nota di Scala, «Eppur si muove…»: le sezioni unite riconoscono la natura di merito della sentenza dichiarativa di cessazione della materia del contendere per intervenuta transazione, in una fattispecie di cessazione della materia a seguito di accordo tra le parti. In motivazione: «La declaratoria di cessazione della materia del contendere per intervenuto regolamento negoziale di risoluzione della controversia esprime in questo senso il significato di una pronuncia di definizione del giudizio per una ragione attinente al “merito” della controversia, in quanto attesta che la res dedotta in giudizio e la cui disciplina si chiedeva al giudice risulta regolata fra le parti sulla base di un accordo negoziale. Per effetto della decisione, risultando da essa che la posizione delle parti è regolata dall’accordo transattivo, la conseguenza sarà che l’azione già proposta nel giudizio non potrà essere riproposta nei termini in cui era stata a suo tempo fatta valere, perché essa è stata consumata dall’accordo convenzionale sopravvenuto. Le situazioni giuridiche azionabili saranno solo quelle emergenti dall’accordo, sia stato esso individuato oppure no. Anche in questo secondo caso, la riproposizione della domanda originaria […], incontrerebbe un vincolo giudicato sulla sua consumazione e, quindi, sulla sua inesistenza, siccome nascente dalla sentenza di dichiarazione di cessazione della materia del contendere per l’intervenuto accordo negoziale». Ma v. anche Cass., 31 agosto 2015, sent. n. 17312, «La declaratoria di cessazione della materia del contendere o la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, né possono precluderne la riproposizione in diverso giudizio» (massima ufficiale). 34

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ad esplicare effetti di merito, tale pronuncia garantirebbe all’esecutato una tutela analoga, in punto di stabilità degli effetti e “paralisi” di future contestazioni, a quella offerta dall’accoglimento dell’opposizione. D’altra parte, deve ritenersi che la caducazione del titolo nel corso del processo non possa dare esito alla cessazione della materia del contendere laddove il creditore opposto abbia spiegato domanda riconvenzionale: non sarebbe integrata la condizione, posta dalla giurisprudenza di legittimità, del venir meno di ogni ragione di contrasto tra le parti37.

3.3. L’oggetto dell’opposizione all’esecuzione. Come si è detto, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere il giudice dell’opposizione abilitato a rilevare la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, ritenuta «preliminare dal punto di vista logico rispetto alla decisione sui motivi di opposizione»38. La Suprema Corte qualifica l’opposizione all’esecuzione quale domanda di accertamento negativo del diritto a procedere ad esecuzione forzata39. Notevole centralità è conferita ai motivi, nei quali si individua la causa petendi della domanda proposta dall’opponente, con la quale quest’ultimo fa valere un diritto eterodeterminato40. Come è noto, la causa petendi è elemento necessario all’individuazione del diritto. Sotto questo profilo, pertanto, ammettere che il giudice possa accogliere la domanda per un motivo diverso e non dedotto dall’opponente – quale la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo – significa ammettere che sia abilitato ad accogliere una domanda diversa da quella originariamente proposta – eventualità esclusa dal fondamentale principio della domanda (art. 99 c.p.c.). Secondo la Corte, infatti, il principio della domanda riceve nelle opposizioni esecutive «una ulteriore cristallizzazione in virtù della individuata tipologia dei motivi legittimanti la proposizione di ciascuna categoria di opposizione della delimitazione dell’oggetto dell’opposizione all’esame dei motivi concretamente proposti»41. Viene in rilievo la questione nodale della determinazione dell’oggetto dell’opposizione all’esecuzione. Si tratta di un tema complesso, che non è possibile trattare compiutamente in questa sede, ma pare comunque utile segnalare i principali indirizzi emersi in dottrina, nel tentativo di individuare le implicazioni delle opzioni interpretative in campo. La questione peraltro non è puramente teorica: ai nostri fini, la delimitazione dell’area coperta

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«Il giudice può, in qualsiasi stato e grado del processo, dare atto d’ufficio della cessazione della materia del contendere intervenuta nel corso del giudizio se ne riscontri i presupposti, e cioè se risulti ritualmente acquisita o concordemente ammessa una situazione dalla quale emerga che è venuta meno ogni ragione di contrasto tra le parti, a ciò non ostando la perdurante esistenza di una situazione di conflittualità in ordine alle spese, dovendosi provvedere sulle stesse secondo il principio della soccombenza virtuale»: così la massima ufficiale di Cass., 11 gennaio 2006, sent. n. 271. Sulla possibilità che nel giudizio di opposizione all’esecuzione venga proposta domanda riconvenzionale si veda infra, par. 3.3. 38 Così Cass., 9 agosto 2019, n. 21240; Cass., 11 dicembre 2018, n. 31955; Cass., 6 settembre 2017, n. 20868; Cass., 3 febbraio 2015, n. 1925; Cass, 13 marzo 2012, n. 3977. 39 Supra, par. 3.1. 40 Cass., 20 gennaio 2011, ord. n. 1328. 41 Cass., 19 novembre 2018, sent. n. 30857, tra le tante.

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dal giudicato di accoglimento è necessaria per comprendere entro quali limiti il debitore possa essere nuovamente assoggettato all’esecuzione; analogamente, la preclusione che scaturisce dal rigetto dell’opposizione è misura della riproponibilità dell’opposizione nel corso del medesimo o in altri processi esecutivi. Le considerazioni svolte alla fine del paragrafo precedente, sulla efficacia preclusiva della sentenza di cessazione della materia del contendere, rendono il punto di particolare interesse. L’opinione maggioritaria riconosce nell’opposizione all’esecuzione un’azione di accertamento negativo mero42. Successivamente all’entrata in vigore Codice, se notevoli contrasti hanno segnato il dibattito sull’opposizione agli atti, la cui natura formalmente autonoma (rispetto all’esecuzione da cui prende le mosse) aveva generato incertezze e critiche all’operato del legislatore43, al contrario, per l’opposizione all’esecuzione, l’elemento strutturale (sempre identi-

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Il dibattito è risalente, e non sempre si è rivelato particolarmente fruttuoso (così Mandrioli, voce Opposizione all’esecuzione, cit., 439; analogamente ritiene Vaccarella, voce Opposizioni all’esecuzione, cit., 7). All’opinione indicata nel testo, che appare preferibile, se n’è contrapposta un’altra, autorevolmente sostenuta (tra gli altri v. Garbagnati, voce Opposizione all’esecuzione, cit., 1070) secondo cui l’opponente esercita un’azione costitutiva, in quanto non limitata a contestare la legittimità dell’esecuzione proposta dal procedente, bensì volta ad invalidare gli atti esecutivi già compiuti. Tale invalidazione è effetto della stessa sentenza che accoglie l’opposizione, senza che sia necessaria alcuna ulteriore attività da parte del giudice dell’esecuzione. La sentenza accerterebbe pregiudizialmente l’insussistenza del diritto a procedere ad esecuzione forzata in capo al creditore, e, per l’effetto, il potere dell’opponente di ottenere l’estinzione degli effetti giuridici degli atti esecutivi già compiuti (è in questo secondo momento che si manifesta la natura costitutiva della sentenza). Nell’ipotesi in cui a motivo dell’opposizione sia dedotta l’inesistenza del credito, in virtù dell’autonomia dell’azione esecutiva, l’azione proposta dall’opponente è costitutiva in quanto volta ad eliminare l’efficacia esecutiva del titolo, e in secondo luogo, a provocare l’estinzione degli effetti degli atti esecutivi compiuti. Per osservazioni critiche su questa tesi, v. per tutti Mandrioli, voce Opposizione all’esecuzione, cit., 439 e ss. È stata avanzata (Bove, Sull’oggetto delle c.d. opposizioni di merito, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2013, 879 e ss.) anche un’ulteriore ipotesi ricostruttiva. Valorizzando il concetto di astrattezza dell’azione esecutiva (e della conseguente irrilevanza dell’esistenza del credito ai fini della legittimità processuale dell’esecuzione), l’A. propone di ritenere l’opposizione ex art. 615 c.p.c. il contenitore delle sole eccezioni relative alla legittimità sostanziale dell’esecuzione (e cioè quelle volte a negare l’esistenza del diritto sostanziale tutelato in executivis). In tal modo, l’opposizione di merito assume un oggetto che necessariamente le conduce al di fuori del raggio d’azione del giudice dell’esecuzione (così è spiegata la configurazione quale autonomo giudizio di cognizione). Secondo la tesi in parola, l’espressione «diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata» deve intendersi riferita esclusivamente all’esistenza del credito; le questioni attinenti al titolo esecutivo, in quanto questioni processuali, sarebbero invece tutte da ricondurre all’area dell’opposizione agli atti esecutivi. Rileva ancora l’A. che se si ritiene che «gli atti esecutivi non sono qualificati dall’esistenza del credito a motivo del quale si procede», è inaccettabile affermare che la sentenza d’accoglimento dell’opposizione sia di mero accertamento: non si vede come una sentenza che nega l’esistenza attuale del credito possa arrestare la progressione esecutiva in atto (ragionamento analogo si ripropone se l’accertamento mero sia riferito all’azione esecutiva). L’opposizione all’esecuzione deve essere allora qualificata come azione inibitoria (quindi di condanna) con la quale si punta a far cessare l’illecito in atto, coordinata con il processo esecutivo perché il suo accoglimento tiene il luogo di una rinunzia agli atti del creditore dovuta ma non posta in essere. Per rilievi critici sulla tesi di Bove v. Capponi, Manuale, cit., 444: «Preferiamo quindi continuare a pensare che con l’opposizione si denunzia l’ingiustizia dell’esecuzione, vuoi perché il titolo non è mai esistito vuoi perché esso sia venuto meno in corso d’esecuzione; che la sentenza di accoglimento abbia natura dichiarativa, accertando l’inesistenza del diritto ad agire in executivis (mentre i problemi inibitori sono risolti dall’istituto della sospensione) con conseguente venir meno l’efficacia esecutiva del titolo; che gli effetti di quella sentenza comportino la caducazione degli atti dell’esecuzione, in primo luogo il pignoramento, salva la disciplina particolare della vendita forzata che, anche grazie alla costruzione per fasi dell’esecuzione e al regime di stabilità degli atti esecutivi, ha la funzione di salvaguardare l’atto di acquisto del terzo di buona fede, al quale, a vendita eseguita, non potrà raccontarsi che l’esecuzione era “ingiusta” perché non sorretta da un valido titolo esecutivo». Se ben si intende, un riferimento alla tesi di Bove si rinviene in Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 64, con l’osservazione che questa impostazione, per quanto sistematicamente più corretta, non è accolta dalla giurisprudenza. 43 Il riferimento è in particolare alle tesi del Carnelutti, che la classificava tra i “gravami esecutivi”, e cioè i rimedi costituenti un riesame delle questioni e la formazione di un nuovo provvedimento esecutivo; in sostanza, l’illustre A. proponeva una svalutazione dell’autonomia strutturale dell’opposizione agli atti, rilevando la superfluità delle forme della cognizione rispetto al fine perseguito dal legislatore, preferendo piuttosto ricondurre il procedimento ex art. 617 c.p.c. ad una fase del processo esecutivo, benché rivestita

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co a se stesso, a prescindere dai motivi addotti dall’opponente) è stato ritenuto sufficiente a giustificare una ricostruzione monolitica dell’istituto. Acutamente si è però evidenziato che la struttura formale sempre identica dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., in realtà, funge da contenitore di questioni tra loro non omogenee44: la validità del titolo esecutivo, l’inesistenza del diritto sostanziale, e, per espressa disposizione di legge, la pignorabilità dei beni oggetto dell’espropriazione. Preso atto di tale diversità di contenuti, se ne conclude che inevitabilmente gli effetti della sentenza, di accoglimento e di rigetto, non sono sempre identici. Parimenti, si può ritenere che il rapporto tra l’opposizione e il processo esecutivo sia mutevole a seconda della “categoria” di motivi per cui essa è proposta. Risulterà così da precisare l’affermazione, secondo cui l’opposizione all’esecuzione deve considerarsi tendenzialmente insensibile allo svolgimento del processo esecutivo, ad esempio nelle ipotesi in cui venga pronunciata l’estinzione di quest’ultimo45; e in questa prospettiva si potrebbe affermare

dalle forme cognitive: Carnelutti, Istituzioni, cit., 98 ss.; per un’analisi delle opinioni del Carnelutti si v. Vaccarella, Titolo, esecutivo, precetto, opposizioni, cit., 68 ss. 44 Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, cit., 75. 45 Ad es. Oriani, voce Opposizione, cit., 607, afferma che l’opposizione all’esecuzione è insensibile all’estinzione del processo esecutivo; l’opponente e l’opposto possono infatti aspirare all’emanazione di una sentenza sul diritto a procedere ad esecuzione forzata idonea a provocare efficacia di giudicato fra le parti, indipendentemente dalla sorte del processo esecutivo; l’A. esclude l’ipotesi dell’automatica cessazione della materia del contendere anche quando l’opposizione sia fondata sull’impignorabilità dei beni. In giurisprudenza di legittimità si segnala Cass., 24 febbraio 2011, sent. n. 4498: «Qualora siano state proposte opposizioni esecutive, l’estinzione del processo esecutivo comporta la cessazione della materia del contendere per sopravvenuto difetto di interesse a proseguire il processo, solamente rispetto alle opposizioni agli atti esecutivi, mentre, rispetto alle opposizioni aventi per oggetto il diritto a procedere ad esecuzione forzata, in rapporto all’esistenza del titolo esecutivo o del credito, permane l’interesse alla decisione, con la precisazione che, se oggetto dell’opposizione è la pignorabilità dei beni, l’interesse torna a cessare quando il pignoramento è caduto su somme di danaro o di altre cose fungibili, perché il vincolo imposto dal pignoramento su questo genere di cose (che consiste nell’inefficacia dei successivi atti di disposizione per una somma equivalente) si esaurisce con la sopravvenuta inefficacia del pignoramento» (massima ufficiale); in riferimento all’ipotesi di estinzione atipica del processo esecutivo, v. Cass., 31 gennaio 2012, sent. n. 1353: «Qualora siano state proposte opposizioni esecutive, in caso di chiusura anticipata (o di cosiddetta estinzione atipica), come nelle ipotesi tipiche di estinzione del processo, esecutivo si verifica la cessazione della materia del contendere, per sopravvenuto difetto di interesse a proseguire il processo, rispetto alle opposizioni agli atti esecutivi, mentre rispetto alle opposizioni aventi per oggetto il diritto a procedere ad esecuzione forzata, in rapporto all’esistenza del titolo esecutivo o del credito, permane l’interesse alla decisione» (massima ufficiale). D’altra parte, è frequente l’affermazione per cui l’opposizione agli atti esecutivi non goda della medesima autonomia dal processo esecutivo di quella all’esecuzione; per cui, in caso di estinzione del processo esecutivo, l’opposizione ex art. 617 c.p.c. dovrebbe essere definita con una pronuncia di cessazione della materia del contendere. Oriani, op. ult. cit., 629, ritiene adatta a tale circostanza la dichiarazione di cessazione della materia del contendere in quanto «l’inefficacia degli atti del processo esecutivo, conseguente all’estinzione dello stesso, comporta che non ha senso l’emanazione di un provvedimento che venga ad incidere su un quid incapace di produrre effetti». Per conseguenza, deve ritenersi che il processo debba proseguire nell’ipotesi in cui l’atto investito dall’impugnazione sia capace di conservare i propri effetti nonostante l’estinzione. In effetti, questo orientamento dovrebbe essere oggetto di ulteriori considerazioni, alla luce del notevole ampliamento delle questioni che formano oggetto dell’opposizione agli atti esecutivi, rispetto all’originaria intenzione del legislatore (v. nota 7). Si consideri che l’opposizione agli atti esecutivi può essere proposta dal creditore avverso l’estinzione atipica pronunciata dal giudice dell’esecuzione, quando questo rilevi la carenza del titolo esecutivo: ebbene, l’oggetto dell’opposizione agli atti non è sempre il diritto a procedere ad esecuzione forzata, anche se nell’ottica della legittimità dell’atto del giudice dell’esecuzione? E, se si dovesse rispondere affermativamente, come dovrebbe giustificarsi un diverso grado di autonomia di tale giudizio ex art. 617 c.p.c. rispetto ad una opposizione all’esecuzione fondata su identico motivo? Cfr. Vaccarella, voce Opposizioni, cit., 14, accennando al fenomeno – che nella sistematica prediletta dal legislatore del 1942 doveva essere impossibile – del concorso tra l’opposizione ex art. 617 c.p.c. e quelle di merito, nelle ipotesi in cui il giudice dell’esecuzione adotti provvedimenti che «presuppongono la soluzione di questioni deducibili con opposizioni ex artt. 615, 512 o 619 c.p.c.: provvedimenti, cioè, che suonano come equivalenti ad una sentenza di rigetto ovvero di accoglimento di un’opposizione di merito mai proposta e che, in quanto “atti di esecuzione”, sono opponibili ex art. 617 c.p.c.».

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– operando una semplificazione – che l’autonomia dell’opposizione rispetto al processo esecutivo è maggiore nell’opposizione c.d. di merito, si riduce nell’ipotesi in cui si faccia valere la nullità o l’inesistenza del titolo esecutivo per poi annullarsi quando volta a far valere l’impignorabilità dei beni. Insomma, l’oggetto in concreto assunto dall’opposizione ne condiziona l’autonomia rispetto al processo esecutivo. Ad esempio, relativamente all’ipotesi dell’impignorabilità, si è osservato che l’esecuzione in corso è condizione per la pronuncia della sentenza nel merito dell’opposizione, nonostante la struttura processuale nella quale i motivi di opposizione vengono convogliati resti, per scelta del legislatore, sempre la stessa46. Nel caso di opposizione per impignorabilità dei beni, infatti, l’effetto della sentenza d’accoglimento è di determinare la liberazione del bene dal vincolo del pignoramento (senza che sia impedita la prosecuzione dell’esecuzione sugli altri beni eventualmente staggiti)47; si tratta – per usare le parole del Liebman – di una contestazione «delle modalità concretamente assunte dall’azione esecutiva»48, con la conseguenza che venuto meno il processo esecutivo per estinzione (anche atipica) o improcedibilità, perde di senso la prosecuzione dell’opposizione49; lo stesso potrebbe ritenersi ove sia il giudice di quest’ultima a rilevare la sopravvenuta caducazione del titolo. Per quanto attiene alle altre due ipotesi (opposizione di merito e contestazione della validità del titolo), è vero che l’opposizione mira sempre alla radicale eliminazione dell’esecuzione, e però con effetti diversi: se si contesta infatti la carenza del titolo esecutivo, è ben possibile che il creditore procedente, munitosi di un nuovo titolo, possa, dopo la sentenza di accoglimento, intraprendere una nuova esecuzione forzata; viceversa, se il motivo d’opposizione è l’inesistenza del credito, altrettanto non potrà accadere, poiché la sentenza di accoglimento ha l’effetto preclusivo proprio di una normale sentenza di merito50. L’area di estensione del giudicato della sentenza che statuisce sull’opposizione deve essere dunque ricondotta ai motivi dell’opposizione. Opinioni discordanti si sono registrate, in particolare, circa la sentenza di rigetto dell’opposizione c.d. di merito, che, per una parte della dottrina, è idonea a produrre effetti d’accertamento del credito contestato: nell’opposizione si ravvisa una domanda di accertamento negativo del credito, dal cui rigetto consegue il riconoscimento dello stesso. Secondo autorevole dottrina, il diritto pro-

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Vaccarella, op. cit., 77, il quale ricorda che nel Codice tedesco e nella legge austriaca si prevedono, in luogo della nostra unitaria opposizione all’esecuzione, distinti rimedi: ibidem, 75. 47 Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 273. 48 Liebman, Le opposizioni di merito, cit., 248. 49 Sull’esito del giudizio di opposizione agli atti esecutivi quando sopravvenga alla sua proposizione la caducazione del titolo esecutivo v. le già citate Cass., 24 febbraio 2011, sent. n. 4498 e Cass., 31 gennaio 2012, Cass., 10 luglio 2014, sent. n. 15761; si segnala altresì, in tema di opposizione di terzo all’esecuzione, Cass., 9 marzo 2017, sent. n. 6016: «In tema di opposizione di terzo all’esecuzione, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo integra un’ipotesi di cessazione della materia del contendere per il verificarsi di un evento processuale elidente l’interesse, giuridicamente rilevante, alla decisione sull’assoggettabilità ad espropriazione dei beni pignorati: ne deriva che le spese devono essere liquidate in base al criterio della soccombenza virtuale» (massima ufficiale). 50 Luiso, op. cit., 273. Furno, op. cit., 137, parla di eliminazione definitiva ed eliminazione solo pro tempore dell’esecuzione. Per le ragioni che sono indicate nel testo, la prima si verifica solo ove venga accolta l’opposizione proposta sotto il profilo della carenza del diritto credito, la seconda nell’ipotesi di carenza di una condizione di procedibilità dell’esecuzione.

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cessuale ad agire in esecuzione forzata – oggetto immediato del giudizio di opposizione all’esecuzione c.d. di merito – è in rapporto di pregiudizialità con il diritto rappresentato dal titolo51; tra i sostenitori di questa tesi non v’è però consenso se la relazione di pregiudizialità sia da ricondurre o meno all’ambito d’applicazione dell’art. 34 c.p.c.52. Come detto all’inizio del paragrafo, la giurisprudenza è solida nell’affermare la natura di azione di accertamento negativo dell’opposizione 615 c.p.c. Inoltre, se all’oggetto del processo appartenesse immancabilmente il diritto di credito, non potrebbe ritenersi che la caducazione sopravvenuta del titolo esecutivo possa, da sola, esaurire la lite. La tesi in parola appare difficilmente conciliabile con la prassi che riconosce al creditore la possibilità di ottenere, tramite la proposizione di una domanda riconvenzionale nell’opposizione, la formazione di un titolo esecutivo giudiziale, per mezzo del quale intraprendere, in caso di accoglimento dell’opposizione stessa, una nuova esecuzione forzata53. Ciò dimostra che l’esistenza del credito non costituisce, in via automatica o necessaria, parte dell’oggetto del giudizio d’opposizione di merito. Se così fosse, il rigetto dell’opposizione di merito comporterebbe sempre ed automaticamente l’accertamento del diritto di credito; e allora, non si comprenderebbe l’utilità di ammettere il creditore alla proposizione della riconvenzionale54. Può ritenersi allora che l’oggetto del giudizio di opposizione sia individuato già nella formula adoperata dal legislatore: esso consiste nel «diritto di procedere ad esecuzione forzata»55; nell’opposizione di merito, l’inesistenza del credito sia atteggia esclusivamente a motivo della contestazione dell’azione esecutiva; e il rigetto dell’opposizione, dunque, ha il solo effetto di negare l’infondatezza dei motivi dedotti dall’opponente56. I motivi di opposizione infatti assumono la veste d’azione per la particolare struttura formale del

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Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 1994, 783. Ad es. il Mandrioli, voce “Opposizione”, cit., parla di una “sorta” di pregiudizialità; diversamente, Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., riconduce questa pregiudizialità all’ambito dell’art. 34 c.p.c., ritenendo però che si tratti di uno di quei casi in cui l’accertamento con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale si produca non solo se il creditore proponga una domanda a tal fine, bensì sempre, trattandosi di ipotesi di accertamento incidentale ex lege. Recchioni, Note sull’oggetto del giudizio di opposizione all’esecuzione e sul problema dell’allegazione dei fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, in Riv. Dir. Proc., 1998, 308, ritiene esistente una relazione di pregiudizialità tecnica tra il diritto di credito e l’azione esecutiva, la cui disciplina è per intero riconducibile alla norma sugli accertamenti incidentali, consistendo l’esistenza del credito in un fatto-diritto. Pertanto, il giudice dell’opposizione all’esecuzione risolverà incidenter tantum la questione dell’esistenza del diritto di credito, e pertanto su di essa non si formerà alcun giudicato, salva la proposizione di domanda prevista dall’art. 34 c.p.c. che la trasformi in causa pregiudiziale. 53 Ex multis, in tema di proposizione della domanda riconvenzionale nel giudizio di opposizione si segnalano: Cass., 13 febbraio 2020, n. 3697; Cass., 18 dicembre 2019, n. 33728; Cass., 22 giugno 2016, n. 12888; Cass., 31 agosto 2015, n. 17312. 54 Sulla scorta della qualificazione dell’opposizione all’esecuzione quale azione di condanna (su cui nota 40) anche Bove, Sull’oggetto delle opposizioni di merito, cit., par. 5, esclude dal perimetro dell’oggetto del processo il credito azionato in executivis e contestato dal debitore nella sua esistenza: «In realtà l’oggetto della decisione, e quindi del giudicato, sta in una pretesa liberatoria che non si individua con i mezzi d’attacco spesi dall’opponente nella domanda». 55 Vaccarella, voce Opposizioni all’esecuzione, cit., 7. 56 Queste conclusioni hanno spinto a ritenere che la sentenza di rigetto dell’opposizione è idonea a produrre non il giudicato, bensì una mera efficacia preclusiva endoprocessuale (Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, cit., 81; Id., voce Opposizioni all’esecuzione, cit., 8). Contra Oriani, voce Opposizione, cit., 607, il quale afferma che il collegamento della sentenza che statuisce sull’opposizione rigettandola e le sentenze non definitive su questioni preliminari di merito non è sufficiente a dedurne l’inidoneità al passaggio in giudicato sostanziale; secondo l’A. si tratta piuttosto di una conseguenza del modo d’intendere l’oggetto del processo e quindi i limiti oggettivi del giudicato; Recchioni, op. ult. cit., 316. 52

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processo esecutivo, ma non per questo cessano di essere «o mere contestazioni dei fatti costitutivi del credito ovvero fatti aventi efficacia estintiva, impeditiva o modificativa di quei fatti costitutivi»57. È bene comunque tener presente che la tesi ultima riferita non è unanimemente accolta: si è osservato che le soluzioni proposte dagli autori risentono delle opzioni ricostruttive in materia di oggetto del processo in generale, e quindi delle teorie circa i limiti oggettivi del giudicato58. Alla luce di questa breve disamina, abbracciata la tesi che identifica l’oggetto dell’opposizione nell’accertamento negativo del diritto di agire in executivis in relazione ai motivi proposti dall’opponente, è coerente ritenere che, rilevata la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo, il giudice non accolga l’opposizione, ma pronunzi la cessazione della materia del contendere, esaminando i motivi proposti per liquidare le spese.

3.4. Il riparto delle spese. Per concludere, è necessario esaminare le implicazioni, di notevole interesse pratico, in materia di spese degli orientamenti sopra descritti. Si è osservato che nelle fattispecie processuali «la dichiarazione di cessazione della materia del contendere consente la realizzazione di esigenze di un certo rilievo pratico, ovviando così alla mancanza di una disciplina normativa degli esiti dei giudizi dall’oggetto condizionato: […] nella maggior parte dei casi però, la spiegazione del fenomeno va rinvenuta […] nella disciplina delle spese59. Anche nelle ipotesi di caducazione del titolo esecutivo in pendenza del giudizio di opposizione, è sul fronte delle spese che la dichiarazione di cessazione della materia del contendere manifesta la sua utilità, in quanto essa è collegata, dalla giurisprudenza costante60, all’applicazione del criterio della soccombenza virtuale ai fini del riparto; la soccombenza virtuale è, a sua volta, una filiazione del generale principio di causalità61. Secondo la giurisprudenza, la soccombenza virtuale impone di valutare la fondatezza della domanda al momento in cui essa è stata proposta62. Dunque, il giudice dell’opposizione è chiamato (ai soli fini delle spese), a scendere nel merito dei motivi proposti con

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Ancora Vaccarella, voce Opposizioni all’esecuzione, cit., 8. Da questa affermazione sono tratti i seguenti corollari: «il rigetto dell’opposizione non significa accertamento del credito, ma soltanto che il credito non si è estinto per il motivo dedotto dal debitore a fondamento dell’opposizione; non rimozione di ogni ostacolo alla prosecuzione dell’esecuzione, ma rimozione del solo ostacolo concretamente frapposto con l’opposizione, e dunque senza precludere la proposizione di nuove opposizioni fondate su altri motivi, anche preesistenti; laddove un tale effetto preclusivo può derivare soltanto dalla sentenza che accolga la domanda riconvenzionale proposta dal creditore opposto. Da ciò discende altresì che il rigetto dell’opposizione non ne preclude la riproposizione dopo l’estinzione del processo esecutivo o la sua infruttuosa conclusione, essendo quella decisione di rigetto inidonea a dar vita al giudicato sostanziale e, quindi, destinata a spiegare efficacia soltanto sul processo esecutivo in occasione del quale fu emanata». 58 Oriani, op. loc. ult. cit. 59 Scala, La cessazione, cit., 345. Per considerazioni critiche sull’impiego della soccombenza virtuale v. Sassani, Cessazione, cit., 4. 60 In giurisprudenza di legittimità v. ex multis, Cass., 18 ottobre 2018, ord. n. 26299; Cass., 11 febbraio 2015, ord. n. 2719; Cass., 7 maggio 2009, sent. n. 10553; Cass., 13 settembre 2007, sent. n. 19160; Cass., 11 gennaio 2006, sent. n. 271. 61 Da ultimo, Cass., 9 agosto 2019, n. 21240; Cass., 17 gennaio 2020, ord. n. 1005. 62 Oltre alle sentenze citate in nota 24, v. le più risalenti Cass., 25 agosto 2005, sent. n. 17334; Cass., 18 gennaio 2000, sent. n. 489.

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Brevi note in tema di opposizione all’esecuzione e vicende del titolo esecutivo

l’atto introduttivo dall’opponente. Ove li ritenesse infondati, dovrebbe porre le spese a carico di quest’ultimo63. L’altro orientamento, che opta per l’accoglimento dell’opposizione, conduce, sotto questo profilo, ad esiti diversi. L’applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. non tollera che le spese possano gravare la parte vittoriosa: pertanto, esse sarebbero liquidate in favore del debitore, con la sola possibilità della compensazione alle condizioni previste dall’art. 92 c.p.c. La prima soluzione disincentiva la proposizione di opposizioni pretestuose, evitando che, come notano le sentenze, la redistribuzione dei costi di lite sia «innervata irrazionalmente dalla casualità, determinata cioè, dalla tempistica della caducazione del titolo». Si è anche osservato che le ragioni dell’opponente trovano egualmente tutela nell’azione risarcitoria prevista dall’art. 96, comma 2, c.p.c., per l’ipotesi di messa in esecuzione, senza la normale prudenza, di un titolo di cui risulti accertata l’inesistenza64. La soccombenza virtuale evita che l’allocazione dei costi sia condizionata da un fatto (la caducazione del titolo esecutivo) che – sebbene connesso al giudizio – è esterno ai motivi addotti a sostegno dell’opposizione. Si esclude, così, che chi abbia proposto un’opposizione in base a motivi inconsistenti possa nondimeno ottenere le spese di lite.

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Cass., 17 gennaio 2020, ord. n. 1005; Cass., 11 dicembre 2018, n. 31955; Cass., 19 novembre 2018, sent. n. 30857; Cass., 9 marzo 2017, sent. n. 6016. 64 Cass., 11 dicembre 2018, n. 31955.

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Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio Sommario : 1. La nozione di anticipatorietà delle misure cautelari in una recente, restrittiva giurisprudenza della Corte di legittimità. – 2. Gli orientamenti della dottrina e lo spirito della riforma del procedimento cautelare uniforme. – 3. Il caso paradigmatico della sospensione delle delibere: l’inefficacia dell’atto anticipa l’essenza dell’effetto caducatorio proprio della sentenza. – 4. Un’occasione perduta per ridare al nostro processo un modello di tutela moderno ed efficace.

L’Autore affronta il tema della portata anticipatoria dei provvedimenti cautelari e della conseguente applicazione della relativa disciplina circa la stabilità nel tempo dei loro effetti, alla luce di un recente arresto della Suprema Corte che ha fornito una interpretazione assai restrittiva della categoria. The Author aims to establish when and upon which conditions an interim urgent measure may be considered as “anticipatory”. This kind of interim measures anticipate, before the outcome of an ordinary proceedings, the effects of the final judgment and remain effective also where the main proceedings are not initiated or are initiated but subsequently extinguished.

1. La nozione di anticipatorietà delle misure cautelari in una recente, restrittiva giurisprudenza della Corte di legittimità.

In una recente pronuncia, la Suprema Corte ha affrontato ex professo il tema della portata anticipatoria dei provvedimenti cautelari e della conseguente ampiezza del regime di stabilità accordato dall’art. 669 octies, sesto e ottavo comma, c.p.c.1. L’occasione era data da un provvedimento di sospensione di una delibera assembleare di esclusione di un socio di una società di persone che, intervenuta l’estinzione del giudizio di opposizione per omessa notifica dell’istanza di fissazione di udienza prevista

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Si tratta di Cass., 7 ottobre 2019, n. 24939, il cui testo è stato pubblicato in www.judicium.it, 11.5.2020, con mia nota, La tutela cautelare anticipatoria secondo la Cassazione: cala il sipario sul référé all’italiana. La decisione sarà oggetto di plurimi richiami all’interno del presente lavoro.

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dall’allora vigente rito societario, era stato fatto salvo dal tribunale proprio sul rilievo del suo carattere anticipatorio. Tale conclusione non è stata condivisa dalla Cassazione, la quale ha ritenuto di dover aderire a quell’indirizzo dottrinale che interpreta il concetto di anticipatorietà dei provvedimenti cautelari in maniera rigorosa, ovvero come idoneità degli stessi ad anticipare non tanto “un risultato pratico analogo” a quello della pronuncia finale, bensì i medesimi effetti di quest’ultima. Se prevalesse la soluzione più liberale, afferma la Corte, la strumentalità attenuata finirebbe “per diventare la regola”, mentre la natura conservativa verrebbe riconosciuta alle sole misure riconducibili al sequestro. Su questo assunto, che evidentemente condiziona lo sviluppo argomentativo della Corte, si esclude la natura anticipatoria della sospensione, posto che l’effetto costitutivo proprio della sentenza di annullamento non può mai prodursi in sede cautelare e neppure con una pronuncia di merito suscettibile di essere impugnata, bensì soltanto con il suo passaggio in giudicato2. Infatti, prosegue la Corte, seppure possa ammettersi una tutela cautelare anticipatoria in rapporto a sentenze costitutive (dovendosi accedere a una interpretazione costituzionalmente orientata), ciò che si può anticipare “sono solo gli effetti meramente dipendenti dall’effetto costitutivo, ossia in qualche modo autonomi rispetto allo stesso, non gli effetti che sono diretta conseguenza dell’effetto costitutivo”. Più esplicitamente, occorrerebbe fare riferimento a quelle statuizioni che autorizzino il beneficiario “a compiere atti di salvaguardia del diritto costituendo, che possono derivare da condanne accessorie alla statuizione di mero accertamento o a quella costitutiva d’un determinato effetto giuridico”. Se ne trae la conclusione, che potrebbe apparire paradossale, per cui la sospensione non può essere considerata anticipatoria proprio in quanto “esplica un’efficacia interinale ontologicamente coincidente al contenuto della sentenza e non riveste, dunque, i caratteri di una pronuncia accessoria diretta a salvaguardare gli effetti esecutivi discendenti dalla (emananda) medesima sentenza costitutiva”. Insomma, essa ha un contenuto “coincidente” a quello della sentenza, ma ciò nonostante (anzi, per questa ragione) non può qualificarsi come anticipatoria. Una siffatta lettura non convince per diverse ragioni. In primo luogo, perché lo spirito della riforma del 2005 (e dapprima del 2003) era quello, opposto, di riconoscere stabilità a tutti quei provvedimenti che, anticipando gli effetti della sentenza di merito, si rivelassero satisfattivi per il richiedente e risultassero (nei fatti) accettati dal resistente, così apprestando una nuova regolazione della vicenda sostanziale potenzialmente definitiva. In secondo luogo, perché la sospensione può definirsi anticipatoria anche ove la si riguardi sotto la lente dell’orientamento più rigoroso. In terzo luogo,

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Viene svolto qui un parallelismo con l’efficacia della sentenza di primo grado, che la prevalente giurisprudenza di legittimità ritiene limitata alle sentenze di condanna, quand’anche accessorie a sentenze costitutive di accertamento e purché non in rapporto di sinallagmaticità o corrispettività in senso lato. Posto che solo gli effetti di questi capi condannatori accessori possono essere ritenuti provvisoriamente esecutivi, il provvedimento cautelare non potrebbe che anticipare solo questi ultimi e non l’effetto costitutivo puro, che può prodursi solo con il giudicato.

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poiché essa esplica un effetto conformativo sulle parti che, pur non trovando corrispondenza nell’emissione di una statuizione di condanna, nondimeno anticipa il corrispondente effetto della sentenza costitutiva di annullamento. Vediamo di seguito di approfondire le ragioni del nostro dissenso.

2. Gli orientamenti della dottrina e lo spirito della riforma del procedimento cautelare uniforme.

Il rilievo di fondo della tesi in esame è l’impossibilità di anticipare in sede cautelare l’effetto costitutivo della sentenza. Si tratta di un tema noto e ampiamente arato in dottrina, la quale si è spesso schierata su posizioni contrapposte. E tuttavia, a ben vedere, la soluzione negativa oggi abbracciata anche dalla Cassazione è strettamente legata alla portata assai restrittiva della nozione di anticipatorietà dalla stessa fornita. Sebbene non sia questa la sede per indagare in maniera esaustiva il complesso tema della tecnica dell’anticipazione3, potrà essere utile ricordare che, per quel che riguarda la tutela cautelare, la distinzione tra provvedimenti conservativi e anticipatori si deve far risalire all’intuizione di Calamandrei: questi, avendo compreso che il nesso di strumentalità rispetto al giudizio di merito si potesse atteggiare in maniera sensibilmente diversa a seconda delle situazioni, ne aveva ricavato una ragione per distinguere i provvedimenti cautelari in conservativi e innovativi4. I primi mirano a “conservare” uno stato di fatto in attesa e allo scopo che su di esso il provvedimento “principale” possa realizzare i suoi effetti (evitando che questi ultimi restino frustrati da mutamenti di quello stato nelle more dello svolgimento del processo di cognizione: è il caso emblematico del sequestro conservativo). Essi sono preordinati a garantire la fruttuosità pratica della decisione di merito (e della sua esecuzione forzata) e quindi a fronteggiare un pericolo definito da “infruttuosità”. I secondi, invece, tendono ad operare in via provvisoria e anticipata effetti di carattere costitutivo o innovativo della realtà giuridica che sono propri della tutela di merito ma che, all’esito del giudizio ed in ragione del tempo necessario al suo svolgimento, potrebbero rivelarsi inattuabili: questi provvedimenti mirano perciò ad evitare il diverso pericolo della “tardività” del provvedimento definitivo5. Se nell’un caso il provvedimento cautelare

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La quale neppure riguarda soltanto i provvedimenti cautelari essendosi, anzi, ritenuto che solo in senso “atecnico” questo concetto possa applicarsi in questa materia: Carratta, Profili sistematici della tutela anticipatoria, Torino, 1997, 74 ss. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 26 e ss. Anche Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1936, I, 206 e ss., distingueva tra prevenzione conservativa e innovativa: la prima, atta a sistemare provvisoriamente la lite mediante il mantenimento dello stato di fatto, troverebbe la sua ragione primaria nella eliminazione della difesa privata; la seconda, che attua tale sistemazione mediante l’alterazione dello stato di fatto, si fonda sul pericolo che il risultato del processo sia compromesso in assenza di una anticipata modificazione di una situazione giuridica. La distinzione tra pericolo da “infruttuosità” e da “tardività”, che si deve a Calamandrei, è generalmente accettata in dottrina (con poche eccezioni: cfr. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, 354; Calvosa, La tutela cautelare. Profilo sistematico, Torino, 1963,

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interviene a salvaguardare il buon esito del giudizio di merito, “congelando” uno stato di fatto ma lasciando alla sentenza finale il compito di attribuire o negare il bene della vita conteso, nell’altro il legislatore acconsente ad accordare la soddisfazione del diritto azionato mediante l’anticipazione degli effetti della pronuncia di merito, perché il pregiudizio è costituito proprio dal permanere di tale diritto, pendente il processo, in uno stato di insoddisfazione6. Secondo Calamandrei, dunque, il provvedimento di carattere “innovativo” può certamente produrre effetti di tipo costitutivo, analoghi (seppur non identici) a quelli che saranno prodotti dalla sentenza di merito. È anche vero che lo stesso Calamandrei intendeva l’anticipazione in senso ampio, come anticipazione provvisoria di certi effetti del provvedimento definitivo7 e che la successiva dottrina si sarebbe impegnata nel tentativo di darle una definizione più precisa8. Il dibattito si sarebbe riacceso all’indomani della riforma del 2005 (e, prima ancora, dell’entrata in vigore del rito societario) per i notevoli impatti sistematici sulla disciplina dei provvedimenti cautelari. La scelta del legislatore di svincolare il provvedimento cautelare anticipatorio dal giudizio di merito avrebbe stimolato nuove riflessioni sulla distinzione in esame, dapprima meramente accademica e descrittiva. Un primo indirizzo, che deve ritenersi prevalente, propende per una lettura ampia della norma, ritenendo che il carattere anticipatorio debba essere valutato alla stregua della idoneità del provvedimento a garantire un risultato pratico sostanzialmente equivalente a quello della sentenza, a prescindere dall’effettiva anticipazione in tutto o in parte degli effetti della sentenza9. Questo orientamento pone l’accento, di volta in volta, su considerazioni di carattere letterale o teleologico della riforma, e in particolare: sul fatto che la legge si “accontenti” di una anticipazione degli “effetti” della sentenza, e non della statuizione contenuta nella stessa, sì da farvi rientrare quelle misure capaci di produrre effetti “praticamente corrispondenti” a quelli della decisione finale10; sulla ratio della riforma, volta a rendere stabili tutti i provvedimenti satisfattivi, ivi inclusi (per qualcuno) quelli di carattere assicurativo o volti a dare una regolamentazione provvisoria alla lite (anche se non rigidamente anticipatoria dell’esito finale della causa) a eccezione di quelli puramente

267) e ad essa fa riscontro la corrispondente distinzione tra provvedimenti conservativi e anticipatori. Sul tema, cfr. PanzarolaGiordano, I provvedimenti d’urgenza, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da S. Chiarloni, Bologna, 2016, 44 ss. 6 Si veda ancora Calamandrei, op. cit., 56. 7 Calamandrei, Introduzione, cit., 18 e 22, e analoghi rilievi anche a p. 87 ss. 8 Si vedano, senza potersi qui approfondire il tema e con diverse ricostruzioni, Mandrioli, Per una nozione strutturale dei provvedimenti anticipatori o interinali, in Riv. dir. proc., 1964, 558; Tommaseo, I provvedimenti d’urgenza, Padova, 1983, 21; Carratta, Profili sistematici della tutela anticipatoria, cit., 77. 9 Così, Saletti, Commento all’art. 23, in La riforma delle società. Il processo, Torino, 2003, 223; Salvaneschi, La domanda e il procedimento, in Il processo cautelare, a cura di Tarzia, Padova 2004, 327; Olivieri, Il procedimento cautelare nel c.d. processo societario, in www. judicium.it, §2; Recchioni, Il processo cautelare uniforme, in I procedimenti sommari e speciali, II. Procedimenti cautelari, a cura di Chiarloni e Consolo, Torino, 2005, 76; di recente, Damiani, Autonomia ed effetti del provvedimento cautelare anticipatorio, Napoli, 2018, 195. 10 Saletti, op. cit., 294; così anche Caponi, Provvedimenti cautelari e procedimenti possessori, in Foro it., 2005, V, 137; Dalmotto, Sub art. 669 octies, in Le recenti riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, Bologna, 2007, 1247.

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conservativi11; sulla sufficienza, ai fini dell’applicazione del regime di ultrattività, di una anticipazione solo parziale degli effetti della sentenza12; con riferimento alle pronunce costitutive, sull’effettività della tutela, che deve lasciar propendere per la possibilità di emettere provvedimenti anticipatori laddove questa sia l’unico modo di “attingere immediatamente l’utilità associata alla decisione che produce il mutamento, messa in pericolo dal ritardo”13. Altra dottrina ha mostrato di preferire invece una interpretazione più rigorosa, in virtù della quale sarebbero assoggettati al nuovo regime solo i provvedimenti di tipo “strutturalmente anticipatorio”14 degli effetti propri della decisione di merito, sì da conseguire un assetto di interessi non differente da quello ottenibile all’esito della tutela di merito15. Questa diversità di opinioni si riflette anche sulla individuazione degli effetti delle sentenze di merito suscettibili di anticipazione, nel solco della classica tripartizione delle sentenze in dichiarative, costitutive e di condanna. Se nessun dubbio è mai stato sollevato in ordine alla possibilità di anticipare gli effetti delle sentenze di condanna (anche in relazione a capi condannatori di sentenze costitutive o dichiarative)16, le idee divergono in relazione all’effetto tipicamente dichiarativo o costitutivo della sentenza17. In particolare, con riferimento alle sentenze costitutive18, dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono che nel sistema non vi siano elementi per escludere la tutela cautelare anticipatoria quantomeno nei casi in cui il diritto ad ottenere il mutamento giuridico non possa essere soddisfatto se non mediante la pronuncia di una sentenza e, quindi, l’instau-

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Menchini, Le modifiche al procedimento cautelare uniforme e ai processi possessori, in Consolo-Luiso-Menchini-Salvaneschi, Il processo civile, I, Milano, 2006, 82; Borghesi, Tutela cautelare e strumentalità attenuata: profili sistematici e ricadute pratiche, in Aa.Vv., Sulla riforma del processo civile, Bologna, 2007, 74; Caponi, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale, in Foro it., 2006, V, 69 ss., i quali con diversi accenti ritengono che la categoria dei provvedimenti conservativi si riduca quindi a quelli riconducibili al sequestro. 12 Vullo, Procedimenti cautelari in generale, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2017, 236, il quale, pure dichiarandosi incline ad aderire a un’accezione restrittiva, giunge alla conclusione indicata nel testo. 13 Panzarola-Giordano, op. cit., 270. 14 Consolo, Le prefigurabili inanità di alcuni nuovi riti commerciali, in Corr. Giur., 2003, 1518 e ss.; Id., spiegazioni di diritto processuale civile, I, 2017, 232, dove l’autore precisa che sono da ritenersi idonei ad anticipare la sentenza di merito anche i provvedimenti “che assicurano una soddisfazione soltanto parziale del diritto soggettivo controverso cautelato”. 15 Arieta-De Santis, Diritto processuale societario, cit., 386; Fabiani, Il rito cautelare societario: contraddizioni e dubbi irrisolti, in Riv. dir. proc. 2005, cit., 1185 ss.; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario: note a prima lettura), in Foro it. 2003, V, 14, che riferisce la norma ai provvedimenti totalmente anticipatori; Balena, Istituzioni, III, cit., 315. 16 È il caso dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro rispetto alla relativa condanna accessoria alla domanda volta a far accertare l’illegittimità del licenziamento, oppure dell’ordine di consentire il passaggio in relazione alla domanda di servitù coattiva. 17 Si v., anche per riferimenti, l’ampia analisi critica di Panzarola, I provvedimenti d’urgenza dell’art. 700 c.p.c., in I procedimenti cautelari, cit., 863 ss. 18 Il dibattito è ancora più intenso in relazione agli effetti dichiarativi: in senso favorevole, v. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 259 ss.; Calvosa, Provvedimenti d’urgenza, in Novissimo Digesto It., XIV, Torino, 1967, 781 ss.; Montesano, I provvedimenti d’urgenza nel processo civile, Napoli, 1955, 66; Cerino Canova, I provvedimenti d’urgenza nelle controversie di lavoro, in Mass. giur. lav., 1981, 134; Arieta, I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Padova, 1985, 144; Mandrioli, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2004, 278 ss.; Verde-Capponi, Profili del processo civile, 3, Napoli, 1998, 372; Proto Pisani, Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 50; Merlin, Variazioni sui rapporti tra misura cautelare, sentenza (di accertamento mero, di condanna o costitutiva) e giudicato favorevole al beneficiario della cautela: un punto trascurato anche nella L. 353/1990, in Riv. dir. proc., 1992, 945 ss.; in senso contrario, Luiso, Diritto processuale civile, IV, 2019, 224; Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2019, 298.

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razione di un apposito giudizio19. Diversamente, si afferma, l’utilità stessa delle sentenze costitutive potrebbe essere irreparabilmente compromessa. Ma in contrario si è fatto notare che l’anticipazione degli effetti delle sentenze costitutive non si concilierebbe con la tesi che ancora oggi nega alle stesse ogni efficacia prima del passaggio in giudicato20. Una siffatta obiezione, che costituisce anche il fondamento del convincimento dei giudici di legittimità espresso dalla sentenza citata, non pare tuttavia insuperabile, così come non persuadono né il rigoroso parallelismo con l’efficacia della sentenza di primo grado (tema certamente connesso, ma non tale da sovrapporsi interamente alla diversa questione degli effetti delle misure cautelari) né l’approccio al tema nel solco della classica e fin troppo enfatizzata tripartizione delle sentenze in dichiarative, costitutive e di condanna. La dottrina, infatti, già in tempi risalenti – e assai più pragmaticamente – si era espressa in senso favorevole alla possibilità di assicurazione provvisoria degli effetti della sentenza costitutiva, a fortiori per il fatto che questa fosse idonea a produrre quell’effetto solo con il giudicato, rendendo in tal modo ancora più pressante l’esigenza di cautela del diritto21. Anche di recente, si è spiegata l’esecuzione provvisoria dei capi condannatori accessori a sentenza costitutiva impugnata sul rilievo che la futura sentenza esplicherà i propri effetti in via retroattiva, una volta passata in giudicato, così giustificando la produzione anticipata di quegli effetti22. Più radicalmente, Andrioli non vedeva alcun ostacolo al riguardo, affermando che “alcuna distinzione è lecito istituire a seconda che gli effetti della sentenza costitutiva prendano data da questa (o dal suo passaggio in giudicato), dalla domanda giudiziale o, persino, dal suo fatto costitutivo, perché, essendo in ogni caso, la fattispecie, produttiva dell’effetto, integrata con la pronuncia della sentenza o con il passaggio in giudicato di questa, il provvedimento ne anticipa de facto il concreto verificarsi degli effetti, variamente puntualizzati de jure”23. D’altra parte, l’ammissibilità della tutela cautelare deve sempre misurarsi sul piano dell’effettività della tutela giurisdizionale e delle concrete utilità che si devono garantire al fine di evitare che la sentenza giunga tardivamente, quando il diritto fatto valere risulti ormai compromesso. Sicché un’interpretazione eccessivamente restrittiva, in assenza di una disposizione che escluda la cautela in rapporto al tipo di sentenza, finirebbe per risultare di dubbia costituzionalità24. Più cautamente, una parte della dottrina ha sostenuto che la tutela anticipatoria possa valere più propriamente a soddisfare obblighi consequenziali alla pronuncia costitutiva e,

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Cfr. Andrioli, Commento, cit., 259 ss.; Tommaseo, I provvedimenti d’urgenza, cit., 262 ss.; Cerino Canova, I provvedimenti d’urgenza, cit., 122 ss.; Denti, La giustizia civile (Lezioni introduttive), Bologna, 1989,130; Attardi, Diritto processuale, cit., 154; Dini-Mammone, I provvedimenti d’urgenza, Milano, 1997, 387; Luiso, Diritto processuale civile, IV, cit., 161; Mandrioli, Diritto processuale civile, cit., 278; Verde-Capponi, Profili, cit., 372; Proto Pisani, Le tutele, cit., 520. 20 V. ancora Consolo, Spiegazioni, I, cit., 231. 21 Oltre a Calamandrei, v. Andrioli, Commento, cit., 259 ss.; Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, 1957, 263. 22 Balena, Istituzioni, II, cit., 222, quantomeno nei casi in cui si tratti di tutela costitutiva non necessaria. 23 Andrioli, Commento, IV, cit., 260. 24 In senso positivo, concludono anche Panzarola-Giordano, op. cit., 270.

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Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio

dunque, più che ad anticipare la modificazione giuridica, a consentire l’esercizio in via provvisoria di “quelle facoltà che sono contenute nel costituendo diritto”25. Questa conclusione, come dicevamo, non ci appare però necessitata per almeno due ragioni: da un lato giacché, in tanto sembra possibile l’anticipazione di quelle facoltà in quanto si ammetta, perlomeno a questi fini, una provvisoria e almeno parziale anticipazione degli effetti di modificazione sostanziale26; dall’altro, e più radicalmente, non solo è possibile ma appare più corretto abbracciare un concetto più esteso di anticipatorietà, in linea con la ratio della vigente disciplina. Lo spirito della riforma che ha investito la tutela sommaria, cautelare e non, all’alba del nuovo millennio, aveva infatti, per comune opinione, una filosofia di fondo che traeva chiara (e dichiarata) ispirazione dai modelli vigenti nei paesi europei a noi più vicini: la tutela giurisdizionale dei diritti non deve necessariamente avvenire nelle forme e con le garanzie di un processo a cognizione piena che conduca a una sentenza munita di forza di giudicato27. Questa rimane pure la via maestra, ma il cittadino sarà libero di ricorrervi o di accontentarsi della tutela “minore” assicurata dagli altri procedimenti. La ratio di tale impostazione risiedeva nel fatto che le parti possono non avere alcun interesse a una decisione suscettibile di passare in giudicato, dopo aver ottenuto un provvedimento interinale, immediatamente efficace, ai cui contenuti le stesse si sono adeguati28. Sicché l’onere per la parte che ha ottenuto la misura urgente di iniziare il giudizio di merito nel termine perentorio di cui all’art. 669 octies c.p.c., o di condurlo a termine a pena

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Tommaseo, I provvedimenti d’urgenza, cit., 264; Vullo, L’attuazione, cit., 29; Consolo, Spiegazioni, I, cit., 231, il quale pure conclude per la possibile anticipazione di “utilità più circoscritte” della modifica sostanziale. 26 Panzarola, I provvedimenti d’urgenza dell’art. 700 c.p.c., in I procedimenti cautelari, diretto da Carratta, Bologna, 2013, 870. In tal senso, non può valere il parallelismo effettuato dalla sentenza con la tesi che limita la provvisoria esecutività della sentenza alle sole sentenze di condanna, nei termini anche di recente ribaditi dalla Corte con riferimento ai capi accessori a pronunce costitutive. E ciò al fine di trarne una corrispondente limitazione per l’ampiezza di intervento delle misure cautelari (cfr. ancora sul punto, Andrioli, op. cit., 261, ripreso da Panzarola-Giordano, op. cit., 260-268). A ogni modo, anche per le sentenze di primo grado, è evidente la contraddizione in cui incorre la giurisprudenza di legittimità nel ritenere esecutivo il capo di condanna accessorio laddove si affermi che quello principale costitutivo non produca alcun effetto. Il tema non può affrontarsi in questa sede, basti qui richiamare i principi affermati da Cass., Sez. Un., 23 giugno 2012, n. 10027, in Riv. dir. proc., 2013, 689, sulla cui scorta è possibile riconoscere alla sentenza di primo grado un’efficacia maggiore e diversa da quella puramente esecutiva (cfr. amplius, Capponi, Orientamenti recenti sull’art. 282 c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 265 ss. e, se si vuole, Corea, Verso la provvisoria “efficacia” della sentenza non passata in giudicato?, in Riv. esec. forz., 2014, 481 ss.). 27 Vaccarella, Il rito ordinario, in Corr. giur., 2003, 1504; Briguglio, Il rito sommario di cognizione nel nuovo processo societario, in www. judicium.it., §2; Saletti, Il procedimento sommario nelle controversie societarie, in Riv. dir. proc., 2003, 478; Sassani, Sulla riforma del processo societario, in La riforma delle società, cit., 10; Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione nelle liti societarie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 262; Caponi, La tutela sommaria nel processo societario alla luce dei modelli europei, in Foro it., 2003, V, 148; E.F. Ricci, Verso un nuovo processo civile?, in Riv. dir. proc. 2003, 215; ma già Tarzia, Considerazioni comparative sulle misure provvisorie nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1985, 240 e ss. 28 Analoga ratio si rinviene anche alla base dei provvedimenti sommari di condanna di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 5 del 2003. Anch’essi non erano idonei al giudicato per espresso disposto del comma quinto della disposizione, ma erano immediatamente esecutivi e costituivano titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale: cfr. Vaccarella, Il rito ordinario, cit., 1504; secondo E.F. Ricci, Verso un nuovo processo civile?, cit., 215; v. ora Auletta, Diritto giudiziario civile, Bologna, 2020, 421, secondo cui il rito cautelare societario, antesignano della riforma del procedimento cautelare uniforme, era “dichiaratamente ispirato alla regiudicata come risorsa a disposizione delle parti, più che esito necessitato della tutela giurisdizionale”. Il nuovo art. 669 octies ha quindi preso atto “della scarsità della risorsa giudiziaria, e dispensa dalle forme ulteriori della tutela di merito quando nessuna delle parti ne avverta il bisogno”.

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d’inefficacia della misura cautelare, appariva un’inutile (e antieconomica, per tutti, per le parti e per il sistema) superfetazione. Ora, l’orientamento restrittivo oggi avallato dalla Corte di legittimità si pone in contraddizione, in primo luogo, proprio con lo spirito e le finalità (anche deflattive) di quella riforma. Dire che la sospensione o un provvedimento d’urgenza non possano anticipare l’effetto costitutivo di annullamento (producibile solo con il giudicato) di una delibera o di un contratto può risultare per certi versi anche ovvio, se si allude a quel preciso effetto di modificazione giuridica producibile solo con il giudicato. Ciò non toglie che si possano anticipare effetti assai prossimi a quelli propri della sentenza, assicurando una tutela immediata su cui le parti potranno acquietarsi accettando il nuovo assetto di interessi, che da provvisorio può divenire definitivo: detta affermazione potrebbe allora condividersi solo a patto che si intenda l’anticipazione in un senso estremamente rigoroso, ovvero di produzione in via anticipata degli stessi effetti di modificazione giuridica propri della sentenza. Ma è proprio tale ultimo assunto a doversi escludere, non solo alla luce del criterio teleologico di cui si è detto, quanto anche sulla scorta di una interpretazione letterale dell’art. 669 octies c.p.c., là dove il regime di strumentalità “attenuata” è applicato in via generale ai provvedimenti d’urgenza29 e ai provvedimenti di denuncia di nuova opera o danno temuto30. Viceversa, ove si ritenga, con la dottrina dominante, che la nozione di misura cautelare idonea ad anticipare gli effetti della sentenza di merito debba ricomprendere quei provvedimenti capaci di anticipare effetti anche soltanto analoghi a quelli della sentenza, allora quella conclusione non solo non sarà obbligata, ma si rivelerà errata31.

3. Il caso paradigmatico della sospensione delle delibere: l’inefficacia dell’atto anticipa l’essenza dell’effetto caducatorio proprio della sentenza.

3.1. In questo dibattito, risulta paradigmatico il caso della misura sospensiva, per la quale da tempo si è posto in rilievo come la stessa non sia in grado di incidere soltanto sulla sua “esecuzione” (come recita l’art. 2378 c.c.) ma più ampiamente sul regime di “efficacia” della delibera oggetto di impugnazione (come conferma l’art. 35 del d.lgs. n. 5 del 2003).

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È noto il dibattito tra coloro che ritengono che tutti i provvedimenti d’urgenza sono stati attratti dal legislatore al regime della stabilità ultrattiva e coloro per i quali ciò sarebbe riservato ai soli provvedimenti di natura anticipatoria. Non si vuole qui prendere posizione per l’una o l’altra tesi. È certo però che ove si propendesse per la prima tesi, che appare prevalente anche in giurisprudenza, ne risulterebbe confermato che ai fini dei rapporti col giudizio di merito la nozione di anticipatorietà andrebbe intesa in senso lato. Senza contare che anche i provvedimenti nunciatori non possono ritenersi rigidamente anticipatori (v. nota che segue). 30 Cfr. in tal senso anche Auletta, Diritto giudiziario civile, cit., 422; Panzarola-Giordano, Provvedimenti d’urgenza, cit., 68, che li considerano aventi “sicura natura conservativa”. 31 Naturalmente, non si intende contestare la possibilità di anticipare l’imposizione di obblighi nascenti dalla sentenza costitutiva (v. infatti oltre nel testo, §4), ma solo la limitazione della portata anticipatoria a tali unici effetti e non anche a quelli analoghi all’effetto costitutivo.

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Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio

Su questo presupposto, oramai pacifico, la giurisprudenza ha accordato la misura cautelare in relazione a delibere che non necessitano di materiale esecuzione (delibere c.d. self-executing) ovvero che, pur se eseguite, siano idonee a produrre effetti permanenti32. È inoltre sempre su questo presupposto che si possono comprendere gli effetti ricollegati dalla giurisprudenza alla concessione della cautela33, ovvero la possibilità che la sospensione della delibera di approvazione dell’azione di responsabilità sociale cui segua ex art. 2393 c.c. la revoca d’ufficio dell’amministratore, restituisca a questo i poteri illegittimamente sottrattigli, neutralizzando anche gli effetti della sua sostituzione con altro amministratore34; che la delibera di esclusione comporti l’immediata reintegrazione della posizione del socio nella società, anticipando gli effetti conseguibili con la sentenza di merito35; che la sospensione della delibera di aumento del capitale che abbia sacrificato il diritto di opzione dei soci di minoranza, nonostante sia già stata eseguita con il versamento effettuato dal sottoscrittore, possa comportare il mantenimento in capo all’impugnante (estromesso) dello status di socio perduto in virtù della delibera, con tutti i relativi diritti e poteri, restando inalterato l’assetto societario precedente36. Ove, dunque, si guardi alla sua capacità di neutralizzare gli effetti della delibera e di creare in tal modo una nuova situazione giuridica, analoga alla preesistente, e un nuovo assetto di interessi da cui possono insorgere obblighi ripristinatori e conformativi, sembra difficile disconoscerle l’idoneità ad anticipare effetti analoghi a quelli della sentenza che definisce il giudizio impugnatorio. Non quindi una identità di effetti – in quanto l’effetto caducatorio della sospensiva, da un lato impatta sul regime di efficacia della sentenza (non su quello di validità), dall’altro, è per natura transeunte (salva, appunto, la sua idoneità a stabilizzarsi in caso di estinzione del giudizio di merito)37 – ma l’inefficacia dell’atto quale essenza dell’effetto caducatorio38. La bontà di questa conclusione è avvalorata proprio dalla decisione esaminata, che pur si pronuncia infine in senso contrario. È infatti la stessa Cassazione ad affermare che la so-

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Come, da un lato, le delibere di nomina o revoca degli amministratori, di approvazione del bilancio, di esclusione dei soci ai sensi degli artt. 2287, 2473 bis e 2533 c.c., talune delibere di modifica dell’atto costitutivo (ad es., delle norme sulla ripartizione degli utili) ed a certe condizioni le deliberazioni negative; dall’altro lato, le deliberazioni di aumento o riduzione del capitale sociale, di emissione di obbligazioni, di trasformazione, scissione e fusione societaria. 33 Sia consentito il rinvio, per ogni approfondimento, a Corea, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, Torino, 2008. 34 Trib. Milano, (decr.) 26 luglio 1997, in Giur. it., 1998, 93; Trib. Napoli, (ord.) 9 febbraio 1993, in Dir. & Giur., 1994, 401 e ss.; Trib. Padova, 21 maggio 2005, in Corriere giur., 2006, 1283. 35 Cfr. Trib. Piacenza, (decr.) 28 febbraio 1995, in Società, 1995, 1202; App. Catania, 28 ottobre 1990, in Giur. comm., 1991, 970. 36 Trib. Milano, (decr.) 25 luglio 1998, in Giur. it., 1999, 1676, che richiama l’obbligo degli organi gestori di adozione di “ogni opportuna misura”. 37 Come altrove riteniamo di aver dimostrato (La sospensione delle deliberazioni societarie, cit.), si tratta di un effetto inferiore a quello costitutivo, che possiamo individuare nella situazione di “quiescenza”: mentre l’annullamento espunge definitivamente l’atto dalla realtà giuridica, la sospensiva lo rende quiescente, impedendogli di produrre i suoi effetti e, se ne ha già prodotti, facendoli venir meno temporaneamente: per usare un’espressione utilizzata dalla giurisprudenza, l’atto sospeso è da ritenersi tamquam non esset. 38 Cfr. Cass. 14 novembre 2012, n. 19938, in Riv. dir. proc., 2013, 1526, con nota di Giussani, secondo cui la sospensione di una delibera comporta l’inefficacia della stessa al punto che il giudice del separato giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (fondato sulla delibera poi sospesa) deve accogliere l’opposizione.

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spensione “esplica un’efficacia interinale ontologicamente coincidente al contenuto della sentenza” (corsivo nostro) e che (richiamando, sul punto, una dottrina) è “indubbia l’idoneità della misura sospensiva ad “appagare” i condomini o soci impugnanti”39. Ma allora, se la sospensiva è in grado di dare una tutela satisfattiva e se la sua efficacia è “ontologicamente coincidente” a quella della sentenza di annullamento cui è preordinata, come si fa a negare che la stessa abbia i caratteri di misura cautelare anticipatoria? 3.2. Ma non è questa l’unica contraddizione in cui incorre la Corte nel suo recente arresto. La sentenza fornisce anche un ulteriore argomento secondo cui, nel caso di specie, se si ritenesse la sospensiva una misura anticipatoria, essa “anticiperebbe proprio l’effetto inscindibilmente collegato con la pronuncia costitutiva di annullamento, consistente nel ripristino della posizione di socio”, che sarebbe producibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza di merito. Tuttavia, è la stessa Corte a smentirsi, poco oltre, quando afferma che la sospensiva “consente un ripristino provvisorio del rapporto societario, evitando che la posizione di socio venga ed essere definitivamente compromessa, non solo non percependo gli utili, ma anche e soprattutto non potendo influire – cosa ancora più evidente quando si tratti, come nel caso concreto, di società di persone – sull’amministrazione e gestione della società”. Di nuovo, se è così, se la misura consente al socio escluso di rientrare nella compagine, di percepire gli utili e di esercitare i diritti sociali40, come sarebbe se venisse accolta con sentenza la sua impugnazione, come si fa a dire che non è anticipato l’effetto utile della sentenza di annullamento, ossia la piena reintegrazione del socio impugnante? Infatti, se la sospensiva fosse una misura meramente conservativa, essa potrebbe solo inibire l’esecuzione della delibera, ma una volta eseguita essa non potrebbe garantire il rientro del socio nella pienezza del suo status. La verità è che le deliberazioni assembleari delle società commerciali, in quanto atti di esercizio di un potere, sono idonee ad esplicare i propri effetti verso i soci e verso i terzi sin dalla loro emanazione e a prescindere dalla loro validità. Queste caratteristiche, come noto, giustificano l’adozione da parte del legislatore del modello giudiziale impugnatorio quale tecnica di reazione avverso l’atto di esercizio del potere. Se la delibera è idonea a produrre immediatamente effetti giuridici modificativi della realtà, la sospensione è in grado di neutralizzarli, producendo una modifica eguale e contraria, sia pure solo provvisoria, in attesa della sentenza di merito41. La circostanza che questo effetto non sia definitivo e non coincida con l’effetto caducatorio pieno producibile solo con il giudicato, non è sufficiente a ridurre la sospensione a misura puramente conservativa.

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Cfr. ancora Cass. 7.10.2019, n. 24939. Per non parlare dell’effetto preclusivo-conformativo che impedisce alla società di riproporre una delibera di contenuto identico al fine di eludere la misura cautelare e di salvaguardare appieno, per il futuro, la posizione del socio (ex) escluso. 41 V. in tal senso anche la pacifica giurisprudenza amministrativa: Cass., Sez. Un., 19 febbraio 1981, n. 1004, in Foro it., 1981, I, 647; Cons. St., IV, 2 maggio 1958, n. 382, in Foro it., 1959, III, 92. Analogamente, Cons. St., V, 12 luglio 1974, n. 386, in Cons. St., 1974, I, 958; Id., 15 marzo 1974, n. 245, ivi, 451; Cons. St., Ad. Plen., 30 aprile 1982, n. 6, in Foro amm., 1982, I, 626 e ss. 40

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Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio

A ben vedere, questa soluzione è sostenibile anche se si volesse aderire alle tesi più rigorose circa la portata del concetto di anticipazione, fatta eccezione per quella che ritiene necessaria una anticipazione “totale” degli effetti della sentenza42. L’assetto di interessi realizzato in via cautelare non sarebbe comunque differente, nella sostanza, da quello ottenibile all’esito della tutela di merito 43. Né può giovare, in contrario, l’ulteriore argomento fatto proprio dai giudici di legittimità, secondo cui “alla sospensione della delibera sia da ascrivere la finalità di evitare che la durata del giudizio possa incidere irreversibilmente sulla posizione del socio” per trarne la sua natura “conservativa”. L’assunto confonde infatti la funzione con la struttura conservativa della misura, obliterando il fatto che un provvedimento cautelare anticipatorio ben può assolvere anche a una funzione conservativa44. Se guardiamo alla struttura del provvedimento, e riteniamo anticipatoria quella misura in grado di produrre effetti in tutto o in parte analoghi a quelli della sentenza, la sospensione è ascrivibile a pieno titolo nelle misure anticipatorie45; ma anche se si guarda alla funzione il risultato non cambia, mirando essa a reintegrare nell’immediatezza il socio nella medesima situazione in cui era prima della delibera, neutralizzando l’effetto costitutivo della delibera, in termini pratici non differenti da quanto potrà avvenire, con efficacia di giudicato e con impatto sulla validità della stessa, in forza della sentenza di annullamento.

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V. ad es. Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2019, 227, secondo cui “fra sospensione ed annullamento, dal punto di vista della tutela esecutiva, non vi è alcuna differenza. La delibera, sia sospesa che annullata, non ha più attuazione”, concludendo nel senso che la sospensione “è dunque un provvedimento anticipatorio”. 43 Ai fini dell’applicazione del regime di ultrattività, ci si può chiedere se la decadenza dall’impugnativa risulti impedita dalla sola proposizione della domanda o richieda che il giudizio così introdotto giunga ad una decisione di merito, pena il venir meno dell’effetto impeditivo. E se tale seconda ipotesi osti ad ammettere una ultrattività della sospensiva. Utili spunti provengono proprio dalla Corte di legittimità che ha ritenuto idoneo a impedire una decadenza la proposizione di un ricorso ex art. 700 c.p.c., proprio sul rilievo che lo stesso costituisca ormai espressione di un’autonoma azione (Cass., 25 maggio 2016, n. 10840). Al di là del dibattito che divide sul punto la dottrina (nel senso della necessità che la domanda pervenga ad una sentenza di merito, v. già Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Padova, 2004, 131; Iannicelli, Profili processuali, cit., 170 ss.; in senso opposto, Saletti, Estinzione, in Enc. Giur., XIII, Roma, 1994, 13; Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 320; Satta, Estinzione del processo e decadenza, in Temi, 1970, 18; Furno, Estinzione del processo e impedimento della decadenza, in Riv. dir. proc., 1952, 108) da cui forse può prescindersi, la risposta ci è data più pianamente dalla legge: con l’erogazione della tutela cautelare anticipatoria vi è infatti uno spostamento dell’interesse alla tutela di merito dal beneficiario al soggetto che subisce la misura cautelare. Ne consegue che, se la società lascia estinguere il giudizio, il sistema, così come concepito dal legislatore, consente che la vicenda resti regolata dal provvedimento sommario. Diversamente, per la sospensione delle delibere condominiali, il riformato art. 1137 c.c. prevede espressamente l’estensione dell’applicazione della disciplina dei procedimenti cautelari con l’unica esclusione del regime di stabilità-ultrattività. Si tratta però di una previsione all’evidenza derogatoria, per quella peculiare misura, rispetto al regime generale delle misure cautelari anticipatorie e come tale insuscettibile di applicazione analogica, come dimostra anche la sua ammissibilità ante causam, esclusa dall’art. 2378 c.c. (conf. Cariglia, Aspetti processuali della nuova disciplina del condominio, in Nuove leggi civ. comm., 2012, 1005 ss.). In giurisprudenza, T. Milano, 22.4.2011, in Giur. it., 2012, 100; T. Venezia, 30.12.2010, ivi, 2012, 895, affermano entrambe esplicitamente la natura ultrattiva della sospensione. Si consideri, peraltro, che l’ultimo comma dell’art. 24 del d.lgs. n. 5/2003 assoggettava, espressamente, alla sua disciplina, ivi compresa le disposizioni sull’ultrattività, “l’istanza di sospensione proposta a norma dell’art. 2378 del codice civile”: il che costituisce un dato testuale non trascurabile circa l’intenzione del legislatore di ricomprendere la misura cautelare sospensiva tra i provvedimenti cautelari anticipatori. 44 Invero, se per identificare la funzione di un istituto si deve aver riguardo allo “scopo obbiettivo” pratico del medesimo, siccome emergente dalle norme che lo disciplinano, la sua struttura consiste nella tecnica utilizzata dal legislatore per il raggiungimento di quello scopo: Mandrioli, Per una nozione strutturale, cit. 45 Come afferma Luiso, Diritto processuale civile, IV, cit., 226, la tutela conservativa contiene una regula iuris disciplinata dal solo diritto processuale, mentre quella anticipatoria è modellata su un assetto di interessi previsto dalla legge sostanziale, e tale è la sospensione.

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Il pregiudizio non è tanto quello da infruttuosità della sentenza, tipico delle misure conservative, ma è quello da tardività, proprio delle misure anticipatorie. Ciò non esclude, si è detto, che la misura cautelare anticipatoria possa avere una funzione lato sensu conservativa46. Ciò accade allorché l’interesse fatto valere si appunti sulla necessità di non portare ad ulteriore esecuzione l’atto impugnato mediante la mera conservazione dello stato di fatto, e quindi in relazione ad atti richiedenti un’attività esecutiva47. Mentre nei casi in cui la lesione provenga dalla mera produzione dell’effetto giuridico scaturente dall’atto, o anche da effetti permanenti di atti esecutivi già intervenuti, ipotesi in cui si chiede il ripristino della situazione preesistente all’emanazione della delibera o alla sua esecuzione, anche la funzione del provvedimento sarà normalmente anticipatoria48. 3.3. Da ultimo, va detto che la qualificazione della sospensione come misura anticipatoria sarebbe corretta anche a voler seguire il ragionamento della Corte secondo cui tali sarebbero le sole misure idonee ad anticipare effetti “meramente dipendenti” dal capo costitutivo della sentenza. Effetti, che la decisione in commento individua nei capi che autorizzano “a compiere atti di salvaguardia del diritto costituendo che possono derivare da condanne accessorie alla statuizione di mero accertamento o a quella costitutiva” (corsivo nostro). Ebbene, non si vede perché le statuizioni consequenziali debbano essere limitate a quelle di tipo strettamente condannatorio, ovvero a quelle tali da essere suscettibili di esecuzione forzata, e non anche in relazione agli effetti ripristinatori e conformativi della sentenza di annullamento che la sospensione è parimenti idonea ad anticipare49. Le Sezio-

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Per l’ammissibilità di misure con funzione conservativa ma strutturate secondo la tecnica dell’anticipazione, Tommaseo, I provvedimenti d’urgenza, cit., 197. 47 La sentenza richiama gli argomenti sostenuti in dottrina da Balena, Istituzioni, III, cit., 316, secondo cui la sospensiva “mira semplicemente ad evitare che l’esecuzione dell’atto medesimo determini modificazioni, di fatto o di diritto, non più compiutamente eliminabili o rimediabili ex post”. È ad esempio il caso della sospensione di una delibera di modifica delle norme statutarie che disciplinano la distribuzione degli utili, in cui la misura cautelare ha lo scopo conservativo di evitare che siano ripartiti i dividendi secondo le nuove norme, con conseguente irripetibilità da parte della società. 48 Deve, quindi, ritenersi confermata la natura anticipatoria, come sostenuto dalla prevalente dottrina: Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2019, 227, Saletti, Commento all’art. 23, e Commento all’art. 24,in La riforma delle società. Il processo, a cura di Sassani, Torino, 2003, 224 e 242; Olivieri, Il procedimento cautelare, cit.; Tiscini, I nova del procedimento cautelare societario: la c.d. strumentalità attenuata e il giudizio abbreviato, in Giur. it., 2004, 2212, secondo cui la riforma era stata probabilmente immaginata proprio per l’ipotesi di sospensione ex art. 2378 c.c.; Carratta, Commento all’art. 2378, cit., 1158; Id., I procedimenti cautelari, cit., 270; Fabiani, Il rito cautelare societario: contraddizioni e dubbi irrisolti, in Riv. dir. processuale, 2005, 1195; De Matteis, Il processo cautelare societario, in www.judicium.it; A.A. Romano, Riflessioni sui provvedimenti cautelari nel nuovo processo societario, in Riv. dir. proc., 2004, 1192; Villata, Impugnazioni di delibere assembleari, cit., 515; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 600; Menchini, Le modifiche al procedimento cautelare uniforme e ai procedimenti possessori, in AA.VV., Il processo civile di riforma in riforma, Milano, 2006, 78; Panzarola, I provvedimenti d’urgenza dell’art. 700 c.p.c., cit., 895; Fradeani, I procedimenti cautelari in materia societaria, in I procedimenti cautelari, cit., 1122; contra, nel senso che la sospensione avrebbe carattere conservativo: ArietaDe Santis, Diritto processuale societario, cit., 428; Marinelli, Note in tema di tutela cautelare nel nuovo rito societario, in Corriere giur., 2004, 1250; Consolo, Spiegazioni, cit., 225; Balena, Istituzioni, cit., 315; C. Ferri, Le impugnazioni, cit., 63; Iannicelli, op. cit., 300 ss. 49 Secondo una parte della dottrina, la sentenza costitutiva è idonea a stabilire in modo vincolante “le relazioni dei soggetti intorno alla situazione sostanziale sottoposta a modificazione”. In questa prospettiva, il giudicato della pronuncia costitutiva sarebbe da ritenersi esteso al comando rispetto alla condotta delle parti: Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 190 ss.; in tema v. altresì, Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989; Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, 616 ss. (spec. nota 237); Proto Pisani, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva, in Riv. dir.

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Sulla nozione di provvedimento cautelare anticipatorio

ni Unite hanno chiaramente affermato che la sentenza di primo grado è idonea a esplicare un’efficacia immediata consentendo di adeguare la realtà materiale alla regola giuridica da essa posta, senza che tale adeguamento possa limitarsi alle sole modalità di esecuzione forzata previste dal libro III del codice di rito50. In base all’art. 2377, 7° co., c.c., «l’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità», compatibilmente con le modifiche nelle more prodotte dall’attività sociale sul piano organizzativo e patrimoniale. L’interesse del socio impugnante infatti non sempre si limita all’eliminazione dal mondo giuridico della delibera lesiva, ma spesso porta con sé pretese restitutorie e in molti casi è volto a predeterminare in certa misura i limiti di un successivo esercizio del medesimo potere identificandone le corrette modalità. Non è estraneo, in questi casi, al giudizio impugnatorio e alla sua sentenza conclusiva un contenuto di accertamento, suscettibile di vincolare le parti nella prosecuzione del rapporto. Sotto questo profilo, la stessa differenza tra accertamento e condanna può risultare particolarmente labile, potendo ritenersi il primo un comando vincolante e creativo di obblighi da cui si distingue la condanna, sotto il profilo degli effetti, solo in quanto questa vi aggiunge la soggezione ad una sanzione51. E, d’altra parte, là dove vi sia un obbligo infungibile la stessa sentenza di condanna, quand’anche la si ritenga ammissibile, finisce per non distinguersi troppo da una sentenza di accertamento52. Ebbene, al pari dell’effetto caducatorio, anche gli effetti di tipo ripristinatorio e conformativo sono anticipabili in sede cautelare ogni qual volta gli stessi si rendano necessari al fine di scongiurare un pregiudizio. Anche laddove l’ordinanza cautelare non indichi il contenuto dei provvedimenti da adottare, potendosi questo ricavare dalla motivazione e dalla stessa prospettazione del periculum avanzata dal ricorrente, gli amministratori saranno comunque obbligati a dare esecuzione all’ordinanza cautelare in modo tale da assicurare il risultato in funzione del quale la tutela è stata concessa53. Qualora venga sospesa, ad esempio, una delibera di approvazione del bilancio, ove l’assemblea intenda sostituire

proc., 1991, 66 ss. Effetti analoghi conseguono peraltro alla sentenza dichiarativa di nullità di una delibera nei casi consentiti dalla legge. 50 Cfr. ancora Cass., Sez. Un., 23 giugno 2012, n. 10027 cit. 51 Cfr. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, 1942, I, 32 ss.; Furno, Del mero accertamento come sanzione, in Arch. giur., 1938, 213; Fazzalari, Cosa giudicata e convalida di sfatto, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1956, 1315; di identità di contenuto tra accertamento e condanna parla anche Tavormina, In tema di condanna, accertamento ed efficacia esecutiva, in Riv. dir. civ., 1989, II, 29 ss.; Proto Pisani, Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 46, il quale non esclude l’esistenza di una “portata coercitiva” della sentenza di accertamento pur rilevandone la modestia in termini di effettività. 52 V. in tal senso anche Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Bari, 2019, 43. 53 Cfr. in termini, Meo, Gli effetti dell’invalidità delle delibere assembleari, Milano, 1998, 339; Carratta, La fase cognitiva, in I procedimenti cautelari, diretto da A. Carratta, Bologna, 2013, 270. Analogamente, nel processo amministrativo, F. Satta, Giustizia amministrativa, cit., 368; Cons. St., IV, 9 gennaio 2001, n. 253, in Giur. it., 2001, 1273; Cons. St., 29 agosto 2000, n. 4382; Corte cost., 8 settembre 1995, n. 419.

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il bilancio sospeso, non potrà che recepire le indicazioni contenute nel provvedimento di sospensione54. Pertanto, ove si condividano tali considerazioni, la sospensiva si confermerebbe misura anticipatoria anche nella prospettiva fatta propria dalla Corte, ovvero per la sua capacità di porre una nuova regula iuris tra le parti55, ponendo in capo alle stesse obblighi di fare o di non fare che non necessariamente trovano corrispondenza in futuri capi condannatori56.

4. Un’occasione perduta per ridare al nostro processo un modello di tutela moderno ed efficace.

Si è persa, dunque, un’occasione per affrontare il tema della natura anticipatoria dei provvedimenti cautelari in una maniera libera da schemi precostituiti57 e più aderente a quelle esigenze di effettività della tutela che stavano alla base dell’intervento riformatore del 2005 (e, prima, del 2003). Con una parte della dottrina, anche noi ci eravamo espressi illo tempore nel senso di esaltare la forza innovativa della riforma58. Questa, a nostro avviso, non poteva ridursi alla sola attenuazione della strumentalità sotto il profilo strutturale ma si sarebbe dovuta cogliere anzitutto sotto il profilo funzionale59. I provvedimenti cautelari anticipatori, così come tratteggiati dal legislatore, consentono infatti di perseguire una funzione parzialmente differente da quella tradizionalmente attribuita alla cautela: quella di rendere una tutela giurisdizionale immediata per via di una misura che non solo possa “assicurare” gli effetti della decisione finale (come in precedenza è stato e come, in potenza, continua ad essere), quanto quella di produrre anticipatamente effetti costitutivi o esecutivi (in tutto o

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Amplius, Corea, La sospensione, cit., 253 ss. Anche qui, può essere utile richiamare Luiso, op. cit., 226, là dove afferma che il provvedimento cautelare è anticipatorio se “impone alla controparte un comportamento parametrato su di una regula iuris che è tratta dal diritto sostanziale” e la cui utilità può derivare anche dall’adempimento spontaneo della controparte; in questo senso v. anche Panzarola, Giordano, op. cit., 291; Arieta, Trattato di diritto processuale civile. Le cautele, Padova, 2011, 579. 56 Senza contare che la giurisprudenza è ormai da tempo orientata a riconoscere la qualità di titolo esecutivo a sentenze che contengano capi di condanna soltanto “impliciti”: da ultimo, Cass. 30 gennaio 2019, n. 2537. 57 In particolare, ci riferiamo al rigido approccio consistente nel richiamo alla tripartizione classica delle sentenze e alla natura costitutiva della sentenza di annullamento, ovvero a quello che la Cassazione definisce “sul piano dogmatico un parametro ontologico, da cui muovere ogni argomentazione al riguardo”. A nostro avviso, il concetto di anticipatorietà con riferimento ai provvedimenti cautelari rileva ai precipui fini dell’applicazione del regime di stabilità, sicché non vi è necessità di adottare un criterio di rigorosa corrispondenza rispetto agli effetti della sentenza: in tal senso, v. Vullo, op. cit., 233, in nota 71. 58 Cfr. specialmente, con diversi accenti, Saletti, Commento all’art. 23, cit.; Cipriani, Il procedimento cautelare tra efficienza e garanzie, in Giusto proc. civ., 2006, 7 ss.; Caponi, Provvedimenti cautelari e procedimenti possessori, cit., 137 ss.; Monteleone, L’evoluzione delle misure cautelari verso l’introduzione del référé, in Nuove leggi civ. comm., 2006, 1182; Querzola, La tutela anticipatoria tra procedimento cautelare e giudizio di merito, Bologna, 2006, 213. 59 Diversamente, Consolo, Le prefigurabili inanità, cit., 1518, riteneva l’autonomia solo “cronologica, non funzionale”. La rilevanza del dato strutturale era stata accentuata da A.A. Romano, Riflessioni sui provvedimenti cautelari nel nuovo processo societario, in Riv. dir. proc., 2004, 1187; Recchioni, Il processo cautelare uniforme, cit., 45; Vullo, I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., in I procedimenti sommari e speciali, II. Procedimenti cautelari, a cura di Chiarloni e Consolo, Torino, 2005, 1332. 55

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in parte coincidenti con quelli, anticipati, della sentenza finale) “esaurendo” all’occorrenza la sua domanda di giustizia, senza necessità (salva sempre la diversa volontà delle parti) di “impegnare” l’autorità giurisdizionale in un processo a cognizione piena60. Avevamo, a tal fine, parlato di autonomia funzionale della tutela cautelare anticipatoria, nel senso che il legislatore aveva finalmente coniato uno strumento di tutela in grado di perseguire il fine immediato di neutralizzare un pericolo non più necessariamente collegato alla durata del processo di merito, ormai solo eventuale, mediante provvedimenti sommari satisfattivi non più necessariamente strumentali a quest’ultimo61. Si ricorderà come si fosse altresì coltivata la speranza che il provvedimento cautelare anticipatorio potesse rappresentare l’equivalente nostrano dei référé per ragioni di urgenza (référé classique e référé de prévention ou de remise en état), pur con le sue innegabili diversità: anche nel sistema francese, a fronte di un pregiudizio imminente o attuale per il diritto, si dà una regolamentazione provvisoria (priva di giudicato) alla res litigiosa ma suscettibile di stabilizzarsi poiché non è necessario iniziare un giudizio di merito, rispetto al quale non vi è alcun nesso di strumentalità62. Una lettura, questa, che riteniamo tuttora la più aderente ai fini che il legislatore si era prefisso e la più idonea a garantire l’efficienza del sistema e l’effettività della tutela. Ma anche a volerci porre in una prospettiva più tradizionale e rassicurante (per molta parte della dottrina), una lettura ampia della nozione di anticipatorietà avrebbe comunque consentito non solo una più agevole risoluzione dei casi dubbi, quanto il perseguimento del fine, sotteso alla riforma, di non costringere il beneficiario della misura a impegnarsi in un lungo contenzioso di merito al solo fine di evitare l’inefficacia del provvedimento cautelare. Sarebbe dunque stato preferibile evitare, in assenza di un dato positivo insuperabile, di adottare interpretazioni inutilmente formalistiche e lontane dallo spirito che aveva animato il legislatore, a beneficio di un approccio meno dogmatico, più aderente alla sostanza del fenomeno e di certo più conforme alle esigenze di un moderno ordinamento processuale. Con questa lettura stride l’opinione della Corte, non suffragata dal dato positivo, secondo cui “di regola” le misure cautelari debbano ritenersi conservative, e come tali legate da un nesso di strumentalità necessaria al merito. L’occasione di intraprendere questo virtuoso percorso è stata, quindi, malamente utilizzata, ma è auspicabile che si giunga a nuovi arresti di diverso tenore. Solo pochi anni fa, infatti, i giudici di legittimità si erano espressi in ben altra direzione, affermando che “il rimedio cautelare, alla luce della nuova struttura del procedimento ex art. 700 c.p.c., e de-

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Come si ricorderà, l’autonomia del processo cautelare, finalizzato a sistemare provvisoriamente la lite e non necessariamente collegato ad un giudizio di merito, era stata sottolineata già da Carnelutti, Sistema, cit., 213. 61 Corea, Autonomia funzionale della tutela cautelare anticipatoria, in Riv. dir. proc., 2006, 1251 ss. 62 Silvestri, Il sistema francese dei “référé”, in Foro it., 1998, V, 9; Panzarola-Giordano, op. cit., 69 ss., ove si evidenzia come da più parti “si segnala l’intenzione del legislatore delle più recenti riforme di riproporre in Italia il sistema dei référé” (nota 217); Tiscini, I provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009, 253.

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gli altri provvedimenti cautelari anticipatori, delineata nell’art. 669 octies, comma 6, c.p.c., aggiunto dal d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. nella l. n. 80 del 2005, che ha introdotto una previsione di attenuata strumentalità rispetto al giudizio di merito, la cui è instaurazione è facoltativa, ha assunto ad ogni effetto le caratteristiche di un’autonoma azione in quanto potenzialmente atto a soddisfare l’interesse della parte anche in via definitiva pur senza attitudine al giudicato”63.

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Cass., 25 maggio 2016, n. 10840, cit.

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commentata

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Giurisprudenza Tribunale di Brescia, sezione IV civile, sentenza 23 giugno 2020, n. 1176; Dott. Gianluigi Canali; XY c. Banca Z Contratti bancari – Fideiussione omnibus – Schema Abi – Provvedimento della Banca d’Italia – Nullità per violazione dell’art. 2, secondo comma, lett. a), l. 287/1990 –Coincidenza delle clausole negoziali con quelle di cui allo schema Abi – Presunzione di nullità per violazione della normativa antitrust – Prova contraria – Avvenuta negoziazione tra le parti – Onere della prova in capo alla banca convenuta. (Cod. civ., art. 1418, 2697; art. 2, secondo comma, lett. a), l. 10 ottobre 1990, n. 287). Nel giudizio di nullità di un contratto di fideiussione omnibus contenente le clausole dello schema Abi censurate dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55 del 2005, la coincidenza testuale delle clausole negoziali con quelle di cui allo schema Abi è idonea a fondare la presunzione che le clausole in contestazione siano espressive dell’intesa vietata e ne costituiscano attuazione, ferma restando la possibilità per la banca di dimostrare che esse siano state frutto di un’autonoma e consensuale negoziazione tra le parti.

(Omissis) Motivi della decisione (Omissis) La Banca d’Italia nella sua qualità pro tempore di autorità di vigilanza sulla concorrenza e sul mercato finanziario (oggi deferita all’AGCM) ha espresso un parere negativo (con riferimento agli artt. 2, 6 e 8) in relazione allo schema contrattuale uniforme predisposto dall’associazione bancaria italiana A.B.I. e da alcune associazioni di consumatori avente ad oggetto uno schema di fideiussione omnibus a garanzia delle operazioni bancarie. Lo schema standard era costituito da 13 articoli che contemplavano variamente gli obblighi del fideiussore (2, 3, 4, 6, 7, 8, 10), gli obblighi della banca (art. 5) e particolari disposizioni per i fideiussori che rivestivano la qualifica di consumatori. (Omissis). In proposito la Banca d’Italia, dopo avere riconosciuto come tali clausole fossero già stabilmente inserite negli schemi delle fideiussioni omnibus ordinariamente predisposte dagli istituti di credito, ha affermato come le stesse fossero il frutto di un accordo lesivo della concorrenza, accordo consacrato nel modello di fideiussione

predisposto dall’A.B.I. e sottoposto al suo vaglio preventivo. (Omissis). Preso atto, quindi, della censura operata dalla Banca d’Italia nei termini e per le motivazioni sopra riassunte, va ulteriormente ricordato come la Corte di Cassazione già nel 1999 (Cass. 827/1999), poi richiamata più recentemente nel 2017 (Cass. 29810/2017), abbia osservato come l’art. 2 della legge n. 287 del 1990 (cosiddetta legge “antitrust”), allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le “intese” fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, non abbia inteso riferirsi solo alle “intese” in quanto contratti in senso tecnico, ovvero negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un particolare “voluto”. Il legislatore, infatti, con la suddetta disposizione normativa ha inteso – in realtà ed in senso più ampio – proibire il fatto stesso della distorsione della concorrenza, che può essere il frutto anche di comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali”.

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Secondo la Corte di Cassazione, quindi, «si rendono – così – rilevanti qualsiasi condotta di mercato (anche realizzatesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale) purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò’ consegue che, allorché l’articolo in questione stabilisce la nullità delle “intese”, non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza». (Omissis). Ne deriva dunque che sono nulle le fideiussioni prestate a garanzia delle operazioni bancarie conformi allo schema di contratto predisposto dall’A.B.I., alla luce del provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 della Banca d’Italia e che da tale accertamento non sono esclusi i contratti che costituiscono applicazione “a valle” di un’intesa anticoncorrenziale vietata dall’art. 2 legge 287/1990, anche se stipulati anteriormente al riconoscimento dell’illiceità dell’intesa da parte dall’Autorità Garante (Cassazione civile, 12 dicembre 2017, n. 29810). Ne consegue che l’estensione della nullità dall’intesa anticoncorrenziale in senso lato, ai negozi a “valle”, frutto ed espressione di tale intesa, implica che sia assolto l’onere probatorio in ordine al collegamento esistente tra la prima e il secondo, ossia al fatto che la fideiussione omnibus prestata nel caso di specie sia stata modellata sullo schema di contratto predisposto dall’associazione di imprese con la finalità di aderire allo stesso e in tal modo escludere un ambito di differente negoziabilità (così, Cassazione civile, Sez. I, 22/5/2019, n. 13846).

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In altre parole, occorre rilevare se gli effetti distorsivi dell’intesa anticoncorrenziale si siano effettivamente trasferiti sui negozi stipulati “a valle” dell’intesa illecita, atteso che, da un lato, la declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art 2 della L. n. 287 del 1990, non comporta automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa, costituendo però al contempo «una prova privilegiata, quando non una presunzione, del danno patito dal singolo consumatore», in ragione della sua «elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale quanto l’astratta idoneità della stessa a procurare» un danno (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11904 del 2014). Dinanzi a tale prova la banca può fornire prova contraria del nesso causale tra l’illecito concorrenziale e il danno, ma non con argomentazioni generali, tese a rimettere in discussione i fatti costitutivi della sussistenza della violazione della disciplina sulla concorrenza, già valutati dall’Autorità Garante, bensì offrendo precise indicazioni su situazioni e comportamenti relativi ad essa e al garante, idonei a dimostrare che le clausole vagliate non siano state determinate dalla partecipazione all’intesa illecita, ma da altri fattori (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 9116 del 2014). Venendo al caso in esame, va quindi vagliata la sussistenza di una coincidenza delle condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo dello schema contrattuale espressivo della vietata intesa restrittiva. Tale verifica non può che aver esito positivo, atteso che le clausole nn. 2, 6 e 8 della fideiussione stipulata fra la banca e appaiono redatte utilizzando pedissequamente la terminologia e le espressioni contenute nello schema contrattuale predisposto dall’A.B.I. La coincidenza delle clausole in contestazione con quella incriminate giustifica una solida pre-


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sunzione che la garanzia predisposta dall’istituto di credito e sottoposta alla sottoscrizione da parte dei fideiussori fosse stata modellata recependo in chiave monolitica lo schema di categoria, in quanto concordato nell’interesse del sistema bancario, con esclusione di possibili differenti pattuizioni ad opera delle parti. Presunzione non superata dalle asserzioni difensive di banca,

la quale si è limitata a contestazioni generiche, sostanzialmente volte a mettere in discussione i fatti costitutivi dell’intesa anticoncorrenziale, senza allegare circostanze idonee a dimostrare che le clausole in contestazione siano state in realtà frutto di una autonoma e consensuale negoziazione tra le parti. (Omissis).

Tribunale di Roma, sezione VIII civile, sentenza 24 ottobre 2019, n. 20642; Dott. Luigi D’Alessandro; C. G., C. O. c. Unicredit Leasing S.p.A. e a. Contratti bancari – Fideiussione omnibus – Clausole conformi allo schema negoziale Abi – Accertamento da parte della Banca d’Italia – Nullità per violazione dell’art. 2, secondo comma, lett. a), l. 287/1990 – Uniforme applicazione delle clausole vietate – Fatto costitutivo – Onere della prova in capo all’attore fideiussore. (Cod. civ., art. 1418, 2697; art. 2, secondo comma, lett. a), l. 10 ottobre 1990, n. 287). Il fideiussore che agisce per la declaratoria di nullità di un contratto di fideiussione omnibus contenente le clausole dello schema Abi censurate dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55 del 2005 deve provare il carattere uniforme dell’applicazione delle clausole vietate, quale elemento costitutivo della fattispecie antitrust.

(Omissis) Motivi della decisione. — (Omissis) Nel corso di causa gli opponenti hanno, infine, denunciato la nullità del contratto di garanzia da loro stipulato per contrasto con norme imperative di ordine pubblico, cioè per essere esso conforme allo schema Abi 2002, dichiarato in contrasto con la normativa antitrust con provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005. A tal fine hanno richiamato recente giurisprudenza di legittimità in materia (in particolare Cass. n. 29810/2017). Orbene, anche a prescindere da qualsiasi considerazione in merito all’orientamento di recente assunto dalla Suprema Corte sull’argomento di cui trattasi, deve osservarsi che nella specie gli opponenti non hanno prodotto tempestivamente lo schema Abi cui hanno fatto riferimento e pertanto, seb-

bene la nullità sia rilevabile anche d’ufficio, è in radice preclusa qualsiasi verifica circa l’effettiva corrispondenza a questo schema del contratto di garanzia per cui è causa. Tale schema è stato invero depositato telematicamente solo il 26 settembre 2019, quando erano da tempo maturate le preclusioni istruttorie e, dunque, è inammissibile e inutilizzabile ai fini della decisione. Ma anche qualora lo schema Abi 2002 volesse considerarsi utilizzabile ai fini decisori, la contestazione degli opponenti non potrebbe avere miglior sorte giacché l’invalidità del menzionato schema contrattuale quale sancita dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 riguarda la sola ipotesi in cui le disposizioni controverse vengano applicate dalla singola banca in modo uniforme e non già meramente occasionale,

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mentre nella specie non vi è alcuna prova (il cui onere gravava evidentemente sugli attori) che lo schema utilizzato dalla Unicredit Leasing S.p.A. per la prestazione di fideiussione sia stato oggetto di un uso generalizzato ed uniforme (in questo senso, cfr. Cass. 28 novembre 2018, n. 30818).

Senza peraltro obliterare che non vi è alcuna prova che l’odierna opposta sia parte dell’Associazione bancaria italiana e abbia dunque predisposto l’atto di fideiussione in aderenza a quanto stabilito in sede associativa. (Omissis)

Nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust: fatto costitutivo e smarrimenti giurisprudenziali Sommario :

1. La vicenda. – 2. In tema di nullità dei contratti «a valle». – 3. Fatti costitutivi della nullità del contratto di fideiussione per violazione dell’art. 2, l. 287/1990 e onere della prova: le incertezze giurisprudenziali. – 4. Cass. 29810/2017. – 5. Cass. 30818/2018. – 6. Cass. 13846/2019. – 7. Il contenuto dell’accertamento della Banca d’Italia. – 8. (segue) Gli atti del procedimento. – 9. (segue) Il precedente in materia di norme bancarie uniformi. – 10. (segue) Il provvedimento n. 55/2005. – 11. Il valore probatorio dell’accertamento dell’Autorità in sede civile e il tema della sua efficacia temporale. – 12. La semplificazione dell’onere della prova gravante sul fideiussore: presunzioni giurisprudenziali, prova privilegiata e vicinanza alla prova.

Le sentenze in epigrafe offrono lo spunto per affrontare il tema del riparto degli oneri probatori nelle azioni di nullità per violazione della normativa antitrust dei contratti di fideiussione omnibus contenenti le clausole censurate dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55/2005. Passando in rassegna le decisioni della Suprema Corte intervenute sul tema ed esaminando gli atti dell’istruttoria condotta dall’Autorità Garante, lo scritto si propone di riflettere intorno all’individuazione del thema probandum in tali azioni di nullità, interrogandosi sul valore probatorio da riconoscere in sede civile all’accertamento svolto dalla Banca d’Italia, nonché sull’opportunità di ricorrere a meccanismi presuntivi, ispirati anche al principio di vicinanza alla prova, volti a semplificare l’onere probatorio gravante sul fideiussore. The above-mentioned judgements allow the author to examine the issues related to the burden of proof in civil actions for nullity of personal guarantees based on the contractual model drafted by Abi (Italian Banking Association) and censored by the Bank of Italy (as national competition Authority for financial institutions) with its decision no. 55 of 2 May 2005. Starting from the examination of recent decisions of the Italian Supreme Court and analysing the acts of the regulatory proceeding carried out by the Authority, the paper aims to identify the thema probandum in such actions; the author also focuses on the issue of the probative value of the decision no. 55 of 2 May 2005 in civil proceedings and

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on the opportunity to adopt presumptive mechanisms, also inspired by the proof-proximity principle, aimed at alleviating the burden of proof on the guarantor.

1. La vicenda. La due sentenze in epigrafe si inseriscono nel filone giurisprudenziale scaturito dall’ormai noto provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, con il quale la Banca d’Italia, allora responsabile dell’enforcement antitrust nel settore bancario, ha definito, previo parere dell’Agcm, l’istruttoria avviata ai sensi della l. 287/90 in ordine allo schema di contratto di fideiussione omnibus predisposto dall’Abi. All’esito del procedimento – incentratosi su alcune previsioni dello schema derogatorie della disciplina legale e decisamente gravose per il garante – la Banca d’Italia concludeva, con una formula rivelatasi piuttosto infelice, che «gli art. 2, 6 e 8 … contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’art. 2, 2° comma, lett. a), l. 287/90». Emendato dalle clausole in questione (vale a dire delle clausole di rinuncia ai termini di cui all’art. 1957 c.c. e di c.d. “reviviscenza” e “sopravvivenza” della fideiussione), lo schema di contratto veniva, quindi, inviato dall’Abi ai suoi associati, con la consueta indicazione – contenuta nelle circolari Abi – che esso costituiva una mera traccia di riferimento, modificabile in ogni sua parte. Quel che è accaduto successivamente è noto: riconosciuta la legittimazione attiva del contraente finale ad agire dinanzi al giudice ordinario ai sensi dell’art. 33, l. 287/901, si è assistito al moltiplicarsi di contenziosi aventi ad oggetto la declaratoria di nullità delle fideiussioni bancarie contenenti clausole conformi allo schema Abi; peraltro, anche a seguito della decisione del 2005, gli istituti di credito hanno continuato a sottoporre ai clienti modelli contrattuali contenenti le clausole censurate. Oltre ad aver riacceso il dibattito sulla sorte dei contratti c.d. «a valle» di intese antitrust2, tali azioni hanno posto ulteriori interrogativi riguardanti l’individuazione dei fatti costitutivi della nullità in questione e il riparto degli oneri probatori tra banca e fideiussore.

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Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Foro it., 2005, I, 1018, con note di A. Palmieri-R. Pardolesi, L’antitrust per il benessere (e il risarcimento del danno) dei consumatori, e E. Scoditti, L’antitrust dalla parte del consumatore. Per una recente panoramica sul tema, cfr. A. Viglianisi Ferraro, Diritto antitrust e rimedi utilizzabili in Italia dai soggetti danneggiati dai c.d. “contratti a valle”. Un problema ancora aperto, in Il diritto dell’economia, 2019, 1, 269.

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2. In tema di nullità dei contratti «a valle». Gli artt. 2, comma terzo, l. 287/1990 e 101, comma secondo, del T.F.U.E. parlano espressamente di nullità – «ad ogni effetto» e «di pieno diritto» – delle intese vietate «a monte», senza nulla disporre in merito ai negozi da esse derivati; da qui le incertezze sull’esperibilità del rimedio invalidatorio anche avverso detti contratti e gli ulteriori dubbi relativi alla portata di tale nullità (se essa, cioè, una volta ammessa, travolga l’intero contratto o le singole clausole vietate in esso contenute)3. Nel tentativo di ricondurre tale previsione entro gli schemi civilistici e, in particolare, entro le cause di nullità di cui all’art. 1418 c.c., la dottrina ha proposto una molteplicità di ricostruzioni teoriche, utili anche al fine di giustificare la diretta esperibilità dell’azione di nullità anche avverso i contratti «a valle». Merita, tuttavia, di essere condivisa la posizione di chi sostiene che la tendenza ad inquadrare la disciplina di cui alla l. 287/1990 negli istituti del diritto civile, senza alcun adeguamento delle categorie civilistiche alle peculiarità dell’oggetto della tutela antitrust, sia fonte di equivoci e debba essere superata; la nullità in questione non va ricondotta puramente e semplicemente alla parte generale del codice civile (e, dunque, necessariamente ricostruita in termini di nullità per illiceità della causa o dell’oggetto), poiché essa soggiace anche alla legge per la tutela della concorrenza e del mercato. La nullità che il consumatore è legittimato a far valere corrisponde alla fattispecie antitrust prevista dal citato art. 2: ne deriva che «anche i singoli rapporti polverizzati ricadono nel fuoco della l. n. 287»4. Peraltro, se tale distorsione della dinamica concorrenziale può essere realizzata, come recita la lett. a) dell’art. 2, anche mediante una consapevole attività di collaborazione tra imprese, consistente nella diretta fissazione di condizioni contrattuali – dunque mediante comportamenti di fatto coordinati e coscientemente posti in essere dalle imprese

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In ordine al fondamento sostanziale della nullità dei contratti «a valle» e al rapporto tra intese «a monte» e contratti «a valle», cfr., ex multis, S. Bastianon, Nullità «a cascata»? Divieti antitrust e tutela del consumatore, in Danno e Resp., 2003, 1075; G. Vettori, Contratto e concorrenza, in Riv. dir. priv., 2004, 787; C. Castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e resp., 2004, 469; Id., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, ibid., 1165 ss.; Id., Sezioni più unite che antitrust, in Eur. dir. priv., 2005, 435; R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, in Foro it., 2004, I, 469; R. Calvo, Diritto antitrust e contratti esecutivi dell’intesa vietata (contributo allo studio dei Folgevertrage), in Contratti, 2005, 181. Cfr. E. Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, in Foro it., 2003, I. 1127; Id., L’antitrust dalla parte del consumatore, cit.; R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., secondo il quale, dal punto di vista dell’effetto, il contratto non è dissociabile dall’intesa, ne rappresenta una modalità: «se pensiamo che a mente dell’art. 2 «sono considerate intese» sia gli accordi che le pratiche concordate, è agevole non circoscrivere l’intesa alla pura conspiracy, ed identificarla anche in una pluralità di singoli contratti stipulati da imprese diverse, senza che ricorra necessariamente un previo concerto in una qualche stanza dei bottoni, ma purché i rapporti polverizzati siano accomunati dall’alterazione consistente del mercato che si determina attraverso la loro instaurazione. Se l’intesa è rinvenibile nella pura obiettività di comportamenti (e questo era già l’orientamento dei giudici di legittimità: Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, id., 1999, I, 831, con osservazioni di L. Lambo), allora l’ultimo comma dell’art. 2 («Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto») si applica anche al singolo contratto (c.d. «a valle»). La nullità che il consumatore fa valere è pertanto non quella derivante dall’illiceità dell’oggetto o della causa, ma quella prevista dall’art. 2». In favore di tale lettura sostanzialistica, più di recente, anche Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810, in Foro. it., 2018, I, 158, con nota di richiami di R. Pardolesi, sulla quale v. ampiamente infra.

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pur in mancanza di una preventiva, formale convenzione – se ne ricava che quello si suole definire contratto «a valle» è in realtà, esso stesso, intesa vietata e che le clausole così fissate, riversate nei singoli contratti, senza che vi sia, in capo al contraente, alcun potere di rinegoziazione in merito, sono nulle per violazione diretta del precetto di cui all’art. 25. Si tratta, infatti, di condizioni contrattuali che il singolo è costretto ad accettare e che l’impresa è in grado di imporre sulla scorta della intervenuta condotta anticoncorrenziale.

3. Fatti costitutivi della nullità del contratto di fideiussione

per violazione dell’art. 2, l. 287/1990 e onere della prova: le incertezze giurisprudenziali. Sullo sfondo era rimasta la questione relativa al riparto degli oneri probatori o, meglio, ancor prima, l’esatta individuazione del thema probandum: ammessa l’esperibilità di un’azione di nullità avverso i contratti «a valle» – nel caso in questione, avverso i contratti di fideiussione omnibus contenenti le clausole censurate dalla Banca d’Italia – nel relativo giudizio chi deve provare cosa? Ebbene, secondo la sentenza romana in epigrafe, colui che invoca la nullità di un contratto conforme ad intesa nulla perché vietata, assume in pieno l’onere di provare anche il “carattere uniforme” dell’applicazione delle clausole corrispondenti a quelle dichiarate illegittime. Non basterebbe cioè la mera coincidenza di testo, dovendosi dimostrare l’uso generalizzato da parte dell’istituto di credito di tali clausole, imposte al cliente in attuazione dell’intesa vietata. Tale coincidenza deve corrispondere alla volontaria e pedissequa applicazione dell’intesa nulla da parte della banca, non mediata da autonome scelte. Diversamente, il Tribunale di Brescia afferma che nel giudizio di nullità quel che occorre accertare è proprio la corrispondenza testuale delle condizioni contrattuali impugnate con quelle censurate dalla Banca d’Italia, poiché tale coincidenza è idonea a fondare la presunzione che le clausole in contestazione sono espressive dell’intesa vietata e ne costituiscono attuazione; spetta, quindi, alla banca convenuta superare tale presunzione, dimostrando che le clausole sono state frutto di un’autonoma e consensuale negoziazione tra le parti. Medesima la fattispecie (in entrambi i casi, peraltro, si trattava di fideiussioni stipulate in data anteriore alla pubblicazione del Provvedimento del maggio 2005), ben diverse le soluzioni. A sostegno di tali opposte conclusioni, le pronunce si richiamano ad alcuni precedenti della Prima Sezione della Suprema Corte: in particolare, se la sentenza romana aderisce

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Cfr. E. Scoditti, Il consumatore e l’antitrust, cit.

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pienamente alla posizione espressa al riguardo da Cass. n. 30818/20186; il giudice bresciano rinvia, invece, all’ordinanza n. 29810/20177 e alla più recente sentenza n. 13846 del 20198 (non menzionando affatto il precedente del 2018). Qualcosa, evidentemente, non torna. E, in effetti, dalla lettura delle citate pronunce di legittimità emerge l’esistenza di un quadro tutt’altro che unitario: sul problema dell’individuazione dei fatti costitutivi della nullità in questione e del riparto degli oneri probatori tra le parti, la Suprema Corte ha fornito indicazioni frammentarie, ingenerando una inevitabile confusione. Le oscillazioni della giurisprudenza di merito costituiscono un’evidente riprova di tali ambiguità: basti osservare che anche le pronunce di merito che affermano la valenza costitutiva dell’«uniforme applicazione delle clausole» in questione, aderendo all’indirizzo inaugurato da Cass. n. 30818/2018, divergono poi nell’individuare il contenuto della prova di tale «uniforme applicazione»: in taluni casi si richiede al fideiussore la prova dell’uso generalizzato da parte di «un significativo numero di istituti di credito» ovvero «dalla stragrande maggioranza degli istituti di credito» di modelli uniformi di fideiussione omnibus9; in altri è richiesta la prova dell’uniforme applicazione delle clausole vietate – non da parte di una pluralità di banche, ma – da parte del singolo istituto di credito convenuto nei confronti di tutti i suoi clienti10. L’incertezza pare innegabile; ma la giurisprudenza di legittimità, oltre ad aver chiarito che non si tratta di «questioni rilevanti ai fini dell’esercizio della funzione nomofilattica»11, ha, di recente, professato la piena coerenza tra le diverse posizioni espresse sul tema12. Pare opportuno, allora, passare al loro esame.

4. Cass. 29810/2017. Oggetto dell’ordinanza n. 29810/201713 era lo specifico profilo della rilevanza del provvedimento della Banca d’Italia rispetto ad un contratto di fideiussione concluso anteriormente alla sua emanazione14: la Corte d’Appello aveva escluso in radice la possibilità di

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Cass. ord., 28 novembre 2018, n. 30818, in Nuova giur. civ., 2019, 3, 517, con nota di G. Calabrese, Fideiussione omnibus “a valle”: illecito antitrust e nullità (parziale?). 7 Cass., 12 dicembre 2017, n. 29810, in Foro. it., 2018, I, 158, cit. 8 Cass. 22 maggio 2019, n. 13846, id., Le banche dati, archivio Cassazione civile. 9 Cfr., tra le altre, Trib. Milano, 23 giugno 2016, n. 2016, cit.; Trib. Verona, 23 dicembre 2019, n. 2865. 10 Cfr., oltre alla sentenza romana in epigrafe, anche Corte App. Venezia, 22 maggio 2014, n. 1261, che ha richiesto la prova «che Banca Etica abbia continuato a proporre indefettibilmente ed invariabilmente la rinuncia al termine ex art. 1957 c.c. a qualunque fideiussore». 11 Così Cass. ord., 28 novembre 2018, n. 30818, cit. 12 Cass. 26 maggio 2020, n. 9679, in Banca Dati De Jure; Cass. 22 maggio 2019, n. 13846, cit. 13 Cass., 12 dicembre 2017, n. 29810, cit. 14 Un’analoga questione era stata affrontata da Cass., 1 febbraio 1999, n. 827, in Foro it., 1999, I, 831, con nota di L. Lambo, che ha

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procedere all’accertamento della nullità dell’accordo contrattuale, ritenendo inapplicabile retroattivamente l’accertamento del 2005. Nel motivare la decisione, il giudice di secondo grado prendeva posizione, più in generale, in ordine al dictum dell’Autorità, sottolineando che tale accertamento «non incide sulla legittimità delle singole clausole, ma ne afferma la contrarietà con l’art. 2 l. n. 287 del 1990, solo in conseguenza della loro applicazione uniforme» (si tratta, com’è evidente, della medesima ricostruzione che viene operata nella sentenza romana in epigrafe). Sicché solo il mancato adeguamento dell’Abi nella predisposizione delle norme bancarie uniformi avrebbe potuto ritenersi illegittimo e costituire un comportamento idoneo a determinare la nullità dei (soli) contratti stipulati successivamente, ove non derogato da comportamento dell’istituto di credito. La sentenza, cassata con rinvio, veniva ampiamente criticata dalla Suprema Corte: richiamandosi alla posizione già espressa da Cass. n. 827/1999, la Corte evidenziava l’erroneità della lettura formalistica della nozione di intesa posta a fondamento della decisione. Al fine di escludere la nullità del contratto di fideiussione per violazione della normativa antitrust, il dato dell’anteriorità della sua stipula rispetto all’accertamento della Banca d’Italia non è decisivo, né ha valore – con riferimento ai contratti successivi all’accertamento del 2005 – la formale espunzione dallo schema Abi delle clausole censurate dall’Autorità; entrambe le conclusioni appaiono incentrate su aspetti afferenti alla pura dimensione negoziale dell’intesa15. Tuttavia, nel sancire la nullità delle intese anticoncorrenziali, l’art. 2 della l. 287/1990 non ha voluto attribuire rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico posto all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione che realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza, poiché la nozione di intesa è oggettiva e tipicamente comportamentale; nel caso in questione, l’esistenza di una violazione «a monte» era stata riconosciuta esistente da parte dell’Autorità e, a tale accertamento, erano seguite le prescrizioni impartite all’Abi circa la rimozione delle clausole vietate16. Nella specie, la violazione «a monte» è stata consumata anteriormente alla negoziazione «a valle» (vale a dire, alla formale predisposizione dello schema Abi) e, quindi, com’è ovvio

considerato rilevanti gli illeciti in atto, per quanto generati anteriormente all’emanazione della legge del 1990, stabilendo che «ferma restando la ovvia intangibilità di quel fatto originario e di qualunque suo effetto già verificatosi antecedentemente all’entrata in vigore della nuova legge, rientrano comunque sotto la disciplina in questione tutte le vicende successive del rapporto che realizzino profili di distorsione della concorrenza». 15 In particolare, la prima assegna rilievo dirimente al momento in cui la violazione è stata formalmente accertata dall’Autorità, così automaticamente legittimando le condotte anticoncorrenziali consumate in precedenza; la seconda si incentra in via esclusiva sul contenuto dello schema contrattuale diffuso a seguito del Provvedimento del 2005 e ricollega all’avvenuta osservanza delle prescrizioni da parte dell’Abi il venir meno dell’illecito antitrust. 16 In ordine a tali prescrizioni, precisa la Corte, «erra la corte territoriale a considerarli dati integrativi dell’accertamento di un illecito che solo dalla loro inosservanza possa seguire, essendo invece sufficiente l’avvenuta constatazione di quel comportamento antigiuridico (le intese restrittive) rispetto al piano della legge e dei principi che ne governano la regolazione».

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che sia, anche anteriormente al suo formale accertamento da parte dell’Autorità; ciò non esclude che tale violazione vi sia stata e che essa possa rilevare ex art. 2, l. 287/1990. In sintesi, la Corte d’Appello, anche in considerazione della vicinanza temporale tra il contratto contestato e l’istruttoria condotta della Banca d’Italia e della valenza di prova privilegiata dell’accertamento svolto in sede amministrativa, non avrebbe dovuto escludere la possibilità di accertare la nullità di quel contratto sul solo presupposto della sua anteriorità all’indagine dell’Autorità indipendente. L’ordinanza non prende espressamente posizione in ordine al riparto degli oneri probatori, ma fornendo una lettura chiaramente sostanzialistica della nozione di intesa vietata e richiamando la valenza di prova privilegiata dell’accertamento svolto dall’Autorità Garante, offre le basi per una corretta impostazione del problema, di fatto affermando che l’accertamento di un illecito anticoncorrenziale, nei suoi elementi costituivi, è stato «già compiuto dalla Banca d’Italia».

5. Cass. 30818/2018. Un anno dopo, la Prima Sezione della Suprema Corte interviene nuovamente sul tema con la citata ordinanza n. 30818/201817; tale pronuncia, redatta in forma semplificata sulla discutibile asserzione dell’assenza di «questioni rilevanti ai fini dell’esercizio della funzione nomofilattica», si incentra espressamente sull’individuazione degli elementi costituivi della fattispecie esaminata e sul riparto degli oneri probatori tra le parti, discostandosi dalle premesse elaborate nel 201718. L’ordinanza assume che nel giudizio di nullità promosso avverso un contratto contenente le anzidette clausole vietate, il fideiussore non può limitarsi ad allegare e provare la coincidenza di tali clausole con quelle di cui allo schema Abi, ma deve dimostrare il «carattere uniforme» della loro applicazione, essendo «la sua necessità pacificamente prevista nel provvedimento della Banca d’Italia»: in altre parole, l’applicazione non occasionale, ma uniforme di tali clausole, quale «elemento costitutivo della pretesa attorea», deve essere provata da chi fa valere la nullità del contratto «secondo la regola generale di cui all’articolo 2697 c.c.». Ad una diversa conclusione, prosegue la Corte, non può neppure condurre il richiamo al principio di vicinanza alla prova; ciò in quanto l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di presunzione del danno per il consumatore a seguito dell’accertamento dell’intesa antitrust in sede amministrativa, che sul criterio di vicinanza si fonda, non può trovare applicazione quando è «contestata la sussistenza dell’intesa anticoncorrenziale

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Cass. ord., 28 novembre 2018, n. 30818, cit. Non a caso, tale precedente non viene richiamato in nessun passaggio della breve motivazione.

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avuto riguardo alla presenza di un suo elemento essenziale (il carattere uniforme di cui si è detto), che il provvedimento della Banca d’Italia non ha accertato, ma ha indicato in termini soltanto ipotetici». La brevissima, ellittica motivazione dell’ordinanza ruota attorno alla qualificazione dell’uniforme applicazione delle clausole in questione in termini di fatto costitutivo della domanda di nullità del contratto (ovvero, accogliendo la tesi della nullità parziale, di fatto costitutivo della nullità delle singole clausole) ex artt. 2, secondo comma, lett. a), e 33, l. 287/1990. Tale pronuncia ha avuto uno strano destino: redatta in forma di ordinanza per una dichiarata ovvietà del suo presupposto giuridico, e ignorata praticamente dalla dottrina, ha invece innescato un nutrito filone giurisprudenziale – nel quale si inserisce la sentenza romana in epigrafe – per il quale essa è assurta a leading case e che vi vede l’enunciazione di un principio da spendere19. L’iter argomentativo seguito dalla Suprema Corte necessita, allora, di essere ulteriormente esplicitato nei suoi passaggi. La Corte sembra affermare che: (i).l’uniforme adozione delle clausole in questione è fatto costitutivo dell’azione di nullità poiché il provvedimento della Banca d’Italia ha stabilito che dette clausole sono contrarie alla normativa antitrust solo se applicate uniformemente; (ii).se le clausole in questione non sono applicate uniformemente, non sono vietate ai sensi dell’art. 2 della normativa antitrust e, di conseguenza, non sono nulle; (iii).poiché tale uniforme applicazione non è stata concretamente accertata dalla Banca d’Italia, ma solo valutata come ipotetica e potenziale, deve ritenersi che il provvedimento non ha concretamente accertato alcuna violazione dell’art. 2 della legge antitrust; (iv).la prova dell’uniforme applicazione in sede civile deve, quindi, essere fornita da chi fa valere la nullità di dette clausole, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c.; (v).il principio di vicinanza alla prova e, più in generale, i meccanismi presuntivi applicati nelle azioni di risarcimento del danno derivante da intesa antitrust non possono essere estesi all’azione di nullità in questione, poiché si tratta di criteri elaborati con riferimento a fattispecie in cui era stata già «accertata» (non meramente ipotizzata) la sussistenza di un’intesa anticoncorrenziale in sede amministrativa. Evidente lo scostamento rispetto a quanto affermato dall’ordinanza n. 29810/2017: viene meno qualunque riferimento alla valenza di prova privilegiata dell’accertamento del 2005, poiché si arriva a negare il fatto stesso che la Banca d’Italia abbia accertato un illecito anticoncorrenziale.

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Tra le altre, si segnalano: Trib. Verona, 23 dicembre 2019, n. 2865; Trib. Vicenza, 20 febbraio 2019, n. 414; Trib. Milano, 23 giugno 2016, n. 2016, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Corte App. Venezia, 1° giugno 2013, n. 1287; Corte App. Venezia, 23 maggio 2014, n. 1261.

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6. Cass. 13846/2019. Da ultimo, con la sentenza n. 13846 del 201920, la medesima Prima Sezione della Suprema Corte sembra tornare sulla strada tracciata dal precedente del 2017. Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva respinto la domanda di nullità di un contratto contenente i medesimi articoli dello schema Abi ritenuti vietati dall’Autorità, rilevando come «l’analisi testuale del provvedimento emesso dalla Banca d’Italia evidenziasse che la procedura avviata non si era conclusa con una diffida o una sanzione e che solo in presenza di un’applicazione uniforme delle clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8, dello schema contrattuale si sarebbe configurata la contestata violazione»; alla luce delle conclusioni cui è pervenuto l’organo di vigilanza, «non può assolutamente ritenersi che in quella sede è accertata l’esistenza di una intesa concorrenziale ovvero di illecite pratiche concordate». Peraltro, l’attore, «pur avendone l’onere, non aveva dimostrato, né chiesto di provare, che, in ispregio alle indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, l’Abi avesse egualmente diffuso il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione comprensivo delle clausole censurate». Sulla base di tali passaggi della motivazione, si direbbe una decisione conforme all’orientamento espresso da Cass. 30818/2018; e, non a caso, nel resistere al ricorso per cassazione proposto dal fideiussore, la Banca si era espressamente richiamata ai principi affermati dall’ordinanza del 2018. La sentenza del giudice d’appello viene, invece, cassata con rinvio, sulla base di argomentazioni che riprendono i dicta di Cass. 29810/2017. La motivazione della Suprema Corte muove, infatti, dal presupposto che i provvedimenti dell’Autorità Garante costituiscono una prova privilegiata sia della sussistenza del comportamento anticoncorrenziale accertato, sia dell’astratta idoneità dello stesso a procurare un danno ai consumatori, ferma la possibilità per le parti di offrire prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie; partendo da tale considerazione, la Suprema Corte evidenzia «due errori giuridici» commessi dal giudice d’appello. In primo luogo, la sentenza ha impropriamente valorizzato l’assenza di diffide o sanzioni nel provvedimento della Banca d’Italia; ma tale assunto, oltre a non essere corretto, è in ogni caso privo di valenza decisiva: quel che rileva è che, con tale provvedimento, è stata accertata una violazione della normativa di settore e che tale accertamento non è più controvertibile, poiché «non possono rimettersi in discussione i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione». La valenza di prova privilegiata di tali accertamenti e la loro piena utilizzabilità da parte del singolo utente finale deve essere riconosciuta al fine di garantire a quest’ultimo

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Cass. 22 maggio 2019, n. 13846, cit.

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una tutela effettiva e di attribuire un senso alla stessa istituzione dell’Autorità Garante21; ciò, in particolare, considerando l’«evidente asimmetria informativa tra l’impresa partecipe dell’intesa anticoncorrenziale ed il singolo consumatore, che si trova, salvo casi eccezionali da considerare di scuola, nell’impossibilità di fornire la prova tanto dell’intesa anticoncorrenziale, quanto del conseguente danno patito e del relativo nesso di causalità»22. In secondo luogo, parimenti inconsistente è l’affermazione secondo cui non sarebbe provato che, contravvenendo a quanto prescritto dalla Banca d’Italia, l’Abi avesse egualmente diffuso il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione contenente le clausole che costituivano oggetto dell’intesa restrittiva: ai fini dell’inefficacia delle clausole vietate, rileva il solo fatto che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata, e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita. Quindi, «ciò che andava accertata non era la diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, quanto la coincidenza delle convenute condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva: giacché, come è chiaro, l’illecito concorrenziale poteva configurarsi anche nel caso in cui l’ABI non avesse contravvenuto a quanto disposto dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 2 maggio 2005, ma la Banca Popolare di Bergamo avesse egualmente sottoposto all’odierno ricorrente un modulo negoziale includente le disposizioni che costituivano comunque oggetto dell’intesa di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, lett. a)». Lo snodo argomentativo parrebbe sin qui lineare: si torna chiaramente ad una lettura sostanzialistica della nozione di intesa vietata; si afferma la valenza di prova privilegiata dell’accertamento del 2005; si riconosce espressamente che, a prescindere dall’asserita assenza di diffide e sanzioni, dall’ambigua formula di chiusura23, dalla successiva diffusione di uno schema emendato dalle clausole censurate (tutti elementi non decisivi!), il provvedimento del 2005 ha accertato l’esistenza di un’intesa vietata, formalizzata nello schema contrattuale Abi; e, infine, che nel giudizio di nullità di un contratto di fideiussione, quel che va valutato è se la Banca abbia sottoposto al cliente un modulo negoziale includente

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La Corte chiarisce che il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico «impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non altro in base allo stesso materiale probatorio o alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede». Teorizzare la profonda cesura tra contratto «a monte» e contratto «a valle», per derivarne che, in via generale, la prova dell’uno non può mai costituire anche prova dell’altro, significa negare l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato. 22 In tal senso, anche Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305 e Cass. 28 maggio 2014, n. 11904, cit., espressamente richiamate dall’ordinanza. 23 Al riguardo, si chiarisce che il dato dell’avvenuta rilevazione, da parte dell’autorità competente, dell’illecito concorrenziale deve desumersi dal contenuto sostanziale e complessivo del provvedimento amministrativo, non da singole locuzioni che, isolatamente assunte, possano presentare un significato ambiguo o fuorviante: così la portata dell’espressione secondo cui i richiamati artt. 2, 6 e 8 «contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a)» andava apprezzata verificando se il provvedimento avesse mancato di prendere posizione sull’esistenza dell’intesa restrittiva e, quindi, sulla diffusione, presso gli istituti di credito, dei testi negoziali comprendenti le citate clausole; ciò che, nel caso di specie, il ricorrente aveva specificamente negato, richiamando specifici passaggi del provvedimento stesso.

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le disposizioni che costituivano comunque oggetto dell’intesa e, dunque la «coincidenza» delle clausole riprodotte nel contratto impugnato con quelle censurate nel 2005. I profili di ambiguità riguardano gli ultimi passaggi motivazionali della sentenza, relativi per l’appunto alla prova posta a carico del fideiussore. Prima di enunciare il principio di diritto, infatti, la Corte si affretta a chiarire che il richiamo operato dalla resistente all’ordinanza n. 30818 del 2018 «risulta inappropriato», «poiché tale pronuncia, oltre a riguardare parti diverse dagli odierni contendenti, si occupa dell’onere della prova in tema di illecito antitrust, affermando il principio, che qui va certamente ribadito, per cui compete all’attore che deduca un’intesa restrittiva provare il carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell’intesa stessa. Le censure che è possibile svolgere in sede di legittimità contro il relativo accertamento del giudice del merito sono poi, per quanto limitate, variamente modulabili: ed è incontestabile che in questa sede si dibatta di profili che non coincidono con quelli di cui si è occupata la citata ordinanza»24. Il formale ossequio al precedente del 2018 lascia più dubbi che certezze: in primo luogo, sembra difficile ritenere che il richiamo a Cass. 30818/2018 fosse inappropriato da parte della Banca resistente, poiché la ricostruzione operata dalla Corte d’Appello, nella decisione impugnata, appare conforme alla soluzione ivi elaborata e i profili giuridici esaminati non sembrano divergere come affermato dalla Suprema Corte; in secondo luogo, ribadire che grava su chi deduce «un’intesa restrittiva provare il carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell’intesa stessa» significa tornare ad affermare che la mera coincidenza testuale delle clausole censurate con quelle oggetto dello schema Abi non è sufficiente, né è idonea a fondare alcuna presunzione di nullità delle clausole in questione, dovendo il fideiussore provare “qualcosa di più” al fine di soddisfare l’onere probatorio su di lui gravante. Non si comprende, allora, in cosa consista la valenza di prova privilegiata dell’accertamento dell’Autorità, sulla quale la sentenza ampiamente insiste. Si aggiunga, peraltro, che la Corte ancora una volta non si premura di chiarire cosa si intenda per «prova del carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell’intesa stessa», né quando tale prova possa ritenersi raggiunta. Gli interrogativi restano, allora, irrisolti; e, allo stato, cosa debba dimostrare esattamente il fideiussore e quale sia lo standard di prova richiesto resta un mistero (variamente interpretato dai giudici di merito).

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Analogamente, di recente, anche Cass. 26 maggio 2020, n. 9679, cit.: pur dichiarando inammissibile il ricorso, tale ordinanza merita di essere segnalata poiché, da un lato, ricorda gli approdi della giurisprudenza di legittimità che «hanno affermato l’elevata attitudine del provvedimento adottato dalla Banca d’Italia […] a provare la condotta anticoncorrenziale giudizialmente denunciata, evidenziando l’importanza che il giudice di merito, per un verso, apprezzi il contenuto complessivo della garanzia e, per altro verso, valuti se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa (Cass. civ. 22 maggio 2019, n. 13846)»; ma, dall’altro, afferma che «questa Corte ha costantemente ribadito che compete all’attore che deduca un’intesa restrittiva provare il carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell’intesa stessa (cfr. Cass. civ. 13846/2019 cit. e Cass. civ. 28 novembre 2018 n. 30818)».

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7. L’accertamento della Banca d’Italia del 2005. Le richiamate pronunce della giurisprudenza di legittimità – e così anche le decisioni di merito intervenute sul tema – riproducono letteralmente alcuni passaggi della decisione della Banca d’Italia del 2005, giungendo però a conclusioni difformi in ordine ai suoi contenuti. Il dibattito riguarda, quindi, non solo l’efficacia probatoria da riconoscere in sede civile agli accertamenti dell’autorità antitrust; ma anche il contenuto stesso dell’accertamento del 2005. Occorre, quindi, intendersi su cosa l’autorità ha accertato. La formula «incriminata», si è anticipato, è quella conclusiva del provvedimento e, in particolare, l’ormai noto inciso secondo cui le clausole in questione sono in contrasto con la normativa antitrust «nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme». Muovendo da un’interpretazione letterale di tale inciso, sulla scorta anche della lettura offerta da Cass. 30818/2018, si è formato un vero e proprio filone della giurisprudenza di merito (al quale si aggancia evidentemente la sentenza in romana commento) secondo cui la contrarietà di dette clausole alla normativa antitrust non può considerarsi accertata in sede amministrativa, avendo la Banca d’Italia affermato che «l’effetto anticoncorrenziale deriva dalla possibilità di una loro applicazione uniforme»25: il dictum dell’autorità indipendente non incide «sulla legittimità delle clausole, ma solo sulla loro contrarietà all’art. 2, l. n. 287 del 1990, in conseguenza della loro applicazione uniforme»26. Non “sono illegittime” ma “lo sarebbero se fossero tali”. Da qui, l’onere in capo a chi agisce di provare tale (non meglio precisata e variamente interpretata dai giudici di merito) uniformità nell’applicazione delle clausole in questione. È indubbio che il disposto citato sia equivoco; ma, come accennato da Cass. 13846/2019, gli atti del procedimento vanno letti nel loro complesso, non potendo l’analisi rimanere confinata entro le poche righe conclusive di un’istruttoria durata quasi un biennio.

8. (segue) Gli atti del procedimento. Scorrendo tali atti27 ci si accorge che una prima versione dello schema Abi era stata comunicata alla Banca d’Italia, ex art. 13, l. 287/1990, già nel 2003; in riscontro a tale comunicazione, in una fase pre-istruttoria, la Banca d’Italia aveva «invitato» l’Abi a trasmettere una nuova versione del modello di contratto, eliminando alcune clausole «che risultavano suscettibili di determinare restrizioni della concorrenza nel mercato rilevante».

25

Trib. Milano, 23 giugno 2016, n. 2016, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Vicenza, 20 febbraio 2019, n. 414. Corte App. Venezia, 1° giugno 2013, n. 1287; Corte App. Venezia, 23 maggio 2014, n. 1261. 27 Integralmente reperibili in https://www.agcm.it/competenze/tutela-della-concorrenza/delibere. 26

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A valle del primo parere reso dall’Agcm sulla nuova versione dello schema negoziale28, ritenuto che «i comportamenti posti in essere dall’Abi potessero configurare un’intesa volta alla limitazione della concorrenza attraverso la fissazione di condizioni contrattuali», la Banca d’Italia avviava un’istruttoria29 per «valutare se la concreta applicazione delle condizioni di contratto diffuse dall’Abi possa risolversi in un comportamento uniforme delle banche associate e approfondire gli effetti sulle condizioni economiche complessive per i fruitori del credito bancario»30. All’esito della fase istruttoria, nel secondo parere richiesto all’Agcm, l’autorità concludeva che lo schema esaminato, ancorché formalmente non vincolante, produceva un effetto di standardizzazione di condizioni commerciali aventi chiara incidenza economica e stabiliva regole che, per il loro grado di dettaglio, erano suscettibili di impedire quell’efficace forma di concorrenza rappresentata dalla differenziazione dell’offerta; «l’istruttoria ha consentito, peraltro, di verificare che il contenuto del contratto standard, ed in particolare delle clausole oggetto della procedura, è sostanzialmente riprodotto nei contratti applicati dalle banche interpellate dalla Banca d’Italia. L’ampia diffusione delle modalità contrattuali oggetto dell’istruttoria, già presenti in precedenti contratti uniformi predisposti dall’Abi stessa, non può essere considerato come un fenomeno spontaneo del mercato, ma piuttosto come il frutto dell’intesa stessa esistente tra le banche sul tema della contrattualistica comune». In linea con le osservazioni dell’Agcm, nel provvedimento n. 55/2005 la Banca d’Italia ribadiva che la standardizzazione contrattuale può risultare compatibile con le regole di concorrenza a condizione che gli schemi uniformi non ostacolino la possibilità di diversificazione del prodotto offerto, anche attraverso la diffusione di clausole che, fissando condizioni contrattuali incidenti su aspetti significativi del rapporto negoziale, impediscano un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti. Si tratta di considerazioni già espresse in un precedente accertamento avente parimenti ad oggetto le norme bancarie uniformi31.

28

L’Agcm, nel primo parere sul tema, rilevava che «ove l’aggravio degli obblighi posti in capo al fideiussore, previsto da alcune clausole dello schema negoziale…sia atto a rendere più oneroso, per il debitore, l’ottenimento della fideiussione, l’accordo notificato sarebbe idoneo a produrre effetti restrittivi della concorrenza … esso, infatti, si sostanzierebbe in un’intesa orizzontale all’interno dell’intero sistema bancario nazionale, avente ad oggetto la fissazione di condizioni contrattuali uniformi peggiorative per la clientela rispetto a quelle altrimenti applicabili sulla base della normativa esistente». 29 Cfr. provvedimento n. 236/A dell’8 novembre 2003. 30 L’Autorità, del resto, procede ad istruttoria «nei casi di presunta infrazione agli articoli 2 o 3» (cfr. art. 14, l. 287/1990) e, dunque, «per verificare l’esistenza di infrazioni ai divieti stabiliti negli articoli 2 e 3» (cfr. art. 12, l. 287/1990). Rilevante è il fatto che il termine di conclusione del procedimento sia stato prorogato per ben due volte, «al fine sia di accertare se la concreta applicazione delle condizioni di contratto dell’ABI si risolva in un comportamento uniforme delle banche associate sia di approfondire gli effetti della standardizzazione contrattuale sulle condizioni economiche complessive per i fruitori del credito bancario»; e, ancora, di effettuare ulteriori approfondimenti con riferimento «alla concreta applicazione da parte delle banche delle condizioni di contratto relative alla fideiussione», cfr. provv. n. 249/A dell’8 aprile 2004 e n. 258/A del 30 settembre 2004. 31 A. Bertolotti, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust ed effetti sui contratti a valle: un’ipotesi di soluzione ad un problema dibattuto, in Giur. it., 1997, 12, 351; Id., Le norme bancarie uniformi (NBU) e le regole antitrust, una questione ancora aperta, id., 1997, 3, 167.

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9. (segue) Il precedente in materia di norme bancarie uniformi.

Già con il provvedimento n. 12 del 199432 relativo ad alcuni accordi interbancari promossi dall’Abi33, la Banca d’Italia – in linea con la posizione della Commissione europea34 – aveva chiarito che «la predisposizione, la divulgazione e la raccomandazione dell’Associazione alle aderenti di utilizzare tali moduli contrattuali nel regolamento dei rapporti con la clientela con criteri di stretta uniformità sono attività che, quali decisioni di una associazione di imprese, integrano intese ai sensi dell’art. 2, secondo comma, della legge n. 287/1990» e che tali intese non costituiscono di per sé un’attività in contrasto con la concorrenza. Può, infatti, ravvisarsi una violazione dell’art. 2, l. n. 287/1990 con riferimento ai soli modelli negoziali «che fissano condizioni economiche e che, in particolare, determinano un significativo squilibrio tra le parti ne precludono o limitano in modo significativo per le singole banche associate la possibilità di diversificare il contenuto negoziale e dunque di differenziare, anche su tale aspetto, il prodotto». Non rileva, peraltro, il fatto che i modelli Abi costituiscano delle semplici raccomandazioni: come osservato, le NBU, quand’anche non venga loro riconosciuto carattere vincolante, ben possono costituire la base di pratiche concordate, come tali censurabili. Occorre guardare al concreto comportamento delle banche sul mercato e proprio «la realtà dell’agire delle banche rivela con chiarezza che le NBU, per quanto giuridicamente non cogenti, per quanto (ora) accuratamente accompagnate da affermazioni di non vincolatività, nei fatti vincolano, eccome: e vincolano sia per l’obiettiva importanza dell’associazione da cui promanano, sia per la rilevanza e comunanza degli interessi che esse mirano a tutelare, soprattutto negli aspetti normativi»35. Dunque, semplificando: quando si può dire che ricorrono i presupposti che integrano la fattispecie lesiva della concorrenza prevista dall’art. 2, comma secondo, lett. a), l. n. 287/1990? Secondo quanto ripetutamente chiarito dall’Autorità, quando gli schemi contrattuali: (i) fissano condizioni aventi, direttamente o indirettamente, incidenza economica, in particolare quando potenzialmente funzionali a un assetto significativamente non equilibrato degli interessi delle parti contraenti;

32

In Banca, borsa, tit. cred., 1995, I, 393 ss., con nota di N. Salanitro, Disciplina antitrust e contratti bancari. Tra i quali figuravano anche le condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia delle operazioni bancarie. 34 Decisione Abi 12 dicembre 1986, in G.U.C.E., 13 febbraio 1987, n. L 43, 51. 35 A. Bertolotti, Le norme bancarie uniformi (NBU) e le regole antitrust, una questione ancora aperta, cit. 33

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(ii) precludono o limitano in modo significativo la possibilità per le aziende associate di differenziare, anche sull’insieme degli elementi contrattuali, il prodotto offerto36. Più in particolare, con specifico riferimento alle clausole che fissano condizioni economiche in termini di prezzo o di oneri in capo alle parti, le specifiche indicazioni formulate dall’Abi integrano un’attività volta a fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali e, in quanto tali, esse debbono considerarsi limitative della concorrenza, «indipendentemente dal fatto che le restrizioni costituiscano lo scopo o siano l’effetto di tali indicazioni»37.

10. (segue) Il provvedimento n. 55/2005. L’accertamento della sussistenza di tali presupposti con riferimento alle clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema Abi ha costituito oggetto precipuo dell’istruttoria compiuta dall’autorità. Allo scopo di verificare l’effettivo grado di uniformità dei modelli contrattuali utilizzati per le garanzie personali, la Banca d’Italia ha, infatti, inviato una richiesta di informazioni ad un campione di sette banche di diversa dimensione; dall’analisi dei moduli contrattuali «è stato possibile rilevare che le clausole oggetto di approfondimento istruttorio, dal punto di vista sostanziale, sono riconducibili a un medesimo modello». L’esame della contrattualistica relativa alla fideiussione omnibus, pertanto, ha posto in evidenza come «i testi negoziali in uso nella prassi bancaria disciplinano in maniera sostanzialmente uniforme le principali clausole oggetto di istruttoria; essi presentano aspetti di diversificazione rispetto allo schema dell’Abi che si traducono in un complessivo aggravamento della posizione contrattuale del garante». In conclusione, si legge nel provvedimento, «le verifiche compiute nel corso dell’istruttoria hanno mostrato, con riferimento alle clausole esaminate, la sostanziale uniformità dei contratti utilizzati dalle banche rispetto allo schema standard dell’Abi. Tale uniformità discende da una consolidata prassi bancaria preesistente rispetto allo schema dell’Abi (non ancora diffuso presso le associate), che potrebbe però essere perpetuata dall’effettiva introduzione di quest’ultimo».

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Prima di essere ribadite nel provv. n. 55 del 2005, tali considerazioni erano, quindi, già state espresse dalla Banca d’Italia sia nel provv. n. 12 del 1994 sia nel provv. n. 13697 del 2004. 37 La sussistenza di tali presupposti veniva accertata già nel 1994 con riferimento ad alcune clausole contenute nello schema generale di fideiussione omnibus oggetto di istruttoria. In particolare, tra le condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni a garanzia delle operazioni bancarie, «integrano la fattispecie lesiva della concorrenza prevista dall’art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287/1990», concludeva l’autorità, le «clausole che modificano (in senso sfavorevole al cliente) la disciplina stabilita dal codice civile relativamente alla restrizione dell’azione di regresso e all’opponibilità delle eccezioni da parte del fideiussore».

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Tornando, dunque, alla domanda iniziale: cosa è stato accertato? È stata accertata la sussistenza di una consolidata prassi bancaria, preesistente rispetto allo schema oggetto di istruttoria, che aveva condotto all’uniforme adozione – tra le condizioni generali del contratto di fideiussione proposte dalle banche – di clausole lesive della concorrenza (in quanto incidenti in senso peggiorativo sulla posizione del fideiussore e sulle condizioni economiche del servizio reso)38. L’accertata standardizzazione contrattuale è risultata incompatibile con la normativa antitrust poiché si risolveva nell’uniforme adozione di clausole lesive della concorrenza. Tale violazione, quindi, non era da ascriversi puramente e semplicemente alla predisposizione ovvero alla diffusione dello schema Abi oggetto di istruttoria: con riferimento alle clausole esaminate, i contratti in uso si erano rivelati uniformi e riconducibili ad un medesimo modello già prima della diffusione dello schema Abi (tale schema, del resto, sarebbe poi stato diffuso emendato da dette clausole); mediante la formalizzazione dello schema del 2003, quindi, l’associazione si era limitata a «consacrare»39 una prassi già esistente e largamente diffusa. Ricostruito in questi termini il contenuto del provvedimento del 2005, vengono meno le argomentazioni di quella parte della giurisprudenza che ritiene che esso non avrebbe accertato alcuna violazione della normativa antitrust. A voler dare peso alle singole locuzioni impiegate, come una parte della giurisprudenza mostra di voler fare, negli atti del procedimento in questione si parla espressamente di mero «invito ad eliminare dagli schemi negoziali alcune previsioni» solo con riferimento alla chiusura della fase pre-istruttoria; ben diversa appare, invece, la formula conclusiva del provvedimento n. 55 nella quale si legge che «l’ABI è tenuta a trasmettere preventivamente alla Banca d’Italia le circolari, emendate dalle disposizioni citate alla precedente lettera a), mediante le quali lo schema contrattuale oggetto d’istruttoria verrà diffuso al sistema bancario»40.

38

Sull’accertamento dell’esistenza di una consolidata prassi bancaria, preesistente rispetto allo schema ABI, in dottrina v. anche G. Calabrese, Fideiussione omnibus “a valle”: illecito antitrust e nullità (parziale?), cit. Evidenziano tale fondamentale aspetto del provvedimento, Cass., 12 dicembre 2017, n. 29810, in Foro. it., 2018, I, 158, con nota di richiami di R. Pardolesi; Cass. 22 maggio 2019, n. 13846, cit.; Corte App. Bari, 15 gennaio 2020, n. 45; Corte App. Milano, 22 gennaio 2020, n. 192; Trib. Venezia, 6 giugno 2016, n. 1447; Trib. Milano, 23 gennaio 2020, n. 610; Trib. Cagliari, 23 gennaio 2020, n. 204; Trib. Padova, 11 febbraio 2020; ABF - Collegio di Milano, decisione del 4 luglio 2019. 39 Del resto, non bisogna dimenticare che l’elaborazione delle norme bancarie uniformi è sì curata dall’Abi, ma sulla base di un’ampia concertazione con le banche associate. 40 L’istruttoria è stata avviata al fine di accertare o meno la sussistenza di infrazioni al divieto stabilito dall’art. 2, l. 287/1990; in tale contesto, la compatibilità con la normativa antitrust è stata effettivamente riconosciuta con riferimento a tutte le clausole dello schema («le altre disposizioni dello schema contrattuale non risultano lesive della concorrenza»), ad eccezione delle tre di cui agli artt. 2, 6 e 8; e, infatti, di tali clausole viene espressamente richiesta l’eliminazione dallo schema prima della sua diffusione presso le associate. Valga aggiungere che la mancata previsione espressa di un termine finale non priva il provvedimento del suo contenuto inibitorio (come pure è stato sostenuto) e può trovare giustificazione nel fatto che lo schema in questione non era ancora stato oggetto di diffusione; un termine entro il quale eliminare dette clausole dal modello tipo, allora, a ben vedere era previsto: le clausole dovevano essere espunte dallo schema prima che questo venisse diffuso tra le banche associate. Del resto, tutte le decisioni che l’Autorità assume a conclusione del procedimento istruttorio, al pari di ogni altra decisione amministrativa, sono obbligatorie nei confronti delle parti che sono, pertanto, tenute a rispettarle, cfr. V. Valentini-L. De Caro, La tutela della concorrenza: il public enforcement, 32, in AA.VV., Il private enforcement antitrust dopo il d.leg. 19 gennaio 2017 n. 3, a cura di B. Sassani, Pisa, 2017.

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L’Abi è stata diffidata dal diffondere uno schema che formalizzava una pratica vietata già esistente; e non vale ad escludere o a far venire meno l’accertamento di tale condotta anticoncorrenziale il fatto che l’Abi si sia successivamente attenuta alle prescrizioni impartite, diffondendo lo schema rivisto e corretto (come apertamente chiarito da Cass. 13846/2019). Se così fosse, si dovrebbe concludere che la formale espunzione di tali clausole dal modello negoziale avrebbe di per sé determinato il venir meno dell’infrazione accertata, così consentendo agli istituti bancari di continuare a proporre nei propri modelli negoziali le clausole ritenute lesive della concorrenza. Non è però questa la conclusione che il provvedimento suggerisce né, soprattutto, l’interpretazione preferibile alla luce del principio cardine di effettività della tutela antitrust e della nozione «oggettiva» di intesa delineata dalla Suprema Corte e dalla Corte di Giustizia41.

11. Il valore probatorio dell’accertamento dell’Autorità in sede civile e il tema della sua efficacia temporale.

L’ordinanza del n. 30818 del 2018 (cui la sentenza romana in epigrafe pianamente si allinea) muove, allora, da un assunto potenzialmente fuorviante, ovverosia dall’elevazione a fatto costitutivo della domanda di nullità ex art. 2, secondo comma, lett. a), l. 287/1990, del dato ulteriore della «uniforme applicazione» delle clausole censurate. Chi invoca tale nullità sarebbe gravato, in ogni caso, dell’onere primario di dimostrare che la clausola incriminata non è un proprium del suo contratto, ma risponde ad una prassi che tale contratto trascende. Davvero una bella impresa, tanto più in un contenzioso abbondantemente popolato da consumatori (consumatori erano certamente i protagonisti della vicenda culminata in Cass. n. 30818/2018, come consumatori sono verosimilmente i protagonisti della vicenda decisa da Trib. Roma in epigrafe)! Ma nella nullità corrispondente alla fattispecie antitrust prevista dal citato art. 2, il fatto costitutivo della domanda di nullità è la violazione dell’art. 2, l. 287/1990; il dato della «uniforme adozione» di clausole lesive della concorrenza integra la violazione dell’art. 2 cit. e – in smentita delle affermazioni di Cass. 30818/2018 – risulta già concretamente accertato dall’autorità42.

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Tale lettura formalistica pare incentrata sulla pura dimensione negoziale dell’intesa, ma – come è stato chiarito – la nozione di intesa è oggettiva e tipicamente comportamentale anziché formale; quel che rileva è l’effettività di un atteggiamento comunque realizzato che tende a sostituire la competizione con una collaborazione pratica, così Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, in Foro it., 1999, I, 831, con nota di L. Lambo, richiamata anche da Cass., 12 dicembre 2017, n. 29810, cit. 42 Si veda, al riguardo, la posizione recentemente espressa anche da Corte d’Appello di Bari, 19 maggio 2020, n. 730, secondo cui “deve, quindi, darsi per assodato che la fideiussione in oggetto, riproducendo le disposizioni di cui agli artt. 2, 6, 8 dello schema ABI, abbia dato attuazione ad un’intesa anticoncorrenziale illecita, in quanto vietata ai sensi dell’art. 2 l n. 287 del 1990, senza che vi sia alcuna ragione per accertare in questa sede se le disposizioni di cui allo schema ABI abbiano o meno trovato uniforme applicazione,

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Il vero problema è, semmai, un altro e riguarda il fatto che l’accertamento compiuto dalla Banca d’Italia e pubblicizzato nel maggio del 2005 ha avuto un determinato periodo temporale di osservazione e di rilievo; poiché, com’è ovvio, ogni istruttoria ha un inizio e una fine, dovendo necessariamente svolgersi entro un arco temporale limitato. In effetti, con riferimento alle azioni di risarcimento del danno da illecito antitrust, la direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio43, recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. del 19 gennaio 2017, n. 344, chiarisce espressamente che la constatazione di una violazione degli artt. 101 o 102 TFUE da parte di un’Autorità nazionale garante della concorrenza non dovrebbe essere rimessa in discussione in successive azioni; tuttavia, l’effetto della constatazione dovrebbe riguardare soltanto la natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, come determinata dall’Autorità45. Pare, dunque, corretto assegnare rilievo al tema della efficacia temporale della decisione della Banca d’Italia anche nelle azioni di nullità in questione; ma non bisogna incorrere nell’errore opposto: se si vuole valorizzare tale aspetto sotto il profilo probatorio, anziché affermare erroneamente e in via generalizzata che nessun illecito anticoncorrenziale è stato accertato, potrebbe semmai essere ragionevole operare una distinzione tra giudizi di nullità aventi ad oggetto contratti di fideiussione stipulati prima dell’accertamento della Banca d’Italia del 2005 e giudizi di nullità relativi a contratti ad esso successivi. Con riguardo ai contratti stipulati prima del Provvedimento del 2005 e, dunque, conclusi prima di tale accertamento, in prossimità del periodo di osservazione dell’Autorità, la prova del carattere uniforme dell’applicazione delle clausole censurate può essere fornita dal singolo sulla base degli atti del procedimento amministrativo (da produrre in giudizio): per il periodo in questione non può dubitarsi che la violazione della normativa antitrust, in tutti i suoi elementi costitutivi, ivi incluso il profilo dell’adozione uniforme del modello negoziale da parte delle banche associate, sia stata già verificata in sede amministrativa. In tali casi, pertanto, dovrebbe essere il mero dato della mera coincidenza testuale tra le clausole contrattuali e quelle censurate dall’Autorità a rilevare poiché, come affermato dalla stessa Suprema Corte, il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico «impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non

trattandosi di aspetto (anche questo) già vagliato dalla Banca d’Italia nel citato provvedimento del 2.5.05, che ne dà atto al par. 93 [… ] ed ancora al par. 60 [… ]. Del resto, se così non fosse, il mancato accertamento della ricorrenza di tale elemento avrebbe dovuto imporre alla Banca d’Italia un provvedimento di assoluzione (per mancata completa prova dell’esistenza di un’intesa illecita), mentre così non è stato”. 43 Cfr. considerando n. 34 della Direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea. 44 Per un ampio approfondimento, si veda AA.VV., Il private enforcement antitrust dopo il d.lg. 19 gennaio 2017 n. 3, a cura di B. Sassani, Pisa, 2017. 45 Cfr. art. 7, D.Lgs. del 19 gennaio 2017, n. 3

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altro in base allo stesso materiale probatorio o alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede»46. E l’uniforme adozione delle clausole in questione, si è detto, è fatto costitutivo della violazione. Dal canto suo, quindi, la banca non potrà limitarsi ad «argomentazioni generiche», volte a contestare l’esistenza degli elementi costitutivi dell’illecito già accertati (ivi incluso il profilo del carattere uniforme delle clausole contestate), ma dovrà offrire «precise indicazioni su situazioni e comportamenti relativi ad essa e al garante», dunque al singolo rapporto contrattuale in contestazione, «idonei a dimostrare che le clausole vagliate non siano state determinate dalla partecipazione all’intesa illecita, ma da altri fattori»47. Quanto, invece, ai contratti conclusi successivamente all’istruttoria condotta dalla Banca d’Italia, può essere lecito obiettare che la prova della perdurante applicazione uniforme delle clausole censurate da parte delle banche associate non può ricavarsi dagli atti del procedimento amministrativo, che evidentemente si arrestano temporalmente al 2005: ciò, tuttavia, vale ad escludere ogni rilievo in tali giudizi all’accertamento già compiuto dall’Autorità, anche a fronte della successiva, pedissequa riproduzione nei modelli bancari delle clausole censurate? O, anche in tali casi, dinanzi alla piena rispondenza delle clausole impugnate al modello Abi, possono soccorrere in favore del fideiussore dei meccanismi presuntivi, volti ad agevolare l’assolvimento di un onere probatorio particolarmente gravoso per il singolo? Si tratterebbe, infatti, di gravare la parte tutelata dalla nullità dell’onere di provare il fatto della «uniforme applicazione», cioè dell’onere di provare, da un lato, eventi estranei alla sua personale vicenda e, dall’altro, il fatto negativo della mancata negoziazione. Posta in questi termini, circoscritta cioè ai contenziosi relativi ai contratti stipulati dopo l’accertamento del 2005, la questione della valenza di prova privilegiata dell’accertamento della Banca d’Italia e della sua portata temporale può effettivamente porre interrogativi ulteriori. Quel che è certo, però, è che sinora la Suprema Corte non ha assegnato espressamente rilievo, sotto il profilo dell’articolazione dei carichi probatori, alla data di stipulazione dei contratti impugnati e il risultato è stato la discutibile generalizzazione del regime probatorio elaborato da Cass. 30818/2018: basti osservare che la stessa sentenza romana in commento ha richiesto al fideiussore la prova dell’uniforme applicazione delle clausole censurate, escludendo anche il ricorso a meccanismi presuntivi, pur trattandosi, nella specie, di un contratto stipulato nel 2003, ovverosia proprio durante il periodo di istruttoria svolta dalla Banca d’Italia.

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Cass. 22 maggio 2019, n. 13846, cit. Cass., ord. 23 aprile 2014, n. 9116, in Foro Italiano Le banche dati, Archivio Cassazione civile.

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12. La semplificazione dell’onere della prova gravante

sull’attore: presunzioni giurisprudenziali, prova privilegiata e vicinanza alla prova. Le sentenze in epigrafe si sono pronunciate con riferimento a contratti di fideiussione conclusi nel corso dell’istruttoria svolta dalla Banca d’Italia e prima della pubblicazione della decisione n. 55/2005; in tali casi, non sembra dubitabile che chi agisce propone un’azione c.d. follow on, poiché segue l’accertamento di una violazione ad opera dell’Autorità. Sebbene, come osservato, sia tuttora dubbio il margine di discrezionalità accordato al giudice civile nella valutazione degli atti dell’Autorità e in che misura questi possa disattenderne i contenuti, valorizzando le allegazioni e le prove delle parti processuali, quel che è certo è che il concetto di “prova privilegiata” è stato elaborato per porre rimedio alla strutturale asimmetria informativa tra le parti e così contribuire all’effettiva tutela della struttura del mercato48: ciò in linea con le stesse indicazioni giurisprudenziali, secondo cui «il giudice è chiamato a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in sede giurisdizionale in presenza di paventate violazioni del diritto della concorrenza (nelle ipotesi di cui agli art. 2 ss. l. n. 287 del 1990), tenuto conto dell’asimmetria informativa esistente tra le parti nell’accesso alla prova, anche mediante un’interpretazione delle norme processuali in senso funzionale all’obiettivo di una corretta attuazione del diritto della concorrenza»49. A fronte dell’accertamento dell’Autorità, il sindacato del giudice civile dovrebbe allora restringersi ai soli fatti attinenti, in via diretta, al rapporto contrattuale dedotto in sede civile, senza poter rimettere in discussione quanto già esaminato in sede amministrativa50. L’affermarsi di tale impostazione, come accennato, ha trovato un esplicito riscontro normativo nelle azioni volte ad ottenere il risarcimento del danno, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. del 19 gennaio 2017, n. 3: sebbene il citato decreto non riguardi specificamente le azioni di nullità, un analogo meccanismo di agevolazione probatoria dovrebbe essere esteso anche alle azioni volte ad ottenere la declaratoria di invalidità del contratto «a valle». La soluzione più ragionevole sotto il profilo probatorio, per ragioni legate anche e soprattutto all’esigenza di assicurare effettività alla tutela antitrust e all’evidente disparità sussistente tra le parti del rapporto51, è allora quella di riconoscere che tale accertamen-

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Così R. Federico, Operazione economica e nullità dei contratti derivati da intesa anticoncorrenziale, in Corriere giur., 2018, 8-9, 1063. Cass., 4 giugno 2015, n. 11564, in Foro it., 2015, I, 2742. 50 Da un lato, qualora si affermasse l’insindacabilità, in sede civile, dell’accertamento della fattispecie anticoncorrenziale, dovrebbe concludersi per l’assimilazione del provvedimento AGCM ad una “prova legale”; qualora, all’opposto, si ritenesse che il giudice abbia piena libertà nella valutazione dei fatti contenuti nell’accertamento, la categoria di “prova privilegiata” rimarrebbe una formula di stile, così R. Federico, op. ult. cit. 51 Di «evidente asimmetria informativa» discorre espressamente anche Cass. 13846/2019; sul punto, cfr., ex multis, M. De Cristofaro, Onere probatorio e disciplina delle prove quale presidio di efficienza del private antitrust enforcement, in AIDA, 2015, 10 ss. 49

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to è idoneo a fondare una presunzione juris tantum che determina una semplificazione dell’onere della prova gravante sull’attore. Colui che agisce ha l’onere di provare la coincidenza delle condizioni contrattuali del modulo negoziale applicato in concreto dalla banca convenuta con quelle espressive della vietata intesa restrittiva, producendo in giudizio gli atti dell’accertamento compiuto dall’autorità; in tal modo, egli fornisce «seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata»52. Una volta provata tale coincidenza, spetterà alla banca dimostrare che il contratto sottoposto al cliente non costituisce sbocco dell’accertata intesa vietata, provando che dette clausole sono state oggetto di attenta trattativa individuale ovvero che non siano pedissequamente sottoposte a tutti i clienti. Si tratta certamente di una prova non impossibile per la banca e – volendo ragionare in termini di vicinanza alla prova sulla base di una valutazione comparativa di prossimità al fatto da provare – in ogni caso innegabilmente più agevole per la banca che per il singolo contraente. In questo caso, la semplificazione probatoria è frutto di un meccanismo presuntivo fondato sulla ragionevolezza e sulla verosimiglianza dell’ipotesi affermata53 (si valorizza, così, l’accertamento della violazione già compiuto in sede amministrativa e il concetto di prova privilegiata), nonché sul principio di vicinanza alla prova, data l’evidente difficoltà del singolo di «individuare le fonti di prova, prima ancora che di accedervi, con gli ordinari strumenti processualcivilistici»54. Si può concedere che l’elaborazione concettuale sia ancora in divenire, con inevitabili ritardi elaborativi e opacità delle soluzioni in ordine a chi debba provare cosa; ma risulta quantomeno affrettato liquidare la questione con un secco rinvio alla «regola generale di cui all’articolo 2967 c.c.»55. Quel che è certo, anzi, è che nelle controversie in materia antitrust, così come in altri settori parimenti caratterizzati dalla strutturale disparità tra le parti del rapporto, il richiamo a principi e categorie di recente elaborazione e di difficile inquadramento è espressione tangibile dei limiti intrinseci della previsione di cui all’art. 2697 c.c. Ce n’è abbastanza per concludere – in smentita delle affermazioni di Cass. n. 30818/2018 – che la questione, oltre ad essere indubbiamente rilevante sul piano nomofilattico, richiede pressantemente l’intervento delle Sezioni Unite, poiché il quadro giurisprudenziale sino ad ora offerto si presenta tutt’altro che coerente. Marta Magliulo

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Cass., 4 giugno 2015, n. 11564, in Foro it., 2015, I, 2742. Sul motivo della verosimiglianza quale fondamento dell’elaborazione di meccanismi di inversione e di modificazione degli oneri probatori, cfr. P. Cendon-P. Ziviz, L’inversione dell’onere della prova nel diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 757, 783. 54 M. De Cristofaro, Onere probatorio e disciplina delle prove quale presidio di efficienza del private antitrust enforcement, cit.; R. Federico, Operazione economica e nullità dei contratti derivati da intesa anticoncorrenziale, in Corr. giur., 2018, 8-9, 1063. 55 Cass. ord., 28 novembre 2018, n. 30818, cit. 53

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Giurisprudenza C. App. Milano, sez. I, sent., 17 aprile 2019, n. 1701; Pres. Rel. Raineri Lodo arbitrale – Opposizione di terzo – Lite tra pretendenti al credito – Ammissibilità. È ammissibile l’opposizione di terzo avverso un lodo che aveva riconosciuto la titolarità di un credito in capo ad un soggetto nei confronti di un altro e che il terzo opponente rivendica come proprio. L’opposizione di terzo al lodo arbitrale apre un giudizio a cognizione piena avente ad oggetto l’esistenza di un diritto (quello del terzo opponente) incompatibile e prevalente con il diritto riconosciuto a una delle parti del lodo e rispetto al quale la Corte d’Appello ha ampiezza totale e che non è in alcun modo soggetto ai limiti dell’esame del merito della controversia che la legge stabilisce per il giudizio di impugnazione del lodo per nullità ex art. 829 c.p.c.

(Omissis) Svolgimento del processo S. S.r.l. ha proposto l’opposizione, ai sensi dell’art. 831, comma 3, e dell’art. 404, comma l, cod. proc. civ., domandando la revoca del Lodo Arbitrale emesso (a maggioranza) in data 13-31 ottobre 2017 in Milano nella controversia intercorsa tra V. S.p.A. (società controllata da (Omissis) e la S. S.p.A. (società controllante S. S.r.l.). Lamenta (Omissis) che tale Lodo ha erroneamente riconosciuto in capo a (Omissis) la titolarità di un credito nei confronti di (Omissis) di Euro 2.090.946,741 di cui l’opponente (Omissis) assume di essere divenuta titolare in forza della cessione del ramo d’azienda Intercorsa tra essa (Omissis), in qualità di acquirente, e (Omissis), in qualità di alienante. (Omissis) si è costituita in giudizio contestando il fondamento dell’avversa opposizione, della quale ha, preliminarmente, eccepito l’inammissibilità. (Omissis) si è parimenti costituita nel giudizio aderendo alle domande di (Omissis).

La Corte, verificata la regolarità del contraddittorio, ha fissato udienza di precisazione delle conclusioni. All’esito dell’incombente, la causa è stata trattenuta in decisione previa assegnazione dei termini per il deposito delle memorie conclusive. Motivi della decisione Giova anzitutto osservare che nel presente giudizio di impugnazione di terzo il potere di disamina e di decisione di questa Corte d’Appello ha ampiezza totale e non è in alcun modo soggetto ai vincoli derivanti dal Lodo [che non è opponibile al terzo (Omissis)]. Ed invero, diversamente da quanto accade nel giudizio di impugnazione del Lodo ex art. 829 c.p.c., 0 l’opposizione di specie, formulata ex art. 831 comma 3 c.p.c., in quanto diretta ad accertare la sussistenza di un diritto (quello del terzo opponente) incompatibile e prevalente con il diritto riconosciuto a una delle parti del provvedimento impugnato, non subisce le limitazioni nell’esame del merito della controversia che la legge stabilisce per il giudizio di impugnazione del lodo per nullità, ma introduce un giudizio a cognizione piena.

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Ciò premesso, giova ripercorrere, seppur brevemente, le vicende intercorse fra le parti, nei limiti in cui esse rilevano nel presente giudizio. In data 29 settembre 2014, (Omissis) e (Omissis) sottoscrivevano un Contratto Preliminare con cui la prima si impegnava a cedere alla seconda la proprietà di una rilevante parte di un complesso industriale sito in Sardegna che produce prodotti chimici intermedi. Il prezzo della compravendita è stato di segno negativo per complessivi Euro 55.400.000,00 a causa delle notevoli criticità del sito produttivo (redditività negativa ed obsolescenza degli impianti, unitamente ad esigenze di salvaguardia di numerosi posti di lavoro che sarebbero andati perduti in caso di cessazione dell’attività). Tale corrispettivo veniva, dunque, versato dalla venditrice (Omissis) all’acquirente (Omissis) (cfr. art. 3.1 del Contratto). Si riportano di seguito alcuni punti essenziali degli accordi inter partes. • Art. 2.1.5 del Contratto Preliminare 29.9.2014: “I contratti aziendali elencati della Sezione 3 dell’Allegato C saranno trasferiti con i relativi oneri e diritti, fermo restando che i crediti, i debiti, gli oneri e le responsabilità di qualsiasi genere e/o natura sorti in relazione a tali contratti (...) resteranno in capo al Venditore, che presta ampia garanzia e manleva in favore dell’Acquirente”. Nella Sezione 3 dell’Allegato C non compaiono contratti riferibili a (Omissis) e/o a (Omissis). Trattasi di contratti in corso con soggetti terzi, ma ceduti a (Omissis) in quanti necessari per la prosecuzione dell’attività del Ramo d’Azienda • Art. 10.8.1 del Contratto Preliminare 29.9.2014: (rubricato “Rapporti con l’Acquirente e con (Omissis)”): “Le Parti si danno atto che i seguenti contratti in essere tra il Venditore e l’Acquirente e/o (Omissis), per effetto della cessione del Ramo d’Azienda, necessariamente cesseranno alla Data di Efficacia, ovvero saranno risolti

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consensualmente in via anticipata a detta data”. (Seguiva l’elenco dei contratti soggetti a tale previsione, tra cui è esplicitamente incluso il contratto di Lavorazione oggetto del Lodo (cfr. lett. f.) art. 10.8.1 del Contratto Preliminare). Ai sensi dell’art. 2.1.5 del Contratto Preliminare, dunque, per i crediti/debiti afferenti i Contratti con parti diverse da (Omissis) e/o (Omissis) era stata prevista la deroga all’effetto automatico traslativo previsto dall’art. 2559 c.c. Il 29 dicembre 2014, le medesime parti (Omissis) e (Omissis) stipulavano il contratto definitivo di “Cessione di Ramo d’Azienda”. In tale contratto definitivo, al punto 1.2, si dava atto che il Ramo d’Azienda ceduto era «costituito stipulati per l’esercizio del Ramo d’Azienda indicati nell’allegato “C”». Fra essi, al punto d), i “contratti stipulati per l’esercizio del Ramo d’Azienda indicati nell’allegato “C” – sezione 3 (Contratti aziendali)”. Nulla si prevedeva nello specifico in ordine ai crediti e debiti afferenti i contratti ceduti. Purtuttavia, al punto 4. Rubricato “Clausola di Prevalenza”, le parti si davano reciprocamente atto che “il presente contratto non ha efficacia novativa in relazione ad altri accordi raggiunti tra le stesse precedentemente alla sua stipula, i quali, pertanto, lo integrano e prevalgono sulle sue disposizioni”. Di tal che, relativamente alla sorte dei crediti/ debiti, si può continuare a fare riferimento alla disciplina contenuta nel preliminare. Così come sembra abbiano fatto gli arbitri e le difese delle parti nel presente procedimento. Ciò premesso in fatto, osserva la Corte che l’“inerenza” del “Contratto di Lavorazione” al Ramo di Azienda ceduto a (Omissis) non appare revocabile in dubbio; né tale tesi risulta essere stata smentita dagli Arbitri i quali, nella ricostruzione dei fatti storici effettuata nei §§ da n. 8 a n. 13 dei “Motivi della Decisione”, ne danno compiutamente atto.


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Del pari ineccepibili risultano le argomentazioni svolte dal Collegio Arbitrale sulla portata dell’art. 2559 c.c. in tema di cessione dei crediti in caso di trasferimento di azienda e/o di rami aziendali. E ciò conformememente alla consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità che, sulla base di una visione unitaria dell’azienda e/o dei suoi rami, propende per un automatico trasferimento al cessionario di tutti gli elementi (e quindi di tutti i rapporti giuridici ad essa inerenti) che costituiscono l’universitas, senza necessità di specifiche pattuizioni nell’atto di trasferimento. Disciplina legale che può essere, invero, derogata dalle parti soltanto mediante l’adozione di una inequivoca scelta contrattuale (cfr. §§ 14-16 dei Motivi della decisione). Non condivisibile, tuttavia, ad avviso di questa Corte, è il percorso argomentativo contenuto nei §§ da 21 a 25 del Lodo su cui poggia l’esclusione dagli effetti traslativi automatici ex art. 2559 c.c. del credito oggetto di causa, in ragione di una rinvenibile “comune volontà” delle parti in tal senso. Gli Arbitri hanno, infatti, sul punto, ritenuto che “dalla regolamentazione contrattuale convenuta da e relazione alla peculiare tipologia di ‘affare’ (‘operazione economica’) che intendevano realizzare...” emergerebbe la “volontà di escludere dal trasferimento a le componenti del Ramo d’Azienda aventi natura ‘finanziaria’” (cassa. capitale circolante, crediti debiti ecc.) (cfr. Lodo, p. 18). L’esistenza di tale (asserita) volontà delle Parti è stata ravvisata in alcuni “indizi” [da a) ad g)] fra i quali, quello fondamentale, andrebbe rintracciato nella “perimetrazione” del Ramo d’Azienda effettuata dalle parti, che sarebbe “espressiva della volontà di escludere dal trasferimento tutte le componenti di natura finanziaria che certamente esistevano ed erano relative al Ramo” (cfr. Lodo, pag. 18). Tale ragionamento non risulta, tuttavia, convincente ad avviso della Corte.

Giova anzitutto ribadire che, in deroga alle disposizioni di diritto comune, il trasferimento automatico dei crediti può essere impedito soltanto in presenza di pattuizioni univoche. Queste ultime, a loro volta, devono essere interpretate secondo i canoni ermeneutici previsti dagli artt. 1362 e ss. c.c. La ricerca della comune volontà delle parti deve essere innanzitutto effettuata “sulla base del testo letterale del contratto e delle clausole che lo compongono, le quali devono essere interpretate le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto” (art. 1363 cod. civ.). Seppure, in linea di principio, l’interprete non sia vincolato “ …al senso letterale delle parole, laddove tale senso letterale delle parole utilizzate dalle parti consenta più di una interpretazione che rende non univoco il risultato interpretativo”, purtuttavia “l’indagine ermeneutica può e deve limitarsi al senso letterale delle parole quando non sussiste alcuna ragione di divergenza tra la lettera e lo spirito dell’accordo”. E ciò secondo il noto brocardo “in claris non fit interpretatio” (ex plurimis, Cass. n. 12360/2014; Cass. 27/10/2004 n. 20791). Nel caso di specie, non solo nulla emerge in ordine a tale deroga nel contratto definitivo (che tace sul punto) ma, dal combinato disposto del testo degli artt. 2.5.1 e 10.8.1 del Contratto Preliminare, risulta in modo oggettivo ed incontrovertibile come le Parti, cui era ben noto il regime legale che regola il trasferimento delle varie componenti che costituiscono un’azienda (non fosse altro che per la qualità dei contraenti e per la complessa regolamentazione dei rapporti), abbiano derogato la regola cd. legale solo per i crediti ed i debiti di (Omissis) nei confronti di soggetti terzi. Dunque non avrebbero dovuto gli Arbitri ricercare una diversa volontà rintracciabile nella “mente delle parti”, al di là del chiaro testo negoziale

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e dei principi di diritto che regolano la materia in esame. Tale differente disciplina risulta, peraltro, giustificata dalla “doppia veste” rivestita da (Omissis) (acquirente del Ramo d’Azienda e controparte di (Omissis) nei contratti contemplati dall’art. 10.8.1 del Contratto Preliminare). La “doppia veste” comportava, per i contratti commerciali tra (Omissis) e (Omissis) gli afferenti debiti e crediti, l’automatica ed oggettiva loro estinzione per confusione (dei due soggetti in uno solo, e cioè in (Omissis). Ed uguale effetto estintivo è stato, evidentemente voluto dalle Parti anche relativamente ai debiti e crediti tra (Omissis) e la controllante di (Omissis), cioè (Omissis) e ciò attraverso la mera tecnicalità di considerare consensualmente risolto il Contratto di Lavorazione per effetto della cessione del Ramo d’Azienda a (Omissis). Di qui la omessa previsione di alcuna deroga alla regola legale sull’automatico trasferimento dei crediti. Il Lodo qui impugnato ha, in altri termini, omesso di valutare (circostanza non trascurabile) il fatto che (Omissis) non era solo cliente di (Omissis), ma anche, e soprattutto, l’acquirente del Ramo d’azienda. Cosicché, ogni contratto e rapporto di debito/credito fra (Omissis) e (Omissis) si sono inevitabilmente estinti per confusione, come peraltro puntualmente rimarcato dalle parti nel testo dell’art. 10.8.1 del Contratto Preliminare, attraverso l’espressa previsione della risoluzione consensuale (fra gli altri anche) del Contratto di Lavorazione, per effetto della cessione del Ramo d’Azienda. L’intervenuta cessazione degli effetti di tutti i contratti commerciali tra (Omissis) ed il Gruppo (Omissis) (fra cui il Contratto di Lavorazione) – espressamente prevista dall’art. 10.8. l. del Contratto Preliminare – esprime dunque, ad avviso della Corte, la ovvia ed oggettiva conseguenza della sostituzione del Gruppo (Omissis) [tramite (Omissis)] nella posizione contrattuale di (Omissis) in tali contratti che, con la cessione del Ra-

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mo d’Azienda, si sono estinti per confusione, per esplicita volontà delle parti. Potrebbe obiettarsi, in linea di principio, che il contratto intercorso all’epoca con (Omissis), rispetto al quale è sorto il credito di cui si discute, non compare fra quelli oggetto del perimetro della cessione come descritto negli art. da 2,1.1 a 2.1.9. Ma tale circostanza deve considerarsi irrilevante atteso che, per quanto concerne i rapporti con (Omissis) e (Omissis), prevale comunque l’art. 10.8.1 che, specificamente, disciplina quei rapporti, in quanto (Omissis) era cessionaria del ramo di azienda ed il contratto di Lavorazione da cui sorgeva il credito contestato le veniva trasferito in virtù del successivo accordo contenuto, appunto, nell’art. 10.8.1. Vero è che in tale disposizione si fa menzione solo dei “contratti” e non anche dei crediti. Purtuttavia, in assenza di una espressa, diversa, volontà delle parti, anche i crediti ed i debiti riferiti a tali contratti si trasferiscono automaticamente al cessionario secondo i principi generali. L’assenza di previsione di garanzie dipende unicamente dal fatto che nessun senso avrebbe avuto per (Omissis) essere garantita per i propri debiti e per quelli della sua controllante (Omissis), né esisteva la necessità per (Omissis) di essere garantita relativamente a crediti che non avrebbe acquistato. Altrettanto evidente è che la cessazione degli effetti di tali contratti, ovvero la loro risoluzione consensuale è solo il frutto (“necessariamente” si esprimono le parti) della cessione del ramo d’azienda. Dunque neppure potrebbe applicarsi, nella specie, il principio secondo cui il negozio risolutorio avrebbe per sua natura efficacia ex nunc, senza alcun effetto liberatorio in ordine ad eventuali aspetti di responsabilità per inadempimenti relativi a prestazioni già eseguite2.


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L’utilizzo del termine “cesseranno” alla Data di Efficacia, o della locuzione “saranno risolti consensualmente” devono essere, infatti, posti in relazione al presupposto – fondamentale – della intervenuta cessione del ramo di azienda, a seguito della quale “necessariamente” (come, invero recita non a caso l’art. 10.8.1) (Omissis) è subentrata in tutte le posizioni soggettive di (Omissis) riferite ai contratti in essere con essa (Omissis), ovvero con (Omissis). Il che è fatto ben diverso dalla fattispecie estintiva conseguente alla risoluzione di un contratto per mutuo consenso per il quale vale la regola della efficacia “ex nunc”. Da ultimo giova evidenziare che (i) il Lodo non ha minimamente considerato la circostanza – da ritenersi al contrario, rilevante, anche sotto il profilo della buona fede sia nella fase dell’interpretazione, sia in quella dell’esecuzione del contratto – che dell’esistenza del credito rivendicato da (Omissis) non potevano essere a conoscenza né (Omissis) né (Omissis), in quanto lo stesso è stato contabilizzato da (Omissis) soltanto in momenti successivi alla firma del Contratto Preliminare (come comprovato dalla data delle relative fatture); (ii) che l’esistenza di un valore negativo del Ramo di Azienda ceduto non può costituire alcun logico indice per ritenere che la volontà delle parti fosse quella di escludere dal perimetro delle loro pattuizioni gli aspetti finanziari (che tra l’altro finanziari non sono, in quanto i crediti vantati da (Omissis) hanno natura squisitamente commerciale), atteso che le ragioni di questa previsione, come in limine evidenziato, risiedevano in altre e diverse circostanze, principalmente volte alla conservazione delle attività e ai posti di lavoro dei dipendenti ivi occupati; (iii) che le condotte poste in essere da (Omissis) nell’ambito del Contratto di Lavorazione a fronte della richiesta di pagamento formulata da (Omissis) dopo la firma del Contratto Preliminare con (Omissis) devono ritenersi irrilevanti rispetto al tema del trasferimento in capo a (Omissis) del credito og-

getto di causa in forza del Contratto Preliminare di cui (Omissis) non è stata parte [non sono, infatti, le condotte di (Omissis) che possono rilevare ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, c.c., ma esclusivamente quelle di (Omissis)] Alla stregua delle suesposte considerazioni, non può omettersi di osservare come nella specie gli arbitri, seppure non all’unanimità, siano andati alla ricerca di una “presunta diversa volontà” delle parti per disciplinare la sorte di un credito [quello di cui è causa, fra (Omissis) e (Omissis)] che non era contemplato fra quelli specificamente sottratti agli effetti traslativi automatici di cui all’art. 2559 c.c. Ma questo sforzo interpretativo avrebbe avuto un senso solo se il testo negoziale non fosse stato di per sé esplicito, univoco e coerente, non già in presenza in una disposizione che prevedeva la deroga alla disciplina legale solo per i crediti, i debiti, gli oneri e le responsabilità di qualsiasi genere e/o natura sorti in relazione a “tali contratti”, cioè i contratti di natura commerciale riguardanti il Ramo d’Azienda stipulati da (Omissis) con soggetti terzi. diversi da (Omissis) e/o (Omissis). Laddove il credito riveniente dal Contratto di Lavorazione è, senza ombra di dubbio, relativo ad un contratto intercorso fra (Omissis) e (Omissis). Le spese processuali vengono liquidate come da dispositivo, tenuto conto del valore della lite, dell’impegno difensivo profuso e dei parametri di cui al D.M. 55/2014 e ss.mm., e considerato che (Omissis) evocata nel giudizio dalla sua controllata (Omissis), si è costituita limitandosi ad aderire alle difese di (Omissis). P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull’opposizione proposta da (Omissis) avverso il Lodo arbitrale emesso in Milano il 13-31.10.2017 nella controversia promossa da (Omissis) nei confronti di (Omissis), così provvede:

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dichiara che il Lodo de quo ha erroneamente riconosciuto in capo a (Omissis) la titolarità del credito di € 2.090.946,74 oltre interessi di mora; dichiara che (Omissis) è l’effettiva titolare di detto credito; dichiara privo di effetti giuridici il Lodo de quo nei confronti di (Omissis);

condanna (Omissis) al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in favore di (Omissis) in complessivi € 29.000,00 (valori medi), oltre contributo unificato ed oltre spese generali ed accessori di legge; dichiara interamente compensate le spese processuali fra (Omissis), (Omissis) e (Omissis). (Omissis)

Opposizione di terzo al lodo nel caso di lite tra pretendenti al credito Sommario :

1. Il caso: la lite tra pretendenti. – 2. Il giudizio arbitrale e il lodo. – 3. L’ammissibilità dell’opposizione di terzo del pretendente ... – 4. … e le regole processuali applicabili al giudizio di opposizione di terzo avverso il lodo. – 5. La soluzione del caso concreto: il regime dei crediti relativi all’azienda ceduta ex art. 2559 c.c.

La Corte di appello di Milano ha affermato la possibilità per il terzo cessionario di un credito di promuovere l’opposizione di terzo avverso un lodo tra il cedente e il debitore ottenendo anche la dichiarazione di inefficacia del lodo inter partes. The Court of Appeal of Milano argued the possibility for the third assignee of a credit to promote the opposition of a third party against an award between the assignor and the debtor, also obtaining the declaration of ineffectiveness of the inter partes award.

1. Il caso: la lite tra pretendenti. La sentenza della Corte di appello di Milano, sentenza, 17 aprile 2019, n. 1701 (Pres. e Rel. Raineri) merita di essere segnalata perché porta all’attenzione un tema delicato e, cioè,

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il tema dell’ammissibilità dell’opposizione di terzo avverso un lodo arbitrale1 nel peculiare caso della lite tra pretendenti ad un credito avente ad oggetto somme di denaro2. Diciamo subito che dalla sentenza è possibile trarre due massime (non ufficiali) di interesse. La prima massima riguarda l’ammissibilità dell’opposizione di terzo avverso un lodo che aveva riconosciuto la titolarità di un credito in capo ad un soggetto nei confronti di un altro e che il terzo opponente rivendica come proprio credito. La seconda massima riguarda le regole processuali applicabili al giudizio ex art. 831 c.p.c. : l’opposizione di terzo al lodo arbitrale apre un giudizio a cognizione piena avente ad oggetto l’esistenza di un diritto (quello del terzo opponente) incompatibile e prevalente con il diritto riconosciuto a una delle parti del lodo e rispetto al quale la cognizione della Corte di Appello ha ampiezza totale e che non è in alcun modo soggetto ai limiti dell’esame del merito della controversia che la legge stabilisce per il giudizio di impugnazione del lodo per nullità ex art. 829 c.p.c. La fattispecie che emerge dalla sentenza è proprio quella della lite tra pretendenti per ottenere il riconoscimento della titolarità di un credito avente ad oggetto una somma di denaro. L’ipotesi è ancora più particolare perché, a seguito del riconoscimento della titolarità in capo ad uno dei pretendenti – a leggere la sentenza – si avrebbe un effetto di confusione sicché il debitore vedrebbe l’obbligazione estinta per confusione (il punto, tuttavia, non convince appieno perché il rapporto tra uno dei pretendenti e il debitore è tra società controllata e controllante sicché sono formalmente due i soggetti giuridici coinvolti). La fattispecie concreata esaminata dalla Corte di appello di Milano aveva preso le mosse da un contratto di cessione di un ramo d’azienda da parte della società V SPA a favore della società S. SRL (controllata da S SPA).

2. Il giudizio arbitrale e il lodo. Dopo la stipula di quel contratto, V. aveva proposto una domanda di arbitrato nei confronti di S. SPA sul presupposto di essere sua creditrice per un importo di poco superiore ai 2 milioni di Euro in base ad un contratto di lavorazione relativo al ramo d’azienda ceduto e che si era risolto consensualmente al momento della vendita dell’impianto tra V. e S. SRL.

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Sull’opposizione di terzo avverso un lodo arbitrale B. Sassani, L’opposizione di terzo al lodo arbitrale, in Riv. Arb., 1995, 199. Per una recente fattispecie in cui la giurisprudenza di legittimità ha escluso la legittimazione all’opposizione di terzo avverso un lodo arbitrale si veda C. Cass., sez. I, ord. 21 febbraio 2019, n. 5244, inedita. Sul tema, per tutti, si vedano S. Menchini, Pretendenti (lite tra), in Digesto civ., XIV, Torino, 1996 (rist. 2003), 306 ss. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Padova, 2006, 405 ss.

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Quel credito derivava da ciò, che S. SPA non aveva rispettato i quantitativi annuali minimi garantiti di materiale in lavorazione che S. SPA si era impegnata a conferire a V. presso l’azienda, poi, oggetto di cessione. Il lodo del 13-31 ottobre 2017, riconosceva la titolarità del credito azionato in capo a V. in quanto, inter alia, quel credito era rimasto in capo alla cedente V. avendo le Parti dell’operazione economica voluto sottrarlo alla regola dell’automatico trasferimento dei debiti e crediti del ramo d’azienda. Rispetto a quel lodo, però, la società S. SRL (e, cioè, la controllata di S. SPA) che aveva acquistato il ramo d’azienda di V. (e, quindi, secondo la sua prospettazione era divenuta cessionaria – ante causam – anche del credito oggetto del successivo giudizio arbitrale) proponeva opposizione di terzo davanti alla Corte di appello di Milano avverso il lodo emesso dal collegio arbitrale tra V. e S. SPA. Se leggiamo la sentenza sembra emergere che la tesi difensiva di S. SRL era consistita nell’affermarsi titolare del credito oggetto del giudizio arbitrale. Ed infatti, l’opposizione appare fondata su ciò che “l’opponente S. SRL assume di essere divenuta titolare in forza della cessione del ramo di azienda intercorsa tra essa S. SRL, in qualità di acquirente, e V., in qualità di alienante” (così a pagina 3 della sentenza). Orbene, come dicevamo in apertura, sono due le regole processuali ricavabili dalla motivazione della sentenza della Corte di appello che meritano interesse (cfr. infra § 3 e § 4), oltre, ovviamente, alla soluzione del caso concreto (cfr. infra §5).

3. L’ammissibilità dell’opposizione di terzo del pretendente. Orbene, la prima regola processuale la si ricava in via implicita: ciò perché la Corte di appello – nonostante un’eccezione di inammissibilità dell’opposizione di terzo formulata da V. – non ha preso espressa posizione sulla questione pregiudiziale. Avendo, tuttavia, la Corte deciso l’opposizione di terzo nel merito (in senso favorevole all’opponente) l’ha evidentemente (rectius implicitamente) dovuta risolvere in senso positivo. Ecco, allora, che la Corte di appello di Milano ritiene ammissibile l’opposizione di terzo avverso un lodo che aveva riconosciuto la titolarità di un credito in capo ad un soggetto nei confronti di un altro e che il terzo opponente rivendica come proprio credito. Senonché, questa affermazione (rectius conclusione) avrebbe, forse, meritato un maggiore approfondimento da parte della Corte di appello nella motivazione della sentenza. Ed infatti, il lodo arbitrale (come riconosce la stessa Corte di appello) non era (e non è) opponibile al terzo S.SRL opponente stante i limiti soggettivi del giudicato (e su questo nulla quaestio essendo il presupposto di ogni opposizione di terzo).

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Ecco allora che il caso in esame consente di tornare su un aspetto centrale e sempre discusso dell’opposizione di terzo3 e, cioè, quale debba essere il pregiudizio che deve sussistere per affermare l’interesse del terzo opponente4. Ed infatti, leggendo la motivazione della sentenza, sorge proprio il dubbio di quale possa essere stato l’interesse ad agire della S. SRL (come del resto di qualunque altro pretendente al credito) rilevante ex artt. 1005, 404, comma 1 e 827, comma 1 e 831 comma 3 c.p.c. per proporre l’opposizione di terzo al lodo. In altri e più chiari termini non si riesce a intravedere in che modo il lodo pronunciato (nel caso di specie) tra V. e S. SPA potesse pregiudicare i diritti di S. SRL come richiede il primo comma6 dell’art. 404 c.p.c. Il pregiudizio legittimante l’opposizione di terzo al lodo è un pregiudizio che può derivare dall’esecuzione del lodo: ma pure se V. avesse eseguito il lodo per cui è causa, la controllata ben avrebbe potuto agire anche contro la controllante. Ecco allora che – seguendo questa interpretazione certamente restrittiva – è possibile mettere in evidenza come in casi come questo (lite tra pretendenti per un credito avente ad oggetto somme di denaro), l’unico interesse “sostanziale” perseguito dal giudizio di opposizione di terzo (rispetto al caso di un ordinario giudizio autonomo azionato dal vero titolare estraneo al primo giudizio) sembra essere quello della controllante S. SPA che, all’esito, del giudizio di opposizione di terzo vede chiarito chi sia il vero titolare del credito (nel caso di specie S. SPA ha visto privare di effetti nei propri confronti il lodo del 2017 non correndo più, così, il rischio di essere ritenuta debitrice per due volte in relazione alla stessa vicenda)7.

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Sull’opposizione di terzo, Proto Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965; Fabbrini, L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2019, II, 516 ss. nonché F.P. Luiso, Opposizione di terzo, in Enc. Giur., XXI, Roma, 1990, 3. Questione, ovviamente, strettamente connessa a quello di quale sia la situazione giuridica di cui si afferma titolare il terzo e di quale debba essere la sua relazione con il diritto oggetto della sentenza opposta: sul tema F.P. Luiso, Diritto processuale civile, cit., 519, ricorda che “l’ordinamento prevede una connessione per incompatibilità anche quando le più situazioni hanno ad oggetto quantità fungibili di beni o, più in generale, prestazioni ripetibili, e quindi anche quando la soddisfazione di ambedue i diritti confliggenti è materialmente possibile (l’obbligato alle prestazioni è in grado, di fatto, di adempiere più volte”). La dottrina sul punto è divisa: da parte di taluno si accetta una nozione di incompatibilità che fa leva soprattutto sulla possibilità concreta della prestazione, e quindi, si nega, ad esempio, che una sentenza che accerti la titolarità di un diritto di credito (relativo ad una quantità di cose fungibili) possa mai dare luogo ad opposizione di terzo … altra parte della dottrina, invece, e la giurisprudenza lo ammettono. La soluzione corretta è quest’ultima”. Per un’ipotesi particolare di legittimazione all’opposizione di terzo si veda F.P. Luiso, L’opposizione di terzo ed il decreto ex art. 28 Statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav., 1990, 313. Per l’affermazione per cui non è sufficiente un “generico pregiudizio” ai fini dell’esperibilità dell’opposizione di terzo si veda Trib. Roma, 8 gennaio 2016, n.191, in Dejure secondo cui “l’opposizione ordinaria di terzo di cui all’art. 404 comma 1 c.p.c. non può essere esperita da qualunque soggetto terzo che abbia ricevuto un generico pregiudizio dalla sentenza avverso la quale intende proporre opposizione, ma solo dai terzi il cui pregiudizio derivi dalla titolarità di una situazione incompatibile con quella accertata o eventualmente costituita dalla sentenza impugnata”. Diverso, ovviamente, sarebbe stato il caso in cui S SRL avesse lamentato che l’esecuzione del lodo inter partes avesse potuto determinare una diminuzione della garanzia generica del credito in capo a S SPA. Tuttavia, in quell’ipotesi l’azione che S SRL avrebbe dovuto esperire avrebbe dovuto (astrattamente) essere un’opposizione di terzo revocatoria. Nel caso di specie non vi è alcun dubbio che l’opposizione di terzo proposta da S.SRL avverso il lodo era un’opposizione di terzo di cui al primo comma dell’art. 404 c.p.c. Naturalmente è ovvio che col giudizio di opposizione di terzo il terzo faccia valere il proprio diritto e abbia trovato tutela del proprio

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Un risultato questo che sarebbe stato certamente più difficile forse ottenere ex post tramite l’impugnazione del lodo in ragione delle regole processuali applicabili all’impugnazione per nullità rispetto a quelle applicabili all’opposizione di terzo (e su cui vedi infra § 4)8 o, addirittura, prevenire in ragione della presenza della clausola compromissoria. Ciò ovviamente, a meno che non si segua la tesi per cui è sufficiente ai fini dell’opposizione di terzo il pregiudizio9 che deriva dall’esecutività “intrinseca” della sentenza secondo la formula di Satta ovvero anche dalla mera esistenza della sentenza inter alios che inciderebbe in qualche modo sull’esercizio del proprio diritto10. Ma pur volendo seguire questa tesi, resta a mio avviso che è necessario che quel pregiudizio (qualunque forma esso può assumere tanto per la giurisprudenza che per la dottrina) debba essere allegato e provato ma, soprattutto, verificato dal giudice in sentenza. Diversamente si finirebbe con il privare di una quale efficacia selettiva del contenzioso l’espressione di cui al primo comma dell’art. 404 c.p.c. secondo cui la sentenza è opponibile “quando pregiudica i suoi [id est del terzo] diritti”11. Del resto, nel caso della sentenza di condanna non mi sembra che possa sussistere neppure quel particolare pregiudizio consistente nella “turbativa” del diritto del terzo derivante dalla presenza di un giudicato come potrebbe avvenire, viceversa, nei casi in cui quella stessa sentenza (perché magari incidente su uno status) sia soggetta a pubblicità.

diritto: quel che vorrei sottolineare è che, in casi come questi, quel diritto avrebbe potuto trovare tutela nell’ambito di un giudizio autonomo senza necessità (e, quindi, interesse ex art. 100 c.p.c.) ad avviare il giudizio ex art. 404 – 827-831 c.p.c. rispetto al quale mancava il pregiudizio (ovviamente seguendo la tesi restrittiva). 8 Il che, peraltro, è una delle forme di manifestazioni di quel che può accadere nel caso di lite tra pretendenti su cui si veda, funditus, S. Menchini, Pretendenti (lite tra), in Digesto civ., XIV, Torino, 1996 (rist. 2003), 306 ss. Nessun dubbio, infatti, come osserva anche C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume II, Il processo di primo grado, 94 che dà luogo ad una lite tra pretendenti “il caso dell’intervento principale di chi si ritiene l’effettivo creditore sulla base del contratto azionato dall’attore contro il convenuto”. 9 Come ricorda F.P. Luiso, Diritto processuale civile, cit., 519 “il pregiudizio del terzo ha …intensità variabile, che passa da un massimo … ai casi in cui vi è semplice stato di contestazione (implicita) del diritto del terzo, di incertezza e/o difficoltà di esercizio del proprio diritto”. In ogni caso – come precisa C. Delle Donne, sub art. 404, in L.P. Comoglio-C. Consolo-B. Sassani-R. Vaccarella, Commentario del codice di procedura civile, V, 195 – “il senso del riferimento dell’art. 404, 1° co., al “diritto” esposto a pregiudizio è da intendere quale preclusione dell’opposizione in presenza di un mero interesse di fatto, come tale non protetto giuridicamente”. 10 Secondo C. Consolo, L’impugnazione delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, 478 il pregiudizio “non va inteso in modo preciso e tecnico” potendo essere il pregiudizio rilevante “inteso come qualunque situazione in cui possa dirsi che il tranquillo godimento del diritto del terzo sia posto genericamente a repentaglio dal contenuto della sentenza e/o dalla sua esecuzione fra le parti, in special modo in quanto reso particolarmente incerto”. Secondo A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, il “danno va individuato innanzi tutto nella incertezza che la sentenza con il suo esistere può determinare in ordine alla titolarità o al contenuto del diritto del terzo”. 11 In fondo, Cass. civile, sez. I, 15 Febbraio 1999, n. 1231 (nell’escludere la legittimazione all’opposizione ordinaria del condebitore in solido rimasto estraneo al giudizio) ha posto l’accento (richiamando anche Cass. Sezioni Unite 9674/1993) su ciò, che “la fonte della legittimazione del terzo [deve essere individuata] nel pregiudizio di ordine pratico o sostanziale – in quanto tale concretizzabile in molteplici forme e gradi di intensità che anche in via eventuale egli possa risentire nella propria sfera giuridica in relazione alla portata effettuale del giudicato o anche all’efficacia esecutiva della sentenza , così che detta pronuncia si risolva in un ostacolo concreto da rimuovere perché egli possa esercitare il proprio diritto”.

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4. …e le regole processuali applicabili al giudizio di opposizione di terzo avverso il lodo.

La seconda regola processuale attiene all’individuazione delle regole processuali applicabili all’opposizione di terzo12 spiegata avverso un lodo reso inter alios. Secondo la Corte di appello, l’opposizione di terzo al lodo arbitrale apre un giudizio a cognizione piena (ed esauriente) avente ad oggetto l’esistenza di un diritto (quello del terzo opponente) incompatibile e prevalente con il diritto riconosciuto a una delle parti del lodo Rispetto a questo giudizio la Corte d’Appello la cognizione è totale e non subisce i limiti dell’esame del merito della controversia che la legge stabilisce, viceversa, per il giudizio di impugnazione del lodo per nullità ex art. 829 c.p.c. Occorre ricordare, infine, che il contenuto della sentenza con la quale la Corte di appello dovesse accogliere l’opposizione di terzo non ha un contenuto vincolato dal momento che non è (sempre) detto che il lodo debba perdere completamente i suoi effetti fra le parti originarie13. Ed è anche questo aspetto che deve essere secondo me messo in evidenza con riguardo proprio al caso che ci occupa relativo alla lite tra pretendenti al credito avente ad oggetto somme di denaro: l’eliminazione del giudicato tra le parti originarie (ovvero comunque la sentenza tout court) non è assolutamente sempre necessario al fine di tutelare la posizione del vero creditore. Diversamente si finirebbe con l’eliminazione di un giudicato (ovvero comunque la sentenza tout court) quando non è strettamente necessario con pregiudizio per l’attività comunque svolta tra le parti originarie grazie al ricorso ad uno strumento pensato soltanto per la tutela del diritto del terzo (e soltanto in quei limiti)14.

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Sull’opposizione di terzo si ricorda C. Cass., sez. un. 23 gennaio 2015, n. 1238 che si può leggere con nota di F. Ungaretti Dell’Immagine, Note in tema di opposizione di terzo e rimedi per il litisconsorte necessario pretermesso, in Il Giusto Processo, fasc. 3/2015, 743 ss. 13 Sul punto si può vedere C. Consolo, L’impugnazione delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, 485 ss. (quanto alle sentenze) e 571 (quanto al lodo). 14 In altri e più chiari termini, l’opposizione di terzo è pensata per evitare che il vero creditore non ottenga tutela del suo diritto, non per evitare che il debitore debba essere esposto a pagare due volte (anche perché, volendo e potendo, l’ordinamento prevede strumenti preventivi a questo scopo): è soltanto in questi limiti che gli effetti dell’opposizione di terzo devono operare. Il tema presenta profili in comune con il tema della rinuncia al giudicato sul quale, si vis, F. Valerini, Il giudicato formale (termini, acquiescenza), in F.P. Luiso-R. Vaccarella, Le impugnazioni civili, Torino, 2013, 23.

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5. La soluzione del caso: il regime dei crediti relativi all’azienda ceduta ex art. 2559 c.c.

Una volta ritenuta ammissibile l’opposizione di terzo e chiarito l’ambito di cognizione del giudice dell’opposizione, la Corte di appello esamina il merito della controversia e, cioè, se la titolarità del credito spetti a V. (già vittoriosa davanti agli arbitri) oppure a S. SRL (quale opponente). Ebbene, la Corte di appello accerta la titolarità del credito in capo a S. SRL nei cui confronti il lodo impugnato è “privo di effetti giuridici” dichiarando, altresì, che il lodo “ha erroneamente riconosciuto in capo a V. SPA la titolarità del credito di € 2.090.946,74 oltre interessi di mora”. La motivazione sui cui è fondata questa decisione è basata sulla constatazione che, in base al contratto preliminare e al contratto definitivo di vendita del complesso industriale, anche il credito vantato da V. SPA nei confronti di S. SPA (e, cioè, il credito derivante dall’asserito inadempimento del “Contratto di lavorazione”) soggiaceva alla regola di cui all’art. 2559 cod. civ. e, quindi, avrebbe dovuto essere considerato soggetto agli effetti traslativi automatici. Del resto – osserva la Corte di appello – non è possibile, nel caso di specie, andare alla ricerca di una “comune volontà delle parti” di voler derogare alla regola dell’automatico trasferimento (come, viceversa, aveva ritenuto di dover fare il Collegio arbitrale nel lodo) stante il “chiaro testo negoziale e dei principi di diritto che regolano la materia”. Ed infatti, per la Corte di appello, “nel caso di specie, non solo nulla emerge in ordine a tale deroga nel contratto definitivo (che tace sul punto) ma, dal combinato disposto del testo degli artt. 2.5.1 e 10.8.115 del Contratto Preliminare, risulta in modo oggettivo ed incontrovertibile come le Parti, cui era ben noto il regime legale che regola il trasferimento delle varie componenti che costituiscono un azienda (non fosse altro che per la qualità dei contraenti e per la complessa regolamentazione dei rapporti), abbiano derogato la regola cd. legale solo per i crediti ed i debiti di V. SPA nei confronti di soggetti terzi”. Del resto, secondo la Corte di appello la peculiarità della regolamentazione della cessione del ramo di azienda era che “ogni contratto e rapporto di debito/credito fra V. SPA e S. SRL si sono inevitabilmente estinti per confusione, come peraltro puntualmente rimarcato dalle parti nel testo dell’art. 10.8.1 del Contratto Preliminare, attraverso l’espressa previ-

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Per completezza si riporta il testo dei due articoli del Contratto preliminare per come risultano dalla sentenza in commento. In base all’art. 2.5.1 “I contratti aziendali elencati della Sezione 3 dell’Allegato C saranno trasferiti con i relativi oneri e diritti, fermo restando che i crediti, i debiti, gli oneri e le responsabilità di qualsiasi genere e/o natura sorti in relazione a tali contratti (…) resteranno in capo al Venditore, che presta ampia garanzia e manleva in favore dell’Acquirente.”. In base all’art. 10.8.1 rubricato Rapporti con l’Acquirente e con S. S.p.A. “Le Parti si danno atto che i seguenti contratti in essere tra il Venditore e l’Acquirente e/o S. S.p.A., per effetto della cessione del Ramo d Azienda, necessariamente cesseranno alla Data di Efficacia, ovvero saranno risolti consensualmente in via anticipata a detta data. (Seguiva l’elenco dei contratti soggetti a tale previsione, tra cui è esplicitamente incluso il Contratto di Lavorazione oggetto del Lodo)”.

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sione della risoluzione consensuale (fra gli altri anche) del Contratto di Lavorazione, per effetto della cessione del Ramo d’Azienda. L’intervenuta cessazione degli effetti di tutti i contratti commerciali tra V. ed il Gruppo S. (fra cui il Contratto di Lavorazione) – espressamente prevista dall’art del Contratto Preliminare – esprime dunque, ad avviso della Corte, la ovvia ed oggettiva conseguenza della sostituzione del Gruppo S.(tramite S. SRL) nella posizione contrattuale di V. in tali contratti che, con la cessione del Ramo d Azienda, si sono estinti per confusione, per esplicita volontà delle parti”. E ciò perché S SRL è subentrata in tutte le posizioni soggettive di V. riferite ai contratti in essere con essa S. SRL ovvero con S. SPA ivi compreso, quindi, il Contratto di lavorazione, o meglio (essendo quel Contratto cessato alla data del contratto definitivo) in tutti i crediti e debiti relativi a quel Contratto di lavorazione. Ed infatti, “in assenza di una espressa, diversa, volontà delle parti, anche i crediti ed i debiti riferiti a tali contratti si trasferiscono automaticamente al cessionario secondo i principi generali”. Fabio Valerini

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