Judicium 3/2017

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ISSN 2532-3083

Il private enforcement antitrust

il processo civile in Italia e in Europa

Quaderni di

ISSN 2532-9170

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Il private enforcement antitrust dopo il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3 a cura di

Bruno Sassani

Pacini

Il volume vuole offrire un approfondimento del private enforcement antitrust dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3 con il quale il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio. Il volume, dopo aver ripercorso il tema del rapporto tra il public enforcement, affidato alle autorità garanti della concorrenza, e il private enforcement e il tema del nuovo sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’AGCM, esamina tutte le questioni sostanziali e processuali sulle quali è intervenuto il legislatore (competenza territoriale, esibizione delle prove, efficacia di giudicato del provvedimento amministrativo sul processo civile, class action, soluzione alternativa delle controversie, quantificazione del danno, solidarietà nel risarcimento, passing on e prescrizione).

Judicium n. 3/2017

a cura di Bruno Sassani

Rivista trimestrale

settembre 2017

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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini

In evidenza: Che cosa è la legittimazione ad agire? Girolamo Monteleone

Intermediazione finanziaria: risoluzione di contratto quadro e negozi d’investimento Paolo Di Marzio

Corte suprema, precedente e rottamazione dei ricorsi Romano Vaccarella

Miti e realtà dell’idea di giusto processo nel diritto fallimentare Bruno Sassani

Questi fantasmi: fondi comuni di investimento, legitimatio ad processum e contraddittorio Olga Desiato

Ancora in materia di arbitrato societario Maria Rosaria Lenti

• 312 pagine

Sul rimedio contro la cartella esattoriale fondata su verbale di accertamento dell’infrazione del codice della strada non notificato

• •

Rosaria Giordano

34,00 €

978-88-6995-277-7

Pacini Pacini Editore nell’editoria di qualità dal 1872

Pacini


Indice

Saggi Girolamo Monteleone, Che cosa è la legittimazione ad agire? .............................................................. p. 269 Paolo Di Marzio, Intermediazione finanziaria: risoluzione di contratto quadro e negozi d’investimento...........................................................................................................................................» 277 Romano Vaccarella, Corte suprema, precedente e rottamazione dei ricorsi............................................» 299 Bruno Sassani, Miti e realtà dell’idea di giusto processo nel diritto fallimentare....................................» 305 Giurisprudenza commentata Trib. Roma, sez. II civ., 13 maggio 2017, con nota di Olga Desiato, Questi fantasmi: fondi comuni di investimento, legitimatio ad processum e contraddittorio .................................................................» 325 Trib. Roma, 4 novembre 2016, n. 20532, con nota di Maria Rosaria Lenti, Ancora in materia di arbitrato societario ...................................................................................................................................» 335 Cass. Civ. Sez. Un., 22 settembre 2017, n. 22080, con nota di Rosaria Giordano, Sul rimedio contro la cartella esattoriale fondata su verbale di accertamento dell’infrazione del codice della strada non notificato ...........................................................................................................................................» 353



Saggi

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Girolamo Monteleone

Che cosa è la legittimazione ad agire? Sommario: 1. Nomofilachia e legittimazione ad agire. – 2. Diritto di azione e legittimazione sono categorie processuali astratte? – 3. G. Chiovenda e qualche altro. – 4. Gli antichiovendiani. – 5. Conclusione: effettivo apporto della giurisprudenza alla disciplina giuridica della legittimazione ad agire..

L’Autore sostiene che la legittimazione ad agire non è una qualità da valutare in astratto, ma coincide con la titolarità effettiva delle posisioni giuridiche, attiva e passiva, dedotte nel processo. Il difetto di legittimazione, così inteso, è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio senza preclusioni di sorta. The Author argues that standing to bring an action is not a quality to be evaluated in abstract terms. It coincides, in fact, with the actual ownership of the legal, active and passive positions deduced in the process. The defect of standing, in the aforementioned sense, is declarable by the judge of his own motions in every state and degree of judgment without foreclosure.

1. Nomofilachia e legittimazione ad agire. La risposta alla domanda posta dal titolo non è delle più semplici, tanto più che in essa si rispecchia un dibattito scientifico pieno di contrasti che si protrae da più di un secolo. Bisogna, dunque, essere ben felici che con una recente sentenza la Corte di cassazione, nella sua più autorevole composizione, si sia espressa in merito all’istituto processuale della legittimazione ad agire, di cui ha cercato di fornire nella sua veste nomofilattica la definizione giuridica1, così di colpo superando i dubbi e le incertezze che da tanto tempo hanno affaticato la mente degli studiosi e dei pratici. Secondo l’alto Consesso, a ciò sollecitato da un’ordinanza di rimessione della Sez. III2, la

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V. Cass. Sez. Un. 16-2-2016 n. 2951, Rovelli Pres., Curzio Est.; P.M. Del Core concl. diff., pubblicata, tra l’altro, in Riv. dir. proc., 2017, 234 ss. con nota di commento di Ghirga, Sulla titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio. 2 V. Cass. Sez. III, ord. 13-2-2015 n. 2977, con nota di commento di Russo, Il regime processuale delle eccezioni di legittimazione attiva

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Girolamo Monteleone

legittimazione ad agire consiste nella titolarità del diritto all’azione giudiziaria, intesa questa in senso puramente astratto, e come tale dovrebbe essere tenuta ben distinta dall’effettiva appartenenza delle posizioni giuridiche attive o passive (diritti, obblighi, status, ec.) dedotte in lite. Premesso che l’anzidetta azione è essenziale alla giuridicità dell’ordinamento, perché “se un diritto non è tutelabile non è un diritto”, pur tuttavia si afferma che la legittimazione ad esercitarla va valutata unicamente alla stregua delle prospettazioni contenute negli atti di parte introduttivi della controversia. Ne consegue che un soggetto è legittimato in base alla sua pura e semplice affermazione di essere titolare di un qualsiasi diritto, anche se infine il giudice accerterà che quel diritto non gli appartiene (o, il che è lo stesso, non esiste) e quindi neppure l’azione per la sua difesa giurisdizionale, essendosi essa rivelata al vaglio giudiziario priva di contenuto sostanziale. Molto sommessamente anticipo che, se così davvero fosse, il problema non si porrebbe neppure, perché chiunque sarebbe a priori legittimato ad agire per qualunque diritto, esistente o inesistente, proprio o altrui, a meno di supporre ipotesi irreali e artificiose, o comunque estremamente rare, in cui qualcuno proponga una domanda giudiziale dichiarando in partenza che il diritto, di cui chiede l’accertamento, non gli appartiene, o che il convenuto non è il soggetto obbligato verso di lui, ec. ec. Tuttavia, pur essendo la titolarità effettiva del diritto dedotto in giudizio, o per converso dell’obbligo ad esso corrispondente, una questione di merito attinente al fondamento della domanda giudiziale, secondo le S.U. (qui sta il proprium del suo intervento chiarificatore ed uniformatore perché su tale aspetto verteva il contrasto tra diversi orientamenti), tale profilo giuridico è sempre rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo e ad esso corrisponde una mera difesa di parte, non un’eccezione né in senso lato né in senso stretto. Il che si ripercuote sia sulla ripartizione dell’onere di provarne i presupposti di fatto, sia nell’esclusione di decadenze processuali nella facoltà di rilevarla tanto in primo grado che in sede di impugnazione (appello e ricorso per cassazione).

2. Diritto di azione e legittimazione sono categorie processuali astratte?

Dunque, la S.C. considera dato ormai acquisito, anche sulla base di alcuni suoi precedenti, che la nozione di legittimazione ad agire abbia un contenuto processuale del tutto astratto, cioè avulso dal merito3. Sarebbero, invece, tuttora incerte la natura e la disciplina giuridiche del difetto della titolarità in testa alle parti in contesa delle posizioni attive o passive dedotte

e passiva e di difetto di titolarità del rapporto. A proposito dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite 13-2-2015 n. 2977, in www. dirittocivilecontemporaneo.com, 2015; Id., Contributo allo studio dell’eccezionwe nel processo civile, Roma, 2015, 338 ss. 3 Ad onor del vero la sentenza della S.C. parla di “distinzione tra legittimazione al processo e titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione”. Posta in questi termini la distinzione è corretta, solo che in seguito essa confonde il processo con l’azione data a tutela di un diritto soggettivo.

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Che cosa è la legittimazione ad agire?

in giudizio, che alcuni sprovveduti (non usi a distinguere tra diritto e processo) confonderebbero “impropriamente” con il difetto di legittimazione attiva o passiva. Trattandosi sempre e comunque di questioni di merito attinenti al fondamento della domanda, secondo un indirizzo maggioritario delle Sezioni semplici esse corrisponderebbero ad un’eccezione in senso proprio, non rilevabile di ufficio e soggetta alle preclusioni di legge in ogni grado del processo. Secondo un indirizzo minoritario, oggi però munito dell’autorevole avallo Sezioni unite, esse invece non costituirebbero una vera eccezione, corrisponderebbero ad una mera difesa, sarebbero sempre rilevabili di ufficio e, come tali, sfuggirebbero alle preclusioni o decadenze a carico delle parti. Il pronunciamento in discorso è stato oggetto di un ampio commento parzialmente critico, che ne ha messo in rilievo alcune incongruenze4. Ma le critiche si sono appuntate solo sulla qualificazione giuridica come eccezione in senso stretto o come mera difesa della questione attinente al difetto di titolarità attiva o passiva del rapporto giuridico controverso. Sembra che il commento, sebbene in modo oscuro, propenda per la tesi dell’eccezione in senso stretto con tutto quel che ne consegue in materia di preclusioni e di distribuzione dell’onere della prova. È, invece, condiviso il concetto che il diritto di azione, oggetto di apposita garanzia costituzionale elargita dall’art. 24 Cost., abbia un contenuto puramente astratto rispetto al diritto sostanziale, e che di conseguenza altrettanto astratto sia il concetto di legittimazione attiva e passiva delle parti da valutarsi unicamente alla stregua delle prospettazioni contenute negli atti processuali. Invece, è proprio sull’asserita astrattezza di azione e legittimazione che occorre soffermarsi criticamente, perché in questa affermazione si annida a mio parere un vero e grave errore fonte di equivoci, che conduce ad una strada senza sbocco.

3. G. Chiovenda e qualche altro. Il 3 febbraio 1903 è una data ben presente agli Studiosi del processo civile in Italia. Quel giorno, infatti, un giovane Professore, di formazione romanistica ed allievo di V. Scialoja, lesse all’Università di Bologna una prolusione intitolata “L’azione nel sistema dei diritti”5. Si trattava di G. Chiovenda che, cambiando una sua precedente opinione6, ricostruiva sistematicamente il concetto di azione come un diritto potestativo autonomo e distinto dal diritto sostanziale con essa tutelato giudiziariamente. Senonché il giovane e poco avveduto Chiovenda (che secondo i criteri adottati dalla S.C. e da qualche suo imprudente seguace dovrebbe oggi essere compreso tra coloro che “impro-

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Cfr. Ghirga, Sulla titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio, cit., 238-256. Cfr. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, oggi in Saggi di Diritto processuale civile, I, Milano, 1993, 3-99, testo e note, e già in Saggi, Bologna, 1904. 6 Chiovenda, Azione, voce del Dizionario pratico di diritto privato, I, Milano s.d (ma 1901), 452 ss. 5

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Girolamo Monteleone

priamente” confondono diritto e processo!), che però conosceva molto bene la dottrina tedesca7 da sempre incline verso il diritto astratto di agire per la sua scarsa capacità di elaborare concetti giuridici attendibili, pur avendo fatto un notevole sforzo sistematico per superare la sua precedente concezione ed apprestare una solida base scientifica alla separazione del diritto di azione da quello sostanziale, non indulse mai all’astrattezza, anzi la scartò nettamente. Ciò non solo nella richiamata prolusione, ma in tutta la sua successiva opera scientifica8. Lo Studioso, infatti, era fermamente convinto che il diritto di azione fosse concreto e spettasse (verso l’avversario e non verso lo Stato) solo a chi avesse proposto una domanda fondata per l’accertamento di un diritto esistente del quale egli fosse il titolare. Conseguentemente, la legittimazione ad agire coincideva con l’effettiva titolarità del diritto sostanziale, costituiva una condizione dell’azione il cui difetto comportava il rigetto della domanda, dava vita ad una questione di merito, era sempre rilevabile di ufficio anche perché incidente negativamente sul contradittorio, e la pronuncia intorno ad essa era idonea ad acquistare autorità di cosa giudicata materiale, non solo formale. Stesse caratteristiche aveva, specularmente, la legittimazione passiva o a contradire. Non pochi processualcivilisti (tutti egualmente confusionari) hanno seguito convintamente l’insegnamento di Chiovenda. Valga, per tutti, ad es. P. Calamandrei, che mi piace ricordare perché fu il principale artefice del vigente codice di procedura civile (nonché reale autore della sua pregevole Relazione di accompagnamento), tuttora intatto nella parte e nelle norme attinenti all’argomento qui trattato9. Sembra davvero strano pensare che un Giurista della sua tempra non avesse ben capito la lettera e lo spirito del codice, che tanto aveva contribuito ad elaborare, e neppure dell’art. 24 della vigente Costituzione cui pure ebbe l’opportunità di dare il suo apporto.

4. Gli antichiovendiani. Non solo G. Chiovenda ed i suoi più fedeli discepoli ritenevano di connettere strettamente il concetto di legittimazione ad agire al merito della causa, ma anche altri Studiosi che professavano dottrine diverse e si erano consapevolmente distaccati da alcuni aspetti del suo insegnamento, pur non mettendone in dubbio l’alto valore scientifico.

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Tanto che il suo più autorevole antagonista, L. Mortara, ebbe a definire lui e la sua scuola “germanista”. Sulla ampia e minuziosa conoscenza della dottrina di lingua ed estrazione germanica v. le dettagliatissime note all’ Azione nel sistema dei diritti, loc. cit. 8 Cfr. Chiovenda, Principi di Diritto processuale civile, Ristampa, Napoli, 1965, 43 ss. e 151 ss. Nello stesso senso Istituzioni di Diritto processuale civile, I, Napoli 1933, II, Napoli, 1934. 9 Cfr., Calamandrei, Istituzioni di Diritto processuale civile, p. I, Padova, 1943, § 37, 126 ss.; II, Padova 1943, § 108, 188 ss. Nello stesso, o consimile, senso adde, a mò di esempio: Zanzucchi-Vocino, Diritto processuale civile, I, Milano, 1964, 123-127; Liebman, Diritto processuale civile, I, (quarta ed.) Milano, 1980, 139-142; Redenti, Dirtitto processuale civile, II, Milano, 1957, 4-5; Andrioli, Lezioni di Diritto processuale civile, I, Napoli, 1973, 243-251. Più di recente: Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato Vassalli, Torino, 1994, 110 ss.; liebman, Manuale di Diritto processuale civile –Principi, Colesanti, Merlin, Ricci (a cura di), (settima ed.), Milano 2007, 147-150; Verde, Diritto processuale civile, I, (terza ed.), Bologna 2012, 154; infine (si parva licet…) cfr. Monteleone, Manuale di Diritto processuale civile, I, (sett. ed.), Padova, 2015, 176 ss.

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Che cosa è la legittimazione ad agire?

Valga per tutti l’esempio di S. Satta, il quale, proprio perché fermamente intenzionato a ricondurre ad unità diritto processo azione e giurisdizione, dopo avere dimostrato la totale vacuità del diritto astratto di agire, sostenne sempre l’originaria tesi chiovendiana secondo cui la legittimazione ad agire consiste nella reale titolarità del diritto dedotto in giudizio, la sua rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del processo e la sua attinenza al merito della causa10. Ma quali sono, in sintesi, gli argomenti, che hanno indotto anche i giudici delle Sezioni unite a sposare senza riserve la tesi dell’assoluta astrattezza sia dell’azione che della legittimazione? Anzitutto, sarebbe l’art. 24 della Cost. ad apprestare fondamento al diritto astratto di agire in giudizio, perché “se un diritto non è tutelabile non esiste”. Siamo pienamente d’accordo, ma è opportuno che le norme, specie quelle costituzionali, vengano lette ed esaminate attentamente e per intero: quell’articolo, infatti, stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. È sull’aggettivo propri che bisogna concentrare l’attenzione11: esso vuol dire che non è oggetto di garanzia costituzionale la pretesa di agire in giudizio per difendere diritti o interessi altrui, ma solo quelli propri. Quindi, chi non è titolare del diritto non ha né azione né legittimazione (né garanzia costituzionale), e conseguentemente entrambe le nozioni giuridiche sono strettamente connesse al merito dell’ipotetica controversia e non sono affatto astratte. Altra ricorrente osservazione, ritenuta dirimente, sta in ciò che chiunque può agire in giudizio senza che si sappia in partenza se costui sia l’effettivo titolare di un diritto e se questo sia esistente: tale accertamento potrà ottenersi solo alla fine del processo con la sentenza di merito. Quindi la legittimazione ad agire può essere valutata inizialmente solo alla stregua delle prospettazioni della parte, ed il diritto di azione è astratto perché esso spetta e può essere di fatto legittimamente esercitato anche in difetto di diritto tutelabile12. Anche questa semplice ed apparentemente persuasiva osservazione prova troppo, e di contro mostra la sua totale inconsistenza di fronte ad alcune evidenti obbiezioni. Intanto, se si ammette a priori ed in assoluto che un soggetto sia legittimato ad agire per la tutela di un diritto anche se non gli appartenga veramente (ma solo a parole), sappiamo già con certezza che la sua domanda sarà respinta. Quindi, costui non ha mai avuto alcuna legittimazione, come sarà definitivamente accertato con la sentenza ora per allora: se la titolarità del diritto manca al momento della decisione finale, mancava anche

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Cfr. Satta, Diritto processuale civile, (ottava ed., l’ultima curata personalmente dall’illustre A.), Padova, 1973, 78-80 e passim; Id., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano 1966, 253-257, 354-356. 11 Proto Pisani, Lezioni di Diritto processuale civile (sesta ed.), Napoli 2014, 289. 12 È qui che nasce la confusione tra il concetto di parte in senso puramente formale, tratto cioè da una domanda astrattamente considerata, cui corrisponde semmai la legitimatio ad processum, ed il concetto di legittimazione ad agire o contradire, o legitimatio ad causam, che invece è strettamente connesso al merito e spetta solo al reale (non verbale) titolare di un diritto. Infatti, non basta osservare che chiunque può agire in giudizio e dar vita ad un procedimento giudiziario, assumendo le responsabilità, i diritti e gli obblighi di natura processuale che ne derivano, ma bisognerà poi accertare nel merito la legittimità di tale iniziativa. Se ci fermiamo alla fase iniziale del processo, non abbiamo concluso nulla, perché tutti sono legittimati ad agire ed il problema viene cancellato. Insiste, da ultimo, sul cennato equivoco Consolo, Spiegazioni di Diritto processuale civile, I, Torino, 2015, 547-550.

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Girolamo Monteleone

al momento della proposizione della domanda (salve eventuali sopravvenienze processuali incidenti sulle parti), e con essa mancava anche la legittimazione ad agire. Sostenere il contrario sarebbe il massimo dell’incoerenza logica ed una proposizione giuridica del tutto infondata in teoria ed inutile in pratica: che vale la legittimazione a proporre un’azione quando il diritto tutelando non esiste, o non appartiene all’attore? Vale solo a prendersi una sonora condanna alle spese ed un probabile risarcimento del danno da lite temeraria. È poi evidente che ciascuno può affermarsi a suo piacimento titolare di un diritto e quindi automunirsi di una legittimazione in realtà inesistente. Io posso dichiarare di essere unico ed esclusivo proprietario del Colosseo, o della Stazione Termini, o della fontana di Trevi13, e rivendicarne la proprietà ed il possesso contro lo Stato o chiunque altro: sarei perciò pienamente e giuridicamente legittimato a promuovere tale azione, e l’art. 24 Cost. me ne garantirebbe l’esercizio? Tutti si accorgono che la risposta positiva sarebbe una vera e propria assurdità. E, per converso, si è mai visto qualcuno in possesso delle ordinarie facoltà mentali proporre una domanda per concludere di non essere il vero titolare del diritto per cui agisce? Ancora, se viene rilevato e dichiarato in limine l’ipotetico difetto di legittimazione in senso astratto e processuale, anche il punto c.d. sostanziale della reale titolarità del diritto viene di necessità risolto in senso negativo, non resta impregiudicato: cade, quindi, la pretesa distinzione tra i due aspetti anche accedendo alla veduta astratta e processualistica. Quindi il propugnato concetto di legittimazione ad agire astratto dal merito e basato solo sulle affermazioni della parte non ha alcuna consistenza e nessuna utilità, perché non serve ad individuare tra i chiunque chi abbia o non abbia realmente il potere di agire legittimamente in giudizio a tutela di un diritto14. Un esempio, infine, può essere opportuno per corroborare l’esposto punto di vista: se si propone una domanda innanzi ad un giudice incompetente o privo di giurisdizione, ed infine il giudice si dichiara incompetente o privo di giurisdizione, ciò forse vuol dire che egli era comunque competente a giudicare sull’oggetto della lite avendo emesso una sentenza di incompetenza? Lo stesso vale per la fantomatica legittimazione ad agire in astratto basata solo sulle affermazioni di parte: se viene respinta una domanda perché all’attore non appartiene il diritto dedotto in giudizio, ciò non vuol dire che egli fosse legittimato ad agire per accertare un diritto che non ha (contradizione irresolubile), ma molto più semplicemente che costui non aveva né diritto, né azione, né legittimazione. E così, come il giudice che dichiari la propria incompetenza non afferma di essere competente, il giudice che accerti il difetto di

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Molti di noi ricordano quel divertente film comico, in cui Totò cercava di vendere la fontana di Trevi ad uno sprovveduto turista spacciandosene proprietario. La giurisdizione ed il processo, però, dovrebbero essere cosa più seria! 14 Leggesi, infatti, ad un certo punto nella sentenza a proposito di una domanda giudiziale proposta da chi non si prospetti titolare del diritto, di cui chiede la tutela giudiziaria, e che sarebbe solo in questo caso viziata da difetto di legittimazione ad agire: “in fatto, peraltro, ciò accade raramente e l’incidenza pratica di tale tipo di questione può ritenersi trascurabile”. Mi permetto aggiungere che l’incidenza pratica del concetto di legittimazione ad agire in senso astratto non è semplicemente trascurabile, ma totalmente inesistente.

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Che cosa è la legittimazione ad agire?

titolarità dell’azione e del diritto non afferma, e non può affermare, che quel soggetto fosse comunque legittimato ad agire15.

5. Conclusione: effettivo apporto della giurisprudenza alla disciplina giuridica della legittimazione ad agire.

Qual è, allora e in conclusione, il reale insegnamento che può trarsi dalla pronuncia delle Sezioni unite, qui esaminata? Tolto di mezzo il concetto di legittimazione ad agire in astratto, da valutarsi solo sulla base delle prospettazioni di parte, che è una vana ombra, una vera e propria superfluità priva di valore e funzione; tolte di mezzo le osservazioni, anch’esse opinabili e poco concludenti. sulla distinzione tra eccezioni in senso lato ed in senso proprio, essendo le vere eccezioni solo le seconde; che cosa resta? Resta un principio processuale di fondamentale importanza, la cui sostanza è stata sempre affermata dalla giurisprudenza della S.C. e che così si può riassumere. La titolarità reale in testa alle parti di un processo delle posizioni giuridiche, attive e passive, in esso dedotte è una questione di merito attinente al fondamento del diritto o dell’obbligo, è sempre rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo, non costituisce una eccezione in senso proprio soggetta a decadenza o preclusioni, deve essere provata da chi l’afferma, e costituisce oggetto di una pronuncia idonea ad acquistare autorità di cosa giudicata materiale ex art. 2909 c.c., non solo formale ex art. 324 c.p.c. Occorre solo aggiungere che l’istituto, in tal modo ottimamente individuato e descritto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, è esattamente la legittimazione ad agire o a contradire. Non ce ne sono altri. Su questo punto, aveva dunque visto bene G. Chiovenda, ma non solo su di esso. Egli, infatti, a proposito della natura e dei limiti della cosa giudicata aveva anche espresso un altro fondamentale principio nei seguenti termini: “Il giudice, dunque, in quanto ragiona non rappresenta lo Stato: lo rappresenta in quanto afferma la sua volontà. La sentenza è soltanto l’affermazione di una volontà dello Stato che garantisca ad alcuno un bene della vita nel caso concreto”16. Questo principio vale per ogni sentenza in quanto tale, da quella del più modesto Giudice di pace a quella delle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Nella specie la concreta volontà di legge, ordinaria e costituzionale, è nel chiaro senso che la legittimazione ad agire spetta solo a chi sia l’effettivo titolare del diritto per il cui accertamento impegna il giudice e la giurisdizione ed è sempre rilevabile di ufficio anche

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Per questi esempi mi permetto rinviare a Monteleone, Manuale di Diritto processuale civile, I, cit., 176 ss. Forse sarebbe stato opportuno che chi ha commentato la sentenza delle Sezioni Unite nella Rivista, che fu di Chiovenda e di Calamandrei, vi avesse dedicato un minimo di attenzione. 16 Cfrr. Chiovenda, Principi di Diritto processuale civile, cit., 909.

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Girolamo Monteleone

in osservanza dell’essenziale principio del contradittorio tra parti vere e reali, non fittizie o verbalistiche. La motivazione, che circonda il nucleo essenziale della decisione, è solo un’opinione che, per quanto autorevole ed importante, sta sullo stesso piano di ogni altra e non è assistita da una presunzione di verità.

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Paolo Di Marzio

Intermediazione finanziaria: risoluzione di contratto quadro e negozi d’investimento Sommario :

1. Intermediazione finanziaria e risoluzione. – 2. Gli orientamenti tradizionalmente proposti dalla giurisprudenza di legittimità. – 3. Uno sguardo alla giurisprudenza di merito (la maggior parte inedita). – 4. Le soluzioni proposte nelle decisioni recenti della Suprema Corte. – 5.Le analisi della dottrina. – 6. Qualche spunto di riflessione.

In materia di intermediazione finanziaria il saggio, esaminata la dottrina come la giurisprudenza, di merito e di legittimità, analizza il problema di quando sia possibile dichiarare la risoluzione del contratto quadro d’investimento e dei singoli contratti di acquisto di titoli mobiliari. With regard to bank law, the study, examined the legal science and court decisions, analizes when it is necessary to declare the invalidity of the regulatory contract, and of the purchase contracts of shares and bonds.

1. Intermediazione finanziaria e risoluzione. La Corte di Cassazione ha cominciato ad esaminare un gran numero di ricorsi, in materia di intermediazione finanziaria, relativi ai Tango bond1, nonché alle obbligazioni Cirio e Parmalat emesse da società estere2. Si tratta di vicende che agli inizi degli anni duemila

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Con questo nome si usa fare riferimento ad obbligazioni emesse dallo Stato argentino, o da enti territoriali di quel Paese, e vendute in Italia tra la fine degli anni novanta ed i primi anni del nuovo secolo, pertanto non molto tempo prima che si giungesse al default dello Stato argentino. 2 In realtà le obbligazioni, vendute (anche) ai risparmiatori agli inizi degli anni duemila, erano state emesse da società di diritto straniero. Nel caso Cirio si trattava di più società, prevalentemente la Cirio Finance Luxemburg (società olandese) facente parte del gruppo costituito dal noto marchio alimentare italiano. Nel caso Parmalat i titoli erano stati emessi dalla Parmalat Finance Corporation BV (anch’essa una società olandese), le obbligazioni erano garantite da Parmalat Spa.

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Paolo Di Marzio

hanno rischiato di condurre alla rovina molti investitori, ed hanno tolto il sonno a molti altri. A seguito delle prime decisioni pronunciate dal Giudice di legittimità si è evidenziata l’esigenza che i problemi giuridici emersi in materia nel corso dei giudizi di merito trovino una soluzione appagante3. In particolare, sembra occorra valutare con attenzione se in presenza della violazione da parte dell’intermediario dell’obbligo di fornire al cliente informazioni in concreto adeguate, in relazione all’acquisto di titoli mobiliari, sia possibile dichiarare la risoluzione dei singoli negozi esecutivi di investimento, e non solo del contratto di intermediazione, ed a quali condizioni. Il problema, più in generale, consiste nel definire quali siano le conseguenze della violazione degli obblighi che gravano sull’intermediario finanziario nella compravendita di valori mobiliari, in materia di responsabilità precontrattuale e contrattuale. Queste tematiche, ampiamente dibattute in dottrina e che hanno visto proporre orientamenti diversi nella giurisprudenza di merito, sembrano non aver (ancora) trovato una soluzione adeguata da parte dei giudici di legittimità.

2. Gli orientamenti tradizionalmente proposti dalla giurisprudenza di legittimità.

Il problema delle conseguenze della violazione, da parte dell’intermediario, dell’obbligo di fornire al cliente tutte le informazioni necessarie ed utili, in vista della conclusione di un negozio di acquisto di titoli mobiliari, è stato ripetutamente affrontato dalla Corte di Cassazione4, trovando poi un esame diffuso nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26724 del 2007, su cui occorrerà soffermarsi nel prosieguo.

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Già alcuni anni orsono si segnalava in dottrina che “in conseguenza delle ricorrenti crisi finanziarie … che hanno caratterizzato l’ultimo decennio si è generato un non trascurabile contenzioso per effetto delle azioni proposte dai risparmiatori che, a torto o a ragione, si sono sentiti traditi ed hanno domandato agli intermediari finanziari che li avevano assistiti nelle operazioni di investimento di essere tenuti indenni dalle perdite subite. Non sono poche ormai le decisioni” specie delle Corti di merito, “in materia, e da un loro primo esame non emergono né vincitori né vinti … vi sono numerose sentenze che hanno accertato una responsabilità degli intermediari finanziari … altrettante sono le pronunce che hanno rigettato le richieste risarcitorie dei risparmiatori”, scrive Lucchini Guastalla, In tema di responsabilità degli intermediari finanziari, in Resp. civ. prev., 4/2011, 741 ss. Questo ampio contenzioso è ora sottoposto all’esame della Suprema Corte, che si è pure già ripetutamente pronunciata su questi problemi, come si evidenzierà nel prosieguo, ed appare auspicabile che si raggiunga alfine una convincente ricostruzione sistematica della materia. 4 Tanto è dipeso in significativa misura dal dato di fatto che “né la previgente disciplina né quella attuale, tanto di rango legislativo quanto regolamentare”, abbiano provveduto ad individuare “i rimedi applicabili alle ipotesi di violazione degli obblighi informativi da parte degli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento … il legislatore italiano – unico soggetto legittimato a plasmare l’apparato rimediale più idoneo in relazione alle singole fattispecie concrete – in sede di attuazione della normativa adottata a livello dell’Unione Europea, si è per lo più limitato a prevedere un apparato sanzionatorio di tipo amministrativo, tralasciando la previsione di strumenti rimediali di tipo civilistico e lasciando i rapporti giuridici nell’incertezza delle conseguenze in relazione alla violazione delle regole di condotta … la carenza di una espressa ed adeguata disciplina legislativa sui rimedi è colmata in via applicativa da parte del formante giurisprudenziale e in via interpretativa dal formante dottrinale: tanto i giudici quanto gli studiosi si sono, infatti, impegnati a cercare soluzioni concrete sulle conseguenze civilistiche della violazione dei doveri di informazione da parte degli intermediari finanziari”, scrive Fusco, Responsabilità solidale tra emittente ed intermediario finanziario: il rinvio della Suprema Corte in tema di Cirio bond, in Resp. civ. prev., 3/2014, 865 ss.

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La decisione del massimo consesso opera peraltro insistiti riferimenti alla sentenza n. 19024 del 20055, di cui dichiara di condividere l’impostazione, e sembra perciò opportuno richiamare i passaggi essenziali di quest’ultima per la parte d’interesse. La Cassazione ha affermato che “la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, stabilito dall’art. 1337 cod. civ., assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche, quale dolo incidente (art. 1440 cod. civ.), se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; in siffatta ipotesi, il risarcimento del danno deve essere commisurato al “minor vantaggio”, ovvero al “maggior aggravio economico” prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”, questa la massima ufficiale. Dal testo della decisione emerge che nel giudizio in questione l’attore aveva domandato fosse pronunciata la nullità dei contratti aventi ad oggetto valori mobiliari stipulati con l’intermediario, tra l’altro, per non avere la banca fornito al cliente informazioni doverose, domandando in conseguenza la restituzione delle somme investite. La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda. L’attore aveva quindi contestato il giudizio della Corte di merito per “aver escluso l’incidenza della mancata osservanza, da parte della Banca, delle regole di comportamento … sulla validità dei contratti di acquisto e di vendita ‘a termine’ di valuta estera”. La Suprema Corte spiegava allora che “l’assunto su cui si fonda la sentenza impugnata è che tali regole attengono alla fase delle trattative precontrattuali e che, pertanto, la loro inosservanza non può determinare la nullità del contratto, pur non essendo revocabile in dubbio che esse abbiano carattere imperativo. L’affermazione è corretta. La “contrarietà” a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c., quale “causa di nullità” del contratto, postula, infatti, che essa attenga ad elementi “intrinseci” della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il contenuto del contratto (art. 1418, secondo comma, c.c.) I comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto; a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore (ad es., art. 1469 ter, quarto comma, c.c, in relazione all’art. 1469, quinquies, primo comma, stesso codice”. Peraltro, “non è affatto vero che, in caso di violazione delle norme che impongono alle parti di comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative e nella formazione del

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Cass. sez. I, sent. 29.9.2005, n. 19024, Ced Cass. Rv. 583654, edita, tra l’altro, in Giur. it., 2006, 1559, con nota di Sicchiero, Un buon ripensamento del S.C. sulla asserita nullità del contratto per inadempimento; in Foro it., 2006, I, 1105, con nota di Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale; ed in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 897, con nota di Passaro, Intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi informativi: validità dei contratti e natura della responsabilità risarcitoria.

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contratto, la parte danneggiata, quando il contratto sia stato validamente concluso, non avrebbe alcuna possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti”. Il Giudice di legittimità non trascurava in proposito di segnalare che la tesi contrastata aveva già trovato echi pure nella giurisprudenza della Suprema Corte, e ricordava al proposito le sentenze: Cass. 9 ottobre 1956, n. 3414, 12 ottobre 1970, n. 1948 e 11 settembre 1989, n. 3922, ma appariva ugualmente non condivisibile. Tale impostazione, scriveva la Cassazione, “poggia sull’assunto che l’ambito di rilevanza della responsabilità contrattuale sia circoscritto alle ipotesi in cui il comportamento non conforme a buona fede abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato la conclusione di un contratto invalido ovvero (originariamente) inefficace. Di qui la conclusione che, dopo la stipulazione del contratto, ogni questione relativa all’osservanza degli obblighi imposti alle parti nel corso delle trattative sarebbe preclusa, in quanto la tutela del contraente sarebbe affidata, a partire da quel momento, solo alle norme in tema di invalidità e di inefficacia del contratto, la cui applicazione, pur essendo in alcuni casi ricollegata a comportamenti certamente non conformi a “buona fede”, è tuttavia subordinata alla ricorrenza di presupposti ulteriori (artt. 1434-1437, 1439, 1447-1448)”. Questa ricostruzione doveva però ritenersi superata, spiegava la Suprema Corte, perché era stato “ormai chiarito che l’ambito di rilevanza della regola posta dall’art. 1337 c.c. va ben oltre l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica un dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. L’esame delle norme positivamente dettate dal legislatore pone in evidenza che la violazione di tale regola di comportamento assume rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del contratto), o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace (artt. 1338, 1398 c.c.), ma anche quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto (1440 c.c.) … il risarcimento, in detta ipotesi,” non deve essere commisurato al c.d. interesse negativo (interesse a non concludere il contratto) ma “deve essere ragguagliato al “minor vantaggio o al maggiore aggravio economico” determinato dal contegno sleale di una delle parti (Cass. 11 luglio 1976, n. 2840; 16 agosto 1990, n. 8318), salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto (Cass. 29 marzo 1999, n. 2956)”. In definitiva, secondo la Suprema Corte, “non vi è quindi motivo di ritenere che la conclusione di un contratto valido ed efficace sia di ostacolo alla proposizione di un’azione risarcitoria fondata sulla violazione della regola posta dall’art. 1337 c.c. o di obblighi più specifici riconducibili a detta disposizione”. Nella sentenza n. 19024 del 2005 il Giudice di legittimità ha pertanto affermato che l’intermediario finanziario, in sede di trattative per la stipula di un contratto avente ad oggetto valori mobiliari, qualora non fornisca le informazioni doverose, incorre in responsabilità precontrattuale ed è tenuto al risarcimento del danno, senza che questo incida sulla validità

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ed efficacia del contratto. La Suprema Corte, peraltro, ed anche questo è assai rilevante ai presenti fini, ha inoltre osservato che “la forma scritta richiesta dalla lettera ‘g’” della legge n. 1 del 1991, “per la segnalazione, da parte dell’intermediario, della situazione di conflitto di interessi e per l’autorizzazione, da parte del cliente, al compimento dell’operazione” di acquisto di valori mobiliari, “riguarda atti che, per espressa previsione legislativa, debbono essere posti in essere “preventivamente” e, quindi, prima della conclusione del contratto e non ricadono, pertanto, nell’ambito di applicazione della lettera “c” che prescrive la forma scritta per il contratto destinati regolati6 i rapporti l’intermediario e il cliente. È allora evidente che l’inosservanza della forma scritta per il compimento di tali atti non poteva determinare la nullità dei contratti successivamente stipulati, anche a voler ritenere il requisito di forma prescritto dalla lettera “c” riguardasse, già nel vigore della legge 1/91, non il (solo) contratto “quadro”, ma anche tutti i singoli contratti posti in essere tra l’intermediario e il cliente per regolare le singole operazioni poste in essere, come è stato successivamente chiarito in modo inequivoco dal legislatore (art. 18, primo comma, d.lgs., n. 415/96; art. 23, d.lgs. 58/98)”7. La sentenza delle Sezioni Unite n. 267248 del 20079 riprendeva quindi l’impostazione proposta dalla sentenza n. 19024 del 2005, ed ampliava l’analisi. Affrontava, infatti, il problema degli effetti della mancata comunicazione di informazioni da parte dell’intermediario in relazione al c.d. contratto quadro ed anche rispetto ai negozi esecutivi, e precisava quali conseguenze comporta la violazione di tali doveri oltre l’obbligo di risarcire il danno. La massima ufficiale così riassume i contenuti della decisione: “In relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione in tal senso (cosiddetta “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (nella specie, in base all’art. 6 della legge n. 1 del 1991) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella

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L’imperfezione lessicale è nel testo, ma pare indubbio che la Corte intenda far riferimento al c.d. contratto quadro. Cass. sez. I, sent. 29.9.2005, n. 19024, … cit., locc. cit. Sottolineature aggiunte perché relative a profili su cui occorrerà tornare in conseguenza delle osservazioni proposte dalla dottrina e dalla successiva giurisprudenza. 8 Come pure la “gemella” sent. n. 26725 del 2007, pronunciata sempre dalle Sezioni Unite. 9 Cass. S.U., sent. 19.12.2007, n. 26724, Ced Cass. Rv. 600329, edita, tra l’altro, in Giust. civ., 2008, I, 1175, con nota di Nappi, Le sezioni unite su regole di validità, regole di comportamento e doveri informativi; in Corr. giur., 2/2008, 223, con nota adesiva di Mariconda, L’insegnamento delle Sezioni Unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità; ed in Danno e resp., 5/2008, 525, con nota di Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza Rordorf. L’A. scriveva che la decisione pronunciata delle Sezioni Unite, pur ritenuta pregevole, abbisognava ancora di un approfondimento, come chiarito in particolare nell’ultimo paragrafo dello scritto, intitolato: “Conclusioni (poco concludenti, più che altro attendiste): provaci ancora Suprema Corte!” 7

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fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. “contratto quadro”, il quale, per taluni aspetti, può essere accostato alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del “contratto quadro”; in ogni caso, deve escludersi che, mancando una esplicita previsione normativa, la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., la nullità del cosiddetto “contratto quadro” o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso”. La decisione afferma pertanto che la violazione degli obblighi di informazione gravanti sull’intermediario finanziario, oltre ad ingenerare l’obbligo di risarcire il danno può comportare la risoluzione del contratto di intermediazione. Il caso esaminato dalle Sezioni Unite era quello di una banca cui il cliente contestava, tra l’altro, di averlo indotto ad effettuare investimenti in titoli mobiliari senza averlo adeguatamente informato sulle caratteristiche ed i rischi degli stessi. La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda di dichiarare la “nullità dei contratti aventi ad oggetto le operazioni finanziarie … osservando che le violazioni dedotte in causa riguardavano la condotta prenegoziale dell’istituto di credito”. Le Sezioni Unite osservavano in proposito che occorreva confermare quanto statuito con la già ricordata sentenza n. 19024 del 2005 e pertanto escludere “che l’inosservanza degli obblighi informativi … possa cagionare la nullità del negozio”. La Suprema Corte esaminava quindi la struttura dell’intermediazione finanziaria, soffermandosi sugli obblighi di informazione gravanti sull’intermediario. Specificava, tra l’altro, che “dal ‘contratto quadro’, cui può darsi il nome di contratto d’intermediazione finanziaria e che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del mandato, derivano dunque obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente. Le successive operazioni che l’intermediario compie per conto del cliente, benché possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale10, costituiscono pur sempre il momento attuativo del precedente contratto d’intermediazione11”. Sottolineava quindi il Giudice di legittimità che gli obblighi di comportamento, ed in particolare i doveri di informazione, sussistono antecedentemente ma “anche dopo la stipulazione del contratto di intermediazione … la violazione dei primi … è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l’avvenuta stipulazione del contratto … la violazione dei doveri dell’intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d’intermediazione può assumere i connotati di un vero e

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Questa affermazione è ripetuta più volte nel testo della decisione. In altro passaggio la Suprema Corte conferma che gli ordini di investimento possano consistere in atti di natura negoziale, ed aggiunge poi che “è significativo che la norma li definisca col generico termine di ‘operazioni’”.

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proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacché quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l’eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull’inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall’art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d’intermediazione finanziaria in corso”12. Pare quindi opportuno segnalare che sebbene l’affermazione che i singoli ordini d’investimento possono a loro volta consistere in atti di natura negoziale sia ripetuta più volte nella sentenza, il Giudice di legittimità non si sofferma però a chiarire in quali ipotesi tale natura deve essere loro (negata o) riconosciuta, e con quali conseguenze13. Resta fermo, comunque, che la decisione afferma la possibilità di dichiarare la risoluzione per violazione degli obblighi informativi, successivamente alla stipula dell’accordo, in relazione al contratto quadro, mentre non prende posizione in ordine alla possibilità di dichiarare la risoluzione degli ordini di acquisto di valori mobiliari.

3. Uno sguardo alla giurisprudenza di merito (la maggior parte inedita).

I Giudici di merito sembrano aver accolto senza riserve la distinzione proposta dalla Suprema Corte tra le violazioni dei propri doveri comportamentali da parte degli intermediari finanziari che precedono la stipula del contratto, le quali possono ingenerare una responsabilità precontrattuale ed il conseguente obbligo di risarcire il danno, ed inadempimenti successivi alla conclusione del contratto, che possono comportare la risoluzione del contratto, oltre ad ingenerare l’obbligo di risarcire il danno arrecato. Sebbene anche nella giurisprudenza di merito si riscontri la presenza di una pluralità di orientamenti in materia, può poi costatarsi come un numero rilevante delle Corti di merito afferma che possa essere dichiarata la risoluzione (pure) degli ordini d’acquisto14, anche se le diverse decisioni propongono un diverso approfondimento della problematica. Ad esempio, la Corte d’Appello di Genova15, con la sentenza n. 8204 del 4.3-15.7-2009, ha affrontato una domanda di risoluzione del contratto d’acquisto di obbligazioni argentine stipulato nel dicembre del 1999. La banca si era difesa affermando che alla data dell’acquisto la situazione di difficoltà dello Stato argentino non era nota e che, essendo stato concluso

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Cass. S.U., sent. 19.12.2007, n. 26724 … cit., locc. cit. Per una critica della scelta delle Sezioni Unite di non prendere posizione in ordine a questa problematica, cfr. Renda, Le regole d’informazione nel diritto europeo dei contratti, in Riv. dir. civ., II, 2012, 199 ss. 14 Peraltro l’attività di spoglio di decine di ricorsi in attesa di decisione presso la Corte di Cassazione ha permesso di costatare che il problema di giudicare della possibilità di dichiarare la risoluzione del contratto quadro in materia di intermediazione immobiliare, oppure dell’ordine di acquisto, oppure di entrambi, si riproporrà molte volte. 15 Il ricorso per cassazione riporta n. di RGN 12687/2010. 13

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un mero contratto esecutivo di intermediazione mobiliare16, non gravava sull’ intermediario un obbligo di informazione successivo alla stipula, non essendo vigente con il cliente un rapporto di gestione del patrimonio. La Corte di merito ha ritenuto insufficiente, al fine di dimostrare la propria correttezza e diligenza nell’operare da parte della banca, la produzione dell’ordine di acquisto su cui risultava iscritta la dicitura “operazione non adeguata in relazione all’oggetto”. La Corte d’Appello ha ricordato quindi il disposto dell’art. 21 del TUF ed in particolare la previsione del comma 1, lett. b), che impone (tra l’altro) all’intermediario di operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati ed ha sintetizzato che “i doveri imposti alla banca si sostanziano essenzialmente nel dovere di informarsi e nel dovere di informare”. Il Giudice dell’appello ha poi negato che al proposito potesse ritenersi non sussistere un obbligo della banca di informare il cliente per tutto il corso del rapporto, sol perché una previsione esplicita in tal senso era stata dettata in relazione al rapporto di gestione patrimoniale e non pure nell’ipotesi che “il servizio fornito dall’intermediario consista nell’esecuzione di ordini”. Diversamente deve affermarsi, sul fondamento del disposto di cui all’art. 21, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 58 del 1998, che compete “all’operatore il dovere sia di farsi parte attiva nella richiesta all’investitore di notizie circa la sua esperienza e la sua situazione finanziaria, gli obblighi di investimento e la propensione al rischio, sia di informare adeguatamente il cliente, al fine di porre il risparmiatore nella condizione di effettuare consapevoli e ragionate scelte di investimento o disinvestimento”. Operate queste premesse – e dichiarato di voler aderire alla impostazione proposta dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sent. n. 26724 del 2007 – la Corte d’Appello di Genova ha pronunciato la risoluzione dell’ordine d’acquisto, indicato come “contratto dedotto in giudizio, stipulato in data 10/12/1999, attuativo degli obblighi assunti dall’intermediaria Cassa di Risparmio con il contratto quadro”. Invero dalla lettura di questa decisione non emerge con chiarezza se la risoluzione dell’ordine di acquisto sia stata pronunciata in relazione a violazioni del dovere di diligenza di cui la banca si è resa responsabile precedentemente o successivamente rispetto alla sottoscrizione del contratto esecutivo, fermo restando che la Corte di merito è stata chiara nell’affermare che gli obblighi di informazione permangono a carico della banca anche dopo che il contratto esecutivo è stato stipulato17 ed anche se lo stesso ha ad oggetto la mera attività di negoziazione mobiliare18. Il profilo problematico cui si è fatto cenno sembra poi essere stato colto con precisione dalla Corte d’Appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, nella propria sentenza n. 2,

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Una “semplice operazione di negoziazione”, si legge nel testo della decisione. Tanto sembra doversi desumere da quanto in precedenza osservato, e pertanto dall’esclusione che l’obbligo di informazione successiva sia limitato ai contratti e rapporti specificamente indicati dalla legge, in considerazione dell’insistito richiamo alla previsione dell’ art. 21, comma 1, lett. b) del TUF, che prevede l’investitore debba essere sempre adeguatamente informato, e pure dal richiamo operato dalla Corte territoriale all’obbligo dell’intermediario di informare il cliente al fine non solo di poter provvedere in modo adeguato ad operazioni di investimento, ma pure di disinvestimento. 18 Senza, pertanto, che intercorra tra le parti un rapporto di gestione di portafoglio. 17

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dell’8-13.1.201419. I Giudici trentini hanno ricordato che “gli appellati invocano tutela risolutoria/restitutoria con riguardo alle operazioni di investimento in titoli Lehman e Landbank” perché la banca, che svolgeva il ruolo di intermediario nell’acquisto di tali valori mobiliari, non li aveva adeguatamente informati “sulla natura e sulle caratteristiche dei titoli intermediati e non avrebbe esercitato il prescritto vaglio di adeguatezza degli investimenti rispetto ai profili dei clienti. Orbene, è stato pertinentemente osservato come gli obblighi informativi dell’intermediario finanziario abbiano natura contrattuale dal punto di vista della loro fonte. Essi, infatti, derivano dal contratto quadro intercorrente tra l’intermediario ed il cliente. Sul piano della funzione essi hanno, invece, natura precontrattuale. Sono, infatti, strumentali alla conclusione del diverso contratto di acquisto degli strumenti finanziari ordinati dal cliente … la tutela spettante al contraente danneggiato dalla scorretta condotta precontrattuale della controparte … si pone esclusivamente sul piano risarcitorio e non su quello risolutorio/ restitutorio. Ed infatti, lo scioglimento del vincolo contrattuale consegue, normativamente, all’inadempimento delle obbligazioni contrattuali, non, invece, alla violazione degli obblighi precontrattuali20. Ciò posto, va costatato che con riguardo ai titoli Lehman e Landsbank gli appellanti … non hanno invocato la tutela risarcitoria. Hanno optato per quella risolutoria/ restitutoria riferendola alle operazioni di acquisto di detti titoli … dall’impossibilità di pronunciare la risoluzione contrattuale in virtù della responsabilità precontrattuale di uno dei contraenti discende la declaratoria di infondatezza delle loro domande”. In definitiva la Corte di merito21 ha ritenuto che non possano essere dichiarati risolti i contratti d’acquisto dei titoli mobiliari in conseguenza di un pur grave inadempimento della banca nei suoi obblighi comportamentali, che sia però riferibile alla fase che precede la stipula di detti contratti22 e pertanto idoneo, in relazione a questi ultimi, ad ingenerare soltanto una (possibile) responsabilità precontrattuale23, conseguendone il diritto di ottenere il risarcimento del danno. Non sono stati affrontati simili problemi nella sent. n. 392 del 10.12.2013-6.2.2014, pronunciata dalla Corte d’Appello di Bologna24. In questo caso i clienti, due pensionati di bassa

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Il ricorso per cassazione riporta n. di RGN 17370/2014. La Corte trentina afferma pure, ritenendo di recepire orientamenti proposti dalla Suprema Corte, che “gli obblighi per l’intermediario di procurarsi e fornire informazioni hanno la medesima estensione sia in caso di erogazione dei servizi di gestione di portafogli ovvero di consulenza, sia in caso di mera negoziazione dei titoli”. 21 La Corte territoriale, si noti, non si è pronunciata sulla risolubilità (parziale) del contratto quadro – anche detto contratto di intermediazione finanziaria e di negoziazione – in conseguenza della violazione degli obblighi d’informazione, ma solo perché questa domanda non era stata proposta dai ricorrenti. 22 Si osservi che in questo caso non risulta siano state mosse contestazioni avverso la condotta della banca successiva alla stipula dei contratti d’acquisto dei titoli mobiliari che, risolvendosi in un grave inadempimento di questi ultimi, avrebbe potuto eventualmente comportarne la risoluzione. 23 In tal senso, con chiarezza, cfr. anche Tribunale di Udine, sent. 5.3.2010, in Corr. merito, 2010, 721, con nota di Sangiovanni, Inadempimento contrattuale e responsabilità nel caso Lehman Brothers. Il giudice friulano osserva che, in presenza di una violazione commessa dall’intermediario nell’adempiere al dovere d’informazione in relazione ad uno specifico investimento mobiliare, “non essendo ravvisabile un inadempimento che concerna l’esecuzione dell’operazione di acquisto, ma solo un inadempimento che tocca la fase precedente della ‘trattativa’, non può essere dichiarata la risoluzione dell’ordine oggetto di causa”. 24 Il ricorso per cassazione riporta n. di RG 17223/2014. In senso analogo si è espressa la Corte d’Appello di Torino con la sent. 18.4.2014 (dep. 8.5.2014), n. 963 (il ricorso per cassazione riporta il n. di RG 19751/2014). La società cliente, in quest’ultima vicenda, 20

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scolarità, assumevano di essere stati indotti dalla banca, incorsa in plurime violazioni dei propri obblighi, ad acquistare obbligazioni argentine. Domandavano perciò la dichiarazione di nullità dei contratti d’acquisto ed in subordine la pronuncia di risoluzione degli stessi, in ogni caso con riparazione di ogni danno. La Corte di merito premetteva che “i contratti di mandato (il contratto quadro, gli ordini) hanno in effetti una loro autonoma funzione negoziale … le domande di nullità – inadempimento/risoluzione ben possono avere ad oggetto non solo il contratto quadro (come in concreto non è avvenuto) ma anche i singoli ordini con i quali si dà ad esso esecuzione, che hanno una loro autonomia negoziale, non essendo la relativa declaratoria impedita da Cass. SSUU 26725/2007, che nel delineare in via generale le conseguenze dei mancati obblighi informativi non esclude espressamente tale opzione”. Ritenuta la responsabilità della banca per grave inadempimento a causa della violazione dei “doveri generici e specifici di diligenza, correttezza e buona fede imposti e specificati dalla normativa primaria e secondaria”, la Corte d’Appello ha riformato la decisione di primo grado, dichiarando la risoluzione degli ordini d’acquisto e condannando la banca al risarcimento di ogni danno. La Corte d’Appello di Firenze, poi, con la sentenza n. 380 del 18.2-4.3.201425, aderendo all’impostazione proposta dal giudice di prime cure ha osservato che, nell’ambito di una vicenda di intermediazione finanziaria, se non vi è domanda specifica della parte non può pronunziarsi la risoluzione del contratto quadro26 per inadempimento degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario. Inoltre, secondo la Corte di merito deve affermarsi “l’impossibilità di accogliere una domanda di risoluzione dei singoli mandati a comprare titoli poiché, secondo una prima tesi, essi non sarebbero negozi autonomi, ma anche a voler seguire la tesi dei contratti collegati, l’inadempimento (agli obblighi informativi) non riguarda i singoli mandati, in quanto detta violazione li precede temporalmente, ed è riferita ad obblighi derivanti dal contratto quadro”. La giurisprudenza di merito si è pronunciata anche in ordine al problema della sussistenza, o meno, di un obbligo dell’intermediario finanziario di fornire all’investitore informazioni circa l’andamento dei valori mobiliari acquistati mediante contratto di mera negoziazione, quando gli stessi subiscano un significativo deprezzamento27. Anche in relazione a questa problematica possono riscontrarsi diversi orientamenti. Parte della giurisprudenza di merito afferma che la banca, nell’ambito di un rapporto di

aveva stipulato con la banca prima il contratto quadro e poi il contratto di acquisto di Interest Rate Bond. Contestava, però, di non essere stata adeguatamente informata dall’intermediario sulla natura dell’investimento e domandava perciò dichiararsi la nullità, l’annullamento o la risoluzione del contratto di negoziazione. La Corte d’Appello, riformando la decisione del Tribunale, ha ritenuto che la violazione dell’intermediario finanziario effettivamente sussistesse. Trattandosi però di mancanza comportamentale non poteva conseguirne la dichiarazione di nullità del contratto, tuttavia, risultando integrato il grave inadempimento da parte dell’Istituto di credito, doveva dichiararsi la risoluzione del contratto di investimento. 25 Il ricorso per cassazione riporta n. di RGN 22649/2014. 26 In senso opposto, cfr. Cass. Sez. III, sent. 12.12.2014, n. 26159, Ced Cass. Rv. 633524, su cui occorrerà tornare nel prosieguo. 27 La problematica, si è visto, era stata affrontata anche dalla Corte d’Appello di Genova nella sent. n. 8204 del 2009, la prima richiamata in questo paragrafo.

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mero deposito titoli, è tenuta ad effettuare la c.d. consulenza incidentale28 – oltre che in occasione dell’acquisto di titoli mobiliari – solamente nel momento in cui il cliente, per effetto di propria scelta, intende disinvestire, e non invece in precedenza, non essendovi tenuta né contrattualmente né in virtù di disposizione normativa29. In dottrina si è rilevato che questo indirizzo giurisprudenziale ricerca il proprio fondamento innanzitutto nella ritenuta assenza nella normativa di settore, legale o regolamentare, di un esplicito obbligo di informazione continuativa con riguardo ai servizi di negoziazione. Inoltre, la normativa di settore ha “espressamente indicato le ipotesi in cui l’intermediario è tenuto a fornire informazioni ulteriori rispetto a quelle generalmente dovute”. Infine, “non è possibile introdurre tale obbligo – e trasformare quindi la portata e le caratteristiche del servizio di investimento scelto dal cliente (e che l’intermediario ha acconsentito a prestare) – sulla base dei principi di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.”30. Esprimendo un diverso orientamento il Tribunale di Roma, con sentenza del 25 maggio 2005, ha affermato che sussiste l’obbligo della banca di “informare il cliente sull’andamento del titolo anche successivamente al suo acquisto. Non soltanto in base al principio generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.) ma anche in base a specifiche disposizioni normative. L’art. 21, lett. b) del TUF (che costituisce norma primaria rispetto al regolamento Consob), nell’imporre agli intermediari di operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati, al fine di consentire ad essi di effettuare ‘consapevoli scelte di investimento o disinvestimento’ (art. 28, comma 2, del Reg. Consob), si riferisce ai servizi di investimento indicati all’art. 1, comma 5, del TUF, senza alcuna distinzione tra le varie tipologie di servizi (tra cui rientrano le negoziazioni di strumenti finanziari per conto proprio e di terzi)”31, e non solo ai contratti di gestione di portafoglio32. In senso analogo si

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Essendo stata talora definita tale attività della banca come una consulenza strumentale, cfr. Camedda, L’attività di consulenza finanziaria tra autonomia e propedeuticità ai contratti di investimento. (Una questione in tema di responsabilità dell’intermediario finanziario), nota a Trib. Bologna, sent. 7.11.2011, n. 3133, in Resp. civ. prev., 6/2012, 2059. 29 Cfr. Tribunale Parma, sent. 24.5.2007, edita on line sul sito ilcaso.it, ove sono pubblicate anche le decisioni dei Tribunali di Modena, Lucera e Milano, peraltro segnalate da Lamponi, L’(incerta) esistenza di obblighi di informazione continuativa in capo all’intermediario: l’oscillazione del valore dei titoli e della giurisprudenza di merito, nota a Trib. Catanzaro 2 marzo 2012, n. 685, in Resp. civ. prev., 6/2012, 2035, che può consultarsi anche per ulteriori informazioni relative agli orientamenti espressi in materia dalla giurisprudenza di merito. 30 Lamponi, L’(incerta) esistenza di obblighi di informazione continuativa … cit., 2035 s. 31 Tribunale Roma, sent. 25.5.2005, edita in Corr. giur., 2005, 1282, con nota di Di Majo, Prodotti finanziari e tutela del risparmiatore. In conseguenza delle affermazioni riportate il Tribunale ha ritenuto la banca inadempiente per non aver fornito alcuna informazione all’investitore circa l’intervenuto declassamento del rating dei valori mobiliari acquistati, che anche questa volta erano titoli obbligazionari emessi dallo Stato argentino. Nello stesso senso, cfr. anche Tribunale Cosenza, sent. 1°.3.2006, edita in Riv. dir. comm., 2006, II, 111, con nota di Emiliozzi, La responsabilità della banca per omessa informazione nel deterioramento del rating di obbligazioni acquistate da un cliente. 32 “Una siffatta estensione di matrice ermeneutica mira dunque a colmare l’asimmetria esistente e a incrementare e rafforzare la protezione degli investitori (considerati soggetti deboli del rapporto contrattuale)” osserva, senza nascondere qualche perplessità, Lamponi, L’(incerta) esistenza di obblighi di informazione continuativa in capo all’intermediario … cit., nota a Trib. Catanzaro 2 marzo 1012, n. 685 … cit., loc. cit., 2034. L’A. annota, in senso sostanzialmente favorevole, una decisione in cui il Tribunale ha ritenuto che, a seguito della stipula di un contratto di intermediazione mobiliare, non gravi sulla banca un onere avente fonte legale di monitorare l’andamento dei titoli negoziati e di informare l’investitore dell’eventuale perdita di valore dei medesimi, potendo peraltro tale obbligo essere convenzionalmente pattuito.

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è poi espresso in tempi più recenti il Tribunale di Prato33, affermando che l’intermediario è tenuto ad aggiornare le informazioni fornite all’investitore sull’andamento dei titoli acquistati, onde permettergli di valutare la possibilità di disinvestire. Compete alla banca, pertanto, l’obbligo di comunicare al cliente l’abbassamento del rating del titolo che induca a ritenere sopravvenuto un rischio di default dell’emittente. In senso analogo si è espressa la Corte d’Appello di Milano la quale, premesso che “se il fine della normativa è quello di correggere, a tutela del risparmio e del mercato, le asimmetrie informative che ordinariamente gravano sui risparmiatori/investitori”, ne discende che il declassamento del rating dei titoli, successivo al loro acquisto, “inserendosi con valenza sicuramente negativa nell’operazione di investimento e, in particolare, costituendo una rilevante modifica dei dati posti a base dell’originaria percezione delle caratteristiche dello stesso, doveva essere portata a conoscenza dei clienti/investitori per ogni eventuale determinazione che gli stessi avessero ritenuto di adottare”34.

4. Le soluzioni proposte nella recente giurisprudenza di legittimità.

La Suprema Corte ha recentemente affermato, in relazione ad un giudizio in cui gli attori avevano domandato che fosse pronunciata la risoluzione degli ordini di acquisto di titoli mobiliari, che la loro domanda “ancorché formalmente indirizzata all’ordine di acquisto, … doveva nella specie correttamente ritenersi rivolta - in esito alla doverosa interpretazione della volontà sostanziale delle parti demandata al giudice di merito … al contratto-quadro, in quanto (unica) fonte obbligatoria di natura negoziale della fattispecie. La volontà degli investitori era univocamente finalizzata ad ottenere il pagamento da parte della banca di una somma (a titolo restitutorio e risarcitorio) per effetto del venir meno (per nullità, annullabilità o risoluzione per grave inadempimento) del vincolo contrattuale intercorrente tra le parti; pacificamente individuabile appunto nel contratto – quadro e non nell’ordine di acquisto che ha, effettivamente, solo natura puramente esecutiva del mandato sotteso al contratto-quadro medesimo. Proprio quest’ultimo elemento (individuazione del contrattoquadro quale unica fonte di natura negoziale del rapporto) viene riconosciuto anche dalla banca ricorrente (ric. pag. 25), e deve fungere da criterio-guida nella interpretazione della volontà della parte; convogliando la domanda attorea di risoluzione sull’unico oggetto giuridico con essa compatibile, vale a dire – appunto – il contratto quadro”35. Altro orientamento reputa che possa invece dichiararsi la risoluzione degli ordini di ac-

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Tribunale Prato, sent. 4.11.2011, in Foro it., 2012, I, 263. Corte d’Appello di Milano, sent. 16.2.2009, n. 452, edita on-line sul sito ilcaso.it. 35 Cass. sez. III, sent. 12.12.2014, n. 26159, Ced Cass. Rv. 633524, la decisione è accessibile in formato integrale nell’archivio della Suprema Corte. 34

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quisto. La Suprema Corte, infatti, premesso che “l’adempimento di un obbligo informativo in un settore negoziale ad alto contenuto tecnico quale quello dell’intermediazione finanziaria (o nelle prestazioni medico-sanitarie), non può mai essere dimostrato mediante la sottoscrizione di dichiarazioni generiche, unilateralmente predeterminate e predisposte in via generale e modulare, essendo necessaria l’allegazione e la prova del contenuto e delle concrete modalità di trasmissione e conoscenza delle informazioni relative alla specifica operazione proposta. Esclusa l’applicabilità dell’art. 2735 cod. civ.” alla clausola mediante la quale la parte dichiari: “Si dà atto che mi avete fornito le informazioni necessarie e sufficienti ai fini di una completa valutazione del grado di rischiosità”, ha proseguito il Giudice di legittimità, “deve osservarsi che la sentenza impugnata ha riferito, con argomentazione non contestata sul punto, che nessun altro elemento di prova, ad integrazione del modulo d’acquisto, è stata fornita dall’istituto bancario al fine di dimostrare l’adempimento all’obbligo informativo su di essa incombente. Correttamente, pertanto, il giudice d’appello, ha fatto conseguire da tale inadempimento la risoluzione dei contratti d’acquisto”36. La tesi che l’ordine di acquisto di valori mobiliari, cui evidentemente si riconosce natura negoziale, possa essere autonomo oggetto della pronuncia di risoluzione a causa della violazione dei propri obblighi di informazione da parte dell’intermediario è stata riproposta dalla prima sezione della Suprema Corte anche nei tempi più recenti. La massima ufficiale della sentenza n. 8394 del 2016, ad esempio, recita: “Le operazioni di investimento in valori mobiliari37, in quanto contratti autonomi esecutivi del contratto quadro originariamente stipulato dall’investitore con l’intermediario, possono essere oggetto di risoluzione, ricorrendone i presupposti, indipendentemente dalla risoluzione di quest’ultimo, con conseguente diritto alla restituzione dell’importo pagato ed all’eventuale risarcimento dei danni subiti, senza che la risoluzione del singolo contratto esecutivo integri una risoluzione parziale del contratto quadro”38. Ora, una volta attribuita natura negoziale39 all’ordine di acquisto di valori mobiliari, appare evidente che l’eventuale inadempimento di questo contratto può comportarne la pronuncia di risoluzione. Tuttavia, ed è qui il problema, analizzando la decisione della Suprema Corte si evidenzia che la risoluzione è stata pronunciata per la “violazione di obblighi informativi” verificatasi in epoca antecedente la stipula del negozio. Infatti, scrive la Corte di legittimità, che “l’intermediario ha l’obbligo di fornire all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione, la cui conoscenza risulta essere necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento … l’adeguatezza dell’informazione” preventiva “risulta il presupposto indefettibile della legittimità dell’esecuzione dell’ordine da parte dell’intermediario, perché solo a fronte di un’adeguata informazione può ritenersi che il cliente

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Cass. sez. I, sent. 11.5.2012, n. 11412, in motivazione. In questo caso il contratto di investimento in valori mobiliari, si legge nella decisione, aveva ad oggetto “obbligazioni di Buenos Aires 2004”. 38 Cass. Sez. I, sent. 27.4.2016, n. 8394, Ced Cass. Rv. 639562. La decisione è reperibile in formato integrale nell’archivio della Suprema Corte. 39 Per l’esattezza, la Suprema Corte riconosce all’ordine d’acquisto, in questa decisione, la natura di contratto a prestazioni corrispettive, tesi che sembra da condividersi, come si evidenzierà nel prosieguo e, in particolare, nel paragrafo 6. 37

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abbia consapevolmente individuato, in relazione alle proprie esigenze, lo strumento nel quale investire, assumendosene l’alea”40. Pertanto, secondo l’attuale giurisprudenza di legittimità, è possibile dichiarare la risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive a causa della condotta tenuta da una delle parti prima che il negozio fosse stipulato, quindi in fase precontrattuale. Questa conclusione suscita delle perplessità.

5. Le analisi della dottrina. Attenta dottrina, proponendo un confronto tra le ricordate decisioni n. 19024 del 2005 adottata dalla prima sezione della Cassazione, e la sentenza delle Sezioni Unite n. 26724 del 2007, ha segnalato che nella prima pronuncia “il contratto quadro sarebbe … un contratto normativo e le operazioni di investimento sarebbero contratti ad esso collegati”, mentre nella successiva decisione delle Sezioni Unite “le operazioni di investimento, pur potendo avere natura negoziale, vanno qualificate come atti esecutivi del regolamento posto dal contratto di intermediazione, il c.d. contratto quadro, al quale viene riconosciuta una struttura per certi aspetti simile a quella del mandato. Tale qualificazione, pur essendo di grande rilievo rispetto alla decisione, non viene argomentata e viene data per pacifica”41. Anche per tale ragione, secondo questo Autore, la decisione delle Sezioni Unite appare “non sempre convincente sotto il profilo della motivazione”. A seguito della pronuncia delle Sezioni Unite, comunque “resta aperta, in quanto non sollevata nella controversia e pertanto non trattata, la questione attinente alle conseguenze che l’eventuale risoluzione del contratto di intermediazione finanziaria comporta sulle singole operazioni di investimento: la peculiare struttura del mandato, al quale il contratto di intermediazione può per questo aspetto essere assimilato, suggerisce l’idea di tenere distinta la sorte del contratto di intermediazione finanziaria da quella delle singole operazioni di investimento”42. La dottrina in esame sottolinea inoltre che pur avendo le Sezioni Unite, con la sentenza n. 26724 del 2007, “ammesso il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale anche nel caso in cui il contratto sia stato già concluso e manchino i presupposti per l’annullamento o altra causa di caducazione: tale soluzione, essendo riferita solo alla fase delle trattative e della conclusione del contratto quadro, non può rilevare nel caso di violazione degli obblighi funzionali alle operazioni di investimento, ma si applica, secondo la sentenza de qua, soltanto alla violazione dei doveri dell’intermediario di fornire il documento informativo generale e di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del cliente. Poiché nella controversia non era in discussione la violazione di tali doveri, si

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Cass. Sez. I, sent. 27.4.2016, n. 8394 … cit., nel testo. Salanitro, nota a Cass. S.U. sent. n. 26724 del 19.12.2007, in Nuova giur. civ. comm., I, 2008, 447. 42 Salanitro, nota a Cass. S.U. sent. n. 26724 del 19.12.2007 … cit., 448. 41

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può considerare l’affermazione una sorta di obiter dictum”43. In dottrina è stata, anche autorevolmente, sostenuta pure la tesi che in materia di intermediazione finanziaria il contratto è uno solo, il “contratto di negoziazione”, mentre i singoli ordini d’acquisto si pongono quali atti esecutivi. E’ questo l’inquadramento sistematico proposto da Francesco Galgano44, il quale afferma che mediante la stipula del contratto di negoziazione “la banca, quale mandatario, si obbliga ad eseguire le istruzioni del cliente, suo mandante, acquistando o vendendo a seconda degli ordini ad essa impartiti. Si tratta, in particolare, di mandato senza rappresentanza: la banca acquista per ordine del cliente, ma in nome proprio (art. 1705), a ciò autorizzata dal cliente; ed è tenuta a ritrasferire al cliente gli strumenti finanziari acquistati … l’eventuale rifiuto dell’intermediario di eseguire l’ordine ricevuto deve essere prontamente comunicato all’investitore, ma è da ritenersi legittimo solo se l’ordine … risulti avere ad oggetto investimenti non adeguati … oppure se l’ordine verta su operazioni in relazione alle quali l’intermediario versi in una situazione di conflitto d’interessi”45. Secondo il chiaro autore è pertanto “fuorviante la costruzione elaborata dalla dottrina del cosiddetto ‘contratto quadro’, secondo la quale i singoli ordini dell’investitore all’intermediario darebbero luogo ad altrettanti contratti di investimento, preceduti da un asserito e non meglio qualificato, “contratto quadro” … non c’è, tra cliente ed intermediario, che un solo contratto, seguito dalle relative operazioni che gli danno esecuzione … si è … con certezza in presenza di un atto di natura negoziale: in particolare di un atto unilaterale di volontà, qual è l’istruzione che, a norma dell’art. 1711, comma 2°, il mandante impartisce al mandatario … la verità è che l’ordine alla banca è un atto unilaterale esecutivo del mandato, non già una proposta contrattuale … la banca, a sua volta, nell’acquistare sul mercato i titoli di cui all’ordine del cliente, pone in essere una prestazione esecutiva che vale come adempimento del contratto di negoziazione … si tratta insomma della ben nota categoria dei cd. ‘negozi di attuazione’”46.

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Salanitro, nota a Cass. S.U. sent. n. 26724 del 19.12.2007 … cit., ibidem, Si è riportata l’affermazione perché riguarda uno dei maggiori problemi della presente analisi, come si cercherà di evidenziare nelle conclusioni. Se le “operazioni di investimento” possono essere correttamente inquadrate quali contratti a prestazioni corrispettive, infatti, la violazione degli obblighi di informazione da parte dell’intermediario finanziario, nella fase successiva alla stipula del contratto quadro ma prima che il singolo contratto di investimento sia stipulato, sembra importare un inadempimento contrattuale rispetto al contratto quadro (già concluso), e se riveste il carattere della gravità può comportarne la risoluzione (se del caso parziale, oltre ad ingenerare l’eventuale obbligo di risarcire il danno). In riferimento al singolo contratto di investimento, però, che non era ancora stato stipulato quando la violazione dei suoi obblighi da parte della banca si è verificata, la mancanza dell’intermediario sembra poter comportare solo una responsabilità precontrattuale, e pertanto sembra corretto ritenere che non potrebbe essere causa della risoluzione del contratto di investimento. 44 Nel prosieguo si è preferito riassumere le affermazioni del chiaro Autore tratte da un saggio successivo alla più volte ricordata pronuncia delle Sezioni Unite, sent. n. 26724 del 2007. Merita tuttavia di essere segnalato che la tesi secondo cui il contratto di intermediazione riproduce lo schema del mandato, l’ordine del cliente sarebbe un atto unilaterale esecutivo del(l’ unico contratto di) mandato (senza rappresentanza) e, qualora la banca possegga già nel proprio portafoglio i titoli ordinati dal cliente, si configurerebbe un contratto con sé stesso, assoggettato alla disciplina di cui all’art. 1395 cod. civ., era già stata esposta dallo stesso A. prima che le Sezioni Unite si pronunciassero, cfr. Galgano, I contratti di investimento e gli ordini dell’ investitore all’intermediario, in Contratto e impresa, 2005, 890 ss. Ancor prima, cfr. anche Di Zitti, Ordine di borsa e commissione, in Riv. dir. comm., 1998, 163. 45 Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle sezioni unite della Cassazione, in Contratto e Impresa, 1/2008, 2 ss. 46 Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria … cit., 4. L’A. ritiene che questa sia la costruzione teorica adottata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26724 del 19.12.2007. Una attenta lettura della decisione delle Sezioni Unite rivela però che l’adesione alle tesi esposte risulta parziale. Sia sufficiente osservare, per proporre solo alcuni esempi, che le Sezioni Unite parlano di una

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Questa elegante costruzione giuridica suscita però qualche perplessità. Non appare agevole, ad esempio, posto che la banca acquista in nome proprio e ritrasferisce poi i titoli mobiliari acquistati all’investitore47, affermare che gli effetti di una operazione negoziale complessa, di cui sono parte un mandato ed anche una (duplice) compravendita, possano realizzarsi senza che tra le parti intervenga (neppure la stipula di) un contratto. E’ stata anche proposta, in dottrina, un’articolata ricostruzione della vicenda dell’intermediazione finanziaria, secondo cui la procedura si articolerebbe in tre fasi. Il rapporto negoziale avrebbe inizio con la stipula del contratto quadro, preceduto dalle informazioni che l’intermediario deve fornire in generale in materia di investimento in titoli mobiliari e da quelle che deve invece acquisire dal cliente per delinearne gli obiettivi d’investimento. La seconda fase sarebbe invece rappresentata dall’adempimento degli obblighi assunti dall’intermediario con la stipula del contratto quadro, che gli richiede di fornire all’investitore un’informazione sufficientemente completa riguardo a titoli determinati, tale da consentire al cliente di formarsi una volontà di acquisto informata. La terza fase dovrebbe poi identificarsi in quella di esecuzione dell’ordine d’acquisto, in cui gli obblighi principali che gravano sulle parti sono, per l’investitore, quello di assicurare la provvista, e per l’intermediario quello di diligente esecuzione. In questa ricostruzione lo “schema” del contratto di mandato sarebbe senz’altro insufficiente a qualificare l’operazione economica complessa pattuita tra le parti, perché trascurerebbe di attribuire il giusto rilievo proprio all’obbligo di informare gravante sull’intermediario. In conseguenza si preferisce costruire l’operazione come un negozio complesso e la seconda fase, quella in cui l’intermediario fornisce dettagliate informazioni relative a titoli mobiliari determinati che l’investitore potrebbe acquistare, si risolverebbe in un tipico contratto d’opera intellettuale48. In questa ricostruzione dello schema negoziale l’ordine d’acquisto dei titoli mobiliari risulterebbe annullabile qualora l’investitore fosse in grado di dimostrare che, ove gli fosse stata fornita una corretta informazione, avrebbe compiuto una scelta d’investimento diversa, e pertanto che il suo consenso è risultato viziato. Ne discende che la violazione dell’obbligo comportamentale di fornire al cliente una corretta informazione sui prodotti d’investimento integrerebbe l’inadempimento del contratto di prestazione intellettuale da parte dell’intermediario, ed ingenererebbe un “vizio della volontà del cliente nel consequenziale contratto di mandato ad acquistare lo strumento finanziario prescelto in conseguenza della disinformazione imputabile”49 all’intermediario50.

similitudine tra il contratto quadro ed il mandato, ma non affermano che il contratto quadro sia un mandato. Ancora, le Sezioni Unite lasciano invero aperto il problema di definire la natura giuridica degli ordini d’investimento, che affermano poter avere natura negoziale, ma non chiariscono quale, oppure non negoziale, e neppure in questo caso chiariscono questa natura non negoziale in che cosa possa consistere. 47 Di regola, ma non cambia molto se l’intermediario vende al cliente titoli mobiliari che detiene nel proprio portafoglio, in questo caso la compravendita è una sola. 48 Sembra potersi così riassumere lo schema negoziale ipotizzato da Gentili, Inadempimento dell’intermediario e vizi genetici dei contratti di investimento, in Riv. dir. priv., 2009, in part. 33 ss. 49 Gentili, Inadempimento dell’intermediario e vizi genetici …. cit., 46. 50 Anche la ricostruzione “tripartita” dello schema negoziale, che pone al centro della vicenda la prestazione d’opera intellettuale che l’intermediario deve rendere al cliente, ha trovato alcuni echi nella giurisprudenza di merito, cfr., ad es., Tribunale Taranto, sent.

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Una ricostruzione alternativa degli istituti, che presenta uno schema più semplice, prende poi le mosse dall’affermare che il contratto di intermediazione finanziaria deve essere qualificato come un contratto normativo, volto cioè a predeterminare i contenuti di future operazioni contrattuali di investimento51. Più complesso risulta comunque definire la natura degli ordini d’investimento, fermo restando che gli stessi si risolverebbero comunque in veri e propri contratti. Si è in proposito affermato, ad esempio, che l’ordine di investimento ha la natura di “un contratto I) di compravendita, in ipotesi di negoziazione in partita diretta; II) di mandato, nel caso di acquisto sul mercato dei titoli prescelti dal cliente; III) atipico, avente carattere speculativo ed aleatorio da considerarsi sottoposto, in assenza di una normativa organica e compiuta, alla disciplina esistente in materia di usi vigenti sui mercati regolamentati”52. Una soluzione che rivela (almeno ma, sembra, non solo) il pregio della linearità è stata poi proposta da più recente dottrina, la quale ha ritenuto che gli ordini d’acquisto, lungi dal rappresentare istruzioni per l’esecuzione di un diverso contratto, si risolvono in veri e propri “negozi giuridici” che si perfezionano secondo lo schema di cui all’art. 1327 cod. civ. Secondo questa ricostruzione, pertanto, la proposta del cliente è seguita dall’accettazione dell’intermediario53, prestatore dei servizi di investimento, mediante comportamento concludente54. Si è pure sottolineato, evidenziando una ritenuta criticità della ricostruzione proposta dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26724 del 2007, come “il fatto che i singoli acquisti siano programmati genericamente nel contratto quadro non toglie affatto l’importanza determinante che ha la scelta negoziale fatta al momento dei singoli acquisti ai fini degli scopi dell’investitore. Non sono perciò affatto uno scontato momento esecutivo, ma un essenziale ‘momento decisionale’”55. Secondo questa impostazione il momento essenziale, nell’investimento in titoli mobiliari, non consiste nella stipulazione del contratto quadro, meramente

27.10.2004, in Giur. comm., 2004, II, 511, secondo il quale “la posizione della banca e dei suoi dipendenti appare del tutto simile a quella di qualsivoglia altro professionista (medico, avvocato, notaio), che, ricevuto un incarico per la soluzione di un determinato caso sottoposto al suo vaglio, non fornisca al richiedente quelle informazioni grazie alle quali lo stesso può operare una scelta consapevole”. Per ulteriori riferimenti circa la giurisprudenza di merito che ha fatto proprio questo schema ricostruttivo, e taluni rilievi critici, cfr. Lucchini Guastalla, In tema di responsabilità degli intermediari finanziari … cit., 748 ss. 51 In tal senso, cfr. Inzitari, Piccinini., La tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari, Padova, 2008, 13 ss., e Luminoso, Contratti di investimento, mala gestio dell’intermediario e rimedi esperibili dal risparmiatore, in Resp. civ. prev., 2007, 1426. Dellacasa, Collocamento di prodotti finanziari e regole di informazione: la scelta del rimedio applicabile, in Danno e resp., 2005, 1242, ha invece affermato che il contratto di negoziazione può essere ricondotto al genus del contratti di cooperazione ad effetti obbligatori. In questa prospettiva l’intermediario si impegna a mettere la propria preparazione professionale a disposizione del cliente, al fine di consentirgli l’adozione di consapevoli scelte d’investimento. 52 Bencini, Commento a Corte d’Appello di Firenze, sent. 23 maggio 2012, edito in Corr. merito, 11/2012, 1012. Cfr., anche, Marianello, Contratti di borsa e responsabilità dell’intermediario finanziario, in Obbl. e contr., 2006, 924. 53 Si osservi come appaia difficilmente contestabile che, pure in sede di ricezione di un ordine d’acquisto, la condizione dell’intermediario mobiliare non è quella di un mero esecutore di istruzioni. Ad esempio, alla richiesta di investimento del cliente deve sempre corrispondere una valutazione propria da parte dell’intermediario, che è chiamato a verificare se l’ordine di acquisto possa considerarsi “adeguato” in considerazione del profilo speculativo dell’investitore, ed ove l’intermediario ritenga la richiesta non adeguata deve negare l’esecuzione dell’ordine con propria manifestazione di volontà. Per una specifica segnalazione degli ulteriori obblighi gravanti sull’intermediario che riceve un ordine di acquisto di titoli mobiliari, cfr. Bencini, Commento a Corte d’Appello di Firenze, sent. 23 maggio 2012 … cit., 1015. 54 Iudica, La responsabilità degli intermediari finanziari, Giuffré, Milano, 2011, 8 ss. 55 Gentili, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, ne I Contratti, 2008, 398.

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preparatorio. I reali interessi dell’investitore entrano invece in gioco in occasione dei successivi acquisti dei titoli56. Affermato che ad incidere sull’interesse reale dell’investitore è il contratto di negoziazione dei titoli mobiliari e non la stipulazione del contratto quadro, contratto normativo destinato a disciplinare futuri rapporti tra le parti soltanto eventuali, parte della dottrina ha sostenuto che, in caso di grave inadempimento dell’intermediario finanziario nel fornire le informazioni dovute al suo cliente/investitore, possa ben dichiararsi la risoluzione dei singoli contratti di investimento57. A questa impostazione ha però proposto una critica meritevole di attenzione autorevole dottrina. E’ stato infatti sottolineato che l’adempimento degli ordini di acquisto di valori mobiliari ingenera nell’intermediario obblighi traslativi, non obblighi informativi, perché questi ultimi si pongono, rispetto agli ordini d’acquisto, come oneri gravanti sull’intermediario in fase precontrattuale58. Agli obblighi di informazione, infatti, deve assolversi prima che l’ordine di investimento sia impartito, proprio perché sono funzionali alla corretta conclusione del contratto di negoziazione, e non può essere risolto un contratto per violazione di obblighi che non nascono dal contratto stesso. Il grave inadempimento del contratto di negoziazione che può dar luogo alla risoluzione dello stesso può verificarsi, ad esempio, in relazione alla omessa o imperfetta esecuzione dell’acquisto richiesto, alla violazione dell’obbligo di attribuire i titoli, o il risultato monetario dell’operazione di acquisto o di vendita al cliente59. La violazione di regole che interviene ancor prima che l’ordine sia stato impartito, però, non può fondare una risoluzione del contratto di negoziazione per inadempimento60. In definitiva, si è osservato, “la carenza di informazioni si colloca in un momento precedente alla formazione della volontà contrattuale dell’investitore circa la desiderata operazione di investimento, soccorrono a sua tutela non già il rimedio della risoluzione per inadempimento ma altri istituti quali, a seconda dei casi, l’annullamento per errore, violenza, dolo, la responsabilità ex art. 1337 c.c., o la tutela risarcitoria da responsabilità contrattuale per essere stati violati gli obblighi nascenti dal contratto quadro perfezionato tra le parti ‘a monte’”61. Una costatazione appare comunque meritevole di essere ribadita: le Sezioni Unite con la decisione n. 26724 del 2007 non affrontano il problema della possibilità di dichiarare la risoluzione dei singoli ordini di acquisto di titoli mobiliari indirizzati dall’investitore all’intermediario62.

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Cfr. Gentili, Disinformazione e invalidità … cit., ibidem. L’A. osserva pure che nella considerazione del complessivo interesse negoziale delle parti, la ipervalutazione del contratto quadro rispetto ai contratti di negoziazione rischia di condurre a “scambiare l’accidentale per la sostanza”. 57 Cfr. Greco, Informazione pre-contrattuale e rimedi nella disciplina dell’intermediazione finanziaria, Milano, 2010, 28. 58 Roppo, La tutela del risparmiatore tra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond & tango bond), in Danno resp., 2005, 608. 59 In tal senso, cfr. Bencini, Commento a Corte d’Appello di Firenze, sent. 23 maggio 2012 … cit., 1014. 60 Maggiolo, Servizi ed attività d’investimento, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, 2012, 500. L’A. sottopone a ferma critica la giurisprudenza che prospetta come possibile la risoluzione per inadempimento degli ordini d’acquisto di valori mobiliari per violazione degli obblighi informativi da parte dell’intermediario. La dottrina in esame sottolinea come la considerazione che i singoli ordini di investimento consistono in un momento di attuazione dell’accordo quadro “non può far revocare in dubbio la loro natura negoziale”, 485. 61 Bencini, Commento a Corte d’Appello di Firenze, sent. 23 maggio 2012 … cit., 1015. 62 Scrive in proposito Bencini, Commento a Corte d’Appello di Firenze, sent. 23 maggio 2012 … cit., 1013, che in relazione al “profilo

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6. Qualche spunto di riflessione. La sentenza n. 26724 del 2007 delle Sezioni Unite, fondamentale perché è riuscita a riportare ordine nella materia ponendo anche taluni punti fermi, focalizza l’attenzione sulla violazione di obblighi comportamentali d’informazione che gravano sull’intermediario in relazione alla stipula del contratto quadro. Se le violazioni precedono la conclusione del contratto di intermediazione finanziaria, le stesse possono integrare una responsabilità precontrattuale dell’intermediario, che importa l’obbligo di risarcire il danno. Se le violazioni comportamentali si verificano successivamente alla stipula del contratto quadro, esse si risolvono in inadempimenti contrattuali, e possono comportare (oltre l’eventuale obbligo di risarcire il danno) anche la risoluzione del contratto di intermediazione finanziaria. Questa affermazione sembra poter essere considerata un dato acquisito63. Il problema che si pone con maggiore frequenza nei procedimenti (ancora) pendenti innanzi alla Suprema Corte, però, sembra attenere alle conseguenze che sortisce la violazione degli obblighi comportamentali, da parte dell’intermediario, nella fase successiva alla stipula del contratto di intermediazione ma precedente le singole operazioni di investimento ed in relazione proprio a queste ultime. Per quanto in dottrina si sia talora cercato di distinguere i due istituti, la Suprema Corte appare tradizionalmente ferma nel ritenere che le espressioni: “contratto quadro” e “contratto normativo” siano equipollenti64. In conseguenza può utilizzarsi, in materia di contratto quadro, tutta l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria relativa al contratto normativo. Tanto premesso, se si concorda con l’esattezza della tesi preferita tra quelle precedentemente esposte, le “operazioni di investimento” possono a loro volta essere correttamente inquadrate quali contratti a prestazioni corrispettive. I negozi esecutivi, si osservi, impongono obblighi di prestazione all’intermediario, es.: valutazione dell’adeguatezza dell’investimento, fornitura della c.d. consulenza incidentale, trasferimento dei titoli mobiliari acquistati, ma anche all’investitore, che deve fornire la provvista e corrispondere all’intermediario una commissione. Sem-

del rimedio della risoluzione per inadempimento, le Sezioni Unite non hanno qualificato con precisione la natura del contratto di intermediazione e quella degli ordini d’acquisto e/o vendita di strumenti finanziari, limitandosi ad individuare il tipo di responsabilità in cui potrebbe incorrere l’intermediario finanziario nello svolgimento dell’attività richiestagli”. 63 Sebbene, come di consueto, anche questa parte della ricostruzione degli istituti proposta dalla Suprema Corte, pur molto chiara, non abbia convinto tutti in dottrina, cfr. in proposito, ad es., Guadagno, Violazione degli obblighi di condotta da parte dell’intermediario finanziario: lo stato dell’arte dopo le Sezioni Unite, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 293 ss., anche per riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. Nella giurisprudenza di merito, ad esempio, si è ritenuto di poter affermare che la responsabilità dell’intermediario per la violazione dei doveri di informazione, e la conseguente obbligazione di risarcire il danno, può assumere soltanto la forma della responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c., anche quando la violazione sia avvenuta dopo la stipulazione del contratto quadro e prima della conclusione dei negozi esecutivi, cfr. Tribunale Udine, sent. 5.3.2010, edita in Corr. merito, 2010, 721, con nota di Sangiovanni, Inadempimento contrattuale e responsabilità … cit. 64 In tal senso cfr. Cass. sez. I, sent. 7.9.2001, n. 11495, in Foro it., I, 2003, 612, con nota di Catalano, Ancora sugli strumenti finanziari derivati, tra forma dei contratti ed ingiustificato arricchimento. Nella decisione si legge che già l’art. 6, lett. c) della legge n. 1 del 1991 richiedeva “la forma scritta solo per i contratti che disciplinano i servizi di intermediazione mobiliare tra le SIM ed i loro clienti … cioè i contratti quadro o normativi”. In senso conforme, ed ancora in materia di intermediazione mobiliare, cfr. Cass. sez. I, sent. 9.1.2004, n. 111, e la già ricordata Cass. sez. I, sent. 29.9.2005, n. 19024, locc. cit. Nello stesso senso, anche se in ambito diverso, cfr. anche Cass. sez. I, sent. 19.2.2010, n. 3990.

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bra allora corretto ritenere che tra il contratto quadro, stipulato tra le parti al fine di disciplinare i loro futuri rapporti, ed i singoli contratti di investimento, sussista un collegamento negoziale, come avviene in tutti i casi in cui l’accordo tra le parti prevede un contratto normativo ed un certo numero, determinato o indeterminato, di (eventuali) contratti esecutivi. La violazione degli obblighi di informazione da parte dell’intermediario finanziario, nella fase successiva al perfezionamento del contratto quadro ma prima che il singolo contratto di investimento sia stipulato, sembra allora importare un inadempimento contrattuale del contratto quadro (già concluso), e se riveste il carattere della gravità può comportarne la risoluzione (oltre all’eventuale risarcimento del danno). In riferimento al singolo contratto di investimento, però, che non era ancora stato stipulato quando la violazione dei suoi obblighi da parte della banca si è verificata, la violazione dei propri doveri di condotta da parte dell’intermediario sembra poter comportare solo una responsabilità precontrattuale, e pertanto sembra corretto ritenere che non potrebbe comportare la risoluzione del contratto di investimento65. Anche gli ordini d’acquisto, veri contratti, potranno però essere risolti in conseguenza di inadempimenti successivi alla stipula del negozio. Si pensi all’ipotesi che l’intermediario abbia acquistato per conto del cliente un titolo mobiliare diverso da quello richiesto dall’investitore66. In una simile ipotesi sembra possa ritenersi integrato dalla condotta dell’intermediario un inadempimento contrattuale che, se ritenuto grave, potrà avere quale conseguenza la risoluzione del contratto di negoziazione, ed eventualmente la condotta dell’intermediario potrà anche importare l’obbligo di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale. Ai precipui fini della presente analisi, peraltro, ciò che rimane più specificamente da valutare è se risulti corretto ipotizzare la possibilità di dichiarare la risoluzione dei contratti di negoziazione (non per un qualsiasi accidente del negozio, bensì) per un vizio di informazione che intervenga in una fase successiva alla stipula dell’accordo67. La risposta sembra debba essere necessariamente positiva in quelle ipotesi particolari in cui è la stessa disciplina normativa (warrant, strumenti finanziari derivati) a prevedere espressamente un obbligo di informazione

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Fermo restando che la violazione degli obblighi di informazione, anche in questo caso, può comunque comportare l’insorgenza per l’intermediario dell’obbligo di risarcire il danno. 66 Naturalmente i casi che possono verificarsi sono molteplici e diversificati. Ad esempio può accadere che l’intermediario, per propria negligenza, lasci scadere il termine entro cui poter dare esecuzione all’ordine del cliente di acquistare una obbligazione di Stato a breve termine. L’intermediario potrà evidentemente tentare di correggere il proprio errore acquistando il titolo all’asta successiva, ma se le condizioni di acquisto sono peggiorate dovrà risarcire il cliente del danno arrecato, ed anche corrispondergli la differenza dell’interesse maturato sulle somme rimaste in giacenza sul conto corrente e quello che avrebbe conseguito quale rimunerazione del titolo di Stato. In questo caso l’inadempimento potrebbe rivelarsi non grave, e non giustificare la risoluzione. Se però il titolo acquistato è proprio diverso rispetto a quello concordato con il cliente, gli estremi perché sia pronunciata la risoluzione del contratto potranno facilmente ricorrere. 67 Anche la dottrina più recente osserva come sia “discusso … se l’intermediario debba svolgere attività di consulenza … soltanto in una fase precedente l’acquisto dei titoli ovvero se tale obbligo permanga per tutta la durata dell’investimento medesimo, con la conseguente insorgenza di un obbligo di gestione dell’investimento a carico dell’intermediario medesimo. Di recente, la Cassazione ha ritenuto che l’obbligo dell’intermediario finanziario in generale sia di curare al meglio gli interessi del cliente. Questo dovere sembrerebbe riguardare tanto la fase anteriore alla conclusione del contratto di intermediazione finanziaria quanto la fase successiva all’acquisizione dei titoli obbligazionari fino al rimborso del loro valore all’investitore”, Zito, Doveri informativi nella prestazione di servizi finanziari: l’intermediario non è responsabile per ciò che non era prevedibile, in Resp. civ. prev., 1/2015, 244. L’A. dopo ampia analisi, conclude che “potrebbe configurarsi a carico degli intermediari finanziari un vero e proprio obbligo di salvaguardia degli interessi dei propri clienti, a prescindere dalle modalità con cui questi li abbiano resi noti al momento della sottoscrizione del c.d. contratto-quadro e, forse … anche dall’esistenza di un apposito accordo di gestione/consulenza tra le parti”.

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nel corso del rapporto a carico dell’intermediario, al ricorrere di determinate circostanze68. Deve però anche evidenziarsi ancora che lo stesso art. 21 del D.Lgs. n. 58 del 1998, alla lettera b) prevede espressamente che l’intermediario debba sempre fornire specifiche informazioni sull’investimento al cliente, e potrebbe apparire (ingiustificatamente ?) restrittivo ritenere che l’avverbio “sempre” debba considerarsi riferito solo alla fase che precede la stipula del contratto di negoziazione69. Merita al proposito di essere segnalato che in numerosi giudizi pendenti innanzi la Suprema Corte è contestato che l’intermediario, con riferimento ai contratti di negoziazione relativi agli acquisti di obbligazioni argentine agli inizi del nuovo millennio, ad esempio, ha taciuto ai propri clienti il peggioramento dal rating del titolo, il default dello Stato argentino, la stessa possibilità di accedere ad un accordo di pagamento parziale del controvalore dei titoli. Sembra potrebbe allora affermarsi che nel caso di investimento in warrant e strumenti finanziari derivati sia stato lo stesso legislatore ad indicare il livello di perdita di valore del titolo oltre il quale, ove non provveda ad informarne il cliente, l’intermediario deve considerarsi inadempiente, mentre in riferimento a qualsiasi altro contratto di negoziazione, il livello di perdita di valore al di là del quale il difetto di informazione deve considerarsi rilevante dovrà essere individuato dal giudice70, dovendo sempre l’intermediario fornire all’investitore informazioni adeguate. Resta fermo, comunque, risoluzione o non risoluzione, che all’acquirente di titoli mobiliari cui non siano state fornite informazioni doverose potrà competere il diritto al risarcimento del danno, sia in relazione al contratto quadro, sia in relazione ai singoli contratti di investimento.

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L’art. 28, comma 3, Reg. Consob n. 11522 del 1998 dispone infatti: “Gli intermediari autorizzati informano prontamente e per iscritto l’investitore appena le operazioni in strumenti derivati e in warrant da lui disposte per finalità diverse da quelle di copertura abbiano generato una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni”. Nel caso in cui intercorra, tra l’intermediario e l’investitore, un contratto di gestione del patrimonio, invece, l’obbligo informativo è previsto dalla legge a carico dell’intermediario qualora le perdite raggiungano il 30%, ai sensi dell’art. 28, comma 4, Reg. Consob n. 15522 del 1998. 69 Inzitari, Piccinini, La tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari … cit., 63, scrivono che “la necessaria adeguatezza dell’informazione” che deve essere fornita dall’intermediario all’investitore, “affiancata dall’avverbio ‘sempre’ lasciano pensare che gli obblighi informativi non possano ritenersi conclusi con l’esaurirsi del momento della negoziazione”. 70 Non si tratterebbe, invero, di un caso isolato. Si è osservato in dottrina che nella vigenza del citato Reg. Consob n. 11522 del 1998, poi sostituito dal Reg. Consob n. 16190 del 2007, per stabilire quali operazioni finanziarie dovessero ritenersi inadeguate in considerazione del profilo speculativo dell’investitore, “mancavano criteri precisi nella legge e nel regolamento, per cui la valutazione del quantum dimensionale che fa scattare l’inadeguatezza era lasciata all’autorità giudiziaria che affrontava il singolo caso”, scrive Sangiovanni, Informazione, adeguatezza e rimedi nelle operazioni di investimento, in Obbligazioni e contratti, 11/2012, 761. L’A. osserva pure che “nelle sentenze nn. 26724 e 26725/2007 la Corte di Cassazione”, pronunciando a Sezioni Unite, “si riferisce … ai doveri d’informazione, e non alle altre norme di comportamento degli intermediari finanziari. Vi è allora da chiedersi se (non tanto l’inosservanza degli obblighi informativi, quanto piuttosto, più radicalmente) il compimento di operazioni inadeguate non debba portare alla nullità, invece che al risarcimento del danno ed alla risoluzione del contratto”, nonostante l’ampio margine di discrezionalità lasciato al giudice nel valutare l’adeguatezza dell’operazione, “nullo è tuttavia il singolo ordine, non il contratto quadro”, 763 ss., conclude l’Autore sul punto.

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Corte suprema, precedente e rottamazione dei ricorsi (Intervento al Convegno “I precedenti”, Roma Accademia dei Lincei, 6 luglio 2017) L’importanza fondamentale che, anche ai fini dell’ammissibilità del ricorso, ha assunto il “precedente” con la recente riforma del giudizio di cassazione è incompatibile con l’affidamento alla sesta sezione - la cui “mission” è, in primo luogo, la “rottamazione” dei ricorsi - della individuazione dei precedenti e della loro evoluzione. The basic importance that the recent reform of the procedure before the Supreme Court has given to the “precedent” clashs whit the main “mission” - the “scrapping” of the petitions - of the Court Division charged with his identifying and evolution.

Dagli interventi che hanno preceduto il mio – ed in particolare da quelli di Claudio Consolo e di Andrea Di Porto – emerge che per l’avvocato è “precedente” quello che può indurre il giudice ad accogliere la tesi che egli sta patrocinando; e non c’è dubbio, come sottolineava Andrea Di Porto, che anche per l’avvocato riveste una particolare importanza quella sorta di decalogo – il Documento programmatico sulla sesta sezione civile – con il quale nel 2016 sono stati fissati alcuni criteri per stabilire se un ricorso è manifestamente fondato o manifestamente infondato ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.: per stabilire, insomma, quando vi è quella “giurisprudenza della Corte” che esige o di conformarvisi ovvero di criticarla in modo così efficace da indurre la Corte a rimeditarla. Anche se quei criteri – per i quali vi è “giurisprudenza” quando c’è una decisione a Sezioni Unite, o un “orientamento consolidato delle sezioni semplici”, o “poche sentenze di una o più sezioni semplici, ma convergenti”, o anche «una sola sentenza, se ritenuta convincente» (sic!!!) – sono stati formulati in relazione alla sentenza n. 19051 del 2010 delle Sezioni Unite (per la quale l’art. 360 bis n. 1 prevedeva, in realtà, un’ipotesi di manifesta infondatezza del ricorso), il radicale mutamento di rotta segnato dalla sentenza n. 7155 del 2017 non sembra aver inciso sul merito di quei criteri, ma sulla pronuncia – di mero rito invece che di merito – emessa ai sensi

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dell’art. 360 bis. In parole povere, l’esistenza di una “giurisprudenza” sui cui scogli si infrange il ricorso che non induca alla sua “rimeditazione” sarà una pronuncia di inammissibilità, con l’effetto pratico di esporre l’avvocato ricorrente a qualche problema nei rapporti con il cliente e di esimere la Corte – normalmente – anche dalla pura e semplice lettura del controricorso. A mio avviso, ciò che ha indotto la Corte a tornare su una questione del cui ripensamento non si avvertiva alcuna esigenza è stata proprio la volontà che si produca l’effetto di cui all’art. 334, 2° comma, cod. proc. civ., sul ricorso incidentale tardivo: una Corte che, incurante della meditatissima lettera dell’art. 334 e della logica del sistema, ha voluto che quell’effetto si producesse anche nel caso, radicalmente diverso, di improcedibilità del ricorso principale, non poteva rinunciarvi – come aveva fatto la sentenza n. 19051 del 2010, ragionando sulla difficoltà di ricondurre ad un vizio genetico del ricorso la carenza di argomenti per un ripensamento della “giurisprudenza” – in presenza dell’agognata, testuale “inammissibilità” prevista dall’infelice norma-filtro varata nel 2009. In questa direzione, peraltro, premeva proprio il Documento programmatico laddove – nel presentarsi ai suoi destinatari (i magistrati, della sesta sezione civile) - dice, con “efficacia” assai maggiore di quella insita nei suoi criteri, che se «attualmente la sezione definisce circa 1/3 dei ricorsi, è necessario elevare questa percentuale, sviluppando al massimo le potenzialità del filtro». Si potrebbe essere più chiari? È in questo contesto che l’avvocato si confronta con il «precedente”, e cioè con quello che, per il giudice di fronte al quale opera, è il “precedente”; ed in Cassazione il giudice che maneggia il precedente – e che, come i dirigenti di impresa, deve raggiungere l’obiettivo di produttività indicato dal Documento programmatico (superare il terzo dei ricorsi definiti) – è la sesta sezione civile. Ed è quindi la sesta sezione, in primo luogo, che stabilisce se si è in presenza di una “giurisprudenza della Corte”: compito (almeno apparentemente) agevole se c’è una decisione delle Sezioni Unite, che si complica un po’ se occorre stabilire se l’orientamento (espresso anche da una sola sezione) è “consolidato” e se più decisioni sono “convergenti”, ma che diventa totalmente “creativo” se si tratta di riconoscere – il soggetto della frase «se ritenuto convincente» è la sesta sezione – ad una sola sentenza la qualità di “convincente”. Il secondo “step” implica una valutazione dell’idoneità del ricorso ad indurre ad una rimeditazione della “giurisprudenza”, e cioè della presenza nel ricorso di argomenti che, secondo le Sezioni Unite n. 7155 del 2017, costituiscono un requisito di contenuto-forma a pena di inammissibilità: e basta leggere proprio la sentenza n. 7155 per avvedersi che in essa si parla, indifferentemente, di ricorso che non “offre elementi idonei a mutare orientamento”, che “non critica adeguatamente” la “giurisprudenza”, che presenti “l’assenza di ogni confronto critico con ogni precedente giurisprudenza consolidata”. Dove è evidente che se si prescinde dal caso – si spera scolastico – del ricorso proposto da chi totalmente ignora l’esistenza di una qualsiasi pronuncia in materia, il compito della sesta sezione è quello di vagliare – con effetto preclusivo dell’esame da parte di qualsiasi altra componente della Suprema Corte – la persuasività degli argomenti addotti a critica della “giurisprudenza”; di consentire o di negare l’esame di quegli argomenti da parte dell’organo che

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avrebbe il potere – che la sesta sezione non ha – di “rimeditare” la “giurisprudenza”; di emettere quella singolare pronuncia, richiesta dal nuovo indirizzo, con la quale si dichiara inammissibile un ricorso in ragione dell’infondatezza degli argomenti addotti a critica della “giurisprudenza”. A questo punto, a proposito di ciò che costituisce “giurisprudenza”, è il caso di rilevare – ed in ciò è l’unica ragione di mio dissenso rispetto a quanto ha rilevato nel suo intervento Claudio Consolo – che a seguito della riforma di cui al decreto legislativo n. 40 del 2006 deve escludersi che gli obiter dicta possano dar luogo a “giurisprudenza”, specialmente ai fini di cui all’art. 360 bis. Quale strumento fondamentale di un disegno organico volto a conferire alla Corte di Cassazione il ruolo di guida per i giudici di merito – e quindi insieme al potenziamento della revisio per saltum; al sindacato diretto dei contratti e degli accordi collettivi (inseriti nel n. 3 dell’art. 360); alla decisione con sentenza non definitiva dell’interpretazione di clausole dei CCNL, immediatamente impugnabile per cassazione, e del vincolo derivante dalla decisione anche per altri giudici (art. 420 bis); al vincolo delle sezioni semplici rispetto alle decisioni delle Sezioni Unite (art. 374); alla necessaria formulazione, “tradita” da una assurda giurisprudenza, del quesito di diritto (art. 366 bis) – la riforma del 2006 ha trasformato, attraverso la rivitalizzazione del ricorso nell’interesse della legge (art. 363), gli obiter dicta da solitarie e narcisistiche elucubrazioni del redattore della sentenza in meditate e consapevoli occasioni per la Corte di manifestare su questioni (di fatto non decisive, ma) rilevanti il proprio meditato orientamento; con la conseguenza che proprio quando viene utilizzata la pronuncia nell’interesse della legge si è certamente in presenza di “giurisprudenza” che la Corte vuole sia seguita ed osservata, di solenne, voluta ed esplicita enunciazione di principi che entrano di pieno diritto nella “giurisprudenza della Corte”. Poste queste premesse, è necessario chiedersi se la scelta della sesta sezione – per assolvere la sua mission “rottamatrice” gestendo il delicatissimo ruolo, ad un tempo, di custode della “giurisprudenza” e di motore della sua evoluzione e del suo superamento - sia stata felice; e di chiederselo partendo dal modo in cui, concretamente, essa opera. Concretamente, ho detto, e cioè senza nascondersi dietro il dito dell’ufficialità, e quindi prendendo atto, ad esempio, del fatto, da tutti gli operatori percepito, che essa – sia per il compito di “rottamare i ricorsi” che le è attribuito, in primis dal Documento programmatico, sia per il modo da “convento di clausura”, dal quale è tagliato fuori ogni contatto con gli avvocati, in cui opera – è, di fatto, un giudice monocratico, nel quale il coinvolgimento del Collegio è rimesso alla mera, discrezionale decisione del relatore. Ancora: per il relatore la “giurisprudenza” è certo costituita da sentenze, ma operativamente - come traspare da quella sorta di SMS che vengono inviati ai difensori “motivando”, grazie al Protocollo, la sorte del ricorso: “inammissibile”, “manifestamente infondato”, “manifestamente fondato” con l’indicazione del numero di una sentenza – la “giurisprudenza” è la “massima” che dalla sentenza, comunicata a mo’ di condoglianze o di congratulazioni all’avvocato, è stata più o meno felicemente estratta e che spetta al relatore di confermare o di avviare al suo superamento. Un esempio concreto, vissuto in prima persona. Con la riforma del diritto fallimentare del 2006/07 è stata soppressa la dichiarazione d’uf-

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ficio del fallimento e si è affidato al pubblico ministero il compito di instare per la dichiarazione quando l’insolvenza gli «risulta nel corso di un procedimento penale» ovvero «risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile» (art. 7, n. 1 e 2). Senza soffermarsi sulla prima ipotesi (intesa dalla “giurisprudenza” nel senso che non rileva affatto l’attinenza del procedimento penale con l’insolvenza, e che è irrilevante che il procedimento penale penda all’infinito senza sfociare in una richiesta di rinvio a giudizio: dum pendet, rendet al P.M.), la seconda ipotesi era stata formulata in conformità di quanto stabilito da una sentenza della Corte costituzionale (n. 240 del 2003), la quale aveva escluso l’incostituzionalità della dichiarazione d’ufficio del fallimento purché essa intervenisse «a conclusione di un procedimento avviato da un soggetto diverso dal giudice decidente», non essendo consentito che vi sia «identità del giudice che assume l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento con il giudice che su tale iniziativa è chiamato a pronunciarsi». Postosi il problema se il Tribunale in sede prefallimentare potesse «segnalare» al pubblico ministero l’insolvenza risultante nel corso di un procedimento prefallimentare, la 1^ Sezione della Corte (n. 4632 del 2009) lo aveva escluso ravvisandovi l’identità tra soggetto che prendeva l’iniziativa e soggetto che su di essa decideva; successivamente, però, con sentenza n. 9409 del 2013, le Sezioni Unite lo avevano consentito osservando che, poiché la norma non parla più di “giudizio” ma di “procedimento” civile nel corso del quale risulta l’insolvenza, anche il procedimento prefallimentare era idoneo per rilevarvi lo stato di decozione e segnalarlo al pubblico ministero. Non è il caso, in questa sede, di soffermarsi sulla sostanziale elusione del principio fissato dalla Corte costituzionale realizzata ricorrendo ad un modesto espediente (non di altro si tratta) testuale, ma di segnalare – ciò che è rilevante ai nostri fini – che, nel caso deciso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9409 del 2013, la composizione del Tribunale in sede prefallimentare era diversa da quella del Tribunale che aveva dichiarato il fallimento: si tratta di una circostanza che, nella massima che tramanda l’insegnamento per cui il Tribunale prefallimentare può segnalare l’insolvenza al pubblico ministero, scompare totalmente: il redattore della massima questa circostanza l’ha ritenuta irrilevante, e l’ha espunta dai “fatti” utilizzabili per costruire la massima. A questo punto arriva all’esame della Corte un caso in cui il Tribunale prefallimentare, che aveva “fortemente” segnalato al P.M. l’insolvenza (aveva aggiunto che la riforma gli inibiva di dichiarare d’ufficio il fallimento nonostante l’evidenza e invitava il P.M. a proporgli subito l’istanza), aveva la medesima composizione di quello che ha dichiarato il fallimento: il relatore della sesta sezione ha “motivato” la sua intenzione di dichiarare inammissibile il ricorso con la citazione della sentenza n. 9409 del 2013, del tutto incurante delle argomentazioni svolte, già nel ricorso, e sviluppate nella memoria, per dimostrare non solo come tale sentenza confliggesse con quella della Corte costituzionale, ma anche che applicare quella sentenza ad un caso in cui vi era totale identità tra giudice che aveva preso l’iniziativa e giudice che su di essa aveva deciso equivaleva a reintrodurre il fallimento d’ufficio e, comunque, ad ampliare, e certo oltre i confini della legittimità costituzionale, la portata del “precedente”. Chi abbia tempo e voglia di leggere l’ordinanza n. 15131 del 2017 può constatare quale

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(Intervento al Convegno “I precedenti”, Roma Accademia dei Lincei, 6 luglio 2017)

traccia sia rimasta di tutto ciò: riferito di un ricorso con il quale si contestava (genericamente) la legittimità dell’istanza del P.M. proposta su segnalazione del Tribunale prefallimentare, si trascrivono alcuni passi della sentenza n. 9409 del 2013, senza fare alcun cenno all’identità dei componenti del Tribunale: ricorso inammissibile perché la Corte locuta erat. Imperturbabile, la Corte monocratica ha deciso non solo e non tanto per la conferma della “giurisprudenza”, ma anche che della questione dell’identità fisica dei componenti del Tribunale non restasse traccia, neanche per dire che si trattava di peculiarità irrilevante (?!) o che erano “inidonei” o “inadeguati” gli argomenti svolti per sollecitare la presa in esame di un “fatto” che rendeva (quanto meno) problematica l’applicazione al caso di specie del “precedente”: c’è da sperare che davvero, come è assai probabile, il Collegio non sia stato affatto investito della questione e che di essa si sia, con lo zelo del rottamatore, solitariamente sbarazzato il relatore, perché altrimenti lo scenario sarebbe ancora ancor più desolante. In conclusione, si ha un bel discettare dei magnifici obiettivi che la riforma del 2016 persegue e che raggiungerà; tutto il nuovo meccanismo è impiantato sui “precedenti”, utilizzati sia per selezionare i ricorsi sia anche, in tale occasione, per vagliare la loro resistenza a critiche grazie alle quali la “giurisprudenza” si evolve e non si sclerotizza, ma questo snodo è nelle mani di un organo – che non si sa nemmeno se ha il potere di rimettere una questione al primo presidente perché la faccia trattare dalle Sezioni Unite o se ha il potere di sollevare una questione di legittimità costituzionale – la cui “mission” è, in primo luogo, quella di “rottamare” circa la metà dei ricorsi e, qualche volta, di rimetterne la trattazione alla pubblica udienza davanti alla sezione ordinaria: il tutto, in un’atmosfera da convento di clausura, ciascun magistrato con la sua piccola montagna di ricorsi davanti e con il compito di contribuire a che la sezione sia “produttiva”. Qui, più che chiedersi “quis custodiet custodes?” c’è da chiedersi come è immaginabile che da queste novelle Vestali del “precedente” possa pretendersi qualcosa di più che adorarlo, e preservarlo da ogni tentativo di adattarlo alle nuove esigenze: nemmeno la Chiesa, nella sua millenaria storia, ha mai pensato di affidarsi, per gli adattamenti ed evoluzioni che le hanno consentito di durare nei secoli, alle monache di clausura ….

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Miti e realtà dell’idea di giusto processo nel diritto fallimentare* L’Autore esamina l’incidenza e le ragioni delle continue riforme normative in materia fallimentare dimostrando che molto spesso esse si sono tradotte nella cristallizzazione in regole positive di prassi giurisprudenziali risolutive di vuoti di disciplina. Esamina poi l’accresciuta sensibilità generale alle tematiche del giusto processo anche in ambito concorsuale, con particolare attenzione al rispetto pieno del contraddittorio, della terzietà e imparzialità degli organi giudicanti e dell’effettività della tutela. The author’s examination of the continued reform of the Italian insolvency law, leads to the result that very often the new rules confirm previous court practices, and are rooted in them. The other topic the author deals with is that new rules are written in the view to the principle of due process of law: in fact old law texts are felt increasingly incompatible with the weight the principle should play in the field of bankruptcy trial.

1. Il diritto fallimentare è sempre stato una storia di uomini e cose alle prese con soluzioni poco o punto prefabbricate, con lacune da riempire, al punto che Salvatore Satta poteva scrivere che, più che presentare lacune, la disciplina del fallimento era essa stessa una immensa lacuna. E che “il fallimento è una creta che cambia forma ad ogni istante, e non è consentito fissarla in un modello definitivo”. Troppe cose, e troppo eterogenee confluiscono in un fenomeno che nessuno sforzo riesce ad erigere a sistema chiuso di istituti omogenei. La vicenda dell’interpretazione e dell’applicazione della legge fallimentare è peraltro essenzialmente una storia scritta dalla giurisprudenza, con la dottrina (le dottrine) tradizionalmente in posizione “reattiva” rispetto alle soluzioni giudiziarie. È un fatto che le storiche ricostruzioni dottrinali nel campo delle procedure concorsuali, se hanno sicuramente contato nello stabilire i capisaldi della disciplina, hanno però spesso, ed in maniera significativamente più pronun-

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Pubblicato con il titolo Miti e realtà dell’idea di giusto processo nel diritto fallimentare. Riflessioni sparse in margine al trattato, in calce al volume V del Trattato di Diritto fallimentare di Alberto Jorio e Bruno Sassani, Giuffrè, Milano 2017.

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ciata che in altri settori, lasciato solo sgrossate le strade da percorrere. Né ha giovato che, nei decenni, lo sviluppo della materia sia rimasta un ibrido, partagé tra le categorie mentali, i topoi e gli approcci funzionali dei cultori del diritto commerciale e le categorie mentali, le predilezioni e le idiosincrasie dei cultori del diritto processuale. E questo al punto che è mancato (e continua a mancare, malgrado nobilissimi e coinvolgenti tentativi di sintesi per fusione dei due mondi)1 un diritto fallimentare quale materia davvero unitaria provvista della capacità di stabilire un proprio statuto concettuale e, ancor prima un linguaggio idiomaticamente autonomo, cioè non solo immediatamente riconoscibile come peculiare e condiviso ma anche in grado di imporre una traduzione logicamente estesa quando estrapolato dal contesto che lo ha generato. Non c’è dubbio però che la lingua franca del diritto concorsuale sia stata in qualche modo creata dalla giurisprudenza nel suo tentativo di giustificare soluzioni imposte dalla realtà ma ampiamente praeter legem, e a tale lingua il legislatore abbia attinto quando, dopo sessantacinque anni, ha imboccato la strada della attualizzazione dalla legge fallimentare. Quando si dice giurisprudenza si pensa immediatamente alla giurisprudenza della Corte di cassazione, alla giurisprudenza che potremmo dire interpretativa e direttiva, espressa più dalle massime, cioè da standard a carattere didattico-precettivo, che dal case in sé, cioè dalla disciplina degli eventi particolari emergenti che hanno caratterizzato la controversia (e che dovrebbero fungere da cave rispetto alla regola generale che se ne vorrebbe trarre). Ma le procedure concorsuali sono diritto giurisprudenziale in senso più vasto: come in nessun altro campo vengono qui in considerazione due nozioni di giurisprudenza: una giurisprudenza “alta” a cui si contrappone una giurisprudenza “bassa”, frutto dell’opera diuturna dei tribunali che fabbricano i propri standard per far camminare una macchina che resterebbe ferma se ci limitasse ad applicare le regole scritte. Si tratta di una giurisprudenza che si presenta con caratteri carsici, emergente qua e là ma confinata per lo più in prassi locali dei Tribunali e decifrabile solo per gli addetti ai lavori. È una giurisprudenza necessariamente creativa ma di una creatività diversa da quella di cui deve dar prova anche la giurisprudenza delle Corti e in particolare della Corte di cassazione: queste stabiliscono principi o traducono in regole i principi spesso mentre la giurisprudenza operativa è costretta ad essere creativa dalla necessità di intervenire a seguito di dichiarazioni di incostituzionalità ovvero dei buchi creati da legislazioni rincorrentesi.

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Penso a Edoardo Ricci che ha unito la sua rimarcabile inventività scientifica ad una esperienza ampiamente vissuta nel tentativo di dar vita ad una reale sintesi delle due discipline viste come affluenti di un unico fiume. Malgrado questo, però, il suo diritto fallimentare resta l’esempio di come lo spirito di un processualista di talento prevalga nel ricostruire e descrivere qualcosa che viene in definitiva ridotto ad un processo: il processo di esecuzione concorsuale, che tale resta anche se puntualmente calato nella (e condizionato dalla) realtà del diritto materiale che lo condiziona. Prima di Ricci era stata la volta di Salvatore Satta che aveva tentato di scrutare nel fallimento le ragioni dell’elemento pubblicistico connesso con la complessità della sua organizzazione e con i riflessi sociali del fenomeno, in dichiarata contrapposizione alla artificiosità dell’elemento pubblicistico nel processo singolare in cui egli intuiva il marchio dell’artificiosità; anche Satta però resta un geniale processualista prestato ad una materia altra ed irriducibile alle categorie del “diritto processuale”, tanto più concettualmente complesse in quanto costruite ed affilate su modelli infinitamente più semplici (si può meditare sulla sua insoddisfazione per il concetto di esecuzione collettiva, che gli si mostra, alla fine “priva di significato”). Mutatis mutandis è possibile replicare il discorso per Virgilio Andrioli. In fondo, la prima ed ultima opera di vera ed originale costruzione del diritto fallimentare è quella di Bonelli.

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Ma il moto è diventato circolare nell’ultimo quindicennio, un periodo storico particolarmente significativo per la disciplina della concorsualità perché in esso si è assistito massicciamente alla traduzione in dettato normativo di quelle che si ponevano (o almeno tentavano di porsi) quali prassi operative: il rincorrersi delle riforme mostra sempre più spesso il fenomeno di un legislatore fortemente condizionato dall’attività consultiva di commissioni composte in larga misura da magistrati attivi nel mondo dei Tribunali fallimentari (o da essi provenienti) e la cristallizzazione in formule normative di soluzioni proprie di modelli procedurali che, sperimentati, si erano trovati a collidere con norme incompatibili. Nel suo incedere, la giurisprudenza fallimentare si è trovata sempre più frequentemente nella situazione di doversi confrontare con modelli (non necessariamente rudimentali, ma sicuramente) basilari che hanno sempre posto problemi di aggiustamento rispetto ai modelli più articolati e completi delle procedure individuali, ma che negli ultimi decenni hanno dovuto confrontarsi con l’accresciuta sensibilità generale alle tematiche del giusto processo, cioè del rispetto pieno del contraddittorio (sia in termini di parità delle armi tra le parti, sia in termini di dovere di contraddittorio tra il giudice e le parti), del rispetto della terzietà e imparzialità degli organi giudicanti (o comunque procedenti), del rispetto della ragionevolezza della durata e dell’effettività della tutela. Anche del rispetto della predeterminazione delle regole, tema rispetto al quale la giurisprudenza è per lo più riuscita a mantenere la rotta della ragionevolezza malgrado l’accanimento dogmatico di una certa dottrina.

2. Controcorrente va Nicola Picardi quando, agli inizi degli anni Settanta, intuisce l’effetto dirompente della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 15 della legge fallimentare. Quel “deve ordinare la comparizione” che prende il posto del “può ordinare la comparizione” fino allora accettato con poco scandalo, lo spinge a rovesciare la prospettiva con cui la processualistica accademica (Giuseppe Tarzia e pochi altri a parte) guardava al contraddittorio come ad un dato praticamente importante ma tutto sommato marginale rispetto ai temi “nobili” dell’alta dommatica. Ci vorrà un trentennio perché l’espressione giusto processo irrompa come la parola d’ordine degli addetti ai lavori, ma il merito della monografia sulla Dichiarazione di fallimento è quello delle opere che, intuendo il rovesciarsi di un paradigma, scommettono e vincono a distanza. Quell’opera segnava, fin dal sottotitolo, il passaggio “dal procedimento al processo” e così si avviava a condizionare il futuro avvento del giusto processo quale concetto euristico. C’è voluto un “un tratto di penna del legislatore” per risvegliare dal “sonno dogmatico” la dottrina processualistica: quel tratto di penna è la riscrittura dell’art. 111 della costituzione con cui si sono coniate le parole per dire cose della cui evidenza nell’ordinamento nessuno discuteva. Principi impliciti, mai apertamente contraddetti acquistano nuovo slancio e cominciano a rodere abitudini ed usi consolidati, aprono dialetticamente brecce in regole fino allora prevalenti e impongono di mettere in discussione. La rivoluzione avviene nel 1999 con la legge costituzionale n. 2/99 che integra l’art. 111

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della costituzione introducendo il concetto di “giusto processo”. Un giusto processo regolato dalla legge, fatto di un diritto al contraddittorio qualificato dalla parità delle armi delle parti, della terzietà e imparzialità dell’organo giudicante, della ragionevole durata della procedura assicurata dalla legge. Nihil novi, a pensarci bene. Dall’art. 24 della costituzione (soprattutto dal suo secondo comma) si era sempre ricavata la intangibilità del contraddittorio nelle sue varie manifestazioni; contraddittorio la cui pienezza sotto l’aspetto della parità delle armi veniva corroborata dall’art. 3, mentre dagli articoli 101, 102 e 104 Cost. si ricavava agevolmente il principio di indipendenza da cui discendeva il corollario della terzietà, a cui (anche per le norme interposte degli artt. 51 ss. c.p.c.) si aggiungeva facilmente il collegato principio di imparzialità; della riserva di legge nella materia processuale nessuno aveva mai dubitato. Quanto poi al tema della ragionevole durata, su di esso c’era da tempo l’ipoteca dell’art. 6 CEDU che, ignorandosi il problema in Italia, produceva il contraccolpo delle costanti condanne da parte della Corte di Strasburgo; legge Pinto e poi modifica dell’art. 111 Cost. non hanno dato alcun frutto pratico e ancora oggi nessuno ha chiaro (al di là del generico mantra della durata ragionevole delle procedure giudiziarie) quale senso e quale inquadramento vadano dati alla “assicurazione” del risultato da parte della legge. Quel che avviene però con la riscrittura dell’art. 111 della costituzione è però un cambiamento di paradigma: scelte interpretative e sistematiche considerate ragionevoli e coerenti vengono condizionate da una nuova priorità: da un giudizio di compatibilità inderogabile (più severo che in passato) con l’idea di giusto processo. Non solo: è in questo contesto che le teorie finiscono per essere elaborate con tutte le implicazioni che ne derivano.

3.

Del cambio di paradigma è espressione il moto riformatore del primo decennio del secolo nella parte che ha investito gli aspetti di tutela giurisdizionale, o anche solo lo svolgimento dell’attività giudiziaria. La prima riforma del 2006 ha consapevolmente investito la legislazione fallimentare con il vento del giusto processo. Una legislazione di adeguamento che talora andava a ritoccare il testo di una vecchia disposizione adeguandola alla regula juris concretamente applicabile, e talora invece si spingeva a introdurre una nuova disposizione intesa a produrre un regula juris auspicata ma apparentemente non ricavabile (o almeno non ricavata) dalla vecchia disposizione. Da un lato la procedura volta alla dichiarazione di fallimento ed al suo controllo con gli strumenti correttivi e remotivi. Dall’altro le procedure con funzione ricostruttiva del patrimonio e ricognitiva del passivo. Sul primo piano, con la riforma del 2006 le forme espressive della giustizia del processo penetrano lo svolgimento della procedura: vengono dettagliate – agli articoli 15, 18, 22 – regole proprie delle procedure contenziose considerate di irrinunciabile valore garantistico. Viene così abbandonata la legislazione “per modelli”, cioè la legislazione per strutture portanti che ci si aspetta venga naturalmente riempita da regole ovvie, discendenti da principi generali, prassi e adattamenti ad hoc di regole espresse in settori limitrofi. Il primo esempio è l’art. 15: negli interventi del 2006 e del 2007 non ci si limita a riformulare il testo

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in ragione della discrepanza tra prescrizione e il valore semantico, ma, in rovesciamento della stessa filosofia di fondo della legge fallimentare, viene approntata una dettagliata sceneggiatura del possibile. Si può confrontare il testo dell’attuale art. 15 nei suoi nove commi richiedenti tre o quattro colonne in minuti caratteri, con il lapidario testo originario in unico comma. Un testo che poco o nulla disponeva ma molto sottintendeva.

4.

Segue poi il sugello posto dall’art. 96 u. c. l. fall. all’annoso dibattito sul valore delle decisioni sortite dai procedimenti in camera di consiglio a carattere c. d. endofallimentare: il decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei relativi giudizi di impugnazione, producono effetti solo ai fini del concorso. Non la sacra cosa giudicata, pietra tombale della lite e barriera ad ogni futura contestazione in ogni sede, ma semplicemente una stabilità adeguata al fine peculiare della procedura impiegata. Il che ha qualcosa di paradossale se si considera che la battaglia era stata combattuta contro i procedimenti in camera di consiglio imputati di essere istituzionalmente privi delle sufficienti garanzie per decidere con effetto di giudicato: all’accusa di non dare garanzie sufficienti per giustificare l’effetto estremo della cosa giudicata, la legge replica con un rafforzamento delle garanzie inteso però ad un effetto meno estremo. Questo rovescia in qualche modo la posizione di partenza perché dice che, ai fini dell’attivazione delle regole di fair trial, non è condizione necessaria l’accertamento con autorità di giudicato ma basta il risultato pratico perseguito, cioè la statuizione autoritativa. Il problema era quindi la correttezza del procedimento inteso come sua rispondenza agli assiomi del giusto processo. Cosa del resto già ben visibile nella disciplina del procedimento cautelare uniforme fuso nel codice di procedura dalla riforma del 1990, ma soluzione che il legislatore processuale sperimenta quasi in contemporanea nel processo di esecuzione singolare quando, nel riscrivere l’art. 549 c.p.c., statuisce che l’ordinanza che risolve le contestazioni sulla dichiarazione del terzo “produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione”; e quando, nel riscrivere l’art. 512 c.p.c., adotta lo stesso meccanismo per le contestazioni in sede distributiva. L’irrinunciabilità del modello di giusto processo non risponde allora al fine sbandierato dalla processualistica dominante che ne vede la necessità in ragione della garanzia della cosa giudicata, garanzia vista quale oggetto di tutela costituzionale (attraverso uno sviluppo assiologico dell’art. 24 Cost.). L’attuazione del giusto processo endofallimentare trova attuazione pratica e concreta in procedure sfocianti in accertamenti esplicitamente esclusi dalla garanzia di intangibilità perché funzionali al solo concorso. Ma questo è il frutto ormai dell’espansività del nucleo concettuale dell’espressione “giusto processo” che prescinde dal legame biunivoco con la cosa giudicata, imponendosi come esigenza prioritaria ed irrinunciabile, sostanzialmente indifferente alla portata dell’effetto finale del processo.

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5. L’altro caso esemplare è quello dell’art. 26 l. f. che va ad imporre l’esclusione del giudice delegato dal collegio chiamato a pronunciarsi sul reclamo contro propri provvedimenti: la Corte costituzionale, ancora non molto tempo prima, aveva negato che la norma impattasse in vizio di incostituzionalità. Il fatto che la scelta fosse stata fatta non senza buone (anzi, a rileggere la sentenza, ottime) ragioni non esclude che la forza espansiva dell’idea di giusto processo sotto il profilo della terzietà e imparzialità del giudice sia ormai tale da sovrastare ogni argomento in contrario. È quel che si dice un “cambio di paradigma” che fa apparire di colpo obsolete idee che in precedenza venivano considerate degne di considerazione ed eventualmente prevalenti rispetto ad altre idee: nel momento in cui queste ultime divengono espressione del paradigma vincente le precedenti silenziosamente recedono. La partecipazione del giudice delegato al collegio non scandalizzava. Non si può certo dire che il problema non fosse avvertito ma non si può dire che questo producesse esiti giuridici rilevanti. La sensibilità cambia certo quando cambia il codice di procedura, con l’art. 669-terdecies introdotto dalla legge n. 353 del 1990 che impone expressis verbis l’esclusione del giudice che aveva conosciuto del ricorso cautelare dal collegio sul reclamo. La prescrizione viene subito indicata quale espressione di un principio generale ed intangibile, e l’idea si rafforza a tal punto da condizionare il legislatore processuale che si vede forzato a scrivere l’art. 186-bis disp. att. che prescrive che il giudizio di merito dell’opposizione agli atti esecutivi va trattato da un collegio di cui non fa parte il giudice che “ha conosciuto degli atti avverso i quali è proposta opposizione”. La norma è introdotta dalla l. n. 69/2009, e nel frattempo era intervenuta la riscrittura della disciplina del reclamo contro i provvedimenti del giudice delegato con la fissazione nell’art. 21 c. 2 della legge fall. che vieta al giudice delegato di far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti. Tanto poco può la sensibilità avere la meglio sull’abitudine che ancora la Corte costituzionale 363/1998, nel negare l’incostituzionalità della partecipazione del giudice delegato al collegio chiamato a scrutinare suoi atti, sostiene che tale partecipazione deve considerarsi come un momento dell’iter della procedura concorsuale, le cui peculiarità impongono “speciali esigenze di continuità”. Di queste esigenze il giudice delegato è sostanzialmente il garante, ed in funzione di tale ruolo viene previsto dall’art. 25, numero 1, il raccordo permanente che lo lega al collegio attraverso l’obbligo di riferire ad esso su ogni affare per il quale sia richiesto un provvedimento collegiale. Tesi sostenibile e ragionevole ma inesorabilmente destinata a cedere di fronte al cambio di paradigma comportato dall’art. 111 Cost2.

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Resta peraltro ancora incerto se l’incompatibilità del giudice delegato, che ha pronunciato il decreto di esecutività dello stato passivo, a far parte del collegio chiamato a decidere sulla conseguente opposizione, determini una nullità deducibile in sede di impugnazione, ovvero – non escludendo la potestas iudicandi di tale giudice, quale magistrato addetto al tribunale che dell’impugnazione stessa è il giudice naturale – possa dar luogo soltanto all’esercizio del potere di ricusazione, che la parte interessata ha l’onere di far valere, in caso di mancata astensione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 52 c.p.c. (in tale senso Cass. n. 24718/2015, ma la soluzione resta incerta in giurisprudenza riscontrandosi

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Di fronte al quale appare irrimediabilmente perdente l’argomento che si appella alla diversità dei modelli di reclamo presenti nell’ordinamento processuale e finisce per apparire una manifestazione di insensibilità lo scrivere che la scelta legislativa preclusiva della partecipazione del giudice autore del provvedimento al collegio che deve decidere il reclamo “non rappresenta un archetipo assoluto cui debba uniformarsi necessariamente tutto il sistema processuale”. Il legislatore è in fondo libero di assicurare in forme diverse, a seconda dei vari modelli di processo, le garanzie inerenti all’esercizio della giurisdizione, ma quando si aggiunge “purché rispetti i limiti segnati dai precetti costituzionali” non si considera che la sensibilità giuridica è profondamente cambiata nel senso che – anche a considerare “evidenti i profili distintivi, destinati a riflettersi nella diversità delle fasi di controllo, tra il procedimento cautelare uniforme e il processo fallimentare” – non è più disposta a considerare come rispetto dei limiti segnati dai precetti costituzionali la presenza del giudice delegato nel collegio chiamato a decidere dell’impugnazione di un suo atto.

6. La sentenza della Consulta 23 marzo 1981, n. 42, dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 26, in relazione all’art. 23 l. fall. nella parte in cui questa assoggettava al reclamo al tribunale, “disciplinato nel modo ivi previsto”, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell’attivo. L’incostituzionalità veniva attribuita all’esiguità del termine per reclamare ed è in questo frangente che si fa strada lo spirito ricostruttivo del sistema della Corte di cassazione che, saggiata (con la sentenza n. 2450/1983 in cui la Corte si era vista costretta a dichiarare l’inammissibilità del reclamo e la nullità dell’intero procedimento svoltosi davanti al tribunale) la paradossale lacunosità del sistema discendente dall’espulsione della norma dall’ordinamento, interviene con le S. U.3, per dire (con una capacità ed una volontà ricostruttiva raramente riscontrata nella sua storia)4 che la sentenza di incostituzionalità non aveva in realtà caducato l’istituto del reclamo nella sua interezza ma soltanto gli aspetti della sua disciplina positiva in contrasto con la tutela costituzionale del diritto di difesa con la conseguenza che la lacuna discendente dalla pronuncia doveva essere colmata con le regole generali disciplinanti i procedimenti in camera di consiglio. La scelta contingente derivava dal tentativo di evitare che in cassazione dovesse essere considerato

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anche opinioni opposte nel senso che il decreto che decide sull’opposizione avverso il decreto che rende esecutivo lo stato passivo è nullo, ai sensi dell’art. 99, comma 10 l. f. e art. 158 c.p.c., per vizio di costituzione del giudice, se emesso da collegio del quale fa parte il giudice delegato autore del decreto impugnato). Sentenza n. 2255/1984; poi, Cass. Sez. II n. 2827/1985. La legittimità dell’operazione discendeva dal brusco sopravvenire di una obiettiva lacuna nel sistema, in grado di produrre notevoli inconvenienti nella macchina delle procedure concorsuali; essa non ha nulla a che fare con i velleitari proclami della Corte degli ultimi anni in cui (specificamente nel settore del diritto processuale civile) questa, lungi dal provvedere ad ovviare a lacune, ha iniziato a mettere da parte precise norme di legge in nome di questo o quel principio che ne imponevano (a suo dire) l’abbandono: la vicenda è ben esemplificata dal caso del regime della rilevabilità dell’eccezione di giurisdizione.

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ammissibile il ricorso straordinario contro la pronuncia (non del tribunale fallimentare in formazione collegiale) ma direttamente del giudice delegato. Fiorisce a questo punto, condizionata dal tema della ammissibilità del ricorso straordinario, la summa divisio tra esercizio della giurisdizione contenziosa ed esercizio della giurisdizione volontaria nel sistema del reclamo fallimentare. La distinzione non è nuova ma le circostanze la fanno prepotentemente emergere; si afferma la massima secondo cui i provvedimenti del giudice delegato, e quelli del tribunale nell’ambito del reclamo ex art. 26 l. fall., vanno distinti a seconda che riguardino atti interni alla procedura, di carattere ordinatorio, inerenti alla gestione del patrimonio fallimentare, oppure abbiano le caratteristiche della definitività e della decisorietà, intese come idoneità ad incidere su diritti soggettivi (si specifica ancora che tale decisorietà ricorrerebbe nei casi “previsti dalla legge” ma la specificazione resta misteriosa). La massima consolidata prosegue specificando che nel caso del procedimento a funzione ordinatoria, il decreto del giudice delegato è reclamabile innanzi al tribunale nel termine di tre giorni decorrente dalla data di comunicazione del provvedimento5, ed il decreto successivamente emesso, dal tribunale, in sede di reclamo, non può formare oggetto di ricorso per cassazione, neppure ai sensi dell’art. 111 Cost., appunto perché privo di carattere decisorio. Nella ipotesi in cui si controverta invece su situazioni incidenti su diritti soggettivi, trovano applicazione le norme generali sui procedimenti camerali (artt. 737-742 c.p.c.), con le relative conseguenze sia sul piano del termine per proporre il reclamo (dieci giorni, decorrenti dalla comunicazione del provvedimento che ne è oggetto), sia sulla possibilità di impugnare il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo, con ricorso straordinario per cassazione, a norma dell’art. 111 Cost.

7. Tutto chiaro? Apparentemente si; il punto è che la massima standard in genere prosegue con un caveat: “Qualora, peraltro, gli organi fallimentari (giudice delegato e tribunale in sede di reclamo ex art. 26 cit.) adottino pronunzie infirmate da radicale carenza di potere (e quindi autonomamente denunciabili con domanda o con eccezione di nullità assoluta), tali pronunzie devono ritenersi inesistenti, con la conseguenza che, contro le medesime (non suscettibili di passare in giudicato), non è esperibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., restando in facoltà di qualsiasi interessato, di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici”. Ora il problema è che non è agevole indovinare quando le pronunzie sono infirmate da carenza di potere e quando no. I casi sono tre: il primo è che la pronuncia non decida affatto

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Ma la Corte costituzionale aveva riletto in senso ampliativo la regola dei tre giorni (facendo partire il dies a quo dalla comunicazione invece che dal deposito del decreto del g. d.) proprio in casi di liquidazione del compenso ad incaricato per l’opera prestata a favore della procedura, casi che verranno considerati tipicamente di attribuzione di diritti soggettivi: v. Corte cost. n. 303/1985 e n. 156/1986; Corte cost. n. 55/1986 sposta l’inizio del termine di tre giorni alla data della comunicazione, per i provvedimenti del giudice delegato “con contenuto decisorio su diritti soggettivi”.

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di diritti soggettivi, ma si limiti a fissare regole di gestione; il secondo è che decida di diritti soggettivi potendo deciderne; il terzo è che decida su diritti soggettivi non avendo il potere di farlo. Solo in quest’ultimo caso si verterà nella inidoneità del provvedimento a produrre effetti, nella nullità assoluta denunciabile in ogni maniera e nella inammissibilità del ricorso straordinario. E infatti bisognerà vedere caso per caso non solo se il provvedimento si riferisca a diritti ma anche se la Corte riconosca alla pronuncia la capacità di decidere di tali diritti, ben potendo essere il caso che essa riconosca l’inidoneità del procedimento (e quindi del provvedimento) a deciderne. Prendo a esempio per comodità di esposizione un caso, quello di Cass. n. 4590/1997 (ma gli esempi sono innumerevoli). Il ricorso era stato proposto contro decreti del g.d. emessi in sede di controllo degli atti interni d’indirizzo della procedura e di gestione del patrimonio fallimentare, e dunque contro decreti che avrebbero dovuto considerarsi come aventi carattere ordinatorio: si trattava di conferme di un atto di scioglimento da contratti del fallito operato dal curatore. In sede di reclamo il tribunale avrebbe dovuto, secondo la Corte, limitarsi a confermare, modificare o revocare tale “scelta gestionale”, laddove esso, accogliendo il reclamo, aveva invece dichiarato che i contratti dovevano intendersi sciolti “con le conseguenze di carattere restitutorio connesse allo scioglimento”. Così pronunciandosi esso avrebbe in sostanza statuito in via definitiva su una questione di diritti soggettivi questione che non poteva certo esser risolta nell’ambito della procedura ex art. 26 l. fall. ma andava decisa in un ordinario processo di cognizione, nel conflitto tra le parti contendenti. Decisione ultra vires quindi: accertare se i contratti si erano o meno sciolti implicava non già scelte di carattere gestionale bensì decisioni sulle contrastanti situazioni giuridiche del contraente e della curatela fallimentare. Alla carenza di potere ed alla inidoneità a disporre della situazione giuridica in contestazione la Corte fa seguire l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost. Non sembra avvedersi però la Corte che qui l’inammissibilità del ricorso non produce l’effetto tipico della declaratoria di inammissibilità, cioè la conferma del provvedimento impugnato, bensì corrisponde in pieno al suo accoglimento perché il ricorrente contro il decreto ottiene al massimo grado quel che persegue, cioè la declaratoria di nullità del decreto che equivale in tutto e per tutto ad una cassazione senza rinvio perché la causa non poteva essere proposta (spia di questo è la notazione della sentenza che “lo stesso ricorrente, del resto, qualifica abnorme il decreto”). In sostanza la declaratoria di inammissibilità del ricorso corrisponde ad un accoglimento di una actio nullitatis svolta dal ricorrente nelle forme del ricorso per cassazione, il che corrisponde al postulato espresso dalla Corte secondo cui “resta in facoltà di qualsiasi interessato, di farne valere in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici”. È inutile quindi negare la ricorribilità ex art. 111 Cost., visto che la negazione dell’impugnazione dà, né più né meno, il risultato massimo a cui può aspirare il ricorrente. Al massimo si potrebbe dire che il ricorso è superfluo, visto che il suo mancato esercizio lascia intatti altri mezzi di tutela, altri rimedi. Una superfluità nel senso in cui può essere superfluo l’appello in ipotesi di asserita inesistenza della sentenza di primo grado, visto l’accertabilità del vizio in ogni sede ed in ogni tempo, ma una superfluità che non impedisce di far valere l’inesistenza “anche” con il rimedio dell’appello.

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Il paradosso del ricorso straordinario è, a questo punto, il rischio della sua mancata utilizzazione da parte del soccombente. Se il mezzo e dichiarato inammissibile esso raggiunge il suo scopo e tutela al massimo grado il ricorrente; se invece è considerato ammissibile esso onera la parte del suo impiego, pena il consolidamento del contenuto del provvedimento non impugnato. Il punto è però che il valore di accertamento del provvedimento non è dato conoscerlo apriori: in altri termini lo si deve riconoscere se la Corte ammette la ricorribilità, non lo si riconosce se tale ricorribilità corte non viene ammessa dalla Corte. L’unica soluzione per non sbagliare resta quello di proporlo in ogni caso.

8.

Questo paradosso è stato vissuto in maniera molto evidente nella vicenda dei c.d. decreti di acquisizione, casi in cui il provvedimento del g.d. (o eventualmente del collegio in sede di reclamo) finiva per giudicare negativamente la pretesa del terzo su dati beni rispetto alla corrispondente pretesa del fallimento. Oggi, come è noto, il n. 2 del primo comma dell’art. 25 frutto del d.lg. 9 gennaio 2006 n. 5, esclude dai provvedimenti del g.d. volti al ripristino del patrimonio “quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l’acquisizione” (la legge ha espressamente chiarito, in conformità alla linea giurisprudenziale formatasi sulla questione, che il giudice delegato non può pronunciare provvedimenti per la conservazione del patrimonio del fallito tutte le volte che gli stessi incidano su diritti di terzi che rivendichino una posizione giuridica incompatibile con l’acquisizione), ma la vicenda si è presentata in maniera ricorrente negli anni, segno dell’esistenza di prassi testardamente ricorrenti. Ora è vero che nei decreti di acquisizione la posizione del terzo esprime qui un “interesse oppositivo” laddove la posizione del terzo che vanta un credito esprime un “interesse pretensivo”, ma la meccanica del provvedimento è sempre la stessa, vale a dire l’individuazione e il riconoscimento della posizione prevalente della procedura all’esito di un conflitto tra questa e il diritto di un terzo. Ammettere la possibilità del decreto di acquisizione significava giustificare nei fatti la possibilità di incidere sulla disciplina sostanziale, modificandola, attraverso un istituto processuale: un atto del giudice bastava a far retrocedere la posizione del terzo che sosteneva di avere un diritto incompatibile con l’acquisizione (ed ovviamente prevalente rispetto ad essa). L’acquisizione escludeva la rilevanza immediata dell’incompatibilità e/o della prevalenza per dare al bene il regime dell’appartenenza al patrimonio del debitore sottoposto alla procedura concorsuale (acquisizione). La giurisprudenza aveva finito per escludere radicalmente la possibilità di dare la prevalenza ad un provvedimento a cui essa riconosceva valore fondamentalmente esecutivo non preceduto da alcun vero accertamento nei confronti delle pretese di un terzo. Ma si noterà che il carattere meramente esecutivo del decreto non è un attributo derivante in via espressa dalla legge o, almeno, sicuramente ricavabile in via sistematica. Esso è piuttosto il punto d’arrivo di un atteggiamento culturale che vede nella sommarietà delle forme della procedura l’indice dell’esercizio di un’attività autorizzativo-ge-

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stionale, e conseguentemente la “natura esecutiva” del provvedimento. Classificare il decreto come “provvedimento non contenzioso” non significa altro che operare una scelta di valore6. L’indirizzo si era consolidato nel tempo7 nel senso che la facoltà del giudice delegato, a norma dell’art. 25 legge fallimentare di adottare provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio del fallito implicava il potere di emettere decreti di acquisizione alla procedura concorsuale di eventuali sopravvenienze attive in possesso dello stesso fallito o del coniuge o di altri soggetti che non ne contestassero la spettanza al fallimento, ma non anche di disporre l’acquisizione di beni sui quali il terzo possessore rivendichi un proprio diritto esclusivo incompatibile con la loro inclusione nell’attivo fallimentare. In tale seconda ipotesi il decreto del giudice delegato, così come il decreto reso dal tribunale in esito al reclamo, devono ritenersi giuridicamente inesistenti, per carenza assoluta del relativo potere, con l’ulteriore conseguenza – dice la Corte – che avverso i medesimi, non suscettibili di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 della costituzione, restando in facoltà degli interessati di farne valere, in ogni tempo e in ogni sede, la radicale nullità e inidoneità a produrre effetti giuridici8.

9. Ma se la logica è quella della non risolubilità del conflitto di diritti da parte del giudice delegato, perché non vale lo stesso per il decreto che liquida (o meglio non liquida, o non liquida nella misura richiesta) al professionista il suo credito nei confronti della massa? Anche qui c’è un conflitto di diritti, perché si assume che il g. d. sciolga legittimamente una controversia mentre nel caso dell’acquisizione no? E infatti che la scelta di ammettere la natura contenziosa ai decreti del g. d. sui crediti della massa non fosse affatto una cosa pacifica, lo si vede dalla ampia e ripetuta giurisprudenza che negli anni aveva continuato a negare che il professionista vantante un credito prededucible potesse impiegare il procedimento della

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8

Si prenda per es., Cass. 27/04/2007, n.10095, che assume che il contrasto con un preteso diritto reale sui beni “non può essere risolto dal giudice delegato”, e che non vale sostenere che per il fallimento la situazione è chiara nel senso della insussistenza dell’altrui diritto: nella specie il diritto opposto al Fallimento consisteva nel diritto reale costituito dalla confisca degli stessi beni da parte dello Stato e si sosteneva da parte del Fallimento che nulla impediva l’acquisizione del patrimonio sociale poiché oggetto della confisca erano le quote sociali e non il patrimonio della società. Correttamente la Corte obietta che è proprio questa affermazione ad aver creato il conflitto “il quale pertanto ricorreva e non poteva essere risolto dal giudice delegato con un provvedimento non contenzioso: Cass. 6 dicembre 2006, n. 26172”. Come si vede si ritiene sufficiente il richiamo a un precedente che aveva definito “non contenzioso” quel tipo di provvedimento ma di richiamo in richiamo si è formata la certezza che si trattasse di provvedimento non contenzioso. Dopo l’intervento delle SU 9 apr. 1984, n. 2258 (“... non anche di disporre l’acquisizione di beni sui quali il terzo possessore rivendichi un proprio diritto esclusivo incompatibile con la loro successiva inclusione nell’attivo fallimentare (nella specie, immobile, detenuto dalla moglie del fallito, in forza di vincolo di destinazione a fondo patrimoniale costituito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento”); 4 feb. 1993, n. 1402; 2 sett. 1996, n. 8004; 14 luglio 1997, n. 6353; Cass. 14 luglio 1997 n. 6353; Cass. 4 febbraio 1993 n. 1402; 5 ottobre 1988 n. 5408. Il decreto del giudice delegato, così come il decreto reso dal tribunale in esito al reclamo, devono ritenersi giuridicamente inesistenti, per carenza assoluta del relativo potere, con l’ulteriore conseguenza che avverso i medesimi, non suscettibili di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 cost., restando in facoltà degli interessati di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici (Cass. 18 agosto 2004 n. 16083).

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liquidazione solitaria davanti al giudice delegato. Malgrado il riconoscimento, in linea di principio, da parte della Cassazione dell’esistenza di decreti del g. d. a natura contenziosa (v. supra la giurisprudenza reattiva alle dichiarazioni di incostituzionalità dell’art. 26 l. fall.), per molti anni ha infatti fiorita dominato la giurisprudenza secondo cui nel fallimento, anche il debito cosiddetto “di massa” controverso, doveva essere verificato attraverso il procedimento previsto dagli artt. 93 e segg. e 101 legge fall., come l’unico idoneo ad assicurare il principio della concorsualità anche nella fase della cognizione, attraverso la necessaria partecipazione ed il contraddittorio di tutti i creditori. Da ciò conseguiva, secondo tale giurisprudenza, che, se il creditore in prededuzione non si fosse avvalso dei mezzi apprestati per l’accertamento del passivo, ma avesse attivato il procedimento camerale endofallimentare con l’istanza al giudice delegato ed il reclamo al tribunale avverso il provvedimento negativo, il procedimento tutto sarebbe stato affetto da radicale nullità. Accanto a tale giurisprudenza si era però andata a formare un’altra giurisprudenza secondo cui la tesi della impraticabilità della via del decreto endofallimentare e del successivo reclamo non sarebbe riferibile alle ipotesi nelle quali il provvedimento impugnato non consiste nel diniego del prelievo, richiesto ai sensi dell’art. 111, 2° co.9, bensì il provvedimento di liquidazione che il giudice delegato emette ai sensi dell’art. 25, n. 7 (ora n. 4) l. fall. Tale giurisprudenza, pur parlando sempre di provvedimento di liquidazione, intende la relativa disposizione come affidamento al giudice delegato, da parte della legge, della competenza a compiere un accertamento, cioè ad accertare l’esistenza, l’ammontare e la prededucibilità del credito. In questo caso, contrariamente a quello di diniego del prelievo ex art. 111, 2° co., l. fall., il provvedimento del giudice non avrebbe affatto carattere meramente ricognitivo, ma sarebbe piuttosto espressione del potere giurisdizionale di accertamento, positivo o negativo, e di determinazione di un credito di massa. Questo risulterebbe dal suo carattere decisorio e cioè dalla sua idoneità ad incidere su diritti soggettivi10. Ora è evidente che questa è, in sé e per sé, una petitio principî, non potendosi certamente ricavare dal testo del vecchio art. 25 n. 7 alcuna attività sicuramente decisoria (si tratta di semplice un visto adesivo a una proposta, ovvero di un “si ritiene doversi liquidare 50” a fronte di una proposta di 100), e dovendosi invece ritenere che il momento decisorio si concretizzi nel provvedimento che segna l’esito del reclamo. E tuttavia, senza una pregiudiziale costruzione del procedimento di reclamo quale esercizio di tutela giurisdizionale, l’esercizio del potere di reclamare resta una mera opzione rispetto alla via diretta della tutela nel procedimento ricognitivo a carattere concorsuale. Non basta invero il vecchio n. 7 dell’art. 25 l. f. che, autorizzando alla liquidazione dei compensi su proposta del curatore indica solo un atto gestionale e nulla lascia trasparire quanto alla eventualità e alla sorte della controversia.

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Vecchio testo: “I prelevamenti indicati al n. 1 sono determinati con decreto del giudice delegato” o dell’art. 34, 2° co., 1. fall., (vecchio testo: ordine del g.d. di impiego delle disponibilità liquide in titoli non immediatamente destinate ai creditori). 10 Tra le tante, Cass. 20 novembre 1993, n. 11480; Cass. 12 giugno 1998, n. 5887; Cass. 3 settembre 1999, n. 9276.

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Ma la giurisprudenza assume l’impugnabilità del provvedimento con il rimedio, endofallimentare del reclamo ex art. 26 l. fall., “il cui regime, a seguito degli interventi della Corte costituzionale e delle soluzioni interpretative accolte dalla Corte11, è idoneo ad offrire adeguata tutela ai diritti soggettivi”. Del resto, gli interventi della Corte costituzionale e le pronunzie adeguatrici della Cassazione avevano avuto riferimento proprio all’ipotesi del reclamo avverso il decreto col quale il giudice delegato liquida il compenso in favore di chi abbia prestato la sua opera in favore del fallimento.

10. In realtà questo filone veniva a porsi in frontale contrasto con la nutrita giurisprudenza per cui il giudice di legittimità (investito del ricorso ex art. 111 Cost. contro il decreto di rigetto del tribunale) era tenuto pregiudizialmente a rilevare d’ufficio, cassando senza rinvio, poiché la domanda non poteva essere proposta con l’originaria istanza diretta al giudice delegato (attivato nell’ambito dei suoi poteri ex art. 25 legge fall.), ma la controversia doveva essere promossa nelle forme dell’art. 93 o dell’art. 101 l. fall.12. Si trattava di una giurisprudenza che altro non faceva se non interpretare la legge nella maniera più plausibile, nel senso se il creditore che pretendeva di essere soddisfatto in prededuzione non si fosse avvalso dei mezzi apprestati per l’accertamento del passivo, ma, a fronte della contestazione in ordine alla prededucibilità del suo credito, avesse attivato il procedimento camerale endofallimentare con l’istanza al giudice delegato e avesse poi reclamato al Tribunale il provvedimento negativo al riguardo, il procedimento tutto sarebbe stato affetto da radicale nullità che il giudice di legittimità (investito del ricorso ex art. 111 Cost. contro il decreto di rigetto del Tribunale) sarebbe stato tenuto pregiudizialmente a rilevare d’ufficio, cassando senza rinvio a norma dell’art. 382, terzo comma, c.p.c., poiché la domanda non poteva essere proposta con la originaria istanza diretta al giudice delegato (attivato nell’ambito dei poteri dell’art. 25 l. fall.), ma la controversia doveva essere promossa nella forme di cui all’art. 93 o – come più frequentemente rispetto ai tempi della procedura – 101 l. fall. Si trattava di una giurisprudenza avvezza a considerare l’obiezione che la disciplina fallimentare conosce specifici provvedimenti di liquidazione (art. 25, n. 7; art. 80, comma 2; art. 34 l. fall.) rimessi alla competenza del giudice delegato e incidenti su diritti soggettivi, la cui tutela è data all’interno del procedimento camerale attraverso il reclamo al Tribunale, e respingerla negando che nell’art. 25 l. fall. potesse rinvenirsi il fondamento del potere al riguardo, sicché il diritto di credito che aspira ad essere soddisfatto con precedenza assoluta sull’attivo del fallimento, non può essere accertato che nelle forme contenziose dei procedimenti di cui agli artt. 93 e 101 l. fall. Inutile dire che la linea di questa giurisprudenza, per quanto più verosimilmente aderente

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Corte cost. 23 marzo 1981, n. 42; Corte cost. 19 novembre 1985, n. 303; Cass. s.u. 9 aprile 1984, n. 2255; Cass. 13 marzo 1987, n. 2652. 12 V., per es., Cass. 14 giugno 2000, n. 8111; Cass. 16 novembre 1999, n. 12670.

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alla legge e al sistema, è stata cancellata dalla riscrittura della legge fallimentare del 2006 che ha di fatto segnato la vittoria dell’altra linea. E infatti l’art. 111-bis l. fall. comma 1, sottoponendo espressamente l’accertamento dei crediti prededucibili “alle modalità di cui al Capo V”, esclude dalla disciplina i crediti “sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione dei compensi dei soggetti nominati ai sensi dell’art. 25”: in quest’ultimo caso, se contestati, essi “devono essere accertati con il procedimento di cui all’articolo 26”. È evidente poi che contro il provvedimento in sede di reclamo resta esperibile il ricorso in cassazione dell’art. 111 Cost. e che il suo mancato esperimento produce il passaggio in giudicato del provvedimento stesso. Come si può agevolmente vedere la legge segue un tracciato di origine giurisprudenziale; di fronte a due linee, qui ha scelto quella all’apparenza maggiormente consolidata a scapito dell’altro. Non è detto che la soluzione sia la migliore possibile (anche se valide giustificazioni non mancano)13. Il provvedimento resta soggetto al reclamo dell’art. 26 e si deve arguire che contro il decreto in sede di reclamo sia ammissibile l’esperimento del ricorso straordinario; resta peraltro aperto il problema del valore da dare alla pronuncia in sede di reclamo che non sia stata impugnata per cassazione. Poiché anche per i crediti prededucibili vale la regola del valore endofallimentare dell’accertamento (art. 96 u. c.), la specialità del trattamento procedurale di questo credito vale a produrre sul suo accertamento un giudicato pieno ovvero deve essere valutato ai soli fini del concorso?

11. Il tema del giusto processo nei confronti del terzo, attraversato dalla vicenda dei decreti di acquisizione, è riportato alla mente dall’intervento legislativo che (nella usuale prospettiva della celerità e della semplificazione che caratterizza le soluzioni processuali escogitate dal legislatore nell’ultimo quarto di secolo) ha riformulato la disciplina dell’acquisto a titolo gratuito. Il d.l. n. 83/2015 (convertito nella legge n. 132/15) ha mirato a regolare simmetricamente, nell’esecuzione singolare e nell’esecuzione concorsuale, il rimedio al pregiudizio derivante al creditore da atti a titolo gratuito del debitore. Prescrive l’art. 2929-bis che il creditore pregiudicato da un atto del debitore, “di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, che ha per oggetto beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, può procedere, munito di titolo esecutivo, a esecuzione forzata, ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia, se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto”. Simmetricamente all’art. 64 della legge fallimentare è stato aggiunto un secondo comma per cui i beni oggetto degli atti di cui al primo comma “sono acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento”. Il rimedio è quindi dato, in un caso e nell’altro, dalla semplice trascrizione sul bene del pignoramento o della sentenza di fallimento con effetto di automatico ritorno nel patrimonio del

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Quale quella per cui, avendo il giudice delegato già operato l’accertamento del diritto al compenso in aderenza al parere del curatore, risulterebbe superfluo un riesame della questione da parte dello stesso organo in sede di verifica.

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debitore del bene; nel caso del fallimento eventualmente dovrà recuperarsi il possesso ma non c’è dubbio che il bene entra automaticamente a far parte dell’attivo e che la trascrizione legittima la procedura a procedere alla vendita ai sensi dell’art. 107. Per semplice che si presenti la soluzione sostanziale, essa porta con sé i propri peculiari problemi processuali. Nel campo dell’esecuzione singolare si è scoperchiata una pentola su problemi in ebollizione (la letteratura è diventata vastissima nel giro di pochi mesi dall’entrata in vigore del decreto); nel campo dell’esecuzione concorsuale, liquidato con poche (e più o meno scontate) considerazioni di circostanza il relativamente semplice tema dell’inquadramento della tecnica di acquisizione del bene del terzo e dell’effetto prodotto, ci si è invece domandati se il rimedio offerto al terzo che non sia d’accordo con l’iniziativa del curatore sia congruo e idoneo mezzo di tutela. Prescrive infatti l’art. 64 c. 2 che “ogni interessato può proporre reclamo avverso la trascrizione a norma dell’articolo 36”. Reclamo, quindi, al giudice delegato per violazione di legge contro un atto di amministrazione del curatore con eventuale ricorso al tribunale entro otto giorni dal provvedimento del g. d. che decide con decreto non soggetto a gravame (comma 2 art. 36). Ben diverso appare il regime della reazione del terzo nell’art. 2929-bis che, se il pregiudizio deriva da un atto di alienazione, dispone che “il creditore promuove l’azione esecutiva nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario. Il debitore, il terzo assoggettato a espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni all’esecuzione di cui al titolo V del libro III del codice di procedura civile quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al primo comma, nonché la conoscenza da parte del debitore del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore.” Con la prescrizione per cui al terzo è dato il rimedio del reclamo dell’art. 36 l. fall. si ritorna alla croce perenne del senso e dei limiti delle subprocedure interne alla procedura principale e, inevitabilmente, al tema della natura anfibia di giudice delegato e collegio in reclamo che si pensava di aver ormai sedato; con il suo portato di scontro tra principi di tutela giurisdizionale e tecniche della gestione della crisi d’impresa. È giustificato immaginare che, nella sua logica “economicistica”, sotto convergenti pressioni di FMI, OCSE e Unione Europea, il legislatore del 2015 avrebbe volentieri soppresso la posizione del terzo: se questi ha acquistato a titolo gratuito, il suo titolo è apparente, non è in alcun modo opponibile alla procedura e dunque egli taccia e si rassegni. Ma, per noiosa che sia, alla possibile lamentela del terzo che le cose non stanno come le vede il curatore, va dato uno sbocco (non ci sono solo FMI, OCSE e Commissione: ci sono ancora CEDU e Corte costituzionale); e così, il secondo comma dell’art. 64 riporta la controversia generata dalla doglianza del terzo all’ambito delle doglianze avverso gli atti di amministrazione del curatore. Del resto la trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento è un atto di gestione, con effetto giuridico di retroversione ma pur sempre atto di reintegrazione del patrimonio.

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In questo clima, con il reclamo ex art. 36 concesso al terzo sembra restare escluso l’esercizio della tutela giurisdizionale e resta (o almeno dovrebbe restare) esclusa anche la

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ricorribilità per cassazione del decreto reso dal tribunale fallimentare in sede di controllo del decreto del giudice delegato in risposta all’eventuale reclamo contro la trascrizione del curatore. Si è tutti d’accordo nel ritenere che oggetto e caratteristiche strutturali del reclamo contro gli atti del curatore non dà luogo ad un procedimento di vera e propria giurisdizione contenziosa, restando esso confinato nella giurisdizione volontaria: se ne trova conferma nelle regole di procedura dettate e, in particolare, nella esclusione di ogni gravame contro il decreto del tribunale, inteso quale gravame il ricorso per cassazione. Ma se questo è il panorama della tutela concessa al terzo, ad esso corrisponde una situazione di sostanziale compressione della garanzia giurisdizionale del “proprietario” che voglia, per es., far valere la successività della dichiarazione di fallimento al biennio dal perfezionamento dell’atto traslativo (tematica che si acuisce in situazione di successive sentenze di fallimento ovvero di consecutio di procedure), la onerosità dell’attribuzione, la presenza dell’adempimento di un dovere morale o la presenza di uno scopo di pubblica utilità in presenza della proporzionalità con il patrimonio dell’alienante, l’errore sull’individuazione del bene (la liberalità potrebbe riguarda una frazione e la trascrizione aver avuto ad oggetto l’intero), l’acquisto a titolo oneroso da parte di un avente causa dell’acquirente dal fallito ecc. Nella prospettiva del legislatore, riflessa dalla struttura della norma, sembrerebbe esclusa la strada dell’azione prevista dall’art. 103 l. fall. A fronte di un rimedio impugnatorio tipizzato – tanto più se il rimedio è, come nel nostro caso, sottoposto a termine – sono, a rigore, impraticabili strade alternative. Si può provare ad immaginare che il neolegislatore del 2015 si sia raffigurato questo sviluppo e lo abbia considerato giustificato dal fatto che al terzo non si riconosce alcuna posizione prevalente rispetto alla posizione della procedura sul presupposto che il bene non è mai effettivamente uscito dal patrimonio del fallito e che non vi sarebbero pertanto ostacoli alla sua acquisizione al Fallimento. Dopodiché lo si dovrebbe considerare assimilato a tutte le altre poste patrimoniali dell’attivo assoggettato ai soli problemi di gestione e liquidazioni con il correttivo del sistema dei reclami “gestorî” dell’art. 36 l. fall. Questa ricostruzione vorrebbe però dire che il nostro terzo non assume – per definizione – le caratteristiche del terzo titolare di diritti opponibili, e si limita pertanto a godere di un rimedio che, se si vertesse in situazione di esecuzione singolare, sarebbe assimilabile alla legittimazione all’opposizione agli atti esecutivi, opposizione (non a caso soggetta a breve termine di esperibilità) deputata a denunciare vizi di forma della procedura e a censurare violazioni delle regole di opportunità economica delle scelte gestorie. Il reclamo dell’art. 36 l. fall. sarebbe né più né meno che il corrispondente tecnico dell’opposizione dell’art. 617 c.p.c. Ora è vero che il terzo contemplato nella vicenda dell’art. 2929-bis c. c. non assume la figura del terzo proprietario esercitante l’opposizione (all’esecuzione contro altri) prevista dall’art. 619 c.p.c. (si tratta di un soggetto direttamente espropriato, secondo il modello delineato dagli artt. 2910 c. 2 cod. civ. e 602 c.p.c., perché contro di esso si dirige l’azione esecutiva e il pignoramento), ma non c’è dubbio che la sostanza della sua pretesa non è altro che l’azione (che un tempo si sarebbe detta “in separazione”) di chi rivendica l’opponibilità del proprio titolo a quello del procedente. Assimilazione quindi ad una opposizione all’esecuzione dell’art. 615 c.p.c., ma opposizione sempre retta dall’interesse all’accertamento dell’opponibilità e

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dunque dal raggiungimento dell’effetto di separazione perseguito con la domanda ai sensi dell’art. 103 l. fall. Ci si chiede ragionevolmente allora, a che titolo si potrebbe negare a tale terzo l’accertamento che spetta al suo omologo nell’esecuzione singolare. In questa egli svolge la tutela del suo (affermato) diritto nelle forme dell’opposizione all’esecuzione e gode della garanzia finale del controllo di legittimità; nell’esecuzione concorsuale dovrebbe accontentarsi di un rimedio soggetto ad un termine brevissimo e caratterizzato da una procedura istituzionalmente intesa a valutare sommariamente i dati disponibili e a risolversi in direttive a carattere amministrativo-gestionale.

13. Allo stato delle cose appare difficile prevedere cosa accadrà nei fatti, considerato che – costretta ancora una volta a confrontarsi con impegni da legislatore – la giurisprudenza si muoverà, come è logico che sia, sulla base degli imprevedibili stimoli del caso concreto. Si possono però enumerare le alternative possibili, anticipando che lo scenario non potrebbe però mai risolversi nella esclusività del rimedio di un art. 36 inteso quale attributivo di un reclamo ricostruito come mero controllo di gestione. La prima alternativa è quella che congiunge l’interpretazione della norma come imponente un percorso obbligato al mantenimento dei caratteri del rimedio come rimedio privo di valenza giurisdizionale. La seconda è quella di ammettere che il terzo possa servirsi certamente del reclamo nei termini prescritti, ma non perda per questo il diritto di ottenere l’accertamento della opponibilità del proprio diritto esperendo l’azione di merito ad hoc. La terza è quella che consideri esclusiva la strada del reclamo ma ne imponga la ricostruzione quale rimedio giurisdizionale garantito in cauda dal controllo di legittimità dell’art. 111 c. 7 Cost. La prima strada condurrebbe diritti alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 64 c. 2 l. f. Non sono necessari lunghi discorsi in proposito: se la legge nega al giudice delegato il potere di emettere provvedimenti che incidono su diritti di terzi quando questi rivendichino propri diritti incompatibili con l’acquisizione, pari causa (se non a fortiori) gli nega il potere di emettere provvedimenti che, a conferma dell’acquisizione proveniente dal curatore, parimenti incidono su diritti di terzi che parimenti rivendicano diritti incompatibili con tale acquisizione. Il sistema dei decreti di acquisizione, ripudiato e cacciato dalla porta, ritornerebbe dalla finestra; i tempi però non sono più adatti per riproporre a ritroso la pièce dei decreti impugnati in sede di legittimità, poi dichiarati inesistenti con provvedimento di inammissibilità del ricorso. Il cambio di mentalità frutto dello storico cambio di paradigma prodotto dall’art. 111 è tale ormai da imporre che siano soppiantati gli scenari delle sanzioni a posteriori per buchi di tutela strutturali a favore della programmazione della loro eliminazione preventiva. La seconda strada (che potrebbe discendere da una sentenza interpretativa della Consulta) trasformerebbe il reclamo, da mezzo necessario di impugnazione nel tentativo opzionale di chiusura semplificata della controversia e garantirebbe ampiamente il diritto alla tutela giurisdizionale del terzo. Questi, ove non esercitasse il reclamo dell’art. 36 nel termine previsto, ovvero non trovasse soddisfazione nel suo esito potrebbe sempre esercitare il rimedio

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dell’art. 103, facendo valere, al pari di ogni altro soggetto che rivendichi propri diritti opponibili al fallimento, una propria situazione soggettiva meritevole di essere accertata secondo le regole generali dell’accertamento giurisdizionale e con tutti i crismi del giusto processo. Resta (in astratto) una terza possibilità: quella di dar luogo alla trasformazione del reclamo gestorio dell’art. 36 in un reclamo a contenuto decisorio. Si tratterebbe di dare alla procedura – in ragione del suo specifico oggetto – il carattere di un processo di accertamento di diritti soggettivi. In astratto il reclamante godrebbe di tutte le garanzie del giusto processo, ma resta la perplessità di piegare le caratteristiche accettate dello strumento ad una funzione ad esso estranea. È comunque difficile accettare di condizionare la sorte di un diritto reale (di per sé opponibile all’acquirente alla vendita forzata) all’esclusività di un rimedio soggetto ad un termine incongruo quale quello degli otto giorni dalla trascrizione14. Meglio appare lasciare all’art. 36 il carattere di rimedio a carattere amministrativo-gestionale, di tentativo di soluzione in via breve della controversia non impeditivo del diritto di agire per l’accertamento della prevalenza del proprio titolo rispetto alla procedura concorsuale. La creatività della giurisprudenza, stimolata nei decenni dalla tradizionale legislazione “per sintesi e sottintesi” viene oggi di nuovo messa alla prova. Quandoquidem bonus dormitat Homerus e proprio sulla barca del giusto processo si è stavolta addormentato il legislatore. Allo spirito costruttivo della giurisprudenza fallimentare torna il suo timone.

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Non risolutivo (seppur più equo) sarebbe sganciare la presunzione legale di conoscenza dal momento del compimento della trascrizione, per legarla al momento dell’effettiva scoperta di questa (da provarsi a carico del reclamante). Benché infatti la soluzione resti preferibile rispetto alla trappola della trascrizione intesa quale presunzione legale di conoscenza, con essa però non si risolvono: a) il problema della eccessiva brevità del termine in sé (eccessiva brevità che si riproporrebbe anche se si considerassero dies a quo successivi alla data della trascrizione) e, soprattutto, b) il problema della incongruenza di un procedimento, quale quello dell’art. 36, con gli accertamenti propri della dimensione revocatoria della controversia, la cui esigenza, pur di fronte al potere di acquisizione del fallimento ed alla conseguente inversione della posizione reciproca delle parti, riemerge allorché il terzo avente causa denunci l’insussistenza della gratuità o la carenza degli altri requisiti per la acquisizione diretta del bene.

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Giurisprudenza commentata

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Giurisprudenza Trib. Roma, sez. II civ.; ordinanza 13 maggio 2017; Dott. A. Canonaco. Intermediazione e consulenza finanziaria – Fondi di investimento – Legittimazione ad agire – Esclusione – Provvedimenti del giudice – Verifica della regolarità del contraddittorio – Ordinanza. I fondi di gestione del risparmio sono sprovvisti di soggettività giuridica autonoma, sicché va esclusa la legittimazione processuale degli stessi. Tuttavia è appropriata la triplice chiamata in giudizio della società di gestione del fondo, dotata di soggettività giuridica, nella sue diverse qualità di società in proprio e di soggetto gestore di patrimoni autonomi. Il provvedimento avente ad oggetto la regolare evocazione e costituzione in giudizio della parti non deve essere pronunciato con sentenza, in quanto attinente e conseguenziale alla verifica della regolarità del contraddittorio.

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.

Questi fantasmi: fondi comuni di investimento, legitimatio ad processum e contraddittorio. Sommario: 1. La fattispecie e il dibattito relativo alla Legittimazione attiva e passiva dei fondi di investimento. – 2. Una singolare ordinanza...

1. La fattispecie e il dibattito relativo alla Legittimazione attiva e passiva dei fondi di investimento.

Il complesso caso giudiziario nell’alveo del quale l’ordinanza in parola è emessa trae origine dalla vicenda qui di seguito brevemente sintetizzata. Un Pubblica Amministrazione ha sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile da costruire con un Fondo comune di investimento immobiliare (Fondo Venditore), gestito da una società di gestione del risparmio (SGR). Successivamente, detta Pubblica Amministrazione ha promosso la costituzione di un (altro) Fondo comune di investimento immobiliare (Fondo Acquirente), allo scopo di procedere all’acquisto dell’immobile in questione, conferendo ad esso il citato contratto preliminare; la gestione del Fondo Acquirente è stata affidata, dalla Pubblica Amministrazione, alla medesima SGR già gestore del Fondo Venditore. All’indomani della compravendita immobiliare, la Pubblica Amministrazione (quotista unico del Fondo Acquirente) ha poi proposto azione nei confronti della SGR, volta all’accertamento della asserita mala gestio della stessa. In tesi di parte attrice, la SGR, nell’ambito della suddetta operazione di compravendita immobiliare tra il Fondo Venditore ed il Fondo Acquirente, non avrebbe rispettato i contenuti del contratto preliminare, favorendo gli interessi del Fondo Venditore a discapito di quelli del Fondo Acquirente. La citazione veniva notificata alla SGR “in proprio” ed alla SGR in qualità di gestore del Fondo Venditore. In particolare, la Pubblica Amministrazione attrice proponeva, altresì, azione

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nei confronti della SGR, in qualità di gestore del Fondo Venditore, surrogandosi ex art. 2900 c.c. nelle azioni e nei diritti risarcitori che la SGR, quale gestore del Fondo Acquirente, avrebbe dovuto e potuto proporre nei confronti della SGR, quale gestore del Fondo Venditore. La SGR, in considerazione della duplice evocazione in giudizio, si costituiva con distinti atti e collegi difensivi, sia “in proprio” che quale gestore del Fondo Venditore. In particolare, la SGR “in proprio” rilevava il difetto di legittimazione passiva del Fondo Venditore, essendo i fondi privi di alcuna soggettività giuridica, oltre che il difetto parziale di legittimazione attiva dell’attrice (avendo questa chiesto la condanna dei convenuti, in solido, al pagamento di alcune voci di danno direttamente in favore del Fondo Acquirente). Deduceva, poi, l’infondatezza nel merito delle domande svolte. La SGR, costituitasi altresì quale gestore del Fondo Venditore, adduceva la mancanza di legittimazione passiva del Fondo medesimo (sempre sul presupposto della assenza di soggettività giuridica dei fondi) ed il difetto di legittimazione surrogatoria della attrice. Alla prima udienza, parte attrice chiedeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Fondo Acquirente, asserito debitore surrogato. Disposta dal Tribunale l’integrazione del contradditorio e notificato dall’attrice il relativo atto di citazione alla SGR in qualità di gestore del Fondo Acquirente, questa si costituiva in giudizio, lamentando, da un lato, la carenza di legittimazione passiva del Fondo (Acquirente) e, dall’altro, l’inammissibilità della ulteriore chiamata in causa della SGR, essendo la stessa già parte del processo. Nell’ordinanza qui in epigrafe il giudice capitolino è preliminarmente chiamato ad accertare la legitimatio ad causam della parte convenuta e a risolvere l’annoso dibattito relativo alla legittimazione attiva e passiva dei fondi di investimento1. La questione, indissolubilmente legata a quella della titolarità del patrimonio del fondo, è affrontata dalla giurisprudenza assai di rado: gli opposti orientamenti che sul punto si avvicendano traggono le mosse unicamente da un ormai datato parere del Consiglio di Stato2 e

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Sulla natura dei Fondi di investimento e sulle teorie che nel tempo si sono avvicendate v., da ultimo, Guffanti e Sanna, Le quote di partecipazione ai fondi comuni, in Società, 2017, 468 ss. e Iacumin, L’azione sociale di responsabilità esperita dalla S.G.R. a tutela del fondo gestito, in Giur. it., 2016, 89 ss. Nella giurisprudenza comunitaria da ultimo Corte giust. 9 dicembre 2015, C 595/13, Foro it., 2016, IV, 161 ss. e Cavanna, Fondi comuni di investimento e Sicav, in Rescigno (a cura di) Trattato di diritto privato, Torino, 2009, 45 ss. Ci si riferisce a Cons. Stato, 11 maggio 1999, n. 608/99, Foro it., Rep. 1999, voce Demanio, nn. 47-50 e a Cass. 15 luglio 2010, n. 16605, id., 2011, I, 1853 ss., con nota di Pellagatta; Caliceti, Vecchie e nuove questioni in tema di fondi comuni di investimento, in Riv. Dir. Civ., 2012, II, 219 ss.; Ferro-Luzzi, Un problema di metodo: la “natura giuridica” dei fondi comuni di investimento (a proposito di Cass. 15 luglio 2010, n. 16605), in Riv. soc., 2012, 751 ss.; Baralis, Fondi immobiliari e SGR: problemi di pubblicità immobiliare, in Riv. Not., 2012, I, 1249; Boggio, Fondi comuni di investimento, separazione patrimoniale, interessi protetti e intestazione di beni immobili, in Giur. it., 2011, 2 ss.; Sansone, La natura giuridica del Fondo comune di investimento: una sanzione superata?, in Società, 2011, 1057 ss.; Fantetti, Separazione e titolarità del patrimonio nei fondi comuni di investimento, in Resp. civ., 2011, 2, 124 ss.; Lamorgese, I fondi comuni d’investimento non hanno soggettività giuridica autonoma, in Contratti, 2011, 1, 27 ss.; Brutti, Fondo comune di investimento: oggetto o soggetto di diritto, in Società, 2011, 1, 46 ss.; Pacileo, Secondo la Cassazione i fondi comuni di investimento non hanno soggettività giuridica, mentre la società di gestione del risparmio ha la titolarità del fondo, in http://www.dircomm.it/2010/n.1/05. html; Scano, Fondi immobiliari e imputazioni degli effetti dell’attività di investimento, in Giur. Comm., 2011, II, 1133 ss.; Ghigi, Separazione patrimoniale e fondi comuni di investimento, ibidem, 1146 ss.; Milizia, L’immobile

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dalle argomentazioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità nel 20103. La disciplina dei Fondi comuni di investimento tracciata dal d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, T.U.F., pur definitivamente sancendo il regime di separazione patrimoniale (e quindi l’autonomia del patrimonio del fondo che è a tutti gli effetti distinto da quello della società di gestione del risparmio, nonché da quello di ciascun partecipante), non offre indicazioni da cui desumere la natura giuridica degli stessi: e così, muovendo dalle ricostruzioni offerte da taluna dottrina prima dell’introduzione del T.U.F., si è inizialmente ipotizzato di ricondurre la fattispecie alla figura della comunione a scopo di godimento ex art. 2248 c.c, così ritenendo che i beni del fondo appartengano pro quota a ciascuno dei partecipanti e che la società di gestione assuma il ruolo assimilabile a quello di mandataria degli investitori, in quanto tenuta a gestire il fondo nel loro interesse4. La constatazione che lo scopo economico-pratico dei fondi d’investimento sia diverso, se non antitetico, da quello tradizionale della comunione, unitamente alla riconosciuta profonda diversità strutturale dei due istituti in parola, ha indotto altra dottrina a perorare la tesi della soggettività giuridica del Fondo distinta sia da quella dei partecipanti sia da quella della società di gestione che lo ha istituito. Muovendo dall’assunto in virtù del quale, anche in assenza del formale riconoscimento della personalità, un ente possa esser considerato un centro di imputazione di rapporti giuridici e, perciò stesso, titolare di obblighi e diritti (anche sul piano processuale), è allora apparsa risolutiva l’assimilazione della fattispecie alla figura della fondazione non riconosciuta o della associazione non riconosciuta costituita fra i partecipanti5. Proprio il Consiglio di Stato, chiamato ad esprimersi sulla questione, ha qualificato i fondi alla stregua di centri autonomi di imputazione di interessi, conseguentemente riconoscendo che la titolarità dei loro beni debba essere riferita agli stessi fondi6. In questa prospettiva, configurandosi il rapporto tra ente collettivo e fondo comune in termini sostanziali di mandato con rappresentanza, la legittimazione del secondo ad agire e resistere in giudizio si esplica attraverso il primo, il quale a tal fine lo rappresenta in qualità di società di gestione, e non in proprio. Non sono mancati filoni interpretativi di segno opposto. In difetto di indicazioni normative che consentano siffatta assimilazione, di una struttura organizzativa minima, di rilevanza anche esterna, che è invece tipica degli enti non riconosciuti e di strumenti che consentano al fondo di porsi direttamente in relazione con i terzi (dovendo esso necessariamente agire

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acquistato da una finanziaria e confluito in un fondo di investimento istituito dalla stessa deve essere intestato alla società che lo gestisce poiché rientra nel suo patrimonio separato, in Dir. e giust., 2010, 429 ss. E poi ribadite da Cass. 2013, n. 12187, Foro it., Rep., 2013 voce Intermediazione e consulenza finanziaria, n. 109. In tal senso v. le argomentazioni di Bartoli, I fondi comuni d’investimento immobiliare nelle previsioni della legge 410/2001, in www.dircomm.it; Foschini, Il diritto del mercato finanziario, Milano, 2002, 86 ss. e, ben prima, Ascarelli, L’«investment trust», in Banca, borsa, ecc., 1954, I, 178 ss.; Visentini, Riflessioni in tema di fondi comuni d’investimento con riferimento al disegno di legge governativo, in Riv. società, 1969, 1194 ss.; v. anche Libonati, «Holding» e «investment trust», Milano, 1959, 527 ss. In questo senso in particolare Nigro, I fondi comuni di investimento immobiliare, Milano, 1970, 92; Id., I fondi comuni di investimento mobiliare: struttura e natura giuridica, in Riv. trim. dir e proc. civ., 1969, 1522 ss. Fa espresso riferimento alle fondazioni non riconosciute, invece, Costi, La struttura dei fondi comuni d’investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di riforma delle società commerciali, id., 1968, 242 ss. Contra Lener, Istituzione e disciplina dei fondi comuni di investimento, in Nuove leggi civ., 1984, 398 ss., 408 ss. Cons. Stato, parere 11 maggio 1999, n. 608, in Cons. Stato, 1999, I, 2216.

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per il tramite della società di gestione), la sua configurazione quale soggetto autonomo è stata esclusa rappresentando anzi «una complicazione non necessaria ai fini della tutela dei partecipanti»7. Propugnata da taluni autori prima dell’entrata in vigore del T.U.F. e poi avvalorata dal disposto di cui agli artt. 1, lett. j, e 36 del T.U.F. (che espressamente individuano nel fondo un patrimonio autonomo), ha trovato l’avallo della giurisprudenza di legittimità la tesi secondo cui il fondo, lungi dal costituire un autonomo centro di imputazione, si sostanzia in un patrimonio “separato”: in questa prospettiva la titolarità formale del fondo è attribuita alla società di gestione, che dispone della signoria sul patrimonio e del potere di disposizione, restando comunque esso “destinato” all’attività d’investimento prevista nel regolamento per l’esclusivo soddisfacimento dei risparmiatori8. Nella “autonomia” e nella “separazione” del patrimonio del fondo da quello della società è insita la limitazione della responsabilità patrimoniale, volta ad evitare che le conseguenze debitorie delle attività compiute dalla seconda nel proprio interesse si ripercuotano sulla posizione giuridica dei partecipanti al fondo. Nell’ottica pubblicistica della tutela del risparmio sono così reciprocamente ininfluenti i rapporti che intercorrono tra patrimonio del fondo, patrimoni dei partecipanti e patrimoni della società di gestione. Parafrasando il dictum della suprema Corte, la scissione tra proprietà formale del fondo (in capo alla società che lo ha istituito) e proprietà sostanziale (che invece spetta ai proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo stesso) determina, quale ovvio corollario, che ogni attività negoziale o processuale posta in essere nell’interesse del patrimonio separato «debba essere espletata in nome del soggetto che di esso è titolare, pur se con l’obbligo di imputarne gli effetti a quello specifico ben distinto patrimonio»9. Non sembra peregrino ipotizzare, a questo punto, che la legittimazione processuale della società sia certamente non rappresentativa, agendo l’ente titolare del patrimonio non in rappresentanza di un soggetto che di fatto non esiste, né tantomeno in rappresentanza dei risparmiatori, bensì in proprio. La fattispecie intesa quale complesso di beni e rapporti desti-

Così testualmente Cass. 15 luglio 2010, n. 16605, cit. Optano per siffatta ricostruzione anche Trib. Milano, 11 maggio 2015, in Giur. it., 2016, 89 ss., con nota di Iacumin, L’azione sociale di responsabilità esperita dalla S.G.R. a tutela del fondo gestito, cit.; Cass., 17 ottobre 2012, n. 17793, in Giust. Civ. Mass., 2012, 10, 1220; Cass. 20 maggio 2013, n. 12187, in Dir. e Giust., 2013, 23 maggio, con nota di Terlizzi; Cass. 19 giugno 2013, n. 15319, in Giust. Civ. Mass., 2013. Sull’incapacità del Fondo di auto-amministrarsi, essendo ogni decisione in ordine agli investimenti ed ai disinvestimenti affidata esclusivamente alla società di gestione del risparmio, v. Fantetti, Separazione e titolarità del patrimonio nei fondi comuni di investimento, in Resp. civ., 2011, 124 ss. e già Lener, Istituzione e disciplina dei fondi comuni di investimento, cit., 85. 8 In prospettiva ancora diversa, propugna in via alternativa l’idea di considerare il Fondo alla stregua di un patrimonio senza soggetto, proprietà di nessuno, Costi, La struttura dei fondi comuni d’investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di riforma delle società commerciali, cit., 247 s. 9 Nel senso che la titolarità formale, intesa quale diritto di disporre e non di godere di quei beni (con l’ulteriore vincolo di disporne a vantaggio dei partecipanti al fondo in capo alla S.G.R.), spetta alla società di gestione, mentre la proprietà sostanziale, quale diritto di godere dei beni del fondo e dei loro frutti, va ascritta in capo ai partecipanti al fondo, v. Trib. Milano, 11 maggio 2015, cit., che riprende Cass. 15 luglio 2010, n. 16605, cit., ove, peraltro, si precisa che qualora la società promotrice non coincida col gestore, la suddetta titolarità formale, al pari della legittimazione anche processuale che ne consegue, spettano alla prima. 7

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nati ad un fine determinato fa pensare la figura del trust, là dove il trustee intestatario della proprietà “destinata” è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, non trovando la sua legittimazione fonte nella rappresentanza: nessuno dubita, del resto, che questi lungi dall’assumere le vesti di rappresentante legale dei beneficiari, né di altro soggetto giuridico, abbia capacità processuale e legittimazione in giudizio attiva e passiva per il contenzioso relativo i beni del trust10. Oggi una ricostruzione diversa, del tutto svincolata dalla sterile differenziazione tra titolarità formale e sostanziale, sarebbe forse più razionale, oltre che idonea a risolvere ex ante le questioni attinenti non solo alla legittimazione processuale, ma anche alla pubblicità e alla responsabilità per incapienza. La segregazione patrimoniale e la destinazione dei beni alle finalità stabilite dal regolamento all’interesse dei partecipanti paiono già di per se sufficienti a salvaguardare le posizioni dei risparmiatori. La previsione di una autonoma soggettività di certo non sarebbe idonea ad intaccarle… tutt’altro. La gestione assunta dalla società, con gli obblighi e le responsabilità del mandatario, del resto, è vincolata a fini predeterminati e all’interesse dei partecipanti, oltre che dettagliatamente disciplinata dal regolamento di cui all’art. 37 T.U.F. Appigli normativi che confortano il riconoscimento di una soggettività quantomeno attenuata giungono da recenti interventi normativi: a titolo esemplificativo si consideri la l. 12 novembre 2011, n. 183 che all’art. 6 riconosce ai fondi istituiti dalla società di gestione del risparmio del Ministero dell’economia e delle finanze la possibilità di acquistare beni immobili o, ancora, il comma 6 dell’art. 57 T.U.F., introdotto dal d. lg. 16 aprile 2012 n. 47, che contempla la possibilità di ammettere alla procedura di liquidazione coatta amministrativa anche i fondi indipendentemente dalle società che li gestiscono11. Soggettività che resterebbe, in ogni caso, non paragonabile a quella propria degli enti di investimento a capitale fisso (“SICAF”), intesi quali organismi di investimento collettivo del risparmio, per certi versi omologhi ai fondi comuni di investimento di tipo chiuso, ma costituiti sotto forma di società per azioni dunque dotate ex lege – in quanto, formalmente, società – di personalità giuridica.

In tal senso, tra le tante, v. Cass. 18 dicembre 2015, n. 25478; 9 maggio 2014, n. 10105, Foro it., 2015, I, 1328, con nota di Palmieri ed ivi per riferimenti. In dottrina sulla natura del trust v., da ultimo, Graziadei, Soggettività del trust e natura dell’attribuzione al trustee, in Notariato, 2017, 262 ss. e Lupoi, La metabolizzazione del trust, in Corrire giur., 2017, 781 ss.; Id., L’atto istitutivo di trust, Milano, 2005. 11 Per tali rilievi v. Trib. Milano 10 giugno 2016. La pronuncia da ultimo segnalata annovera tra i dati normativi da cui è possibile desumere l’autonomia patrimoniale del fondo «il comma 6 dell’art. 36 T.U.F., in forza del quale delle obbligazioni contratte per suo conto, il fondo comune di investimento risponde esclusivamente con il proprio patrimonio». L’attuale formulazione dell’art. 36, comma 6, del TUF, come modificata con D.Lgs. n. 44/2014, però recita, testualmente: “Ciascun fondo comune di investimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società; delle obbligazioni contratte per conto del fondo, la Sgr risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo”. Rispetto a quanto osservato dal Tribunale di Milano, quindi, il testo legislativo è stato modificato e non sembrerebbe più prestarsi all’interpretazione dallo stesso avvallata. 10

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Una singolare ordinanza...

L’ordinanza in epigrafe, nell’escludere la legittimazione processuale dei fondi costituiti in giudizio, si uniforma all’orientamento giurisprudenziale che nega soggettività giuridica au tonoma agli stessi, ma al contempo riconosce la legittimità di tre distinte vocatio in ius con le quali la medesima società di gestione è chiamata nel processo (e cioè in proprio, quale gestore del Fondo Venditore e, ancora, quale gestore del Fondo Acquirente). Tanto, si legge, al fine di «rendere edotta … SGR che essa era convenuta sia per le obbligazioni assunte dalla SGR in proprio, quale mandataria rispetto alla [attrice], sia per le obbligazioni contratte nell’interesse e per conto dei due patrimoni autonomi (Fondo … [Acquirente] e Fondo … [Venditore]) per le quali la SGR deve rispondere con due distinti patrimoni». Escluso che la società convenuta nei suoi differenti ruoli possa godere di una rappresentanza processuale unitaria, in quanto rappresentante di centri autonomi di interessi, distinti e confliggenti (in ragione del fatto che in forza dell’azione surrogatoria esperita si troverebbe ad operare all’interno dello stesso processo dal lato attivo e dal lato passivo), il giudice dispone allora la nomina di un curatore speciale che tuteli le posizioni di contrasto del Fondo Acquirente, assegnando alle parti un termine per proporre istanza in sede di volontaria giurisdizione. A seguire il ragionamento del giudice, verrebbe a tal proposito da chiedersi come mai la situazione di incompatibilità attenga unicamente ai rapporti tra Fondo Acquirente e Società di gestione e non anche a quelli tra Fondo Venditore e Società di gestione, attesa l’evidente commistione di posizioni! Mosso da siffatte argomentazioni, il tribunale capitolino, dichiara con ordinanza (!) la nullità dell’atto di citazione in integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente gestore del Fondo Acquirente e l’inammissibilità della domanda riconvenzionale spiegata nel suo interesse dalla SGR “in proprio” (atteso l’accertato conflitto di interessi che non consente alla società di gestione di “rappresentarlo” in giudizio), oltre che l’inammissibilità della costituzione, con distinto atto di costituzione e collegio difensivo, della medesima Società quale gestore del Fondo Venditore, in quanto già parte del processo. Ora è palese che se il conflitto di interessi può impedire all’ente di gestione di occuparsi della difesa del Fondo Acquirente, giammai da ciò può scaturire la nullità dell’atto di costituzione dell’ente evocato in giudizio e giammai la relativa declaratoria potrebbe essere contenuta in un provvedimento ordinatorio. Resta comunque da capire come mai si reputi opportuna – anzi doverosa – la triplice chiamata in giudizio della parte in ragione del triplice ruolo dalla stessa rivestito, ma si finisca poi per considerare inammissibile ovvero nulla la triplice costituzione in giudizio della stessa. È evidente che, esclusa la soggettività giuridica del Fondo di investimento, la citazione in giudizio deve essere indirizzata all’unico soggetto di diritto, la società di gestione del risparmio, la quale deve potersi costituire nella duplice veste di titolare e gestore di autonomi centri di interessi, contando su una rappresentanza processuale unitaria. Se, come nel caso di specie, la società di gestione del risparmio sia “costretta”, dalle modalità della vocatio in ius dell’attrice, a costituirsi in giudizio con distinti atti e distinti collegi, non si può poi dichiarare la inammissibilità della separata costituzione in giudizio e lo stralcio degli atti processuali afferenti tale posizione (ci si riferisce, in particolare, al Fondo Venditore), senza che alla SGR sia data la possibilità di “ricominciare” il giudizio ed assumere

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(nell’ambito dell’unitaria rappresentanza processuale) compiutamente anche le difese anche del Fondo Venditore. Ciò detto, merita di essere rilevato che la pronuncia qui in commento ha rivestito, per espressa ammissione dell’organo giurisdizionale, la forma dell’ordinanza e non della sentenza «in quanto attinente e conseguenziale alla verifica della regolarità del contraddittorio». In altre parole, il vizio risultante dalla presenza in causa di soggetti non adeguatamente rappresentati avrebbe impedito di decidere della loro posizione. L’ordinanza de qua – non è superfluo precisarlo – era stata preceduta dalla rimessione anticipata della causa in decisione all’esito delle eccezioni di difetto di legittimazione attiva e passiva sollevate dalle parti: decisione, tuttavia, impedita da una successiva differente valutazione del giudice che, re melius perpensa, esclude l’attitudine delle questioni sollevate a definire il giudizio ex art. 187, 2 e 3 comma, c.p.c. (e a giustificare una pronuncia ex art. 279, 2 comma, n. 4 c.p.c.) e dispone la rimessione della causa sul ruolo. Il singolare iter che precede l’emissione dell’ordinanza, unitamente al particolare contenuto che la contraddistingue, pone questioni di notevole interesse, legate essenzialmente alla determinazione della portata del provvedimento e al suo regime di impugnabilità e alla “sorte” delle parti di fatto estromesse dal processo. Come è noto, l’ordinanza rappresenta il provvedimento con cui l’organo giurisdizionale regola lo svolgimento del processo e risolve le questioni eventualmente sorte tra le parti che riguardano l’iter procedimentale; essa non pregiudica la decisone della causa e sottostà al generale principio di revocabilità e modificabilità12. Traslando tale comune definizione alla fattispecie concreta è facile constatare però che, statuendo in ordine alla legitimatio ad processum, l’organo giurisdizionale non si limita a regolamentare l’iter procedurale e che la pronuncia pregiudica la decisione della causa nella misura in cui espunge dal processo alcune parti, ordinando lo stralcio di tutti gli atti relativi e successivi alla loro costituzione. In virtù di un provvedimento che dichiara la nullità dell’atto di citazione in integrazione del contraddittorio (disposta ex officio!) e l’inammissibilità della costituzione di alcune delle parti, la “sorte” di queste ultime resta tutta da verificare: espunte dal processo non avranno possibilità di far valere le proprie ragioni, non avranno titolo per dolersi della pronuncia, né possibilità di rivendicare la refusione delle spese sostenute per fare fronte alla chiamata giudiziale13. La parte estromessa subisce così un pregiudizio patrimoniale (spese) ma non ha strumenti per ripararvi ed è posta in una situazione in aperta contraddizione con il contenuto minimo dell’idea di “giusto processo”. Un possibile rimedio può cercarsi nel ricorso al principio della c.d. “prevalenza del contenuto sulla forma” per qualificare il provvedimento,

Su cui Sassani, Lineamenti del processo civile, Milano, 2017, 131; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2017, 53 ss.; Chizzini, Provvedimenti del giudice, in Digesto civ., Torino, 1997, vol. XVI, 65 ss. Andrioli, Ordinanza (Riv dir. proc.), in Enciclopedia dir., XXX, Milano, 1980, 947 ss.; Lancellotti, Ordinanza (Riv dir. proc.), in Novissimo Digesto it., XIV, Torino, 1965, 80 ss. 13 In relazione invece alla dichiarazione di estromissione dal giudizio v. Cass. 26 marzo 2013, n. 7625, Foro it., Rep. 2016, voce Spese giudiziali civili, n. 26, che si uniforma all’orientamento orami consolidato in virtù del quale la sentenza di estromissione del soggetto privo di legittimazione passiva ha il valore di una pronuncia di rigetto della domanda proposta contro tale soggetto e, quindi, esaurendo nei confronti di questo al materia del contendere, deve provvedere al regolamento delle spese del relativo rapporto processuale. 12

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Giurisprudenza

in ragione del suo contenuto decisorio, alla stregua di una sentenza di senso sostanziale14. In effetti, per valutare se in concreto un provvedimento presenti il carattere della decisorietà occorre aver riguardo al contenuto e agli effetti giuridici che lo stesso è destinato a produrre: si è in presenza di un’autentica ordinanza quando il provvedimento adottato disponga della “gestione” della procedura (e quindi delle attività consentite alle parti); si è al cospetto, viceversa, dell’equivalente di una sentenza quando il giudice nell’esercizio del suo potere decisionale dichiari diritti ed obblighi (sostanziali) ovvero si pronunci sullo stato del presupposti e delle condizioni attinenti al processo15. Tutto chiaro? No, perché, se è vero che queste sono le statuizioni reperibili nella pronuncia in epigrafe, è anche vero che nella specie il giudice ha apertis verbis escluso il contenuto decisorio delle proprie statuizioni, in nome del postulato vizio di contraddittorio16.

In giurisprudenza, nel senso che per stabilire se un provvedimento abbia carattere di sentenza o di ordinanza occorre avere riguardo non già alla sua forma esteriore ed alla qualificazione attribuitagli dal giudice che lo ha emesso, ma agli effetti giuridici che è destinato a produrre, v. Cass. 7 luglio 2013, n. 10602, in Riv. dir. proc., 2014, 1243, con nota di Lombardi, Sull’impugnazione dell’ordinanza che dispone la modalità di estrazione a sorte dei lotti. Sul tema, in riferimento al processo esecutivo, v. Capponi, Ordinanze decisorie abnormi del g. e. tra impugnazioni ordinarie e opposizioni esecutive, in Riv. esec. forz., 2017, 317 ss. Nel senso che il provvedimento non ha il carattere della decisorietà e della definitività quando la pronuncia spiega i suoi effetti solo sul piano processuale, producendo la sua efficacia soltanto all’interno del processo, v. Cass., sez. un., 9 giugno 2004, n. 10946, Foro it., Rep. 2004, voce Sentenza civile, n. 44; 30 luglio 2004, n. 14637, ibid., n. 10. Sulle ordinanze decisorie e sul concetto di sentenza in senso sostanziale v. Marinucci, Forma dei provvedimenti del collegio, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, II, Torino, 2013, Sub art. 279, 120 ss. Sull’impugnabilità delle ordinanze a contenuto decisorio v. Sassani, Lineamenti del processo civile, cit., 502 ss., spec. nt. 7, il quale precisa che «la soluzione che riconosce effetti al provvedimento in forma sbagliata e lo sottopone all’impugnazione prevista in funzione del suo contenuto…è molto più semplice, comoda e economica dal punto di vista processuale». Sulla questione v. anche Locatelli, Dei provvedimenti del giudice, in Commentario del codice di procedura civile, cit., Sub art. 131, 613ss.; Tedoldi, L’appello civile, Torino, 2015, 65 ss.; Besso, Principio di prevalenza della sostanza sulla forma e requisiti formali del provvedimento: un importante revirement della corte di cassazione, in Giur. it., 2007, 947 ss.; Carratta, «Sostanza» del provvedimento abnorme e impugnazioni: le «sopravvalutazioni formalistiche» della cassazione, in Giur. it., 2002, 1197 e Id., Sul provvedimento giudiziale c.d. abnorme e sui limiti della prevalenza della «sostanza» sulla «forma», id., 2000, 924 ss., il quale precisa che l’applicazione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma deve essere limitato alla sola individuazione del sistema impugnatorio, dovendosi escludere che esso possa anche condizionare i poteri del giudice dell’impugnazione. A favore dell’orientamento che privilegia l’aspetto formale del provvedimento in dottrina v., per tutti, De Divitiis, Sulla teoria del meistbegünstigung nel processo civile tedesco (forma e sostanza nei provvedimenti del giudice), in Riv. dir. proc., 1993, 410 ss.; Tarzia, Profili della sentenza impugnabile, I, Milano, 1967, 117 ss. e 177 ss.; Mandrioli, L’assorbimento dell’azione civile di nullità e l’art. 111 Cost., Milano, 1967, 104 ss.; Calamandrei- Furno, Cassazione civile, voce del Novissimo digesto, Torino, 1958, 1068; Andrioli, Commento al codice di procedura civile, 3a ed., Napoli, 1956, III, 367 s. Per ulteriori indicazioni v. Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino, 2005, 82. 15 V. per tutte Cass. 26 gennaio 2016, n. 1400, Foro it., Rep. 2016, voce Competenza civile, n. 121; 31 maggio 2016, n. 11229, ibid., voce Appello civile, n. 36; 15 luglio 2009, n. 16471, id., Rep. 2009, voce Esecuzione di obblighi di fare, n. 6; 12 giugno 2007, n. 13774, id., Rep. 2007, voce Sentenza civile, n. 60; 18 gennaio 2005, n. 950, id., Rep. 2005, voce Procedimento civile, n. 331; 23 maggio 2003, n. 8190, Giur. it., 2004, 259. 16 Argomentando dal principio dell’apparenza, attribuiscono rilevanza predominante, ai fini dell’ identificazione del mezzo di impugnazione esperibile, alla qualificazione effettuata dal giudice a quo, sia essa corretta o meno, e a prescindere dalla qualificazione che ne abbiano dato le parti, Cass. 2 marzo 2012, n. 3338, Foro it., Rep. 2012, 14

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Quest’affermazione moltiplica le perplessità. Un soggetto è stato individuato come parte del processo dal giudice e da questi è stato chiamato in giudizio (sicché non si è costituito di sua iniziativa). La declaratoria del suo difetto di legittimazione si sostanzia nella qualificazione di un suo status di cui ne decide la sorte: al malcapitato non può certo negarsi la chance dell’impugnazione17. Il provvedimento però dichiara contestualmente di non decidere di alcunché, bensì di limitarsi a regolare il procedimento ripristinando il normale svolgersi della procedura turbato da un incidente di percorso. Ne discende una situazione davvero surreale: X diventa parte (contro la propria volontà) di una vicenda che presenta profili economici diretti a suo carico (spese) ma non ha voce in capitolo per discuterne! La spiegazione fornita in ordinanza, per cui di tutto questo non si può e deve decidere, è parimenti singolare: la giustificazione (il contraddittorio non sarebbe integro) equivale, dal punto di vista logico, a dire che della inesistenza di un atto non potrebbe decidersi perché... non esiste l’atto. Se le spese per la costituzione (imposta jussu iudicis) sono state affrontate da X in proprio, di esse il giudice dovrà evidentemente decidere nei confronti dello stesso X ed è poco sensato assumere l’impossibilità di tale decisione perché X non avrebbe soggettività processuale: qualunque sia la posizione di X è evidente che esso ha comunque quel tanto di soggettività processuale necessaria a permettergli di contraddire su quanto specificamente riferito alla vicenda patrimoniale imputatagli. La mancanza di una completa soggettività processuale non contraddice la soggettività processuale necessaria e sufficiente per partecipare alla controversia sulla sua generale soggettività processuale. Senza contare che X avrebbe il diritto di non essere d’accordo con la conclusione a cui è pervenuto il provvedimento e non si capisce come se ne possa escludere la legittimazione a contestarne il contenuto. La decisione presa imponeva pertanto la forma della sentenza e, a dispetto della dichiarazione di “non decidere”, l’erronea forma di ordinanza impartita alla decisione non può impedire all’estromesso di sperimentare le impugnazioni previste dalla legge per la sentenza: la volontà del giudice di non aver più a che fare con questi è evidentemente impotente a cancellare il contenuto oggettivo del provvedimento.

Olga Desiato

voce Impugnazioni civili, n. 36; 21 dicembre 2009, n. 26919, id., Rep. 2009, voce cit., n. 21; 14 maggio 2007, n. 11012, id., Rep. 2007, voce cit., n. 16. 17 Sempre previa formulazione della riserva di appello ex art. 340 c.p.c.

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Giurisprudenza Trib. Roma, 4 novembre 2016, n. 20532, Pres. Rel. Mannino , F. R. - R. Costruzioni S.r.l. Arbitrato di diritto comune – arbitrato societario – clausola compromissoria – nulità – inapplicabilità art. 1419. 2° comma, c.c. Qualsiasi clausola statutaria, che non deferisca la nomina di tutti gli arbitri ad un terzo estraneo alla società – sia se introdotta ex novo dopo l’entrata in vigore della riforma di cui al D.Lgs. n. 5/2003, sia se preesistente e non adeguata alle nuove previsioni – è indefettibilmente nulla. Va, altresì, escluso che, in detta ipotesi, possa operare l’art. 1419, 2° comma, c.c., in quanto tale norma trova applicazione solamente se vi è un’espressa indicazione di legge, che sancisca la sostituzione della clausola nulla con la norma inderogabile violata; indicazione che, in questo caso, manca. In materia societaria, è precluso l’accesso all’arbitrato di diritto comune.

Il fatto. Con atto di citazione ritualmente notificato F. R. conveniva innanzi a questo Tribunale la R. S.r.l. in liquidazione. L’attore, esponeva di essere stato amministratore unico della società convenuta dalla data della sua costituzione sino al 26/01/12 e di non avere percepito durante tale periodo alcun compenso; pertanto, chiedeva che questo tribunale volesse · accertare e dichiarare il diritto di parte attrice al riconoscimento del compenso per l’attività svolta come Amministratore Unico della R. Costruzioni S.r.l. dal 21.02.1995 sino al 26.01.2012, · e per l’effetto in integrale accoglimento della domanda condannare la R. Costruzioni S.r.l. al pagamento dei compensi per l’attività svolta come Amministratore Unico al sig. F. R. dal 21.02.1995 sino al 26.01.2012 per quella somma da determinarsi in corso di causa anche a mezzo di CTU contabile anche in relazione al combinato disposto degli artt. 36 Cost. e 2099 c.c. ovvero da determinarsi in via equitativa. In ogni caso con interessi e rivalutazione monetaria dalle singole date di maturazione del credito sino al soddisfo. · Con ogni conseguente provvedimento favorevole anche in ordine alle spese e compensi professionali a distrarsi in favore del sottoscritto procuratore che se ne dichiara antistatario. Costituitasi tempestivamente, la convenuta eccepiva, in via preliminare, l’incompetenza del Giudice adito e l’esistenza di una clausola compromissoria; in subordine e nel merito chiedeva

che “nella denegata ipotesi il Tribunale dichiarasse la propria competenza: A. Accerti e dichiari che i crediti maturati dal sig. F. R. per l’attività prestata in favore della R. Costruzioni s.r.l nel periodo che va dal 02/1995 al 26/03/2007 sono prescritti per il decorso del termine di cui all’art. 2949 c.c. B. Determini in via gradata e tenuto conto dell’attività effettivamente svolta dal F. R., delle dimensioni, del fatturato e dei risultati conseguiti dalla società, il giusto compenso dell’amministratore. · Con vittoria di spese e compensi professionali.” Concessi i termini di cui all’art. 183 c.p.c., rigettate le istanze istruttorie, all’udienza del 31/05/16, precisate le conclusioni, la causa era posta in decisione con i termini di legge. I motivi. A fronte della pretesa avanzata dall’attore, la convenuta ha dedotto 1) l’incompetenza del giudice adito; 2) l’esistenza di una clausola statutaria compromissoria; 3) la prescrizione del diritto al compenso; 4) l’errata determinazione del quantum debeatur. Le eccezioni di cui ai superiori punti da 1 a 3 sono infondate. Infatti, la presente controversia, avente ad oggetto la richiesta di liquidazione del compenso da parte di un ex amministratore di una società di

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capitali, società a responsabilità limitata, rientra tra le materie che l’art.3 del D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, così come sostituito dall’art.2, co. 1, lett. d), del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, assegna alla competenza inderogabile delle sezioni specializzate in materia di impresa. (Omissis). Quanto alla dedotta competenza arbitrale prevista dall’art. 21 dello statuto della R. Costruzioni si deve rilevare la nullità della clausola invocata, non essendo stata quest’ultima adeguata alle disposizioni inderogabili di cui all’art. 34 del D.Lgs. n. 5/2003. Infatti, come già questo Tribunale ha statuito in precedenti sentenze, gli artt. 34 e ss. del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 hanno introdotto un “nuovo tipo di arbitrato endo-societario” – come definito dalla stessa Relazione governativa che accompagna il D.Lgs n. 5/2003 – che, per molti aspetti di significativo rilievo, si discosta dal modello tradizionale dell’arbitrato di “diritto comune” di cui agli artt. 806 ss. c.p.c., e che è destinato a trovare applicazione con riferimento alle controversie tra soci ovvero tra soci e società purché a) il ricorso alla via arbitrale sia previsto in una clausola compromissoria contenuta nello statuto o nell’atto costitutivo; b) la società non rientri tra quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325 bis c.c.. Le disposizioni degli artt. 34 e ss. del D.Lgs. n. 5/2003 delineano un sistema improntato al favor arbitrati. La volontà del Legislatore della riforma di favorire la soluzione e composizione non giudiziale delle controversie endosocietarie può cogliersi, innanzitutto, nella previsione per cui la clausola compromissoria trasfusa nell’atto costitutivo di una società commerciale, ove contempli la devoluzione ad arbitri delle controversie che coinvolgono amministratori, liquidatori e sindaci, vincola costoro in forza della mera accettazione dell’incarico (art. 34, IV co., del D.Lgs. n. 5/2003); espressione della medesima tendenza può ritenersi, poi, il disposto dell’art. 35, V co., del D.Lgs. n. 5/2003 che, da un canto, contiene l’espressa previsione della compromettibilità in arbitri delle controversie aventi ad oggetto la va-

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lidità di delibere assembleari e, dall’altra, dispone che, in presenza di una clausola compromissoria che contempli la devoluzione ad arbitri di tali controversie in materia di validità delle deliberazioni assembleari, agli arbitri competa anche il potere di disporre, con decisione non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera. Il Legislatore della riforma ha inteso, dunque, superare la posizione tradizionale della giurisprudenza che, in passato, aveva prevalentemente ritenuto non compromettibile la porzione più rilevante delle questioni endosocietarie, sul rilievo che le stesse si sarebbero prestate a dar vita a controversie “ad alto rischio multiparti”, nonché a coinvolgere interessi anche ultronei e/o di carattere superindividuale (e dunque ritenuti indisponibili) rispetto a quelli dei soggetti che avevano accettato di sottoporsi ad un arbitrato. Tuttavia, proprio in considerazione della molteplicità degli interessi in gioco nell’ambito societario e del loro tasso, sia pur variabile, di indisponibilità, nel delineare il nuovo tipo dell’arbitrato endosocietario, il Legislatore ha previsto e prescritto che il potere di nomina dell’arbitro resti sottratto a tutti i soggetti potenzialmente coinvolti nel procedimento arbitrale, ed assegnato ad un extraneus indipendente (individuato o individuabile ex ante), restando, invece, nella disponibilità dei soci, oltre all’individuazione di detto soggetto esterno, la decisione circa “il numero e le modalità di nomina degli arbitri”, da indicarsi nella clausola compromissoria. (Omissis). Pertanto, qualsiasi clausola statutaria non conforme alla norma inderogabile di cui al citato secondo comma del D.Lgs. n. 5/2003 – sia se introdotta ex novo dopo l’entrata in vigore della riforma, sia se preesistente e non adeguata alle nuove previsioni – va considerata indefettibilmente nulla, con conseguente preclusione dell’accesso non solo all’arbitrato endosocietario ma anche all’arbitrato di diritto comune che, in materia societario, non può trovare applicazione alcuna. (Omissis). A parere di questo Giudice, tuttavia, l’indirizzo sopra richiamato – volto ad assicurare persistente


Maria Rosaria Lenti

validità e rilevanza alle clausole compromissorie di tipo tradizionale inserite negli atti costitutivi o negli statuti di società – non può condividersi, ponendosi in netto contrasto con la evidente volontà del Legislatore della riforma di delineare, con le disposizioni di cui agli artt. 34 e ss. del D.Lgs. n. 5/2003, l’unico modello di procedimento arbitrale destinato ad operare con riferimento alle controversie endosocietarie; volontà, questa, confermata anche nel parere reso successivamente dalla Camera, in occasione dell’emanazione del D.Lgs. n. 310/2004, correttivo del D.Lgs. n. 5/2003. D’altro canto a sostegno della tesi secondo cui l’unico modello di giustizia arbitrale cui le parti possono ricorrere per risolvere le controversie endosocietarie sia quello regolato dagli artt. 34 ss. del D. Lgs. n. 5/2003 militano precisi indici normativi, oltre che ineludibili ragioni sistematiche. In primo luogo, l’art. 34, II co., del D.Lgs. n. 5 del 2003, in modo tranchant, sancisce la nullità della clausola statutaria che non conferisca, ad un terzo estraneo alla società, il potere di designare tutti gli arbitri. È evidente che, se fosse ammesso un arbitrato societario di “diritto comune” ogniqualvolta si è in presenza di una clausola “binaria”, la sanzione di invalidità diverrebbe inevitabilmente inconferente e non sarebbe chiaro quando essa possa trovare applicazione; ciascuna delle parti, infatti, avrebbe buon gioco nel sostenere, a seconda della convenienza, che l’intento originario era quello di dare vita ad un arbitrato di “diritto comune” e non ad uno ai sensi degli artt. 34 ss. del D.Lgs, n.5/2003. L’esclusività dell’arbitrato delineato dal Legislatore della riforma trova, poi, conferma anche nel disposto dell’art. 41, II co., del D.Lgs. n. 5/2003, che sancisce l’inapplicabilità del diritto di recesso di cui all’art. 34, VI co., e della maggioranza qualificata ivi prevista nel caso in cui, nel periodo transitorio, vengano deliberate modifiche ai sensi degli artt. 223 bis e 223 duodecies disp. att. c.c., per adeguare le clausole compromissorie preesistenti alle norme inderogabili del medesimo D.Lgs. n. 5/2003. Invero, la disposizione in oggetto, nel contem-

plare e disciplinare l’adeguamento delle clausole compromissorie alle previsioni inderogabili in tema di arbitrato, fa indubbio riferimento alla norma che impone che la nomina dell’intero collegio arbitrale sia rimessa ad un terzo estraneo alla società; e ciò in quanto le altre disposizioni inderogabili in tema di arbitrato contenute nel D.Lgs. n. 5/2003 (e, segnatamente, quella di cui all’art. 35) concernono lo svolgimento del procedimento arbitrale e non devono essere riflesse all’interno della clausola compromissoria statutaria, dacché vengono in gioco in un momento successivo e sono direttamente applicabili anche senza un formale recepimento, ad opera delle parti, nell’accordo compromissorio. Inoltre, le controversie endosocietarie rappresentano un fenomeno composito che, assai spesso, coinvolge interessi superindividuali, sicchè è certo inopportuno demandare la determinazione delle modalità di risoluzione delle stesse all’esclusiva disponibilità dei compromittenti. Deve ritenersi, dunque, che il Legislatore della riforma, con gli artt. 34 e ss. del D.Lgs n. 5/2003, abbia inteso contemperare le diverse esigenze in gioco, consentendo sì il ricorso ad un metodo privato di composizione delle controversie societarie, ma connotando il relativo procedimento di aspetti pubblicistici ed inderogabili, proprio per la peculiare natura di tali liti. È, quindi, evidente che ove si consentisse la persistente operatività delle clausole statutarie contemplanti un arbitrato di “diritto comune”, si permetterebbe ai soci di eludere l’inderogabilità delle nuove norme e la fondamentale ratio ad esse sottesa. (Omissis). Acclarato, dunque, che la clausola compromissoria statutaria che non deferisca la nomina di tutti gli arbitri ad un terzo estraneo alla società è indefettibilmente nulla, senza possibilità di ritenere che la stessa consenta l’accesso all’arbitrato di “diritto comune”, va, altresì, escluso che, con riferimento ad una clausola compromissoria di tal fatta, possa trovare applicazione l’art. 1419, II co., c.c.. Una parte della dottrina, pur sostenendo l’esclusività del nuovo modello di arbitrato societa-

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rio, è pervenuta alla conclusione che, in presenza di una invalida clausola compromissoria binaria inserita nell’atto costitutivo o nello statuto di una società, il favor arbitrati imponga di far luogo, ex art. 1419, II co., c.c., alla sostituzione dell’invalida previsione in tema di nomina degli arbitri con il meccanismo di designazione previsto dall’art. 34, II co., seconda parte, del D.Lgs. n. 5/2003 ovvero dal combinato disposto degli artt. 809, III co., ultima parte, ed 810 c.p.c.. (Omissis). Senonché, a parere di questo Giudice, la tesi da ultimo richiamata non può essere accolta, essendo noto che il disposto dell’art. 1419, II co., c.c. è destinato a trovare applicazione solamente laddove vi sia un’espressa indicazione di legge, che sancisca la sostituzione della clausola nulla con la norma inderogabile violata; indicazione che, nel nostro caso, manca. (Omissis). D’altro canto, tanto l’art. 34, II co., del D.Lgs. n. 5/2003 quanto il combinato disposto degli artt. 809, III co, ed 810 c.p.c. contemplano l’intervento del Presidente del Tribunale, per la nomina degli arbitri, come meramente residuale ed attivabile solo ove ricorrano gli specifici presupposti ivi contemplati. (Omissis). Quanto alla eccezione di prescrizione, dedotta dalla società convenuta, nella fattispecie il termine di prescrizione applicabile è quello quinquennale di cui all’art.2949 c.c. (in tal senso cfr. Cass. sent. n.13686/16). Il F. ha evidenziato che la missiva del 12 maggio 2010 da lui inviata alla società avrebbe avuto un effetto interruttivo. Questo Collegio rileva che, per costante giurisprudenza del S.C. (cfr. sentt. nn. 14517/07, 25861/10 e 6099/93), gli atti interruttivi della prescrizione, riconducibili alla previsione dell’art. 2943 comma quarto c.c., non devono essere necessariamente identificati con le costituzioni in mora e con i criteri che individuano quest’ultima, ma devono consistere in atti recettizi con i quali il titolare del diritto manifesta al soggetto passivo la sua volontà, non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto stesso. Ciò premesso, si deve evidenziare che con la

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missiva datata 12 maggio 2010, la cui ricezione da parte della odierna convenuta non è contestata, il F. aveva richiesto a quest’ultima il pagamento del compenso spettantegli per tutti gli anni di amministrazione svolta, quantificandolo nell’importo di €15.000 annue e specificando che, in caso di mancato riconoscimento del suo diritto, avrebbe fatto ricorso all’Autorità Giudiziaria.; pertanto, la missiva in questione ha tutti i requisiti indicati dalla S.C. per poter esplicare l’effetto interruttivo della prescrizione. (Omissis). Si deve ritenere che i crediti maturati dal F. per l’attività prestata in favore della R. Costruzioni s.r.l. nel periodo dal 21/02/1995 all’11/5/2005 siano ormai prescritti; all’attore, invece, compete il compenso per l’attività di amministratore svolta dal 12 maggio 2005 al 26 gennaio 2012. L. (Omissis). P.Q.M. definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza eccezione e deduzione, · condanna la R. Costruzioni S.r.l. in liquidazione al pagamento, della somma di €20.000 in favore di F. R.; · dichiara prescritto il diritto dell’attore al pagamento dell’attività di amministratore unico della R. Costruzioni S.r.l., svolta dal 21.02.1995 sino al 26.01.2012; · compensa interamente le spese processuali tra le parti in causa. (Omissis)


Maria Rosaria Lenti

Ancora in materia di arbitrato societario Sommario: 1. Il caso. – 2. Le questioni. – 2.1. I rapporti con l’arbitrato di diritto comune: coesistenza o superamento? – 2.2. I limiti oggettivi dell’arbitrato societario. – 2.3. L’ arbitrabilità delle controversie promosse dagli amministratori. – 3. I Precedenti. – 3.1. I rapporti con l’arbitrato di diritto comune: coesistenza o superamento? – 3.2. I limiti oggettivi dell’arbitrato societario. – 3.3. L’ arbitrabilità delle controversie promosse dagli amministratori. – 4. La dottrina.

1. Il caso. Il signor FR conveniva in giudizio la RC s.r.l. in liquidazione, per chiedere la condanna della medesima società al pagamento dei compensi per l’attività svolta come Amministratore Unico. La società eccepiva, in via preliminare, l’incompetenza del Giudice adito e l’esistenza di una clausola compromissoria e, nel merito, la prescrizione dei suddetti crediti. Il Tribunale di Roma, nella pronuncia depositata in data 4 novembre 2016 n. 20532, ha rigettato le eccezioni dedotte dalla società, rilevando la nullità della clausola compromissoria, contenuta nell’atto costitutivo, non adeguata alle disposizioni inderogabili di cui all’art. 34 del D. Lgs. 5/2003, e l’inapplicabilità dell’art. 1419, 2° comma c.c. Il Tribunale, quindi, nel valutare la vicenda sottoposta alla sua attenzione, ha affrontato alcuni dei punti controversi della disciplina dell’arbitrato societario, vale a dire quello della convivenza tra arbitrato societario e arbitrato di diritto comune, e delle conseguenze, in termini di invalidità e di sostituibilità, del mancato adeguamento delle clausole compromissorie al D. Lgs. 5/2003, quello dell’ambito oggettivo di applicazione dell’arbitrato societario e, infine, quello della legittimità costituzionale dell’arbitrato promosso da o contro gli amministratori. La pronuncia in esame costituisce, quindi, lo spunto per esporre punti di forza e criticità di ciascun orientamento dottrinale e giurisprudenziale in merito.

2. Le questioni. 2.1. I rapporti con l’arbitrato di diritto comune: coesistenza o superamento? Il diritto societario si configura quale terreno elettivo per la giustizia arbitrale (Montalenti, L’Arbitrato societario: appunti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 2013, 1275). Difatti l’arbitrato è in grado di fornire in tempi brevi risoluzioni alle controversie societarie, avvalendosi di soggetti specializzati, dotati di adeguata professionalità. La celerità del

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procedimento arbitrale consente di definire le controversie in tempi congrui, in ossequio al principio della certezza del diritto. Per di più, essa impedisce che si paralizzi l’attività societaria, dinamica e in costante evoluzione, e che vengano compromesse la redditività delle partecipazioni societarie e le prospettive di nuovi investimenti da parte di terzi. Il legislatore non si è, però, accontentato di elaborare un’unica disciplina di arbitrato, da applicare anche in ambito societario, ma ha voluto dar vita ad una specifica tipologia di arbitrato societario. Quali gli interessi sottesi? Alla base della scelta del legislatore di sottrarre il potere di designazione degli arbitri alle parti interessate dal conflitto (come prevede la disciplina generale ai sensi dell’art. 810 c.p.c.) e di attribuire detto potere di nomina ad un soggetto terzo, da indicare nella clausola compromissoria (art. 34 del D. Lgs. 5/2003), è possibile individuare due ragioni, una di ordine pratico e l’altra di garanzia. Le controversie societarie sono generalmente ad alto rischio multiparti. La nomina di un arbitro da parte di ciascun soggetto coinvolto nel conflitto complica la procedura e ritarda le tempistiche, sia di composizione del collegio arbitrale, sia di definizione della decisione degli arbitri stessi in merito alla controversia, soprattutto quando le parti designanti sono tante. Pertanto, a fondamento della riforma vi è stata, in primis, un’esigenza, pratica e concreta, di ridurre le difficoltà di nomina degli arbitri e le possibilità di conflitto in seno all’organo giudicante per l’emanazione del lodo. Al contempo, le pronunce in materia societaria coinvolgono una pluralità di interessi: esse, difatti, attengono non solo alle prerogative delle parti, ma anche agli interessi superindividuali ed ulteriori, di mercato, creditizi e non solo. La molteplicità degli interessi in gioco ha evidenziato la necessità di strutturare un arbitrato societario, dotato di un alto grado di indipendenza ed imparzialità. Dunque, tale esigenza di garanzia e affidabilità dello strumento arbitrale ha condotto il legislatore a sottrarre il potere di nomina a tutti i soggetti potenzialmente legati alla società o alla vicenda, oggetto di conflitto, da rapporti economici, familiari o affettivi ed attribuirlo ad un soggetto neutro, sotto il profilo sostanziale e formale. L’art. 34 del D. Lgs. 5/2003 rappresenta, pertanto, una disposizione di portata dirompente nella disciplina dell’arbitrato. La nuova normativa ha, dunque, suscitato in dottrina enormi perplessità relativamente alla permanenza, in materia societaria, dell’arbitrato ordinario. L’arbitrato di diritto comune sopravvive o viene abrogato di fatto dall’arbitrato societario? A tal proposito si sono distinti due differenti orientamenti. Parte della dottrina e la giurisprudenza di merito hanno sostenuto la convivenza dell’arbitrato societario e dell’arbitrato di diritto comune. Secondo tale visione, il primo non sostituisce il secondo, ma si pone in un rapporto di alternatività. Ne è una conferma l’originaria intenzione del legislatore, manifestata nella legge delega, di creare una forma di arbitrato, in parte differente da quella disciplinata dagli artt. 806 c.p.c. e seguenti, ma con essa concorrente nella definizione dei procedimenti relativi alle società commerciali. L’art. 12 comma 3 della L. delega 3 ottobre 2001 n. 366, difatti, sanciva che il Governo potesse prevedere la possibilità di inserire, negli statuti delle società commerciali, le clausole compromissorie, anche in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie societarie. Dunque lo scopo del legislatore era quello di ampliare il novero delle modalità di risolu-

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zione delle controversie societarie, prevedendo l’applicazione della normativa dell’arbitrato societario nel caso di espressa previsione statutaria. L’instaurazione di un arbitrato societario, derogante la disciplina ordinaria, era, quindi, definita come ipotesi del tutto eventuale. Secondo tale ricostruzione, pertanto, la riforma di cui al D.Lgs. 5/2003 avrebbe posto in capo alla società un mero onere e non un obbligo. I soci sarebbero rimasti liberi di avvalersi delle garanzie offerte dalla nuova disciplina, forgiando la clausola statutaria secondo i connotati previsti dal D.Lgs. in questione, o di invocare l’intervento di un arbitro, secondo la normativa codicistica. I sostenitori di tale tesi hanno inoltre sottolineato che, se non si ammettesse la permanenza di entrambe le tipologie di arbitrato, vi sarebbe una palese e ingiustificata disparità di trattamento tra le società commerciali, che potrebbero avvalersi dell’arbitrato societario come previsto dall’art. 34, e le società non commerciali, escluse dal novero dei soggetti di cui al medesimo art. 34. In una posizione diametralmente opposta, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., 9. 12. 2010, n. 24867, in Not., 2011, 2, 137) hanno accolto l’idea di unicità dell’arbitrato societario. L’esclusione del c.d. doppio binario sarebbe dovuta alla ratio della norma: attribuire il potere di nomina degli arbitri solo a soggetti estranei alla compagine sociale risponderebbe, infatti, all’esigenza di assicurare l’imparzialità della decisione, consolidando l’indipendenza dell’arbitro attraverso la terzietà del designatore. Due sono le argomentazioni a sostegno di tale ricostruzione, entrambe desumibili dalla lettera delle disposizioni. In primo luogo, la previsione della nullità in caso di stipulazione di clausole compromissorie difformi dalle indicazioni di cui all’art. 34 conferma il carattere inderogabile della normativa sull’arbitrato societario. In secondo luogo, il termine «possono», contenuto nell’art. 34, 1° comma, sembra richiamare la scelta tra il ricorso all’arbitrato societario ed il ricorso al giudice ordinario, e non l’opzione tra l’arbitrato di diritto comune e quello societario. L’arbitrato disciplinato dal D. Lgs. 5/2003 si configura, quindi, come l’unico procedimento arbitrale ammissibile per le controversie societarie, prescindendo da qualsiasi originario intento legislativo. È chiaro che i due orientamenti giungono a conclusioni antitetiche, in merito alla valutazione della sopravvenuta nullità delle clausole binarie ante riforma (così definite perché due arbitri venivano nominati dalle parti in contesa e il terzo arbitro dai primi due designati) e della necessità di adeguamento di tali clausole alla nuova regolamentazione. I fautori della tesi dell’alternatività ritengono che le clausole binarie rimangano valide, anche successivamente all’entrata in vigore del D. Lgs. 5/2003. In senso contrario, i sostenitori della tesi dell’esclusività considerano le clausole ante riforma nulle, per contrarietà all’art. 34 del D. Lgs. 5/2003, ed evidenziano la necessità di un adeguamento delle stesse alla riforma. Gli effetti della nullità sopravvenuta della clausola non adeguata alla normativa dell’arbitrato societario non sono trascurabili. Dichiarare la nullità della clausola significa eliminare definitivamente la scelta arbitrale delle parti, le quali saranno costrette ad adire l’autorità giudiziaria, se e quando tra loro insorgerà una controversia. Nel tentativo di arginare tali effetti invalidanti- preclusivi, gli esponenti della tesi della esclusività hanno discusso sulla possibilità di sostituire la clausola difforme con una norma imperativa mediante il meccanismo di cui all’art. 1419, 2° comma c.c., approdando a due opposti esiti interpretativi.

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Parte della dottrina ha sostenuto l’operatività dell’art. 1419, 2° comma, c.c. Alcuni autori hanno richiamato la valenza integrativa dell’art. 34, 2° comma del D. Lgs. 5/2003, secondo cui, ove il soggetto designato (per la nomina degli arbitri) non provveda, la nomina è richiesta al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale. Essi hanno ritenuto, sul presupposto che la designazione nulla equivalga a mancata designazione, che l’art. 34, 2° comma, succitato, sia applicabile estensivamente anche nel caso in cui l’arbitro sia stato nominato dalle parti, e non da un terzo, oltre che nell’ipotesi in cui l’arbitro non sia stato affatto nominato dal terzo soggetto a ciò designato. Altri autori, invece, hanno rinviato, in via sostitutiva, alla disciplina generale in materia di arbitrato. Difatti, essi hanno considerato, in ogni caso, applicabile l’art. 810 c.p.c., che attribuisce il potere di nomina al Presidente del Tribunale, in mancanza di nomina dell’arbitro dalle parti. L’orientamento positivo ha il pregio di osservare lo spirito della riforma. Difatti il D.Lgs. 5/2003 ha come obiettivo quello di introdurre uno strumento deflattivo del contenzioso, lasciando alle parti la libertà di avvalersene. È evidente che la presenza della clausola compromissoria, benché invalida, manifesta in modo chiaro e inequivocabile la volontà delle parti di sottrarre alla cognizione dell’autorità giudiziaria ogni controversia tra i soci e la società. Una diversa soluzione avrebbe come conseguenza quella di costringere le parti della controversia a rivolgersi al giudice ordinario, sacrificando la loro reale scelta. D’altro canto, lo scopo dell’art. 34 del D. Lgs. è quello di impedire che la nomina degli arbitri derivi direttamente dalle parti, garantendo la designazione da parte di un soggetto terzo e non coinvolto nella controversia in questione. Non si può negare che riconoscere il potere di nomina al Presidente del Tribunale, sostituendo la clausola nulla con la designazione di cui all’art. 34, 2° comma o di cui all’art. 810 c.p.c. o l’art. 810 c.p.c., non tradisca, ma assecondi, probabilmente anche in modo più rigoroso, le esigenze poste dalla riforma. Parte della dottrina e la giurisprudenza prevalente hanno, invece, negato la “fungibilità” dell’art. 34, 2° comma, nel caso di specie. Tale orientamento esclude, difatti, l’interpretazione estensiva della norma succitata, in quanto essa limiterebbe la nomina dell’arbitro da parte del Tribunale al solo caso di mancata indicazione da parte del soggetto designato. L’art. 34 non potrebbe, quindi, applicarsi nel caso in cui nell’atto costitutivo non vi sia l’indicazione del terzo designato ad effettuare la nomina o nel caso in cui la clausola sia nulla perché non adeguata alla nuova disciplina. L’orientamento negativo esclude anche il rinvio all’art. 810 c.p.c.. L’art. 1419 c.c., infatti, sancisce un meccanismo sostitutivo delle clausole nulle con norme imperative. Tuttavia tale meccanismo non può attivarsi con riferimento all’art. 810 c.p.c., poiché la norma non ha valenza imperativa, ma natura esclusivamente suppletiva, in quanto assegna il potere al Presidente del Tribunale solo se le parti non hanno convenuto diversamente. Non si rinviene, pertanto, alcuna norma imperativa che possa sostituirsi alla clausola nulla, così come la lettera dell’art. 1419 c.c. richiede. Il Tribunale di Roma, nella sentenza del 4 novembre 2016 n. 20532, si uniforma all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, accogliendo la tesi dell’esclusività dell’arbitrato societario. A fondamento delle conclusioni offerte dai giudici capitolini vi è la ratio della riforma. Il legislatore ha voluto creare un modello di arbitrato, che potesse avere ad oggetto anche fenomeni compositi, in cui convergono non solo i diritti delle parti contendenti, ma anche interessi superindividuali e terzi. A parer del Tribunale, il legislatore ha sancito l’arbitrabilità di

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questioni non compromettibili, attinenti a diritti di soggetti non direttamente coinvolti nella controversia. La particolare natura delle liti ha, dunque, suggerito al legislatore di connotare il procedimento di aspetti pubblicistici ed inderogabili, al fine di tutelare i terzi che, in ogni caso, subiscono gli effetti del lodo. Pertanto egli ha sacrificato l’autonomia delle parti nella scelta degli arbitri, riconosciuta dagli artt. 810 c.p.c. e seguenti, a vantaggio dell’attribuzione di tale potere di nomina ad un soggetto terzo indipendente e imparziale. Il requisito dell’indipendenza dell’organo designante viene elevato a connotato essenziale e imprescindibile della procedura, tant’è che, ai sensi dell’art. 34, 2° comma, del D. Lgs. 5/2003, ogni diversa previsione di nomina è sanzionata con la più grave delle invalidità. La nullità testimonia l’inderogabilità della disciplina e giustifica l’esclusività dell’arbitrato societario. Il Tribunale qualifica il procedimento arbitrale endosocietario come un ulteriore esempio di arbitrato di legge, facoltativo nell’an ma necessario nel quomodo. Le parti sono libere di scegliere tra autorità giudiziaria e via arbitrale, ma, una volta optato per l’arbitrato, esse sono vincolate nell’applicazione delle nome inderogabili di legge. Inoltre i giudici evidenziano come l’inderogabilità sia confermata anche da ragioni di opportunità. Se, infatti, fosse possibile ricorrere all’arbitrato di diritto comune anche in presenza di una clausola binaria, la nullità perderebbe ogni forza sanzionatoria e ogni margine di effettività, potendo le parti fare salvi gli effetti della clausola invalida, palesando solo ex post l’originaria (presunta) intenzione di costituire un arbitrato di diritto comune. Il Tribunale di Roma ha, quindi, sancito la nullità di qualsiasi clausola statutaria non conforme alla norma inderogabile di cui al D. Lgs. 5/2003, a prescindere dalla data di redazione, e, quindi, sia se introdotta ex novo dopo l’entrata in vigore della riforma, sia se preesistente e non adeguata. La sentenza in esame non presenta alcuna forzatura interpretativa, in nome del favor arbitrati, nemmeno con riferimento alla sostituibilità ex lege della designazione nulla. Difatti il Tribunale esclude, in modo assoluto, che si possa ricorrere al meccanismo di cui all’art. 1419, 2° comma c.c., prevedendo la nomina degli arbitri da parte del Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 810 c.p.c. o dell’art. 34, 2° comma del D. Lgs. L’argomentazione del Tribunale è strutturata su tre punti chiave. In primo luogo, la sentenza si avvale dell’interpretazione letterale dell’art. 1419, 2 ° comma c.c., che sarebbe applicabile solo ove vi sia un’espressa indicazione di legge, che sancisca la sostituzione della clausola nulla con la norma inderogabile violata. Tuttavia, nella fattispecie in esame tale indicazione manca. In secondo luogo, il Tribunale richiama la natura residuale ed eccezionale dell’art. 34 del D. Lgs. e dell’art. 810 c.p.c., i quali, pertanto, non sarebbero suscettibili di applicazione analogica. In ultima istanza, il Tribunale smentisce le considerazioni offerte della dottrina permissiva, analizzando gli effetti concreti di tale sostituzione ex lege. La presenza della clausola compromissoria è espressione della volontà inequivocabile delle parti di sottrarsi all’autorità giudiziale, ma ciò è vero finché le parti hanno il potere di indicare il soggetto terzo, che reputano indipendente e idoneo a designare il Collegio Arbitrale. Difatti la scelta del terzo designatore rappresenta un momento rilevante della decisione delle parti tra arbitrato e processo innanzi al giudice. La sostituzione di cui all’art. 1419 c.c., quindi, non consentirebbe di realizzare l’effettiva volontà dei soci. Anzi, essa potrebbe porsi in contrasto con l’originario

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volere dei contendenti, in quanto, mediante la designazione ad opera del Presidente del Tribunale, l’arbitrato potrebbe assumere dei contorni del tutto inaspettati e non desiderati dalle parti.

2.2. I limiti oggettivi dell’arbitrato societario. Per la delineazione dell’ambito oggettivo di applicazione della clausola arbitrale occorre analizzare una serie di disposizioni, le quali sembrano essere in contraddizione tra di loro. Da un lato, l’art. 34 del D. Lgs. 5/2003 considera la disponibilità del diritto quale criterio essenziale per l’individuazione delle controversie arbitrali. Tale articolo prevede l’arbitrabilità delle sole controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che hanno ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, escludendo quelle nelle quali la legge impone l’intervento obbligatorio del pubblico ministero. Dall’altro lato, l’art. 36 e l’art. 34, 4° comma, del D. Lgs. 5/2003 prescindono dal requisito della disponibilità del diritto contestato. Difatti l’art. 36 attribuisce la competenza agli arbitri nel caso di questioni incidentali non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio è costituito dalla validità delle delibere assembleari, e l’art. 34, 4° comma, prevede genericamente la devoluzione agli arbitri delle controversie promosse da amministratori, liquidatori o sindaci o nei loro confronti, senza alcuna restrizione. Come coniugare tali disposizioni? Qual è l’effettivo perimetro di azione degli arbitri? Quando gli arbitri possono prescindere dal limite della indisponibilità del diritto? La dottrina e la giurisprudenza hanno offerto un ventaglio di interpretazioni. Una prima tesi (ex multis, Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim dir. proc., 2003, 520) sostiene che il limite dell’indisponibilità del diritto operi solo per le controversie relative ai rapporti tra i soci o tra i soci e la società, prevedendo l’assenza di qualsiasi limitazione per i conflitti attinenti alla validità delle delibere e per le controversie coinvolgenti amministratori, sindaci o liquidatori. Una seconda tesi, maggiormente fedele al dato letterale (Della Pietra, Commentario breve al diritto dell’arbitrato interno ed internazionale, Padova, 2010, 408), ritiene invece che le uniche controversie sottratte al confine della indisponibilità siano quelle relative alla validità delle delibere assembleari, restando operativo detto limite per tutti gli altri conflitti, indipendentemente dai soggetti coinvolti. Una terza tesi, più prudente (ex multis, Soldati, Clausola arbitrale societaria e nomina del liquidatore, in Società, 2004, 1270), invece, trascura il dato letterale dell’art. 36 e ritiene imprescindibile il tradizionale criterio della disponibilità del diritto. L’art. 34, 1° comma del D. Lgs. 5/2003 acquista così la valenza di preambolo di tutte le disposizioni successive e costituisce l’elemento di congiunzione tra il principio generale espresso dall’art. 806 c.p.c., per cui è ammessa la deferibilità agli arbitri delle sole controversie che non hanno per oggetto diritti indisponibili, e le norme del titolo V del D. Lgs. 5/2003. Pertanto, secondo tale orientamento, è arbitrabile solo quella controversia che attiene ad un diritto disponibile, anche se relativa alla validità delle delibere assembleari e senza alcuna distinzione soggettiva. Le conseguenze concrete dell’adesione all’uno o all’altro orientamento dipendono dall’accezione di disponibilità di diritto. Dunque cosa si intende per disponibilità del diritto? Il confine tra diritti disponibili e diritti indisponibili appare labile e di difficile definizione.

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L’orientamento consolidato della giurisprudenza, anche di legittimità, (ex multis, Cass., 23. 2. 2005, n. 3772, in Riv. arb., 2006, 2) distingue i diritti disponibili dai diritti indisponibili sotto un profilo soggettivistico-normativo, vale a dire sulla base della titolarità dei diritti coinvolti e della natura della norma che li protegge. Difatti detto orientamento individua i diritti disponibili in quelli tutelati dall’ordinamento con norme dispositive, e i diritti indisponibili in quelli protetti da norme imperative, e inderogabili, e, dunque, negli interessi collettivi, della società o dei terzi. Sembra condividere tale impostazione anche quella dottrina che esclude, dall’ambito oggettivo dell’arbitrato societario, tutte le controversie tra soci ovvero tra soci e società che non attengono al rapporto sociale in senso stretto. Ciò detto, si può ipotizzare che le controversie debbano vertere sulla esistenza/inesistenza, sulla qualificazione e sulla disciplina del rapporto sociale e dei diritti nascenti da tale rapporto, restando esclusi dall’arbitrato societario – come la prevalente giurisprudenza ha statuito (ex multis, Cass. 21.12. 2000 n.16056, in Mass. Giust. civ., 2001, 22) – le controversie penali e i conflitti relativi alla responsabilità promossa dal socio nei confronti dell’amministratore, alla revoca per giusta causa dell’amministratore per violazione del principio di chiarezza e precisione nella redazione dei bilanci, all’impugnazione della delibera di approvazione dei bilanci, allo scioglimento della società. In realtà, il concetto di disponibilità del diritto dovrebbe essere slegato da quello di derogabilità della norma di riferimento e da qualsiasi connotazione soggettivistica. In primo luogo, non può ammettersi una totale equivalenza tra indisponibilità e inderogabilità: l’inderogabilità della norma non comporta automaticamente l’indisponibilità del diritto. Se un interesse è tutelato da una disposizione normativa inderogabile, la cui violazione è sanzionata con la nullità o con l’annullabilità, ma la legge stessa contempla una “sanatoria” dell’atto invalido, ad opera delle parti, l’interesse de quo non può, per alcuna ragione, ritenersi indisponibile. Il diritto è, dunque, da considerarsi indisponibile solo se è protetto da una norma inderogabile, la cui violazione determina una nullità insanabile (in tal senso, ex multis Cass., 20. 9. 2012, n. 15890, in CED Cassazione, 2012). In secondo luogo, poco conta che la controversia attenga anche agli interessi collettivi o di terzi se le parti in conflitto possono negoziare sugli stessi. La disponibilità del diritto dovrebbe, quindi, essere associata unicamente all’autonomia delle parti, le quali, in relazione a quel diritto, possono stringere accordi, cui l’ordinamento attribuisce forza di legge, e, con tali accordi, costituire, modificare o estinguere il diritto in questione. Se vi è potere negoziale, allora vi è possibilità per le parti di dettarsi delle regole di condotta vincolanti, anche con riferimento alla definizione di una controversia. Per cui, se vi è potere negoziale, vi è arbitrabilità della controversia. L’art. 2377 c.c. e l’art. 2378 c.c. sembrano confermare queste deduzioni. L’art. 2377 c.c. prevede che l’annullamento della delibera non possa aver luogo se la deliberazione impugnata per vizi di annullabilità è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto e l’art. 2378 c.c. riconosce il potere dell’assemblea di modificare, su suggerimento del giudice, le delibere impugnate. Tali norme non limitano la facoltà di modifica e di sostituzione sulla base degli interessi coinvolti: esse hanno portata generale. Ne consegue che, se si considera plausibile la sostituzione e la modifica da parte dei soci anche di una delibera contraria a disposizioni inderogabili, a prescindere dalla qualità e dalla titolarità dei diritti sottesi, e, dunque, se si consente la “negoziazione” della stessa, allora deve ritenersi ammis-

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sibile anche la risoluzione, in via arbitrale, delle questioni attinenti alla delibera medesima e agli interessi coinvolti. Anche nel caso di delibere nulle, tranne che nelle ipotesi di nullità derivante da attività illecite o impossibili, è possibile riconoscere un ampio margine di autonomia negoziale alle parti, che consente il deferimento delle relative controversie all’autorità arbitrale. L’art. 2379 c.c., rinviando all’art. 2377 c.c., infatti, contempla la possibilità di una sostituzione della delibera nulla con altra presa in conformità alla legge o allo statuto. D’altronde, connettere la indisponibilità del diritto alla terzietà dell’interesse sotteso comporta notevoli problematiche di ordine interpretativo. È chiaro che se si ritengono arbitrabili solo le controversie relative a diritti disponibili (abbracciando le interpretazioni più restrittive in merito all’oggetto dell’arbitrato societario) e si qualifica la disponibilità del diritto sulla base della non-superindividualità degli interessi, l’arbitrato societario si riduce ad un istituto secondario e scarsamente applicabile. Difatti molte controversie societarie vertono non solo sugli interessi personali dei singoli soci, ma anche sugli interessi della società e dei terzi, per cui non è possibile statuire sui primi senza intaccare i secondi. Ne deriva un’automatica restrizione dell’operatività dell’arbitrato societario. Il Tribunale di Roma, nella sentenza in esame, presenta una novità rilevante nel panorama giurisprudenziale. Difatti, nella specificazione dell’oggetto dell’arbitrato societario, non solo prescinde dalla lettera dell’art. 34 del D. Lgs. 5/2003, ma si spinge anche oltre le conclusioni cui era giunta la tesi in materia più permissiva. Esso ammette, in ambito societario, l’intervento dell’arbitro per ogni tipologia di controversia, e dunque anche per i conflitti attinenti ad interessi non disponibili, senza alcuna preclusione di sorta. Dalla lettera della pronuncia può evincersi come, a parer del Tribunale, il principio della indisponibilità del diritto non funge più da spartiacque tra le controversie arbitrabili e quelle non arbitrabili. I giudici capitolini fondano il proprio convincimento su una diversa e più ampia interpretazione del senso della riforma. Essi, difatti, ritengono che obiettivo del legislatore fosse proprio quello di superare l’orientamento tradizionale della giurisprudenza, secondo cui le questioni endosocietarie, spesso inerenti a interessi superindividuali e dunque indisponibili, non erano compromettibili. Lo scopo era dunque quello di elaborare un nuovo strumento di risoluzione delle controversie applicabile all’intera materia societaria. Inoltre, nella ricostruzione offerta dal Tribunale, questa apertura dell’attività arbitrale alle questioni indisponibili rappresenterebbe proprio la ragione per cui il Legislatore ha voluto connotare la disciplina dell’arbitrato societario di aspetti pubblicistici e inderogabili, assegnando, a pena di nullità, ad un extraneus indipendente il potere di nomina degli arbitri. Tuttavia, nella definizione della indisponibilità del diritto, il Tribunale non assume alcuna posizione innovativa. Esso si allinea all’orientamento giurisprudenziale prevalente, sottolineando, in più punti della sentenza, la sussistenza del binomio interesse collettivo - indisponibilità. Avendo il Tribunale cancellato il perimetro di competenza dell’arbitrato societario, tale conclusione per nulla incide sulla individuazione delle controversie arbitrabili. Tuttavia non ci si può esimere dal palesare delle perplessità in merito a tale assunto. Difatti, definire i diritti indisponibili sulla base della terzietà dell’interesse significa affidarsi ad un criterio vago e indeterminato. Quale deve essere il grado di “coinvolgimento” dell’interesse del terzo, affinché una determinata questione venga considerata concernente diritti indisponibili? Il riflesso

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sui terzi deve essere concreto o è sufficiente che sia potenziale? È noto che le controversie societarie attengono spesso anche agli interessi collettivi e sociali e, anche quando sembrano avere ad oggetto unicamente i diritti dei soci, in realtà, le relative pronunce producono effetti nei confronti dei terzi. Ad esempio, la disputa in merito alla distribuzione dei dividendi a favore di un socio appare strettamente attinente al rapporto interno società-socio. Tuttavia, a ben vedere, l’esito di una tale controversia incide anche sugli interessi dei creditori sociali, i quali, vista riconosciuta la remunerazione al socio, subiscono una riduzione della garanzia patrimoniale sociale. Una classificazione delle controversie sulla base dell’interesse coinvolto è complessa e rischia di connotarsi di contorni incerti e precari. Sarebbe più ragionevole considerare l’indisponibilità quale sinonimo di non negoziabilità. A prescindere dall’interesse sotteso, ciò che conta è la possibilità delle parti di disporre dell’oggetto della contesa. È plausibile ritenere che la disponibilità si fermi lì dove l’autonomia delle parti è preclusa, vale a dire nelle sole ipotesi in cui la fattispecie è protetta da una norma inderogabile, la cui violazione determina una nullità insanabile.

2.3. L’ arbitrabilità delle controversie promosse dagli amministratori. La questione de qua riguarda una controversia tra un amministratore e una società in liquidazione. Si tratta di una lite che può essere devoluta agli arbitri, in quanto l’art. 34, 4° comma del D.Lgs. 5/2003 richiama il procedimento arbitrale non solo per le liti tra i soci e per quelle tra questi ultimi e la società, ma anche per le controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci o nei loro confronti. In tal caso, sarà necessaria un’espressa previsione statutaria e la clausola sarà vincolante solo in seguito ad un’espressa accettazione dell’incarico. In realtà, dopo un’attenta disamina dell’art. 34, 4° comma, non si possono non evidenziare le criticità, in termini di legittimità costituzionale, di detta disposizione. In ossequio all’art. 24 della Costituzione, l’arbitrato, per essere legittimo, deve fondarsi sulla scelta dei soggetti coinvolti nel procedimento, tra via giurisdizionale e via arbitrale. Difatti solo la volontà delle parti, quale rinuncia ai diritti di cui all’art. 24 della Costituzione, può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, 1° comma, della Costituzione. Se un atto autoritativo predispone un arbitrato, è sempre necessario recuperare il momento volitivo delle parti, per non pregiudicare la facoltà delle stesse di disporre diversamente. Pertanto anche quando il ricorso all’arbitrato non deriva da una decisione autonoma delle parti, ma da una scelta eteronoma, la legge deve sempre riservare ad ogni soggetto coinvolto una via d’uscita dalla procedura medesima, consentendogli di invocare l’intervento dell’autorità giudiziaria. In altre parole, nessuno, nemmeno il legislatore, può imporre alle parti modalità alternative di risoluzione delle controversie, impedendo ai soggetti in conflitto di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi. Nel caso di specie, siamo di fronte ad un arbitrato previsto da fonte eteronoma. Il giudizio arbitrale non viene richiesto in virtù del consenso espresso da tutte le parti coinvolte nel procedimento, in quanto manca l’adesione specifica alla procedura arbitrale da parte dell’amministratore. Si ricorre alla strada arbitrale esclusivamente sulla base della scelta dei soci manifestata nella stipulazione della clausola compromissoria. Né tanto meno può ritenersi che l’amministratore, nell’accettare l’incarico, abbia voluto acconsentire alla procedura

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arbitrale. Difatti l’adesione all’arbitrato deve essere espressa e, a pena di nullità, in forma scritta (art. 807 c.p.c.). È evidente, quindi, come sia la legge a far discendere la vincolatività della clausola arbitrale dalla semplice accettazione dell’incarico. Come anzidetto, l’arbitrato legittimato da fonte eteronoma, per essere costituzionalmente legittimo, deve essere sempre “accompagnato” da una via di fuga per ogni parte contendente, che potrebbe preferire l’ordinario procedimento giudiziario. Ma, nella fattispecie in esame, manca la possibilità per l’amministratore di svincolarsi dall’arbitrato. L’arbitrato sembra, quindi, assumere le sembianze di un arbitrato obbligatorio, più volte dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. Non ci si può, in tale evidenza, nemmeno appigliare ad una presunta analogia tra la vincolatività della clausola arbitrale nei confronti dell’amministratore e la vincolatività della medesima clausola nei confronti dei nuovi soci. I soci nel momento in cui entrano a far parte della società accettano tutte le regole di organizzazione e funzionamento della società e, quindi, anche la clausola compromissoria, che costituisce una regola interna della società. Invece, gli amministratori, accettando l’incarico, assumono un compito di gestione nei confronti della società, ma non diventano diretti partecipi della vita sociale. I patti sociali non valgono a disciplinare il rapporto che li lega alla società, ma rimangono esterni al loro incarico.

3. I Precedenti. 3.1. I rapporti con l’arbitrato di diritto comune: coesistenza o superamento? Sulla tesi della coesistenza tra arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: Trib. Biella, 28. 2. 2005, in Giur. Comm., 2006, II, 513; Corte app. Genova, 7. 3. 2005, in Giur. comm., 2006, 500; Trib. Bologna, 25. 5. 2005, in Giur. it., 2006, 8-9, 1640; Trib. Bari, 2. 11. 2006, in Giur. it., 2007, 2237; Trib. Bologna, 17. 6. 2008, in Giur. comm., 2009, 2, 1004. Sulla tesi della esclusività dell’arbitrato societario: Trib. Trento, 11. 2. 2004, in Giur. di Merito, 2004, 1699; Trib. Trento, 8. 4. 2004, in Società, 2004, 996; Trib. Latina, 22. 6. 2004, in Società, 2005, 93; Trib. Catania, 26. 11. 2004, in Corriere Giur., 2005, 1131; Trib. Milano, 4. 5. 2005, in Giur. it., 2005, 8-9; Trib. Milano, 7. 07. 2005, in Società, 2006, 1155; Trib. Milano, 21. 10. 2005, in Giur. Comm., 2006, II, 512; Trib. Milano, 9. 11. 2005, in Società, 2006, 750; Trib. Salerno, 12. 4. 2007, in Giur. comm., 2008, 8-9; Trib. Trani, 15. 10. 2008, in Giur. it., 2009, 6; Trib. Milano, 12. 3. 2009, in Giur. it., 2009, 10; Trib. Milano, 18. 6. 2009, in Giur. it., 2009, 12; Cass., 9. 12. 2010, n. 24867, in Not., 2011, 2, 137; Cass., 13. 10. 2011, n. 21202, in Società, 2012, 2, 211. Sulla operatività dell’art. 1419, 2° comma c.c.: Lodo arb. Lucca, Arbitro Unico Prof. Luiso, 17 settembre 2004, in Riv. Arb., 2005, 595; Trib. Torino, 27. 9. 2004, in Dir. e prat. soc., 2005, 10, 80. Sulla non operatività dell’art. 1419, 2° comma c.c.: Trib. Latina, 22. 6. 2004, in Not., 2005, 3, 258; Cass., 28. 6. 2000, n. 8794, in I Contratti, 2001, 236; Cass., 16. 2. 1983, n. 1184, in Giust. civ. Mass. 1983, II; Cass., 11. 2. 1982, n. 835, in Foro it., 1983, I, 108. Corte app. Torino, 4. 8. 2006, in Giur. it, 2007, 2, 398.

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3.2. I limiti oggettivi dell’arbitrato societario. In merito alla tesi più restrittiva: Trib. Torino, 9. 7. 2008, in Mass. red., 2008; Trib. Modena, 12. 5. 2004 (decr.), in Società, 2004, 1270. Sul binomio indisponibilità- inderogabilità: Cass., 10. 10. 1962, n. 2910, in Giust. civ., 1963, I, 2962; Cass., 24. 5. 1965, n. 999, in Giust. civ., 1965, I, 1575 e in Foro it., 1965, I, 1925; Trib. Genova, 25. 1. 1982, in Giur. comm., 1982, II, 684; Trib. Lecce, 3. 7. 1987, in Società, 1988, 36; Trib. Pavia, 17. 12. 1987, in Società, 1988, 270; Cass., 18. 2. 1988, n. 1739, in Foro it., 1988, 1, c. 3349; Trib. Como, 26. 5. 1989, in Società, 1989, 951; Trib. Padova, 20. 6. 1989, in Foro pad., 1989, 1, 327; Trib. Ascoli Piceno, 21.10. 1992, in Società, 1993, 356; Trib. Catania, 28. 3. 1998, in Giur. comm., 2000, II, 507; Cass., 30. 3. 1998, n. 3322, in Mass. Giur. it., 1998; Cass., 23. 10. 1998, n. 10530, in Foro it., 1998, I, 3125; Trib. Trani, 14. 10. 1999, in Giur. mer., 2000, 299; Cass., 6. 7. 2000, n. 9022, in Foro pad., 2000, I, 323; Cass. 19. 9. 2000 n. 12412, in Giust. civ., 2001, I, 405; Cass. 21. 12. 2000, n. 16056, in Mass. Giust. civ., 2001, 22; Corte App. Firenze, 31. 1. 2001, in Riv. arb., 2002, 315; Trib. Reggio Emilia, 1. 8. 2001, in Dir. prat. soc., 2002, 83; Trib. Milano, 7. 2. 2002, in Giur. It., 2002, 5; Cass., 22. 1. 2003, n. 928 in Not., 2003, 239; Trib. Milano, 6. 3. 2003, in Giur. it., 2003, 1411; Trib. Napoli, 29. 3. 2003, in Società, 2003, 1251; Cass. 29. 4. 2004 n. 8204, in Foro It., 2005, 1, 2120; Trib. Modena, 12. 5. 2004, in Società, 2004, 10, 1270; Cass., 23. 2. 2005, n. 3772, in Società, 2006, 5, 637 e in Riv. arb., 2006, 2; Corte App. Roma, 7. 9. 2006, in Mass. red., 2006; Trib. Bari, 21. 6. 2007, n. 1643, in Società, 2008, 2, 235; Trib. Reggio Emilia, 5. 2. 2008, in www.ilcaso.it; Cass. S.U., 12. 9. 2011, n. 18600, in Riv. Dir. Proc., 2012, 5, 1379; Corte App. Torino, 16. 7. 2012, in Società, 2012, 12, 1363. Sull’arbitrabilità delle controversie inerenti a diritti indisponibili: Trib. Milano, 29. 1. 1998, in Giur. it., 1998, 1196; Trib. Milano, 10. 1. 2000, in Giur. it., 2000, 1239; Trib. Verona, 7. 11. 2006, in Giur. mer., 2008, 409; Trib. Napoli, n. 12500/2009, citata in Trib. Napoli, 8. 3. 2010, in Società, 2010, 1510; Trib. Napoli, 8. 3. 2010, in Società, 2010, 1510. Sulla indisponibilità dei soli diritti protetti da norme inderogabili, la cui violazione comporta nullità insanabile: Cass., 20. 9. 2012, n. 15890, in CED Cassazione, 2012; Cass., 27. 6. 2013, n. 16265, in CED Cassazione, 2013; Cass., 28. 8. 2015, n. 17283, in CED Cassazione, 2015; Trib. Firenze, 8. 9. 2016, n. 2906, in www.arbitratoinitalia.it.

3.3. L’ arbitrabilità delle controversie promosse dagli amministratori. Sulla illegittimità costituzionale dell’arbitrato obbligatorio: Corte cost., 14. 7. 1977, n. 127, in CED Cassazione, 1977; Corte Cost., 27. 12. 1991, n. 488, in Giur. It., 1993, I, 1, 772; Corte Cost., 24. 7. 1998, n. 325, in Cons. Stato, 1998, II, 1059; Corte cost., 11. 12. 1997, n. 381, in CED Cassazione, 1997; Corte Cost., 8. 6. 2005, n. 221, in Giur. It., 2006, 7, 1450.

4. La dottrina. Sui connotati dell’arbitrato societario e delle ragioni della riforma si richiama: Soldati, Estraneità dell’autorità di nomina e clausola compromissoria statutaria, in Società, 2006, 1155; Montalenti, L’Arbitrato societario: appunti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 2013, 1275; Cerrato, Arbitrato societario: è tempo di riforma, in Riv. arb., 3, 2015, 611. 349


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Sulla tesi della coesistenza tra arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: Auletta, Dell’arbitrato, in La riforma delle società. Il processo, Torino, 2004, 328; De Nova, Controversie societarie: arbitrato societario o arbitrato di diritto comune, in Contratti, 2004, 847; Zoppini - Auletta, Doppia chance di arbitrato per le società, in Il sole 24ore, 2 settembre 2004, 19; Salafia, Alcune questioni di interpretazione del nuovo arbitrato societario, in Società, 2004, 1457 e in Il nuovo arbitrato societario e altre questioni, in Società, 2005, 95; Nela, Cenni sull’ambito di applicazione del nuovo arbitrato endosocietario, in Giur. It., 2005, 117; Santagada, Arbitrato e conciliazione, in Il nuovo processo societario, di Giorgetti, Zumpano, D’Alessandro e Santagada, Milano, 2005, 152; Liotti, La convenzione di arbitrato: compromesso, clausole arbitrali e risvolti sull’attività notarile, in Not., 4, 2013, 410. Sulla tesi della esclusività dell’arbitrato societario: Zucconi Galli Fonseca, La convenzione arbitrale nelle società dopo la riforma, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2003, 957; Danovi, L’arbitrato nella riforma del diritto processuale societario, in Dir. giur., 2004, 568; Corsini, La nullità della nuova clausola compromissoria statutaria e l’esclusività del nuovo arbitrato societario, in Giur. comm., 2005, 1, 809; Soldati, Le clausole compromissorie nelle società commerciali, Milano, 2005; Bianchini, Osservazioni in tema di (in)validità delle clausole compromissorie non adeguata alla nuova disciplina dell’arbitrato endosocietario, in Giur. comm., 2006, 410. Sull’operatività dell’art. 1419, 2° comma, c.c.: Corsini, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1294; Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 717; Dalmotto, sub art. 41, in Il nuovo processo societario, commentario, diretto da Chiarloni, Bologna, 2004, 1097; Danovi, L’arbitrato nella riforma del diritto processuale societario, in Dir. giur., 2004, 580. Sulla non operatività dell’art. 1419, 2° comma c.c.: Soldati, Le clausole compromissorie nelle società commerciali, Milano, 2005, 25; Cerrato, Arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: una convivenza ancora difficile, in Giur. Comm., 2006, II, 517 e in Un tema senza pace: le clausole arbitrali tra vecchio e nuovo diritto, in Giur. it, 2007, 2, 398; Della Pietra, La clausola compromissoria, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, Torino, 2007, I, 238; Bove, Clausola arbitrale societaria - clausola arbitrale ordinaria - differenze e rapporti, in Riv. not., 2011, 3, 569. Sui limiti oggettivi dell’arbitrato societario: Espongono la tesi più permissiva: Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim dir. proc., 2003, 520; Morellini, Le parti e l’oggetto dell’arbitrato societario: spunti di riflessione, in Società, 2005, 1, 79. Circa la tesi più fedele al dato letterale, di tenore intermedio: Della Pietra, Commentario breve al diritto dell’arbitrato interno ed internazionale, Padova, 2010, 408. In merito alla tesi più restrittiva: Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 707; Zucconi Galli Fonseca, La convenzione arbitrale nelle società dopo la riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 942; Bove, L’arbitrato nelle controversie societarie, in www. judicium.it; Arieta - De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 614; Chiarloni, Appunti sulle controversie deducibili in arbitrato societario e controversie sulla natura del lodo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 124; Miccolis, Arbitrato e conciliazione nella riforma del processo societario, in La riforma del diritto societario, Bari, 2004, 420; Ruffini, Il nuovo arbitrato per le controversie societarie, in Riv. trim dir. proc., 2004, 505; Soldati, Clausola arbitrale societaria e nomina del liquidatore, in Società, 2004, 1270; Della Pietra, La clausola

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compromissoria, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, Torino, 2007, I, 235. Sul binomio indisponibilità- inderogabilità: Silingardi, Il compromesso in arbitri nelle società di capitali, Milano, 1979, 67; Schizzerotto, Dell’arbitrato, Milano, 1988, 75; Paolucci, Le clausole di deferimento delle controversie sociali ai probiviri, in Società, 1993, 1041; Pisani Massamormile, Riflessioni in tema di clausola arbitrale e di nomina degli arbitri in materia societaria, in Riv. soc., 2000, 275; Ferrucci - Ferrentino, Società di capitali, società cooperative e mutue assicuratici, 1, 3, Milano, 2012, 89; Scognamiglio, Impugnazione delle delibere assembleari e clausola arbitrale, in Società, 2010, 199. Sulla indisponibilità dei soli diritti protetti da norme inderogabili, la cui violazione comporta nullità insanabile: Izzo, Disponibilità del diritto e limiti alla compromettibilità per arbitri della delibera di approvazione del bilancio, in Società, 2010, 1510. Sulla disponibilità del diritto come autonomia: Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Milano, 1964, 764; Fazzalari, L’arbitrato, Torino, 1997, 37; Verde, La convenzione di arbitrato, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato rituale, a cura di V. Verde, Torino, 2000, 64; Fusillo, Disponibilità del diritto ed ammissibilità della clausola compromissoria nelle controversie in materia societaria. Rescindente e rescissorio nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo, in Riv. arb., 2002, 315; Ruffini, Arbitrato e disponibilità dei diritti nella legge delega per la riforma del diritto societario, in Riv. dir. proc., 2002, 140 e in La riforma dell’arbitrato societario, in Corr. giur., 2003, 1533; Corsini, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1285; Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 710; Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 520; Groppoli, L’incidenza dell’interesse sociale sull’arbitrabilità, in Riv. arb., 2006, 297; Terrusi, I limiti oggettivi dell’arbitrato societario e la questione dei diritti disponibili, in Giust. civ., 2011, 525; Gennari, Superato il doppio binario l’arbitrato rimane vincolato al vago confine della disponibilità dei diritti, in Giur. comm., 2015, 3, 551; Cerrato, Il ruolo dell’autonomia privata nell’arbitrato societario, in Riv. trim dir. proc., 2016, 1, 223. Sull’arbitrato obbligatorio e sui dubbi di legittimità costituzionale dell’arbitrato promosso dagli amministratori: Fazzalari, Contro l’arbitrato obbligatorio, in Riv. arb., 1993, 211; Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 710; Bove, L’arbitrato nelle controversie societarie, in Giust. civ., 2003, II, 477; Ruffini, Arbitrato e disponibilità dei diritti nella legge delega per la riforma del diritto societario, in Riv. dir. proc., 2002, 140. Maria Rosaria Lenti

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Giurisprudenza Cass. Civ. Sez. Un., 22 settembre 2017, n. 22080, Pres. Rordorf, Rel. Barreca, P.M. (diff.) Matera – I. (avv. Sambataro) c. Roma Capitalia (avv. Murra), Equitalia Sud s.p.a. Conferma Tribunale Roma 27 febbraio 2014, n. 3735. Opposizione avverso cartella per la riscossione di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada – Denuncia dell’omessa conoscenza dell’atto presupposto – Rimedio esperibile – Opposizione all’esecuzione – Esclusione – Opposizione ex art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 – Necessità (C.p.c., art. 615; d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, art. 7). L’opposizione alla cartella di pagamento, emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria, comminata per violazione del codice della strada, ove la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione, deve essere proposta ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, e non nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., e, pertanto, entro trenta giorni dalla notificazione della cartella. (Massima ufficiale).

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.

Sul rimedio contro la cartella esattoriale fondata su verbale di accertamento dell’infrazione del codice della strada non notificato Sommario :

1. Premessa. – 2. L’orientamento per il quale deve essere proposta l’opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c. – 3. La tesi dell’opposizione cd. recuperatoria. – 4. Le implicazioni processuali dell’adesione ai contrapposti orientamenti. – 5. La decisione delle Sezioni Unite. – 6. Osservazioni conclusive.

1. Premessa. Esperita dal trasgressore opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. dinanzi al giudice di pace a fronte della notifica di una cartella di pagamento fondata su un credito per sanzioni amministrative correlate a violazioni del codice della strada, la domanda era dichiarata inammissibile in quanto tardiva, sull’assunto per il quale il rimedio proponibile era costituito dall’opposizione cd. “recuperatoria” di cui all’art. 22 della l. n. 689 del 19811

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Tale disposizione veniva in rilievo ratione temporis; per le controversie incardinate dopo la data del 6 ottobre 2011 trova invece applicazione l’art. 7 del d.lgs. n 150 del 2011, senza che, tuttavia, detta modifica normativa incida sulla questione in esame (Tiscini, Questioni controverse in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione e nomofilachia, in questa Rivista, 2017, n. 2, 199).

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Giurisprudenza

e che, pertanto, la stessa avrebbe dovuto essere promossa entro il termine perentorio a tal fine previsto. Confermata la decisione in sede di gravame da parte del Tribunale di Roma, l’opponente proponeva ricorso per cassazione avverso tale pronuncia denunciando falsa applicazione degli artt. 22 e ss. della l. n. 689 del 1981, per “ingiusta disapplicazione” dell’art. 615, comma 1, c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. In particolare, il ricorrente assumeva che nella fattispecie concreta il rimedio proponibile contro la cartella di pagamento era invece costituito dall’opposizione c.d. preventiva all’esecuzione poiché veniva contestato il diritto a procedere ad esecuzione forzata dell’agente della riscossione in quanto privo di titolo esecutivo, atteso che i verbali di accertamento delle infrazioni al codice della strada posti a fondamento della cartella opposta non erano mai stati notificati, sicché il diritto di credito dell’ente impositore si era estinto e tali verbali non potevano assumere valenza di titolo esecutivo. La Sezione Terza, assegnataria del fascicolo, mediante ordinanza interlocutoria n. 21957 del 28 ottobre 20162, promuoveva la rimessione alle Sezioni Unite della questione, rilevando la sussistenza, all’interno della giurisprudenza di legittimità, di un contrasto afferente il rimedio esperibile avverso la cartella di pagamento concernente verbali di violazione del codice della strada dei quali il trasgressore deduca l’omessa, tardiva o invalida notifica ed, in particolare, se detto rimedio debba individuarsi nell’opposizione all’esecuzione ovvero nell’opposizione cd. “recuperatoria”3. In particolare, il Collegio rimettente osservava che è consolidato nella giurisprudenza della Sezione Seconda l’orientamento in virtù del quale l’opposizione proponibile contro la cartella di pagamento notificata dall’agente della riscossione sulla scorta di verbali di accertamento di infrazioni al codice della strada mediante la quale si faccia valere la tardiva o omessa notifica di detti verbali è l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c., poiché la stessa è volta a negare l’esistenza del titolo esecutivo4. Per contro, sottolineava la stessa ordinanza interlocutoria, è pacifica nella giurisprudenza della Sezione Terza la diversa tesi secondo cui la contestazione dell’omessa o tardiva notifi-

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Sulla quale, per tutti, Tiscini, Questioni controverse in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione e nomofilachia, cit., 191 ss. Si tratta, pertanto, di opposizione fondata su crediti non aventi natura tributaria. Il quadro dei rimedi esperibili avverso la cartella esattoriale deve tenere conto delle rilevanti differenze che intercorrono, in particolare, a seconda che la stessa si fondi su crediti tributari ovvero crediti non tributari. Invero, l’esecuzione mediante ruolo (cd. “esattoriale”) è connotata da molteplici profili di specialità apprezzabile, a mero titolo esemplificativo, con riferimento alla genesi del titolo esecutivo, formato dallo stesso creditore ed alla scissione esistente tra l’ente impositore (che è titolare del credito) e l’agente della riscossione (che procede all’esecuzione forzata). La materia presenta indubbi profili di complessità derivanti dalla natura eterogenea dei crediti oggetto di riscossione mediante ruolo, dall’elevato numero di norme speciali che la regolano e da una giurisprudenza di legittimità non sempre univoca. In arg., nell’ambito della letteratura meno recente, cfr. Montesano, Sulla funzione dell’esecuzione esattoriale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 914 ss.; Allorio, Magnani, Riscossione coattiva delle imposte, in Novissimo Dig. It., 1969, Vol. XVI, 34 ss. Resta valido, invero, l’insegnamento per il quale il ruolo costituisce un titolo esecutivo di carattere amministrativo in virtù del quale ha inizio una forma di esecuzione che costituisce un processo di autotutela (Micheli, Note esegetiche in tema di esecuzione esattoriale, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 1962, 202). Sulla problematica v., inoltre, per tutti, Costantino, Le espropriazioni forzate speciali, Milano 1984, 61 ss., nonché Bellè, Esecuzione in base a ruolo e tutela giurisdizionale, in Riv. dir. trib., 1993, spec. 155 e ss. Come noto, il d.gls. n. 46 del 1999 ha non soltanto previsto all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973 una limitata possibilità di esperire le opposizioni esecutive anche nell’ipotesi di esecuzione esattoriale fondata su crediti di natura tributaria ma ha chiarito, con l’art. 29, che tali limitazioni non operano laddove venga portato in esecuzione un credito non avente natura tributaria (cfr. Asprella, La nuova riscossione esattoriale, in Nuove leggi civ. comm., 2000, 853 ss.). 4 V., da ultimo, Cass., Sez. II, 11 luglio 2016, n. 14125.

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cazione del verbale di accertamento dell’infrazione di violazioni del codice della strada entro il termine di cui all’art. 201, comma 1, del d.lgs. n. 285 del 1992, anche se introdotta formalmente come opposizione all’esecuzione, deve essere riqualificata in termini di opposizione “recuperatoria” ai sensi dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, con conseguente necessità di rispettare il relativo termine di proposizione del rimedio. Questo orientamento si fonda sul rilievo per il quale le contestazioni contro la formazione del titolo basate su fatti impeditivi alla formazione dello stesso in quanto il soggetto passivo non abbia avuto conoscenza del relativo procedimento di formazione, in modo da poter opporsi al verbale di accertamento o all’ordinanza-ingiunzione di pagamento, devono essere fatte valere con lo strumento predisposto dall’ordinamento per impedire la formazione del titolo. In sostanza, la conoscenza del verbale mediante l’intimazione di pagamento comporta una sorta di remissione in termini in favore del destinatario che deve pertanto proporre l’opposizione ai sensi dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, ossia il rimedio previsto per contestare i verbali afferenti contestazioni di violazioni del codice della strada5. Su un piano più generale, la stessa ordinanza poneva in evidenza che è sottesa all’indicato contrasto la complessa problematica della rispettiva delimitazione dell’oggetto dell’opposizione all’esecuzione e dell’opposizione di cui all’art. 22 della l. n. 689 del 1981 e la conseguente necessità, risolta tale questione, di individuare in concreto i rapporti tra i predetti rimedi oppositivi ed i limiti entro i quali gli stessi possono eventualmente sovrapporsi o vicendevolmente escludersi, senza, al contempo, trascurare la portata dei poteri qualificatori del giudice.

2. L’orientamento per il quale deve essere proposta l’opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c.

Occorre premettere, su un piano generale, che oggetto dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c., come precisato più volte nella stessa giurisprudenza della Corte di legittimità, è la contestazione, in ogni suo momento ed aspetto, del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, in essa dovendosi ravvisare una richiesta di declaratoria di attuale insussistenza, perché originaria o sopravvenuta, del menzionato diritto6. La natura dell’opposizione all’esecuzione è peraltro tradizionalmente discussa in dottrina, confrontandosi, essenzialmente, la posizione, dominante nell’elaborazione più recente7, di quanti ritengono che l’opposizione all’esecuzione costituisca un’azione, promossa dal debitore, di accertamento negativo della pretesa creditoria8, con quella di altri che assumono, invece, che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. rappresenti un’azione costitutiva volta ad invalidare, in tutto o in parte, gli atti della procedura9.

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Cass., Sez. III, 4 agosto 2016, n. 16282. Così, tra le molte, Cass., Sez. III, 27 novembre 2012, n. 20989. 7 Ampiamente, Romano, L’azione di accertamento negativo, Napoli 2006. 8 Mandrioli, Opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi, in ED, XXX, Milano, 1980, 431 ss., spec. 439. 9 Garbagnati, Opposizione all’esecuzione (dir. proc. civ.), in NN.D.I., XI, Torino, 1965, 1070; Liebman, Le opposizioni di merito nel processo di esecuzione, 2a ed., Roma, 1936, 188. 6

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Giurisprudenza

L’orientamento, proprio soprattutto della Seconda sezione civile, per il quale, laddove il verbale di accertamento dell’infrazione al Codice della strada non sia stato notificato o tale notifica sia avvenuta tardivamente ovvero sia invalida, il rimedio esperibile è l’opposizione ex art. 615 c.p.c. è stato sostenuto, anche di recente, evidenziando che l’opposizione cd. recuperatoria, che è preordinata a reintegrare l’intimato, cui sia stata notificata la cartella esattoriale, nella titolarità dei mezzi di tutela esperibili avverso gli atti sanzionatori – deve estrinsecarsi nella proposizione di un motivo di opposizione tendente a inficiare il dato della sussistenza delle condizioni di legge idonee a consentire l’emissione del provvedimento sanzionatorio, che quindi deve essere contestato nel merito. Diversamente, ove l’intimato si limiti ad addurre che la notificazione del titolo esecutivo non abbia avuto luogo, o abbia avuto luogo oltre il termine di legge10, ciò che viene in questione è la conseguente sopravvenuta estinzione del titolo stesso, sicché l’opposizione proposta ha il contenuto proprio di una opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.11. Nel sistema antecedente all’intervento del d.lgs. n. 46 del 1999, gli Autori che ritenevano ammissibili le opposizioni esecutive avverso le cartelle di pagamento fondate su crediti non tributari erano inclini a ricondurre all’opposizione all’esecuzione anche le fattispecie per le quali, all’interno della giurisprudenza, è stato poi elaborato il rimedio dell’opposizione cd. recuperatoria. In particolare, si è osservato, con riguardo alle somme dovute a titolo di sanzioni amministrative, che non può operare, se le stesse sono iscritte a ruolo, l’opposizione di cui all’art. 22 della l. n. 689 del 1981, dovendo invece ricondursi all’opposizione ex art. 615 c.p.c. le censure afferenti sia la deduzione di un fatto sopravvenuto al procedimento di iscrizione che della nullità-inesistenza dell’ordinanza di ingiunzione ovvero della nullità della notificazione della stessa12. In un recente contributo, è stata avallata la tesi per la quale, a fronte dell’omessa o tardiva notifica del verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, il rimedio esperibile dovrebbe essere costituito dall’opposizione all’esecuzione13. La ricostruzione in questione trae le mosse dal disposto dell’art. 201 del d.lgs. n. 285 del 1992, il quale stabilisce, come già evidenziato, che “qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, il verbale (…) deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato all’effettivo trasgressore”, ed al successivo comma 5 chiarisce che “l’obbligo di pagare la somma dovuta per la violazione, a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria, si estingue nei confronti del soggetto a cui la notificazione non sia stata effettuata nel termine prescritto”. A fronte della

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Termine determinato, in particolare, in novanta giorni nel caso del verbale di accertamento di violazione in materia di circolazione stradale, ex art. 201, comma 1, cod. strada. 11 Cass., Sez. II, 11 luglio 2016, n. 14125, la quale ha ritenuto esperibile, per eadem ratio, l’opposizione all’esecuzione anche nell’ipotesi di nullità della notifica del verbale. In altre parole, qualora l’opponente deduca il difetto di notifica dei verbali di contravvenzione e/o la inosservanza del termine di decadenza previsto dall’art. 201 C.d.S., o la prescrizione del diritto a riscuotere la somma pretesa dall’amministrazione, l’azione, essendo diretta a contestare la formazione del titolo esecutivo o la estinzione del diritto per un fatto successivo alla formazione del titolo esecutivo,deve essere qualificata come opposizione all’esecuzione (cfr. Cass., Sez. II, 25 febbraio 2008, n. 4814, nonché, tra le altre, Cass., Sez. II, 25 febbraio 2016, n. 3751; Cass., Sez. II, 22 ottobre 2010, n. 21793). 12 Cfr. Bellè, Esecuzione in base a ruolo e tutela giurisdizionale, cit., 168-169. 13 Riccio, La dubbia natura dell’opposizione alla cartella di pagamento per violazione del Codice della strada in caso di mancata o tardiva notificazione del verbale di accertamento, in Giustiziacivile.com.

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perentorietà del termine per la notifica del verbale di accertamento, si osserva che la successiva (ed a fortiori l’omessa) notifica dello stesso comporta la perdita di efficacia esecutiva del verbale di accertamento e, quindi, il venir meno del presupposto legittimante l’iscrizione al ruolo e l’emissione della cartella esattoriale. Si è evidenziato, inoltre, che la funzione “recuperatoria” affidata all’opposizione ai sensi degli artt. 22 e 23 l. 689 del 1981 e 204 bis del codice della strada ha natura meramente interpretativa, non trovando riscontro nel dato legislativo la previsione di alcuna rimessione in termini, senza che possa soccorrere la fictio iuris della equiparazione della notifica della cartella di pagamento a quella del verbale, se quest’ultimo si qualifica come antecedente necessario della prima. Ne deriva che, mancando nell’ordinamento un rimedio oppositivo idoneo a tutelare le ragioni del contribuente, deve attribuirsi allo stesso il potere di agire con l’opposizione all’esecuzione14.

3. La tesi dell’opposizione cd. recuperatoria. Come evidenziato, all’interno della Terza sezione civile è consolidato l’orientamento interpretativo per il quale sarebbe invece proponibile, ove il trasgressore intenda denunciare, avuta contezza della cartella di pagamento, di non aver avuto conoscenza del verbale di accertamento della violazione, l’opposizione cd. recuperatoria, ossia quella mediante la quale il debitore tende a recuperare la tutela di merito che assume essergli stata preclusa a causa della mancata notifica dell’atto in base al quale è stato formato il ruolo15. In altri termini, si assume che l’opposizione in questione può avere ad oggetto anche una cartella esattoriale «quando la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogatagli», sicché l’impugnazione mira a recuperare le ragioni di opposizione alla sanzione amministrativa che non è stato possibile far valere nelle forme di cui alla l. n. 689 del 1981 «per nullità o omissione della notifica del processo verbale di contestazione o dell’ordinanza ingiunzione»16. In sostanza, le contestazioni contro la formazione del titolo basate su fatti impeditivi della sua formazione, quando il soggetto passivo del titolo non abbia avuto conoscenza del procedimento di formazione dello stesso in modo da poter reagire contro il verbale di accertamento o l’ordinanza di ingiunzione, debbono essere fatte valere con il mezzo predisposto dall’ordinamento per impedire la formazione del titolo, al cui utilizzo il soggetto è ammesso allorquando riceva quella conoscenza, imponendosi una sua automatica rimessione in termini, in quanto con l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615,

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Riccio, La dubbia natura dell’opposizione alla cartella di pagamento per violazione del Codice della strada in caso di mancata o tardiva notificazione del verbale di accertamento, cit. 15 Cfr. Fiengo, Opposizione a cartella esattoriale, in www.ilprocessocivile.it, § 2. V. già, tra le altre, Cass. Sez. I, 7 maggio 2004, n. 8695, per la quale, in tema di opposizione alla cartella esattoriale fondata sulla mancata notifica dell’ordinanza ingiunzione o del verbale di accertamento, il rito da seguire non è quello previsto dagli artt. 615 e 617 c.p.c. per l’opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi, ma, in quanto l’opposizione è volta a recuperare, a livello di cartella esattoriale, il momento di garanzia di cui l’interessato sostiene di non essersi potuto avvalere nella fase di formazione del titolo per mancata notifica dell’ordinanza-ingiunzione o del verbale di accertamento, il procedimento deve svolgersi nelle forme previste dalla l. n. 689 del 1981. 16 Cass., Sez. III, 29 gennaio 2014, n. 1985.

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primo comma, c.p.c., non si possono dedurre i fatti inerenti la formazione del titolo esecutivo17. Parte della dottrina ha prestato sostanziale adesione a tale posizione, affermando che, in conformità al “diritto vivente”, deve essere proposta l’opposizione cd. recuperatoria se si fa valere la mancata notificazione del verbale di accertamento della sanzione del codice della strada, mentre l’opposizione ex art. 615 c.p.c., oltre che ai fatti successivi alla formazione del titolo esecutivo, è riservata all’assenza di fatti legittimanti l’iscrizione a ruolo18. Sulla questione, in un recente saggio, si è osservato che, venendo in rilievo rimedi oppositivi potenzialmente concorrenti, deve ritenersi esperibile l’opposizione ex art. 22 della legge n. 689 del 1981 (o, rectius, oggi, ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011), poiché oggetto della stessa non è l’atto opposto quanto il credito dell’Amministrazione19, sicché vi rientrano le contestazioni afferenti la notifica al destinatario del verbale di contestazione della violazione, che è fatto costitutivo di detto credito20.

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Cass., Sez. III, 22 luglio 2016, n. 15120. All’interno del richiamato orientamento sussisteva, tuttavia, una difformità di posizioni nella giurisprudenza della Corte di legittimità in ordine al termine di proposizione dell’opposizione cd. recuperatoria ove il titolo posto a fondamento della cartella esattoriale sia costituito da un verbale di violazione del codice della strada. Difatti, di norma si ritiene che il termine per la proposizione dell’opposizione in questione sia di trenta giorni, avendo riguardo al disposto dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981. Peraltro, in alcune decisioni si è evidenziato che l’opposizione a cartella esattoriale emessa per il pagamento di una sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, con cui si deduca l’illegittimità di tale atto per omessa notifica del verbale di contestazione dell’infrazione, deve essere proposta nel termine di sessanta giorni stabilito dall’articolo 204 bis del cd. Codice della strada, e non in quello di trenta giorni di cui all’articolo 22 della l. n. 689 del 1981, essendo a tal fine essenziale il dato rappresentato dalla incontestata funzione recuperatoria dell’opposizione, alla quale va riconosciuta una sorta di forza attrattiva nei confronti della relativa disciplina impugnatoria, da cui l’esigenza di conformare la disciplina applicabile a quella dettata per l’azione recuperata. Si è inoltre osservato, a riguardo, che tale conclusione, oltre che trovare sostegno sul piano dogmatico, appare altresì quella più consona ai valori costituzionali dell’effettività della tutela giurisdizionale e dell’uguaglianza, tenuto conto che essa restituisce al ricorrente la medesima posizione giuridica che avrebbe avuto se il verbale di contestazione dell’infrazione, come previsto dalla legge, gli fosse stato a suo tempo notificato, in quanto la riduzione del termine di opposizione da sessanta a trenta giorni per effetto di una mancanza – l’omessa notificazione del verbale – che è imputabile alla sola Amministrazione, finirebbe per favorire, con riferimento al termine perentorio per impugnare, la stessa amministrazione e, per converso, sanzionare il destinatario della cartella, che è chiaramente incolpevole dell’omissione (Cass., Sez. II, 7 agosto 2007, n. 17312; conf., tra le altre, Cass., Sez. V, 6 agosto 2009, n. 18015; Cass., Sez. 6-2, ord. 13 settembre 2013, n. 21043). Peraltro, questa disarmonia giurisprudenziale, come evidenziato da una recente decisione della Sezione Terza (Cass., Sez. III, 16 giugno 2016, n. 12412), deve ritenersi superata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, che prevede, al comma 3, che, in tema di opposizione avverso i verbali di contestazioni del codice della strada, il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla data di contestazione della violazione o di notificazione del verbale di accertamento (sessanta se il ricorrente risiede all’estero). Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del predetto d.lgs. la norma si applica ai procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso, ossia dopo la data del 6 ottobre 2011. 18 Angelillis, Antognini, Riscossione delle imposte, in Santi Di Paola (a cura di), Contenziosi esattoriali e procedure di riscossione, I, Maggioli editore, 2015, spec. 504-505. Su tali questioni v. anche Vincre, Commento all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973, in Tesauro (a cura di) Codice commentato del processo tributario, 2a ed., Torino 2016, 1155 ss., spec. 1167. 19 Invero, in tema di opposizioni a sanzioni amministrative, l’impugnazione dell’atto costituisce semplicemente l’occasione del processo il quale ha comunque ad oggetto la sussistenza della pretesa punitiva dell’autorità amministrativa (v., per tutti, Picardi, Manuale del processo civile, Milano 2010, 536, il quale rileva che l’oggetto del processo è costituito dal diritto della P.A. di percepire e dal corrispondente obbligo del trasgressore di pagare la somma determinata nell’ordinanza di ingiunzione). 20 Tiscini, Questioni controverse in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione e nomofilachia, cit., 198. Nel senso che la definitività dell’ordinanza di ingiunzione trascorso il termine di decadenza di trenta giorni per l’impugnazione della stessa deve ricollegarsi alla fattispecie secondaria costituita dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza senza che sia seguita l’impugnazione della stessa nel termine previsto dalla legge cfr. Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano 2015, 352.

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4. Le implicazioni processuali dell’adesione ai contrapposti orientamenti.

Numerose e significative sono le conseguenze derivanti dalla qualificazione dell’opposizione in esame21. Più in particolare, quanto all’atto introduttivo del giudizio, l’opposizione recuperatoria deve essere proposta con il medesimo atto mediante il quale la parte avrebbe dovuto esperire l’opposizione avverso il verbale di accertamento che assume non essergli stato notificato. Pertanto, avendo riguardo ai procedimenti incardinati dopo la data del 6 ottobre 2011, nell’ipotesi di cartella notificata per sanzioni derivanti dalla violazione del codice della strada, l’opposizione recuperatoria deve essere esperita, entro 30 giorni dalla notifica della cartella, con ricorso avanti al giudice di pace ai sensi dell’art. 7, del d.lgs. n. 150 del 2011. Non sono, invece, previsti termini di decadenza per la proposizione dell’opposizione preventiva dell’esecuzione22, da incardinare, mediante atto di citazione, ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c. dinanzi al giudice competente, ossia, nella fattispecie in esame, al giudice di parte. Profondamente diversa è anche la disciplina in materia di competenza23. Invero, se si aderisce alla tesi per la quale il rimedio è quello di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, la competenza territoriale dovrà essere individuata avendo riguardo al luogo della commessa violazione. Peraltro la natura funzionale della competenza, impone di verificare la competenza territoriale con riferimento alle singole sanzioni sottese alla (eventualmente unica) cartella di pagamento: ove infatti la cartella di pagamento sia stata emessa sulla base di illeciti commessi in comuni rientranti in circondari di diversi giudici, la medesima cartella, limitatamente ai singoli illeciti, dovrà essere conosciuta da giudici diversi24. Diversamente, se si assume che il rimedio da esperire è l’opposizione all’esecuzione, la competenza deve essere individuata alla luce degli artt. 17 e 27 c.p.c., salva la previsione dell’art. 480 c.p.c., pur dovendo tale criterio essere eventualmente integrato alla luce del riferimento al “giudice competente per materia o valore” contenuto all’art. 615, co. 1, c.p.c.25.

5. La decisione delle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto aderendo all’opzione ricostruttiva per la quale, a fronte di una cartella di pagamento afferente violazioni del codice della strada, se il tra-

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In arg., di recente, Fiengo, Opposizione a cartella di pagamento, cit., § 4. Salvo il momento entro il quale nell’espropriazione forzata viene disposta la vendita o l’assegnazione ex art. 615, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, nella l. n. 118 del 2016. 23 Trattasi, in ogni caso, di competenza avente natura funzionale ed inderogabile, venendo in rilievo, per un verso, l’interesse pubblico alla repressione delle condotte illecite e, per un altro, il diritto del cittadino a conseguire tutela a fronte di un esercizio dei poteri pubblici che si assume illegittimo (v., tra le molte, Cass., Sez. I, 20 aprile 2005, n. 8294). 24 Altrettanto è a dirsi con riferimento alla competenza per valore, la quale pure deve essere accertata con riferimento al credito iscritto a ruolo in relazione alla singola violazione. 25 Cass., Sez. 6-2, ord. 30 settembre 2015, n. 19579. 22

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sgressore deduce l’omissione o vizi della notifica del verbale, il rimedio esperibile è l’opposizione ex art. 22 della l. n. 689 del 1981, ossia, attualmente, quello di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011. A sostegno della tesi affermata, che si precisa essere limitata a tale specifica questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite e correlata alle peculiari modalità di formazione del titolo esecutivo nell’ipotesi di violazioni concernenti il codice della strada rispetto al generale sistema delle sanzioni amministrative26, sono poste conseguentemente in evidenza le peculiarità del titolo esecutivo costituito dal verbale di accertamento di violazione del codice della strada. In primo luogo, si sottolinea che il suddetto titolo non contiene un’ingiunzione di pagamento, avendo soltanto portata ricognitiva dell’obbligo di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa, che nasce autonomamente dalla commissione dell’infrazione. Il titolo in questione costituisce, peraltro, un provvedimento dell’amministrazione che, dotato di efficacia esecutiva, consente la formazione del ruolo esattoriale che, a propria volta, è titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, come può desumersi dall’art. 49 del d.P.R. n. 602 del 1973. Le Sezioni Unite sottolineano, inoltre, che l’omessa, tardiva o invalida notifica del verbale non impedisce la venuta ad esistenza del titolo esecutivo, incidendo esclusivamente sulla valida formazione dello stesso. Pertanto, il vizio che ne deriva deve essere denunciato mediante il rimedio tipico previsto dall’ordinamento per denunciare i vizi del verbale di accertamento della violazione al codice della strada, ossia quello oggi regolato dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011. Nell’affermare siffatto principio, le Sezioni Unite non trascurano di osservare, infine, facendosi carico di un’ulteriore obiezione dei fautori dell’opposto indirizzo interpretativo, che il titolo esecutivo in esame non è equiparabile a quelli stragiudiziali contemplati dall’art. 474 n. 2 e 3 c.p.c., poiché l’ente impositore è posto in una posizione differenziata e privilegiata che si giustifica in quanto la formazione del titolo esecutivo e l’iscrizione di ruolo esattoriale trovano causa nella commissione di illeciti amministrativi secondo il modello proprio dell’accertamento tributario.

6. Osservazioni conclusive. La decisione in esame, densa di obiter dicta e precisazioni che ne tradiscono il faticoso percorso argomentativo, non persuade laddove assume, per giustificare la preferenza per la tesi del rimedio “speciale” di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, che, ove il verbale di accertamento dell’infrazione del codice della strada non sia tempestivamente o correttamente notificato, il titolo esecutivo si forma, ma non validamente. Nonostante lo sforzo compiuto dalle Sezioni Unite mediante una diffusa e dotta moti-

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Nel quale è invece necessaria l’emanazione di un’ordinanza di ingiunzione che segue all’accertamento ed alla notifica del verbale di contestazione.

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vazione, è difficilmente comprensibile come si possa ritenere che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. non serva anche a contestare l’invalidità del titolo esecutivo, posto che l’oggetto della stessa attiene, come già evidenziato, all’insussistenza del diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata, nell’ambito della quale pacificamente possono sussumersi sia la mancanza che i vizi del titolo esecutivo, anche anteriori alla formazione dello stesso ove si tratti, come nella specie, di titolo stragiudiziale27. In sostanza, ci sembra che la decisione in commento sia andata oltre quanto necessario per giustificare una tesi che, piuttosto che in complesse ricostruzioni teoriche, pare fondarsi sulla “ragion pratica” di limitare nel tempo la proposizione di un’opposizione in una materia effettivamente bagattellare. In detto contesto, l’orientamento affermato dalle Sezioni Unite avrebbe potuto condividersi qualora, invece di mettere in discussione principi generali, lo stesso fosse stato sostenuto, in maniera più semplice eppure ragionevole, seguendo la scia di un recente studio, ossia in virtù della specialità del rimedio oggi disciplinato dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 in ordine all’opposizione a verbale di accertamento di infrazioni del codice della strada rispetto all’opposizione ex art. 615 c.p.c. Rosaria Giordano

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Il ruolo è, infatti, un titolo esecutivo di formazione amministrativa (per tutti Micheli, Note esegetiche in tema di esecuzione esattoriale, cit., 202 ss.). Difatti, per i soli titoli esecutivi giudiziali, in virtù della regola generale dettata dall’art. 161 c.p.c. di conversione dei vizi del provvedimento in motivi di impugnazione dello stesso, opera la preclusione a far valere in sede di opposizione eccezioni inerenti a fatti estintivi od impeditivi anteriori alla formazione del titolo (v., tra le molte, Cass., Sez. 6-3, 18 febbraio 2015, n. 3277). Per converso, nell’ipotesi in cui sia posto in esecuzione un titolo stragiudiziale, il debitore può contrastare la pretesa esecutiva del creditore con la stessa pienezza dei mezzi di difesa consentita nei confronti di una domanda di condanna o di accertamento del debito, e il giudice dell’opposizione può rilevare d’ufficio non solo l’inesistenza, ma anche la nullità del titolo esecutivo nel suo complesso o in singole sue parti, non vigendo in materia il principio processuale della conversione dei vizi della sentenza in mezzi di impugnazione (cfr. Cass., Sez. III, 14 ottobre 2011, n. 21293). Pertanto, potranno essere dedotti in sede di opposizione all’esecuzione, come rilevato, anche vizi anteriori alla formazione del titolo stragiudiziale (in arg., per tutti, Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, Torino 1993, 186).

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