Judicium 2/2020

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ISSN 2532-3083

Judicium n. 2/2020

il processo civile in Italia e in Europa

Rivista trimestrale

Giugno 2020

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Diretta da:

In evidenza: Il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali come premessa per l’indagine sul possibile contenuto di siffatti provvedimenti Gian Paolo Califano

Liquidazione giudiziale e controversie arbitrali Francesco Campione

La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19 Claudio Cecchella

L’applicabilità nel tempo della normativa europea uniforme in materia civile e commerciale, clausola di electio fori e limiti del sindacato della Cassazione sulle questioni di giurisdizione. Note a margine di una (non condivisibile) pronuncia della Corte di cassazione Marco Farina

I poteri istruttori del giudice del lavoro oltre i limiti stabiliti dal codice di rito Paola Licci

Note a prima lettura sull’ordinanza interlocutoria sull’ammissibilità delle critiche alla c.t.u. sollevate nell’ambito del giudizio ordinario per la prima volta in comparsa conclusionale Alessio Bonafine



Indice

Saggi Gian Paolo Califano, Il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali come premessa per l’indagine sul possibile contenuto di siffatti provvedimenti............................................ p. 163 Francesco Campione, Liquidazione giudiziale e controversie arbitrabili.................................................» 187 Claudio Cecchella, La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19......» 213 Giurisprudenza commentata Cass., sez. un., ord. 27 gennaio 2020, n. 1717, con nota di Marco Farina, L’applicabilità nel tempo della normativa europea uniforme in materia civile e commerciale, clausola di electio fori e limiti del sindacato della Cassazione sulle questioni di giurisdizione. Note a margine di una (non condivisibile) pronuncia della Corte di cassazione................................................................................» 233 Cass., sez. VI lav., ord. 3 marzo 2020, n. 5729, con nota di Paola Licci, I poteri istruttori del giudice del lavoro oltre i limiti stabiliti dal codice di rito....................................................................................» 259 Cass., sez. II, 29 gennaio 2020, n. 1990, con nota di Alessio Bonafine, Note a prima lettura sull’ordinanza interlocutoria sull’ammissibilità delle critiche alla c.t.u. sollevate nell’ambito del giudizio ordinario per la prima volta in comparsa conclusionale.........................................................» 267


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Saggi

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Gian Paolo Califano

Il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali come premessa per l’indagine sul possibile contenuto di siffatti provvedimenti Sommario :

1. Introduzione al sistema di cui agli articoli 340, 360, comma 3, e 361 c.p.c. e, in particolare, l’impugnazione in Cassazione della sentenza non definitiva o parziale pronunciata in appello. – 2. Forma, termini, effetti e funzione della riserva. – 3. Segue: riserva di impugnazione avverso il primo provvedimento e successiva pronuncia di altra sentenza che nemmeno definisca il relativo grado di giudizio. – 4. Provvedimenti non definitivi e parziali nel processo del lavoro e relativo sistema di impugnazione. – 5. Cenni ai provvedimenti che possono essere oggetto di riserva di impugnazione. – 6. Un recente caso emblematico. – 7. Prospettive d’indagine.

L’autore esamina il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali e, alla luce della funzione della riserva di impugnazione anticipa qualche conclusione sulla necessità di meglio considerare l’attuale indirizzo giurisprudenziale sulla natura della sentenza che abbia pronunciato solo su alcuna fra più domande cumulate nel medesimo processo. The Author examines the system of remedies against non-definitive decisions or partial decisions and, in light of the scope of the appeal reservation, provides his conclusions on the need to reconsider the case-law trends on the nature of the sentence that decides on one only of the judicial demands proposed in the same proceedings.

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1. Introduzione al sistema di cui agli articoli 340, 360,

comma 3, e 361 c.p.c. e, in particolare, l’impugnazione in Cassazione della sentenza non definitiva o parziale pronunciata in appello. In un recente saggio, spero sufficientemente approfondito, ho dedicato ampio esame all’istituto della riserva di impugnazione1. E, nell’occasione, ho cominciato il mio studio, inevitabilmente, dalla ricostruzione della genesi degli art. 340 e 361 c.p.c. come modificati nel 1950 e, successivamente, nel 2006. Genesi che, per comodità del lettore, qui ripropongo in nota2.

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G.P. Califano, La riserva di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali dal 1950 ad oggi, in Il Foro nap., 2019, 541 ss. Il sistema di impugnazione delle sentenze che non hanno definito il relativo grado di giudizio al quale ho fu come noto, profondamente modificato dalla legge 14 luglio 1950, n. 581. L’innovazione fondamentale apparve nell’art. 340 c.p.c. come modificato dall’art. 35 della legge di riforma, e nel successivo ed allora identico art. 361, comma 1 (poi a sua volta ulteriormente modificato insieme coi commi 3 e 4 dell’art. 360, dagli art. 2 e 3 del d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40). La prima delle due disposizioni del 1950 prevedeva ed ancora stabilisce, che, in ipotesi di sentenze non definitive o parziali: «l’appello può essere differito qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza» entro determinati termini. Analogamente, l’art. 361 nella sua formula attuale ha conservato la medesima facoltà, sia pure soltanto per il ricorso in cassazione avverso alcuni di siffatti provvedimenti. Con l’intento di semplificare, per quanto possibile, l’istituto dell’impugnazione immediata o procrastinata delle pronunce che non definiscono il (grado di) giudizio, il d.lg. n. 483 del 1948 da cui prese origine la riforma del 1950, non prevedeva una specifica riserva da formulare entro termini perentori per l’impugnazione procrastinata. Il gravame risultava infatti in quella proposta di articolato «riservato di diritto, salva l’improponibilità dell’impugnazione a séguito di eventuale acquiescenza del soccombente ai sensi dell’art. 329 c.p.c.» (cfr. la Relazione del Ministro Guardasigilli Grassi, citata, p. 542, che non mancava di dare espresso conto di importanti precedenti normativi quali l’art. 21, comma 4, r.d. 21 maggio 1934, n. 1073, che non condizionava a riserva l’impugnazione obbligatoriamente differita delle sentenze interlocutorie o su questioni pregiudiziali ivi previste). Il sistema, evidentemente ritenuto contrario alla esigenza di certezza della stabilità dei provvedimenti giudiziali aventi forma di sentenza, non sopravvisse agli emendamenti cui fu esposto il menzionato d.lg.; cosicché, alla fine, si ritenne di prevedere la figura in discorso, ancorandola a ben precisi termini perentori. Il disegno di legge n. 2214/IX concernente i provvedimenti urgenti per l’accelerazione dei tempi della Giustizia civile approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 1987 (in Foro it., 1987, V, c. 123), aveva poi previsto una sostanziale semplificazione del testo dell’art. 279 c.p.c. (La norma, ridotta a tre commi, avrebbe recitato: «Il giudice pronuncia sentenza quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali o preliminari, ovvero decidendo totalmente il merito. – Quando, decidendo questioni pregiudiziali o preliminari, non definisce il giudizio, il giudice dispone con ordinanza per l’ulteriore corso della causa. – Nello stesso senso provvede in caso di decisione di alcune soltanto delle cause riunite, delle quali venga disposta la separazione»): sarebbero stati contestualmente abrogati agli art. 340 e 361 c.p.c. che disciplinano oggi, rispettivamente, la riserva facoltativa di appello e di ricorso in cassazione contro sentenze pronunciate in corso di causa senza averne definito il relativo grado di giudizio. Cosicché si sarebbe sancita l’impugnabilità di tali pronunce soltanto insieme con quella definitiva (in tal senso la connessa proposta di modifica degli art. 339 e 360 c.p.c.). La risoluzione approvata dal CSM il 18 maggio 1988 (in Foro it., 1988, V, c. 249) aveva valutato favorevolmente la proposta abolizione sul presupposto che il regime di impugnazione in vigore fosse in contrasto con l’esigenza di non frammentare e rallentare il processo, indicando, però, in riferimento al caso di provvedimenti suscettibili di produrre effetti immediati, l’opportunità di introdurre un’eccezione a tale principio. Ed in concreto, con la Bozza di articolato allegata a detta Risoluzione (n. 17 della Risoluzione, cit., 270 ss.), aveva proposto la modifica dell’art. 340 c.p.c. nel senso che le sentenze che, ai sensi dell’art. 278 o del n. 4 del secondo comma dell’art. 279, dispongono la condanna al pagamento di una somma di denaro o all’adempimento di altro obbligo ovvero il risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente fossero appellabili anche immediatamente. Mentre le altre sentenze non definitive sarebbero rimaste appellabili soltanto insieme con la sentenza definitiva. Finalmente, il nuovo art. 361 si sarebbe limitato, in ordine alla riserva di ricorso in cassazione, ad un mero rinvio alla disciplina dettata dal precedente art. 340. Sta di fatto che, alla fine, si abbandonò ogni ipotesi di intervento sulle norme in discorso, perdendo, per intanto, una buona occasione per la approfondita rimeditazione del sistema delle pronunce che non definiscono il relativo grado di giudizio. E si dovette attendere il d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, per un intervento – nella logica sopra esposta – sugli art. 360, comma 3 e 361, comma 1, c.p.c., per il ricorso in cassazione avverso sentenze di appello non definitive o parziali. Con la conseguenza che è oggi differente il sistema di

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Il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali

Nell’occasione mi è sembrato di tutta evidenza che, sottesi all’istituto della riserva di impugnazione (ove prevista) vi sono chiari motivi di economia processuale (che restano però frustrati quando la parte soccombente non ritenga di formularla, proponendo, invece, impugnazione immediata). Ma, soprattutto, le è affidato, il rilevante compito di ricondurre ad unità in fase di gravame quanto separatamente deciso nelle diverse sentenze del medesimo e precedente grado di giudizio. È infatti ovvio che il nesso logico tra i “capi” della domanda o tra le domande cumulate in simultaneus processus non varia se gli stessi siano risolti con provvedimento formalmente unico o, piuttosto, con distinte sentenze. Sul piano giuridico, però, esso trova la sua giusta salvezza solamente (e proprio) a mezzo della “riserva di impugnazione”; in carenza della quale le diverse pronunce conservano (almeno entro certi limiti) un’autonomia formale e sostanziale, diversi essendone il contenuto ed il regime di impugnazione. Sicché la nota e seducente costruzione della “decisione continuata” tesa a considerare come un provvedimento sostanzialmente unico più sentenze pronunciate nel corso del medesimo grado di giudizio, pur formalmente distinte ma legate per comune genesi, sembra poter operare, sul piano giuridico, solamente se non sia mancata una formale e tempestiva riserva di impugnazione di quelle soggette al regime degli art. 340 e 361 c.p.c.3. E, quindi, ricordando alcune delle conclusioni cui sono giunto in altro studio4, si può affermare che, la parte che abbia formulata la riserva ex art. 340 o 361 c.p.c., avverso una pronuncia parziale, è ammessa ad impugnarla in via incidentale nel giudizio di gravame instaurato da controparte ancorché quest’ultima abbia in realtà impugnato solamente la (successiva) sentenza definitiva5. E viceversa, in carenza della riserva, un gravame che abbia ad oggetto la pronuncia definitiva non dovrebbe ammettere altra parte ad impugnare nelle forme e termini di cui all’art. 334 c.p.c. anche una (precedente) sentenza non fatta tempestivamente oggetto di riserva di impugnazione.

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impugnazione della sentenza non definitiva in appello da quello del medesimo provvedimento, pronunciato in secondo grado, e come tale impugnabile in cassazione. Ciò premesso, in altro saggio [G. Califano, Premesse (sulla legislazione moderna) per uno studio sulle sentenze non definitive o parziali, in corso di pubblicazione, in Judicium, 2019], dedicato alla storia moderna della legislazione in tema di sentenze non definitive o parziali, mi è sembrato di poter evidenziare che la figura della riserva di impugnazione ha nel tempo (o nei vari progetti di riforma) acquisito la funzione più varia: tra elemento indispensabile ad evitare il passaggio in giudicato della relativa sentenza che non abbia definito il relativo grado di giudizio ad elemento superfluo (e nemmeno più previsto dalla legge), per provvedimenti (non definitivi) per così dire, “riservati di diritto” e già di per sé impugnabili con il provvedimento definitivo (come d’altra parte meglio vedremo, quanto all’attuale sistema a proposito dell’impugnazione in cassazione della sentenza non definitiva che abbia risolto una mera questione). E come già notato, in altro mio studio sui lodi non definitivi e parziali (G.P. Califano, Sull’impugnazione dei lodi non definitivi e parziali, in Riv. dir. proc., 2019, 435 ss.). Ci si riferisce all’intuizione di A. Attardi, Modo e termine dell’appello contro una sentenza non definitiva, in Giur. it., 1964, I, 1415 ss., che, commentando Cass., 30 novembre 1963, n. 3069, la quale, in termini che vedremo non essere condivisibili, prescrive la forma dell’impugnazione principale per il gravame proposto avverso una pronuncia non definitiva precedentemente fatta oggetto di riserva, quando controparte abbia impugnato solamente la successiva sentenza definitiva, scrive: «l’impugnazione principale e quella incidentale si appuntano contro una stessa sentenza; tuttavia, per sentenza deve intendersi l’atto col quale si è data risposta all’insieme delle questioni insorte nell’àmbito dell’unico processo talché – quando ricorra il fenomeno della decisione continuata come nell’ipotesi in cui la sentenza definitiva sia stata preceduta dall’emanazione di una o più decisioni non definitive – sentenza ai fini della questione che interessa è la decisione continuata unitariamente considerata». G.P. Califano, La riserva di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali dal 1950 ad oggi, cit., 544. Conf. Cass., 19 marzo 1981, n. 1619, in Giust. civ., 1981, I, p. 1620 e Cass., 4 agosto 1966, n. 2167, in Rep. Foro it., 1966, voce Impugnazioni in materia civile, n. 51.

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Intanto chiara è anche la funzione dell’istituto, correttamente individuata ormai da tempo come idonea «a consentire alla parte, soccombente sulla materia della sentenza non definitiva, di attendere la definizione del processo in quel certo grado, al fine di poter valutare in termini complessivi la convenienza e quindi il suo interesse all’impugnazione, ossia alla celebrazione di un nuovo grado del processo»6. In fine vale notare fin d’ora che le norme qui in esame (art. 340, 360, comma 3 e 361, c.p.c.) oltre a svolgere la funzione di disciplinare forme e termini della riserva di impugnazione, nell’individuare espressamente i provvedimenti ai quali intendono applicarsi, di fatto elencano le sentenze non definitive (o parziali) ammesse nel sistema della cognizione ordinaria (riducendoli al provvedimento di condanna generica e alle sentenze di cui ai numeri 3 e 4 dell’art. 279, comma 2, c.p.c.; e, per altro verso, lo vedremo, per la ratio stessa dell’istituto della riserva, tali norme fungono anche da prezioso ausilio nell’intricata vicenda relativa alla natura del provvedimento pronunciato su una fra più domande cumulate nel medesimo processo7. Sta di fatto che il codice di procedura civile, come novellato dalla legge del 1950, dedica ancora oggi al regime di impugnazione delle sentenze che non abbiano definito il relativo grado di giudizio poche disposizioni, tra le quali assumono decisivo rilievo i richiamati art. 340 e 361. Soltanto in tali norme (insieme, oggi, con l’art. 360) appare un peculiare regime di impugnazione di siffatti provvedimenti. E ciò è proposto con esclusivo e diretto riferimento all’appello e al ricorso in cassazione. Nessuna altra disposizione interviene a specificare la possibilità di procrastinare anche altri mezzi di impugnazione, sebbene abbiano ad oggetto siffatti provvedimenti. Si è quindi posto il problema di stabilire se gli altri mezzi di gravame previsti per il processo civile possano essere assoggettati a disciplina analoga a quella dettata per l’appello ed il ricorso per cassazione dagli articoli di legge sopra menzionati. Correttamente, e per le ragioni che ho provato a sintetizzare in altra occasione8, l’istituto dell’impugnazione differita è ritenuto, nella prassi, prima facie incompatibile con mezzi di impugnazione diversi dall’appello o dal ricorso in cassazione. In particolare, esso è stato espressamente escluso, in giurisprudenza, per il regolamento di competenza9 e per la

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M. Bove, Sentenze non definitive e riserva di impugnazione, in Riv. trim., 1998, 418. Correttamente l’a. respinge la tesi della definitività o meno della sentenza in relazione alla presenza di un espresso provvedimento di separazione della domanda decisa da quella che necessita di ulteriore istruzione. Provvedimento che potrebbe il giudice aver malamente pronunciato, fuori dalla previsione sistematica delle norme de quo, e in spregio alla funzione stessa dell’istituto della riserva di impugnazione, imponendo una impugnazione immediata che la parte, all’esito complessivo del processo potrebbe non avere. Di ciò mi occuperò in altro studio, dedicato, appunto, al possibile contenuto della sentenza parziale. Ossia quando cercherò di individuare i casi nei quali il giudice può effettivamente decidere una fra più domande cumulate nel medesimo processo, separandola dalle atre che necessitano di ulteriore istruzione; e così negando alla parte soccombente la possibilità di valutare l’esito complessivo della controversia prima di proporre impugnazione necessariamente immediata averso il primo provvedimento. In argomento spunti di grande interesse in M. Bove, o.l.u.c. G.P. Califano, La riserva di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali dal 1950 ad oggi, cit., 543 ss. Cass., 3 aprile 1993, n. 4049, in Rep. Foro it., 1993, voce Competenza civile, n. 144; Cass., 3 novembre 1987, n. 8063, ivi, 1987, voce Appello civile, n. 21; Cass., 22 ottobre 1982, n. 5498, ivi, 1982, voce cit., n. 15; Cass., 6 agosto 1962, n. 2394, ivi, 1962, voce Competenza e giurisdizione in materia civile, n. 407. Si è pertanto stabilito, ad esempio, e con ovvia esclusione dell’ipotesi di cui all’art. 46 c.p.c.,

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Il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali

revocazione10. La tesi negativa è peraltro assolutamente maggioritaria anche in dottrina11, salva qualche perplessità12 che forse vale a mettere in luce, de iure condendo, l’interrogativo circa la possibile opportunità di estendere l’istituto della riserva di gravame anche ad ulteriori mezzi di impugnazione (penso al regolamento di competenza necessario). In realtà, il legislatore che volesse deflazionare i ruoli della S. Corte potrebbe, a non voler del tutto sopprimere l’istituto (peraltro oggi applicabile a provvedimenti non omogenei), almeno riflettere sulla possibilità di rendere in qualche modo “procrastinabile” il ricorso per regolamento (necessario) di competenza, per renderlo eventualmente proponibile quando sarà (pronunciata e) impugnabile la sentenza definitiva. Così, se del caso, e previa riserva del regolamento (dunque per volontà della parte soccombente), trasformando l’istituto di cui all’art. 42 c.p.c. in quello regolato dalla norma successiva. Ciò detto, e come già ricordato, il d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, è intervenuto sul sistema di impugnazione in Cassazione della sentenza che non abbia definito il relativo giudizio di secondo grado. Si è cosí stabilito che: «non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio» (nuovo art. 360, comma 3, c.p.c.). mentre, «contro le sentenze previste dall’art. 278 e contro quelle che decidono una o alcuna delle domande senza definire l’intero giudizio, il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso, e in ogni caso non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa». Qualora sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, il ricorso deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio, o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisce il giudizio. La riserva non può farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente ricorso» (commi 1, 2 e 3 del nuovo art. 361 c.p.c.). Resta dunque chiaro che, quanto al ricorso in cassazione, bisogna oggi distinguere la sentenza di condanna generica e quella che abbia deciso su una fra più domande cumulate nel medesimo processo (sentenze parziali) – per l’impugnazione procrastinata delle

che «la sentenza non definitiva con la quale il giudice di primo grado si sia limitato ad affermare la propria competenza è impugnabile unicamente e immediatamente con il regolamento necessario di competenza, da proporsi nei modi e nel termine di cui all’art. 47 c.p.c., non essendo contro detta decisione ammessa riserva di impugnazione differita. Pertanto, l’appello contro tale sentenza proposto, a séguito dell’indicata riserva, insieme con quello avverso la successiva decisione definitiva del merito è inammissibile, restando l’esame della questione della competenza precluso dal giudicato interno formatosi al riguardo»: Cass., 6 giugno 1990, n. 5414, ivi, 1990, voce Appello civile, n. 10; Cass., 3 novembre 1987, n. 8063, ivi, 1987, voce cit., n. 21. 10 Cass., 13 ottobre 1970, n. 1989, in Rep. Foro it., 1971, voce Revocazione, giudizio di, n. 3. 11 F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, 5a ed., II, Roma, 1956, 144; V. Andrioli, Revocabilità di sentenze parziali, in Riv. dir. proc., 1947, I, 280 ss.; E. Redenti, Sulla revocabilità di sentenze parziali, in Riv. trim., 1947, 492 ss.; A. Attardi, La revocazione, Padova, 1959, 238 ss. 12 Cfr. M.T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, II, Del processo di cognizione, 4a ed., Milano, 1962, p184.

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quali valgono le riflessioni sopra svolte in ordine a tutti i provvedimenti di primo grado che non hanno definito il relativo grado di giudizio – da quella che ha risolto una delle questioni di cui all’art. 279 c.p.c. Le prime hanno conservato l’originario regime come introdotto nel 195013; le seconde, c.d. non definitive, non sono più immediatamente impugnabili in cassazione14, e restano possibile oggetto di impugnazione soltanto insieme con la pronuncia che interverrà a risolvere la relativa domanda15. Senza che, all’uopo, sia necessario formulare una riserva di impugnazione non prevista dalla legge. L’impugnazione di tali provvedimenti è dunque “riservata” di diritto. Peraltro, la previsione di cui al citato art. 360, comma 3, e per la quale il ricorso in cassazione avverso la sentenza non definitiva (su mere questioni) può essere proposto “allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio” merita due chiarimenti. In primo luogo la norma, posta la non impugnabilità immediata delle sentenze non definitive in cassazione, evidentemente si riferisce al caso che, in giudizio con cumulo oggettivo, in una delle due cause la Corte di appello abbia dapprima pronunciato un provvedimento non definitivo e successivamente risolva, con sentenza parziale ovvero definitiva la relativa domanda: nella specie, il termine di impugnazione della prima sentenza potrà (o dovrà in alcuni casi) coincidere col termine di impugnazione del secondo provvedimento. In secondo luogo, sebbene la formula adottata dal legislatore sia in proposito un po’ equivoca, nulla toglie che pronunciata la sentenza definitiva di appello (in giudizio non litisconsortile), la parte soccombente con la pronuncia non definitiva possa impugnare soltanto questa, senza necessariamente fare oggetto del gravame anche il provvedimento finale; che verrà comunque meno, ai sensi dell’art. 336 (direi: comma 1, avendo la riserva “riunito” i due provvedimenti) c.p.c., quando le statuizioni rese con la sentenza definitiva dipendano da quelle dettate nel primo provvedimento16.

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Si afferma, peraltro, che il deposito della copia autentica della sentenza impugnata è richiesto, a pena di improcedibilità, anche nel caso di ricorso avverso una sentenza non definitiva, ancorché l’art. 369, comma 2, c.p.c. non consideri espressamente tale ipotesi, sicché, a scioglimento della riserva, quando il ricorrente abbia impugnato sia la sentenza non definitiva che quella definitiva, ma abbia depositato solo la copia autentica di quest’ultima, il ricorso va dichiarato improcedibile limitatamente alle censure riguardanti la prima: Cass., 4 agosto 2017, n. 19602, in Rep. Foro it., 2017, voce Cassazione civile, n. 172; Cass., 30 aprile 2014, n. 9538, ivi, 2014, voce cit., n. 143; Cass., 9 luglio 2008, n. 18844, in Rep. Foro it., 2008, voce cit., n. 289. 14 Si è infatti correttamente affermato che «dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 360, 3° comma, n. 3), c.p.c., come sostituito a far data dal 2 marzo 2006, n., dall’art. 2, l.1° comma, d.leg. 2 febbraio 2006, n. 40, è inammissibile il ricorso per cassazione immediato avverso la sentenza che abbia deciso esclusivamente una questione preliminare di merito, senza definire, neppure parzialmente, il giudizio»: Cass., 3 giugno 2015, n. 11456, in Rep. Foro it., 2015, voce Cassazione civile, n. 45. 15 L’impugnazione immediata di una sentenza non definitiva, di cui la parte si sia riservata l’impugnazione differita, è inammissibile anche quando segua alla pronuncia di altra sentenza non definitiva, rispetto alla quale sia stata espressa analoga riserva di impugnazione differita, atteso che la finalità dell’art. 361, 2° comma, c.p.c., è quella di evitare il frazionamento del processo in piú segmenti, ciascuno pendente in gradi diversi e di consentire alla parte soccombente nella sentenza non definitiva di attendere la pronuncia di quella definitiva, per valutare l’opportunità dell’impugnazione in relazione all’esito complessivo del giudizio: Cass., 10 aprile 2012, n. 5658, in Rep. Foro it., 2012, voce Cassazione civile, n. 36. 16 Cfr. Cass. 19 agosto 2019, n. 21456, inedita, per la quale: «La cassazione, anche se con rinvio, della sentenza non definitiva, che abbia pronunciato positivamente sull’an debeatur, comporta la caducazione della sentenza sul quantum dipendendo quest’ultima totalmente dalla prima, che della sentenza definitiva costituisce il fondamento logico-giuridico, non sostituibile, ex post, dalla nuova pronuncia in sede di rinvio, neppure se contenente statuizioni analoghe a quella della sentenza cassata».

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E, (quanto, invece, al provvedimento “complesso) in chiaro ossequio al principio di unità in fase di gravame, si è a mio giudizio correttamente affermato che: «nel caso di giudizio nel quale si trovino cumulate più domande fra le stesse parti, anche connesse soltanto soggettivamente, la sentenza che, con riguardo a taluna o talune delle domande, abbia deciso solo alcune questioni senza definire il giudizio, e che invece, con riguardo ad altre domande, abbia contemporaneamente definito il giudizio, è soggetta esclusivamente al regime di impugnazione per cassazione di cui all’art. 361 c.p.c., restandone escluso l’assoggettamento al regime di impugnazione per cassazione necessariamente differita, previsto dall’art. 360, 3° comma, c.p.c., per la decisione soltanto su questioni, la sentenza è alternativamente immediatamente impugnabile, ovvero suscettibile di riserva di impugnazione da ciascuna delle parti interessate, con riferimento a tutte le statuizioni; e, quindi, anche a quelle che altrimenti sarebbero state soggette al regime dell’art. 360, comma 3, c.p.c.»17.

2. Forma, termini, effetti e funzione della riserva. L’art. 129 disp. att. c.p.c., cui – nei limiti della nuova previsione dell’art. 361 – rimanda, per il ricorso in cassazione18, il successivo art. 13319, si limita a disporre che la riserva può essere formulata «nell’udienza del giudice istruttore con dichiarazione orale da inserire nel processo verbale o con dichiarazione scritta su foglio a parte da allegarsi ad esso»20. Il comma 2 della stessa disposizione aggiunge, poi, che essa può essere fatta «anche con atto notificato ai procuratori delle parti costituite, a norma dell’art. 170 primo e terzo comma del codice o personalmente alla parte, se questa non è costituita»21.

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Cass., 29 luglio 2011, n. 16734, in Giust. civ., 2013, I, 1162. Nella Relazione del Ministro Guardasigilli Piccioni al Presidente della Repubblica sul testo del decreto (Modifiche al codice di procedura civile, Santa Maria Capua Vetere, 1950, n. 31, XXXXI, si legge che «l’istituto della riserva d’appello o di ricorso per cassazione […] ha reso necessaria la rielaborazione degli articoli 129 e 133 delle disposizioni di attuazione del 1941. A ciò provvedono gli art. 33 e 37, precisando la forma della riserva stessa, non prevista dalla legge 14 luglio 1950, n. 581. La nuova struttura dell’art. 340 del codice (art. 35 della predetta legge) non consente più, quale unica forma di riserva, la dichiarazione in udienza […] in quanto la necessità di fare la riserva entro il termine di impugnazione può non permettere di attendere la prima udienza istruttoria successiva alla comunicazione […]. Perciò, accanto alla forma già prevista dalle disposizioni di attuazione del 1941, è stata introdotta altra forma consistente nell’atto notificato ai procuratori delle parti, ovvero personalmente alla parte non costituita». 19 Ai primi due commi dell’art. 133 disp. att. c.p.c. l’art. 19 comma 1, lettera a) del d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, ha aggiunto un comma 3 ai sensi del quale: «L’art. 129, terzo comma, si applica altresì se il processo si estingue dopo la pronuncia delle sentenze previste dall’art. 360, terzo comma, del codice». 20 Si è avuta occasione di affermare che «affinché la riserva di impugnazione differita di sentenza non definitiva inserita in una memoria autorizzata produca effetti, non è sufficiente il mero deposito, ma è necessaria la notifica ai procuratori delle parti costituite, o personalmente a quelle che non si siano costituite, poiché l’art. 129 disp. att. c.p.c., prevedendo la dichiarazione a verbale o la dichiarazione scritta su foglio separato allegato al verbale medesimo, quando essa sia esplicitata in udienza, esige la conoscibilità della riserva di gravame»: Cass., 18 dicembre 2014, n. 26777, in Rep. Foro it., 2014, voce Impugnazioni civili, n. 53; nello stesso senso: Cass., 22 gennaio 2019, n. 1574, inedita. 21 Si è in proposito affermato che la riserva è validamente formulata ove sia inserita nella relata di notificazione della sentenza da impugnare: Cass., 2 novembre 1961, n. 2538, in Foro it., 1962, I, c. 265. Quanto, in particolare, alla riserva di impugnazione formulata con atto notificato al procuratore costituito, v. G.P. Califano, La riserva di impugnazione delle sentenze non definitive o parziali dal 1950 ad oggi, cit., 551 ss., cui ora si aggiunge Cass. (ord.) 22 gennaio 2019, n. 1574, in Foro it., Rep., 2019, Voce Appello civile, n. 4, 18

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Gian Paolo Califano

In ordine ai termini che la sanzione della decadenza rende perentori, gli art. 340 e 361 c.p.c. considerano due distinte ipotesi: il termine per impugnare e la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza22. La disciplina va interpretata23 nel senso che se la prima udienza successiva alla comunicazione del provvedimento non definitivo (o parziale) ha luogo prima della scadenza del termine per proporre l’appello o il ricorso in cassazione (breve o lungo che esso sia), la riserva deve essere formulata entro l’udienza; successivamente a quell’udienza, la riserva non può più essere formulata e non resta che l’impugnazione immediata (nella residua parte del termine)24. La riserva esclude la decadenza dall’appello (o dal ricorso in cassazione per i provvedimenti parziali e per la condanna generica) per lo scadere dei termini di cui agli art. 325 e 327 c.p.c.25. E abbina i termini di impugnazione del primo provvedimento a quelli che decorreranno una volta che sia stata pronunciata la sentenza definitiva26. La tempestiva riserva di impugnazione non costituisce manifestazione della volontà della parte di impugnare; sicché l’impugnazione del provvedimento, in via procrastinata, dovrà poi essere proposta in modo formale, non essendo sufficiente la sola impugnazione proposta avverso il provvedimento definitivo27. Un dubbio sorge in relazione alla comminata decadenza: si potrebbe infatti incorrere nell’errore di abbinare la decadenza che nasce dalla mancata proposizione in termini della riserva, alla generale facoltà di impugnazione della sentenza. Si avverte quindi l’esigenza di chiarire che, la parte che lasci inutilmente decorrere il termine per la formulazione della

per la quale la riserva di impugnazione differita di sentenza non definitiva inserita in una memoria autorizzata non produce effetti con il mero deposito, essendo necessario che sia notificata ai procuratori delle parti costituite, atteso che l’articolo 129 disp. att. c.p.c. esprime il principio della necessaria conoscibilità della riserva, laddove una memoria autorizzata può giustificare la presunzione di conoscenza solo in relazione alle questioni a chiarificazione delle quali è stata autorizzata. 22 Il termine per la riserva di gravame, a pena di decadenza stabilito dall’art. 340 c.p.c., non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza non definitiva, non può essere prorogato o differito, essendo perciò del tutto irrilevante che la prima udienza sia stata di mero rinvio o di trattazione: Cass., 9 gennaio 2007, n. 212, in Rep. Foro it., 2007, voce Appello civile, n. 30. 23 Cfr. Cass., 16 luglio 1960, n. 1952, in Rep. Foro it., 1960, voce Impugnazioni civili, n. 22. 24 Nel rito del lavoro, la riserva deve essere formulata entro il termine di trenta giorni per appellare, sempre che non scatti il diverso termine acceleratorio della «prima udienza successiva»: Cass., 14 febbraio 1990, n. 1084, in Rep. Foro it., 1990, voce Lavoro e previdenza, controversie, n. 341; il dies a quo è individuato nel giorno dell’udienza di discussione, nella quale il giudice dà lettura del dispositivo della sentenza, essendosi ritenuto, con opinabile orientamento, non indispensabile, al fine della formulazione della riserva, la conoscenza anche della motivazione del provvedimento: Cass., 11 gennaio 1986, n. 118, ivi, 1986, voce Appello civile, n. 14; Cass., 27 aprile 1981, n. 2532, in Rep. Giur. it., 1981, voce Lavoro e previdenza, controversie, n. 115. 25 Il termine breve per impugnare una sentenza non definitiva decorre unicamente dal momento della notificazione della stessa, e non fa quello della sua comunicazione da parte della cancelleria; quest’ultimo atto, infatti, rileva soltanto al fine di individuare quale sia la prima udienza ad esso successiva, entro la quale la parte interessata ha comunque l’onere di formulare la riserva di appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c.: Cass., 26 marzo 2009, n. 7340, in Rep. Foro it., 2009, voce Impugnazioni civili, n. 35. 26 Chiaro che la parte, che abbia formulato la riserva di impugnazione differita di una sentenza non definitiva, non ha poi l’onere, quando sia sopravvenuta la sentenza definitiva, di impugnare necessariamente ambedue le sentenze: Cass., 12 luglio 2016, n. 14193, in Rep. Foro it., 2016, voce Impugnazioni civili, n. 31. Nello stesso senso: Cass. 8 gennaio 2018, n. 194, in Foro it., Rep., 2018, voce Cassazione civile, per la quale: «con riguardo alla disciplina dettata dall’art. 361, comma 2, c.p.c., la possibilità che il ricorso avverso la sentenza non definitiva, per la quale sia stata precedentemente espressa riserva di impugnazione,, sia fatto unitamente al ricorso contro la sentenza che definisce il giudizio, non esclude che la parte, anche dopo la pubblicazione di quella definitiva, possa optare per l’impugnazione della sola sentenza non definitiva, la cui eventuale cassazione comporta comunque la caducazione anche della sentenza definitiva quando le statuizioni di quest’ultima dipendono da quelle della prima». 27 Cass., 6 maggio 2005, n. 9397, in Rep. Foro it., 2005, voce Impugnazioni civili, n. 17.

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riserva non può più procrastinare il gravame. Ma, se ancora in termini, può proporre l’impugnazione immediata della pronuncia parziale o non definitiva28. Si è affermato29 che una riserva di impugnazione che ha ad oggetto solamente alcuni capi della sentenza non definitiva o parziale consente la (successiva) impugnazione immediata degli altri capi; salvo che, per applicazione analogica dell’art. 340, comma 2, c.p.c., l’impugnazione immediata dei capi di sentenza che non sono stati oggetto della riserva comporta l’onere di impugnare anche i primi. Senza disconoscere la delicatezza del problema, né l’arbitrarietà delle diverse possibili soluzioni, sembra piuttosto che, nel caso di specie, passano in giudicato i capi del provvedimento non fatti oggetto della riserva. È noto, infatti, che «l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate» (art. 329, comma 2, c.p.c.) che, quindi, non possono poi formare l’oggetto di una riserva di gravame (ormai inammissibile); sicché per analogia, la riserva formulata per alcuni capi della sentenza non definitiva o parziale non può che produrre l’acquiescenza sui capi per i quali non si è riservata l’impugnazione. Si può d’altra parte osservare che la contraria affermazione è in palese contrasto con la ratio stessa del meccanismo di cui agli art. 340 e 361 c.p.c., che permettono la formulazione della riserva di impugnazione per consentire il recupero del principio dell’unità del processo in fase di gravame. E la riserva si vedrebbe privata del proprio fine pubblicistico se potesse essere formulata soltanto per alcuni capi della relativa sentenza, senza impedire la successiva ed immediata impugnazione di altra parte del medesimo provvedimento. È forse per questo motivo che si è sentita la necessità di specificare che l’impugnazione (immediata) dei capi non fatti oggetto della formulata riserva comporterebbe, comunque,

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È infatti giurisprudenza costante che «nel sistema di riserva facoltativa di impugnazione contro sentenze non definitive la mancata dichiarazione di riserva nella prima udienza istruttoria successiva alla comunicazione della sentenza, o l’irritualità della riserva stessa, producono solo la decadenza dal diritto oggetto della riserva e, perciò, dalla facoltà di impugnazione differita; ma non precludono l’esercizio del potere di impugnazione immediata, da esperirsi entro il termine di cui agli art. 325 e 327 c.p.c.»: Cass., 4 febbraio 2016, n. 2188, in Rep. Foro it., 2016, voce Impugnazioni civili, n. 32; Cass., 20 febbraio 2015, n. 3376, ivi, voce cit., n. 31; Cass., 22 luglio 2010, n. 17233, in Rep. Foro it., 2010, voce Lavoro e previdenza, controversie, n. 107; Cass., 12 maggio 1989, n. 2171, in Rep. Giur. it., 1989, voce Appello civile, n. 9; Cass., 12 aprile 1988, n. 2869, ivi, 1988, voce cit., n. 89; Cass., 2 ottobre 1987, n. 7355, in Rep. Foro it., 1987, voce Appello civile, n. 19; Cass., 15 gennaio 1986, n. 188, ivi, 1986, voce Impugnazioni civili, n. 46; Cass., 22 novembre 1984, n. 6034, ivi, 1984, voce Cassazione civile, n. 29; Cass., 4 febbraio 1983, n. 929, ivi, 1983, voce Appello civile, n. 12; Cass., 12 dicembre 1981, n. 6576, in Rep. Giur. it., 1981, voce Appello civile, n. 24; Cass., 15 febbraio 1980, n. 1150, in Rep. Foro it., 1980, voce Appello civile, n. 22; Cass., 11 ottobre 1978, n. 4542, ivi, 1978, voce Impugnazioni civili, n. 54; Cass., 18 luglio 1972, n. 2456, ivi, 1972, voce Cassazione civile, n. 73; Cass., 9 maggio 1969, n. 1598, ivi, 1969, voce Appello civile, n. 15; Cass., 28 settembre 1967, n. 2220, ivi, 1967, voce cit., n. 30; Cass., Sez. un., 13 luglio 1963, n. 1911, ivi, 1963, voce cit., n. 27. In dottrina, nello stesso senso: S. Satta, Sulla riserva d’appello contro sentenze non definitive, in Giur. it., 1951, IV, p. 38; F. Masè Dari, op. cit., 899. Si è anzi affermato che la sentenza non definitiva, ove non sia stata oggetto di riserva di impugnazione, può essere impugnata negli ordinari termini ex art. 325 e 327 c.p.c. indipendentemente dall’eventuale impugnazione della pronuncia definitiva: Cass., 14 gennaio 1977, n. 172, in Rep. Foro it., 1977, voce Cassazione civile, n. 48; che verrà comunque meno, in ipotesi di riforma (o cassazione) della pronuncia non definitiva da essa presupposta, ai sensi del secondo comma dell’art. 336 c.p.c.: cfr. Cass., 25 settembre 1991, n. 9973, ivi, 1991, voce Impugnazioni civili, n. 82; Cass., 10 marzo 1990, n. 1960, in Rep. Giur. it., 1990, voce Cassazione civile, n. 18. E sebbene sia passata in giudicato prima della conclusione del giudizio di gravame proposto avverso la sentenza non definitiva: cfr. Cass., 25 maggio 1991, n. 5967, ivi, voce cit., n. 18. È però il caso di specificare che, in ipotesi di provvedimenti legati da vincoli di dipendenza, l’esibizione della sentenza definitiva – passata in giudicato – che abbia accolte le domande della parte che aveva proposto l’immediata impugnazione della pronuncia non definitiva dovrebbe condurre al rilievo della sopravvenuta carenza di interesse al detto gravame. 29 A. Levoni, Le disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, cit., p. 389; contra, più correttamente: E. Redenti, Diritto processuale civile, II, cit., 406, 407 e 412; N. Giudiceandrea, Le impugnazioni civili, II, Milano, 1952, 113.

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l’onere di impugnare contestualmente i (diversi) capi precedentemente “riservati”. Ma così facendo, si incorre anche nella negazione del principio giurisprudenziale della incompatibilità tra la riserva di impugnazione e l’impugnazione immediata30. Diverso è il caso in cui la parte soccombente con la sentenza non definitiva o parziale pretenda di riservare l’impugnazione di alcuni capi del provvedimento e contemporaneamente di impugnarne altri in via immediata. Ai sensi degli art. 129, comma 2 e 133, comma 1, disp. att. c.p.c., la riserva di appello o ricorso per cassazione può «essere fatta anche con atto notificato ai procuratori delle altre parti costituite […] o personalmente alla parte se questa non è costituita». Ed anche l’impugnazione può, in alcuni casi, essere notificata alla parte personalmente (art. 330, comma 3, c.p.c.). Può quindi immaginarsi che il soccombente notifichi un unico atto col quale, riservata l’impugnazione di alcuni capi della pronuncia in discorso, proponga il gravame immediato avverso le altre parti del medesimo provvedimento. Posto che v’è incompatibilità tra le due pretese così manifestate, è assai difficile stabilire, senza cadere nei limiti di una scelta davvero arbitraria, quale delle due manifestazioni di volontà sia idonea a raggiungere il proprio effetto. Nel dubbio, ed in carenza di ulteriori riferimenti normativi, sembra lecito invocare anche qui l’art. 329, comma 2, c.p.c.; la cui applicazione, nel caso di specie, comporta il passaggio in giudicato dei capi di sentenza oggetto della riserva di gravame e, dunque, non impugnati col gravame parziale. La riserva, in definitiva, crea una temporanea preclusione della impugnazione31; e non si applicano gli art. 358 e 387 c.p.c. che si riferiscono – secondo la giurisprudenza – solamente all’impugnazione immediatamente proponibile, rispetto alla quale si verifichino le sanzioni di inammissibilità o di improcedibilità32. Il fenomeno, per qualche verso, è simile a quello che si riscontra(va) nel processo del lavoro con riferimento al c.d. appello con riserva dei motivi (ormai ridotto, nell’intenzione del legislatore, a cari rari con la riforma dell’art. 429, co. 1, c.p.c.33). Dove, infatti, si afferma(va) che, siccome la speciale forma di impugnazione prevista dal comma 2 dell’art. 433 c.p.c. presuppone che sia stata iniziata

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Nella citata Relazione dell’onorevole Varriale sulla l. 14 luglio 1950, n. 581 si afferma, in proposito, che «è chiaro che la riserva deve investire tutti i capi definitivi della sentenza che siano sfavorevoli alla parte». Ciò non può certo significare l’imposizione di un onere di riserva dell’impugnazione della sentenza parziale per ogni suo oggetto; si avrebbe altrimenti la strana previsione dell’obbligatorio differimento del giudicato formale per questioni che la parte potrebbe non avere interesse ad impugnare. Sicché l’inciso deve essere letto come esplicitazione del divieto della scissione della sentenza parziale, nel senso di una riserva che abbia ad oggetto soltanto alcune delle questioni ivi risolte, formulata contestualmente alla proposizione del gravame immediato per altre questioni. 31 Cass., 22 novembre 1991, n. 12577, cit.; Cass., 9 febbraio 1979, n. 918, in Mass. Foro it., 1979, n. 191. 32 Cass., 8 giugno 1979, n. 3284, in Mass. Foro it., 1979, n. 662; Cass., 5 agosto 1977, n. 3514, in Rep. Foro it., 1977, voce Cassazione civile, n. 52; Cass., 29 ottobre 1971, n. 3059, ivi, 1971, voce Appello civile, n. 21. 33 Dopo la riforma del 2008, e quando, quindi, di regola il giudice del lavoro pronuncia non soltanto il dispositivo ma anche le ragioni di fatto e diritto a sostegno della decisione, non può esservi dubbio che, trattandosi eventualmente di sentenza non definitiva (o parziale) – provvedimenti, questi, ormai pacificamente ammessi anche in tal rito, senza limitazione alcuna rispetto a quanto previsto per la cognizione ordinaria – la riserva vada formulata entro l’udienza immediatamente successiva: Cass., 7 dicembre 2015, n. 24805, in Foro it., 2016, I, c. 2164, con nota senza titolo, di A. Alfieri.

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l’esecuzione34, il difetto di tale presupposto ne determina(va) l’inammissibilità35; ma non consuma(va) il potere di impugnazione vero e proprio, non ancora sorto; talché la dichiarazione di inammissibilità dell’appello con riserva dei motivi in tal sede proposto prima che fosse cominciata l’esecuzione, non preclude(va) la proposizione successiva dell’impugnazione, allorché il precitato presupposto di ammissibilità fosse venuto ad esistenza36. In fine, ed anche in coerenza con quanto precede, si pone il problema di stabilire se la riserva di proporre appello o ricorso per cassazione procrastinati sia con l’appello e il ricorso immediato in tale rapporto da rendere, allo stato, inammissibili questi ultimi. Sul punto la dottrina è divisa. Alcuni37 ritengono ammissibile l’appello immediato nonostante la precedente formulazione della riserva; altri38 affermano, sembra giustamente, che colui il quale si riserva di proporre appello procrastinato si preclude la possibilità di proporre l’impugnazione immediata39. Quest’ultima costruzione si lascia preferire perché la formulazione della riserva appare incompatibile con una successiva manifestazione di volontà indirizzata all’impugnazione immediata; come d’altra parte implicitamente riconosciuto dai commi n. 2 e 3 degli art. 340 e 361 c.p.c. La riserva sembra infatti, essere considerata come “irrevocabile” dai commi n. 2 di tali disposizioni che impongono, a scioglimento della stessa, l’impugnazione proposta unitamente a quella contro la sentenza che definisce il giudizio o con quella proposta avverso altra pronuncia non definitiva o parziale. E nella stessa ottica, i commi immediatamente successivi, nel disporre l’inefficacia della riserva contrastata da un’impugnazione immediata della medesima pronuncia, riferiscono quest’ultima solamente alle parti del giudizio diverse da quella che detta riserva ha formulata. Giustamente univoco è, allora, l’orientamento della giurisprudenza per il quale, la parte che formuli una corretta riserva di impugnazione si preclude la possibilità di impugnare in via immediata la medesima sentenza40. In tal caso, un’impugnazione immediata sarebbe da dichiarare inammissibile41; salva la possibilità di riproporre il gravame in occasione

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Cfr. Cass., 12 maggio 1989, n. 2171, in Mass. Foro it., 1989, n. 335; Cass., 6 ottobre 1988, n. 5384, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, p. 650; Cass., 16 luglio 1987, n. 6272, in Mass. Foro it., 1987, n. 1061. 35 Cass., 28 maggio 1988, n. 750, in Mass. Foro it., 1988, n. 120. 36 Cass., 11 marzo 1990, n. 2062, in Rep. Foro it., 1990, voce Lavoro e previdenza, controversie, n. 268; Cass., 11 maggio 1982, n. 2951, in Mass. Foro it., 1982, n. 612. Nello stesso senso v. Cass., 10 novembre 2006, n. 24100, in Rep. Foro it., 2006, voce Lavoro e previdenza, controversie, n. 99. 37 F. Carnelutti, Inammissibilità dell’appello immediato dopo la riserva di appello differito? in Riv. dir. proc., 1954, I, 60 e V. Rognoni, Ancora sull’ammissibilità dell’appello immediato dopo la riserva di appello differito, in Riv. dir. proc., 1954, I, 120; V. Denti, Sull’ammissibilità dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva dopo la riserva di gravame, in Le Corti di Brescia e Venezia, 1953, 656. 38 S. Satta, Commentario, cit., sub art. 340, 106; V. Andrioli, Commento, cit., sub art. 340, 434; Id., Inibitoria avverso sentenza non definitiva, in Foro pad., 1953, I, c. 607; N. Giudiceandrea, Le impugnazioni civili, II, cit., 113. 39 Cosí Cass., 27 aprile 1994, n. 4012, in Giust. civ., 1994, I, 1470; Cass., 16 febbraio 1993, n. 1931, in Foro it., 1994, I, c. 830; Cass., 9 marzo 1982, n. 1498, in Rep. Foro it., 1982, voce Cassazione civile, n. 80. 40 Tra le tante pronunce nel senso del testo v.: Cass., 16 febbraio 1993, n. 1931, in Foro it., 1994, I, c. 830; Cass., 4 dicembre 1971, n. 3513, in Rep. Foro it., 1971, voce Cassazione civile, n. 26; Cass., Sez. un., 8 febbraio 1955, n. 365, in Giust. civ., 1955, p. 537; Cass., 20 settembre 1954, n. 3074, in Foro it., 1954, I, c. 1228; Cass., 23 dicembre 1953, n. 3818, ivi, 1954, I, c. 576. 41 Cass., 27 giugno 1988, n. 4325, in Foro it., 1989, I, 800; ed in Giust. civ., 1989, I, 83; Cass., 4 luglio 1981, n. 4392, in Rep. Foro it., 1981, voce Cassazione civile, n. 59; Cass., 3 novembre 1978, n. 4987, ivi, 1978, voce cit., n. 34; Cass., 6 dicembre 1977, n. 5275, ivi 1977, voce Appello civile, n. 18; Cass., 19 maggio 1976, n. 1788, ivi, 1976, voce Cassazione civile, n. 25; Cass., 30 marzo 1973, n. 890, ivi,

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dell’impugnazione di altra sentenza (definitiva o parziale) pronunciata nel prosieguo del giudizio o, comunque, nei termini di impugnazione della medesima42, anche ove il gravame immediato sia già stato dichiarato inammissibile o improcedibile43. Ma ciò che più preme chiarire è che l’istituto ora esaminato ha ragione d’essere in quanto utile a ricomporre nel successivo grado di giudizio ciò che il primo giudice ha frazionato in diversi provvedimenti, al fine di compiutamente verificare la portata della soccombenza della parte che può eventualmente formularla. Sicché, a contrario, la riserva ha scarso senso quando il suo effetto sarebbe utile soltanto a ricomporre un cumulo processuale dovuto a mere ragioni di economia processuale. Ciò che può influire sull’indagine relativa alla natura dei provvedimenti che abbiano pronunciato su una fra più domande originariamente cumulate nel medesimo processo e, quindi, sul rapporto tra il disposto dei numeri 3/4 e 5 dell’art. 279, comma 2, c.p.c.

3. Segue: riserva di impugnazione avverso il primo

provvedimento e successiva pronuncia di altra sentenza che nemmeno definisca il relativo grado di giudizio. L’art. 340 c.p.c., nell’indicare le modalità di scioglimento della formulata riserva di impugnazione, prende in considerazione anche il caso che il provvedimento da impugnare sia seguito da altra sentenza che non definisce il giudizio. Con formula involuta si prevede, in proposito, che «quando sia stata fatta la riserva […] l’appello deve essere proposto […] con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio». Un primo rilievo poggia sulla mancata constatazione della varietà (del possibile contenuto) delle sentenze che non definiscono il giudizio. Il legislatore dimentica, qui, che il rapporto tra la sentenza oggetto della riserva e un successivo provvedimento che non definisce il giudizio varia secondo l’effettivo contenuto delle due pronunce. Una cosa è, infatti, imporre l’impugnazione cumulata di due sentenze non definitive afferenti la mede-

1973, voce cit., n. 54; Cass., 3 ottobre 1973, n. 2485, ivi, 1973, voce cit., n. 55; Cass., 4 gennaio 1969, n. 14, ivi, 1969, voce cit., n. 41; Cass., 7 ottobre 1969, n. 3200, ivi, 1969, voce cit., n. 42. 42 Cass., 21 settembre 2015, n. 18498, in Rep. Foro it., 2015, voce Impugnazioni civili, n. 29; Cass., 27 aprile 1994, n. 4012, ivi, 1994, voce Appello civile, n. 11; Cass., 22 novembre 1991, n. 12577, in Rep. Giur. it., 1991, voce Appello civile, n. 61; Cass., Sez. un., 13 marzo 1972, n. 724, in Rep. Foro it., 1972, voce Cassazione civile, n. 74; Cass., 27 ottobre 1965, n. 2274, ivi, 1965, voce Appello civile, n. 10; Cass., 26 giugno 1964, n. 1705, ivi, 1964, voce cit., n. 25. Conf. in dottrina, F. Masè Dari, op. cit., 904 ss.; cfr. V. Andrioli, Inibitoria avverso sentenza non definitiva, cit., 607 ss.; L. Bianchi D’Espinosa, La giurisprudenza sulle leggi di riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1953, II, p. 302; D. Leone, Appello inammissibile ante tempus e consumazione del diritto di impugnazione, in Giur. compl. cass. civ., 1953, VI, p. 348 ss. 43 Cass., 7 marzo 1983, n. 1676, in Rep. Foro it., 1983, voce Appello civile, n. 11; Cass., Sez. un., 9 marzo 1982, n. 1498, ivi, 1982, voce Cassazione civile, n. 80; Cass., 24 ottobre 1978, n. 4812, ivi, 1978, voce Appello civile, n. 11; Cass., 28 novembre 1978, n. 5611, ivi, 1978, voce Cassazione civile, n. 35; Cass., 17 gennaio 1974, n. 126, ivi, 1974, voce cit., n. 56; Cass., 21 ottobre 1965, n. 2182, ivi, 1965, voce cit., n. 54.

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sima domanda; altra e diversa situazione può, invece, riscontrarsi quando, ad esempio, si tratti della riserva di una pronuncia parziale, cui faccia séguito la pubblicazione (e l’immediata impugnazione) di una sentenza non definitiva su questione relativa ad una seconda domanda originariamente cumulata nel medesimo processo. Per tal caso, si faccia l’ipotesi di una sentenza parziale che abbia rigettato la domanda principale cumulata in vincolo di condizionalità con altra non ancora decisa; e si ipotizzi che nel prosieguo del giudizio sia pronunciata una sentenza non definitiva che sgombra il campo da una questione litis ingressum impediens relativa alla seconda domanda. Qui l’eventuale imposizione dell’onere di impugnazione della pronuncia parziale quando controparte proponga il gravame avverso la sentenza non definitiva contraddirebbe la ratio stessa del sistema di impugnazione di tale provvedimento. Quest’ultimo, lo abbiamo visto, ha ragion d’essere in quanto la riserva di impugnazione consente alla parte di valutare in concreto il peso della sua soccombenza alla luce della soluzione che sarà data alla seconda domanda. Non avrebbe, allora, alcun senso imporre, poi, lo scioglimento di quella riserva prima che quella condizione si sia verificata; ossia quando il giudice a quo non abbia ancora pronunciato la sentenza definitiva (sulla seconda domanda). A ben vedere, anzi, poiché qui si tratta del caso che l’impugnazione avverso la sentenza non definitiva sia proposta dalla controparte, rimasta evidentemente soccombente con la pronuncia in discorso, si finirebbe con l’imporre l’impugnazione della sentenza sulla domanda principale quando l’altra parte ha una ragione in più per ipotizzare una carenza di interesse a sciogliere la sua riserva. Questi rilievi dovrebbero indurre a considerare con favore un’interpretazione della norma in discorso che consenta di scongiurare le conseguenze appena paventate. Si può allora notare che il comma 2 dell’art. 340 c.p.c., per tale ipotesi, solamente in apparenza stabilisce che la riserva vada sciolta proponendo il gravame «con quello che venga proposto dalla stessa o da altra parte», contro la seconda sentenza che non definisce il giudizio. In realtà la disposizione è formulata in termini ben più equivoci nella misura in cui l’inciso ricordato è in tale articolo contrapposto alla previsione, immediatamente precedente, della riserva che venga sciolta proponendo l’impugnazione “unitamente” a quella «contro la sentenza che definisce il giudizio». Con una minima forzatura, allora, si può forse affermare che le due norme non afferiscono tout court alle diverse ipotesi di una sentenza parziale oggetto di riserva di impugnazione e seguita, nel primo caso da una sentenza definitiva e nel secondo da altra pronuncia che nemmeno definisce il giudizio; cosicché la parte rimasta soccombente sulla prima pronuncia non avrebbe alcuna alternativa col verificarsi dell’uno o dell’altro caso. Ma che – ferma restando la necessità di un completo esame cumulato di tutte le impugnazioni da proporre avverso la medesima (seconda) pronuncia non definitiva – essa lascia arbitra la parte che aveva formulato in precedenza la riserva di impugnazione avverso la prima sentenza (non da altri impugnata immediatamente), di scioglierla “unitamente” all’impugnazione che andrà eventualmente a proporre avverso il provvedimento definitivo, sebbene sia stata nel frattempo impugnata altra sentenza pronunciata nel corso del medesimo (grado di) giudizio (indipendente dal provvedimento fatto oggetto di riserva).

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Tale costruzione, per quanto leggermente forzata, si lascia preferire perché elimina una possibile preclusione non chiaramente espressa in norma di legge e, soprattutto, perché riserva alla parte che abbia formalmente procrastinato i termini di impugnazione del (primo) provvedimento, la valutazione del maggiore o minore grado di dipendenza delle varie sentenze che si susseguono senza definire il giudizio. È possibile, infatti, che tra esse, alcune si presentino fornite di una propria rilevante compiutezza, ed altre siano viceversa dotate di una minor capacità di incidere direttamente sulla sfera sostanziale delle parti; così che il loro “peso” sia meglio valutabile all’esito complessivo della lite. Per le seconde, allora, sarebbe possibile continuare a rinviare l’impugnazione al momento della pubblicazione del provvedimento definitivo nonostante che altra pronuncia sia stata oggetto di impugnazione immediata. E, per altro verso, resta confermato che la riserva di impugnazione formulata avverso una prima sentenza non definitiva (o parziale) non va necessariamente sciolta nei termini di impugnazione di un eventuale secondo provvedimento che, pronunciato sempre in forma di sentenza, nemmeno definisca il giudizio. La parte soccombente nella prima pronuncia ben può, se ne ha interesse, formulare una nuova e diversa riserva di gravame anche per l’impugnazione del provvedimento successivo; sì da procrastinare l’impugnazione di ogni pronuncia al momento della completa definizione del grado di giudizio. Si possono quindi avere tante riserve di impugnazione quante siano le pronunce non definitive (o parziali) emesse nel medesimo grado di giudizio. Ma nel novero dei casi di combinazione di sentenze non definitive o parziali pronunciabili nel medesimo processo, ve ne sono alcuni che impongono lo scioglimento anticipato della riserva. Casi, cioè, dove l’impugnazione va necessariamente proposta nonostante che il processo non abbia ancora visto la pronuncia della sentenza definitiva. Tra questi, pur senza pretesa di completezza, rientra ovviamente il caso in cui la sentenza fatta oggetto di riserva sia immediatamente impugnata dalla controparte; oppure quello, in ipotesi di cumulo di domande, che si tratti di riserva formulata avverso una sentenza non definitiva risolutiva di questione afferente la prima delle domande cumulate, e la parte che ne abbia interesse impugni immediatamente la sentenza che intervenga a definire tale domanda. O, infine, il caso che, con riferimento alla medesima domanda, siano state pronunciate due sentenze non definitive delle quali la prima sia stata fatta oggetto di riserva e la seconda sia immediatamente impugnata dalla parte ivi soccombente. Di norma, quindi, la riserva formulata avverso la prima sentenza non definitiva deve essere sciolta con l’impugnazione della seconda pronuncia che non definisce il giudizio. E può darsi il caso che si verifichi una fattispecie davvero singolare: si immagini che Tizio risulti soccombente con sentenza non definitiva su questione (per esempio di giurisdizione) e successivamente con ordinanza sulla competenza. Quest’ultima è di per sé impugnabile solamente col regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c.; e come tale non è passibile di riserva di impugnazione. Ma, quando la prima pronuncia sia stata fatta oggetto di riserva di gravame, resta il dubbio se i due provvedimenti siano in tal caso da considerare come un unico provvedimento, sì che ne sia consentita la contestuale impugnazione col medesimo mezzo di gravame, fuori del disposto dell’art. 42 c.p.c. Dubbio, questo, che

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sembra meritare una risposta positiva alla luce degli effetti della riserva di impugnazione per ipotesi formulata avverso il primo provvedimento. Essa, infatti, ha riunito sul piano formale in provvedimento contestualmente impugnabile ogni altro successivo al primo; sicché, sebbene il secondo abbia ad oggetto una mera questione di competenza, il regolamento necessario cede qui il passo al mezzo di impugnazione che consente la proposizione di un unico gravame per entrambi i provvedimenti. E se ciò è vero, si può forse compiere un ulteriore passaggio per affermare che, quando si verifichi il caso in discorso, anche il provvedimento sulla competenza possa farsi oggetto di ulteriore riserva di impugnazione, per cumulare il gravame di entrambi i provvedimenti con quello che interverrà a definire il relativo grado di giudizio. Ovvio che, ammessa tale costruzione, la parte che formuli riserva di impugnazione anche avverso il secondo provvedimento si precluderà la possibilità di proporre il regolamento di competenza avverso tale provvedimento.

4. Provvedimenti non definitivi e parziali nel processo del lavoro e relativo sistema di impugnazione.

Specifiche riflessioni sono a questo punto necessarie in relazione al processo del lavoro . Dove il problema si scinde, per quanto qui interessa, in due diversi aspetti. Bisogna in primo luogo individuare eventuali limiti in tal sede frapposti alla pronuncia delle sentenze non definitive o parziali; e poi eventualmente indagarne il regime di impugnazione. All’uopo, immediato riferimento normativo è l’articolo 420, comma 4, c.p.c. per il quale: «Se la conciliazione non riesce e il giudice ritiene la causa matura per la decisione, o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva dando lettura del dispositivo»45. Da un lato v’è, quindi, l’espressa previsione della possibilità che pure il giudice del lavoro pronunci sentenze che non definiscono il relativo giudizio46 (ed anche sulla questione di competenza, che è 44

44

Per un equilibrato esame del rapporto corrente tra l’istituto delle pronunce non definitive e le caratteristiche del processo del lavoro v. G. Raiti, Concentrazione, speditezza e sentenze non definitive nel processo del lavoro, in Riv. dir. proc., 1991, 448 ss. 45 Si è giustamente messo in evidenza che «l’art. 420, comma 4, c.p.c. autorizza il giudice a far discutere la causa solo relativamente alla questione pregiudiziale … – e – costituisce evidentemente violazione del principio del contraddittorio la decisione che prenda in esame questioni diverse da quella pregiudiziale sulla quale si è discusso»: F. P. Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 234 e già L. Montesano e R. Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, 3a ed., Napoli, 1996, 213; G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, 177. 46 Per E. Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Torino, 2015, 297 s., «è da ritenere che “altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio” sia una formula lessicale comprendente tutte le questioni processuali che possono impedire la decisione nel merito ovvero -con diverse parole ma identica sostanza- tutte le questioni aventi per oggetto le condizioni per la decisione della causa nel merito: dunque non solo la giurisdizione e la competenza, ma anche la capacità processuale delle parti, la rappresentanza tecnica a mezzo di difensore, la litispendenza, la continenza, la connessione, alla validità degli atti processuali, l’impedimento derivante dal giudicato o da clausola compromissoria o compromesso, nonché,… la legittimazione o l’interesse ad agire».

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rimasta qui risolvibile con provvedimento in forma di sentenza); per altro verso, si adotta una formula diversa da quella dell’art. 279 c.p.c.47. È di tutta evidenza che nella norma del rito speciale manca l’espresso riferimento alla soluzione delle questioni preliminari di merito. Sicché il primo quesito è se nel processo del lavoro queste restino escluse dal possibile contenuto delle sentenze non definitive. E la soluzione restrittiva potrebbe sembrare imposta dal tenore letterale della norma che così avrebbe riproposto un limite già presente, in via generale, nel sistema originario del codice di rito. Così non è per l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che, nel rito del lavoro, pacificamente ammette siffatti provvedimenti «anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dall’art. 420 comma 4 c.p.c.»48; con particolare riferimento a quelle che abbiano ad oggetto la soluzione di questioni preliminari di merito49. V’è, dunque, la consueta reazione della prassi ad ogni previsione normativa che (almeno apparentemente) tenda a ridurre il numero delle sentenze non definitive; reazione fondata, per un verso, sul riferimento contenuto nell’art. 420 alle «altre pregiudiziali», letto come comprensivo anche delle questioni preliminari di merito; per altro verso, sulla implicita affermazione che la pronuncia dei provvedimenti in questione resterebbe comunque autorizzata dalla norma speciale nella parte in cui essa prevede che il giudice del lavoro può trovarsi a pronunciare una sentenza non definitiva ogni volta che abbia ritenuto la causa «matura per la decisione. E l’invito alla discussione ben può nascere anche dalla ritenuta fondatezza (successivamente risultata erronea) di una questione di merito idonea a definire il giudizio. Non trovano quindi alcun riscontro pratico le costruzioni dottrinali che, anche in ossequio al principio dell’oralità, tendono a limitare siffatti provvedimenti: escludendo le pronunce su questioni preliminari di merito50: oppure addirittura limitandone l’ambito a

47

Il disposto dell’art. 420, comma 4, è simile a quello dell’art. 187, commi 2 e 3, fatta eccezione per l’espressa previsione che il giudice del rito ordinario possa scegliere tra l’immediata decisione delle questioni pregiudiziali ovvero accantonarle per deciderle «unitamente al merito». La differente previsione normativa indusse taluno (Pezzano, in Andrioli, Barone, Pezzano e Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, 2a ed., Bologna, 1987, 668; contra, fra le altre, Cass. 23 aprile 1983, n. 2795, in Foro it., Rep., 1983, voce Lavoro e previdenza – controversie, n. 274 e Cass. 8 ottobre 1981, n. 5283, ivi, 1981, voce cit., n. 213) ad affermare che «il giudice deve e non può decidere immediatamente, ove sia posta, una questione pregiudiziale idonea a definire il giudizio». Ma correttamente si osservò (L. Montesano, in Montesano e Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, cit., 262) che «negare al giudice del lavoro il potere di trattare immediatamente solo le questioni concretamente (perché in apparenza fondate), idonee a definire il processo, significa conferire al rito del lavoro una rigidità sconosciuta al rito ordinario, in palese contrasto con l’accentuato potere di direzione del procedimento attribuito al giudice del lavoro». Nello stesso senso: F.P. Luiso, Il processo del lavoro, cit., 233. 48 Cass. 10 giugno 2003, n. 9265, in Foro it., Rep., 2003, voce Lavoro e previdenza, controversie, n.139; Cass. 10 ottobre 1991, n. 10628, in Foro it., Rep., 1991, voce cit., n. 177; Cass. 20 agosto 1980, n. 4959, in Foro it., Rep. 1980, voce cit., n. 183; Cass. 4 febbraio 1984, n. 847, ivi, 1984, voce cit., n. 212. 49 Cass. 14 febbraio 1990, n. 1089, in Foro it., Rep., 1990, voce Lavoro e previdenza – controversie –, n. 221; Cass. 23 febbraio 1989, n. 1018, ivi, 1989, voce cit., n. 186. O, addirittura, anche per questioni di merito inidonee a definire il giudizio: Pret. Venezia, 13 novembre 1975, n. con commento di C. Consolo, in Riv. dir civ., 1977, II, 583. 50 Per tutti: L. Montesano, Questioni e cause pregiudiziali nella cognizione ordinaria del codice di procedura civile, in Riv. dir. proc., 1988, 302; e, v. anche F.P. Luiso, Il processo del lavoro, cit., p. 235 e seguenti, con ampi riferimenti in nota 12, e G. Tarzia e L. Dittrich, Manuale del processo del lavoro, 6a ed., 2015, 253.

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quelle risolutive di questioni di giurisdizione51; ovvero finanche eliminandole del tutto, seppur non senza perplessità52. Ma così facendo si svaluta la funzione stessa dell’art. 420, comma 4, che, intanto ha ragione d’essere, in quanto detta per il rito speciale una disciplina diversa da quella della cognizione ordinaria. Non è infatti azzardato ritenere che, in assenza di una norma speciale, piuttosto che dedurne l’ostracismo delle sentenze non definitive in tal sede, sarebbe stato corretto dividersi soltanto sul relativo possibile contenuto, nei medesimi termini del dibattito in tema ricorrente per la cognizione ordinaria. D’altra parte, solamente la costruzione appena suggerita consente di dare ingresso anche nel rito del lavoro alle sentenze di cui agli articoli 277, comma 2 (che si è pretese soggette alla disciplina della riserva di impugnazione) e 278 c.p.c. Se, infatti, l’art. 420 non reagisse al disposto dell’art. 279, limitando le pronunce su questioni, si proporrebbe, allora, come norma che pretenderebbe di indicare tassativamente i provvedimenti pronunciabili dal giudice del lavoro in forma di sentenza; e resterebbero così escluse le sentenze non previste dalla norma speciale. Viceversa la stessa Corte di cassazione, ammesso l’istituto delle sentenze non definitive, ritenute, quindi, compatibili col rito speciale, afferma che non v’è ragione di escludere nemmeno la sentenza di condanna generica ex art. 278 c.p.c.53; né la possibilità di definizione di soltanto alcune delle domande originariamente cumulate. Il contrario avviso54, fondato sulla pretesa incompatibilità tra la condanna generica e l’ordinanza di cui all’art. 423, comma 2, c.p.c., disconosce, secondo la giurisprudenza, la differenza di presupposti, forma ed efficacia dei due provvedimenti. Il sistema, dunque, come ricostruito, è tale che in un processo (ormai soltanto in teoria) costruito come molto concentrato, si ammette che -in prospettiva più realistica e, quindi, alla luce dell’effettivo allungamento dei tempi di giustizia – anche il giudice del lavoro possa pronunciare una sentenza non definitiva o parziale. E se la pronuncia, in concreto, di siffatti provvedimenti presuppone che la realtà del foro mitighi gli ideali del legislatore, ritardando i tempi di giustizia, non sembra corretta l’affermazione per cui il sistema di-

51

C. Vocino e G. Verde, Processo del lavoro, 4a ed., Napoli, 1986, 83. Denti, in AA.VV., Il nuovo processo del lavoro, a cura di A. Genovese, Padova, 1975, 135 a 138. 53 Cass. 26 febbraio 2014, n. 4587, in Rep. Foro it., 2014, voce Lavoro e previdenza, controversie, n. 126; Cass. 5 maggio 2004, n. 8576, in Rep. Foro it., 2005, voce cit., n. 129; Cass. 10 ottobre 1991, n. 10628, in Foro it., Rep., 1991, voce cit., n. 177; Cass. 5 giugno 1987, n. 4937, in Foro it., 1988, I, 874; Cass. 25 marzo 1987, n. 2933, in Foro it., Rep., 1987, voce cit., n. 227; Cass. 23 febbraio 1984, n. 1279, ivi, 1984, voce ult. cit., n. 215; Cass. 21 giugno 1983, n. 4267, ivi, 1983, voce ult. cit., n. 276; Cass. 17 dicembre 1981, n. 6699, ivi, 1981, voce ult. cit., n. 212; contra: Trib. Bolzano, 23 giugno 1977, in Giur. it., 1978, I, 2, 570, con nota di Minzioni e in Riv. dir. proc., 1979, pag. 147 e seguenti, con nota di G. Tarzia, Sulla condanna generica nel processo del lavoro, cit. 54 In senso drastico v. C. Vocino e G. Verde, cit., 84; L. Montesano e R. Vaccarella, cit., p. 259; Tarzia, Sulla condanna generica nel processo del lavoro, in Riv. dir. proc., 1979, 151, (che fa salvo il caso in cui essa costituisca l’unico oggetto della domanda); ma cfr. Cass. 11 aprile 1990, n. 3062, in Foro it., Rep., 1990, voce Lavoro e previdenza – controversie – n. 220; Cass. 18 marzo 1987, n. 2743, ivi, 1987, voce cit., n. 228; Cass. 14 aprile 1986, n. 2628, ivi, 1986, voce ult. cit., n. 260; Cass. 21 aprile 1983, n. 2753, ivi, 1983, voce ult. cit., n. 278; Cass. 10 novembre 1982, n. 5923, ivi, 1982, voce ult. cit., n. 260. Per la concedibilità anche della provvisionale ex art. 278, comma 2, c.p.c., nelle ipotesi non considerate dall’art. 423, comma 2, c.p.c., v. Andrioli – Barone – Pezzano – Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, cit., 292 s. 52

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segnato dagli articoli 340 e 361 non avrebbe qui alcuna ragione d’essere55. Il fatto stesso che il giudice si sia trovato a pronunciare una delle sentenze in discorso testimonia che i tempi del processo che lo occupa si sono notevolmente allungati rispetto a quelli ipotizzati dal legislatore del 1873. Sicché, soprattutto quando si tratti di una pronuncia di condanna ex art. 277, comma 2, c.p.c., appare assai conveniente la previsione della possibilità di immediata impugnazione del provvedimento pronunciato senza definire l’intero giudizio. E al contrario, la previsione di un eventuale onere di impugnazione immediata non avrebbe consentito alla parte soccombente di recuperare anche in sede di gravame l’originaria unità del giudizio. In definitiva, il rito del lavoro non respinge, nella prassi, l’istituto della sentenza che non definisce il giudizio; e soltanto nella vox mortua del legislatore ne limita la previsione contenutistica, in virtù dell’art. 420, comma 4, c.p.c. Resta peraltro immutato, nel silenzio della legge speciale, anche il relativo sistema di impugnazione56.

5. Cenni ai provvedimenti che possono essere oggetto di riserva di impugnazione.

Si è di recente affermato che «la sentenza di secondo grado che, definendo il giudizio di appello avverso una sentenza non definitiva di primo grado, esaurisca la fase del giudizio pronunciando su tutte le questioni in essa proposte è da considerare come definitiva e non suscettibile di riserva di impugnazione differita a nulla rilevando la prosecuzione del giudizio di primo grado per la determinazione del quantum debeatur; essa, pertanto, deve contenere la statuizione sulla liquidazione delle spese processuali». La pronuncia mi sembra corretta57. E fa il pari con precedenti chiarimenti giurisprudenziali, pure condivisibili58. Ancora, e per i motivi sopra messi in evidenza circa la funzione dell’istituto, ove si tratti di cumulo di cause (semplice e) meramente soggettivo, nemmeno ha senso alcuno la riserva di impugnazione avverso una prima sentenza che abbia esaurito la controversia nei confronti di una delle parti in lite, senza alcun riflesso sulle ulteriori domande (fra soggetti diversi) per le quali il giudice abbia ritenuto necessaria ulteriore istruzione59.

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Per Denti, in AA.VV., Il nuovo processo del lavoro, cit., 137 s., sul piano teorico, «se si considera … che l’impugnazione non può che dirigersi contro il dispositivo e che la legge assegna al giudice il termine, d’altronde privo di sanzione, di quindici giorni per il deposito della sentenza nella cancelleria, cui dovrebbe seguire la notificazione, perché siano messi in moto i termini per l’impugnazione immediata della sentenza parziale non ha ragione di essere nel nuovo rito del lavoro». 56 Così Cass. sez. un., 18 febbraio 1989, n. 955, in Foro it., 1989, I, 1485. 57 Cass. 3 settembre 2019, n. 21978, in Foro it., Rep., 2019, voce Appello civile, n. 93. 58 V. Cass. Sez. Un., 10 febbraio 2017, n. 3556, con mia nota adesiva in Foro it., 2017, I, I, 3159: Lento pede, le sezioni unite raddrizzano il sistema di impugnazione delle sentenze non definitive. E Cass. (ord.) 5 settembre 2017, n. 20781, ivi, 2017, I, 3652, con altra mia nota: Cumulo soggettivo e oggettivo: natura e regime della sentenza formalmente unica che pronuncia in vario modo per ciascuna delle domande cumulate. 59 Cfr. Cass. (ord.), 13 settembre 2019, n. 22854, in Foro it., Rep., 2019, voce Impugnazioni civili, n. 60.

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Ma si apre qui il problema della corretta interpretazione dell’art. 279, comma 2, nn. 2 e 4 quanto alle questioni c.d. preliminari e pregiudiziali che possono formare il contenuto di una sentenza non definitiva e, soprattutto, quello dell’inestricabile rapporto tra i nn. 3 e 5 della medesima disposizione circa l’individuazione della natura e dunque del regime di impugnazione della sentenza che abbia pronunciato su una fra più domande cumulate nel medesimo processo.

6. Un recente caso emblematico. Un caso emblematico è dato da una recente pronuncia. Con provvedimento del 13 maggio 2019 (sent. n. 196/2019 inedita) il Tribunale di Matera, Giudice del lavoro, «all’esito della camera di consiglio decide come da sentenza non definitiva scritta su foglio separato che si allega e di cui è parte integrante e rinvia per la valutazione dei mezzi istruttori». È bene riassumere (la vicenda e) il provvedimento: la vedova ed i due figli, in proprio e quali eredi di Tizio, defunto per carcinoma polmonare presumibilmente dovuto ad anni di esposizione all’amianto nello stabilimento presso il quale ha prestato lavoro -oggetto di una lunga serie di trasferimenti a vario titolo tra diverse Società tutte facenti riferimento al medesimo Gruppo, propongono ricorso al giudice del lavoro contro una S.p.a. e una S.r.l. per sentire accogliere le seguenti conclusioni: «A) accertare e dichiarare che la malattia professionale da cui è derivata la morte del marito e padre è imputabile, per le ragioni di fatto e di diritto evidenziate in ricorso, ai datori di lavoro/società facenti parti del predetto Gruppo alle cui dipendenze quest’ultimo ha svolto l’attività lavorativa descritta nel corpo del ricorso per oltre trenta anni. Più nello specifico accertare e dichiarare – previo accertamento incidentale della sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivi e soggettivi) del reato di omicidio colposo imputabile ai soggetti giuridici precisati in ricorso – la responsabilità, ex art. 2087 c.c. della S.p.a. convenuta. Accertare e dichiarare altresì – previo accertamento incidentale della sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivi e soggettivi) del reato di omicidio colposo imputabile ai soggetti giuridici precisati in ricorso – la responsabilità ex art. 2087 c.c. della S.r.l. pure venuta in giudizio. B) dichiarare la “legittimazione passiva” e la connessa responsabilità solidale ex art. 2112 c.c. della S.p.a. in relazione alle domande formulate, in quanto soggetto in cui – per effetto dei conferimenti aziendali descritti in ricorso e delle successive operazioni societarie sono riconducibili le obbligazioni – contrattuali ed extracontrattuali – di natura risarcitoria (patrimoniali e non patrimoniali), nascenti dal rapporto di lavoro intercorso tra il defunto e le società facenti parte del Gruppo. C) dichiarare, altresì, la “legittimazione passiva” della S.r.l. e la connessa responsabilità, ex art. 2087 c.c. della morte del marito/genitore in relazione al periodo di attività lavorativa che va dal 1.11.1986 al 30.12.1994; nonché la responsabilità ex art. 2087, in solido con la S.p.a., ex art. 2112 c.c., in relazione al periodo che va dal 6.7.1964 al 31.10.1986, per

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effetto del contratto di affitto del ramo aziendale costituito dalla produzione del polimero poliestere dello citato stabilimento. C) dichiarare, anche all’esito di CTU medico legale, il nesso di causalità materiale sussistente tra la malattia professionale che ha determinato il decesso e le sostanze nocive alle quali lo stesso è stato inconsapevolmente esposto nel corso dell’attività lavorativa intercorsa con le società sopra indicate, dal luglio 1964 al 30.12.1994. E) dichiarare il diritto dei ricorrenti, al risarcimento dei danni (contrattuali ed extracontrattuali), di natura non patrimoniale (differenziali e complementari), subiti dal congiunto per la malattia professionale ed il successivo decesso, imputabile al comportamento inadempiente e colposo dei datori di lavoro convenuti in giudizio, affermato dai ricorrenti iure ereditatis, in proposizione alle rispettive quote ex lege: danno biologico terminale / danno morale terminale e/o catastrofale, subito dal defunto; e danno esistenziale, da quantificarsi secondo giustizia. Per l’effetto, condannare la S.p.a., nonché la S.r.l., anche in solido e/o in concorso tra loro, al risarcimento in favore dei ricorrenti, in proporzione alle rispettive quote di legge, dei predetti danni. Oltre interessi e rivalutazione monetaria. F) dichiarare il diritto dei ricorrenti a richiedere ed ottenere il risarcimento dei danni di natura patrimoniale e non patrimoniale, dagli stessi subiti direttamente (iure proprio) a seguito del decesso del congiunto, imputabile al comportamento inadempiente e colposo dei datori di lavoro sopra indicati, anche in solido e/o in concorso tra loro, e nello specifico: danni non patrimoniali per la perdita del congiunto; danni di natura patrimoniale; danno emergente, per le spese funerarie sostenute. Il tutto oltre rivalutazione ed interessi. Con condanna delle parti resistenti al pagamento delle spese, dei diritti e degli onorari del presente giudizio, importo da distrarsi a favore del difensore che si dichiara antistatario». Le società convenute eccepiscono, in via preliminare il proprio “difetto di legittimazione” in realtà l’una scaricando sull’altra la responsabilità dell’evento e sulle altre società del medesimo Gruppo, succedutesi nella titolarità dello stabilimento presso il quale il defunto, negli anni, ha svolto diverse mansioni. Eccezione che in giudice, previa articolata motivazione che qui interessa soltanto lì dove paventa (direi anticipa come molto probabile) una responsabilità della S.p.a. per il comb. disp. degli articoli 2055 e 2112 c.c., rigetta la domanda nei confronti della S.r.l., mentre afferma occorrano approfondimenti istruttori nei confronti dell’altra società convenuta “come da separata ordinanza”. E ritiene che la complessità della ricostruzione fattuale delle vicende societarie e della gestione aziendale, quale fatto non preventivabile e pienamente conoscibile da parte degli eredi del lavoratore deceduto, impone in via eccezionale la compensazione integrale delle spese di lite. “La causa prosegue” nei confronti della S.p.a. “come disposto con ordinanza separata”. In conclusione, si legge nel dispositivo: il tribunale, “non definitivamente pronunziando sul ricorso proposto” nei confronti della S.p.a. e della S.r.l., rigetta la domanda nei confronti della S.r.l. “con spese compensate”. Riassunte nei loro termini essenziali la vicenda e la pronuncia in discorso, sembra evidente che molteplici interrogativi si aprono per lo studioso e, prima ancora, per la Difesa – a parte la natura della questione sulla quale il giudice si è pronunciato – se di mera le-

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gittimazione o, piuttosto, di merito60 – viene da chiedersi: 1) il rigetto della domanda (con contestuale regolamento delle relative spese) proposta contro la S.r.l. ha davvero, come il giudice ha espressamente affermato, natura di sentenza non definitiva (rectius: parziale)? 2) Avrebbe potuto il giudice, nella specie, separare l’una dall’altra domanda proposte? 3) Quale natura (e regime) ha il provvedimento, complesso, nella parte in cui, (in motivazione) “paventa” la responsabilità della convenuta S.p.a.? Trattasi di condanna generica? Oppure, forse, di sentenza non definitiva, magari su questione di diritto idonea a definire il giudizio? 4) Eventualmente accolta la seconda “natura” ipotizzata, se quello qui in discorso fosse stato un provvedimento di secondo grado, il capo appena immaginato come ascrivibile alla categoria delle sentenze non definitive (su questione) non sarebbe immediatamente ricorribile in Cassazione, posto il divieto di cui all’art. 360, comma 3, c.p.c.? 5) Nemmeno quando sia invece immediatamente impugnata la restante parte della medesima sentenza? 6) Se la “questione” risolta nei confronti della S.p.a. non fosse tra quelle idonee ex lege a formare il contenuto di una sentenza non definitiva, quale sarebbe il regime del relativo capo in sentenza? 7) In generale, ad un provvedimento non definitivo “abnorme” ma come tale qualificato dal giudice a quo quale regime consegue: prevale la (pretesa) forma del provvedimento ovvero il suo contenuto? 8) Ammesso che tale questione fosse risolvibile con sentenza non definitiva, sopravviverebbe il provvedimento all’eventuale estinzione del giudizio? 9) E sarebbe idoneo a coprirsi del giudicato sostanziale?

7. Prospettive d’indagine. Chiariti i termini, (l’ambito di applicazione), e le forme della riserva di impugnazione, molti e diversi problemi residuano, quindi, intorno alle sentenze non definitive. Il discorso dovrà svilupparsi secondo diverse direttive di indagine, che partano dalla individuazione del possibile contenuto di siffatti provvedimenti (sia che abbiano risolto una fra più domande o, piuttosto una mera questione); e dalle diverse situazioni nelle quali si trova, nello sviluppo del procedimento, la parte rimasta soccombente. Sul primo tema, già soltanto per gli interrogativi sollevati nel § che precede, mi sembra non risolutivo l’approccio “formale” pur saggiamente proposto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione61, e teso ad individuare la natura del provvedimento che abbia pro-

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Sull’ampia accezione giurisprudenziale della nozione di legittimazione, fuori dalla c.d. teoria della prospettazione, v., ad esempio, A.M. Marzocco, Qual è il confine tra Legitimatio ad causa ed effettiva titolarità del rapporto controverso? in Il Foro napoletano, 2013, 353 ss. 61 Mi riferisco, nel testo, alle note sentenze della S. Corte sulla rilevanza, ai fini della qualificazione della natura giuridica di siffatti provvedimenti, dell’espresso o implicito provvedimento di separazione delle domande. Cfr. Cass. Sez. un., 28 aprile 2011, n. 9441, Foro it., Rep. 2011, voce Sentenza civile, n. 46 e Cass., sez. un., 1° marzo 1990, n. 1577, id., 1990, I, 836, con nota redazionale di Fortini e con nota di B. Sassani, in Giur. it., 1991, I, 1, 842; e, di recente, Cass. 12 luglio 2016, n. 14193, Foro it., Rep. 2016, voce cit., n. 28. Per l’acceso dibattito dottrinale sul tema, senza pretesa di completezza: C. M. Cea, Sentenze definitive e non definitive: una «querelle» interminabile, id., 1993, I, 480; A. Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze non definitive di merito, in Riv. dir. proc.,

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nunciato su una fra più domande cumulate nel medesimo processo soltanto in relazione ad elementi estrinseci del provvedimento di cui si tratti. Ossia dall’aver il giudice espressamente separato la domanda decisa da quella ritenuta bisognevole di ulteriore istruzione. Ovvero in applicazione del c.d. principio di dell’apparenza62. Dimostrazione ne è il caso (peraltro in materia di scioglimento di comunione: fattispecie con caratteristiche peculiari) di recente affrontato dalla S. Corte, ove in primo grado il tribunale, chiamato a pronunciarsi in giudizio con cumulo oggettivo, aveva risolto una prima domanda, regolandone le spese di lite, ma con provvedimento da lui espressamente qualificato con “non definitivo”. Con conseguente inevitabile confusione sulla natura del provvedimento medesimo e sul conseguente regime di impugnazione. Ciò che ha portato la Corte (ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.) a rimettere gli atti al primo presidente «perché valuti l’opportunità di demandare all’esame delle sezioni unite la questione di massima di particolare importanza indicata in parte motiva»63. Indispensabile appare, dunque, rimeditare il rapporto tra i numeri 3/4 e 5 dell’art. 279, comma 2, c.p.c. in relazione al rapporto processuale o sostanziale fra le domande cumulate. Per altro verso, quando si tratta della sentenza che, ai sensi dell’art. 277, comma 2, c.p.c., ha risolto una delle domande cumulate nel medesimo processo, si ha un’ipotesi di interesse all’impugnazione connesso alla soccombenza formale. Una fattispecie, quindi, assai o in tutto simile a quella della soccombenza con sentenza definitiva. Le cose si complicano, invece, quando la parte sia rimasta soccombente con una sentenza non definitiva (su questione). Qui, al particolare atteggiarsi della soccombenza corrisponde una situazione di interesse all’impugnazione affatto particolare. La soccombenza con la sentenza non

1971, 249 ss.; C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, II, Il procedimento, Padova, 1985, 709 ss.; G. Costantino, Ancora sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive riservabili, in Foro it., 1993, 2469 ss.; V. Denti, Sentenze non definitive su questioni preliminari di merito e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1969, 213 ss.; Id., Ancora sull’efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, id., 1970, 560 ss.; E. Fabiani, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it., 1997, I, 2147; E. Garbagnati, Riserva di appello e appello incidentale tardivo contro una sentenza pronunciata a norma dell’art. 277 cod. proc. civ., in Foro pad., 1960, I, 1083; Id., Questioni preliminari di merito e questioni pregiudiziali, in Riv. dir. proc., 1976, 257 ss.; S. Menchini, il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Milano, 1993, 348 ss.; L. Montesano, Questioni preliminari e sentenze parziali di merito, in Riv. dir. proc., 1969, 579 ss.; Id., Sentenza parziale su questione di merito non preliminare» di domanda «indivisibile», id., 1970, 330; Id., Sentenze endoprocessuali nei giudizi civili di merito, ivi, 1971, 17 ss.; Id., Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. civ., 1985, 3132 ss.; Id., Ancora su cumulo di domande e sentenze non definitive, id., 1986, I, 2371; A. Proto Pisani, Litisconsorzio facoltativo e separazione di cause, in Riv. dir. proc., 1968, 136 ss.; e, se vuoi, G.P. Califano, L’impugnazione della sentenza non definitiva, Napoli, 1996, 31 ss., con ulteriori riferimenti di dottrina. 62 Cfr. Cass. Sez.un., 11 gennaio 2011, in Giust. civ., 2011, I, 623 e Cass. sez. un., 16 aprile 2007, n. 8949, in Giust. civ., 2008, I, 197, per la quale: «pur in presenza del principio generale secondo cui l’ordinanza con cui il giudice afferma la propria giurisdizione ha natura di sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279, 2° comma, n. 4, c.p.c., al fine di accertare se nell’ambito della causa la giurisdizione sia stata definitivamente determinata e non possa più essere posta in discussione, ove il giudice abbia dichiarato la propria giurisdizione con ordinanza interlocutoria, l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile va comunque operata in base alla qualificazione data dal giudice all’azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza, conseguentemente, in controversia di lavoro, qualora il giudice, nel rilevare l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 412 c.p.c. (ndr: oggi abrogato) e nel disporre la sospensione del giudizio con assegnazione alle parti di un termine per espletare detto tentativo, abbia con ordinanza delibato la propria giurisdizione esclusivamente ai fini dell’impulso del processo e quale premessa del provvedimento di sospensione, non può ritenersi formato il giudicato in punto di giurisdizione e non è precluso al giudice di pronunciare nuovamente al riguardo». 63 Cass. ord., 9 marzo 2020, n. 6624, in Judicium online, con chiara nota di G. Mazzaferro, Attese le Sezioni Unite per la decisione sulla definitività o meno delle sentenze in presenza di indici formali opposti tra loro.

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definitiva è di per sé sufficiente all’instaurazione di un giudizio di impugnazione immediato (ove ammesso); ma, probabilmente, non anche a consentire in ogni caso di sciogliere (in forma semplice) una riserva di impugnazione precedentemente formulata. Il contenuto (e la sorte) della pronuncia definitiva può esser destinato ad influire sulla possibilità che il giudizio di gravame instaurato in via immediata sia effettivamente definito nel merito; ovvero anche sulla stessa ammissibilità dell’impugnazione procrastinata. La parte soccombente con il provvedimento non definitivo, ma risultata vincitrice con la sentenza definitiva (magari passata in giudicato), può trovarsi nella condizione della sopravvenuta mancanza di interesse al gravame già instaurato avverso la prima pronuncia; oppure nella situazione di carenza di interesse alla proposizione della impugnazione procrastinata. E ciò sebbene, ed in senso opposto, resti chiaro che, ad esempio, «il passaggio in giudicato della sentenza definitiva sul quantum debeatur, essendo questa condizionata al permanere della precedente sentenza non definitiva sull’an, non fa venir meno l’interesse all’impugnazione già proposta contro quest’ultima sentenza»64. Né potrà anche a tal fine omettersi la definizione degli effetti di un provvedimento su mere questioni, e la sua eventuale capacità a sopravvivere ad eventuale estinzione del giudizio. Ma ciò che più impegnerà le prossime riflessioni sarà l’indagine sull’esercizio del potere di separazione delle cause in simultaneus processus; e la conseguenza di un eventuale errore del giudice che, ad esempio, erri e pronunci sentenza risolvendo (soltanto) una fra più domande in litisconsorzio unitario. Varrà tale provvedimento ad effettivamente “frazionare” il processo? E tale provvedimento potrà effettivamente essere oggetto di impugnazione immediata? Come già anticipato, tali ultimi interrogativi bastano a chiarire che la natura della sentenza su una fra più domande cumulate nel medesimo processo non può dipendere soltanto dall’eventuale provvedimento di separazione delle cause. Almeno quando quest’ultimo sia evidentemente abnorme. Su tutto ciò rinvio ad un prossimo studio.

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Cass., 18 giugno 2014, n. 13915, in Rep. Foro it., 2014, voce Impugnazioni civili, n. 10.

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Liquidazione giudiziale e controversie arbitrabili Sommario :

1. Ambito dell’indagine. – 2. Fallimento, liquidazione giudiziale e arbitrato del curatore: ricognizione normativa – 3. L’arbitrabilità delle controversie. – 4. (segue) Arbitrabilità delle controversie e limiti alle tutele impartibili dagli arbitri. – 5. Liquidazione giudiziale e liti arbitrabili. – 6. L’arbitrabilità dell’azione revocatoria del curatore contro altra procedura concorsuale.

Il tema dell’arbitrabilita delle controversie, analizzato dall’angolo visuale della liquidazione giudiziale, presenta snodi interessanti e complessi, che nel presente lavoro vengono esaminati, non solo nel più ampio quadro dei limiti generali alla compromettibilità, ma anche in prospettiva processuale. The issue of arbitrability of disputes, analyzed frome the visual angle of insolvency, presents interesting and complex aspects, wich are examinated in this work, not only in the broader context of the general limits on the possibility of entering into an arbitration agreement, but also in a procedural perspective.

1. Ambito dell’indagine. Il tema del rapporto tra arbitrato e procedure concorsuali può essere analizzato e affrontato da molteplici punti di vista; con il presente contributo intendiamo determinare se ed entro quali limiti, una volta che sia stata aperta la liquidazione giudiziale, il curatore possa divenire parte di una convenzione arbitrale rituale, sottraendo in tal modo al potere decisorio della giurisdizione statale la soluzione di alcune controversie. Invero, l’indagine non potrà limitarsi ad un esame del predetto tema esclusivamente alla luce della nuova disciplina di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – d’ora in avanti CCII), il quale ha operato una profonda riforma del diritto delle procedure concorsuali, disciplinando – per quanto interessa in questa sede – la c.d.

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liquidazione giudiziale come procedura “sostitutiva” del fallimento1; occorrerà infatti tener conto anche della disciplina dettata dalla legge fallimentare (ad oggi vigente). Del resto, l’entrata in vigore della citata riforma, originariamente prevista per il 15 agosto 2020, è stata posticipata al 1° settembre 2021 a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-192. Pertanto cercheremo di condurre l’indagine, per così dire, in parallelo, tenendo (e dando) conto di entrambi i versanti normativi, senza trascurare, per quanto possibile, eventuali ulteriori questioni poste, in parte qua, dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

2. Fallimento, liquidazione giudiziale e arbitrato del curatore: ricognizione normativa.

Tenendo da parte l’art. 83 bis3, il quale si occupa degli effetti del fallimento sul procedimento arbitrale pendente (ma v. infra par. 5), la legge fallimentare, ai fini che interessano in questa sede, richiama, più o meno direttamente, la materia arbitrale in due disposizioni: da un lato, l’art. 35, in tema di poteri del curatore, dispone, al comma 1, che “le riduzioni di crediti, le transazioni, i compromessi, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di diritti di terzi, la cancellazione di ipoteche, la restituzione di pegni, lo svincolo delle cauzioni, l’accettazione di eredità e donazioni e gli atti di straordinaria amministrazione sono effettuate dal curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori” (corsivo nostro) e, al comma 3, che “se gli atti suddetti sono di valore superiore a cinquantamila euro e in ogni caso per le transazioni, il curatore ne informa previamente il giudice delegato, salvo che gli stessi siano già stati autorizzati dal medesimo ai sensi dell’articolo 104 ter comma ottavo”; dall’al-

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In particolare, la riforma del 2019 ha predisposto (art. 7 e artt. 37 ss.) un procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, il cui esito finale può variare dalla liquidazione giudiziale o controllata alle soluzioni negoziali (cfr. per approfondimenti Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, Padova, 2020, 94 ss.). Invero, secondo molti, tale unitarietà, originariamente – cioè nella delega di cui alla l. 19 ottobre 2017 n. 155 – ricalcata sul modello originario del processo per la dichiarazione di fallimento, con il testo definitivo del codice è stata ridimensionata, variando il procedimento, una volta introdotta la domanda “unitaria”, a seconda che si tratti del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale o del procedimento di accesso ad una procedura di regolazione concordata della crisi; per approfondimenti cfr. Carratta, Il procedimento di apertura delle procedure concorsuali: dalla legge delega al codice della crisi e dell’insolvenza, in Dir. fall soc. comm., 2019, 1057 ss.; Pagni, L’accesso alle procedure di regolazione nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 549 ss.; Montanari, Il cosiddetto procedimento unitario per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, in Fall., 2019, 563 ss.; F. De Santis, Il procedimento c.d. unitario per la regolazione della crisi o dell’insolvenza: effetti virtuosi ed aporie sistematiche, in Fall., 2020, 157 ss., il quale parla di contenitore unitario ma non di procedimento unitario. Da non trascurare, per il tema che qui ci occupa, l’istituto della liquidazione controllata del debitore in stato di sovraindebitamento (artt. 268-277 CCII). Si tenga conto, infatti, che l’art. 270, comma 5, prevede l’applicabilità dell’articolo 143 in quanto compatibile e degli articoli 150 e 151; inoltre, ai sensi dell’art. 274, il liquidatore può esercitare o proseguire ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore e ogni azione diretta al recupero dei crediti, nonché le azioni dirette a far dichiarare inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile. Quanto agli effetti sui contratti pendenti, l’art. 270, comma 6, delinea una disciplina sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 172 CCII (per una più ampia ricognizione delle situazioni in cui anche il liquidatore può essere coinvolto in un arbitrato, v. Cerrato, Il mosaico dell’arbitrato al tempo del Codice della crisi: nouvelle vague o antiche aporie?, in Giur. Comm., 1/2020, 72 ss.). Cfr. l’art. 5 del d.l. 8 aprile 2020 n. 23. La norma corrispondente nel nuovo CCII è l’art. 192.

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tro lato, l’art. 25, in punto di poteri del giudice delegato, prevede, al comma 1 n. 7), che egli, su proposta del curatore, proceda alla nomina degli arbitri, verificata la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge. Ora, mentre la seconda previsione, astrattamente, può anche riguardare l’ipotesi in cui la scelta per la via arbitrale fosse già stata operata dall’imprenditore in bonis, la prima chiarisce espressamente che il curatore fallimentare può deferire una controversia in arbitrato (salvo poi capire quali controversie siano effettivamente compromettibili4). Le medesime disposizioni sono sostanzialmente riprodotte nel CCII, rispettivamente, agli artt. 132 e 123, comma 1, lettera g)5; non vi sono, tuttavia, indicazioni precise circa il novero o la tipologia delle controversie che il curatore può demandare alla decisione arbitrale6. Per quanto rileva in questa sede, il predetto quadro normativo deve essere completato con la previsione di cui all’art. 72, comma 1, l.fall. (sostanzialmente corrispondente all’art. 172, comma 1, CCII), dal quale si evince la possibilità per il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, di subentrare nel contratto (non compiutamente eseguito al momento dell’apertura della procedura concorsuale) in luogo del fallito/debitore; contratto che potrebbe contenere una clausola compromissoria7.

3. L’arbitrabilità delle controversie. In attuazione dell’art. 1, comma 3, lettera b) della legge delega 14 maggio 2005 n. 80, l’art. 806 c.p.c. – come modificato dal d.lgs 2 febbraio 2006 n. 40 – prevede che “le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per og-

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Segnaliamo già che è piuttosto diffusa l’idea secondo la quale in ambito fallimentare l’arbitrato abbia uno spazio “residuale” (Vincre, Arbitrato rituale e fallimento, Padova, 1996, 12 ss.; Bove, Arbitrato e fallimento, in Riv. arb., 2012, 298). In merito alla stipula dei patti compromissori, posta la regola di cui all’art. 35 l.fall. (ora art. 132 CCII), in raffronto a quanto previsto dall’art. 808, comma 2, c.p.c., secondo il quale il potere di stipulare il contratto comprende il potere di convenire la clausola compromissoria, in dottrina si è evidenziato che, per quanto irragionevole, si delinea una disciplina differenziata tra compromesso e clausola compromissoria, onde per il compromesso vale la regola della legge fallimentare (e del nuovo codice), mentre per le altre species di convenzione arbitrale varrà il disposto dell’art. 808 c.p.c., con la conseguenza che le cautele richieste dal diritto concorsuale saranno applicabili solo laddove il rapporto a cui si riferisce la convenzione abbia natura di straordinaria amministrazione (Zucconi Galli Fonseca, Ancora su arbitrato rituale e fallimento, in Riv. arb., 2014, 5; Baccaglini, Fallimento e arbitrato rituale. Profili di interrelazione e autonomia tra i due procedimenti, Napoli, 2018, 9, nota 5; Canale, L’arbitrato del curatore, in Giur. comm., 2019, 24 ss., spec. 26; Bove, op. cit., 318, nota 43; in tema v. anche Vona, La stipula del patto compromissorio e la nomina degli arbitri nelle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2013, 421 ss., par. 2; per una disamina della questione nell’assetto anteriore alle riforme del 2006/2007 cfr. Vincre, op. cit., 49 ss.). Invero, nel CCII è stata inserita una norma (art. 53, comma 2), tuttavia non direttamente rilevante ai nostri fini, che, per il caso della revoca della liquidazione giudiziale – posto che dalla pubblicazione della relativa sentenza e fino al momento in cui essa passa in giudicato l’amministrazione dei beni e l’esercizio dell’impresa spettano al debitore, sotto la vigilanza del curatore –, stabilisce che il tribunale, assunte, se occorre, sommarie informazioni ed acquisito il parere del curatore, può autorizzare il debitore a stipulare, tra l’altro, patti compromissori. Cfr. Canale, op. cit., 18. V infra par. 5.

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getto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge”8. Da tale disposizione si ricava, in linea generale, che: è possibile ricorrere all’arbitrato per risolvere le controversie che abbiano a oggetto diritti disponibili; tuttavia, ciò può essere vietato da un’espressa previsione di legge; pertanto, se il diritto è disponibile, la non arbitrabilità può discendere solo da un espresso divieto di legge9. Inoltre, il carattere disponibile attiene al profilo oggettivo (e non soggettivo) del diritto10. Insomma, in attuazione della delega il legislatore ha fissato quale unico limite all’arbitrabilità delle controversie la disponibilità del diritto, salva una diversa disposizione di legge, facendo venir meno la precedente previsione sulla base della quale il perimetro della compromettibilità era tracciato in relazione alla transigibilità della controversia11. Posto quanto sopra, rimane il problema – di amplissima portata sistematica – circa l’esatta definizione del concetto di disponibilità; da sempre tale problema impegni gli interpreti12 ma, sotto diversi profili, è possibile fissare alcuni tasselli, ritenuti ormai punti fermi dall’indirizzo assolutamente dominante. Così, può affermarsi che non incidono affatto sull’area dell’arbitrabilità delle controversie le regole che determinano la giurisdizione di un giudice speciale o criteri di competenza inderogabile in relazione a talune categorie di liti; si tratta di previsioni la cui portata precettiva opera nell’ambito della giurisdizione statuale, e che, di per sé, non implicano affatto che la controversia non sia arbitrabile, salvo che attenga a un diritto indisponibile o che la non arbitrabilità sia espressamente disposta dal legislatore13; ciò è confermato, ad esempio, dall’art. 12 del codice del processo amministrativo (d.lgs. 12 luglio 2010 n. 104), il quale consente espressamente l’arbitrato per la soluzione delle controversie aventi a oggetto diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo14. Inoltre, dev’essere escluso che l’indisponibilità del diritto sia data dall’inderogabilità della normativa che regola la controversia, la quale non costituisce un limite all’arbitrato in sé ma piuttosto al giudizio degli arbitri, che nel risolvere la lite loro devoluta devono

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Già l’art. 34 del d.lgs. 5/2003, in tema di arbitrato societario, aveva fissato il riferimento alle “controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale”. 9 Motto, La compromettibilità in arbitrato secondo l’ordinamento italiano, Milano, 2018, 254-255, 264-265, ove spiega che il divieto a compromettere può anche essere relativo, come nel caso delle controversie di lavoro (art. 806, comma 2); Costantino, Arbitrato rituale, in Aa.Vv., Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre ADR, a cura di Buonfrate e Giovannucci Orlandi, Torino, 2006, 7; Ruffini, Patto compromissorio, in Riv. arb. 2005, 714. 10 Motto, op. cit., 279, 282. 11 Licci, Sub art. 806, in Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella (a cura di), Commentario del codice di procedura civile, IV, Milano, 2014, 27; Zucconi Galli Fonseca, Sub art. 806, in Aa.Vv., La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 5; G.F. Ricci, Dalla “transigibilità” alla “disponibilità” del diritto. Nuovi orizzonti per l’arbitrato, in Riv. arb., 2006, 265 ss. 12 In tema, per approfondimenti v., tra gli altri, Motto, op. cit., 274 ss.; Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 6 ss.; Salvaneschi, Arbitrato, in Chiarloni (a cura di), Commentario del Codice di Procedura civile, Bologna, 2014, 9 ss.; Criscuolo, L’arbitrato tra autonomia ed eteronomia, in Trattato di diritto dell’arbitrato, I, I profili generali, diretto da Mantucci, Napoli, 2019, 216 ss.; Rossi, Arbitrabilità e controllo di conformità all’ordine pubblico, Napoli, 2017, 73 ss.; Gabellini, L’azione arbitrale, Bologna, 2018. 13 Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 7; Motto, op. cit., 256; Luiso, Diritto processuale civile, V, Milano, 2019, 122; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2012, 405 ss.; Salvaneschi, op. cit., 15 ss.; in giurisprudenza v., tra le altre, Cass. 23 febbraio 2006, n. 3989. 14 Luiso, op. cit., 123; Motto, op. cit., 256.

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fare corretta applicazione della normativa inderogabile15. Del resto, la previsione di regole di applicazione necessaria non impedisce che le parti stesse possano regolare in via autonoma la controversia, purché si conformino alla normativa inderogabile; ciò che interessa all’ordinamento è che la normativa inderogabile sia applicata tout court, e non che sia applicata esclusivamente in sede giurisdizionale16. A questo punto residua il problema definitorio circa la nozione di diritto (oggettivamente) disponibile17. A nostro avviso, in tale prospettiva, occorre, da un lato, tener presente che con il patto compromissorio le parti non “dispongono” del diritto sostanziale controverso, ma semplicemente determinano una deroga alla giurisdizione ordinaria, attribuendo il potere decisorio agli arbitri, alla cui decisione si vincolano preventivamente; dall’altro lato, prendere in considerazione la funzione svolta dall’arbitrato, il quale, pur avendo una matrice privatistica, non può affatto essere ridotto alla dimensione negoziale tout court. Piuttosto, la disciplina dettata dal codice di rito, soprattutto a seguito della riforma del 2006, conferma che l’arbitrato rituale è un mezzo eteronomo di soluzione delle controversie mediante una

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Licci, op. cit., 29 ss.; Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 6; Luiso, op. cit., 121-122; Ruffini, op. cit., 713; Tiscini, La mediazione civile e commerciale. Composizione della lite e processo nel d.lg. n. 28/2010 e nei D.M. nn. 180/2010 e 145/2011, Torino, 2011, 22; G.F. Ricci, op. cit., 267; Motto, op. cit., 291 ss., a cui si rinvia anche per riferimenti giurisprudenziali. 16 Licci, op. cit., 31; Luiso, op. cit., 122; Motto, op. cit., 295. In quest’ottica, del resto, si spiega ad esempio la disciplina dettata dall’art. 2113 c.c., che a determinate condizione ammette le rinunce e le transazioni aventi a oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi (in tema, tra gli altri, v. Mazzotta, Diritto del lavoro, Milano, 2013, 912 ss.; amplius Novella, L’inderogabilità nel diritto del lavoro. Norme imperative e autonomia individuale, Milano, 2009, 130 ss., 246 ss.). 17 Come anticipato, la questione si inserisce in un dibattito di amplissima portata sistematica che da sempre affatica gli interpreti e la cui completa ricostruzione non è possibile in questa sede. Ci limitiamo soltanto a ricordare che una prima impostazione, con radici piuttosto risalenti ma con riflessi anche in epoca più recente, propugna una nozione ampia di indisponibilità; in questo ordine di idee, in linea di massima e salvo correttivi e sfumature all’interno delle singole opinioni, l’area della non compromettibilità è correlata alle norme imperative (come affermava Redenti, Compromesso (dir. proc. civ.), in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1957, 798, i “limiti al potere-diritto di disporre liberamente si possono ravvisare in linea generale tutte le volte che la libertà di private negoziazioni (…) sia esclusa, compressa o condizionata da norme di diritto pubblico o di pubblico interesse o quantomeno di interesse dei terzi. In questi casi il rispetto di quelle norme o la protezione dei diritti altrui deve essere garantita dall’intervento indeclinabile della autorità giudiziaria in sede contenziosa o in sede di giurisdizione volontaria o qualche volta da autorità amministrative”). Un profilo conseguenziale a questa concezione è rappresentato dal rifiuto dell’arbitrabilità della controversia inerente alla nullità del contratto per illiceità (sul punto v., tra gli altri, De Nova, Nullità del contratto e arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 406-407; Criscuolo, Ancora sulla compromettibilità in arbitri della questione di nullità del contratto per illiceità, in Riv. arb., 1998, 279 ss.; Spatuzzi, L’indisponibilità del diritto soggettivo quale limite di arbitrabilità delle controversie, in Riv. arb., 2014, 763 ss., specie 771). Un altro indirizzo – oggi maggioritario – propone una interpretazione più “ristretta”, che lega l’indisponibilità all’abdicazione o rinuncia ad un diritto preesistente (v., tra gli altri, Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 8 ss.; Cecchella, L’arbitrato, Torino, 2005, 28 ss.; Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2010, 67); questa interpretazione ha il pregio, sganciando l’indisponibilità del diritto dall’inderogabilità della norma, di estendere l’area dell’arbitrabilità delle controversie, ricomprendendovi, ad esempio, quelle riguardanti la illiceità del contratto (v. ad es. Zucconi, op. cit., 10). Secondo una terza ricostruzione, invece, il predicato della disponibilità andrebbe associato non già al diritto controverso, ma al correlato diritto di azione, e in questo senso l’indisponibilità coinciderebbe con le ipotesi legali in cui è prevista l’azione (o l’intervento obbligatorio in causa) del pubblico ministero (v. ad es. Salvaneschi, op. cit., 9 ss.; Berlinguer, La compromettibilità per arbitri. Studio di diritto italiano e comparato, I, La nozione di compromettibilità, Torino, 1999, 38 ss.; su questa linea, sostanzialmente, anche Barletta, La “disponibilità” dei diritti nel processo di cognizione e nell’arbitrato, in Riv. dir. proc., 2008, 979 ss. Caponi, “Natura” dell’arbitrato e controversie arbitrabili, in Auletta-Califano-Della Pietra-Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggetti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 129 ss., spec. 131). Da questo punto di vista, va ricordato che l’art. 34, comma 5, del d.lgs. 5/2003, stabilisce che non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero.

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decisione emessa da un terzo all’esito di un processo; decisione che, per espressa previsione contenuta nell’art. 824 bis c.p.c., è recepita dall’ordinamento alla stregua di una sentenza dell’autorità giudiziaria, rispetto alla quale si pone in termini di equipollenza quoad effectum, pur provenendo da soggetti privati18. L’arbitro, pertanto, mediante il lodo, risolve la controversia alla medesima stregua di un giudice dello Stato; il lodo arbitrale, al pari della sentenza, contiene l’accertamento prescrittivo delle regole di condotta alle quali le parti dovranno attenersi in merito al diritto o al rapporto rispetto al quale era sorta la disputa19. Inoltre, è sempre assicurato il controllo ex post della conformità del lodo alle norme imperative (in particolare, ai sensi dell’art. 829, comma 3, seconda parte, e comma 4), ed è altresì garantita la tutela degli interessi qualificati dei terzi (pregiudicati dal lodo) attraverso l’opposizione ex art. 404 c.p.c. (art. 831, comma 3, c.p.c.). In questo ordine di idee, perde rilevanza, onde definire il concetto di indisponibilità del diritto nel quadro dell’arbitrabilità, ogni accostamento alla rinunciabilità o cedibilità del diritto; né, d’altro canto, può valere l’assunto secondo il quale la (in)disponibilità andrebbe riferita all’azione, posto che sia la legge delega n. 80/2005, sia l’art. 806 c.p.c., sono piuttosto chiari nell’associare l’attributo della disponibilità all’oggetto sostanziale della controversia, il quale, veicolato dalla domanda di arbitrato, diventerà l’oggetto del processo arbitrale e, infine, del lodo20. Invece, ciò che rileva – come afferma altra parte della dottrina, alla quale ci associamo – è l’esistenza del potere negoziale rispetto al diritto controverso, e cioè del potere, per le parti, di predisporre regole di condotta che l’ordinamento recepisce e riconosce come vincolanti21.

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Secondo l’orientamento maggioritario il lodo rituale di merito è idoneo a conseguire gli effetti del giudicato sostanziale; sul punto, per gli opportuni riferimenti, sia consentito rinviare a Campione, Il lodo arbitrale irrituale e la sua impugnazione, Pisa, 2020, in corso di pubblicazione, cap. III, par. 10; per una disamina più analitica del dibattito e per ulteriori riferimenti v. D’Alessandro, Il lodo, in Aa.Vv., Trattato “Omnia” di diritto processuale civile, a cura di Dittrich, Torino, 2019, IV, 5319 ss.; Ghirga, La storia dell’arbitrato dal codice di procedura civile del 1940 ad oggi, in Trattato di diritto dell’arbitrato, I, I profili generali, diretto da Mantucci, Napoli, 2019, 128 ss.). 19 Sul punto, per ogni più ampia considerazione e per ulteriori riferimenti, v. se vuoi Campione, op. loc. cit. 20 Per una più ampia ricognizione dei profili critici riscontrati nelle due prospettive richiamate cfr. Motto, op. cit., 305 ss., 333 ss., il quale, nel contesto di una pluralità di rilievi, da un lato, evidenzia come talune fattispecie non siano agevolmente riconducibili al paradigma del divieto di compiere atti abdicativi (risultando oltremodo difficoltosa una valutazione in termini di irrinunciabilità e di inalienabilità), e come in altri casi vengano in rilievo controversie aventi un oggetto a cui non è facilmente riferibile la nozione tecnica di indisponibilità (ad es. le domande di impugnazione delle deliberazioni assembleari, le controversie possessorie, la verificazione della scrittura privata non autenticata ecc.); dall’altro lato, riconosce – condivisibilmente – che, se è vero che la previsione dell’intervento obbligatorio in causa del pubblico ministero è generalmente indice dell’indisponibilità del diritto (sul punto v. anche Luiso, op. cit., 116), non è tuttavia vero il reciproco, nel senso che non sempre a situazioni sostanziali da qualificarsi come indisponibili – come ad esempio i diritti della personalità – si associa la legittimazione del pubblico ministero nel processo in cui siano fatte valere [sul carattere indisponibile dei diritti richiamati (diritto alla vita, all’integrità fisica, alla libertà personale, ecc.) v., tra gli altri, Palazzo, Transazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIX, Torino, 1999, par. 3; Sicchiero, Rinuncia, in Dig. disc. priv., sez. civ., I agg., IX, Torino, 2014, par. 1)]. 21 Luiso, op. cit., 118 ss.; Licci, op. cit., 29; Motto, op. cit., 348. Per questa via – oltre a doversi confermare che non vale per l’arbitrato il limite posto, per la transazione, dall’art. 1972, comma 1, c.c. (idea, questa, piuttosto diffusa, al di là dell’indirizzo dottrinale da ultimo richiamato: v., tra gli altri, Motto, op. cit., 301; v. anche Luiso, op. cit., 12; Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 10-11; Punzi, op. cit., 430; Rossi, op. cit., 95; G.F. Ricci, op. cit. 277-278) –, viene a risolversi in senso positivo la questione circa l’arbitrabilità delle controversie derivanti dall’impugnazione di delibere societarie (Luiso, op. cit., 120; amplius, Motto, op. cit. 371 ss., al quale si rinvia per ogni più ampio approfondimento e per ulteriori riferimenti).

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Secondo questa logica, è disponibile, ai sensi dell’art. 806 c.p.c., la situazione giuridica per la quale norme inderogabili impongano una disciplina necessaria senza però precludere l’esercizio dell’autonomia privata, la quale – come il lodo – può determinare le regole di condotta che consentono il superamento della controversia purché nel rispetto della normativa inderogabile; per contro, è indisponibile la situazione rispetto alla quale il predetto potere è totalmente precluso22.

4. (segue) Arbitrabilità delle controversie e limiti alle tutele impartibili dagli arbitri.

L’arbitrabilità delle controversie incontra un limite anche sul piano del tipo di tutela impartibile dagli arbitri. È opinione diffusa, infatti, che l’attività degli arbitri possa essere esercitata esclusivamente nell’ambito della tutela dichiarativa, in forme analoghe a quelle della cognizione ordinaria23; i giudici privati non sono abilitati a esercitare funzioni esecutive24, a emettere provvedimenti di volontaria giurisdizione, oppure a concedere tutele all’esito di procedimenti speciali sommari25.

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Motto, op. cit., 348. In tema, più di recente, v. Tota, Arbitrato e tutela ingiuntiva, in Riv. arb., 2019, 439 ss., spec. 443 ss.; S.A. Villata, Arbitrato e procedimenti sommari, in Riv. dir. proc., 2013, 889 ss.; Bergamini, Clausola compromissoria e tutela monitoria, in Riv. arb., 2012, 61 ss.; Fratini, Compromettibilità in arbitri delle controversie in materia di locazione di immobili e affitto di aziende, in Riv. arb., 2000, 552 ss., spec. 562 ss. Più in generale, in merito alle tutele impartibili dagli arbitri, si rinvia all’ampia disamina di Motto, op. cit., 408 ss. 24 Ma per spunti circa l’arbitrabilità delle c.d. opposizioni esecutive v. Bove, op. cit., 296; Verde, op. cit., 70; Motto, op. cit., 332. 25 Verde, op. cit., 70; Cecchella, in Aa.Vv., L’arbitrato, a cura di Cecchella, Torino, 2005, 201. In giurisprudenza, in merito alle controversie possessorie, Cass. 2 ottobre 1992 n. 10839, ha affermato che “le relative cause devono ritenersi suscettibili di transazione e come tali compromettibili ad arbitrato a norma dell’art. 806 c.p.c. e ciò con l’unica limitazione della impossibilità di conferimento agli arbitri, come carenti dei relativi poteri di imperio, anche dei provvedimenti interdittori, pur sempre rinunciabili”; ma v. in dottrina, sul punto, Della Pietra, La compromettibilità delle liti possessorie, in Auletta-Califano-Della Pietra-Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggetti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 343 ss. Quanto, in particolare, alla tutela ingiuntiva, secondo l’indirizzo costante della Suprema Corte, le parti, in presenza di accordo compromissorio, possono chiedere in sede giurisdizionale l’emissione del decreto, destinato poi a venir meno in seguito alla proposizione del giudizio di opposizione, nel quale sia sollevata l’exceptio comrpomissi; tale impostazione, in sostanza, poggia sul rilievo che, da un lato, l’eccezione di compromesso non è rilevabile d’ufficio, onde può essere sollevata solo dalla parte (convenuta sostanziale) in sede di opposizione a decreto ingiuntivo; dall’altro lato, nella disciplina del procedimento arbitrale non è contemplata l’emissione di provvedimenti inaudita altera parte (v., tra le altre, Cass. 4 marzo 2011 n. 5265; Cass. 28 luglio 1999 n. 8166; in tema, per spunti critici, v. Consolo-Godio, Tralatizi orientamenti sulla sorte del d.i. opposto per clausola arbitrale (rituale), in Giur. it., 2016, 2216 ss.). Ancora, con riguardo alla convalida di sfratto, la giurisprudenza ha affermato che “per le controversie di cui ai procedimenti speciali previsti dagli art. 657 e 658 c.p.c., sussiste la competenza funzionale ed inderogabile del Pretore, che è limitata dall’art. 661 c.p.c. alla prima delle due fasi in cui si suddividono tali procedimenti, cioè a quella di cognizione sommaria, che si conclude con la pronuncia di convalida (art. 663 c.p.c.) o con l’ordine provvisorio di rilascio (art. 665 c.p.c.). Pertanto questi provvedimenti, con effetti coercitivi, appartengono inderogabilmente alla competenza esclusiva del detto organo giurisdizionale ordinario e, come tali, sono sottratti alla potestà arbitrale. Tuttavia, poiché nell’ipotesi in cui sia proposta opposizione dal conduttore il procedimento speciale si trasforma in ordinario processo di cognizione (del tutto uguale a quello che il locatore avrebbe potuto instaurare con le forme normali) e nel quale rimane da decidere soltanto il merito della controversia, non sussiste alcuna preclusione di legge per la deferibilità agli arbitri di questa ulteriore fase del procedimento stesso (...)” (Cass. 16 gennaio 1991 n. 387; v. anche Trib Salerno 4 maggio 2007, in Redaz. Giuffrè, 2007; sempre in subiecta materia cfr. anche Cass. 31 luglio 2006 n. 17424; Cass. 23 giugno 1995 n. 7127). Per spunti critici in merito a questi orientamenti v. Villata, op. cit., parr. 2 e 3. 23

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Questo assunto, in specie con riferimento a taluni procedimenti speciali – come i procedimenti monitori e di convalida di sfratto – ha trovato qualche resistenza in dottrina26, nell’ambito della quale, peraltro, già da tempo era stata sottoposta a revisione critica la regola della “incompetenza” cautelare arbitrale27. Ad ogni modo, sebbene alcune considerazioni critiche possano condividersi28, de iure condito ci sembra che l’arbitrato rituale, per come regolato agli artt. 806 ss. c.p.c.29, sia stato congegnato dal legislatore come un mezzo alternativo al processo di cognizione ordinaria dinanzi al giudice statuale, idoneo a far conseguire alla parte i medesimi risultati – sul piano della tutela dichiarativa – ottenibili per via giurisdizionale stricto sensu. In questo senso depongono alcuni elementi. Intanto, le norme sulla c.d. domanda di arbitrato dànno conto di come, nella sede arbitrale, l’instaurazione del contraddittorio preceda sempre la decisione30. D’altronde, posto che il procedimento monitorio non preclude la garanzia del contraddittorio, il quale in tale contesto è soltanto eventuale e differito31, si potrebbe astrattamente immaginare che le parti, ai sensi dell’art. 816 bis, comma 1, c.p.c., adottino un modello processuale bifasico, con una prima fase inaudita altera parte32; sennonché, a nostro avviso, il congegno normativo dato dagli artt. 816 bis, u.c., 824 bis e 827, comma 3, c.p.c. delinea un regime in base al quale non vi è spazio per una decisione che possa assurgere a omologo del provvedimento monitorio33.

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Cfr. Villata, op. cit., par. 3 e 4; v. anche Bergamini, op. cit., 65 ss. Basata sulla argomentazione, ritenuta invero “debole”, della carenza di poteri autoritativi in capo agli arbitri; sul punto cfr. Carpi, L’arbitrato rituale tra autonomia e aiuto giudiziale, in Contr. e impresa 1990, 929 ss.; Id., I procedimenti cautelari e l’esecuzione nel disegno di legge per la riforma urgente del c.p.c.: la competenza e il procedimento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 1259 ss., con una disamina della questione anche sul versante comparatistico; Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 1991, 458 ss.; Luiso, Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo civile, in Riv. arb., 1991, 253 ss.; v. anche Tarzia, Assistenza e non interferenza giudiziaria nell’arbitrato internazionale, in Riv. arb., 1996, 475 ss.; Pozzi, Arbitrato e tutela cautelare: profili comparatistici, in Riv. arb., 2005, 17 ss. Pare utile ricordare, peraltro, che per la dottrina più risalente l’impossibilità per gli arbitri di concedere o imporre provvedimenti cautelari è principio antico e universalmente riconosciuto (Satta, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2, Torino, 1971, 282-283). 28 Ad esempio quella sulla scarsa persuasività dell’argomentazione incentrata sulla mancanza di poteri autoritativi in capo agli arbitri, i quali, a ben vedere, come possono emettere pronunce di merito vincolanti e definitive, allora ben potrebbero essere autorizzati dalle parti a esercitare il “minor” potere di concedere misure provvisorie, secondo la logica che “nel più ci sta il meno”; inoltre, come possono emettere un lodo di condanna, destinato per il tramite dell’exequatur a far avviare l’esecuzione forzata, così potrebbero emettere un provvedimento cautelare, anch’esso, astrattamente, assoggettabile a omologazione(v. Luiso, op. ult. cit., 254; Carpi, op. cit., 1259). 29 Si rivelano rilevanti anche le norme (artt. 1, 25 e 26) della l. 5 gennaio 1994 n. 25 che contemplano la c.d. domanda di arbitrato. 30 Tota, op. cit., 443; in senso contrario cfr. Bergamini, op. cit., 68, nota 22 e Villata, op. cit., par. 4, nota 45, secondo i quali, in sostanza, non è affatto imposto, nell’ambito del procedimento per ingiunzione, che la controparte non sia avvertita del suo inizio; tuttavia, si sono giustamente evidenziate le criticità, soprattutto sul piano pratico, di tale indirizzo, posto che il convenuto, una volta reso edotto dell’altrui iniziativa, potrebbe esercitare le proprie prerogative difensive e così interferire sulla emanazione della misura (v. ancora Tota, op. cit., 444, nota 19; tale rischio è riconosciuto anche dallo stesso Villata, op. loc. cit.). 31 Bergamini, op. cit., 67; in tema cfr., in giurisprudenza, tra le altre, Corte cost. 19 gennaio 1988 n. 387; in dottrina, tra gli altri, Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv. dir. proc., 1975, 577 ss., spec. 589; Garbagnati, Il procedimento di ingiunzione, (a cura di Romano), Milano 2012, 39 ss.; Graziosi, La cognizione sommaria del giudice civile, in Studi in onore di Vittorio Colesanti, Napoli 2009, I, 634 ss., spec. 654; v. anche Consolo, Del vaglio alla stregua dell’art. 111 Cost.“potenziato” dei non troppo “equi” artt. 649 e 655 c.p.c. ed in genere del procedimento monitorio, in Corr. giur., 2001, 815 ss., spec. 817. 32 Così, se male non intendiamo, Bergamini, op. cit., 68. 33 Il lodo, infatti, è un equipollente della sentenza, e in una eventuale forma monitoria difetterebbe del requisito dell’esaurimento del potere decisorio sul bene della vita richiesto, posto che l’opposizione provocherebbe una piena cognizione sulla domanda decisa solo 27

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Inoltre, ai sensi dell’art. 818 c.p.c. è codificata la regola secondo la quale, salva diversa disposizione di legge34, gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari. Si tratta di una disposizione, da ritenersi inderogabile dalle parti35, che ha una portata generalizzata, la quale conduce a escludere che gli arbitri possano emettere provvedimenti sommari, anche non cautelari36. Ancora, non va trascurato quanto disposto dal già citato art. 816 bis, u.c., c.p.c., il quale stabilisce che su tutte le questioni che si presentano nel corso del procedimento gli arbitri, ove non ritengano di provvedere con lodo non definitivo, emettono ordinanza revocabile non soggetta a deposito; posto che un provvedimento di natura anticipatoria ha senso in quanto, per l’appunto, anticipi gli effetti di una condanna esecutiva, ciò evidentemente dovrebbe derivare da un exequatur che, tuttavia, la norma citata non ammette37. In conclusione, ai sensi degli artt. 806 ss. c.p.c., gli arbitri rituali esercitano attività decisoria su diritti non indisponibili (nei termini precisati nel paragrafo precedente), nell’ambito della tutela dichiarativa e secondo la logica della cognizione piena, ancorché con un percorso processuale ispirato alla c.d. libertà delle forme38.

5. Liquidazione giudiziale e liti arbitrabili. È sulla base delle linee concettuali tracciate nei paragrafi precedenti che va affrontato il tema dell’arbitrabilità delle controversie una volta che sia stata aperta la liquidazione giudiziale.

sommariamente, mentre le ordinanze, come stabilisce l’art. 816 bis, u.c., sono revocabili e non soggette a deposito (cfr. Tota, op. cit., 445; v. anche Cecchella, op. cit., 201). Tant’è che Bergamini, op. cit., 77, riconosce la dubbia legittimità della figura di “lodo monitorio” e osserva che il presidente del tribunale, adito ai sensi dell’art. 825 c.p.c., potrebbe rifiutare di concedere l’esecutività, ritenendo che il provvedimento non sia un “lodo”; mentre Villata, op. cit., par. 4, nota 46, per superare quest’ultima obiezione, sostiene che il provvedimento suscettibile di exequatur sia il lodo con il quale gli arbitri prendono atto della mancata promozione/coltivazione del giudizio di “opposizione” arbitrale a cognizione piena, ma non specifica quale forma debba assumere il provvedimento arbitrale monitorio. Proprio su questo aspetto, fermo quanto sopra indicato a proposito delle ordinanze, osserviamo che, sulla base della ricostruzione che ci pare preferibile, ai sensi dell’art. 827, comma 3, c.p.c., il lodo che decide parzialmente il merito della controversia è il lodo che decide su una domanda nell’ambito di un processo arbitrale con cumulo oggettivo, mentre il lodo non definitivo è invece quello che ha ad oggetto una o più questioni – di rito o di merito – insorte nel corso del processo in relazione a una domanda ma senza decidere sulla stessa (su questo punto, anche per ulteriori riferimenti, sia consentito rinviare ancora una volta a Campione, op. cit., cap. IV, sez. II). 34 Qual è, ad esempio, l’art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5/2003 (in materia di arbitrato societario), il quale attribuisce agli arbitri il potere di sospendere la delibera assembleare quando il giudizio di merito abbia ad oggetto la sua impugnazione (v. Ghirga, Sub art. 818, in Aa.Vv., La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 316). 35 Cfr. Ghirga, op. cit., 312. 36 Auletta, Cognizione sommaria e giudizio arbitrale, in Aa.Vv., Diritto dell’arbitrato rituale, a cura di Verde, Torino, 2005, 505; G.F. Ricci, Sub art. 818, in Aa.Vv., Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2016, 592; Vanni, I controversi rapporti fra arbitrato e opposizione a decreto ingiuntivo, in Riv. arb., 2012, 379; Cecchella, op. cit., 201; contra Bergamini, op. cit., 65-66; Villata, op. cit., par. 3 37 Il che porta ad escludere anche l’ammissibilità delle condanne ex artt. 186 bis, ter e quater c.p.c.; v. Cecchella, op. cit., 201202; Cavallini, Condanne speciali e arbitrato rituale, in Riv. arb., 1996, 683 ss.; Id., Ancora sull’inammissibilità delle ordinanze anticipatorie di condanna nel processo arbitrale, in Riv. arb., 2001, 771 ss.; Ghirga, Sub art. 816 bis, in Aa.Vv., La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 213. 38 Cfr. Cass. 28 febbraio 2014, n. 4808.

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Intanto, possiamo osservare che, sul piano dell’arbitrabilità stricto sensu, non si pongono problemi particolari e ulteriori laddove il curatore subentri in un contratto nel quale sia contenuta una clausola compromissoria; secondo l’opinione preferibile, in questo caso il curatore è vincolato al patto compromissorio39. Questa impostazione è seguita dalla Suprema Corte con riguardo, ad esempio, all’arbitrato, fondato su una clausola compromissoria statutaria, che veda poi il coinvolgimento della curatela del fallimento della società40. Da tale configurazione è ricavabile, a nostro avviso, la possibilità per il curatore di stipulare accordi compromissori in merito alle controversie (che ovviamente siano di per sé arbitrabili) attinenti a rapporti pregressi, ossia instaurati dal debitore in bonis41.

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V., tra gli altri, Zucconi Galli Fonseca, Ancora su arbitrato rituale e fallimento, in Riv. arb., 2014, 9; Canale, op. cit., 18; Nitrola, Arbitrato e fallimento, in Contratti, 2012, 757; amplius, Baccaglini, op. cit., 29-30, 87 ss., alla quale rinviamo per ogni più ampio riferimento e per ulteriori riferimenti; in giurisprudenza, v. Cass. Sez. un. (ord.) 26 maggio 2015 n. 10800. Peraltro, in parte qua si pone il problema – il quale non può essere analizzato con il grado di approfondimento necessario nella presente sede – della sopravvivenza del patto compromissorio in caso di scioglimento dal contratto da parte del curatore. La norma che su questo versante entra in gioco è, in particolare, il già citato art. 83 bis l.fall., (oggi art. 192 CCII), il quale dispone che “se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito”. Questa formulazione ha posto non pochi problemi interpretativi, poiché sembra far esclusivo riferimento all’ipotesi in cui il fallimento sopravvenga a procedimento arbitrale pendente. Secondo una parte della dottrina, essa in realtà sancisce il principio secondo il quale la clausola compromissoria segue le sorti del contratto al quale accede; se il curatore vi subentra, egli subentra anche nella clausola, altrimenti, sciogliendosi dal contratto, fa venire meno anche l’accordo arbitrale [v., tra gli altri, Canale, Sub art. 83 bis, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, I, Bologna, 2006, 1345; Frascaroli Santi, L’art. 83 bis l.f. e i problemi irrisolti nei rapporti tra fallimento e giudizio arbitrale, in AulettaCalifano-Della Pietra-Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggetti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 377; F. De Santis, Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione di arbitrato stipulata dal fallito, alla luce delle riforme della legge concorsuale, in AulettaCalifano-Della Pietra-Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggetti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 362 ss.; Castagnola, Arbitrato pendente e subentro del curatore nel contratto contenente la clausola compromissoria, in Auletta-Califano-Della Pietra-Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggetti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 178; in questo senso, se male non intendiamo, ma con spirito critico, Corapi, L’art. 83 bis l.fall. e gli effetti del fallimento sul patto compromissorio e sull’arbitrabilità della lite, in Dir. fall. soc. comm., 2018, 310 ss.]. Secondo altra parte della dottrina, invece, la predetta interpretazione non è sostenibile, sia in virtù del principio di autonomia del patto arbitrale, sia per via del disallineamento che si configurerebbe rispetto alla più chiara previsione dell’art. 169 bis l.fall. (oggi art. 97, comma 8, CCII, in tema di effetti della presentazione della domanda di concordato preventivo: “lo scioglimento del contratto non si estende alla clausola compromissoria in esso contenuta”), onde la scelta della via arbitrale sopravvive alla dichiarazione di fallimento (Bove, Convenzione arbitrale e fallimento, in Riv. arb., 2016, 222 ss., il quale precisa che, se si tratta di un patto compromissorio che accede ad un rapporto sostanziale che in occasione della procedura fallimentare si scioglie, la sopravvivenza della scelta della via arbitrale va riferita alle pretese restitutorie a favore del fallito che residuano da quello scioglimento; ritiene che la convenzione di arbitrato vincoli il curatore quando egli voglia far valere contro il terzo un diritto del fallito sorto da un contratto che abbia già esaurito i propri effetti o da un rapporto giuridico, ancora pendente, dal quale il curatore si sia sciolto, Baccaglini, op. cit., cit., 82, 87 ss., spec. 114, 124, alla quale rinviamo per ogni più ampio approfondimento del tema e per ulteriori riferimenti; v. anche Vona, op. cit., par. 1). La giurisprudenza tende a sostenere che lo scioglimento dal rapporto sostanziale comporti lo svincolo anche dal patto compromissorio (cfr. ad es. Cass. 30 settembre 2019 n. 24444; Cass. sez. un. 10800/2015, cit.). Inoltre, in dottrina, si ritiene che il disposto dell’art. 83 bis l.fall (così come dell’attuale art. 192 CCII) – a prescindere dalle conseguenze dell’applicazione di tale norma – valga anche per il compromesso (Canale, op. loc. ult. cit.; Cerrato, op. cit., par. 12; Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 13; Bove, Arbitrato e fallimento, cit., 308; Frascaroli Santi, op. loc. cit.; Sotgiu, Rapporti tra arbitrato e procedure concorsuali, in Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, III, Padova, 2012, 485; Apice, Arbitrato e procedure concorsuali, in Dir. fall., 2013, 263 ss., par. 4), con la specificazione che se il compromesso ha ad oggetto una controversia non contrattuale, l’art. 192 CCII non può trovar applicazione e che prima dell’instaurazione del giudizio arbitrale, essendo il compromesso un contratto non ancora interamente eseguito, opera il regime, rispettivamente, dell’art. 72 l.fall. (172 CCII) o, per il caso della liquidazione controllata, dell’art. 270, comma 6, CCII (amplius, Cerrato, op. loc. ult. cit.). 40 Cfr., ad es., Cass. n. 24444/2019, cit.; Cass. 25 febbraio 2020 n. 4956. 41 Spunti in questo senso in Ghignone, Arbitrato e fallimento, in Buonfrate e Giovannucci Orlandi (a cura di), Codice degli arbitrati delle conciliazioni e di altre adr, Torino, 2006, 315; Bove, Convenzione arbitrale e fallimento, in Riv. arb., 2016, 218.

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Da questo punto di vista, nulla esclude che la curatela possa valutare di compromettere in arbitri – ovviamente d’accordo con l’altra parte – le controversie che la legge fallimentare contempla agli artt. 77 e 150 e il CCII, rispettivamente, agli artt. 182 e 260, nel contesto di procedure endofallimentari che fanno ricorso al rito monitorio42. Soprattutto in ipotesi come questa si tratta, a nostro avviso, di una prospettiva più teorica che pratica, ma ciò nondimeno non si può escludere la possibilità che le predette controversie – attinendo a diritti di credito a favore della massa – siano affrontate mediante devoluzione in arbitrato43. Sempre rimanendo sul piano dei margini di compromettibilità in arbitrato, da parte del curatore, delle liti relative a pretese da far valere contro terzi, ribadito che la previsione della competenza inderogabile dinanzi all’autorità giurisdizionale non esclude l’arbitrabilità della controversia, è possibile affermare che l’art. 24 l.fall., così come oggi l’art. 32, comma 1, CCII, i quali stabiliscono che il tribunale che ha aperto la procedura è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano (qualunque ne sia il valore), non pongono di per sé alcun limite all’arbitrabilità delle liti attratte alla competenza del foro fallimentare44. Resta da capire cosa si intenda per azioni che derivano dal fallimento (o dalla procedura di liquidazione). Secondo la giurisprudenza costante, la vis attractiva ex art. 24 l.fall. opera non soltanto rispetto alle controversie che traggano origine e fondamento del fallimento, ma anche per le controversie relative ai rapporti preesistenti, ove i diritti sostanziali in lite vengano a subire una deviazione dal proprio schema legale tipico per effetto della disciplina del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, “ovvero nel caso in cui il fallimento determini, per la necessaria applicazione di una disciplina concorsuale speciale, una particolare, diversa, configurazione degli effetti delle situazioni giuridiche preesistenti”45; per contro,

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L’art. 77 l.fall. (v. ora l’art. 182 CCII), dettato in tema di associazione in partecipazione, rimanda alla procedura prevista dall’art. 150 (nel nuovo codice, l’art. 182 richiama l’art. 260). Proprio quest’ultima norma (v. ora, per l’appunto, l’art. 260 CCII), con riguardo ai versamenti dei soci a responsabilità limitata, dispone che nei fallimenti delle s.r.l. il giudice delegato può, su proposta del curatore, ingiungere con decreto ai soci a responsabilità limitata e ai precedenti titolari delle quote o delle azioni di eseguire i versamenti ancora dovuti, quantunque non sia scaduto il termine stabilito per il pagamento; e aggiunge che contro il decreto è esperibile opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c. 43 Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 4; Ghignone, op. cit., 316; con riferimento al nuovo codice v. Canale, op. cit., 24, il quale precisa che se il curatore, in luogo dell’opzione compromissoria, sceglie la via monitoria, il giudizio di opposizione non sarà arbitrabile, posto che non si può devolvere agli arbitri il sindacato su un provvedimento del giudice. Peraltro, ben può capitare che l’opzione per l’arbitrato sia contenuta in una clausola statutaria, nella quale “subentri” – secondo la logica esaminata supra – il curatore; in questo caso, una volta che il curatore abbia ottenuto il decreto ingiuntivo, in sede di opposizione può essere fatta valere la potestas iudicandi arbitrale (cfr. Cass. 25 febbraio 2020, n. 4956, cit.). 44 Canale, L’arbitrato., cit., 21; Groppoli, Sulla potestas iudicandi degli arbitri in materia fallimentare, in Fall., 2009, 134 ss., par. 2; Frascaroli Santi, op. cit., 376; Ghignone, op. cit., 317; in precedenza già Capaccioli, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1959, 532; Vincre, op. cit., 32; Bozza, Arbitrato e fallimento, in Fall., 1993, 481; Silvestrini, Le liti attive del fallimento: profili processuali, in Fall., 1998, 1001 ss., par. 3. Più in generale, sulla vis attractiva ex art. 24 l.fall. v. Bonsignori, Arbitrati e fallimento, cit., 50 e 59 ss.; Berlinguer, La compromettibilità per arbitri. Studio di diritto italiano e comparato, II, Le materie non compromettibili, Torino, 1999, 167; E.F. Ricci, Lezioni sul fallimento, Milano, 1997, 325 ss.; Vellani, Competenza per attrazione e fallimento, Padova, 1996, 8 ss. e 27 ss. 45 Cfr., ex multis, Cass. 20 luglio 2004, n. 13496; Cass. 21 marzo 2003, n. 4210; secondo Cass. 7 febbraio 2020, n. 2990, “sono azioni derivanti dal fallimento, ai sensi della L. Fall. art. 24, quelle che comunque incidono sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti che costituiscono premessa di una pretesa nei confronti della massa, anche quando siano diretti a porre in essere il presupposto di una successiva sentenza di condanna”.

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non sono attratte nella sfera di competenza del tribunale fallimentare tutte quelle azioni già esistenti nel patrimonio del fallito e che con il fallimento si pongono in rapporto di mera occasionalità, e ciò a prescindere da ogni considerazione in ordine al fatto che il recupero di eventuali somme possano poi concorrere a formare l’attivo del fallimento46. A parte quest’ultima tipologia di azioni, e segnatamente quelle già esistenti nel patrimonio del fallito, ove il curatore agisce in luogo del medesimo in virtù di quanto disposto dall’art. 43 l.fall. (art. 143 CCII)47 e sulla cui arbitrabilità non pare necessario indugiare, occorre soffermarsi sulle azioni che, secondo la giurisprudenza, subiscono la predetta vis attractiva. In linea di massima, è convinzione piuttosto consolidata che nell’ambito delle azioni de quibus sono annoverate tutte quelle iniziative promosse dal curatore nell’interesse dei creditori al fine di conseguire la ricostituzione del patrimonio del debitore; si tratta, in particolare, delle azioni vòlte a far dichiarare inefficaci atti dispositivi compiuti dal debitore ai sensi degli artt. 64 ss. l.fall. (artt. 163 ss. CCII)48. In questo ambito l’esempio paradigmatico è rappresentato dall’azione revocatoria fallimentare; e vi rientra senz’altro anche l’azione revocatoria ordinaria (artt. 66 l.fall. e 165 CCII), al di là dell’aspetto teorico circa il suo inquadramento come azione che deriva dal fallimento49. La giurisprudenza ricomprende tra le c.d. azioni di massa anche l’azione di simulazione, sia con riguardo all’ipotesi in cui la domanda venga proposta dal terzo per ottenere il

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Cfr., ex multis, Cass. 9 novembre 2005, n. 21708; Cass. 15 settembre 1997, n. 9156. In questo ambito pare possibile ricomprendere anche le azioni di invalidità contrattuale, trattandosi di azioni già presenti nel patrimonio dell’imprenditore ancor prima della dichiarazione del fallimento e quindi da questo non dipendenti (Cass. 26 agosto 2004, n. 17057; Cass. 15 settembre, 1997 n. 9156). Mette conto, poi, segnalare che, peraltro, la Cassazione esclude dalla vis attractiva anche l’azione di risoluzione del contratto. Per la precisione, è stato affermato che “con riguardo alla controversia instaurata dal locatore nei confronti della curatela del fallimento del conduttore per denunziare l’inadempienza di detta curatela, subentrata nel rapporto locatizio, ed ottenere la risoluzione del rapporto, nonché la condanna della convenuta al risarcimento dei danni, la competenza funzionale e inderogabile del tribunale fallimentare dev’essere affermata limitatamente alla domanda risarcitoria che ha ad oggetto un credito verso la massa, mentre la domanda principale di risoluzione del contatto di locazione per inadempimento resta disciplinata dalle ordinarie regole di competenza, in quanto esula dalle previsioni dell’art. 24 l.fall” (Cass. 25 luglio 1997, n. 6976); inoltre, in caso di contratto (segnatamente di affitto di azienda) stipulato dalla curatela fallimentare, l’azione di risoluzione proposta dal curatore soggiace alle ordinarie regole di competenza, trattandosi di “una ordinaria e tipica azione incidente ordinariamente su un rapporto instaurato dalla curatela secondo il diritto comune” (Cass. 8 giugno 2005, n. 12004). 47 In dottrina, mentre è ampiamente diffusa la convinzione che il comma 1 dell’art. 43 l.fall. (art. 143, comma 1, CCII) sia applicabile all’arbitrato rituale (tra gli altri, Castagnola, Arbitrato pendente, cit., 170 ss.; Cerrato, op. cit., 87; Sotgiu, op. cit., 474; F. De Santis, Sull’opponibilità, cit., 361), più dibattuta appare la questione circa l’applicabilità in sede arbitrale del comma 3 del citato art. 43, in tema di interruzione del processo a cagione dell’apertura del fallimento (in parte qua l’art. 143, comma 3, CCII, aggiunge che “il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice”). All’opinione favorevole (cfr., tra gli altri, Castagnola, op. cit., 372 ss.; F. De Santis, op. cit., 361-362) si contrappone la tesi che propugna l’applicazione dell’art. 816 sexies c.p.c. (tra gli altri, Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 15; Apice, op. cit., par. 5; Cerrato, op. cit., 88). Al di là di tale aspetto, ricordiamo, come indicato retro (nota 39), che una parte della dottrina ritiene che il patto arbitrale, concluso dall’imprenditore in bonis, vincoli il curatore quando questi voglia far valere contro un terzo un diritto che rinviene nel patrimonio del fallito, quantunque il patto acceda a un contratto che abbia già esaurito i propri effetti oppure sia ancora pendente ex art. 72 legge fall. al momento della dichiarazione di fallimento, ma dal quale il curatore si sia sciolto (amplius, Baccaglini, 67 ss., spec. 82). 48 Bettazzi, Azioni che derivano dal fallimento, in ilfallimentarista.it. 49 In tema v. Bettazzi, op. loc. cit., il quale rileva anche che tra le azioni di ricostituzione del patrimonio del fallito che devono ritenersi derivanti dal fallimento, ancorché riguardanti atti compiuti dopo la sentenza dichiarativa, vanno annoverate le azioni di inefficacia ex art. 44 l.fall. (ora art. 144 CCII); Groppoli, op. cit., par. 2.

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recupero di beni di cui risulti fittiziamente titolare il fallito, sia in relazione al caso in cui venga esperita dal curatore in ordine a un contratto stipulato dall’imprenditore in bonis50. Ancora, generalmente si ritiene che siano attratte alla competenza del tribunale fallimentare le azioni di responsabilità ex art. 146 l.fall (si veda ora la diversa formulazione dell’art. 255 CCII), le azioni di responsabilità degli organi della procedura, nonché quelle riguardanti il potere del curatore di sciogliersi o meno dal contratto ex art. 72 l.fall. (art. 172 CCII) o relative a pretese conseguenziali allo scioglimento stesso51. Posto ciò, sul fronte dell’arbitrabilità, riteniamo che si confermi l’idea di partenza, e cioè che la regola, la quale fissa la competenza inderogabile del tribunale della liquidazione giudiziale rispetto alle azioni de quibus, non valga a far venir meno la compromettibilità in arbitrato delle controversie relative alle stesse. Infatti, in linea di massima, si tratta di azioni ordinarie, relative a diritti di per sé disponibili, che vengono decise attraverso le dinamiche della cognizione piena e secondo la logica della tutela dichiarativa52.

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Cass. 10 agosto 1988, n. 4909; Cass. 2 agosto 2002, n. 11637; Cass. 8 agosto 2007, n. 17388. In tema v. amplius Groppoli, op. cit., par. 2.; v. anche Pagni, Le azioni di massa e la sostituzione del curatore ai creditori, in Fall., 2007, 1037 ss. 51 V., ancora, Bettazzi op. loc. cit.; Groppoli, op. loc. cit. In tema di azione di responsabilità ex art. 146 l.fall., Trib. Roma 9 dicembre 2019, in www.ilcaso.it, ha affermato che l’azione di responsabilità esercitata dal curatore nei confronti degli amministratori della società fallita cumula in sé l’azione sociale di responsabilità e quella dei creditori sociali; onde, in ragione della natura inscindibile delle due azioni, va esclusa l’operatività nei confronti del curatore della clausola compromissoria inserita nello statuto della società che demandi agli arbitri tutte le controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti, posto che il perimetro operativo di detta clausola non può comprendere l’azione che spetta ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c 52 In dottrina l’affermazione più ricorrente, nel senso dell’arbitrabilità, riguarda, in particolare, le azioni revocatorie, ma sovente l’assunto è esteso ad altre azioni (cfr., ex multis, Bove, Arbitrato e fallimento, cit., 302; Id., Convenzione arbitrale, cit., 218; Cerrato, op. cit., 75; Frascaroli Santi, op. cit. 376, la quale vi annette anche la simulazione; Canale, op. cit., 24; Groppoli, op. cit., par. 2, la quale annovera le “azioni di simulazione, azioni finalizzate ad ottenere crediti o altre prestazioni che il curatore rinviene nel patrimonio del fallito e che possono discendere anche dal subentro del curatore in negozi stipulati dal debitore anteriormente al fallimento, o derivare dalla conclusione da parte del curatore stesso di contratti con terzi”; Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 4; v. anche Rossi, op. cit., 157-158). In relazione a tale affermazione viene peraltro fatto di confermare – se mai ve ne fosse bisogno – la piena idoneità dell’arbitrato a dispensare tutela costitutiva (sul punto, sia consentito rinviare ancora una volta Campione, op. cit., cap. III, par. 10). Peraltro, a nostro avviso, una precisazione – in senso ostativo all’arbitrabilità – deve essere formulata in ordine alle controversie derivanti dallo scioglimento dal contratto da parte del curatore e a quelle che si correlano all’inefficacia degli atti a titolo gratuito di cui all’artt. 64 l.fall. e 163 CCII. Quanto al primo aspetto, preme puntualizzare che sia la legge fallimentare, sia il CCII – cfr., rispettivamente, artt. 36 e 26 e artt. 133 e 124 –, per contestare l’operato del curatore predispongono appositi mezzi di controllo (su cui ci soffermeremo a breve nel testo), trattandosi di attività interna alla procedura concorsuale; sicché tali meccanismi escludono che la contestazione avverso le determinazioni del curatore in ordine al subentro o meno nel contratto possa essere oggetto di arbitrato (v. Cerrato, op. cit., 84 cfr. anche F. De Santis, Sull’opponibilità, cit., 364). Del resto, secondo un orientamento della Cassazione, il provvedimento con il quale il tribunale fallimentare respinge il reclamo avverso l’atto con cui il curatore ha esercitato, ai sensi dell’art. 72 l.fall., la facoltà di scioglimento dal contratto pendente, non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, ma rientra tra i provvedimenti che attengono all’esercizio della funzione di controllo circa l’utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito (cfr. Cass. 1° giugno 2012, 8870; v. anche Cass. 9 maggio 2018, n. 11217). Si tenga però conto dello scenario che può configurarsi in caso, ad esempio, di contratto preliminare di vendita: in merito all’azione ex art. 2932 c.c. proposta dal promissario acquirente, le Sezioni unite – Cass., Sez. un., 16 settembre 2015, n. 18131 – hanno affermato che la trascrizione della domanda diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, avvenuta prima della iscrizione della sentenza dichiarativa di fallimento del promittente venditore nel registro delle imprese, non impedisce al curatore – nei cui confronti è proseguito il giudizio – di esercitare il potere di sciogliersi dal contratto preliminare ai sensi dell’art. 72 l.fall.; tuttavia, a norma dell’art. 2652, n. 2, c.c., lo scioglimento non è opponibile nei confronti del promissario acquirente qualora la domanda ex art. 2932 c.c. venga accolta e la sentenza venga parimenti trascritta. Nei limiti della fattispecie descritta è dunque astrattamente immaginabile il caso in cui l’esercizio del recesso da parte del curatore venga dedotto dinanzi all’arbitro, nel senso che quanto affermato dalla S.C. può valere anche laddove l’azione ex art. 2932 sia proposta (e proseguita) in sede arbitrale [ricordiamo che agli effetti della trascrizione (e non solo) la domanda di arbitrato è equiparata alla domanda giudiziale]; onde – parafrasando le parole

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Non va poi trascurata la possibilità che la via arbitrale si renda percorribile per controversie concernenti diritti sorti dopo l’apertura della procedura concorsuale; qui può intervenire una scelta consapevole del curatore, il quale – ovviamente d’accordo con la controparte – può stipulare un compromesso, oppure, più realisticamente, una clausola compromissoria, ad esempio all’interno di un contratto concluso nel contesto dell’esercizio provvisorio dell’impresa (art. 104 l.fall e art. 211 CCII)53. Discorso diverso deve essere formulato in caso di rapporti preesistenti al fallimento che abbiano dato origine a crediti e pretese di terzi nei confronti del fallito; in questo caso l’apertura della liquidazione giudiziale determina l’impossibilità, per il curatore, di compromettere in arbitri o di avviare (ovvero proseguire)54 l’arbitrato, proprio perché – sulla base dei concetti elaborati nel precedente paragrafo – il sistema concorsuale viene a creare una dimensione di non arbitrabilità55. La questione richiede di essere precisata.

delle Sezioni unite – l’arbitro può senz’altro accogliere la domanda pur a fronte della scelta del curatore di recedere dal contratto, con un lodo che, se trascritto, retroagisce alla trascrizione della domanda stessa e sottrae, in modo opponibile al curatore, il bene dalla massa attiva del fallimento. Casomai in parte qua si pone il problema, di più ampia portata, della proseguibilità in sede arbitrale di un’azione costitutiva nei confronti della liquidazione giudiziale (v. infra par. 6). In ogni caso, mette conto segnalare che il principio enunciato dalle Sezioni unite del 2015 è stato recepito dal CCII (art. 173, comma 1). In merito, invece, agli atti a titolo gratuito, l’art. 163 CCII, dopo aver disposto, al comma 1, l’inefficacia, rispetto ai creditori, degli atti de quibus – salve le esclusioni ivi enucleate – compiuti dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale o nei due anni anteriori, al comma 2 stabilisce che “i beni oggetto degli atti di cui al comma 1 sono acquisiti al patrimonio della liquidazione giudiziale mediante trascrizione della sentenza che ha dichiarato l’apertura della procedura concorsuale. Nel caso di cui al presente articolo ogni interessato può proporre reclamo avverso la trascrizione a norma dell’articolo 133”. Tale norma conferma una tendenza mostrata dal legislatore con la novella del 2015 (d.l. 27 giugno 2015 n. 83, conv. con modif. in l. 6 agosto 2015 n. 132), con la quale, da un lato, è stato introdotto nel codice civile l’art. 2929 bis, dall’altro lato, è stato modificato – in un senso analogo all’attuale previsione del CCII – l’art. 64 l.fall. In breve, per quanto qui interessa, con la nuova disposizione del codice civile, il legislatore – per gli atti del debitore di costituzione di un vincolo di indisponibilità o di alienazione, aventi a oggetto beni immobili o mobili registrati, compiuti a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito – ha predisposto un regime in virtù del quale il creditore è esentato dal previo esperimento dell’azione revocatoria, potendo egli procedere – se munito di titolo esecutivo (e in presenza degli altri presupposti indicati dalla norma) – direttamente a esecuzione forzata, salva la possibilità per il debitore o per il terzo esecutato (ovvero ogni altro interessato alla conservazione del vincolo) di aprire, tramite l’opposizione all’esecuzione, la sede cognitiva ove accertare la sussistenza dei presupposti dell’iniziativa del creditore. Ora, se questo medesimo schema fosse stato riprodotto nella sede concorsuale, il riscontro positivo circa l’arbitrabilità della controversia si sarebbe dato se e nella misura in cui si aderisse all’idea che l’opposizione all’esecuzione è compromettibile; sennonché, come l’art. 64 l.fall (per come modificato nel 2015) prevede il reclamo ai sensi dell’art. 36 l.fall, così l’art. 163 CCII rinvia al reclamo ex art. 133 CCII, e cioè a uno strumento di controllo nei confronti degli atti e delle omissioni del curatore che, come abbiamo indicato poco sopra e come diremo anche a breve nel testo, mal si concilia con la prospettiva dell’arbitrato [in dottrina, sull’art. 2929 bis c.c. v., tra gli altri, Bove, Profili processuali dell’art. 2929-bis c.c., in Riv. esec. forz., 2016, 157 ss.; più in generale, sulla disciplina della inefficacia degli atti a titolo gratuito anche in sede concorsuale v. Cecchella, Il diritto della crisi, 261 ss., il quale, tra gli altri profili di disallineamento tra art. 2929 bis c.c. e art. 163 CCII, giustamente rileva che la scelta di inquadrare l’opposizione all’azione esecutiva del curatore, non già nell’ambito di un’azione ordinaria, ma nella cornice di un reclamo soggetto al rito camerale puro, è stata poco meditata da parte del legislatore, posto che tale sede processuale appare alquanto “stretta” per poter regolare una controversia come quella promossa con l’esercizio di un’azione revocatoria]. 53 Bove, op. ult. cit., 302; Nitrola, op. cit., 757; Canale, L’arbitrato, cit., 24; Frascaroli Santi, op. cit., 368, che richiama anche la redazione del programma di liquidazione ex art. 104 ter l.fall (si veda ora l’art. 213 CCII), il quale può riguardare la stipulazione di contratti di locazione, di affitto di azienda o di rami della stessa, i cui conflitti possono essere devoluti alla sede arbitrale; spunti anche in Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 4. Per approfondimenti sulla disciplina in parte qua dettata dal nuovo codice v. Cecchella, op. ult. cit., 380 ss. 54 Ma anticipiamo sin da ora che, in parte qua, la situazione si complica laddove nel giudizio arbitrale – instaurato prima dell’apertura della procedura concorsuale – nei confronti del debitore, oltre alla pretesa creditoria o restitutoria, sia stata proposta una domanda pregiudiziale rispetto alla pretesa de qua (v. infra par. 6). 55 In giurisprudenza, tra le pronunce più recenti, cfr. ad es. Cass. 24 giugno 2015, n. 13089, in Fall., 2016, 316 ss., con nota di Groppoli,

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Per quanto rileva in questa sede, la legge fallimentare (artt. 51, 52 e 92 ss.) e il codice della crisi (artt. 150, 151 e 200 ss.) contemplano il c.d. principio di esclusività dell’accertamento del passivo56. In particolare: l’art. 150 CCII (art. 51 l.fall.) dispone che “salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura”; l’art. 151 CCII (art. 52 l.fall.) stabilisce che la liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e che ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo III del medesimo titolo (salvo diverse disposizioni della legge). Sicché il canale processuale da attivare è quello predisposto agli artt. 200 ss. CCII (artt. 92 ss. l.fall.) per l’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale. In breve, quanto disposto, in particolare, dai citati artt. 52 l.fall. e 151 CCII, evoca il c.d. principio di esclusività dell’accertamento del passivo, mentre gli artt. 92 ss. l.fall e 200 ss. CCII (specialmente gli artt. 93 l.fall e 201 CCII57) descrivono le modalità e le forme processuali contemplate per far valere le ragioni di credito concorsuali, ossia formatesi prima della dichiarazione di fallimento58 o dell’apertura della liquidazione giudiziale; il comma 1 dell’art. 52 l.fall. e il comma 1 dell’art. 151 CCII individuano il principio della cristallizzazione del passivo, per il quale il concorso formale è circoscritto ai crediti sorti prima dell’apertura della procedura liquidatoria59. Il giudizio di accertamento del passivo ha un oggetto tipico, predeterminato dalla legge. Infatti, il giudice in tale contesto è chiamato a decidere, in via esclusiva, sui crediti dei terzi al pagamento di una somma di denaro nei confronti della procedura e sui diritti dei terzi, reali o personali, di restituzione o di rivendicazione di beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del debitore60. Per la precisione, secondo l’impostazione prevalente, nell’ac-

“Indisponibilità” dell’accertamento del passivo: riflessi sull’arbitrato. In altri ordinamenti la soluzione appare meno rigida: cfr. CorapiBenincasa, Considerazioni comparatistiche sui limiti dell’arbitrabilità del fallimento, in Riv. arb., 2016, 249 ss., spec. 261 ss. con riferimento al sistema francese. 56 Su cui, con riferimento alla riforma, v., tra gli altri, Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 1203 ss.; Fabiani, Gli effetti della liquidazione giudiziale sul debitore e sui creditori, in Fall., 2019, 1161 ss., par. 4. 57 Una novità degna di nota (art. 201, comma 1 CCII) è costituita dalla necessità che anche il creditore ipotecario sui beni compresi nella liquidazione a garanzia di un debito altrui debba insinuare al passivo il proprio credito, in contrasto con la giurisprudenza che, nel regime della legge fallimentare, escludeva in tal caso l’ammissione della domanda nel procedimento di verificazione [cfr. Cass. 9 febbraio 2016 n. 2540; in tema v., tra gli altri, Cecchella, op. ult. cit., 311 ss.; Montanari, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: profili generali e processuali, in Riv. dir. proc., 2020, 270 ss., par. 14, nota 78; Saletti, La tutela giurisdizionale nella liquidazione giudiziale, in Dir. fall. soc. comm., 2018, 635 ss.; Fabiani, Gli effetti, cit., par. 4]. 58 Per spunti in tal senso cfr., per tutti, M. Fabiani, Diritto fallimentare, Bologna, 2011, 383. 59 Cfr., tra gli altri, Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Gabrielli, Luiso e Vassalli, II, Torino, 2014, 420 e note ivi riportate per ulteriori richiami; Vassalli, Diritto fallimentare, II, Torino, 1997, 131 ss.; Ruisi (con aggiornamento a cura di Censoni), in Il Fallimento (Giurisprudenza sistematica civile e commerciale), a cura di Maffei Alberti, Jorio, Ruisi e Tedeschi, Torino, 1978, 498 ss.; Fabiani, L’azione revocatoria ordinaria nella liquidazione giudiziale, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1420 ss., par. 7. Nella giurisprudenza più recente v. Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416. 60 Cfr. Menchini-Motto, op. cit., 376.

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certamento del passivo l’oggetto, in via diretta, del giudizio non è il diritto di credito in sé dei concorrenti, ma il diritto dei creditori di partecipare al concorso, cioè di concorrere alla distribuzione del ricavato dell’attivo della procedura61 o, come precisato da altra dottrina, il diritto di credito nella sua “porzione concorsuale”62. I provvedimenti emessi all’esito di tale processo – di natura camerale e nell’ambito del quale non è prevista la partecipazione del debitore, se non nei limiti di cui all’art. 95, commi 2 e 4 (art. 203, commi 2 e 4, CCII) – producono effetti soltanto ai fini del concorso, non dispiegando alcun effetto al di fuori di tale ambito (cfr. art. 96, u.c., l.fall.); peraltro, tale regola nel nuovo codice è confermata ma “limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui”63. Inoltre, il provvedimento con il quale il giudice accoglie la domanda di ammissione al passivo ha l’efficacia di un titolo esecutivo sui generis, posto che legittima quel creditore a beneficiare dei risultati della liquidazione fallimentare64.

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Cfr. Menchini-Motto, op. cit., passim; Trentini, La Cassazione e l’eccezione di carenza di data certa, in Fall., 2005, 883; sull’oggetto dell’accertamento del passivo v. anche, tra gli altri, Guglielmucci, Lezioni di diritto fallimentare, Torino, 2003, 223; Bozza-Schiavon, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Milano, 1992, 4; v. anche Bove, op. ult. cit., 300, nota 16. Anche alla luce del nuovo codice si tende a ritenere che l’oggetto della decisione nel procedimento di verifica sia il diritto al concorso (cfr. Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, in Il diritto degli affari, 2/2019, 7; discorre di “diritto di partecipare alla ripartizione dei proventi della liquidazione” Cecchella, op. ult. cit., 248). 62 Fabiani, Diritto fallimentare, Bologna, 2011, 391 ss. Peraltro, alla luce della previsione dell’art. 204, comma 5, CCII (su cui v. infra nel testo e nota successiva), una parte della dottrina ha ipotizzato che, con riguardo ai diritti reali e personali dei terzi, l’oggetto del giudizio sia il diritto sostanziale del terzo (Zulberti, Novità, cit., 12, il quale inoltre prospetta un’ulteriore lettura, e cioè che “in base alle previsioni del nuovo codice le domande in parola abbiano un doppio oggetto: un oggetto processuale, relativo alla legittimità dell’esecuzione concorsuale sui beni rivendicati o di cui si chiede la restituzione e il diritto sostanziale del terzo, che deve parimenti essere fatto oggetto di decisione, attraverso quello che potrebbe dirsi essere un accertamento incidentale ex lege”). Sul punto, vale la pena ricordare che già nel vigore della disciplina dettata dalla legge fallimentare la dottrina si è posta il problema dell’individuazione dell’oggetto del processo in caso di domande di rivendica e di restituzione, ravvisando l’anomalia di un’efficacia solo infraconcorsuale rispetto al riconoscimento di tali pretese. In tale contesto, si è proposto di leggere il disposto dell’u.c. dell’art. 96 l.fall. in maniera articolata: in caso di rigetto della domanda e quindi di vendita del bene in sede concorsuale, la predetta regola rappresenta la trasposizione in sede fallimentare dell’art. 2919 c.c. (la vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione), onde se il fallito non era proprietario l’aggiudicatario non acquista alcunché; in caso, invece, di accoglimento, il diritto (reale o personale) viene riconosciuto al terzo, ma solo nei confronti dei creditori, i quali non possono così soddisfarsi sul bene, mentre rispetto al fallito la decisione non diviene immutabile, nel senso che questi potrà rispetto ad essa far valere i suoi diritti alla stregua dell’opposizione di terzo ordinaria (così Fabiani, op. ult. cit., 393-394). 63 Questo è quanto disposto dall’art. 204, comma 5, il quale sostanzialmente conferma l’efficacia endoconcorsuale del decreto (così come delle decisioni pronunciate in sede di contestazione di tale provvedimento) ma con la limitazione indicata nel testo. Sul punto va osservato che, da un lato, la legge delega intendeva «assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari» (art. 7, 8° comma, lett. d), l. n. 155/2017), al fine di «meglio salvaguardare l’esigenza di certezza dei terzi»; dall’altro lato, la Relazione illustrativa del codice afferma che «l’efficacia meramente endoconcorsuale del decreto che rende esecutivo lo stato passivo e delle decisioni assunte dal tribunale all’esito delle impugnazioni sia limitata all’accertamento dei crediti mentre hanno efficacia di giudicato le decisioni sulle domande di rivendica o restituzione». In dottrina sono già state formulate critiche a tale previsione, anche sul piano della costituzionalità, in specie con riferimento alla carenza di tutele difensive per il debitore, la cui persona, inoltre, non è ricompresa tra i soggetti legittimati all’impugnazione o alla revocazione [cfr. ad esempio Bozza, L’accertamento del passivo, cit., par. 1; Cecchella, op. ult. cit., 322-323; Saletti, op. cit., 635 ss.; Zulberti, op. cit., 12; Villa, La nuova liquidazione giudiziale: effetti per i creditori e accertamento del passivo, in ildirittodegliaffari.it, 12 aprile 2019, 16 ss., secondo il quale l’efficacia extraconcorsuale non può valere nei confronti del debitore, ma casomai verso i terzi “e, in particolare, l’aggiudicatario del bene in caso di (mancata sospensione della liquidazione e) vendita forzata”]. 64 Cfr. Fabiani, Diritto fallimentare, cit., 384.

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Il principio di esclusività65 comporta che il terzo, ove voglia vedere soddisfatte le sopra descritte pretese all’interno della procedura concorsuale, ricorra unicamente al canale del procedimento di verificazione dei crediti; donde l’inammissibilità della richiesta di tutela in sede ordinaria di uno di tali diritti contro il curatore66 67. La descrizione dei tratti essenziali del giudizio di verificazione dei crediti, consente di delineare un procedimento bensì contenzioso ma caratterizzato da forme semplificate e da una cognizione sommaria, che sfocia in un provvedimento i cui effetti sono circoscritti al concorso68; tale conformazione processuale – improntata alla salvaguardia della par condicio creditorum e finalizzata all’attuazione del concorso – mostra con tutta evidenza che i diritti dei creditori e dei terzi, affinché possano essere fatti valere nei confronti del curatore, non possono trovare tutela in sede arbitrale, posto che è preclusa la percorribilità anche della tutela giurisdizionale in sede ordinaria69.

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Che peraltro subisce alcune deroghe, come ammette lo stesso art. 52, comma 2°, l.fall (per approfondimenti si v., per tutti, Fabiani, Diritto fallimentare, cit., 385; Menchini-Motto, op. cit., 386 ss.); come indicato nel testo, anche l’art. 151, comma 2, CCII fa salve diverse disposizioni di legge. 66 Cfr. Menchini-Motto, op. cit., 384, e nt. 17 e 18 per ulteriori richiami, anche di giurisprudenza. Se, invece, prima della dichiarazione di fallimento, il terzo aveva già proposto la domanda per la tutela di uno di tali diritti, ai sensi dell’art. 43 l.fall. con l’apertura del fallimento il processo si interrompe; il terzo non può riassumere il giudizio nei confronti del curatore, ma deve proporre la domanda nel procedimento di accertamento del passivo [ma per una riflessione in senso contrario v. G.F. Ricci, Accertamento del passivo nel fallimento ed errori duri a morire, in Dir. fall., 2014, 493 ss., spec. par. 6, secondo il quale “ove l’accertamento del diritto proposto in via ordinaria prosegua in tale forma dopo la dichiarazione di fallimento (ovviamente previa riassunzione del giudizio nei confronti del curatore, in conseguenza dell’art. 43 legge fallim.) (…) tale accertamento non è di per sé invalido né del tutto ininfluente ai fini dell’inserimento della posizione dell’avente diritto allo stato passivo. Il fatto che sia inopponibile al passivo non è un problema, perché l’ostacolo si supera considerando che l’avente diritto potrebbe proporre ugualmente la domanda di ammissione con riserva ai sensi del n. 1 dell’art. 96 legge fallim., sul presupposto che il diritto è sub condicione data appunto dal futuro esito dell’accertamento in via ordinaria. In sostanza l’esito dell’accertamento che sia stato proposto in via ordinaria, si pone come una condizione sospensiva del diritto ai fini della domanda di ammissione al passivo (…)]. La disciplina dettata dall’art. 43 l.fall. nel CCII è contemplata all’art. 143 (sul punto v. Fabiani, Gli effetti, cit., par. 3). 67 Peraltro, ci sembra che, in parte qua, sia riproducibile quanto rilevato a proposito del fatto che l’art. 52, comma 2°, l.fall., nulla dica circa ciò che il terzo possa fare al di fuori del fallimento. In altri termini, si è detto che non è lecito ricavare da tale norma un divieto rispetto a processi di cognizione nei confronti del debitore, sicché questi processi possono essere instaurati o, se già pendenti, proseguiti, ove emerga un interesse dell’attore a ottenere una sentenza da opporre al fallito una volta tornato in bonis. In questo senso, cfr., ex multis, Bonsignori, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, IX, Padova, 1986, 610-611; Cavalaglio, Fallimento e giudizi pendenti, Padova, 1975, 195; E.F. Ricci, Efficacia ed oggetto delle sentenze sulle opposizioni e sulle impugnazioni nella formazione del passivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 1992, 1092 ss. In senso contrario v. però, tra gli altri, Lanfranchi, Fallimento e giudizi pendenti, in Dir. fall., 1993, 479 ss.; Montanari, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, I, Padova, 1991, 33 ss., 241 ss.; nei casi testé delineati legittimato passivo è il debitore. Sul punto, v. amplius Menchini-Motto, op. cit., 385 ss. e nt. 23. Secondo la giurisprudenza “la intenzione del creditore di perseguire il fallito solo al suo rientro in bonis e quindi di non avanzare richiesta di sorta nei confronti del fallimento, deve essere chiaramente ed inequivocabilmente espressa a pena di improcedibilità del giudizio” (Cass. 5 marzo 1990, n. 1729). Mutatis mutandis, in dottrina si ritiene che sia possibile lo svolgimento di un arbitrato per l’accertamento di una pretesa nei confronti del debitore, con un lodo inopponibile al curatore ma opponibile al debitore stesso una volta che sia tornato in bonis (v., tra gli altri, Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 3; Bove, op. ult. cit., 301, nota 18; in tema v. anche Carratta, Arbitrato rituale su credito e interferenze con la verificazione del passivo, in Riv. arb., 1998, 102 ss.; Canale, op. ult. cit., 22; v. più di recente, con copiosi richiami di giurisprudenza, Cerrato, op. cit., 73 e nota 19). 68 Menchini-Motto, op. cit., 377; Pagni, L’accertamento del passivo nella riforma della legge fallimentare, in Foro it., 2006, V, c. 188 ss. 69 Ovviamente il discorso vale anche per le impugnazioni (art. 98 l.fall. e 206 CCII), così come per le domande tardive (art. 101 l.fall e art. 208 CCII) e per il procedimento di riparto dell’attivo (art. 110 l.fall. e art. 220 CCII). L’idea della non arbitrabilità delle controversie relative all’accertamento del passivo è pacifica: cfr., tra gli altri, sia pur con argomentazioni non sempre coincidenti, Bove, op. cit., 298 ss., spec. 300-301; Canale, op. cit., 22 ss.; Castagnola, Arbitrato pendente, cit., 170; Cerrato, op. cit., 72; Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 3; Baccaglini, Fallimento e arbitrato, cit., 16 ss.; Groppoli, Sulla potestas iudicandi, cit., 134 ss.; Id., “Indisponibilità”, cit.,

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Da questo punto di vista, riteniamo che lo scenario non muti a seguito della modifica di cui all’art. 204, comma 5, CCII: benché il nuovo codice attribuisca l’efficacia del giudicato “esterno” al decreto che decide sulle domande di rivendica e restituzione di beni mobili e immobili, resta il fatto che l’efficacia meramente endoconcorsuale permane per i crediti (oltre che per i diritti di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui); così come permangono, più in generale, la specialità del rito (in uno con la sommarietà della cognizione70), la mancanza del contraddittorio del debitore (se non nei limiti sopra richiamati) e l’esigenza di garantire la partecipazione dei creditori e dei terzi e di far confluire nella verifica concorsuale tutte le pretese, aventi a oggetto somme di denaro oppure attinenti a un diritto personale o reale; sicché non è revocabile in dubbio che il procedimento ex artt. 92 ss. l.fall. e 200 ss. CCII dia luogo a un giudizio speciale ed esclusivo, nel senso di escludere, con esiti spendibili contro la curatela, le ordinarie vie della tutela dichiarativa (giurisdizionale o arbitrale). Va poi esclusa l’arbitrabilità dei procedimenti endoconcorsuali finalizzati al controllo degli atti degli organi della procedura, come ed esempio i reclami disciplinati dagli artt. 26 e 36 l.fall. (si vedano ora gli artt. 124, 133 e 141 CCII), rispetto ai quali emerge un’attività sovente non decisoria, tant’è che i reclami de quibus sono attuati mediante procedimenti speciali aventi natura camerale71. Infine, appare piuttosto evidente la non compromettibilità della dichiarazione di apertura del fallimento/liquidazione giudiziale (così come dell’appendice impugnatoria); al di là dell’esatta individuazione dell’oggetto specifico del relativo processo72, in tal caso l’attività giurisdizionale – pure esercitata in forme speciali camerali – interviene su una situazione indisponibile, posto che l’esito al quale giunge il provvedimento giudiziale non può essere conseguito in via negoziale, trattandosi di un’azione costitutiva necessaria73.

316 ss.; Frascaroli Santi, op. cit., 375-376; Ghignone, op. cit., 315; Rossi, op. cit., 157; Bonsignori, op. cit., 55 ss.; Berlinguer, op. cit., II, 112, 168; Lipponi, Ancora su arbitrato e fallimento, in Riv. arb., 2004, 705 ss. nota 7. In giurisprudenza, v., ex multis, Cass., Sez. un., 6 giugno 2003, n. 9070, in Corr. Giur., 2004, 320 ss., con nota di Montanari, Fallimento e giudizio arbitrale su crediti nella prospettiva della concezione negoziale dell’arbitrato rituale; Cass. n. 13089/2015, cit.; Cass.,ì 17 febbraio 2011, n. 3918; Cass. 4 settembre 2004 n. 17891, in Dir. fall., 2005, 3 ss., con nota di Tizi, Fallimento e giudizi arbitrali pendenti su crediti; e in Fall., 2005, 623 ss., con nota di Tiscini, Effetti del fallimento sul procedimento arbitrale pendente, la quale, condivisibilmente, osserva che affermare – come fa la giurisprudenza – che l’inderogabilità del procedimento di verifica dei crediti è suffragata dalle finalità pubblicistiche dell’accertamento dello stato passivo, ciò scontrandosi con la natura privata dell’arbitrato, non sposta di molto i termini del problema, posto che dinanzi alla verifica del passivo cede il passo anche qualunque procedimento giurisdizionale che non segua le forme, per l’appunto, del giudizio di verifica (in parte qua, mette conto precisare che la pronuncia di legittimità commentata è intervenuta in un periodo storico in cui in giurisprudenza si era assestata, a seguito di Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, 527, l’idea della natura negoziale (anche) dell’arbitrato rituale; in tema sia consentito rinviare, anche per riferimenti, a Campione, op. cit., cap. I). 70 Cfr. Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi, cit., par. 6. 71 In tema v. Groppoli, op. ult. cit., par. 1; Zucconi, op. ult. cit., 4; Vincre, Fallimento e arbitrato rituale (premesse per uno studio), in Riv. dir. proc., 1995, 741 ss.; nel vigore del nuovo codice cfr. Canale, op. ult. cit., 23; più in generale, sulla non arbitrabilità di tutte le controversie aventi ad oggetto le impugnative di atti del procedimento, v. E.F. Ricci, Lezioni sul fallimento, cit., 331. Amplius, per ogni più ampio approfondimento sui procedimenti in questione, v. Cecchella, op. ult. cit., 354 ss., 367 ss. V. anche quanto rilevato retro, nota 52. 72 Su cui v. Fabiani, L’oggetto del processo per dichiarazione di fallimento, in Riv. dir. proc., 2010, 766 ss. 73 Fabiani, op. ult. cit., par. 3; Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2015, 201; Bove, op. ult. cit., 299-300, nota 15. Con tale espressione s’intende quella tipologia di azioni – per l’appunto – costitutive che tendono a un risultato conseguibile esclusivamente per via giurisdizionale [in tema, tra gli altri, Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., VII, Torino, 1991, par. 22; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 181 ss.; Fornaciari, Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino,

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Liquidazione giudiziale e controversie arbitrabili

6. L’arbitrabilità dell’azione revocatoria del curatore contro altra procedura concorsuale.

Il riconoscimento, d’accordo con l’opinione assolutamente prevalente, della possibilità, per il curatore, di esercitare in sede arbitrale l’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare), stimola la curiosità di valutare se siffatta azione – sempre in via arbitrale – sia proponibile anche nei confronti di un’altra procedura concorsuale. Peraltro, con riferimento all’esperibilità della revocatoria tra fallimenti in sede giurisdizionale, il problema è stato affrontato e risolto, in senso negativo, con la sentenza n. 30416 del 2018 delle Sezioni unite74, e chi scrive ha già avuto modo di occuparsi della questione, proponendo una soluzione diversa da quella fatta propria dal Supremo Collegio75. D’altronde, l’occasione per tornare sull’argomento, sia pure nella prospettiva dell’arbitrato, è data dal fatto che, non molto tempo dopo la pubblicazione della sentenza n. 30416 del 2018, la sezione I della Suprema Corte, con ordinanza del 23 luglio 2019 n. 19881, ha manifestato il proposito di stimolare nuovamente l’intervento delle Sezioni unite. Per l’esattezza, il nuovo intervento nomofilattico è stato invocato affinché venga ammessa la possibilità, anche per il curatore della procedura di liquidazione giudiziale, di proporre l’azione revocatoria – in sede giurisdizionale – avverso altra procedura concorsuale76; sen-

1999, 161 ss.; Motto, Azione costitutiva (dir. proc. civ.), in Enc. Giur. Treccani, Il diritto on line, 2013, par. 2, il quale osserva che la distinzione de qua rispecchia il carattere disponibile o indisponibile del rapporto giuridico sottoposto a modificazione in base alle norme di diritto sostanziale che lo disciplinano]. Più in generale, sia pur con argomentazioni non sempre coincidenti, evidenziano il carattere indisponibile della materia trattata nell’ambito della procedura di apertura del fallimento o della liquidazione giudiziale, tra gli altri, Canale, op. ult. cit., 22; Castagnola, Arbitrato e fallimento, in L’arbitrato: fondamenti e tecnica, 2006, in www.camerarbitrale. com; Frascaroli Santi, op. cit., 374-375; Groppoli, op. ult. cit., par 1. 74 La cui soluzione, più di recente, non senza risvolti critici, ha trovato nella sostanza l’avallo di autorevole dottrina: cfr. Fabiani, Il caso della revocatoria tra fallimenti, in Riv. dir. proc., 2020, 367 ss. 75 V., in particolare, se vuoi, Campione, Revocatoria fallimentare e pretese restitutorie contro un altro fallimento: problemi e prospettive processuali, in Dir. fall. soc. comm., 2019, 750 ss., laddove, in particolare, a proposito del principio di cristallizzazione della massa passiva (invocato dalle Sezioni unite), abbiamo cercato di dimostrare come, invero, la legge fallimentare contempli diverse eccezioni al principio generale enunciato dall’art. 52 (che infatti fa salva una diversa previsione di legge, come del resto il nuovo art. 151 CCII), e in giurisprudenza sia ormai evidente la tendenza ad ampliare la portata di tali eccezioni, sicché l’ordinamento concorsuale prevede non poche ipotesi in virtù delle quali sono ammessi al concorso diritti di credito tecnicamente non ancora sorti al momento della dichiarazione di fallimento; e abbiamo altresì fatto presente che, nel caso dell’azione revocatoria esperita contro altra procedura concorsuale, la pretesa che discende dall’accoglimento della domanda ha titolo in fatti anteriori al fallimento (convenuto) e che, inoltre, a nostro avviso, la natura costitutiva dell’azione – ribadita dalle Sezioni unite – non comporta la irretroattività della sentenza di accoglimento, onde la modificazione giuridica attuata dall’accoglimento della domanda ha efficacia retroattiva tra le parti, risalente alla data dell’atto, dunque a un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento. Inoltre, abbiamo anche osservato che la soluzione proposta non determina un vuoto assoluto di tutela per la procedura concorsuale convenuta, la quale, ai seni dell’art. 70, comma 2, l.fall. (art. 171, comma 2, CCII), ove per effetto della revoca abbia restituito quanto aveva ricevuto, è ammessa al passivo del fallimento (o liquidazione giudiziale) attore per il proprio credito. Rinviamo a tale lavoro per ogni più ampio approfondimento e per ulteriori riferimenti. In tema v. anche, se vuoi, Id., Questioni processuali in tema di revocatoria fallimentare nei confronti di altra procedura concorsuale, in www.judicium.it; nonché De Propris, Febbi, Pompili, Sassani, Campione e Fabbi, in A più voci su azioni revocatorie e fallimento, in Rass. esecuz. forz., 2019, 1124 ss.; Ronco, Azione revocatoria e fallimento del terzo acquirente, in Giur. it., 2019, 1839 ss. 76 Già nelle precedenti occasioni ci siamo soffermati, in particolare, sul problema dell’esperibilità della revocatoria tra fallimenti ma, invero, le Sezioni unite (e la sezione I con l’ordinanza interlocutoria) hanno articolato un ragionamento applicabile anche al caso di azione revocatoria ordinaria da esercitare, da parte del creditore, nei confronti del fallimento del terzo acquirente.

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nonché, pur apprezzandone l’obiettivo di fondo, riteniamo che l’impianto argomentativo di tale ordinanza finisca col consegnare all’interprete un quadro piuttosto incoerente e contraddittorio che, per quanto ci riguarda, risulta poco convincente. Nell’ottica di analizzare il tema nella prospettiva dell’arbitrato, conviene procedere con ordine. Intanto, sul piano concettuale, posta l’equipollenza tra lodo rituale e sentenza, a nostro modo di vedere, sul piano della esperibilità, da parte del curatore, dell’azione revocatoria avverso altra procedura concorsuale, non vi è differenza tra sede arbitrale e sede giurisdizionale statale77; può tutt’al più riconoscersi che la prospettiva della soluzione arbitrale sia più teorica che pratica, ma ciò non impedisce la predicabilità della stessa. Casomai il problema più generale è capire se sia proponibile, nei confronti della liquidazione giudiziale, una domanda (arbitrale) costitutiva da cui possa derivare una pretesa da far valere esclusivamente in sede concorsuale. Su questo aspetto, e con precipuo riferimento all’azione (giurisdizionale) revocatoria, oltre a proporre alcuni spunti che, invero, non ci paiono oltremodo decisivi78, nella citata ordinanza interlocutoria la S.C., riproducendo alcuni passaggi elaborati recentemente da una dottrina79, pare escludere che l’esperibilità dell’azione de qua possa riguardare la revocatoria fallimentare di pagamenti eseguiti dall’impresa in bonis, onde l’idea che sembra emergere è che l’ammissibilità valga per quei casi ove il fallimento riguardi (non il debitore ma) il terzo acquirente, e in cui la fattispecie legale della revoca sia indipendente dal fallimento. Tant’è che la Cassazione insiste molto, per controbattere all’argomentazione fondata sul principio di cristallizzazione del passivo (invocato, invece, dalle Sezioni unite del 2018), sulla retroattività, alla data dell’atto (e non della domanda), della sentenza di

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Riteniamo, del resto, che il lodo rituale, se non più impugnabile in via ordinaria (dunque con l’impugnazione per nullità) e ove contenga l’accertamento di un credito nei confronti del fallito, sia pienamente opponibile (se avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento) in sede di accertamento del passivo fallimentare, come lo sarebbe una sentenza, passata in giudicato, di analogo contenuto; ove invece siffatto lodo non sia passato ancora in giudicato (formale), il credito può essere ammesso con riserva e il curatore, se interessato a far valere ragioni di contestazioni avverso tale lodo, dovrà proporre, in via principale, l’impugnazione per nullità, secondo la logica dell’onere dell’impugnazione [art. 96, comma 2, n. 3, l.fall e art. 204, comma 2, lettera c) CCII; sul punto, anche per ulteriori riferimenti, sia consentito rinviare a Campione, Il lodo arbitrale, cit., cap. III, parr. 10 e 11; in argomento, v. amplius Baccaglini, op. cit., 163 ss.]. In tal caso, peraltro, in linea teorica, secondo una parte della dottrina, la liquidazione giudiziale potrebbe essere coinvolta in arbitrato, ove la fase rescissoria, a seguito dell’annullamento del lodo, secondo il regime dell’art. 830 c.p.c., debba essere incardinata dinanzi agli arbitri (Cerrato, op. cit., 72); tuttavia, secondo altra parte della dottrina, la perdurante esistenza della convenzione di arbitrato, a seguito dell’annullamento meramente rescindente del lodo, non rileva, in ragione dell’esclusività del rito fallimentare per l’ammissione al passivo, onde la riserva, in ragione della rescissione del lodo, deve essere sciolta con conseguente venir meno dell’accantonamento predisposto a favore del creditore [cfr., per più ampi approfondimenti in parte qua, Baccaglini, op. cit., 167, la quale peraltro osserva che si tratta di una perdita soltanto apparente, in quanto l’accertamento del credito, oggetto del lodo annullato, verrà portato in sede di verifica del passivo con una insinuazione tardiva c.d. incolpevole (e da questo punto di vista entra in gioco il disposto dell’art. 112 l.fall., corrispondente all’art. 225 CCII); cfr. anche Montanari, Lodi rituali e verifica dei crediti nel fallimento dopo la riforma, in Aueltta-Califano-Della Pietra-Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 541 ss., spec. 543-544]. 78 Come ad esempio il riferimento all’art. 290, comma 3, CCII, il quale prevede la possibilità, per il curatore della procedura di liquidazione giudiziale aperta nei confronti di una società appartenente ad un gruppo, di esercitare, nei confronti delle altre società del gruppo, l’azione revocatoria prevista dall’art. 166 degli atti compiuti dopo il deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o, nei casi di cui all’art. 166, comma 1, lett. a) e b), nei due anni anteriori al deposito della domanda o nell’anno anteriore, nei casi di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) e d) [sul punto v. anche le perplessità di Fabiani, op. ult. cit., par. 5]. 79 Sassani, Improponibili le azioni revocatorie contro il fallimento. Riflessioni a caldo su una discutibile soluzione delle Sezioni Unite, in www.judicium.it.

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accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, che – rievocando la dottrina classica – finisce tra le righe per essere qualificata come azione di accertamento e non costitutiva. E, tuttavia, è proprio la stessa Prima Sezione a osservare che la costitutività dell’azione, ancorché meramente ipotizzata, non giustificherebbe la irretroattività della sentenza di accoglimento80. Il che, a nostro avviso, dà conto di come vi siano argomenti per “rigettare” l’eccezione fondata sulla cristallizzazione della massa passiva anche nella prospettiva dell’esperibilità della revocatoria fallimentare contro un’altra procedura concorsuale; la qual cosa conferma la nostra convinzione circa la proponibilità, da parte del curatore, dell’azione revocatoria avverso altra liquidazione giudiziale, anche in via arbitrale (previa stipulazione di apposita convenzione di arbitrato). Sennonché, a questo punto si pone il problema, di ordine processuale, su come debba avvenire il coordinamento tra la domanda (costitutiva) di revoca e la pretesa restitutoria conseguenziale (si pensi alla revocatoria di un pagamento effettuato dal solvens in bonis all’accipiens anch’egli in bonis) da far valere esclusivamente con l’insinuazione al passivo. L’ordinanza della Prima Sezione, sempre – è bene ribadirlo – nell’ottica dell’azione in sede giurisdizionale statale, affronta anche questo tema, ma neanche in parte qua ci convince appieno. In particolare, la Prima Sezione, dopo aver notato che non tutte le domande giudiziali sono soggette a trascrizione81 – onde per certi atti mancherebbe la possibilità di rendere opponibile al curatore una domanda di revocatoria, con conseguente automatica improcedibilità delle domande di revoca di pagamenti o di atti dispositivi di beni mobili per il solo fatto dell’apertura della liquidazione giudiziale del debitore –, in linea con una recente riflessione dottrinale82, ha proposto di superare le predette aporie cercando una soluzione sul piano del raccordo tra tutela costitutiva e accertamento del passivo concorsuale. Vengono così proposte le seguenti soluzioni applicative: a) ove la domanda di revocatoria sia stata proposta prima dell’apertura della liquidazione concorsuale e sia stata trascritta, essa prosegue davanti al giudice ordinario: le statuizioni di condanna decise da quest’ultimo vincolano la massa concorsuale; b) laddove la domanda di revocatoria sia stata proposta prima dell’apertura della liquidazione giudiziale, ma non sia stata trascritta o non sia trascrivibile, essa è improcedibile; c) nei casi sub b), e nell’ipotesi in cui la domanda di revocatoria non sia stata proposta prima dell’apertura della liquidazione giudiziale, sarebbe possibile formulare, comunque, una domanda di ammissione al passivo per il

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V. anche Sassani, op. ult. cit.; anche Fabiani, op. ult. cit., par. 4, che peraltro finisce con l’accogliere la soluzione delle Sezioni unite del 2018, osserva che anche nella prospettiva dell’azione revocatoria contro un fallimento instaurata a seguito dell’apertura di quest’ultimo il fatto genetico della frode è antecedente 81 Mette conto ricordare che, anche ai fini della disciplina della trascrizione, così come della interruzione della prescrizione, domanda di arbitrato e domanda giudiziale sono equiparate. 82 F. De Santis, Le Sezioni Unite sulle azioni revocatorie promosse nei confronti della liquidazione giudiziale: declinazioni sistematiche e profili operativi, in Fall., 2019, 321 ss.; ma v. la riflessione sul punto di Fabiani, op. loc. ult. cit., “quando il diritto (e la relativa azione) non sono soggetti a trascrizione, come è sufficiente che la citazione di un’azione di risoluzione sia stata notificata, allo stesso modo sarà sufficiente che sia stata notificata la citazione dell’azione revocatoria”.

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corrispondente valore del pagamento o del bene oggetto dell’atto dispositivo astrattamente revocabile; in questa ipotesi il giudice delegato dovrà delibare la pregiudiziale pretesa costitutiva (avente ad oggetto i presupposti dell’azione revocatoria, che rappresenta il presupposto per l’ammissione al passivo del suddetto credito restitutorio) incidenter tantum (ossia senza efficacia di giudicato). Ad avviso di chi scrive, la soluzione del problema attinente alla proponibilità di un’azione costitutiva (anche per via arbitrale) nei confronti del curatore e, soprattutto, al coordinamento processuale con la conseguenziale pretesa restitutoria non può prescindere dalla disamina dell’art. 172, comma 5, CCII (art. 72, comma 5, l.fall.). Sulla base di questa disposizione, l’azione di risoluzione del contratto promossa prima dell’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda83; e se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le norme che regolano l’accertamento del passivo84. La portata della disposizione è stata ampiamente scrutinata nell’ambito del rapporto tra giudizio ordinario e procedimento di verifica dei crediti85; di recente, inoltre, è stata analizzata anche con precipuo riguardo ai rapporti con il giudizio arbitrale86.

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Segnaliamo che ad avviso di Fabiani, op. ult. cit., par. 4, da tale disposizione si evince l’impossibilità di esperire l’azione di risoluzione dopo l’apertura della procedura concorsuale a carico della parte inadempiente, secondo una logica applicabile anche all’azione revocatoria. 84 La norma, dettata per una ipotesi specifica, avrebbe in realtà recepito un principio di portata generale, di guisa che quanto da essa disposto risulta applicabile anche ad altre fattispecie, quali, ad esempio, le domande di annullamento, di rescissione, di risoluzione per eccessiva onerosità del contratto, di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., nonché di revocatoria fallimentare, proposte contro il contraente in bonis, dichiarato fallito nelle more del processo (Menchini-Motto, op. cit., 421 e nt. 89 per richiami giurisprudenziali e di dottrina, nonché p. 422 e nt. 90 e 91 per ulteriori riferimenti. Inoltre, a 423 gli autori citati giustamente sottolineano che il principio enunciato vale, non solo con riguardo alle pretese restitutorie pecuniarie, ma anche per i diritti alle restituzioni attinenti a beni mobili determinati e di beni immobili, che nascono a seguito della caducazione del titolo negoziale in virtù del quale l’imprenditore, prima della dichiarazione di fallimento, ne aveva acquistato la proprietà). 85 Secondo un primo indirizzo, una volta dichiarato il fallimento della parte convenuta, diviene improcedibile in sede ordinaria solo la pretesa creditoria conseguenziale, di guisa che l’azione costitutiva può continuare in tale sede mediante riassunzione del processo nei confronti del curatore; sulla base di altra impostazione, intervenuto il fallimento del convenuto, anche la domanda costitutiva deve essere “trasferita” nell’ambito dell’accertamento del passivo (per riferimenti ci sia consentito rinviare, ancora, a Campione, Revocatoria, cit., 774-775, note 96-97). La Cassazione, non senza oscillazioni, è giunta ad affermare che la domanda di risoluzione per inadempimento dell’acquirente, ove trascritta, non trova ostacolo nella sopravvenienza del fallimento del convenuto e resta incardinata nella sede processuale ordinaria, mentre sono assoggettate al concorso solo le pretese restitutorie e risarcitorie conseguenziali; onde solo queste ultime devono essere fatte valere, previa separazione delle cause, nelle forme di cui agli artt. 93 ss. l.fall. (Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953). 86 Baccaglini, op. cit., 31 ss.; Id., Restano arbitrabili i diritti pregiudiziali alle pretese soggette all’accertamento fallimentare, in Giur. it., 2019, 2488 ss. La fattispecie descritta è dunque diversa dall’ipotesi in cui nel giudizio arbitrale avviato dall’imprenditore in bonis per il recupero di un credito (e proseguito dal curatore), la controparte deduca in via riconvenzionale un proprio credito nei confronti del fallito. Secondo la giurisprudenza, in tale evenienza, nel giudizio statale, solo la domanda riconvenzionale del convenuto deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile, dovendo essere trasferita in sede concorsuale, quella principale potendo rimanere incardinata dinanzi al giudice adito (cfr., tra le altre, Cass. 21 dicembre 2015 n. 25674); mutatis mutandis, a nostro avviso nulla osta a che questa logica possa valere anche in caso di arbitrato, con prosecuzione del giudizio privato solo con riguarda alla domanda principale (Cerrato, op. cit., 74; Zucconi Galli Fonseca, op. ult. cit., 13).

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Prima di occuparci delle ricadute dell’applicazione della norma de qua rispetto al giudizio arbitrale, dobbiamo segnalare che, recentemente, la Suprema Corte87 è nuovamente intervenuta sull’art. 72, comma 5, l.fall., smentendo il precedente del 201688 ed enunciando i seguenti principi: i) la domanda di risoluzione proposta prima della dichiarazione di fallimento, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede fallimentare, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria, ma deve essere interamente proposta secondo il rito dell’accertamento del passivo; ii) in sede di accertamento del passivo, la domanda di risoluzione che costituisca antecedente logicogiuridico della domanda di risarcimento o restituzione deve essere esaminata e decisa dal giudice fallimentare, non essendo applicabile in via analogica l’istituto dell’ammissione con riserva ai sensi dell’art. 96, comma 2, n. 1) o n. 3), né potendosi disporre la sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione della causa pregiudiziale di risoluzione in ipotesi proseguita in sede di cognizione ordinaria; iii) la domanda di risoluzione diretta a conseguire finalità estranee alla partecipazione al concorso (come la liberazione della parte in bonis dagli obblighi contrattuali, o l’escussione di una garanzia di terzi) è procedibile in sede di cognizione ordinaria, dopo l’interruzione del processo ex art. 43 l.fall. e la sua riassunzione nei confronti della curatela fallimentare. Giunti a questo punto, pur nella consapevolezza che la soluzione processuale suggerita dalla Suprema Corte (comprendendo, mutatis mutandis, anche quanto enunciato dalla Sezione I con riferimento al tema della revocatoria) assicura – forse – una tutela più rapida e un miglior coordinamento tra i giudizi, non possiamo che confermare le considerazioni a suo tempo89 articolate e che ci pongono in disaccordo con la soluzione in questione. In questa sede, al netto di altre valutazioni90, ci limitiamo a osservare quanto segue. Al di là del dato letterale dell’art. 72, comma 5, l.fall., che invero non appare affatto chiaro e diretto nel definire la sorte processuale della domanda costitutiva a seguito del fallimento della parte convenuta, un primo elemento di perplessità è dato, per così dire, dall’alterazione dell’oggetto tipico del giudizio di verificazione del passivo (cfr. il paragrafo precedente), che viene a determinarsi nel momento in cui si richiede che in tale processo si proponga anche la domanda di risoluzione. Un altro profilo di criticità è rappresentato dall’efficacia meramente endoconcorsuale della decisione emessa nell’ambito del giudizio di verificazione del passivo: la Suprema Corte afferma che il giudice delegato può conoscere principaliter anche dei petita che

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Cass. 7 febbraio 2020 n. 2990, cit. Segnaliamo in dottrina il recentissimo commento – sostanzialmente favorevole alla soluzione propugnata dalla Cassazione (ma non privo di qualche annotazione critica) – di Montanari, I rapporti tra fallimento e risoluzione giudiziale pendente nella nuova prospettiva della Suprema Corte, in Fall., 2020, 772 ss. 88 V. la nota 88. 89 Amplius, anche per riferimenti, Campione, Revocatoria, cit., 773 ss. 90 Ad esempio in merito ai problemi che potrebbero porsi sul piano della compatibilità del rito della verifica del passivo con i giudizi soggettivamente complessi (sul punto, amplius, v. G.F. Ricci, Accertamento del passivo, cit., par. 5; Baccaglini, Fallimento e arbitrato, cit., 46 ss.; v., peraltro, Bozza, I principi della formazione dello stato passivo, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Jorio e Sassani, II, Milano, 2014, 625).

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si pongono in rapporto di pregiudizialità con l’insinuazione al passivo, ove necessario procedendo anche ad un accertamento di natura costitutiva, comunque destinato a restare confinato in ambito endofallimentare; ma, per questa via, sembra trascurare l’effettiva portata del nesso di pregiudizialità costitutiva, il quale implica che l’effetto giuridico da esso derivante sia prodotto dalla decisione di accoglimento della domanda, nel senso che la domanda sul diritto dipendente può essere accolta solo previo accoglimento dell’azione costitutiva, ciò valendo – a nostro avviso – anche laddove la domanda costitutiva sia “diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede fallimentare”. Infatti, ammettere un accertamento di natura costitutiva destinato a rimanere confinato all’ambiente concorsuale, a nostro avviso significa riconoscere che l’effetto giuridico costitutivo sia attuato in via meramente incidentale e abbia una efficacia limitata alla pretesa azionata. Tuttavia, sulla base delle regole generali, laddove si agisca in giudizio, facendo valere un diritto che si afferma essere dipendente dalla produzione in via giurisdizionale di una modificazione giuridica, occorre far uso necessariamente del potere di azione all’uopo riconosciuto, dovendosi viceversa escludere che l’effetto costitutivo pregiudiziale possa essere disposto in via incidentale91; inoltre, la modificazione giuridica, per regola di diritto sostanziale, determina la caducazione degli effetti negoziali nel loro complesso e, dunque, di tutto l’insieme di diritti e rapporti giuridici che hanno titolo nel contratto92. Peraltro, è ben vero che il codice della crisi adesso limita l’efficacia endoconcorsuale “ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui” (art. 204, comma 5)93; ma si tratta di un rilievo che non può essere decisivo, anche perché, come testimonia la norma stessa, non ha portata generale94. Inoltre, la soluzione offerta dalla Cassazione non ci sembra a maggior ragione predicabile proprio nel caso in cui, prima dell’apertura della procedura concorsuale (fallimento

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Menchini-Motto, op. cit., 441; Carratta, Diritto e processo nelle azioni di restituzione da contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., suppl., 2012, 103-104; Recchioni, Pregiudizialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999, 325 ss.; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, 289 ss. Del resto, la stessa S.C., proprio per ovviare al problema dell’inammissibilità dell’accertamento costitutivo incidenter tantum, afferma che la volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo implicitamente essere contenuta in altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione, come appunto la domanda di restituzione della somma corrisposta per una prestazione inadempiuta (cfr., tra le altre, Cass. 5 ottobre 2009, n. 21230; sul punto v. Carratta, op. cit., 105-106). 92 Menchini-Motto, op. cit., 441, cui si rinvia per più approfonditi rilievi e ulteriori riferimenti. 93 Così come prevede che “il decreto che accoglie la domanda di rivendica di beni o diritti il cui trasferimento è soggetto a forme di pubblicità legale deve essere reso opponibile ai terzi con le medesime forme” (art. 210, comma 3); per una disamina più analitica delle questioni poste dall’art. 204, comma 5, CCII, in relazione anche all’art. 210, comma 3, CCII, si rinvia, tra gli altri, a Saletti, op. cit., 635 ss.; Villa, op. cit., 15 ss.; Zulberti, op. cit., 8 ss. 94 Senza dimenticare le critiche già sollevate, in parte qua, in dottrina (retro, nota 65), che inoltre ha rimarcato che “diventa, pertanto, proibitivo spiegare come, ferme restando le stesse regole sia per l’accertamento dei crediti che per l’accertamento dei diritti mobiliari e immobiliari dei terzi, il decreto che rende esecutivo lo stato passivo abbia effetti endoconcorsuali quanto ai crediti accertati ed effetto extra concorsuale quanto ai diritti immobiliare e mobiliari accertati, che proprio per la loro maggiore complessità (tanto che fino alla riforma del 2006/2007 i diritti immobiliari non erano attratti nella verifica fallimentare), meriterebbe una effetto più limitato rispetto alle decisioni sui crediti” (Bozza, L’accertamento del passivo, cit., par. 1).

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o liquidazione giudiziale) nei confronti del debitore, la domanda costitutiva e la pretesa recuperatoria dipendente siano dedotte in sede arbitrale. Fermo restando che, sulla scorta delle predette regole generali, ove sopravvenga l’apertura della procedura, l’improcedibilità (e il trasferimento nella sede fallimentare) deve – a nostro modo di vedere – colpire solo la pretesa conseguenziale, siamo dunque portati a confermare l’idea della prosecuzione, in sede arbitrale, del giudizio sulla domanda pregiudiziale95, individuando così una ulteriore ipotesi in cui il curatore può essere coinvolto in un arbitrato; inoltre, in tale prospettiva – pur con la consapevolezza di forzare il dato normativo96 –, come strumento di coordinamento tra il giudizio arbitrale e quello di accertamento del passivo, rebus sic stantibus, ci sembra che sia invocabile l’ammissione con riserva ai sensi dell’art. 96, comma 2, n.1) [art. 204, comma 2, lett. a) CCII], posto che l’art. 819 ter, comma 2, c.p.c. esclude espressamente l’applicazione, nei rapporti tra arbitrato e processo, dell’art. 295 c.p.c.97. Le considerazione testé esposte spiegano il nostro dissenso anche rispetto alle soluzioni applicative proposte per l’ipotesi della revocatoria contro la liquidazione giudiziale, che finiscono col frustrare, a nostro modo di vedere, le esigenze della pregiudizialità costitutiva; senza contare che, del resto, è la stessa ordinanza interlocutoria a riconoscere che sia la legge fallimentare, sia il C.C.I.I., non ammettono domande di ammissione al passivo diverse (ed ulteriori) rispetto a quelle aventi ad oggetto il riconoscimento di un credito, ovvero la restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili nei riguardi della curatela98.

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Così anche Baccaglini, op. ult. cit., 60 ss.; Cerrato, op. cit., 72. Anche su questo aspetto, per più approfondite considerazioni e per ulteriori richiami, sia consentito rinviare a Campione, Revocatoria, 776 ss. e ivi note. 97 Incline invece all’operatività della sospensione è Baccaglini, op. ult. cit., 60 ss., che infatti argomenta nel senso della necessità di un ripensamento circa l’esclusione dell’applicazione dell’art. 295 c.p.c. nei rapporti tra arbitrato e processo. 98 D’altronde, riteniamo che non possa valere, in senso contrario alla nostra impostazione, il disposto dell’art. 173, comma 3 CCII. Questa disposizione riproduce in parte l’art. 72, u.c., l.fall, prevedendo che il contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645 bis c.c. non si scioglie se ha ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado, ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale e il promissario acquirente ne chieda l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura (corsivo nostro). Sicché la vera novità, in parte qua, del CCII è rappresentata dalla modalità endofallimentare di esecuzione del preliminare avente a oggetto i beni indicati nella norma: il promissario acquirente deve esperire l’azione ex art. 2932 c.c. nel giudizio di verificazione, secondo le modalità per l’accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura, e il giudice delegato può assumere così una decisione costitutiva con efficacia – arg. ex art. 204, comma 5 CCII – non meramente endoconcorsuale (Brogi, I rapporti pendenti nella liquidazione giudiziale, in Fall., 2019, 1183 ss., par. 6; Bozza, L’accertamento del passivo nel codice, cit. par. 1; in tema v. anche Fabiani, Gli effetti, cit., par. 4, il quale descrive la fattispecie come un’ipotesi di estensione dell’esclusività del procedimento di formazione dello stato passivo). La norma de qua, a nostro avviso, non scalfisce il nostro ragionamento, posto che la possibilità di far valere la pretesa costitutiva in sede di accertamento del passivo è espressamente (ed eccezionalmente) prevista dalla legge in una ipotesi del tutto peculiare (per la ratio della previsione v. Cecchella, Il diritto della crisi, cit., 298); e, inoltre, la dottrina non ha mancato di sollevare critiche in merito, rimarcando che il giudizio di accertamento del passivo “mal si presta ad accertamenti complessi quali quelli che può involgere una domanda del genere e, comunque, non offre tutte le garanzia dell’ordinario giudizio di cognizione” (Bozza, op. loc. ult. cit.). 96

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Francesco Campione

Non possiamo allora che ribadire, una volta confermata – per le ragioni esposte all’inizio del presente paragrafo – l’idea della esperibilità, anche per via arbitrale, dell’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) nei confronti di altra procedura concorsuale, la seguente soluzione processuale: la pretesa restitutoria deve necessariamente essere fatta valere secondo le forme dell’accertamento del passivo, mentre l’effetto costitutivo pregiudiziale non può essere prodotto incidenter tantum in tale sede99; il coordinamento tra il giudizio (anche arbitrale) sulla domanda costitutiva principale/pregiudiziale (di revoca) e il procedimento di verifica (nell’ambito della liquidazione giudiziale di colui che potremmo individuare come accipiens) in cui è fatta valere, da parte del curatore della liquidazione giudiziale del solvens, la pretesa restitutoria conseguenziale, avviene secondo la disciplina dell’ammissione con riserva100.

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Quanto indicato potrebbe essere smentito dal rilievo che, alla luce del disposto dell’art. 2929 bis c.c., la revocatoria possa prescindere da un previo accertamento, nell’ottica della tutela esecutiva (v. ad esempio Sassani, Improponibili le azioni revocatorie, cit.; Febbi, Torna rapidamente alle Sezioni unite il problema delle azioni revocatorie nei confronti di procedure concorsuali. Prime impressioni su Cass. n. 19881/2019, in www.judicium.it.); riteniamo tuttavia che il rilievo de quo non sia decisivo, posto che la norma richiamata circoscrive il suo raggio applicativo nei confronti degli atti a titolo gratuito; del resto, sul piano concorsuale, in tema di inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito, secondo la giurisprudenza la fattispecie di cui all’art. 64 l.fall. – che peraltro, come abbiamo indicato retro alla nota 52, adesso contempla una inversione dell’iniziativa processuale, alla stregua dell’art. 2929 bis c.c., che si attua mediante reclamo ex art. 36 l.fall. (art. 133 CCII) – si correla a una tutela avente natura dichiarativa (cfr., tra le altre, Cass. 30 settembre 2011 n. 20067; sul rilievo sopra indicato cfr. anche le considerazioni critiche di Fabiani, op. ult. cit., par. 4). 100 V. sul punto, amplius, anche in merito alle implicazioni afferenti all’ammissione con riserva, se vuoi, Campione, op. ult. cit., 781-782 e ivi note. Dobbiamo peraltro dare atto che, quando il presente lavoro era già in bozze, è sopravvenuta la pubblicazione della sentenza della Sezioni unite – Cass. sez. un. 24 giugno 2020 n. 12476 – invocata dalla più volte richiamata ordinanza interlocutoria della Sezione I. Non potendo sviluppare in questa sede l’esame della recentissima decisione nomofilattica, e riservandoci dunque di trattare la stessa in maniera più approfondita in un secondo momento, ci limitiamo a segnalare che le Sezioni unite hanno espresso i seguenti principi di diritto: - oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene a esecuzione; - il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, soltanto per il suo valore; - ove l’azione costitutiva non sia stata dai creditori dell’alienante introdotta prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce l’oggetto, essa – stante l’intangibilità dell’asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (cd. cristallizzazione) – non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, poiché giustappunto si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente; - in questo caso i creditori dell’alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l’alienante sia fallito) restano tutelati nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, demandando al giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva. Sembra potersi affermare che le Sezioni unite, da un lato, ribadiscano la soluzione resa da Cass. sez. un. 30416/2018 quanto all’impossibilità di proporre l’azione revocatoria avverso altra procedura concorsuale; dall’altro lato, diano seguito alla ordinanza interlocutoria della Prima Sezione in merito alla esperibilità dell’insinuazione al passivo per il corrispondente valore del pagamento o del bene oggetto dell’atto dispositivo astrattamente revocabile, con possibilità per il giudice delegato di delibare la pregiudiziale pretesa costitutiva. La prima impressione – salvo, come detto, approfondire più dettagliatamente in seguito le argomentazioni elaborate dalle Sezioni unite nel recentissimo provvedimento - è che si tratti, dunque, di soluzioni che non ci trovano concordi, per le ragioni in precedenza esposte.”

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Claudio Cecchella

La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19 Sommario :

1. Legislazione di emergenza o ennesima riforma. – 2. La ratio della riforma. – 3. L’improcedibilità della domanda fallimentare. – 4. I benefici al piano concordatario ed agli accordi di ristrutturazione. – 5. La sospensione della disciplina delle società di capitali a tutela dei creditori. – 6. Le opportunità mancate della legislazione di emergenza: la tutela del sovraindebitato, il regime di un’amministrazione vigilata dell’impresa e le sorti del codice della crisi.

Il saggio analizza la disciplina dell’emergenza, in occasione dell’epidemia dovuta a Covid-19, dedicata dall’ordinamento italiano al regime concorsuale della crisi di impresa, con un approccio critico. In particolare si evidenziano i rischi di un superamento del patrimonio ideale che aveva ispirato la legge delega e il codice della crisi, su soggetto (????) ad un ulteriore lungo periodo di vocatio, particolarmente nell’insieme degli istituti dedicati all’emersione della crisi, affinché non si converta in insolvenza, e ai rimedi di carattere negoziale offerti dalla legge. Negli interventi volti ad escludere il rilievo dell’insolvenza agli effetti della fallibilità o dilazionare i tempi della presentazione dei piani concordatari e dell’esecuzione di quelli già omologati, e volti a sospendere il regime protettivo del capitale sociale a tutela dei creditori, il legislatore non distingue infatti tra imprese la cui crisi ha matrice nel lockdown dovuto all’epidemia e imprese la cui crisi, o addirittura insolvenza, ha origini in periodi più lontani. Si è infine evidenziato come la legislazione di emergenza non abbia più proficuamente introdotto benefici, sul modello della abrogata amministrazione controllata, che tengano conto dell’origine della crisi da imputare esclusivamente nella chiusura delle attività industriali e commerciali e nella conseguente riduzione della domanda sul mercato dovuta all’epidemia, nonché abbia dimenticato la estensione dei benefici al nuovo soggetto, ormai protagonista come l’imprenditore del diritto concorsuale, quel debitore civile il cui sovra-indebitamento non viene fatto oggetto di disciplina particolare. The assay analyzes the emergency’s discipline, on the occasion of the epidemic due to Covid-19, dedicated by the Italian legal system to the insolvency’s regime of the business crisis, with a critical approach. In particular, the risks of overcoming the ideal patrimony that had inspired the delegation law and the crisis code, on the subject of a further long term of vocation, are highlighted, particularly in the set of institutes dedicated to the onset of the crisis, avoid that it converts into insolvency, and to negotiating remedies offered by law. In the interventions aimed at excluding the relevance of insolvency to the effects of fallibility or delaying the times of the presentation of the composition with

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creditors plans and of execution of those already approved, and aimed at suspending the protective regime of the sociale capital, used to protect creditors, the legislator doesn’t distinguish between companies whose crisis is due to the lockdown caused by the epidemic and companies whose crisis, or even insolvency, has origins in more distant periods. Lastly, emerged how the emergency legislation hasn’t profitably introduced benefits, on the model of the repealed subsidiary administration, which take into account the origin of the crisis that should be attributed exclusively to the closure of industrial and commercial activities and in the consequent reduction of market demand due to the epidemic, and how has forgotten to provide the extension of benefits to the new subject, now protagonist as the entrepreneur of the insolvency law, that civil debtor whose over-indebtedness is not made object of a particular discipline.

1. Legislazione di emergenza o ennesima riforma. L’intervento governativo, sulla disciplina dell’insolvenza e della crisi dell’impresa, ha il sapore di una normativa che trova occasione solo apparentemente nella congiuntura, sulla scia degli interventi che si sono susseguiti con cadenza annuale nell’ultimo decennio, particolarmente negli ultimi cinque anni, destinati a modificare sensibilmente l’impianto della riforma, che aveva contraddistinto le novelle degli anni 2005, 2006 e 2007. I primi “strappi” si erano manifestati, rispetto alla prima riforma dei primi anni duemila, già con la legge n. 132 del 2015, che apre la stagione dello sfavore verso il concordato liquidatorio, con la previsione di limiti al suo contenuto, e verso il concordato preventivo in genere, con la necessità di un voto espresso dei creditori (difformemente dal concordato incidentale). Il disegno si compie con la legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, sino al codice della crisi (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), che tracciano per il concordato la via della continuità dell’impresa, essendo la liquidazione monopolio della procedura del fallimento, ovvero della liquidazione giudiziale che sostituisce, solo nominalisticamente, il fallimento. All’interno del codice, il concordato e l’accordo di ristrutturazione vivono maggiori remore rispetto al passato, con un controllo significativamente rinnovato, sia in sede di ammissibilità che di omologa, sulla loro fattibilità economica. Un concetto, questo, che necessita – auspicabilmente – di un’interpretazione non restauratrice del controllo di merito, tipico della originaria Legge del 1942, sulla opportunità della proposta negoziale. Ma solo il diritto vivente potrà suggerire dove la riforma del 2019 ci condurrà. Più concretamente, gli interventi recenti rivelano una remora verso la soluzione, ispirata dall’autonomia privata, che costituiva uno dei pilastri dell’originaria riforma dei primi anni duemila. Inoltre, il codice, attraverso gli istituti dell’allarme e delle misure conseguenti, favorisce l’emersione della crisi con gli sbocchi necessitati: a) della soluzione negoziale, nelle ristrettezze della sua disciplina, oppure b) della liquidazione giudiziale, destino inesorabile, se la prima via non ha la buona sorte di essere percorsa.

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La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19

Il destino “revisionista” colpisce, oggi, la stessa riforma del 2019, che ha introdotto il codice della crisi. I decreti legge succedutisi dal mese di marzo, in coincidenza con l’epidemia virale, oltre ad introdurre alcune modifiche di grande rilievo nell’ambito processual-civilistico comune, nella espressione del d.l. 8 aprile n. 23 del 2020, intervengono in modo non meno significativo in quello processual-concorsuale. In primo luogo (art. 5 d.l. cit.) con il (significativo) rinvio di oltre un anno della entrata in vigore della riforma del 2019 (il quale vivrà, pertanto, una vacatio legis che supera i due anni), sinistro destino della recentissima riforma generale In secondo luogo, aprendo la prospettiva di una modifica dei piani di concordato o di accordo di ristrutturazione, sui loro contenuti in genere o, più limitatamente, sui termini in essi stabiliti per il pagamento dei creditori, oppure, quando il piano non è ancora approvato o omologato, con la concessione di un termine per la sua elaborazione, alla luce del mutato quadro legislativo (art. 9). In terzo luogo, chiudendo in rito le domande pendenti per la dichiarazione di fallimento (art. 10). Infine, sospendendo l’applicazione di alcune norme di garanzia per i creditori delle società di capitali, costituite dalla tutela dell’effettività del capitale sociale e dalle misure per la sua reintegrazione in caso di perdite, dalla postergazione dei crediti per finanziamenti dei soci e da un’attenuazione degli oneri a carico degli amministratori, nella stesura del bilancio relativo all’anno 2020, in ordine alla enunciazione dei presupposti per la continuità dell’esercizio dell’impresa (artt. 6, 7 e 8). I tempi delle deroghe variano: il 30 giugno 2020 per la improcedibilità delle domande fallimentari; il 31 dicembre 2020 per il differimento dei termini per l’adempimento dei concordati e degli accordi; novanta giorni per la modifica delle proposte concordatarie o di accordo o per la concessione di un nuovo termine; sei mesi per il differimento dei termini di pagamento; il 31 dicembre 2020 per la deroga nell’applicazione delle regole poste alle società di capitali a tutela dei creditori. Si tratta, comunque, di tempi mediamente brevi, essendo del tutto trascurato il mediolungo termine.

2. La ratio della riforma. Il decreto, che costituisce ormai l’unica fonte privilegiata dello Stato, coglie nell’emergenza sanitaria e nella conseguente ricaduta economica, dovuta alla paralisi di tutte le attività imprenditoriali per un tempo indeterminato, la ratio dell’intervento.

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Ad una lettura meno superficiale, non è solo questa la ragione che ispira l’esecutivo sul piano oggettivo e sistematico, in rapporto soprattutto alla riforma del 20191. La crisi economica, esito certo delle misure governative di paralisi delle attività sociali ed economiche, che comporta, da un lato, la soppressione della domanda (concentrata solo sui generi alimentari) e, dall’altro, quella dell’offerta (con la chiusura delle imprese commerciali e industriali), si proporrà, in tutta la sua dimensione devastante, probabilmente quando tutti i termini saranno scaduti e, quasi per ironia, quando entrerà in vigore il codice della crisi del 20192. L’intervento sul breve termine e non sul medio lungo, ha questo sapore. La gravissima crisi avrebbe dovuto indurre, sul piano razionale, a distinguere tra le imprese che effettivamente dall’epidemia hanno subito una soluzione di continuità nell’attività (fattore esclusivo della crisi, se non addirittura dell’insolvenza), dalle imprese che la crisi avevano già subito per fattori anteriori, o comunque estranei all’epidemia, le quali, pertanto, avrebbero dovuto essere condotte, coerentemente, alle procedure concorsuali e, in particolare, alla loro liquidazione, secondo la diversa esperienza del diritto comparato3. Invece, si è adottato un indiscriminato esonero dalla disciplina sulla liquidazione fallimentare, in una logica conservativa, contro ogni regola economica applicabile all’impresa insolvente. La stessa logica conservativa che ha condotto il legislatore ad escludere dalla normativa del codice della crisi, ed in particolare dagli istituti dell’allerta e della composizione della crisi, la grande impresa e la impresa di rilevanti dimensioni. Si manifesta, così, una ratio irrazionalmente conservativa e fine a se stessa; quanto di più lontano dai principi del codice della crisi, che fonda le sue basi su di una seria valutazione intorno alla opportunità della continuità dell’impresa, nell’interesse dei creditori, attraverso la diversa consapevolezza indotta all’imprenditore costretto a nuovi modelli organizzativi; gli strumenti di allarme e composizione della crisi; il processo unitario di accertamento della fattispecie che privilegia la domanda per una soluzione negoziale che assicuri la continuità, in cui l’elemento del beneficio per i creditori appare il corretto criterio di discrimine. Se quella governativa fosse una scelta consapevole (le continue oscillazioni, nel corso dei decreti legge che si sono susseguiti, fanno pensare ad un progetto incerto che varia a seconda dei risultati delle sue concrete sperimentazioni), si tratterebbe di una scelta che ha l’epidemia, ed i suoi effetti economici, sullo sfondo, e che lascia sinistri presagi sul rinvio del codice della crisi.

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Forse è il caso di ricordare che il r.d. n. 267 del 1942, come i precedenti codice civile e di rito, sono entrati in vigore in piena guerra, in una situazione di crisi dei rapporti economici dovuti all’evento bellico, come evidenzia correttamente Galletti, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in www.ilcaso.it.; conf. Rordorf, Il codice della crisi e dell’insolvenza in tempi di pandemia, in www.giustiziainsiene.it. Ancora, Galletti, op. cit.: “proiettate verso il mero disegno di “differire” nel tempo le conseguenze della crisi in atto, senza curarsi minimamente degli effetti non già soltanto a lungo, ma neanche di quelli a medio termine”. “Una tendenza generale delle riforme che sono state introdotte in molti Paesi, in particolare nell’Unione Europea, è di riservare gli interventi alle imprese che prima della crisi da Covid-19 si trovavano in buona salute, abbandonando le altre al loro destino”, così Corno-Panzani, La disciplina dell’insolvenza durante la pandemia da Covid-19. Spunti di diritto comparato, con qualche riflessione sulla possibile evoluzione della normativa italiana, in www.ilcaso.it

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La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19

Ispiratrice di essa è al contrario il criterio “assistenziale” privo di basi razionali ed obiettive (che si ritrova, per esempio, nel “reddito di cittadinanza”, predicato ed attuato da una delle componenti della maggioranza governativa, indiscriminatamente offerto a chiunque), fattore di freno dello sviluppo e di stimoli al lavoro. Le misure saranno (si auspica) risolutive nel superamento dell’epidemia virale sul piano sanitario, ma sono certamente controproducenti per contenere quel virus economico, che è l’insolvenza, e la sua forte capacità di diffusione sul mercato, trascinando nella sua propagazione tutto il sistema economico, in pregiudizio, non solo degli imprenditori colpiti dalla soluzione dell’esercizio continuativo dovuto alle misure di ordine pubblico, ma anche e soprattutto dei creditori. I creditori saranno colpiti mortalmente da una continuità non fondata su reali possibilità di ripresa, per essere l’insolvenza in taluni casi dovuta a fattori estranei. Essi potranno, certamente, interloquire a fronte di un mutamento dei contenuti del piano concordatario o dell’accordo, ma non potranno interloquire se il mutamento riguarda solo i termini di pagamento (mutamento dettato dalla legge o dalla volontà dell’imprenditore proponente); non potranno interloquire a fronte dell’improcedibilità della domanda fallimentare, ancorché questa sia unita ad un’istanza cautelare (discriminati, qui, rispetto al p.m., che, per la stessa ragione, può ottenere la prosecuzione del procedimento dichiarativo dell’insolvenza) e subiranno, per lungo tempo, l’esonero dell’imprenditore sociale dalle regole basilari a tutela del credito, come la conservazione del capitale sociale, la postergazione dei finanziamenti dei soci, la trasparenza del bilancio sulle ragioni degli amministratori per una continuità di esercizio (a cui i bilanci del 2020 risponderanno con un mero rinvio alle risultanze del 2019)4. Ma vi è un più subdolo destino di imprenditori e creditori, che è quello di una loro metamorfosi nello Stato. Nuovo leviatano economico5, nell’offrire agli imprenditori assetati di liquidità le garanzie necessarie, direttamente, o indirettamente (“SACE”), come sempre accade – basta avere un minimo di esperienza dell’insolvenza, che conduce i creditori a diventare i veri proprietari del capitale di rischio – lo Stato diventerà il titolare dell’economia nazionale ed interlocutore principale, se non esclusivo, delle procedure. Ciò per l’indiscriminato accesso al credito disciplinato dallo stesso decreto c.d. liquidità, non essendo dato al mondo bancario il potere di filtrare le richieste diffuse, sulla base della concreta e sicura possibilità di rientro, grazie alle garanzie offerte dallo Stato, ed essendo tutto ri-

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Si è correttamente osservato (Galletti, op. cit.), che la continuità, da valore con il quale l’imprenditore deve quotidianamente confrontarsi ai sensi dell’art. 2082, 2° comma, c.c., diventa un dato meramente contabile in occasione dei bilanci annuali, con un riferimento fittizio, almeno per l’anno 2020. Merita attenzione l’intervento di Stanghellini-Rinaldi, Trasformazione dei prestiti Covid-19 in strumenti finanziari partecipativi (SFP). Un’idea per far ripartire il sistema delle imprese, in www.ilcaso.it. Il destinatario degli strumenti finanziari partecipativi sarà, a parere di chi scrive, esclusivamente lo Stato per il loro difficile collocamento sul mercato. Ma gli Autori si affrettano ad evidenziare: “Beneficiarie delle misure sarebbero ovviamente le sole imprese in crisi a causa del Covid-19, cioè quelle che, senza la crisi del Covid-19, sarebbero state in grado di redigere un bilancio “sano” riferito al 31 dicembre 2019, e non quelle che già lo erano prima”, ciò che è rimasto nella penna del legislatore.

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messo all’autoresponsabilità dell’imprenditore. Un serio controllo operato dai finanziatori dovrebbe, se del caso, indurre a negare il credito, laddove al contrario il legislatore non discrimina tra imprese sane, ma in difficoltà per la paralisi economica, e imprese ammalate da tempo, comunque destinate alla liquidazione. Viceversa, anche queste ultime potranno ricorrere al finanziamento del circolante, con conseguente accanimento terapeutico, devastazione del virus dell’insolvenza e cure palliative, complice lo Stato. Alla fine, lo Stato sarà proprietario dell’economia, com’è accaduto nel caso di una delle maggiori banche private (il Monte dei Paschi) avviata, se non saranno prese contromisure, al default sotto il controllo dell’Unione europea. Lo strumento giusto avrebbe dovuto essere, invece, quello del finanziamento straordinario a carico dello Stato e a fondo perduto, con sgravi fiscali6, soggetto tuttavia alla condizione di una valutazione positiva sul reale rilievo dell’epidemia nella crisi della singola impresa. Il vuoto slogan “andrà tutto bene”, senza serie premesse ed elevato a principio di diritto7, si traduce in un irresponsabile rinvio della terapia, quando la malattia sarà veramente incurabile. Insomma: una Caporetto sull’Isonzo a cui difficilmente seguirà una linea del Piave. Cadorna impera e Diaz ancora non si vede all’orizzonte politico italiano.

3. L’improcedibilità della domanda fallimentare. Emblematica in tal senso è la generalizzata improcedibilità della domanda per l’avvio della liquidazione imposta dalla legge (il fallimento) senza distinguo alcuno, tra imprese sane in temporanea difficoltà ed imprese destinate comunque all’inesorabile dissolvimento, per fattori precedenti ed estranei all’epidemia8.

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Così anche Rordorf, Il codice della crisi e dell’insolvenza in tempi di pandemia, cit.: “Ma i veri rimedi per favorire il superamento delle attuali difficoltà del nostro mondo produttivo, fatto soprattutto di piccole e medie imprese che la pandemia potrebbe distruggere, bisogna cercarli altrove: sul terreno dell’intervento finanziario dello Stato, dell’agevolazione del credito bancario, degli sgravi fiscali, e simili”. Spiotta, La (presunzione di) continuità aziendale al tempo del COVID-19, in www.ilcaso.it (contributo pubblicato anche in Il diritto dell’emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, a cura di Irrera, Torino, 2020, 46 ss.): ”Celare i sintomi di uno stato di crisi (che invece dovrebbero essere costantemente monitorati) potrebbe incoraggiare gli amministratori a tenere una condotta non molto diversa da quella che si è sempre rimproverata loro, ossia di nascondere, tramite artifici contabili, la perdita del capitale sociale. Così come non basta scrivere “andrà tutto bene” per cambiare la realtà, redigere il bilancio nella prospettiva (rectius, auspicio) di continuare l’attività, ma senza alcuna iniziativa per recuperarla, potrebbe essere controproducente”. Si è pure sottolineato (Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto di liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, in www.il caso.it.) che i presupposti oggettivi della fallibilità fondati sull’insolvenza, prescindono dall’elemento della colposità dell’imprenditore, ma sono offerti in modo oggettivo senza alcuna indagine sulla responsabilità. Anche il bravo imprenditore sottoposto a fattori estranei alla gestione fallisce. Ma il distinguo, che avrebbe dovuto costituire l’ossatura della riforma emergenziale, pone comunque su un piano oggettivo l’indagine intorno ad un’insolvenza dettata esclusivamente dal fermo dell’attività produttiva e commerciale dovuta al lockdown, che avrebbe potuto essere, nell’urgenza e nell’impossibilità di sommergere i tribunali fallimentari, asseverata da un professionista indipendente. Nel senso della necessità della distinzione prima ancora che il d.l. n. 23 del 2020 fosse stato adottato, v. Pollastri, Emergenza sanitaria e crisi d’impresa: come contenere il contagio, in www.ilcaso.it (contributo pubblicato anche in Il diritto dell’emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, a cura di Irrera, Torino, 2020, 17 ss.);

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La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19

Per di più con l’uso atecnico di un termine come “improcedibilità”, che nel processo civile non vuol dire definizione in rito del procedimento, bensì sua sospensione, ma che qui viene elevato ad archiviazione definitiva della domanda, che dovrà muovere da una nuova iniziativa, quando l’amnistia a beneficio dell’impresa insolvente sarà risolta. Ma si dimentica chi dovrà sostenere le spese di lite (il creditore?). Si dimentica, inoltre, il profilo dell’imprenditore responsabile che chiede il proprio auto-fallimento9: che ne sarà del diritto di ottenere una gestione concorsuale della sua insolvenza per giungere al più presto alla sua esdebitazione, mettendo nelle mani dei creditori l’intero suo patrimonio? Il mancato richiamo all’art. 14 l. fall sembra escludere dalla improcedibilità l’iniziativa dell’imprenditore (ma la relazione al d.l. svela il contrario)10. È noto come la relazione coadiuvi l’interprete ma non lo vincoli e come il legislatore che introduca una normativa speciale debba chiarire espressamente le deroghe, non potendo recuperare nella relazione ciò che ha dimenticato nella norma. Ugualmente l’imprenditore potrebbe promuovere un procedimento di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione, non ritenendo sufficienti le opportunità offerte dalla legislazione di emergenza, ai fini di una soluzione della crisi. Si propone l’incredibile discrimine di rilievo costituzionale (artt. 3 e 24, solo per richiamare i più rilevanti) tra l’azione del p.m. che, se unita ad un’azione cautelare, può proseguire, e l’azione del creditore che, pur sorretta dalle stesse esigenze di periculum, dovrà subire la pausa e, quindi, la dispersione giuridica e materiale del patrimonio del proprio debitore, salvo ritenere, in base alla disciplina generale sulla sospensione dei procedimenti civili, che il creditore possa dimostrare quell’urgenza che consente comunque al processo di celebrarsi. L’unica tutela del creditore e della par condicio resta il comma 3 della norma, che ha, quanto meno, il buon senso di sospendere, nel periodo, i termini di cui all’art. 10 l. fall., per la fallibilità dalla cessazione dell’impresa, e dall’art. 69 bis l. fall. in relazione ai termini decadenziali dell’azione revocatoria fallimentare. Ma il legislatore si è dimenticato dei periodi sospetti dettati dagli artt. 64, 65, 67 l.fall.; questi non subiscono alcuna disciplina particolare e rischiano seriamente di decorrere inesorabilmente (in particolare quello di sei mesi). Per ovviare a tali problemi sarebbe stato sufficiente prevedere una retroattività

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Ancora Corno-Panzani, op. cit.: “mentre le legislazioni citate eliminano l’obbligo dell’imprenditore di chiedere l’apertura della procedura d’insolvenza, ma non impediscono che egli si determini volontariamente in questo senso, ove lo ritenga opportuno, l’Italia ha scelto di considerare improcedibile la domanda in ogni caso”. Nel dibattito parlamentare sulla legge di conversione del d.l. n. 23 del 2020, nel testo del Senato si è escluso esplicitamente dal regime emergenziale la domanda proposta dal debitore. Nelle prime applicazioni giurisprudenziali il tribunale di Piacenza con sentenza dell’8 maggio 2020 esclude dalle improcedibilità le domande in proprio (ne dà notizia il Quotidiano del diritto 15 maggio 2020). Sul diverso orientamento dei tribunali di Lecco e Piacenza, v. Sanzo, Emergenza sanitaria sull’asse Lecco-Milano-Piacenza: un viaggio veloce nell’incertezza giurisprudenziale e nell’imprevedibilità delle decisioni giudiziarie, in Il fallimentarista, 4 giugno 2020. 10 Conf. Irrera, Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del Coronavirus, in www.ilcaso.it. (contributo pubblicato anche in Il diritto dell’emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, a cura di Irrera, Torino, 2020, 18 ss.); Galletti, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, cit.; Pollastro, Emergenza sanitaria e crisi d’impresa: come contenere il contagio, cit.

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della sentenza alla data della domanda a certi effetti e un regime di mera sospensione del processo e non di improcedibilità. Ancora: l’atecnica dimenticanza delle vie di conversione del concordato nel fallimento (artt. 162, 173 e 180 l.f.), che non sono i procedimenti di cui all’art. 15 l. fall, anche se rinviano alla relativa disciplina: si potrà fallire incidentalmente? È significativo come la norma richiami l’art. 15 e l’art. 195 l.fall. (anche questa norma di rinvio alla prima, quanto alle forme); perché dimenticare gli artt. 162, 173 e 180 l.fall.? Resta, poi, il mancato coordinamento con la previsione generalizzata della sospensione dei procedimenti civili e penali pendenti, presso gli uffici giudiziari, nel periodo dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 (art. 83, 1° comma, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 convertito dalla Camera dei Deputati in data 23 aprile 202, con modifiche), esteso dall’art. 37 d.l. 8 aprile 2020, n. 23 all’ 11 maggio 2020. Si dovrà sostenere, probabilmente, la deroga al regime di sospensione dei procedimenti per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore insolvente, in quanto la “ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti”, ma costituisce remora a tale interpretazione la previsione successiva contenuta nell’art. 10, 2° comma, del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, la quale contempla l’urgenza della trattazione esclusivamente quando “è fatta domanda di emissione dei provvedimenti di cui all’art. 15, comma ottavo, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”. Con il risultato interpretativo che l’improcedibilità potrà essere pronunciata dal tribunale solo nel periodo che va dal 16 maggio 2020 sino al 30 giugno 2020. Infine, poi, l’art. 91 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 – che introduce una deroga, abbandonata alla discrezionalità del giudice, al regime generale del diritto delle obbligazioni, consentendo una diversa determinazione sugli effetti dell’inadempimento, quanto all’an e al quantum del danno in funzione del rispetto delle misure di contenimento dell’epidemia – pone il serio problema dei rapporti contrattuali di cui sono parte gli imprenditori in difficoltà, rimasto nella penna del legislatore, e che potrebbero subire effetti risolutivi per l’inadempimento o per l’applicazione di clausole risolutive espresse. Il legislatore ha pensato al danno provocato al contraente, ma non ha pensato di arginare gli effetti risolutivi del rapporto contrattuale per l’imprenditore. Il voto di fiducia che sarà posto al decreto, more solito, per evitare gli emendamenti e la discussione parlamentare, ripone sulle spalle dell’interprete, ed in particolare del giudice, la soluzione delle gravi problematiche applicative dovute alla grave atecnicità della norma.

4. I benefici al piano concordatario ed agli accordi di ristrutturazione.

Resta ferma l’applicazione del generale regime della sospensione dei procedimenti di omologa di concordati e accordi in corso, secondo la generale previsione dell’art. 83, oggi

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della legge n. 27 del 2020 (ma oggetto di un ulteriore intervento con il nuovo d.l. n. 28 del 2020), salvo motivi di urgenza11. Il primo beneficio speciale accordato dall’art. 9 del d.l. n. 23, al suo primo comma, riguarda invece l’esecuzione del piano o dell’accordo omologato, prevedendosi il solito rinvio (sei mesi per le scadenze dal 23 febbraio al 31 dicembre 2020). Per un verso il beneficio è anche qui indiscriminato (cfr. par. 3), ma offre una tutela invero diminuita, perché lo sconvolgimento delle attività economiche e dei rapporti sociali per factum principis, potrebbe imporre anche una modifica del piano o dell’accordo e non solo una dilazione. È noto come la giurisprudenza, in sede di risoluzione del concordato, tenda ad un accertamento oggettivo dell’inadempimento, senza un’indagine sul grado di colposità dell’omissione dell’imprenditore12; l’intervento più generoso del legislatore sarebbe stato perciò auspicabile. Sarà necessario modificare l’indirizzo sul piano interpretativo, recuperando il tenore dell’art. 91 del decreto legge n. 18 del 2020, sempre nell’ambito della legislazione sull’emergenza, che offre rilievo alle cause dell’inadempimento, però ai soli effetti della liquidazione del danno13 e non a quelli della eventuale risoluzione. Tuttavia, la rilevanza del factum principis voluta dal legislatore sul piano contrattuale non può non avere riflesso più generale. Vi sono poi i piani e gli accordi ancora non omologati. Prima del voto l’imprenditore può nel concordato preventivo, secondo le regole generali, modificare il piano sino a quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori, ai sensi dell’art 172, 2° comma, l. fall. (a seguito della possibilità di proposte concorrenti voluta dalla l. n. 132 del 2015, mentre prima la facoltà era consentita sino all’inizio delle operazioni di voto, secondo l’abrogato 2° comma dell’art. 175 l. fall.). La legge dell’emergenza amplia questa facoltà, al secondo comma dell’art. 9 cit. L’imprenditore può farsi concedere il termine di 90 gg, che non sembrano prorogabili ulteriormente, dalla data del provvedimento (e non dalla sua comunicazione), per modificare il piano o l’accordo, purché il procedimento non sia destinato al rigetto della domanda (e conversione nel fallimento, salvo la dubbia applicabilità dell’improcedibilità della domanda, v. par. 4 che precede), per non avere l’imprenditore raggiunto le maggioranze in sede di approvazione (non costituendo l’eccezionale beneficio ulteriore possibilità per il piano o l’accordo rifiutato dai creditori).

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Conf. Costantino, Emergenza sanitaria e procedure concorsuali, in Quaderni inexecutivis, 2020, 64 ss., il quale evidenzia come l’urgenza di certe misure nel processo debba essere richiesta volta per volta. 12 Fra le tante, Cass. 13 luglio 2018, n. 18738, in www.ilcaso.it. Sul tema v. Pazzi, La nuova dimensione del giudizio di risoluzione del concordato a seguito della legislazione di emergenza introdotta per la pandemia da coronavirus, in wwwilcaso.it 13 “1. All’articolo 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Sul tema, v. Montevedere, L’incursione del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in tema di obbligazioni non adempiute e responsabilità del debitore, in Il diritto dell’emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, a cura di Irrera, Torino, 2020, 140 ss.

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Si dovrà, tuttavia, tenere conto che, secondo l’orientamento della S.C.14, il debitore può comunque presentare un nuovo piano sul presupposto che non sia aperto il fallimento con la pronuncia della sentenza dichiarativa (ipotesi esclusa, peraltro, dalla stessa normativa dell’emergenza, art 10). Il termine “nei procedimenti per l’omologazione” non deve fare intendere la sola fase successiva al voto dei creditori, potendo procedere il debitore alla richiesta del termine anche nella dilazione degli ultimi quindici giorni prima dell’adunanza (prima l’imprenditore può modificare il suo piano secondo le regole generali). La norma fa riferimento al solo debitore e, quindi, non apre (dimenticanza?) al beneficio il creditore che abbia presentato una proposta concorrente (art. 163, 4° comma, l. fall.). In tal caso il legislatore sembra consapevole che la dilazione non basti (ma perché avere usato una misura differente, quando l’omologa causalmente è stata già pronunciata?) e sia necessaria una revisione dei contenuti del piano. Tace, invece, sulla necessità di una nuova approvazione della maggioranza dei creditori, ipotesi che non può non essere, in via interpretativa, ritenuta necessaria, poiché il regime, già pregiudizievole per i creditori, non può giungere al punto di consentire un’unilaterale modifica del piano o dell’accordo da parte dell’imprenditore. Il procedimento dovrà retrocedere al momento della adunanza ed alla relazione del Commissario. La concessione del termine per la modifica del piano o dell’accordo pare, invece, atto necessitato del tribunale, senza possibilità di esercitare un potere discrezionale, tanto che l’istanza non deve essere motivata o corredata di documentazione. Il terzo comma consente, invece, una modifica solo temporale: concessione del termine tout court di sei mesi per l’esecuzione del piano, in deroga ai suoi contenuti temporali. In tal caso la necessità di una memoria illustrativa (e non una semplice istanza) e di documenti fa pensare ad un provvedimento discrezionale del tribunale e non più dovuto; mentre è dubbia – anzi da escludere – la necessità di una nuova adunanza dei creditori (in linea con la dilazione dei pagamenti nel caso di concordato già omologato). La richiesta del parere del commissario potrebbe far pensare alla inapplicabilità della previsione agli accordi di ristrutturazione15 (salvo l’ipotesi di un concordato con domanda in bianco che può rendere necessaria la nomina di un commissario e confluire in un accordo anziché in un concordato vero e proprio). Ma il richiamo all’art. 182 bis l. fall. impone la lettura estensiva. Vi sono poi, 4° comma dell’art. 9 cit., i casi in cui l’imprenditore non abbia neppure presentato la proposta di concordato con il piano o la proposta di accordo, ma abbia avviato una domanda di concordato c.d. in bianco ex art 161, 6° comma, l. fall.

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La recente, Cass. 10 ottobre 2019, n. 25479, in www.dirittoegiustizia.it. Propende a ragione per l’interpretazione estensiva, Farfolfi, Procedure concorsuali e COVID-19: prime riflessioni alla luce del d.l. liquidità, in www.ilcaso.it

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In tal caso può richiedere un’ulteriore proroga di 90 giorni, ancorché penda un’istanza di fallimento e qualora già il primo termine concesso sia stato prorogato, ma deve specificare le ragioni dell’ulteriore termine, che quindi è soggetto al controllo del Tribunale il quale, anche in questo caso, ne verificherà la effettiva dipendenza dall’emergenza dovuta all’epidemia, sentito il parere del commissario, se nominato. Restano intatti nel periodo i poteri di vigilanza del commissario e l’obbligo di relazione periodica sulla gestione da parte dell’imprenditore. Ultimo profilo problematico è costituito dalla sospensione dei termini in relazione ai procedimenti civili (art. 83 cit.): se essa si debba applicare o meno anche al termine fissato dal tribunale per la formulazione del piano o della proposta di accordo. L’indice della inapplicabilità della sospensione feriale non è decisivo, poiché il regime della sospensione dell’art. 83 ha modificato sensibilmente quella disciplina (ad esempio si applica anche alle controversie di lavoro). Si tratta di una delle tante lacune, a cui saremo propensi a rispondere affermativamente, in considerazione della ratio che ispira lo specialissimo regime. Oltre alla proroga del termine di cui all’art. 161, 6° comma, l. fall., è possibile ottenere – per previsione espressa dell’art. 9 cit. – la proroga del termine di cui all’art. 182 bis, 7° comma, l. fall., ovvero il termine per la concessione di misure protettive nell’ambito degli accordi di ristrutturazione16.

5. La sospensione della disciplina delle società di capitali a tutela dei creditori.

Non è dubitabile che l’improvvisa alterazione, sino all’azzeramento dovuto al lockdown, dei flussi di cassa delle imprese inciderà presto sull’equilibrio tra perdite e capitale sociale voluto dal legislatore nelle società di capitali e porrà immediatamente gli amministratori innanzi all’alternativa tra ricapitalizzare la società o ridurre il capitale al minimo o trasformarla, affinché il minimo di legge sia rispettato, oppure, per le perdite al di sotto del minimo, disporre la sua messa in liquidazione (ugualmente per le cooperative, avendo sempre rilievo in esse la totale perdita del capitale sociale). Per questa ragione era inevitabile un intervento del legislatore sulla normativa protettiva del capitale e sulle responsabilità degli amministratori nel dover proporre, senza indugio, alle assemblee dei soci le alternative di legge. La deroga, peraltro, non costituiva una novità, poiché già in sede di elaborazione del piano concordatario o dell’accordo, oppure di ammissione e omologa dei medesimi, all’amministratore era dato ottenere lo stesso beneficio (art. 182 sexies l. fall.). Si sarebbe trattato semplicemente di un’estensione al di fuori dell’elaborazione di un piano o di un

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In senso contrario, Irrera Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del Coronavirus, cit.

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accordo (che peraltro l’amministratore accorto non potrà trascurare e su cui dovrà seriamente lavorare) e, ovviamente, al di fuori dei controlli che il tribunale svolge in queste procedure. Il periodo interessato, come evidenzia la lettera dell’art. 6 in esame, oscilla dal 9 aprile 2020 al 31 dicembre 2020; in tale lasso di tempo, l’emersione di una perdita non impone agli amministratori la ricapitalizzazione oppure la trasformazione della società o, in caso di perdite sotto il limite legale, la sua messa in liquidazione. Poiché l’emersione non è un dato cronologico certo, si porranno molte incertezze. Qual è il momento rilevante: quello del manifestarsi di fatto della perdita (su cui si potrebbe discutere all’infinito), quello della constatazione della medesima all’interno di un atto consapevole degli amministratori oppure quello della delibera assembleare provocata senza indugio? Si è opportunamente detto17 che sia il momento della consapevolezza dell’amministratore ad avere rilievo, purché questa consapevolezza sia obiettivamente motivata, in un rapporto di causa ed effetto, come conseguenza delle misure dell’epidemia e non possa assurgere ad altri fattori. Non sarà sotto questo aspetto dubitabile, in occasione dell’infinito contenzioso che ne nascerà, una verifica in sede giurisdizionale, in occasione dell’azione di responsabilità o delle iniziative surrogatorie degli altri organi sociali. Forse sarebbe stato opportuno, ma si tratta della lacuna grave e di fondo del sistema “emergenziale”, dare incarico ad un professionista indipendente di asseverare causa ed effetto. Certamente, con lo spirare del 31 di questo anno (salvo proroghe a cui il legislatore ha abituato), cesserà la deroga, e non si dovrà attendere il tempo dell’assemblea del 2021 per l’approvazione del bilancio, ma l’assemblea dovrà essere convocata senza indugio per le misure questa volta inevitabili. La norma, tuttavia, non introduce una deroga all’art. 2486 c.c., secondo cui gli amministratori “conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”, e rispondono personalmente e solidalmente dei danni arrecati alla società, ai soci e ai creditori sociali per atti od omissioni compiuti in violazione del medesimo art. 248618. Ciò dovrà, necessariamente, indurre gli amministratori, di fronte alla conclamata situazione di crisi, ad adottare tutte le misure necessarie per la conservazione del patrimonio a tutela dei soci e dei creditori, non avendo il legislatore derogato al profilo particolare. Ugualmente, restano intatti l’obbligo di immediata convocazione dell’assemblea per perdite oltre il terzo del capitale, con i conseguenti oneri a carico degli amministratori

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Di Mundo, La “messa in quarantena” delle norme sulle perdite del capitale e sullo scioglimento delle società. Note sull’art. 6 del “Decreto Liquidità”, in www.ilcaso.it; Brogi, Diritto emergenziale della crisi d’impresa all’epoca del Covid 19, in www.osservatorio-oci. org; in senso contrario, Irrera, Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del corona virus, cit. 18 Al contrario per una deroga anche a questa norma si è espresso, Benvenuto, Effetti sulla materia concorsuale del d. l. 8 aprile 2020 n. 23, in www.ilcaso.it; per una diversa più prudente posizione, v. Di Mundo, La “messa in quarantena” delle norme sulle perdite del capitale e sullo scioglimento delle società. Note sull’art. 6 del “Decreto Liquidità”, ivi.

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e dettati dagli artt. 2446 e 2482 bis c.c., come anche l’obbligo di rilevazione dell’effetto della perdita in tempo reale secondo la diligenza che deve ispirare l’azione gestoria e la redazione di una situazione patrimoniale aggiornata, una sorta di bilancio straordinario, da sottoporre all’assemblea, corredata delle osservazioni dei sindaci, se esistenti. In sede assembleare, per la deroga delle regole applicabili al capitale, i soci non saranno tenuti alla riduzione, trasformazione o messa in liquidazione, ma dovranno deliberare le misure idonee a conservare il patrimonio ed a porre le basi per la continuità di esercizio dell’impresa, non potendosi certamente ipotizzare la distribuzione di utili (art 2433, 3° comma c.c.). Dunque, la grazia concessa alle imprese nell’applicazione delle norme a protezione del capitale appaiono, più che un rimedio, la sorgente feconda di numerosi dubbi applicativi, in relazione soprattutto all’azione ed alle responsabilità degli amministratori (e del rigore delle regole sulla responsabilità e sulla organizzazione dell’impresa sociale, per cogliere i sintomi della crisi, dovute al codice del 2019 e entrate da tempo in vigore), per non avere introdotto misure di verifica e controllo che pure erano tecnicamente possibili, senza troppo investire l’organo giurisdizionale, a fronte del compito improbo rovesciato sugli amministratori stessi. In alcuni casi, peraltro, le misure appaiono anche eccessive, come ad esempio quelle non destinate a mettere in liquidazione la società – è solo il bene della continuità da preservare – ma a trasformarla o ridurre il capitale, senza imporre ai soci nuovi versamenti in conto capitale. Esse sono meno rilevanti nelle società a responsabilità limitata, con capitale simbolico ai minimi (rispetto al quale la ricostruzione o reintegrazione è molto semplice) dove il problema, si ribadisce, non è la capitalizzazione ma la continuità dell’impresa con le correlate responsabilità degli amministratori. Sarebbe stata necessaria una “tutela” degli amministratori, per evitare di trasferire il rischio di impresa sui creditori (disegno tutt’altro che celato nell’intero sistema dell’emergenza), come si dirà tra breve (v. par. 6), affinché i soci siano immediatamente sensibilizzati sulla necessità di assumere in proprio il rischio con misure drastiche necessarie, e fosse limitata la propensione degli amministratori stessi, con l’inerzia degli organi di controllo, ad abusare di una grazia che possa coprire perdite pregresse latenti da tempo. La tendenza è sempre quella di non assumere il problema, ma rimandarlo, con le risorse dei creditori; tuttavia non può negarsi che il problema esista e che prima o poi vada affrontato con gli strumenti comuni. Vi è, poi, il congelamento del principio di continuità aziendale nel bilancio sociale, ai sensi dell’art. 7 del d. l. n. 23 del 2020. È noto come gli amministratori devono interpretare le voci del bilancio nel segno della probabilità di flussi di cassa e della produzione di reddito nell’arco di dodici mesi che consentano effettivamente una continuità aziendale, ai sensi dell’art. 2423 bis, comma 1, n. 1, c.c. Con una fictio iuris il legislatore sterilizza il giudizio sulle voci del bilancio precedente (le quali tengono certamente conto di un quadro economico avulso dalla crisi indotta dall’epidemia e perciò dettate da fattori correnti di mercato e di redditività dell’impresa), con espresso rinvio nella nota integrativa.

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Il bilancio non doveva essere stato ancora approvato al 23 febbraio 2020 (2° comma dell’art. 7 cit.) dall’assemblea; se chiuso e approvato dal solo Consiglio di amministrazione si potrà rimediare rinviando l’assemblea ed integrando la nota con il richiamo espresso al bilancio dell’esercizio precedente sul quale vengono valutati i presupposti della continuità aziendale. Infine, l’art. 8 del d.l. n. 23 del 2020 interviene sul regime dei finanziamenti dei soci e di chi esercita l’attività di coordinamento e direzione, nell’arco temporale dalla entrata in vigore del decreto legge sino al 31 dicembre 2020, prevedendo la deroga alle norme sulla postergazione quando il finanziamento è avvenuto in una situazione di crisi che avrebbe reso necessario un’operazione di reintegrazione del capitale e sull’inefficacia dei rimborsi effettuati nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Si incentiva, quindi, il finanziamento della società in periodo di crisi dovuta all’epidemia, con benefici di rilievo ai soci o a chi coordina e dirige, con un costo che, come sempre, dovrà essere sostenuto dai creditori sociali anteriori.

6. Le opportunità mancate della legislazione di

emergenza: la tutela del sovra-indebitato, il regime di un’amministrazione vigilata dell’impresa e le sorti del codice della crisi. La riforma prende in esame esclusivamente l’insolvenza dell’impresa, ma non il sovraindebitamento del debitore civile, in senso lato, non prevedendo misure sulle relative procedure, pur essendosi, negli ultimi anni, la disciplina del concorso estesa a queste nuove categorie di debitori, soggette tutte al rinvio tout court dell’entrata in vigore del codice19. La ragione è forse comprensibile, e si radica nella necessità di non creare turbamento sul mercato dei prodotti destinati al consumatore, che potrebbe creare un effetto domino espandendo ancora più l’effetto della crisi sull’impresa commerciale ed industriale. Tuttavia, quanto meno attraverso il ricorso agevolato al credito al consumo, si sarebbero potute concepire misure anche a favore dei sovra-indebitati, quando la crisi personale fosse dovuta alla situazione di emergenza, tutto risolvendosi, ancora una volta, indiscriminatamente per alcune categorie, con il versamento di un assegno una tantum, senza distinguo alcuno, salvo la fascia di reddito. Con la legge n. 27 del 2020, art. 54 ter, si sono sospese le esecuzioni immobiliari (individuali) aventi ad oggetto l’immobile che costituisce l’abitazione principale del debitore20

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Conf., Cesare, Rimedi alla crisi epidemiologica nelle procedure di sovraindebitamento, in www.ilcaso.it. : “Al fine di contenere gli effetti negativi dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in tutto il territorio nazionale è sospesa, per la durata di sei mesi a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare di cui all’art. 555 del c.p.c. che abbia ad oggetto l’abitazione principale del debitore”.

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e, nel contesto dello stesso d.l. n. 18 del 2020, sospese le esecuzioni per rilascio, secondo l’art. 103, comma 6, nella originaria formulazione, sino al 30 giugno 2020 e poi, in sede di conversione, alla data del 1° settembre 202021. Anche in tal caso indiscriminatamente e senza distinguo alcuno. Si potrebbe pensare ad un’applicazione anche dell’art. 13, comma 4 bis, della legge n. 3 del 2012, secondo cui “quando l’esecuzione dell’accordo o del piano del consumatore diviene impossibile per ragioni non imputabili al debitore, quest’ultimo, con l’ausilio dell’organismo di composizione della crisi, può modificare la proposta e si applicano le disposizioni di cui ai paragrafi 2 e 3 della presente sezione”, ovviamente qualora le modifiche avessero consistenza tale da implicare un piano diverso da quello inizialmente proposto. Silenzio sulle procedure del debitore civile in senso lato, anche quando si è indotto il rinvio della entrata in vigore del Codice che avrebbero potuto, per la razionalizzazione degli interventi stratificati sulla legge n. 3 del 2012, essere subito regolate dalla nuova disciplina del Codice. Venendo all’impresa, sarebbe stato molto opportuno, anziché usare misure radicali indiscriminate, rivitalizzare l’istituto dell’amministrazione controllata22, nelle forme di una domanda di concordato con riserva, essendo la corretta predisposizione del piano da offrire ai creditori uno degli aspetti più problematici della soluzione negoziale alla crisi. Problema che non potrà seriamente risolversi, se non dopo che l’attività commerciale e produttiva sia ripresa, con un quadro più chiaro degli effetti economici della crisi. Avrebbero potuto le imprese, sotto la vigilanza di un commissario, essere sottoposte ad una amministrazione controllata e così, nel lasso di tempo necessario, beneficiare di un ombrello protettivo contro le azioni esecutive individuali dei creditori. Ma anche questa è una soluzione che, attraverso un controllo giurisdizionale ed amministrativo, discrimina tra imprese meritevoli, sottoposte agli effetti della congiuntura, ed imprese decotte da tempo, soggette ad una crisi strutturale irreversibile; ciò che non è proprio nella forma mentis di questo legislatore della emergenza (cfr. par. 2). Questo non avrebbe troppo appesantito la giurisdizione, con un intervento del tribunale soltanto su segnalazione del commissario nominato, in caso di atti in frode e di sottrazione della gestione dal controllo. Onde evitare di gravare i tribunali sottoposti, certamente, ad una pressione non indifferente quando le misure dilatorie ex lege dovessero cessare, la soluzione, come si è

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Nei primi commenti si è sottolineata la atecnicità della formulazione usata dall’esecutivo e poi dal legislatore (Leuzzi e Rossi, Procedure esecutive e prima casa nel diritto emergenziale anti-Covid, in www.ilcaso.it), sul concetto di prima casa, ove si richiama Cass. 3 novembre 2016, n. 22191, che non ritiene necessaria la proprietà, ma anche la titolarità di un diritto minore, purché il debitore vi abbia abitazione stabile con il proprio nucleo familiare (salvo trasferimenti per lavoro o cura); sulla necessità della pendenza del processo espropriativo immobiliare (lasciando lacunoso il caso del pignoramento perfezionato dopo l’entrata in vigore della legge, il quale dovrebbe comunque produrre i suoi effetti conservativi, salvo impedire gli atti susseguenti), sull’ampiezza della sospensione che sembra comprendere anche gli atti successivi alla vendita forzata, con grave nocumento dell’aggiudicatario e dell’interesse anche del debitore alla ripartizione del ricavato; infine sulle modalità della pronuncia dell’ordinanza e sulla sua impugnabilità per reclamo. 22 Irrera, Le procedure concorsuali al tempo del coronavirus: alcune proposte, in www.dirittobancario.it. (contributo pubblicato anche in Il diritto dell’emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, a cura di Irrera, cit., 5 ss.).

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suggerito23, potrebbe essere negoziale, attraverso un accordo di dilazione tra imprenditore e creditori con criterio maggioritario, la nomina di un professionista indipendente che svolga funzioni di controllo e sia garante del periodo di dilazione, con effetto sospensivo di azioni cautelari ed esecutive a cui potrebbe essere sottoposto l’imprenditore. L’intervento del Tribunale potrebbe postularsi solo, anche in questo caso, per attività in frode in pregiudizio dei creditori nella gestione, su segnalazione del professionista. L’istituto differirebbe dalla moratoria di cui all’art. 62 Cod., perché riferito indiscriminatamente a tutti i creditori. Esiste, poi, il problema del rinvio in toto della entrata in vigore del Codice. È una scelta opportuna oppure alcune disposizioni si sarebbero adattate alla situazione di crisi economica che stiamo vivendo24? Certamente l’emersione della crisi, come regolata attraverso gli istituti dell’allerta, e la sua composizione, male si adattano ad una crisi generalizzata di liquidità che colpisce tutte le imprese25. La disciplina, peraltro, necessita di un ripensamento alla luce della Direttiva UE 1023/2019, essendo la riforma del 2019 nata prematuramente, nella fretta dei termini di scadenza della delega, senza tener conto delle indicazioni europee per una prevenzione della crisi, che assicuri la continuità di esercizio dell’impresa. La strada era stata peraltro tracciata dal precedente d.l. n. 9 del 2 marzo 2020, laddove si prevedeva che i soli obblighi di segnalazione di cui agli articoli 14, secondo comma, e 15 del codice della crisi avrebbero operato a decorrere dal 15 febbraio 2021. Erano proprio tali istituti a dovere subire un freno ed un’entrata in vigore graduale, magari con modifiche al regime delle soluzioni negoziali, attraverso la riesumazione del concordato liquidatorio e la semplificazione del duplice controllo, in sede di ammissione come di omologa, sulla fattibilità economica, da ricondurre ad unum, specificando che, salvo i casi di abuso, il sindacato è normalmente circoscritto alla attuabilità del piano concordatario o dell’accordo. Ma tutto il resto poteva entrare invariato. Non è stata questa la soluzione adottata dal d.l. n. 23 del 2020. La giustificazione, fondata quasi esclusivamente sulla necessità di favorire lo studio e l’assimilazione delle nuove norme da parte degli operatori professionali, giudici, curatori e

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Corno-Panzani, op. cit., i quali ipotizzano: “una procedura di moratoria semplificata, dove la sospensione delle azioni esecutive e cautelari per un periodo prefissato segua in via automatica alla iscrizione nel Registro delle imprese di una dichiarazione del debitore, in una con la documentazione che fotografa la situazione dell’impresa, e con indicazione di un professionista con funzione di sorveglianza, sempre tra i soggetti che hanno i necessari requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza, salva la facoltà del tribunale di designare altro soggetto su istanza dei creditori o del P.M.” oppure Limitone, L’accompagnamento fuori della crisi con l’aiuto dell’OCC-Covid-19, in www.ilcaso.it, 2020, 1, che ipotizza l’organismo di composizione della crisi in sede di contrasto al Covid-19, quale strumento di controllo dell’imprenditore durante la crisi da pandemia; conf. Benassi, Brevi spunti per un’agile procedura di “sostegno” alle imprese in crisi da Coronavirus, in www.ilcaso.it. 24 Di interesse sotto questo profilo in particolare Santangeli-Fabbi, Il (giusto) differimento, in ragione dell’emergenza, della entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza; ma è indispensabile che alcune norme entrino in vigore immediatamente, in www.ilcaso.it 25 Così anche Rordorf, Il codice della crisi e dell’insolvenza in tempi di pandemia, cit.; Irrera, Le misure di allerta ai tempi del coronavirus, cit.

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La riforma del diritto della crisi dell’impresa al tempo dell’epidemia Covid-19

avvocati, non convince. In realtà, già la vacatio di diciotto mesi avrebbe soddisfatto questa esigenza. Ugualmente, l’idea della necessità di non consentire l’entrata in vigore di una riforma in periodo di crisi sociale ed economica così intensa, non dovendosi dimenticare che i principali codici in vigore, come quello civile e di procedura civile, e la stessa legge fallimentare, sono stati promulgati e entrati in vigore in pieno evento bellico26. Non si possono nascondere, in realtà, le suggestioni provocate dall’intento di abrogare il nuovo assetto. Perché, ad esempio, non fare entrare in vigore gli istituti che consentono al tribunale di sostituirsi alla volontà, molto spesso latente, dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali, rispetto ai piani concordatari, siano essi offerti nell’ambito del concordato dell’imprenditore come del concordato minore (v., rispettivamente, artt. 48 e 80 cod.), in una prospettiva comune di crisi e sovra-indebitamento? Inoltre, perché non fare entrare in vigore la codificazione di orientamenti già consolidati, come la priorità di trattazione di domande volte ad una soluzione negoziale della crisi rispetto a quelle destinate ad avviare l’impresa al fallimento, in quel tentativo di unificazione, mediante riunione, dei procedimenti che accertano la fattispecie per l’avvio della procedura concorsuale, di cui agli artt. 7 e 40 cod., con un’istruttoria, regolata dalle stesse norme, che contempla una forte apertura verso il diritto alla prova, con l’unificazione dei rimedi protettivi e cautelari, disciplinati in modo orizzontale, sia per i concordati e gli accordi e sia per le soluzioni ex lege; tutti istituti estesi pure al debitore civile? Senza dimenticare la razionalizzazione della disciplina, stratificata dopo la legge n.3 del 2012, e dedicata al debitore civile ed al consumatore, pure essa auspicabilmente da fare entrare subito in vigore27. Altri istituti di maggiore garanzia avrebbero potuto immediatamente essere resi operativi. Ad esempio, gli effetti immediati della revoca del fallimento (della liquidazione giudiziale), sin dalla sentenza di primo grado, che mettono l’imprenditore nella condizione di potere gestire la propria impresa, pur sotto il controllo degli organi fallimentari che vedono prorogare i loro poteri sino al passaggio in giudicato della sentenza di revoca, art. 58 del codice. Tale assetto normativo, certamente utile nella congiuntura, avrebbe potuto ispirare quelle dilazioni controllate dei termini di pagamento o modifiche dei patti con i creditori, anche su base convenzionale, di cui si è detto poc’anzi. La sensazione è che si sia voluto rinviare per poi intervenire drasticamente, tanto lontana è la ragionevolezza di un rinvio generale e indiscriminato.

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Cfr. nota 1. Santangeli-Fabi, op. cit. auspicano quanto meno l’entrata in vigore della estensione dell’esdebitazione al debitore civile.

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Giurisprudenza commentata

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Giurisprudenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, Ord. 27 gennaio 2020, n. 1717; Pres. Curzio; Rel. Mercolino; Bau-Bast G.M.B.H. – Ceramiche Daytona S.p.A. Ricorso per cassazione – Motivi del ricorso – Questione di giurisdizione – Identificazione del giudice cui spetta la giurisdizione – Questione di carattere processuale – Conseguenze. In tema di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 1, c.p.c., l’identificazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine ad una controversia caratterizzata da elementi di estraneità all’ordinamento italiano integra questione di carattere processuale, in relazione alla quale la S.C., chiamata ad operare come giudice anche del fatto, può procedere non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie ma anche alla ricostruzione della vicenda sottoposta al suo esame, nei limiti in cui ciò risulti necessario per l’applicazione della predetta disciplina, e quindi anche all’interpretazione della volontà delle parti, se del caso attraverso l’esame diretto degli atti. Giudicato sulla giurisdizione – Nei confronti dello straniero o dello stato estero – Effetti in un successivo processo – Esclusione – Fondamento. Il giudicato sulla giurisdizione nei confronti dello straniero o dello Stato estero non può spiegare effetto in un successivo processo inerente al medesimo rapporto ma coinvolgente effetti diversi rispetto a quelli fatti valere nel primo processo; non è infatti possibile, sulla base del precedente giudicato, affermare o negare in un successivo processo “a priori” la giurisdizione, la quale risponde a criteri mutevoli nel tempo, atteso che il criterio di collegamento può atteggiarsi in modo diverso con riferimento a distinti giudizi, dovendo sussistere al momento della loro instaurazione.

(Omissis) La Ceramiche Daytona S.p.a. convenne in giudizio la Bau- B. Flie-sencenter, con sede in (Omissis), per sentirla condannare al pagamento del corrispettivo di forniture di merce effettuate negli anni compresi tra il 1992 ed il 1995 in virtù di un contratto di distribuzione e vendita in esclusiva stipulato il 26 luglio 1991, ed avente ad oggetto la rivendita in Austria e Germania di tegole per coperti prodotte dall’attrice. Premesso che erano insorte contestazioni in ordine alla qualità della merce fornita, l’attrice riferì di essere stata a sua volta convenuta in giudizio dalla Bau- B. dinanzi all’Autorità giudiziaria austriaca, la quale, tuttavia, con tre distinte decisioni aveva declinato la propria giurisdizione in ordine alla domanda di risarcimento dei danni proposta dalla convenuta.

Si costituì in giudizio la Bau- B. G.m.b.H., in qualità di avente causa della convenuta, ed eccepì il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, opponendo nel merito l’avvenuto pagamento della merce fornita e l’inadempimento dell’attrice; eccepì inoltre la compensazione tra il credito fatto valere da quest’ultima e quello relativo ai danni subiti da essa convenuta, chiedendo in via riconvenzionale la condanna della Ceramiche Daytona al risarcimento. Con sentenza del 19 gennaio 2005, il Tribunale di Modena dichiarò il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, indicando quale giudice competente il Tribunale di Ried im Innkreis (A). L’impugnazione proposta dalla Ceramiche Daytona è stata accolta dalla Corte d’Appello di Bologna, che con sentenza del 25 ottobre 2011 ha rigettato il gravame incidentale proposto dalla

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Bau- B., rigettando l’eccezione di difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana e rimettendo le parti dinanzi al Tribunale di Modena. A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso l’applicabilità dell’art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001, rilevando che non era stata fornita la prova dell’avvenuta instaurazione del giudizio in data successiva a quella della sua entrata in vigore, dal momento che l’originale dell’atto di citazione prodotto dall’attrice recava esclusivamente la data di trasmissione della richiesta di notifica alla competente autorità austriaca e quella di ricezione della stessa, e non anche quella di effettuazione della notifica. Ha ritenuto quindi sussistente la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, richiamato dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 3 osservando che in materia contrattuale il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in altro Stato contraente dinanzi al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio dev’essere eseguita, e rilevando che nella specie l’obbligazione doveva essere eseguita in Modena. Ha ritenuto conseguentemente assorbite le questioni riguardanti la validità della clausola contrattuale di proroga della giurisdizione e la vincolatività delle decisioni pronunciate dall’Autorità giudiziaria austriaca, precisando comunque che le stesse, nell’escludere la giurisdizione del giudice austriaco in virtù della ritenuta invalidità della predetta clausola, non avevano positivamente indicato l’autorità giudiziaria competente in quella italiana. Avverso la predetta sentenza la Bau- B. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. La Ceramiche Daytona ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo, ed illustrato anche con memoria. La causa è stata assegnata alla Prima Sezione civile, che con ordinanza del 5 aprile 2019 ha

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ritenuto inapplicabile l’art. 360 c.p.c., comma 3, rimettendo pertanto gli atti al Primo Presidente, il quale ne ha disposto l’assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione. Omissis Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 66 e 67 del Regolamento CE n. 44/2001, sostenendo che, nell’escludere l’applicabilità di tale Regolamento, in virtù della mancata dimostrazione dell’avvenuta instaurazione del giudizio in data successiva a quella della sua entrata in vigore, la sentenza impugnata non ha considerato che la notificazione dell’atto di citazione doveva aver avuto luogo in data successiva a quella (11 marzo 2002) in cui, come da essa stessa rilevato, la relativa richiesta era pervenuta all’autorità austriaca competente. Premesso inoltre che dal fascicolo trasmesso in copia da quest’ultima si evince che l’atto di citazione era stato notificato il 15 marzo 2002 e la relativa attestazione era stata trasmessa al Tribunale di Modena il 21 marzo 2002, afferma comunque che, in assenza della prova della notifica, posta a carico dell’attrice, non vi era alcuna ragione di escludere l’applicabilità dell’art. 23 del Regolamento CE. 4. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001, della L. n. 218 del 1995, art. 3 e degli artt. 5 e 17 della Convenzione di Bruxelles, osservando che, anche a voler ritenere inapplicabile il Regolamento CE, la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana avrebbe dovuto essere esclusa ai sensi dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles, operante in virtù della Convenzione di adesione del 29 novembre 1996, resa esecutiva dalla L. 26 gennaio 1999, n. 24, in quanto la clausola convenzionale di proroga del foro comportava la competenza esclusiva dell’Autorità giudiziaria austriaca.


Marco Farina

Con il terzo motivo, la ricorrente insiste per l’applicazione dell’art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001 ed in subordine dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles, ribadendo che, in presenza di un valido accordo scritto di proroga della competenza, quest’ultima doveva ritenersi attribuita in via esclusiva al foro di Ried im Innkreis. Afferma che a tal fine dovevano considerarsi irrilevanti le decisioni dell’Autorità giudiziaria austriaca invocate dalla attrice, le quali, oltre ad essere state prodotte tardivamente ed in copia semplice, senza che ne fosse stato richiesto il riconoscimento neppure in via incidentale, non spiegavano efficacia di giudicato in ordine alla competenza dell’Autorità giudiziaria italiana, non potendo formare oggetto di riconoscimento, in quanto aventi natura meramente processuale, ed essendo state pronunciate in un giudizio caratterizzato da un petitum e una causa petendi diversi. Aggiunge che l’efficacia di giudicato delle predette decisioni non è ricollegabile neppure al principio del riconoscimento automatico operante nello spazio giudiziario Europeo, il quale, comportando l’estensione agli altri Stati dei medesimi effetti che il giudicato spiega nell’ordinamento di origine, non può trovare applicazione nel caso in esame, dal momento che l’ordinamento processuale austriaco subordina la predetta efficacia all’identità dell’oggetto del giudizio, della pretesa azionata e della fattispecie concreta. Con il quarto motivo, la ricorrente ribadisce la competenza dell’Autorità giudiziaria austriaca, ai sensi degli artt. 2 e 5 del Regolamento CE n. 44/2001, osservando che, anche a voler ritenere invalida la convenzione di proroga della competenza, dovrebbe ugualmente escludersi la giurisdizione italiana, occorrendo fare riferimento al luogo in cui essa ricorrente ha la propria sede, in applicazione del criterio del foro generale del convenuto o di quello del luogo in cui doveva essere materialmente consegnata la merce. Sostiene che a tal fine deve considerarsi ininfluente la

mancata indicazione di tale luogo nel testo contrattuale, così come l’indicazione “franco partenza” riportata nelle fatture, avente l’unico effetto di porre le spese di trasporto a carico dell’acquirente. Con il quinto motivo, la ricorrente chiede, in caso di accoglimento del ricorso, la riforma della sentenza impugnata, nella parte in cui ha confermato la compensazione delle spese del giudizio di primo grado ed ha compensato le spese del giudizio di appello. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della controricorrente, ciascuno dei predetti motivi reca in premessa la chiara individuazione delle affermazioni della sentenza impugnata che la ricorrente ha inteso censurare, cui fa seguito lo svolgimento di puntuali argomentazioni volte ad inficiarne il fondamento logico-giuridico, anche mediante il richiamo di atti normativi e precedenti giurisprudenziali. Può ritenersi dunque soddisfatto il requisito della specificità dei motivi d’impugnazione, il quale postula che il ricorrente non si limiti a contestare la sentenza impugnata attraverso il generico richiamo a norme e principi di diritto o la mera denuncia di vizi logici, ma individui esattamente le statuizioni censurate, illustrando in modo intelligibile ed esauriente le violazioni di legge o le carenze motivazionali dedotte (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 29/11/2016, n. 24298; Cass., Sez. III, 25/09/2009, n. 20652; 27/06/2007, n. 14832). Nessun rilievo può assumere, a tal fine, la mancata trascrizione delle decisioni straniere invocate a confutazione dell’efficacia di giudicato delle sentenze pronunciate dall’Autorità giudiziaria austriaca, trattandosi di precedenti giurisprudenziali suscettibili di acquisizione anche d’ufficio, nell’ambito dell’accertamento della legge straniera cui il Giudice è tenuto a procedere anche in sede di legittimità, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 14. Quanto poi all’esposizione dei fatti di causa, estremamente particolareggiata, è sufficiente rilevare che la so-

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vrabbondanza della stessa, pur contrastando con le caratteristiche di sommarietà imposte dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non impedisce di cogliere con immediatezza gli aspetti salienti della vicenda sostanziale e processuale, risolvendosi pertanto nella mera inosservanza dei canoni di chiarezza e sinteticità degli atti processuali, la cui violazione, non essendo normativamente sanzionata, in tanto può giustificare la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso, in quanto pregiudichi la comprensione delle questioni sollevate, rendendo oscuro lo svolgimento dei fatti e confuse le censure mosse alla sentenza gravata (cfr. Cass., Sez. V, 21/03/2019, n. 8009; Cass., Sez. II, 20/10/2016, n. 21297; Cass., Sez. lav., 6/08/2014, n. 17698). Il primo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, sono peraltro fondati. Non può infatti condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur dando atto dell’avvenuta produzione dell’originale dell’atto di citazione in primo grado, recante la data di trasmissione della richiesta di notificazione alla competente Autorità austriaca (13 febbraio 2002) e l’attestazione della ricezione della stessa da parte di quest’ultima (avvenuta l’11 marzo 2002), ha escluso l’applicabilità dell’art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001, ritenendo non provato che il giudizio fosse stato instaurato successivamente alla sua entrata in vigore (1 marzo 2002), a causa della mancata dimostrazione della data di effettuazione della notifica. La circostanza che la richiesta di notificazione, ancorché spedita in data anteriore a quella di entrata in vigore del Regolamento, fosse pervenuta a destinazione in data successiva, avrebbe dovuto infatti indurre la Corte d’appello a ritenere che il giudizio fosse stato sicuramente introdotto sotto la vigenza del Regolamento: in tal senso deponeva la duplice considerazione che la notifica doveva necessariamente essere stata effettuata in data successiva a

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quella di ricezione della richiesta, e che la stessa si era perfezionata, essendosi la convenuta ritualmente costituita in giudizio. Non merita consenso, al riguardo, la tesi sostenuta dalla controricorrente, secondo cui, ai fini dell’individuazione della data d’instaurazione del giudizio, deve tenersi conto non già della data di consegna dell’atto di citazione alla convenuta, ma di quella in cui la richiesta di notificazione è stata presentata all’ufficiale giudiziario italiano: il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio, in virtù del quale gli effetti della notificazione si producono per il notificante alla data di presentazione della relativa richiesta all’ufficiale giudiziario e per il destinatario a quella di consegna dell’atto, opera infatti esclusivamente nel caso in cui dall’individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze o altri impedimenti a carico dell’una o dell’altra parte, e non può quindi trovare applicazione nella determinazione della pendenza della lite rilevante ai fini del riparto di giurisdizione, la quale coincide necessariamente con il momento in cui il procedimento di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio si completa, attraverso la consegna al destinatario o a chi sia comunque abilitato a riceverlo (cfr. Cass., Sez. Un., 19/04/2013, n. 9535). In contrario, non vale richiamare l’art. 30 n. 2 del Regolamento CE n. 44/2001, ai sensi del quale, se l’atto deve essere notificato o comunicato prima di essere depositato presso il giudice, quest’ultimo si considera adito quando l’autorità competente per la notificazione o comunicazione lo riceve, a meno che successivamente l’attore non abbia omesso di prendere tutte le misure necessarie affinché l’atto fosse depositato presso il giudice: gli effetti di tale disposizione risultano infatti espressamente limitati alla materia disciplinata dalla sezione in cui la stessa è inserita, ovverosia alla litispendenza ed alla connessione, mentre ad ogni altro fine trova applicazione, in


Marco Farina

assenza di diverse disposizioni, la legge nazionale del giudice dinanzi al quale il processo si svolge (c.d. lex fori), nella specie rappresentata dalla disciplina generale del codice di rito italiano, la quale, in riferimento ai giudizi introdotti con atto di citazione, fa coincidere la pendenza della lite con la consegna dell’atto al destinatario. L’accertamento in via logica della pendenza della lite alla data di entrata in vigore del Regolamento CE è di per sé sufficiente a giustificare l’applicazione della relativa disciplina, rendendo irrilevante la circostanza che la prova della data di perfezionamento della notificazione dell’atto di citazione sia stata fornita soltanto in questa sede, attraverso la produzione di copia del fascicolo relativo al procedimento notificatorio rilasciata dall’Autorità austriaca, non consentita dall’art. 372 c.p.c., non trattandosi di documenti riguardanti la nullità della sentenza impugnata o l’ammissibilità del ricorso. L’applicabilità del Regolamento CE n. 44/2001 impone a sua volta di tener conto, nell’individuazione del Giudice cui spetta la giurisdizione in ordine alla domanda proposta dall’attrice, della clausola di proroga della competenza inserita nel contratto stipulato tra le parti, ai sensi della quale la cognizione delle relative controversie era attribuita al Tribunale di Ried im Innkreis, e quindi all’Autorità giudiziaria austriaca. In mancanza di un diverso accordo tra le parti, il foro convenzionale deve considerarsi infatti esclusivo, ai sensi dell’art. 23 del Regolamento, e quindi prevalente sia su quello del domicilio del convenuto, previsto in via generale dall’art. 2, che su quello speciale del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio doveva essere adempiuta, previsto dall’art. 5, n. 1 del medesimo Regolamento (cfr. Cass., Sez. Un., 31/07/2018, n. 20349; 8/03/2012, n. 3624; 20/02/2007, n. 3841). L’assenza di contestazioni in ordine alla portata della predetta clausola, il cui tenore letterale risulta peraltro estremamente chiaro, dispensa da

qualsiasi considerazione in ordine alla sua interpretazione, relativamente alla quale è appena il caso di rilevare l’infondatezza della tesi sostenuta dalla difesa della controricorrente, secondo cui si tratterebbe di una questione non proponibile in sede di legittimità, in quanto implicante la ricostruzione della volontà delle parti, e quindi un’indagine di fatto rimessa in via esclusiva al giudice di merito: l’identificazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine ad una controversia caratterizzata da elementi di estraneità all’ordinamento italiano dà infatti luogo ad una questione di carattere processuale, in ordine alla quale questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, e può quindi procedere alla verifica non solo della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie, ma anche alla ricostruzione della vicenda sottoposta al suo esame, nei limiti in cui ciò risulti necessario per l’applicazione della predetta disciplina, e quindi anche all’interpretazione della volontà delle parti, se del caso attraverso l’esame diretto degli atti (cfr. Cass., Sez. Un., 26/01/1968, n. 242). Infondata è altresì l’eccezione sollevata dalla controricorrente, secondo cui l’applicabilità della clausola di proroga della competenza dovrebbe ritenersi preclusa in virtù del giudicato formatosi in ordine alla sua inefficacia, per effetto delle sentenze pronunciate nel giudizio precedentemente svoltosi tra le medesime parti dinanzi all’Autorità giudiziaria austriaca, e conclusosi con la declinatoria della giurisdizione in favore del Giudice italiano. Non occorre in questa sede affrontare specificamente le questioni sollevate dalla ricorrente in ordine all’irrituale produzione in giudizio delle predette sentenze, depositate per la prima volta in appello e soltanto in copia semplice, nonché in ordine alla sussistenza dei presupposti necessari per il riconoscimento della relativa efficacia nell’ordinamento italiano. È infatti sufficiente rilevare che, nonostante l’identità delle parti, alle

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stesse non potrebbe in alcun caso essere riconosciuta autorità di giudicato in ordine alla giurisdizione, in quanto riguardanti una domanda oggettivamente diversa da quella proposta nel presente giudizio: la controversia promossa dalla Bau- B. dinanzi all’Autorità giudiziaria austriaca, pur traendo anch’essa origine dal contratto di vendita stipulato tra le parti, aveva infatti ad oggetto il risarcimento dei danni asseritamente subiti dalla ricorrente a causa dei vizi della merce fornita, e nell’ambito della stessa la Ceramiche Daytona non aveva avanzato una domanda di pagamento, ma si era limitata ad eccepire la compensazione tra il credito fatto valere dall’attrice e il corrispettivo di forniture non pagate, la cui coincidenza con quelle di cui è stato chiesto il pagamento nel presente giudizio non risulta in alcun modo dimostrata. Non risulta pertinente, in contrario, il richiamo della difesa della controricorrente alla L. n. 218 del 1995, art. 4, comma 3, dal momento che tale disposizione, nel dichiarare inefficace la deroga convenzionale della giurisdizione italiana ove il giudice o gli arbitri indicati declinino la propria giurisdizione, postula evidentemente che tra il giudizio promosso dinanzi a questi ultimi e quello dinanzi al giudice presso il quale la domanda venga successivamente riproposta sia configurabile un’identità sia soggettiva che oggettiva. In tema di giurisdizione nei confronti dello straniero, queste Sezioni Unite hanno avuto d’altronde modo di escludere ripetutamente l’ef-

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ficacia del giudicato formatosi in un precedente giudizio tra le stesse parti, affermando che, anche nel caso in cui esso riguardi il medesimo rapporto, ma coinvolga effetti diversi rispetto a quelli fatti valere nel successivo processo, non è possibile, in base allo stesso, affermare o negare a priori la giurisdizione, la quale risponde a criteri mutevoli nel tempo, in quanto, dovendo il criterio di collegamento sussistere al momento dell’instaurazione del giudizio, esso può atteggiarsi in modo diverso con riferimento a distinti giudizi (cfr. Cass., Sez. Un., 17/07/2008, n. 19600; 19/07/2006, n. 16461; Cass., Sez. I, 12/11/1994, n. 9554). Omissis La sentenza impugnata va pertanto cassata senza rinvio, con la dichiarazione del difetto di giurisdizione del Giudice italiano, restando assorbiti gli altri motivi del ricorso principale e l’unico motivo del ricorso incidentale, con cui la controricorrente ha lamentato la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., censurando la sentenza impugnata nella parte riguardante il regolamento delle spese processuali. L’oggettiva incertezza della situazione determinata dalle precedenti decisioni dell’Autorità giudiziaria straniera giustifica peraltro l’integrale compensazione delle spese relative ai tre gradi di giudizio. (Omissis)


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L’applicabilità nel tempo della normativa europea uniforme in materia civile e commerciale, clausola di electio fori e limiti del sindacato della cassazione sulle questioni di giurisdizione. Note a margine di una (non condivisibile) pronuncia della corte di cassazione Sommario :

1. La fattispecie decisa. – 2. L’applicazione ratione temporis del regolamento 44/2001 (e del regolamento (UE) 1215/2012). – 3. Clausola di electio fori, questione di giurisdizione e limiti del sindacato della Cassazione. – 4. Precedente decisione declinatoria della giurisdizione resa da un giudice di uno Stato membro sulla base della ritenuta invalidità di una clausola di proroga e vincoli “europei” nel successivo giudizio instaurato dinanzi al giudice italiano.

L’Autore annota, in chiave parzialmente critica, la decisione della Cassazione che – dopo aver ritenuto che la disposizione transitoria di cui all’art. 66 del Regolamento (CE) 44/2001 deve applicarsi secondo le regole interne che disciplinano la pendenza della lite – ha accolto il ricorso per cassazione proposto dal convenuto soccombente sulla questione di giurisdizione internazionale ritenendo, tra l’altro, di poter procedere ad un rinnovato e completo esame di merito della portata oggettiva della clausola di electio fori invocata dal convenuto e di non essere in alcun modo vincolata alla precedente decisione con la quale il giudice prorogato aveva dichiarato invalida tale clausola. The author comments critically on a Italian Supreme Court ruling which - after considering that the transitional provision in Article 66 of Regulation (EC) No 44/2001 must apply in accordance with the national rules establishing when the court shall be deemed to be seised - upheld the appeal brought by the defendant considering, inter alia, that it could proceed to a renewed examination of the merits of the objective scope of the jurisdiction clause and that it was in no way bound by the previous decision by which the Austrian court had declared such jurisdiction clause invalid.

1. La fattispecie decisa. Una società con sede in Italia ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Modena una società avente sede in Austria al fine di ottenerne la condanna al pagamento del

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corrispettivo dovuto in esecuzione di un contratto avente ad oggetto la distribuzione e la vendita in Austria dei prodotti della società attrice. La società convenuta, nel costituirsi, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano in dipendenza di una clausola contenuta nel contratto di distribuzione e vendita che individuava nel giudice austriaco l’unico giudice dotato di competenza giurisdizionale per risolvere le controversie derivanti dal contratto. In primo grado il Tribunale di Modena ha accolto l’eccezione di difetto di giurisdizione avanzata dalla società austriaca convenuta sulla base della clausola di electio fori contenuta nel contratto, mentre in secondo grado la Corte d’Appello di Bologna ha riformato la decisione ritenendo sussistente la giurisdizione del giudice italiano «ai sensi dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 richiamato dall’art. 3 della legge 31 maggio 1995, n. 281» osservando che in materia contrattuale il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in altro Stato contraente dinanzi al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio deve essere eseguita, e rilevando che nella specie l’obbligazione doveva essere eseguita in Modena. Sempre da quanto risulta dalla ordinanza in commento, la Corte territoriale ha riformato la decisione di primo grado, che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, ritenendo inapplicabile, ratione temporis, l’art. 23 del reg. 44/20011 e «conseguentemente assorbite le questioni riguardanti la validità della clausola contrattuale di proroga della giurisdizione e la vincolatività delle decisioni pronunciate dall’Autorità giudiziaria austriaca»2. Fatto salvo quanto verrà più approfonditamente osservato nel prosieguo, non è, però, chiaro perché la Corte territoriale, dopo aver escluso l’applicabilità ratione temporis dell’art. 23 reg. 44/2001, abbia per ciò solo escluso che potesse darsi rilievo alla volontà delle parti al fine di radicare la giurisdizione in capo al giudice austriaco3 atteso

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L’articolo 23 del reg. 44/2001 regola(va) la proroga di competenza, riconoscendo alle parti (di cui una almeno domiciliata in uno Stato membro) la facoltà di accordarsi al fine di individuare il giudice di uno Stato membro quale giudice (in via di principio, esclusivamente) competente a conoscere delle controversie nate da un determinato rapporto giuridico. L’art. 23 è stato ora sostituito dall’articolo 25 del reg. 1215/2012 (c.d. Bruxelles I-bis) che ha apportato al previgente testo alcune significative modifiche in punto di efficacia soggettiva degli accordi (oggi riconosciuti dalla legislazione europea uniforme pure se conclusi tra due parti domiciliate in Stati terzi), nonché in punto di individuazione della legge applicabile per verificarne la validità da punto di vista sostanziale (legge che coincide con quella dello Stato membro prescelto nell’accordo). Sugli accordi sulla giurisdizione v., per tutti, L. Penasa, Gli accordi sulla giurisdizione tra parti e terzi, I, Natura e legge regolatrice, Padova, 2012, Id., Gli accordi sulla giurisdizione tra parti e terzi, II, Profili soggettivi, Milano, 2017, F. Villata, L’attuazione degli accordi di scelta del foro nel Regolamento Bruxelles 1, Padova, 2013, I. Quierolo, Gli accordi sulla competenza giurisdizionale. Tra diritto comunitario e diritto interno, Padova, 2000, S.M. Carbone, Gli accordi di proroga della giurisdizione e le convenzioni arbitrali nella nuova disciplina del regolamento (UE) 1215/2012, in Dir. comm. Int., 2013, 615 e ss.; T. Hartley, Choice-of-court agreements under the European and international instruments, Oxford, 2013. Come vedremo meglio infra, nel caso di specie l’attore, agendo davanti al Tribunale di Modena, aveva anche espressamente dedotto – stando a quello che risulta dalla sentenza in commento – che il giudice austriaco, sulla base della ritenuta invalidità della clausola di electio fori contenuta nel contratto di distribuzione e vendita, si era dichiarato incompetente a decidere la lite ivi iniziata nei suoi confronti dalla società convenuta austriaca per ottenere il risarcimento del danno derivante dal preteso inadempimento di detto contratto da parte della società venditrice italiana. Ritenendo, come visto, addirittura «assorbite» le invece rilevantissime questioni di validità della clausola e di efficacia delle decisioni del giudice austriaco che quella clausola aveva stimato nulla e, come tale, inidonea a conferirgli giurisdizione sulla base della volontà delle parti. Ma su questo si veda meglio infra.

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che, come noto, l’art. 23 del reg. 44/2001 riproduceva, con qualche lieve modifica, l’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 1968 (applicabile nei rapporti tra Italia ed Austria prima dell’entrata in vigore del reg. 44/2001) e, dunque, quand’anche la clausola invocata dal convenuto non fosse stata regolata dall’art. 23 del reg. 44/2001 ratione temporis, lo sarebbe stata senz’altro dal corrispondente art. 17 della Convenzione di Bruxelles con conseguente (almeno in astratto, v. infra) derogabilità della giurisdizione italiana in favore di quella austriaca in dipendenza della volontà delle parti4. Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso per cassazione, per motivi attinenti alla giurisdizione5, la società austriaca convenuto censurando, in primo luogo, l’affermazione compiuta dal giudice di appello circa l’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 23 del reg. 44/2001 dovendosi a suo avviso ritenere, contrariamente a quanto opinato dalla Corte territoriale, che la data di instaurazione del giudizio innanzi al Tribunale di Modena coincidesse con la data di perfezionamento nei suoi confronti della notificazione dell’atto di citazione, piuttosto che con la data di consegna dello stesso atto all’autorità competente alla notificazione.

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La Corte d’appello, peraltro, stando a quanto riportato nella ordinanza in commento, dopo aver ritenuto inapplicabile ratione temporis il reg. 44/2001, ha dichiarato la giurisdizione del giudice italiano in virtù dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968 «richiamato dall’art. 3 della legge 31 maggio 1995 n. 218». Si tratta, a ben vedere, di precisazione erronea perché, come a tutti noto, nei rapporti fra l’Italia e altro Stato membro (nel vigore della Convenzione di Bruxelles, altro Stato contraente) detta convenzione era destinata ad applicarsi proprio vigore, ossia senza che assumesse rilevanza il rinvio contenuto nell’art. 3 della L. 218/1995 che ha, come effetto, quello di estendere le previsioni della Convenzione al di là dei suoi presupposti soggettivi e territoriali di applicazione. A tal proposito vale la pena di osservare che l’applicazione da parte del giudice italiano anche nei rapporti fra Stati membri dell’art. 3 L. 218/1995 che (tuttora) richiama, per le controversie in materia civile e commerciale, la Convenzione di Bruxelles del 1968 non è un errore irrilevante atteso che, seppure è vero che nel passaggio dalla Convenzione al reg. 44/2001 (e, poi, al reg. 1215/2012) vi è continuità (tale da giustificare, tra l’altro, la tuttora permanente validità delle pronunce interpretative della Corte di giustizia riferite a disposizioni “comuni” ai testi normativi che si sono susseguiti), alcune norme in punto di giurisdizione, come vedremo in seguito, sono significativamente mutate. Ciò che ha giustificato l’intervento delle sezioni unite, senza dunque che la provenienza da tale massima composizione dei giudici di legittimità possa attribuire alla decisione un rilievo più significativo perché resa in causa di massima particolare importanza o a composizione di un contrasto. Vale la pena a tal proposito di segnalare, infatti, che inizialmente il ricorso (proposto avverso sentenza della Corte d’appello di riforma della pronuncia di primo grado declinatoria della giurisdizione, con conseguente rimessione della causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 353 c.p.c.) era stato assegnato, nonostante avesse ad oggetto una questione di giurisdizione, alle sezioni semplici in quanto, al momento della sua proposizione (risalente al 2012) esso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile in applicazione del principio di diritto affermato, tra le altre, da Cass. civ., sez. un., 2 settembre 2013, n. 20073 e Cass., sez. un., 12 febbraio 2013, n. 3268 a tenore del quale «in applicazione del terzo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, non è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza d’appello che abbia affermato la giurisdizione del giudice ordinario, negata dal giudice di primo grado, e rimesso la causa a quest’ultimo, trattandosi di pronuncia che, decidendo sulla questione pregiudiziale insorta, non è idonea a definire, neppure parzialmente, il giudizio» (per una critica a questo orientamento v. L. Penasa, Inammissibile il ricorso per cassazione immediato avverso la sentenza di appello ex art. 353 c.p.c. di rimessione al primo giudice per verificata sussistenza della giurisdizione italiana, in Int’l Lis, 2014, 40; G. Balena, Rimessione al primo giudice, ricorso per cassazione e ragionevole durata del processo, in Foro it., 2014, I, 3109). Al momento della decisione del ricorso, però, l’orientamento è mutato in quanto, nel frattempo, Cass. civ., sez. unite, 22 dicembre 2015, n. 25774 (in Riv. dir. proc., 2016, 206 e ss. con nota di commento di E. Marinucci, Le Sezioni Unite abbandonano la categoria delle sentenze d’appello ‘sostanzialmente’ non definitive) ha ritenuto immediatamente impugnabile la sentenza del giudice di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, affermi la giurisdizione negata dal primo giudice. È per questo motivo – ossia perché si trattava di decidere sul fondo della questione di giurisdizione – che la prima sezione a suo tempo investita del ricorso (al fine di dichiararlo inammissibile) ha rimesso gli atti al primo presidente per l’investitura delle sezioni unite cui compete il potere di pronunciarsi sulla giurisdizione (anche internazionale).

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Giurisprudenza

Con il secondo motivo di ricorso, la società convenuta austriaca ha censurato la sentenza impugnata deducendo, in sostanza, che, anche a voler ritenere inapplicabile ratione temporis l’art. 23 del reg. 44/2001, il difetto di giurisdizione del giudice italiano doveva essere affermato sulla base della esistenza di una clausola di elezione del foro valida ed applicabile al caso di specie, quantomeno, ai sensi dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles, ossia del “predecessore” dell’art. 23 del reg. 44/2001, con la quale le parti avevano conferito al giudice austriaco la competenza giurisdizionale esclusiva a decidere le controversie derivanti dal contratto di distribuzione e vendita. Con il terzo motivo, invece, la società austriaca ha rilevato la dovuta applicazione dell’art. 23 del reg. 44/2001 e, dunque, l’affermazione della giurisdizione del giudice austriaco in presenza di un valido accordo scritto di proroga della competenza senza che a tal fine potesse assegnarsi rilevanza al fatto che il giudice austriaco si era dichiarato incompetente a decidere sulla base di quella medesima clausola che era stata da quest’ultimo ritenuta nulla. Con un ultimo e quarto motivo, la società austriaca ha rilevato l’erroneità della pronuncia della Corte d’Appello nella parte in cui, sul presupposto (erroneo, a dire della ricorrente) di inapplicabilità della clausola di scelta esclusiva del foro, aveva dichiarato sussistente la giurisdizione del giudice italiano quale giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, dovendo invece ritenersi, ai sensi dell’art. 5 del reg. 44/2001, che per luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio doveva intendersi, appunto, l’Austria quale luogo in cui era avvenuta (o sarebbe dovuta avvenire) tanto la consegna dei beni venduti dalla società italiana, quanto la loro stessa distribuzione ad opera della società convenuta austriaca.

2. L’applicazione ratione temporis del Regolamento (CE) 44/2001.

La Corte ha esaminato e ritenuto fondati il primo ed il terzo motivo di ricorso, dichiarato assorbiti gli altri motivi6 e, conseguentemente, ha cassato senza rinvio la decisione impugnata7.

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A nostro modo di vedere la Cassazione avrebbe dovuto esaminare il primo motivo solo qualora avesse ritenuto infondato il secondo motivo di ricorso con conseguente necessità di esaminare il quarto. L’applicabilità ratione temporis del reg. 44/2001 in luogo della Convenzione di Bruxelles, infatti, era assolutamente irrilevante al fine di stabilire se il giudice italiano avrebbe dovuto dichiararsi sfornito di giurisdizione in dipendenza di una clausola di scelta esclusiva del foro atteso che, come sopra visto, tanto nel vigore del reg. 44/2001, quanto nel vigore della Convenzione di Bruxelles, la volontà delle parti è certamente criterio utile per determinare la giurisdizione allorché, beninteso, ricorrano le condizioni (che sono poi sostanzialmente le medesime) previste dall’art. 23 reg. 44/2001 o dall’art. 17 della Convenzione di Bruxelles. Quindi, la Corte avrebbe dovuto, a nostro avviso, esaminare dapprima il secondo motivo e, solo in caso di suo rigetto (ossia in caso di ritenuta inapplicabilità della clausola di elezione del foro per le ragioni che poi vedremo), avrebbe dovuto esaminare il primo ed il quarto motivo dando, in sostanza, risposta al quesito (rilevante, visto il diverso modo di funzionare delle due norme; v. infra) se nel caso di specie dovesse applicarsi l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles, ovvero l’art. 5 del reg. 44/2001. Prima di esaminare il “merito” dei motivi di ricorso, peraltro, la Cassazione ha rigettato l’eccezione di inammissibilità per tardività del ricorso sollevata dalla controricorrente. A parere di quest’ultima, infatti, il ricorso era tardivo in quanto proposto entro i 6 mesi dal deposito in cancelleria della sentenza ma oltre 60 giorni dalla avvenuta notificazione della sentenza che era stata eseguita

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Quanto al primo motivo – concernente, come detto, l’applicazione ratione temporis del reg. 44/2001 – questo è stato ritenuto fondato dalla Corte in virtù della considerazione per cui, ai fini di quanto previsto dall’art. 66 del reg. 44/20018 e dunque per ritenere instaurata una controversia che dovrà dirsi regolata da quest’ultimo regolamento, ciò che rileva non è la data in cui la notificazione si intende perfezionata per il notificante ma, diversamente, la data in cui la notificazione si intende perfezionata, con la consegna, nei confronti del destinatario. A tal proposito la Cassazione ha, innanzi tutto, ricordato che la regola della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio è destinata a trovare applicazione solo qualora dalla individuazione della data di notificazione possano discendere decadenze o altri impedimenti a carico della parte notificante e non può, invece, essere applicata per la determinazione della pendenza della lite rilevante ai sensi dell’art. 5 c.p.c. e, dunque, ai fini del riparto di giurisdizione9. Secondo quanto rilevato nella pronuncia in commento, tale regola interna volta ad individuare il momento in cui deve considerarsi pendente una controversia ai sensi dell’art.

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unitamente all’atto di riassunzione del giudizio dinanzi al Tribunale di Modena. Secondo la sentenza in commento, infatti, dalla mera inclusione di copia della sentenza nell’atto di riassunzione del giudizio ai sensi dell’art. 353 c.p.c. non può desumersi una univoca manifestazione di volontà della parte di accelerare la formazione del giudicato non potendo una tale attività considerarsi sintomatica di un tale intento acceleratorio. In questa sede non può prendersi posizione su questa affermazione che pare, ad un sommario esame, da condividere alla luce dell’orientamento che, ai fini in discorso, privilegia non la conoscenza legale del provvedimento (che certamente è stata nel caso di specie propiziata in capo al ricorrente per effetto della sua inclusione nell’atto di riassunzione ex art. 353 c.p.c.) ma, diversamente, un’indagine relativa alla volontà della parte di accelerare la formazione del giudicato (v. Cass. civ., sez. un., 9 giugno 2016, n. 12084, in Corr. Giur., 2017, 535 con nota di commento di L. Penasa, Le sezioni unite confermano l’equivalenza tra notificazione della sentenza e della impugnazione ai fini del decorso del termine breve per impugnare) che nel caso di specie dovrebbe dirsi esclusa dal fatto che la notificazione è avvenuta a tutt’altri fini (ossia per dar contezza della ragione per la quale si stava riassumendo il giudizio). Il quale prevede(va) che il reg. 44/2001 dovesse trovare applicazione solo alle «azioni proposte ed agli atti pubblici formati posteriormente alla sua entrata in vigore». Il reg. 44/2001 è entrato in vigore il 1° marzo 2001 ed è stato sostituito dal reg. 1215/2012 che si applica alle azioni proposte posteriormente al 10 gennaio 2015. Quanto detto nella decisione in commento dalla Cassazione con riferimento alla interpretazione dell’art. 66 del reg. 44/2001 vale, dunque, anche con riferimento alla omologa disposizione transitoria contenuta nel reg. 1215/2012 sempre all’art. 66 per il quale «il presente regolamento si applica solo alle azioni proposte, agli atti pubblici formalmente redatti o registrati e alle transazioni giudiziarie approvate o concluse alla data o successivamente al 10 gennaio 2015». Pertanto, una decisione di condanna emessa dopo il 10 gennaio 2015 ma all’esito di un’azione «propost[a]» prima del 10 gennaio 2015 dovrà essere dichiarata esecutiva ai sensi delle pertinenti disposizioni del reg. 44/2001 (ancora applicabile, nonostante la sua abrogazione espressa da parte dell’art. 80 reg. 1215/2012, ai sensi di quanto previsto dal secondo paragrafo dell’art. 66) non valendo per essa l’abolizione dell’exequatur (nel caso in cui il creditore si servisse di una tale decisione straniera direttamente come titolo esecutivo in Italia, il debitore in sede di opposizione all’esecuzione potrà allora dedurre la carenza di titolo esecutivo sostenendo proprio l’inapplicabilità ratione temporis del reg. 1215/2012). Sull’ambito di applicazione temporale del reg. 1215/2012 si v. S.M. Carbone-C. Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, Torino, 2016, 22 e 23. Così Cass. civ., sez. un., 19 aprile 2013, n. 9535 (in Riv. dir. proc., 2014, 1609 e ss., con nota di commento di M. Russo, In tema di notificazione dell’atto introduttivo e momento determinante la litispendenza) che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in virtù di una norma sopravvenuta entrata in vigore tra la data di consegna dell’atto introduttivo all’ufficiale giudiziario e la data successiva di perfezionamento della notificazione nei confronti del destinatario per effetto della consegna a quest’ultimo dell’atto da notificare. Sostanzialmente nello stesso senso pure Cass. civ., Sez. Un., 6 novembre 2014, n. 23675 (in Foro it., 2014, 1420) che, pronunciandosi su questione di massima di particolare importanza, ha affermato il principio di diritto per cui «per determinare la litispendenza ai fini della prevenzione tra cause in rapporto di continenza, una iniziata con ricorso monitorio e una iniziata con citazione, per quest’ultima si ha riguardo al perfezionamento del procedimento di notificazione tramite consegna dell’atto al destinatario, non operando la scissione soggettiva del momento perfezionativo per il notificante e il destinatario, che vale solo per le decadenze non addebitabili al notificante».

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39, ultimo comma, c.p.c. non può trovare impedimento quanto alla sua dovuta applicazione nel fatto che, ai sensi dell’art. 30 del reg. 44/200110, «se l’atto deve essere notificato o comunicato prima di essere depositato presso l’autorità giurisdizionale» una autorità giurisdizionale è considerata adita «quando l’autorità competente per la notificazione o comunicazione lo riceve»11. Tale norma di diritto processuale uniforme, come si diceva in nota, è reputata dalla sentenza in commento inapplicabile al fine di individuare il momento rilevante per l’applicazione ratione temporis del regolamento secondo quanto previsto dalla disposizione transitoria di cui all’art. 66 in quanto essa, come reso palese dalla formulazione che compare all’esordio dell’art. 30 (e dell’art. 32 del reg. 1215/2012), è dettata «ai fini della presente sezione», ossia ai fini della applicazione delle regole in materia di litispendenza e connessione di cause. La regola, in altre parole, non serve ad individuare a tutti i fini possibili quando una lite è pendente in ambito europeo; diversamente essa viene in rilievo solo quando, essendo stata proposta la stessa causa dinanzi ai giudici di due Stati membri, si tratti di individuare quale delle due possa proseguire perché preventivamente instaurata e quale, di conseguenza, debba essere sospesa perché iniziata successivamente In definitiva, secondo quanto sostenuto dalla Corte nella sentenza in commento, con riferimento all’art. 66 del reg. 44/2001 (o del reg. 1215/2012) e, dunque, al fine di verificare se il regolamento sia applicabile ratione temporis in ragione del fatto che l’azione è stata «propost[a] posteriormente» al 1 marzo 200212 la pendenza della lite deve essere verificata secondo la lex loci processus, mentre solo qualora venga in rilievo un problema di litispendenza o connessione la pendenza della lite sarà determinata sulla base della regola uniforme di cui all’art. 30 del reg. 44/2001 (o dell’art. 32 del reg. 1215/2012). La conclusione, formalmente ineccepibile, lascia però alcuni margini di insoddisfazione. È vero che la disposizione contenuta nell’art. 30 del reg. 44/2001 e nell’art. 32 del reg. 1215/2012 non vale ad introdurre una norma volta ad individuare, a tutti i possibili fini cui tale concetto può rilevare, il momento in cui una controversia può dirsi pendente e tutta-

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La disposizione è ripetuta pure nel regolamento 1215/2012, all’art. 32. La norma di diritto processuale uniforme contenuta nell’art. 30 del reg. 44/2012 (oggi, art. 32 Reg. 1215/2012), in breve, attribuisce rilevanza al momento in cui l’atto è consegnato all’autorità che dovrà procedere con la notificazione facendo, dunque, applicazione, in ambito comunitario ed ai fini in discorso, di quello che da noi è sovente evocato come principio della scissione del momento perfezionativo della notificazione e che finisce con il sostanziarsi nella anticipazione, o meglio prenotazione, dell’effetto di radicamento della pendenza della lite. L’importanza della disposizione, peraltro e come noto, non sta tanto nella soluzione individuata anticipando al massimo il momento in cui una lite si considera pendente quanto, piuttosto, nel fatto che si tratta di una unica soluzione destinata a trovare applicazione uniforme in tutti gli Stati membri al fine di verificare la pendenza di una causa rilevante per l’applicazione della regola della prevenzione su cui si basa l’istituto della litispendenza comunitaria (art. 27 reg. 44/2001, art. 29 reg. 1215/2012). Prima dell’introduzione dell’art. 30 del reg. 44/2001 e nel vigore della Convenzione di Bruxelles, invece, la pendenza di una causa doveva essere stabilita in virtù delle (differenti) regole applicabili nel foro, con conseguente possibilità che ciascuno dei giudici dei diversi membri in cui la stessa causa era stata instaurata potesse considerarsi (in ragione della diversità delle norme processuali applicabili) preventivamente adito. Su questa previsione v. S.M. Carbone-C.Tuo, Lo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, cit., 287 e ss. 12 O al 10 gennaio 2015, ai sensi dell’art. 66 del reg. 1215/2012, al fine di discriminare i casi ancora regolati dal reg. 44/2001 da quelli invece disciplinati dal nuovo reg. Bruxelles I-bis. 11

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via non può disconoscersi il fatto che, così come ai fini dell’applicazione della regola della prevenzione che è al fondo della litispendenza comunitaria, anche per l’individuazione del momento in cui una lite si considera pendente ai sensi della disposizione transitoria che disciplina l’applicazione ratione temporis pare necessario far ricorso, al fine di garantire l’effetto utile del regolamento, ad un concetto uniforme e, per questo, autonomo. È, diremmo, la stessa natura di disciplina uniforme somministrata dalle regole del sistema Bruxelles a reclamare che venga individuato un unico momento rispetto al quale considerare radicata la pendenza della lite valido per tutti gli Stati membri nel cui territorio il regolamento dovrà trovare immediata applicazione. A tal proposito, non pare che possa sopravvalutarsi la circostanza per cui, come più volte detto, sia l’art. 30 che l’art. 32 contengano una previsione che ne limita l’applicazione ad un solo fine, quello della applicazione delle regole in materia di litispendenza e connessione. Tale previsione, infatti, aveva ed ha il principale scopo di escludere che ad altri rilevanti fini – quale, ad es., quello del momento di produzione degli effetti sostanziali della domanda – venisse così sostanzialmente ad eludersi il rispetto della autonomia procedurale dei singoli Stati membri. È, insomma, chiaro che il sistema Bruxelles non poteva e non può avere l’aspirazione e la pretesa di disciplinare in modo uniforme un concetto (quello di pendenza della lite e di produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, salvo quello ricollegato alla litispendenza) così profondamente radicato (e diversamente disciplinato) nella tradizione processuale dei singoli Stati membri; ma tale rilievo (certamente corretto) non serve, a nostro avviso, ad impedire che la regola ricavabile dall’art. 30 e dall’art. 32 (che, come visto, assegnano rilievo al momento di primo contatto della parte con l’autorità competente per la notificazione) possa essere richiamata anche al fine di dare soluzione a questioni che poco o nulla hanno a che fare con l’autonomia procedurale dei singoli Stati membri e che, dunque, ad essa per definizione non possono recare attentato. Si tratta, in definitiva, di accogliere la tesi per cui, anche ai fini della disposizione transitoria di cui all’art. 66 del reg. 44/2001 e del reg. 1215/2012, non ha senso ricorrere alla lex loci processus perché ciò pregiudicherebbe l’effetto utile della disciplina uniforme recata da tale normativa comunitaria di diretta ed immediata applicazione – consentendo, in dipendenza del diverso modo di operare delle singole norme processuali municipali, soluzioni diversificate nei vari Stati membri con riferimento a questioni uniformemente regolate –, dovendosi, al contrario, far ricorso ad un concetto autonomo che, a questo punto e per evidenti ragioni di semplificazione, non potrà che essere quello somministrato dallo stesso regolamento della cui applicazione nel tempo si sta discutendo seppur al diverso – ma, tutto sommato, strettamente connesso (in quanto sempre riferito al concetto di pendenza della lite) – fine di individuare il giudice preventivamente adito13.

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Del resto, vale la pena di notare che, nel nostro ordinamento, l’ultimo comma dell’art. 39 c.p.c. – testualmente dettato per determinare la prevenzione ai fini della applicazione della regola della litispendenza o continenza di causa dei primi due commi – è pacificamente applicato dalla giurisprudenza per ricavarne la regola generale secondo la quale individuare il momento in cui una causa si considera

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3. Clausola di electio fori, questione di giurisdizione e limiti del sindacato della Cassazione.

Ritenuta l’applicabilità ratione temporis del reg. 44/2001, la Cassazione ha esaminato ed accolto il terzo motivo con cui era stata dedotta la necessità di tener conto, nella individuazione del giudice cui spetta la giurisdizione, della clausola di proroga inserita nel contratto stipulato tra le parti ai sensi della quale la cognizione di tutte le controversie da esso derivanti era stata attribuita all’autorità giudiziaria austriaca. In ragione di tale clausola, dunque, per la Corte deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in quanto «il foro convenzionale deve considerarsi esclusivo, ai sensi dell’art. 23 del Regolamento14, e quindi prevalente sia su quello del domicilio del convenuto, previsto in via generale dall’art. 2, sia su quello speciale del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio doveva essere adempiuta, previsto dall’art. 5 n. 1 del medesimo regolamento». Posta, dunque, di fronte ad una sentenza che, obbiettivamente in modo incomprensibile, aveva ritenuto di non dare rilievo alla clausola di proroga invocata dal convenuto sulla base dell’art. 23 del reg. 44/2001 sol perché tale norma doveva considerarsi inapplicabile ratione temporis, così da giustificare la soluzione della quaestio iurisdictionis sulla base del criterio speciale di giurisdizione in materia contrattuale in casu ritenuto idoneo a radicare la lite dinanzi ai giudici italiani quali giudici del luogo in cui doveva essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, la Cassazione ha avuto buon gioco nel motivare la soluzione attinta: e cioè nel rilevare l’impossibilità di applicare il criterio adottato dal giudice di merito in ragione della prevalenza rispetto ad esso della clausola di elezione esclusiva del foro divenuta (di nuovo) rilevante non appena rimosso il solo apparente impedimento dato dalla inapplicabilità ratione tenporis del reg. 44/2001. In sostanza, se per il giudice di merito il criterio speciale di giurisdizione in materia contrattuale di cui all’art. 5 n. 1 della Convenzione di Bruxelles doveva applicarsi perché non era invocabile la clausola di proroga in dipendenza della ritenuta inapplicabilità ratione temporis dell’art. 23 del reg. 44/2001 specificamente invocato dal convenuto, una volta ritenuta applicabile tale clausola per effetto di un diverso modo di intendere la disposizione transitoria di cui all’art. 66 reg. 44/2001, il difetto di giurisdizione ne conseguiva in modo pressoché automatico. Sennonché la Corte non si è arrestata a tale semplice ragionamento ma ha esteso la sua indagine ad altri aspetti ritenuti rilevanti in ordine alla soluzione della questione di giurisdizione in dipendenza della applicazione della clausola di proroga invocata dal convenuto e contenuta nel contratto cui si riferiva la controversia.

pendente a tutti gli altri fini (sostanziali e processuali, salve espresse eccezioni). Per la soluzione prospettata nel testo v. J.K. Škerl, The application “ratione temporis” of the Brussels I regulation (recast), in EU and comparative law issues and challenges series, Vol. I, Procedural aspects of EU Law, Osijek, 2017, 346. 14 Ma anche ai sensi dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 1968.

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Segnatamente, la Corte si è in primo luogo interrogata sulla portata oggettiva della clausola ritenendo che essa, in virtù del suo chiaro ed univoco tenore letterale ed anche in ragione della assenza di contestazioni al riguardo, dovesse senz’altro ritenersi applicabile alla controversia instaurata dalla società italiana al fine di ottenere la condanna della società austriaca convenuta al pagamento del corrispettivo dovuto in forza del contratto di vendita e distribuzione tra di loro concluso. A tale specifico riguardo, la Corte ha avuto modo di ritenere infondata «la tesi sostenuta dalla difesa della controricorrente, secondo cui si tratterebbe di una questione non proponibile in sede di legittimità, in quanto implicante la ricostruzione della volontà delle parti, e quindi un’indagine di fatto rimessa in via esclusiva al giudice di merito». Secondo quanto osservato nella sentenza in commento, infatti, allorché la Corte è chiamata a vagliare una questione di giurisdizione, essa è anche giudice del fatto e può quindi «procedere alla verifica non solo della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie, ma anche alla ricostruzione della vicenda sottoposta al suo esame, nei limiti in cui ciò risulti necessario per l’applicazione della predetta disciplina, e quindi anche all’interpretazione della volontà delle parti, se del caso attraverso l’esame diretto degli atti»15. Al di là della imprecisione del riferimento ad un precedente obbiettivamente datato e neppure precisamente in termini, il rilievo generale della Corte, seppur in linea di massima condivisibile, necessita di alcune precisazioni anche alla luce della concreta fattispecie decisa. Si può, infatti, convenire con il rilievo per cui, nella giurisprudenza della Corte, è consolidato l’orientamento per cui allorché la Cassazione sia chiamata a statuire sulla giurisdizione, essa sia allora giudice anche del fatto processuale16 di modo che, per quanto

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A supporto di tali rilievi viene evocata Cass. civ., sez. un., 26 gennaio 1958, n. 242, in Foro it., 1968, c. 1958, che ebbe in effetti ad affermare, in motivazione, il principio per cui la Suprema Corte, nelle questioni di giurisdizione, ha il potere di accertare, attraverso l’esame diretto degli atti, i presupposti di fatto sulla base dei quali la giurisdizione va determinata ma in un caso in cui il motivo di ricorso aveva denunziato l’errore in cui era incorso il giudice di merito nel dichiarare il difetto di giurisdizione a fronte di un contegno della convenuta che doveva qualificarsi come di accettazione della giurisdizione per essersi difesa nel merito anteriormente alla proposizione della eccezione di difetto giurisdizione (avvenuta in appello). In quel caso non si faceva, dunque, né questione di interpretazione della volontà delle parti, né di individuazione dell’ambito oggettivo di applicabilità di una clausola di proroga. Diversamente si trattava di verificare – esaminando il “fatto processuale” – se la convenuta avesse o meno posto in essere una incondizionata difesa di merito incompatibile con la successiva proposizione in appello dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano. 16 Così come in qualunque altro caso in cui sia denunciato un error in procedendo. Di recente, si v. Cass. civ., Sez. Un., 9 gennaio 2020, n. 156 resa in un caso in cui era stato denunciato l’errore compiuto dal giudice di merito nel dichiarare il proprio difetto di giurisdizione internazionale sulla base della qualificazione del rapporto contrattuale cui si riferiva l’obbligazione dedotta in giudizio quale compravendita e non come prestazione di servizi. Con il proprio motivo di ricorso, l’originario attore ha dedotto l’erroneità di tale quale qualificazione alla stregua delle «modalità di svolgimento del rapporto, anche per come sarebbe evidenziato dalle emergenze documentali prodotte in giudizio» il cui corretto esame avrebbe dovuto giustificare una qualificazione del contratto come “prestazione di servizi” e, dunque, la competenza giurisdizionale del giudice italiano quale giudice del luogo in cui sono stati prestati i servizi ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. b), secondo trattino, reg. 44/2001. La Cassazione ha ritenuto che nel caso di specie gli elementi fattuali che hanno connotato lo svolgimento del rapporto fra le parti, per come allegati dalla parte a fondamento della domanda giudiziale, erano «da considerare ai fini dello scrutinio del motivo di giurisdizione siccome denunciante un vizio di violazione di una

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qui interessa, la parte che si dolga dinanzi ai giudici di legittimità del fatto che il giudice abbia affermato o negato la giurisdizione del giudice italiano sulla base di una erronea interpretazione di una clausola di proroga o di deroga non sarà costretta ad inquadrare le sue censure nella violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o nel difetto di motivazione. Al contrario, essa potrà dolersi dell’errore compiuto dal giudice di merito invocando – seppure per il tramite di specifici motivi di doglianza17 – una diversa e rinnovata valutazione da parte della Corte della clausola in questione senza che ciò possa mettere in dubbio l’ammissibilità di una tale censura perché riferita non a questioni di legittimità ma al “merito” (rilevante quoad effectum anche al fine di risolvere la questione di rito di giurisdizione) della controversia interpretativa insorta tra le parti. In casi come questi, infatti, non si tratta (soltanto) di procedere all’interpretazione della clausola di deroga o di proroga in quanto l’indagine da compiere sul punto viene a incidere sulla statuizione in punto di giurisdizione che la Corte è chiamata a rendere senza limitarsi ad un controllo di pura legittimità della decisione del giudice di merito18. Ne consegue che la parte può, in tali casi, limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenute nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito19 al fine di affermare o negare la propria giurisdizione (nella specie, internazionale).

norma del procedimento e, dunque, inerente al “fatto processuale” rilevante per individuare la giurisdizione. Poiché le domande giudiziali introdotte dalla ricorrente traggono titolo in via diretta o comunque indiretta dal rapporto contrattuale intercorso fra le parti ed è, dunque, necessario qualificare tale rapporto alla stregua delle due alternative indicate dalla normativa comunitaria, questa Corte […] è senz’altro legittimata a procedere all’esame delle emergenze fattuali evocate dalla ricorrente come connotanti lo svolgimento del rapporto (essendosi fornita di esse l’indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6)». Ugualmente, Cass. civ. Sez. Unite, 9 maggio 2018, n. 11178 per la quale «ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 1, quando questa Corte decide una questione di giurisdizione, “statuisce” su di essa, individua, cioè, il giudice fornito di potere giurisdizionale in relazione a quella specifica controversia, procedendo ad una diretta applicazione, nel caso concreto, della legge processuale, da ciò conseguendo che, in detta ipotesi, come in ogni altro caso in cui la censura abbia ad oggetto la violazione di una norma processuale, la Corte è anche giudice del fatto, in quanto l’applicazione della norma postula la verifica dell’esistenza, nel caso concreto, della fattispecie astrattamente prevista dal legislatore, ed ha, pertanto, il potere di procedere al diretto esame degli atti e delle risultanze processuali, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari per la soluzione della questione sottoposta al suo esame». Sempre nello stesso senso si vedano anche Cass. civ., Sez. Un., 29 settembre 2017, n. 22857, Cass. civ., Sez. Un., 21 aprile 2015, n. 8074 per le quali, appunto, «in ordine alle questioni di giurisdizione, le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono anche giudice del fatto, sicché possono e devono esaminare l’atto negoziale la cui valutazione incida sulla determinazione della giurisdizione». 17 Di recente, Cass. civ., Sez. Un., 25 luglio 2019, n. 20181 che ha affermato il seguente principio di diritto: «ogni qual volta si tratti di risolvere una questione di giurisdizione (così come in ogni altro caso in cui l’indagine sia diretta ad accertare se il giudice di merito sia incorso in un “error in procedendo”), la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il vizio rilevabile “ex officio”, né potendo la Corte ricercare e verificare a suo piacimento i documenti interessati dalla verifica, è necessario che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame (e che il corrispondente motivo contenga tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a comprendere la dedotta violazione) ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo di consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l’emenda dell’errore denunciato». Beninteso, quand’anche si deduca un motivo che concerna un error in procedendo il ricorrente è comunque tenuto all’osservanza del principio di autosufficienza (ex multis, Cass. civ., Sez. III, 13 marzo 2018, n. 6014, Cass. civ. Sez. VI, 31 marzo 2017, n. 8553). 18 In questi (quasi) esatti termini Cass. civ., Sez. I, 13 marzo 2019, n. 7198 pronunciata, però, in un caso in cui si trattava di stabilire la natura rituale o irrituale di un arbitrato ai fini della ammissibilità della impugnazione per nullità innanzi alla Corte d’Appello. 19 In radicale contrapposizione, dunque, rispetto a quanto comunemente e tradizionalmente si insegna per i motivi di ricorso che

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E si può anche convenire con il rilievo per cui a tale attività di interpretazione della clausola al fine di individuarne l’esatta portata oggettiva la Corte possa pure procedere d’ufficio, per la prima volta, nei casi in cui la questione di giurisdizione a motivo dell’esistenza di una clausola di deroga alla (o di proroga della) giurisdizione italiana venga fatta oggetto di una istanza di regolamento preventivo di giurisdizione: in ipotesi consimili la Cassazione è infatti chiamata a statuire sulla giurisdizione senza che vi sia stata ancora alcuna decisione di rito o di merito sulla controversia e, dunque, senza essere vincolata a specifiche doglianze o critiche delle parti e potrà e dovrà, pertanto, verificare anche d’ufficio se la giurisdizione sulla controversia pendente innanzi al giudice di merito debba essere concretamente esclusa o affermata a seconda della corretta interpretazione della clausola di deroga o di proroga invocata da una delle parti nel giudizio di merito20. Da tutto ciò, a nostro avviso, non può farsi derivare, però, l’ulteriore conclusione per la quale alla Corte dovrebbe allora dirsi sempre consentito un libero e rinnovato sindacato di puro merito sulla interpretazione ed applicazione della clausola di deroga o di proroga. Allorché la statuizione sulla questione di giurisdizione sia propiziata da un motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360, n. 1), c.p.c. rispetto a tale (pur astrattamente ammessa, anche cioè al di là degli stretti limiti di un sindacato di sola legittimità) attività non potranno non operare, infatti, eventuali preclusioni maturate in dipendenza del giudicato interno formatosi su di alcune questioni rilevanti per la interpretazione ed applicazione della clausola (ciò a maggior ragione oggi in contemplazione di un quadro giurisprudenziale – tanto noto da dispensarci di inventariarlo in questa sede – che limita grandemente la devoluzione del materiale di causa da un grado di giudizio all’altro, facendolo coincidere con le richieste delle parti ed esigendo, tanto per esemplificare, anche la formulazione di motivi di appello incidentale su questioni tanto di rito quanto di merito oggetto financo di indiretta se non implicita decisione). Il caso di specie dimostra, a nostro parere, la correttezza del superiore rilievo. Si ricorderà, infatti, che nella fattispecie in esame, il giudice di primo grado aveva ritenuto di poter dichiarare il proprio difetto di giurisdizione sulla base della clausola di deroga a tal fine invocata dalla convenuta e ritenuta, dunque, idonea ad includere nel proprio ambito oggettivo di applicazione anche la controversia instaurata dalla società italiana nei confronti della società austriaca per il pagamento del corrispettivo dovuto in esecuzione del contratto di vendita e distribuzione concluso inter partes. In un caso come questo, a noi pare, la questione interpretativa della portata oggettiva della clausola avrebbe potuto essere scrutinata dalla Cassazione adita con un ricorso ordinario ai sensi dell’art. 360, n. 1,

deducono un error in iudicando la cui ammissibilità presuppone che essi riescano a devolvere alla Cassazione esclusivamente un giudizio di pura legittimità (tra le tante e di recente, Cass. civ., Sez. I, 6 marzo 2019, n. 6519). 20 V., ad es., Cass. civ., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 19675 in relazione all’interpretazione della formula “relating to this Agreement” contenuta nell’ISDA Master Agreement che disciplinava il rapporto contrattuale cui si riferiva la domanda di merito proposta innanzi al giudice a quo.

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c.p.c. solo qualora essa fosse stata oggetto di un apposito e specifico motivo di appello da parte della società italiana perché, in caso contrario, essa doveva dirsi certamente preclusa in virtù dell’operare del giudicato interno21.

4. Precedente decisione declinatoria della giurisdizione

resa da un giudice di un altro Stato membro sulla base della ritenuta invalidità di una clausola di proroga e vincoli “europei” nel successivo giudizio instaurato dinanzi al giudice italiano. Altra questione su cui la Corte si è interrogata22 al fine di verificare se la giurisdizione del giudice italiano dovesse negarsi in virtù della clausola di deroga a tal fine invocata dalla

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Dalla lettura della sentenza in commento parrebbe doversi ricavare la conclusione per cui in grado di appello la questione circa una pretesa estraneità della controversia instaurata dinanzi al tribunale di Modena dalla società italiana rispetto alla clausola di deroga invocata dalla convenuta non era stata dedotta con alcun specifico motivo di appello. Nella parte della sentenza in commento dedicata allo svolgimento del processo, come già rilevato, può infatti leggersi che la Corte d’Appello aveva ritenuto «conseguentemente assorbite le questioni riguardanti la validità della clausola contrattuale di proroga della giurisdizione e la vincolatività delle decisioni pronunciate dall’Autorità giudiziaria austriaca». Tra le questioni proposte dalla società italiana in appello ed ivi ritenute assorbite – erroneamente, in quanto la ragione che aveva fondato la dichiarazione di inapplicabilità della clausola non era certamente idonea ad escludere la rilevanza della clausola stessa seppur alla luce di altra disposizione normativa applicabile ratione temporis (art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 1968) e, quindi, non poteva conseguentemente escludere la decisività delle questioni collegate alla sua validità (v. infra) – non vi era, quindi, quella di inapplicabilità della clausola in ragione della sua portata oggettiva, ciò che quindi a stretto rigore escludeva la possibilità che la Corte si ponesse il dubbio circa la corretta individuazione dell’ambito oggettivo di applicazione della clausola e che lo risolvesse in senso positivo evocando l’orientamento giurisprudenziale di cui si dà conto nel testo. 22 Questa volta, testualmente, per rispondere ad una «eccezione sollevata dalla controricorrente». L’espressione adoperata dalla Corte al fine di giustificare l’esame della questione merita una precisazione. In precedenza, abbiamo rilevato come nel caso di specie la Corte d’Appello avesse ritenuto (erroneamente) assorbite alcune questioni riguardanti la validità della clausola di electio fori in dipendenza della ritenuta inapplicabilità ratione temporis dell’articolo 23 del reg. 44/2001 sul cui fondamento la convenuta aveva evocato l’operare di detto criterio di giurisdizione esclusiva. Tra di esse vi erano, come visto, la questione attinente alla validità della clausola e quella relativa alla efficacia delle decisioni dell’autorità giudiziaria austriaca che la medesima clausola aveva già ritenuto inidonea a fondare la giurisdizione dei giudici austriaci (v. meglio subito infra). Trattandosi di questioni dichiaratamente assorbite si poteva, dunque, dubitare della loro esaminabilità da parte della Cassazione in dipendenza del consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale «nel giudizio di cassazione è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, avendo il giudice di merito attinto la ratio decidendi da altre di carattere decisivo, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti ai giudice del rinvio» (tra le altre e di recente, Cass. civ., Sez. VI, 10 dicembre 2018, n. 31825, Cass. civ., Sez. V, 27 gennaio 2017, n. 2106). L’orientamento, però, conosce alcuni aggiustamenti ed alcune eccezioni. Così, ad es., Cass. civ., sez. lav., 21 febbraio 2014, n. 4130 ha ritenuto che «in tema di impugnazione per cassazione, la parte, interamente vittoriosa nel giudizio di merito, che intende risollevare questioni già prospettate in appello, e non esaminate o ritenute assorbite dal giudice, ha l’onere di proporre ricorso incidentale condizionato, salvo che dichiari che le stesse siano sottoposte a scrutinio nel giudizio di rinvio, con conseguente sufficienza del mero controricorso al fine della rituale riproposizione delle questioni». In quel caso, tuttavia, la Corte ragionò in termini di necessaria riproposizione delle questioni assorbite mediante ricorso incidentale ed impossibilità, però, per la Corte di deciderle dovendosi su di esse pronunciare il giudice di appello. In stretta connessione a tale pronuncia si v. Cass. civ. sez. lav. 14 marzo 2011 n. 5970 per la quale «la parte vittoriosa in appello, che manifesti alla Cassazione la volontà di conseguire una decisione anche su una questione già ritenuta assorbita, ha l’onere non di proporre ricorso incidentale ma – per il principio di autosufficienza, operante anche nel controricorso ai sensi degli artt. 366, primo comma, nn. 3 e 4, e 370, secondo comma, cod. proc. civ. – di indicare i termini esatti in cui la questione era stata sottoposta al giudice di appello, in modo tale da permettere alla Corte di Cassazione di verificare se essa possa ancora ritenersi “sub iudice”».

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convenuta è stata quella relativa «alla sua inefficacia, per effetto delle sentenze pronunciate nel giudizio precedentemente svoltosi tra le medesime parti dinanzi all’Autorità giudiziaria austriaca, e conclusosi con la declinatoria di giurisdizione in favore del Giudice italiano». Stando a quanto è dato ricavarsi dalla lettura della sentenza in commento, la società italiana, innanzi all’invocazione da parte della società austriaca della clausola di electio fori contenuta nel contratto di vendita e distribuzione per il pagamento del cui corrispettivo la prima aveva agito in giudizio, aveva, tra l’altro, opposto l’impossibilità di fare affidamento su tale clausola al fine di risolvere la questione di giurisdizione in quanto il giudice austriaco (ossia il giudice eletto), all’esito di un precedente giudizio instaurato dalla società austriaca al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal preteso inadempimento della società italiana al contratto di vendita e distribuzione, aveva ritenuto tale clausola invalida ed aveva di conseguenza dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice italiano23. Tale decisione del giudice austriaco è reputata dalla Cassazione non rilevante al fine di escludere l’operatività della clausola di scelta del foro in favore del giudice austriaco e la cui validità era stata già da questi esclusa per «l’incertezza sussistente in ordine all’effettiva riconducibilità della stessa al consenso delle parti, alla luce della eccepita apposizione della relativa clausola al contratto in epoca successiva alla sua sottoscrizione» in quanto a detta decisione, si legge nella sentenza in commento, «nonostante l’identità di parti […] non potrebbe in alcun caso essere riconosciuta autorità di giudicato in ordine alla giuri-

Stando a questi precedenti, dunque, nel caso di specie la «eccezione» cui si riferisce la Corte parrebbe equivalere alla riproposizione della questione assorbita che, però, non è sufficiente a rendere tale questione esaminabile dalla Corte ma serve solo a far sì che la Corte abbia contezza della esistenza di questioni appunto assorbite il cui esame si renda ora necessario al lume della decisione dalla stessa resa sui motivi di ricorso. Altre decisioni della Corte esprimono, tuttavia, il principio di diritto per il quale «alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 comma 2 Cost., qualora i giudici di merito non si siano pronunciati su una questione di mero diritto, ossia non richiedente nuovi accertamenti di fatto, perché rimasta assorbita e la stessa venga riproposta con ricorso incidentale per cassazione, la Corte, una volta accolto il ricorso principale e cassata la sentenza impugnata, può decidere la questione purché su di essa si sia svolto il contraddittorio, dovendosi ritenere che l’art. 384 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 12 del d.lgs. n. 40 del 2006, attribuisca alla Corte di cassazione una funzione non più soltanto rescindente ma anche rescissoria e che la perdita del grado di merito resti compensata con la realizzazione del principio di speditezza». Il fatto che tale orientamento si sia formato relativamente al potere della Cassazione di decidere nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. sembrerebbe rendere ragione della possibilità di estendere, senz’altro e a maggior ragione, il principio di diritto così affermato ai casi in cui la Corte sia chiamata a dover risolvere una questione di giurisdizione statuendo su di essa. In questi casi, insomma, il fatto che la Corte sia chiamata a rendere una decisione che statuisca sulla giurisdizione pure al di là degli stretti limiti di un giudizio di pura legittimità (v. supra) può indurre a credere che vi sia addirittura un obbligo per la parte vittoriosa di riproporre le questioni assorbite la cui soluzione involga profili di puro diritto, e ciò al fine di permettere alla Corte di disimpegnare il proprio potere-dovere decisorio, diremmo, “sostitutivo” sulla questione di giurisdizione. 23 Non siamo ovviamente in grado di conoscere il motivo per cui il giudice austriaco si sia ritenuto incompetente anche sulla base degli altri criteri speciali o generali di giurisdizione dettati, è da credere (attesa l’anteriorità del giudizio austriaco rispetto a quello italiano iniziato pochissimi giorni dopo l’entrata in vigore del reg. 44/2001), dalla Convenzione di Bruxelles. O per meglio dire, esclusa ovviamente l’operatività anche in quel caso del foro generale del domicilio (trattandosi di azione instaurata contro una società con sede in Italia), possiamo immaginare che il giudice austriaco sia stato indotto a negare l’operatività del criterio speciale in materia contrattuale di cui all’art. 5, n. 1), della Convenzione di Bruxelles avendo ritenuto che il luogo di esecuzione dell’obbligazione dal cui inadempimento era stata fatta derivare la pretesa risarcitoria dovesse situarsi in Italia. Ai nostri fini, come si vedrà meglio nel prosieguo, tale aspetto della questione non è decisivo; lo sarebbe stato, verosimilmente, se anche il giudice austriaco avesse deciso applicando l’articolo 5, n. 1, primo trattino, lett. a), del reg. 44/2001. Alla fine di questo paragrafo tenteremo di spiegare perché.

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sdizione, in quanto riguardanti una domanda oggettivamente diversa da quella proposta nel presente giudizio». La circostanza per cui nei due giudizi dinanzi ai giudici di due diversi Stati membri siano state proposte, tra le stesse parti, domande diverse e, dunque, fatti valere diversi diritti cui pure corrispondono dunque diverse obbligazioni, è ritenuta dalla Corte sufficiente ad escludere la rilevanza della anteriore decisione austriaca: e ciò sia in ragione della non invocabilità nel caso di specie della previsione di cui all’art. 4 della L. 218/1995 (per la quale la deroga alla giurisdizione italiana in favore di un giudice straniero è inefficace se tale giudice abbia declinato la giurisdizione24), sia perché, dice la Corte, «in tema di giurisdizione nei confronti dello straniero25, queste Sezioni Unite hanno avuto d’altronde modo di escludere ripetutamente l’efficacia del giudicato formatosi in un precedente giudizio tra le stesse parti, affermando che, anche nel caso in cui esso riguardi il medesimo rapporto, ma coinvolga effetti diversi rispetto a quelli fatti valere nel successivo processo, non è possibile, in base allo stesso, affermare o negare a priori la giurisdizione, la quale risponde a criteri mutevoli nel tempo, in quanto, dovendo il criterio di collegamento sussistere al momento dell’instaurazione del giudizio, esso può atteggiarsi in modo diverso con riferimento a distinti giudizi». Il principio evocato dalla sentenza in commento si trova, in effetti, affermato nelle decisioni della Corte ivi richiamate ove trova la sua giustificazione nell’osservazione per cui «la ragione per la quale si è negata l’efficacia panprocessuale del giudicato sulla giurisdizione è ravvisabile in ciò, che il giudicato sul rapporto non può necessariamente coinvolgere anche quello sulla giurisdizione nei confronti dello straniero che risponde a regole mutevoli nel tempo. Non è possibile affermare o negare in un successivo processo a priori la giurisdizione nei confronti dello straniero sulla base del precedente giudicato sul merito, poiché il momento rispetto al quale il criterio di collegamento deve sussistere è quello del processo. E ciò significa che il criterio di collegamento può autonomamente atteggiarsi in modo diverso con riferimento a due distinti processi. Ciò risulta evidente per i criteri della

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Al di là della questione, pure rilevante, della inapplicabilità di tale previsione in relazione a clausole di deroga della giurisdizione italiana in favore di un giudice di altro Stato membro e, quindi, regolate dalla normativa uniforme comunitaria (v. subito infra), non sembra che il rilievo svolto a tal proposito della Corte possa essere integralmente condiviso. Per la sentenza in commento l’articolo «4, comma terzo, della legge n. 281 del 1995 […] nel dichiarare inefficace la deroga convenzionale della giurisdizione italiana ove il giudice o gli arbitri declinino la propria giurisdizione, postula evidentemente che tra il giudizio promosso dinanzi a questi ultimi e quello dinanzi al giudice presso il quale la domanda venga successivamente riproposta sia configurabile un’identità sia soggettiva che oggettiva». In realtà, a noi pare che se dinanzi al giudice eletto si stata risolta, con una pronuncia declinatoria della giurisdizione in dipendenza della ritenuta invalidità della clausola di deroga ivi fatta valere, una determinata lite derivante dal contratto cui la clausola accede non dovrebbero esserci difficoltà a ritenere che la regola di cui all’art. 4 possa valere, senz’altro, non solo per questa stessa lite riproposta dinanzi al giudice italiano inefficacemente derogata ma anche per un’altra lite pur oggettivamente diversa da quella così precedentemente decisa ma pur sempre rientrante nell’ambito oggettivo della (invalida) clausola di deroga in quanto derivante dal medesimo contratto. 25 Ovviamente il riferimento allo straniero è il frutto di una espressione tralatizia che si trascina, ancor’oggi, nelle decisioni (anche) della nostra Corte di Cassazione in ragione del fatto che, tradizionalmente ed anticamente (quantomeno sino al momento della ratifica in Italia della Convenzione di Bruxelles del 1968, limitatamente ai rapporti “comunitari”, e sino al momento della entrata in vigore della L. 218/1995, per tutti gli altri rapporti), la cittadinanza italiana era un criterio che fondava la giurisdizione italiana, a prescindere da qualsiasi altro elemento di collegamento. Ecco perché, in sintesi, i limiti esterni della giurisdizione italiana venivano allora misurati con riferimento a chi quella cittadinanza italiana non avesse, ossia rispetto allo straniero.

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residenza e del domicilio della parte o del rappresentante ex art. 77 c.p.c., ma anche per quello dell’accettazione della giurisdizione che è soggettivamente mutevole»26. Come si noterà, al di là di quanto fra breve sarà decisivamente osservato circa la (a nostro avviso, evidente) erroneità della decisione resa sul punto dalla sentenza in commento, il principio di diritto applicato anche nel caso di specie dalla Cassazione non solo ha poco o nulla a che fare con l’ipotesi di precedente decisione che abbia dichiarato il difetto di giurisdizione in dipendenza della ritenuta invalidità di una clausola di proroga ma, di più, potrebbe essere molto più facilmente e correttamente spiegato facendo ricorso, se del caso, al criterio dei limiti cronologici del giudicato27. Insomma, è chiaro che se una precedente decisione ha affermato la sussistenza della giurisdizione su di una determinata controversia in dipendenza della localizzazione del domicilio del convenuto in Italia, ai fini della soluzione della questione di giurisdizione che sorga nel successivo processo fra le stesse parti ed avente ad oggetto un diritto relativo al medesimo rapporto giuridico su cui è intervenuta la precedente decisione, quest’ultima non potrà esplicare alcuna efficacia in quanto la sussistenza della giurisdizione – in relazione al criterio generale del domicilio del convenuto – non potrà che essere accertato in relazione alla situazione di fatto esistente al momento della introduzione del nuovo giudizio. E lo stesso ragionamento vale nel caso in cui la giurisdizione sia stata affermata nel primo giudizio in dipendenza della accettazione tacita del convenuto che sia comparso nel processo senza eccepire il difetto di giurisdizione28, perché anche in tal caso può ritenersi che il criterio in base al quale si è radicata la giurisdizione abbia, per definizione, un’efficacia endoprocessuale non dando luogo il contegno del convenuto alla conclusione di un vero e proprio accordo che possa sopravvivere al processo in cui si è tacitamente formato. Ancora, lo stesso discorso opera pure, senz’altro, nel caso in cui, ad es., la giurisdizione in materia contrattuale sia affermata in ragione della singola e specifica obbligazione concretamente dedotta in giudizio; in tale ipotesi, è ovvio, nel caso in cui sia successivamente dedotta in giudizio una diversa obbligazione relativa al medesimo rapporto non potrà, per definizione, ritenersi rilevante la precedente decisione riguardante un criterio che, più che mutevole nel tempo, pare in questo caso destinato ad operare, per definizione, una volta sola (ossia solo in relazione a quella specifica obbligazione concretamente dedotta in giudizio in un primo e precedente giudizio). Diverso è il caso in cui, invece, la giurisdizione nel primo giudizio sia stata affermata in relazione ad un criterio che riguardi direttamente il rapporto giuridico nel suo complesso e che sia, dunque, come tale in grado di incidere, perché comune, sulla soluzione della que-

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Così, in motivazione, Cass. sez. un., 17 luglio 2008, n. 19600, nonché Cass., sez. un., 19 luglio 2006, n. 16461. Per questo rilievo v. anche S.A. Villata, Efficacia «panprocessuale» della pronuncia implicita sulla giurisdizione contenuta in sentenza di merito passata in giudicato?, in Riv. dir. proc., 2009, 1037. 28 Ovviamente nei casi in cui tale accettazione tacita consenta di radicare la giurisdizione del giudice adito in ragione della non rilevabilità ufficiosa del relativo difetto. 27

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stione di giurisdizione che abbia ragione di porsi in un successivo giudizio tra le stesse parti relativo ad un diverso diritto relativo al medesimo rapporto. Se, ad es., in relazione ad una controversia in materia contrattuale regolata dall’art. 7, n. 1, lett. b), del reg. 1215/2012, una prima controversia dovesse concludersi con una decisione di merito del giudice italiano che affermi pure la giurisdizione sulla base della qualificazione del contratto come di compravendita e della localizzazione in Italia del luogo di consegna dei beni, nulla impedirebbe di ritenere che la successiva controversia tra le stesse parti relativa ad altro diritto derivante al medesimo contratto rimanga pregiudicata, quanto alla questione di giurisdizione, dalla precedente decisione che ha affermato la sussistenza della giurisdizione sulla base di un criterio valevole per l’intero rapporto e non in relazione alla singola obbligazione concretamente dedotta in giudizio29. E allo stesso modo – anzi, diremmo a maggior ragione – non vi sarebbe alcuna difficoltà a ritenere che una precedente decisione relativa ad una determinata obbligazione derivante da un contratto che contenga una clausola di electio fori influenzi e pregiudichi, quanto alla questione di giurisdizione, il successivo processo tra le stesse parti avente ad oggetto una diversa obbligazione derivante dal medesimo contratto. Ciò premesso, si deve però osservare la decisione in commento, in relazione alla specifica questione riguardante la rilevanza da attribuire alla precedente decisione del giudice austriaco, deve ritenersi gravemente errata perché ha ritenuto di poter risolvere detta questione in modo, diciamo così, puramente interno, ossia facendo ricorso a principi validi ed utilizzabili solo in ambito meramente nazionale. La Corte, infatti, ha del tutto trascurato di considerare che, in ambito comunitario ed in conformità alla pronuncia interpretativa resa a tal riguardo dalla Corte di Giustizia nel noto caso Gothaer30, alla decisione del giudice di uno Stato membro che si dichiari incom-

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È noto, infatti, che la principale differenza tra il criterio di giurisdizione in materia contrattuale di cui all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles e quello contenuto dapprima nell’art. 5, n. 1, del reg. 44/2001 e, ora, nell’art. 7, n. 1, del reg. 1215/2012 è data dal fatto che, in relazione ai contratti di compravendita e di prestazione di servizi, la più recente normativa comunitaria uniforme (quella, per intendersi, contenuta nei regolamenti 44/2001 e 1215/2012) concentra tutte le liti contrattuali dinanzi al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione caratteristica (consegna dei beni nel caso di compravendita, prestazione del servizio nell’altra ipotesi), a prescindere da quale sia la concreta obbligazione dedotta in giudizio. A differenza di quanto previsto dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 – che imponeva dapprima l’individuazione analitica dell’obbligazione specificamente dedotta a fondamento della domanda e quindi la determinazione, per mezzo del diritto internazionale privato dell’ordinamento nazionale applicabile, del locus destinate solutionis di quella specifica obbligazione concretamente dedotta in giudizio – il Reg. n. 44/2001, prima, ed il reg. 1215/2012, dopo, non richiedono più, per le tipologie contrattuali maggiormente diffuse a livello internazionale (ossia il contratto di compravendita di beni e quello di prestazione di servizi), che venga innanzitutto selezionata ed individuata e, poi, “localizzata” l’obbligazione controversa, avendo il legislatore comunitario individuato ex auctoritate quale sia (limitatamente e con riguardo alle due tipologie contrattuali ricordate) il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Pur facendo salvo un diverso accordo delle parti, con una sorta di fictio legis il legislatore comunitario ha individuato, per quanto riguarda il contratto di compravendita di beni e quello di prestazione di servizi, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio nel «luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto», ovvero in quello «situato in uno Stato membro, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto», criterio che vale per qualsiasi obbligazione facente capo a ciascuna parte del contratto. Sul modo di operare del criterio di giurisdizione in materia contrattuale di cui all’art. 7, n. 1, lett. b), primo e secondo trattino, del reg. 1215/2012 (così come della omologa disposizione contenuta nel previgente art. 5, n. 1, lett. b, primo e secondo trattino, del reg. 44/2001) v., per tutti, P. Franzina, La giurisdizione in materia contrattuale, Padova, 2006, 36 e ss., 289 e ss.; S.M. Carbone-C. Tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, cit., 101 e ss. 30 Corte di Giustizia, 15 novembre 2012, C-456/11, Gothaer Allgemeine Versicherung, in Int’l Lis, 2014, 16 e ss. con nota di D. Dalfino, Un giudicato “europeo” sulla competenza giurisdizionale?, e postilla di C. Consolo, L. Penasa e M. Stella; in Foro it., 2013, IV, coll.

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petente in ragione della ritenuta invalidità della clausola di proroga pattuita dalle parti in suo favore ai sensi della normativa comunitaria uniforme deve senz’altro riconoscersi un’efficacia vincolante, diciamo così, europeo iure che, dunque, prescinde e va al di là delle eventualmente diverse soluzioni sperimentate a tal riguardo dalle discipline processuali proprie di ogni singolo Stato membro. Nella sentenza Gothaer, come noto, la Corte di Giustizia ha avuto infatti modo di affermare il principio in virtù del quale il «giudice dinanzi al quale venga invocato il riconoscimento di una decisione con la quale il giudice di un altro Stato membro abbia declinato la propria competenza sulla base di una clausola attributiva di competenza è vincolato dall’accertamento della validità di tale clausola, contenuto nella motivazione di una decisione, passata in giudicato, dichiarativa dell’irricevibilità dell’azione». Nonostante il fatto che il principio così affermato si riferisca, espressamente, al caso di una decisione declinatoria di giurisdizione fondata sulla ritenuta validità di una clausole di deroga della giurisdizione del giudice adito in violazione della electio fori, non vi è nessun motivo di dubitare che eguale efficacia vincolante debba riconoscersi anche alla decisione declinatoria di giurisdizione resa dal giudice di uno Stato membro in dipendenza della ritenuta invalidità della clausola di proroga pattuita in suo favore dalle parti ai sensi e per gli effetti della normativa comunitaria uniforme31. Sulla base tale vincolante decisione interpretativa resa dalla Corte di Giustizia – certamente rilevante e sicuramente applicabile al caso di specie – la Cassazione non avrebbe potuto, dunque, sbarazzarsi così frettolosamente della questione della rilevanza della precedente decisione del giudice austriaco evocando, tal proposito, l’impossibilità, secondo il diritto interno, di riconoscere efficacia di giudicato ad una decisione sulla giurisdizione internazionale32, ma avrebbe dovuto, al contrario, prestare senz’altro adesione al dictum del

32 ss. con nota di E. D’Alessandro, Pronunce declinatorie di giurisdizione: la Corte di giustizia impone limiti di efficacia europei. Sulla decisione Gothaer v. anche i rilievi di O. Lopes Pegna, Quali effetti ai sensi del regolamento «Bruxelles I» della decisione con cui il giudice adito dichiara la propria incompetenza?, in Riv. Dir. Int., 2013, 149 e ss. 31 In questo senso v. M. Weller, Choice of court agreements under Brussels Ia and under the Hague convention: coherences and clashes, in Journal of Private International Law, 2017, 125. Del resto, anche con riferimento al caso di declinatoria di competenza giurisdizionale determinata dalla ritenuta invalidità della clausola di proroga può richiamarsi quanto rilevato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Gothaer (punto 36), ossia che «risulterebbe […] contrario al principio della reciproca fiducia nei sistemi giudiziari nell’ambito dell’Unione europea il fatto che un giudice dello Stato membro richiesto esamini nuovamente questa stessa questione della validità». Vale la pena di precisare che, nel vigore dell’articolo 25 del reg. 1215/2012, la conclusione prospettata nel testo circa la possibilità di applicare il principio affermato nella sentenza Gothaer anche al caso di declinatoria di giurisdizione a motivo della ritenuta invalidità di una clausola di proroga pare, in effetti, difficilmente confutabile atteso che una tale decisione proviene, per definizione, dal giudice eletto che è, in linea di principio, il giudice più adatto per verificare la validità della clausola; e ciò in ragione del fatto che la validità sostanziale della clausola deve oggi stimarsi sulla base della legge dello stato membro del giudice prescelto. 32 Abbiamo visto, peraltro, che tale principio di diritto interno – volto a disconoscere, in qualsiasi caso, efficacia panprocessuale o comunque vincolante ad una decisione relativa ai limiti esterni della giurisdizione – è comunque opinabile nella misura in cui fonda tale conclusione su di un presupposto (quello della mutevolezza nel tempo dei criteri di giurisdizione internazionale) che si rileva, ad una poco più attenta analisi, fallace. Ammesso e non concesso che, secondo il nostro diritto processuale, possa o debba riconoscersi efficacia vincolante a decisioni di rito che risolvono questioni di giurisdizione, una volta ammessa tale efficacia ha ben poco senso, in effetti, impedire che essa possa pienamente dispiegarsi seppur, beninteso, nella misura in cui ciò sia permesso dalla natura del motivo portante della pronuncia declinatoria o affermativa della giurisdizione (v. supra).

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giudice austriaco non potendo, così come invece avvenuto, eludere l’efficacia vincolante di questa precedente decisione che si estendeva, secondo quanto chiaramente affermato nella sentenza Gothaer, anche al motivo – avente per oggetto la invalidità della clausola di proroga – che aveva giustificato la dichiarazione del difetto di giurisdizione33. A nostro modo di vedere, in ragione della prevalenza e vincolatività di quanto affermato a livello comunitario in ordine all’efficacia delle decisioni di rito sulle questioni di giurisdizione, il terzo motivo di ricorso proposto dalla società austriaca meritava di essere rigettato in ragione della impossibilità di dare rilievo, nel successivo giudizio italiano ed al fine di privare il giudice adito della giurisdizione eventualmente riconosciutagli dai criteri legali applicabili, ad una clausola di proroga già ritenuta invalida e, dunque, inidonea a conferirgli giurisdizione da parte dello stesso giudice prorogato (ossia, quello austriaco). Il rigetto del terzo motivo di ricorso non implicava, tuttavia, che dovesse comunque affermarsi la giurisdizione del giudice italiano. Tentiamo di spiegare perché. Esclusa la rilevanza della clausola di proroga e, dunque, rigettato il terzo motivo di ricorso, la Corte di sarebbe trovata a dover esaminare il quarto motivo di ricorso proposto dalla società austriaca con il quale era stata censurata la decisione della Corte d’Appello che aveva ritenuto sussistente la giurisdizione italiana in dipendenza del criterio di giurisdizione in materia contrattuale di cui all’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 1968 (ritenuta dalla Corte territoriale applicabile ratione temporis) chiamato in vigore nel caso di specie per effetto della circostanza per cui era stata dedotta in giudizio l’obbligazione avente oggetto il pagamento di una somma liquida di denaro da eseguirsi in Italia. Tale motivo, a nostro parere, meritava di essere accolto una volta accolto il motivo che censurava la decisione di appello relativamente alla ritenuta applicabilità della Convenzione di Bruxelles del 1968 in luogo del regolamento 44/2001; come infatti già in precedenza rilevato (in questo paragrafo), nel vigore del reg. 44/2001, ai fini della corretta soluzione della questione di giurisdizione “comunitaria” l’individuazione del luogo di esecuzione della obbligazione concretamente dedotta in giudizio (nel caso, quella del pagamento del corrispettivo contrattuale) è da considerarsi totalmente irrilevante allorché si abbia a che fare con un contratto di compravendita di beni: ciò perché, in relazione a tale tipologia contrattuale, la giurisdizione contrattuale viene a concentrarsi, per tutte le liti derivanti dal contratto e dunque a prescindere dal luogo di esecuzione della singola obbligazione

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Non vi è dubbio che, fatto salvo quanto si dirà infra nel testo, sussista un evidente contrasto tra la decisione del giudice austriaco che ha dichiarato il difetto di giurisdizione a motivo della ritenuta invalidità della clausola di proroga pattuita a suo favore e quella del giudice italiano che ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in virtù della ritenuta validità della (medesima) clausola di electio fori in favore del giudice austriaco. E poiché, come visto, la decisione della Corte di Giustizia nel caso Gothaer è tale per cui alla decisione declinatoria della giurisdizione in ragione della (anche solo incidentalmente rilevata e non quindi espressamente dichiarata) (in)validità di una clausola di proroga deve riconoscersi una efficacia vincolante in tutti gli altri Stati membri estesa a tale motivo portante, il contrasto che così si è venuto a creare potrebbe anche condurre ad una situazione di denegata giustizia in quanto il giudice austriaco che sarà eventualmente adito dalla società italiana per ottenere, finalmente, il pagamento del corrispettivo contrattuale potrà, se così richiesto, rifiutare di riconoscere la decisione italiana in quanto, appunto, incompatibile con una precedente decisione resa nello Stato membro richiesto ai sensi dell’art. 34 Reg. 44/2001 (oggi art. 45 1215/2012).

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concretamente dedotta in giudizio, in un unico foro e, precisamente, dinanzi ai giudici del luogo di esecuzione della obbligazione di consegna dei beni. Ed è appena il caso di rilevare che una decisione di segno negativo sulla giurisdizione italiana motivata sulla ritenuta applicabilità ratione temporis dell’art. 5, n. 1, lett. b), del reg. 44/2001 e, dunque, sul rilievo esclusivo da assegnare al luogo di esecuzione della obbligazione caratteristica (piuttosto che a quello della obbligazione di pagamento del corrispettivo contrattuale concretamente dedotta in giudizio dalla venditrice italiana) non avrebbe potuto essere considerata contraria ed incompatibile con la precedente decisione del giudice austriaco che si era dichiarato incompetente, come più volte detto, in ragione della ritenuta invalidità della clausola di proroga in suo favore e, quindi, anche sulla base della ritenuta inapplicabilità del criterio di giurisdizione in materia contrattuale. Proprio in ragione di quanto detto in precedenza in ordine al diverso modo di operare del vincolo derivante da una decisione in punto di giurisdizione in dipendenza dei criteri di giurisdizione volta a volta applicati dal giudice per risolvere la quaestio iurisdictionis, qualora il giudice italiano si fosse dichiarato sfornito di giurisdizione relativamente alla obbligazione di pagamento del corrispettivo contrattuale (in ragione della dovuta applicazione del criterio di cui all’art. 5, n. 1, lett. b), del reg. 44/2001), non di vero e proprio contrasto tra le due decisione declinatorie dei giudici austriaco e italiano si sarebbe potuto discorrere; diversamente, si sarebbe dovuto ragionare in termini di (ammissibile) superamento della precedente decisione per effetto della non riferibilità del criterio di giurisdizione applicato nel primo processo all’intero rapporto in quanto invece riferibile solo alla singola obbligazione dedotta nel precedente giudizio. E questo, vale la pena di ribadirlo, per effetto del diverso modo di operare del criterio di giurisdizione in materia contrattuale nel passaggio dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 al reg. 44/200134. Marco Farina

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Insomma, proprio perché nel vigore della Convenzione di Bruxelles del 1968 si dava rilievo alla singola obbligazione dedotta in giudizio ed al luogo di esecuzione di questa, il fatto che nel precedente giudizio austriaco fosse stata fatta valere una obbligazione diversa da quella poi azionata nel giudizio italiano conclusosi con la sentenza della Cassazione in commento giustifica la conclusione per cui la preventiva dichiarazione di difetto di giurisdizione motivata (anche) sulla base della ritenuta inapplicabilità del criterio del locus destinate solutionis (ossia, sulla base della ritenuta non coincidenza del luogo di esecuzione della obbligazione al tempo dedotta in giudizio con il territorio austriaco) non è in contrasto con la dichiarazione di difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore del giudice austriaco relativamente alla diversa obbligazione ivi dedotta. Per definizione, infatti, la prima decisione del giudice austriaco era riferita, non poteva non essere riferita, che alla obbligazione della società italiana venditrice che si supponeva inadempiuta, senza poter quella decisione coinvolgere anche la diversa obbligazione della società austriaca acquirente. Diversa sarebbe stata la conclusione se, al contrario, anche la decisione del giudice austriaco fosse stata assunta nel vigore del reg. 44/2001 in quanto in tale ipotesi, come in precedenza già chiarito, la declinatoria di giurisdizione resa da quest’ultimo pure in relazione alla ritenuta inapplicabilità del criterio di giurisdizione in materia contrattuale avrebbe implicato una possibile estensione del motivo portante a tutte le controversie derivanti dal medesimo contratto per le quali, come visto, vige oramai un unico foro e non tanti fori quante sono le singole obbligazioni da esso derivanti ed i loro eventualmente diversi luogo di adempimento.

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Giurisprudenza Cass. civ., sez. VI lav., ord. 3 marzo 2020, n. 5729. Pres. Rel. Esposito. Lavoro e previdenza (controversie) – Poteri istruttori d’ufficio – Deroga alle regole di assunzione – Esibizione su iniziativa del giudice – Ammissibilità. I poteri-doveri officiosi di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c. possono essere esercitati dal giudice in deroga non solo alle regole sulle prove dettate dal codice civile, ma anche alle norme sull’assunzione delle prove dettate per il rito ordinario e quindi, quanto all’esibizione di cose e documenti, a prescindere dall’iniziativa di parte, in deroga all’art. 210 c.p.c.

(Omissis) Motivi della

decisione.

Con il primo motivo la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo (360 c.p.c., n. 5), consistente nell’esame della lettera 14/9/2004 e del processo verbale di mancata conciliazione del 10/1/2005, sulla scorta dei quali l’inerzia della lavoratrice deve intendersi limitata a tre anni piuttosto che ai quasi cinque presi in considerazione dalla Corte d’appello; con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 112, 115, 230 e 437 c.p.c., dell’art. 111 Cost., per erronea ammissione in appello di istanze istruttorie dedotte da Poste Italiane s.p.a. in primo grado e non accolte, in assenza di formulazione di istanza di ammissione, con conseguente decadenza dalla possibilità di espletamento; con il terzo motivo deduce violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 112 e 115 c.p.c., osservando che la Corte aveva ordinato alla R. di provare, nonostante la sua opposizione, fatti che non era in grado di provare; il primo motivo è inammissibile; l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, infatti, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione

tra le parti e abbia carattere decisivo, ossia idoneo a determinare un esito diverso della controversia (Sez. U., n. 8053 del 07/04/2014); nella specie, la circostanza non considerata non riveste tale carattere, sussistendo in ogni caso un congruo intervallo temporale dopo la conclusione del contratto e non essendo tale intervallo l’unico elemento preso in considerazione dalla Corte ai fini della ritenuta risoluzione consensuale; quanto al secondo e al terzo motivo, da trattare congiuntamente in forza dell’intima connessione, poiché entrambi involgono l’attività di ammissione di mezzi di prova, gli stessi, in difetto di indicazioni desumibili dalla sentenza impugnata, sono inammissibili per carenza di adeguate allegazioni circa le ragioni poste dalla Corte territoriale a fondamento dei provvedimenti di ammissione, posto che, in ragione del rito, detta ammissione può trovare corretta giustificazione nell’esercizio dei poteri-doveri officiosi di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c., che possono essere esercitati dal giudice in deroga non solo alle regole sulle prove dettate dal codice civile, ma anche alle norme sull’assunzione delle prove dettate per il rito ordinario e quindi, quanto all’esibizione di cose e documenti, a prescindere dall’iniziativa di parte, in deroga all’art. 210 c.p.c. (cfr. Cass. n. 32265 del 10/12/2019); per le considerazioni svolte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (Omissis)

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Giurisprudenza

I poteri istruttori del giudice del lavoro oltre i limiti stabiliti dal codice di rito Sommario :

1. Il caso. – 2. Le prove disponibili d’ufficio «fuori dei limiti». – 3. L’esibizione istruttoria disposta d’ufficio dal giudice del lavoro.

La Suprema Corte torna sulla portata dei limiti del potere istruttorio d’ufficio del giudice del lavoro, riconoscendo la possibilità che, attraverso l’art. 421 comma 2 c.p.c. il giudice possa disporre l’esibizione istruttoria anche senza istanza di parte. The Supreme Court argues back on the scope of the limits of inquisitorial powers of labour court judge, upholding the possibility that, by means of art. 421, paragraph 2, of the Code of civil procedure, the judge may issue an exhibition order even in lack of parties’ request.

1. Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte torna sul tema dei limiti superabili dal giudice del lavoro1 in relazione all’esercizio dei propri poteri istruttori.

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Molti nel tempo sono stati gli interventi della giurisprudenza di legittimità volti a definire i confini del potere dell’art. 421 c.p.c. In particolare, deve osservarsi che, quanto alla natura del potere – se discrezionale o vincolato – non si è sempre avuta unanimità di vedute. In un primo momento, si era consolidata la tendenza a ritenere che l’esercizio o il mancato esercizio dei poteri dell’art. 421 comma 2 c.p.c. fosse insindacabile in Cassazione a causa del loro carattere discrezionale. Sul carattere discrezionale del potere v. Cass. 10 marzo 1986, n. 1616, in Gius. civ., 1987, I, 1214, con nota critica di R. Marengo, Ammissione officiosa di prove nel processo del lavoro: natura e sindacabilità; Cass. 30 maggio 1989, n. 2588, in Not. Giur. lav., 1989, 761; Cass., sez. un., 28 novembre 1994, n. 10127, in Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 2466; Cass. 15 gennaio 1999, n. 370, id., 1999, voce cit. n. 181; Cass. 7 dicembre 2005, n. 27002, id., 2005, voce cit., n. 119; in relazione alla mancata disposizione d’ufficio dell’esibizione istruttoria v. Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375, in Riv. giur. lav., 2010, II, 462, con nota di A. Bellavista, La cassazione e i controlli a distanza sui lavoratori, in Giust. civ., 2011, I, 1049, con nota di F. Buffa, Il controllo informatico del lavoratore, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 564, con nota di R. Galardi, Il controllo sugli accessi ad Internet al vaglio della cassazione; Cass. 8 novembre 2016, n. 22630, in Foro it., Rep. 2016, voce cit., n. 112. Cass. 27 settembre 1999, n. 10658, id., Rep. 1999, voce cit., n. 180; Cass. 19 maggio 1983, n. 3478, id., Rep. 1983, voce cit., n. 294; nonché, con più specifico riferimento all’art. 421 c.p.c., Cass. 4 aprile 1987, n. 3282, id., Rep. 1987, voce cit., n. 149; Cass. 19 aprile 1983, n. 2698, id., Rep. 1983, voce cit., n. 243; Cass. 22 maggio 1981, n. 3354, in Riv. giur. lav., 1982, II, 747; e, con riferimento all’art. 437 c.p.c., Cass. 22 novembre 1995, n. 12059, in Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 213; Cass. 5 luglio 1985, n. 4056, id., Rep. 1985, voce cit., n. 447; Cass. 20 agosto 1983, n. 5433, id., Rep. 1983, voce cit., n. 577; Cass. 19 aprile 1983, n. 2688, ibid., n. 578; Cass. 29 gennaio 1983, n. 836, ibid., n. 580; Cass. 23 giugno 1981, n. 4094, id., Rep. 1982, voce cit., n. 538). Nell’ambito di tale opinione poi si distinguono due orientamenti: l’uno volto a ritenere, in ragione della discrezionalità assoluta del potere, che alcun controllo in Cassazione sarebbe ammesso, essendo il giudice libero di determinare se e come esercitare i propri poteri; l’altro incline ad escludere il sindacato di legittimità solo ogni qualvolta il giudice abbia motivato la scelta di non ricorrervi, a fronte dell’istanza di una delle parti. Si è così riconosciuta la possibilità di un controllo sulla scelta del giudice di utilizzare le proprie funzioni istruttorie attraverso l’esame della motivazione. Nel senso che il mancato esercizio dei poteri istruttori d’ufficio è censurabile in Cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione e impone al ricorrente di riportare in ricorso gli atti processuali dai quali emerge l’esistenza di una «pista probatoria», rispetto alla quale non si è esplicata l’officiosa attività di integrazione istruttoria, nonché di allegare di aver espressamente e specificamente richiesto, nel giudizio di merito, l’intervento probatorio del giudice, cfr. Cass. 1° luglio 1986, n. 4347, in Gius. civ., 1987, 1211, con nota di R. Marengo, cit.; Cass. 25 maggio 2010, n. 12717, in Foro it., Rep. 2010, voce Lavoro e previdenza

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Paola Licci

In particolare, nel caso sottoposto all’esame della Cassazione, la Corte d’appello aveva provveduto ad ammettere d’ufficio dei documenti, senza che vi fosse richiesta dell’interessato a riguardo, se non nel giudizio di primo grado, previo ordine d’esibizione. Con il successivo ricorso per cassazione veniva perciò lamentata dal ricorrente la violazione dell’art. 437 c.p.c., regolante l’esercizio dei poteri istruttori in appello nel rito lavoristico, per aver il giudice di secondo grado disposto l’esibizione istruttoria pur in mancanza di istanza di parte, giacché l’esibizione istruttoria, ai sensi dell’art. 210 c.p.c., può essere ammessa solo a condizione che vi sia la richiesta di uno dei litiganti. La Corte supera l’obiezione del ricorrente affermando che i poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 421 comma 2 c.p.c., sono spendibili non solo oltre i limiti stabiliti dal codice civile in relazione all’ammissibilità dei mezzi istruttori, ma anche oltre i confini del codice di rito sulla deduzione e assunzione delle prove, di talché l’esibizione istruttoria può ritenersi validamente disposta anche officiosamente, in deroga alle regole stabilite nel c.p.c. 2. Deve osservarsi che è proprio sul tema dei limiti «fuori» dai quali il giudice può ammettere i mezzi di prova d’ufficio che si evidenziano i maggiori contrasti di opinioni. Secondo una posizione più restrittiva, che fa leva anche sulla lettera dell’art. 421 c.p.c., sarebbero superabili solo quei limiti di ammissibilità regolati dal codice civile. Parrebbero quindi derogabili solo quelle condizioni di ammissibilità relative alla prova testimoniale2, in conformità a quanto si riteneva già possibile in base al vecchio art. 439 c.p.c., prima della riforma del rito lavoristico del 19733. D’altronde, l’art. 421 c.p.c. tace in merito alla

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(controversie), n. 83; Cass. 29 dicembre 2014, n. 27431, id., 2015, I, 2878, con nota di richiami; Cass. 4 aprile 2017, n. 8752, in Foro it., 2017, I, 1941, con nota di richiami. Al fianco di questi orientamenti se ne pone uno più restrittivo, volto a qualificare il potere istruttorio come un potere-dovere del giudice di provvedere d’ufficio agli atti d’istruzione sollecitati dal materiale istruttorio raccolto. Il tutto, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti, a dimostrazione del fatto che, una volta verificatesi le condizioni per la venuta ad esistenza del dovere del giudice, la perdita del corrispettivo potere dei litiganti non assume alcuna rilevanza, acquisendo il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori valore assorbente rispetto a qualsiasi altro potere istruttorio, ormai perso. In tal senso v. Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761, cit.; Cass. 23 maggio 2003, n. 8220, in Foro it., Rep. 2003, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 185; Cass. 8 novembre 1991, n. 11915, in Gius. civ., 1992, I, 2143, con nota di R. Bellè, Poteri istruttori del giudice del lavoro e sindacabilità in Cassazione della loro mancata utilizzazione; Cass. 20 giugno 1990, n. 6175, in Foro it., Rep. 1990, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 207; Cass. 16 novembre 1987, n. 8397, in Inform. Prev., 1988, 1329; Cass. 16 maggio 1984, n. 3009, in Giust. civ., 1985, I, 783, con nota di C. Cecchella, Limiti all’iniziativa istruttoria del giudice del lavoro: le preclusioni all’attività difensiva delle parti e la regola dell’onere della prova. All’orientamento che guarda all’art. 421 comma 2 c.p.c. come ad un potere a contenuto vincolato hanno aderito anche le sezioni unite nel 2004 le quali hanno definito i confini del potere istruttorio, stabilendo i limiti oltre i quali il giudice del lavoro non può spingersi nel disporre d’ufficio i mezzi di prova. V. Cass. sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Foro it., 2005, I, 1135 con nota di E. Fabiani, Le sezioni unite intervengono sui poteri istruttori d’ufficio del giudice del lavoro; Cass., sez. lav., 20 maggio 2000, n. 6592, in Riv. Giur. Lav., 2001, II, 637, con nota di A. Mazziotti, Potere-dovere istruttorio del giudice nel rito del lavoro, e nota di I. Cimatti, Luci e ombre di una contraddittoria norma processuale ex art. 421 e 437 c.p.c. Deve osservarsi che da tempo hanno iniziato a perdere vigore anche nel processo ordinario molti limiti di ammissibilità delle prove. Sul punto v. B. Cavallone, Forme del procedimento e funzione della prova (ottant’anni dopo Chiovenda), in Le prove nel processo civile. Atti del XXV Convegno Nazionale, Cagliari 7-8 ottobre 2005, Milano, 2007, 37, 38. Il vecchio articolo 439 del codice di procedura civile, abrogato dalla l. 533/1973, dedicato ai poteri istruttori, stabiliva che il giudice potesse disporre d’ufficio tutti i mezzi di prova che ritenesse opportuni e che l’acquisizione officiosa della prova testimoniale potesse

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Giurisprudenza

possibilità che il potere istruttorio d’ufficio sia esercitato oltre i limiti stabiliti dal codice di procedura civile, cosicché, stando alla lettera della norma, pare più prudente ritenere che il giudice possa solo superare le regole per l’ammissione dei singoli mezzi istruttori individuate dal diritto sostanziale e sempre che esse siano regole tecniche in tema di prova4. Tuttavia, deve osservarsi che la disciplina delle prove è espressione dell’unione delle regole di ammissibilità ed efficacia fissate dal codice civile con le regole procedurali stabilite all’interno del codice di rito, il quale descrive l’iter da seguire per l’acquisizione dei mezzi di prova, il più delle volte senza determinare quali siano le conseguenze dell’eventuale allontanamento dal procedimento indicato dalle norme. Occorre a questo punto interrogarsi circa la possibilità di utilizzare l’art. 421 c.p.c. come strumento utile per offrire ingresso nel processo a quelle prove non solo ammesse in violazione dei limiti di ammissibilità stabiliti dal codice civile, ma anche raccolte in violazione del procedimento di formazione fissato dalle norme processuali5. 3. In primo luogo, è possibile individuare una regola generale nell’ambito dei poteri ex art. 421 c.p.c., in base alla quale è consentita sempre la violazione delle regole di deduzione della prova limitatamente alla previsione del soggetto indicato come promotore dell’istanza istruttoria. In altri termini, se la legge riserva normalmente il mezzo di prova alla richiesta di parte, la previsione di poteri istruttori su ogni mezzo di prova induce a ritenere che la regola che individua il soggetto istante sia regola sempre derogabile6. Ed invero, la previsione della possibilità per il giudice di ammettere «ogni mezzo di prova» comporta che questi possa disporre anche di quegli strumenti probatori che normalmente

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avvenire in deroga ai limiti stabiliti dal codice civile. In altri termini, il legislatore limitava l’esercizio del potere istruttorio fuori dai confini delle norme codicistiche dedicate alle prove, alla sola prova testimoniale, con la conseguenza che gli altri mezzi, ancorché ammissibili d’ufficio, dovessero soggiacere alle norme che li regolavano. Restavano dunque ferme le condizioni di ammissibilità dei singoli mezzi, anche quando il giudice disponesse d’ufficio le prove solitamente subordinate alla richiesta di parte. In sintesi, quindi, la prova testimoniale poteva essere disposta dal giudice fuori dalle ipotesi degli artt. 2721, 2722, 2723, 2724 c.c. Cfr. V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1956, 708, 709, che, sotto l’egida del vecchio art. 439 c.p.c. riteneva che il potere istruttorio del giudice del lavoro fosse idoneo a derogare all’onere della prova formale e non all’onere di affermazione, poiché il giudice poteva disporre la prova di fatti affermati dalle parti e mai sostituirsi ad esse nell’accertare fatti da queste non affermati. Per l’A., inoltre, il venir meno della disponibilità del mezzo istruttorio per effetto della sua acquisizione d’ufficio, non faceva venir meno l’onere della prova sostanziale. Così G. Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1975, 146. Risulta molto più difficile ammettere che possano essere superati limiti di ammissibilità delle prove che hanno un fondamento di diritto sostanziale e che non possono essere aggirate attraverso tecniche processuali, a pena di invalidità della prova. Si tratta, ad esempio, dei limiti derivanti dalla indisponibilità del diritto, dalla capacità di disporre del soggetto, o dalla previsione di vincoli di forma per la validità di un determinato negozio giuridico. Così C. Cecchella, I poteri di iniziativa probatoria del giudice del lavoro, in Gius. civ., 1985, II, 88; L. Montesano, R. Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 138; G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 103; A. Proto Pisani, L’istruzione della causa, in A. Proto Pisani, G. Pezzano, C.M. Barone, V. Andrioli, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1974, 318; V. Denti, G. Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974, 130. In senso contrario alla possibilità di ammissione di prove illegittime per il tramite di poteri istruttori d’ufficio v. G. Reali, L’istruzione probatoria nel processo ordinario e in quello del lavoro, in Gius. proc. civ., 2011, 423, 424. L’art. 421 c.p.c. comma 3 riserva espressamente l’accesso sul luogo di lavoro all’istanza di parte. Deve perciò dedursi che ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit: tutti gli altri mezzi di prova non riservati in maniera espressa alla parte dalla norma sui poteri istruttori speciali del giudice del lavoro saranno ammissibili d’ufficio.

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sono riservati alla iniziativa dei litiganti. Il che dimostra che, quantomeno su tale punto, i limiti posti dal codice di procedura civile in relazione ai modi di deduzione della prova possano essere superati dal giudice. Se perciò la previsione in base alla quale è necessaria l’istanza di parte per l’ammissione del mezzo istruttorio può essere derogata dal giudice del lavoro attraverso l’art. 421 comma 2 c.p.c. (salvi i casi in cui, all’interno del rito lavoristico, un mezzo non sia espressamente limitato all’iniziativa dei litiganti), è possibile ritenere che anche l’esibizione istruttoria possa essere disposta officiosamente dal giudice, in deroga alle condizioni soggettive stabilite dal codice di procedura civile7 8. Come altri mezzi di prova, anche l’esibizione istruttoria è condizionata dalla sussistenza di taluni requisiti di talché ammettere o meno che essa possa essere concessa dal giudice anche al di fuori di limiti di ammissibilità posti dall’art. 210 c.p.c. significa valutare se sia concepibile l’utilizzo nel processo di prove ammesse in violazione di regole processuali attraverso l’esercizio di poteri istruttori. In particolare, le condizioni poste per la pronuncia di un ordine di esibizione possono essere così sintetizzate: a) necessità dell’istanza di parte9; b) indispensabilità dell’esibizione per l’acquisizione del documento; c) garanzia che l’ordine non comporti un grave danno per la parte destinataria del comando. Quanto all’istanza di parte, deve ritenersi che, a fronte della prescrizione generale dell’art. 210 c.p.c., è spesso riconosciuto il potere di ordinare d’ufficio l’esibizione in giudizio di cose e documenti, anche al di fuori del processo del lavoro10.

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Nel senso espresso dalla pronuncia in commento v. Cass. 10 dicembre 2019, n. 32265, in Foro it., Rep. 2019, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 102, in base alle quali i poteri-doveri officiosi di cui agli art. 421 e 437 c.p.c. possono essere esercitati dal giudice in deroga non solo alle regole sulle prove dettate dal codice civile, ma anche alle norme sull’assunzione delle prove dettate per il rito ordinario e, quindi, quanto all’esibizione di cose e documenti, a prescindere dall’iniziativa di parte (in deroga all’art. 210 c.p.c.) e, quanto alla consulenza tecnica d’ufficio in materia contabile, a prescindere dal consenso di tutte le parti alla consultazione di documenti non precedentemente prodotti (in deroga all’art. 198 c.p.c.). 8 All’acquisizione delle prove precostituite è deputata l’esibizione istruttoria che rappresenta lo strumento attraverso il quale realizzare appieno il diritto di azione in virtù della garanzia di difendersi provando. In altri termini, l’esibizione non è concepita solo come un mero mezzo probatorio bensì come l’attuazione del diritto alla prova della parte che non si trovi nella disponibilità materiale del mezzo, il quale però risulti necessario per la dimostrazione dei fatti che la stessa parte è interessata a provare nel processo. Sul punto v. A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile, Milano 2003, 15, il quale osserva che l’esibizione istruttoria rappresenta una espressione tecnica ineliminabile del diritto alla prova delle parti. In particolare, l’A. attraverso la ricostruzione storica dell’istituto, dimostra come l’esibizione sia passata dall’essere concepita quale mezzo di prova – in base al codice del 1942 – al divenire uno strumento di attuazione del diritto di azione costituzionalmente garantito. L’esibizione non è quindi più da considerarsi come una mera scelta tecnica operata dal legislatore bensì come una regola processuale di indefettibile rilievo costituzionale così che essa non è più concepita in chiave squisitamente privatistica, bensì in ottica pubblicistica di garantire la tutela di diritti costituzionalmente regolati. Il fatto però che sia valutata in termini pubblicistici non determina automaticamente che l’esibizione rientri tra i poteri esercitabili d’ufficio. Al contrario, l’art. 210 c.p.c. sembrerebbe proprio subordinare l’esibizione all’istanza della parte. 9 La necessità dell’istanza di parte si evince anche dall’art. 94 disp. att. c.p.c. che descrive il contenuto dell’istanza e assume rilievo quale espressione del principio dispositivo. Così A. Graziosi, op. ult. cit., 60 ss.; S. La China, L’esibizione delle prove nel processo civile, Milano, 1960, 53 ss.; Id., voce Esibizione di prove (dir. proc. civ.), in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 698; Id., voce Esibizione delle prove, in Enc. Giur. Treccani, XIII Roma, 1989, 1 ss. 10 Per un esame dettagliato delle ipotesi in cui è legislativamente previsto il potere del giudice di ordinare d’ufficio l’esibizione, v. A. Graziosi, L’esibizione, cit., 61 ss. L’A. osserva peraltro che oggi, alla luce del gran numero di ipotesi in cui è stato esteso il potere di esibizione d’ufficio, sia lecito dubitare che la regola sia effettivamente ancora l’istanza di parte e l’eccezione il potere d’ufficio.

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Giurisprudenza

In relazione all’art. 421 c.p.c. però vi è chi ha dubitato che l’ampio potere istruttorio affidato al giudice del lavoro possa consentire l’ammissibilità d’ufficio dell’esibizione istruttoria11 poiché le prove documentali, alla cui acquisizione è diretto l’ordine di esibizione, si sottrarrebbero ai principi che hanno ispirato il legislatore del 197312. Ci pare però che tale soluzione non regga soprattutto alla luce della successiva parificazione delle prove documentali alle altre prove costituende in punto di ammissibilità13,

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In tal senso v. B. Cavallone, voce Esibizione delle prove nel diritto processuale civile, in Dig. civ., VII, Torino, 1991, 666, il quale, precisando che, in ogni caso, il potere istruttorio in relazione all’esibizione dovrebbe essere limitato a documenti e «altre cose» la cui esistenza risulti dagli atti, sembra ritenere che, in conformità a Cass., 25 novembre 1983, 7092, in Notiz. giur. lav., 1984, 109 – che ha affermato che nel processo del lavoro il giudice «nonostante l’ampio potere istruttorio conferitogli dal comma 2 dell’art. 421 c.p.c., non può pronunciare l’ordine di esibizione, previsto all’art. 210 c.p.c., ove manchi la relativa istanza di parte» – non possa estendersi il potere istruttorio allo strumento dell’art. 210 c.p.c. Tale scelta rifletterebbe secondo l’A. la propensione ad escludere l’acquisizione della prova documentale ai principi speciali che hanno ispirato la riforma del 1973. Contra, S. La China, voce cit., secondo cui deve ritenersi ammissibile, oltre all’esibizione dell’art. 210 c.p.c., una «esibizione innominata coperta dal generico riferimento al potere istruttorio officioso del giudice, che si ha quando tale potere si esercita nel campo della prova documentale». Sulla possibilità che l’esibizione istruttoria sia ammissibile d’ufficio ex art. 421 c.p.c., v. F.P. Luiso, Il processo del lavoro, cit., 203; G. Tarzia, Manuale, cit., 197. 12 Così B. Cavallone, op. loc. cit., il quale per giustificare l’estraneità dell’esibizione rispetto ai poteri istruttori del giudice richiama la giurisprudenza che riferisce alle prove documentali un trattamento diverso, in punto di ammissibilità in grado d’appello, delle prove documentali rispetto alle altre prove. 13 Ci si riferisce quindi all’evoluzione giurisprudenziale in relazione all’ammissibilità dei documenti in grado d’appello. Secondo un primo orientamento, la produzione di documenti nel giudizio di appello si sottrae al divieto dell’art. 437 c.p.c. Tale indirizzo si fonda sulla peculiarità della prova documentale, la cui acquisizione in giudizio non contrasterebbe con le esigenze di concentrazione e di immediatezza alla base del processo del lavoro, non essendo previsto né un previo giudizio di ammissibilità, né un procedimento di assunzione (Cass. 26 maggio 2004, n. 10128, in Foro it., 2004, I, 3087, con note di richiami di D. Piombo; Cass. 19 aprile 2003, n. 4048; Cass. 12 luglio 2002, 10179, in Notiz. giur. lav., 2002, 853; Cass. 16 maggio 2002, n. 7119; Cass. 15 aprile 2002 n. 5379; Cass. 10 giugno 2000, n. 7948; Cass. 19 agosto 1995, n. 8927). Si è osservato però che tale orientamento non tiene conto né del fatto che dopo la produzione del documento potrebbe aprirsi un giudizio di querela di falso o di verificazione della scrittura privata (giudizi che determinerebbero un allungamento dei tempi processuali) né del fatto che la produzione in appello della prova precostituita porta con sé la possibilità che la parte contro cui è prodotta possa dedurre nuovi mezzi di prova che si rendano necessari in risposta ai documenti. In tal senso v. M. De Cristofaro, Nuove prove in appello, poteri istruttori officiosi e principii del giusto processo, in Corr. Giur., 2002, 118, spec. nota 14; G. Ruffini, La prova nel giudizio civile d’appello, Padova, 1997, 574. Secondo un diverso orientamento, ormai prevalente, non vi sarebbero ragioni per sottrarre i documenti al divieto dell’art. 437 c.p.c., posto che non può operare alcuna distinzione tra prove precostituite e costituende con la conseguenza che il giudizio di indispensabilità debba operare con riferimento a tutti i mezzi di prova che la parte avrebbe dovuto fornire nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge processuale (Cass. 2 dicembre 2004, n. 22669; Cass. 20 gennaio 2003, n. 775 in Giur. it., 2003, 1096, con nota di A.M. Socci, La produzione dei documenti in appello (e in primo grado) nel rito del lavoro, in Corr. giur., 2003, 913, con nota di G. Ruffini, Nuove produzioni documentali in appello e poteri istruttori del giudice nel rito ordinario ed in quello del lavoro; in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 673, con nota di M. Cattani, Sulla produzione di documenti in appello e in Foro it., 2003, I, 3262, con nota di D. Dalfino, Rito del lavoro e limiti alla ammissibilità di documenti nuovi). Quest’ultimo, più rigoroso, indirizzo ha poi ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite le quali, hanno negato che la produzione di documenti sfugga al giudizio di indispensabilità del giudice e, al contempo, hanno sottolineato che, tale giudizio, quando positivamente superato, può condurre all’ammissione d’ufficio della prova. Il potere istruttorio officioso, concesso dall’art. 421 c.p.c. in primo grado e dall’art. 437 c.p.c. in appello, sarebbe idoneo poi a contemperare il sistema di rigide preclusioni che potrebbe determinare la decadenza dal diritto di produrre documenti, se non tempestivamente allegati agli atti introduttivi. Conseguentemente, la produzione di documenti in appello è ammissibile solo con riguardo a documenti sopravvenuti o anche anteriori, ma la cui produzione si renda necessaria in relazione allo sviluppo della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria depositata in appello, ed è ammessa anche con riferimento alle prove ritenute indispensabili. Così Cass., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8202, in Foro it., 2005, I, 1690, con note di D. Dalfino, Limiti all’ammissibilità di documenti nuovi in appello: le sezioni unite compongono il contrasto di giurisprudenza (anche con riferimento al rito ordinario), C.M. Barone, Nuovi documenti in appello: è tutto chiarito?, A. Proto Pisani, Nuove prove in appello e funzione del processo; ibid., I, 2719, con nota di C.M. Cea, Principio di preclusione e nuove prove in appello; in Corr. giur., 2005, 929, con note di G. Ruffini, Preclusioni istruttorie in primo grado e ammissione di nuove prove in appello: gli art. 345, 3º comma, e 437, 2º comma, c.p.c. al vaglio delle sezioni unite e C. Cavallini Le nuove sezioni unite restringono i limiti delle nuove produzioni documentali nell’appello civile, ma non le vietano; in Giur. it., 2005,

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di talché le une e le altre possono essere assoggettate al potere istruttorio del giudice del lavoro. Il potere del giudice di ordinare d’ufficio l’esibizione di documenti ha però carattere discrezionale e, non potendo sopperire all’inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, può essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde, non anche per fini meramente esplorativi14.

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1457, con nota di A.M. Socci, Le sezioni unite sulla produzione dei documenti (in appello e in primo grado) e sui poteri istruttori d’ufficio del giudice nel rito ordinario e del lavoro, tra stop and go; in Riv. dir. proc., 2005, 1051, con nota di B. Cavallone, Anche i documenti sono «mezzi di prova» agli effetti degli art. 345 e 437 c.p.c. 14 In tal senso Cass. 24 marzo 2004, n. 5908, in Lav. Giur., 2004, 904; Cass. 14 settembre 1995, n. 9715.

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Giurisprudenza Cassazione civile, sez. II, 29 gennaio 2020, n. 1990 – Pres. Scalisi – Rel. Besso Marcheis – P.M. Celeste – B.M., P.G., B.F., BA.MA., B.M. (avv. Coreo) – S.M.T., S.G., S.M., SA.GA., S.A. (avv. Ottavio). Rimette gli atti al Primo Presidente ex art. 374, comma 2, c.p.c. Giudizio ordinario – Contestazioni merito c.t.u. – Inosservanza termini ex art. 195, comma 3, c.p.c. – Preclusioni assertive ed istruttorie – Comparsa conclusionale – (In)ammissibilità. Ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c. si ritiene opportuno rimettere all’attenzione delle Sezioni Unite i seguenti profili: se le critiche alla consulenza tecnica possano essere sollevate per la prima volta in comparsa conclusionale; in caso di risposta positiva, se l’ammissibilità dei rilievi sia subordinata a una valutazione caso per caso del giudice, se la soluzione valga solo per i processi per cui non trovano applicazione i riformati artt. 191 e 195 c.p.c. ovvero anche per i procedimenti instaurati dopo l’entrata in vigore della l. n. 69 del 2009, se vi siano conseguenze per la parte, sotto il profilo dell’attribuzione delle spese del giudizio o sotto altri profili; in caso di risposta negativa, se ciò vada ricondotto all’applicazione del disposto di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2 alla generalità dei vizi attinenti la consulenza tecnica, quale categoria comprensiva anche dei vizi che attengono al contenuto dell’atto, ovvero quale conseguenza della mancata partecipazione della parte alla formazione della consulenza, così come stabilito dal giudice con la fissazione dei termini di cui all’art. 195 c.p.c., e, in quest’ultimo caso, se ciò valga solo per i procedimenti cui si applicano i riformati artt. 191 o 195 c.p.c. ovvero anche per i processi ove il giudice abbia fissato, sulla base dei suoi generali poteri di organizzazione e direzione del processo ex art. 175 c.p.c., un termine per il deposito di osservazioni; infine, se l’inammissibilità in primo grado comporti o meno l’inammissibilità nel giudizio di appello della (ri)proposizione dei rilievi formulati in comparsa conclusionale.

[Omissis] I motivi pongono la questione della facoltà per la parte di contestare i risultati della consulenza tecnica d’ufficio per la prima volta in comparsa conclusionale e, in via subordinata, se tali contestazioni, una volta considerate tardive in primo grado, possano essere proposte in appello, sottraendosi, come la consulenza tecnica di parte, alle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c. [Omissis] La questione delle conseguenze della proposizione di rilievi critici alla consulenza tecnica d’ufficio nella comparsa conclusionale, se cioè tali rilievi debbano essere considerati inammissibili perché tardivi ovvero ammissibili e quindi esaminati dal giudice, non trova una soluzione univoca nella giurisprudenza di questa Corte. [Omissis]

L’orientamento dominante, cui ha aderito la sentenza impugnata, è stato di recente sottoposto a revisione critica da una pronuncia ampia e argomentata della prima sezione di questa Corte (Cass., 26 luglio 2016, n. 15418), resa in un caso in cui, dopo aver depositato una consulenza tecnica di parte nel rispetto del termine fissato dal giudice per la presentazione delle osservazioni, era poi stato allegato alla comparsa conclusionale il parere di un esperto. La pronuncia, dopo aver ricordato la presenza dei due orientamenti, ha anzitutto richiamato il principio, espresso dalle sezioni unite di questa Corte, secondo cui «una consulenza di parte deve essere considerata un mero atto difensivo, la cui produzione non può ricondursi in alcun modo al divieto di cui all’art. 345 c.p.c., e la cui allegazione al procedimento deve ritenersi regolata dalle norme che disciplinano tali atti», in quanto «la

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natura tecnica del documento non vale infatti ad alterarne la natura, che resta quella di atto difensivo» (Cass., sez. un., 13902/2013); da ciò discenderebbe che i rilievi critici all’operato dell’esperto del giudice non incontrano barriera preclusiva, né in appello né in primo grado; l’orientamento che riconduce all’alveo della nullità relativa le contestazioni che concernono l’espletamento della consulenza d’ufficio va quindi limitato alle contestazioni del procedimento, mentre quelle che riguardano il contenuto della consulenza costituiscono mere argomentazioni difensive che la parte può per la prima volta inserire nella comparsa conclusionale; né si avrebbe in tal modo violazione del principio del contraddittorio, in quanto la controparte ha la possibilità di rispondere alle contestazioni con la memoria di replica; ove poi le contestazioni comportino la necessità di una revisione o di un approfondimento dell’indagine del consulente, con necessità di rimettere la causa sul ruolo istruttorio, il giudice valuterà le ragioni che hanno portato la parte a proporre le osservazioni solo con la comparsa conclusionale e ne trarrà le eventuali conseguenza in sede di liquidazione delle spese di lite. Il principio espresso dalla pronuncia non è rimasto isolato, ma è stato ripreso, in particolare, dalla sentenza della terza sezione n. 20829/2018 e richiamato da svariate pronunzie (si vedano, ad esempio, Cass. 14446/2017, Cass. 13869/2019 e Cass. 2516/2019). La posizione espressa dalla sentenza n. 15418/2016, se si pone in coerenza con l’orientamento delle sezioni unite sopra ricordato in tema di proponibilità in appello della consulenza tecnica di parte, presenta profili problematici: - anzitutto circa la compatibilità con il meccanismo disegnato nei novellati, ad opera della L. n. 69 del 2009, artt. 191 e 195 c.p.c. [omissis] - vi è poi la sottrazione del mezzo istruttorio della consulenza d’ufficio, per quanto concerne il merito, a qualsiasi preclusione, quando al con-

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trario i vizi procedimentali sono assoggettati al rigoroso termine di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2 [omissis], senza contare che la stessa distinzione, su cui è imperniata la sentenza n. 15418/2016, tra contestazione che attiene al procedimento e contestazione relativa al contenuto, non è sempre evidente, essendoci vizi del procedimento che si ripercuotono sul contenuto della consulenza (si pensi all’ipotesi dell’indagine tecnica che si estenda oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente, vizio del procedimento che si riflette sul contenuto della relazione tecnica). Alla luce delle considerazioni che precedono, ed essendo il panorama delle posizioni mutato rispetto all’ordinanza interlocutoria n. 14769/2012, che aveva precedentemente chiesto la pronuncia di cui all’art. 374 c.p.c., comma 2 il Collegio ritiene opportuno rimettere all’attenzione delle sezioni unite i seguenti profili: - se le critiche alla consulenza tecnica possano essere sollevate per la prima volta in comparsa conclusionale; - in caso di risposta positiva, se l’ammissibilità dei rilievi sia subordinata a una valutazione caso per caso del giudice, se la soluzione valga solo per i processi per cui non trovano applicazione i riformati artt. 191 e 195 c.p.c. ovvero anche per i procedimenti instaurati dopo l’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, se vi siano conseguenze per la parte, sotto il profilo dell’attribuzione delle spese del giudizio o sotto altri profili; - in caso di risposta negativa, se ciò vada ricondotto all’applicazione del disposto di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2 alla generalità dei vizi attinenti la consulenza tecnica, quale categoria comprensiva anche dei vizi che attengono al contenuto dell’atto, ovvero quale conseguenza della mancata partecipazione della parte alla formazione della consulenza, così come stabilito dal giudice con la fissazione dei termini di cui all’art. 195 c.p.c., e, in quest’ultimo caso, se ciò


Alessio Bonafine

valga solo per i procedimenti cui si applicano i riformati artt. 191 o 195 c.p.c. ovvero anche per i processi ove (come nel caso in esame) il giudice abbia fissato, sulla base dei suoi generali poteri di organizzazione e direzione del processo ex art.

175 c.p.c., un termine per il deposito di osservazioni; infine, se l’inammissibilità in primo grado comporti o meno l’inammissibilità nel giudizio di appello della (ri)proposizione dei rilievi formulati in comparsa conclusionale.[Omissis]

Note a prima lettura sull’ordinanza interlocutoria sull’ammissibilità delle critiche alla c.t.u. sollevate nell’ambito del giudizio ordinario per la prima volta in comparsa conclusionale (Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2020, n. 1990) Sommario :

1. Il caso da cui origina l’ordinanza interlocutoria. – 2. Il contrasto giurisprudenziale. – 3. Il sistema antecedente alla l. n. 69/2009. – 3.1. Segue: La questione della natura delle critiche. Quando eccezioni di nullità e quando argomentazioni difensive? – 4. Il subprocedimento per la formazione della consulenza delineato dall’art. 195, comma 3, c.p.c.: una breve ma necessaria premessa. – 5. La natura ordinatoria del termine per le critiche alla c.t.u. – 5.1. Segue: … la ricostruzione alternativa per la sua perentorietà. – 6. Conseguenze sui motivi di appello e sul regime delle spese.

In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite sul tema della ammissibilità delle critiche alla c.t.u. formulate, nell’ambito di un giudizio ordinario di cognizione, per la prima volta in sede di comparsa conclusionale, il lavoro si propone di esaminare gli aspetti più significativi che potrebbero essere valutati per arrivare alla soluzione della questione sottoposta.

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Waiting for the judgment of the joint session of the Supreme Court of Cassation on the issue of the admissibility of criticisms of the office technical consultancy formulated for the first time in the final statement, the work aims to examine the most significant aspects that could be evaluated to arrive at the solution of the referred question.

1. Il caso da cui origina l’ordinanza interlocutoria. L’intervento in funzione nomofilattica delle Sezioni Unite è stato richiesto dalla seconda Sezione della Cassazione con l’ordinanza interlocutoria n. 1990 del 29 gennaio 2020 a fronte di un giudizio immediatamente riassumibile nei suoi gradi di merito. Per dolersi del danno conseguente alla pretesa dolosa omissione della mancanza del certificato di abitabilità dell’immobile per civile abitazione acquistato, gli aventi causa citavano in giudizio gli alienanti chiedendo, in particolare, la differenza tra l’importo pagato e quello indicato e ritenuto corrispondente al reale valore, oltre che tutte le spese necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione in sanatoria. La sentenza con cui il Tribunale, sulla scorta degli esiti e delle quantificazioni della c.t.u., accoglieva la domanda, veniva impugnata lamentando l’acritico recepimento delle conclusioni dell’ausiliario e, soprattutto, la mancata adeguata considerazione delle contestazioni svolte alla consulenza – per la prima volta in sede di comparsa conclusionale e di memoria di replica – con riferimento al quantum del risarcimento. Contro la sentenza della Corte d’appello, che pure rigettava il gravame, era proposto ricorso per cassazione. La rimessione, a fronte di un denunciato contrasto di orientamenti, è stata disposta ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., in particolare, sulle questioni ritenute di massima particolare importanza relative (i) alla possibilità di sollevare critiche alla consulenza tecnica per la prima volta in comparsa conclusionale; (ii) alla eventuale necessità di distinguere a tali fini i procedimenti instaurati prima dell’entrata in vigore della l. n. 69/2009 da quelli sottoposti ai riformati artt. 191 e 195 c.p.c.

2. Il contrasto giurisprudenziale. L’ordinanza interlocutoria, dando atto di una precedente remissione del 20121 e premettendo l’inapplicabilità al caso ratione temporis della disciplina dettata dalla l. n. 69/2009 in funzione della procedimentalizzazione della formazione della consulenza tecnica attraver-

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V. Cass. 4 settembre 2012, n. 14769.

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so i riformati artt. 191 e 195 c.p.c., pone innanzitutto la questione della facoltà per la parte di un giudizio ordinario di cognizione di contestare i risultati della consulenza tecnica d’ufficio per la prima volta in comparsa conclusionale; e lo fa prospettando il rischio della «sottrazione del mezzo istruttorio della consulenza tecnica d’ufficio, per quanto concerne il merito, a qualsiasi preclusione»2. Sull’indicato tema, e pure prima del nuovo art. 195, comma 3, c.p.c., con pronunce confermate negli anni un primo orientamento della Cassazione ha sostenuto che le critiche alla relazione del consulente tecnico d’ufficio non possono essere dedotte nella comparsa conclusionale, perché altrimenti esse rimarrebbero sottratte al contraddittorio ed al dibattito processuale3. Ciò sul presupposto della funzione riepilogativa ed illustrativa della comparsa conclusionale4, in forza della quale escludere la possibilità di sollevare con essa questioni o proporre domande ed eccezioni nuove che non siano state formulate nei termini decadenziali che scandiscono il processo5. Se ne ricaverebbe per le parti un preciso onere, nel senso di procedere alle censure avverso l’attività del consulente con la prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, a pena di decadenza6. A tali fini, peraltro, non rilevando la natura della critica, potendosi ritenere conservato l’indicato limite temporale sia per le contestazioni per nullità (relativa)7 della consulenza,

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Amplius sulla consulenza tecnica v., oltre agli altri indicati nel prosieguo e senza pretesa di completezza, Ansanelli, Della nomina e delle indagini del consulente tecnico, in Istruzione probatoria. Commentario del codice di procedura civile, a cura di Taruffo, Bologna, 2014, 9 ss.; Barone, Consulente tecnico, in Enc. giur., VIII, Roma, 1988, 1 ss.; Cavallone, Le iniziative probatorie del giudice: limiti e fondamento. Ispezione giudiziale e consulenza tecnica e principio dispositivo, fatti secondari e fatti «rilevabili ex officio», in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991; Id., Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. dir. proc., 2009, 861 ss.; Comoglio, L’utilizzazione processuale del sapere extra-giuridico nella prospettiva comparatistica, ivi, 2005, 1145 ss.; Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, ivi, 1972, 414 ss.; Dittrich, La ricerca della verità nel processo civile: profili evolutivi in tema di prova testimoniale, consulenza tecnica e fatto notorio, ivi, 2011, 108 ss.; Dondi, Utilizzazione delle conoscenze esperte nel processo civile – Alcune ipotesi di carattere generale, in Studi in onore di Giuseppe Tarzia, I, Milano, 2005, 843 ss.; Fabiani, Preclusioni istruttorie e onere della prova nelle consulenze tecniche in tema di revocatoria fallimentare, in Giur. it., 2002, 265 ss.; Franchi, La perizia civile, Padova, 1959; Id., Del consulente tecnico, del custode e degli altri ausiliari del giudice, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, I, Torino, 1973, 682 ss.; Laudisa, Preclusioni e ricerca della verità, in Giusto proc. civ., 2006, 227 ss.; Lombardo, La scienza e il giudice nella ricostruzione del fatto, in Riv. dir. proc., 2007, 35 ss.; Mocci, La scelta del consulente tecnico d’ufficio nella prospettiva del giusto processo, in Giusto proc. civ., 2012, 593 ss.; Molfese, Il consulente tecnico in materia civile, Padova, 2003; Salomone, Sulla motivazione con riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 1017 ss. Tra le prime, Cass. 26 novembre 1998, n. 1999; Cass. 1° luglio 2002, n. 9517; Cass. 6 settembre 2006, n. 19128. Cfr. Cass. 7 gennaio 2016, n. 98. Cfr. Cass. 3 luglio 2013, n. 16611. Ex multis, Cass. 19 agosto 2002, n. 12231; Cass. 10 dicembre 2010, n. 24996; Cass. 3 agosto 2017, n. 19427; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29099. Sulla natura della nullità della relazione peritale v. Auletta, La nullità della relazione del consulente tecnico: un confronto tra i principi di offensività del vizio e di coerenza nella difesa della parte, in Corr. giur., 2016, 262, il quale dà atto di come «nessun dubbio […] sussiste – non in dottrina né in giurisprudenza – intorno al carattere relativo di tale nullità». Tuttavia, più di recente, Cass. 6 dicembre 2019, n. 31886 (v. anche infra nel testo), ha proposto una ricostruzione parzialmente alternativa ritenendo che l’idea affermatasi in giurisprudenza, secondo cui – per l’appunto – tutte le nullità della c.t.u. sono relative, sarebbe «tralatizia e stereotipa». Così, ad esempio, pur conservando tale qualificazione per le nullità per omissione di avvisi alle parti e di invio della bozza ai difensori, ha invece definito assolute tutte quelle commesse in violazione del principio dispositivo, «vuoi indagando su fatti mai

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sia per quelle riferite al merito delle conclusioni raggiunte dall’ausiliario, risolvendosi comunque anche quest’ultime in eccezioni relative al contenuto. A soccorrere, quindi, sarebbe innanzitutto il dettato dell’art. 157, comma 2, c.p.c.8 e, con specifico riferimento alle critiche rivolte al merito, pure la considerazione della necessità/ opportunità di sanzionare comunque il ritardo nella censura che, se tempestiva, avrebbe potuto giustificare la decisione di ordinare la rinnovazione ovvero il supplemento peritale evitando al processo inutili ritardi9. In senso contrario, tuttavia, non sono mancante nemmeno pronunce tendenti ad affermare l’ammissibilità delle contestazioni mosse alla c.t.u. in sede di comparsa conclusionale10. Tale diverso insegnamento è stato costruito sull’idea che la formulazione di ragioni di dissenso avverso le valutazioni e le conclusioni della relazione dell’ausiliario possa costituire momento non di allegazione di fatti nuovi, ma di indicazione di mere difese, in quanto tali articolabili anche per la prima volta con la comparsa conclusionale. Con maggiore impegno esplicativo, i rilievi alla c.t.u., se non diretti a far valere nullità del procedimento, costituirebbero semplici argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, pertanto ammissibili anche in sede di conclusionale quando non strumentali all’introduzione in giudizio di nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, domande, eccezioni e/o prove nuove, e fermo comunque il rispetto del diritto al contraddittorio e alla difesa di controparte. D’altro canto, la Cassazione non mette in dubbio che si possa esporre con la comparsa conclusionale anche una nuova ragione giustificativa della domanda, purché basata su fatti in precedenza accertati o su acquisizioni processuali mai oggetto di contestazione tra le parti11. Seguendo, quindi, i chiarimenti offerti dalla giurisprudenza di legittimità più recente12, occorrerebbe distinguere i casi in cui l’iniziativa della parte interessata alla contestazione si risolva in un’eccezione di nullità del procedimento di formazione della consulenza, ovvero in una critica al contenuto della stessa. Solo nella prima ipotesi il regime dell’art. 157, comma 2, c.p.c. risulterebbe applicabile.

prospettati dalle parti, vuoi acquisendo da queste ultime o da terzi documenti che erano nella disponibilità delle parti, e che non furono tempestivamente prodotti». In questi casi, infatti, a rilevare sarebbe la sottrazione a preclusioni assertive ed istruttorie fissate da norme (quali gli artt. 112, 115 e 183 c.p.c.) poste a tutela dell’interesse generale. Per una ricostruzione degli arresti più attuali, cfr. Ansanelli, Alcuni principi e ipotesi in tema di nullità della consulenza tecnica d’ufficio, in L’Aula Civile, V, 2020, 5 ss.; Antonelli, I limiti dei poteri istruttori del Consulente Tecnico d’Ufficio, ivi, 16 ss. Sul tema della riconducibilità del sistema delle preclusioni istruttorie alle norme di interesse pubblico per il corretto e rapido svolgimento del processo, cfr. anche Corte cost. 28 luglio 2000, n. 401; Cass. 7 aprile 2000, n. 4376; Cass. 18 marzo 2008, n. 7270; Cass. 26 giugno 2018, n. 16800. 8 V., in particolare, Cass. 15 aprile 2002, n. 5422; Cass. 31 gennaio 2013, n. 2251; Cass. 12 giugno 2014, n. 13418; Cass. 9 giugno 2017, n. 14446. 9 Cfr. Cass. 9 settembre 2013, n. 20636; Cass. 25 febbraio 2014, n. 4448. 10 Cass. 3 aprile 1964, n. 727; Cass. 2 maggio 1977, n. 1666; Cass. 10 marzo 2000, n. 2809; Cass. 22 giugno 2006, n. 14457. 11 Di recente, v. Cass. 2 maggio 2019, n. 11547. Nello stesso senso, ex multis, già Cass. 13 ottobre 2005, n. 19894; Cass. 25 ottobre 2010, n. 21844. 12 Cass. 26 luglio 2016, n. 15418; Cass. 21 agosto 2018, n. 20829; Cass. 29 gennaio 2019, n. 2516; Cass. 22 maggio 2019, n. 13869.

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3. Il sistema antecedente alla l. n. 69/2009. Esclusa l’esistenza di un reale contrasto sulla necessità di rispettare il termine decadenziale per il rilievo delle nullità attinenti al procedimento di formazione della consulenza d’ufficio, si tratta di verificare l’estensibilità di tale onere alle censure relative al merito della relazione dell’ausiliario. Nel quadro normativo antecedente alla l. n. 69/2009, nessuna norma del codice di rito richiedeva al c.t.u. di fornire ai consulenti di parte una bozza della propria relazione e nessuna forma di subprocedimento scadenzato era dato scorgere. A nulla rilevando, in senso contrario, nemmeno l’eventuale termine assegnato dal giudice per osservazioni sulla base dei generali poteri di organizzazione e direzione del processo ai sensi dell’art. 175 c.p.c., atteso che questo, in assenza di una diversa, espressa e preventiva previsione normativa, non poteva che essere inteso come meramente ordinatorio e quindi priva di conseguenze la sua inosservanza, fermo quanto si dirà più avanti. Peraltro, senza volere con questo affermare che nella vigenza del precedente articolato fosse sacrificato il principio del contraddittorio nella fase di svolgimento dell’attività13. Basterebbe pensare alla possibilità per le parti prevista dall’art. 194, comma 2, c.p.c. di intervenire in persona o a mezzo di propri consulenti e di presentare osservazioni e istanze ovvero, a monte, alla regola della comunicazione, ad opera della cancelleria, del giorno, dell’ora e del luogo di inizio delle indagini del consulente d’ufficio (ex artt. 90 e 91 disp. att. c.p.c.)14 per consentire a quelli di parte di assistervi anche ai sensi dell’art. 201. Il diritto ad intervenire alle operazioni tecniche era tuttavia inteso non come diritto a partecipare alla stesura della relazione, quale atto riservato al consulente d’ufficio, ma solo all’accertamento materiale dei dati da elaborare15. In un tale contesto, il perito di parte era ammesso al deposito di una controrelazione16 dopo la presentazione di quella dell’ausiliario (oltre che alla partecipazione alla camera di consiglio ex art. 197 c.p.c.), ma stante l’assenza di una espressa regola di decadenza, non era escluso che il difensore potesse confutare le conclusioni raggiunte dal c.t.u., anche sfruttando le argomentazioni della perizia di parte, per la prima volta negli scritti difensivi

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Vellani, Consulente tecnico, in Nss. dig. it., IV, Torino, 1959, 340. Cfr. pure Lombardo, Prova scientifica e osservanza del contraddittorio nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2002, 1083 ss. 14 Secondo la giurisprudenza di legittimità, dalla violazione delle indicate prescrizioni deriva una nullità relativa e l’obbligo di comunicazione della data e del luogo delle indagini non opera per gli incontri successivi al primo, quando nel corso di questo sia già avvenuta la deliberazione della data del rinvio; v. Cass. 7 aprile 2006, n. 8227; Cass. 10 dicembre 2010, n. 24996; Cass. 15 luglio 2016, n. 14532; più di recente, cfr. sul tema Cass. 6 dicembre 2019, n. 31886. 15 Su queste basi la Cassazione, prima delle modifiche di cui alla l. n. 69/2009, ha escluso la nullità (e rintracciato, al più, una mera irregolarità) della consulenza tecnica d’ufficio formata dall’ausiliario, disattendendo le prescrizioni del provvedimento di conferimento dell’incarico, senza rendere prima disponibile la sua relazione alle parti per eventuali osservazioni scritte, considerando non inciso il diritto di difesa di queste; cfr. Cass. 11 marzo 2011, n. 5897. 16 V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1954, 118, secondo cui il deposito della controrelazione doveva ritenersi consentito solo in presenza di autorizzazione del giudice.

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conclusionali17. E a tale risultato giungeva pure chi escludeva che le perizie stragiudiziali potessero essere esibite in sede decisoria sul presupposto che solo all’ausiliario del giudice, quale soggetto tecnico, dovessero essere indirizzate le controdeduzioni di parte18. In altri termini, la tendenza ad allentare le maglie degli oneri a carico delle parti, ammettendo le critiche alla relazione non determinanti l’ampliamento dell’oggetto della controversia anche in conclusionale, risultava (e risulta) ragionevole in un sistema processuale che non fissava a pena di decadenza precise scadenze temporali al dibattito tecnico sulla c.t.u. e comunque mirava al rispetto del contraddittorio a garanzia del diritto alla difesa delle parti sugli esiti della relazione. D’altronde, occorre considerare la giurisprudenza che, fuori dalla logica sottesa alla vigente versione dell’art. 195, comma 3, c.p.c., da tempo ha chiarito che la consulenza tecnica di parte – costituendo una semplice allegazione difensiva motivata sul piano tecnico, conservabile nell’ambito della argomentazione priva di autonomo valore probatorio19 (anche se tale da giustificare un approfondimento istruttorio secondo i principi di disposizione della prova e del libero e motivato convincimento del giudice) – può essere prodotta sia da sola, sia nel contesto degli scritti difensivi della parte, pure dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni20. In applicazione di tale principio, quindi, risulta possibile, senza porsi il problema di una preclusione assertiva e/o istruttoria21, riportare nell’atto di parte gli argomenti critici sviluppati dal proprio consulente, o comunque tutti quelli a confutazione dei risultati della c.t.u. disponibili anche direttamente al difensore; fermo il già indicato limite all’ampliamento del thema decidendum ovvero del thema probandum. Non sarebbe infatti ragionevole sostenere che la natura delle critiche formulate dai c.t.p. muti in ragione del loro inserimento, anche se per trascrizione integrale, all’interno dell’atto difensivo. Quella esposta è la soluzione cui è giunta pure la Cassazione che per prima ha aperto la strada al superamento dell’inizialmente più consolidato orientamento restrittivo, e che a tali fini ha però valorizzato per la controparte «la possibilità di rispondere nella memoria di replica»22. L’argomento della sottrazione al dibattito processuale delle critiche ammesse in sede di conclusionale è stato pertanto superato in ragione della garanzia offerta al diritto di difesa dallo scambio dell’art. 190 c.p.c.

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Cfr. Zanzucchi, Diritto processuale civile, II, Milano, 1962, 63; Vellani, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, in Dig. civ., III, Torino, 1988, § 7. 18 Giudiceandrea, Consulente tecnico, in Enc. dir., IX, Milano, 1961, § 6. V. anche Carnelutti, Nullità della consulenza di parte, in Riv. dir. proc., 1955, 291. 19 Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, 2002, 87. Lo stesso principio si ritrova in Corte cost. 13 aprile 1995, n. 124. 20 Cass., sez. un., 3 giugno 2013, n. 13902; Cass. 21 febbraio 1975, n. 662; Cass. 18 dicembre 1987, n. 9441; Cass. 9 maggio 1988, n. 3405; Cass. 28 luglio 1989, n. 3527; Cass. 5 giugno 1999, n. 5544; Cass. 14 novembre 2002, n. 16030; Cass. 8 gennaio 2013, n. 259. 21 Rossetti, Il c.t.u. («l’occhiale del giudice»), Milano, 2012, 290. 22 Cass. 26 luglio 2016, n. 15418.

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Il tutto, con alcune necessarie precisazioni. I venti giorni per la memoria di replica infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, potrebbero non essere effettivamente utili a garantire il contraddittorio sulle contestazioni articolate alla c.t.u. per la prima volta con la conclusionale, in specie quando queste siano particolarmente tecniche e complesse. In questi casi, spetterebbe al giudice una valutazione casistica volta alla verifica della serietà dei motivi che abbiano indotto a formulare la critica solo con la comparsa. Sicché, a fronte della loro infondatezza, laddove fosse comunque ravvisata la necessità di disporre la revisione o l’approfondimento della relazione con conseguente rimessione della causa sul ruolo istruttorio, il ritardo sarebbe da ritenere addebitabile e la parte, così sottrattasi agli obblighi di lealtà e correttezza processuale, potrebbe andare soggetta alla condanna alle spese. È evidente che l’adesione ad una tale ricostruzione risente anche del grado di procedimentalizzazione che si assuma raggiunto per la formazione della consulenza, atteso che una volta qualificata come mera difesa la critica al merito della c.t.u., in assenza di un termine espressamente fissato a pena di decadenza per la sua formulazione in vista della stesura della relazione definitiva, la tesi dell’ammissibilità del suo inserimento in comparsa rappresenta logico sviluppo.

3.1. Segue: La questione della natura delle critiche. Quando eccezioni di nullità e quando argomentazioni difensive?

Per aderire all’esposta conclusione, in effetti, occorre all’evidenza condividere il presupposto da cui essa muove, vale a dire la non applicabilità dei termini indicati dall’art. 157, comma 2, c.p.c. alle critiche attinenti il merito della perizia. Solo dopo avere escluso l’operatività della norma richiamata, infatti, ha senso sostenere la possibilità di contestare il contenuto della consulenza anche dopo la chiusura delle indagini dell’ausiliario. I primi arresti della Cassazione, che l’ordinanza sembrerebbe condividere, hanno affermato il principio per cui «le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione di cui all’art. 157 c.p.c., comma 2 […]»23. Tuttavia, si è già detto (supra, § 2) che la giurisprudenza più recente ha in senso contrario precisato che i rilievi alla c.t.u., se non diretti a far valere nullità del procedimento ovvero della relazione quale atto processuale24, costituiscono semplici argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico. Si tratta di conclusione che appare preferibile.

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Cass. 25 febbraio 2014, n. 4448; Cass. 20 giugno 2017, n. 15201. Auletta, Il procedimento di istruzione, cit., 146; Id., Le nullità della relazione, cit., 262.

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Non tutte le critiche ad una consulenza si risolvono in eccezioni di nullità per le quali pretendere il rispetto dei termini di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c.; quelle che attengono alle conclusioni raggiunte dal perito, poi, in particolare. Non serve indugiare sul fatto che l’articolo appena richiamato, in combinato con l’art. 156 c.p.c., considera le nullità per «inosservanza di forme»25. In questo senso è esemplificativo anche il fatto che la disposizione si rivolga alla parte nel cui interesse è stabilito il «requisito» mancante. Secondo l’insegnamento per cui «Se il regolamento giuridico minimo di un atto è il suo regolamento formale, a sua volta il regolamento formale minimo è il regolamento del contenuto»26, a rilevare sono quindi i vizi riferibili al contenuto-forma dell’atto, ai quali all’evidenza non vanno però equiparati quelli concernenti il merito27. Le nullità della consulenza, infatti, possono dipendere da cause formali e da cause sostanziali28. Le prime, riguardano l’aspetto esteriore dell’atto, comprendendo, ad esempio, l’ipotesi della mancata sottoscrizione da parte dell’ausiliario nominato29. Le seconde invece si riferiscono a vizi procedurali che impattano sul contraddittorio generandone una lesione, da valutare peraltro in senso sostanziale30.

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Né può essere utile in questa sede ripercorrere analiticamente le posizioni assunte in merito alla possibilità di accogliere una distinzione tra nullità formali ed extraformali (contra, esemplificativamente, Satta, Commentario del codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 535 ss.; Mandrioli, In tema di vizi c.d. «non formali» degli atti processuali civili, in Jus, 1966, 560. Più di recente, Poli, Sulla sanabilità dei vizi degli atti processuali, in Riv. dir. proc., 1995, 484; Id., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, 33 ss., anche per ulteriori riferimenti, il quale sostiene l’opportunità di accedere ad una nozione ampia del concetto di forma dell’atto, sì da ricomprendervi ogni «modo di esercizio del potere giuridico»), ovvero – ove ammessa (tra gli altri, v. Tarzia, Profili della sentenza civile impugnabile, Milano, 1967, 153; Denti, Nullità degli atti processuali civili, in Nss. dig. it., XI, Torino, 1968, 470; Ciaccia-Cavallari, La rinnovazione nel processo civile, Milano, 1988, 98 ss. Più di recente, v. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2019, 418; Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Milano, 2019, 95) – sulla applicabilità alle seconde della disciplina prevista per le prime (l’inutilizzabilità, tra gli altri, dei criteri del raggiungimento dello scopo, della rinnovazione e della conversione dell’atto è affermata, sul presupposto che il vizio derivante dalla mancanza dei presupposti processuali, della capacità e della legittimazione, si esaurisce in una ipotesi di invalido esercizio del potere attinente alla costituzione stessa del processo, da Denti, Nullità, cit., 470. La tesi della rilevabilità d’ufficio e della insanabilità delle nullità non formali è sostenuta, a titolo esemplificativo, da Martinetto, Delle nullità degli atti, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Allorio, I.2, Torino, 1973, 1614 ss.; cfr. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2017, 653; in giurisprudenza, sulla rilevabilità d’ufficio delle nullità extraformali, v. Cass. 10 aprile 2015, n. 7260. Sul tema cfr. Auletta, Nullità e «inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999, 149, secondo cui la disciplina delle nullità può applicarsi, con eccezione dell’art. 156 c.p.c., in ragione del suo carattere generale «senza riguardo al profilo formale o meno del vizio». Per Oriani, Nullità degli atti processuali, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, 2, l’estensibilità della regola della sanatoria oggettiva dovrebbe essere valutata con approccio casistico). L’esame approfondito dei profili ora sola accennati, infatti, risulterebbe estraneo ai propositi di questo lavoro. 26 Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, 259. 27 Cfr., senza pretesa di completezza, Satta, op. loc. cit.; Mandrioli, op. loc. cit. 28 Conte, Le prove civili, Milano, 2009, 548. 29 In questa categoria andrebbe ricondotta anche l’ipotesi in cui ad essere contestata sia l’assenza della sintetica valutazione delle osservazioni critiche, come richiesta dall’art. 195, comma 3, c.p.c. A ben vedere, infatti, la critica risulta incentrata su una nullità derivante da un vizio di contenuto-forma e pertanto soggetta al relativo regime di decadenza. 30 Rossetti, La figura e l’attività del C.T.U. nel processo civile, Milano, 120; Protetti, Novità e vecchie questioni in tema di consulenza tecnica d’ufficio nel processo civile, in Giur. merito, 2010, 35.

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Entrambe, in quanto nullità formali31, sono soggette alla regola della eccezione tempestiva ex art. 157, comma 2, c.p.c., a pena di decadenza e altrimenti conseguente sanatoria. In questo senso si è orientata anche la giurisprudenza di legittimità, che – nel quadro normativo antecedente alla l. n. 69/2009 – ha considerato nulla, previa dimostrazione del concreto pregiudizio al diritto di difesa della parte interessata a far valere il vizio, la relazione formata a seguito di un sopralluogo cui, senza autorizzazione del giudice, aveva preso parte solo un collaboratore del perito32, ovvero – nel nuovo – ha qualificato come motivo di nullità (anch’essa relativa) della consulenza l’omesso invio della bozza di relazione alla parte33. Quando però l’attività di parte non sia rivolta a fare valere vizi di forma, nel senso appena esposto, ma a criticare (in fatto e/o in diritto) i risultati raggiunti dal consulente – ad esempio semplicemente contestando i fatti posti a base della perizia (anche attraverso l’allegazione di fatti secondari), ovvero negando la loro idoneità a giustificare le risultanze raggiunte34 – essa, pur non presentando consistenza giuridica in senso stretto, si atteggia quale mera difesa, in quanto tale articolabile – seguendo la logica che si è visto essere già stata applicata con riferimento alle relazioni dei c.t.p. – senza la necessità di rispettare rigide scadenze processuali35. Così discorrendo, pure l’ipotesi dell’indagine tecnica «che si estenda oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente» – che l’ordinanza interlocutoria pone per dimostrare la difficoltà ad individuare un preciso confine tra contestazione che attiene al procedimento e contestazione relativa al contenuto, nella misura in cui la prima può sfociare nella seconda – non sembra realmente dirimente. Anche a seguire il ragionamento della Sezione rimettente, l’eventuale preclusione della contestazione relativa al contenuto della consulenza andrebbe affermata solo quando la critica nel merito veicoli la riapertura del dibattito processuale sul motivo della nullità già sanata in ragione della mancata eccezione tempestiva; ad esempio, perché siano censurate le conclusioni raggiunte dal perito proprio in quanto fondate su documenti diversi da quelli indicati dal giudice e il relativo vizio procedurale, che pure la parte avrebbe potuto e dovuto far valere, non sia stato denunciato nel rispetto dell’art. 157, comma 2, c.p.c.

31

Come noto, infatti, anche la violazione di norme procedurali è motivo di nullità, soggetta alle regole generali di cui agli artt. 156 ss., salva diversa previsione. Ciò in quanto le norme che regolano il procedimento sono condizioni di validità e di efficacia sia del procedimento medesimo, sia dell’atto che lo conclude, sicché «la conseguenza logico-giuridica della violazione di tutte le norme processuali è la nullità dell’atto che si compie con tale violazione»; in questi termini, Satta, Commentario, II.2, cit., 206. Amplius, Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., 46 ss. Con riferimento specifico alla possibilità che il vizio del subprocedimento di formazione della consulenza possa ripercuotersi sulla validità della relazione ai sensi dell’art. 159 c.p.c., v. Auletta, La nullità della relazione, cit., 262 s., il quale, invece, tende ad escludere la successiva e ulteriore progressione della nullità fino alla sentenza. 32 Cass. 8 giugno 2007, n. 13428. 33 Ex multis, Cass. 9 ottobre 2017, n. 23493; Cass. 19 novembre 2018, n. 29690; Cass. 6 dicembre 2019, n. 31886. 34 V. amplius e per una più precisa definizione della mera difesa, tra gli altri, Luiso, Diritto processuale, II, cit., 20; Sassani, Lineamenti, cit., 211. 35 Tra le altre, Cass., sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951.

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La stessa conclusione, però, non potrebbe valere anche quando invece, pur assumendo quel medesimo vizio procedurale, la contestazione non sia su di esso costruita. Così, preso atto del ricorso a documentazione fotografica diversa da quella sulla base della quale il giudice ha formulato i quesiti e conferito l’incarico, la critica attraverso cui la parte lamenti l’inadeguatezza di quelle stesse foto a fondare il convincimento del c.t.u. (ad esempio, perché sfocate) non ha ragione di essere negata, in quanto mera difesa nel merito sempre articolabile36. Per di più, è appena il caso di osservare che tali annotazioni presuppongono la qualificazione delle nullità considerate come relative. Tuttavia, di recente la Cassazione37 – guardando ai casi in cui l’ausiliario abbia allargato il thema decidendum e/o supplito alle decadenze istruttorie delle parti e quindi, almeno in buona misura, proprio a quelli ritenuti critici dall’ordinanza interlocutoria – ha superato la regola della relatività della nullità, ammettendo il rilievo d’ufficio sul presupposto che il vizio derivi dalla violazione del principio dispositivo, così come posto da norme di interesse generale.

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In materia di testimonianza, ad esempio, non è posto in dubbio che anche laddove non sia stata formulata tempestivamente (id est, immediatamente dopo l’escussione ovvero, in caso di assenza del procuratore della parte all’incombente istruttorio, entro la successiva udienza; v. Cass. 19 agosto 2014, n. 18036) l’eccezione di nullità per incapacità a deporre, possa essere comunque contestata successivamente l’attendibilità e la credibilità del teste, operando infatti i profili richiamati su piani diversi, atteso che il primo dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, mentre il secondo riguarda la veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva e soggettiva; cfr., di recente, Cass. 9 agosto 2019, n. 21239. Il richiamo all’ipotesi della contestazione delle dichiarazioni rese dal teste si dimostra utile a maggior ragione se si considerano le affinità tra la consulenza e la c.d. testimonianza tecnica, così come ricavabili già dall’impostazione del codice del 1865 (cfr. Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947, 93 ss.; Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 454 ss.). Pur senza negare i profili di diversità degli istituti (tra gli altri, Besso, La prova prima del processo, Torino, 2004, 144 ss.) – essenzialmente ricondotti alla prevalenza della dimensione narrativa della testimonianza, alla libertà della formazione della conoscenza del teste (in quanto non veicolata attraverso il rispetto di specifiche regole tecniche) e alla fungibilità del consulente – la testimonianza tecnica, ovvero quella avente ad oggetto fatti per la cui descrizione sia necessario il possesso di cognizioni tecniche non ordinarie (amplius, Denti, Testimonianza tecnica, in Riv. dir. proc., 1962, 9 ss.), è stata ammessa anche dalla giurisprudenza, per lo meno quando la deposizione non si risolva in una valutazione del tutto soggettiva ovvero in un mero apprezzamento tecnico del fatto, senza indicazione di dati obiettivi, e piuttosto si strutturi in modo tale da «far uscire la percezione sensoria da un ambito puramente soggettivo, sì da trasformarla in un convincimento scaturente obiettivamente dal fatto medesimo» (tra le prime, cfr. Cass. 5 febbraio 1994, n. 1173). Attesa l’impossibilità di trattare compiutamente in questa la sede il tema, che in effetti ha alimentato un vivace dibattito in giurisprudenza e in dottrina, si rimanda, anche per ulteriori riferimenti e comunque senza pretesa di completezza, ad Ansanelli, Comparazione e ricomparazione in tema di expert witness testimony, in Riv. dir. proc., 2009, 713 ss.; Bove, Il sapere tecnico nel processo civile, ivi, 2011, 1431 ss., spec. 1436 s.; Ferarris, La testimonianza tecnica, ivi, 2012, 1231 ss.; Fornaciari, A proposito di prova testimoniale «valutativa», ivi, 2013, 1004 ss., spec. 1013, per il quale, in particolare, «da un diverso punto di vista, e più precisamente da quello strutturale, il consulente tecnico (incaricato della percezione di fatti) non fa invece nulla di diverso da ciò che fa il testimone, vale a dire descrivere dei fatti. Per quanto funzionalmente il consulente tecnico operi, secondo quanto detto, quale alter ego del giudice, è infatti innegabile che, allorché egli intervenga, il rapporto di quest’ultimo con il fatto non solo diventa mediato (il fatto non è cioè oggetto di percezione diretta), ma è esattamente uguale a quello che si ha in presenza di un testimone: il giudice viene in contatto con il fatto solo tramite la descrizione di un diverso soggetto. Non solo: sempre alla luce delle ipotesi prospettate, è altresì innegabile che non solo la consulenza tecnica ma anche la testimonianza può essere ‘valutativa’; può cioè esprimere una percezione mediata da conoscenze specifiche del teste, non proprie dell’uomo comune». È evidente, peraltro, che la questione appena accennata è ben diversa da quella relativa alla capacità del consulente di rendere testimonianza, e per la quale la tesi della incompatibilità è stata sostenuta, tra gli altri, da Satta, Commentario, II.1, cit., 261, il quale richiama a tali fini il principio della «tipizzazione delle funzioni». 37 V. supra, sub nota 7.

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Ora, se si assume che nelle ipotesi indicate la nullità possa essere sempre fatta valere dal giudice (salvo il giudicato), allora nemmeno può essere preclusa alla parte la possibilità di sollevare la relativa questione con la comparsa conclusionale, tenuto conto peraltro che non vi sarebbe comunque lesione del contraddittorio, atteso che la controparte potrebbe far valere le proprie ragioni con la memoria di replica38. Qualsiasi sia la prospettiva prescelta, quindi, le perplessità prospettate in sede di rimessione sembrerebbero perdere di reale significatività.

4. Il subprocedimento per la formazione della consulenza delineato dall’art. 195, comma 3, c.p.c.: una breve ma necessaria premessa.

La conservabilità della conclusione esposta per le critiche spese avverso la c.t.u. in conclusionale nel quadro normativo antecedente alla l. n. 69/2009 va valutata nella vigenza del nuovo art. 195, comma 3, c.p.c. La disposizione, come noto, ha introdotto una sorta di subprocedimento per la formazione della consulenza tecnica d’ufficio attraverso specifiche scansioni temporali39. Ciò, anche nel tentativo di porre freno alla deleteria prassi dei numerosi rinvii per i richiami del consulente per chiarimenti e integrazioni40. Nell’assetto normativo ridefinito dagli artt. 191 e 195, comma 3, c.p.c., infatti, il giudice istruttore, con l’ordinanza ex art. 183, comma 7, c.p.c. ovvero con altra successiva, nomina il consulente, formula i quesiti e fissa l’udienza per la comparizione dell’ausiliario. A detta udienza, a seguito del prescritto giuramento, sempre con ordinanza, fissa distinti termini per (i) la trasmissione della bozza di relazione alle parti; (ii) le osservazioni critiche alla bozza da inviare al consulente; (iii) il deposito della relazione, delle osservazioni delle parti e di una sintetica valutazione delle stesse; (iv) il prosieguo del giudizio attraverso fissazione dell’udienza successiva. Con maggiore impegno esplicativo, il legislatore, usando il metodo della bozza, ha concentrato innanzi al consulente il contraddittorio tecnico41, in particolare con il proposito di

38

In termini analoghi, Trib. Salerno 2 ottobre 2019, n. 3097, in dejure.it. Amplius, Ansanelli, La consulenza tecnica, in La prova nel processo civile, a cura di Taruffo, Milano, 2012, 993 ss.; Vianello, Consulenza tecnica d’ufficio, Torino, 2015; v. anche Sassani-Tiscini, Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009, n. 69, in judicium.it. 40 V. Della Pietra, Le modifiche alla trattazione e all’istruzione nell’ultima novella del processo civile, in AA.VV., Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitività, Napoli, 2009, 47, che anche in questo senso parla di «vacui rinvii»; Briguglio, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma in materia civile, in Giust. civ., 2009, 270; Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, 69 ss.; Salvaneschi, Sub art. 191, in Commentario alla riforma del codice di procedura civile, a cura di Saletti e Sassani, Torino, 2009, 96 ss. 41 Cfr. Sassani, A.D. 2009: ennesima riforma al salvataggio del rito civile. Quadro sommario delle novità riguardanti il processo civile, in judicium.it, 4; Bove, Il sapere tecnico, cit., 1442. 39

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assicurare alle parti la possibilità di incidere sul convincimento dell’ausiliario42 senza però dilatare i tempi per la formazione della relazione definitiva43. Il tutto, peraltro, con rafforzamento della funzione di peritus peritorum del giudice, al quale è offerto un quadro più completo e verificabile nella sua coerenza logica e attendibilità tecnica44.

5. Il termine per le critiche alla c.t.u.: la sua natura ordinatoria.

Si tratta di capire se dalla finalità di concentrazione del contraddittorio tecnico sottesa alla norma possa essere ricavata anche la regola della inammissibilità delle critiche svolte alla c.t.u. per la prima volta in comparsa conclusionale, di fatto per inosservanza dei termini del subprocedimento descritto. In effetti, alla procedimentalizzazione – per scansioni temporali comunque non predeterminate, così da lasciare al giudice la relativa quantificazione anche in considerazione della complessità delle indagini richieste – non ha fatto seguito la regola espressa della perentorietà dei termini45. Da ciò si dovrebbe dedurre non solo la loro prorogabilità ex art. 154 c.p.c., ma pure la facoltà delle parti di formulare contestazioni e/o osservazioni al merito della consulenza in un momento successivo alla loro scadenza e, quindi, pure in sede di comparsa conclusionale; eventualmente anche per trascrizione nell’atto del difensore di relazioni stragiudiziali, fermo il limite dell’ampliamento dell’oggetto della causa. Invero, alcune precisazioni si dimostrano a questo punto necessarie. Non si vuole disconoscere il tradizionale orientamento secondo cui i termini ordinatori sono stabiliti solo per sollecitare il corso del processo e alla loro violazione non consegue

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Resta, d’altronde, la regola dell’art. 90, comma 2, disp. att. c.p.c., secondo cui il consulente non può ricevere altri scritti defensionali oltre quelli contenenti le osservazioni e le istanze di parte consentite dall’art. 194 c.p.c. In questo contesto, è ovvio che si realizza anche un’ulteriore centralizzazione del ruolo dei consulenti di parte che – pur non potendo essere intesi come ausiliari del giudice (anche se in senso contrario sembrano muovere le considerazioni di Satta-Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1992, 346), poiché tale è la funzione del solo consulente d’ufficio quale «occhiale del Giudice» (Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Padova, 1943, 167) – sono stati considerati veicolo di una essenziale difesa tecnica affiancata a quella giuridica propria dell’avvocato. Così, Grasselli, L’istruzione probatoria nel processo civile riformato, 2000, 464. In questo senso Giudiceandrea, Consulente tecnico, cit., § 6, parla di «difensore consultivo»; v. anche Ansanelli, op. ult. cit., 1051; Bove, op. ult. cit., 1444. 43 Protetti, Novità e vecchie questioni, cit., 25. 44 Ansanelli, Riforme in tema di utilizzazione delle conoscenze esperte nel processo civile. Brevi rilievi critici, in Giusto proc. civ., 2009, 924. 45 Sulla conservata ordinarietà del termine v., oltre agli altri, Acierno-Graziosi, La riforma del 2009 nel primo grado di cognizione: qualche ritocco o un piccolo sisma?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 176; Fabiani, La riforma del c.p.c. - Art. 195. - Processo verbale e relazione, in Nuove leggi civ. comm., 2010, 874.

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alcuna decadenza o nullità46, ma solo – e, comunque, eventualmente – una posizione di svantaggio47. È pur vero, però, che anche in seno al dibattito dottrinale non è mancata la proposta di una concezione unitaria dei termini utile ad ancorare la decadenza anche al mancato rispetto di quelli ordinatori per dichiarazione d’ufficio48; in particolare, argomentando, tra l’altro, sulla base del dettato degli artt. 175 (perché la dichiarazione della decadenza sarebbe da ricomprenderebbe nei poteri accordati in funzione del più sollecito svolgimento del procedimento) e 154 c.p.c. (perché non sarebbe possibile spiegare le condizioni per la proroga dei termini ordinatori se non immaginando il rischio di una decadenza anche per la loro inosservanza e perché non andrebbe valorizzato il richiamo speso dalla norma, proprio ai fini della proroga, «al termine che non sia stabilito a pena di decadenza», atteso che la specifica andrebbe riferita ai soli termini nei quali la decadenza si realizza ipso iure e non anche a quelli in cui l’effetto decadenziale opera d’ufficio). Nella misura in cui risultava funzionale ad ammettere la decadenza ex post dei termini ordinatori, a tale ricostruzione si è opposto che la disciplina dei termini va interpretata nel senso di riconoscere la volontà legislativa di indicare ab origine, proprio attraverso la previsione della perentorietà, le conseguenze della inosservanza, sì da escludere che la decadenza possa essere dichiarata sulla base di una valutazione compiuta arbitrariamente e, men che meno, successivamente dal giudice. Ciò non sarebbe smentito dall’art. 152, comma 1, c.p.c., nella parte in cui ammette che i termini possano essere fissati a pena di decadenza anche dal giudice «se la legge lo permette espressamente», perché anche in questo caso andrebbe negato ogni spazio ad una valutazione discrezionale e successiva che, altrimenti, legherebbe la decadenza al provvedimento che la dichiara piuttosto che ad una vera ipotesi di esaurimento del potere delle parti49. Anche la giurisprudenza di legittimità ha assunto una posizione al riguardo. Le Sezioni Unite50, in particolare, hanno affermato che «la chiara formulazione degli artt. 153 e 154 c.p.c. e una interpretazione ‘costituzionalmente orientata’ anche di tali norme nel rispetto della ‘ragionevole durata’ del processo, portano a condividere l’assunto che la differenza tra termini ‘ordinatori’ e termini ‘perentori’ risieda nella prorogabilità o meno dei primi, perché mentre i termini perentori non possono in alcun caso ‘essere abbreviati o prorogati, nem-

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La sanzione della nullità relativa è stata proposta, tra gli altri, da Andrioli, Commento, I, cit., 409; Zanzucchi, Diritto processuale, I, cit., 437; Verde, Diritto processuale civile, I, Bologna, 2017, 250. 47 Cfr., a titolo esemplificativo, Costa, Termini, in Nss. dig. it., XIX, Torino, 1957, 124; Picardi, Per una sistemazione dei termini processuali, in Jus, 1963, 222; Satta, Commentario, I, cit., 532. Proprio per questa ragione Redenti, Atti processuali, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 139, definiva i termini ordinatori «meramente canzonatori», pur aprendo poi, però, alla conseguenza della decadenza su istanza di parte (Id., Diritto processuale civile, I, Milano, 1980, 225). Sui termini, v. Picardi-Martino, Termini, in Enc. giur., XXXI, Roma, 1994, 1 ss.; Martino, Termine nel processo civile, in Il diritto-Encicl. giur., XV, Milano, 2008, 583 ss. 48 V. Balbi, La decadenza nel processo di cognizione, Milano, 1983, 42 ss. 49 Amplius e per ulteriori riferimenti, cfr. Grossi, Termine, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 234 ss. 50 Cass. sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, con nota critica di De Santis, in Foro it., 2009, I, 1136 ss. In senso favorevole all’esposta conclusione, Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, Torino, 2010, 43. V. anche Cass., sez. un., 23 settembre 2014, n. 19980; Cass. 15 dicembre 2011, n. 27086; Cass. 21 febbraio 2013, n. 4448; Cass. 11 luglio 2013, n. 17202.

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Giurisprudenza

meno sull’accordo delle parti’ (art. 153 c.p.c.), in relazione ai termini ordinatori è consentito, di contro, al giudice la loro abbreviazione o proroga, finanche d’ufficio, sempre però ‘prima della scadenza’ (art. 154 c.p.c.). Una volta, pertanto, scaduto il termine ordinatorio senza che si sia avuta una proroga si determinano, per il venir meno del potere di compiere l’atto, conseguenze analoghe a quelle ricollegabili al decorso del termine perentorio». Da ciò dovrebbe conseguire, per quanto di interesse in questa sede, la maturazione di una preclusione per la parte che non abbia provveduto a depositare nel rispetto del termine di cui all’art. 195, comma 3, c.p.c. le proprie critiche alla bozza della relazione peritale; ferma l’attivazione dei poteri d’ufficio ex art. 196 c.p.c.51 Il principio dell’assimilazione tra termini perentori e ordinatori, che si vorrebbe imposto dalla regola della ragionevole durata del processo, e quindi la conclusione appena esposta, che sul medesimo principio è costruita, non sembrano però convincenti. Al netto della considerazione dell’esistenza di un orientamento contrastante, che invece riconosce la validità dell’atto compiuto dopo la scadenza del termine ordinatorio52, resta infatti il dato letterale dell’art. 152 c.p.c., che affida in ogni caso alla legge53 la previsione (in questo caso però mancante) della decadenza54.

5.1. Segue: … la ricostruzione alternativa per la sua perentorietà. Quanto appena detto in merito alla ammissibilità delle critiche alla c.t.u. pure in un momento successivo alla scadenza del termine fissato nell’ambito del subprocedimento di cui all’art. 195, comma 3, c.p.c. potrebbe probabilmente conservarsi anche assumendone la perentorietà diretta in forza di quella giurisprudenza (che invero non pare condivisa dall’ordinanza interlocutoria, che invece ne afferma la natura ordinatoria) a mente della quale la natura perentoria di un termine può essere tratta dalla sua funzione, sicché esso può essere perentorio anche in assenza di una sua esplicita qualificazione in tal senso55. Si tratta dell’orientamento che si colloca in linea di continuità con l’idea della necessaria esigenza di un processo dallo svolgimento celere, in cui il sistema delle preclusioni assertive e istruttorie del giudizio ordinario si eleva a presidio di valori pubblici e indisponibili. In effetti, il fatto che con l’art. 195, comma 3, c.p.c. il legislatore abbia voluto ridurre e razionalizzare i tempi della c.t.u., e più in generale quelli per l’ingresso nel processo delle conoscenze tecniche e settoriali, potrebbe essere in questo senso valorizzato per arrivare ad affermare la perentorietà per funzione del termine per le critiche alla relazione.

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Cfr. Protetti, Novità e vecchie questioni, cit., 27 s. Ex multis, Cass. 8 novembre 2013, n. 25211; Cass. 22 maggio 2014, n. 11418; Cass. 7 ottobre 2014, n. 21111; Cass. 19 luglio 2016, n. 14731. 53 Sia, cioè, quando la regola della perentorietà è diretta ed espressa, ai sensi dell’art. 152, comma 2, c.p.c., sia quando è il giudice ad assegnare alle parti termini a pena di decadenza, ex art. 152, comma 1, c.p.c. 54 Picardi-Martino, Termini, cit., 6. 55 Cass., sez. un., 12 gennaio 2010, n. 262; Cass. 5 marzo 2004, n. 4530; Cass. 8 febbraio 2006, n. 2787; Cass. 29 maggio 2015, n. 11171. 52

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Se è vero che aggiungendo il comma 3 all’art. 195 c.p.c. la riforma del 2009 ha voluto incidere sulle scansioni temporali della consulenza, è però vero altresì che lo ha fatto nell’ottica dell’anticipazione del contraddittorio tecnico a potenziamento della garanzia del diritto alla difesa delle parti. Ciò che a queste è offerta, altrimenti detto, è la facoltà di interlocuzione con il perito in vista dell’individuazione, prima, e dell’elaborazione, poi, dei dati rilevanti. In buona misura, un diritto di partecipazione attiva al subprocedimento. La sostanziale perentorietà del termine – ove anche si aderisse a tale ricostruzione – sarebbe quindi comunque da intendere nel senso che la parte che ad esso si sottrae perde la possibilità di apportare un contributo, in via contestuale anche attraverso i propri consulenti, a tale processo di selezione e valutazione tecnica. Con maggiore impegno esplicativo, la parte inosservante il termine per le osservazioni critiche alla bozza di c.t.u., al più, decadrebbe nel senso di non potere più incidere, in corsa, sul convincimento del perito. Gli effetti dell’inerzia sarebbero però da limitare al solo subprocedimento, non implicando anche decadenza rispetto alla possibilità di contestare in altro e successivo momento il merito delle conclusioni comunque raggiunte dall’ausiliario. Ciò anche in ragione dell’argomento, già introdotto, della natura delle critiche alla perizia – oltre che delle consulenze di parte, anche stragiudiziali – che si vogliano inserire negli atti di parte, in specie conclusionali. Esse, in quanto mere allegazioni difensive, quand’anche solo di natura tecnica, dovrebbero infatti essere comunque sottratte ad una pretesa regola di condizionamento all’osservanza del termine fissato ai sensi dell’art. 195, comma 3, c.p.c.

6. Conseguenze sui motivi di appello e sul regime delle spese.

Dalle conclusioni rassegnate possono ricavarsi alcuni corollari in risposta ai quesiti dell’ordinanza interlocutoria. Salve infatti le eccezioni di nullità alla consulenza, per le quali resta fermo il termine dell’art. 157, comma 2, c.p.c., avere inteso le critiche al merito di questa come mere difese e, quindi, averle ritenute consentite anche in sede di comparsa conclusionale56, fa sì che nessuna inammissibilità possa essere denunciata in ragione di una loro (ri)proposizione in grado di appello, atteso che esse non integrerebbero né nuove domande e/o eccezioni precluse ex art. 345 c.p.c. né prospettazione di una nuova causa petendi57. Similmente, non costituirebbe ostacolo nemmeno il nuovo art. 342 c.p.c., atteso che le critiche formu-

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Alla stessa conclusione giunge Russo, Appunti sulla nuova dialettica formalizzata tra C.T.U. e parti, in Giur. it., 2013, 218 ss. In giurisprudenza, proprio in ragione della loro natura di atto difensivo che non sarebbe modificata dalla valenza tecnica del documento, l’applicabilità dell’art. 345 c.p.c. è stata già esclusa per le consulenze di parte, tra le altre, da Cass., sez. un., 3 giugno 2013, n. 13902; Cass. 8 gennaio 2013, n. 259; Cass. 26 luglio 2016, n. 15418.

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Giurisprudenza

late con l’appello potrebbero comunque rientrare nel concetto di «modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado»58. Per le stesse ragioni, in ultimo, non dovrebbe potersi immaginare alcuna conseguenza sotto il profilo dell’attribuzione delle spese del giudizio. L’idea – come suggerita dalla giurisprudenza di legittimità che pure ha aperto alle contestazioni in conclusionale – di una ipotetica valutazione circa la serietà dei motivi che abbiano indotto la parte ad una non immediata offerta delle critiche alla c.t.u., così da addebitare alla medesima una possibile violazione dei doveri di lealtà e correttezza in vista delle conseguenti determinazioni in punto di spese di lite, non appare convincente. La sottrazione ai doveri di cui all’art. 88 c.p.c., quale limite generale alla utilizzabilità degli strumenti processuali59, presuppone comunque un distacco dal modello della buona fede. Ebbene, anche quando faccia insorgere l’esigenza di una rinnovazione ovvero di un approfondimento dell’indagine peritale e, quindi, della rimessione della causa sul ruolo istruttorio, l’articolazione delle argomentazioni tecniche in comparsa conclusionale né costituisce, per quanto detto sulla loro natura, distorto esercizio degli strumenti processuali, né integra, in quanto costruita su fatti comunque già acquisiti al processo, violazione del principio del contraddittorio.

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In questo senso, Russo, op. cit., nota 28. Cfr. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc., 1950, 29 ss.; Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 91 ss. Più di recente, anche per ulteriori riferimenti, Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino, 2018.

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