ISSN 2532-3083
Judicium n. 4/2019
il processo civile in Italia e in Europa
Rivista trimestrale
dicembre 2019
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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini
In evidenza: Considerazioni fugaci sull’arbitrato societario irrituale Bruno Sassani
I provvedimenti de potestate e la giurisprudenza della Corte di cassazione. Dalla protezione di interessi alla tutela dei diritti Roberta Tiscini
Interruzione della prescrizione e tutela costitutiva Francesco Campione
Azione revocatoria e fallimento nel prisma della tutela patrimoniale Luigi De Propris
I criteri di risarcibilità dei danni non patrimoniali nelle class actions Giulia Mazzaferro
Indice
Saggi Bruno Sassani, Considerazioni fugaci sull’arbitrato societario irrituale............................................... p. 451 Roberta Tiscini, I provvedimenti de potestate e la giurisprudenza della Corte di cassazione. Dalla protezione di interessi alla tutela dei diritti.............................................................................................» 461 Francesco Campione, Interruzione della prescrizione e tutela costitutiva................................................» 479 Luigi De Propris, Azione revocatoria e fallimento nel prisma della tutela patrimoniale.......................» 501 Giurisprudenza commentata Corte di cassazione, sent. 31 maggio 2019, n. 14886, con nota di Giulia Mazzaferro, I criteri di risarcibilità dei danni non patrimoniali nelle class actions...................................................................» 519
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Saggi
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Considerazioni fugaci sull’arbitrato societario irrituale* Sommario:
1. Il tema. – 2. L’opinione favorevole e le contrarie. – 3. Arbitrato irrituale societario di diritto comune? – 4. La giurisprudenza e i suoi pretesi obiter. – 5. Impugnativa di delibera sociale e creatività giurisprudenziale.
La modalità irrituale non è incompatibile con l’arbitrato c.d. societario regolato dagli articoli 34 ss. d.lgs. n. 5/2003. La tesi dell’incompatibilità tra le due figure, proposta in dottrina, viene discussa e criticata, anche in difesa della linea adottata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità. Arbitration in corporate disputes is not incompatible with the peculiar phenomenon of arbitration proceedings known as arbitrato irrituale (as opposed to the main type of arbitration, known as arbitrato rituale). A conflicting opinion is discussed and put under criticism in accordance with the prevailing line of the Italian Corte di cassazione.
1. Il tema. È compatibile con il regime speciale dell’arbitrato societario la modalità c.d. irrituale? Il quesito sembra secondario in ragione della netta prevalenza dell’arbitrato rituale, ma non è futile. Il declino dell’irrituale è cosa ormai antica, rimonta alla legge n. 28 del 9 febbraio 1983 il cui art. 2, aggiungendo all’art. 823 c.p.c. il comma “Il lodo ha efficacia vincolante tra le parti dalla data della sua ultima sottoscrizione”, eliminò l’obbligo di deposito fino allora prescritto a pena di inesistenza. Eliminò quindi la principale ragione del ricorso all’arbitrato libero1 che successivamente ha però guadagnato lo status di figura codicistica
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Il saggio è dedicato agli Scritti in memoria di Franco Cipriani. L’art. 3 della legge inserì, al posto del primo comma dell’art. 825 c.p.c. i seguenti tre commi “(1) Gli arbitri redigono il lodo in tanti originali quante sono le parti e ne consegnano uno a ciascuna parte, entro dieci giorni dall’ultima sottoscrizione, anche mediante spedizione per mezzo della posta, in piego raccomandato. (2) La parte che intende fare eseguire il lodo nel territorio della Repubblica è tenuta a depositarlo in originale, con l’atto di compromesso o con l’atto contenente la clausola compromissoria o con documento equipollente, nella cancelleria della pretura del luogo in cui è stato deliberato, nel termine di un anno dal ricevimento del lodo. (3)
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tipica (art. 808-ter c.p.c.) senza però trovare in questo un solido scudo rispetto ai pregiudizi ideologici di buona parte degli interpreti. Come pochi altri temi esso appare infatti segnato da bias cognitivi, in particolare dal c.d. bias di conferma, con conseguenti dissonanze (di una di queste, e della peculiare soluzione che ne scaturisce si darà conto infra al § 5). Di qui l’interesse per un’indagine meno condizionata (nei limiti del possibile) da idee preconcette o da wishful thinking2. Il quesito relativo alla compatibilità della modalità irrituale con l’arbitrato societario, dipende in parte dall’idea che il mondo degli operatori delle società di capitali sia tendenzialmente alieno dal servirsene, in parte dall’idea che la tutela giurisdizionale “diretta” (l’azione in giudizio dinanzi l’AG) sia ivi surrogabile solo da quella sorta di “giurisdizione indiretta” rappresentata da un giudizio, privato sì ma comunque destinato ad approdare al lido della giurisdizione, vale a dire dall’arbitrato rituale dove gli effetti di sentenza della decisione coronano jure publico gli incipit negoziali e la dimensione privata del giudizio. Sotto il primo profilo l’importanza del tema non va però sottovalutata se, a distanza di più di un quindicennio dalla introduzione dell’arbitrato societario, continuano a venir depositate nel registro delle imprese domande di arbitrato fondate su clausole compromissorie che devolvono la controversia ad arbitri irrituali3. Il secondo profilo (“nel diritto delle società può accettarsi solo la predeterminazione del meccanismo semigiurisdizionale dell’arbitrato rituale”) merita una risposta concettualmente più articolata. E merita che si faccia diligentemente un passo indietro su senso e portata della irritualità. L’idea di arbitrato irrituale che continua ad alimentare questa resistenza resta infatti soffusa dall’alone del negozio/negozio (“from contract, through contract, to contract”) che abusa del nome di arbitrato, in contrapposizione a quella del negozio/traghetto (“from contract, through proceedings, to adjudication”), cioè della sostituzione, pro tempore e per via di autonomia privata, di una fase della giurisdizione in attesa della definitiva immersione nel flusso giurisdizionale (gli effetti di sentenza prodotti dal lodo). Nobile idea che continua però a scontrarsi: a) con l’esperienza dell’arbitrato irrituale che ha tutti i connotati del fenomeno arbitrale (l’irrituale è vissuto come un arbitrato e, come tale, praticato), b) con la sua regolamentazione positiva come arbitrato (seppur sui generis) da parte del codice, e c) (più specificamente ancora) con la disciplina legale dell’arbitrato societario. La prima certezza è il riconoscimento normativo generale (art. 808-ter c.p.c.) da cui si ricava innanzitutto la definizione in termini di arbitrato e la sua collocazione nel sistema generale dell’arbitrato. La seconda è il riconoscimento della valenza procedimentale dell’attività degli arbitri e del carattere di giudizio del loro responso, ancorché differente
Il predetto termine ha carattere perentorio”. Che è quello che ho tentato di fare in varie altre occasioni: vedine richiami, sintesi e sviluppi in Sassani, L’arbitrato irrituale, in Trattato di diritto dell’arbitrato, diretto da Mantucci, Napoli 2019, I, Profili generali, 303 ss. 3 Non poche: v. Assonime, Note e studi 5-2017. L’arbitrato societario nella prospettiva delle imprese, in www.assonime.it, richiamato in Maruffi, Clausola compromissoria statutaria e arbitrato irrituale, , Riv. arb., p. 804.
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da un titolo giudiziario del diritto riconosciuto. Un terzo punto sta nei vari riconoscimenti normativi settoriali o disciplinari dell’istituto (o almeno di istituti irriducibili all’arbitrato rituale): talora capita addirittura di imbattersi, nel riconoscimento legislativo dell’efficacia esecutiva del lodo irrituale (così è nell’arbitrato del lavoro)4. Non meno dei dati normativi conta l’esperienza costante e immutabile di tale tipo di arbitrato. Chiunque abbia una pur sommaria pratica di arbitrato irrituale si sarà trovato alle prese con una dimensione genuinamente processuale. All’ordine del giorno sono formule quali “il collegio si dichiara incompetente a favore del Tribunale, rigetta la domanda riconvenzionale, condanna alle spese (o anche ai danni ex art. 96 c.p.c.)” e simili. Esasperatamente processuale si potrebbe dire, come quando si trovano espressioni quali “il collegio dichiara la parte decaduta dalla prova” ovvero “dalla allegazione”, ovvero quando si incontrano CTU corredate da CTP (con chiamate dei consulente a integrazioni e chiarimenti). Simulazione di processo, mock-trial? Non credo. Credo invece che non giovi a nessuno guardare dall’alto in basso la realtà normativa e pratica di un meccanismo “diseconomico” quanto si vuole, ma pur sempre legittimo. Questo consentirebbe di osservare in maniera più serena e distaccata un istituto funzionale rispetto a rispettabili esigenze5 e, comunque, impossibile da espellere dalla realtà dell’ordinamento, se non limitando arbitrariamente l’autonomia privata.
2. L’opinione favorevole e le contrarie. La soluzione favorevole all’ammissibilità di un arbitrato societario a modalità irrituale è condivisa da parte non irrilevante della dottrina6, ma trova opposizione in altri. Tra questi alcuni rifiutano la posizione estremistica dell’estraneità dell’irrituale al fenomeno arbitrale, e tuttavia considerano compatibile con la dimensione societaria solo la modalità rituale.
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V. sul tema Sassani, L’arbitrato irrituale, in Trattato cit., § 10. V. la precisa disamina delle ragioni per la scelta a favore dell’arbitrato rituale o dell’arbitrato irrituale fatta da Luiso, Diritto processuale civile, VII ed., Milano 2019, V, cap. 8, § 7 6 Alle prime indicazioni di dottrina (in Sassani e Gucciardi, sub art. 35 d.lg. n. 5 del 2003, in Cod. proc. civ. ipertestuale a cura di Comoglio e Vaccarella, Torino, 2006, p. 3014 ss.; Id., Arbitrato societario, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2007, p. 15 ss., p. 3026) adde Zucconi Galli Fonseca, Modelli arbitrali e controversie societarie, in Riv. trim., 2006, p. 513 ss., ma spec. p. 535 ss. secondo cui, in virtù del generalizzato rinvio contenuto nell’art. 1, comma 4, d.lg. n. 5 del 2003, agli articoli 806 ss. c.p.c. e dell’inciso di cui all’art. 35 d.lg. n. 5 del 2003, cit., con riferimento alla potestà cautelare, «non si può escludere a priori l’ammissibilità di un arbitrato irrituale societario da clausola compromissoria statutaria» (p. 536); Boggio, Quale disciplina per l’arbitrato irrituale societario? in Riv. dir. soc., 2007, p. 58 ss.; Tota, Appunti sul nuovo arbitrato irrituale, in Riv. arb., 2007, p. 555 ss.; Piazza, Sull’applicabilità all’arbitrato irrituale societario derivante da clausola compromissoria statutaria della normativa speciale prevista dal D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, in Riv. arb., 2010, p. 483 ss.; Salvaneschi, sub art. 808 ter c.p.c., in Comm. cod. proc. civ. Chiarloni, Bologna, 2014., p. 142 ss.; Maruffi, Clausola compromissoria statutaria e arbitrato irrituale, cit., p. 803 ss. Su posizione contraria o dubitativa v. Biavati, Il procedimento nell’arbitrato societario, in Riv. arb., 2003, p. 45 ss.; Carpi, Profili dell’arbitrato in materia di società, in Studi in onore di G. Tarzia, III, Milano, 2005, p. 1931; Corsini, L’arbitrato nella riforma del processo societario, in Giur. it., 2003, p. 1286 ss. 5
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L’opinione positiva viene fondamentalmente giustificata dall’espresso richiamo a tale species di arbitrato posto dall’art. 35, d.lg. n. 5 del 2003 (“La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’art. 669-quinquies c.p.c.”). Il dato sembra sufficiente a sostenere la legittimità della soluzione quale indice di una volontà di legge in tal senso, e così si espressa anche la Corte di cassazione7. Il richiamo all’art. 35, d.lgs. n. 5 del 2003, è invece svalutato come inaffidabile da autorevole dottrina che lo giudica «fugace»8. Resta però difficile capire perché un legislatore «tecnico» (anzi ipertecnico quale quello che ha disegnato a tavolino la riforma societaria), in sede di regolazione del relativo arbitrato si sarebbe dato la pena di prescrivere che l’accesso la tutela cautelare ad opera dell’AG doveva considerarsi esteso all’irrituale. All’epoca infatti, la giurisprudenza prevalente considerava l’accesso alla cautela codicistica limitato al rituale: il 669-quinquies c.p.c. nella sua forma attuale era di là da venire9. Fugace quindi? Fuori dal riferimento all’irrituale la norma sarebbe stata priva di portata precettiva, considerando che l’arbitrato rituale godeva già pienamente di tale tutela, sicché anche il rituale societario ne avrebbe comunque goduto e non avrebbe affatto avuto bisogno di norme ad hoc. Ad essere in discussione, perché di fatto negata, era invece proprio la sua estensibilità all’irrituale. In altri termini, il legislatore della riforma delle società, legiferando specificamente sull’arbitrato societario (e si converrà che, trattandosi di legislatore delegato a provvedere su diritto e processo societario, esso non poteva certo occuparsi di arbitrato extrasocietario) ha regolato il rapporto tra arbitrato irrituale e tutela cautelare giudiziaria stabilendo che i poteri cautelari dell’AG non sono impediti dalla qualificazione di irrituale eventualmente data all’arbitrato. Fugacità? Può darsi, ma è la fugacità consentita a chi postula necessariamente che tale tipo di arbitrato sia praticabile nella dimensione societaria. D’altronde una controprova potrebbe legittimamente vedersi nella circostanza che dove la legge ha voluto escludere la possibilità di un arbitrato irrituale, ha avuto cura di dirlo esplicitamente. Si danno infatti casi in cui la legge prescrive specificamente che il tipo di arbitrato ammesso è solo quello rituale: così l’art. 6 della l. 21 luglio 2000, n. 205, transitato poi nell’art. 12 c.p.a.: «Le controversie concernenti diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile». Fugace o non fugace, il richiamo resta comunque la prova provata che il legislatore scelse di prevedere la modalità dell’irrituale irrituale nella materia societaria.
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V. per es. Cass. n. 13664/2010. Consolo, Arbitrato libero e liti societarie: compatibile salvo nella versione statutaria, che ha valenza irriducibilmente giurisdizionale, in Giur. it., 2017, p. 1936 9 La generalizzazione della tutela cautelare all’arbitrato irrituale farà infatti il suo ingresso con la successiva modifica dell’art. 669-quinquies c.p.c. ad opera del d.l. n. 35 del 2005. In precedenza il dibattito, aperto in dottrina, trovava una giurisprudenza apertamente negativa (Sassani, Intorno alla compatibilità tra tutela cautelare ed arbitrato irrituale, in Riv. arb., 1995, p. 710 s.) e animata da uno spirito di resistenza che la portava ostinatamente a negare la tutela cautelare anche dopo l’apertura di C. cost., ord. 5 luglio 2002, n. 320 (Sassani, La garanzia dell’accesso alla tutela cautelare nell’arbitrato irrituale, in Riv. arb., 2002, p. 503). 8
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3. Arbitrato irrituale societario di diritto comune? La tesi della inammissibilità per incompatibilità è temperata dalla concessione che la lite societaria potrebbe essere decisa anche con lodo irrituale, purché però fuori del sistema degli artt. 34-36 d. lgs. n. 5/2003. Si insomma all’ammissibilità, in materia societaria, di arbitrati irrituali «di diritto comune», alternativi allo speciale arbitrato societario che deve necessariamente rivestire le forme del rituale. Apertura quindi al compromesso (ex art. 807 c.p.c.) con esclusione della previsione statutaria10. Questa tesi è peculiare perché dà luogo ad un sistema che si autointegra con la previsione ad hoc di un istituto considerato praticabile solo fuori dal sistema stesso. Singolare innanzitutto perché indica che non ripugna alla controversia societaria la sottomissione alla modalità irrituale, sicché si fatica a comprendere perché essa non possa transitare attraverso la clausola statutaria. La soluzione mina infatti alla radice l’idea della mutua incompatibilità di diritto societario e arbitrato irrituale. Una volta ammessa la risolvibilità a mezzo di arbitrato irrituale di diritto comune (cioè ammessa la tecnica dell’arbitrato irrituale per risolvere una controversia di natura societaria), non si comprende infatti perché questa modalità non possa essere contemplata dallo statuto. Tanto più che solo l’arbitrato statutario deve rispettare forme e limiti che la scelta meramente compromissoria potrebbe ignorare. In ogni caso, la tesi riproduce la teoria del c.d. doppio binario (= coesistenza del sistema speciale con il sistema generale codicistico) che, affacciata in un primo momento, è stata poi ripudiata da dottrina e giurisprudenza. Si tratta infatti di un aspetto particolare del più generale problema se forme diverse di arbitrato possano concorrere con le forme peculiari imposte all’arbitrato dal d.lg. n. 5 del 2003 sfociato infine nella risposta negativa. Lo stato della giurisprudenza, fluido all’origine11, si è in seguito decisivamente allineato sul rigetto dell’idea del «doppio binario» e sulla necessità che la «materia societaria» sia compromettibile solo nelle forme e nei modi degli artt. 34 ss. d.lg. n. 5 del 200312. La posizione a cui è pervenuta la giurisprudenza è sicuramente da condividere, riuscendo difficile ammettere che, di fronte ad una disciplina di settore sostanzialmente dirigistica e dettagliatamente limitativa dei poteri delle parti, l’autonomia privata possa estrinsecarsi in forme che, nella sostanza, aggirano quelle limitazioni. Non si comprende pertanto
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Consolo, Arbitrato libero e liti societarie, cit., 1937 s. Per l’ipotesi della convivenza di arbitrato di diritto comune e di arbitrato specificamente societario, non vi sarebbero state ragioni per escludere la modalità (di diritto comune) irrituale. Zucconi Galli Fonseca, o.l.c., sembra ammettere un arbitrato irrituale endosocietario che verrà «coerentemente» retto solo dalle norme di diritto comune dettate dall’art. 808 ter c.p.c., norma in cui si escluderebbe «a contrario, il rinvio alla disciplina dell’arbitrato rituale. Dunque, si otterrà un lodo non esecutivo, avente efficacia di «determinazione contrattuale» e impugnabile secondo la disciplina specifica, esclusa la sindacabilità dell’errore di diritto». 12 Sotto il duplice profilo della nullità della convenzione d’arbitrato autonoma perché esterna allo statuto (o all’atto costitutivo), e della nullità della clausola compromissoria statutaria che non si adegui invece alla previsione che la nomina degli arbitri sia effettuata da un soggetto estraneo alla società (tra le molte: Cass., 9 ottobre 2017, n. 23550, in Dejure online; Cass., 24 ottobre 2016, n. 21422, ivi; Cass., 28 luglio 2015, n. 15841, in Rep. Foro it., 2015, voce Società (procedimenti), n. 5; Cass., 10 ottobre 2012, n. 17287, cit.; Cass., 9 dicembre 2010, n. 24867, in Giur. it., 2011, p. 2033). 11
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come possa ammettersi – se non aprioristicamente espellendo il nostro istituto dall’area dell’arbitrato – la possibilità che le liti societarie siano decise attraverso un arbitrato libero «extra-statutario»13. La soluzione si risolve nel ripristino del regime del doppio binario ripudiata dallo stesso autore. O almeno nell’aggiramento del ripudio: un arbitrato nelle forme ordinarie potrebbe aggirare l’imposizione degli artt. da 34 a 36 del d. lgs. n. 5/2003, purché assuma la modalità irrituale. Più lineare è ammettere che un arbitrato irrituale possa legittimamente svolgersi nelle forme e con i limiti dell’arbitrato propriamente societario (segnatamente: obbligo di deposito della domanda di arbitrato nel registro delle imprese; vincolatività del lodo per la società; meccanismo di nomina esterna degli arbitri). Non si vede perché chi costituisce una società o chi ne scrive lo statuto non possa scegliere tale modalità. La contraria posizione14 non convince perché alimentata dall’idea pregiudiziale che l’irrituale non potrebbe ambire alla dignità di arbitrato «istituzionale» posta la sua estraneità ad un disegno di «giurisdizionalizzazione» dell’arbitrato societario statutario. Posizione suggestiva che l’autore esprime compiutamente (altri si limitano a presupporla). Ma la sua (indubbia) forza ideologica non è sufficiente a validarla. Gli artt. 34 ss. del d.lg. n. 5 del 2003 sono norme di protezione, scritte per dare a liti istituzionalmente plurilaterali garanzie che non avrebbero avuto (soprattutto all’epoca, ma anche oggi dopo il d.p.r. n. 40/2006), che costringono positivamente chi scelga la modalità irrituale a rispettare parametri inderogabili, al punto di escluderne la praticabilità dove una di tali garanzie (la decisione secondo diritto e l’impugnabilità ex art. 829 c.p.c.) non sia coerente con i caratteri del tipo di arbitrato prescelto. Ma questo può solo voler dire che non sono compromettibili in arbitrato irrituale le controversie concernenti le impugnative delle delibere sociali, mentre non può certo escludere la vasta gamma delle liti tra soci, delle liti tra soci e società, tra società e amministratori, tra società e altri organi che non soggiacciono al programma di “giurisdizionalizzazione” sicché non si comprende perché esse non sarebbero sottoponibili alla modalità irrituale. Di «giurisdizionalizzazione» dell’arbitrato societario statutario (se così ci si vuole esprimere) si può parlare per determinati oggetti la cui possibile compromissione è stata subordinata dalla legge ad un surplus di garanzie, ma l’art. 34 c. 1 del d. lgs. n. 5/2003 sancisce la possibilità di devoluzione statutaria ad arbitri “di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale”.
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Consolo, Arbitrato libero e liti societarie, cit., p. 1934 ss. Consolo, Arbitrato libero e liti societarie, cit., passim.
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4. La giurisprudenza e i suoi pretesi obiter. L’ammissibilità dell’arbitrato irrituale societario appare oggi decisamente riconosciuta (dopo qualche incertezza)15 dalla giurisprudenza16. Si è obiettato17 che la giurisprudenza “favorevole” sarebbe in realtà fatta di obiter, essendosi essa limitata a dichiarare la nullità di convenzioni statutarie di arbitrato non conformi alle speciali disposizioni in materia di liti societarie. Con la conseguenza che, nel contesto della decisione, il carattere irrituale dell’arbitrato andrebbe considerato un mero accidente, estraneo alla ratio decidendi, essendo evidente che la medesima soluzione sarebbe stata adottata anche in presenza di clausola per arbitrato rituale. La tesi è sottile e stimolante ma l’esame delle sentenze non consente di aderirvi. Le sentenze considerate intervengono infatti su liti tipicamente incardinate sulla duplice contestazione della legittimità di arbitrati svoltisi nella forma irrituale, e in violazione delle regole sulla nomina degli arbitri. Si tratta di decisioni che riconoscono espressamente che la clausola statutaria è valida quanto alla scelta della modalità irrituale (che ben può essere adottata in tal guisa, dice il principio di diritto elaborato e ripreso in tutte le sentenze), ma è nulla perché il meccanismo di nomina utilizzato è difforme dal modello legale, sicché si può fondatamente dubitare della loro classificazione in termini di obiter. La situazione è ben tipizzata dal caso di Cass. n. 23550/2017 dove l’oggetto del giudizio presuppone la validità del deferimento statutario delle liti sociali in arbitrato irrituale18. Qui la Corte territoriale, in conferma della sentenza di primo grado di improponibilità della domanda del socio nei confronti della società, aveva infatti espressamente dichiarato valida la clausola di deferimento in arbitrato irrituale contenuta in uno statuto sociale (“l’arbitrato irrituale continua ad esistere nel diritto comune ed il legislatore non ha inteso vietarlo con il D.Lgs. 5 del 2003, art. 34, per le vertenze societarie”) e ne aveva poi dichiarato la non conformità all’art. 34 poiché gli obblighi relativi alla nomina avrebbero riguardato specificamente l’arbitrato rituale. Oggetto della decisione d’appello era quindi la validità del deferimento statutario in irrituale, e la Cassazione, investita della questione, conferma tale validità per poi accogliere il motivo secondo cui devono comunque rispettarsi le prescrizioni dell’art. 34 sulla nomina eteronoma degli arbitri.
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Non però di Cass. n. 13664/2010 (talora richiamata in senso restrittivo). La sentenza ritiene piuttosto l’incompatibilità dell’irrituale con la regolamentazione inderogabile del procedimento arbitrale dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 5 del 2003 “nel senso che la nullità prevista dall’art. 34, comma 2, per le clausole compromissorie che non conferiscano il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società, riguardi le clausole che prevedano l’arbitrato rituale, ma non anche quello irrituale ... pure consentito nelle controversie societarie, in forza del richiamo all’arbitrato non rituale contemplato dall’art. 35, comma 5, del decreto citato”. 16 Da ultimo v. Cass., 9 ottobre 2017, n. 23550, cit. Ampia rassegna di sentenze di legittimità e di merito in Maruffi, o.c., p. 805, e nota 6. 17 Consolo, Arbitrato libero e liti societarie, cit., p. 864 18 Dinamica non dissimile nelle altre sentenze: v. per es. Cass. n. 3665/2014 dove si legge che la nullità contemplata dall’art. 34 “riguarda sia le clausole per arbitrato rituale che irrituale (Cass. 17287/2012 e 24867/2010), di talché appare del tutto isolata la pronuncia, resa in forma di ordinanza, n. 13664/2010, che si è espressa nel senso di limitare la nullità alle sole clausole per arbitrato rituale, sulla base del solo rilievo della natura di determinazione contrattuale del lodo irrituale”.
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Più sono dunque i decisa. Il primo decisum è che qualunque arbitrato nei rapporti societari deve essere necessariamente conforme alle prescrizioni speciali di nomina dell’organo decidente; il secondo decisum è che l’obbligatorietà di questa procedura non è riservata alla modalità rituale poiché ricomprende anche quella irrituale (il che equivale a escludere la possibilità di decidere del rapporto sociale in via irrituale al di fuori della clausola statutaria conforme agli artt. 34 ss.). Dalla combinazione di giudizio di legittimità e di giudizio di merito (vista anche attraverso il filtro dei motivi di ricorso) risulta che la questione della modalità irrituale non è restata impregiudicata a favore dello scioglimento della questione delle modalità di nomina degli arbitri bensì, al contrario, che la questione specificamente posta e decisa era se un arbitrato (sicuramente) irrituale tolleri regole diverse da quelle degli artt. 34 ss.19. Il quesito era quindi relativo all’ambito delle prescrizioni vincolanti e la risposta negativa non può pertanto leggersi come svincolata dal suo presupposto, come cioè se fosse un obiter20.
5. Impugnativa di delibera sociale e creatività giurisprudenziale.
La praticabilità dell’irrituale ha però limiti ben precisi. Occorre innanzitutto che dal suo oggetto si escludano a priori le azioni di impugnativa delle delibere (assembleari o consiliari)21, azioni che danno necessariamente luogo ad un lodo di stretto diritto e sempre «impugnabile anche a norma dell’art. 829, secondo comma del codice di procedura civile» (art. 36, comma 1, d.lg. n. 5 del 2003). Se così non fosse, si sarebbe trovato un escamotage per sfuggire (a buon mercato) ad una norma sicuramente imperativa22. Ma questo non impedisce certo un utile impiego
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Ovvero se la via giurisdizionale resti esclusa dalla compromissione in irrituale. È astrattamente vero che la decisione negativa della questione della compatibilità della modalità irrituale non è questione logicamente pregiudiziale, ma questo dato non è sufficiente a escludere che in concreto si sia avuta doppia decisione. Il che ridimensiona la decisività del c.d. Inversion Test (o Wambaugh Test) secondo cui, a determinare se un’affermazione estratta da sentenza sia ratio o obiter, soccorre la sua posposizione al dispositivo, del quale si verificherà la tenuta in ipotesi di mancanza di quell’affermazione. Il test infatti funziona bene a due condizioni: che si abbia a che fare con una sentenza di primo grado (a terreno vergine, cioè), e quando la sentenza presenti una chiara sequenza dispositivo/motivazione, nel senso le due cose si lascino separare con nettezza. Meno bene quando ci si muova in un contesto già condizionato da punti fermi, cioè da giudicati parziali, e quando non si possa a priori escludere che il decisum sia caduto su più oggetti, constando esso di più affermazioni, per così dire, paratattiche ognuna delle quali potenzialmente corrispondente ad autonoma decisione di autonomo capo di domanda sicché l’ordine che se ne dia conserva inevitabilmente qualcosa di arbitrario. Ora, dalle sentenze di legittimità considerate non è possibile ricavare la salvezza della questione della legittimità dell’arbitrato irrituale societario, poiché la dinamica mostra che non si è seguita la scorciatoia della c.d. “ragione più liquida”. 21 Sassani e Gucciardi, Arbitrato societario, in Dig. disc. priv., cit., p. 119 ss.; Piazza, Sull’applicabilità all’arbitrato irrituale societario, cit., p. 487. 22 In senso adesivo Maruffi, o.c., p. 816 ss. Non direi invece che rilevi sul punto la disposizione (art. 36, comma 1, d.lg. n. 5 del 2003) relativa all’inderogabilità del controllo di merito in sede di nullità quando gli arbitri «per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili». Si tratta invero di un’indagine a posteriori esclusa dalla inapplicabilità all’irrituale dell’azione di nullità degli artt. 828 e 829 c.p.c. 20
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dell’arbitrato irrituale. L’ambito dell’arbitrato societario è infatti ampio, comprendendo liti tra soci, liti tra soci e amministratori, pretese della società nei confronti dei soci, azioni di responsabilità nei confronti di amministratori, sindaci, liquidatori ecc. E, come già ricordato, la legge consente la devoluzione statutaria ad arbitri “di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale”. Sennonché le sorprese non mancano, a conferma della diffidenza che aleggia sempiterna sul tema dell’arbitrato irrituale. Di fronte ad una impugnativa di delibera sociale per arbitrato irrituale, statutoriamente previsto come tale, una insolita sentenza della Corte Suprema salva infatti l’iniziativa arbitrale cancellando tout court la connotazione in termini di irrituale che l’avrebbe impedita. Cass. n. 1101/2016 ritiene infatti che la disposizione imperativa (decisione secondo diritto, soggetta a controllo tramite azione di nullità del lodo) si sostituisca ex lege ad una clausola statutaria non conforme. La vicenda è questa: posta di fronte all’impugnazione della sentenza con cui il Tribunale aveva dichiarato improponibile la domanda, la Corte d’appello riscontrava la nullità della clausola compromettente in arbitrato irrituale ma confermava la sentenza declinatoria sul presupposto dell’irrilevanza della nullità per automatica sostituzione alla norma pattizia di “quella stabilita dalla disposizione imperativa”. In altri termini: la natura irrituale dell’arbitrato non contraddice il suo impiego per l’impugnativa della delibera perché essa non può comunque impedire l’impugnazione del lodo a norma degli artt. 828 ss. c.p.c. La Cassazione paradossalmente conferma: la previsione statutaria di un arbitrato irrituale per l’impugnativa delle delibere sociali impedisce la via giudiziale perché il giudizio degli arbitri resta comunque censurabile nel merito in virtù dell’azione tipica di nullità del lodo. La sentenza ricorda che “la ricorrente ha censurato la decisione della Corte d’Appello in quanto la Corte territoriale avrebbe applicato, d’ufficio, il principio di eterointegrazione con riferimento alla clausola statutaria, che ha qualificato come nulla, nella parte in cui prevede una forma di arbitrato irrituale laddove la disciplina inderogabile posta dalla legge stabilisce che le impugnative di deliberazioni assembleari debbano seguire la strada obbligata dell’arbitrato rituale”, ma ritiene il motivo infondato in quanto l’art. 36 “indipendentemente dalla qualificazione della clausola difforme, impone la decisione secondo diritto, interpretandosi in senso estensivo persino la sua portata”. Insomma un irrituale a cui si applica la disciplina del rituale. La sentenza si richiama espressamente all’interpretazione “estensiva” di Cass. n. 28/2013, che però aveva deciso tutt’altro. In quest’ultimo caso la vicenda ruotava infatti intorno ad un lodo sicuramente rituale, la cui impugnazione in nullità era stata dichiarata inammissibile dalla Corte d’appello per sopravvenienza del d. lg.s n. 40/2006 che, in riforma dell’art. 829 c.p.c., aveva di fatto eliminato la generale controllabilità del merito imposta invece dall’art. 36 d. lgs. n. 5/2003. In quest’ultimo caso la Cassazione ha buon gioco nell’affermare che l’inderogabilità del potere di impugnazione per violazione delle norme di diritto non viene meno perché “pur se la clausola compromissoria avesse dichiarato il lodo non impugnabile, ricorreva sicuramente la seconda delle eccezioni previste dal nuovo testo
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dell’art. 829 cod. civ., comma 3”. Come si vede, in nessun senso si ha a che fare con un precedente di Cass. n. 1101/2016. La decisione di Cass. n. 1101/2016 è sicuramente eccentrica ed altrettanto sicuramente in collisione con la linea generale della Corte. Decidendo che l’espressa previsione di un arbitrato irrituale non significa nulla perché ... il suo prodotto vale poi da lodo rituale di diritto, con applicazione del regime del controllo per via di azione di nullità (ex artt. 827830 c.p.c.) e con censurabilità diretta del merito, essa esprime però le perduranti esitazioni che pesano sulla materia. Dando voce alla (tanto ingiustificata quanto ostinata) spinta verso l’espulsione dell’arbitrato irrituale dal terreno dell’arbitrato societario, essa opera la sua forzata conversione in rituale, decretando così l’azzeramento della volontà delle parti. Resta da capire in nome di cosa.
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I provvedimenti de potestate e la giurisprudenza della corte di cassazione. Dalla protezione di interessi alla tutela dei diritti* Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le originarie chiusure della giurisprudenza di
legittimità intorno alla ricorribilità per cassazione dei provvedimenti de potestate. – 3. Le aperture sull’impugnabilità dei provvedimenti ex art. 317 bis c.c. – 4. L’estensione del ricorso per cassazione contro tutti i provvedimenti in tema di responsabilità genitoriale. – 5. Le ragioni di una mancata rimessione della questione alle Sezioni Unite. – 6. Le aperture della Corte di cassazione in una prospettiva più ampia. – 7. Qualche riflessione intorno al giudicato rebus sic stantibus.
L’Autrice esamina le recenti innovazioni giurisprudenziali sul tema della ricorribilità per cassazione ex art. 111 comma 7 cost. dei provvedimenti de potestate. L’occasione è buona per tornare su riflessioni centrali intorno al rimedio dell’art. 111 cost., nonché ai principi sottesi alla cosa giudicata. Una particolare attenzione è dedicata al cd. giudicato rebus sic stntibus, tema che frequentemente si incrocia con quello dei procedimenti camerali contenziosi e del loro conseguente accesso in cassazione. The essay deals about the recent juresprudencial evolutions about the decisions cd. de potestate and their appeal before the Supreme Court. Il morevover deals about the so called “giudicato rebus sic stantibus” according to the sense given to it by the jurisprudential interpretation
1. Introduzione. Nell’ampia congerie di provvedimenti aventi forma diversa dalla sentenza sottoposti al dubbio intorno all’ammissibilità o meno del ricorso straordinario in cassazione (art. 111 cost.), un ruolo da sempre centrale hanno assunto i provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale (artt. 330 ss. c.c.) e in generale quelli sulla tutela dei minori, in
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cui le oscillazioni giurisprudenziali si sono alternate a lunghi anni di stabilità applicativa, al cospetto di una dottrina che ha partecipato al dibattito in modo altrettanto dinamico. Il tema (che non ha mancato di incrociare gli interessi del Maestro1 che qui si onora) è quanto mai caldo, alla luce di consistenti novità normative e conseguenti assestamenti giurisprudenziali. Sicché, muovendo da una posizione interpretativa tradizionalmente stabile, le più recenti istanze di rinnovamento hanno finito per agitare le acque, trovando terreno fertile una linea di tendenza orientata in direzione contraria rispetto alle strade finora percorse.
2. Le originarie chiusure della giurisprudenza di legittimità
intorno alla ricorribilità per cassazione dei provvedimenti de potestate.
La possibilità di assicurare il ricorso per cassazione contro i provvedimenti – in forma camerale – relativi all’affidamento dei minori è oggetto per lungo tempo di contrasto presso la giurisprudenza2. Uso della forma camerale del procedimento, da un lato, e idoneità del provvedimento conclusivo ad incidere quanto meno sullo status di figlio minore, dall’altro, pongono le due opposte opzioni interpretative l’una contro l’altra. Una illuminante sentenza delle Sezioni Unite3, nel 1986, compone il contrasto nel senso di negare l’ammissibilità del ricorso straordinario, sul presupposto che trattasi di provvedimenti (non solo formalmente, ma anche) sostanzialmente camerali, non contenziosi e inidonei al giudicato. Si tratta di un intervento nomofilattico di centrale importanza, non solo perché segna una strada che la giurisprudenza a seguire tenderà a confermare per un
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Questo saggio è destinato agli Studi in memoria di Franco Cipriani. Stimolato dalle sue lunghe speculazioni sulle dinamiche processuali dei giudizi di separazione e divorzio, in tutti i profili in cui essi si dipanano, nonché di quelli relativi alla tutela dei minori, Cipriani, non manca di distinguere con lucida consapevolezza i procedimenti volti a decidere su posizioni sostanziali delle parti (assicurando ad essi le garanzie del giusto processo in un contesto pienamente contenzioso) da quelli (spesso con struttura incidentale) di pura giurisdizione volontaria. Le ricadute in termini di giusto processo, nonché gli effetti sulla giurisdizione volontaria sono leggibili nelle sue pagine più profonde. Senza pretesa di completezza, Cipriani, Dalla separazione al divorzio, Napoli, 1971; Id., Il processo di divorzio, in Commentario sul divorzio, a cura di Rescigno, Milano, 1980, 515; Id., L’impugnazione dei provvedimenti “nell’interesse dei coniugi e della prole” e il lento ritorno al garantismo, in Corr., giur., 1998, 211; Id., Ancora sull’impugnabilità dei provvedimenti “nell’interesse dei coniugi e della prole”, in Foro it., 2003, I, 3156; Id., La nuova disciplina dei provvedimenti nell’interesse dei coniugi e della prole, in Giusto proc. civ., 2008, 191. 2 La tesi dell’impugnabilità ex art. 111, settimo comma, Cost. è stata sempre minoritaria (Cass. 17 ottobre 1980, n. 5594, in Foro it., 1981, I, 69; Cass. 24 febbraio 1981, n. 1115, in Giust. civ., 1982, I, 742; Cass. 15 giugno 1983, n. 4128, in Giur. it., 1983, I, 1, 1347; Cass. 27 marzo 1981, n. 2151). Dominante (anche in dottrina) è stata la soluzione opposta (Cass. 15 aprile 1961, n. 826; Cass. 16 giugno 1963, n. 1947; Cass. 20 ottobre 1965, n. 2158; Cass. 3 giugno 1968, n. 1672; Cass. 16 gennaio 1975, n. 167; Cass. 16 dicembre 1977, n. 5487; Cass. 28 ottobre 1978, n. 4923; Cass. 22 luglio 1980, n. 4781, in Giust. civ., 1981, I, 784 e in Foro it., 1981, I, 326; Cass. 1 marzo 1983, n. 1540, in Giust. civ., 1984, I, 883, e in Foro it., 1984, I, 1953; Cass. 20 aprile 1982, n. 2444; Cass. 22 gennaio 1983, n. 618, ivi, 1984, I, 2842, con nota di Civinini; Cass. 2 dicembre 1985, n. 6021, in Giust. civ., 1986, I, 1732 e in Foro it., 1986, I, 1937). Sull’evoluzione originaria della vicenda, per tutti Carpi-Graziosi, voce Procedimenti in tema di famiglia, in Digesto (disc. priv. sez. civ.), XIV, Torino, 1996, 523 ss., spec. 531; cfr. anche Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino, 2005, 188 ss. 3 Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, in Giust. civ., 1987, I, 903; Giur. it., 1987, I, 1, 1616; Foro it., 1987, I, 3278; Nuova giur. civ. comm., 1987, I, 552; Dir. fam., 1987, 121. 1
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periodo di tempo piuttosto lungo (gli orientamenti successivi in linea di massima seguono il dictum4, sebbene non manchino isolate pronunce in senso contrario5), ma anche perché detta regole di fondo, che – mutatis mutandis – varranno quale grimaldello per aprire la strada alle successive inversioni di rotta. In particolare, tra i due presupposti di accesso in cassazione ex art. 111 comma 7 cost. (decisorietà, quale capacità del provvedimento impugnato a risolvere una controversia su diritti soggettivi e status, e definitività, in termini di non impugnabilità altrimenti della decisione, nonché loro attitudine a pregiudicare con l’efficacia del giudicato quei diritti o quegli status), le Sezioni Unite collocano in posizione centrale l’(in)attitudine al giudicato del provvedimento impugnato. Gli argomenti utilizzati segnano il discrimen tra provvedimenti camerali contenziosi – impugnabili in cassazione – e provvedimenti di pura giurisdizione volontaria – in cui la mancanza di contenziosità esclude il ricorso. In questo contesto assume un ruolo centrale il rapporto tra giudicato pieno, giudicato rebus sic stantibus, e potere di revoca e modifica dei provvedimenti camerali ex art. 742 c.p.c.6 La clausola rebus sic stantibus consente innanzi tutto di distinguere i provvedimenti revocabili e modificabili in ogni tempo da quelli in cui, restando fissato l’accertamento fondato sulle circostanze considerate all’epoca della decisione, la modificabilità/revocabilità è subordinata al sopravvenire di circostanze nuove e diverse7. Con l’espressione “giudicato rebus sic stantibus”, si vuole, quindi, non tanto individuare una forma diversa dal giudicato pieno, quanto creare una fattispecie di giudicato (corrispondente, ma non uguale a quella degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c. per il processo di cognizione) applicabile ai procedimenti camerali: l’idoneità a tale giudicato (intesa quale modificabilità solo ex nunc)8 consente di disapplicare gli artt. 739, ultimo comma (inoppugnabilità del provvedimento della Corte d’appello pronunciato in sede di reclamo) e 742 c.p.c. (revocabilità e modificabilità del provvedimento con efficacia ex tunc), norme pure astrattamente operanti ogni qualvolta la legge prescrive la forma camerale9. Tuttavia – venendo al citato intervento nomofilattico - dire che il provvedimento impugnato può essere sindacato in cassazione quando è idoneo ad incidere con efficacia di
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Cass. 8 febbraio 1994, n. 1265, in Giur. it., 1995, I, 1, 303, con nota di Fellah; Cass. 28 gennaio 1995, n. 1026; Cass. 5 settembre 1997, n. 8619; Cass., S.U. 15 ottobre 1999, n. 729, in Giur. it. 2000, 1150; Cass. 2 agosto 2002, n. 11582; Cass. 25 gennaio 2002, n. 911, in Foro it., 2002, I, 1007, con nota di Maltese e in Fam. e dir., 2002, 367, con nota di Porcari; Cass., 15 luglio 2003, n. 11022, in Foro it. 2004, I, c. 2485; Cass., 20 ottobre 2004, n. 20498; Cass., 17 giugno 2009, n. 14091; Cass., 14 maggio 2010, n. 11756; Cass., 13 settembre 2012, n. 15341. 5 Cass., SU, 9 gennaio 2001, n. 1, in Giust. civ., 2001, I, 1229 e in Fam. e dir., 2001, 282, con nota di Civinini; Cass., SU, 23 febbraio 2001, n. 70, in Giust. civ., 2001, I, 2125 e in Fam. e dir., 2001, 379, con nota di Martino. 6 Sul tema si tornerà infra § 7. 7 Sul tema, per tutti, Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1997, 18 ss.; Id., Sull’efficacia sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei giudizi civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596 ss.; Id., “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc., 1989, 940 ss. 8 Sull’incompatibilità tra revocabilità dei provvedimenti e giudicato, Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 325 ss., spec. 328; Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudizi civili, 609; Liebman, Efficacia e autorità della sentenza (e altri scritti sulla cosa giudicata), Milano, 1983, rist., 19. 9 Andolina-Vignera, I fondamenti costituzionali della giustizia civile. Il modello costituzionale del pocesso civile italiano, Torino, 1997, 212.
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giudicato su diritti soggettivi o status significa subordinare i presupposti del rimedio ad un «criterio incerto e non risolutivo (l’incidenza su diritti o status) sia perché l’esperienza giurisprudenziale dimostra la varietà di soluzioni adottate per il medesimo caso, sia perché sarebbe una pura e semplice petizione di principio ritenere il provvedimento suscettibile di conseguire l’efficacia di giudicato in base agli indici relativi alla sua decisorietà sui diritti soggettivi o status»10. Occorre allora utilizzare degli «indici più puntuali tratti dalla regolamentazione della singola materia, per quel che concerne i principi fondamentali del processo contenzioso (domanda, contraddittorio e difesa, immutabilità sotto il profilo delle preclusioni)»11. Dove tali indici esistono, l’opzione verso la «sostanza» contenziosa, pur nella «forma» volontaria, fornisce un alto grado di attendibilità12. Questi gli indici: a) esistenza di una controversia su diritti soggettivi o status, non essendo sufficiente un mero interesse che non assurga a vero e proprio diritto13; b) carattere contenzioso del procedimento assicurato con il contraddittorio tra tutte le parti, ove vi sia una pluralità di parti e una pluralità di situazioni sostanziali contrapposte14; c) irrevocabilità del provvedimento impugnato, ergo, inapplicabilità dell’art. 742 c.p.c. al procedimento camerale15. Applicando tali criteri ai provvedimenti sulla responsabilità genitoriale, si giunge a negare l’idoneità della relativa decisione al giudicato, prevalendo piuttosto la loro modificabilità/ revocabilità in ogni tempo con efficacia ex tunc, con conseguente incensurabilità in Cassazione16. Tuttavia, a ben vedere, nella pratica applicativa, gli indici così delineati si rivelano uno schermo al di là del quale resta ferma l’ampia discrezionalità del giudicante (il che di fatto ne nullifica le funzioni). Sarebbero indici veramente in grado di descrivere i confini del ricorso, se la legge fosse di volta in volta precisa nel ricostruire in ogni suo aspetto il procedimento camerale. Al contrario, l’indeterminatezza della previsione legislativa (su modalità e termini del rito) contraddistingue non solo gli artt. 737 ss. c.p.c., ma anche la maggior parte delle leggi speciali che per questo o quel procedimento consentono l’applicazione delle forme camerali17. È anzi proprio l’indeterminatezza del modello camerale a
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Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit. Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit. 12 Così ancora Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit. 13 Nel caso degli artt. 330, 332, 333, 336 c.c., la sostanza contenziosa è negata in quanto «la potestà genitoria non è diretta a soddisfare un interesse di chi la esercita, né quello superiore della famiglia, ma trova fondamento esclusivamente nell’interesse del minore che è di carattere individuale» (Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit.). In altri termini, l’interesse del minore prevale ed esclude ogni contrapposto interesse, anche del genitore. 14 Sempre nel procedimento degli artt. 330, 332, 333 e 336 c.c., il contraddittorio è negato, in quanto non possono ritenersi contraddittori, rispetto agli interessi del figlio, né il genitore, né altro parente, né il P.M.: l’unico interesse protetto è quello del minore (Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit.). 15 Anche questo presupposto manca nell’art. 330 c.c., essendo qui il provvedimento revocabile non solo per motivi sopravvenuti (il che ne avrebbe giustificato l’idoneità al giudicato, seppure rebus sic stantibus), ma anche preesistenti (Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit.). 16 Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit. 17 Mandrioli, C.d. «procedimenti camerali su diritti» e ricorso straordinario per cassazione, in Riv. dir. proc., 1988, 921, e in Studi in memoria di Cerino Canova, Bologna, 1992, 819 ss., spec., 921; Cerino Canova, Per la chiarezza di idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 461 ss. spec. 431; Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati 11
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caratterizzare tale modalità processuale, potendosene apprezzare i pregi in relazione alla sua facile adattabilità alle esigenze varie del caso concreto. In altre parole, anche quando la legge prescrive il rito in camera di consiglio, non è affatto detto che esso vada applicato nella sua integralità: non è detto che il provvedimento sia ex lege modificabile e revocabile18, né che contro la pronuncia resa in sede di reclamo sia escluso ogni controllo, né, ancora, che debbano (o meno) essere assicurate le garanzie del contraddittorio e dell’istruttoria. In taluni casi, la disciplina positiva è specifica e particolareggiata, ma in altri – in molti altri – è solo l’opera ricostruttiva dell’interprete che consente di stabilire se quel provvedimento sia revocabile con efficacia ex tunc, ovvero solo ex nunc (sia perciò suscettibile di acquistare la stabilità del giudicato). A voler pretendere il contrario, si rinuncerebbe all’elasticità che contraddistingue il procedimento camerale e che induce a preferirlo ai rigidi schemi precostituiti del giudizio ordinario di cognizione. Altri sono invero i parametri che l’interprete ha a disposizione per delineare in concreto il procedimento: occorre cioè tornare al contenuto della situazione sostanziale tutelata, nel senso che ove oggetto del giudizio è un mero interesse unilaterale, senza parti contrapposte, al procedimento deve attribuirsi natura camerale, può mancare il contraddittorio, il provvedimento conclusivo può prescindere dall’incontrovertibilità del giudicato ed essere revocabile e modificabile; ove, invece, la situazione tutelata è un vero e proprio diritto – vi è un rapporto conflittuale tra più soggetti – si impongono tanto il contraddittorio, quanto la stabilità del giudicato e, di conseguenza, la decisione è irrevocabile/immodificabile19. Sul piano delle ricostruzioni astratte, quindi, può anche assumersi a parametro di ammissibilità del ricorso straordinario l’(ir)revocabilità del provvedimento, quest’ultima escludendo per incompatibilità la prima: l’applicabilità o meno dell’art. 742 c.p.c. consente di differenziare le due categorie di provvedimenti camerali, gli uni, modificabili e revocabili con efficacia ex tunc, perciò inidonei al giudicato e non impugnabili20, gli altri, idonei al giudicato, in quanto immodificabili e irrevocabili se non per mutamento delle circostanze (ex nunc)21, e quindi impugnabili. Tuttavia, la distinzione tra le due ipotesi non è sempre predeterminata, in quanto all’ampio genus dei procedimenti in camera di consiglio appartengono sia quelli a cui si applica fedelmente l’intera disciplina degli artt. 737 ss. c.p.c. (compreso l’art. 742 c.p.c.), sia quelli in cui le forme camerali operano in parte qua.
contenziosi, cit., 619. Mandrioli, C.d. «procedimenti camerali su diritti» e ricorso straordinario per cassazione, cit., 921. 19 Che il parametro di riferimento debba essere la situazione sostanziale tutelata è nel pensiero di Cerino Canova, Per la chiarezza di idee, cit., 467. Da queste premesse però l’A. trae – discutibilmente – la conseguenza che solo il processo ordinario di cognizione è in grado – con le garanzie che esso assicura – di ospitare la tutela giurisdizionale di diritti, così mostrandosi critico verso la c.d. cameralizzazione del giudizio sui diritti (Id., op. cit., 479). 20 Sul potere di revoca quale requisito centrale della giurisdizione volontaria, Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959-1962, IV, 2, 47; Liebman, Impugnazione in sede contenziosa del provvedimento di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc., 1953, II, 95; Montesano, Giudizi camerali su atti e gestioni di società e tutela giurisdizionale di diritti e di interessi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999 819. V. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, passim. In generale, sul potere di revoca del giudice civile, Basilico, La revoca dei provvedimenti civili contenziosi, Padova, 2001, passim. 21 Entra qui in gioco il giudicato rebus sic stantibus, il cui contenuto conferma l’irremovibilità della statuizione per il passato e la revocabilità de futuro in relazione alle sopravvenienze (amplius infra § 7). 18
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Sicché, il generico richiamo del modello camerale non fornisce certezza sulla revocabilità o meno del provvedimento, essendo, all’uopo necessario un espresso rinvio all’art. 742 c.p.c. In mancanza di quest’ultimo, è rimessa a una valutazione che verte sulla situazione sostanziale per la quale il procedimento è prescritto l’alternativa tra revocabilità/non revocabilità. Valutazione, questa, che (oltre a interessare qualunque operatore del diritto chiamato a confrontarsi con siffatti procedimenti) spetta proprio alla Corte in sede di esame preliminare di ammissibilità del ricorso straordinario. Venendo quindi alle pronunce in tema di responsabilità genitoriale, confermano le Sezioni Unite che tali provvedimenti non sono decisori perché non incidono su diritti soggettivi (ma solo leniscono meri interessi del minore), sicché ad essi occorre applicare, per via interpretativa, le regole sulla modificabilità e revocabilità.
3. Le aperture sull’impugnabilità dei provvedimenti ex art. 317 bis c.c.
L’esigenza di sottoporre a revisione l’atteggiamento piuttosto stabile della Corte di cassazione non tarda a mostrarsi alla luce delle (relativamente) recenti modifiche legislative sulla disciplina della famiglia e dei minori. Un primo atteggiamento di distacco rispetto all’orientamento dominante (in termini di inaccessibilità in cassazione) è quello che riguarda le fattispecie dell’art. 317 bis c.c. per i figli nati fuori del matrimonio (la cui posizione è stata equiparata a quella dei figli legittimi, quanto al regime patrimoniale e personale)22. L’esigenza di rivedere le precedenti posizioni si insinua progressivamente presso le sezioni semplici della Corte di cassazione (non si impone quindi ex auctoritate per via di un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, bensì germina dal basso quale riflesso di istanze legate alla giustizia del caso singolo23). I primi segnali dell’inversione di rotta rispetto alle passate posizioni24 risalgono a Cass. 30 ottobre 2009, n. 2303225, sulla base di argomenti che affondano le loro radici, sia nel diritto sostanziale, sia in quello processuale. Si legge che “in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006 ha
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Dopo alcune iniziali oscillazioni, la giurisprudenza si assesta nel ritenere che “in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la legge n. 54 del 2006 ha equiparato la posizione dei figli nati “more uxorio” a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separazione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317 bis c.c., che hanno assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia alcun rilievo il rito camerale. Ne consegue che i decreti emessi dalla corte d’appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317 bis c.c. relativi ai figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., ora equiparato sostanzialmente al ricorso ordinario in forza del richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3 (nel testo novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006)” In questo senso Cass. 16 settembre 2015, n. 18194, ma ugualmente Cass. 21 marzo 2011, n. 6319; Cass. 13 settembre 2012 n. 15341 (cfr. anche la giurisprudenza citata infra nt. 37). 23 Sul tema si tornerà in seguito (§ 5). 24 In precedenza, in senso opposto, tra le altre, Cass. SU 30 novembre 2007, n. 25008. 25 In Dir. fam. 2010, 1, p. 153.
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equiparato la posizione dei figli nati “more uxorio” a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separazione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317 bis c.c., che hanno assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia alcun rilievo il rito camerale. Ne consegue che i decreti emessi dalla corte d’appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 317 bis c.c. relativi ai figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., ora equiparato sostanzialmente al ricorso ordinario in forza del richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3 (nel testo novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006)”26. Su piano dei rapporti sostanziali, domina in primis il nuovo diritto di famiglia intorno alla posizione dei figli nati fuori del matrimonio, oggi in tutto equiparati ai figli legittimi. Il che induce ad estendere – anche sotto il profilo processuale – il regime governato dalla disciplina di separazione e divorzio27. È quindi il mutato contesto in cui si inserisce il ruolo del figlio nato fuori del matrimonio e i suoi rapporti con i genitori a indurre la Cassazione ad optare per una totale assimilazione tra i due (non solo sul piano sostanziale, ma anche) dal punto di vista processuale. Ecco dunque che le ricadute delle innovazioni sostanziali all’interno della disciplina processuale finiscono per assicurare una definitiva autonomia al procedimento dell’art. 317 bis c.c., “allontanandolo dall’alveo della procedura ex art. 330, 333 e 336 c.c., e avvicinandolo, e per certi versi assimilandolo, a quello di separazione e divorzio, con figli minori”28. In altri termini, l’equiparazione sotto il profilo sostanziale tra figli legittimi e figli naturali induce ad assicurare un trattamento equipollente anche di quello processuale, con la conseguenza di dover ritenere che le situazioni sostanziali dedotte nell’art. 317 bis c.p.c. vadano gestite, in giudizio, non già dallo scarno modello camerale, bensì dal molto più garantista e articolato rito di separazione e divorzio. È dunque facile, in questo contesto, aprire le porte al ricorso per cassazione: perché il regime processuale dell’art. 317 bis c.c., lungi dal evocare il modello camerale nella sua intrinseca freddezza, si appoggia al rito divorzile. Ne deriva pertanto “la piena ricorribilità
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Cass. 30 ottobre 2009, n. 23032, cit. Si tratta di un orientamento che inizialmente fatica ad affermarsi, non mancando coeve pronunce che ancora conservano fedeltà all’indirizzo opposto nel senso dell’inammissibilità del ricorso straordinario nel caso considerato (Cass. 17 giugno 2009, n. 14091; Cass. 14 maggio 2010, n. 11756; Cass. 31 maggio 2012, n. 8778; Cass. 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. 22 settembre 2016, n. 18562). 27 Si legge infatti in motivazione che “la recente L. n. 54 del 2006, esprimendo un’evidente scelta di assimilazione della posizione dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, quanto al loro affidamento, precisa che “le disposizioni della presente legge si applicano anche (...) ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Dunque sono applicabili, anche in questo settore, le regole introdotte dalla predetta legge per la separazione e il divorzio: potestà esercitata da entrambi i genitori, decisioni di maggior interesse di comune accordo (con intervento diretto del giudice, in caso di contrasto), quelle più minute assunte anche separatamente, privilegio dell’affidamento condiviso rispetto a quello ad uno dei genitori, che comunque può essere disposto, quando il primo appaia contrario all’interesse del minore; assegno per il figlio, in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore, audizione obbligatoria del minore ultradodicenne, possibilità di revisione delle condizioni di affidamento, ecc.” (Cass. 30 ottobre 2009, n. 23032, cit). 28 Cass. 30 ottobre 2009, n. 23032, cit.
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per cassazione nel regime dettato dalla L. n. 54 del 2006, ai provvedimenti emessi, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all’affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare”29.
4. L’estensione del ricorso per cassazione contro tutti i provvedimenti in tema di responsabilità genitoriale.
Dal solo art. 317 bis c.c. ad una più ampia prospettiva che guardi alla tutela dei minori in generale (nei loro rapporti con i genitori), il passo è breve30. Proprio in ragione delle plurime novelle relative al vincolo genitori-figli (per l’assimilazione tra figli naturali e legittimi), non tarda ad affacciarsi il dubbio che qualcosa sul piano impugnatorio sia mutato, pure con riferimento alla disciplina generale degli artt. 330-336 c.p.c.31. Da un lato, le innovazioni processuali (la l. n. 149 del 2001 interviene sull’art. 336 c.p.c. con garanzie originariamente non previste, in primis la difesa tecnica), da un altro, quelle sostanziali (equiparazione tra figli naturali e legittimi, con importanti riflessi sul rito, l’art. 317 bis c.p.c. invocando il modello del giudizio di separazione e divorzio) finiscono per indurre la stessa giurisprudenza a ritenere che, pure sul piano dell’inquadramento dei giudizi e dell’impugnabilità in cassazione della relativa decisione, non sia più accettabile la tesi tradizionale che nega l’accesso in Cassazione nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale. Si sostiene innanzi tutto, quanto all’oggetto del processo, che si tratta di provvedimenti concernenti diritti personalissimi dei figli dotati di copertura costituzionale attraverso l’art. 30 cost., a fronte dei quali si pongono i doveri dei genitori di mantenere, educare, istruire la prole; si tratta poi di provvedimenti relativi a diritti dei figli a conservare rapporti con i genitori ed i parenti, in particolare i nonni, quando ciò non è fonte di pregiudizio per essi. Diritti, quindi, rispetto a cui è arduo negare la contenziosità dei giudizi per mancanza di parti contrapposte (sfuma l’idea che siano processi posti nell’esclusivo interesse del minore)32. Si nota poi che, pur ammettendo che per la maggior parte tali provvedimenti
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Cass. 30 ottobre 2009, n. 23032, cit. Sulla necessaria corrispondenza tra i vari ambiti solleva dubbi Nascosi, Ricorribilità per cassazione dei provvedimenti “de potestate”, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 562 ss. 31 V. significativamente in motivazione, seppure in obiter dictum, Cass., 29 gennaio 2016, n. 1743, in Fam. dir. 2016, 1135 ss., con nota di Ravot, nonché in maniera gemellare, Cass., 29 gennaio 2016, n. 1746. 32 Si tratta d’altra parte di una opzione ricostruttiva già da tempo sostenuta da autorevole dottrina, pur sotto la vigenza del precedente regime (nel senso della contenziosità del procedimento, Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c. (appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla questione di interessi devoluta al giudice), ora in Le tutele giurisdizionali dei diritti, Studi, Napoli, 2003, 603 s.; Id., La giurisdizionalizzazione dei processi minorili c.d. de potestate, in Foro it., 2013, V, 72; Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 19; Id., Sull’efficacia sulla revoca, cit., 598; Id., “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, cit., 940. Il tema dell’oggetto dei provvedimenti de potestate è stato da sempre al centro dei dibattiti, dividendo la dottrina tra i fautori della natura di pieno diritto delle situazioni soggettive sottostanti, e i sostenitori della natura di meri interessi di tali posizioni soggettive. Per una approfondita ricostruzione della vicenda, vd. di recente e per tutti Donzelli, Sulla natura delle decisioni rese nell’interesse dei figli minori nei giudizi sull’affidamento condiviso e de potestate, in Riv. dir. proc., 2019, 1067; Poliseno, Profili di tutela del minore nel processo civile, Napoli, 2017, 11 ss.; Turroni, I procedimenti camerali senza diritti. Vol. I, Le 30
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sono provvisori, in diversi casi essi si concludono con richieste ai servizi sociali di relazionare al giudice stesso o magari limitano la loro operatività ad un periodo circoscritto. Il che è vieppiù confermato da prassi diffuse dei tribunali dei minorenni, volte a trattare i procedimenti ex artt. 330 e 333 c.c. senza soluzione di continuità fino alla maggiore età dei minori33 (sicché, il giudice di prime cure finisce per spogliarsi definitivamente della giurisdizione a riguardo). Tenuto conto perciò, tanto delle modifiche normative, quanto delle prassi applicative, il trattamento processuale da assicurare a tali giudizi non può distinguersi da quello corrispondente sull’affidamento dei figli minori assegnato nei procedimenti di separazione e divorzio, della cui contenziosità non si dubita34. Più precisamente, quanto al rito, l’idea che nei giudizi in esame sia preminente o addirittura esclusiva un’attività di controllo del giudice sulla responsabilità genitoriale, che esclude la presenza di parti processuali, aveva un senso, almeno parzialmente, in epoca anteriore alla l. 149 del 2001 che ha riformato l’art. 336 c.c. A seguire, l’introduzione, pur nell’àmbito di una procedura camerale, delle garanzie che di regola accompagnano la contenziosità impone di rivedere l’idea tradizionale favorevole alla natura di mera giurisdizione volontaria di quel rito. Muta poi la competenza, dal momento che (ai sensi dell’art. 38 disp. att., c.c., come novellato dalla l. n. 219 del 2012, art. 3), in pendenza di processi di separazione, divorzio, annullamento del matrimonio, o in caso di genitori non uniti in matrimonio – oggi di competenza del Tribunale ordinario – i giudizi ex art. 333 c.c. e quelli conseguenti alle pronunce di decadenza ex art. 330 c.c., sono conosciuti dal medesimo organo giudiziario. Si aggraverebbe perciò la contraddittorietà nell’assoggettare a trattamenti processuali differenziati decisioni rese in contesti diversi (a seconda che i provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale si collochino o meno all’interno di una causa divorzile), ma per la tutela di situazioni corrispondenti35. Di qui la necessità di rendere naturaliter impugnabili per cassazione i provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c. (non diversamente da come lo sono quelli resi in occasione di separazione o divorzio). Va detto che, nel loro primo apparire, le aperture verso l’accesso in cassazione degli atti in questione non vanno fino in fondo; sicché, pur enunciando regole di principio, manca la forza di farne applicazione nelle fattispecie concrete, dichiarandosi il ricorso inammissibile in quanto incensurabile ai sensi dell’art. 111, comma 7, cost. (si tratta dunque di meri obiter dicta)36. Tuttavia, la linea evolutiva non si arresta e quel coraggio mancato in origine trova sfogo in successive decisioni che aprono le porte del ricorso straordinario nella materia consi-
situazioni soggettive, Torino, 2018, 41 ss. In questo senso Cass., 29 gennaio 2016, n. 1743, cit. 34 Ancora Cass., 29 gennaio 2016, n. 1743, cit. 35 Cass., 29 gennaio 2016, n. 1743, cit. 36 Così nel caso di Cass., 29 gennaio 2016, n. 1743, cit. La giurisprudenza di quegli anni era ancora prevalentemente orientata nel senso di negare l’accesso in cassazione (Cass. 3 aprile 2015, n. 6863; Cass. 7 maggio 2015, n. 9203; Cass., sez. 1, 13 settembre 2012, n. 15341; Cass., sez. unite, 25 gennaio 2003, n. 11026). 33
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derata. Così, non solo in relazione al procedimento dell’art. 317 bis c.c.37 (in cui, tenuto conto della diretta applicazione del rito divorzile, l’accesso in cassazione è di più agevole comprensione), ma anche in relazione ai giudizi degli artt. 330 e 333 c.p.c.38. A quanto consta, il primo precedente che riconosce l’accesso in cassazione in questi termini risale al 201639, ma di lì a seguire – seppure non uniforme – l’indirizzo è presto in evoluzione. Un indirizzo, d’altra parte, che incontra il plauso unanime della dottrina e che perciò, anche per questo, mostra ottime prospettive di conservazione40.
5. Le ragioni di una mancata rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Ad oggi, domina la convinzione secondo cui in materia di responsabilità genitoriale sono aperte le porte dei ricorso straordinario in cassazione, restando perciò un lontano ricordo la rigidità che a suo tempo indusse le Sezioni Unite a sbarrare la strada41. Manca tuttavia una uguale e contraria pronuncia delle stesse Sezioni Unite nella direzione da ultimo privilegiata; il che potrebbe indurre a ritenere la materia ancora magmatica42. È di contro la stessa giurisprudenza a dimostrare il contrario ed a condurre alla consapevolezza, non solo del fatto che quell’intervento nomofilattico non arriverà a breve, ma anche che l’auspicata stabilità sia già raggiunta con il consolidarsi del nuovo orientamento. Lo dimostrano alcune episodiche riflessioni delle sezioni semplici di agevole lettura.
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Cass., 26 marzo 2015, n. 6132; Cass., 22 giugno 2017, n. 15482; Cass. 8 febbario 2017, n. 3302; Cass. 25 luglio 2018, n. 19780; Cass. 31 luglio 2018, n. 20204; Cass. 25 luglio 2018, 19779, in Fam. dir., 2019, 261, con nota di Donzelli; in Corr. Giur. 2018, 1586, con nota di Danovi. 38 Cass., 7 giugno 2017, n. 14145 riconosce che “il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale, emesso dal giudice minorile ai sensi degli articoli 330 e 336 c.c., ha attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabile o modificabile, salva la sopravvenienza di fatti nuovi. Deriva da quanto precede, pertanto, che il decreto della Corte d’appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica il predetto provvedimento, è impugnabile con ricorso per cassazione ex articolo 111, comma 7, della Costituzione”. La sentenza – senza più di tanto motivare – si limita a richiamare il precedente di Cass., 21 novembre 2016, n. 23633, su cui v. infra. Vd. Anche la giurisprudenza citata infra nt. 46. 39 Cass., 21 novembre 2016, n. 23633, in Fam. dir. 2017, 225 ss., con nota di Donzelli; in Nuova Giur. civ. comm., 2017, I, 563 ss., con nota di Nascosi; in Giur. it., 2017, 1343 ss., con nota di Turroni; in Foro it., 2016, I, 3749, con osservazioni di Casaburi. 40 Donzelli, Sulla natura decisoria dei provvedimenti in materia di abusi della responsabilità genitoriale: una svolta nella giurisprudenza della Cassazione, in Fam. dir., 2017, 225 ss.; Nascosi, Ricorribilità per cassazione dei provvedimenti “de potestate”, cit., 563 ss.; Turroni, “And she opened the door and went in”: la Cassazione apre alle misure “de potestate”, in Giur. it., 2017, 1343 ss.; Ravot, Responsabilità genitoriale e provvedimenti de potestate, in Fam. dir., 2016, 1135 ss.; Danovi, Provvedimenti relativi a minori e garanzia del ricorso in Cassazione: un fronte (giustamente) sempre più aperto, in Corr. giur., 2018, 1594 ss.; Tiscini, Ricorso straordinario in cassazione, evoluzioni giurisprudenziali, certezze e incertezze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 859 ss.; Id., Il ricorso straordinario in Cassazione, in A. Didone - F. De Santis (a cura di), I processi civili in Cassazione, Milano, 2018, 510 ss.; Id., Il giudicato “rebus sic stantibus” tra revocabilità del provvedimento e ricorso straordinario per cassazione, in Giust. civ., 2018, 733 ss. 41 Cass. 23 ottobre 1986, n. 6220, cit. (retro § 2). 42 L’auspicio dell’intervento delle Sezioni Unite è stato tra l’altro sostenuto da più voci in dottrina (questa è opinione già espressa: cfr., Tiscini, Il giudicato “rebus sic stantibus” tra revocabilità del provvedimento e ricorso straordinario per cassazione, cit., 733; Id., Ricorso straordinario, cit., 860 s.; Id., Il ricorso straordinario, cit., 513) anche per fare chiarezza su talune questione non del tutto risolte (così Donzelli, Provvedimenti de potestate e ricorso straordinario: le Sezioni unite non risolvono tutti i dubbi, in Fam. dir., 2017, 864 ss.).
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Sono recenti alcune sentenze che prendono posizione sul punto: “va precisato che non si ravvisa la necessità di rimettere l’esame della questione alle Sezioni Unite, considerato che l’indirizzo summenzionato - al quale si intende aderire - rappresenta, men che un’opzione interpretativa in contrasto con quella sostenuta in precedenza, piuttosto una rivisitazione dell’indirizzo tradizionale necessitata da ragioni obiettive, connesse alla menzionata novella dell’art. 38 disp. att., introdotta dalla L. 10 dicembre 2002, n. 219, art. 3, comma 1, nonchè alla mutata veste assunta dal minore nei procedimenti giurisdizionali che lo riguardano”43. L’esigenza di invertire l’orientamento, in altri termini, è la naturale conseguenza delle mutate condizioni sostanziali e processuali che ruotano intorno al minore44; sicchè, il fatto che la sua posizione sostanziale vada oggi qualificata in termini di vero e proprio diritto (non mero interesse) giustifica la soluzione che sta prendendo piede, senza necessità di dare sostegno a un presunto contrasto interpretativo (che in effetti non c’è). Si tratta solo di un progressivo mutamento di indirizzo supportato dalle innovate condizioni sostanziali e processuali sul minore: fatti sopravvenuti che implicano un mutamento di indirizzo, non diversamente da come le sopravvenienze consentono di superare la stabilità della cosa giudicata. D’altra parte, si tratta di una scelta a favore della ricorribilità in cassazione dei provvedimenti de potestate, tanto esplicita45, quanto consapevole46, nonché dichiaratamente volta a prendere le distanze dalla passata giurisprudenza47. Soluzione, evidentemente più garantista per il minore in un contesto in cui l’esigenza di certezza nei rapporti familiari induce a preferire ogni opzione in grado di dare ad essi stabilità (ben venga quindi l’attitudine delle relative decisioni a fare giudicato), fuggendo dalle passate posizioni (tutte orientate verso la modificabilità/revocabilità dei relativi provvedimenti)48.
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Cass. 25 luglio 2018, n. 19780, cit. Nel medesimo senso Cass. 25 luglio 2018, 19779, cit., pur se dando conto del precedente (e non sopito, in effetti) contrasto interpretativo. 44 Così Cass. 25 luglio 2018, n. 19779 (“ebbene è di tutta evidenza che la mutata veste del minore, ormai “parte” del processo come le altre, nei giudizi che lo riguardano, vale a trasformare tali giudizi - ancorché non contenziosi - in procedimenti che comunque dirimono conflitti tra posizioni soggettive diverse”). 45 La chiarezza motivazionale delle sentenze che ammettono il ricorso per cassazione nella materia considerata è ben apprezzata anche da chi avrebbe auspicato un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Donzelli, Garanzia del ricorso per cassazione, cit., 268). 46 Vi è in effetti un recente intervento delle Sezioni Unite (Cass, 13 dicembre 2018, n. 32359), secondo cui “i provvedimenti ‘de potestate’, emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., hanno attitudine al giudicato ‘rebus sic stantibus’, in quanto non sono revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi; pertanto, il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i predetti provvedimenti, è impugnabile mediante ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.”. Si tratta però di una sentenza priva di particolare efficacia nomofilattica in quanto derivata da una questione di giurisdizione e in ogni caso volta a confermare un orientamento già ritenuto dominante. 47 Nel medesimo senso la già citata Cass. 25 luglio 2018, n. 19780. Ugualmente, Cass. 13 dicembre 2018, n. 32359, cit.; Cass. 31 luglio 2018, n. 20204; Cass. 20 aprile 2018, n. 9841; Cass. 14 marzo 2018, n. 6384; Cass. 6 marzo 2018, n. 5256; Cass. 7 giugno 2017, n. 14145. Isolatamente, in direzione contraria, tra le più recenti, Cass. 10 luglio 2018, n. 18149; Cass. 13 febbraio 2017, n. 3701, in Fam. dir., 2017, 863, con nota di Donzelli. 48 Sulla stabilità dei provvedimenti in esame, in relazione alla loro revocabilità/modificabilità, Danovi, Provvedimenti, cit., 1602; Turroni, “And she opened the door and went in”, cit., 1348; Nasconi, Ricorribilità, cit., 563.
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6. Le aperture della Corte di cassazione in una prospettiva
più ampia.
La vicenda e le evoluzioni dell’impugnabilità in cassazione dei provvedimenti in tema di responsabilità genitoriale stimola quanto meno due considerazioni ulteriori. La prima. Induce a riflettere il fatto che, pure in un contesto in cui sino a ieri la giurisprudenza di legittimità era stabile nell’imporre sbarramenti all’accesso, oggi si faccia strada l’inversione di rotta. Tante e varie sono le ragioni (riforme di legge, prassi consolidate, coordinamento tra gli istituti, principi costituzionali e loro applicazione al diritto di famiglia), tutte ragioni da leggere alla luce dell’approccio della Corte sul rimedio straordinario dell’art. 111, comma 7, cost. Per anni l’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità è stato di chiusura verso letture interpretative che ne potessero estendere i confini. Una chiusura giustificata dalle altrettanto evidenti difficoltà avvertite dalla Corte nel gestire i propri ruoli, da quel sovraccarico di contenzioso su cui il ricorso straordinario ha da sempre un peso non indifferente. Anche nelle mutate sembianze del rapporto tra genitori e figli, nella equiparazione tra figli naturali e legittimi, nelle evoluzioni processuali, il Giudice Supremo avrebbe potuto confermare la chiusura di sempre; avrebbe potuto perseverare nel negare l’accesso – come in altre occasioni non ha mancato di fare – annettendo la motivazione (una qualsiasi) ad un dispositivo precostituito. Si affaccia oggi, invece, un atteggiamento diverso, di maggiore apertura verso l’uso del rimedio straordinario quale strumento per la tutela dei diritti (nel suo doppio ruolo soggettivo e oggettivo). Vale la pena a questo punto arrestare ogni giudizio in attesa dell’evolversi della situazione. I precedenti citati – alterando gli equilibri tradizionali – probabilmente segnano una strada senza ritorno. Certo è – e di questo occorre acquisire consapevolezza – che la vicenda dei provvedimenti de potestate si presta a più di una riflessione… se non altro perché dimostra come la stessa giurisprudenza di legittimità (che ha creato e fatto crescere il ricorso straordinario) non è mai uguale a sé stessa e come in questo àmbito sarebbe sbagliato dare per scontate soluzioni irremovibili.
7. Qualche riflessione intorno al giudicato rebus sic stantibus.
La seconda considerazione, stimolata dal tema che ci occupa, interessa il ruolo assegnato alla cosa giudicata, ai fini della ricorribilità in cassazione, e in particolare al cd. giudicato rebus sic stantibus49 (tema che nella pratica applicativa incontra di frequente il ricorso straordinario e trova terreno fertile del rito camerale contenzioso).
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Il tema può qui essere solo accennato. Per una più ampia trattazione, sia consentito rinviare a Tiscini, Il giudicato “rebus sic
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Vi è un dialogo continuo tra rito in camera di consiglio, giudicato rebus sic stantibus e ricorso straordinario, nel senso che, l’uno contribuisce a circoscrivere il campo applicativo dell’altro e al contempo ne definisce i contenuti. Le forme destrutturate del procedimento camerale – così si legge nella giurisprudenza – operano per la tutela dei diritti quando il provvedimento che decide su di essi assume funzioni contenziose, quando oggetto del decisum sono diritti o status e il relativo atto decisorio conduce alla cosa giudicata, seppure rebus sic stantibus50. Il giudicato rebus sic stantibus finisce quindi per valere da cartina di tornasole della contenziosità del rito e a cascata di tutte le altre conseguenze: della decisorietà del provvedimento nonché della sua definitività e dunque dell’impugnabilità in cassazione ex art. 111 comma 7 cost. Esso opera quale actio finium regundorum degli istituti interessati, sicché, sul piano operativo, condiziona il segno della decisione circa l’ammissibilità o meno del rimedio di legittimità. Il fatto è che le regole sottese a questa materia poggiano su parametri poco delineabili a priori, e molto dipendenti da regole tra loro sovrapponibili e scarsamente definitorie. Premessi i due presupposti di ammissibilità del ricorso straordinario (decisorietà su diritti o status e definitività della decisione), proprio l’esperienza che ruota intorno all’accezione di giudicato rebus sic stantibus dimostra come alla prova dei fatti si tratta di due requisiti tra loro molto diversi, ma nella sostanza destinati spesso a confondersi. Il che dipende dal fatto che sia l’uno che l’altro delimitano l’ammissibilità del rimedio intorno a una attitudine alla cosa giudicata che vale più quale slogan predefinito che come concreto strumento di discernimento della decisorietà. Quando la stabilità del giudicato è chiaramente delimitata in ragione della forma della decisione (sentenza), opera senz’altro l’art. 2909 c.c.; stesso a dirsi quando – pur in presenza di provvedimenti in forma diversa - è la legge ad imporre la stabilità della decisione (art. 702 quater c.p.c.). Il problema assume toni articolati quando occorre indagare su natura ed effetti di atti diversi dalla sentenza (dominano qui i giudizi camerali) rispetto a cui è la pratica applicativa a riconoscere l’attitudine al giudicato (e dunque l’impugnabilità in cassazione) piuttosto che l’astratto testo normativo. Occorre allora interrogarsi sul significato da attribuire alla clausola rebus sic stantibus, posta quale requisito ulteriore del giudicato, quasi a dimostrare che non si tratta di un giudicato quale che sia, bensì di una stabilità “particolare”, tale da non poter prescindere dalla censurabilità in cassazione della relativa decisione. A ben vedere, una più approfondita indagine conduce verso diverse conclusioni nel senso, da un lato, che la stabilizzazione degli effetti (da ricondurre al giudicato) poco vale quale utile parametro della censurabilità in cassazione ex art. 111 comma 7 cost., da un altro, che flebile è la differenza che separa il giudicato “pieno” da quello rebus sic stantibus,
stantibus”, cit., 735 ss.; Id., Il ricorso straordinario in cassazione, cit., 176 ss. Per tutte, Cass. 21 ottobre 2009, n. 22238.
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da un altro, ancora, che la materia dei provvedimenti camerali è scivolosa e sfuggente, tale che la specialità del rito (la profonda «diversità» tra forma diversa dalla sentenza e sostanza di sentenza) rende tutt’altro che facile coordinare le regole processuali con il giudicato. Occorre tornare a porre a confronto la revocabilità/modificabilità degli atti camerali (art. 742 c.p.c.) con l’inimpugnabilità di quelli resi sul reclamo (art. 739 c.p.c.), ed il tutto con l’esigenza che, quando il procedimento ha contenuto contenzioso, la decisione acquisti la stabilità del giudicato51. L’accesso al controllo di legittimità finisce allora per valere quale risposta alle esigenze di coordinamento tra istituti tra loro apparentemente antinomici. Torniamo alla questione del rapporto tra giudicato rebus sic stantibus e ricorso straordinario, nell’interrogativo iniziale sul se e quali siano i parametri che effettivamente delineano i confini di quest’ultimo alla luce del primo. La pratica applicativa dimostra quanto labili siano i confini del rimedio di legittimità vincolati alla cosa giudicata; e quanto, a maggior ragione, ben poco contribuisca la clausola rebus sic stantibus in questa medesima prospettiva. Indici quali la contenziosità del provvedimento, l’immodificabilità-irrevocabilità della decisione si rivelano uno schermo al di là del quale domina la discrezionalità del giudicante (il che di fatto ne nullifica le funzioni). Sarebbero indici veramente in grado di descrivere i confini del ricorso se la legge fosse, non solo stabile, ma anche precisa nel ricostruire in ogni suo aspetto il rito camerale. Al contrario, l’indeterminatezza della previsione legislativa (su modalità e termini del procedimento) contraddistingue, non solo gli artt. 737 ss. c.p.c., ma anche la maggior parte delle leggi speciali che nei vari ambiti di contenzioso consentono l’applicazione delle forme camerali. Gli ultimi anni di riforme hanno in effetti mostrato l’intenzione (non tanto di rimuovere52, prospettiva questa vanificata dalla prova dei fatti53, quanto) di meglio strutturare il rito degli artt. 737 c.p.c. - ove prestato a situazioni contenziose – quand’anche ne sia stata confermata la struttura camerale (si pensi, per tutte, all’esperienza della materia fallimentare, in cui, pur non abbandonata l’idea della “cameralizzazione del giudizio sui diritti”, si è optato per un rito in camera di consiglio dalla consistente regimentazione delle regole). Ogni tentativo di procedimentalizzazione non può superare l’intrinseca elasticità delle dinamiche camerali. È (e deve restare) tale il rito che preservi l’adattabilità alle specifiche situazioni concrete. Sicché, finisce per rivelarsi inutile un criterio di contingentamento dei confini del ricorso straordinario fondato sulle regole del processo (regole che, in questa situazione, sfuggono alla percezione generale ed astratta della legge) e ancor più ad un criterio incardinato sul giudicato, quale che ne sia l’accezione che si voglia prediligere.
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Sul tema ci si è già soffermati retro § 2. Ne è conferma proprio la modificata disciplina sull’affidamento dei minori, il cui art. 38 disp. att. c.c., non solo accorda competenza generale al tribunale dei minorenni, ma anche ne regimenta il rito richiamando gli artt. 737 c.p.c. 53 Il tentativo di soppressione del giudizio camerale contenzioso ha trovato il suo acme nel d.lgs. n. 150 del 2011 sulla riduzione e semplificazione dei riti. L’esperienza legislativa successiva dimostra tuttavia come si sia trattato di tentativo fallimentare. 52
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D’altra parte, anche quando la legge prescrive il procedimento in camera di consiglio, non è affatto certo che esso vada applicato nella sua integralità: non è detto che la decisione giudiziale sia sempre modificabile e revocabile, né che contro il provvedimento che decide sul reclamo sia escluso ogni controllo, né, ancora, che vadano in ogni caso assicurati contraddittorio ed istruttoria. Talora la disciplina positiva è specifica e particolareggiata, ma talaltra solo con l’opera ricostruttiva dell’interprete si può stabilire se si tratti di provvedimento revocabile con efficacia ex tunc o solo ex nunc (sia perciò suscettibile di acquistare la stabilità del giudicato). A voler pretendere il contrario, si rinuncerebbe ancora una volta all’elasticità che contraddistingue il rito camerale. Quanto ai parametri utili per delineare in concreto il procedimento, occorre tornare al contenuto della situazione sostanziale tutelata: ove oggetto del giudizio è un mero interesse unilaterale, senza parti contrapposte, al procedimento deve attribuirsi natura camerale, può mancare il contraddittorio, il provvedimento conclusivo può prescindere dall’incontrovertibilità del giudicato ed essere revocabile e modificabile; ove, invece, la situazione tutelata è un vero e proprio diritto – vi è un rapporto conflittuale tra più soggetti – si impongono, tanto il contraddittorio, quanto la stabilità del giudicato e, di conseguenza, la decisione è irrevocabile/immodificabile. Senonché, anche da questo punto di vista, l’esperienza dei provvedimenti sulla responsabilità genitoriale dimostra come sia tutto molto precario. Quello che poco tempo fa era ritenuto un mero interesse (l’interesse al corretto esercizio della potestà e all’eventuale denuncia delle responsabilità), è oggi valutato in termini di vero e proprio diritto. Verso questa direzione conducono d’altra parte, non solo le riforme della legge sostanziale (sul ruolo di minori e famiglia nell’ordinamento), ma anche le regole del processo, per le maggiori garanzie riconosciute al minore54 (così il diritto di essere ascoltato dell’art. 336 bis c.c.), nonché per il loro necessario coordinamento con le situazioni in cui analoghi posizioni soggettive del minore siano fatte valere in costanza dei giudizi di separazione e divorzio55. Sul piano delle ricostruzioni astratte, quindi, può anche assumersi a parametro di ammissibilità del ricorso straordinario l’(ir)revocabilità del provvedimento, quest’ultima escludendo per incompatibilità la prima: l’applicabilità o meno dell’art. 742 c.p.c. consente (in astratto) di differenziare le due categorie di provvedimenti camerali, gli uni, modificabili e revocabili con efficacia ex tunc, perciò inidonei al giudicato e non impugnabili, gli
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Sulle garanzie riconosciute oggi al minore e sulla sua mutata posizione processuale, cfr. per tutti, De Cristofaro, Dalla potestà alla responsabilità genitoriale: profili problematici di una innovazione discutibile, in Nuove leggi civ. comm., 2014, 782; Impagnatiello, Profili processuali della nuova filiazione. Riflessioni a prima lettura sulla l. 10 dicembre 2012, n. 219, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 724; Poliseno, Profili di tutela del minore, cit., 11 ss.; Cecchella, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, Bologna, 2018, 22. Specificamente, in relazione ai provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, Danovi, I procedimenti de potestate dopo la riforma, tra tribunale ordinario e giudice minorile, in Fam. dir., 2013, 619; Tommaseo, I procedimenti de potestate e la nuova legge sulla filiazione, in Riv. dir. proc., 2013, 558; Damiani, Aspetti processuali delle recenti riforme in materia di filiazione, in Il nuovo diritto di famiglia, a cura di Pane, Napoli, 2015, 611; Poliseno, Profili di tutela del minore, cit., 99. 55 Su questo argomento – da ricondurre in definitiva alla parità di trattamento – poggia la motivazione di Cass., 29 gennaio 2016, n. 1743, cit.
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altri, idonei al giudicato, in quanto immodificabili e irrevocabili se non per mutamento delle circostanze (ex nunc), e quindi impugnabili. Si tratta però di un criterio discretivo non sempre predeterminabile, all’ampio genus dei procedimenti in camera di consiglio appartenendo sia quelli a cui si applica fedelmente l’intera disciplina degli artt. 737 ss. c.p.c. (compreso l’art. 742 c.p.c.), sia quelli in cui le forme camerali operano in parte qua. Il generico richiamo del modello camerale non offre certezza sulla revocabilità o meno del provvedimento (essendo, all’uopo necessario un espresso rinvio all’art. 742 c.p.c. che invece spesso viene a mancare). Torna allora a dominare la situazione sostanziale quale (unico) parametro su cui misurare l’alternativa tra revocabilità/non revocabilità; una situazione sostanziale – tuttavia – sulla cui qualificazione ancora una volta incide l’ampio potere discrezionale che proprio la Corte di cassazione esercita al momento esaminare l’ammissibilità del rimedio straordinario. Possiamo allora concludere nel senso che tra giudicato rebus sic stantibus e giudicato pieno non vi è differenza. Piuttosto, ciò che interessa è porre a confronto il giudicato rebus sic stantibus con il potere di revoca e modifica, al fine di segnare il discrimen tra procedimenti camerali su diritti e procedimenti camerali di natura volontaria: i primi, riesaminabili solo per fatti sopravvenuti e idonei al giudicato, sia pure rebus sic stantibus; i secondi, riesaminabili con efficacia ex tunc, a seguito di revoca o modifica dell’art. 742 c.p.c. Tuttavia, a tale scopo, il criterio della revocabilità (con effetto ex nunc o ex tunc, quale sintomo dell’idoneità o meno al passaggio in giudicato) non assicura certezza. Esso sarebbe lo strumento in grado di eliminare le difficoltà sulla qualificazione della situazione sostanziale (in termini di diritto soggettivo e status o di interesse), se la revocabilità/modificabilità fosse sempre prevista ex lege. Al contrario, essa è spesso rimessa all’apprezzamento dell’interprete – rectius, della Corte di cassazione – chiamato a valutare il procedimento in generale e gli interessi (o diritti) sottesi. Si assume quale metro di misurazione la situazione sostanziale tutelata, subordinando la ricorribilità in cassazione alla sua qualificazione come diritto (non interesse unilaterale). A questo punto, l’idoneità al giudicato è conseguenza del procedimento interpretativo, piuttosto che sua premessa: la formazione del giudicato sul provvedimento camerale (decisorio) impugnato in cassazione è l’effetto che produce la pronuncia di legittimità (certamente incontrovertibile, una volta ammesso il ricorso). L’idoneità al giudicato, invece – puramente ipotetica, se non confermata da una chiara prescrizione di legge e non condivisa nel giudizio di legittimità – ben poco contribuisce a delineare i parametri di ammissibilità del rimedio. Il problema è piuttosto un altro: è che le situazioni sostanziali, al cui servizio si pone il processo, non sono mai uguali a sé stesse. Il processo è strumentale al diritto sostanziale e vive di luce riflessa rispetto ad esso, mentre quest’ultimo non è pietrificato in una realtà immodificabile56. I diritti sono tanti e in evoluzione, il mutare della società e di riflesso
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Il che è vieppiù evidente nella materia del diritto di famiglia in cui “esiste un canale di mutuo collegamento e scambio tra la
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del sistema normativo generano di continuo nuove situazioni sostanziali proteggibili e al contempo ne sopprimono altre. Sicché, al germinare di nuovi diritti, il processo si deve adeguare e con esso la Corte di cassazione. Che quello sulla responsabilità genitoriale sia un giudizio che ha ad oggetto un diritto non è allo stato più dubitabile. La Cassazione, di fronte all’evolversi della realtà sostanziale, non resta sorda. Lo fa, oggi, aprendo le porte del ricorso straordinario, con una disponibilità al dialogo quanto mai evidente. Atteggiamento, questo, che non si può non apprezzare, a prescindere dalle qualificazioni astratte dei modelli camerali coinvolti e delle ricostruzioni tecniche ad essi sottese.
dimensione sociale della famiglia (rectius, ormai piuttosto delle famiglie) e quella giuridica non soltanto dal punto di vista del diritto sostanziale, ma altresì del diritto processuale. Se infatti a prima vista è la normativa sostanziale a individuare e dare una fisionomia agli istituti familiari, anche la disciplina processuale contribuisce in modo a volte significativo a tale fenomeno, meglio precisando i loro caratteri e confini” (Danovi, Provvedimenti relativi a minori, cit., 1594).
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Interruzione della prescrizione e tutela costitutiva Sommario:
1. L’interruzione della prescrizione: attualità del tema alla luce di un recente indirizzo giurisprudenziale. – 2. Questioni problematiche. – 3. Critica alla soluzione accolta dalle Sezioni unite. – 4. Diritto potestativo e azione costitutiva. –- 5. Azioni costitutive e interruzione della prescrizione. – 6. – Breve rassegna giurisprudenziale. – 7. Domanda di arbitrato e prescrizione.
Il tema dell’interruzione della prescrizione nell’ambito delle azioni costitutive è tornato di attualità a seguito di una recente sentenza della Corte Suprema in tema di garanzia per i vizi del bene oggetto di compravendita. Il presente contributo, a partire da una valutazione critica di tale sentenza, rappresenta l’occasione per una nuova disamina della questione attinente alla possibilità d’interrompere il decorso del termine di prescrizione delle azioni costitutive mediante un atto stragiudiziale di costituzione in mora. The issue of the interruption of the prescription in the context of the constitutive actions has returned to topicality following a recent sentence of the Supreme Court regarding the guarantee for the defects of the thing that is being sold. This article, starting from a critical evaluation of this sentence, represents the occasion for a new examination of the question concerning the possibility of interrupting the prescription for the constitutive actions by an out-of-court deed of formal notice.
1. L’interruzione della prescrizione: attualità del tema alla luce di un recente indirizzo giurisprudenziale.
Secondo l’insegnamento che si trae dalla disciplina generale dettata dal codice civile, dal lato dell’avente diritto, ai sensi dell’art. 2943 c.c., il decorso del termine di prescrizione può essere interrotto secondo tre modalità: i) proposizione della domanda giudiziale1 o, per meglio dire, la notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di
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Anche in corso di giudizio (art. 2943, comma 2°) e anche se il giudice adito è incompetente (art. 2943, comma 3°).
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cognizione ovvero conservativo o esecutivo (comma 1°)2; ii) costituzione in mora, e cioè con una intimazione o richiesta fatta per iscritto (u.c., prima parte); iii) proposizione della domanda di arbitrato (u.c., seconda parte). Sulla base di quanto rileveremo a breve, l’attenzione va, al momento, concentrata sulle prime due modalità3. L’intimazione (stragiudiziale) fatta per iscritto, prevista dall’art. 1219 c.c., al quale chiaramente si riferisce l’art. 2943 u.c., produce l’effetto di costituire in mora il debitore; tale disciplina si colloca nell’ambito dell’inadempimento delle obbligazioni e, contenutisticamente, la predetta intimazione attua la richiesta dell’avente diritto di ottenere, da parte del debitore obbligato, l’esecuzione della prestazione dovuta4. Non a caso, è opinione assolutamente prevalente in dottrina che, ai fini interruttivi della prescrizione, mentre la proposizione della domanda giudiziale vale in ogni caso, l’intimazione stragiudiziale ha valenza solo per l’esercizio dei diritti di credito; l’atto di costituzione in mora, pertanto, sarebbe idoneo a interrompere la prescrizione solo nell’ambito dei rapporti obbligatori, e non anche ove entri in gioco una relazione sostanziale diritto potestativo-soggezione5. Questo dato, apparentemente consolidato, merita tuttavia di essere fatto oggetto di una nuova analisi, sia perché, comunque, una parte della dottrina ritiene che l’intimazione stragiudiziale rappresenti la modalità generale di interruzione della prescrizione, dunque anche al di fuori dei rapporti obbligatori6; sia, sopratutto, perché negli ultimi tempi è tornato di attualità in giurisprudenza il tema inerente alle modalità di interruzione della prescrizione delle azioni costitutive.
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In parte qua, altra questione, la cui trattazione esulta dal presente contributo, è se ai fini interruttivi, nel caso in cui la domanda giudiziale assuma la forma del ricorso, sia sufficiente il deposito di quest’ultimo ovvero sia necessaria la notifica del ricorso (con il decreto di fissazione dell’udienza) alla controparte; sul punto, da ultimo, v. Cass. 12 settembre 2019 n. 22827, in questa Rivista, con nota di Farina. Con tale pronuncia la Cassazione ha affermato che, laddove sia proposta un’azione revocatoria secondo le forme del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis ss. c.p.c., il termine di prescrizione non è validamente interrotto dal solo deposito del ricorso nella cancelleria del giudice adito, posto che, trattandosi di domanda che può assumere, a scelta dell’istante, anche la forma della citazione, non sussiste l’esigenza di evitare che sul soggetto che agisce in giudizio ricadano i tempi di emanazione del decreto di fissazione dell’udienza con conseguente compressione del termine assegnato dal legislatore per l’esercizio del diritto di difesa. Per ogni più ampio approfondimento sul punto si rinvia al richiamato commento di Farina. 3 Dedicheremo alla rilevanza della domanda di arbitrato ai fini interruttivi della prescrizione un apposito paragrafo. 4 Cfr., ex multis, Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, 115; Mazzarese, Mora del debitore, in Dig. disc. priv., sez. civ., XI, Torino, 1994, par. 4; Cantillo, Le obbligazioni, II, Torino, 1992, 673. In giurisprudenza, tra le altre, v. Cass. 5 febbraio 2007, n. 2481. 5 Cfr., tra gli altri, Gazzoni, op. cit., 116, anche per riferimenti giurisprudenziali; Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, 232, anche per riferimenti giurisprudenziali; Azzariti – Scarpello, Prescrizione e decadenza, in Micheli – Azzariti – Scarpello, Esecuzione forzata – Prescrizione e decadenza, Bologna – Roma, 1964, 261 e nota 2. Anche in giurisprudenza, salvo però quanto si farà presente subito appresso nel testo, si tende ad affermare il medesimo principio (cfr., ex multis, Cass. 15 febbraio 2007 n. 3379; Cass. 3 dicembre 2003 n. 18477). 6 Cfr. ad es. Auricchio, Appunti sulla prescrizione, Napoli, 1971, 96 ss., secondo il quale è possibile attribuire, ai fini dell’interruzione della prescrizione, la medesima efficacia della costituzione in mora ad alcuni comportamenti che si svolgono al di fuori del rapporto obbligatorio, ad esempio in tema di annullamento contrattuale, come l’intimazione alla controparte a restituire quanto ricevuto in adempimento del negozio annullabile; in questi casi, come nella costituzione, diverrebbe esplicita la volontà di far valere il proprio diritto, onde ricorrerebbe lo stesso motivo per il quale l’ordinamento attribuisce efficacia interruttiva alla costituzione in mora; v. anche Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977, 203-204; Id., Diritti potestativi, contestazione stragiudiziale e decadenza, in I quaderni della Rivista di diritto civile, Padova, 2003, 29-30. In particolare, nel presente lavoro ci concentreremo sulla possibilità o meno di applicare l’art. 2943, u.c., prima parte, c.c., nell’ambito delle azioni costitutive.
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Infatti, recentemente, le Sezioni unite7 hanno risolto la questione relativa all’idoneità o meno degli atti stragiudiziali di costituzione in mora a interrompere la prescrizione dell’azione di cui all’art. 1495, comma 3, c.c., inerente alla garanzia per i vizi nella compravendita. In particolare, il Supremo Collegio ha enunciato il principio secondo il quale nel contratto di compravendita costituiscono, ai sensi dell’art. 2943, comma 4, c.c., idonei atti interruttivi della prescrizione dell’azione di garanzia per vizi, prevista dall’art. 1495, comma 3, c.c., le manifestazioni extragiudiziali di volontà del compratore, compiute nelle forme di cui all’art. 1219, comma 1, c.c., con la produzione dell’effetto generale contemplato dall’art. 2945, comma 1, c.c. Sulla base di tale indirizzo, in definitiva, onde produrre l’effetto interruttivo della prescrizione annuale per far valere la garanzia per i vizi del bene compravenduto, salva ovviamente la previa (e tempestiva) denuncia, è sufficiente inviare al venditore una semplice “messa in mora”, non essendo affatto necessario che, viceversa, entro il termine di un anno dalla consegna del bene sia direttamente proposta la domanda giudiziale. Tra le maglie della motivazione della pronuncia citata, non risulta affatto in discussione la natura costitutiva delle azioni c.d. edilizie8, che costituiscono i concreti strumenti di tutela in cui consiste la garanzia per i vizi. Anzi, ad avviso di chi scrive, il dato della costitutività di tali azioni è, per così dire, uno dei punti fermi di partenza del ragionamento sia della Sezioni unite stesse, sia, ancora prima, dell’ordinanza interlocutoria9.
2. Questioni problematiche. L’intervento nomofilattico si appunta sull’interruzione del termine prescrizionale con riferimento alla tutela contemplata nel precipuo ambito della garanzia per i vizi nella compravendita; tuttavia, non può negarsi che il principio affermato dalle Sezioni unite possa prestarsi ad essere invocato anche al di fuori di tale circoscritto ambito. Infatti, una volta che si sia riconosciuta la possibilità per il compratore - interessato ad “attivare” la garanzia per i vizi invocando, vuoi la risoluzione del contratto, vuoi la riduzione del prezzo (e salvo il risarcimento del danno) - di interrompere efficacemente
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Cass. sez. un. 11 luglio 2019 n. 18672, in Corr. Giur. 2019, 1025 ss., con nota di Calvo, Difformità, inadempimento del venditore e denuncia del vizio occulto; in Contratti 2019, 501 ss., con nota di D’onofrio, Le Sezioni Unite sull’interruzione della prescrizione in ipotesi di vizi della cosa venduta: è sufficiente l’intimazione stragiudiziale e di Dalla Massara, Postilla. Per il ripristino di alcune linee di coerenza sistematica dopo la coppia di pronunce a Sezioni Unite in tema di vendita; e in Foro it. 2019, 10, I, 3103 ss., con nota di Magliulo - Pardolesi, Sull’interruzione della prescrizione della garanzia per vizi nella compravendita. 8 Su cui cfr., tra gli altri, Consolo, Il concorso di azioni nella patologia della vendita. Diritto e processo, in Riv. dir. civ. 1989, I, 778; Fornaciari, Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 44; Oriani, Diritti potestativi, cit., 8; D’onofrio, Interruzione della prescrizione in caso di vizi della cosa venduta: occorre la domanda giudiziale?, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2019, 1031. 9 Cass. (ord.) 23 maggio 2018 n. 23857.
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il discorso del termine prescrizionale semplicemente intimando, con atto stragiudiziale, il venditore, e senza peraltro dover specificare subito quale rimedio, tra i due testé richiamati, intenda perseguire, risulta fisiologico chiedersi se un analogo regime possa operare anche nella prospettiva di far valere altre forme di tutela costitutiva. Ad avviso di chi scrive, del resto, dinanzi a una decisione della Suprema Corte nella sua massima composizione che autorizza l’avente diritto a interrompere con un semplice atto stragiudiziale il termine di prescrizione di cui all’art 1495 c.c., è seriamente immaginabile il diffondersi, presso la categoria forense ma anche nella stessa giurisprudenza, dell’idea che il medesimo principio valga anche laddove in gioco vi sia, in luogo di un’azione edilizia (e solo per fare alcuni esempi), un’azione revocatoria fallimentare, un’azione di annullamento contrattuale o, ancora, un’azione di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. L’obiettivo del presente lavoro è capire se, alla luce del citato arresto della Sezioni unite, la predetta idea sia fondata o se, invece, piuttosto che di idea debba parlarsi, più propriamente, di vero e proprio equivoco.
3. Critica alla soluzione accolta dalle Sezioni unite. Per meglio comprendere il contesto concettuale di riferimento e la portata della decisione delle Sezioni unite, pare utile ripercorrere le ragioni che hanno indotto il Supremo Collegio a propugnare la soluzione testé esposta. Intanto, la S.C. ricorda che, in tema di interruzione della prescrizione ex art. 1495 c.c., è da registrare, in giurisprudenza, la formazione, nel tempo, di due orientamenti opposti. Così, secondo un primo indirizzo, la garanzia per i vizi si configura come diritto autonomo, in forza del quale il compratore può, a sua scelta, domandare la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo. Pertanto, quando il compratore comunica al venditore che intende far valere il diritto alla garanzia, egli interrompe la prescrizione inerente a tale diritto, e a tal fine non è necessaria la precisazione del tipo di tutela che verrà poi chiesta in sede giurisdizionale10. Nel medesimo ordine d’idee, più di recente, si è affermato che costituisce atto interruttivo della prescrizione della garanzia la manifestazione al venditore della volontà – del compratore – di volerla esercitare, benché venga differita ad un momento successivo l’opzione per il tipo di strumento rimediale da esercitare; a tal fine, per la Corte è idonea anche una espressione del tipo “con più ampia riserva di azione”, essendo sufficiente la comunicazione della volontà di avvalersi della garanzia e dovendosi escludere che la riserva di scelta del tipo di tutela sia diretta a far valere un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione11.
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Cfr. Cass. 10 settembre 1999 n. 9630. Cfr. Cass. 10 novembre 2015 n. 22903.
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Sulla base del secondo orientamento, posto che l’esercizio delle azioni edilizie implica la configurazione di una posizione di mera soggezione in capo al venditore, la prescrizione annuale dell’azione può essere utilmente interrotta soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale e non anche mediante atti di costituzione in mora. Ciò sul presupposto che gli atti, indicati dall’art. 2943, comma 4, c.c. come idonei a produrre l’effetto l’effetto di interrompere la prescrizione, sono per l’appunto quelli che valgono a costituire in mora il debitore, che come tali devono consistere, giusta la previsione dell’art. 1219 c.c., comma 1, in una intimazione o richiesta fatta per iscritto di adempimento di un’obbligazione (previsioni che si attaglierebbero bensì ai diritti di credito ma non a quelli potestativi)12. Peraltro, le Sezioni unite richiamano anche un tentativo, per così dire, di conciliazione di tali due opposti indirizzi. In una occasione, infatti, la Cassazione evidenziato che essi riguarderebbero situazioni distinte. In sostanza, bisognerebbe considerare, da un lato, l’ipotesi in cui il compratore abbia espresso la volontà di esercitare la garanzia e si sia riservato di effettuare successivamente la scelta tra i rimedi consentiti dall’art. 1492 c.c.; dall’altro, l’ipotesi in cui il compratore dichiari di avvalersi direttamente dell’azione di risoluzione del contratto. In questo caso, secondo la Suprema Corte, la modalità di interruzione della prescrizione è differente, giacché la facoltà riconosciuta al compratore di chiedere la risoluzione si correla a un diritto potestativo a fronte del quale la posizione del venditore è di mera soggezione, non dovendo quest’ultimo compiere alcuna prestazione ed essendo semplicemente “soggetto” agli effetti della sentenza costitutiva che fa venire meno il rapporto. In tale ipotesi, per l’interruzione della prescrizione, inidonei si rivelerebbero gli atti stragiudiziali di costituzione in mora, dovendo necessariamente farsi ricorso all’azione giudiziale13. Le Sezioni unite, come detto, propendono per la prima soluzione, in virtù della quale la prescrizione della garanzia per i vizi è interrotta dalla comunicazione al venditore della volontà del compratore di esercitarla, nonostante questi riservi a un momento successivo la scelta circa il tipo di tutela, essendo da escludere che la riserva concerna un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione. Alla base di tale opzione risiede una certa ricostruzione della natura giuridica della garanzia, e dunque della posizione giuridica del venditore rispetto all’esistenza dei vizi, che le Sezioni unite dichiarano di mutuare da un proprio precedente di pochi mesi addietro, che invero si è occupato di tale profilo onde risolvere il problema dell’onere della prova nell’ambito della garanzia de qua14. Di tal che esse giungono ad affermare che, nella fattispecie in esame, “non si verte propriamente nell’ipotesi di esercitare un singolo specifico
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Così, ad es., Cass. 3 dicembre 2003 n. 18477; Cass. 27 settembre 2007 n. 20332; Cass. 27 aprile 2016 n. 8417; Cass. 4 settembre 2017 n. 20705. 13 Cass. 27 aprile 2016 n. 8418. 14 Cass. Sez. un. 3 maggio 2019 n. 11748, in Contratti 2019, 373 ss., con nota di Dalla Massara, L’onere della prova dei vizi del bene venduto al vaglio delle Sezioni Unite: resistenza e resilienza del modello della garanzia; in Giur. it. 2019, 1527 ss., con nota di Calvo, Luci e ombre nella cornice del congedo dalla garanzia edilizia; in Corr. Giur. 2019, 744 ss., con nota di Villa, L’onere di provare il vizio della cosa venduta: un’occasione per una nuova meditazione sulla prova dell’inadempimento.
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potere ma di far valere il “diritto alla garanzia” derivante dal contratto, rispetto al quale, perciò, non si frappongono ostacoli decisivi che impediscono l’applicabilità della disciplina generale della prescrizione”; e che, ancora, “quando si avvale della “garanzia” il compratore fa valere l’inadempimento di una precisa obbligazione del venditore (contemplata dall’art. 1476 c.c., n. 3)) e, conseguentemente, sul piano generale, deve ammettersi che lo possa fare attraverso una manifestazione di volontà extraprocessuale”. Ora, a ben guardare, e senza entrare analiticamente nel merito del problema – di stretto diritto sostanziale – della qualificazione giuridica della garanzia per i vizi del bene compravenduto15, l’impianto argomentativo delle Sezioni unite del luglio 2019 risulta contraddittorio e, come tale, non convincente, alla luce di una più ampia ricognizione sistematica del problema della interruzione della prescrizione. Volendo cominciare dai profili di contraddittorietà, rileviamo, innanzitutto, che il richiamo alla sentenza, di solo un paio di mesi precedente, con la quale le stesse Sezioni unite si sono occupate della natura garanzia per i vizi nell’ottica degli oneri probatori, sembra, per così dire, solo apparente. Con tale decisione, infatti, la S.C. ha affermato che la garanzia per i vizi pone il venditore in una condizione non di “obbligazione” ma di “soggezione”, onde lo schema concettuale a cui ricondurre l’ipotesi che la cosa venduta risulti viziata non può essere quello dell’inadempimento di una obbligazione16; viceversa, nella pronuncia del luglio 2019, come abbiamo indicato sopra, la stessa Corte ha sostenuto che, allorché il compratore si avvale della garanzia, egli fa valere l’inadempimento di una obbligazione del venditore17. In sostanza, su uno degli snodi concettuali fondamentali per legittimare la soluzione dell’idoneità della semplice messa in mora a interrompere il corso della prescrizione delle azioni edilizie, le Sezioni unite del luglio 2019, pur dichiarando di mutuare quanto affermato dal ravvicinato precedente nomofilattico, si pongono in evidente controtendenza rispetto a quest’ultimo.
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Sul punto rinviamo, tra gli altri, a Luminoso, Vendita, in Dig. disc. priv., sez. priv., Torino, 1999, XIX, par. 38 ss. In particolare, le Sezioni Unite del maggio 2019, dopo aver ripercorso le ricostruzioni teoriche proposte in ordine alla valenza dogmatica della garanzia per vizi, hanno articolato un ragionamento secondo il quale”la disciplina della compravendita non pone a carico del venditore nessun obbligo di prestazione relativa alla immunità della cosa da vizi; in altri termini, all’obbligo di garantire il compratore dai vizi della cosa, previsto dall’art. 1476 c.p., n. 3, non corrisponde - a differenza di quanto ordinariamente accade nello schema proprio delle obbligazioni - alcun dovere di comportamento del venditore in funzione del soddisfacimento dell’interesse del compratore. Le obbligazioni del venditore, ai fini che qui interessano, si risolvono infatti, lo si sottolinea nuovamente, nell’obbligazione di consegnare la cosa oggetto del contratto e, nella vendita di cose determinate solo nel genere, nella duplice obbligazione di individuare, separandole dal genere, cose di qualità non inferiore alla media e di consegnare le cose individuate. In entrambi i casi, ai fini dell’esatto adempimento dell’obbligazione di consegna, il venditore non deve fare altro che consegnare la cosa o le cose determinate in contratto o individuate successivamente, indipendentemente dalla eventuale presenza di vizi nelle stesse (…). Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve allora concludersi che il disposto dell’art. 1476 c.c., là dove qualifica la garanzia per vizi come oggetto di una obbligazione, va inteso non nel senso che il venditore assuma una obbligazione circa i modi di essere attuali della cosa, bensì nel senso che egli è legalmente assoggettato all’applicazione dei rimedi in cui si sostanzia la garanzia stessa”. 17 Il profilo di contraddittorietà afferente al “disallineamento”, sul piano della ricostruzione della natura della garanzia per vizi, tra la decisione del maggio 2019 e quella del luglio 2019 è rimarcata anche dai primi commentatori di quest’ultima pronuncia (cfr., ad esempio, Dalla Massara, Postilla, cit., 501 ss.; D’onofrio, Le Sezioni Unite, cit., 501 ss.; Magliulo - Pardolesi, op. cit., 1316 ss.) 16
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A nostro avviso, un altro profilo di contraddittorietà è dato dall’implicita conferma, che emerge dal congegno motivazionale della pronuncia estiva, di quanto statuito dalle Sezioni unite nel 2012 a proposito dell’impegno del venditore alla eliminazione dei vizi del bene18. Infatti, nel momento in cui, anche se non espressamente, è avallata l’impostazione per la quale nell’ambito delle tutele discendenti dalla garanzia per i vizi non è ricompresa l’azione di esatto adempimento19, viene a cristallizzarsi una concezione che esclude – in caso di vizi - la configurazione di un obbligo di prestazione in capo al venditore, e che quindi circoscrive le tutele de quibus alle sole azioni (costitutive) edilizie20. Per concludere sul punto, il rilievo che ci sentiamo di muovere è che, a fronte di due pronunce nella massima composizione nomofilattica che ribadiscono che la garanzia per i vizi, da un lato, delinea un rapporto tra compratore e venditore spiegabile nei termini della relazione diritto potestativo-soggezione21 e, dall’altro lato, non ricomprende l’azione di esatto adempimento, quanto affermato dall’ultima pronuncia, che pure ha inteso allinearsi ai due citati precedenti, non può che essere frutto di un errore di prospettiva o comunque di un malinteso22.
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Cass. sez. un. 13 novembre 2012 n. 19702, in Foro it. 2013, 4, 1, 1261; in Corr. merito 2013, 5 ss., con nota di Travaglino, Vizi della cosa venduta e prescrizione; in Corr. giur. 2013, 141 ss., con nota di Carbone, Eliminazione dei vizi della cosa venduta e prescrizione; in Giur. it. 2013, 11 ss., con nota di Calvo, Vendita ed esatto adempimento: luci e ombre del nuovo indirizzo della Sezioni unite. Con tale pronuncia, la S.C., sempre occupandosi della granzia per vizi, ha rilevato che gli artt. 1492, 1493 e 1494 c.c., nel prevedere la facoltà per il compratore di agire per la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (fermo restando sempre il poter chiedere il risarcimento del danno), esauriscono la regolamentazione dell’istituto, il quale non contempla, a favore del compratore, un’azione di esatto adempimento. Onde, da siffatto quadro normativo, emerge che il venditore versa non tanto in una situazione di “obbligazione”, quanto di “soggezione”, dato che è esposto all’iniziativa del compratore finalizzata alla modificazione del contratto o alla sua caducazione attraverso l’esercizio o dell’actio quanti minoris ovvero dell’actio redibitoria. Secondo tale logica, il venditore deve subire gli effetti giuridici dell’esercizio del potere del compratore. Viceversa, l’impegno all’eliminazione dei vizi si qualifica come una nuova obbligazione di facere che, fuoriuscendo dal raggio operativo del sopra descritto congegno normativo, soggiace all’ordinario termine prescrizionale di dieci anni (mentre nei confronti delle c.d. azioni edilizie resta applicabile la prescrizione annuale). 19 Le Sezioni unite ricordano che il diritto di ottenere la riparazione del bene è riconosciuto soltanto in particolari ipotesi: limitatamente ai beni mobili, quando “il venditore ha garantito per un tempo determinato il buon funzionamento della cosa venduta”, oppure “gli usi ... stabiliscono che la garanzia di buon funzionamento è dovuta anche in mancanza di patto espresso” (art. 1512 c.c., che fissa in sei mesi dalla scoperta il termine di prescrizione); sempre limitatamente ai mobili, “per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene”, se il venditore è un “professionista” e il compratore un “consumatore” (artt. 128 ss. del codice del consumo). 20 Peraltro, una parte della dottrina, favorevole alla soluzione espressa dalle Sezioni Unite del luglio 2019, ritiene che il nuovo panorama giurisprudenziale consenta di aprire un varco all’ammissibilità dell’azione di esatto adempimento (cfr. Calvo, Difformità, cit., 1025 ss.); ma, a nostro avviso, ciò, più che uno sviluppo logicamente successivo alla soluzione accolta dalle Sezioni Unite, dovrebbe rappresentare la premessa obbligata (per meglio comprendere il senso di questa affermazione, cfr. infra nel testo). 21 Cfr. peraltro Magliulo - Pardolesi, op. cit., 1316 ss., secondo cui, nella ricostruzione delle Sezioni unite, la posizione del compratore emerge in realtà quale figura “ibrida”, a mezza via tra il diritto di credito e il diritto potestativo. 22 Né, d’altro canto, la soluzione accolta dalle Sezioni unite del luglio 2019 può essere corroborata dagli spunti che la S.C. articola a chiusura del proprio ragionamento. Intendiamo riferirci al passaggio in cui la Cassazione rileva la soluzione de qua “si lascia preferire anche per una ragione di ordine generale che impatta sul piano socio-economico posto che, per effetto dell’operatività dell’interruzione della prescrizione secondo la disciplina generale (e, quindi, anche mediante atti stragiudiziali), esiste una plausibile possibilità che il venditore intervenga eventualmente - a seguito della costituzione in mora - eliminando i vizi (possibile, se le parti convengano, prima e al di fuori del processo, configurandosi solo in questo senso la limitazione dei rimedi stabilita dall’art. 1490 e segg.), così evitando che il compratore debba rivolgersi necessariamente al giudice esercitando la relativa azione in sede, per l’appunto, giudiziale”; ciò evita altresì “la conseguenza di una inutile proliferazione dei giudizi”. Tale assunto, a nostro avviso, è fallace, perché: i) non può frustrare l’operatività di principi generali, quali sono quelli – di cui ci occuperemo nel testo – inerenti alla disciplina dell’interruzione della prescrizione nella azioni costitutive; ii) trascura che, allo stato della legislazione attuale, in molti casi, allorché cioè si chiede anche il risarcimento del danno, la controversia è dapprima “portata” in sede di negoziazione assistita, ove con
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Il che, a nostro avviso, è confermato dal passaggio argomentativo con il quale le Sezioni Unite, nel ritenere che la prescrizione della garanzia per i vizi possa essere interrotta dalla comunicazione al venditore della volontà del compratore di esercitarla, ammettono che questi riservi a un momento successivo la scelta circa il tipo di tutela (risoluzione ovvero riduzione del prezzo), dovendosi escludere che la riserva concerna un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione23. Ad ogni modo, tale decisione offre l’occasione per una nuova disamina, su un piano sistematico più generale, del tema dell’interruzione della prescrizione, con precipuo riferimento alle azioni costitutive.
4. Diritto potestativo e azione costitutiva. Alla base dell’orientamento giurisprudenziale che, in tema di interruzione della prescrizione dell’azione per far valere la garanzia per i vizi, è stato rigettato dalle Sezioni unite, vi è il seguente ragionamento: la prescrizione del diritto del compratore, che voglia tutelarsi in ragione dell’esistenza di vizi sul bene acquistato, non può essere interrotta da atti di costituzione in mora, i quali sono idonei a interrompere la prescrizione soltanto dei diritti di credito, posto che egli, nella prospettiva di invocare la garanzia, gode di un diritto potestativo, a fronte del quale la posizione del venditore è di mera soggezione. Quella del diritto potestativo24 è figura giuridico-sostanziale di elaborazione (relativamente) recente25, la quale, pur da taluno vista con diffidenza, può ritenersi ormai entrata a far parte del novero delle situazioni giuridiche soggettive contemplate dal nostro sistema e accolte dalla giurisprudenza e dalla prevalente dottrina26. Il diritto potestativo consente al suo titolare di produrre unilateralmente, mediante una propria manifestazione di volontà, una modificazione della realtà giuridica che investe anche un soggetto passivo, il quale - non essendo tenuto a collaborare attivamente per soddisfare l’interesse dell’avente
la comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero della sottoscrizione della convenzione si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale (art. 8 d.l. 132/2014); iii) il venditore, in molti casi, ha un adeguato margine temporale per intervenire ed eliminare i vizi già dopo la denuncia di cui al comma 1 dell’art. 1495 c.c. 23 Infatti, se la riserva, che ha od oggetto il tipo di tutela (costitutiva), concerne lo stesso diritto del quale s’interrompe la prescrizione, vuol dire che, in realtà, la garanzia si risolve essenzialmente nelle c.d. azioni edilizie, che sono, come detto, azioni costitutive, rispetto alle quali, come vedremo più avanti nel testo, non può valere la regola della interruzione della prescrizione a mezzo di atto stragiudiziale. 24 Ricollegato, anche di recente, alla figura, ritenuta da taluni più ampia, del potere sostanziale (cfr. Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 10 ss.); sul punto cfr. anche Lener, Potere (dir. priv.), in Enc. Dir., XXXIV, 1985, 627 ss., il quale descrive la figura del diritto potestativo nell’ambito della categoria dei “poteri di conformazione”. 25 In primo luogo da parte della dottrina tedesca del XIX secolo; sui profili storici cfr. Guarnieri, Diritti soggettivi (categorie di), in Dig. disc. priv., sez. civ., V, Torino, 1989, par. 8; Fornaciari, Situazioni, cit., 6 ss. 26 Guarnieri, op. cit., par. 8. La manualistica più autorevole consente di dar conto di come la categoria dei diritti potestativi sia diffusamente accolta: cfr. Gazzoni, op. cit., 61-62; Torrente – Schlesinger, op. cit., 82-83; Giardina, in AA.VV., Diritto privato, I, Torino, 2011, 174-175, ove peraltro si riconosce che la figura è molto controversa.
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diritto e non potendo fare alcunché per impedire che l’effetto si produca – si trova in una posizione di assoluta irrilevanza, tecnicamente definita di soggezione27. Anche la nozione di sentenza costitutiva28 – con la quale s’intende il provvedimento modificativo della realtà giuridica - è di sviluppo (relativamente) recente29; in Italia, inoltre, l’elaborazione delle due figure – diritto potestativo e azione (e sentenza) costitutiva – è stata possibile grazie all’opera del Chiovenda, ad avviso del quale alla tutela costitutiva è sotteso un diritto potestativo30. In effetti, è idea diffusa che il diritto potestativo presenta due manifestazioni, o per meglio dire due forme di realizzazione: in alcuni casi esso si realizza con la sola iniziativa del titolare, delineandosi una modalità di attuazione stragiudiziale; in altri casi, per la sua realizzazione, occorre l’iniziativa in sede giurisdizionale del titolare, seguita dalla sentenza del giudice, delineandosi una modalità di attuazione giudiziale31. Sicuramente, i due istituti, i quali operano su piani distinti (sostanziale, il diritto potestativo; processuale, l’azione e la sentenza costitutiva), sono omologhi sul piano funzionale, posto che entrambi danno luogo alla produzione unilaterale di effetti giuridici nella sfera giuridica altrui32. Tuttavia, si distinguono in quanto, nel primo caso la modificazione giuridica si produce in conseguenza dell’atto sostanziale unilaterale; mentre nel secondo, affinché si produca l’effetto giuridico, occorre la sentenza del giudice, previa verifica, da parte di quest’ultimo, dei presupposti richiesti dalla legge per la sua realizzazione33.
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Cfr., tra gli altri, Fornaciari, op. cit., 1; Gazzoni, op. cit., 61. Non pare necessario prendere in considerazione, ai fini del presente contributo, la categoria delle sentenze c.d. determinative, e cioè – secondo la definizione più lata – le decisioni nelle quali il giudice fa applicazione di un potere discrezionale per individuare, specificare, integrare o modificare sotto un qualche profilo un rapporto giuridico o un diritto di per sé già in vita (così Fornaciari, op. cit., 23 ss., il quale – p. 24 – riporta vari esempi, tra cui la riduzione della penale ex art. 1384 c.c.). Sul punto v. anche i rilievi critici alla categoria de qua di Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 184 ss., il quale rileva che le ipotesi in cui tale categoria di decisioni è rintracciabile sono eccezionali e si situano nell’ambito della giurisdizione non contenziosa o quanto meno ai margini di quella contenziosa (ad es., tra l’altro, i provvedimenti in tema di interdizione, inabilitazione ecc.; oppure i casi di intervento giudiziale ex art. 1349 c.c. - ove manchi o sia manifestamente iniqua o erronea la determinazione dell’oggetto del contratto da parte del terzo arbitratore -, o, ancora, ex art. 1183 c.c. in tema di fissazione del termine dell’adempimento). Inoltre, nella presente trattazione avremo come riferimento le azioni (e le sentenze) costitutive sostanziali, vale a dire quelle che dànno luogo a modificazioni giuridiche che incidono su situazioni sostanziali (per tale nozione e sulla distinzione tra azioni costitutive sostanziali e azioni costitutive processuali cfr. Motto, Azione costitutiva (dir. proc. civ.), in Enc. Giur. Treccani, Il diritto on line, 2013, par. 1; Fornaciari, op. cit.,) 29 Cfr., anche per gli opportuni riferimenti storici alla dottrina tedesca, Fornaciari, op. cit., 4, 6. Tale elaborazione è stata poi recepita nel codice civile del 1942, il quale all’art. 2908 stabilisce che, nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Sulla tutela costitutiva in generale si rinvia, tra gli altri, a Chizzini, La tutela giurisdizionale dei diritti, Milano, 2018, 746 ss.; Ferri, Profili dell’accertamento costitutivo, Padova, 1970; Motto, Azione, cit.). 30 Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, Milano, 1933, 20 ss., 93 ss. 31 V., tra gli altri, Lener, op. cit., 629; Fornaciari, op. cit. 4. V. anche Sassani, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto, Milano, 1997, 48 ss., il quale osserva che la “potestatività” può manifestarsi in due distinte forme: a) attribuzione ad un determinato soggetto di una situazione potestativa sostanziale (potere, potestà) esercitabile in via stragiudiziale; b) attribuzione dell’azione (o eccezione) costitutiva. 32 Fornaciari, op. cit., 3; Motto, Azione, cit., par. 1, il quale rileva che l’azione costitutiva, sotto il profilo funzionale, è omologa ai poteri sostanziali di conformazione della sfera giuridica altrui. 33 Tra gli altri, v. Motto, Azione, cit., par. 1; Oriani, Diritti potestativi, cit., 6 ss.; Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 140. 28
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Proprio in virtù di tale distinzione, secondo una parte della dottrina34, sul piano strutturale, non è possibile ritenere che l’azione costitutiva sottenda, in realtà, un diritto potestativo di modificazione giuridica35, il quale differirebbe dagli altri poteri sostanziali in ragione della necessità che esso, ai fini della produzione dell’effetto giuridico, sia esercitato in via giurisdizionale mediante la proposizione della domanda giudiziale vòlta all’emissione del provvedimento costitutivo36. Secondo questa corrente di pensiero, proprio perché non è riproducibile lo schema del potere sostanziale – in attuazione del quale l’effetto si produce con l’atto unilaterale di parte -, la situazione giuridica che sta alla base dell’azione costitutiva può essere qualificata in termini di vero e proprio potere processuale; si tratta di un potere processuale alla modificazione giuridica (attuata dal provvedimento del giudizio previo esercizio del potere mediante la proposizione della domanda giudiziale), che si identifica con il potere di azione concreta costitutiva37. Il dato certo, e su cui converge l’elaborazione dominante, è che, nelle azioni costitutive, l’effetto – la modificazione giuridica - è prodotto esclusivamente dal provvedimento giurisdizionale38, assumendo la domanda giudiziale – e cioè l’atto di esercizio dell’azione costitutiva – rilievo come mero elemento del procedimento39. Inoltre, in dottrina si distingue tra azioni costitutive necessarie e azioni costitutive non necessarie: le prime sono rappresentate da quelle azioni che tendono a un risultato conseguibile esclusivamente per via giurisdizionale (ad esempio il divorzio); le seconde, invece,
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Così, ad esempio, Motto, Azione, cit., par. 3. Come invece sembrano affermare, tra gli altri, Mandrioli – Carratta, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 2019, 48, secondo cui in caso di azione costitutiva si fa valere un diritto ad una modificazione giuridica o diritto potestativo alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico o di uno status personale. 36 Così invece, come accennato, Chiovenda, op. cit., 178 ss.; v. anche Menchini, op. cit., 168 ss.; Proto Pisani, op. cit., 177 ss. In questa linea di pensiero, se male non intendiamo, anche Chizzini, op. cit., 760 ss. 37 Motto, Azione, cit., par. 3; Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., VII, Torino, 1991, 83 ss.; Fornaciari, op. cit., 108 ss.; Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 143 ss. 38 Altra questione, di notevole portata sistematica, ma che non può essere affrontata in questa sede, attiene all’oggetto del processo e dunque del giudicato nei giudizi costitutivi. In breve – e ci sia perdonata la forzatura -, tutto ruota, in sostanza, intorno alla possibilità o meno di concepire il diritto potestativo come situazione giuridica oggetto dell’accertamento contenuto nella sentenza. Sul punto si rinvia, tra gli altri, a Menchini, op. cit., 139 ss.; Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo. I. Dei limiti oggettivi e del giudicato costitutivo, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1991, 215 ss.; Proto Pisani, op. cit., 178 ss.; Motto, Azione, cit., par. 4; Chizzini, op. cit., 761 ss.; Fornaciari, op. cit., 247 ss.; Dittrich, Il principio della domanda e l’oggetto del processo, in AA.VV., Trattato “Omnia” di diritto processuale civile, a cura di Dittrich, Torino, 2019, II, 1448 ss.; De Cristofaro, Giudicato e motivazione, in Riv. dir. proc. 2017, 41 ss.; per la negazione del carattere costitutivo delle azioni di impugnativa negoziale cfr. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, 197 ss., 305 ss.,). Mette conto segnalare che le Sezioni unite, con due pronunce gemelle del 2014 (Cass. sez. un. 12 dicembre 2014 n. 26242 e 26243), hanno stabilito che, nel sistema delle impugnative negoziali, oggetto del processo non è il diritto potestativo (all’annullamento, alla risoluzione o alla rescissione), ma il rapporto sostanziale o, per meglio dire, l’insieme delle situazioni giuridiche soggettive generate dal negozio. Su tale indirizzo giurisprudenziale non possiamo non richiamare gli autorevoli commenti, per lo più favoreli, di Menchini, Le sezioni unite fanno chiarezza sull’oggetto dei giudizi di impugnativa negoziale: esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratti, in Foro it. 2015, I, 931 ss. e di Pagni, Nullità del contratto. Il “sistema” delle impugnative negoziali dopo le sezioni unite, in Giur. it. 2015, 70 ss.; cfr. anche il commento critico di Bove, Rilievo d’ufficio della questione di nullità e oggetto del processo nelle impugnative negoziali, in Giur. it. 2015, 1386 ss. V. sul tema anche il commento di Giussani, Appunti dalla lezione sul giudicato delle sezioni unite, in Riv. dir. proc. 2015, 1560 ss. e l’analisi da ultimo riproposta, sempre a seguito del citato intervento nomofilattico, da Proto Pisani, Oggetto del processo e oggetto del giudicato nelle azioni contrattuali, in Foro it., 2016, V, 325 ss. 39 Motto, Azione, cit., par. 1. 35
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sono finalizzate a realizzare una modificazione giuridica che, invero, può essere attuata in via di autonomia privata (si pensi, ad es., alla possibilità di sciogliere consensualmente un vincolo contrattuale)40. Da questo punto di vista, per riallacciarci al nuovo orientamento nomofilattico in tema di interruzione della prescrizione nella garanzia per vizi del bene compravenduto, rileviamo senza esitazioni che nell’ipotesi dei rimedi edilizi entrano in gioco azioni costitutive non necessarie: qui la modificazione giuridica – la risoluzione del contratto di compravendita ovvero la riduzione del prezzo – può essere realizzata dalle parti, previo accordo sul punto; in mancanza di accordo, invece, l’univa via per ottenere il risultato predetto è quella giurisdizionale.
5. Azioni costitutive e interruzione della prescrizione. Posto che, ai sensi dell’art. 2934 c.c., la prescrizione si fonda sulla mancata realizzazione del contenuto del diritto in ragione dell’inerzia del titolare, tale presupposto viene meno ogni volta che l’interessato faccia valere il diritto di cui è titolare nei modi di legge, manifestando la pretesa alla soddisfazione dello stesso41. Idonei in tal senso sono gli atti indicati dall’art. 2943 c.c.; in particolare, la norma de qua, sembra delineare un rapporto tra la domanda giudiziale e l’atto di costituzione in mora tale che la prima rappresenta una tipologia – di attività idonea a interrompere la prescrizione – più ampia della seconda. Detto in altri termini, mentre la domanda giudiziale interrompe sempre la prescrizione e, se di condanna al pagamento o all’adempimento della prestazione, produce anche l’effetto della costituzione in mora42, l’atto stragiudiziale interrompe la prescrizione solo ove
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V., per tutti, Proto Pisani, Lezioni, cit., 181 ss.; Fornaciari, op. cit., 161 ss.; Motto, op. ult. cit., par. 2, il quale osserva che la distinzione de qua rispecchia il carattere disponibile o indisponibile del rapporto giuridico sottoposto a modificazione in base alle norme di diritto sostanziale che lo disciplinano, e che l’ordinamento prevede figure di azione costituiva nell’ambito della giurisdizione non contenziosa (c.d. giurisdizione volontaria), nell’ambito della giurisdizione contenziosa e, talora, in settori che si collocano quantomeno ai margini della giurisdizione contenziosa (si pensi alle azioni di interdizione o inabilitazione, alle azioni di divorzio, di annullamento o nullità del matrimonio, a quelle di disconoscimento della paternità; tuttavia, in dottrina, per la negazione del carattere costitutivo delle azioni di invalidità del matrimonio e di stato cfr. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale, cit., 453 ss., 492 ss.). 41 Così Gentile, Prescrizione estintiva e decadenza, Roma, 1964, 198. Secondo Grasso, Prescrizione e decadenza (dir. civ.), in Enc. Giur. Treccani, Il diritto on line, 2015, par. 9, mentre l’essenza della prescrizione è da cogliersi nel mancato esercizio del diritto, “l’essenza dell’interruzione va individuata nel fatto che gli atti interruttivi possano essere considerati indici della vitalità del diritto stesso”. 42 Consolo, Domanda, cit.,; Grisi, Mora del debitore, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. I, Torino, 2013, par. 1, rileva che la domanda giudiziale è atto idoneo a porre in mora il debitore. In giurisprudenza, è costantemente enunciato il principio secondo il quale quando l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale quale atto idoneo a porre in mora il debitore (cfr. Cass. 15 dicembre 1997 n. 12652); ancora, secondo la Suprema Corte, è sufficiente ad integrare atto di costituzione in mora una domanda giudiziale nella quale sia ravvisabile, indipendentemente dagli effetti processuali ad essa connessi, una richiesta di adempimento di una obbligazione rivolta dal creditore al proprio debitore (cfr., tra le altre, Cass. 5 luglio 1984 n. 3940).
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costituisca in mora il debitore, dunque solo in quanto contenga l’intimazione ad adempiere la prestazione dedotta nel rapporto obbligatorio. Del resto, secondo la dottrina e la giurisprudenza, la domanda giudiziale nulla43 come atto introduttivo del giudizio produce gli effetti della costituzione in mora, purché contenga la manifesta volontà del creditore di ottenere il soddisfacimento del suo diritto e giunga a conoscenza dell’obbligato44; in particolare, deve trattarsi di domanda di condanna (all’adempimento) e non di mero accertamento45. Occorre peraltro precisare che la nullità non può afferire a vizi relativi alla editio actionis, posto che in questo caso, ove intervenga la sanatoria del vizio secondo i meccanismi contemplati dall’art. 164, comma 5, c.p.c., restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla sanatoria stessa, onde si delinea l’inidoneità dell’atto di citazione invalido a interrompere la prescrizione del diritto oggetto della domanda46; è anche in tale prospettiva che, a nostro avviso, deve essere letta l’affermazione della Suprema Corte secondo cui l’atto di costituzione in mora non impone l’adozione di forme particolari, al di fuori della scrittura, e quindi non richiede l’osservanza di peculiari adempimenti, essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente con un qualsiasi scritto diretto al debitore e portato comunque a sua conoscenza la volontà di ottenere il soddisfacimento del suo credito47. Ora, posto che, come il diritto di credito, anche il diritto potestativo e l’azione costitutiva ineriscono sempre a una relazione qualificata sul piano giuridico tra soggetti determinati48, si tratta di verificare la fondatezza di quanto rilevato da chi ritiene che possa essere attribuita la stessa efficacia della costituzione in mora ad alcune attività che si svolgono al di fuori del rapporto obbligatorio, ad esempio – nell’ambito dell’annullamento contrattuale – l’intimazione alla controparte a restituire quanto sia stato prestato in attuazione del negozio annullabile49. Secondo tale impostazione, in tal caso, come nella costituzione in mora, diviene esplicita la volontà di far valere il proprio diritto, onde ricorre il medesimo motivo per il quale l’ordinamento attribuisce efficacia interruttiva alla costituzione in mora50; inoltre, nel caso
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Ad esempio per vizi di forma o per incompetenza dell’ufficiale giudiziario. Auricchio, op. cit., 96. Secondo la Cassazione l’atto di citazione nullo può valere come costituzione in mora e atto interruttivo della prescrizione essendo idoneo a portare nella sfera di conoscenza del debitore una richiesta di adempimento (cfr., tra le altre, Cass. 14 giugno 2007 n. 13966). 45 Azzariti – Scarpello, op. cit., 262; cfr. anche Consolo, Domanda, cit. 46 Mandrioli – Carratta, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 2019, 21. Pertanto, in caso di nullità derivante da vizi relativi alla editio actionis la sanatoria opera ex nunc (sul punto v. anche, tra gli altri, Dittrich, L’atto di citazione: contenuto, nullità iscrizione a ruolo, in AA.VV., Trattato “Omnia” di diritto processuale civile, a cura di Dittrich, Torino, 2019, II, 1534 ss.; in giurisprudenza, cfr., ex multis, Cass. 5 novembre 1998 n. 11149). 47 V. ad es. Cass. 24 maggio 2005 n. 10926. 48 Lener, op. cit., 628; Gazzoni, op. cit., 61. 49 Trimarchi, Prescrizione e decadenza, in Jus, 1956, 230 ss.; PANZA, Contributo allo studio della prescrizione, Napoli, 1984, 82-83; Auricchio, op. cit., 97-98; Oriani, Processo di cognizione, cit., 203. 50 V. ancora Trimarchi, op. cit., 230 ss.; Auricchio, op. cit., 98. 44
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de quo sarebbe rintracciabile un obbligo di comportamento da parte del contraente il cui consenso non sia stato viziato51. Sul piano pratico, il risultato al quale giunge tale ricostruzione coincide con quello al quale sono pervenute le Sezioni unite con la pronuncia del luglio 2019, che già abbiamo avuto modo di sottoporre a valutazione critica. Inoltre, il predetto ragionamento risulta a nostro avviso non convincente proprio in virtù dei caratteri strutturali dell’azione costitutiva; il punto merita un sia pur breve approfondimento. Intanto, osserviamo che la c.d. messa in mora è attività – qualificata e produttiva di determinati effetti52 - contemplata espressamente nell’ambito dell’inadempimento delle obbligazioni e che, come abbiamo visto nel primo paragrafo, consiste nella richiesta dell’avente diritto di ottenere, da parte del debitore obbligato, l’esecuzione della prestazione dovuta. Inoltre, una parte della dottrina53 sostiene che, in realtà, dell’atto de quo ciò che interessa ai fini ex art. 2943, u.c., c.c., non è l’idoneità a produrre gli effetti della mora (che potrebbero essersi già verificati, ad esempio ove si versi in ipotesi di mora ex re ai sensi del comma 2 dell’art. 1219 c.c.), bensì la capacità di esprimere l’intento che l’obbligazione sia adempiuta54; in questo ordine d’idee, l’espressione “atto che valga a costituire in mora” deve essere intesa nel senso che, ai fini interruttivi della prescrizione, basta l’astratta idoneità dell’atto a costituire in mora55. Ciò posto, occorre verificare se anche nelle azioni costitutive sia configurabile l’intimazione all’adempimento, ossia una intimazione a tenere un comportamento che consenta la realizzazione del diritto, idonea come tale a interrompere il decorso della relativa prescrizione. Abbiamo visto56 che l’ordinamento prevede figure di azione costituiva nell’ambito della giurisdizione non contenziosa (c.d. giurisdizione volontaria), nell’ambito della giurisdizione contenziosa e, talora, in settori che si collocano quantomeno ai margini della giurisdizione contenziosa. In particolare – per quanto interessa precipuamente ai fini del presente contributo -, nell’area della giurisdizione contenziosa, il potere di modificazione giuridica è attribuito a un soggetto in funzione della protezione di un suo interesse pregiudicato da uno stato antigiuridico; il provvedimento, modificando lo stato giuridico lesivo, rimuove il pregiudizio e contemporaneamente soddisfa l’interesse (si pensi al caso di colui che
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Oriani, op. loc. ult. cit. I quali essenzialmente attengono all’interruzione della prescrizione, allo spostamento sul debitore del rischio dell’impossibilità sopravvenuta (art. 1221, comma 1, c.c.) al risarcimento dei danni «per il ritardo» (art. 1223 ss. c.c.); cfr. sul punto MAZZARESE, op. cit., par. 7. 53 Anche in ragione della consolidata idea giurisprudenziale secondo la quale, ai fini dell’interruzione della prescrizione, l’atto di costituzione in mora, a parte il requisito scritto, non richiede l’uso di formule solenni né l’osservanza di particolari adempimenti, essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente la volontà di ottenere il soddisfacimento del proprio diritto, senza la necessità che l’atto rechi particolari indicazioni sull’ammontare del credito o sulle modalità di esecuzione 54 V., per tutti Oriani, Processo di cognizione, cit., 200 e nt. 67; Azzariti-Scarpello, op. cit., 261-262, secondo cui produce interruzione della prescrizione anche la richiesta o intimazione fatta al debitore che sia già in mora. 55 Panza, op. cit., 80, con il rilievo che tale soluzione ha finito con il prevalere su quella opposta (secondo la quale invece, ove la mora si sia verificata indipendentemente dall’atto stragiudiziale notificato, non può parlarsi di effetto interruttivo dello stesso). 56 V. retro nota 39. 52
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abbia concluso un contratto prestando un consenso viziato e che per ciò può chiedere l’annullamento; oppure a quello della parte adempiente che, dinanzi all’inadempimento dell’altra parte, può chiedere la risoluzione; o, ancora, alla posizione del cittadino, a fronte di un provvedimento amministrativo per lui pregiudizievole, il quale può impugnare l’atto e chiedere al giudice una decisione che ne determini la caducazione e ne rimuova gli effetti)57. Questa logica è rintracciabile, ad esempio, anche nel caso della tutela della parte del contratto preliminare, la quale, a fronte del rifiuto dell’altra parte a stipulare il contratto definitivo, può agire in giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c. per chiedere l’emissione di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Peraltro, in un caso come questo l’interesse leso è un diritto soggettivo e il comportamento antigiuridico che lo pregiudica consiste nell’inadempimento di un obbligo contrattuale; ciò nondimeno, qui l’ordinamento consente al titolare del diritto di reagire all’inadempimento non con un’azione di condanna ma con un’azione costitutiva, finalizzata ad ottenere un provvedimento che, se concesso, realizza gli effetti che avrebbe prodotto il contratto definitivo non stipulato58. Posto ciò, il dato da rimarcare è che non tutte le ipotesi di tutela costitutiva presuppongono un obbligo di collaborazione giuridica, il cui inadempimento sia, per così dire, sanzionato e sostituito attraverso la modificazione giuridica operata dal giudice. In un contesto concettuale e ricostruttivo piuttosto dibattuto59 e controverso rispetto ad alcune fattispecie che danno luogo ad azioni costitutive60, a nostro avviso è da escludere
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Spunti in questo senso in Motto, Azione, cit., par. 2; Proto Pisani, Lezioni, cit., 182; Montesano, op. cit., 144. V. anche Consolo, Oggetto del giudicato, cit., 159; Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 365. 58 V., per tutti, Motto, Azione, cit., par. 2. 59 Alcuni optano per la vigenza di un obbligo di prestarsi alla produzione consensuale della modificazione giuridica, almeno nelle ipotesi di tutela costitutiva finalizzata a creare un rapporto o un diritto e, ovviamente, eccezion fatta per i casi di tutela costitutiva necessaria (cfr., ad es., Proto Pisani, Lezioni, cit., 179-180; Fazzalari, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, 163 ss. nt. 74); altri tendono a negare l’esistenza dell’obbligo (cfr., tra gli altri, Attardi, L’interesse ad agire, Padova, 1955, 153 ss.; Ferri, op. cit., 51 ss.; secondo Consolo, Oggetto del giudicato, cit., 159, con l’azione costitutiva l’interessato intende far rimuovere una situazione antigiuridica, la quale non vi sarebbe se avesse (avuto) luogo la cooperazione di un altro soggetto; ma tale cooperazione, di regola, non costituisce il contenuto di un obbligo ad attivarsi sul piano dell’autonomia privata per riparare il predetto stato di antigiuridicità, né risulta configurabile in capo al titolare dell’azione un diritto di credito (ma rimane estranea a questa logica la tutela ex art. 2932 c.c. e quella di cui all’art. 1032 c.c., ove emerge l’inadempimento rispetto all’obbligo di prestare una dichiarazione di volontà). Per più copiosi riferimenti in merito al didattito de quo, v. Fornaciari, op. cit., 115 ss., nt. 23.4). 60 In dottrina, una fattispecie in parte qua molto discussa è quella relativa ai modi di costituzione delle servitù (art. 1032 c.c.); si stabilisce che, quando per legge il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere dal proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, questa, in mancanza di contratto, è costituita con sentenza. Secondo una parte degli interpreti, tale ipotesi di tutela costitutiva è analoga a quella ex art. 2932 c.c., infatti in tal caso la tutela è ricostruita in termini di strumento di attuazione coattiva – dunque con spiccata funzione esecutiva – di pretese insoddisfatte a cagione dell’inadempimento dell’obbligo di emettere una dichiarazione di volontà (così, tra gli altri, Proto Pisani, Lezioni, cit., 180, il quale allinea a tali fattispecie anche le ipotesi del tipo dichiarazione giudiziale di paternità e maternità ex art. 269 c.c.; Consolo, Oggetto del giudicato, cit., 159; anche per Fornaciari, op. cit., 117 ss., la tutela costitutiva ex art. 1032 c.c., così come quella ex artt. 874 e 875 c.c. - in materia di comunione del muro di confine – e come l’ipotesi della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, implica (la violazione di) un obbligo di collaborazione nella produzione dell’effetto giuridico; l’A. esclude invece la configurazione di un obbligo di rimuovere l’effetto in quei casi di tutela costitutiva che si esprime attraverso l’impugnazione di atti unilaterali o consensuali). Secondo altri autori, invece, l’art. 1032 c.c. non contrappone una pretesa ad un obbligo rimasto inadempiuto e, per così dire, attuato dalla sentenza costitutiva, ma esprime una mera soggezione all’altrui volontà; inoltre, dev’essere rigettato l’inserimento del riconoscimento del figlio nel novero degli atti dovuti,
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ad esempio che, nell’ambito delle c.d. impugnative negoziali, e dunque nella prospettiva di rimuovere gli effetti del contratto o comunque di far venir meno il vincolo negoziale (a maggior ragione se si tratti di azione costitutiva necessaria), sia configurabile un obbligo in capo alla controparte; analogo discorso può essere formulato anche con riguardo a quelle situazioni nelle quali la tutela costitutiva è finalizzata alla rimozione di un effetto prodotto da un atto unilaterale (ad esempio l’impugnazione di provvedimento amministrativo di espropriazione)61. In queste ipotesi non può entrare in gioco un’attività con la quale, alla stregua della costituzione in mora, si faccia valere stragiudizialmente una pretesa alla modificazione giuridica (ad esempio, il diritto all’annullamento ovvero alla risoluzione del contratto), proprio perché nessun comportamento attivo, nell’ottica del soddisfacimento del diritto, può essere preteso dalla controparte62. Il medesimo ragionamento, con tutta evidenza, vale anche per la tutela approntata dagli artt. 1492 ss. c.c., anche in considerazione del consolidato indirizzo secondo il quale la garanzia per vizi, sul piano rimediale, consiste esclusivamente nella scelta tra azione di risoluzione e azione di riduzione del prezzo, non potendo il compratore avvalersi di un’azione vòlta all’eliminazione dei vizi63. Se quanto testé osservato è corretto, la conseguenza è che nei predetti casi di tutela costitutiva nessuna attività stragiudiziale di intimazione ad adempiere è esercitabile, onde non è invocabile in parte qua l’art. 2943, u.c., c.c.64. Né, d’altro canto, può avere alcuna efficacia interruttiva della prescrizione dell’azione costitutiva l’intimazione stragiudiziale con la quale si chiedono le restituzioni conseguenziali alla modificazione giuridica derivante, ad esempio, dall’annullamento o dalla risoluzione del contratto. Chi afferma il contrario, a nostro avviso, trascura la relazione che intercorre tra la domanda costitutiva e quella che, per comodità, potremmo definire la pretesa restitutoria conseguenziale. Invero, il riconoscimento di tale pretesa dipende, giuridicamente, dal previo accertamento positivo circa i presupposti della modificazione giuridica; tra la domanda costitutiva
surrogali in via di azione costitutiva (cfr., tra gli altri, Sassani, op. cit., 39 ss.). Ci pare che in questo senso sia orientata la dottrina assolutamente prevalente (cfr. Fornaciari, op. cit., 120 ss.; Consolo, Oggetto del giudicato, cit., 258 ss., e nt. 95; Sassani, op. cit., 33 ss.; PROTO Pisani, Lezioni, cit., 182). 62 In parte qua, in dottrina si è osservato che non ha senso porre in mora la controparte rispetto a un adempimento (annullamento, risoluzione, rescissione ecc.) che non è nei suoi poteri; alla base di tale osservazione risiede l’idea che non rientrerebbe tra i poteri delle parti contraenti quello di annullare, risolvere o rescindere il negozio, potendo esse, al più, stipulare un nuovo negozio che, con efficacia ex nunc, rimetta le cose nello status quo ante, mentre solo la sentenza del giudice potrebbe potrebbe caducare il contratto con effetti ex tunc (cfr. Gentile, op. cit., 204). A nostro avviso, il ragionamento deve essere formulato nei seguenti termini: a seguito della stipulazione di un contratto, le parti hanno il potere di farlo venire meno e di accordarsi dunque anche sulle restituzioni; in caso di mancanza di accordo, la parte che intende mantenere in vita il contratto non è obbligata a prestare il consenso per conseguire lo scioglimento del vincolo (donde – a nostro avviso – l’inapplicabilità del meccanismo della costituzione in mora); in mancanza di accordo circa lo scioglimento del negozio, a tutela della parte a ciò interessata residua solo l’azione in giudizio, il cui accoglimento dipende dalla sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per la modificazione giuridica. 63 Sul punto, v. anche retro note 17-18. 64 Per un recente riscontro nel senso che la prescrizione di cui all’art. 1495, comma 3, c.c. può essere interrotta solo con la proposizione della domanda giudiziale v. anche D’onofrio, Le Sezioni Unite sull’interruzione della prescrizione, cit.; Id., Interruzione, cit., 1021 ss. 61
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e la pretesa restitutoria si configura una relazione di pregiudizialità-dipendenza65. In particolare, in questo caso, la connessione è da qualificarsi in termini di c.d. pregiudizialità costitutiva, posto che la pretesa restitutoria dipende non già da un diritto o da un rapporto che si assume come esistente, ma dall’attuazione di una modificazione giuridica sostanziale; il diritto, cioè, nasce solo a seguito della produzione dell’effetto costitutivo66. In questo caso, insomma, è la sentenza, che accoglie l’azione costitutiva, a far sorgere il diritto67. E allora, se la prescrizione è interrotta da un’attività attraverso la quale un soggetto fa valere un diritto di cui è (o comunque si afferma) titolare, nessuna efficacia interruttiva può dispiegare un atto che faccia riferimento a un diritto tecnicamente non esistente; la modificazione giuridica, che in mancanza di accordo tra le parti – se si tratti di rapporto disponibile – può essere ottenuta solo per via giudiziale, è pregiudiziale rispetto all’esistenza della pretesa restitutoria, onde quest’ultima non può essere fatta valere in via stragiudiziale prima che sia intervenuto il provvedimento giurisdizionale costitutivo68. In altre parole, chi scrive ritiene che nulla vieti al titolare dell’azione costitutiva di intimare, per iscritto in via stragiudiziale, le restituzioni derivanti, ad esempio, dalla caducazione del vincolo contrattuale; ciò non toglie, però, che – ove manchi la disponibilità della controparte, trattandosi di rapporto relativo a situazioni giuridiche disponibili, a risolvere la controversia in via negoziale - tale soggetto debba, entro il termine di prescrizione all’uopo previsto, proporre la domanda giudiziale costitutiva69.
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Il che significa che l’esistenza e il modo di essere di un certo diritto (dipendente) è condizionata dall’esistenza e dal modo di essere di un altro diritto o rapporto (pregiudiziale); il diritto (o il rapporto) pregiudiziale è tale poiché è elemento costitutivo del diritto dipendente, onde quest’ultimo può essere accertato solo previo accertamento positivo del primo (sul punto, si rinvia per tutti a Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2015, pp. 159 ss.). 66 S. Menchini – A. Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Gabrielli, Luiso e Vassalli, II, Torino, 2014, 411 ss., con approfondimenti circa la distinzione tra pregiudizialità costitutiva e non costitutiva; sul concetto di pregiudizialità costitutiva cfr anche M. Montanari, Verificazione del passivo fallimentare e cause connesse, in Giur. comm. 2016, pp. 146 ss.; Id., Omessa pronuncia e decisione implicita in sede di verificazione dello stato passivo, in Fall. 1996, 1157 ss. nota 41. V. anche, se vuoi, Campione, Revocatoria fallimentare e pretese restitutorie contro un altro fallimento: problemi e prospettive processuali, in Il dir. fall. e delle soc. comm., 2019, 772 ss. 67 Il discorso, invero, si lega necessariamente al più ampio tema della cognizione incidentale costitutiva, del quale non è possibile occuparsi compiutamente in questa sede [Fornaciari, op. cit., 42 ss., partendo dall’assunto della necessità della sentenza affinché l’effetto di produca, tende ad escludere l’ammissibilità del rilievo incidentale dell’effetto costitutivo; si tratta comunque di un argomento discusso (si veda, anche per una sintesi del dibattito, Locatelli, L’accertamento incidentale ex lege: profili, Milano, 2008, 84 ss.; in argomento v. anche Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, 287 ss.; Denti, Questioni pregiudiziali (Diritto processuale civile), in Noviss. Dig. It., XIV, Torino, 1967, 676; Recchioni, Pregiudizialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999, 230 ss.; Ferri, op. cit., 127 ss.; Id., Sulla cognizione incidentale con effetti costitutivi, in Riv. dir. proc. 1971, 748 ss.). Sul punto, mette conto segnalare che, secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza, la volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo implicitamente essere contenuta in altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione, come appunto la domanda di restituzione della somma corrisposta per una prestazione inadempiuta (cfr., tra le altre, Cass. 5 ottobre 2009 n. 21230; Cass. 16 settembre 2013 n. 21113; Cass. 23 ottobre 2017 n. 24947; Trib. Roma 19 luglio 2018 n. 15038). 68 Con riferimento alle azioni edilizie, a critica della pronuncia delle Sezioni unite del luglio 2019, conclude in senso analogo D’onofrio, op. cit. 69 A nostro avviso, del resto, per rimanere sul terreno delle impugnative negoziali, nemmeno l’eventuale riconoscimento del vizio o dell’inadempimento ad opera della controparte consentirebbe di interrompere la prescrizione (cfr. anche Gentile, op. cit., 204), se tale riconoscimento non si traduce in un accordo circa lo scioglimento del vincolo contrattuale. Riteniamo di poter formulare analoga riflessione anche con riguardo alle azioni c.d. edilizie previste nell’ambito della garanzia per
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In conclusione, il decorso del termine prescrizionale nelle azioni costitutive non può essere interrotto attraverso un’intimazione stragiudiziale70, se non in quei casi nei quali la tutela costitutiva, nell’ottica di protezione di un diritto soggettivo (ovviamente soggetto a prescrizione)71, serve a porre rimedio all’inadempimento di un obbligo, come nell’ipotesi di cui all’art. 2932 c.c.
6. Breve rassegna giurisprudenziale. La lettura da noi proposta è riscontrata in senso positivo dalla copiosa giurisprudenza che si è espressa sul tema della interruzione della prescrizione nella varie ipotesi di azioni costitutive; senza indugiare eccessivamente, ci limitiamo a dar conto di alcune pronunce. Così, coerentemente con la ricostruzione dell’actio pauliana ex art. 2901 c.c. e della revocatoria fallimentare come azioni costitutive72, la Cassazione, per entrambe le ipotesi, ritiene che l’interruzione della prescrizione possa conseguire solo alla proposizione della domanda giudiziale73. In tema di risoluzione del contratto, la Suprema Corte, nel confermare che il termine di prescrizione non può essere interrotto con un atto di costituzione in mora, ha ribadito che gli atti stragiudiziali contemplati dall’art. 2943 u.c., prima parte, c.c., possono produrre l’effetto interruttivo “limitatamente ai diritti ai quali corrisponde nel soggetto passivo un dovere di comportamento”74. Un ragionamento analogo è stato elaborato anche con
i vizi del bene oggetto di compravendita: l’art. 1492, comma 1, come già indicato, prevede la possibilità di scelta tra richiesta di risoluzione e richiesta di riduzione del prezzo (salvo che, per certi vizi, gli usi escludano la risoluzione; inoltre, in caso di risoluzione – art. 1493 – il venditore è tenuto a restituire il prezzo e rimborsare il compratore delle spese e dei pagamenti sostenuti in ragione della vendita); il comma 2 aggiunge che la scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale. La norma, dunque, sembra contemplare espressamente la possibilità che la tutela de qua venga “significata” alla controparte in via stragiudiziale; ma ciò non significa anche che tale eventuale comunicazione abbia efficacia ai fini dell’interruzione della prescrizione; al contrario, essa rappresenta il meccanismo per far presente al venditore l’intenzione di avvalersi della garanzia per stimolare una soluzione negoziale che, se non raggiunta, comporta la necessità di proporre la domanda in sede giurisdizionale nel termine previsto dall’art. 1495, comma 3, c.c. 70 Peraltro, mette conto segnalare che il ragionamento sin qui esposto muterebbe radicalmente ove si ritenesse che le azioni costitutive, in realtà, sono soggette a decadenza e non a prescrizione, ad onta del dettato legislativo che, ad esempio, nell’annullamento, nella rescissione e nelle azioni edilizie qualifica espressamente il termine come prescrizionale (in questo senso, in dottrina, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Padova, 2017, 490-491). Tuttavia, anche di recente, la dottrina civilistica, nella prospettiva di respingere la tesi secondo cui la prescrizione estingue l’azione e non il diritto (o meglio, il rapporto), ha ribadito la prescrittibilità delle azioni costitutive (cfr. Grasso, Prescrizione e decadenza, cit., par. 6). 71 Tale non è, ad esempio, il diritto di chiedere la costituzione coattiva di servitù, di cui all’art. 1032 c.c. richiamato supra (cfr. sul punto Gazzoni, op. cit., 268); sempre con riferimento a profili ai quali si è prima fatto cenno, mette conto ricordare che, ai sensi dell’art. 270, comma 1, c.c., l’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità è imprescrittibile riguardo al figlio, mentre ove questi muoia prima di avere iniziato l’azione, questa può essere promossa dai discendenti entro il termine di due anni dalla morte, che è considerato di decadenza e non di prescrizione (cfr. Trib. Treviso 5 maggio 2009). 72 Per la revocatoria ordinaria cfr. Cass. 24 agosto 2016 n. 17311; per la revocatoria fallimentare v. Cass. Sez. un. 15 giugno 2000 n. 437 e Cass. Sez. un. 23 novembre 2018 n. 30416 73 Cass. 15 febbraio 2007 n. 3379; Trib. Modena 13 marzo 2007 n. 515. 74 Cass. 3 dicembre 2003 n. 18477.
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riferimento all’azione di annullamento (segnatamente di un licenziamento)75 e a quella di rescissione76. Nelle pronunce testé segnalate la Cassazione ha sempre basato il proprio impianto argomentativo sull’esistenza in capo al titolare dell’azione, nei casi de quibus, di un diritto potestativo, a fronte del quale l’altra parte versa in una situazione di mera soggezione è non è affatto gravata da un obbligo in senso tecnico. Sempre in sintonia con il ragionamento articolato nel precedente paragrafo, rileviamo che bene ha fatto la Cassazione, da un lato, a specificare che l’azione ex art. 2932 c.c. è sempre esperibile ove il diritto al consenso a stipulare il contratto definitivo non si sia prescritto; dall’altro lato, a rigettare l’assunto secondo il quale, nell’ambito di tale forma tutela, l’unico atto idoneo a interrompere la prescrizione è la (notifica della) citazione, posto che ben può operare il disposto dell’ultimo comma dell’art. 2943 c.c., secondo il quale la prescrizione è interrotta da ogni altro atto idoneo a costituire in mora il debitore77; in questa ipotesi, infatti, la tutela costitutiva è approntata per “reagire” all’inadempimento di un’obbligazione, ed è finalizzata ad attuare lo stato giuridico che si sarebbe realizzato ove non avesse avuto luogo l’inadempimento.
7. Domanda di arbitrato e prescrizione. Un ultimo spunto merita il tema dell’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda di arbitrato, sempre nell’ambito delle azioni costitutive. Dopo aver richiamato a tal fine l’atto di costituzione in mora, l’ultimo comma dell’art. 2943 c.c. assegna capacità interruttiva anche all’atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri. Mette conto ricordare che, in tema di rapporti tra arbitrato e prescrizione, la disciplina deve essere completata richiamando il disposto dell’art. 2945, comma 4, c.c., ai sensi del quale in caso di arbitrato la prescrizione non corre dal momento della notificazione dell’atto contenente la domanda di arbitrato sino al momento in cui il lodo che definisce il giudizio non è più impugnabile o passa in giudicato la sentenza resa sull’impugnazione78.
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Cass. 13 settembre 1993 n. 9502. Cass. 17 marzo 2017 n. 6974. 77 Cass. 15 maggio 2015 n. 10009. Posto che l’atto stragiudiziale di costituzione in mora deve contenere la richiesta alla controparte di eseguire la prestazione oggetto di obbligazione, nel caso de quo la parte interessata deve chiedere alla controparte di prestare il consenso alla conclusione del contratto definitivo, ad esempio – laddove sia spirato vanamente il termine per tale stipulazione ovvero quest’ultimo non sia stato fissato – intimando di presentarsi in una certa data presso un certo notaio per la stipulazione del rogito definitivo di compravendita. 78 Le norme de quibus sono state introdotte ad opera della legge 5 gennaio 1994, n. 25 76
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Ora, data la formulazione dell’art. 824 bis c.p.c., sulla base del quale il lodo rituale, salva l’esecutività, ha dalla data della sua ultima sottoscrizione l’efficacia della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, viene automatico sostenere che, nell’ottica dell’interruzione della prescrizione, domanda giudiziale e domanda di arbitrato rituale siano equipollenti, proprio in ragione dell’equipollenza tra sentenza e lodo rituale; donde il rilievo che, compromessa in arbitri (rituali) una controversia da decidere con un lodo costitutivo – il che, ovviamente, è concepibile solo ove la lite coinvolga diritti disponibili -, la prescrizione del diritto può essere interrotta solo dalla domanda di arbitrato (rituale). Casomai il dubbio è se alla stessa conclusione possa pervenirsi anche ove una siffatta controversia sia devoluta ad arbitri irrituali. Va ricordato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale espresso in un clima culturale, per così dire, di avvicinamento tra i due tipi di arbitrato79, quanto disposto circa la domanda di arbitrato e i relativi effetti sulla prescrizione si applica anche al tipo irrituale80. La riforma del 2006, con l’introduzione, oltre al citato art. 824 bis c.p.c., dell’art. 808 ter c.p.c. appositamente dedicato all’arbitrato irrituale, ha – per qualcuno – voluto segnare la profonda distanza, sul piano della natura giuridica, tra le due species arbitrali, determinando così un netto disallineamento anche sul piano della disciplina applicabile. Non è questa la sede per riproporre i termini di un dibattito tra i più accesi e pregnanti in seno alla dottrina processualcivilistica italiana; ci limitiamo a ribadire che, a nostro avviso, è più convincente l’impostazione secondo la quale l’arbitrato irrituale, espletando la medesima funzione (decisoria) dell’arbitrato rituale, condivide con quest’ultimo anche la struttura processuale, mentre se ne differenzia in quanto si conclude con un lodo che, per espressa previsione normativa – arg. ex. artt. 808-ter, 824-bis e 825 c.p.c. -, non è soggetto all’omologazione ai fini dell’esecutività e non è recepito dall’ordinamento come un equipollente della sentenza, bensì come determinazione contrattuale, donde la soggezione al regime processuale degli atti negoziali anziché a quello delle sentenze (come invece è previsto, in linea di massima, per il lodo rituale ai sensi degli artt. 827 ss. c.p.c.)81. Sicché, in una buona
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Ci si riferisce alla fase storica culminata nella nota sentenza Cass., sez. un., 3 agisto 2000, n. 527, tra l’altro in Riv. dir. proc., 2001, 254 ss., con nota di Ricci E.F., La natura dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni Unite; in Corr. giur., 2001, 51 ss., con note di Consolo-Ruffini-Marinelli, Le Sezioni Unite fanno davvero chiarezza sui rapporti fra arbitrato e giurisdizione?; in Foro pad., 2002, 34 ss., con nota di Rubino Sammartano, Vittoria di tappa – Arbitrato irrituale come processo: un sogno impossibile?; in Riv. arb., 2000, 704 ss., con nota di Fazzalari, Una svolta attesa in ordine alla natura dell’arbitrato. Con tale pronuncia, in sostanza, le Sezioni unite hanno sostenuto la natura negoziale (unitaria) del fenomeno arbitrale, donde lo sviluppo di un’elaborazione giurisprudenziale secondo cui il discrimine tra i due tipi arbitrali deve fondarsi sulla circostanza che nell’arbitrato rituale le parti “intendono ottenere un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime formale di cui agli artt. 816 e ss. c.p.c., mentre in quello irrituale esse si propongono di rimettere all’arbitro la soluzione di controversie insorte o insorgende soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibili alle stesse parti, le quali si impegnano ad accettare la decisione come espressione della loro volontà” (cfr. Cass. 30 agosto 2002 n. 12714). 80 Cass. 5 dicembre 2001 n. 15410. 81 Si tratta di una concezione che, sia pure con una certa eterogeneità di sfumature, ha amplissimo seguito in dottrina (v., tra gli altri, e per limitarsi alle elaborazioni dottrinarie successive alla novella del 2006, Luiso, Diritto processuale civile, V, Milano, 2015, 135 ss.; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2012, 253 ss.; Ruffini, L’arbitrato come equivalente della giurisdizione statuale: linee evolutive, in Riv. dir. proc. 2018, 1 ss.; Id., L’efficacia del lodo arbitrale nell’ordinamento italiano, in Riv. arb. 2019,
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sostanza, la differenza tra i due modelli arbitrati non risiederebbe in una diversa natura giuridica – giurisdizionale, il rituale; contrattuale o comunque negoziale, l’irrituale -, di tal che il tipo irrituale sia ontologicamente un aliud rispetto al tipo rituale, ma semplicemente nella soggezione del dictum irrituale a un regime processuale diversificato rispetto al lodo rituale, che come tale segue, in linea di massima, il regime della sentenza del giudice. Peraltro, a nostro avviso, la risposta positiva circa l’idoneità della domanda di arbitrato irrituale a interrompere la prescrizione del diritto anche in caso di azione costitutiva prescinde dal ragionamento testé articolato. Intanto va osservato che anche il procedimento per arbitrato irrituale è caratterizzato da una fase introduttiva: si dice giustamente che esso può cominciare con qualunque atto, pure informale, purché emergano con chiarezza la volontà di avviare l’arbitrato e l’oggetto della controversia e, ovviamente, sia rispettato il fondamentale principio del contraddittorio82. Ciò posto, occorre tener conto che, ove la lite sia oggetto di convenzione di arbitrato irrituale – e ciò è possibile per ogni controversia che abbia ad oggetto situazioni giuridiche disponibili -, per un verso, la parte non può beneficiare dell’effetto interruttivo della domanda giudiziale, visto che in tale ipotesi la domanda de qua non può essere proposta; per altro verso, si versa in una situazione in cui le parti non hanno trovato direttamente la soluzione negoziale della lite ma si sono accordate sul mezzo risolutivo della stessa. E atteso che nell’ambito delle azioni costitutive non necessarie la modifica giuridica può essere realizzata direttamente dalle parti, allorché queste si sono rimesse all’arbitrato irrituale sarà il lodo a determinare tale modifica, alla medesima stregua di una sentenza, di un lodo irrituale ovvero, come detto, di un negozio direttamente stipulato dalle parti. Se ne ricava che, laddove la controversia – supponiamo: l’annullamento o la risoluzione del contratto - sia devoluta ad arbitri irrituali, l’unica modalità per interrompere la prescrizione è la proposizione della domanda di arbitrato, mentre nessuna efficacia interruttiva avrebbe l’eventuale intimazione stragiudiziale, dato che, in parte qua, si confermerebbero, de plano, i rilievi precedentemente svolti, restando invariati i caratteri strutturali dell’azione costitutiva83. A ragionar diversamente – e cioè a negare efficacia interruttiva alla domanda arbitrale irrituale - si finirebbe con il legittimare una situazione nella quale alla parte sarebbe in toto preclusa la possibilità di interrompere la prescrizione di un diritto prescrittibile; il che è intuitivamente inconcepibile.
239 ss.; Sassani, L’arbitrato irrituale, in Trattato di diritto dell’arbitrato, I, I profili generali, diretto da Mantucci, Napoli, 2019, 303 ss.; v. anche Fornaciari, Gli effetti del lodo e il falso problema della natura negoziale oppure giurisdizionale dell’arbitrato, in Riv. arb. 2015, 247 ss.; Monteleone, Il cd. Arbitrato irrituale previsto dall’art. 808-ter c.p.c., in Auletta - Califano - Della Pietra - Rascio (a cura di), Sull’arbitrato. Studi oggerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 552); per la ricostruzione del dibattito e per una disamina meno approssimativa delle varie ricostruzioni ci sia consentito rinviare a Campione, Arbitrato rituale e irrituale; arbitraggio e perizia contrattuale, in AA.VV., Trattato “Omnia” di diritto processuale civile, a cura di Dittrich, Torino, 2019, IV, 4992 ss. 82 Cfr. Biavati, Sub art. 808 ter, in CARPI (a cura di), Arbitrato, Bologna, 2016, 220, il quale inoltre – e condivisibilmente – ritiene applicabile anche in caso di arbitrato irrituale il 2943 u.c. 83 Ovviamente, come illustrato in precedenza, discorso diverso vale ove, ad esempio, agli arbitri irrituali fosse devoluta una controversia ex art. 2932 c.c.; sul punto v. la nota successiva.
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Peraltro, tale conclusione potrebbe essere messa in crisi dal rilievo in base al quale agli arbitri irrituali è preclusa la possibilità di dispensare tutela costitutiva. Pure questo tema stimola riflessioni di più ampia portata sistematica che non possono essere sviscerati in questa sede; ci limitiamo ad osservare che la prospettiva di decisioni costitutive irrituali è stata avallata dalla giurisprudenza anche prima della riforma del 200684, e che comunque la negazione di tale possibilità, a nostro avviso, contrasta palesemente con la disciplina dell’arbitrato e, in particolare, con l’art. 808 ter c.p.c.85. Viceversa, la dimensione differenziale tra i due tipi arbitrali torna a nostro avviso rilevante nell’ottica dell’applicazione dell’art. 2945, u.c., c.c.86. Le esigenze di certezza giuridica che si legano alla prescrizione e al giudicato, non consentono che la sospensione della prescrizione si protragga per tutto il tempo necessario affinché il lodo non sia più impugnabile (o passi in giudicato la sentenza resa sull’impugnazione), posto che, proprie per la diversità di regime, per il lodo irrituale, da un lato, non è predicabile, almeno sul piano formale, il concetto di passaggio in giudicato; dall’altro lato, è – ex art. 808 ter, comma 2, c.p.c. – annullabile secondo le disposizioni del libro I, dunque nel termine – quinquennale – di annullamento dei contratti87.
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Cfr. Cass. 30 ottobre 1991, n. 11650, secondo cui “nel caso di promessa di vendita immobiliare con clausola per arbitrato irrituale, la parte, cui il promittente venditore si sia rifiutato di trasferire il bene, può ottenere dagli arbitri una pronuncia di contenuto ed effetti analoghi a quelli della sentenza prevista dall’art. 2932 c.c.” Va peraltro soggiunto che il ragionamento della Cassazione, nella prospettiva di ammettere, per così dire, esiti costitutivi in entrambe la modalità arbitrali, sembra basarsi su una impostazione di fondo che fa leva sulla asserita differente natura dei due lodi. Infatti, mentre nell’arbitrato rituale la prospettiva della tutela costitutiva sembra essere accolta in ragione dell’equipollenza con la giurisdizione, di guisa che in sede arbitrale (rituale) con la domanda introduttiva la parte propone un’azione costitutiva; nell’arbitrato libero, invece, tale possibilità è ammessa nel senso che gli arbitri sono inquadrati come mandatari delle parti i quali, mediante il lodo, attuano una regolamentazione negoziale del conflitto che produce gli stessi effetti che, ove la controversia fosse stata decisa in sede giudiziale, avrebbe prodotto la sentenza costitutiva (cfr. anche Romito, Nota sul potere degli arbitri di rendere sentenze costitutive, in Giur. it., 1996, 4 ss.) 85 Dato che: i) salvo espresso divieto di legge, gli arbitri possono decidere tutte le controversie relative a diritti disponibili; ii) se decidono in modalità rituale, il lodo è recepito come atto equipollente alla sentenza giurisdizionale; iii) le parti, però, possono espressamente prevedere di far decidere la controversia mediante determinazione contrattuale, e ciò in deroga all’art. 824 bis; iv) dunque la differenza tra le due modalità decisorie risiede nel regime del dictum arbitrale, non nel tipo di controversia decisa, dunque nel tipo di tutela – ovviamente rientrante nel genus della tutela dichiarativa – concessa. Sicché non si vede come si potrebbe negare, ad esempio, una volta deferita agli arbitri irrituali la controversia sorta dall’inadempimento contrattuale di una delle parti ovvero dal vizio del consenso di uno dei contraenti [segnaliamo, per incidens, che tale scenario è maggiormente immaginabile in caso di clausola compromissoria contrattuale, rispetto alla quale la dottrina ritiene applicabile, anche in sede irrituale, il principio di autonomia (cfr. Cfr. Zucconi Galli Fonseca, Sub art. 806, in AA.VV., La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 51)], la possibilità per gli arbitri di pronunciare la risoluzione o l’annullamento del contratto; effetti che – si ripete – ben potrebbero essere conseguiti direttamente dalle stesse parti. 86 Esclude l’applicazione di tale norma all’arbitrato irrituale anche Biavati, op. cit., 220. 87 Sul punto, cfr., se vuoi, Campione, Le impugnazioni dei lodi, in AA.VV., Trattato “Omnia” di diritto processuale civile, a cura di Dittrich, Torino, 2019, IV, 5401; v. anche Sassani, L’arbitrato, cit., 315 ss.
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Azione revocatoria e fallimento nel prisma della tutela patrimoniale Sommario: 1. Lo stato del dibattito e l’insoddisfazione per le soluzioni prospettate. – 2. Il dibattito relativo all’inquadramento sistematico delle azioni revocatorie nella dottrina tedesca. – 3. La già acquisita distinzione tra assetti proprietari e patrimoniali nella giurisprudenza della Suprema Corte. – 4. Conclusione: fallimento e azione revocatoria come discipline complanari.
L’autore approfondisce, anche in chiave comparatistica, i rapporti tra disciplina del fallimento e tutela revocatoria, sostenendone la piena compatibilità giuridica e giungendo alla conclusione della perfetta ammissibilità e opponibilità, nei confronti del curatore e dei creditori concorsuali, dell’azione revocatoria esercitata allorché il terzo sia già stato dichiarato fallito. The author examines, also from a comparative point of view, the relationship between bankruptcy and avoidance actions, supporting their compatibility and reaching the conclusion of the admissibility and enforceability, against insolvency proceedings, of the avoidance action exercised when the defendant has already been declared bankrupt.
1. Lo stato del dibattito e l’insoddisfazione per le soluzioni prospettate.
Il questione della sorte dell’azione revocatoria proposta contro un fallimento (rectius, contro un soggetto già dichiarato fallito) ha catalizzato su di sé negli ultimi mesi l’attenzione e la curiosità di operatori e studiosi del settore. La circostanza non può stupire, trattandosi a ben vedere di una di quelle tematiche che portano inevitabilmente a interrogarsi sulla bontà delle categorie concettuali – e dunque, indirettamente, delle direzioni di ricerca – su cui la dottrina è venuta elaborando nell’ultimo secolo il proprio edificio dogmatico.
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Questa, in breve, l’origine dell’interesse per la questione: un fallimento proponeva revocatoria ex art. 66 l.fall. nei confronti di altro fallimento perché venisse dichiarata l’inefficacia di un atto di compravendita stipulato a prezzo vile allorché i due imprenditori erano ancora in bonis. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda e dichiarava l’inefficacia dell’atto impugnato; la sentenza viene impugnata in appello e il giudice di seconde cure1, riqualificando l’azione revocatoria intentata2 come azione esecutiva individuale, la dichiarava improponibile stante il divieto frapposto all’art. 51 l. fall.3. La sentenza d’appello, a sua volta, veniva impugnata in Cassazione: rimessa la questione alle Sezioni Unite4, queste ultime avevano corretto la motivazione della sentenza di secondo grado affermando il principio di diritto secondo cui l’azione revocatoria – non solo fallimentare, ma anche ordinaria – proposta nei confronti di un fallimento sarebbe inammissibile. A tale conclusione congiurerebbero, da una parte, la natura costitutiva riconosciuta in generale a tutte le revocatorie e, dall’altra, il principio di cristallizzazione del passivo. Infatti, dal momento che la revocatoria – in quanto azione costitutiva – è destinata a modificare ex post la situazione giuridica esistente tra le parti, al dispiegarsi dei suoi effetti osterebbe l’avvenuta cristallizzazione del passivo già operata dalla dichiarazione di fallimento5. È il caso di essere netti: nessuno dei due argomenti invocati – la natura costitutiva dell’azione revocatoria e il principio della cristallizzazione del passivo – sembrano tuttavia
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Corte d’Appello di Catania, 14 luglio 2011, n. 1019 Come si è visto, nel caso di specie, si trattava di un’azione revocatoria ordinaria proposta da un curatore avverso altra procedura fallimentare ai sensi dell’art. 66 l. fall. Ai fini del presente scritto e della risoluzione della questione dibattuta, sarà del tutto irrilevante la natura – fallimentare o ordinaria e, entro quest’ultima categoria, concorsuale o individuale – della revocatoria azionata e, pertanto, nel proseguo si farà riferimento in generale e indistintamente alle azioni revocatorie. 3 In senso parzialmente adesivo per tale soluzione, si veda Febbi, Brevi considerazioni sulla inammissibilità della revocatoria quale “azione costitutiva” nel pensiero delle Sezioni Unite, in www.judicium.it, la quale rileva come “l’azione revocatoria costituisce essenzialmente un momento cognitivo pregiudiziale ad un’attività essenzialmente esecutiva, il preludio dell’azione esecutiva che il creditore, che veda accolta la propria domanda, eserciterà nei confronti del debitore o del terzo acquirente per soddisfare il proprio credito”, concludendo che l’azione revocatoria esercitata dopo il fallimento del terzo dovrebbe essere “dichiarata inammissibile […] per il suo carattere esecutivo in quanto lo sbarramento previsto dall’art. 51 l. fall, per le azioni esecutive autonome investirebbe inevitabilmente anche l’azione revocatoria ordinaria funzionale e prodromica a queste”. In seguito, tuttavia, l’A. è tornata sul punto Febbi, Torna rapidamente alle Sezioni Unite il problema delle azioni revocatorie nei confronti di procedure concorsuali. Prime impressioni su Cass. n. 19881/2019, in www.judicium.it, esprimendo l’auspicio che il legislatore colmi il vuoto legislativo, disciplinando specificamente il punto. 4 Si veda l’ordinanza di rimessione Cass. 25 gennaio 2018, n. 1894, in Il Fallimento, 2018, 705 ss. con nota di Lo Cascio, Revocatoria ordinaria e fallimentare promossa tra fallimenti: rimessione alle Sezioni Unite. 5 Si veda Cass., Sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416, in Il Fallimento, 2019, 321 ss., con nota di De Santis, Le Sezioni Unite sulle azioni revocatorie promosse nei confronti della liquidazione giudiziale: declinazioni sistematiche e profili operativi, che ha enunciato i seguenti principi di diritto: «1. la sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o sia fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze esistenti tra le medesime, ma in considerazione dell’elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis, ha natura costitutiva, in quanto modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto; 2. non è ammissibile un’azione revocatoria, non solo fallimentare ma neppure ordinaria, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle predette azioni; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura stessa». 2
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idonei a giustificare la conclusione raggiunta. Non, di certo, la (pretesa) natura costitutiva dell’azione revocatoria, in quanto rimarrebbe in tal caso ancora da spiegare perché le azioni revocatorie proposte (e trascritte) prima del fallimento (rectius: della trascrizione della sentenza di fallimento nel registro imprese) sarebbero invece perfettamente ammissibili6. Sotto altro profilo, invece, invocare il principio di cristallizzazione della massa passiva appare un conclamata petizione di principio: la questione che necessitava di essere risolta era proprio quella se (e, specificamente, da dove si ricavasse) il passivo fosse cristallizzato anche in riferimento ad un’azione revocatoria proposta successivamente la dichiarazione di fallimento. Ed invece la risposta offerta – l’azione revocatoria è inammissibile perché dopo il fallimento la massa passiva è cristallizzata – non fa altro che riprodurre in termine inversi ciò che costituiva proprio l’oggetto della rimessione7. Ma, soprattutto, è il trattamento processuale che si è voluto riservare alla revocatoria proposta contro un fallimento, scomodando finanche il regime della inammissibilità, a non trovare giustificazione alcuna. È più che evidente, infatti, che per un simile esito – una declaratoria di absolutio ab istantia – si sarebbe dovuto rintracciare o una specifica norma di legge che lo comminasse esplicitamente, ovvero almeno la ragione di diritto sostanziale sostanziale o processuale che congiurasse a tale conclusione. Invece, in mancanza di disposizione espressa sul punto e – come visto supra – di ragioni di diritto sostanziale, dovrebbe arrivare a sostenersi che nel nostro sistema processuale il fatto di non trovarsi in stato di fallimento ovvero, in alternativa, la tempestiva trascrizione di una qualsiasi domanda (nella fattispecie di un’azione revocatoria) rispetto alla trascrizione della sentenza di fallimento nel registro imprese costituiscano condizione di ammissibilità di una domanda ed ineliminabile presupposto processuale. Il ché sembra del tutto insostenibile! Basti invece pensare che l’accoglimento di un’azione revocatoria può costituire presupposto per ulteriori conseguenze, quali ad esempio una domanda di risarcimento del danno: proprio non è dato comprendere perché anche questa esigenza di tutela debba essere disattesa e fondamentalmente denegata. Non può essere sembrato casuale che la questione circa le sorti dell’azione revocatoria sia stata rimessa nuovamente alle Sezioni Unite, dopo solo pochi mesi dalla prima presa di posizione di queste ultime8. Segno probabile – e in ogni caso auspicato – di un radicale ripensamento dell’esito della decisione.
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Cfr., sotto altro riguardo e in riferimento a tutte le impugnative contrattuali, Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, 375 ss., in part. 428, “che il carattere costitutivo del rimedio contrattuale a cui consegue la pretesa restitutoria non debba essere sopravvalutato, si evince anche dalla semplice considerazione per cui, in questo modo, si detta un regime diversificato per ipotesi, che, nei rapporti con il fallimento, ragionevolmente non sembrano poter essere sottoposte a discipline differenziate”. 7 Si vedano, ancora, Menchini-Motto, L’accertamento del passivo, cit., 375 ss., in part. 426, secondo i quali: “non è qui in discussione il principio della cd. cristallizzazione della massa e, dunque, la validità delle regole dell’intangibilità della massa attiva e della partecipazione al concorso dei soli creditori, il cui diritto sia sorto anteriormente alla dichiarazione del fallimento. Più semplicemente, si ritiene che la portata di queste regole debba essere precisata e che esse non operino nelle fattispecie in considerazione”. 8 Si tratta dell’ordinanza Cass. 23 luglio 2019, n. 19881. Per un commento dell’ordinanza, si rinvia a Febbi, Torna rapidamente alle Sezioni Unite, cit.
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Nel corso del dibattito che si è innescato a seguito della prima pronuncia delle Sezioni Unite, si è espressa l’opinione che l’azione revocatoria trascritta successivamente, lungi dall’essere inammissibile, sarebbe tuttavia inopponibile alla massa dei creditori, come si ricaverebbe dall’art. 45 l.fall., per effetto di un’analogia tra esecuzione individuale e fallimento. Così come l’art. 2915, co. 2 c.c. rinviando implicitamente agli artt. 2652 e 2653 c.c., rende inopponibile al creditore pignorante le (sentenze che accolgono) domande trascritte successivamente alla trascrizione del pignoramento, allo stesso modo – equiparando il pignoramento alla sentenza dichiarativa di fallimento – la (sentenza emessa in accoglimento di una) domanda revocatoria trascritta dopo la trascrizione (nel registro delle imprese) della sentenza di fallimento è inopponibile alla massa dei creditori. In definitiva, “nonostante la sentenza revocatoria, diversamente da quelle che accolgono le impugnative negoziali, non abbia effetto reipersecutorio (stante che il bene resta di proprietà del terzo acquirente e non rientra nel patrimonio del debitore), il regime è identico”9. Neanche tale ultima soluzione, tuttavia, convince: neanch’essa, infatti, riesce ad offrire una soluzione ragionevole al rischio evidenziato in dottrina che, depotenziare l’azione revocatoria fino al punto di considerarla inammissibile ovvero – in ogni caso – inopponibile al fallimento dell’avente causa, significherebbe creare una nuova fattispecie di esenzione anche alla revocatoria ordinaria civilistica10. Operazione che rischierebbe non solo di pregiudicare ingiustamente i creditori di un disonesto dante causa, ma anche di legittimare pratiche consapevolmente volte ad etero-dirigere la par condicio creditorum e, dunque, la soddisfazione dei creditori in sede fallimentare. Si tratta, evidentemente, di un rischio non così peregrino o isolato se la considerazione di esso, nella dottrina tedesca11, ha contribuito ad orientare – per quasi un secolo – un’intera stagione di studi che hanno gravitato intorno al tema della precisa individuazione della collocazione sistematica dell’azione revocatoria, della sua natura e degli effetti suoi propri. Ripercorrere gli snodi essenziali di quel dibattito può ora rivelarsi utile per istradare verso una ragionevole soluzione del quesito nuovamente sottoposto alla decisione delle Sezioni Unite della Cassazione: dal momento che un dei principali – se non il principale – portato di quel dibattito era stato proprio costituito dalle possibili interferenze tra fallimento e revocatoria.
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Cirulli, Azione revocatoria ordinaria e fallimento del terzo acquirente (nota a Cass., Sez. Un., 23 novembre 2018, n. 30416, in www. judicium.it 10 Sassani, Improponibili le azioni revocatorie contro il fallimento. Riflessioni a caldo su una discutibile soluzione delle Sezioni Unite, in www.judicium.it, secondo cui “sostenere che il fallimento del terzo impedisce la possibilità di agire in revocatoria contro la procedura, significa creare una fattispecie di irrevocabilità sopravvenuta dell’acquisto, per cui il fallimento ripulisce l’acquisto che viene a sanarsi per una vicenda propria del terzo avente causa”. 11 Basti qui citare le preoccupazioni manifestate da Paulus, Sinn und Formen der Glaeubigeranfechtung, in Archiv für die civilistische Praxis, 1956, 277 ss., in part. 339, il quale menziona distintamente le due ipotesi, di cui al testo, di un atto del debitore che pregiudichi ingiustamente le ragioni del proprio creditore a tutto vantaggio della massa dei creditori del partner d’affari poi fallito (“Was ein boeswilliger Schuldner aus erkanntem Glaeubigerhass einem Gesinnungspartner zugeschoben hat, soll in den danach fuer beide Teile stattfindenden Konkursen”) ovvero – a tanta maggior ragione – di una preordinazione da parte del debitore che, sull’orlo del proprio tracollo finanziario, intenda procurarsi il compiacimento di esercitare una scandalosa ed illegittima influenza sul concorso dei creditori sui propri beni (“Will ein Schuldner bei seinem wirtschaftlichen Zusammenbruch die Genugtuung skandaloeser Aussenwirkungen haben”).
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2. Il dibattito relativo all’inquadramento sistematico delle azioni revocatorie nella dottrina tedesca.
Fino alla metà del secolo scorso il dibattito in Germania relativo allo “inquadramento sistematico delle azioni revocatorie”12 rimaneva attestato sulle posizioni assunte dalla dottrina tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. A contendersi il campo, per quel torno di tempo, si contrapponevano da una parte la teoria della natura e dell’efficacia obbligatoria dell’azione revocatoria – schuldrechtliche Theorie – e, dall’altra, quella della natura e degli effetti reali della stessa: die Dinglichkeitstheorie. In breve, il cuore dell’alternativa tra le due teoriche – pur al loro interno particolarmente diversificate da autore ad autore – ruotava intorno alla possibilità di ricondurre, all’esercizio dell’azione revocatoria, ovvero alla sentenza che l’accoglieva13, un effetto meramente obbligatorio (schuldrechtliche Theorien) ovvero pienamente reale (die Dinglichkeitstheorien). La congerie di teoriche accomunate sotto la dizione di Dinglichkeitstheorien pervenivano alla conclusione che ad essere coinvolto ed intaccato dall’esercizio dell’azione revocatoria sarebbe stato lo stesso negozio di disposizione produttivo del trasferimento del diritto. In tale ottica, il cespite patrimoniale alienato con il negozio traslativo impugnato in revocatoria doveva considerarsi come esistente già nel patrimonio del debitore, o perché mai uscitovi ovvero perché rientratovi – con efficacia reale, appunto – a seguito dell’accoglimento della domanda revocatoria14; in ogni caso il bene sarebbe stato assoggettabile all’azione esecutiva – alternativamente – del singolo creditore ovvero del curatore fallimentare. Al contrario, in base alle schuldrechtliche Theorien l’esercizio delle azioni revocatorie non coinvolgerebbe il negozio dispositivo ma si esaurirebbe sul piano dei rapporti obbligatori tra
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Tale è stata la formula con cui quel dibattito è passato alla storia nella stessa dottrina tedesca: si veda in proposito il titolo della principale monografia sul tema di Gerhardt, Die systematische Einordnung der Glaeubigeranfechtung, Goettingen, 1969. Si è preferito lasciare tale formulazione, avvertendosi tuttavia che il cuore dei problemi affrontati dalla dottrina tedesca – come si vedrà – è propriamente quello della efficacia delle azioni revocatorie e del loro rapporto con altre forme di tutela o discipline, in particolare proprio con il fallimento. 13 Invero, lo spostamento dell’attenzione degli interpreti da una invalidità originaria da cui sarebbe stato affetto l’atto revocando e che la sentenza era meramente chiamata ad accertare, alla produzione dell’effetto revocatorio per effetto – prima – dell’atto di esercizio dell’azione revocatoria e poi della sentenza che produce l’effetto, si registra in entrambe le contrapposte teoriche con il progressivo riconoscimento e lento affermarsi ed imporsi del meccanismo rappresentato dalle azioni costitutive. 14 L’alternativa risiedeva nella diversa ricostruzione prescelta. Secondo alcuni l’atto di disposizione sarebbe stato viziato ab origine e pertanto si sarebbe dovuto considerare, a monte, l’acquisto compiuto dal terzo del tutto inefficace; tale forma di inefficacia sarebbe conseguita direttamente in forza di legge sin dal compimento dell’atto di disposizione patrimoniale da parte del debitore. In tale contesto l’esercizio dell’azione revocatoria avrebbe solamente dovuto costituire il presupposto processuale per l’aggressione esecutiva da parte della massa dei creditori. Tale era la ricostruzione di Goldschmidt, Zivilprozessrecht, 2. Aufl., 1932; Lippmann, Die rechtliche Natur der Anfechtung, IherJb, 1896, 145 ss.; Lenhart, Natur und Wirkung der Glaeubigeranfechtung, in Zeitschrift fuer Zivilrozessrecht, 1909, 165, 167, 177, 191 s, 203 s.; Geib, Die Zwangsvollstreckung in den anfechtbaren Erwerb eines Kriegsteilnehmers, in Archiv fuer civilistische Praxis, 1915, 335 ss.; Schulin, Das Problem der Glaeubigeranfechtung, in LZ 1922, 601 ss. Secondo una diversa impostazione, invece, l’inefficacia reale del negozio di trasferimento sarebbe stata da ricondurre all’Anfechtungserklärung (la dichiarazione di impugnazione contenuta nella domanda giudiziale), la quale avrebbe avuto efficacia costitutiva retroattiva similmente a quanto avviene per l’impugnativa stragiudiziale ai sensi del § 142 Abs. 1 BGB. Questa era, invece la ricostruzione di Hellwig, Anfechtungsrecht und Anfechtungsanspruch nach der neuen Konkursordnung, in Zeitschrift fuer Zivilrozessrecht, 1899, 474, 478; DJZ 1905, 249 ss.; Hellmann, Die rechtliche Natur der Anfechtung, Blätter für Rechtsanwendung, 1905, 401 ss.
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l’attore in revocatoria e il terzo convenuto: l’effetto da essa dispiegato consisterebbe pertanto nell’insorgere di una obbligazione, a carico del terzo e nei confronti del solo attore vittorioso, avente ad oggetto l’obbligo di restituire – rectius, ritrasferire – la proprietà del cespite nel patrimonio del debitore ovvero di tollerare l’altrui soddisfazione esecutiva15. Questa iniziale contrapposizione – che sperimentava una netta prevalenza delle teorie dell’efficacia obbligatoria dell’azione revocatoria – è stata letteralmente sconvolta dalla formulazione negli anni ‘50 del secolo scorso della cd. Haftungsrechliche Theorie, ovvero teoria della “inefficacia patrimoniale” (Theorie von der haftungrechtlichen Unwirksamkeit), la cui paternità è ancora oggi unanimamente ricondotta all’autorità dell’indimenticato Gotthard Paulus16. Essa ha saputo guadagnarsi ben presto un indiscusso successo non solo nella giurisprudenza d’oltralpe, ma anche nella dottrina tedesca e austriaca17. L’assunto di base di tale dottrina è il riconoscimento che alla titolarità di un diritto possono ricondursi diverse funzioni, in particolare da un parte funzioni di godimento e di disposizione e, dall’altra, funzione di garanzia patrimoniale18 Così, nell’ambito della proprietà e dei diritti reali in generale, sarebbe possibile distinguere una funzione o contenuto del diritto “proprietario” dato dalla facoltà “di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, costituente il contenuto primario del diritto di proprietà (art. 832 cod. civ.), da una funzione – che, se si vuole, può definirsi latu sensu “patrimoniale” – che si appunta sull’idoneità del bene ad offrire ai terzi garanzia della solvibilità del suo titolare19. In definitiva, quel che interessa per l’intanto sottolineare – e che non sembra sia stato mai compiutamente interiorizzato nel panorama dottrinario italiano – è che la teoria dell’inefficacia (relativa) patrimoniale si fonda sulla possibilità concettuale di distinguere per ogni cespite patrimoniale il profilo attinente alla titolarità (Zustaendigkeit) da quello relativo alla sua pertinen-
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In tal modo Gerhardt, Die systematische Einordnung, cit., 6, riassume il cuore delle schuldrechtliche Theorien: “Im Gegensatz zur Dinglichkeitslehre mißt die schuldrechtliche Theorie der Anfechtung keine unmittelbare dingliche Wirkung bei. Nach ihr führt die Anfechtungsregelung zu einem Schuldverhältnis zwischen Anfechtendem und Anfechtungsgegner, kraft dessen jenem ein schuldrechtlicher Anspruch auf Rückgewähr des Empfangenen in das Vermögen des Schuldners zusteht bzw. ein schuldrechtlicher Anspruch darauf, die Befriedigung des Anfechtungsklägers so zu dulden, als ob die anfechtbare Handlung nicht erfolgt sei”. Per tale impostazione si vedano Oertamann, Die Wirkung der Glaeubigeranfechtung, Zeitschrift fuer Zivilrozessrecht, 1906, 1 ss.; Kleinfeller, Die Wirkung der Glaeubigeranfechtung, in DJZ, 1903, 386 16 Gotthard Paulus, Sinn und Formen der Glaeubigeranfechtung, in Archiv für die civilistische Praxis, 1956, 277 ss. Ancora alla fine degli anni ’60 del XX secolo Gerhardt, Die systematische Einordnung der Glaeubigeranfechtung, Goettingen, 1969, 11, definiva iconicamente quella in parola come “Die Theorie von Paulus” 17 Per riferimenti, si veda il recente scritto Nunner-Krautgasser, Haftungsrechtliche Uniwirksamkeit infolge Insolvenzanfechtiung und ihre Tragweite in der Insolvenz des Anfechtungsgegner, in Insolvenzrecht und Kreditschutz, in Insolvenzrecht und Kreditschutz, 2015, 129 ss., 132. 18 Così, ancora di recente, Nunner-Krautgasser, Haftungsrechtliche Uniwirksamkeit infolge Insolvenzanfechtiung und ihre Tragweite in der Insolvenz des Anfechtungsgegner, in Insolvenzrecht und Kreditschutz, in Insolvenzrecht und Kreditschutz, 2015, 129 ss., in part., 133: “diese Theorie [baut] auf der Erkenntnis auf, dass mit der Trägerschaft eines Rechts diverse Befugnisse und Funktionen verbunden sind, insb die Gebrauchs- und Verfügungsrechte einerseits und die Haftungsfunktion andererseits” 19 Nunner-Krautgasser, Haftungsrechtliche Uniwirksamkeit, cit., 133: “Der Eigentümer einer Sache darf diese (insb) gebrau-chen und über sie verfügen; die Sache haftet aber auch seinen Gläubigern im Rahmen der persönlichen Vermögenshaftung”. Del resto, come si vedrà, anche nell’ordinamento italiano una prospettiva ermeneutica volta a distinguere la disciplina di una medesima o anche di diverse situazione di vantaggio sulla base della funzione che viene di volta in volta in rilievo appare quanto meno incoraggiata – almeno in materia di proprietà – dal medesimo dettato costituzionale che all’art. 42, 2° comma, della Costituzione italiana menziona – per l’appunto – la “funzione sociale” della proprietà privata.
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za alla garanzia patrimoniale (Zegehoerigkeit zum Haftungsfonds). Se tali due profili – identificati da diverse funzionalizzazioni della proprietà – sono destinati per lo più a coincidere – come dimostra anche l’art. 2740 c.c. – ciò non costituisce una necessità ineludibile, potendo anche darsi correntemente ipotesi di un terzo che risponda del debito altrui con propri beni (terzo datore di ipoteca, terzo fideiussore e – per l’appunto – terzo che abbia visto revocato il proprio titolo di acquisto)20. Tale intuitiva acquisizione ad opera della haftungsrechliche Theorie ha consentito di offrire un inquadramento dogmatico delle azioni revocatorie che è ben presto divenuto maggioritario tra gli interpreti tedeschi (ed austriaci): l’azione revocatoria lascia impregiudicata la titolarità del diritto in capo al terzo convenuto in revocatoria mentre inciderebbe sulla destinazione del cespite a rispondere per un debito altrui. I tentativi propugnati dalla dottrina tedesca – di cui si è succintamente riferito – di offrire un inquadramento sistematico organico alle azioni revocatorie (ordinarie e fallimentari) miravano ad offrire soluzioni applicative per tutti quei profili non specificamente regolamentati nella disciplina legale della revocatoria; tra questi ultimi assumeva primario interesse proprio il trattamento processuale dell’azione revocatoria esercitata contro un fallimento21. Ebbene, da un punto di vista puramente estrinseco, assume un certo interesse il fatto che, da qualunque delle prospettive si riguardasse la questione, nessuno abbia mai seriamente dubitato dell’ammissibilità e della piena opponibilità dell’azione revocatoria nei confronti di un fallimento (rectius: della massa dei creditori di quest’ultimo). Così ancora, il fondatore della teoria dell’inefficacia patrimoniale poteva autorevolmente affermare che “dalla posizione del terzo nella revocatoria in quanto tale non risulta alcuna circostanza che possa giustificare – per effetto dell’apertura di una procedura fallimentare a suo carico – una limitazione della sua legittimazione ad essere convenuto in revocatoria”22. L’unico profilo effettivamente controverso e dibattuto risiedeva nel trattamento da assicurare, rispetto ai creditori del terzo fallito convenuto, all’attore vittorioso in revocatoria: quest’ultimo, secondo i sostenitori delle Dinglichkeitstheorien e di una parte maggioritaria della haftungsrechliche Theorie, avrebbe avuto un diritto di separazione (Aussonderung) sul bene
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Nunner-Krautgasser, Haftungsrechtliche Uniwirksamkeit, cit., 133: “Die Struktur der persönlichen Vermögenshaftung ist wiederum folgendermaßen beschaffen: Aufgrund einer Geldforderung steht dem Gläubiger nicht nur eine (vollstreckungsrechtlich relevante) Zugriffsbefugnis auf ihm haftende Objekte, sondern (als Basis dafür) eine Wertposition am Haftungsvermögen und damit ein materielles Haftungsrecht zu, das sich grundsätzlich gegen den Vermögenskreis des Schuldners, im Notfall aber auch gegen denjenigen dritter Erwerber von Haftungsvermögen richtet”. Nunner-Krautgasser, Haftungsrechtliche Uniwirksamkeit, cit., 134 21 Ancora Gerhardt, Die systematische Einordnung der Glaeubigeranfechtung, Goettingen, 1969, 34, menziona la questione di come si atteggi la revocatoria allorché “sich der Anfechtungsgegner im Konkurs befindet” come “ein Musterbeispiel fuer die Bedeutung des Theorienstreites im Anfechtungsrecht”. 22 Così, iconicamente, Gotthard Paulus, Sinn und Formen der Glaeubigeranfechtung, in Archiv für die civilistische Praxis, 1956, 277 ss., in part. 341: “Aus der Position des Anfechtungsgegners als solchen ergeben sich durch die Eroeffnung des Konkursverfahrens ueber sein Vermoegen keine Umstaende, die ein Einschraenkung der anfechtungsrechtlichen Befugnisse rechtfertigen koennten”
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revocato23; mentre i fautori delle schuldrechtliche Theorien avrebbero inteso trattare il credito del revocante come un qualunque credito fallimentare24. A interessare del riferito dibattito, ai fini del presente scritto, non è tuttavia solo – da un punto di vista estrinseco e puramente comparatistico – la (univoca e) diversa soluzione che è stata trovata nell’ordinamento tedesco alla problematica, oggi nuovamente sottoposto allo scrutinio delle Sezioni Unite della cassazione, relativa alla sorte dell’azione revocatoria proposta contro un fallimento. Anche da un punto di vista intrinseco, tuttavia, i presupposti teorici da cui muove la haftungsrechliche Theorie e le conclusioni cui essa perviene sembrano idonei ad offrire un più ampio e completo approccio al tema – se è consentito sollevare anche nel nostro ordinamento la questione – dell’inquadramento sistematico delle azioni revocatorie, la cui esatta comprensione si ritiene possa indirizzare anche nella risoluzione della spinosa questione.
3. La già acquisita distinzione tra assetti proprietari e
patrimoniali nella giurisprudenza della Suprema Corte. Fermo quanto si è detto supra circa l’ammissibilità dell’azione revocatoria proposta contro un fallimento, è ora il caso di soffermarsi sui dubbi emersi in dottrina circa l’opponibilità della sentenza di accoglimento emessa all’esito di quel medesimo processo nei confronti della massa dei creditori concorsuali25. Come si è visto, la tesi che sostiene l’inopponibilità della revocatoria nell’ipotesi prefigurata insiste su due argomentazioni fondamentali: in primo luogo, sulla stringente correlazione tra l’art. 2915, 2° comma c.c. e l’art. 45 l.fall., costruita a partire da una più generale equiparazione del pignoramento (e dei suoi effetti) alla sentenza dichiarativa di fallimento; in secondo luogo su un’applicazione analogica della disciplina prevista per le altre impugnative negoziali (nullità, annullamento, risoluzione e rescissione) all’azione revocatoria. Ebbene, a ben vedere, non sembra che nessuno dei prefigurati argomenti sia in realtà di per sé idoneo a congiurare per l’inopponibilità della sentenza revocatoria al fallimento. Quanto alla pretesa correlazione tra l’art. 45 l.fall. e l’art. 2915, 2° comma, c.c. – invocata per escludere ogni effetto, in pregiudizio del fallimento, alle domande trascritte tardivamente – quest’ultima è fondamentalmente controversa in dottrina, dovendo in realtà preferirsi la soluzione negativa26.
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In questo senso Crome, System des deutschen buergerlichen Rechts, I, 354; Lenhard, Sperrung des Grundbuchs durch Konkurseroeffnung, in Lz, 1909, 905 ss., in part., 909, nonché lo stesso Paulus, Sinn und Formen, cit., 336 ss. Per ulteriore riferimenti in letteratura, si veda Gerhardt, Die systematische Einordnung, cit., 34, nt. 204 24 Per riferimenti nella letteratura tedesca si rinvia a Gerhardt, Die systematische Einordnung, cit., 35, nt. 209. 25 Dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, si veda Cirulli, Azione revocatoria ordinaria e fallimento del terzo acquirente (nota a Cass., Sez. Un., 23 novembre 2018, n. 30416, in www.judicium.it 26 Per la tesi negativa si veda Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano, 1972, 141 ss., in part. 181 ss., secondo cui “il postulato parallelismo di pignoramento e sentenza dichiarativa di fallimento non regge, quanto meno nei termini
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Quanto alla pretesa estensibilità alle revocatorie della disciplina dettata per le altre impugnative contrattuali, essa non fa i conti con il diverso modus operandi (o meccanismo operativo) di queste ultime rispetto, appunto, al rimedio revocatorio. Costituisce infatti affermazione consolidata, sia in dottrina che in giurisprudenza, quella secondo cui l’azione revocatoria – soprattutto quella ordinaria27 – non ha alcun effetto restitutorio, limitandosi ad attribuire al creditore il potere di espropriare il bene anche contro il soggetto che ha subito l’azione revocatoria (art. 602 c.p.c.). Fenomeno contraddistinto sotto la denominazione di inefficacia relativa o inopponibilità28. La latitudine e l’intensità di tale affermazione, e le sue ripercussioni anche sul tema di cui si sta trattando, apparirà subito chiara allorché si ponga attenzione ad un fenomeno di matrice giurisprudenziale pressocchè ignorato dalla dottrina italiana e che, quand’anche rilevato, non viene posto nella giusta luce. Dall’alba dei tempi la dottrina si interroga sul significato della nozione di “diritto controverso” ai fini dell’applicazione dell’istituto disciplinato dall’art. 111 c.p.c.: uno dei più acri punti di discordia in dottrina è dato dal quesito relativo all’idoneità delle azioni di impugnativa contrattuale di rendere “controverso”, ai sensi di tale disposizione, il bene trasferito proprio
assoluti ond’esso viene formulato, e va quindi in una certa guisa ridimensionato: e soprattutto non regge proprio in vista delle conseguenze che se ne son tratte, o forse meglio in funzione delle quali esso vien solennemente proclamato, e che si possono riassumere nella vagheggiata estensione al fallimento delle disposizioni che regolano gli effetti del pignoramento”. Nel medesimo senso Bonsignori, Il fallimento, 301 ss., nonché Cavallini, sub art. 45, 927 ss.. Sostengono invece la vigenza della medesima regola, formulata dall’art. 2915, 2° comma c.c. per la procedura esecutiva individuale, anche al fallimento per il tramite dell’art. 45 l.fall., Andrioli, Fallimento, 397 ss., in part. 399; Guglielmucci, Lezioni, 106 s.; Micheli, Dell’esecuzione forzata, in Commentario del codice civile, 2a ed., a cura di Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1964, 84 ss.; Satta, Diritto fallimentare, 161 ss. 27 Per tutti, si veda Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2017, 204 s. secondo la giurisprudenza della Cassazione “il vittorioso esperimento di un’azione revocatoria (ordinaria o) fallimentare non è idoneo a determinare alcun effetto restitutorio rispetto al patrimonio del disponente (poi fallito), né, tantomeno, alcun effetto direttamente traslativo in favore dei creditori, comportando solamente la declaratoria di inefficacia (relativa) dell’atto rispetto al creditore che agisce in giudizio, e rendendo, conseguentemente, il bene trasferito assoggettabile ad azioni esecutive, senza in alcun modo caducare, ad ogni altro effetto, l’avvenuta alienazione in capo all’acquirente”. Così Cass., 11 settembre 1997, n. 8962, in Fallimento, 1998, 787; ma si veda anche Ancora, si veda Cass., 16 aprile 1988, n. 2991, secondo cui “l’azione revocatoria proposta dal creditore è volta alla “dichiarazione della inefficacia (soggettivamente relativa) del contratto di alienazione nei suoi confronti: al fine di ottenere la costituzione di una situazione giuridica per cui soltanto nei suoi confronti, relativamente solo a lui, l’immobile è nel patrimonio del suo debitore (rimanendo valido, e producendo l’effetto traslativo, il contratto di alienazione tra le parti e nei confronti degli altri terzi), con la conseguenza che può attuare su di esso, a mezzo dell’esecuzione per espropriazione forzata immobiliare, la garanzia generica ex art. 2740 c.c. per il soddisfacimento del suo credito”. Anche per la prevalente dottrina civilista il provvedimento di revoca non determina l’eliminazione erga omnes delle vicende verificatesi in forza dell’atto pregiudizievole al creditore posto in essere dal debitore. Tale opinione è stata formulata sotto la vigenza dell’attuale codice civile da Fedele, La invalidità del negozio giuridico di diritto privato, Torino, 1943, 165, 238, 283, 308, 312; da Greco, La società nel sistema legislativo italiano, Torino, 1959, 95 s., 132 s.; nonché da Allara, La teoria delle vicende del rapporto giuridico, cit., 264 ss., Id., La revocazione delle disposizioni testamentarie, cit., 79 ss. In precedenza, sulla scorta dell’art. 1235 del codice del 1865, la medesima posizione era stata assunta da Ricca-Barberis, L’assolutezza dell’annullamento conseguito con l’azione revocatoria, in Riv. Dir. Civ., 1931, I, 29 ss.; Gaudenzi, L’estremo della preesistenza del credito nella pauliana fallimentare e in quella ordinaria, in Temi Emiliana, 1932, I, 173 ss.; Pacchioni, Delle obbligazioni in generale, Padova, 1935, 112 ss. E ancora, al vittorioso esperimento dell’azione revocatoria “consegue una alterazione della normale operatività del meccanismo esecutivo (e conservativo) approntato a tutela, attuale o potenziale, del soggetto che ha promosso il giudizio di revoca, alterazione atta ad assicurargli quell’integrale o parziale soddisfacimento coattivo compromesso dall’atto in fraudem”. In questo senso Sarasso, L’azione revocatoria ordinaria. Profili generali, Milano, 1968, 104, il quale specifica: “ove si tratti di atto traslativo di beni (diritti), alla pronunzia di revoca consegue l’assoggettabilità ad esecuzione (attuale o potenziale) di tali beni da parte del soggetto che ha promosso il giudizio di revoca: assoggettabilità nella misura in cui sussista (in forza dell’atto in fraudem) situazione pregiudizievole alla sua tutela esecutiva, ed in via preferenziale rispetto ai creditori del terzo, del cui patrimonio essi beni fanno parte”. Ancora più di recente Fabiani, 204. 28 Di nuovo, per tutti, Fabiani, Il diritto della crisi, cit., 192 ss.; Guglielmucci, Diritto Fallimentare, 7a ed., Torino, 2015, 143 s.
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con il contratto impugnato o revocato. Ebbene tale idoneità viene, indistintamente e in blocco, negata29 o affermata30 da due contrapposte correnti dottrinali senza avvedersi che – in realtà – la giurisprudenza adotta già da diverso tempo una posizione differenziata: se, da una parte, ritiene che l’art. 111 c.p.c. trovi in generale applicazione alle classiche di ipotesi di impugnativa contrattuale31, dall’altro esclude che l’azione revocatoria possa rendere controverso il bene oggetto del contratto revocato32. Il descritto fenomeno risulterebbe invero inspiegabile in base alle tradizionali letture dogmatiche, tese ad accomunare indistintamente rimedi e strumenti giurisdizionali radicalmente diversi da un punto di vista sostanziale, sol perché “il metallo”33 processuale di cui sono forgiati (nello specifico, il meccanismo della cd. “tutela costitutiva”) sembra essere lo stesso. In
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Un orientamento minoritario seppure autorevole tende infatti ad escludere in tali ipotesi l’applicazione dell’art. 111 c.p.c. in quanto non sussiste identità tra la situazione giuridica oggetto del processo e quella trasferita in corso di causa. In tal senso si vedano Andrioli, Lezioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1961, 315 ss.; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, 147, De Marini, op. cit., 46 ss., Proto Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, 132 ss.; Id., sub art 111, cit., 1227 ss.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, sub art. 111, 419 ss.; Tommaseo, L’estromissione di una parte dal giudizio, cit., 257. 30 Per tutti si vedano Attardi, Diritto processuale civile, Padova, 1999, 336 ss.; Fazzalari, Successione nel diritto controverso, in Enc. Dir.., XLIII, Milano, 1990, 1384 ss., spec. p. 1390 ss.; Luiso, Successione nel processo, in Enc. giur. Treccani, XXX, Roma, 1993, 10; Id., Le azioni di restituzione da contratto e la successione nel diritto controverso, in www.judicium.it, 2011; Mengoni, Note sulla trascrizione delle impugnative negoziali, in Riv. Dir. proc., 1969, 360 ss. e Id., Gli acquisti «a non domino», Milano, 1975, 287; Monteleone, I limiti soggettivi del giudicato civile, Padova, 1978, 107 ss.; Picardi, La trascrizione delle domande giudiziali, Milano, 1968, 315 ss.; Triola, La trascrizione, Torino, 2002, 437 ss.; Vaccarella, Trascrizione delle domande giudiziali e successione nel diritto controverso, in Gabrielli, Gazzoni (diretto da), Trattato della trascrizione, II (La trascrizione delle domande giudiziali), Milano, 2014, 349 ss.; Verde, Profili del processo civile, I, Napoli, 2008, 212 ss.; Ferri-Zanelli, Della trascrizione. Trascrizione immobiliare, in Commentrario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1995, 330: secondo cui i terzi acquirenti in corso di lite vengono colpiti dalla sentenza di revocazione in forza del principio fissato dall’art. 111 c.p.c.; Picardi, La trascrizione, cit., 159 ss.; Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, I, in Commentario Scialoja-Banca, Bologna-Roma, 1993, 208, ritiene che “se l’alienazione fosse posteriore alla domanda, si applicherebbero i principi che regolano la successione nel diritto controverso (art. 111 c.p.c.)”. In realtà la maggioranza della dottrina fallimentarista omette ogni riferimento all’art. 111 c.p.c., limitandosi a rilevare come l’inefficacia dell’atto originario conseguente all’accoglimento dell’azione revocatoria si estenda anche a taluni terzi subacquirenti, come quelli a titolo gratuito e che “è automaticamente inefficace l’acquisto a titolo oneroso di beni immobili o di beni mobili registrati qualora il relativo titolo di acquisto non sia stato trascritto prima della domanda di revoca”; 773; Provinciali, 409; Azzolina, 1067; Ferrara, Il fallimento, 3a ed., Milano, 1974, 915 s.; D’ercole, L’azione revocatoria, in Trattato Recigno, XX, 2, Torino, 2008, 183 s. 31 Si vedano in particolare Cass., 17 luglio 2012 n. 12305; Cass., 15 luglio 2004, n. 13112, in Guida al diritto, 2005, D. 2, 38; Cass., 22 gennaio 2002 n. 1155, in Giust. civ., 2002, I, 1575; Cass., 4 marzo 1993, n. 2666, in Mass. giur. it., 1993; Cass., 6 giugno 1983 n. 3868, in Mass. giur. it., 1983; Cass., 5 dicembre 1977 n. 5264, in Mass., 1977; Cass., 12 febbraio 1973 n. 415, in Mass. giur. it., 1973; Cass., 14 febbraio 1966 n. 442, in Foro it., 1966, I, c. 1775; Cass., 22 giugno 1965 n. 1309, in Foro it., 1966, I, c. 350; Cass., 13 ottobre 1961 n. 2121, in Foro it., 1962, I, c. 519; Cass., 6 febbraio 1959 n. 374, in Foro it., 1959, I, c. 352; Cass., 12 gennaio 1950, in Foro pad., 1950, I, 367. 32 Si tratta di orientamento pacifico e incontrastato in giurisprudenza, la quale si è espressa in tal senso allorché, in pendenza della domanda di revoca di un contratto di locazione, sia stato trasferito il bene immobile oggetto del contratto medesimo (così Cass., 22 luglio 2014, n. 16652; nonché Cass., 21 luglio 2000, n. 8419, in Fallimento, 2001, 755, con nota di Limitone); in caso di cessione del credito legittimante alla revocatoria avvenuta in pendenza della revocatoria fallimentare avente ad oggetto l’assegnazione del medesimo credito (Cass., 4 dicembre 2014, n. 25660); nonché in ipotesi di acquisto di un bene immobile in pendenza della revocatoria avente ad oggetto l’inefficacia del contratto di trasferimento del medesimo (Cass., 19 novembre 2014, n. 24655; Cass. 17 novembre 2005, n. 23255). 33 Questa l’espressione impiegata da Carnelutti, Titolo esecutivo, in Riv. dir. proc. civ., 1931, I, 315, per negare che azione di mero accertamento e azione di condanna avessero diverso diversa efficacia o natura, così riducendo così il contenuto della condanna ad un accertamento, la cui efficacia esecutiva non discenderebbe da un ulteriore contenuto costitutivo della sentenza, ma direttamente dalla legge. Sicché – in tale ottica – la distinzione tra mero accertamento e condanna sarebbe determinato dall’oggetto del processo, di talché ogni sentenza che accertasse un credito insoddisfatto avrebbe natura di condanna, la cui idoneità a costituire titolo esecutivo sarebbe attribuita non dal giudice, ma dalla legge.
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realtà, dal riferito fenomeno, appare possibile inferire che la individuazione della disciplina applicabile a un dato rimedio giuridico, il suo relazionarsi con altri istituti e forme di tutela giurisdizionale (le impugnative negoziali con l’art. 111 c.p.c., da una parte, e – come si vedrà – l’azione revocatoria e il fallimento del terzo dall’altra) prescinda dalla specifica tipologia di azione esperita (nel nostro caso la circostanza che il legislatore abbia predisposto una azione costitutiva per i suoi scopi). Da quanto detto consegue non solo l’impossibilità di generalizzare una regola eventualmente valida per le impugnative contrattuali34 tout court – la loro inopponibilità contro il fallimento se esercitate dopo la trascrizione della sentenza – alle azioni revocatorie; ma anche una indicazione di massima sulla funzione di queste ultime e sulla loro compatibilità con una procedura fallimentare già avviata. Infatti, ad uno sguardo più profondo, la giurisprudenza della Suprema Corte sembra rispondere ad un preciso (seppure inconsapevole) schema applicativo di cui proprio la teorica della inefficacia relativa patrimoniale – adattata ai caratteri propri dell’ordinamento italiano35 – sembra poter offrire acconcia spiegazione. In prima battuta, sembra possibile confermare che mentre alcuni rimedi giurisdizionali – per quanto qualificabili come azioni personali come le azioni di impugnativa – sono suscettibili di mettere in gioco assetti proprietari36; altri invece – come l’azione revocatoria – sono volti ad incidere sul diverso piano della responsabilità patrimoniale, e dunque a regolarne l’assetto, indirizzando la destinazione di un patrimonio (o di singoli cespiti di esso) al soddisfacimento delle pretese dei creditori. E, tuttavia, l’operatività propria delle azioni revocatorie, secondo la presente ricostruzione, può essere ulteriormente precisata. Infatti, dire che un atto è relativamente inefficace nei confronti del revocante, non esaurisce ancora la descrizione del meccanismo di tutela predisposto. In primo luogo perché sotto tale dizione si riconducono ipotesi del tutto diverse da quella ora presa inconsiderazione37. In secondo luogo luogo, se si assume che l’inefficacia riguardi
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Non è possibile desumere dall’art. 72, co. 5, l. fall., secondo un ragionamento a contrario un principio generale implicante l’opponibilità al fallimento dell’azione revocatoria solamente allorché essa sia stata trascritta prima della pubblicazione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese. Se, infatti, la regola della opponibilità della sentenza è dettata espressamente per la sola risoluzione contrattuale – restando ancora impregiudicato che da tale disposizione possa ricavarsi un principio contrario che ne sancisca l’inopponibilità in caso di tardiva trascrizione, e che quest’ultimo possa poi estendersi anche alle azioni di annullamento, nullità e rescissione del contratto – deve dirsi, tuttavia, che una ulteriore estensione di tale principio anche alle azioni revocatorie risulterebbe del tutto arbitraria, irragionevole e ingiusta. Infatti, l’attore nelle impugnative contrattuali è – pressoché quasi – sempre una delle parti contrattuali, di talché può ragionevolmente imporsi ad una di esse l’onere di verificare l’eventuale stato di insolvenza del proprio partner in affari allo scopo di proporre tempestivamente – e di trascrivere tali azioni. Invece, nell’azione revocatoria, l’attore è un terzo che agisce nei confronti di un soggetto (il terzo convenuto) con il quale non è detto che abbia avuto alcun rapporto. 35 È ben noto che il nostro ordinamento – a differenza di quello tedesco – ha accolto il principio consensualistico, in virtù del quale l’atto che giustifica il trasferimento di ricchezza è, al contempo, anche l’atto che lo attua. Tuttavia, nonostante la sostanziale unità e unicità dell’atto, ciò non toglie che i due elementi di cui esso si compone (giustificazione del trasferimento e atto dispositivo) possano essere comunque idealmente separati e tenuti concettualmente distinti. 36 Proprio per non ingenerare confusioni con la diversa accezione data in dottrina alla nozione di azione o di tutela reale, si preferisce impiegare nel presente scritto il riferimento alla nozione di proprietà. 37 Basti pensare che, tradizionalmente, sotto la dizione di “inefficacia relativa” vengono ricompresi anche altri fenomeni che – diversamente dall’azione revocatoria – operano evidentemente sul piano degli assetti proprietari. Si prenda ad esempio l’efficacia
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anche in questo caso lo stesso atto traslativo della proprietà tra dante causa ed avente causa, almeno relativamente all’attore vittorioso in revocatoria, allora non si spiegherebbe perché l’art. 602 c.p.c. continui a considerare terzo proprietario il terzo revocato, anche nei confronti del creditore esecutante. aver individuato su quale profilo o assetto di interessi quell’inefficacia sarà destinata ad operare Il sospetto che sorge è che ciò che ci si ostina a chiamare “inefficacia relativa” in relazione alle azioni revocatorie (ma il medesimo discorso sembra potersi porre per ogni atto da cui sembra promanare tale “efficacia”: ad es. il pignoramento) altro non sia il mero riflesso o riverbero della peculiare incidenza che un atto giuridico – nella nostra ipotesi, una sentenza – esercita sul suo oggetto38 In realtà potrebbe assumersi – e il punto merita senz’altro una pacata riflessione – che la diversità tra azioni di impugnativa contrattuali tout court e azioni revocatorie risieda non tanto in una pretesa diversa efficacia (pur sempre demolitoria) della sentenza, quanto nel diverso punto di incidenza delle prime rispetto alle seconde39. In tale ottica, l’azione revocatoria si distinguerebbe dalle altre impugnative negoziali in quanto – diversamente da queste ultime – essa non inciderebbe di per sé sull’atto dispositivo che opera il trasferimento (o la costituzione) del diritto, e dunque sull’assetto “proprietario” del bene trasferito con il contratto impugnato. Essa investe unicamente la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale (causa del contratto, causa dell’obbligazione o del pagamento revocato), regolando la destinazione di un bene alla a rispondere delle altrui obbligazioni40.
dispiegata ai sensi dell’art. 2644 c.c. dalla trascrizione tempestiva del secondo acquirente di un bene immobile nei confronti del primo acquirente/secondo trascrivente dal medesimo dante causa, fattispecie ricondotta da una consistente dottrina proprio alla categoria della “inefficacia relativa” (si veda sul punto Gazzoni, La trascrizione immobiliare, I, in Il codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1991, 460 ss.) ma che non può essere in nessun caso confusa con quella che dispiega l’azione revocatoria. 38 Per esprimersi in chiave di metafora: si definisce efficacia riflessa il diverso modo in cui un sasso lanciato rimbalza sulla superficie di un lago o della terra, postulando una diversa efficacia del lancio, quando in realtà il diverso rimbalzo è giustificato solo dalla diversa superficie di caduta, unica essendo la forza del braccio. 39 Non dissimile operazione ermeneutica è stata intrapresa decenni or sono, nell’ambito delle discussioni relative alla individuazione del contenuto proprio della tutela di condanna. L’orientamento classico riteneva infatti che il contenuto della condanna fosse costituito da due elementi: il primo, comune a tutte le tipologie di sentenze, costituito dall’accertamento del diritto di credito fatto valere e il secondo elemento – che rappresenta il proprium della condanna – dato da un provvedimento latamente costitutivo con il quale il giudice attribuiva al creditore l’azione esecutiva (in questo ordine di idee si vedano, Montesano, Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, Jovene, 1965, p. 19; Id., Condanna. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., VII, Roma, Treccani, 1988, pp. 1 e ss.; Id., La tutela giurisdizionale, cit., 169 e ss.; Mandrioli, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, cit., 1344; Liebman, Manuale di diritto processuale civile4, Milano, Giuffrè, 1984, I, p. 162, II, p. 400; Attardi, Diritto processuale civile, cit., 99; Chizzini, La revoca dei provvedimenti di giurisdizione volontaria, cit., 79). A tale orientamento si contrappose presto altra corrente di pensiero secondo cui la sentenza di condanna in nulla differiva dalla sentenza di accertamento, riducendo così il contenuto della condanna ad un accertamento, la cui efficacia esecutiva non discenderebbe da un ulteriore contenuto costitutivo della sentenza, ma direttamente dalla legge. Sicché – in tale ottica – la distinzione tra mero accertamento e condanna sarebbe determinato dalla natura dell’oggetto del processo: condanna sarebbe stata ogni sentenza che accertasse un credito insoddisfatto. Cfr. Carnelutti, Titolo esecutivo, in Riv. dir. proc. civ., 1931, I, p. 315. Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, p. 355 (oggi riprodotto in Id., Scritti scelti, Milano, 1988, p. 93 e ss.); Lancellotti, Sentenza civile, in Nss. D.I., XVI, Torino, Utet, 1969, p. 1143; Satta, Diritto processuale civile, cit., 270; Monteleone, Condanna civile e titoli esecutivi, in Riv. dir. proc., 1990, pp. 1080 e ss.; Id., Diritto processuale civile, II, cit., p. 192; Tavormina, In tema di condanna, accertamento ed efficacia esecutiva, in Riv. dir. civ., 1989, II, pp. 21 e ss. 40 In definitiva, il proprium della sentenza revocatoria, rispetto alle classiche azioni di impugnativa contrattuale, risiede non tanto in una diversa efficacia che promanerebbe dalla sentenza, ma sul diverso piano su cui tali effetti sono destinati ad incidere: la prima
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Ciò avverrebbe attraverso un giudizio comparativo (e pertanto, appunto, relativo) di meritevolezza dell’operazione economica posta in essere raffrontata con il pregiudizio patrimoniale lamentato dall’attore in revocatoria e con le sue esigenze di tutela. All’esito di tale valutazione, risultando l’operazione economica lesiva dell’interesse del creditore e dunque non meritevole di tutela relativamente alla sua pretesa patrimoniale, il cespite revocato può essere sottoposto all’aggressione esecutiva contro colui che – anche nei confronti del creditore esecutante – continua ad essere (terzo) proprietario (art. 602 c.p.c.)41.
4. Conclusione: fallimento e azione revocatoria come discipline complanari.
Si può ora cercare di tracciare una conclusione, non prima tuttavia di aver posto in debita luce alcuni necessari presupposti teorici a quanto si è venuti sin qui riferendo. Non può certo nascondersi che la teoria della inefficacia patrimoniale in Germania prende l’abbrivio da un consapevole e meditato sviluppo delle cc.dd. teorie patrimoniali dell’obbligazione, e in particolare di quella di matrice tedesca del cd. Schuld und Haftung42. Com’è noto, la dottrina italiana si è da sempre dimostrata piuttosto tiepida (se non del tutto refrattaria) ad una indiscriminata recezione di tali teoriche, almeno nella misura in cui le stesse avevano di mira una rielaborazione della struttura tradizionalmente recepita del rapporto ob-
sulla causa giustificativa del trasferimento, le seconde sull’atto dispositivo. Sembra utile precisare che alla proposta interpretativa qui sostenuta resta poi del tutto indifferente che si voglia continuare a inquadrare la revocatoria come un’azione costitutiva o di mero accertamento. 41 La proposta ricostruttiva delineata ha senz’altro il merito, da un punto di vista didattico-ricostruttivo, di rendere più intuitiva e comprensibile la diversa operatività delle azioni revocatorie. Non si nasconde, tuttavia, che essa possa aprire insospettabili direzioni di ricerca ricche di risvolti pratico-applicativi. Infatti, in definitiva, reinterpretando la tutela revocatoria (ed eventualmente altre discipline – come il pignoramento – cui tradizionalmente viene ricondotta la nozione di inefficacia relativa) come una peculiare ipotesi disciplinata ex lege di interessi – seppur solo comparativamente e dunque relativamente – non immeritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., si potrebbe pervenire a gettare nuova e rinvigorita luce agli studi in materia di causa del contratto e dell’attribuzione patrimoniale. Non è superfluo infatti osservare come la presente ricostruzione rivela indubitabili convergenze con la comprensione della causa del contratto come funzione economico individuale, contestualizzandola tuttavia non solo con la astratta universalità dei valori riconosciuti dall’ordinamento (in tale ottica verrebbe disciplinata dagli artt. 1322, 1343, 1344 e 1345 c.c.), ma anche con la concreta alterità degli interessi che possono essere coinvolti nella singola operazione economica. Tale direzione di ricerca, tuttavia, esorbita dall’economia del presente scritto. 42 Si tratta di quelle interpretazioni che scomponevano il rapporto obbligatorio come sintesi di due distinti rapporti: da una parte il rapporto di debito (Schuld), costitutivo dal dovere primario del debitore di prestare e che genererebbe nel creditore una situazione di mera aspettativa; dall’altra il rapporto di responsabilità (Haftung) che si risolve, invece, in uno stato di soggezione del debitore al potere del creditore di far valere un assoggettamento dei beni del primo al fine di soddisfare il suo interesse rimasto insoddisfatto a causa dell’inadempimento. Tale teorica è stata per la prima volta consapevolmente formulata in Germania da Brinz, Der Begriff Obligatio, in Zeitschrift fuer das Privat und oeffentliche Recht der Gegenwart, 1874, I, II. Fondamentali per la comprensioni dell’impatto di tale teorica in Italia sono gli scritti di Carnelutti, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anno del suo insegnamento, 1927, 221 ss.; nonché Betti, Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006.
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bligatorio43. Non a tanto pretende di giungere la presente ricostruzione, se non al più limitato scopo di offrire un razionale e sistematico ordinamento delle tutele giurisdizionali44. L’assunto di partenza da cui sembra possibile muovere è il riconoscimento che differenti situazioni sostanziali di vantaggio (in particolare, diritti reali e di obbligazione) possono essere chiamate ad assolvere a funzioni diverse; riconoscimento che – in riferimento al diritto di proprietà – trova, fra l’altro, l’usbergo di una precisa disposizione di rango costituzionale nell’art. 42, 2° co. Cost. A tali funzioni sembrano riconducibili due diversi meccanismi di tutela, l’una proprietaria e l’altra patrimoniale, cui corrispondono diverse discipline giuridiche. In tale ottica, l’azione revocatoria45 e il fallimento46 attingerebbero alla medesima base giuridica: entrambe mirano all’attuazione e realizzazione della responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.) e del concorso dei creditori (art. 2741 c.c.). Le due tutele – revocatoria e fallimentare – sono tra loro certamente in conflitto potenziale, ma non più di quanto la domanda di ammissione al passivo di ogni singolo creditore concorsuale lo sia nei confronti di quella di ogni altro creditore. In tal senso, può dirsi che si tratta di discipline solo apparentemente concorrenti, perché tali sono tra loro – ma solo da un punto di vista puramente di fatto47 – l’attore in revocatoria e la massa dei creditori fallimentari. In altri termini, tra revocatoria e fallimento non si configura un concorso in senso pienamente giuridico dal momento che l’apertura dell’uno non preclude necessariamente l’altra. Si tratta in altri termini – sia consentito prendere a prestito l’espressione – di tutele complanari48, destinate a spiegare i propri effetti sullo stesso piano: quello della regolazione della responsabilità patrimoniale. Il previo fallimento del terzo avente causa non rende né inammissibile la domanda revocatoria contro di lui proposta, né inopponibile ai creditori concorsuali l’emananda sentenza che la accolga. Piuttosto sembra che l’unica incidenza del preventivo fallimento del terzo si eviden-
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In tal senso la dottrina maggioritaria italiano, per cui si veda – tra tutti – Giorgianni, L’obbligazione. (La parte generale delle obbligazioni), I, Milano, 1968, 178 ss. 44 Di recente, per una parziale recezione delle teorie patrimoniali dell’obbligazione anche nel nostro ordinamento, si veda Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, 103 ss. 45 Al riguardo, se non bastasse la collocazione, all’interno del VI libro del codice civile, della disciplina degli artt. 2901 ss. c.c. nel capo V del titolo III intitolato “della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione della garanzia patrimoniale”, sarebbe comunque sufficiente gettare una rapida occhiata ai principali contributi dottrinari in tema di azione revocatoria; per tutti, cfr. De Martini, Azione revocatoria, in Nvss. Dig., II, 152 ss. 46 In tal senso si esprime, in riferimento al collegamento tra fallimento e art. 2740 c.c., Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, 4a ed., Roma, 1952 47 Com’è noto, la tesi secondo cui i diritti di credito di due soggetti creditori di un medesimo debitore si pongano tra loro in posizione di pregiudizialità-dipendenza (e che, dunque, il pregiudizio che la sentenza favorevole all’uno arreca all’altro sia un pregiudizio giuridico e non di mero fatto) è stata formulata da Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 91 ss., in part. 101. Essa tuttavia risulta rigettata dalla dottrina dominante. 48 Si prende a prestito – seppur in altra accezione semantica – il termine con il quale autorevole dottrina (Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, in Il Corriere giuridico, 2015, 968 ss.) ha iconicamente rappresentato il rapporto, di non esclusione ma di reciproca ammissibilità, tra la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto ex 2932 c.c. e la domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo, come individuato da Cass. Sez. Un., 15 giugno, n. 12310, in Il Corriere giuridico, 2015, 961 ss.
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zi nel diverso “contesto” nel quale dovrà esercitarsi la pretesa creditoria conseguente all’accoglimento dell’azione revocatoria, ovverosia nelle forme dell’accertamento dello stato passivo. Sembra infatti evidente – tenendo ferme le premesse poste dalla haftungsrechliche Theorie – che l’attore in revocatoria non disporrà di un diritto a separare il cespite revocato dal patrimonio fallimentare ai sensi dell’art. 103 l.fall., ma che debba piuttosto esercitare la propria creditoria conseguente alla pronuncia revocatoria all’interno della procedura fallimentare. Alla conclusione qui raggiunta non osta il principio della cd. cristallizzazione della massa, anche perché detto principio – lungi dal configurare un dogma – sussiste nella misura in cui venga precisato dalla legge49. Al contrario, invece, nè l’art. 45 l. fall – come si è visto – né qualunque altro articolo del III capo, II titolo (artt. 42 ss.) della legge fallimentare potrebbero essere invocati allo scopo di precludere o rendere inopponibile al fallimento l’azione revocatoria: quest’ultima infatti non può essere parificata né ad un atto dispositivo compiuto dal convenuto-fallito (artt. 42 e 44, 1° co.), né a un pagamento effettuato o ricevuto da quest’ultimo (art. 44, 1° e 2° co.)50. E tuttavia, ancor più radicalmente, è forse la stessa tardività dell’azione revocatoria rispetto al fallimento a dover essere revocata in dubbio51. In ogni caso, l’accoglimento dell’azione revocatoria produrrà l’effetto che tipicamente le si ricollega: ovverosia ammettere l’attore in revocatoria a soddisfarsi sul ricavato della liquidazione del cespite revocato52, se del caso – a mente dell’art. 2902, 2° comma, c.c. – anche in via prioritaria rispetto alla massa dei creditori del fallito. L’unico profilo che potrebbe risultare ancora dubbio è quello relativo al quesito se i presupposti dell’azione revocatoria – e dunque l’effetto revocatorio, pregiudiziale rispetto all’ammissione allo stato passivo – possano essere accertati incidentalmente nello stesso procedimento di accertamento dello stato passivo53, ovverosia se la revocatoria non debba essa essere proposta in separata sede, ordinariamente ma nei confronti del curatore del fallimento54.
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Per un rilievo analogo, si veda Colesanti, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano, 1972, 234 ss.; Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, II. Il processo di fallimento, Torino, 2014, 375 ss., in part. 426 50 Neanche l’art. 72, 5° co. l.fall., interpretato secondo una lettura a contrario, potrebbe essere invocato per giustificare una pretesa inoppponibilità dell’azione revocatoria contro un fallimento. Come noto, tale norma stabilisce che “l’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente [poi fallita] spiega i suoi effetti nei confronti del curatore”. Sul punto può rimandarsi a Menchini - Motto, L’accertamento del passivo, cit, 427 51 A tale conclusione sembrano pervenire Menchini - Motto, L’accertamento del passivo, cit, 427, secondo i quali, ancorché “il diritto del terzo [revocante, n.d.a.] non può dirsi tecnicamente esistente al tempo del fallimento, atteso che esso sorge solo dalla modificazione giuridica […] tuttavia, non si deve dimenticare che: a) il diritto de quo ha titolo in fatti precedenti al fallimento, i quali sono costituiti per lo più da un comportamento antigiuridico del debitore fallito […]; b) la modificazione de quibus ha efficacia retroattiva tra le parti, risalente alla data della stipula del contratto e, dunque, ad un momento anteriore al fallimento”. 52 Sul punto cfr. De Martini, Azione revocatoria, cit., 153, secondo il quale la revocatoria “può operare in un duplice senso: a) sull’oggetto della responsabilità […]; b) sulla partecipazione dei creditori al concorso, prevista dall’art. 2741 per tutti i crediti e le prelazioni esistenti, escludendone alcuni nonostante l’attualità della loro esistenza o includendone nuovi” 53 In questo senso sembrano alludere alcuni passaggi dell’ultima ordinanza di rimessione Cass. 23 luglio 2019, n. 19881, nonché Febbi, Torna rapidamente alle Sezioni Unite, cit. 54 In quest’ultimo senso, seppure limitandosi alla revocatoria fallimentare esercitata da un fallimento nei confronti di un altro, si veda Campione, Questioni processuali in tema di revocatoria fallimentare nei confronti di una procedura concorsuale, in www.judicium.it
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Giurisprudenza commentata
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Giurisprudenza Cassazione civ., sent. 31 maggio 2019, n. 14886, Presidente Armano – Relatore Dell’Utri – P.M. Cardino Azione di classe ex art. 140 bis del d.lgs. n. 206 del 2005 – Risarcimento danni non patrimoniali da inadempimento contrattuale – Condizioni L’accertamento del danno non patrimoniale rivendicato nel quadro di un’azione di classe, promossa ai sensi dell’art. 140 bis del d.lgs. n.206 del 2005, richiede allegazione e prova non solo dei requisiti della rilevanza costituzionale degli interessi lesi, della gravità della relativa lesione e della non futilità dei danni ma anche dei profili concreti dei pregiudizi lamentati, capaci di valorizzarne i tratti condivisi da tutti i membri della classe, non personalizzabili in relazione a singoli danneggiati bensì accomunati da caratteristiche tali da giustificarne tanto l’apprezzamento seriale quanto la gestione processuale congiuntamente rivendicata.
(Omissis) Fatti di causa - 1. Con sentenza resa in data 25/8/2017, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento dell’appello proposto dall’Associazione Codici Onlus - Centro per i diritti del cittadino, da Codacons, Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell’Ambiente e degli Utenti e dei Consumatori, e dall’associazione Altroconsumo, e in riforma per quanto di ragione della decisione di primo grado, ha condannato Trenord s.p.a. a corrispondere, a titolo di risarcimento del danno, oltre agli indennizzi già erogati, la somma di 100,00 Euro ciascuno in favore dei soggetti per conto dei quali le associazioni originarie attrici avevano agito con azione di classe, ai sensi del D. Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis (c.d. del codice del consumo), a seguito dei gravi disagi sofferti dagli utenti del servizio di trasporto ferroviario gestito dalla società convenuta nel periodo dedotto in giudizio. 2. A fondamento della decisione assunta, la corte territoriale, premessa la natura minima degli indennizzi contrattualmente previsti in caso di ritardo nell’effettuazione delle prestazioni di trasporto in favore degli utenti (con la conseguente riconoscibilità del risarcimento dei danni ulteriori e diversi da quelli coperti da tali indennizzi),
ha ritenuto che la straordinarietà dei disagi e dei fastidi arrecati agli utenti nel periodo considerato, giustificasse il riconoscimento, in favore degli stessi, del risarcimento generalizzato (di per sé suscettibile di conservare i caratteri di omogeneità richiesti dall’art. 140-bis cit. ai fini dell’esercizio dell’azione di classe nella specie esperita) del danno non patrimoniale sofferto dagli utenti del servizio ferroviario, nella specie commisurato all’importo di Euro 100,00 equitativamente individuato per ciascun utente. 3. Con la stessa sentenza, la corte territoriale ha disatteso la medesima domanda risarcitoria avanzata dagli oltre tremila aderenti all’associazione Altroconsumo specificamente individuati per relationem, trattandosi di domande riferite a diritti estinti per prescrizione. 4. Avverso la sentenza d’appello, Trenord s.p.a. proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi d’impugnazione. 5. L’associazione Altroconsumo ha proposto autonomo ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello, sulla base di cinque motivi d’impugnazione. 6. L’associazione Codacons, Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell’Ambiente e
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Giurisprudenza
degli Utenti e dei Consumatori, resiste con controricorso all’impugnazione di Trenord s.p.a. 7. Trenord s.p.a. e Altroconsumo hanno depositato controricorso per resistere alle rispettive impugnazioni. 8. Nessun altro intimato ha svolto difese in questa sede. 9. Tutte le parti costituite hanno depositato memoria. Ragioni della decisione - 1. Con il primo motivo, la Trenord s.p.a. censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 112, 121 e 131 c.p.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte d’appello erroneamente considerato ammissibile l’appello proposto dalle associazioni avversarie, essendosi il giudice di primo grado pronunciato con ordinanza sulla manifesta infondatezza delle domande avversarie, con la conseguente inappellabilità di detto provvedimento del primo giudice, siccome unicamente soggetto a reclamo, ai sensi dell’art. 140-bis cit. 2. Il motivo è infondato. 3. Osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di ordinanza o di sentenza, e sia, quindi, soggetto ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, occorre aver riguardo non già alla sua forma esteriore e alla qualificazione attribuitagli dal giudice che lo ha emesso, ma agli effetti giuridici che è destinato a produrre. Ciò posto, una volta riconosciuto il carattere di decisorietà e di definitività di una determinata decisione (come, nel caso di specie, quella emessa dal giudice di primo grado, secondo la logica e corretta ricostruzione operata dalla corte d’appello, estesa alla ricognizione dei contenuti specificamente decisori della decisione impugnata), alla stessa dev’essere attribuito valore di sentenza, indipendentemente dalla circostanza che la stessa abbia assunto la forma dell’ordinanza,
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con la conseguente sua impugnabilità dinanzi al giudice di grado superiore (cfr., ex plurimis, Sez. 2, Sentenza n. 10731 del 03/08/2001, Rv. 548780 - 01 e succ. conf.). 4. Con il secondo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 183 e 345 c.p.c., e del D. Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto tempestiva (e tale da non integrare una inammissibile mutatio libelli) l’istanza avanzata dall’associazione Altroconsumo diretta alla contestazione dell’adeguatezza dell’indennizzo predisposto da Trenord in base al Regolamento CE n. 1371/2007. 5. Il motivo è inammissibile. 6. Al riguardo - fermo l’assorbente rilievo riferito all’inammissibilità della censura, in ragione del carente adempimento degli oneri di puntuale e completa allegazione del ricorso imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 (con particolare riguardo alla mancata indicazione e allegazione degli atti depositati dall’associazione Altroconsumo nel corso del processo, suscettibili di consentire l’effettivo controllo, da parte del giudice di legittimità, della concludenza della censura legata alla qualificazione in termini di novità dell’istanza diretta alla contestazione dell’adeguatezza dell’indennizzo predisposto da Trenord in base al Regolamento CE n. 1371/2007) - varrà nella specie considerare il valore dirimente del consolidato principio sancito dalla giurisprudenza di questa Corte, alla stregua del quale l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà
Giulia Mazzaferro
si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 - 01; Sez. L, Sentenza n. 2467 del 06/02/2006, Rv. 586752 - 01). Peraltro, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015, Rv. 637476 - 01). 7. Nella specie, la società ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme dell’eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale (domanda che il giudice a quo ha espressamente ritenuto comprensiva della proposizione dell’istanza qui in contestazione), risulta essersi limitata ad argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure proposte nel rilievo di una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità. 8. Con il terzo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 17 del Regolamento CE n. 1371/2007, dell’art. 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto che il carattere eccezionale delle circostanze dannose dedotte in giudizio valesse a giustificare il risarcimento di danni eccedenti la misura
dell’indennizzo minimo previsto in caso di ritardi sporadici od occasionali dei mezzi ferroviari. 9. Il motivo è infondato. 10. Sul punto, ritiene il Collegio che la corte territoriale abbia correttamente interpretato le norme di diritto richiamate, avendo esattamente ritenuto in astratto superabili i minimi compensativi previsti dalla disciplina positiva del rapporto contrattuale in esame, in coerenza al disposto regolamentare di provenienza comunitaria (art. 17 Reg. CE n. 1371/2007); da un lato, muovendo dalla stessa previsione formale del regolamento richiamato (là dove prevede espressamente, al di là delle ipotesi di indennizzo in caso di ritardi ordinari, il diritto dei “passeggeri titolari di un titolo di viaggio o di un abbonamento che siano costretti a subire un susseguirsi di ritardi o soppressioni di servizio durante il periodo di validità dello stesso” di richiedere un indennizzo adeguato secondo le modalità di indennizzo delle imprese ferroviarie) e, dall’altro, rilevando correttamente l’impossibilità di escludere, in astratto, la potenziale sussistenza di danni ulteriori e diversi da quelli normalmente correlati ai pregiudizi identificati dal rimborso del costo della prestazione di trasporto promessa e non (o inesattamente) eseguita: danni ulteriori e diversi, pur sempre caratterizzati (in caso di esperimento di un’azione di classe) da caratteri effettivi di omogeneità, in coerenza al disposto di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis. 11. Con il quarto motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 17 del Regolamento CE n. 1371/2007, degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., dell’art. 114 c.p.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale ritenuto risarcibile, siccome dotato del carattere di omogeneità rilevante ai sensi dell’art. 140-bis cit., il danno non patrimoniale asseritamente sofferto dagli utenti del trasporto ferroviario oggetto d’esame.
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12. Il motivo è fondato nei limiti e nei termini appresso specificati. 13. Al riguardo, varrà preliminarmente richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità formatosi sulle orme dell’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, ai sensi del quale il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., e al di là delle ipotesi di danno derivante dalla commissione di reato, o dei casi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali - a tre condizioni: (a) che l’interesse leso (e non il pregiudizio sofferto) abbia rilevanza costituzionale (altrimenti pervenendosi a un’abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 c.c., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità, dovendo ritenersi palesemente non meritevoli di tutela risarcitoria i pregiudizi consistenti in detti disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605493 - 01). 14. Ciò posto, ferma l’applicabilità di tali principi anche nei casi (come quello in esame) di danno non patrimoniale derivante da inadempimento (cfr. Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605494 - 01), varrà considerare
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come appartenga all’ambito degli oneri di indagine istruttoria e di articolazione argomentativa del giudice di merito il compito di descrivere con precisione le forme e i modi attraverso i quali i pregiudizi non patrimoniali specificamente e analiticamente individuati abbiano effettivamente superato quella soglia di sufficiente gravità individuata in via interpretativa, dalle Sezioni Unite del 2008, quale limite imprescindibile della tutela risarcitoria, spiegando in che modo i danni lamentati, necessariamente legati da un controllabile nesso di causalità materiale e giuridica all’inadempimento contestato, abbiano rappresentato l’esito di un’offesa effettivamente seria e grave dell’interesse protetto sul piano costituzionale, senza tradursi in meri (benché odiosi o sgradevoli) disagi, fastidi, disappunti, ansie o in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita (sul punto, proprio con riguardo a fattispecie concrete di trasporto ferroviario, v. Sez. 3, Sentenza n. 3720 del 8/2/2019; Sez. 3. Sentenza n. 10596 del 4/5/2018). 15. Peraltro, ai fini del riconoscimento della fondatezza della domanda avente a oggetto il risarcimento del danno non patrimoniale proposta nelle forme processuali dell’azione di classe di cui all’art. 140-bis cod. cons., spetta al giudice di merito coordinare, l’indagine condotta sulla serietà e la gravità dell’offesa inferta all’interesse costituzionalmente protetto, con le esigenze proprie dell’azione di classe disegnata dal legislatore italiano, con particolare riguardo alla necessità che le situazioni soggettive lese e i diritti concretamente pregiudicati (di necessaria rilevanza costituzionale) siano caratterizzati (non solo dalla gravità e serietà della relativa lesione, bensì anche) dall’essenziale requisito della relativa omogeneità (ex art. 140-bis cit.), inteso, quest’ultimo, come il tratto proprio di pretese individuali che, vantate da un insieme di consumatori o di utenti, siano accomunate da caratteristiche tali da giustificarne un apprezzamento seriale e una gestione
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processuale congiunta, dovendo escludersi, sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, la compatibilità dello strumento processuale così delineato dal legislatore con l’esecuzione di accertamenti calibrati su specifiche situazioni personali o con valutazioni che si soffermino sulla consistenza specifica della sfera emotiva o dell’esperienza dinamico-relazionale di singoli danneggiati. Nei casi in cui, infatti, le doglianze dei danneggiati siano tali da non lasciare prefigurare la possibilità di una valutazione tendenzialmente standardizzata anche delle relative conseguenze pregiudizievoli (sia per quel che specificamente riguarda l’an che il quantum del danno), il meccanismo della tutela di classe deve ritenersi per ciò stesso impraticabile. 16. Da tali premesse deriva che - lungi dall’escludere in astratto la compatibilità del risarcimento del danno non patrimoniale con il ricorso alle forme processuali dell’azione di classe (una soluzione, per vero drastica, pur sostenuta da talune voci della letteratura specialistica) - l’azione di classe rimane pur sempre compatibile con la rivendicazione della tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali là dove di questi ultimi siano tuttavia posti rigorosamente in risalto i tratti in qualche modo comuni a tutti i membri della classe (purché adeguatamente specificati e comprovati), con la conseguenza che l’originario proponente ha l’onere di domandare la riparazione di un danno non patrimoniale che non sia individualizzato, ma sia fondato su circostanze comuni a tutti i membri della classe. Una simile soluzione (nella misura in cui esclude l’obbligo di personalizzazione del danno non patrimoniale nell’ambito dell’azione di classe) ha il pregio di prefigurare la possibilità, per ciascun singolo danneggiato, di scegliere liberamente se promuovere o aderire a un’azione di classe (rinunciando a un’istruttoria individuale e accettando di fatto un risarcimento forfettizzato), ovvero pro-
muovere un’azione individuale insistendo per una liquidazione personalizzata del danno non patrimoniale subito. In ciascuna di tali ipotesi, tuttavia, sarà in ogni caso necessaria la precisa identificazione delle situazioni soggettive lese, della qualità della relativa protezione a livello costituzionale (fuori dai casi di danni non patrimoniali da reato o da tipizzazione legislativa del fatto) e dei termini concreti dell’effettiva serietà e gravità delle lesioni inferte e dei pregiudizi subiti, non confondibili con meri disagi, fastidi, disappunti, ansie o con ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita. Con l’ulteriore specificazione, nei casi di danni non patrimoniali rivendicati nelle forme dell’azione di classe (e proprio al fine di scongiurare un’inammissibile declinazione in chiave punitiva della responsabilità risarcitoria, in assenza di indici legislativi suscettibili di giustificarla: cfr. Sez. U -, Sentenza n. 16601 del 05/07/2017) dell’allegazione e della prova dei profili concreti dei pregiudizi lamentati capaci di valorizzarne i tratti condivisi da tutti i membri della classe, non personalizzabili in relazione a singoli danneggiati, bensì accomunati da caratteristiche tali da giustificarne, tanto l’apprezzamento seriale, quanto la gestione processuale congiuntamente rivendicata. 17. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Milano, lungi dall’attenersi al rigoroso rispetto dei principi sin qui richiamati, risulta aver trascurato, tanto l’aspetto relativo all’identificazione dell’interesse costituzionalmente protetto a monte dei pregiudizi non patrimoniali risarciti (salvo un generico e astratto riferimento - peraltro dedotto ad altri fini - alle “limitazioni sofferte rispetto alla propria libera circolazione”: cfr. pag. 15 della sentenza impugnata), quanto la specifica identificazione e descrizione delle forme e dei modi in cui i pregiudizi non patrimoniali pretesamente individuati avrebbero effettivamente superato quella soglia di sufficiente gravità e serietà individuata in via inter-
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pretativa, dalle Sezioni Unite del 2008, quale limite imprescindibile della tutela risarcitoria, omettendo di spiegare in che modo i danni lamentati, necessariamente legati da un controllabile nesso di causalità materiale e giuridica all’inadempimento contestato, abbiano rappresentato l’esito di un’offesa effettivamente seria e grave dell’interesse protetto sul piano costituzionale, senza tradursi in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie o in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita. Nella sentenza impugnata, infatti, il giudice a quo risulta aver limitato la propria argomentazione al solo rilievo di “ritardi prolungati, cancellazioni di corse, trasbordi da un convoglio all’altro, modifiche di itinerari, condizioni di sovraffollamento dei convogli” rivelatisi tali da generare lo sviluppo, in modo asseritamente uniforme e generalizzato, di “una forma di ansia e di insofferenza per gli inconvenienti i fastidi e le difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di effettuare i propri normali spostamenti al fine di raggiungere le sedi di lavoro, i luoghi di studio e così via”, senza darsi carico di dedurre e articolare in modo concreto e specifico la dimostrazione dell’irriconducibilità di tali forme di ansia, insofferenza, fastidi e difficoltà/impossibilità, a quei meri disagi, fastidi, disappunti, ansie o ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita che, come più volte rimarcato, precludono, in forza del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., nella misura in cui esprimono i termini di un’incidenza non adeguatamente apprezzabile della sfera personale individuale, inevitabilmente scaturente dal fatto della convivenza sociale. Né risultano adeguatamente allegati e comprovati, nella pronuncia impugnata, i profili dei pregiudizi individuati capaci di valorizzarne i tratti effettivamente e concretamente comuni a tutti i membri della classe, non personalizzabili in rela-
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zione a singoli danneggiati, bensì accomunati da caratteristiche tali da giustificarne, tanto l’apprezzamento seriale, quanto la gestione processuale congiuntamente rivendicata, nel rispetto del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis. 18. Da tali premesse, discende l’accoglimento del motivo in esame, con la conseguente corrispondente cassazione della decisione impugnata sullo specifico punto censurato. 19. Con il quinto motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente omesso di procedere alla compensazione, anche parziale, delle spese di lite, in considerazione dell’esito del giudizio. 20. Il motivo (in astratto inammissibile, attenendo all’esame di questioni necessariamente rimesse alla discrezionalità del giudice di merito) deve ritenersi assorbito dall’accoglimento del quarto motivo. 21. Con il primo motivo del proprio ricorso, l’associazione Altroconsumo censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 2951 e 2946 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente applicato i termini di prescrizione di cui all’art. 2951 c.c. riferiti al contratto di trasporto, nonostante il carattere complesso del rapporto contrattuale nella specie intercorso tra i singoli utenti e la società titolare della gestione del trasporto ferroviario, estesa all’esecuzione di prestazioni ulteriori e diverse da quella limitata al mero trasporto, con la conseguente applicabilità dei termini di prescrizione ordinaria di durata decennale previsti dall’art. 2946 c.c.. 22. Il motivo è infondato. 23. Osserva al riguardo il Collegio come le prestazioni contestate dall’associazione ricorrente come non adempiute, o inesattamente adempiute, da Trenord s.p.a. (in termini di protezione, assistenza o informazione degli utenti) devono ritenersi convenientemente qualificabili alla stregua
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di obbligazioni di carattere accessorio rispetto alla principale obbligazione avente a oggetto la prestazione di trasporto; obbligazioni accessorie certamente destinate a garantire la corretta soddisfazione dell’interesse creditorio legato alla conclusione del negozio, ma per loro natura inidonee a trasfigurare la dimensione causale tipica del contratto, che rimane legata alla ragione finale del trasporto, con la conseguente applicabilità dell’art. 2951 c.c. nella parte in cui stabilisce in un anno il termine di prescrizione applicabile alle situazioni soggettive scaturenti da detto negozio. Sul punto, varrà altresì richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, là dove ha sancito come il termine annuale di prescrizione dei diritti nascenti dal contratto di trasporto, previsto dall’art. 2951 c.c., trovi applicazione anche quando le varie prestazioni di trasporto siano rese in esecuzione di un unico contratto (misto) di appalto di servizi di trasporto, dovendosi in tale ipotesi far riferimento alla normativa in tema di trasporto per individuare quelle norme che, come la durata della prescrizione, sono intimamente collegate alla concreta tipologia della prestazione (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 25517 del 18/12/2015, Rv. 638119 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 24265 del 30/11/2010, Rv. 614882 - 01). 24. Con il secondo motivo, l’associazione ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame di fatti decisivi controversi e per violazione degli artt. 2951 e 2947 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale erroneamente escluso il ricorso, nel caso di specie, di un’ipotesi di illecito extracontrattuale, eventualmente concorrente con quello di natura contrattuale riconosciuto dal giudice a quo, suscettibile di giustificare l’applicazione dei termini di prescrizione di durata quinquennale di cui all’art. 2947 c.c.. 25. Il motivo è inammissibile. 26. Osserva preliminarmente il Collegio come la questione sollevata dall’associazione ricorrente con l’odierna impugnazione (con particolare
riguardo al tema del concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale) non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata. Al riguardo, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di puntuale e completa allegazione del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (cfr. ex plurimis, Sez. 2 -, Sentenza n. 20694 del 09/08/2018, Rv. 650009 - 01; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 15430 del 13/06/2018, Rv. 649332 - 01). Nella specie, non avendo la ricorrente in alcun modo provveduto alle ridette allegazioni, il motivo deve ritenersi per ciò stesso inammissibile. 27. Varrà peraltro rilevare, in ogni caso come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’ammissibilità del concorso tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale, richieda indefettibilmente che il fatto che violi i diritti derivanti da contratto, valga a costituire, allo stesso momento, la lesione di diritti della persona offesa rilevanti sul piano aquiliano, indipendentemente dall’avvenuta conclusione del contratto dedotto in giudizio (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 418 del 19/01/1996, Rv. 495504 - 01). Nella specie, la pretesa sussistenza di un’astratta concorrenza di un illecito aquiliano con l’azione contrattuale qui esercitata non appare in ogni caso riconoscibile, non potendo ritenersi che il danno subito dai trasportati, per come denunciato in questa sede, sia valso a determinare di per sé, al di fuori dell’inadempimento della prestazione contrattuale, una lesione di diritti della persona su-
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scettibili di giustificare l’accostamento, alla tutela contrattuale, di quella disciplinata dagli artt. 2043 c.c. e ss. 28. Con il terzo motivo, l’associazione ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 2951 c.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis, degli artt. 24 e 117 Cost. e degli artt. 6 e 13 CEDU, per avere la corte territoriale omesso di rilevare la non conformità e l’incompatibilità del termine prescrizionale annuale previsto dalla art. 2951 c.c. in relazione al principio comunitario di effettività della tutela, a tal fine rinnovando la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, o alla Corte Costituzionale ai sensi della L. n. 87 del 1953, art. 23. 29. Con il quarto motivo, l’associazione ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 2951 c.c. e dell’art. 3 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente omesso di rilevare l’illegittimità costituzionale della disciplina relativa al termine prescrizionale annuale previsto per il contratto di trasporto in esame, in relazione comparativa con altre forme di trasporto, a tal fine rinnovando l’istanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale ai sensi della L. n. 87 del 1953, art. 23. 30. Con il quinto motivo, l’associazione ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140-bis, in combinato disposto con l’art. 2951 c.c., degli artt. 24 e 117 Cost. e degli artt. 6 e 13 CEDU, per avere la corte territoriale omesso di rilevare la non conformità e l’incompatibilità del previsto effetto interruttivo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno a decorrere dal momento del deposito dell’adesione del singolo utente all’azione di classe, con il principio eurounitario di effettività della tutela, a tal fine rinnovando l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE ai sensi
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dell’art. 267 TFUE, o alla Corte Costituzionale, ai sensi della L. n. 87 del 1953, art. 23. 31. Il terzo, il quarto e il quinto motivo - congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione - sono infondati. 32. Sul punto, osserva il Collegio come la corte territoriale abbia adeguatamente argomentato, sul piano motivazionale, la circostanza della piena idoneità della disciplina nazionale a garantire l’effettività della tutela dei trasportati, anche nella prospettiva della disciplina eurounitaria, avendo ragionevolmente posto in evidenza la congruità del termine annuale previsto al fine di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale rivendicata, come peraltro di fatto confermato dalla tempestività della rivendicazione risarcitoria avanzata da oltre la metà degli aderenti all’associazione ricorrente. 33. Allo stesso modo, del tutto correttamente la corte territoriale ha indicato le ragioni che militano a sostegno della ragionevole apprezzabilità della diversa disciplina dei termini di prescrizione previsti in relazione ai diritti connessi all’esecuzione di alternative forme di trasporto (come quella aerea o marittima), avendo, da un lato, sottolineato il maggior favore della disciplina di cui all’art. 2951 c.c. rispetto alle norme del codice della navigazione riferite al contratto di trasporto di persone (cfr. l’art. 418, comma 1, c.n.), ed avendo, dall’altro, richiamato le ragioni della diversità della disciplina contenuta nei Regolamenti CE n. 392/2009 (con il connesso richiamo all’art. 16 della Convenzione di Atene in materia di trasporto marittimo) e n. 889/2002 (con il connesso richiamo alla Convenzione di Montreal in materia di trasporto aereo), attesa l’inerenza di tali ultime fonti normative alle diverse ipotesi di diritti risarcitori connessi (non già ai casi di mero inadempimento del contratto di trasporto, come nell’ipotesi oggetto dell’odierna controversia, bensì) ai casi, di assai più grave rilevanza, di eventuali incidenti occorsi durante il viaggio.
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34. Quanto, infine, alla compatibilità con il principio eurounitario e/o costituzionale di effettività della tutela del previsto effetto interruttivo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno a decorrere dal momento del deposito dell’adesione del singolo utente all’azione di classe (ex art. 140bis cod. cons.), del tutto correttamente il giudice a quo ha evidenziato l’insussistenza di alcuna vulnus ai richiamati principi, trattandosi della disciplina di un termine prescrizionale inevitabilmente connesso alla coerente regolamentazione di un complesso meccanismo processuale (coinvolgente un numero astrattamente indefinito di parti), in ogni caso dotato di effettiva e sperimentata congruità temporale, e tale da non sottrarre all’interessato, ove ritenuta più opportuna o congeniale, la scelta per una diversa strada processuale, ovvero per l’attivazione del più agevole strumento interruttivo della prescrizione attraverso l’inoltro di un’ordinaria costituzione in mora. 35. Sulla base delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del quarto motivo del ricorso proposto da Trenord s.p.a. disattesi i restanti motivi di detto ricorso e disatteso il ricorso proposto da Altroconsumo - dev’essere disposta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere alla rinnovazione del giudizio di appello nel rispetto del seguente principio di diritto: L’accertamento del danno non patrimoniale rivendicato nel quadro di un’azione di classe promossa ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 140bis - oltre all’allegazione e alla prova concreta del ricorso degli ordinari requisiti: 1) della rilevanza costituzionale degli interessi lesi; 2) della gravità della relativa lesione e 3) della non futilità dei danni (ossia che gli stessi non consistano in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie o in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita, conformemente a quanto statuito
da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605493 - 01) - richiede altresì la specifica allegazione e la prova dei profili concreti dei pregiudizi lamentati, capaci di valorizzarne i tratti condivisi da tutti i membri della classe, non personalizzabili in relazione a singoli danneggiati, bensì accomunati da caratteristiche tali da giustificarne, tanto l’apprezzamento seriale, quanto la gestione processuale congiuntamente rivendicata. 36. Al giudice del rinvio è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie il quarto motivo del ricorso proposto da Trenord s.p.a.; rigetta i restanti motivi del ricorso proposto da Trenord s.p.a. e il ricorso proposto dall’associazione Altroconsumo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere alla rinnovazione del giudizio di appello nel rispetto del principio di diritto di cui in motivazione, oltre alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. (Omissis)
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I criteri di risarcibilità dei danni non patrimoniali nelle class actions Sommario:
1. La vicenda processuale. – 2. Rilevanza costituzionale dell’interesse leso e gravità del pregiudizio. – 3. L’omogeneità delle situazioni soggettive. – 4. Considerazioni conclusive.
Il lavoro, esaminando una recente sentenza della S.C. di Cassazione, pronunciatasi all’esito di un giudizio promosso nelle forme dell’azione di classe di cui all’art. 140-bis del D. lgs. 205/2006, consente di analizzare i profili attinenti alle condizioni di risarcibilità dei danni non patrimoniali nell’ambito della tutela giurisdizionale collettiva, nonché di fare il punto sul concetto dell’omogeneità dei diritti che si assumono lesi nelle class actions. The paper, examining a recent judgement of the Supreme Court of Cassation, pronounced on a class action lawsuit, pursuant to article 140-bis D. lgs. 205/2006, analyses the refundability’s conditions of the non-pecuniary damages in the collective jurisdictional procedures. It also examines the concept of “homogeneity” of the rights that are protected by class action lawsuits.
1. La vicenda processuale. Con la sentenza che si annota la Suprema Corte di cassazione1 ha dettato le condizioni in virtù delle quali può essere accertato il risarcimento del danno non patrimoniale nel quadro di giudizi iniziati per mezzo di un’azione di classe. La pronuncia, depositata il 31 maggio 2019, si colloca ad appena poco più di un mese dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge n. 31/20192 che prevede una nuova disciplina per le azioni collettive, ma opera necessariamente secondo le ancora vigenti disposizioni dettate dall’art. 140-bis del D. lgs. n. 206/2005 per i giudizi consumeristici.
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Si segnalano, a commento della medesima pronuncia, Palmieri, Il caso Trenord. La class action consumeristica inciampa sul danno non patrimoniale, in Quotidiano giuridico, 13.6.2019; in Nuova giur. civ., 2019, 5, note di C. Scognamiglio, La Cassazione delinea presupposti e limiti di risarcibilità del danno non patrimoniale contrattuale nell’azione di classe, 993; Ponzanelli, Il danno non patrimoniale dei pendolari all’esame della Corte di Cassazione, 1002; Selini, La Suprema Corte chiarisce le condizioni indefettibili per una tutela “di classe” del danno non patrimoniale da inadempimento, in Danno e Resp., 2019, 5, 634. 2 Per un’analisi più approfondita della nuova disciplina sia consentito rimandare ad AA.VV., Class action. Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, a cura di Sassani, Pisa, 2019.
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Ricostruire l’iter processuale, come di frequente accade, risulta anche in questo caso necessario per comprendere la portata della decisione finale assunta dalla Suprema Corte. In particolare, la vicenda oggetto del giudizio ha preso le mosse da una serie di procedimenti, successivamente riuniti, promossi da alcune associazioni consumeristiche che avevano agito ex art. 140-bis del codice del consumo per conto di taluni utenti di Trenord - società operante nel settore ferroviario che si occupa del trasporto pubblico locale nella regione Lombardia - che avevano lamentato una serie di disagi subiti a causa della sua mala gestione del servizio nel periodo tra il 9 e il 17 dicembre 2012. Viene innanzitutto in rilievo la decisione assunta dal Tribunale3 in sede di giudizio di ammissibilità, il quale aveva dichiarato inammissibile l’azione di classe proposta da un’associazione di categoria, stante l’assenza del requisito della omogeneità4 dei diritti individuali lesi dagli illeciti contrattuali di Trenord5 e dei relativi danni lamentati dagli attori, che difettavano dei caratteri di base comuni necessari ai fini di una trattazione congiunta6. Proposta impugnazione avverso l’ordinanza di inammissibilità, la Corte d’appello di Milano7, revocando la citata pronuncia, aveva invece riconosciuto il carattere di omogeneità delle posizioni dei ricorrenti sotto il profilo dell’an, ritenendo che la diversificazione delle conseguenze incidesse soltanto sul quantum spettante a ciascuno. La Corte evidenziava, infatti, l’impossibilità di richiedere una perfetta sovrapponibilità tra le situazioni dei singoli aderenti, posto che una tale circostanza si risolverebbe in una sostanziale abrogazione dell’art. 140-bis e in un evidente contrasto con l’intento perseguito dal legislatore di regolazione del mercato e di semplificazione ed economia processuale. In sede di trattazione del merito, riunita ad altri giudizi aventi il medesimo oggetto e che avevano subito la stessa sorte, la domanda proposta veniva dapprima rigettata dal Tribunale e successivamente accolta dalla Corte d’appello8, la quale, riconosciuta l’omogeneità delle situazioni soggettive in gioco, aveva condannato la società convenuta a corrispondere, a titolo di risarcimento del danno, la somma equitativamente individuata
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Trib. Milano, Sez. X, 8 novembre 2013 in Foro It., 2014, 1, 1, 274 e, in Giur. It., 2014, 3, 603, con nota di Giussani, Intorno alla tutelabilità con l’azione di classe dei soli diritti “omogenei”. 4 La legge n. 27 del 24 marzo 2013 ha sostituito il requisito della identità dei diritti tutelabili con quello della loro omogeneità. 5 Nella pronuncia il Tribunale aveva valutato omogenea soltanto la causa che ha provocato gli inadempimenti lamentati dagli abbonati al servizio ferroviario (ovvero l’utilizzo di un sistema informatico per la gestione dei turni del personale senza la necessaria sperimentazione), risultando invece gli inadempimenti del tutto diversi tra loro, consistendo in alcuni casi in ritardi di 15/20 minuti, in altri di 60/80 minuti, in altri di diverse ore, o nella cancellazione di convogli con dirottamento su altri. 6 Di contrario avviso, in dottrina, Giussani, Intorno alla tutelabilità, cit., 605 ss., il quale rileva che la diversità degli inadempimenti e dei danni subiti non è circostanza incompatibile con l’esercizio delle azioni di classe qualora derivino da un’unica condotta illecita. 7 App. Milano, Sez. II, 3 marzo 2014 in Foro It., 2014, 5, 1, 1619 e, in Giur. It., 2014, 8-9, 1910 con nota di Giussani, Ancora sulla tutelabilità con l’azione di classe dei soli diritti ‘‘omogenei’’. 8 App. Milano, Sez. II, 25 agosto 2017, n. 3756, in Nuova Giur. Civ., 2018, 1, 10 con nota di Saguato, Azione di classe e risarcimento del danno non patrimoniale “omogeneo”; in Giur. It., 2018, 1, 105, con nota di Dondi - Giussani, Commonality all’italiana e avvio (timido) della nostra azione di classe; in Corr. Giur., 2018, 2, 243 con nota di Zuffi, Arriva la prima maxi condanna di classe, anche se i diritti di molti aderenti risultano prescritti... ma davvero la citazione notificata ex art. 140 bis c. cons. non ha effetto interruttivo istantaneo “collettivo”?; in Danno e Resp., 2018, 3, 373 con nota di Monti, Danno da ritardo ferroviario: oltre l’indennizzo per la tutela degli “interessi di classe”.
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in Euro 100, in favore degli utenti9: la Corte territoriale, infatti, aveva ritenuto che la straordinarietà dei disagi sofferti dai passeggeri della società ferroviaria era tale da superare la misura dell’indennizzo minimo contrattualmente previsto in caso di ritardo sporadico o occasionale nelle prestazioni di trasporto10. Di contro, però, non potevano beneficiare di tale risarcimento gli aderenti le cui domande riguardavano diritti, derivanti da contratto di trasporto, ormai prescritti. Il ricorso per cassazione con cui la società soccombente lamentava l’erroneità della sentenza emessa dalla Corte di merito sotto diversi profili, vedeva accolto il quarto motivo portante sulla risarcibilità dei danni non patrimoniali. Nel motivare l’accoglimento della doglianza, la Cassazione ha rimproverato ai giudici di merito, in primo luogo, di non essersi attenuti, nel pronunciare la decisione impugnata, ai principi generali dettati in materia di risarcibilità del danno non patrimoniale e, in secondo luogo, di non aver adeguatamente interpretato e valutato il carattere di omogeneità dei diritti e dei pregiudizi relativi ai membri della classe.
2. Rilevanza costituzionale dell’interesse leso e gravità del pregiudizio.
Quanto al primo profilo della risarcibilità del danno non patrimoniale, i principi a cui la Corte di merito si sarebbe dovuta attenere ai fini della configurabilità del danno non patrimoniale derivante da inadempimento contrattuale, sono stati indicati in quelli dettati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26972 dell’11 novembre 200811. Premessa l’applicabilità
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In dottrina, tra le fila di coloro che hanno accolto con favore tale pronuncia, Dondi-Giussani, Commonality all’italiana, cit., 106, in cui si apprezza la soluzione standardizzata adottata dalla Corte nella liquidazione dei danni, poiché conforme alla finalità propria dello strumento delle azioni collettive. 10 L’art. 17 del Regolamento europeo n. 1371/2007, relativo a diritti e obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario, prevede la possibilità che il passeggero chieda all’impresa ferroviaria un indennizzo “in caso di ritardo tra il luogo di partenza e il luogo di destinazione indicati sul biglietto se non gli è stato rimborsato il biglietto in conformità dell’articolo 16.” 11 Per un approfondimento in dottrina sulla rilevanza delle c.d. sentenze di San Martino (Cass. civ., Sez. Un., sentenze 11.11.2008 n. 26972, 26973, 26974, 26975) si veda in Foro it., 2009, 1, note di Palmieri, La rifondazione del danno non patrimoniale, all’insegna della tipicità dell’interesse leso (con qualche attenuazione) e dell’unitarietà, 123; Pardolesi-Simone, Danno esistenziale (e sistema fragile): «die hard», 128; Ponzanelli, Sezioni unite: il «nuovo statuto» del danno non patrimoniale, 134; Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali, 139; in Nuova giur. civ., 2009, 2, note di Bargelli, Danno non patrimoniale: la messa a punto delle sezioni unite, 2, 117; Di Marzio, Danno non patrimoniale: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione non è eccellente, 122; in Giur. it., 2009, note di Tomarchio, L’unitarietà del danno non patrimoniale nella prospettiva delle Sezioni unite, 2, 318; Vizioli, Il c.d. ‘‘danno esistenziale’’ ancora di fronte le Sezioni unite della suprema Corte di cassazione: in particolare la tutela della persona del lavoratore, 6, 1380; Angiuli, La riduzione delle poste risarcitorie come effetto della configurazione del “nuovo” danno non patrimoniale, 10, 2196; in Danno e resp., 2009, 1, note di Procida Mirabelli di Lauro, Il danno non patrimoniale secondo le sezioni unite. Un “de profundis” per il danno esistenziale, 32; Landini, Le SS.UU. Fanno il punto sul “danno non patrimoniale” - danno biologico e danno morale soggettivo nelle sentenze della Cass. SS.UU. 26972, 26973, 26974, 26975/2008, 45. Si veda ancora, Busnelli, Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, 1, 97; Rossetti, Post nubila phoebus, ovvero gli effetti concreti della sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 in tema di danno non patrimoniale, in Giustizia civ., 2009, 4-5, 930.
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di tali principi anche nei casi di danno non patrimoniale derivante da inadempimento12, la Corte ha adottato l’insegnamento delle SS.UU., consistente in un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. per cui la risarcibilità dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione dei diritti inviolabili della persona sarebbe consentita soltanto al ricorrere della rilevanza costituzionale dell’interesse leso, della gravità del pregiudizio subito (che deve essere tale da superare la soglia di tollerabilità imposta dal dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione) e, di conseguenza, della non futilità del danno, il quale non può consistere in meri “disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale.”13 Se queste, dunque, rappresentano le linee guida che devono seguire i giudici di merito nel momento della valutazione della risarcibilità dei danni non patrimoniali, derivanti dalla lesione di diritti di cui è richiesta tutela in via individuale, ad avviso della sentenza in commento, lo stesso tipo di indagine istruttoria deve essere eseguito anche nel caso in cui ad agire per la tutela di situazioni soggettive lese non sia il singolo individuo ma una classe di soggetti danneggiati. Invero, si richiede che anche i singoli pregiudizi non patrimoniali calati all’interno della dimensione di una collettività superino quella soglia di sufficiente gravità individuata dalle Sezioni Unite e integrino la lesione di un interesse costituzionalmente rilevante. A fondamento di tali affermazioni, i giudici della terza sezione richiamano precedenti pronunce della stessa Corte di cassazione, relative a richieste risarcitorie di danni non patrimoniali, azionate in via individuale da un singolo danneggiato, nell’ambito del settore del trasporto ferroviario, ma negate poiché non rilevanti fino al punto tale da superare la soglia di sufficiente gravità e di compromissione del diritto leso14. La prospettiva restrittiva adottata dalla Corte ha sicuramente una sua logica, eppure spinge ad interrogarsi sulla funzionalità di questa soluzione nel sistema della tutela collettiva. Il danneggiato che agisce con tale modalità bilancia infatti i minori costi e il minimo impegno organizzativo, rispetto all’azione individuale, con la possibile standardizzazione
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Sul danno non patrimoniale da inadempimento si veda Delle Monache, Interesse non patrimoniale e danno da inadempimento, in Contratti, 2010, 7, 720 ss. Sulla natura del risarcimento dei danni nell’ambito dei giudizi collettivi, con particolare attenzione al profilo dell’identificazione del danno oggetto di accertamento nell’azione risarcitoria, si veda, invece, Villa, Il danno risarcibile nell’azione collettiva, in Danno e resp., 2009, 1, 11, in cui si rileva che occorre utilizzare i parametri classici della responsabilità civile, posto che il danno risarcibile si identifica in una somma delle pretese individuali. Peraltro, nello stesso contributo, l’A. manifesta perplessità circa la deducibilità del risarcimento del danno non patrimoniale per mezzo di azioni di classe, evidenziando che quest’ultimo potrebbe non soddisfare la commonality richiesta o non fondarsi su temi di lite comuni, sia nel caso in cui i danni non patrimoniali di cui si chiede ristoro siano collegati alla violazione di diritti della persona costituzionalmente garantiti, sia qualora si tratti di danni morali soggettivi e di danni esistenziali. 13 Queste parole, utilizzate dalle Sezioni Unite 11.11.2008 n. 26972, sono riportate testualmente dalla Terza Sezione nella sentenza in commento. 14 La pronuncia de qua richiama Cass. civ., 8 febbraio 2019, n. 3720 in Foro It., 2019, 4, 1, 1212 e Cass. civ., 4 maggio 2018, n. 10596, leggibile su www.pluris-cedam.utetgiuridica.it, in cui si riconosce la non risarcibilità del danno esistenziale derivato al viaggiatore da un pessimo servizio ferroviario che non abbia causato al contempo grave lesione dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti della persona.
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del ristoro conseguente alla omogeneità del proprio pregiudizio rispetto alla classe. Di fatto, egli finisce per accettare la determinazione forfettaria della quantificazione del proprio danno individuale. In altri termini, l’adozione sic et simpliciter di criteri di risarcibilità del danno non patrimoniale elaborati per le controversie individuali dalle Sezioni Unite del 2008, non sembra sia aprioristicamente scontata nelle controversie a portata collettiva15. Un primo dubbio sulla trasponibilità incondizionata della soluzione restrittiva adottata nasce dal fatto che lo strumento della class action è stato introdotto nell’ordinamento in un momento successivo all’elaborazione di tali criteri, dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tempi precedenti all’inserimento nel codice del consumo dell’art. 140-bis e all’entrata in vigore del meccanismo di tutela collettiva risarcitoria16. Quando la Cassazione elaborò le condizioni di risarcibilità del danno non patrimoniale, non poteva probabilmente considerare il peculiare tema della risarcibilità dei pregiudizi collettivi, posto che le controversie conseguenti all’impiego di uno strumento di tutela così peculiare quale l’azione risarcitoria di classe erano, all’epoca, di là da venire. Ed era quindi da venire lo scenario di chi agisce (o aderisce alla classe) accettando la risarcibilità del “minimo comune pregiudizio” collettivamente rilevante in ragione della sua omogeneità: un tale scenario richiede probabilmente condizioni di risarcibilità del danno non patrimoniale più flessibili, e l’applicazione rigorosa delle limitazioni imposte al risarcimento del pregiudizio alla dimensione collettiva rischia di rendere inutilizzabile l’azione di classe in un buon numero di casi. La trasposizione meccanica della soluzione delle Sezioni Unite del 2008 presta poi il fianco alla critica, variamente svolta in dottrina, all’identificazione dell’interesse leso con un interesse costituzionalmente tutelato e suscettibile di essere ricompreso nell’ambito dei diritti inviolabili. Invero, si è lamentato che l’assolutizzazione di tale criterio lascia in ombra la possibilità che altri interessi possano legittimamente assurgere a situazioni risarcibili, a partire dal problema del risarcimento del danno non patrimoniale a carattere contrattuale: in tale prospettiva la ricostruzione elaborata dalle Sezioni Unite dovrebbe
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Primissime perplessità sono state sollevate da Sassani, in Class action. Commento sistematico cit., XII, il quale rileva come la risarcibilità del danno non patrimoniale debba assumere una valenza sui generis nell’ambito delle azioni di classe, e non essere vincolata alla distinzione tra patrimonialità e non patrimonialità tipica della responsabilità civile. 16 La più risalente disciplina della tutela collettiva risarcitoria, introdotta nel nostro ordinamento con la legge finanziaria per il 2008 (commi da 445 a 449, l. 24 dicembre 2007, n. 244), non è mai entrata in vigore a causa di difficoltà applicative che hanno dato luogo a vari differimenti. La norma, modificata poi dall’art. 49 della legge 23 luglio 2009, n. 99 “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese”, è entrata in vigore a partire dal 1° gennaio 2010, così come disposto dal decreto-legge n. 78/2009, convertito dalla legge n. 102/2009. Per approfondimenti, la letteratura a commento della precedente disciplina delle azioni di classe è vastissima: si veda, ad esempio, Costantino, La tutela collettiva risarcitoria: note a prima lettura dell’art. 140- bis cod. consumo, in Foro it., 2008, V, 17; Caponi, La class action in materia di tutela del consumatore in Italia, in Foro It., 2008, V, 281; Carratta, L’azione collettiva risarcitoria e restitutoria: presupposti ed effetti, in Riv. dir. proc., 2008, 734; Consolo, È legge una disposizione collettiva risarcitoria: si è scelta la via svedese dello “opt-in” anziché quella danese dello “opt-out” e il filtro (“l’inutile precauzione”), in Corr. giur., 2008, 5; Alpa, L’azione collettiva risarcitoria. Alcune osservazioni di diritto sostanziale, in Contratti, 2008, 6, 545; Giussani, Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, Bologna, 2008; Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, 2008; A.D. De Santis, La tutela giurisdizionale collettiva. Contributo allo studio della legittimazione ad agire e delle tecniche inibitorie e risarcitorie, Napoli, 2013..
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piuttosto assumere il valore di regola di chiusura del sistema e non costituire una forma di barriera ad altre fonti di disciplina17. Gli stretti limiti imposti dalla linea delle S. U. lasciano infatti temere il sacrificio del rilievo spettante all’autonomia contrattuale delle parti, dal momento che il criterio di selezione della lesione risarcibile solo se gravante su un diritto della persona costituzionalmente garantito non giustifica l’aprioristica esclusione della tutela risarcitoria di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla lesione di altri interessi che, seppur non costituzionalmente tutelati, rientrano nello “scopo di protezione” del rapporto obbligatorio18. Le perplessità si amplificano nel contesto dei giudizi collettivi, e inducono a riconsiderare la soluzione adottata dalla sentenza in commento: nei giudizi di classe, infatti, all’identificazione della “minima unità tutelabile” dovrebbero poter concorrere le esigenze proprie del sistema collettivo. Così, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, sembrerebbe opportuno valutare se l’interesse leso sia (più che un interesse costituzionalmente tutelato) un interesse legittimamente tutelato. Il che vuol dire, in primo luogo, valutare se ricompreso nello scopo di protezione del rapporto obbligatorio, e in secondo luogo, verificare il rapporto tra l’interesse individuale leso e l’insieme degli interessi tutelati. Per altro verso, anche con riferimento al mancato superamento della soglia di sufficiente gravità e serietà dei pregiudizi non patrimoniali, individuata in via interpretativa dalle Sezioni Unite del 2008 quale limite alla tutela risarcitoria, i giudizi collettivi impongono alcune considerazioni. Non v’è dubbio che danni non patrimoniali di natura bagatellare siano destinati a non trovare tutela risarcitoria nel nostro ordinamento, a fronte della loro non riconducibilità alla violazione dei diritti inviolabili, secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. data dalla giurisprudenza; peraltro, neppure accogliendo la tesi che fa discendere la risarcibilità di tali danni, in via convenzionale, dall’interpretazione del contratto secondo buona fede, il ristoro di pregiudizi bagatellari può trovare tutela, giacché tale interpretazione ex fide bona rappresenta una clausola generale dell’ordinamento,
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Cfr. sul punto Navarretta, Il danno non patrimoniale contrattuale: profili sistematici di una nuova disciplina, in Contratti, 2010, 7, 728 ss. Secondo l’A., la fonte convenzionale e quella legale, posto che “rispondono ad una logica rispettivamente di distribuzione dei costi e dei rischi contrattuali o di bilanciamento degli interessi cristallizzato a livello legislativo”, esplicitamente contemplando il risarcimento del danno non patrimoniale, possono riguardare anche interessi diversi da quelli relativi ai diritti inviolabili. 18 Queste riflessioni sono elaborate da C. Scognamiglio, Il sistema del danno non patrimoniale dopo le Sezioni Unite, in Resp. civ. prev., 2009, 2, 271 ss., in cui l’Autore rileva come il parametro degli interessi costituzionalmente garantiti non sempre è in grado di portare a risultati univoci, piuttosto lascia ampio spazio al giudice in termini di stabilire la rilevanza dell’interesse privato ai sensi dell’art. 2 Cost. Peraltro, l’A., in commento alla sentenza segnalata, La cassazione delinea presupposti e limiti, cit., 1001, evidenzia che la risarcibilità di un danno non patrimoniale, nel quadro dell’azione di classe esperita in relazione ai lamentati disservizi ferroviari, avrebbe potuto essere argomentata richiamando la disposizione dell’art. 1681 c.c. e il riferimento ai sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore: tale disposizione, essendo in grado di racchiudere al proprio interno tutti i fatti produttivi di danno per i passeggeri, previa verifica circa la serietà e gravità della lesione e l’effettività della perdita, risulta sufficiente ad assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale e rende sovrabbondante l’eventuale utilizzazione di principi costituzionali come quello di cui all’art. 16 Cost. relativo alla libertà di circolazione delle persone.
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legata al principio solidaristico della tolleranza che impone di sopportare quelle offese trascurabili che non presentino un minimo di serietà strutturale19. Tuttavia, assolutizzando tale insegnamento e ritenendo quindi applicabili anche in caso di tutela collettiva i criteri che legano il risarcimento alla lesione di valori fondamentali e generali dell’ordinamento, si corre il rischio di azzerare nei fatti pregiudizi collettivamente rilevanti e, di conseguenza, di autorizzare comportamenti antigiuridici (o addirittura predatori) sol perché la redistribuzione pro capite si risolve in pregiudizi individuali “sotto soglia”. Se questo è vero, sembra allora eccessivamente riduttivo considerare alla stregua di mero fastidio o di insoddisfazione personale un evidente e comprovato disagio causato ad una comunità, consistito – nel caso di specie – in “ritardi prolungati, cancellazioni di corse, trasbordi da un convoglio all’altro, modifiche di itinerari, condizioni di sovraffollamento dei convogli”20, e dal cui mancato riconoscimento e ristoro deriva, oltre alla manifestazione di ansie e insofferenze in capo ai passeggeri, anche il via libera al comportamento scorretto e anticoncorrenziale di imprese affidatarie dello svolgimento di un pubblico servizio, eventualmente operanti in regime di monopolio.
3. L’omogeneità delle situazioni soggettive. Quanto all’omogeneità dei diritti pregiudicati si è già detto che costituisce presupposto necessario ai fini di consentire che una controversia sia veicolata per mezzo dello strumento dell’azione di classe ex art. 140-bis cod. cons. Peraltro, il comma 6 della medesima disposizione individua, quale causa di dichiarazione di inammissibilità delle azioni di classe, proprio l’assenza del requisito dell’omogeneità dei diritti individuali che si intende tutelare21. La Cassazione, con la sentenza in commento, preso atto dell’assenza di una definizione legislativa del significato da attribuire al termine omogeneità22, ha rilevato come tale requisito debba essere inteso come “il tratto proprio di pretese individuali che, vantate da un insieme di consumatori o di utenti, siano accomunate da caratteristiche tali da giustificarne un apprezzamento seriale e una gestione processuale congiunta, dovendo escludersi, sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, la compatibilità dello strumento processuale così delineato dal legislatore con l’esecuzione di accertamenti calibrati su spe-
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Navarretta, Il danno non patrimoniale cit., 733 Secondo la Corte di cassazione, i rilievi operati dalla Corte d’appello non giustificano la riconducibilità delle difficoltà riscontrate dagli utenti del servizio nell’ambito della categoria di diritti la cui lesione è suscettibile di tutela risarcitoria. 21 Permane, con l’approvazione della legge n. 31/2019, la causa di inammissibilità delle azioni di classe per mancato riscontro da parte del tribunale del requisito dell’omogeneità dei diritti, così come previsto dal comma 4 del nuovo art. 840-ter c.p.c. 22 Peraltro, occorre rilevare che, ad oggi, nemmeno la citata l. n. 31/2019 di riforma delle azioni di classe, pur mantenendo fermo il requisito dell’omogeneità dei diritti individuali, si è occupata di darne una definizione specifica. 20
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cifiche situazioni personali o con valutazioni che si soffermino sulla consistenza specifica della sfera emotiva o dell’esperienza dinamico-relazionale di singoli danneggiati.” Sulla scorta di queste considerazioni, la Corte ha ritenuto che la sentenza oggetto di ricorso non abbia adeguatamente considerato se vi fosse prova della omogeneità dei profili dei pregiudizi individuati, ritenendo quindi non emersi, all’esito del giudizio, i tratti comuni a tutti i membri della classe, i quali sarebbero dovuti consistere in caratteristiche idonee a giustificarne sia l’apprezzamento seriale che la comune gestione processuale. Al riguardo, occorre rilevare che, in via generale, sul criterio di individuazione dei diritti tutelabili nelle forme dell’azione di classe permangono, invero, situazioni di incertezze interpretative dottrinali23 e giurisprudenziali24, non chiarite neppure a seguito della sostituzione, da parte del legislatore del 201225, del criterio dell’identità (originariamente previsto e poi risultato troppo restrittivo giacché richiedeva identità di causa petendi e di petitum) delle situazioni giuridiche con quello della omogeneità delle stesse. Peraltro, la corretta individuazione del significato da attribuire all’omogeneità dei diritti dei partecipanti assume oggi – nella prospettiva della prossima entrata in vigore della nuova disciplina sulle azioni collettive dettata dalla legge n. 31/2019 – importanza ancora maggiore, dal momento che rappresenterà l’unico criterio attraverso il quale stabilire l’appartenenza dei membri alla classe, non essendo questa più predeterminata dal legislatore sotto il profilo soggettivo26. Se allora si può condividere la preoccupazione della Suprema Corte per la fissazione dei criteri in base ai quali rintracciare la sussistenza di diritti omogenei e la funzione degli stessi all’interno di una classe (con la necessità che prevalgano e siano valorizzati i tratti comuni condivisi da tutti i membri, tali da rendere marginali eventuali profili personali di ciascun componente), nel caso di specie, l’omogeneità delle situazioni soggettive – che ha portato alla rinuncia all’intraprendere azioni individuali con rilevanza degli eventuali aspetti personali dei singoli – non sembra che avesse bisogno di essere provata e giustificata. Anzi, il caso de quo presentava a tal punto i caratteri tipici dell’omogeneità che si potrebbe parlare di omogeneità in re ipsa. Infatti, non appare azzardato affermare che, più ancora che omogeneità di diritti, sembra sussistere, nel caso concreto, vera e propria
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La più autorevole dottrina si è cimentata nello sforzo di trovare una soluzione interpretativa al termine omogeneità: non è questa la sede per dare conto delle innumerevoli tesi proposte dai vari autori, ma per l’approfondimento di alcune di queste si rimanda ad A. D. De Santis, La tutela giurisdizionale collettiva. Contributo allo studio della legittimazione ad agire e delle tecniche inibitorie e risarcitorie, Napoli, 2013, 579 ss.; recentemente, se ne è occupato Donzelli, L’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire, in Class action. Commento sistematico cit., 13 ss. 24 Si veda, in tema di pronunce di merito dichiarate inammissibili per assenza del requisito di identità e omogeneità dei diritti lesi, Trib. Roma, ord. 11 aprile 2011, in Corr. mer., 2011, 1172, con nota di Rizzardo, Class action tra diffidenza e ingenuità: un’altra battuta d’arresto in fase di filtro; Trib. Venezia, ord. 12 gennaio 2016, in Foro it., 2016, 1, 1017. 25 Decreto-legge n. 1/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 27/2012. 26 Cfr. Petrillo, Situazioni soggettive implicate, in Class action. Commento sistematico cit., 59 ss. Il riferimento è alla circostanza per cui la nuova formulazione dell’art. 840-bis c.p.c. amplia l’ambito di applicazione delle azioni di classe dal punto di vista soggettivo, divenendo strumento rivolto non esclusivamente a consumatori e utenti, ma ad ogni titolare di diritti individuali omogenei; sull’ampliamento della legittimazione attiva ad opera della nuova disciplina, cfr. anche Consolo, La terza edizione della azione di classe è legge ed entra nel c.p.c. Uno sguardo d’insieme ad una amplissima disciplina, in Corr. giur., 2019, 6, 738.
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Giurisprudenza
identità della maggior parte degli elementi: identità della situazione di fatto, identità del pregiudizio subito e identità del titolo da cui tale pregiudizio deriva. Sostanzialmente lo stesso pregiudizio (e non il pregiudizio singolare di chi, per es., chieda di esser risarcito per aver perso, a causa del ritardo, l’appuntamento di affari programmato) distribuito tra i soggetti della classe, come tale provato da un titolo di viaggio corrispondente alla prestazione mancata o inesatta.
4. Considerazioni conclusive Data la natura di cassazione con rinvio, la vicenda processuale non si è conclusa; la palla torna ora alla Corte d’appello di Milano, la quale, in sede di giudizio rescissorio, sarà tenuta a provvedere nel rispetto del principio di diritto enunciato dalla Cassazione. La Terza Sezione, infatti, non ha chiuso totalmente le porte all’azione di classe promossa dai danneggiati, ma ha dettato al giudice ad quem, che sarà incaricato di occuparsi della rinnovazione del giudizio, le linee guida entro cui svolgere la propria indagine, chiedendo di rinnovare l’analisi volta all’accertamento della sussistenza dei criteri su cui si fonda la risarcibilità del danno non patrimoniale e delle caratteristiche comuni ai membri della classe che giustifichino l’omogeneità dei diritti che si assumono violati, entro i limiti delle condizioni dettate in sede di legittimità. Resta quindi ben possibile che la Corte di rinvio concluda nel senso dell’accoglimento dell’azione collettiva, confermando la decisione assunta dalla precedente sentenza d’appello. Questo non impedisce però di aggiungere la pronuncia in epigrafe agli altri esiti poco fortunati che i giudizi di classe hanno subito dal momento della loro introduzione nell’ordinamento. Giulia Mazzaferro
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