L
issn 2531-4688
ABOR Il lavoro nel diritto
4
luglio-agosto 2017
Rivista bimestrale
Diretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA 1973 - 2017: la metamorfosi del processo del lavoro Maurizio Cinelli
Atipicità, flessibilità e contratto di lavoro subordinato Gaetano Zilio Grandi
I criteri di scelta nel licenziamento individuale per g.m.o. Elisabetta Tarquini
Focus sul precariato nel pubblico impiego Michele De Luca e Vincenzo De Michele
Giurisprudenza commentata Marco Biasi, Silvia Ortis, Stefano Iacobucci, Giulia Marchi
Pacini
Indici
Saggi Maurizio Cinelli, 1973-2017: la metamorfosi del processo del lavoro................................................ p. 375 Gaetano Zilio Grandi, Atipicità, flessibilità e contratto di lavoro subordinato: passato, futuro e ruolo del contratto collettivo............................................................................................................... » 381 Elisabetta Tarquini, “I criteri di scelta dei licenziandi nel licenziamento individuale per g.m.o. tra applicazione del canone di buona fede e divieti di discriminazione................................................. » 389
Focus – Il precariato nel pubblico impiego Michele De Luca, Precariato pubblico: condizionalità eurounitaria per divieti nazionali di conversione........................................................................................................................................ » 399 Vincenzo De Michele, Alla ricerca della tutela effettiva dei precari pubblici in Europa e in Italia..... » 415
Giurisprudenza commentata Marco Biasi, La Cassazione e la delicata questione della (ir)rilevabilità d’ufficio della nullità del licenziamento (nota Corte di Cassazione, sentenza 24 marzo 2017, n. 7687).................................... » 437 Sivia Ortis, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: da extrema ratio a strumento imprenditoriale (Corte di Cassazione, sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201)..................................... » 449 Stefano Iacobucci, Lo strano caso dell’apprendistato: alla ricerca della durata (Corte d’appello di Caltanissetta, sentenza 29 novembre 2016)........................................................................................ » 465 Giulia Marchi, Il licenziamento illegittimo nel periodo di prova in caso di nullità della clausola di prova (Tribunale di Milano, sentenza 3 novembre 2016)................................................................... » 479
Indice analitico delle sentenze Apprendistato – termine d’impugnazione – formazione a tempo determinato - tempo indeterminato – licenziamento lavoratrice-madre – nullità – reintegra (App. Caltanissetta, 29 novembre 2016, con nota di Iacobucci) Licenziamenti – impugnativa del licenziamento – causa petendi – principio dispositivo – mutatio libelli – divieto – irrilevabilità d’ufficio (Cass., sez. lav., 24 marzo 2017, n. 7687, con nota di Biasi) – licenziamento in prova – contratto a tutele crescenti – illegittimità – carenza forma scritta del patto di prova – insussistenza del fatto contestato (Trib. Milano, 3 novembre 2016, con nota di Marchi) – licenziamento per giustificato motivo oggettivo – incremento profitti o migliore efficienza gestionale – legittimità – sussistenza (Cass., sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201, con nota di Ortis) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2016 Novembre Trib. Milano App. Caltanissetta
Pagina
7
Dicembre Cass., sez. lav., n. 25201
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2017 Marzo Cass., sez. lav., n. 7687
439
481 467
Notizie sugli autori
Marco Biasi – ricercatore nell’Università degli Studi di Milano Maurizio Cinelli – già professore ordinario nell’Università degli Studi di Macerata Michele De Luca – già presidente di sezione titolare presso la Corte di Cassazione Vincenzo De Michele – avvocato nel foro di Foggia Stefano Iacobucci – dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Padova Giulia Marchi – dottoranda di ricerca nell’Università degli Studi di Milano Silvia Ortis – dottoranda di ricerca nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Elisabetta Tarquini – consigliera presso la Corte d’appello di Firenze Gaetano Zilio Grandi – professore ordinario nell’Università Ca’ Foscari di Venezia
Saggi
Maurizio Cinelli
1973-2017: la metamorfosi del processo del lavoro* Sommario :
1. L’usura del tempo. 2. La frammentazione dei riti. 3. Una tappa cruciale: il “Collegato lavoro”. 4. Le nuove “rigidità”. 5. L’autodeterminazione: una valorizzazione realistica? 6. Obiettivo deflazionamento: una logica perversa?
Sinossi: L’intervento offre qualche spunto di riflessione sul processo del lavoro, ambito nel quale gli interventi di riforma sono stati tanti e tali, dal 1973 ad oggi, da indurre l’A. a parlare di una vera e propria “metamorfosi” della procedura. Le tendenze – messe in luce dall’A. – sono state, in particolare: l’iperfetazione del contenzioso e l’eccessiva frammentazione dei riti. Per cercare di porre rimedio a tali pericolose “derive” la parola d’ordine utilizzata dalle ultime riforme è stata, ancora una volta, quella di “flessibilità”. Abstract: The essay deals with the changes involving procedural labour law during the last decades. The A. stresses, in particular, both the rising of the labour dusputes and the procedural rules thereto. To face these two phenomena the main password used by the lagislator is flexibility. Parole chiave: processo del lavoro – frammentazione del rito – deflazione del contenzioso – flessibilità.
1. L’ u s u ra
del tempo.
Volendo esprimere in poche parole il senso della vicenda evolutiva che lo ha caratterizzato, si potrebbe dire che il processo del lavoro, nell’arco di tempo che ci divide dalla sua storica riforma del 1973, è rimasto “vittima” dell’idealità stessa che ne ha caratterizzato l’originaria configurazione e ne ha per qualche tempo sostenuto il percorso.
*
Relazione al Convegno “Ricordando Sergio Magrini. Un discorso sullo stato del diritto del lavoro”, Luiss, Roma, 5 maggio 2017.
Maurizio Cinelli
Pensate e costruite per dare effettività alle discipline di tutela dell’occupazione, e, dunque, in funzione di riequilibrio delle contrapposte posizioni delle parti nel rapporto di lavoro subordinato (o parasubordinato), le garanzie offerte dal nuovo rito del lavoro ben presto sono state piegate a vantaggio (e in maniera sempre più diffusa) di tipologie di soggetti (i c.d. “utenti”), non coincidenti con quelle sotto-protette a sostegno delle quali quel rito era stato pensato, essenzialmente nella logica dell’art. 3, comma 2, Cost. D’altro canto, il favor per più “agevoli” possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale, proprio della logica del processo del lavoro “riformato”, ha rapidamente condotto ad un notevole, progressivo accrescimento del numero delle controversie di lavoro e previdenziali, fino a farne un “problema” per l’amministrazione della giustizia. Lungo è il periodo – un lasso di tempo che travalica ampiamente, ormai, quello stesso di una generazione – che ci separa dalla riforma del 1973, e, diciamolo, anche dagli studi e dalle riflessioni che al processo del lavoro riformato ha dedicato Sergio Magrini, soprattutto tra la seconda metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta: dallo studio del 1973; sui rapporti tra procedimento amministrativo e azione giudiziaria nelle controversie di previdenza e assistenza obbligatorie, al volume del 1984 che abbraccia le problematiche del diritto processuale del lavoro nella loro interezza. In detto ampio arco di tempo il mutamento della situazione economica, e, con esso, delle politiche del lavoro – in combinazione con i contraccolpi derivanti dai fattori testé ricordati – ha determinato una progressiva usura, se non del modello in sé, certamente della pratica di esso. In particolare, le misure di agevolazione per l’accesso alla tutela giurisdizionale con l’andar del tempo hanno finito per generare il fenomeno negativo che ben conosciamo: quella notevole lievitazione del contenzioso, tanto prettamente lavoristico, quanto (e ancor di più) previdenziale, corresponsabile non secondario dei pesanti ritardi nell’amministrazione della giustizia nel suo complesso. Non per nulla, già a partire dalla seconda metà degli anni ottanta dello scorso secolo, a fronte del progressivo raddoppio del contenzioso civile in tutti i settori – e, anche in ragione del mutato clima politico –, è stato abbandonato, di fatto (come è stato autorevolmente osservato), ogni sostanziale sostegno alla logica ispiratrice della riforma del 1973.
2. La
f ra m m e nt a z i one d e i rit i .
Nel corso degli anni, all’interno del processo del lavoro, ha preso avvio anche un’altra significativa alterazione dell’originario disegno: quel processo di frammentazione interno che ha ben presto condotto alla sostanziale perdita, nel settore, della unicità del rito. Il fenomeno è stato particolarmente precoce ed evidente nel settore delle controversie previdenziali e assistenziali. Come già ho avuto modo di considerare in altra occasione, in tale settore – già destinatario ab origine di disposizioni specifiche anche per quanto riguarda il rito – fin dai primi anni successivi alla riforma si è prodotta una proliferazione di procedure “dedicate”, giustificate da scelte di eterogenea valenza, ma comunque accomunate da obiettivi deflattivo-acceleratori del contenzioso nel suo insieme. Procedure che vanno dal procedimento per ordinanza ingiunzione (art. 35, l. n. 689/1981), alla procedura di riscossione esattoriale (d.lgs. n. 46/1999) e alla procedura di riscossione specifica per i crediti dell’INPS (art. 30, l. n. 122/2010), per quanto riguarda le controversie contributive; dall’assoggettamento al procedimento “ordinario” davanti al giudice di pace per quanto riguarda le cause relative a interessi e accessori da ritardato pagamento di
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prestazioni previdenziali o assistenziali (l. n. 69/2009), al procedimento di accertamento tecnico preventivo, dettato specificamente per le cause di invalidità, tanto previdenziali che assistenziali (art. 38, l. n. 211/2011), per quanto riguarda le controversie aventi ad oggetto le prestazioni. D’altra parte, altrettanto si è verificato – seppure con minore appariscenza, più lentamente e per effetto di dinamiche di genere parzialmente diverso – anche nel settore “principale” delle controversie del lavoro in senso proprio, fino al più recente, discutibile (e discusso) intervento: l’introduzione, ad opera della l. n. 92/2012, dello specifico procedimento per le controversie in materia di licenziamento, che tutti conosciamo.
3. Una
t a p p a c r u c ial e : i l “ Co ll e g a t o l av o ro ” .
Tappa significativa del processo di metamorfosi che qui si considera può essere giudicato (per riferirsi all’esperienza più prossima) quel particolare intervento legislativo diretto a regolare (anche) le occasioni di vertenzialità, che è il c.d. “Collegato lavoro” (l. n. 183/2010): capofila di altri analoghi interventi, in immediata successione, tra i quali, da ultimo, quello già ricordato della legge Fornero per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento. L’intervento in materia processuale del “Collegato lavoro” opera scientemente un ambivalente scambio tra discipline sostanziali e discipline processuali: il legislatore interviene sulle discipline sostanziali per deflazionare il contenzioso; e, per converso, configura (o promuove) nuove vie per la risoluzione delle controversie, nel tentativo di rendere più flessibili (o meno “onerose”) le discipline del lavoro. In tale prospettiva, la flessibilizzazione delle discipline del lavoro costituisce la cifra più evidente e netta, perseguita attraverso più canali: l’offerta di maggiori spazi di regolazione all’autonomia collettiva, anche “di prossimità”, e, in minor, ma non meno significativa misura, all’autonomia individuale; accompagnando detta “apertura” con misure idealmente tese al contenimento delle manifestazioni del potere valutativo e di sindacato del giudice (implicitamente considerato, dunque, come possibile ostacolo alla valorizzazione di quella autonomia); attraverso la promozione e il sostegno di forme di composizione delle controversie alternative al giudizio; attraverso l’adozione di norme dirette a rendere più severe le condizioni per l’esercizio dell’azione giudiziaria; introducendo, infine, anche misure dirette a ridurre le prospettive di convenienza pratica dell’esercizio dell’azione. Operando attraverso detti canali (o “linee di azione”), si è definitivamente sancito il distacco, in favore di “nuovi scenari”, dallo “spirito” della riforma del 1973, pur senza che ne sia risultato formalmente intaccato l’impianto generale.
4. Le
n u ov e “ ri g i d it à ” .
Non occorre soffermarsi qui, più di tanto, sulle norme dirette alla regolazione dei poteri del giudice. Basti ricordare, per le sue (astratte) potenzialità interdittive, la disposizione del “Collegato” diretta a porre limiti (con l’art. 30) al controllo giudiziale sulle “clausole generali” nelle materie del lavoro; una disposizione, in realtà, allarmante più per il “messaggio” veicolato, che non per i reali limiti (rispetto a quanto da considerare acquisito per costante orientamento) che è concretamente in grado di imporre al sindacato giudiziale sull’esercizio dei poteri datoriali. Oppure, il limite ai
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Maurizio Cinelli
poteri ufficiosi del giudice del lavoro, che il d.lgs. n. 150/2011 (di attuazione della delega attribuita all’art. 54, l. n. 69/2009) – dichiaratamente, quanto velleitariamente, indirizzato alla semplificazione e riduzione da 33 a 3 dei riti civili – ha inteso introdurre, sia pur riferendosi non all’intero 421 c.p.c.; una norma destinata a toccare solo marginalmente i poteri ufficiosi del giudice del lavoro, ma che comunque risulta paradigmatica di intendimenti di “irregimentalizzazione” (anche) del rito del lavoro. Emblematica è, ancora, la riferibilità anche alle controversie individuali di lavoro della sanzione disciplinare prevista a carico del giudice (ma anche del difensore) che non rispetti la regola della “calendarizzazione” dell’attività istruttoria (già introdotta, tramite l’art. 81 bis delle disposizioni di attuazione al c.p.c., dalla legge di riforma processuale n. 69 del 2009), dettata, nello stesso torno di tempo, dall’art. 1 ter legge n. 148 del 2011. Si potrebbe dire che oggi, dopo che il rito ordinario ha assorbito, attraverso i più recenti interventi di modifica, alcuni caratteri del rito del lavoro, quest’ultimo, paradossalmente, presenta connotati di maggiore “rigidità” rispetto al primo. E ciò, specie se si considerano alcune situazioni o questioni di più recente emersione, che qui possono essere soltanto enunciate: in particolare, le recenti “aperture” in tema di mutamento della domanda nel rito ordinario (e in questo solo) ad opera delle Sezioni unite, per effetto della sentenza n. 12310/2015; ma anche la difficile “permanenza” (allo stato) delle “collaborazioni organizzate”, di cui all’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, nell’area dell’art. 409 c.p.c., e, dunque, nell’area del rito del lavoro.
5. L’autodeterminazione:
una valoriz zazione realist ic a?.
Quanto alla scelta di valorizzazione dei rimedi risolutivi delle controversie, alternativi al processo – l’arbitrato, le procedure di conciliazione, le procedure di certificazione –, il legislatore del “Collegato” di fatto si è collocato su quella linea di flessibilizzazione delle discipline del lavoro, intesa a “determinare un quadro regolativo di diritti disponibili su scelta delle parti (collettive, ma anche individuali)”, per usare le parole del Ministro del lavoro dell’epoca, che è l’altra “direttrice” lungo la quale si muove quell’articolato, complesso intervento normativo. Ed è in tale prospettiva che acquisiscono una luce particolare alcune sue disposizioni “cruciali” per il rito del lavoro: prima di tutto, la clausola (art. 30, comma 3) che “legittima” le “tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo (...) nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ovvero nei contratti individuali di lavoro, ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione”; e poi la clausola che impone al giudice di tenere conto di dette tipizzazioni, sia “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento”, sia nel definire le conseguenze da riconnettere al “licenziamento illegittimo”; e, ancora, la clausola (art. 31, comma 6) che attribuisce ai “contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative” la potestà di stabilire “sedi” e “modalità” per lo svolgimento di conciliazioni e arbitrati. La linea lungo la quale il legislatore si è mosso in detta occasione è stata, inequivocabilmente, quella dell’ampliamento e della valorizzazione delle occasioni di autodeterminazione, collettiva e individuale (sia pure coadiuvata da istituti di sostegno, secondo la logica della “volontà assistita”). Con l’intendimento palese di offrire, in tal modo, alle parti del contratto un indiscutibile, più incisivo spazio di “libertà”, anche nel momento processuale. E, tuttavia, è proprio attraverso la via obliqua dell’intervento su siffatti istituti di natura procedurale, che vengono modificati, di fatto, e sensibilmente, gli assetti sostanziali della materia. Una linea, questa, che viene perseguita idealmente assumendo, come aspetto qualificante e punto di riferimento, una figura di lavoratore ben diversa da quella avuta presente nel 1973
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dal riformatore del rito del lavoro: quella di un lavoratore emancipato, in grado di determinarsi liberamente, senza più reali condizionamenti, e che, grazie alla possibilità di farsi assistere e consigliare dalle commissioni di certificazione, dovrebbe ormai essere in condizione di accollarsi la piena responsabilità delle proprie scelte e delle relative conseguenze. Superfluo sottolineare quanto l’attuale contesto socio-economico – e normativo – non conforti la credibilità di tale configurazione.
6. O b i e t t i v o
d e f l a z i ona m e nt o : u na l o g i c a p e r v e r s a ? .
Qualche considerazione, per concludere, sulla terza ed ultima, ma altrettanto significativa, “linea d’azione” degli interventi, recenti e meno recenti, del legislatore: quella esplicitamente finalizzata al deflazionamento del contenzioso. Si può senz’altro affermare che l’attenzione del legislatore degli anni duemila ai problemi del processo del lavoro (ma, in parte, anche quella dedicata ai problemi del processo civile in generale) risulta giustificata più che da obiettivi di razionalizzazione, snellimento o accelerazione del relativo rito, dall’intendimento di conseguire, attraverso l’indiretta via degli interventi sulle discipline processuali, specifici effetti sulle discipline di diritto sostanziale: e ciò, tanto in termini, ancora una volta, di flessibilizzazione delle tutele, quanto, più banalmente (o brutalmente), in termini di diminuzione dei costi del lavoro. E, in effetti, non può essere che tale, come mi sembra, la prospettiva dalla quale considerare le disposizioni della l. n. 183/2010 sulle conseguenze della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro; e così come le disposizioni in materia di termini di decadenza per l’esercizio dell’azione giudiziaria in caso di licenziamento, recesso del committente nei rapporti di collaborazione, trasferimento del lavoratore, cessione del contratto di lavoro, trasferimento di azienda o di suo ramo, e altro ancora. Si tratta di misure che si innestano in un contesto di “penalizzazione” di generale riferibilità, ma caratterizzate dal medesimo intendimento deflattivo. Basti ricordare la modulazione del contributo unificato in funzione “punitiva” per il caso di impugnazione inammissibile; la pena pecuniaria a carico di chi proponga infondatamente istanze di sospensione dell’esecutività della sentenza gravata (art. 27, l. n. 183/2011), ma anche, per quanto riguarda le fasi di gravame, il “filtro” in appello, il requisito della specificità dei motivi di appello, il “filtro” in cassazione. Analoghe considerazioni possono valere – ritornando allo specifico ambito lavoristico – anche per il già ricordato art. 38, comma 1, della l. n. 111/2011, il quale – dato esplicitamente atto di avere tra i suoi obiettivi anche quello di “deflazionare il contenzioso” – ha introdotto il procedimento di accertamento tecnico preventivo, regolato dall’art. 445 bis c.p.c. Una norma, questa, che – seppur ritenuta dal Giudice delle leggi non in conflitto con i valori costituzionali – impone a coloro che vantino pretese aventi ad oggetto prestazioni di invalidità civile o prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità di assoggettarsi, d’ora in poi, ad uno specifico percorso ad “ostacoli”: un percorso particolarmente penalizzante (comunque si consideri l’innovazione), in un settore in cui si controverte di forme di tutela sociale assolutamente e inequivocabilmente “di base”, relative, cioè, a bisogni “primari”. Anche in altri punti, d’altra parte, la l. n. 111/2011 mostra di voler assolvere programmaticamente, anche per vie, per così dire, “indirette”, il ruolo deflattivo del contenzioso del lavoro: innanzitutto (seguendo sul punto quanto già praticato dal “Collegato lavoro”), valorizzando e incrementando i termini di decadenza, estesi, infatti (a modifica dell’art. 47, d.p.r. n. 639/1970), alle “azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciuto solo in
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Maurizio Cinelli
parte o il pagamento di accessori del credito” (art. 38, c. 1, lett. d); o dilatando, per altro verso, nel settore delle prestazioni previdenziali, l’ambito di operatività della prescrizione breve, fino a comprendere “i ratei arretrati, ancorché non liquidati (...) dei trattamenti pensionistici”, nonché le prestazioni c.d. minori e “relative differenze dovute a seguito di riliquidazione”. Variegato è il “catalogo” delle misure che confermano come il modus operandi del legislatore, recente e meno recente, non disdegni – pur di ottenere l’ambito deflazionamento del contenzioso giudiziario – espedienti normativi tali da rendere più difficile o più oneroso o più rischioso l’esercizio dell’azione giudiziaria, e, in definitiva, potenzialmente meno appetibili i risultati che il singolo (lavoratore o cittadino bisognoso) possa da essa attendersi. Detto intendimento è già evidente nella politica legislativa in materia di spese processuali che, dalla tendenziale gratuità del processo del lavoro delle origini, ha progressivamente condotto – attraverso reiterati interventi sia sull’art. 92 c.p.c., sia sull’art. 152 disp. att. c.p.c. (dalla l. n. 326/2003 alla legge n. l. n. 51/2006, dalla l. n. 69/2009 alla l. n. 111/2011, alla legge n. 162 del 2014) – alla condanna del lavoratore soccombente alle refusione delle spese processuali “senza sconti”. Una linea “rigorista” che trova rafforzamento in alcune, ulteriori, specifiche disposizioni del “Collegato” del 2010: innanzitutto, nella norma (art. 37) che, sia pur in una logica generale di incremento delle spese di giustizia, necessitata dall’esigenza di fronteggiare in qualche modo il grave deficit di risorse pubbliche disponibili, ha esteso anche alle controversie individuali di lavoro e alle controversie in materia di previdenza e assistenza sociali l’obbligo del pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo (determinandolo in entità fissa per le seconde e in entità proporzionale al valore della causa per le prime); ma anche in quella norma (art. 38) che rende anche più rigida e penalizzante la disposizione, già dettata, ad integrazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c., dall’art. 52 della l. n. 69/2009 – ai sensi della quale, ricordiamolo, “spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore della prestazione dovuta” –, attraverso la comminatoria della severa conseguenza dell’inammissibilità del ricorso, quando il valore della prestazione dedotta in giudizio non sia stata espressamente quantificata “nelle conclusioni dell’atto introduttivo”. Si tratta di due modalità diverse di intervento, che – pur di recuperare risorse finanziarie, da un lato, e, dall’altro lato, di reagire a pratiche abnormi (e sicuramente riprovevoli) dalle quali componenti del ceto forense non rifuggono –, di fatto appaiono oggettivamente accomunate da un unico, primario obiettivo: intervenire sull’anello “più sensibile” della catena. Manifestando indifferenza, però, così facendo, per gli effetti penalizzanti nei confronti di chi intenda far valere pretese su beni di natura assolutamente primaria o addirittura di carattere vitale. Si può affermare, in altre parole e conclusivamente, che appare profilarsi un programmatico scambio tra il livello di tutela di beni essenziali (in particolare, quelli che formano oggetto dei c.d. diritti sociali) e il deflazionamento del contenzioso: anch’esso – ma solo entro certi limiti, soprattutto rispetto ai valori di cui sopra – un “vantaggio sociale”. Inutile rimarcare, a questo punto, la distanza tra l’attuale realtà processuale e l’originario “spirito” del rito del lavoro, così come esso si prospettava nel 1973: quello “spirito” del quale, anche se non sempre con totale condivisione, Sergio Magrini ha dato atto in occasione delle sue riflessioni dedicate allo specifico tema. A fronte della complessiva situazione evocata, quel che sembra auspicabile per l’immediato futuro – considerato che anche di tale aspetto la presente occasione di riflessione chiede di farsi carico in qualche modo – è che l’attenzione di chi può avere responsabilità in materia, piuttosto che cedere ancora una volta alla bulimia che ormai affligge il riformatore del processo civile, torni a focalizzarsi sull’effettività delle tutele sociali: di quelle tutele, cioè, che lo Stato, con il massimo grado di solennità, fin dalla costituzione stessa dell’ordinamento repubblicano, ha assunto l’impegno di garantire.
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Gaetano Zilio Grandi
Atipicità, flessibilità e contratto di lavoro subordinato: passato, futuro e ruolo del contratto collettivo* S ommario:
1. Premessa. – 2. Atipicità e flessibilità nel diritto civile. – 2.1. Tipo e sottotipo. – 2.2. Il caso del contratto di lavoro. – 3. Forme flessibili del lavoro e sistema sindacale. – 3.1. Il ruolo della legge. – 4. Dal contratto nazionale al contratto aziendale. – 5. Le diverse finalità e i nuovi protagonisti.
Sinossi: L’intervento, dopo una breve analisi del rapporto tra il concetto di tipicità e quello di flessibilità nei contratti di lavoro, ed un veloce parallelismo col rapporto tra tipo e sotto-tipo proprio del sistema civilistico, si interroga sul se e come il lavoro flessibile ha risentito degli sviluppi del sistema politico-sindacale. Abstract: The essay, after giving a quick overview on the concepts of flexibile and atypical work – also from a civil perspective –, wonders if and how the industrial relations system has affected flexible employment contracts. Parole chiave: lavoro flessibile – autonomia – subordinazione – tipo e sotto-tipo contrattuale – relazioni industriali.
1. Premessa. Il discorso intorno alle forme flessibili del lavoro risente vieppiù, come ovvio, degli sviluppi del sistema politico-sindacale. Non a caso, dunque, la relazione tra nuove tipologie contrattuali e grado di coesione sociale
*
Il presente scritto riproduce la relazione svolta presso il Corso di Alta Formazione “Il diritto del lavoro tra tradizione e rinnovamento” organizzato dalla Fondazione Giuseppe Pera, il 21 aprile 2017.
Gaetano Zilio Grandi
si pone quale elemento tipico nello sviluppo del sistema di disciplina del mercato del lavoro, da un lato, e delle relazioni sindacali, dall’altro. E tuttavia, i pur evidenti ed ineluttabili cambiamenti del (e nel) mondo del lavoro non possono ridursi ad uno scenario, invero solo ipotizzato, di disoccupazione di massa1, ma debbono necessariamente accompagnarsi ad una rilettura e forte ri-affermazione dei diritti del lavoro; e in tale contesto, anche del ruolo e delle prospettive del sindacato e della negoziazione lato sensu, e dunque delle diverse forme e livelli di contrattazione collettiva, concertazione, dialogo sociale o comunque si voglia denominare l’intervento delle parti sociali sul versante dei lavoratori sui temi “classici” del diritto del lavoro.
2. Atipicità e flessibilità nel diritto civile. Prima di affrontare questo tema appare necessario tuttavia sviscerare il rapporto tra le nozioni stesse di atipicità e flessibilità e quelle, analoghe, vissute nel diritto civile, nella quale la nostra materia, come noto, trova fondamento. Così cercheremo di dare brevemente conto della teoria tradizionale in proposito, del suo superamento, di altre proposte interpretative legate all’evidente specialità della disciplina giuslavoristica (dante luogo al c.d. prototipo normativo), della ricerca di una fattispecie unitaria minima; arrivando a considerare altresì gli sviluppi “interni” al diritto del lavoro di tali concetti, soprattutto se riguardati nella concretizzazione “normativa” in veri e propri contratti di lavoro denominati di volta in volta speciali, atipici e flessibili, sotto la luce comunitaria; e giungendo infine a ipotizzare che probabilmente la flessibilità (nelle scelte, sempre più obbligate, imprenditoriali) appare essere, oggi, tra lavoro subordinato e autonomo2.
2.1. Tipo e sottotipo. Partendo dal primo punto risulta evidente come nel diritto civile la nozione di tipo contrattuale risultasse presupposto e conseguenza ad un tempo del principio di libertà contrattuale di cui all’art. 1322 c.c.; di più, già nella Relazione al Re, accogliendo l’idea per la quale la distinzione tra contratti atipici e atipici trovava causa nella presenza, o meno, di una disciplina specifica applicabile, e, ancor più a monte, nel fatto che la prassi (e qui è d’uopo richiamare la nozione di causa del contratto quale “funzione economico-sociale” di Betti) influenza ovviamente i diversi schemi regolamentari. Ma il diritto del lavoro, come noto, rappresenta un evidente limite all’autonomia privata, come ampiamente ribadito in dottrina3 e per ciò stesso mette in difficoltà la tradizionale distinzione in base alla presenza di una specifica di-
1 2
3
Accornero, Era il secolo del lavoro, Il Mulino, 2000. Su questi aspetti cfr. passim già Speziale, Il lavoro subordinato tra rapporti speciali, contratti “atipici” e possibili riforme, in Perulli (a cura di) Il rapporto di lavoro subordinato. Costituzione e svolgimento , in Bessone (diretto da), Trattato di Diritto Privato, Giappichelli, 2007. Per tutti Bianca, Il contratto, Diritto civile, vol. III, Giuffrè, 1987, 463 e ss.
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Atipicità, flessibilità e contratto di lavoro subordinato: passato, futuro e ruolo del contratto collettivo
sciplina legale, che in questo caso appare una e condivisa da tutte le tipologie astrattamente riconducibili al lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c.; neutralizzando così il possibile conflitto tra tipo e causa. E tuttavia è proprio il diritto civile, nelle sue interpretazioni, a fornire gli strumenti con i quali, di lì a poco, anche la nostra materia tenterà di risolvere annose diatribe (in primis l’alternativa autonomia/subordinazione), elaborando il metodo tipologico e quindi la sua versione “funzionale”, vera e propria via di fuga nei processi di qualificazione dei contratti di lavoro4. E da lì alla ricostruzione ed utilizzazione, nella medesima direzione, del c.d. sottotipo il passo è stato breve sebbene senza grande seguito nella stessa civilistica5.
2.2. Il caso del contratto di lavoro. Spostandoci sul versante più ristretto del diritto del lavoro e dei suoi interpreti, vanno segnalati i tentativi ricostruttivi, taluni dei quali all’interno del quadro tradizionale di cui si è detto e altri in suo superamento. Tradizionalmente la dottrina lavoristica ha sempre fatto uso della locuzione “speciale” per significare che una data tipologia contrattuale trovava apposita disciplina al di fuori del codice civile; il che, evidentemente, terrebbe all’interno del canone il solo contratto di lavoro subordinato all’interno dell’impresa, posto che per il resto lo stesso codice utilizza l’espressione “particolari rapporti” già per il lavoro domestico; chiaro, e primo, esempio, appunto, di contratto “speciale”. Insomma da quel momento in poi la “specialità” comincia a confondersi con quella che verrà individuata come la caratteristica tipica dei “nuovi” contratti di lavoro (espressione mutuata da De Nova, con riguardo ai contratti civilistici), ovvero la atipicità e flessibilità. La compatibilità delle regole del lavoro subordinato nell’impresa è prevista, infatti, fatta salva la specialità del rapporto. E i rapporti, complice la tendenziale modificazione dell’assetto organizzativo della stessa impresa, divengono vieppiù “speciali”, lasciando da parte, solo per ora, ogni considerazione su titolo III del Libro V, in tema di lavoro autonomo6. A voler seguire la dottrina civilistica, peraltro, occorre altresì dar conto dell’utilizzo, anche da parte di quella lavoristica, della teorica del tipo/sottotipo7: se dunque, come anticipato e sulla scorta della causa del contratto – id est la subordinazione – , già l’art. 2094 c.c. delinea un sottotipo, in quanto relativo ad una attività lavorativa svolta specificamente nell’ambito di un’impresa, va da sé che si potrebbero configurare altri sottotipi, in particolare ravvisabili nei contratti di apprendistato e di formazione, ove, appunto, la causa risulta mista e dunque diversa da quella, per così dire lineare, di cui all’art. 2094 c.c. Sulla scorta di tali considerazioni anche la dottrina lavoristica si muove, sebbene con evidenti finalità di politica del diritto, ritenendo “speciale” un rapporto di lavoro nel quale mancano
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Per tutti Nogler, Metodo tipologico e qualificazione dei rapporti di lavoro subordinato in GDLRI, 1990, I, 182-224. Amplius Speziale, op. cit., e ivi gli opportuni riferimenti. Per tutti in tema Perulli, Il lavoro autonomo, in Tratt. CM, 1996. Su cui si rimanda a A. Cataudella, I contratti. Parte generale, Giappichelli, 2000, e già Carnelutti, Teoria generale del diritto, Foro Italiano, 1940; Amplius v. ancora Speziale, op. cit.
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o sono presenti diversi elementi essenziali, cui consegue l’applicazione di diverse discipline ovvero, in definitiva, riconoscendo semplicemente la possibilità che discipline speciali siano previste in presenza di particolarità della fattispecie più che di alterazioni funzionali. Così, tuttavia e come avvertito, la strada per ricondurre alla disciplina del “prototipo normativo” ogni rapporto nel quale viene dedotta un’attività lavorativa risulterebbe sgombra. Solo che, da un lato si controbatte che simili dubbi e dunque opinabilità di giudizio potrebbero essere ridotti dalla presenza di una disciplina specifica ed esclusiva8; dall’altra va considerato che il tipo (o sottotipo, o sotto sottotipo…) comunque precede ed è seguito dagli effetti, in una evidente e diretta relazione fattispecie/effetti, potendosi semmai distinguere in ragione della natura del datore di lavoro e delle esigenze di flessibilità dell’impresa. In tal modo la sfuggente – per i noti motivi – sagoma dell’art. 2094 c.c. e della subordinazione (id est potere direttivo) si atteggerebbe quale chiave unitaria per l’applicazione, di nuovo, dell’intero assetto di tutele costruito nel tempo. E, andando oltre, si è potuti arrivare a immaginare una fattispecie “generale” distinta da quelle, appunto, “discrete”, con ovvie ricadute sul piano della dilatazione delle tutele ma anche dei limiti a possibili deviazioni da tale schema (e effetto) generale9. Non vi è dunque di che stupirsi se mutuando una nota espressione di Umberto Romagnoli si può parlare dell’arrivo di un “bastimento carico di...” contratti di lavoro atipici e flessibili. Qui, per quanto sopra riferito, il concetto di atipicità è diverso ma in realtà coerente con quanto avvenuto nel diritto civile, nel senso che qui come lì la tipizzazione segue lo sviluppo storico e normativo della materia. Lo scriveva Betti (causa come funzione economico e sociale), lo si leggeva nella relazione al Re (prassi economico-normativa), e lo ha scritto chiaramente M. D’Antona10 seguito da chi riconosce appieno il ruolo della flessibilità nel diritto del lavoro dagli anni ‘80 in poi11. In questo modo, inoltre, il tipo contrattuale diviene modello di disciplina esclusiva, in ragione di ciò che le parti hanno potuto volere alla luce della automatica sostituzione della disciplina tipica del diritto del lavoro12; senza tuttavia poter impedire una evidente attenuazione del campo di applicazione dello statuto protettivo esclusivo con riguardo a quelli che abbiamo chiamato “nuovi” contratti di lavoro, nei limiti della imperatività e inderogabilità del “tipo imposto” di cui, anche, all’art. 1322 c.c. Così che è anche facile concludere che una scansione in tipi e sottotipi nel diritto del lavoro sfumerebbe comunque nel dettato della legge, che impone una disciplina generale o parziale ma comunque sostitutiva13. Al massimo, si è detto, si può parlare di una flessibilità tipologica à la droit communautaire,
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Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1980. Così Pedrazzoli, Democrazia industriale e subordinazione: poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, Giuffrè, 1985; più di recente in tema Cester, Il neotipo e il prototipo: precarietà e stabilità, e Pessi, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, entrambi in Mazzotta (a cura di), Lavoro ed esigenze dell’impresa tra diritto sostanziale e processo dopo il Jobs Act, Giappichelli, 2016. 10 D’Antona, La grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele sulle esigenze del lavoratore come soggetto, in Amato (a cura di), I destini del lavoro. Autonomie e subordinazione nella società postfordista, Franco Angeli, 1998. 11 Arrigo, Loy, Ichino, Roccella, Il diritto del lavoro dopo l’emergenza, Milano, 1988. 12 Mazzotta, Presentazione, in Id. (a cura di), Lavoro ed esigenze, op. cit. 13 Per tutti il classico De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Jovene, 1976. 9
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riferibile cioè a modelli di lavoro non standard14; immediatamente riguardata come affermazione di un pensiero unico e di una ideologia liberista15. Si è tuttavia visto come nel nostro paese il vento della flessibilità soffi da ben prima, almeno da fine ‘70 e inizio ‘80: solo che in quegli anni essa veniva declinata e accompagnata dalla contrattazione collettiva “confederale”, come dimostra la disciplina dapprima negoziale del primo contratto a termine con finalità formative, nel 1977, e quindi anche legale del contratto di formazione e lavoro e di quello a tempo parziale, sfociata nella l. 863 del 1984 e, infine, del contratto a termine, con la l. 56/1987. Si è anche già avvisato che le cause di questa flessibilità, a questo punto anche tipologica volendo adottare i lemmi civilistici, risiedono in cause ed eventi abbastanza definiti: fenomeni di riorganizzazione e ristrutturazione delle imprese italiane, crisi delle organizzazioni dei lavoratori e spinta della comunità europea con conseguenti strappi del legislatore (maggiore flessibilizzazione dei rapporti di lavoro ma anche contestuale introduzione di incentivi alla concertazione locale16, sino ad arrivare alla apertura legale a plurime tipologie (queste sì con disciplina specifica) con il d.lgs. 276/2003, legittimando allo stesso tempo interpretazioni circa la rinascita o rivalutazione dell’autonomia individuale17. Così nel d.lgs. 276/2003 si assiste, a nostro avviso, solo ad una conferma di quanto avvenuto prima: contratto a termine negoziato, a tempo parziale, apprendistato, lavoro interinale e contratto di formazione e lavoro, in verità preesistevano; ciò che invece cambia appare il segno delle stesse tipologie, da eccezioni a tendenziali regole, con significative definizioni nel senso di una sempre maggiore possibilità di utilizzo e nel contempo la creazione o riconoscimento di nuove forme di lavoro subordinato, talora pressoché impraticabili o prive di margini di attuazione (ad es. lavoro ripartito, contratto di inserimento), e altre volte ancora veicolo di abusi rispetto al modello standard di cui si è detto, che nel contempo appare declinare. La più recente riforma, infine, a nostro avviso meritevole nella misura in cui accorpa in un solo provvedimento l’intera disciplina delle tipologie contrattuali atipiche o flessibili “tipiche” (ci si perdonerà il gioco di parole), sembra riaffermare la “predilezione” per il contratto standard, evidentemente in cambio di una apertura sul terreno della flessibilità questa volta in uscita, mediante il “nuovo” contratto di lavoro subordinato “a tutele crescenti”, applicabile comunque, come noto, solo agli assunti a far data dal 15 marzo 2015.
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Grandi, Il problema della subordinazione tra attualità e storia, in Le trasformazioni del lavoro. La crisi della subordinazione e l’avvento di nuove forme di lavoro, Fondazione Pastore, 1999, e già Ocse, Il rapporto sulla situazione economica in Italia, 1994. 15 Perulli, Speziale, L’art.8 della legge 14 settembre 2011 e la rivoluzione di agosto del diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., 132/2011. 16 Cfr. Viscomi (a cura di), Questioni sul lavoro sommerso e lo sviluppo locale, Ed. Rubettino, 2008. 17 D’Antona, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, e Mazzotta, Autonomia individuale e sistema del diritto del lavoro, in GDLRI, 1990, 455 e ss., 489 ss. e in Autonomia individuale e contratto di lavoro, Atti del congresso nazionale di diritto del lavoro; e altresì Simitis, Il diritto del lavoro e la riscoperta dell’individuo, in GDLRI, 1990, 82 ss.
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3. Forme flessibili del lavoro e sistema sindacale. Ricostruito il quadro normativo in tema di tipicità e flessibilità dei contratti di lavoro, e accennato al rapporto con quanto avvenuto nel sistema civilistico, si può ora conclusivamente affrontare quanto anticipato in premessa, ovvero se e come le forme flessibili del lavoro hanno risentito degli sviluppi del sistema politico-sindacale. Evidenti sono, si è anticipato, le relazioni tra contrattazione-sindacato e rapporti di lavoro c.d. flessibili, rese ancor più problematiche dagli sviluppi interni alla sistema negoziale, in termini di struttura e competenza dei diversi livelli contrattuali.
3.1. Il ruolo della legge. La prima disciplina dei lavori atipici di prima generazione (termine, part-time, formazionelavoro) trova indubbiamente una matrice comune, sebbene in tempi diversi: quella della promozione del ruolo del sindacato, e di quello maggiormente rappresentativo ex art. 19 St. lav., nella regolazione concreta delle singole fattispecie, come ben traspare nella legislazione di riferimento (l. 863/84, l. 56/87). In questi provvedimenti, cioè, le istanze di flessibilità si coniugano perfettamente con il crescente significato delle determinazioni del sindacato confederale, in coerenza con la sempre maggiore partecipazione di quest’ultimo alle scelte di politica economica dei primi anni ‘80, che davano luogo, come rilevato, alle prime – e certo meno strutturate – esperienze di concertazione sociale in Italia18. In questi casi, peraltro, le organizzazioni sindacali utilizzano i due livelli della contrattazione, nazionale di categoria (art. 23 l. 56/87, per i contratti a termine) ed aziendale (art. 5 l. 863/84, per le “quote” di lavoratori a tempo parziale). La flessibilità delle forme di accesso al lavoro, già a far data dalla metà degli anni ‘8019, si muoveva cioè secondo un modello di coesistenza, potremmo dire pacifica, con il ruolo del sindacato e la funzione della contrattazione collettiva. Solo che di lì a poco almeno due, rilevanti, elementi avrebbero posto in luce le crepe di tale sistema e segnalato la necessità di una ulteriore riscrittura di regole e strumenti di flessibilizzazione del rapporto. La crisi politico-economica dei primi anni ‘90 e la crisi dello stesso sindacato confederale, spingono invero ad un profondo ripensamento del sistema di relazioni industriali e delle strade percorribili in termini di flessibilizzazione nella regolamentazione e definizione giuridica stessa dei rapporti flessibili o atipici. Il primo istituto toccato è il contratto di formazione e lavoro, strumento di occupabilità, prima ancora che formativo, secondo quanto ripetutamente espresso dalla Corte costituzionale. Nel 1997 tocca al contratto a termine (l. 196/97), o meglio a quelle disposizioni più rischiose per le imprese già contenute nella l. 230/62 e non ancora modificate. Le imprese auspicano,
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Zilio Grandi, Concertazione e dialogo sociale, in F. Carinci, Miscione (a cura di), Dal Libro bianco alla legge delega sul mercato del lavoro, Ipsoa, 2002, 17-22. 19 Arrigo, Loy, Ichino, Roccella, op. cit.
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e curiosamente ottengono da un governo pro labour, una sorta di monetizzazione delle sanzioni per il superamento del termine, al fine di salvaguardare gli interessi degli imprenditori più distratti o peggio ancora. E sempre nel 1997 “sfonda” anche il lavoro interinale o temporaneo, in ritardo rispetto al resto dell’Europa e ciò nonostante con non indifferenti punti di attrito con il sistema del diritto del lavoro e necessità di successive modifiche. In questi casi, tuttavia – e in realtà in tutta la legislazione/contrattazione del decennio ‘90 – gli interessi emergenti appaiono ancora convergenti: l’interesse alla coesione sociale da parte del governo e del sistema politico, l’interesse ad una flessibilizzazione sostanzialmente negoziata di parti della disciplina giuslavoristica da parte del sistema-impresa, l’interesse ad una continua partecipazione ai processi in funzione neo promozionale del sindacalismo confederale. Si è infatti riferito in altra sede che solo una crescente atipicità dei rapporti insieme ad un nuovo ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva appare in grado di porsi costruttivamente in relazione con il mutabile contesto economico-produttivo, con l’ulteriore beneficio di “riequilibrare la dialettica tra economie molto forti e deboli” all’interno del nostro paese20.
4. Dal contratto nazionale al contratto aziendale. Se dunque precedentemente il sindacato rifuggiva le tentazioni verso la diversificazione dei rapporti, e dall’utilizzo del contratto collettivo aziendale, al precipuo fine di garantire standard di disciplina e di rappresentatività collettiva piuttosto che individuale, il medesimo accetta la sfida e, dunque, un proprio ruolo, sia nel settore “privato” che in quello “pubblico”, di cui seguono solo alcuni esempi, utili a far emergere alcune tendenze. In linea generale i contratti nazionali di categoria si sono dimostrati piuttosto sensibili al legame tra flessibilità nella tipologie lavorative e tematiche occupazionali. E molti si sono caratterizzati per previsioni di ampia apertura verso i rapporti flessibili, disciplinando altresì minuziosamente, nel corso del tempo, i diversi istituti “flessibili”, ivi compreso il lavoro temporaneo, il lavoro ripartito (o job sharing) e addirittura lo stage. Con specifico riferimento al lavoro a termine, i contratti nazionali di categoria hanno nel tempo teso ad allargare, secondo le previsioni della legge n. 56/87, e poi del d.lgs. del 2001, le ipotesi di apposizione del termine. Dall’altra parte, il rapporto di lavoro a tempo parziale veniva individuato come “strumento funzionale alla flessibilità ed articolazione della prestazione lavorativa”.
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Lassandari, La contrattazione e il contratto collettivo, Ediesse, 2003.
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5. Le diverse finalità ed i nuovi protagonisti. La disamina di alcune disposizioni collettive in tema di rapporti flessibili, intesi nel senso anticipato, ha consentito, consente e consentirà ancor oggi alcune osservazioni di chiusura, avendo come stella polare non solo la difficoltà concettuale e dogmatica nel ricostruire in termini giuridici le stesse tipologie contrattuali, ma anche la presenza di diversi interessi – dell’impresa, dei lavoratori, del sindacato, dello Stato – in un simile, problematico, contesto. a. La nascita delle forme flessibili di lavoro risponde in primo luogo ad un’esigenza – e a un interesse – certo delle imprese, ma anche di determinati lavoratori, appartenenti a fasce deboli nel mercato del lavoro. La ratio è occupazionale, da un lato, e economica, dall’altro. Tali lavori costano meno all’impresa e consentono un dose di flessibilità sino a quel momento pressoché inesistente. b. Lo sviluppo delle stesse piega tuttavia spesso verso il versante imprenditoriale, sino ad arrivare a costituire uno strumento di reale liberalizzazione del e nel mercato del lavoro, come nel caso del contratto a termine. c. In tutto il tragitto – dalla metà degli anni ‘80 ad oggi – il sindacato ha assunto un ruolo di mediatore tra le diverse istanze, individualiste, delle imprese e dei lavoratori; e la contrattazione collettiva diviene strumento principe della c.d. flessibilità (appunto!) negoziata. E negoziata ai diversi livelli possibili, nazionale, aziendale, territoriale; e con i più svariati strumenti, patti, accordi, contratti collettivi, protocolli tripartiti o addirittura a quattro, e con soluzioni talora sperimentali o innovative, in un evidente crescendo diacronico. d. Tuttavia la contrattazione collettiva finisce per essere, agli occhi dei lavoratori, il reale strumento di flessibilità, con conseguenti esiti in termini di diminuzione di rappresentatività ed altro ancora. e. È forse questo che ha spinto parte dei lavoratori a non disdegnare ipotesi di individualizzazione del rapporto di lavoro, sino a legittimarsi indirettamente un ripensamento del carattere inderogabile della norma collettiva e di legge in materia di lavoro (di cui è esempio il noto e discusso art. 8 l. 148/2011). f. Se ciò è vero si comprende anche la ricerca di nuovi ruoli per il sindacato e per gli strumenti tipici (contrattazione e sciopero). Un sindacato che sembra quasi ripiegare su se stesso, sulla sua tradizionale dimensione antagonista, mentre occorrerebbe rafforzare la prospettiva contrattualistica e negoziale se non, addirittura, collaborativa. g. Il punto è che tale opera di riaffermazione dello strumento negoziale e della stessa concertazione, intesa come “metodo”, appare ancora piuttosto limitata, se non proprio impedita, da fattori esogeni, politici, economici e sindacali.
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I criteri di scelta dei licenziandi nel licenziamento individuale per g.m.o. tra applicazione del canone di buona fede e divieti di discriminazione Sommario : 1. Licenziamento individuale per g.m.o. e scelta dei licenziandi: quali
obblighi e quali divieti per il datore di lavoro? – 2. La scelta dei licenziandi nel licenziamento individuale per g.m.o. e l’applicazione del canone di buona fede. – 3. Il principio paritario e la scelta dei licenziandi.
Sinossi. Il contributo esamina i diversi orientamenti assunti dalla giurisprudenza in ordine a obblighi, divieti e sanzioni di eventuali violazioni quando siano intimati uno o più licenziamenti individuali (non rientranti quindi nell’area applicativa della l. n. 223/1991) per giustificato motivo oggettivo e si faccia questione della legittimità della scelta dei licenziati. In particolare sono distintamente trattate le ipotesi in cui si assuma l’illegittimità in conseguenza del carattere discriminatorio della scelta e quelle nelle quali non venga in questione neppure come tesi difensiva l’osservanza del principio paritario. Abstract: The article analyses the different tendencies of the case law with regard to duties, prohibitions and sanctions for possible violations in case of individual dismissals for objective reasons and the choice of the workers to dismiss is questioned. In particular, what is deeply analyzed are the case the choice is questioned because it’s assumed as discriminatory and the hypothesis where the equaltreatment principle neither appear as defense evidence. Parole chiave: licenziamento individuale – scelta dei lavoratori – discriminazione – parità di trattamento.
Elisabetta Tarquini
1. Licenziamento individuale per g.m.o. e scelta dei licen-
ziandi: quali obblighi e quali divieti per il datore di lavoro? Nell’esperienza applicativa è diventato sempre più frequente che la legittimità di licenziamenti individuali intimati per giustificato motivo oggettivo sia contestata (anche) quanto alla scelta del o dei licenziati, assunta la fungibilità delle posizioni dei lavoratori in esubero con quelle di altri invece rimasti in servizio. Non è difficile comprendere la ragione contingente che rende queste questioni sempre più dibattute nelle aule di giustizia: dopo anni di una crisi economica che ormai sembra indiscutibile essere sistemica, sempre più diffusamente viene rappresentato come giustificato motivo di licenziamenti anche individuali per ragioni economiche la generale necessità di ridurre i costi del personale a fronte di contrazioni dell’attività produttiva. Una condizione che, in molte realtà aziendali, può essere astrattamente idonea a giustificare la risoluzione di più rapporti di lavoro, perché varie possono essere in concreto le posizioni lavorative fungibili. In queste ipotesi, quindi, da un lato le ragioni alla base del recesso non sono sufficienti a individuare il soggetto da licenziare (perché quelle ragioni possono darsi in relazione a una pluralità di lavoratori), dall’altro proprio la natura di tali ragioni economiche (e quindi, come si è detto accade sempre più di frequente, il loro riferirsi all’azienda nel suo complesso) rendono problematica l’applicazione del criterio del repechage. Così che la relazione causale tra il motivo produttivo e organizzativo affermato e la risoluzione proprio di quel rapporto di lavoro (e perciò la ragione giustificatrice, il giustificato motivo di quel licenziamento) resta in questi casi affidato proprio alla scelta tra le diverse posizioni fungibili. Il tema della scelta evoca naturalmente quello della parità di trattamento e per contro dei divieti di discriminazione e infatti una, per quanto sintetica, ricostruzione degli orientamenti della giurisprudenza sul tema che interessa resta necessariamente condizionata dall’evoluzione della stessa giurisprudenza sulla nozione di discriminazione, e in particolare dal prima e dopo costituito dalla decisione 6575/2016 della Corte di Cassazione, che ha segnato l’abbandono (si spera definitivo) da parte del giudice di nomofilachia della nozione di discriminazione come motivo (illecito determinante) e l’adesione invece alla nozione obiettiva e funzionale dei divieti di discriminazione propria delle fonti superprimarie di diritto dell’Unione. Infatti, se praticamente tutte le decisioni di cui di seguito si dirà affermano essere diversamente disciplinati i limiti del potere datoriale di scelta tra più lavoratori fungibili nei casi di discriminazione, è di una certa evidenza che un mutamento sostanziale nella lettura di tali divieti conformi di conseguenza anche l’area residua delle ipotesi in cui la scelta non involga neppure come tesi difensiva una discriminazione. Fermo questo dato il presente scritto si propone di esporre, seppure in estrema sintesi, i diversi orientamenti assunti dalla giurisprudenza in ordine all’esistenza e ai limiti dell’obbligo del datore di lavoro di applicare criteri oggettivi di scelta dei licenziandi quando non si faccia questione, neppure come ipotesi difensiva dell’attore, di discriminazione, e di trattare di seguito quest’ultimo caso (e quindi le questioni relative all’applicazione del principio paritario nella specifica condizione di interesse).
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2. La scelta dei licenziandi nel licenziamento individuale per g.m.o. e l’applicazione del canone di buona fede.
Nel primo gruppo di fattispecie la giurisprudenza ha seguito orientamenti diversi. Secondo un primo orientamento, che può definirsi minoritario, ma che è stato di recente riaffermato (seppure per la verità più come obiter dictum che nella forma di argomento articolato) dalla Corte di Cassazione, in ragione del silenzio della l. n. 604/1966 sul punto che interessa e della ritenuta diversità ontologica tra licenziamenti individuali e collettivi, il datore di lavoro avrebbe piena libertà di scelta nei soli limiti dei divieti di discriminazione. A questo orientamento si contrappone quello maggioritario che ritiene invece che, ferma ancora la diversa disciplina della discriminazione, nella residua area delle scelte datoriali tra più posizioni fungibili il potere di scelta del datore di lavoro recedente incontri i limiti della correttezza e della buona fede, al pari degli altri poteri privati. Poche sono le decisioni che ritengono a tal fine doverosa l’applicazione analogica dei criteri legali dettati dall’art. 5, l. n. 223/1991 per i licenziamenti collettivi, tra queste merita di essere menzionata Cass., 11 giugno 2004, n. 11124, già in ragione della vicenda sottoposta all’esame dei giudici di legittimità, il cui esito giudiziario avrebbe potuto essere ragionevolmente assai diverso ove fosse stata adottata una differente nozione di discriminazione. Piuttosto la norma dell’art. 5 della l. n. 223/1991 è utilizzata in quanto ritenuta idonea ad individuare uno “standard particolarmente idoneo” di equità sociale, e quindi come criterio ex se espressivo delle predette clausole generali, assumendo quindi l’orientamento dominante che, in caso di recessi motivati dall’esigenza di riduzione del personale e dovendo scegliere tra più lavoratori in posizioni fungibili, i criteri ex art. 5 valgano a riempire di contenuti i principi di correttezza e buona fede. Si tratta tuttavia di un richiamo complesso, in primo luogo in quanto la giurisprudenza assume doversi fare riferimento ai criteri legali, e non a quelli eventualmente desumibili dall’esperienza della contrattazione collettiva (tra i quali si pensi in primis a quello della prossimità al pensionamento), e comunque poiché non dovrebbe rilevare il criterio delle esigenze tecnico produttive, che sarebbe escluso in radice dalla fungibilità delle posizioni lavorative. Peraltro un orientamento recente ha affermato che, fondandosi l’obbligo in esame sulle clausole generali, i parametri di integrazione dei relativi precetti potrebbero rinvenirsi anche al di fuori dell’art. 5. Sarebbe sufficiente infatti che il datore di lavoro utilizzasse criteri “non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati”, e perciò necessariamente strumentali rispetto all’obiettivo interesse dell’impresa, con esclusione di valutazioni solo soggettive, e misurabili (idonei cioè alla predisposizione di una graduatoria, o comunque a consentire la comparazione e la verifica giudiziale). Più in particolare, secondo la decisione sopra ricordata, varrebbe a soddisfare l’obbligo di scelta secondo buona fede la selezione dei licenziati in relazione, per esempio, ai diversi costi connessi all’una o all’altra delle posizioni per il resto fungibili, alla produttività individuale, alla titolarità di redditi ulteriori rispetto a quello derivante dal rapporto di lavoro, ma è ovvio che l’elenco potrebbe arricchirsi di criteri diversi, una volta escluso che quelli di cui all’art. della l. n. 223/1991 costituiscano il parametro necessario del giudizio di buona fede. In tutti i casi l’onere della prova in ordine al criterio di scelta e alla legittimità in concreto del-
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la selezione grava (in tal senso la giurisprudenza è unanime) sul datore di lavoro, in quanto ritenuto elemento costitutivo necessario della giustificazione del licenziamento. Questo tema avvicina di necessità a una delle questioni più complesse nella materia che interessa. Se infatti nelle imprese soggette alla disciplina della l. n. 604/1966 la necessaria inclusione della legittimità della selezione nell’area del giustificato motivo comporta in caso di violazioni, senza particolari complessità interpretative, l’annullabilità del recesso e la condanna della parte recedente al risarcimento del danno ex art. 8 della stessa l. n. 604/66, nell’ambito applicativo dell’art. 18 la questione si è fatta più complessa a partire all’entrata in vigore della l. n. 92/2012 e dall’introduzione del suo sistema articolato di tutele. La domanda è naturalmente quella del “luogo normativo” in cui collocare queste violazioni: se tra le ipotesi di reintegrazione o tra quelle che consentono la sola tutela risarcitoria. In proposito il giudice di legittimità ha affermato che la sola violazione dei criteri di scelta non determini la “manifesta insussistenza del fatto” posta a base del g.m.o., e debba perciò ricomprendersi tra le “altre ipotesi” di illegittimità del licenziamento per motivi economici, sanzionate con il solo risarcimento del danno. A questo proposito nella stessa decisione la Corte esclude che possa darsi in contrario un qualche rilievo sul piano interpretativo alla sanzione prevista per la violazione dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo, in quanto l’art. 5 della l. n. 223/1991 non è richiamato direttamente o analogicamente, ma costituisce solo la norma di riferimento per il reperimento degli standard sociali integrativi delle clausole generali. La questione ripropone il tema molto complesso del confine tra la manifesta insussistenza del motivo economico e la sua “semplice” insussistenza e ad avviso di chi scrive la soluzione data dalla Corte nella specie è insoddisfacente, come lo sono le opzioni interpretative che risolvono i problemi posti da un testo normativo veramente infelice “ritagliando” la nozione di giustificato motivo e ritenendo quindi che possa all’interno di essa distinguersi tra il nucleo della ragione produttiva che giustificherebbe il recesso (la soppressione del posto o la crisi aziendale, per dire) e la relazione causale tra quel fatto e il recesso, area questa a cui apparterebbe il repechage, ma anche il rispetto di criteri legittimi di scelta (al di fuori della discriminazione). Tutte queste soluzioni trascurano infatti che la relazione causale tra ragione economica affermata e recesso costituisce precisamente il giustificato motivo di quel singolo recesso, che altrimenti non si darebbe legittimamente pur in presenza di un’esigenza produttiva o organizzativa altrimenti rilevante. Così che non è possibile tenere la violazione dei criteri di scelta o dell’obbligo di repechage fuori dall’area, dalla nozione del giustificato motivo, come del resto non ne stanno fuori nell’ambito applicativo dell’art. 8 della l. n. 604/1966, e non è di conseguenza segmentando questa nozione che dovrebbe individuarsi il discrimine tra manifesta insussistenza del motivo economico e semplice insussistenza. Un discrimine che appartiene, secondo chi scrive, interamente all’area della prova, con la manifesta insussistenza come immediata evidenza probatoria dell’inesistenza di uno qualunque degli elementi costitutivi del giustificato motivo, compresa quindi l’evidente violazione dell’obbligo di repechage o la scelta manifestamente arbitraria del lavoratore licenziato, che quindi in tali casi dovrebbero essere sanzionate con la tutela reintegratoria attenuata.
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3. Il principio paritario e la scelta dei licenziandi. Molto diverse sono le questioni rilevanti – lo si è detto più volte – quando la tesi difensiva del lavoratore che impugni il recesso sia quella della violazione dei divieti di discriminazione, della natura discriminatoria della scelta. E in quest’area il revirement della giurisprudenza di legittimità avvenuto con la sentenza 6575 del 2016 rileva in maniera determinante. È di tutta evidenza infatti come altro sia l’indagine in ordine a un motivo illecito determinante (quale l’orientamento fino ad oggi prevalente del giudice di nomofilachia qualificava la discriminazione), altro l’accertamento in ordine a un effetto deteriore connesso ad un fattore di protezione specifico (per quanto inteso ampiamente), come la discriminazione deve definirsi sulla base, in primo luogo, del diritto dell’Unione. Il passato è ben noto: un orientamento più che consolidato della Corte di Cassazione affermava infatti una nozione aperta e non tassativa dei diversi fattori di discriminazione, operando quindi una sostanziale assimilazione tra atto discriminatorio e atto fondato su di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. Una soluzione cui seguiva necessariamente l’inserimento nell’apprezzamento della discriminazione di un fattore di soggettività – il motivo in ipotesi illecito e determinante – in una relazione evidente tra atipicità dei fattori protetti e necessità di un fine illecito, destinato a operare come indispensabile criterio selettivo delle fattispecie vietate, ma che rendeva la prova del fatto di una speciale difficoltà. E che era anche estraneo alla nozione funzionale e obiettiva dei divieti di discriminazione imposti dal diritto dell’Unione cui invece si conforma la decisione della Corte 6575/2016 cit. Il principio di diritto affermato in quella pronuncia ribalta infatti l’orientamento precedente sotto entrambi i profili: in quanto esclude che la discriminazione rilevi come motivo (“La discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente – ovvero in ragione dei mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta- ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”) e a fortiori come motivo determinante (“Pertanto la normativa nazionale ove interpretata nel senso di consentire una discriminazione diretta fondata sul sesso per la concorrenza di un’ altra finalità, pur legittima – nella specie il dedotto motivo economico – sarebbe contraria alla direttiva” che esclude cause di giustificazione di discriminazione dirette). Se dunque a essere vietato non è il motivo discriminatorio, ma l’effetto discriminatorio in relazione a uno dei fattori previsti dall’ordinamento dell’Unione, in presenza di uno di tali fattori l’indagine in ordine alla legittimità della scelta tra più lavoratori fungibili dovrà necessariamente seguire lo schema descritto dal peculiare regime dell’onere probatorio imposto dalle fonti sovranazionali. Secondo quelle fonti, l’agevolazione probatoria risulta necessariamente strumentale al principio di effettività della tutela antidiscriminatoria, affermato più volte dal diritto derivato e dipende dal riconoscimento dell’esistenza di una necessaria asimmetria informativa tra il lavoratore che assuma di aver subito un trattamento deteriore in ragione di uno dei fattori di protezione previsti dall’ordinamento sovranazionale e la controparte datoriale, che sola è nella disponibilità dei dati sui quali in effetto ha fondato la disparità di trattamento. E il regime probatorio agevolato opera appunto favorendo il lavoratore attore nella dimostra-
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Elisabetta Tarquini
zione del nesso di causalità tra trattamento differenziato e fattore di discriminazione, una volta che egli abbia provato l’esistenza in fatto di un trattamento differenziato rispetto al tertium comparationis prescelto (e che potrebbe essere non più esistente o anche solo ipotetico). Più precisamente e semplificando al massimo: assunta la struttura generalmente relazionale del giudizio di discriminazione, quando il lavoratore o la lavoratrice assumano di essere stati licenziati, tra più posizioni lavorative fungibili, in violazione dei divieti di discriminazione spetterà all’attore o all’attrice: a) allegare e eventualmente dimostrare il fattore di discriminazione (e la prova avrà all’evidenza difficoltà molto diverse in relazione ai fattori, si pensi ad esempio, da una parte al genere, dall’altra alle convinzioni personali, come belief, credo, non semplicemente opinione, ma è un tema di cui anche infra); b) affermare e dimostrare l’esistenza di un trattamento deteriore in suo confronto rispetto al termine di comparazione (e quindi a un soggetto, anche non più esistente o anche solo ipotetico, ma comunque non portatore del fattore protetto, nella specie gli altri lavoratori aventi posizioni professionali fungibili rimasti in servizio); c) la prova potrà avvenire anche a mezzo del dato statistico, uno strumento che la (ancora scarsa) giurisprudenza intende in senso ampio, ritenendo utilizzabili quindi non solo regolarità scientificamente verificabili, ma più generalmente elementi estrinseci al rapporto indicativi comunque di regolarità causali, fondanti ragionevoli probabilità di accadimento dei fatti. Assolto quest’onere da parte dell’attore sarà il datore di lavoro a dover dimostrare fatti, necessariamente specifici ed obiettivamente verificabili, idonei a far ritenere, nel caso di discriminazione diretta che qui interessa, l’inesistenza della discriminazione e quindi l’esistenza di una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato, alternativa a quella normativamente presunta, e avente esclusiva rilevanza causale, oppure l’esistenza di una deroga, cioè l’esclusione della fattispecie dall’area del divieto (il che potrà avvenire, anche qui semplificando al massimo, quando il trattamento differenziale dipenda da una caratteristica essenziale della prestazione). In ogni caso il difetto di prova in ordine all’inesistenza della discriminazione o all’effettività dell’esimente andrà in danno del datore di lavoro onerato e la conseguenza sarà la qualificazione del licenziamento come discriminatorio (in quanto la violazione del criterio di scelta si traduce nella violazione del principio paritario), cui quindi sarà applicabile la piena tutela ripristinatoria e risarcitoria prevista dai primi due commi dell’art. 18 indipendentemente dalle dimensioni occupazionali del datore di lavoro. Ed è importante rilevare anche che questa articolazione dell’onere probatorio dovrà applicarsi in ogni caso in cui si affermi la discriminatorietà della scelta indipendentemente dal rito che il lavoratore o la lavoratrice abbiano agito. Si tratta di una conclusione che pare raggiunta dalla giurisprudenza di legittimità come risulta da Cass. 23286/2016, che conclude una vicenda iniziata davanti al Tribunale di Pistoia. Si trattava in quel caso di una fattispecie di molestie sessuali e la decisione della Corte è importante, sia dal punto di vista argomentativo, per il rilievo dato alle fonti superprimarie di diritto dell’Unione, sia più specificamente quanto al decisum, non solo in quanto afferma l’applicabilità del regime probatorio agevolato anche alle molestie, ma anche perché lo afferma nell’ambito di un giudizio ordinario ex art. 414 c.p.c., diverso quindi da quello previsto dagli art. 38 e segg. del d.lgs. n. 198/2006 per le discriminazioni di genere e altrimenti dall’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011.
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Anche questa è un’assunzione di principio importante perché conferma la necessaria strumentalità del regime agevolato della prova rispetto alla tutela delle posizioni soggettive tutelate dai divieti di discriminazione, così che quel regime dovrà trovare applicazione, quando la violazione dei divieti sia dedotta, anche nel rito specifico dei licenziamenti previsto dalla l. n. 92/2012, o nel rito ordinario quando si affermi la discriminatorietà di un licenziamento intimato nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato cd. a tutele crescenti. Merita infine di essere menzionata una questione che potrebbe avere una certa rilevanza pratica in situazioni come quelle in esame, e relativa alla delimitazione dell’oggetto della prova che grava sul lavoratore che assuma la discriminatorietà della scelta. Non è inutile in particolare domandarsi se la prova della titolarità del fattore, di cui il lavoratore attore è gravato, debba includere anche quella della conoscenza, o per meglio dire della conoscibilità del fattore, da parte del presunto autore della discriminazione. È un tema che ovviamente si pone in termini diversi in relazione ai diversi fattori (il rilievo sarà pressoché nullo per esempio per l’età o per l’handicap, modesto verosimilmente per la razza, ma molto più rilevante per le opinioni politiche o l’orientamento sessuale). La questione ha formato oggetto di una recente sentenza del Tribunale di Milano che ha escluso la discriminazione diretta per ragioni di convinzioni personali di un lavoratore che assumeva di avere subito vari comportamenti vessatori da parte dei preposti del suo datore di lavoro dopo che aveva denunciato alla procura della Repubblica (e prima ai vertici della società per cui lavorava) irregolarità gravi commesse dai propri superiori gerarchici, denuncia che egli assumeva essere rispondente ai suoi ideali di legalità e di giustizia. Indipendentemente da ogni questione in ordine alla qualificabilità di tali idealità come “convinzioni” nei termini previsti dalla direttiva, merita riflettere su un altro degli argomenti spesi dal Tribunale per escludere la discriminazione, il fatto cioè che quelle idealità non fossero conosciute nell’ambiente di lavoro. È una situazione che potrebbe benissimo verificarsi quando il trattamento deteriore sia il licenziamento e il lavoratore assuma che la scelta tra più posizioni fungibili sia caduta su di lui in conseguenza delle sue convinzioni, o anche del suo orientamento sessuale. Ora pare a chi scrive che, argomentando come ha fatto, il Tribunale abbia in effetto reintrodotto nella nozione di discriminazione quell’elemento di soggettività ora escluso anche dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, con il ritenere elemento di fattispecie la notorietà delle convinzioni personali (ma si potrebbe dire lo stesso dell’orientamento sessuale) del lavoratore, si finisce per considerare all’evidenza necessaria, perché si dia discriminazione, quanto meno la consapevolezza da parte del datore di lavoro della relazione tra il trattamento differenziale e il fattore protetto (le convinzioni del lavoratore o il suo orientamento sessuale), il che non è tanto diverso dal pretendere la prova di una soggettiva volontà di discriminazione. Al contrario, ove invece il divieto di discriminazione sia apprezzato nella sua dimensione esclusivamente oggettiva, una tale consapevolezza (o anche la sola conoscibilità del fattore) resta del tutto estranea alla fattispecie e quindi all’ambito della prova, perché ciò che rileva è la sola, obiettiva relazione tra trattamento differenziale (del lavoratore attore rispetto al tertium comparationis) e fattore protetto, che dovrà dirsi provata sempre che il datore di lavoro, a fronte della prova del trattamento deteriore affermato come connesso al fattore, non ne dimostri invece una ragione diversa, alternativa, avente esclusiva efficacia causale.
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Focus Il precariato nel pubblico impiego
Michele De Luca
Precariato pubblico: condizionalità eurounitaria per divieti nazionali di conversione*? Sommario : 1. Precariato pubblico: tra condizionalità eurounitaria e divieti nazionali di conversione (impostazione del tema di indagine). – 2. Segue: discrezionalità degli stati membri nello stabilire divieti di conversione. – 3. Segue: condizionalità eurounitaria. – 4. Segue: tra misure alternative alla conversione, nel nostro diritto vivente, e condizionalità eurounitaria.
Sinossi. Dopo un excursus sulla condizionalità eurounitaria per i divieti nazionali di conversione dei contratti a termine nel pubblico impiego, il saggio analizza la sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione – investita, direttamente, da rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia – ne individua il conflitto con il diritto dell’Unione e propone soluzioni alternative. Abstract. In conclusion of the study about “eurounitaria” conditionality to national prohibition of transformation of fixed-term employment contract, the essay analyzes the judgment of civil United Chambers of the Supreme Court - invested, directly, by the preliminary ruling made to the Court of Justice - and it detects the reported conflict with the right of European Union and proposes alternatives solutions. Parole
chiave:
Condizionalità euronitaria - Divieti nazionali di conversione.
1. Precariato pubblico: tra condizionalità eurounitaria e
divieti nazionali di conversione (impostazione del tema di indagine). In principio è la condizionalità – stabilita dal diritto dell’Unione europea – per il divieto di conversione – in unico contratto di lavoro a tempo indeterminato – che sia previsto, da ordi*
Il saggio è destinato al Liber amicorum per Giuseppe Santoro-Passarelli.
Michele De Luca
namenti interni degli stati membri, per il caso di successione abusiva di contratti a termine. Il divieto è subordinato, infatti, alla condizione che, negli ordinamenti interni, siano contestualmente previste misure alternative – alla conversione, appunto – dotate dei requisiti indefettibili stabiliti dal diritto dell’Unione: equivalenza – rispetto al trattamento garantito, per casi analoghi, dallo stesso ordinamento interno – si coniuga, in tale prospettiva, con effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva. La discrezionalità degli stati membri – nello stabilire divieti di conversione –non può, quindi, prescindere dalla condizionalità imposta dal diritto dell’Unione. Nel rispetto della condizionalità – in relazione, appunto, alla previsione di misure alternative dotate dei requisiti indefettibili prescritti dal diritto dell’Unione – i divieti di conversione restano, tuttavia, affidati alla discrezionalità degli stati membri ed assoggettati – del pari, in via esclusiva – a limiti e regole stabiliti dai loro ordinamenti interni. Per quanto riguarda il nostro ordinamento, il principio costituzionale del pubblico concorso per l’accesso al posto di lavoro (articolo 97 cost.) – all’evidenza, incompatibile con la conversione – riguarda soltanto le pubbliche amministrazioni. Si coniuga, tuttavia con previsioni analoghe di leggi ordinarie, anche regionali. Resta da domandarsi se – e quali – limiti incontrino le stesse leggi in principi e disposizioni della costituzione, anche in materia di riparto della potestà legislativa tra stato e regioni. Tutti i divieti nazionali di conversione – compresi quelli di fonte costituzionale – sono comunque subordinati alla condizionalità eurounitaria. Le fonti nazionali – di divieti della conversione e di misure ad essa alternative – risultano, infatti, cedevoli rispetto alla condizionalità eurounitaria. In altri termini, gli stati membri possono, bensì, stabilire discrezionalmente divieti di conversione, nel rispetto di principi e disposizioni dei propri ordinamenti interni. La coerenza dei divieti stessi con il diritto dell’Unione è subordinata, tuttavia, alla condizione che siano contestualmente previste – dagli ordinamenti interni – misure alternative, alla conversione appunto, dotate dei requisiti indefettibili imposti dallo stesso diritto dell’Unione: la equivalenza – rispetto al trattamento garantito, per casi analoghi, dall’ordinamento interno – si coniuga, per quanto si è detto, con effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva. Pertanto il diritto dell’Unione europea osta ai divieti di conversione, che gli ordinamenti degli stati membri impongano – nell’esercizio della propria discrezionalità – senza prevedere contestualmente, tuttavia, misure alternative, alla conversione appunto, dotate dei requisiti indefettibili imposti dallo stesso diritto dell’Unione.
2. Segue: discrezionalità degli stati membri nello stabilire divieti di conversione.
Invero – nel difetto di previsioni specifiche, sul punto, del diritto dell’Unione – spetta alle autorità nazionali l’adozione di misure sanzionatorie per la repressione, appunto, del ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato: lo ribadisce la sen-
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Precariato pubblico: condizionalità eurounitaria per divieti nazionali di conversione
tenza Mascolo della Corte di giustizia1, in coerenza con la giurisprudenza consolidata della stessa Corte (richiamata contestualmente). La discrezionalità degli stati membri, tuttavia, incontra i limiti che risultano dalla imposizione di requisiti indefettibili per le stesse misure sanzionatorie: la effettività si coniuga, in tale prospettiva, con la proporzionalità, la equivalenza – rispetto a misure “che riguardano situazioni analoghe di natura interna” – e la efficacia dissuasiva2. Non risulta imposto, però, agli stati membri l’obbligo generale di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato3. Di conseguenza, l’ordinamento dell’Unione europea non osta a che uno stato membro riservi sanzioni diverse – per il ricorso abusivo alla successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato – a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro, appartenente al settore privato, oppure con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico.4 Con riferimento al nostro ordinamento, quindi, la garanzia del principio costituzionale del pubblico concorso (art. 97, 3° comma, Cost.)5 risulta idonea a giustificare — quando il rapporto di lavoro subordinato intercorra, appunto, con amministrazioni pubbliche — l’esclusione della conversione — in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato — della successione abusiva di più contratti di lavoro a tempo determinato. Coerentemente, “il principio fondamentale (….) dell’accesso mediante concorso pubblico” (enunciato dall’art. 97, 3° comma, Cost.) – in materia d’instaurazione del rapporto d’impiego alle dipendenze di amministrazioni pubbliche – giustifica, sul piano costituzionale, il divieto di conversione, in contratto a tempo indeterminato, nel caso di illegittima
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Vedi C. giust., 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-418/13, Mascolo ed altri contro Miur, nonché C-63/13 Russo contro Comune di Napoli, in FI, 2014, IV, 569; in MGL, 2015, 138, con note di Vallebona, Romeo, Urso, Simoncini; in Rass. avv. Stato, 2014, 4, 58, con nota di Sciascia; in LG, 2015, 135, con nota di Nunin; in ADL, 2015, 167, con nota di G. Santoro-Passarelli; in Giur. cost., 2014, 4779, con nota di Calvano e 2015, 157, con nota di Ghera; in RGL, 2015, II, 193, con nota di Aimo; in RIDL, 2015, II, 309, con nota di Calafà, Menghini. Sulla sentenza Mascolo della Corte di giustizia, vedi, altresì, De Luca, Un gran arrêt della Corte di giustizia dell’Unione europea sul nostro precariato scolastico statale: il contrasto con il diritto dell’Unione, che ne risulta, non comporta l’espunzione dal nostro ordinamento, né la non applicazione della normativa interna confliggente (prime note in attesa dei seguiti), in LPA, 2014, 499 ss.; Id., Il giusto risarcimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, in LG, 2016, 1053, ed – in un testo più ampio – in www.europeanrigts.eu, gennaio 2017, al quale si rinvia per riferimenti ulteriori. Adde: Bolego, Prevenzione e rimedi contro l’abuso del termine nel p.i., in Labor, 2017, 21. 2 In tal senso – oltre alla sentenza Mascolo della Corte di giustizia – vedi le sentenze C. giust., 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler et al., punto 94; C. giust., 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C‑53/04, punto 51; C. giust., 7 settembre 2006, C‑180/04, Vassallo, punto 36; C. giust., 3 luglio 2014, Fiamingo et al., C‑362/13, C‑363/13 e C‑407/13, punto 62; nonché C. giust., ordinanza 11 dicembre 2014, León Medialdea, C‑86/14, in http://curia.europa.eu/, punto 44; C. giust., 14 settembre 2016, cause C‑184/15 e C‑197/15, punto 36. 3 Vedi, in tal senso, le sentenze: C. giust., 4 luglio 2006, cit., punto 91; C. giust., 7 settembre 2006, cit., punto 47; C. giust., 23 aprile 2009, Angelidaki et al., C‑378/07 e C‑308/07, punti 145 e 183; C. giust., 3 luglio 2014, cit., punto 65; nonché C giust., ordinanza 11 dicembre 2014, cit., punto 47; C. giust., 14 settembre 2016, cause C‑184/15 e C‑197/15, punto 39. 4 Vedi, in tal senso, le sentenze C. giust., 7 settembre 2006, cit., punto 48, C. giust., 7 settembre 2006, Vassallo, C‑180/04, punto 33; C. giust., 14 settembre 2016, cause C‑184/15 e C‑197/15, punto 40. 5 Sul punto, vedi, per tutte, C. cost., 21 aprile 2005, n. 159 (in FI, 2005, I, 1981; in GI, 2005, 2249; in Giur. cost., 2005, 1290) – ed, ivi, riferimenti ulteriori di giurisprudenza – che ha dichiarato incostituzionale la disposizione impugnata (art. 1, commi 1 e 2, l. reg. Calabria 5 dicembre 203, n. 28), nella parte in cui prevede – in deroga al principio del pubblico concorso, appunto – la riserva, soltanto a personale interno, della partecipazione al concorso.
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apposizione del termine – come della violazione di altre disposizioni imperative – in contratti di pubblico impiego (ai sensi dell’articolo 36, comma 2, del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165)6. Ne risulta che – in difetto del pubblico concorso – il lavoratore, vittima dell’abuso, ha diritto, in tal caso, soltanto al risarcimento del danno. Resta da domandarsi, tuttavia, se sia vero il contrario. Si tratta di stabilire, cioè, se a seguito di pubblico concorso – per l’instaurazione di rapporto di lavoro, a tempo determinato, alle dipendenze di amministrazioni pubbliche – il lavoratore abbia diritto alla conversione – in contratto a tempo indeterminato – nello stesso caso di illegittima apposizione del termine – come della violazione di altre disposizioni imperative – nei contratti di pubblico impiego stipulati all’esito di procedura concorsuale. La soluzione positiva della questione – anche all’esito di interpretazione orientata (costituzionalmente e/o eurounitariamente) – pare coerente, in tal caso, con l’instaurazione del rapporto di lavoro a termine – risultato abusivo – dopo la sottoposizione del lavoratore, vittima dell’abuso, all’unica procedura concorsuale esigibile. In alternativa, resta la questione di legittimità costituzionale – sollevata dal Tribunale di Foggia, (anche) sotto il profilo ora prospettato7 – che potrebbe condurre, oltre che al denegato rigetto, ad una pronuncia interpretativa, parimenti, di rigetto o di accoglimento – che sostanzialmente accolga, sia pure in forme diverse, la interpretazione adeguatrice auspicata – oppure ad una pronuncia di accoglimento. Resta da interrogarsi, poi, sulla potenzialità espansiva – al di fuori, cioè, dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche (ai quali è limitato il principio costituzionale del pubblico concorso, di cui all’articolo 93, comma 3, Cost.) – del divieto di conversione, che ne consegue, al caso di previsione dello stesso principio in leggi ordinarie, anche regionali. Resta da stabilire, in particolare, se il divieto di conversione – in dipendenza del principio del pubblico concorso imposto per legge8 – possa prescindere dalla natura giuridica del datore di lavoro. In altri termini, si tratta di stabilire se possa riguardare soltanto enti pubblici non economici oppure anche enti pubblici economi e, addirittura, società partecipate, aventi natura privatistica9. Allo stato, la giurisprudenza pare orientata per la soluzione più ampia: dopo un obiter dic-
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Vedi C. cost., 27 marzo 2003, n. 89, in FI, 2003, I, 2258; in Giust. amm., 2003, 542, con nota di Oliveri; in MGL, 2003, 443, con nota di Barbieri; in LPA, 2003, 355, con nota di Greco; in LG, 2003, 831, con nota di Sciortino; in Giur. cost., 2003, 711. Vedi Trib. Foggia, ordinanza 26 ottobre 2016, in http://www.rivistalabor.it/le-conseguenze-dellabuso-del-contrattotermine-parte-delle-p-vicenda-senza-fine-2/, sulla quale vedi, per tutti, Putaturo Donati, Precariato pubblico, effettività della tutela antiabusiva e nuova questione di legittimità costituzionale, in ADL, 2017, I, 65, al quale si rinvia per riferimenti ulteriori, spec. nota 1. Nel rispetto, tra l’altro, del riparto di competenze legislative tra stato e regioni. Per l’impostazione del problema, vedi De Luca, Diritti di lavoratori flessibili, anche alle dipendenze di amministrazioni pubbliche: patrimonio costituzionale comune versus declino delle garanzie, in LPA, 2013, 941, spec. § 3.4., al quale si rinvia per riferimenti ulteriori
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tum delle sezioni unite10, la sezione lavoro della Corte di cassazione pare, infatti, orientata in tal senso11. Non è questa la sede per affrontare funditus il problema. Tuttavia è lo stesso principio del pubblico concorso – ancorché imposto da legge ordinaria, statale o regionale (nell’ambito, beninteso, delle competenze rispettive) – a risultare incompatibile con la conversione, in quanto elusiva dello stesso principio.
3. Segue: condizionalità eurounitaria. Qualsiasi divieto di conversione – comunque imposto dall’ordinamento nazionale degli stati membri – risulta conforme all’ordinamento dell’Unione europea solo se la stessa normativa nazionale prevede – contestualmente – “un’altra misura effettiva per evitare ed, eventualmente, sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi”12. Con riferimento al nostro ordinamento, quindi, la stessa garanzia costituzionale del principio del pubblico concorso (art. 97, comma 3, Cost.) risulta, bensì, idonea a giustificare — quando il rapporto di lavoro subordinato intercorra, appunto, con amministrazioni pubbliche — l’esclusione della conversione — in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato — della successione abusiva di più contratti di lavoro a tempo determinato. La stessa esclusione, tuttavia, è subordinata alla condizione che siano previste, dallo stesso ordinamento nazionale, misure effettive volte a prevenire ed a punire eventuali usi abusivi dei contratti a tempo determinato. Pertanto è subordinata a tale condizione – sebbene sia fondata sul principio costituzionale del pubblico concorso – l’esclusione della conversione — in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato — della successione abusiva di più contratti di lavoro a tempo determinato alle dipendenze di amministrazioni pubbliche. Né può essere trascurato che la prospettata compatibilità condizionata — tra garanzia del principio costituzionale del pubblico concorso, appunto, e ordinamento comunitario – risulta coerente con il primato dello stesso ordinamento rispetto alle fonti — anche costi-
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Vedi Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4685, in LG, 2015, 588 ss., con nota di Nunin, Dopo “Mascolo” (ed in attesa della Consulta...): un obiter delle Sezioni Unite su nullità del termine e sanzioni nel pubblico impiego, che – con riferimento ad ente pubblico economico sottoposto a tutela o vigilanza della Regione Sicilia – nega, bensì, la conversione, ma – come precisa con un obiter dictum, appunto – soltanto fino a quando (con l’entrata in vigore della sopravvenuta l. reg. Sicilia 5 novembre 2004, n. 15) «la reintroduzione di una concorsualità qualificata o, comunque, semplificata per le assunzioni impedisce, di conseguenza, l’automatica trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato». 11 Vedi, da ultime, Cass., 1 marzo 2017, n. 5286 (come altre rese alla stessa udienza), che – con riferimento ad ente pubblico economico – nega la conversione, appunto, essenzialmente in base al rilievo che ne è prevista (dall’articolo 23 l. reg. Sardegna n. 16/1974) l’assunzione del personale “esclusivamente mediante concorso pubblico”. 12 Così, testualmente, C. giust., 14 settembre 2016, cit., punto 41. Nello stesso senso, tuttavia, vedine le sentenze già citate alle note n. 2 e 3.
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tuzionali — degli ordinamenti nazionali degli Stati membri, fatta esclusione per i principî fondamentali del nostro ordinamento costituzionale ed i diritti inalienabili della persona13. Coerente risulta, quindi, la conclusione della sentenza Mascolo della Corte di giustizia14. Ne risulta palese, infatti, il contrasto della nostra disposizione nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali15 – con l’ordinamento dell’Unione europea16 – sia laddove prevede la successione di contratti di lavoro a tempo determinato – ritenuta abusiva dalla Corte di giustizia – sia laddove, coerentemente, non commina alcuna sanzione per la stessa successione di contratti. Ora è, bensì, vero che la stessa sentenza Mascolo della Corte di giustizia non ha comportato l’espunzione dal nostro ordinamento, né la non applicazione della normativa interna (articolo 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124, cit.), contestualmente ritenuta confliggente con l’ordinamento dell’Unione europea17. Coerenti con la stessa sentenza della Corte di giustizia, ne sembrano, tuttavia, i seguiti nel nostro
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Sul punto, vedi De Luca, Privato e pubblico nei rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze di regioni ed enti locali, in FI, 2007, V, 149, spec. § 6 e passim, al quale si rinvia per riferimenti ulteriori. Sul primato del diritto della Unione europea e la conseguente prevalenza – rispetto al diritto degli stati membri – vedi: - Dichiarazione n. 17 relativa al primato (allegata al trattato sul funzionamento dell’Unione europea): «La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza. Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260)». - Articolo 11, comma 1, della Costituzione italiana: «L’Italia (…) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni (…..)». Molto ampie risultano, poi, dottrina e giurisprudenza sul primato: vedi, per tutti, Ruggeri., Il primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale: lo scarto tra il modello e l’esperienza e la ricerca dei modi della loro possibile ricomposizione, in www.giurcost. org, 2016, fasc. 1; Id., Primato del diritto dell’Unione europea in fatto di tutela dei diritti fondamentali?, in QCost., 2015, 931; Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in www.rivistaaic.it, 2016, fasc. 2. 14 Nei termini testuali seguenti: «La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali (articolo 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124, cit., appunto), che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato». 15 L’articolo 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124, cit., appunto. 16 E, segnatamente, con la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. 17 Sul punto, vedi De Luca, Un gran arrêt della Corte di giustizia dell’Unione europea sul nostro precariato scolastico statale: il contrasto con il diritto dell’Unione, che ne risulta, non comporta l’espunzione dal nostro ordinamento, né la non applicazione della normativa interna confliggente (prime note in attesa dei seguiti), cit., spec. § 4 e 5.
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ordinamento: la legge18 si coniuga, in tale prospettiva, con la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale19. Per quel che qui interessa, la sentenza Mascolo della Corte costituzionale20 muove dalla declaratoria di illegittimità costituzionale (per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla clausola 5, comma 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) della stessa disposizione (art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999), che la Corte di giustizia aveva ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione europea. E perviene alla conclusione che «il primato del diritto comunitario e la esclusività della giurisdizione costituzionale nazionale, in un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, impongono delicati equilibri, evidenziati anche nell’ordinanza del rinvio pregiudiziale, in cui questa Corte ha posto in evidenza i principi costituzionali che vengono in rilievo nella materia in esame, e cioè l’accesso mediante pubblico concorso agli impieghi pubblici (art. 97, quarto comma, Cost.), e il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.)». Il rilievo che “la disciplina comunitaria in questione non si pone in contrasto con nessuno dei due principi” e che “la statuizione della Corte del Lussemburgo, al contrario, appare rispettosa delle competenze degli Stati membri, cui riconosce espressamente spazi di autonomia” risulta preliminare, poi. alla delimitazione di tali spazi, che “riguardano in particolare le ricadute sanzionatorie dell’illecito”. Ed, in tale prospettiva, prende atto che – occupandosi di tali ricadute – la Corte di giustizia ha ritenuto che “la normativa comunitaria in materia non prevede misure specifiche, rimettendone l’individuazione alle autorità nazionali e limitandosi a definirne i caratteri essenziali (dissuasività, proporzionalità, effettività)”. In tale cornice, quindi, la Corte costituzionale colloca lo scrutinio sulle ricadute sanzionatorie dell’illecito e, segnatamente, sulla coerenza – eurounitaria e costituzionale – del sistema sanzionatorio previsto dal seguito legislativo21. Intanto per lo scrutinio – sull’esercizio della discrezionalità riservata alle autorità nazionali, nella determinazione di un sistema sanzionatorio dotato dei prescritti caratteri essenziali (equivalenza, appunto, effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva)22 – «s’impone una integrazione del dictum del giudice comunitario, che non può che competere a questa Corte»23. Con specifico riferimento, poi, al sistema sanzionatorio – per i contratti a termine stipulati sulla base della disposizione (articolo 4, commi 1 e 11, della l. 3 maggio 1999, n. 124, cit., appunto), ora espunta dal nostro ordinamento, perché abrogata e, nel contempo, investita da declaratoria di incostituzionalità (in relazione all’articolo 117, primo comma, Cost.) – la
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Vedi l. 13 luglio 2015, n. 107, Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, cit. 19 Vedi sentenza Mascolo della Corte costituzionale: C. Cost., 20 luglio 2016, n. 187, in FI, 2016, I, 2993, con nota di Perrino; in MGL, 2016, 615, con nota di Franza; in LG, 2016, 882, con nota di Nunin. Per un esame analitico dei seguiti della sentenza Mascolo della Corte di giustizia nel nostro ordinamento, vedi De Luca, Il giusto risarcimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, cit., spec. 1056 ss. e – nel testo più ampio – § 3. 20 Vedi C. Cost., 20 luglio 2016, n.187, cit. 21 La legge 13 luglio 2015, n. 107, cit., appunto. 22 In tal senso – per quanto si è detto – è la sentenza Mascolo della Corte di giustizia. 23 Così, testualmente, C. cost. 20 luglio 2016, n. 187, cit.
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Corte costituzionale – dopo avere analizzato la disciplina a regime – concentra il proprio scrutinio (punti 14.4. e seguenti) sulle disposizioni transitorie24. Compete, tuttavia, ai giudici comuni la determinazione del risarcimento, che – in alternativa alla conversione vietata – è dovuto da amministrazioni pubbliche in dipendenza del ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. La discrezionalità delle autorità nazionali (comprese, all’evidenza, quelle giudiziarie) – nella determinazione di tale risarcimento – incontra, però, i limiti che risultano, per quanto si è detto, dalla imposizione di requisiti indefettibili (anche) per lo stesso risarcimento: la effettività si coniuga, in tale prospettiva, con la proporzionalità, la equivalenza – rispetto a misure “che riguardano situazioni analoghe di natura interna” – e la efficacia dissuasiva.25 Né può essere trascurato che il risarcimento risulta alternativo rispetto alla conversione vietata – (anche) in ossequio al principio costituzionale del pubblico concorso (art. 97, 3° comma, Cost.) – solo se presenta i requisiti indefettibili che sono stati prospettati. Tali requisiti non sembrano ricorrere, tuttavia, nel risarcimento, che – in alternativa alla conversione – risulta stabilito dal nostro diritto vivente.
4. Segue: tra misure alternative alla conversione, nel nostro diritto vivente, e condizionalità eurounitaria.
In materia di risarcimento – per illegittima apposizione del termine a contratti di lavoro privatizzati alle dipendenze di amministrazioni pubbliche – il nostro diritto vivente26 e, segnatamente, le sezioni unite civili della Corte di cassazione27 – risolvendo questione
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Della stessa legge 13 luglio 2015, n. 107, cit. Per un esame analitico dello scrutinio sulle disposizioni transitorie, vedi De Luca, op. loc. ult. cit. 25 In tal senso – oltre la sentenza Mascolo della Corte di giustizia – vedi le sentenze citate alla nota n. 3. 26 Sul diritto vivente – nella accezione accolta dalla Corte costituzionale – v., per tutti, G. Zagrebelsky, Marcenò, La giustizia costituzionale, il Mulino, 2012, 371 ss.; G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, il Mulino, 1988, 285 ss.; Id, La dottrina costituzionale del diritto vivente, G. Cost, 1986, I, 1148; nonché i contributi di Lenzi, Navone e Perlingieri, in Pagliantini (a cura di) Il diritto vivente nell’età dell’incertezza - Saggi su art. 28 l. not. e funzione notarile oggi, Giappichelli, 2011; Carbone, Le difficoltà dell’interpretazione giuridica nell’attuale contesto normativo: il diritto vivente, in CG, 2011, 183; Bruno, Cavino (a cura di), Esperienze di diritto vivente – La giurisprudenza negli ordinamenti di diritto legislativo, Giuffrè, 2011, passim; Alpa, Il diritto giurisprudenziale e il diritto «vivente» – Convergenza o affinità dei sistemi giuridici?, in Soc. del dir., 2008, 3, 37; Speziale, La giurisprudenza del lavoro ed il «diritto vivente» sulle regole interpretative, in DLRI, 2008, 613; Chiarloni et al., La giustizia civile tra nuovissime riforme e diritto vivente, in GI, 2009, I, 1599; Evangelista, Canzio, Corte di cassazione e diritto vivente, in FI, 2005, V, 82; Anzon, Il giudice a quo e la corte costituzionale tra dottrina dell’interpretazione conforme a costituzione e dottrina del diritto vivente, nota a C. cost., 23 aprile 1998, n. 138, in GCost, 2008, 1082; Id., La Corte costituzionale e il diritto vivente, ivi, 1984, I, 304; Morelli, Il diritto vivente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, ivi, 1995, I, 149; De Luca, Uguaglianza e lavoro: quanto (poco resta nel nostro diritto vivente, in RIDL, 2016, I, 235, passim, spec. nota 1. In giurisprudenza, vedi, da ultimo, C. cost., n. 53/2017. 27 Vedi Cass., sez. un, 15 marzo 2016, n. 5072 (in FI, 2016, I, 2994, con nota di Perrino; in GI, 2016, 1169, con nota di Tosi; in NGCC, 2016, 1305, con nota di D’Ascola; in RIDL, 2016, II, 597, con nota di Allocca; in MGL, 2016, 589, con note di Vallebona e Putaturo Donati; in RGL, 2016, II, 337, con nota di Coppola), che riguarda la controversia tra l’Azienda Ospedaliera Universitaria San Martino Di Genova e Sardino e Marrosu (sulla quale era già intervenuta la Corte di giustizia, a seguito di rinvio pregiudiziale).
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di massima di particolare importanza – hanno enunciato i principi di diritto seguenti: - «il danno risarcibile di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.»; - «la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito». Articolata ne risulta, poi, la ratio decidendi28. Resta da domandarsi, tuttavia, se la decisione delle sezioni unite risulti coerente con la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia. Sembra discostarsene, infatti, laddove ritiene che «il danno risarcibile di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.». Sembra discostarsene, altresì, laddove prende atto che la «difficoltà a provare il danno subito – consiste(nte), essenzialmente, nella perdita di chance di un’occupazione migliore – (…) ridonda in deficit di adeguamento della normativa interna a quella comunitaria». Ed – in funzione della «agevolazione della prova (….) in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 dell’ accordo quadro» – le sezioni unite pervengono alla conclusione che «la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente
Conforme alla sentenza delle sezioni unite, risulta la sentenza Cass., 3 agosto 2016, n. 16226 ed altre della sezione filtro (sesta sezione), che suppongono il consolidamento dell’orientamento giurisprudenziale, che ne risulta espresso. Parimenti conformi alla sentenza delle sezioni unite sono – sul medesimo punto del risarcimento – le recentissime sentenze della sezione lavoro della Corte di cassazione numero 22552 e 22558 del 7 novembre 2016, 23534 del 18 novembre 2016 e numerose altre, in corso di pubblicazione, parimenti discusse nell’udienza del 18 ottobre precedente (vedi comunicato stampa della Corte in data 7 novembre 2016). Da ultima, vedi Cass., 12 aprile 2017, n. 9402, inedita. 28 La ratio decidendi, infatti, si articola nei passaggi essenziali analiticamente esaminati in De Luca, Il giusto risarcimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, cit., – nel testo più ampio – spec. nota 33.
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e strettamente contigua» è l’indennità forfettaria (di cui all’articolo 32, comma 5, della l. n. 183/2010), che, per l’impiego pubblico, non si accompagna alla conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato – in quanto il divieto di conversione «è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione” – e perciò, assume la “diversa valenza (…), in chiave agevolativa, di maggior tutela nel senso che, in quella misura, risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore». Infatti pare, dalle sezioni unite, trascurata – quantomeno – la verifica circa la effettività e la equivalenza – rispetto a misure “che riguardano situazioni analoghe di natura interna” – del sistema sanzionatorio, che ne risulta stabilito, per illegittima apposizione del termine a contratti di lavoro privatizzati alle dipendenze di amministrazioni pubbliche. Sembrano esulare, tuttavia, anche gli altri requisiti indefettibili, che la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, parimenti, impone quale limite – alla discrezionalità alle autorità nazionali (compresa, all’evidenza, quella giudiziaria) – nella determinazione dello stesso sistema sanzionatorio: la proporzionalità si coniuga, in tale prospettiva, con la efficacia dissuasiva. Infatti è la sentenza Mascolo della Corte costituzionale29 che – all’esito dello scrutinio delle due misure alternative, autorizzate dal diritto comunitario, parimenti efficaci per sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a termine – così conclude: «Tale efficacia è indubbiamente tipica della sanzione generale del risarcimento, desunta dai principi della normativa comunitaria e non richiede approfondimenti; non diversa, tuttavia, è l’efficacia dell’altra misura, che sostanzialmente costituisce anch’essa un risarcimento, ma in forma specifica». Palese ne risulta la configurazione esplicita della conversione – come risarcimento in forma specifica – e, coerentemente, la configurazione implicita – come risarcimento per equivalente – della sanzione generale del risarcimento. Ora «il risarcimento del danno in forma specifica e quello per equivalente sono espressione della medesima esigenza di eliminazione del pregiudizio derivante dall’illecito e si distinguono fra loro esclusivamente per le differenti modalità di attuazione. Tali distinte modalità attuative sono tuttavia del tutto fungibili fra loro, essendo entrambe riconducibili alla comune finalità di porre riparo agli effetti negativi dell’illecito»30. Coerentemente, «il risarcimento del danno per equivalente costituisce una reintegrazione del patrimonio del creditore che si realizza mediante l’attribuzione, al creditore, di una somma di danaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta, e quindi si atteggia come la forma, per così dire, tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell’inadempimento dell’obbligazione da parte del debitore, mentre il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento della “eadem res” dovuta, tende a realizzare una forma più ampia e, di regola, più onerosa per il debitore, di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l’oggetto
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Vedi C. cost., del 20 luglio 2016, 187, cit., spec. punto 15. Così, testualmente, Cass., sez. un., n. 11912/2014 ed, in senso conforme, la giurisprudenza consolidata.
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della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità ed integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale”31. Si tratta, all’evidenza, di principi diffusamente condivisi, non solo con riferimento all’ordinamento interno della Repubblica italiana32. Tuttavia non è priva di rilievo, ai nostri fini (vedi infra), la circostanza che – per quanto si è detto – gli stessi principi siano enunciati (anche) dalla giurisprudenza consolidata nazionale33 – e risultino fondati sull’ordinamento interno34 – della Repubblica italiana. Ne risulta – applicando gli enunciati principi al caso di specie – che il risarcimento per equivalente – in alternativa alla conversione in unico contratto di lavoro a tempo indeterminato, che integra invece risarcimento in forma specifica35, per la successione abusiva di contatti a tempo determinato – non può che realizzarsi mediante l’attribuzione, al lavoratore pubblico vittima dell’abuso, di una somma di danaro pari al valore del posto di lavoro. Solo un risarcimento per equivalente siffatto costituisce – in alternativa alla conversione vietata – «un’altra misura effettiva per evitare ed, eventualmente, sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi»36. Tuttavia non pare priva di rilievo – come è stato anticipato (vedi retro) – la circostanza che gli stessi principi – per quanto si è detto – siano enunciati (anche) dalla giurisprudenza consolidata nazionale – e risultino fondati su disposizione esplicita dell’ordinamento interno37 – della Repubblica italiana. Infatti soltanto il risarcimento per equivalente prospettato – quale alternativa alla conversione vietata, nel caso di successione abusiva di contratti a termine di pubblico impiego – risulta connotato, altresì, dal concorrente requisito della equivalenza rispetto al trattamento che – nell’ordinamento interno della Repubblica italiana – è riservato, in casi analoghi, dai
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Così, testualmente, Cass., 16 giugno 2005, n. 12964 ed, in senso conforme, la giurisprudenza consolidata. Alle stesse conclusioni, tuttavia, perviene la dottrina – in tema di autonomia negoziale ed illecito – che parimenti contrappone la invalidità ed inefficacia dell’atto, quale sanzione meglio adeguata, al risarcimento del danno: vedi, per tutti, R. Scognamiglio, Responsabilità civile e danno, Giappichelli, 2010, 31 ss. 32 Infatti l’ammissibilità del risarcimento in forma specifica o in natura – quale alternativa al risarcimento per equivalente – era sostenuta, nel silenzio della legge, dalla dottrina dominante nel vigore del vecchio codice civile (che non recava una disposizione corrispondente all’articolo 2058 c.c., ora vigente): vedi, per tutti, R. Scognamiglio, Responsabilità civile e danno, cit., 252 ss. Ed, ivi, riferimenti a nota 8. 33 Vedi riferimenti alle tre note che precedono. 34 Vedi articolo 2058, comma 1, c.c. che testualmente sancisce: «Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica qualora sia in tutto o in parte possibile». Sulla applicazione dello stesso principio sia alla responsabilità extracontrattuale – per la quale risulta dettato – sia alla responsabilità contrattuale, che qui interessa, è la giurisprudenza consolidata nazionale: vedi, per tutte, Cass., 8 marzo 2006, n. 4925; Cass., 21 febbraio 2001, n. 2569 e Cass., 25 luglio 1997 n. 6985. 35 In tal senso, vedi C. cost., n. 187/2016, cit., spec. §15. 36 Così, testualmente, C. giust., 14 settembre 2016, cause C‑184/15 e C‑197/15, punto 41. Nello stesso senso, tuttavia, vedine le sentenze C. giust., del 4 luglio 2006, citt. 37 Vedi articolo 2058, comma 1, c.c., che testualmente sancisce: «Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica qualora sia in tutto o in parte possibile». Sulla applicazione dello stesso principio sia alla responsabilità extracontrattuale – per la quale risulta dettato – sia alla responsabilità contrattuale, che qui interessa, è la giurisprudenza consolidata nazionale: vedi, per tutte, Cass., 8 marzo 2006, n. 4925; Cass., 21 febbraio 2001, n. 2569 e Cass., 25 luglio 1997 n. 6985.
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ricordati principi in tema di rapporto tra risarcimento del danno in forma specifica e risarcimento per equivalente. Né rileva, in contrario, la circostanza che la «mancata conversione del rapporto (è) legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei». Invero il divieto di conversione preclude, bensì, l’accesso al posto di lavoro nel settore pubblico – senza una previa procedura concorsuale o, comunque, selettiva – ma non pare d’ostacolo, tuttavia, all’assunzione dello stesso posto di lavoro quale parametro del risarcimento per equivalente. Ed il risarcimento del danno per equivalente – per quanto si è detto – «si realizza mediante l’attribuzione, al creditore, di una somma di danaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta». Tanto basta per integrare la carenza del requisito della equivalenza, oltre che della effettività. Peraltro la configurazione dello stesso danno – come «perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore» – non solo risulta incoerente con gli stessi principi – che governano, per quanto si è detto, il rapporto tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente – ma sembra precludere, anche sotto altro profilo, la effettività e, con essa, la proporzionalità e la efficacia dissuasiva del sistema sanzionatorio proposto alle sezioni unite. La «perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore», infatti, non si coniuga necessariamente – con l’apposizione illegittima di termine al contratto di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche – e, comunque, non ne costituisce l‘effetto pregiudizievole. Né può essere trascurato che i requisiti indefettibili prospettati (equivalenza, appunto, effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva) – nel risarcimento per equivalente – condizionano, per quanto si è detto, la legittimità – “secondo i parametri (…) europei” – della esclusione del risarcimento in forma specifica – quale, appunto, la conversione – che risulta vietata dal nostro ordinamento interno. Con riferimento al danno da perdita di chance, tuttavia, soccorre – con efficacia, all’evidenza, assorbente – uno specifico precedente della Corte di giustizia (ordinanza 12 dicembre 2013, causa C 50/13, Papalia). La Corte ha già avuto occasione di stabilire, infatti, che la direttiva nella soggetta materia (direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999) osta ad una normativa nazionale (anche allora del nostro ordinamento), che – per il caso di utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato – preveda soltanto il diritto del lavoratore interessato al risarcimento del danno, quando il diritto stesso «è subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione». Tanto sarebbe bastato per imporre – a qualsiasi giudice nazionale (anche) italiano – l’interpretazione conforme della normativa interna oppure, in alternativa, la proposizione della questione di legittimità costituzionale della stessa normativa (in relazione agli articoli 11 e 117, primo comma, cost.) ed – ai giudici nazionali di ultima istanza (quale la Corte di cassazione) – anche l’obbligo del rinvio pregiudiziale. Non avendolo fatto le sezioni unite civili della Corte di cassazione, il Tribunale di Trapani38
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Vedine l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, 5 settembre 2016, cit.
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ha scelto – saggiamente – l’ultima delle opzioni prospettate, sebbene non fosse obbligato al rinvio pregiudiziale né, sia detto per inciso, giuridicamente vincolato dalla pronuncia delle sezioni unite39. Quanto, poi, alla indennità forfettaria (di cui all’articolo 32, comma 5, della legge 183 del 2010, c.d. collegato lavoro) – che, secondo le sezioni unire, concorre (con il risarcimento del danno da perdita di chance, appunto) ad integrare il risarcimento del danno da illegittima apposizione di termine a contratto di pubblico impiego – è la stessa disposizione istitutiva dell’indennità (articolo 32, comma 5, del c.d. collegato lavoro, appunto) a prevederne la corresponsione nel caso di conversione, in un unico contratto di lavoro a tempo indeterminato, della successione abusiva di contratti a termine40. La stessa indennità risulta, peraltro, «esaustiva del diritto al ristoro per gli “intervalli non lavorati” – in quanto inclusiva di tutti i danni, retributivi e contributivi, subiti dal lavoratore – mentre, per i “periodi lavorati”, spetta, oltre alla retribuzione maturata, anche il riconoscimento dell’anzianità di servizio e, dunque, la maturazione degli scatti di anzianità»41. C’è da domandarsi, quindi, se la indennità forfettaria, di che trattasi, possa integrare da sola – una volta espunto, per quanto si è detto, il risarcimento del danno da perdita di chance – il ristoro del danno, da illegittima apposizione del termine a contratto di pubblico impiego, sebbene non possa concorrere la conversione, perché vietata. Si tratta, all’evidenza, di domanda retorica. In difetto della conversione, infatti, la stessa indennità non risulta satisfattiva del danno – da illegittima apposizione del termine a contratto di pubblico impiego, appunto – alla luce del tenore letterale della disposizione che la istituisce (articolo 32, comma 5, del c.d. collegato lavoro, appunto). Né rileva, in contrario, la funzione di agevolazione della prova del danno subito – posta in evidenza dalle sezioni unite – in quanto connotato essenziale della indennità medesima, come di qualsiasi altra indennità forfettaria. Soccorre, tuttavia, un precedente specifico della Corte costituzionale42 – ignorato dalle sezioni unite – ed assume efficacia, all’evidenza, assorbente a sostegno della proposta conclusione. Chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale della disposizione istitutiva della indennità forfettaria in questione (articolo 32, comma 5, del c.d. collegato lavoro, cit.) – in relazione a parametri diversi (ivi compreso, per quel che qui interessa, l’articolo 117, comma 1, Cost.,
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Solo per le sezioni semplici della Corte di cassazione, infatti, è stabilito testualmente (art. 374, comma 3, c.p.c.): «Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». 40 L’articolo 32, comma 5, della legge n. 183/2010, c.d. collegato lavoro, infatti, sancisce testualmente: «Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604». 41 Vedi Cass., 12 gennaio 2015, n. 262 e numerose altre della sezione filtro. 42 Vedi C. cost., 11 novembre 2011, n. 303, in GCost, 2011, 6, 4224 e 2012, 1, 553, con nota di Romei; in FI, 2012, I, 717; in NGCC, 2012, I, 348, con nota di De Angelis; in RGL, 2012, II, 31, con nota di Menghini; in DML, 2011, 645, con nota di Allocca; in DRI, 2011, 1102, con nota di Bollani e Corvino; in LG, 2012, 252, con nota di Muggia; in ADL, 2012, 637, con nota di Malizia; in RIDL, 2012, II, 252, con note di Di Paola, Zappalà; in Quest. Giust., 2011, 6, 261, con nota di Sanlorenzo; in DLM, 2011, 535, con nota di Saracini; in LPO, 2012, 179, con nota di Altea; in OGL, 2012, I, 205, con nota di Giasanti; in MGL, 2011, 928, con nota di Vallebona.
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come integrato – quale fonte interposta – dalla direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) – la Corte costituzionale, infatti, ne propone – a sostegno della pronuncia di rigetto – l’interpretazione seguente: «non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, andando la prevista indennità ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato». Tanto basta per concludere che, solo se accompagnata dal risarcimento per equivalente – che nel settore pubblico sostituisce, per quanto si è detto, la conversione impossibile – l’indennità forfettaria concorre ad integrare – nell’ordinamento interno della Repubblica italiana – una misura non solo effettiva, ma anche equivalente – rispetto al trattamento previsto, in caso analogo, dallo stesso ordinamento (nell’articolo 32, comma 5, del c.d. collegato lavoro, cit., appunto) – per la successione abusiva di contratti a termine nel pubblico impiego. Tuttavia soccorre, vieppiù, la conclusione raggiunta dalla stessa Corte costituzionale, con riferimento specifico al parametro che qui interessa (articolo 117, comma 1, cost., come integrato – quale fonte interposta – dalla direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato). Ne risulta, infatti stabilito: «Non sussiste alcuna lesione del diritto al lavoro neppure sul versante della presunta contravvenzione all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (…)”. Infatti “l’esigenza di misure di contrasto dell’abusivo ricorso al termine nei contratti di lavoro, non solo proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive (……) risulta nella specie soddisfatta dalla sanzione più incisiva che l’ordinamento possa predisporre a tutela del posto di lavoro. Vale a dire dalla trasformazione del rapporto lavorativo da tempo determinato a tempo indeterminato, corroborata da un’indennità di ammontare certo». Tanto basta per concludere che il diritto dell’Unione europea (e, segnatamente, la direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, cit., spec. art. 5) – come interpretata dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia – osta ad una normativa nazionale – quale quella risultante dalla giurisprudenza delle sezioni unite civili della nostra Corte di cassazione – che, per la successine abusiva di contratti a termine nel pubblico impiego, da un lato vieta la conversione in un unico contratto a tempo indeterminato e, dall’altro, non riconosce alla vittima dell’abuso, in sostituzione della conversione vietata, il diritto al risarcimento del danno per equivalente – commisurato al valore del posto di lavoro negato ed equitativamente liquidato in misura pari alla indennità sostitutiva della reintegrazione (di cui all’articolo 18, comma 3, dello statuto dei lavoratori) – nonché alla indennità forfettizzata (di cui all’articolo 32, comma 5, della l. n. 183/2010, c.d. collegato lavoro), sebbene questa sia prevista in concorso con la conversione, che – nel settore pubblico – va sostituita, appunto, dal risarcimento per equivalente43. La liquidazione equitativa del danno (ai sensi dell’art. 1226 c.c.), poi, può avvalersi – anche in via analogica od estensiva – di criteri legali previsti a fini diversi.
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In tal senso, vedi De Luca, Il giusto risarcimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, cit., spec. § 5.
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In tale prospettiva, assume particolare rilievo la indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, per la quale il lavoratore reintegrato – a seguito di accertamento della illegittimità del proprio licenziamento – ha facoltà di optare (ai sensi dell’articolo 18, comma 3, dello statuto dei lavoratori). Infatti ne risulta stabilito, sia pure a fini diversi, il valore del posto di lavoro, al quale va commisurato – per quanto si è detto – il risarcimento per equivalente44. Le conclusioni raggiunte – se condivise dalla Corte di Giustizia, come auspicato dalla Commissione europea – potrebbero comportare un salto di qualità, per così dire, nella giurisprudenza della Corte, innovandone persino le tipologie di pronuncia. Intanto la Corte non potrebbe limitarsi al consueto accertamento – che il diritto dell’Unione europea osta alla normativa interna denunciata – rinviando ai giudici nazionali per la decisione conforme. Infatti gli stessi giudici nazionali, in questo caso, hanno adottato – peraltro al livello più elevato (le sezioni unite civili della Corte di cassazione, appunto) – proprio la decisione della quale risulta denunciato il contrasto con il diritto dell’Unione. La Corte dovrebbe, pertanto, adottare – direttamente – la decisione ad esso conforme, imponendo, per quanto si è detto – quale giusta sanzione dell’illegittima apposizione di termine a contratto di lavoro privatizzato alle dipendenze di amministrazioni pubbliche – il risarcimento per equivalente del danno – commisurato al valore del posto di lavoro ed equitativamente liquidato in misura pari alla indennità sostitutiva della reintegrazione (di cui all’articolo 18, comma 3, dello statuto dei lavoratori) – integrato, tuttavia, dalla indennità forfettaria (di cui all’articolo. 32, comma 5, del c.d. collegato lavoro)45. Peraltro è lo stesso diritto vivente a stabilire, nel nostro ordinamento, misure alternative alla conversione, delle quali risulta denunciato il contrasto con il diritto dell’Unione europea. Se la denuncia dovesse risultare fondata, all’evidenza si porrebbe il delicato problema se esuli, nel nostro ordinamento appunto, la condizione – alla quale è subordinata la conformità, al diritto dell’Unione, dei divieti nazionali di conversione – con la conseguenza ineludibile che ne risulterebbe parimenti in contrasto, con il diritto dell’Unione, lo stesso divieto nazionale di conversione dell’ordinamento italiano. Né potrebbe rilevare, in contrario, la circostanza che, nel nostro ordinamento, il divieto risulta imposto da fonte costituzionale (art. 97, comma 3, Cost.), ostandovi – per quanto si è detto – il primato del diritto dell’Unione.
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In tal senso, vedi De Luca, op. loc. ult. cit., nonché – nel testo più ampio – nota 50. Nello stesso senso, sembrano – sostanzialmente – le osservazioni scritte della Commissione europea – nella causa C-494/16, instaurata a seguito dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale 5 settembre 2016 del Tribunale di Trapani, cit. – laddove così conclude: «2) Il principio di effettività non richiede che, a fronte della mancata trasformazione in contratto a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato conclusi con la pubblica amministrazione, il lavoratore danneggiato da un abuso del ricorso alla contrattazione a termine ottenga il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato. Tuttavia, detto principio non si oppone a che un simile lavoratore ottenga, in aggiunta al risarcimento del danno, l’indennità prevista dal diritto italiano per la mancata reintegrazione nel posto di lavoro». Tale indennità pare, poi, sostanzialmente integrata – secondo la stessa Commissione – dalla indennità forfettaria (di cui all’art. 32, comma 5, del c.d. collegato lavoro, cit.). 45 Come sembra ritenere la Commissione europea nelle proprie osservazioni scritte dinanzi alla Corte di giustizia, cit.
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Parimenti non potrebbe rilevare, in contrario, la circostanza che lo stesso divieto possa concorrere ad integrare l’ordine pubblico internazionale46. La condizionalità eurounitaria, infatti, non impone l’applicazione, nell’ordinamento italiano, di una legge straniera che, in ipotesi, possa determinare «effetti contrari all’ordine pubblico, da intendere come insieme dei principi essenziali della lex fori». Ma si limita a condizionare la conformità – al diritto dell’Unione – del divieto di conversione – imposto dall’ordinamento nazionale, per la successione abusiva di contratti di lavoro a termine alle dipendenze di amministrazioni pubbliche – subordinandolo, appunto, alla previsione contestuale – nello stesso ordinamento nazionale – di misure alternative alla conversione, dotate dei requisiti indefettibili stabiliti dal diritto dell’Unione47.
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Come ritiene Cass, 26 aprile 2013, n. 10070, così massimata: «Ai sensi dell’art. 16 l. 31 maggio 1995 n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.), l’applicazione di una legge straniera nell’ordinamento italiano è inibita se determina effetti contrari all’ordine pubblico, da intendere come insieme dei principi essenziali della lex fori, tra i quali rientra anche quello per cui l’accesso all’impiego pubblico deve avvenire mediante concorso, salvo eccezioni introdotte dalla legge, purché rispondenti a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico; ne consegue che non può trovare applicazione nel nostro ordinamento la legge argentina che prevede, in caso di ingiustificato rinnovo, la conversione del contratto a termine alle dipendenze della p.a. (nella specie, il consolato d’Italia a Buenos Aires, articolazione del ministero degli esteri) in contratto di lavoro a tempo indeterminato». 47 Le conclusioni raggiunte nel testo risultano sostanzialmente conformi a quelle proposte, da difensore della parte privata, nell’udienza del 13 luglio 2017 della Corte di giustizia (in causa C-419/16, a seguito del rinvio pregiudiziale del Tribunale di Trapani, ricordato nel testo). Sul punto, vedi il comunicato stampa, relativo alla stessa udienza, e M. DE LUCA, Condizionalità euronitaria per il divieto di conversione, nel pubblico impiego, previsto dall’ordinamento italiano: la parola alla Corte di giustizia – che riproduce, appunto, l’intervento orale all’udienza di difensore della parte privata – in http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Condizionalit-eurounitaria-peril-divieto-di-conversione-nel-pubblico-impiego-previsto-dallordinamen/5643.aspx; Cassazione.net, 8 settembre 2017; www.europeanrigts.eu del settembre 2017.
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Alla ricerca della tutela effettiva dei precari pubblici in Europa e in Italia S ommario:
1. Premesse: il problema del precariato pubblico e la crisi del sistema delle fonti. – 2. Riflessioni sul diniego della Cassazione del 2012 della tutela del precariato pubblico. – 3. La Corte costituzionale e il divieto di conversione nel p.i. dei contratti a termine nulli per illegittimità del reclutamento. – 4. La Cassazione a Sezioni unite nel 2012 sulla successione reiterata dei c.f.l. dell’Inail. I due percorsi di privatizzazione del pubblico impiego a tutele non omogenee. – 5. Il travagliato percorso normativo del divieto assoluto di conversione nel p.i. fino all’ordinanza n. 207/2013 della Consulta. – 6. Dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale alla legislazione d’urgenza del 2013 per la stabilizzazione del precariato pubblico. – 7. L’ordinanza Papalia e la sentenza Mascolo della Corte di giustizia accertano l’inadempimento alla direttiva 1999/70/CE nei confronti dei precari pubblici. – 8. La Corte costituzionale applica la sentenza Mascolo con la stabilizzazione del precariato pubblico, nonostante il gran rifiuto del diritto Ue da parte della Cassazione a sezioni (ri)unite. – 9. Conclusioni.
Sinossi: L’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato da parte delle pubbliche amministrazioni sembra non trovare una soluzione definitiva nella giurisprudenza, rispetto all’assenza di tutele sul piano normativo. Il contrasto tra Corte costituzionale (sentenze nn. 260/2015 e 187/2016) e Corte di giustizia (sentenza “Mascolo”) da un lato, Cassazione (sentenza n. 5072/2016) dall’altro, sulla sanzione idonea a rimuovere definitivamente le conseguenze dell’illecito contrattuale subito dai lavoratori pubblici precari si sviluppa su percorsi interpretativi resi tortuosi dall’assenza del legislatore, che ha sempre evitato di individuare una sanzione effettiva, costringendo le Sezioni unite della Suprema Corte ad inventarsene una, di natura esclusivamente indennitaria e dichiaratamente non equivalente a quella applicata nel lavoro privato, in cui è prevista la conversione a tempo indeterminato. Sarà chiamata probabilmente la Corte costituzionale a risolvere definitivamente la complessa e annosa questione, rispondendo alla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Foggia sulle norme che impediscono la tutela della stabilità lavorativa dopo il superamento dei 36 mesi di servizio nel pubblico impiego sanitario e, quindi, nel pubblico impiego in generale, per evitare ulteriori censure allo Stato italiano da parte della Commissione Ue in sede di procedura di infrazione e della Corte di giustizia sia nella causa pregiudiziale C-494/16 sollevata dal Tribunale di Trapani per contestare la soluzione delle Sezioni unite sulla nozione di equivalenza sanzionatoria sia nella causa
Vincenzo De Michele
pregiudiziale C-494/17 sollevata dalla Corte di appello di Trento per contestare la soluzione della Cassazione sul precariato scolastico. Abstract: The abusive use of fixed-term contracts by public authorities does not seem to find a definitive solution in the judgments of the courts, compared to the absence of safeguards in law. The contrast between Constitutional Court (judgments no. 260 / 2015 and no. 187/2016) and Court of Justice (judgment “Mascolo”) on the one hand, the Supreme Court (judgment no. 5072 / 2016) on the other, on the appropriate sanction to permanently remove the contractual consequences of the offense suffered by the public temporary workers is on interpretive paths made crooked by the absence of the legislature, which has always avoided identifying an effective sanction, forcing the Joint Sections of the Supreme Court to invent one, nature only and indemnity admittedly not equivalent to that applied in the private work, in which is provided the conversion in permanent contract. It will be called probably the Constitutional Court to settle the complex and age-old question, answering the question of legitimacy raised from Foggia Court on rules that prevent the protection of job security after passing the 36 months of service in the public health use and, therefore, in the public sector in general, to avoid further complaints to the Italian State by the EU Commission in the infringement procedure and the Court of Justice in case preliminary C-494/16 raised by the Court of Trapani to challenge the resolution of the Joint Sections on the notion of equivalence sanction and in case preliminary C-494/17 raised by the Court of Trento to challenge the resolution of the Suprem Court for the fixed-term workers in public schools. Parole chiave: lavoro precario – pubblico impiego – contratto a termine – conversione – stabilizzazione.
1. Premesse: il problema del precariato pubblico e la crisi del sistema delle fonti.
Nel ringraziare il prof. Mazzotta e la Rivista per l’invito a partecipare a questo importante (e necessario) focus sul precariato pubblico, devo partire da una personale delimitazione sia soggettiva che oggettiva del campo di indagine. Il limite soggettivo è quello di aver rivestito per ragioni professionali nell’agone processuale europeo e interno, in qualità di interprete e osservatore sicuramente privilegiato, il ruolo di “parte”1, cioè di co-difensore dei lavoratori precari pubblici, e di rivestire ancora questo ruolo nel giudizio pregiudiziale instaurato dal Tribunale di Trapani2 sul
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Vd. De Michele, Il contratto a tempo determinato, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, 2013, 19 ss.; nonché, Id., Il d.lgs. 81/2015 e l’(in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea, in Ghera, D. Garofalo (a cura di), Contratti di lavoro, mansioni e conciliazione vita-lavoro nel Jobs act II, Cacucci, 2015, 25 ss. 2 Trib. Trapani, 5 settembre 2016 (ord.), in www.quotidianosanita.it; in dottrina v. Bolego, Tecniche di prevenzione e rimedi contro
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precariato degli enti locali siciliani e nel giudizio incidentale di costituzionalità proposto dal Tribunale di Foggia3 sul precariato sanitario, nel giudizio pregiudiziale instaurato dalla Corte di appello di Trento4 sul precariato scolastico, nel giudizio pregiudiziale instaurato dal Giudice di pace di L’Aquila5 sul precariato dei giudici onorari. I Tribunali di Trapani e di Foggia contestano, rispettivamente davanti alla Corte di giustizia Ue e alla Corte costituzionale, il principio di diritto enunciato dalla Cassazione a Sezioni unite nella sentenza n. 5072/20166 dell’applicazione del solo indennizzo di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 come sanzione “onnicomprensiva” del c.d. «danno comunitario» subito da tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni nei cui confronti si sia verificato un abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato. La Corte di appello di Trento ha criticato davanti alla Corte di giustizia le decine di sentenze della Cassazione sul precariato scolastico7, ritenendo condivisibilmente che le coordinate interpretative della Suprema Corte contrastino con le decisioni dei Giudici di Lussemburgo e, in particolare, con la sentenza Mascolo8 e con l’ordinanza Papalia9. Il Giudice di Pace di L’Aquila ha censurato con il rinvio pregiudiziale Ue la sentenza della Cassazione a Sezioni unite n. 13721/2017 che, anticipando il contenuto della riforma della magistratura onoraria (d.lgs. n. 116/2017), ha escluso che il rapporto di lavoro dei giudici di pace sia da annoverare tra quelli di pubblico impiego, di lavoro parasubordinato o anche autonomo, affermandone la natura di “volontariato” e dando la stura così alla richiesta di equiparazione retributiva, normativa e contributiva con i giudici togati, in applicazione delle direttive 2003/88/CE e 1999/70/CE, anche sotto il profilo della stabilità lavorativa, ponendo altresì la questione (centrale) del giudice indipendente e imparziale che tuteli i diritti fondamentali dei lavoratori anche e soprattutto quando svolgono funzioni giudiziarie.
l’abuso dei contratti a termine nel settore pubblico, in Labor, 2017, 21 ss.; Busico, Le conseguenze dell’abuso del contratto di lavoro a tempo determinato da parte delle P.A.: la parola fine è ancora molto lontana, in questa Rivista, 2017, 222 ss.; Chietera, L’incerto cammino del precariato non scolastico verso la stabilizzazione, in LG, 2017, 5 ss.; Putaturo, Precariato pubblico, effettività delle tutele e nuova questione di legittimità costituzionale, in ADL, 2017, 65. 3 Trib. Foggia, 26 ottobre 2016 (ord.), in www.quotidianosanita.it; in dottrina v. gli stessi Autori citati nella precedente nota, nonché Galleano, L’ordinanza 26.10.2016 del Tribunale di Foggia alla Corte costituzionale nel settore sanitario: una mossa decisiva per la soluzione del problema del precariato pubblico?, in www.europeanrights.eu (1 novembre 2016). 4 App. Trento, 17 luglio 2017 (ord.), causa C-494/17, Rossato, inedita. 5 G.d.P. L’Aquila, 2 agosto 2017 (ord.), causa C-473/17, Di Girolamo, inedita. 6 Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072, in MGL, 2016, 590 ss., con nota di Vallebona. In senso conforme, Cass., ordd. 6632/2017; 6631/2017; 2593/2017; 1872/2017; 1683/2017; 1681/2017; 25276/2016; 24169; 24168/2016; 23944/2016; 23943/2016; 23942/2016; 22088/2016; 21943/2016; 21937/2016; 16360/2016; 16359/2016; 16358/2016; 16230/2016; 16229/2016; 16228/2016; 16227/2016; 16262/2016; 16100/2016; 16099/2016; 16098/2016; 16097/2016; 16096/2016; 16095/2016; sentt. 14633/2016; SU, 4911-4912-49134914/2016). 7 Cass., 7 novembre 2016, n.22552, in RIDL, 2017, II, 347 ss., con nota di Calafà, The ultimate say della Cassazione sul “caso scuola”; in senso conforme, Cass.,nn. 2148/17; 290/17; 211/17; 75/17; 55/17; 27566/16; 27565/16; 27564/16; 25563/16; 25562/16; 25382/16; 25381/16; 25380/16; 24816/16; 24815/16; 24814/16; 24813/16; 24276/16; 24275/16; 24273/16; 24272/16; 24130/16; 24129/16; 24128/16; 24127/16; 24126/16; 24041/16; 24040/16; 24039/16; 24038/16; 24037/16; 24036/16; 24035/16; 24034/16; 23867/16; 23866/16; 23751/16; 23750/16; 23535/16; 23534/16; 22553/16; 22554/17; 22555/17; 22556/17. 8 C. giust., 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13 e C-418/13 Mascolo, Forni, Racca, Napolitano ed altri c. Miur, nonché C-63/13 Russo c. Comune di Napoli, ECLI:EU:2014:2401. 9 C. giust., 12 dicembre 2013 (ord.), causa C-50/13, Papalia, ECLI:EU:2013:873, su FI, 2014, 91 ss., con nota di Perrino.
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Contro questa giurisprudenza di merito che dialoga con la Corte di giustizia ponendosi in contrasto con il «diritto vivente» “a termine” della Cassazione sulla (inamovibilità) della condizione di precarietà nel pubblico impiego si schiera la Corte di appello di Roma10, che propone un inammissibile quesito pregiudiziale delineando apoditticamente una situazione interna di assoluta mancanza delle misure preventive di cui alla clausola 5, n.1, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato per i lavoratori a tempo determinato pubblico/privati alle dipendenze delle Fondazioni lirico-sinfoniche. Il tentativo strumentale della Corte romana è quello di difendere il diritto vivente della Cassazione sulla scuola, sul precariato pubblico e sui contratti acausali di Poste italiane11 e di orientare alla tutela (unica) della clausola di durata massima dei 36 mesi di servizio, omettendo di precisare che la granitica giurisprudenza della Cassazione12, della Corte costituzionale13, della stessa Corte di appello di Roma14 nel settore dei lavoratori dello spettacolo aveva ormai consolidato il principio dell’applicazione delle ragioni oggettive come unica misura preventiva e sanzionatoria per la legittima apposizione del termine contrattuale, anche in relazione al primo o unico contratto a tempo determinato (cfr. Cass., sent. 208/2017). Di fronte a questa confusione nell’interpretazione nomofilattica interna per le ondivaghe scelte di politica del diritto operate dalla Cassazione, appare molto difficile offrire un contributo scientificamente oggettivo, per la comprensione di un problema gravissimo quale quello affrontato nel dibattito in questione, che è l’espressione più manifesta del complesso e preoccupante quadro della crisi delle fonti e delle tutele dell’ordinamento euro-unitario, quale traspare dalla pendenza delle questioni pregiudiziali innanzi descritte. Approfitto, però, di questo limite soggettivo e del fatto di rappresentare una corrente di pensiero molto minoritaria sulla stabilità lavorativa come unica sanzione effettiva da riconoscere ai precari pubblici “abusati”, per ridurre all’essenzialità (anche per ragioni obiettive di rispetto degli spazi assegnati) i richiami agli scritti personali e a quelli dottrinali sulla materia, così potendomi confrontare più agevolmente con l’altra tesi, che ritengo la più credibile e la più seria rispetto all’assunto maggioritario del divieto assoluto di conversione nel pubblico impiego, che è quella egregiamente enunciata dal Presidente De Luca15, secondo cui all’indennità del Collegato lavoro 2010 andrebbe aggiunta, ai fini dell’effettività e dell’equivalenza rispetto ai privati della sanzione applicabile, l’indenni-
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App. Roma, 15 maggio 2017 (ord.), causa C-331/17, Sciotto, inedita. Cass., sez. un., 31 maggio 2016, n.11374. 12 Cfr. Cass., 208/2017; 18512/2016; 17064/2015; 10924/2014; 10217/2014; 10124/2014; 10123/2014; 10122/2014; 243/2014; 6547/2014; 5749/2014; 5748/2014; 18263/2013; 11573/2013; 247/2011. 13 C. cost., 11 dicembre 2015, n.260, su FI, 2016, I, 1 ss., con nota critica di Perrino, che pare ispirare il rinvio pregiudiziale della Corte di appello di Roma. 14 App. Roma, nn. 1941 – 1951 – 1954 – 2585 – 2886 – 3058 – 3227 – 3435 – 3495 – 3933 – 5334 – 5724 – 5745/2016 e n. 3003/2017. 15 V. De Luca, Il giusto risarcimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, in LG, 2016, 1053 ss. La Commissione Ue nelle osservazioni scritte della causa C-494/16, depositate il 4 gennaio 2017, ha integralmente condiviso il punto di vista del Tribunale di Trapani nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale e, quindi, la soluzione proposta dal Presidente De Luca che ha difeso il punto di vista del giudice di merito siciliano, lasciando però ampio margine interpretativo al giudice nazionale per applicare anche la sanzione della stabilità lavorativa. 11
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tà di quindici mensilità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, già prevista dall’art. 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori, nel testo antecedente le modifiche introdotte dalla legge Fornero. In verità, è in corso un recentissimo riavvicinamento tra le due opinioni o, meglio, una fusione per incorporazione nella tesi sulla “condizionalità eurounitaria”16 del Presidente De Luca, già enunciata sinteticamente oltre dieci anni fa a commento17 della sentenza Marrosu-Sardino18, che ha già superato il test di efficienza e di credibilità nella discussione orale della causa C-494/16 Santoro, all’udienza del 13 luglio 2017 davanti al Collegio della I Sezione della Corte di giustizia. Leggeremo dalle conclusioni scritte dell’Avvocato generale Szpunar, che saranno depositate il 26 ottobre p.v., quali potrebbero essere le risposte interpretative della Corte di Lussemburgo all’esito di un giudizio pregiudiziale che non riguarda soltanto gli oltre 25.000 precari pubblici siciliani, che hanno superato da molti anni i 36 mesi di servizio presso le amministrazioni locali, ma anche centinaia di migliaia di altri lavoratori pubblici precari che si trovano nella stessa situazione di instabilità del rapporto su tutto il territorio nazionale. Per quanto riguarda, invece, i limiti oggettivi, essi sono strettamente legati alla premessa iniziale e alla constatazione di una crisi “sistemica” nel rapporto tra giurisprudenza di merito e Cassazione, tra Cassazione e Corte costituzionale, tra Cassazione e Corte di giustizia Ue, di cui è difficile comprendere gli esatti contorni e i possibili sviluppi, dovendo attendere non solo l’esito delle pregiudiziali comunitarie e costituzionale tuttora pendenti, ma anche gli effetti dell’ingresso silenzioso in campo di un quinto giocatore “paragiurisdizionale”. Si tratta del Comitato europeo dei diritti sociali presso il Consiglio d’Europa che, a Strasburgo, vigila sulle violazioni della Carta sociale europea e che, decidendo recentemente il reclamo collettivo n. 102/2013 dell’Associazione dei giudici di pace contro l’Italia per la mancata equiparazione economica, normativa e previdenziale ai giudici togati, nel rapporto al Comitato dei Ministri del 5 agosto 2016 ha riscontrato la fondatezza della lamentata violazione della Carta, costringendo il Governo italiano ad un frettoloso sforzo legislativo (da completare entro maggio 2017) per pervenire ad una equiparazione previdenziale, economica e giuridica a parità di funzione giurisdizionale esercitata, sotto il controllo del Parlamento Ue che, alla seduta pubblica del 28 febbraio 2017 presso la Commissione delle petizioni19, ha chiesto alla Commissione europea di attivare la procedura di infrazione nel caso in cui il problema dell’equiparazione non venga risolto
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De Luca, Precariato pubblico: condizionalità eurounitaria per divieti nazionali di conversione, in q. Riv., 2017, 4. De Luca, Privato e pubblico nei rapporti di lavoro privatizzati, in Atti del Convegno nazionale del Centro studi “D. Napoletano” del 9 – 10 marzo 2007 all’Unical di Arcavacata di Rende, LPO, suppl. n.6, 2008, 261. 18 C. giust. 7 settembre 2006, causa C-53/04, Marrosu e Sardino, ECLI:EU:2006:517, in RIDL, 2006, II, 733, con nota di Nannipieri. 19 Analoga riunione pubblica della Commissione per le petizioni del Parlamento Ue si è tenuta il 22 marzo 2017 sul precariato pubblico italiano, spagnolo e portoghese. Dopo la proposizione del reclamo collettivo n. 144/2017, registrato il 7 marzo 2017, proposto dalla Confederazione generale sindacale CGS al Comitato europeo dei diritti sociali su tutto il precariato pubblico, la Presidente svedese Wikström della Commissione per le petizioni del Parlamento Ue ha censurato il comportamento del Governo italiano come «non degno di uno Stato membro dell’Unione europea nel 2017».
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tempestivamente, dopo il rifiuto nazionale di applicare la sentenza O’Brien20 della Corte di giustizia su questione analoga di giudici onorari inglesi. La Cassazione a Sezioni unite21 sulla natura solo “volontaria” del lavoro dei Giudici di pace e il “conseguente” d.lgs. n.116/2017 di riforma della magistratura onoraria, che hanno sollecitato la proposizione delle questioni pregiudiziali sollevate dal Giudice di pace di L’Aquila, dimostrano che il legislatore e la giurisdizione togata non hanno nessuna intenzione di risolvere il problema della tutela effettiva, non solo previdenziale, di servitori dello Stato che risolvono, secondo le statistiche, il 50% del contenzioso civile e penale in tempi ragionevoli che assicurano il rispetto del giusto processo. Come opportunamente evidenziato22 la Cassazione a Sezioni unite aveva manifestato l’intenzione di fare una sentenza “di sistema”23 per garantire una interpretazione uniforme rispetto alle differenti soluzioni offerte dalla giurisprudenza di merito e di legittimità sulla sanzione effettiva contro l’abuso contrattuale nel pubblico impiego, ma «il “cerchio” … non può dirsi ancora chiuso, non solo in ordine al punto di equilibrio ricercato sulla misura risarcitoria da liquidare al lavoratore precario pubblico (sulla cui adeguatezza ed equivalenza, rispetto al lavoratore privato, i giudici europei sono stati nuovamente interpellati), ma anche, a ben vedere, rispetto alla stabilizzazione riconosciuta solo in favore di alcuni dipendenti pubblici per effetto di principi affermati dalla Corte di giustizia e dalla Corte cost. (….), potenzialmente validi anche per altri settori, come quello sanitario». Quindi, occorrerà ancora discutere molto sul tema, senza pretese di soluzioni “definitive” se non quelle che emergeranno dalle decisioni della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, evitando l’errore, che ha portato alla moltiplicazione del contenzioso, dell’iniziale diniego di ogni tutela del precariato pubblico da parte della Cassazione nel 2012.
2. Riflessioni sul diniego della Cassazione del 2012 della tutela del precariato pubblico.
Esistono ragioni “soggettive” per spiegare l’iniziale rifiuto della Cassazione di assicurare anche una tutela minima del precariato pubblico. La crisi della Suprema Corte nella gestione del contenzioso seriale sull’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego nasce dalla scelta “acritica” di
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C. giust., 1° marzo 2012, causa C-393/10, O’Brien. Cass., sez. un., 31 maggio 2017, n.13721. 22 Fedele, Le Sezioni unite e il danno da “precarizzazione” ex art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n.165, fra ordinamento interno ed interpretazione conforme ai parametri europei, in Corte suprema di Cassazione-Ufficio del Massimario (a cura di), Rassegna della giurisprudenza di legittimità. Gli orientamenti delle Sezioni civili nel 2016, in www.cortedicassazione.it, 31 ss. 23 Cfr. Siotto, Abuso di contratti a tempo determinato nel lavoro pubblico: «il danno è altro» dal licenziamento illegittimo ovvero «un altro danno» per la precarizzazione illegittima, in questa Rivista, 2016, 261. 21
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politica del diritto di una parte minoritaria della magistratura di vertice – nel 2012 – di soluzioni “interpretative” che impedissero il presunto collasso delle finanze pubbliche24 in un momento di crisi drammatica per l’Italia, a fronte dei consistenti risarcimenti dei danni riconosciuti dalla giurisprudenza di merito sulla base della sentenza MarrosuSardino della Corte di giustizia. La sentenza n. 392/201225 della Cassazione, da un lato, la sentenza n. 709/201226 della Corte meneghina e la coordinata sentenza n. 10127/201227 della Cassazione sui supplenti della scuola, dall’altro, rispondono a questa opzione: impedire l’applicazione del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 alle pubbliche amministrazioni e i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in subiecta materia e, quindi, cancellare l’abuso commesso dai datori di lavoro pubblici e, soprattutto, le conseguenze sanzionatorie previste dalle violazioni degli artt.1, 4 e 5 d.lgs. n. 368/2001. Infatti, le due sentenze della sezione lavoro della Cassazione del 2012 sono speculari e univoche nello sforzo di negare ogni tutela ai precari pubblici, in aperto contrasto con la pur richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia (ordinanza Affatato28, sentenze Angelidaki29 e Kücük30), con incompleta ricostruzione della normativa interna (Cass. n. 10127/2012), “disapplicazione” della Dir. 1999/70/CE per non applicazione del d.lgs. n. 368/2001, confusione (Cass. n. 392/2012) tra normativa generale non applicata (il d.lgs. n. 368/2001) e disciplina speciale antitutela applicata (art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) anche in ragione della specialità del sistema di reclutamento scolastico (Cass., n. 10127/2012), con rifiuto finale del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, obbligatorio ai sensi dell’art. 267 TFUE come giudice di ultima istanza. La Suprema Corte nelle sentenze del 2012 ha continuato anche a invocare il divieto di conversione nel pubblico impiego di cui all’art. 97, comma 3, Cost., che avrebbe trovato la sua prima più compiuta enunciazione nella sentenza della Corte costituzionale n. 89/200331.
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Sul punto cfr. De Michele, Il Tribunale aquilano demolisce la sentenza antispread della Cassazione sul precariato scolastico, in LG, 777 ss. 25 Cass., 13 gennaio 2012, n. 392, in MGL, 2012, 645, con nota di Vallebona, Boni. 26 App. Milano, 15 maggio 2012, n. 709, inedita. 27 Cass., 20 giugno 2012, n.10127, in LG, 2012, 777 ss., con nota di De Michele. 28 C. giust., 1 ottobre 2010 (ord.), causa C-3/10, Affatato, ECLI:EU:2010:574 29 C. giust., 23 aprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki, ECLI:EU:2009:250 30 C. giust., 26 gennaio 2012, causa C-586/10, Kücük, ECLI:EU:2012:39 31 C. cost., 27 marzo 2003, n. 89, in FI, 2003, I, 2258.
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3. La Corte costituzionale e il divieto di conversione
nel p.i. dei contratti a termine nulli per illegittimità del reclutamento. Infatti, come recentemente evidenziato in dottrina32, nella citata decisione il Giudice delle leggi aveva semplicemente bloccato il tentativo della giurisdizione di merito di estendere tout court i principi e le regole del diritto privato e, in particolare, della l. n. 230/1962 applicabile ratione temporis, ad una fattispecie di assunzioni “clientelari” di collaboratori scolastici avvenute al di fuori del sistema di reclutamento scolastico e, quindi, in «violazione di norme imperative di legge» di cui all’art. 36, comma 2 (ora comma 5), d.lgs. n. 165/2001, in coerenza con i precedenti della Consulta. In precedenza, con la sentenza n. 81/198333 la Corte costituzionale aveva legittimato la discrezionalità del legislatore di ricorrere all’assunzione nel pubblico impiego con modalità diverse da quelle concorsuali, salvo il rispetto del criterio della razionalità dell’intervento. In coerenza con il precedente di dieci anni prima, lo stesso giudice delle leggi con la sentenza n. 266/199334 aveva dichiarato illegittima una norma della Regione Sicilia che aveva previsto un concorso riservato per figure professionali, il cui accesso stabile alla pubblica amministrazione era invece regolamentato dalla norma statale dell’art. 16 della l. n. 56/1987, cioè per il tramite degli (ex) Uffici del lavoro. Del resto, l’Italia aveva già subito dalla Corte di giustizia ben due condanne per inadempimento sulla libera circolazione dei lavoratori nell’accesso all’impiego nella scuola statale nel 200535 e 200636, che già imponevano la definizione di un processo effettivo di equiparazione delle discipline e delle tutele tra i lavoratori alle dipendenze di pubbliche amministrazioni e i dipendenti di datori di lavoro privati.
4. La Cassazione a Sezioni unite nel 2012 sulla successione reiterata dei c.f.l. dell’Inail. I due percorsi di privatizzazione del pubblico impiego a tutele non omogenee.
Va evidenziato, peraltro, che, per far archiviare, come poi avvenuto, la procedura di infrazione n. 2007/4734 della Commissione europea, attivata con la lettera di messa in
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V. Putaturo Donati, PA e contratti a termine illegittimi: note critiche sul riconoscimento del danno (extra)comunitario, in MGL, 2016, 606. 33 C. cost., 7 aprile 1983, n. 81, in FI, 1983, I, 2354. 34 C. cost., 4 giugno 1993, n. 266, FI, 1995, I, 732 (solo massima). 35 C. giust., 12 maggio 2005, C-278/03, Commissione c. Repubblica italiana, ECLI:EU:2005:281 36 C. giust., 26 ottobre 2006, C-371/04, Commissione c. Repubblica italiana, ECLI:EU:2006:668
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mora del 17 ottobre 2008 nei confronti dell’Italia a seguito di denuncia presentata da due lavoratori assunti dall’Inail con una successione (5 contratti e 4 rinnovi) di contratti di formazione e lavoro per un totale di 6 anni di lavoro senza conversione a tempo indeterminato, con la sentenza n. 13796/201237 le Sezioni unite della Cassazione hanno sconfessato immediatamente le decisioni nn. 392/2012 e 10127/2012 della Sezione lavoro sulla non riqualificabilità in contratti a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Le Sezioni unite del 2012 hanno cassato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Bologna che aveva annullato, dichiarando il difetto di giurisdizione, la sentenza di 1° grado, che aveva accolto la domanda di riqualificazione a tempo indeterminato del contratto di formazione e lavoro della durata di 24 mesi di un lavoratore che, dopo aver superato una pubblica selezione, aveva stipulato il 15 novembre 2001 con l’Inail il contratto di c.f.l., successivamente prorogato per altri due anni. La Corte non si è limitata a dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario, perché le argomentazioni proposte attestano una scelta di merito nel senso che la domanda di riqualificazione è non solo di competenza “letterale” del giudice del lavoro ai sensi dell’art. 63, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, ma anche ammissibile e fondata; altrimenti, la Corte avrebbe dovuto decidere nel merito con il rigetto ai sensi dell’art. 111 Cost. Anche in precedenza vi era stata, con la sentenza n. 9555/2010 della Cassazione38, la conversione giudiziale a tempo indeterminato di contratti a termine successivi di un usciere Inail, sul presupposto che si trattasse di rapporti di lavoro totalmente assoggettati al diritto privato, e non rientranti nel pubblico impiego “tradizionale”, seppure contrattualizzato. La stessa motivazione è stata applicata ai lettori universitari per la conversione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine39, per violazione della l. 18 aprile 1962, n. 230, come ai dipendenti precari degli enti pubblici economici40 e delle società di capitale controllate dagli enti pubblici41 per la condizione “soggettiva” di non applicazione del d.lgs. n. 165/2001 e, quindi, del divieto di conversione di cui all’art. 36, comma 5.
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Cass., sez. un., 1 settembre 2012, n. 13796, in FI banca dati on-line. Cass., 22 aprile 2010, n. 9555, in LG, 2010, 1107 ss., con nota di De Michele. 39 C. giust., 26 giugno 2001, causa C-212/99, Commissione Ce c. Repubblica italiana; Cass., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4147, in FI banca dati on-line. 40 Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 46, punto 14, in FI banca dati on-line. 41 Cass., 18 ottobre 2013, n. 23702, in GI, 2014, 1973, con nota di Biasi. 38
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5. Il travagliato percorso normativo del divieto assoluto di conversione nel p.i. dei contratti a tempo determinato fino all’ordinanza n. 207/2013 della Consulta.
È una motivazione che non convince più quella del divieto assoluto di conversione nel pubblico impiego contrattualizzato, nel combinato disposto dell’art. 97, comma 4, Cost. e dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 201/2001, e non solo per le indicazioni che possono ricavarsi dalla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, sempre da leggere e interpretare in combinato disposto. È il dato normativo “originario” quello da cui bisogna partire, legato alla “privatizzazione” del pubblico impiego avviata con il d.lgs. 3 febbraio 1993 che all’art. 36, dal titolo “reclutamento del personale”, disciplinava sia le ipotesi di assunzioni a tempo indeterminato che l’utilizzazione dei dipendenti pubblici con contratti flessibili e, in particolare, a termine, allora assoggettati alla l. n. 230/1962 (comma 7), gli uni e gli altri assoggettati a procedure selettive o all’assunzione per il tramite del collocamento pubblico per le figure professionali medio-basse (comma 1, lettere a e b). Fu il Governo Amato che, con lo schema di decreto legislativo entrato in vigore come testo unico sul pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001), fece una scelta anomala e ambigua, separando l’unico articolato dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 in due distinti articoli: l’art. 35 sul “reclutamento del personale” e l’art. 36 sulle “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale”. Tuttavia, nonostante l’indiretta autorizzazione ad assunzioni “clientelari” delle pubbliche amministrazioni con i contratti flessibili, il dato letterale dell’art. 36, comma 1, d.lgs. n.165/2001 nel testo originario (rimasto in vigore fino al 31 dicembre 2007) esclude che per i contratti a termine si possano evitare le procedure selettive o assunzionali per il tramite del collocamento, previste dall’art. 35: «Le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale di cui ai commi precedenti, si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa». Quindi, il presupposto della stipula di legittimi contratti a tempo determinato (ma anche degli altri contratti flessibili) è sempre stato, fin dall’inizio della privatizzazione del pubblico impiego, l’aver superato una procedura selettiva o l’assunzione ai sensi dell’art. 16 della l. n. 56/1987 attraverso il collocamento, le uniche modalità di reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni sia per i contratti a tempo indeterminato sia per i contratti flessibili, salvo il reclutamento speciale della scuola, disciplinato da specifiche procedure selettive di cui all’art. 399 d.lgs. n. 297/1994 e dall’art. 4 della l. n. 124/1999, cui rimanda l’art. 70, comma 8, 3° cpv., d.lgs. n. 165/2001. In quest’ottica e in questo contesto normativo, nonostante lo scorporamento delle regole assunzionali prima contenute in un unico articolo, l’originario art. 36, comma 2 (ora comma 5), d.lgs. n. 165/2001 non comportava problemi applicativi particolari, riguardando esclusivamente le assunzioni flessibili senza procedura selettiva, nulle per violazione delle norme imperative sul reclutamento del personale di cui all’art. 35 d.lgs. n. 165/2001, con diritto al risarcimento dei danni nei termini di cui all’art. 2126 c.c.
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Ecco perché la sentenza n. 89/2003 della Corte costituzionale è ineccepibile, andando a sanzionare con il divieto di conversione “esclusivamente” i contratti a tempo determinato che avevano o avrebbero violato le norme sul reclutamento del personale, in quel caso scolastico. Nessun problema interpretativo è stato causato dalla formulazione dell’art. 36 d.lgs. n.165/2001 nel testo modificato dall’art. 3, comma 79, a l. 21 dicembre 2007, n. 244 (in vigore dal 1 gennaio 2008 al 24 giugno 2008), con cui il legislatore nazionale, dopo la sentenza Marrosu-Sardino della Corte Ue e dopo l’apertura della procedura di infrazione n. 2007-4734 sui c.f.l. dell’Inail, ha voluto impedire la proliferazione (evidentemente massiva) dei contratti flessibili, modificando la rubrica dell’articolo (“Utilizzo di contratti di lavoro flessibili”) e limitando molto rigidamente l’uso dei contratti a tempo determinato a quelli di durata massima trimestrale per ragioni di stagionalità o di sostituzione con indicazione del nominativo del personale da sostituire, cancellando ogni richiamo all’abrogata l. n. 230/1962 ma senza nessun rinvio neanche alla nuova disciplina del d.lgs. n. 368/2001. Il nuovo testo (nella finanziaria per il 2008) dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 sulla flessibilità (quasi) vietata nel pubblico impiego era stato reso coerente e “innocuo” rispetto all’introduzione dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 (art. 1, comma 42, l. 21 dicembre 2007, n. 247) e della disciplina transitoria sul computo dei servizi precedenti al 31 dicembre 2007 ai fini della maturazione dei 36 mesi di lavoro con mansioni equivalenti. Infatti, anche se il d.lgs. n. 368/2001 si applicava a tutte le pubbliche amministrazioni, fino al 1 aprile 2009 il rigidissimo regime assunzionale escludeva il superamento della clausola di durata dei 36 mesi e, quindi, la trasformazione automatica a tempo indeterminato dei contratti successivi, permanendo il divieto di conversione per le assunzioni clientelari di cui all’art. 36, comma 6 (ora comma 5), d.lgs. n. 368/2001, salvaguardando così contestualmente il percorso di soluzione definitiva del precariato pubblico del Governo Prodi, avviato con le leggi finanziarie nn. 296/2006 e 244/2007. Il dissesto interpretativo e il caos giudiziario in subiecta materia nascono con la legittimazione alle assunzioni clientelari proposta dal nuovo testo dell’art. 36 d.lgs. n.165/2001 (in vigore dal 25 giugno 2008 al 31 agosto 2013), introdotto dall’art. 49, comma 1, del d.l. 25 giugno 2008, n.112 (convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2008, n. 133), in cui il comma 1 riservava espressamente le procedure di reclutamento di cui all’art. 35 d.lgs. n. 165/2001 soltanto alle assunzioni a tempo indeterminato e non ai contratti flessibili, a cui, per le esigenze temporanee ed eccezionali delle pubbliche amministrazioni, erano invece riservate le (non meglio specificate) “procedure di reclutamento vigenti” del comma 2. In questo caso il rimando alla disciplina del contratto a tempo determinato di cui al d.lgs. n. 368/2001 è esplicitato e, evidentemente, ragioni di carattere sistematico, logico e letterale della materia non consentono di escludere l’applicazione dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 al superamento dei 36 mesi e con decorrenza dal 1° aprile 2009 per tutti quei contratti a tempo determinato successivi, almeno per quelle situazioni soggettive di rapporti di lavoro instaurati nel rispetto delle procedure di reclutamento di cui all’art. 35 d.lgs. n. 165/2001 fino al 24 giugno 2008 e delle “procedure di reclutamento vigenti” per il periodo successivo.
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Né può replicarsi che i contratti a tempo determinato che sono stati stipulati “nel rispetto delle procedure vigenti” sarebbero diventati nulli per mancanza di ragioni temporanee ed eccezionali, in quanto, fino al 31 agosto 2013 (v. infra), il ricorso ai contratti flessibili per coprire carenze strutturali di personale non rientrava tra le ipotesi di violazione di norme imperative di legge. Né si potrebbe addossare al lavoratore precario, che ha superato una procedura selettiva prevista dalla legge, anche l’onere di verificare ex ante se le esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico coprano bisogni permanenti o temporanei di personale.
6. Dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte
costituzionale alla legislazione d’urgenza del 2013 per la stabilizzazione del precariato pubblico. Di questa situazione normativa asistematica e ondivaga era perfettamente a conoscenza la Corte costituzionale quando, con l’ordinanza n. 206/201342, il giudice delle leggi dichiarò inammissibili le sette questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Trento sull’art. 4, comma 1, l. n. 124/1999. Prima di rinviare alla Corte di giustizia Ue con la contestuale ordinanza n. 207/2013 la questione di compatibilità comunitaria del sistema di reclutamento scolastico fondato sulle supplenze annuali prive di ragioni oggettive, sulle questioni identiche e parimenti inammissibili sollevate dai Tribunali di Roma e di Lamezia Terme, la Consulta si preoccupò di segnalare ai giudici nazionali la difficoltà di poter applicare al personale scolastico docente e ata della scuola pubblica la tutela prevista dall’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, in presenza di ben due norme introdotte nel 2009 e nel 2011 – rispettivamente l’art. 4, comma 14-bis, l. n. 124/1999 e l’art. 10, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 – che impedivano la sanzione della stabilità lavorativa. Alle predette norme di diniego della tutela della riqualificazione contrattuale per il personale scolastico era stato aggiunto nel 2012 l’art. 10, comma 4-ter, d.lgs. n. 368/2001, che escludeva il personale sanitario dal campo di applicazione del d.lgs. n. 368/2001. Coordinandosi con le due ordinanze nn. 206-207 del 2013 della Corte costituzionale, il Governo Letta ha predisposto con l’art. 4, comma 6, del d.l. 31 agosto 2013, n.101 (convertito con modificazioni dalla l. n. 125/2013) il piano di stabilizzazione del precariato pubblico anche scolastico, fondato sulla maturazione del servizio anche non continuativo di almeno 36 mesi dei c.d. precari “storici”, attraverso procedure riservate esclusivamente a coloro che erano in possesso dei requisiti di cui all’art. 1, comma 519, l. n. 296/2006 e all’art. 3, comma 90, l. n. 244/2007, n. 244, per il comparto scuola, applicando la disciplina specifica di settore.
42
C. cost., 18 luglio 2013 (ordd.), nn. 206 e 207.
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Subito dopo e coordinandosi con l’art. 4, comma 6, d.l. n.101/2013, con l’art.15, comma 1, del d.l. 12 settembre 2013, n.104 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 128/2013) il legislatore d‘urgenza ha approntato un piano triennale per gli anni 20142016 per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente, educativo e ata, tenuto conto sia dei posti vacanti e disponibili in ciascun anno sia della necessità di coprire il turn over, senza indicare specificamente come modalità di accesso stabile quanto previsto dall’art. 399 d.lgs. n. 297/1994, così consentendo al MIUR di determinare anche il contingente dei docenti precari “storici” abilitati ma non inseriti nelle GAE da destinare al concorso “riservato” per soli titoli. Nel contempo, per sanare l’erronea affermazione della Cassazione nelle sentenze n. 392/2012 e n. 10127/2012 che il d.lgs. n. 368/2001 non si applicasse al pubblico impiego, il legislatore d’urgenza con l’art. 4 d.l. n. 101/2013 ha ribadito, con l’art. 36, comma 5-ter, d.lgs. n. 165/2001, che il d.lgs. n. 368/2001 si applica a tutte le pubbliche amministrazioni comprese quelle scolastiche, senza però la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato. Inoltre, per evitare la reiterazione delle supplenze annuali e dei contratti a tempo determinato privi di ragioni oggettive, al di fuori dei percorsi di stabilizzazione che le pubbliche amministrazioni avrebbero potuto e dovuto attivare, a decorrere dal 1° settembre 2013 il d.l. n. 101/2013, ha introdotto anche l’art. 36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001, per cui il contratto a tempo determinato anche scolastico privo di ragioni oggettive «esclusivamente temporanee o eccezionali» (art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, come modificato sempre dall’art. 4 d.l. n.101/2013, che ha sostituito la precedente formulazione «Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali») è nullo di diritto e non produce nessun effetto. Quindi, a rigore, soltanto con decorrenza dal 1° settembre 2013 è vigente la norma che non consente (più) alle pubbliche amministrazioni di far ricorso, pur nel “rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”, a contratti a tempo determinato per carenze strutturali di personale, assurgendo la mancanza di ragioni oggettive eccezionali o temporanee a violazione di norma imperativa di legge, con conseguente nullità “genetica” del rapporto di lavoro. Non è un caso che l’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, d.lgs. n. 165/2001 sia stato indicato dal Tribunale di Foggia come normativa interna sospettata di illegittimità costituzionale. Il piano Letta di stabilizzazione del precariato pubblico anche scolastico riproponeva, in buona sostanza, la stessa soluzione già predisposta dal piano Prodi con le leggi finanziarie per il 2007 e per il 2008, che aveva trovato solo parziale realizzazione a causa del cambio del Governo con le elezioni anticipate del 2008 e il conseguente blocco delle procedure di stabilizzazione. Anche il piano Letta non è stato completato e, per la verità, non è mai partito con il nuovo Governo pur in continuità di “colore” politico.
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Vincenzo De Michele
7. L’ordinanza Papalia e la sentenza Mascolo della Corte di
giustizia accertano l’inadempimento alla direttiva 1999/70/ CE nei confronti dei precari pubblici. L’ordinanza Papalia della Corte di giustizia, su fattispecie di successione di contratti a tempo determinato del maestro della banda musicale del Comune di Aosta protrattasi ininterrottamente per quasi trent’anni, ha smentito la tesi enunciata dalla Cassazione con la sentenza n. 392/2012 sulla compatibilità comunitaria dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui il divieto di conversione nel pubblico diventa assoluto per assenza di una sanzione effettiva ed equivalente a quella della stabilità lavorativa riconosciuta ai privati in caso di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato, tale non potendo considerarsi il risarcimento dei danni previsto genericamente dalla norma interna e, aggiungiamo, applicabile soltanto nei limiti dell’art. 2126 c.c. in caso di violazione delle norme imperative sul reclutamento. Con la sentenza Mascolo la Corte Ue ha smentito, come già anticipato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, la tesi enunciata dalla Cassazione con la sentenza n. 10127/2012 della compatibilità comunitaria del sistema di reclutamento dei supplenti della scuola. Ma la Corte di Lussemburgo non interviene soltanto sul precariato scolastico, rispondendo anche al Tribunale di Napoli sulla questione pregiudiziale sollevata con l’ordinanza C-63/13 su fattispecie di educatrice di asilo comunale che aveva superato i 36 mesi di servizio alle dipendenze dell’ente locale. Sinteticamente mi appaiono questi i punti principali dell’importanza decisione della Corte sovranazionale: · l’art. 117, comma 1, Cost. impone al legislatore nazionale di dare corretta esecuzione agli obblighi comunitari, tra cui la Dir. 99/70/CE (punti 11 e 14) e le sanzioni antiabusive previste dalla normativa interna che attua l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato rientrano tra i “casi stabiliti dalla legge”, attraverso i quali i lavoratori pubblici precari possono accedere a posto stabile nella pubblica amministrazione (punto 14), esattamente come già precisato nella sentenza Valenza43 (punto 13); · lo Stato italiano, nel recepire correttamente la Dir. 99/70/CE prevedendo misure effettive ed “energiche” idonee a prevenire e, se del caso, sanzionare gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, come l’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 (punto 55; già ordinanza Affatato, punto 48), si adegua al principio di leale cooperazione con le Istituzioni europee di cui all’art. 4, punto 3, del Trattato dell’Unione europea TUE, da cui il Giudice nazionale non può discostarsi se non violando in maniera flagrante il diritto europeo (punti 59-61); · a tutte le pubbliche amministrazioni si applica(va) direttamente il d.lgs. n.368/2001, come res incontroversa nella prospettazione dei giudici del rinvio (punto 14);
43
C. giust., 18 ottobre 2012, cause riunite da C-302/11 a C-305/11, Valenza ed altri, ECLI:EU:2012:646
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· alla pubblica amministrazione non si applica, nel caso di reclutamento legittimo mediante graduatorie con procedure selettive, non si applica “pacificamente” l’art. 36, comma 5, d.lgs. n.165/2001 (punto 114); · in un contesto come quello del reclutamento scolastico italiano, soltanto le sostituzioni di personale assente con diritto alla conservazione sono coerenti con la nozione comunitaria di ragioni oggettive temporanee di cui alla clausola 5, n.1, lett. a), dell’accordo quadro (punti 90-93), avallando come corretta la scelta del Governo Letta di eliminare le supplenze annuali e quelle fino al 30 giugno, autorizzando solo quelle temporanee prevalentemente per congedi parentali (punto 93); · non è possibile discriminare, ai fini dell’applicazione delle tutele anti-abusive, tra docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento (gae) e personale non inserito nelle gae ma in possesso di titolo abilitante all’insegnamento, perché la Corte evidenzia (punto 89) che nelle graduatorie permanenti figurano sia i docenti che hanno vinto un concorso pubblico senza tuttavia ottenere un posto di ruolo, sia quelli che hanno seguito corsi di abilitazione tenuti dalle «scuole di specializzazione per l’insegnamento» (punto 89) o «corsi di abilitazione» (punto 111); · ragioni finanziarie non possono giustificare l’abusivo utilizzo dei contratti a termine (punti 106 e 110).
8. La Corte costituzionale applica la sentenza Mascolo con la
stabilizzazione del precariato pubblico, nonostante il gran rifiuto del diritto Ue da parte della Cassazione a sezioni (ri)unite. Con la sentenza n.260/2015 la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto dei precari pubblici delle Fondazioni lirico-musicali alla conversione a tempo indeterminato dei singoli contratti a termine privi di ragioni oggettive, nonostante l’esistenza di norme totalmente ostative alla tutela della riqualificazione dei rapporti di lavoro, ed ha applicato la sentenza Mascolo, nella parte in cui riconosce quanto precisato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui le ragioni oggettive costituiscono il punto di equilibrio tra il diritto dei lavoratori alla stabilità del rapporto e le esigenze dei datori. Ignorando totalmente la posizione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 260/2015 sugli Enti (pubblici) lirici, la Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 5072/2016 ha “stabilizzato” il nuovo istituto pretorio del “danno comunitario”44, negando
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Il “danno comunitario” è stato introdotto da Cass., 30 dicembre 2014, n. 27481, in riferimento però all’art. 8 della l. n. 604/1966. La particolarità di questa sentenza, e di quelle identiche che sono seguite, è che la causa era stata discussa all’udienza pubblica del 25 novembre 2014, il giorno prima del deposito annunciato della sentenza Mascolo. Si era invitata la Corte ad attendere l’esito del giudizio in Corte di giustizia, proponendo peraltro anche istanze pregiudiziali. La Corte non ha voluto attendere ed ha rigettato le istanze pregiudiziali, affermando, come giustificazione, che la sentenza Mascolo riguarda soltanto il precariato scolastico. Affermazione questa, evidentemente, non vera.
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per tutti i precari pubblici il diritto alla conversione a tempo indeterminato e compensandoli (molto) parzialmente con l’applicazione in via analogica dell’indennità prevista da una norma abrogata – l’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 –, che per i lavoratori privati prevedeva anche il diritto alla riqualificazione del rapporto di lavoro. Il ragionamento della Suprema Corte parte dalla constatazione dell’inadempimento alla Dir. 1999/70/CE, accertato dall’ordinanza Papalia e dalla sentenza Mascolo, e utilizza la disciplina dell’abrogato d.lgs. n. 368/2001 soltanto per l’individuazione delle situazioni di abusivo utilizzo dei contratti a termine nel pubblico impiego, che gradua con tonalità di gravità inverse rispetto a quanto precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 260/2015, mettendo per primi per “intensità abusiva” il superamento della clausola di durata massima dei 36 mesi e la violazione della disciplina dei contratti successivi, e come abuso più lieve la mancanza di ragioni oggettive temporanee di cui all’art. 1, commi 1 e 2, dell’abrogato d.lgs. n. 368/2001. Poiché l’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001 (che continua ad essere applicato nonostante la declaratoria di incompatibilità comunitaria dell’ordinanza Papalia) e la sentenza n. 89/2003 della Corte costituzionale (che limitava il divieto di conversione soltanto alle assunzioni flessibili al di fuori delle procedure selettive previste dall’art. 35 d.lgs. n. 165/2001) non consentirebbero la sanzione della stabilità lavorativa, pur essendoci i presupposti per la questione di legittimità costituzionale per mancanza assoluta di misure sanzionatorie effettive, le Sezioni unite decidono di risolvere in autonomia, una volta per tutte, con una sentenza (appunto) “di sistema” la problematica degli abusi contrattuali nel pubblico impiego, inventando una sanzione “minima” di derivazione “comunitaria”, perché inesistente il danno secondo le regole civilistiche nazionali (legittimando così la sentenza n. 392/2012 della Sezione lavoro). Una pessima decisione, soprattutto sul piano etico, oltre che sul piano dei rapporti istituzionali e ordinamentali con la Corte costituzionale e con la Corte di giustizia. Infatti, la Corte costituzionale ha ignorato la sentenza delle Sezioni unite e, con la sentenza n. 187/201645 (e le contestuali ordinanze nn. 194-195/2016) sul reclutamento scolastico e sui docenti precari dei Conservatori di musica, ha applicato per la seconda volta la sentenza Mascolo della Corte Ue, da un lato riconoscendone il valore di “ius superveniens” per la soluzione delle controversie principali sulle inammissibili questioni di legittimità costituzionale nuovamente sollevate dall’ostinato Tribunale di Trento (ordinanze 194 e 195) sull’unica sanzione utile a rimuovere definitivamente le conseguenze dell’”illecito comunitario”, cioè la stabilità lavorativa (con chiaro riferimento al punto 55
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C. cost., 20 luglio 2016, n. 187, in FI, 2016, I, 2993, con nota di Perrino e nn. 194 e 195 (ordd.), in www.giurcost.it. Sulla sentenza n. 187/2016 v.: De Michele e Galleano, La cassazione sulla irretroattività delle decadenze e delle tutele del jobs act e l’abrogazione retroattiva delle decadenze e delle sanzioni previste dal collegato lavoro del 2010 per i contratti a tempo determinato, in LPO, 2016, 103 e ss.; Franza, Giochi di prestigio per i precari della scuola: la consulta «cancella» l’illecito comunitario, in MGL, 2016, 615; Miscione, La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola, in LG, 2016, 745 ss.; Nunin, Precariato scolastico: la consulta dice basta agli abusi (ma non scioglie tutti i nodi), in LG, 2016, 886 ss.; Putaturo Donati, Pubblica amministrazione e contratti a termine illegittimi: note critiche sul riconoscimento del danno (extra) comunitario, in MGL, 2016, 603 ss.
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della sentenza Mascolo); dall’altro dichiarando “forzatamente” illegittimo l’art. 4, comma 1, della l. n. 124/1999 con efficacia ex tunc, superando così il problema dell’inammissibilità anche delle ordinanze di Roma e di Lamezia Terme per giustificare il rinvio pregiudiziale Ue “in sostituzione della giurisdizione”. Dopo le decisioni del 20 luglio 2016 della Corte costituzionale, ben tre sentenze della Corte di giustizia del 14 settembre 2016 sul precariato pubblico spagnolo nelle cause de Diego Porras46, Martínez Andrés e Castrejana López47, Pérez López48 sembravano chiudere il faticoso percorso dell’interpretazione della direttiva 1999/70/CE da parte della Corte europea, che pareva aver trovato nella sentenza Mascolo del Collegio di Lussemburgo un punto di approdo stabile, grazie al suo recepimento come «ius superveniens» nell’ordinamento italiano attraverso le citate pronunce del Giudice delle leggi e il riconoscimento dell’equiparazione sostanziale e formale sul piano sanzionatorio e delle tutele effettive del settore pubblico rispetto a quello privato, con estensione, già anticipata dalla sentenza Carratù49 (punti 46-48), della clausola 4 dell’accordo quadro anche alle condizioni di lavoro al momento del recesso illegittimo del rapporto di lavoro a tempo determinato per mancanza di ragioni oggettive e/o per la fraudolenta reiterazione, rispetto ai licenziamenti ingiustificati perché senza giusta causa dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili. La Corte di giustizia, peraltro, con la recentissima sentenza Milkova50 ha applicato, ai fini della tutela del lavoratore disabile discriminato nel pubblico impiego rispetto al lavoratore privato in condizioni analoghe, non soltanto (e non tanto) la Dir. 2000/78/CE, ma soprattutto l’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il principio di uguaglianza e non discriminazione, ampiamente utilizzato dalla giurisprudenza comunitaria senza il richiamo la norma di diritto primario della Carta, che ha lo stesso valore costituzionale dei Trattati. Invece, la sezione lavoro della Cassazione con sei identiche sentenze depositate il 7 novembre 2016 (cit.) ha ritenuto di decidere “definitivamente” le cause sul precariato scolastico ribadendo espressamente il rifiuto di ogni tutela effettiva. A distanza di quasi quattro anni e mezzo dalla sentenza n. 10127/2012 la Suprema Corte ne richiama integralmente il contenuto motivazionale, rifiutandosi di sollevare le questioni pregiudiziali e costituzionali richieste dai lavoratori pubblici precari della scuola (le prime) o evidenziate dal P.M. (le seconde) e ponendosi in contrasto con la decisione Mascolo della Corte di giustizia e la sentenza n. 187/2016 della Corte costituzionale, pur affermando di applicarle.
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C. giust., 14 settembre 2016, causa C-596/14, de Diego Porras c. Ministero de Defensia, ECLI:EU:2016:683 C. giust., 14 settembre 2016, cause C-184/15 e C-195/15, Martínez Andrés c. Servicio Vasco de Salud e Juan Carlos Castrejana López contro Ayuntamiento de Vitoria, ECLI:EU:2016:680 48 C. giust., 14 settembre 2016, causa C-16/15, María Elena Pérez López c. Servicio Madrileño de Salud (Comunidad de Madrid), ECLI:EU:2016:679 49 C. giust., 12 dicembre 2013, causa C-361/12, Carratù c. Poste italiane, ECLI:EU:2017:198 50 C. giust., 9 marzo 2017, causa C-406/15, Milkova, ECLI:EU:2017:198 47
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L’abuso contrattuale, conformemente a quanto previsto dall’art. 1, commi 131 e 132, della l. n. 107/2015, nel settore scolastico viene qualificato al di fuori del d.lgs. n. 368/2001, ritenuto ancora una volta non applicabile, derogando così al principio di diritto “generale” e alla sentenza “di sistema” n. 5072/2016 delle Sezioni unite, e l’“illecito comunitario” si configura per il personale docente e ata supplente soltanto con la maturazione di 4 supplenze annuali, una parodia applicativa dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, in violazione dell’art. 136 Cost. per la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4, comma 1, della l. n. 124/1999, che la Corte costituzionale aveva stabilito con efficacia ex tunc per ogni supplenza annuale. L’abuso del diritto da parte della sezione lavoro della Cassazione è stato “assistito” da un inusuale contestuale comunicazione del 7 novembre 2016 del primo presidente della Suprema Corte a tutti i presidenti di Corte di appello, per invitare tutti i giudici del lavoro a dare applicazione “prioritaria” a decisioni che non provengono dalle Sezioni unite e che, anzi, derogano alla tutela minima garantita dalla sentenza n. 5072/2016 sull’applicazione dell’indennità di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 per tutti i precari pubblici e per tutte le violazioni del d.lgs. n. 368/2001. La “doverosa” risposta della Corte di appello di Trento con l’ordinanza del 17 luglio 2017 in causa C-494/17 Rossato, in attesa della nuova pronuncia della Corte di giustizia, consente di poter accantonare, per il momento, la seria problematica del giudice (di merito) indipendente e imparziale, che l’infelice approccio interpretativo della Cassazione sul contenzioso seriale nei confronti dello Stato continua a far emergere.
9. Conclusioni. Concluderei questo mio contributo ricordando le riflessioni di tre Avvocati generali della Corte di giustizia Ue. In primo luogo, l’Avvocato generale Wahl51 ricorda al Consiglio nazionale forense (e quindi a tutti gli avvocati), “giudice del rinvio” pregiudiziale nella causa sugli avvocati “stabiliti” decisa dalla grande sezione della Corte di giustizia con la sentenza Torresi e Torresi52, che il principio cardine del sistema di tutela eurounitario, quello cioè di appartenere ad «un’unica comunità di diritto» (punto 51), e confessa alla comunità dei giuristi italiani di aver difficoltà a comprendere il ragionamento del giudice del rinvio, secondo cui «l’iscrizione all’albo degli avvocati di cittadini dell’Unione che hanno ottenuto un titolo professionale in un altro Stato membro ponga una tale minaccia all’ordinamento giuridico italiano da potersi ritenere che comprometta l’identità nazionale italiana» (punto 99) per violazione dell’art. 33, comma 5, Cost., concludendo nel senso, accolto dalla
51 52
Conclusioni presentate il 10 aprile 2014. C. giust., 17 luglio 2014, cause C-58/13 e C-59/13, Torresi e Torresi c. Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata, ECLI:EU:2014:2088.
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Corte di giustizia, che la Dir. 98/5/CE va applicata a prescindere dall’eventuale (presunta) violazione della norma costituzionale. In secondo luogo, l’Avvocato generale Sharpston53 (punto 28) affronta la problematica dell’efficacia diretta verticale delle direttive e chiarisce che quando lo Stato membro dà attuazione a ciascuna direttiva integralmente e correttamente entro la data prevista per la trasposizione, la direttiva diviene, in un certo senso, “invisibile”, in quanto i diritti che essa conferisce risultano ormai pienamente espressi nel diritto nazionale. Lo Stato italiano, dunque, quando ha recepito correttamente la Dir. 1999/70/CE con il d.lgs. n.368/2001 anche per i contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, avrebbe fatto diventare “invisibile” la direttiva. È evidente che quando il legislatore prima (d.lgs. n.81/2015) e la Cassazione poi (sentenze nn. 5072/2016,11374/2016, 22552/2016) fanno diventare invisibile anche il d.lgs. n.368/2001, si crea il diritto vivente “fantasma” o, se si preferisce, a termine. Infine, l’Avvocato generale Bot54 (punto 185) ricorda al Giudice del rinvio, che aveva minacciato i “controlimiti” rispetto all’obbligo per i giudici nazionali di applicare la sentenza Taricco55 della Corte di giustizia in materia di prescrizione dei reati finanziari che ledono gli interessi dell’Unione europea (IVA comunitaria), che ai punti 10 e 11 delle sue osservazioni presentate nella causa Gauweiler56, in cui la Corte costituzionale tedesca aveva sollevato identica (meno grave) questione dell’applicazione dei controlimiti interni sull’annunciato possibile acquisto dei debiti sovrani da parte della BCE (O.M.T.), la Repubblica italiana ha precisato che i principi supremi o fondamentali del suo ordinamento costituzionale, la cui violazione da parte di un atto di diritto dell’Unione giustificherebbe l’avvio della procedura dei controlimiti, corrispondono alle garanzie costituzionali essenziali, come la natura democratica della Repubblica italiana sancita all’art.1 della Costituzione italiana o, ancora, il principio di uguaglianza di cui all’art.3 della stessa, e non includerebbero le garanzie processuali, per quanto importanti esse siano, come la garanzia di impunità degli evasori fiscali o, aggiungo, il divieto assoluto di conversione nel pubblico impiego. Infatti, nelle bizzarre considerazioni finali del parere del 23 marzo 2017 n. 464/17 (pag.22) sulla possibilità di stabilizzazione dei rapporti dei giudici onorari, il Consiglio di Stato minaccia di (far) dichiarare illegittima la legge di adesione ai Trattati dell’Unione, applicando i controlimiti, nel caso, definito “sommamente improbabile”, in cui la Corte di giustizia consentisse la disapplicazione di questo principio “cardine” dell’ordinamento interno, cioè la precarizzazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro nel pubblico impiego.
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Conclusioni presentate il 22 giugno 2017 nella causa Farrell C-413/15. La Corte di giustizia non ha ancora depositato la sentenza. Le conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston sul punto sono state richiamate dall’avv. E. De Nisco nell’altro intervento iniziale (oltre a quello già ricordato del Presidente De Luca) dei difensori della lavoratrice Santoro all’udienza pubblica del 13 luglio 2017 in Corte di giustizia nella causa Santoro C-494/16. 54 Conclusioni presentate il 18 luglio 2017 nella causa M.A.S. e M.B. C-42/17, sulla pregiudiziale Ue sollevata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n.24/2017. La Corte di giustizia non ha ancora depositato la sentenza. 55 C. giust., 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco, ECLI:EU:2015:555. 56 C. giust., 16 giugno 2015, C-62/14, Gauweiler, ECLI:EU:2015:400.
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Vedremo nelle sentenze che la Corte di giustizia emanerà nelle cause pendenti C-494/16 sul precariato pubblico siciliano, C-494/17 sul precariato scolastico, C-472/17 sul precariato dei giudici onorari, C-331/17 sul precariato pubblico delle Fondazioni lirico-sinfoniche se le minacce del Consiglio di Stato sull’intangibilità sovrana del divieto di conversione avranno sortito qualche effetto o, piuttosto, la Corte di Lussemburgo non si sarà fatta convincere dalla tesi della condizionalità eurounitaria del Presidente De Luca, per riaffermare la primazia del diritto dell’Unione europea contro le labili fantasie pseudo-giuridiche e sovraniste delle Corti superiori nazionali, a cui converrebbe ricordare che l’adesione ai Trattati internazionali non è nella disponibilità della giurisdizione, ma del popolo sovrano attraverso i suoi Organi (elettivi) legislativi. Traslando gli stessi ragionamenti alla vicenda del precariato pubblico, è agevole ricordare che l’art.97, comma 4, Cost., ha previsto nella seconda parte, dopo la virgola, con decorrenza dal 1 gennaio 1948, che il legislatore può discrezionalmente stabilire per legge i casi di assunzione nel pubblico impiego diversi dal concorso pubblico, che pure i cuochi Marrosu e Sardino avevano superato (v. sentenza Marrosu-Sardino, punto 18) per essere assunti a tempo determinato senza la stabilità lavorativa riconosciuta ai lavoratori privati in condizioni analoghe e, a tenore dell’art. 10, comma 4-ter, d.lgs. n. 368/2001, che avrebbe dovuto essere ad essi riconosciuta dal giudice nazionale in quanto personale non sanitario dipendente da azienda del Servizio sanitario nazionale. Perché per un giureconsulto italiano, appartenente alla comunità di diritto dell’Unione europea, la Cassazione è «altro» rispetto a quanto troviamo scritto nelle sentenze della Suprema Corte del 2016 in subiecta materia.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 24 marzo 2017, n. 7687; Pres. Macioce – Rel. Di Paolantonio – P.M. Giacalone (concl. conf.) – Azienda Unità Sanitaria Locale n. 6 di Livorno (avv. Del Punta, Vannucci, Pagni) c. D.T. (avv. Marucchi, Comporti). Cassa con rinvio App. Firenze sent. n. 469/2015. Recesso – Impugnativa del licenziamento – Causa petendi – Principio dispositivo – Mutatio libelli – Divieto – Irrilevabilità d’ufficio.
In ossequio al principio dispositivo, non è consentita al ricorrente la tardiva deduzione, né al giudice la rilevazione d’ufficio, di una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte nell’atto introduttivo (nel caso di specie, il ricorrente aveva formulato solo nelle note conclusive del giudizio di primo grado l’eccezione di nullità fondata sull’incompetenza dell’ufficio che aveva irrogato la sanzione del licenziamento disciplinare nei confronti di un dipendente pubblico).
Svolgimento del processo. – La Corte di Appello di Firenze ha accolto l’appello proposto da T.D. avverso la sentenza del Tribunale di Livorno che aveva respinto la domanda volta a ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimato il 14.9.2001 al ricorrente, dirigente medico, dalla Azienda Unità Sanitaria Locale n. – Omissis. di Livorno. La Corte territoriale ha ritenuto fondato il primo motivo di appello, con il quale era stata eccepita la nullità del procedimento disciplinare e della sanzione espulsiva, derivata dalla mancata individuazione dell’ufficio competente prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55. Richiamata giurisprudenza di questa Corte sulle conseguenze della violazione del menzionato art. 55, il giudice di appello ha escluso la tardività della eccezione, ritenuta invece dal Tribunale, evidenziando che la nullità è rilevabile d’ufficio ed è quindi estranea all’ambito delle decadenze allegatorie e probatorie di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. Quanto alle conseguenze di carattere patrimoniale, la Corte territoriale ha ritenuto che il risarcimento dovesse essere quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dal 1 aprile 2005, data della revoca del ripristino cautelare del rapporto di lavoro, sino al 31 agosto 2010, coincidente con il raggiungimento dell’età pensionabile. Ha escluso la fondatezza della domanda di risarcimento del danno biologico perché la lesione della integrità psicofisica non era stata provata, in quanto il ricorrente si era limitato a produrre documentazione sanitaria attestante solo una sofferenza cardiaca preesistente ai fatti di causa e a domandare, in via esplorativa, consulenza medico legale. Infine la Corte ha ritenuto inammissibili le ulteriori domande risarcitorie perché solo in grado di appello il T. aveva allegato un pregiudizio deriva-
to alla sua immagine e aveva dedotto di essere stato oggetto di condotta vessatoria. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Azienda Unità Sanitaria Locale n. – Omissis. di Livorno sulla base di tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. T.D. ha resistito con controricorso e ha censurato, con un unico motivo di ricorso incidentale, il capo della sentenza che ha escluso il risarcimento del danno non patrimoniale. Il T. ha anche riproposto, con ricorso incidentale condizionato, gli ulteriori profili di illegittimità del licenziamento evidenziati nell’atto d’appello e non esaminati dalla Corte territoriale. Al ricorso incidentale la Azienda Unità Sanitaria Toscana Nord Ovest, succeduta per fusione alla cessata Azienda USL n. – Omissis. di Livorno, ha resistito con controricorso. Motivi della decisione. – Omissis. La terza censura denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 c.c., artt. 99, 112 e 414 c.p.c., per error in iudicando de iure procedendi”. La azienda ricorrente rileva che il giudice di appello ha errato nel ritenere applicabile alla fattispecie i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di rilievo d’ufficio delle nullità negoziali, poiché detti principi non sono applicabili ai giudizi nei quali si discute non del rapporto contrattuale nella sua interezza, bensì dell’atto unilaterale di recesso, a fronte del quale il diritto potestativo di impugnativa è eterodeterminato, nel senso che si identifica solo sulla base dei motivi fatti valere per privare di efficacia l’atto impugnato. Richiama la giurisprudenza di questa Sezione per sostenere che costituisce domanda nuova la deduzione di un profilo di illegittimità del licenziamento diverso da quello originariamente allegato. La Corte territoriale, pertanto, avrebbe dovuto rigettare il primo motivo di
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appello, in quanto il Tribunale correttamente aveva rilevato la tardività della eccezione, formulata solo nelle note conclusive del giudizio di primo grado. – Omissis. È, invece, fondato il terzo motivo. Questa Corte da tempo ha affermato che la causa petendi dell’azione proposta dal lavoratore per contestare la validità e l’efficacia del licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimità dell’atto dedotto nel ricorso introduttivo, in quanto ciascuno dei molteplici vizi dai quali può derivare la illegittimità del recesso discende da circostanze di fatto che è onere del ricorrente dedurre e allegare. Muovendo da detto presupposto si è quindi ritenuto che, pur a fronte del medesimo petitum, escluse le ipotesi nelle quali la modifica resta limitata alla sola qualificazione giuridica, costituisce inammissibile domanda nuova la prospettazione, nel corso del giudizio di primo grado e, a maggior ragione, in sede di impugnazione, di un profilo di illegittimità del licenziamento non tempestivamente dedotto. Il principio, già affermato da pronunce risalenti nel tempo (cfr. fra le tante Cass. 12.2.1982 n. 886; Cass. 12.8.1987 n. 6899; Cass. 26.3.1990 n. 2418; Cass. 16.4.1999 n. 3810), è stato ribadito da recenti decisioni, che hanno qualificato nuove le domande volte a: far valere l’assenza di giusta causa o giustificato motivo a fronte di un’azione con la quale originariamente era stato prospettato solo il motivo ritorsivo o discriminatorio (Cass. 22.6.2016 n. 12898); ottenere la dichiarazione di nullità del licenziamento discriminatorio, sia pure sulla base di circostanze emergenti dagli atti, in fattispecie nella quale era stata dedotta solo la mancanza di giusta causa (Cass. 3.7.2015 n. 13673 e con riferimento al motivo ritorsivo Cass. 28.9.2015 n. 19142); prospettare vizi formali del procedimento disciplinare diversi da quelli denunciati nell’atto introduttivo (Cass. 16.1.2015 n. 655; Cass. 25.5.2012 n. 8293; Cass. 9.3.2011 n. 5555; Cass. 12.6.2008 n. 15795). In tutte le pronunce richiamate si è fatto leva sulle regole del rito, che impongono la tempestiva deduzione delle circostanze di fatto poste a fondamento dell’azione, e, nelle ipotesi in cui il vizio tardivamente denunciato avrebbe potuto condurre a una dichiarazione di nullità dell’atto di recesso, si è anche evidenziato che “la rilevabilità d’ufficio della nullità non può incidere sulle preclusioni e decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c., ove, attraverso l’exceptio nullitatis, si introducano tardivamente in giudizio questioni di fatto ed accertamenti nuovi e diversi, ponendosi, una diversa soluzione, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.” (Cass. 17.5.2012 n. 7751). Si è aggiunto che la eventuale nullità del licenziamento, per contrasto con norme imperative di legge,
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non può essere rilevata dal giudice, giacché “il principio di cui all’art. 1421 c.c., che va comunque coordinato con il principio della domanda, con quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e con quello della disponibilità delle prove, di cui all’art. 115 c.p.c., non può trovare applicazione quando la parte chieda la declaratoria di invalidità di un atto a sé pregiudizievole, dovendo la pronuncia del giudice rimanere circoscritta, in tale caso, alle ragioni di illegittimità ritualmente dedotte dalla parte stessa” (Cass. 7.1.2003 n. 9167 e negli stessi termini Cass. 21.12.2004 n. 23683, richiamata in motivazione da Cass. n. 13673/2015 cit.). La non rilevabilità di ufficio di un motivo di nullità non tempestivamente dedotto è stata, quindi, giustificata dalla giurisprudenza di questa Corte anche facendo leva sull’orientamento, all’epoca maggioritario, che in relazione alle patologie contrattuali riteneva che la regola enunciata dall’art. 1421 c.c., dovesse essere coordinata con il principio dispositivo, e, quindi, dovesse operare solo nelle controversie promosse per far valere diritti presupponenti la validità del contratto, non anche nella diversa ipotesi in cui la domanda fosse diretta a fare dichiarare l’invalidità del contratto o a farne pronunciare la risoluzione per inadempimento. Come è noto detto orientamento è stato ripensato dalle Sezioni Unite di questa Corte, dapprima con la sentenza n. 14828 del 4.9.2012 e, più di recente, con la sentenza 12.12.2014 n. 26242, con la quale sono state vagliate le diverse ipotesi in cui la nullità negoziale rileva e spiega influenza in seno al processo e, per quel che qui interessa, è stato affermato che il potere di rilevazione ex officio della nullità negoziale deve essere sempre esercitato dal giudice in tutte le azioni contrattuali, anche qualora venga in rilievo una nullità speciale o “di protezione” o emerga una ragione di nullità diversa da quella espressamente dedotta dalla parte. Su questo principio di diritto la Corte territoriale ha fondato l’accoglimento dell’appello del T., escludendo la mutatio libelli, ritenuta invece dal giudice di primo grado, perché, trattandosi di una violazione comportante nullità del procedimento disciplinare e della sanzione, la stessa avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio anche in sede di impugnazione. La statuizione contrasta con l’orientamento consolidato di questa Sezione del quale sopra si è dato conto, orientamento che il Collegio ritiene di dovere ribadire, pur a fronte del mutato quadro giurisprudenziale, perchè non si prestano a essere estese alla impugnativa del licenziamento le ragioni sulle quali le Sezioni Unite di questa Corte hanno fondato il potere/dovere del giudice di rilevare d’ufficio le nullità negoziali. Non si ignora che a diverse conclusioni è pervenuta Cass. 28.8.2015 n. 17286, che ha ritenuto legitti-
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mamente esercitato il potere di rilevazione officiosa delle nullità verificatesi nel procedimento disciplinare, evidenziando che l’invalidità della sanzione derivata dalla “violazione dell’iter legislativo previsto per la sua irrogazione rientra nella categoria delle nullità di protezione, atteso che la procedura garantistica prevista in materia disciplinare (dall’art. 7 Stat. in linea generale e, nello specifico dei rapporti di lavoro autoferrotranviario, dal R.D. n. 148 del 1931, art. 53) è inderogabile ed è fondata su un evidente scopo di tutela del contraente debole del rapporto (vale a dire del lavoratore dipendente)”. Il Collegio non ritiene di potere condividere l’automatica estensione alla materia che ci occupa dei principi affermati dalle Sezioni Unite, posto che la applicabilità agli atti unilaterali della normativa che regola la materia contrattuale in tanto è possibile ex art. 1324 c.c., in quanto la disciplina, che a tal fine non può essere disgiunta dalla sua interpretazione, sia compatibile con la natura dell’atto che viene in rilievo e non sia derogata da diverse disposizioni di legge. Rileva, quindi, innanzitutto la presenza di una normativa speciale che, a partire dalla L. n. 604 del 1966, sino al recente D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, pur utilizzando le categorie civilistiche della inefficacia, nullità e annullabilità, si discosta, quanto al regime giuridico, dalla disciplina generale, tanto da prevedere anche per il licenziamento nullo che lo stesso debba essere impugnato nel termine di decadenza previsto della richiamata L. n. 604 del 1966, art. 6 (la cui applicazione è stata estesa dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, a tutte le ipotesi di “invalidità” del recesso e, quindi, anche a nullità diverse da quelle previste dalla L. n. 604 del 1966, art. 4) e la successiva azione debba essere promossa entro termini perentori particolarmente contenuti. Vigente la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alla modifica dettata dalla L. n. 92 del 2012, la dichiarazione di nullità o di inefficacia dell’atto e la pronuncia di annullamento dello stesso venivano accomunate quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, pur nella diversità della natura della sentenza (si rimanda alla motivazione di Cass. S.U. 18.9.2014 n. 19665), sicché all’epoca la disciplina della invalidità in senso lato del licenziamento era diversificata non solo in ragione della natura del vizio accertato (che aveva comunque rilievo nei rapporti non rientranti nella cosiddetta tutela reale), ma anche in relazione alla sfera soggettiva, nella quale il recesso veniva a essere collocato. La specialità della normativa rispetto alla disciplina generale della invalidità negoziale, ha, quindi, indotto, da un lato, la dottrina a sottolineare che il diritto del lavoro riutilizza le categorie civilistiche e, piegandole alle proprie esigenze, costruisce nozioni di invalidità speciali, e dall’altro questa Corte a escludere che, proprio in ragione di detta specialità,
la illegittimità del recesso possa essere fatta valere dal lavoratore secondo la disciplina comune e che, quindi, possa sopravvivere una tutela alla maturazione della decadenza (Cass. 21.8.2006 n. 18216; Cass. 3.3.2010 n. 5107; Cass. 6.8.2013 n. 18732). Non vi è dubbio, poi, che la specialità debba essere affermata anche in relazione ai successivi interventi normativi che, nel ridurre l’ambito della tutela reintegratoria piena, hanno attribuito rilievo alla natura del vizio e alle cause di nullità del recesso, ma sempre differenziando la disciplina rispetto all’azione generale di nullità. In relazione al tema che qui viene in rilievo della applicabilità dell’art. 1421 c.c., proprio detti ultimi interventi forniscono un riscontro alla tesi della non rilevabilità d’ufficio di profili di nullità del licenziamento non dedotti dalla parte, posto che, in un sistema processuale fondato sul principio della domanda e sul conseguente divieto di ultrapetizione, non si giustificherebbe diversamente la previsione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 4, nella parte in cui fanno riferimento all’applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio (quindi affetto da nullità) “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”. Si deve, poi, aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte per escludere che il principio dispositivo possa limitare il potere officioso nelle azioni di annullamento o di nullità hanno sottolineato, da un lato che in ogni azione contrattuale il negozio viene in rilievo “nella sua duplice accezione di fatto storico e di fattispecie programmatica” con la conseguenza che l’oggetto del giudizio è sempre anche il rapporto che da quel negozio scaturisce; dall’altro che la domanda volta a ottenere la dichiarazione di nullità, in quanto avente ad oggetto l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale fondamentale, è equiparabile alla domanda di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, articolate in base a un solo elemento costitutivo. Nessuna di dette ragioni, poste a fondamento del principio della rilevabilità officiosa, si presta a essere estesa alla impugnativa del licenziamento, che, da un lato, resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto; dall’altro non può essere equiparata all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati, attesa la molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo. Le considerazioni che precedono inducono, pertanto, il Collegio a ribadire l’orientamento di questa
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Corte richiamato al punto 7, in forza del quale non è consentita al ricorrente la tardiva deduzione di un vizio del procedimento disciplinare non dedotto nell’atto introduttivo nè può il giudice rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.
La sentenza impugnata deve conseguentemente essere cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, che procederà a un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato al punto che precede e provvedendo sulle spese del giudizio di legittimità. – Omissis.
La Cassazione e la delicata questione della (ir)rilevabilità d’ufficio della nullità del licenziamento Sommario :
1. Il caso. – 2. I precedenti. – 3. Gli snodi cruciali della pronuncia in commento: la causa petendi nell’azione di impugnativa del licenziamento… – 4. …e l’adattamento della categorie civilistiche alla specialità della materia del lavoro. – 5. Le possibili ricadute della decisione sulla strategia processuale del lavoratore licenziato.
Sinossi. Il commento insiste sulla questione della (ir)rilevabilità d’ufficio delle ragioni di nullità del licenziamento non tempestivamente dedotte dalla parte ricorrente nell’atto introduttivo. Aderendo alla posizione espressa nella sentenza in commento, l’A. insiste sulla necessità che, in ossequio al principio dispositivo, il thema decidendum ed il thema probandum nel giudizio in materia di licenziamento vengano delimitati dalla domanda del ricorrente, non risultando possibile estendere, a fronte del necessario adattamento delle categorie generali alla specialità della materia del lavoro, all’impugnativa del licenziamento le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite con riguardo alla rilevabilità d’ufficio della nullità in materia contrattuale.
1. Il caso. La pronuncia in commento, oltremodo articolata e densa di richiami e riferimenti (giurisprudenziali e, indirettamente, dottrinali)1, offre molteplici spunti di riflessione, investendo
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In termini di pronuncia “dotta”, Galardi, La nullità del licenziamento ed il processo del lavoro, in rivistalabor.it, 6 aprile 2017.
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delicate questioni, di natura sostanziale e processuale, concernenti il regime della nullità dell’atto di recesso datoriale. La vicenda prende avvio con il licenziamento per giusta causa del Direttore dell’Ufficio Operativo di Diagnostica del Presidio Ospedaliero di Livorno, il quale, nella prospettazione datoriale, avrebbe “coperto”, attraverso dichiarazioni mendaci, le proprie responsabilità rispetto all’omessa esecuzione di alcuni importanti provvedimenti organizzativi riguardanti il servizio TAC. Il lavoratore ricorre al Tribunale labronico eccependo, nell’atto introduttivo, l’inammissibilità o improponibilità del licenziamento per carenza di potere – in particolare, per essere lo stesso stato adottato nonostante il parere contrario del Comitato dei Garanti, obbligatorio e vincolante ai sensi dell’art. 23 del CCNL dirigenza medica al tempo in vigore – e, nel merito, l’infondatezza della contestazione disciplinare. Solo nelle note difensive precedenti la discussione in primo grado, il lavoratore lamenta l’ulteriore motivo di nullità del provvedimento consistente nell’incompetenza dell’ufficio che aveva avviato e concluso il procedimento disciplinare ex art. 55 d.lgs. n. 165 del 2001. Il ricorso viene rigettato dal Tribunale di Livorno, che rileva come il parere conforme del Comitato fosse richiesto in ipotesi di responsabilità gestionale per il mancato raggiungimento degli obiettivi e di grave inosservanza delle direttive impartite all’organo competente, e non, dunque, in caso di condotte realizzate in violazione dei singoli poteri; inoltre, i fatti addebitati vengono ritenuti di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e da giustificare così l’immediato recesso dal rapporto. Da ultimo, l’eccezione relativa alla competenza per l’adozione del provvedimento non viene esaminata nel merito, in quanto dedotta oltre il ricorso introduttivo e, dunque, tardivamente. Nel proporre appello, il lavoratore lamenta, oltre all’erronea negazione dell’infondatezza degli addebiti disciplinari, il mancato esame di una questione – quella relativa all’incompetenza dell’Ufficio ex art. 55 d.lgs. 165/2001 – che, vertendosi in ipotesi di nullità, avrebbe potuto (o, meglio, dovuto) essere altrimenti rilevata d’ufficio. La Corte d’appello di Firenze, in accoglimento dell’impugnazione promossa dal prestatore di lavoro, dichiara la nullità del licenziamento, in quanto adottato da un soggetto diverso dall’organo competente. Ad avviso del Giudice di secondo grado, si sarebbe infatti trattato di “una fattispecie di nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice ex art. 1421 c.c. e, quindi, estranea all’ambito delle decadenze allegatorie e probatorie di cui all’art. 414 e 416 c.p.c.”, in quanto tale non soggetta alle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c. Nel ricorrere avanti alla Suprema Corte, la parte datoriale insiste, per quel che più maggiormente rileva in questa sede, sulla questione relativa alla nullità del licenziamento de quo, sotto il profilo, da un lato, della tempestività della relativa eccezione ad iniziativa del lavoratore, dall’altro lato, della rilevabilità della stessa d‘ufficio. Secondo tale prospettazione, vertendosi in ipotesi di impugnativa dell’atto unilaterale di recesso e, dunque, di un’azione concernente un diritto c.d. “eterodeterminato”, da identificarsi sulla base dei fatti costitutivi fatti valere per privare di efficacia l’atto impugnato, la deduzione di un profilo di illegittimità del licenziamento diverso da quello originariamente lamentato avrebbe integrato una domanda nuova e, perciò, inammissibile ove tardiva, né, per la stessa ragione, la nullità avrebbe potuto essere rilevata d’ufficio, a pena di ultrapetizione.
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2. I precedenti. Avendo riguardo ai profili sostanziali dell’atto di recesso datoriale, il Giudice di Legittimità non nega che, nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il procedimento disciplinare instaurato da un soggetto diverso da quello competente sia viziato da nullità. Né alla Corte può sfuggire che il regime dell’invalidità negoziale ha trovato un importante punto di arrivo sul piano esegetico nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 26242 del 20142, con la quale, sulla scia di un precedente del 20123, è stato riconosciuto, in materia contrattuale, il potere (recte, il “potere-dovere”4) del giudice di rilevare d’ufficio una ragione di nullità anche diversa da quella fatta valere dall’attore o dedotta a difesa dal convenuto5. Superando il precedente orientamento, le Sezioni Unite si sono così espresse in favore della rilevabilità officiosa della nullità emergente ex actis, non solo laddove fosse in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità costituisse un elemento costitutivo della domanda6, ma anche qualora il giudizio avesse ad oggetto l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale fondamentale, come in ipotesi di domanda di risoluzione del contratto. In entrambe le decisioni del Supremo Collegio, si è insistito sul ruolo affidato dall’ordinamento alla nullità contrattuale, ma, mentre nella più risalente delle pronunce si è escluso di poter estendere le conclusioni raggiunte alle nullità soggette a regime speciale, nell’arresto del 2014 è stato statuito che queste ultime e, in specie, le c.d. “nullità di protezione”, afferendo pur sempre a valori fondamentali che trascendono gli interessi del singolo7, risulterebbero rilevabili a loro volta d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio8. Nella sentenza in commento, tuttavia, la Corte è consapevole di doversi confrontare, non tanto e non solo con le decisioni rese dalle Sezioni Unite in materia contrattuale, ma anche,
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Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, in GComm, 2015, 5, II, 970, con nota di Delli Priscoli, Rilevabilità d’ufficio delle nullità di protezione, contraente “debole” e tutela del mercato. Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828, in FI, 2013, 4, I, 1238, con nota di Palmieri, Azione risolutoria e rilevabilità della nullità del contratto: il via libera delle Sezioni Unite (con alcuni corollari). Con riguardo all’obbligo di accertare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e non applicarla, salvo che il consumatore vi si opponga, v. C. giust., 4 giugno 2009, causa C-243/08, in GComm, 2010, 5, 801, con nota di Milanesi, Le pronunce Pannon ed Eva Martín Martín sulla rilevabilità d’ufficio delle nullità di protezione; C. giust., 6 settembre 2009, causa C-40/08, in RassDC, 2010, 4, 1227, con nota di Prisco, Il rilievo d’ufficio della nullità tra certezza del diritto ed effettività della tutela. In precedenza, come ricordato nella sentenza in commento, l’orientamento maggioritario riteneva, in relazione alle patologie contrattuali, che la regola dell’art. 1421 c.c. dovesse venire coordinata con il principio dispositivo e che quindi andasse riferita alle sole controversie promosse per far valere diritti che presupponevano la validità del contratto, con l’esclusione dei casi in cui la domanda fosse orientata alla dichiarazione dell’invalidità del contratto o alla risoluzione per inadempimento: v., tra le tante, Cass., 27 aprile 2011, n. 9395, in GC Mass., 2011, 4, 662; Cass., 26 giugno 2009, n. 15093, ivi, 2009, 6, 993; Cass., 28 novembre 2008, n. 28424, in Contratti, 2009, 449; Cass., 8 gennaio 2007, n. 89, in Banca Dati DeJure. Ma per un’apertura in dottrina v. già Monticelli, Fondamento e funzione della rilevabilità d’ufficio della nullità, in RDC, 1990, I, 669 ss. In tema, v., da ultimo, anche per i riferimenti, Pisani Massamormile, Nullità di protezione nullità virtuali, in BBTC, 2017, 1, 31 ss. A. Cataudella, Il giudice e le nullità, in GC, 2015, 4, 667 ss.
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soprattutto, con un precedente della stessa Sezione Lavoro9, dal quale emergeva per tabulas la volontà del Supremo Collegio di “dare continuità all’orientamento espresso dalle S.U.” in un giudizio che investiva, come nel caso in esame, un atto di recesso datoriale intimato in spregio di disposizioni di natura procedurale10, la cui violazione non era stata eccepita dal lavoratore nell’atto introduttivo. In tale circostanza, la Corte aveva ritenuto che la nullità derivante dal mancato rispetto di una natura “inderogabile e fondata su un evidente scopo di tutela del contraente debole del rapporto” non potesse che venire ricondotta alle nullità di protezione contemplate nel precedente delle Sezioni Unite11, così da non potersene escludere la rilevabilità in via officiosa in ogni stato e grado del giudizio, come si era pure ventilato di recente in dottrina12.
3. Gli snodi cruciali della pronuncia in commento: la causa petendi nell’azione di impugnativa del licenziamento…
Nel discostarsi dal precedente del 2015, il ragionamento della Suprema Corte prende qui avvio dall’individuazione della causa petendi nell’azione di impugnativa del licenziamento, in tale ipotesi identificata nello specifico motivo di censura dell’atto. Ad avviso della Corte, se nelle azioni in materia di proprietà e di diritti reali di godimento l’accertamento insiste sull’unicità della situazione sostanziale dedotta, nel caso dei diritti eterodeterminati, che vengono in rilievo nel giudizio in materia di impugnazione del licenziamento, il fatto storico costituisce il necessario punto di mediazione della pretesa alla norma invocata13, tanto da entrare immediatamente nel thema decidendum e nel thema probandum. Pur senza addentrarsi nell’esame della vexata quaestio circa la natura di un’azione di impugnativa dell’atto di recesso (in particolare, in ipotesi di carenza dei presupposti esterni per la valida intimazione del licenziamento)14, gli Ermellini sposano la linea tracciata dalla difesa
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Cass., 28 agosto 2015, n. 17286, in D&G, 2015, 31, 114, con nota di Dulio, La violazione dell’iter procedimentale determina la nullità della sanzione disciplinare…ed è rilevabile d’ufficio. 10 Nel caso di specie, sul licenziamento non si era preventivamente espresso il consiglio di disciplina, come previsto per gli autoferrotranvieri dall’art. 53 r.d. n. 148 del 1931. 11 Nello stesso senso, v., da ultimo, Cass., 31 maggio 2017, n. 13804, in www.wikilbour.it. 12 Di Paola, Rilevanza dei motivi del licenziamento e sindacato giudiziale con riguardo ai vizi sostanziali, in Di Paola (a cura di), Il licenziamento. Dalla Legge Fornero al Jobs Act, Giuffrè, 2016, 351, che però precisa che, se così si fosse ragionato, il Giudice avrebbe comunque dovuto procedere, in ossequio al principio dispositivo, alla rimessione delle parti in termini e non alla dichiarazione officiosa della nullità del recesso; in questo senso, invece, Gargiulo, Il licenziamento “economico” alla luce del novellato articolo 18, in WP D’Antona”,It., 2014, 203, 9, che propende per una “interpretazione correttiva” che consenta “il ricorso al potere officioso nell’ipotesi di discriminazione palese”. 13 In dottrina, per tutti, Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in RTDPC, 1991, I, 1, 216 ss. 14 Ci si riferisce qui alla divergenza di vedute tra chi, con riguardo all’art. 18 st. lav. anteriore alle modifiche introdotte dalla l. 92/2012, aveva ravvisato, nella censura relativa all’assenza dei presupposti dell’atto (giusta causa e giustificato motivo), gli estremi dell’azione di natura dichiarativa o di mero accertamento (Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in RTDPC, 1991, I, 569 ss.; Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente, Giuffrè, 2004, 100 ss.; Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i «principi» costituzionali, in DLRI, 2007, 4,
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datoriale nell’affermare che, essendo il diritto potestativo di impugnativa del licenziamento eterodeterminato, la prospettazione di un diverso profilo di illegittimità dell’atto in corso di causa non possa che costituire, a prescindere dall’identità del petitum, un’inammissibile domanda nuova. Del resto, per giurisprudenza costante la domanda formulata dal ricorrente nell’atto introduttivo non può andare incontro a successive modifiche, dirette a censurare un diverso vizio del provvedimento impugnato15, venendo la mutatio libelli preclusa dal regime di rigide preclusioni diretto ad assicurare la concentrazione e, soprattutto, la celerità del rito del lavoro. Né, posto che “ciascuno dei molteplici vizi dai quali può derivare l’illegittimità dell’atto discende da circostanze di fatto che è onere del ricorrente dedurre e allegare”, può essere rilevata dal giudice una causa di nullità non tempestivamente dedotta dalla parte, a pena di ultrapetizione16: nel procedimento speciale e, in particolare, nel giudizio sul licenziamento, infatti, la rilevabilità d’ufficio della nullità andrebbe necessariamente coordinata con il principio della domanda, il quale, imponendo la corrispondenza tra chiesto e pronunciato, circoscriverebbe la pronuncia del Giudice alle sole ragioni ritualmente dedotte dalla parte, “ponendosi, una diversa soluzione, in contrasto con il principio della ragionevole durata di cui all’art. 111 Cost.”17.
657; Barraco, Tutela reale e processo: rimedio (eccezionale) di mero accertamento?, in ADL, 2008, 4-5, 1064 ss.) e chi invece insiste sulla natura costitutiva della relativa azione (Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19665, in DRI, 2015, 2, 475, con nota di F. Olivelli, Le Sezioni unite e le sanzioni civili per omissione contributiva in caso di reintegrazione del lavoratore: una decisione definitiva?, richiamata nella decisione in commento; Cass., 18 maggio 2005, n. 10394, in LG, 2006, 1, 93). Anche nell’attuale quadro sanzionatorio “modulato”, ci si continua a porre la questione relativa alla natura – alternativamente, costitutiva o di accertamento – dell’azione volta all’ottenimento della reintegra per carenza della giusta causa o del giustificato motivo (M. De Cristofaro, Gioia, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità per una tutela sostanziale dimidiata, in Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Cedam, 2012, 411 ss.), anche se non sembra potersi dubitare circa la natura dichiarativa all’azione diretta a far dichiarare la nullità del provvedimento nelle ipotesi contemplate all’art. 18, comma 1 st. lav. (Consolo, Rizzardo, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in CG, 2012, 6, 731) e all’art. 2 d.lgs. 23/2015, per quanto soggetta alle decadenze di cui al c.d. “Collegato Lavoro” (v. infra). 15 Si veda Cass., 28 settembre 2015, n. 19142, in Banca Dati DeJure, che ha dichiarato inammissibile la domanda volta ad accertata la natura ritorsiva del licenziamento formulata per la prima volta in sede di opposizione all’interno del c.d. “Rito Fornero”; nello stesso senso, Cass., 25 maggio 2012, n. 8293, in GC Mass., 2012, 5, 667; Cass., 9 marzo 2011, n. 5555, ivi, 2011, 3, 377; Trib. Roma 23 dicembre 2013, in giustiziacivile.com, con nota di Biasi, Brevi note sul divieto di mutatio libelli (anche) nella fase sommaria del c.d. “Rito Fornero”; tra le meno recenti, v. Cass., 16 aprile 1999, n. 3810, in Banca Dati DeJure; Cass., 26 marzo 1990, n. 2418, ibidem; Cass., 12 agosto 1987, n. 6899, in FI, 1989, I,1937; Cass., 12 febbraio 1982, n. 886, in Banca Dati DeJure. 16 Cass., 22 giugno 2016, n. 12898, in FI, 2016, 9, I, 2746, ove si legge che, qualora il lavoratore, impugnato il licenziamento, agisca in giudizio deducendo il motivo discriminatorio o ritorsivo, l’eventuale difetto di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda; v. anche Cass., 3 luglio 2015, n. 13673, in D&G, 2015, 26, 45, con nota di Tonetti, Le spese pazze di un dirigente distaccato attirano l’ira (legittima) dell’azienda distaccante; Cass., 16 gennaio 2015, n. 655, cit.; Cass., 15 febbraio 1996, n. 1173, in LG, 1996, 690. 17 Così Cass., 17 maggio 2012, n. 7751, in GC Mass., 2012, 5, 626, richiamata nella pronuncia in commento; analogamente, Cass., 7 giugno 2003, n. 9167, in FI, 2003, I, 2637.
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4. …e l’adattamento della categorie civilistiche alla specialità della materia del lavoro.
Un ulteriore argomento per escludere l’applicabilità nell’ipotesi in esame dei principi che hanno trovato affermazione, in ambito contrattuale, da parte delle Sezioni Unite nel 2014, insiste sui profili di specialità del (rectius, dell’invalidità nel) diritto del lavoro. La Corte osserva che una moltitudine di interventi, dalla l. 604 del 1966 al d.lgs. 23/2015, avrebbero segnato, in subjecta materia, la cifra della normativa lavorista la quale, “pur utilizzando le categorie civilistiche della inefficacia, nullità e annullabilità, si discosta, quanto al regime giuridico, dalla disciplina generale”. La Cassazione riprende sul punto l’opinione della dottrina che ha sostenuto come il diritto mutui le categorie civilistiche, ma le adatti alla specialità della materia18: ciò emerge chiaramente guardando al regime della nullità19, la quale, proprio con riguardo al recesso datoriale, risulta, come noto, eccezionalmente soggetta al duplice termine di decadenza fissato dall’art. 6 l. n. 604/196620, decorso il quale il lavoratore rimane pressoché sprovvisto di tutela21. Ancora, la categoria onnicomprensiva della c.d. “illegittimità” contemplata nella versione originaria dell’18 st. lav., la quale, scaturita dall’unificazione dei rimedi per i casi di nullità, annullabilità ed inefficacia del licenziamento22, costituirebbe, garantendo al lavoratore il diritto ad un risarcimento del danno quantificato secondo la – ma non alla corresponsione della – retribuzione23, un’eccezione alla regola secondo cui, mentre l’annullabilità produce effetti successivamente caducati con l’annullamento, la nullità del contratto o di un atto implica l’improduttività di effetti24.
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Riecheggia, nel riferimento della Corte alla “dottrina”, il pensiero di Mazzotta, Diritto del lavoro e diritto civile: i temi di un dialogo, Giappichelli, 1994, 41, verbatim: “il diritto del lavoro recupera categorie propriamente civilistiche ma le piega ad un uso più aderente alla specificità dei valori che intende proteggere”; in tema, v. anche G. Santoro Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il Jobs Act, in WP D’Antona, It, 2016, 290, 20, il quale ha parlato di una “funzione strumentale” delle categorie civilistiche, che servirebbero “a colmare le lacune del sistema e a spiegare fatti e valori dell’esperienza concreta”, ma che non potrebbero comunque “ingabbiare o ingessare la materia sempre mutevole oggetto della nostra disciplina”, la quale sarebbe “pur sempre speciale”; in termini di “ricerca delle proprie radici nel e di fuga dal diritto civile” da parte del diritto del lavoro, F. Carinci, Diritto privato e diritto del lavoro, Giappichelli, 2007, 2. 19 Lunardon, Le nullità nel diritto del lavoro, in ADL, 2010, 3, 653 ss.; R. Scognamiglio, Il diritto civile e del lavoro ancora a confronto, in RIDL, 2014, I, 185-186. 20 Per tutti, Menghini, Le decadenze per l’impugnazione del recesso, del trasferimento geografico e del trasferimento d’azienda, in Miscione, D. Garofalo (a cura di), Il Collegato Lavoro 2010. Commentario alla Legge n. 183/2010, Ipsoa, 2011, 367 ss. 21 Cass., 19 maggio 2016, n. 10343, in D&G, 2016, 24, 1, con nota di Leverone, La decadenza dall’impugnativa del licenziamento preclude anche la tutela risarcitoria di diritto comune; Cass., 3 marzo 2010, n. 5107, in GDir, 2010, 19, 42; Cass., 21 agosto 2006, n. 18216, in GC Mass., 2006, 7-8. In dottrina, v. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo. Lavoro privato e pubblico, v ed., Cedam, 2015, 354 ss. 22 Mancini, Art. 18, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Zanichelli, 1a ed., 1972, 263264, verbatim: “che il recesso sia nullo, inefficace o annullabile conta, tuttavia, assai poco”, potendo le tre ipotesi essere “considerate unitamente sub specie di licenziamento illegittimo in senso lato”. 23 Cfr. Dell’Olio, Licenziamenti illegittimi e provvedimenti giudiziari, in DLRI, 1987, 3, 429 e già Id., Licenziamento, reintegrazione, retribuzione, risarcimento, in MGL, 1979, 504 ss.; Di Majo, I licenziamenti illegittimi tra diritto comune e diritto speciale, in RGL, 1974, I, 265 ss.; S. Liebman, Il sistema dei rimedi nella disciplina dei licenziamenti individuali, in QDLRI, 2002, 26, 48 ss. 24 Pera, La cessazione del rapporto di lavoro, Cedam, 1980, 174.
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Giurisprudenza
Peraltro, ad ulteriore conferma dell’adattamento, più o meno tecnicamente apprezzabile, delle categorie generali alla materia del diritto del lavoro, si sarebbe potuto menzionare altresì il più recente caso dell’inefficacia “sui generis” del licenziamento ex art. 18, comma 6 st. lav., la quale, non intaccando in alcun modo la validità dell’atto di recesso, ma riconoscendo unicamente il diritto al lavoratore ad un’indennità di natura economica, sembra assai difficilmente riconducibile alla categoria generale dell’inefficacia25. Di conseguenza, non appare persuasivo l’argomento sul quale si era poggiata la precedente decisione del medesimo Ufficio che aveva tratto dalla ratio protettiva della norma procedurale violata la rilevabilità d’ufficio del vizio di nullità non tempestivamente eccepito dal datore di lavoro. Del resto, la medesima violazione, nell’ambito del lavoro dirigenziale, dà pacificamente luogo all’applicazione della c.d. sanzione d’area (dunque, del rimedio contrattuale-collettivo) e non alla dichiarazione di nullità dell’atto26, ad ulteriore conferma della specialità che, sotto diversi profili, segna la cifra della materia, precludendo l’automatica estensione delle regole generali.
5. Le possibili ricadute della decisione sulla strategia processuale del lavoratore licenziato.
A coronamento del ragionamento, la Corte osserva come la circostanza che la nullità del recesso datoriale possa trovare origine in profili o fatti diversi (discriminazione, motivo illecito, frode alla legge, violazione di una norma imperativa, nonché, eventualmente, abuso del diritto)27 trovi conferma nella previsione di cui all’art. 18, comma 7 st. lav.28 Tale disposizione costituirebbe, secondo autorevole dottrina “una sorta di clausola di sicurezza…indirizzata a non precludere al lavoratore la possibilità di guadagnarsi la tutela reintegratoria, ove ne sussistano i presupposti”29, con la quale si vincolerebbe l’applicazione
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Bolego, Il licenziamento immotivato alla luce del d.lgs. n. 23 del 2015, in DLRI, 2016, 2, 321, e ivi ulteriori riferimenti. Cass., sez. un., 30 marzo 2007, n. 7880, in LG, 2007, 9, 889, con nota di Menghini, Il licenziamento dei dirigenti: applicabilità della reintegra ai pubblici e delle tutele procedurali ai privati, ove si legge che non sarebbe possibile “per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici, assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso”; Cass., 16 maggio 2008, n. 12403, in Banca Dati DeJure; Cass., 11 giugno 2008, n. 15496, in GC Mass., 2008, 6, 925; Trib. Torino 21 febbraio 2009, in DPL, 2009, 38, 2240; in dottrina, Tosi, Le invalidità nel diritto del lavoro: questioni di metodo, in Bellavista, Plaia (a cura di), Le invalidità nel diritto privato, Giuffrè, 2011, 26-28; Gragnoli, L’esercizio del potere disciplinare nei confronti del dirigente privato, in Mainardi (a cura di), Il potere disciplinare del datore di lavoro, Utet, 2012, 417; Bollani, Licenziamento del dirigente e regimi di tutela, in QDLRI, 2009, 31, 55-56, il quale osserva: “non si comprende per quale ragione dalla violazione di una norma legale imperativa, inerente un vincolo di procedura dovrebbe derivare l’applicazione di una regola contrattuale – che introduce il diritto all’indennità supplementare – prevista per una fattispecie diversa, ossia per l’ingiustificatezza del recesso”. 27 Sulle singole ipotesi, si consenta il rinvio a Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017, 120 ss. 28 V. anche 4 d.lgs. 23/2015, che concerne, però, il licenziamento viziato per questioni di forma o di procedura, non sotto il profilo della carenza di giustificazione. 29 Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP D’Antona,It., 2015, 273, 76; cfr. Tullini, La decisione del giudice tra allegazioni e onere della prova. Questioni aperte dopo la riforma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, in LD, 2014, 2/3, 449 ss. 26
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delle tutele previste in ipotesi di licenziamento discriminatorio alla “base della domanda formulata dal lavoratore”. In questo modo, risulterebbe precluso al lavoratore, non solo agire in giudizio deducendo l’eventuale difetto di giusta causa o giustificato motivo e dedurre solo in modo momento successivo la nullità del provvedimento30, ma anche eccepire un vizio di nullità diverso da quello inizialmente configurato. Ciò parrebbe implicare che, salvo eventuali riletture le quali, tenendo conto delle “sempre maggiori difficoltà delle questioni sottoposte all’esame del giudice”31, estendessero in subjecta materia i confini della emendatio libelli a scapito della mutatio libelli32, qualora la parte agisca lamentando la nullità del licenziamento per asserite ragioni discriminatorie, la stessa non potrà in seguito censurare l’atto neppure sotto il profilo dell’illiceità del motivo – che, come di recente riconosciuto in giurisprudenza, è ipotesi diversa dalla discriminazione33 –, residuando persino dei dubbi sulla possibilità per il Giudice di operare una qualificazione discorde rispetto a quella prospettata (in prima battuta) dal lavoratore. In conclusione, l’arresto della Corte sembrerebbe rappresentare un’ulteriore spinta verso l’immediatezza e la concentrazione del processo del lavoro, vincolando, coerentemente con la tradizione del rito del lavoro, il thema decidendum ed il thema probandum alla domanda del lavoratore, cui verrebbe precluso il ricorso ad una strategia processuale che contempli “assi nella manica”. Quanto non tempestivamente dedotto rimarrebbe, nei limiti delle decadenze e delle preclusioni di legge, proponibile al più in un diverso giudizio, in assenza di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra le due azioni ed escluso dunque il formarsi di un giudicato implicito. Tutto ciò potrebbe forse indurre la difesa del prestatore di lavoro ad ampliare strumentalmente, o comunque in via cautelativa, il novero dei vizi dell’atto di recesso lamentati nell’atto introduttivo, prudenzialmente mantenendo, tuttavia, un occhio attento alle conseguenze di una simile scelta sul riparto delle spese in ipotesi di soccombenza (totale o parziale). Marco Biasi
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Cass., 3 luglio 2015, n. 13673, cit.; Cass., 21 dicembre 2004, n. 23683, in GC Mass., 2004, 12. In tema, v., da ultimo, Ianniruberto, Il nuovo corso della Cassazione sul mutamento della domanda ed i possibili riflessi sul processo del lavoro, in MGL, 2017, 4, 246 ss. 32 V., sempre nell’ambito delle azioni in materia contrattuale, l’importante decisione, non menzionata nella sentenza in commento, Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, in FI, 2015, 10, I, 3174, con note di Ciccone e Motto, ove si è statuito che la modificazione della domanda ammessa può pure riguardare il petitum e/o la causa petendi, a patto che la domanda “emendata” risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e che non si verifichino una compromissione delle potenzialità difensive della controparte o un allungamento dei tempi processuali. 33 Cass. 5 aprile 2016, n. 6575, in ADL, 2016, 6, 1221, con nota di Pasqualetto, La Cassazione completa la parabola dell’emancipazione del licenziamento discriminatorio dal licenziamento nullo per illiceità dei motivi. 31
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201; – Pres. Di Cerbo – Est. Amendola – P.M. Celeste (concl. parz. diff.) – Riva del Sole s.p.a. (Avv.ti Coen e Ruben) c. T.F.P. (Avv. Picchi). Cassa con rinvio App. Firenze sent. n. 344/2015. Licenziamenti – Giustificato motivo oggettivo – Incremento profitti o migliore efficienza gestionale – Legittimità – Sussistenza.
Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo ricompreso nelle ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro anche l’obiettivo di realizzare un incremento dei profitti ovvero una migliore efficienza gestionale.
Svolgimento del processo. – Con sentenza del 29 maggio 2015 la Corte di Appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, accertata l’illegittimità del licenziamento intimato a T.F.P. in data 11 giugno 2013 dalla Riva del Sole Spa per giustificato motivo oggettivo, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannato la società a corrispondere al lavoratore 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Corte territoriale, pur escludendo l’illiceità del recesso asseritamente “pretestuoso”, non ha tuttavia condiviso l’assunto del primo giudice che aveva invece considerato legittimo il licenziamento in quanto “effettivamente motivato dall’esigenza tecnica di rendere più snella la cd. catena di comando e quindi la gestione aziendale”. La Corte ha sostenuto che, in mancanza di prova da parte del datore di lavoro dell’esigenza di fare fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, ogni riassetto dell’impresa “risulta motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”. La Corte, quindi, in difetto della suddetta prova gravante sulla società, non reputando “sufficiente la dimostrazione dell’effettività della riorganizzazione”, ha tratto la conseguenza, ritenendo assorbita ogni altra questione quale l’obbligo di repêchage, della non ricorrenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Riva del Sole Spa con quattro motivi. Motivi della decisione. – Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 3 e 5, in relazione all’art. 41 Cost. Si lamenta che la Corte territoriale, pur avendo riconosciuto la non pretestuosità della soppressio-
ne della carica di direttore operativo della società e la sua effettività, nel senso dell’esigenza tecnica di rendere più snella la cd. catena di comando e quindi la gestione aziendale, abbia ritenuto necessario un ulteriore elemento per rendere giustificato il licenziamento, e cioè l’esigenza di “far fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario”. Sottolineando che nella specie il riassetto organizzativo non aveva comunque il mero scopo di trarre un maggior profitto, bensì di rendere più efficiente e funzionale la gestione dell’azienda, si invoca l’art. 41 Cost. letto come “quel principio per cui l’imprenditore è libero, pur nel rispetto della legge, di assumere quelle decisioni atte a rendere più funzionale ed efficiente la propria azienda, senza che il giudice possa entrare nel merito della decisione”. Si argomenta che “concedere” all’imprenditore “la possibilità di sopprimere una specifica funzione aziendale solo in caso di crisi economica finanziaria e di necessità di riduzione dei costi rappresenti un limite gravemente vincolante l’autonomia di gestione dell’impresa, garantito costituzionalmente”. Con il secondo motivo si denuncia ancora violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 3 e 5, in relazione all’art. 41 Cost. Si sostiene che, anche ove la soppressione della funzione fosse stata dettata da una mera scelta di più economica gestione dell’impresa, tale decisione aziendale sarebbe comunque legittima, in quanto attinente alla libertà economica dell’imprenditore. Si contesta, richiamando talune pronunce di legittimità, che ai fini della giustificazione del motivo oggettivo di licenziamento, debba sussistere “il requisito economico dato dall’esistenza di sfavorevoli situazioni o necessità di sostenere notevoli spese straordinarie”.
Giurisprudenza
I due motivi, da valutarsi congiuntamente per reciproca connessione, sono fondati nei sensi definiti dalla motivazione che segue. Espressamente la sentenza impugnata trova la fondamentale ratio decidendi in quella parte delle massime della giurisprudenza di legittimità secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comprende l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato “non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario”. La Corte territoriale, dunque, riscontrata la mancanza di prova da parte del datore di lavoro della necessità di fare fronte a tali esigenze, ha ritenuto il recesso “motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”, considerando ingiustificato il licenziamento. L’inciso sopra riportato è effettivamente presente in numerose decisioni di questa Corte, anche risalenti (Cass. n. 903 del 1983; Cass. n. 3127 del 1986). – Omissis. Da tale indirizzo, rigorosamente applicato, scaturisce la conseguenza, condivisa dai giudici del Collegio fiorentino, in base alla quale il presupposto fattuale della sfavorevole situazione economica in cui versa l’azienda, indipendentemente dalle ragioni addotte dall’imprenditore e dalla loro effettività, assurge a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che deve essere provato dal datore di lavoro ed accertato dal giudice. Secondo altro orientamento, invece, le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti... opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art. 41 Cost., per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il “naturale” interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività” (Cass. n. 10672 del 2007, in motivazione; conf. Cass. n. 12094 del 2007, in motivazione). Anche in precedenza si era avuto modo di affermare che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro “possono essere le più diverse” e non solo quelle che ne riconoscono la legittimità se “dirette a fronteggiare situazioni sfavorevoli” (Cass. n. 9310 del 2001, in motivazione), non potendosi distinguere nelle ragioni economi-
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che a sostegno della decisione imprenditoriale “tra quelle determinate da fattori esterni all’impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell’impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto” (Cass. n. 5777 del 2003). Più di recente si è considerato “estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori” (Cass. n. 23620 del 2015). Sulla medesima linea – peraltro dubitandosi che questa Corte abbia mai fatto applicazione, nel concreto delle fattispecie esaminate, del principio per il quale l’imprenditore possa licenziare un dipendente solo per evitare perdite e non anche per mantenere o incrementare profitti – si è sostenuto: “l’assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi dimostrando l’esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, a tal fine non bastando una sua autonoma scelta in tal senso, si dimostra infondato vuoi perché tale necessità non è imposta dalla lettera e dallo spirito dell’art. 3 cit., vuoi perché l’esegesi proposta è incompatibile con l’art. 41 Cost., comma 1 che lascia all’imprenditore (con il limite di cui al cpv. dello stesso articolo) la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi a fini di incremento della produttività aziendale. Diversamente opinando e cioè supponendo come indispensabile, affinché si possa ravvisare un giustificato motivo oggettivo, che l’impresa versi in sfavorevoli situazioni di mercato superabili o mitigabili soltanto mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento d’un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell’impresa e non anche a migliorarne la redditività. Ma sarebbe – questa – una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l’impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato” (Cass. n. 13516 del 2016; in senso sostanzialmente conforme si è espressa altresì, in motivazione, Cass. n. 15082 del 2016). In analoga prospettiva appaiono collocarsi nel corso del tempo quelle molteplici decisioni che, senza concretamente indagare sulla preesistenza di una situazione sfavorevole, riconducono ad un giustificato motivo oggettivo di licenziamento la soppressione del posto seguita alla cd. esternalizzazione dell’attività a terzi (Cass. n. 6222 del 1998; Cass. n. 13021 del 2001; Cass. n. 18416 del 2013) ovvero alla ripartizione delle mansioni tra il personale già in forza all’azienda (Cass. n. 24502 del 2011; Cass. n. 18780 del 2015; Cass. n. 14306 del 2016; Cass. n. 19185 del 2016, tutte in motivazione; per il caso di soppressio-
Silvia Ortis
ne parziale delle mansioni v. Cass. n. 6229 del 2007; Cass. n. 11402 del 2012). Tratti comuni ad entrambi gli orientamenti sono rappresentati dal controllo giudiziale sull’effettività del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato. Parimenti costituisce limite al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello identificato nella non pretestuosità della scelta organizzativa. È così costante l’affermazione secondo cui: “il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato” (Cass. n. 24235 del 2010; Cass. n. 15157 del 2011; Cass. n. 7474 del 2012; tra le recenti conformi: Cass. n. 18409 del 2016; Cass. n. 16544 del 2016; Cass. n. 6501 del 2016; Cass. n. 12242 del 2015; Cass., ord. 6, sez., n. 25874 del 2014, queste ultime sempre in motivazione). Tanto premesso, la Corte ritiene che debba essere data continuità, al fine di consolidarlo, al secondo orientamento innanzi delineato. – Omissis. L’interpretazione letterale della norma, da cui occorre necessariamente muovere, esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini dell’integrazione della fattispecie astratta, un presupposto fattuale – che il datore di lavoro debba indefettibilmente provare ed il giudice conseguentemente accertare – identificabile nella sussistenza di “situazioni sfavorevoli” ovvero di “spese notevoli di carattere straordinario”, cui sia necessario fare fronte. Dal punto di vista dell’esegesi testuale della disposizione è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa.
Non è quindi necessitato che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto immeritevole di considerazione l’obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l’attività dell’impresa attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori della produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli. 5.2. - La diversa interpretazione, infatti, non trova riscontro in dati interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere “socialmente opportuna”. Tale lettura tuttavia non appare innanzitutto costituzionalmente imposta. In una pluridecennale giurisprudenza la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare – in estrema sintesi e per quanto qui rileva – che nell’art. 4 Cost. non è dato rinvenire un diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro; che l’indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e dall’art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; che tuttavia tali garanzie sono affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi attuazione, in rapporto alla situazione economica generale (cfr. Corte cost. n. 45 del 1965; n. 194 del 1970; n. 129 del 1976; n. 189 del 1980; n. 2 del 1986; n. 46 del 2000; n. 541 del 2000; n. 303 del 2011). In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto la L. n. 604 del 1966, art. 3 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi. L’art. 41 Cost., comma 3, riserva al legislatore il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Fermo restando il vincolo invalicabile per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, essa “è libera” (art. 41 Cost., comma 1), nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice. Non pare dubbio che spetta all’imprenditore stabilire la dimensione occupazionale dell’azienda, evidentemente al fine di perseguire il profitto che è lo
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scopo lecito per il quale intraprende. Tale scelta è sicuramente libera nel momento genetico in cui nasce l’azienda e si instaurano i rapporti di lavoro in misura ritenuta funzionale allo scopo. Anche durante la vita dell’azienda la selezione del livello occupazionale dell’impresa rimane libera e non può essere pertanto sindacata al di fuori dei confini stabiliti dal legislatore, non essendo affidato al giudice il compito di contemperare ex post interessi confliggenti stabilendo quello ritenuto prevalente se un tale potere non trova riscontro nella legge. In altre parole se è vero che, in via meramente ipotetica, la norma potrebbe stabilire - nella cornice costituzionale innanzi detta - che il licenziamento per motivo oggettivo possa ritenersi giustificato solo in presenza di una accertata crisi d’impresa, è anche vero che ove ciò non faccia espressamente, come nel caso della L. n. 604 del 1966, art. 3, tale condizione non è ricavabile aliunde in via interpretativa. Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui può essere coordinata o indirizzata l’attività economica anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, debba necessariamente seguire la strada di inibire il licenziamento individuale. – Omissis. Non spetta al giudice, in presenza di una formula quale quella dettata dall’art. 3 più volte citato, surrogarsi nella scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l’impresa e per la collettività. Egli, così, non può essere legittimato a gravare l’impresa di costi impropri o non dovuti in base alla legge, – Omissis, tenuto altresì conto che la prospettiva individuale della difesa del singolo rapporto di lavoro potrebbe anche pregiudicare, come già è stato osservato da Cass. n. 23620 del 2015 cit., l’intera comunità dei lavoratori dell’azienda interessata. – Omissis. Il principio, comune ad entrambi gli orientamenti in discorso, che la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro “non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità”, in ossequio proprio all’art. 41 Cost.. Orbene, il controllo sulla necessità o sulla inevitabilità del singolo recesso sottende un sindacato su congruità ed opportunità della scelta organizzativa nella misura in cui si ritenga che la soppressione del posto sia sempre eludibile quando non vi è crisi d’impresa o perdita di bilancio. Pertanto esigere la sussistenza di una situazione economica sfavorevole per rendere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo significa inserire nella fattispecie legale astratta disegnata
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dalla L. n. 604 del 1966, art. 3 un elemento fattuale non previsto, con una interpretazione che trasmoda inevitabilmente, talvolta surrettiziamente, nel sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale. 5.3.- In proposito occorre rilevare che, secondo la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 1, applicabile al presente giudizio, in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nella materie del lavoro privato e pubblico “contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di... recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro...”. – Omissis. Con la L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 43, pure vigente per il caso in esame, all’art. 30 cit. si è aggiunto che “l’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto”. Il chiaro intento delle suddette formule legislative non ne autorizza, in particolare nella materia che ci occupa, una lettura minimizzante che archivia le disposizioni ivi contenute come assolutamente prive di qualsivoglia significato (cfr. Cass. n. 23620/2015 cit., in motivazione). – Omissis. Pertanto, considerato che la situazione sfavorevole di mercato non risulta iscritta nella L. n. 604 del 1966, art. 3 quale presupposto di legittimità del licenziamento, ogni valutazione del giudice che ad essa attribuisca rilievo, implicando, per le ragioni esposte, una estensione “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”, è preclusa dall’art. 30 citato e si traduce in una errata ricognizione del contenuto precettivo della fattispecie astratta mediante l’inserimento di un elemento non previsto, con conseguente censurabilità per violazione di norme di diritto a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. – Omissis. 5.4. - L’interpretazione accolta non palesa profili di tensione neanche con l’ordinamento dell’Unione europea. L’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Omissis. Come noto non è sufficiente che un diritto sia riconosciuto dalla Carta come “fondamentale”, ma occorre che l’Unione abbia la competenza a disciplinarlo e che la stessa competenza sia stata in concreto esercitata, – Omissis, vi è una direttiva che riguarda i licenziamenti collettivi ma non quelli individuali rispetto ai quali det-
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ta competenza non è stata esercitata (CGUE, Polfer, C-361/07 del 16 gennaio 2008, punto 13). Inoltre l’art. 30 cit. si limita a proclamare il diritto del lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato, lasciando al legislatore comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al contenuto ed agli scopi del principio enunciato. Anche la Carta sociale europea (ratificata con L. n. 30 del 1999), all’art. 24, si limita a stabilire l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello “basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa”. – Omissis. 5.5. - In definitiva la ragione inerente all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa. – Omissis. La circostanza che tali effetti di ristrutturazione organizzativa possano essere originati dall’obiettivo di una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero finalizzati ad un incremento della redditività d’impresa (e quindi eventualmente del profitto) e non solo determinati dalla necessità di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese straordinarie non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia sottratta ad ogni controllo e sfugga a ben precisi limiti. Innanzitutto, in ossequio all’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, non vi è effettiva soppressione del posto di lavoro nel caso in cui avvenga una mera sostituzione del dipendente licenziato con altro lavoratore assunto a minor costo, perché retribuito meno per lo svolgimento di identiche mansioni. – Omissis. Inoltre occorre ben sottolineare che resta saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso. Così se il licenziamento è motivato dall’esistenza di una crisi aziendale o di un calo del fatturato ed in giudizio si accerta invece che la ragione indicata non sussiste, il recesso può essere dichiarato illegittimo dal giudice del merito non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità
o sulla pretestuosità della ragione addotta dall’imprenditore. Ovverosia l’inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento così come giudizialmente verificata rende in concreto il recesso privo di effettiva giustificazione. Infine deve sempre essere verificato il nesso causale tra l’accertata ragione inerente l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro come dichiarata dall’imprenditore e l’intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all’operata ristrutturazione. Ove il nesso manchi, anche al fine di individuare il lavoratore colpito dal recesso, si disvela l’uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l’effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento. La combinazione di siffatti controlli e limiti, oltre le comuni tutele del lavoratore dagli atti illeciti o discriminatori del datore, esclude che il potere di questi di risolvere il rapporto per motivazioni economiche possa essere assimilato ad un recesso ad nutum frutto di scelte autosufficienti ed insindacabili dell’imprenditore. – Omissis. La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo il quale si uniformerà al seguente principio di diritto: “Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore”. – Omissis.
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Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: da extrema ratio a strumento imprenditoriale Sommario :
1.1. Il caso. – 2. Il giustificato motivo oggettivo nell’interpretazione della giurisprudenza. – 3. L’opzione ermeneutica della Cassazione. – 4. Aporie e profili di meritevolezza della pronuncia della Corte.
Sinossi. L’elaborato è volto ad analizzare la portata applicativa della sentenza n. 25201/2016 con cui la Cassazione, prendendo posizione sul contrasto creatosi, ha definito in modo puntuale la nozione di giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 l. n. 604/1966, ampliandone gli estremi concettuali e ricomprendendovi anche le ipotesi in cui a fondamento del recesso non vi è una situazione economica sfavorevole, bensì esigenze di incremento di profitto. In particolare, l’Autrice si propone di vagliare le argomentazioni sottese alla pronuncia e le implicazioni sostanziali e processuali che ne derivano.
1. Il caso. Con la sentenza n. 25201/2016 la Cassazione è tornata ad interrogarsi sui contorni della nozione di giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 l. 15 luglio 1966, n. 604, innovandone ed ampliandone la portata applicativa, acquisendo il plauso di parte datoriale. In particolare, la pronuncia in commento ha riformato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo al direttore operativo di un’impresa, condannando la società datrice a corrispondere allo stesso 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Corte territoriale aveva reputato insufficiente, ai fini della legittimità del recesso datoriale, l’esigenza tecnica manifestata dalla Società di rendere più snella la gestione aziendale, ritenendo all’opposto che la validità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba essere subordinata alla sussistenza di situazioni economiche sfavorevoli, debitamente provate dal datore ed accertate in sede giudiziale. La Cassazione, invece, non condividendo gli approdi della pronuncia d’appello, ha statuito un importante principio di diritto in virtù del quale la validità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non deve necessariamente essere ancorata ad un andamento economico negativo, non costituendo quest’ultimo un presupposto fattuale sintetizzato nell’art. 3 l. n. 604/1966. Secondo la Corte, a fondamento del recesso può essere invocato anche l’obiettivo di un incremento dei profitti ovvero il raggiungimento di una migliore effi-
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cienza aziendale, dovendo tali ipotesi essere annoverate nelle ragioni tecniche, organizzative e produttive di cui alla predetta norma.
2. Il giustificato motivo oggettivo nell’interpretazione della giurisprudenza.
Stigmatizzata da alcuni commentatori e mass media come una rivoluzione copernicana sul punto, in realtà la pronuncia de qua non ha una portata di cesura tale da assurgere a revirement giurisprudenziale, inserendosi piuttosto nel solco di un orientamento già sviluppatosi in seno alla Suprema Corte. Il fulcro della sentenza ruota attorno al dibattito ermeneutico sulla nozione di giustificato motivo oggettivo, rispetto alla quale si sono nel tempo sviluppate due diverse soluzioni interpretative: l’una più garantista e volta a configurare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio a cui il datore può ricorrere solo in assenza di qualsivoglia alternativa praticabile e l’altra, invece, che mira ad assicurare un maggior respiro all’esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. In realtà, tale questione, lungi dall’essere una tematica squisitamente teorica, comporta rilevanti conseguenze sul piano pratico e processuale, tracciando i confini di legittimità dell’esercizio dei poteri direttivi e gestionali datoriali. Il punto di fondo coinvolge l’essenza stessa della fattispecie del giustificato motivo oggettivo poiché l’adozione dell’una o dell’altra delle impostazioni proposte dalla giurisprudenza e dalla dottrina determina importanti riflessi sul piano processuale, in ordine agli strumenti probatori a disposizione del datore per dar conto dell’effettiva sussistenza delle ragioni addotte a fondamento del licenziamento. Certamente più facile risulta la dimostrazione dell’esistenza di un andamento negativo dell’azienda con conseguente necessità di sopprimere il posto di lavoro di taluni dipendenti piuttosto che la prova della riorganizzazione aziendale motivata dall’intenzione aziendale di realizzare un progetto funzionale all’incremento dei profitti ovvero della redditività. Secondo una prima impostazione1, sposata dalla Corte d’Appello di Firenze nella pronuncia oggetto di riforma in Cassazione, la legittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo è subordinata all’allegazione ed alla dimostrazione dell’esistenza di condizioni economiche avverse, apprezzabili e verificabili, che rendano necessitata la soppressio-
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Ex multis, cfr. Cass., 16 marzo 2015, n. 5173, secondo cui «il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della l. 15 luglio 1996, n. 604, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti». Cfr. in senso conforme anche Cass., 15 febbraio 2012, n. 11465 e Cass., 24 febbraio 2012, n. 2874, la quale ha così statuito «Rientra, pertanto, nella previsione di cui alla seconda parte della l. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3 l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario (…) accertata l’effettiva necessità della contrazione dei costi».
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ne del posto di lavoro. Secondo questa tesi la scelta imprenditoriale non può fondarsi su un generico programma di riduzione dei costi ovvero sulla volontà di migliorare la produttività e l’efficienza aziendali in assenza di un andamento economico negativo. Il motivo sotteso a tale assunto deve esser ravvisato nella necessità di dar prevalenza alla stabilità di cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato dovrebbe essere connotato (e l’uso del condizionale è qui voluto) rispetto al contenuto dell’art. 41 Cost. Secondo altro orientamento deve essere invece data prevalenza, proprio per le precipue caratteristiche della causale di licenziamento di cui si discute, al principio di libertà di iniziativa economica, ammettendo che le ragioni inerenti all’attività produttiva di cui all’art. 3 l. n. 604/1966 possono essere le più eterogenee, purché effettive e non pretestuose, potendo derivare da riorganizzazioni o ristrutturazioni aziendali finalizzate anche al risparmio dei costi ovvero all’incremento dei profitti2. Quest’opzione ermeneutica si pone maggiormente in linea con il rinnovato contesto economico e produttivo, il quale, a fortiori in ragione della globalizzazione, è sempre più fortemente intriso dei valori di efficienza e competitività. Secondo la dottrina fautrice della summenzionata tesi giurisprudenziale, l’accentuata competizione fra le imprese richiede a quest’ultime una sempre maggiore capacità in termini di flessibilità, al fine di adattare l’impianto produttivo ed organizzativo, ivi compresa la manodopera, alle nuove esigenze il cui soddisfacimento è imposto ai fini della permanenza, o sarebbe più opportuno dire sopravvivenza, nel mercato34.
3. L’opzione ermeneutica della Cassazione. Seguendo una logica ed un’impostazione strutturale tipiche delle pronunce delle Sezioni Unite, nella sentenza qui in commento la Cassazione ha ritenuto opportuno coltivare la seconda delle tesi sopra esposte. In particolare è giunta a tale determinazione in virtù di una
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Fra le più recenti pronunce si richiama Cass., 1 luglio 2016, n. 13516, secondo cui «poco importa che tale risparmio o contrazione dei costi serva solo a prevenire o contenere perdite di esercizio oppure sia destinato a procurare un incremento di profitto: l’importante è che tale finalità si traduca in un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva genuino e non strumentalmente piegato ad espellere personale (a vario titolo) non gradito. (…) solo un’incompleta lettura della giurisprudenza potrebbe far apparire la soluzione qui accolta come dissonante rispetto ai precedenti di questa Corte Suprema che, secondo parte ricorrente, escluderebbero che il giustificato motivo oggettivo possa consistere nella semplice ricerca di un incremento di profitto, nel senso di giustificare tale tipo di licenziamento solo ove si debba fare fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario». In senso conforme Cass., 21 luglio 2016, n. 15082. Si veda Faleri, L’adattamento efficiente della norma ai mutamenti del mercato del lavoro: il caso dei licenziamenti per ragioni economiche, in RIDL, 2011, 2, 291 ss. secondo cui tale impostazione giurisprudenziale «appare consequenziale al carattere sempre più competitivo del mercato dei beni e dei servizi imposto da un’economia globale, dove la sopravvivenza di un’impresa dipende anche dalla capacità di individuare i costi-opportunità e perseguire le soluzioni organizzative che consentono di ridurre al minimo l’entità di tali costi». Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento per motivi oggettivi nella giurisprudenza di legittimità, in DRI, 2005, 3, 621 ss., con un’impostazione mediana, ritiene che la necessità del provvedimento di recesso debba essere «valutata a valle e non a monte delle scelte organizzative datoriali, sicché non è da ricercarsi una crisi economica che renda ineludibile il licenziamento, ma è sufficiente verificare che quest’ultimo sia inevitabile conseguenza di scelte organizzative, ancorché dettate da mera convenienza».
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complessa analisi, dettata in primo luogo da un’attenta e puntuale interpretazione letterale dell’art. 3 l. n. 604/1966, nonché da una lettura sistematica della norma, comparandone il portato con i limiti al potere di recesso datoriale dettati a livello sovrannazionale e valutando, infine, il limite al sindacato giurisdizionale, in virtù del quale in ipotesi di impugnativa di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo il giudice deve esimersi dal valutare ed opinare in ordine al merito delle scelte imprenditoriali, attenendo quest’ultime all’area di discrezionalità spettante al datore di lavoro. La Corte, al fine di corroborare la meritevolezza della propria interpretazione, ha criticato l’impostazione opposta, mettendone in luce le debolezza ed i limiti. Nello specifico, ha puntualizzato come la diversa impostazione giurisprudenziale si arroghi la facoltà di veicolare nella causale astratta del giustificato motivo oggettivo un presupposto fattuale non tipizzato dal legislatore, consistente nella necessaria allegazione e prova dell’effettiva sussistenza di una crisi d’impresa, più o meno conclamata, dettata da un andamento economico sfavorevole e non meramente contingente. Si badi, peraltro, che sino ad ora la situazione economica negativa, costituente il presupposto indefettibile del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, doveva essere seria ed apprezzabile e non meramente transitoria, giacché diversamente opinando, secondo tale filone, la necessità di sopprimere il posto di lavoro non avrebbe potuto esser considerata effettiva. Tale soluzione, tuttavia, presta il fianco a diverse criticità e a ragione la Cassazione ha ritenuto di non dovervi dar seguito. In primo luogo implica un’avocazione da parte del giudice, supportato da taluna parte della dottrina, delle funzioni e prerogative spettanti al legislatore, unico legittimato a stabilire i limiti a cui soggiace la libertà di iniziativa economica, financo di recesso del rapporto di lavoro, rispetto al diritto alla conservazione del posto ed al valore della stabilità del rapporto a tempo indeterminato5. Invero, gli unici limiti tipizzati dal legislatore per lo svolgimento della libertà di iniziativa economica attengono all’utilità sociale, nonché alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Secondariamente, introduce lacci e lacciuoli al potere direttivo ed imprenditoriale del datore, il quale nei fatti, volendo seguire pedissequamente tale impostazione giurisprudenziale, non potrebbe mai procedere a risolvere un rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo se non nel caso il cui la propria azienda fosse prossima alla decozione ovvero versasse in una situazione di grave dissesto economico-finanziario. Ma svolgendo la matassa, il filo della stessa condurrebbe a conclusioni inaccettabili e tali da porsi in contrasto con il dettato costituzionale dell’art. 41 Cost., considerato soprattutto il contesto economico, certamente non prospero e produttivo, in cui le aziende italiane attualmente si trovano. La bontà delle argomentazioni svolte dalla Cassazione trova altresì conforto qualora esse vengano interpretate alla luce di un criterio logico-sistematico, rispetto al quale l’analisi letterale della norma funge pur sempre da premessa principale.
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Ogriseg, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: prospettive interdisciplinari, in DRI, 2003, 3, 485 ss., evidenzia come l’opposta tesi individua «la persistenza di uno stato di floridità dell’impresa» come «indice attendibile dell’inesistenza di un giustificato motivo oggettivo. Simile considerazione non può che ritenersi prater legem: la norma non fa alcun accenno alla necessaria presenza di difficoltà economiche non contingenti ai fini della fondatezza del licenziamento».
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A ben vedere, l’art. 3 l. n. 604/1966 individua i contorni fattuali a cui ancorare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con una formula indeterminata ed elastica. La causale ivi tratteggiata, infatti, lungi dal porsi come un’elencazione esaustiva e tipizzata, delinea una fattispecie astrattamente di gran portata e respiro, lasciando alla giurisprudenza ed agli operatori del diritto il compito di riempirvi il contenuto. Il legislatore, infatti, nulla ha prescritto in merito alle motivazioni sottese alle “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” che si pongono alla base della scelta imprenditoriale di risolvere il rapporto ovvero agli obiettivi divisati dal datore. Tale circostanza induce a ritenere che siano meritevoli di rientrare nella predetta formulazione tutte le ipotesi che comportino un’effettiva modifica dell’assetto aziendale, tale da incidere sul numero di unità lavorative. Tuttavia i motivi ed gli obiettivi aziendali esulano dalla causale, a differenza di quanto invece accade nella disciplina dei licenziamenti collettivi ove il legislatore richiede espressamente che la preliminare consultazione con le Organizzazioni Sindacali riguardi non solo i “motivi tecnici, organizzativi e produttivi” per i quali non è possibile superare gli esuberi del personale, ricollocando proficuamente le unità lavorative all’interno dell’organigramma aziendale, bensì anche “i motivi che hanno determinato la situazione di eccedenza”. Solo nel caso del licenziamento collettivo la normativa pretende dal datore l’esaustiva spiegazione delle ragioni imprenditoriali che hanno determinato gli esuberi6. Ponendosi come elementi esterni alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, le motivazioni e gli obiettivi imprenditoriali non possono costituire né elemento di invalidità del recesso, né oggetto del sindacato giurisdizionale, il quale sarebbe comunque precluso ai sensi degli artt. art. 30, comma 1, l. n. 183/2010 e 1, comma 3, l. n. 92/20127. In virtù di tali argomentazioni ed astraendo dal caso specifico di cui era stata investita, la Cassazione è giunta a sostenere che ai fini della validità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è necessario che sussistano, rectius vengano allegate, provate
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Sul punto è consolidato l’orientamento della giurisprudenza. Cfr. ad es. Cass., 17 aprile 2014, n. 8971, in GC Mass., 2014, secondo cui, riprendendo il portato delle precedenti pronunce (Cass., 8 ottobre 2013, n. 22873, Cass., 21 febbraio 2012, n. 2516; Cass., 8 aprile 2011, n. 8061), «in tema di accertamento giudiziale della verifica della sussistenza del nesso causale tra il progetto di ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso, la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto normativo, ad un controllo sull’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, per cui i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo), ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali (…) si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di «effettive» esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva». In dottrina si veda Natullo, Tutele collettive versus tutele individuali nella riforma dei licenziamenti collettivi (legge n. 92/2012), in DRI, 2014, 4, 933 ss. Per un approfondimento in ordine ai margini di operatività del controllo giudiziale si rinvia a Perulli, Il controllo giudiziale dei poteri dell’imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, in RIDL, 2015, 1, 83 ss.; G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in DRI, 2013, 1, 152 ss.; Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in RIDL, 2013, 1, 147 ss.; Frasca, L’insindacabilità delle scelte del datore nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in RIDL, 2016, 2, 293 ss.
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ed accertate, situazioni economiche negative tali da rendere la risoluzione del rapporto una scelta improcrastinabile. In assenza di una tale limitazione sul piano del diritto positivo e non potendo essere peraltro veicolata per il tramite del diritto vivente e giurisprudenziale, il recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo può fondarsi, e non per questo essere invalido, anche sulla volontà imprenditoriale di aumentare la competitività aziendale, di incrementarne i profitti, migliorarne l’efficienza e la produttività. Se si analizza in modo compiuto tale impostazione, ci si accorge altresì del recupero del valore di stabilità del rapporto a tempo indeterminato propugnato dal diverso orientamento come elemento indefettibile, la cui salvaguardia comporterebbe necessariamente la concezione del licenziamento come extrema ratio. Accedendo all’opzione proposta dalla Cassazione con la sentenza n. 25201/2016, il summenzionato valore viene pur sempre tutelato; ciò che cambia in questo caso è la dimensione entro cui la stabilità viene garantita: non già individuale, bensì collettiva. L’obiettivo di incremento dei profitti aziendali non deve essere infatti interpretato unicamente come fattore egoistico. Laddove raggiunto, assicura certamente un andamento florido dell’azienda e, dunque, anche il mantenimento dei livelli occupazionali. Viene così maggiormente tutelato l’interesse collettivo, eventualmente anche a discapito dell’interesse del singolo dipendente a preservare il proprio posto. Si tratta, dunque, di un delicato bilanciamento di interessi che non potrà soddisfare sia la dimensione collettiva che quella individuale. Tali possibili contenuti motivazionali della fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ad avviso della Corte, non elidono i limiti a cui l’esercizio del potere di recesso datoriale è comunque sottoposto ed il cui rispetto è oggetto di vaglio giudiziale. La soluzione sposata dalla Cassazione non intende offrire uno strumento attraverso cui concedere al datore di lavoro di sviare il potere di recesso dalle finalità proprie e legittime a cui lo stesso è preposto ed a cui il legislatore lo ha subordinato. Intende unicamente consentire l’impiego del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non già come extrema ratio, bensì come un vero e proprio strumento imprenditoriale per adattare l’organico alla flessibilità della domanda8. Rappresenta infatti l’esito del potere dell’imprenditore di disporre della propria organizzazione produttiva, financo della propria forza lavoro, modificandone gli assetti in senso qualitativo e quantitativo. Riprendendo le parole della Cassazione, quel che deve essere censurato non è la soppressione del posto motivata dalla ricerca del profitto mediante la riduzione del costo del lavoro, bensì l’obiettivo di incremento dei profitti realizzato per il tramite di un licenziamento senza una reale ed effettiva riorganizzazione.
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Tale mutamento è evidenziato anche da Ferraresi, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2016, 200 ss., che parla di «sconfessione del concetto di extrema ratio». L’Autore, in particolare, sottolinea come le premesse degli esiti a cui si è giunti nel d.lgs. n. 23/2015 debbano essere rinvenute nella l. n. 92/2012, la quale ha «da un lato espunto la verifica della possibilità del ripescaggio dal “fatto” rilevante per il g.m.o., relegandola agli “estremi” di questo; dall’altro, ha degradato la ragione imprenditoriale sussistente, ma insufficiente alla stregua dell’art. 3, l. n. 604/1966, alla tutela indennitaria in luogo di quella reintegratoria». Tuttavia, non esclude che i mutamenti della nozione di g.m.o. così introdotti debbano essere necessariamente a detrimento del lavoratore, prospettando l’ipotesi in cui «il ridimensionamento della tutela reintegratoria e la diminuzione degli importi della tutela indennitaria potrebbe indurre la giurisprudenza ad affinare (…) la nozione di motivo discriminatorio», ricomprendendovi anche fattispecie formalmente qualificate come g.m.o.
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In altri termini, permane il limite generale della non pretestuosità del licenziamento a cui si aggiunge il necessario controllo sull’effettività delle ragioni addotte ed il conseguente accertamento del nesso di causalità fra quest’ultime e l’intimato recesso. La soppressione del posto di lavoro deve dunque essere reale ed oggettivamente apprezzabile, nonché funzionale alla risoluzione del rapporto. Ciò che non rileva e non costituisce oggetto di sindacato giurisdizionale sono le motivazioni e gli obiettivi sottesi alle ragioni aziendali. Le scelte organizzative che fungono da causali del licenziamento per giustificato motivo oggettivo debbono infatti essere tenute distinte, sul duplice piano concettuale ed operativo, dalle ragioni ad esse sottese, le quali fungono da antecedente logico, nonché dagli obiettivi che con tali scelte il datore si propone di realizzare.
4. Aporie e meritevolezza della pronuncia della Corte. Tuttavia, il portato innovativo della pronuncia in commento sembra più apparente che reale, non assurgendo ad una vera svolta nell’ambito delle soluzioni giurisprudenziali nel tempo proposte in ordine alla causale del giustificato motivo oggettivo. Peraltro, non deve stupire che la Corte sia giunta a tali conclusioni, inserendosi perfettamente nel solco tracciato dal legislatore delle ultime riforme che ha inteso accentuare la flessibilità in uscita nel rapporto di lavoro, a fortiori se dovuta a ragioni di carattere aziendale, limitando altresì le tutele connesse in caso di licenziamento illegittimo ed obliterando ab origine la possibilità di reintegrazione in ipotesi di giustificato motivo oggettivo. Più che un revirement, la sentenza si pone come un’occasione di emersione di una tendenza che si era già affacciata, sottovoce ed in via embrionale, nel panorama dottrinale e giurisprudenziale oltre che legislativo, con il proposito di ampliare i confini entro cui la libertà di iniziativa economica, in termini di recesso, possa essere esercitata senza alcuna censura di illegittimità. Tuttavia, la scelta adottata si pone come un giano bifronte, presentando profili di meritevolezza ed al contempo aporie che costituiscono pro futuro linfa per successivi dibattiti. La ratio di fondo poggia certamente su talune apprezzabili motivazioni, non potendosi addossare eccessivi oneri in capo al datore di lavoro, imponendogli addirittura di attendere, al fine di recedere da un rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo senza avere il timore di una successiva impugnazione, che la propria impresa versi in condizioni economiche negative, oltretutto serie e non transitorie. In tal caso, infatti, il datore si troverebbe dinnanzi ad un’alternativa comunque limitativa delle proprie prerogative imprenditoriali. Si troverebbe di fatto a scegliere fra il mantenimento dei livelli occupazionali, ancorché l’impiego di talune risorse dovesse risultare superfluo, ovvero la risoluzione dei rapporti de quibus. Con ogni probabilità, pur di evitare eccessivi esuberi rispetto alle esigenze aziendali, sarebbe comunque costretto a licenziare talune unità lavorative, con l’alea poi di un successivo giudizio d’impugnativa che, in caso di accertata illegittimità, si concluderebbe con una condanna economica a carico del datore. Una tale opzione finirebbe per svuotare di significato i poteri di gestione ed organizzazione imprenditoriale, oltre che la libertà di iniziativa economica. A ben guardare, l’opposta tesi, che subordina la legittimità del licenziamento all’esistenza di un andamento sfavorevole e non meramente contingente, è viziata sul piano logico. In un
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regime concorrenziale com’è quello attuale, fatta salva l’ipotesi di licenziamenti disciplinari, le scelte gestionali sottese ai licenziamenti per giustificato motivo sono pur sempre finalizzate alla massimizzazione del profitto, della reddittività e della competitività, a prescindere dal fatto che tali obiettivi vengano raggiunti per il tramite di una riduzione delle perdite ovvero un aumento degli utili. Prova di tale circostanza è la pacifica qualificazione atecnica, sia in dottrina che in giurisprudenza, del recesso per giustificato motivo oggettivo come licenziamento “economico”. Tale considerazione è ancor più vera se si calibra il giudizio di legittimità al singolo caso concreto, non potendosi a priori ritenere che in caso di bilancio complessivo in perdita debba corrispondere un’analoga situazione anche con riferimento al singolo rapporto di lavoro. Tuttavia, la postura ermeneutica offerta dalla Cassazione presenta delle intrinseche aporie, le quali si riverberano in primo luogo sugli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro. Se è pur vero che in tal maniera si sono allargate le maglie della causale del giustificato motivo oggettivo, consentendo al datore una maggior autonomia e margini di scelta maggiori in ordine alle motivazioni sottese alle operazioni di riorganizzazione da cui deriva il recesso, è altrettanto vero che il datore dovrà poi fornir prova dell’effettività e del nesso di causalità delle ragioni addotte rispetto alla determinazione ablativa del vincolo contrattuale. Se si ammette che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo anche qualora motivato dall’intenzione di incrementare i profitti aziendali, per il tramite di un aumento degli utili ovvero, specularmente, una diminuzione delle perdite, non si comprende quale prova potrà poi fornire il datore di lavoro in sede di impugnativa giudiziale del licenziamento. A ben vedere, in tali casi la prova del requisito dell’effettività dovrà essere in qualche modo rivista ed adattata al diverso contesto fattuale e giuridico entro cui il licenziamento si colloca. Laddove infatti quest’ultimo sia motivato da un andamento economico aziendale negativo, la prova che il datore dovrà offrire sarà certamente agevolata, in quanto la dimostrazione dell’effettività delle ragioni concernerà fatti materialmente accaduti o, quanto meno, asseriti come tali dal datore. Nel giudizio, pertanto, il datore potrà esibire le prove documentali, sul piano qualitativo e quantitativo, del trend economico sfavorevole, che si pongono in rapporto di causa-effetto rispetto alla soppressione del posto. Ove invece si sposi la tesi estensiva proposta nella pronuncia in commento, si legittima il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ancorché agganciato ad elementi prettamente volitivi ed appartenenti alla sfera delle intenzioni del datore, non già riferiti dunque ad una situazione fattuale già esistente. L’intenzione di incrementare i profitti ovvero la reddittività aziendale si colloca su un piano diverso rispetto ad una riorganizzazione dei fattori produttivi per far fronte ad una crisi economica in cui l’azienda versa. L’obiettivo di massimizzazione dell’utilità, per quanto meritevole e lecito alla luce della libertà di iniziativa economica, si scontra con un dato inequivocabile, consistente nella sua mancata esteriorizzazione e manifestazione sul piano materiale e fenomenologico. Ciò a maggior ragione in considerazione del fatto che il giustificato motivo oggettivo deve essere valutato sulla base degli elementi esistenti al momento della comunicazione del recesso e non già in virtù di circostanze future, successive ed eventuali9. Il giudice, pertanto, in tali casi, onde accertare l’effettività delle ragioni
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Si è registrata tuttavia un’apertura in passato nella giurisprudenza, ove si è statuito che in caso di riorganizzazione
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addotte dal datore a fondamento del recesso dovrebbe verificare il rispetto di tale requisito in rapporto a mere intenzioni del datore di lavoro, ma ciò comporterebbe l’addentrarsi in un terreno scivoloso, ove i limiti dell’indagine giudiziale sono alquanto labili in rapporto al divieto di sindacato giurisdizionale nel merito. Al giudice sarà comunque in tali casi demandato il compito, pur senza eccedere rispetto ai limiti del sindacato a lui concesso, di accertare se le modificazioni produttive o organizzative effettivamente intervenute con l’obiettivo di realizzare un aumento dei profitti o della reddittività corrispondano e siano coerenti con il contenuto della comunicazione di recesso e dunque con le addotte operazioni di riorganizzazione poste in essere. Inoltre, merita evidenziare un’ulteriore contraddizione insista nell’impostazione giurisprudenziale da ultimo adottata dalla Cassazione. Avallando la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato per perseguire l’obiettivo di incrementare la competitività ed efficienza aziendali, anche in termini di riduzione dei costi del lavoro, si dovrebbe ritenere superata, o vi è il rischio che un domani sia superata, anche la regola di matrice giurisprudenziale secondo cui il recesso non può essere motivato dalla volontà del datore di sostituire un proprio dipendente con un’altra e nuova risorsa lavorativa che costi di meno o sia più efficiente. Tale aspetto lo si coglie con maggior evidenza ove tale valutazione venga condotta su un piano sistematico, ponendo il caso ora prospettato a confronto con la diversa, ma similare, fattispecie di licenziamento per soppressione del posto di lavoro dovuta alla sostituzione del fattore umano con un macchinario, che rende dunque automatizzato tale passaggio produttivo, facendo venir meno la necessità di manodopera. Premessa di tale ragionamento è la considerazione per cui la formulazione di cui all’art. 3 l. n. 604/1966 sia talmente ampia da ricomprendervi all’interno le modifiche non solo dell’attività produttiva e dei mezzi, ma anche della sola organizzazione del personale10, la quale può atteggiarsi in diverse declinazioni. Anche valutando esclusivamente l’ipotesi della soppressione del posto di lavoro, quest’ultima può essere dovuta alla decisione aziendale di cessare lo svolgimento dell’attività afferente a quello specifico reparto produttivo ovvero di esternalizzare l’attività o di ripartire le mansioni fra le unità lavorative rimaste in forza ovvero avocandole in capo a sé, senza necessità di retribuire un dipendente, o infine, di introdurre nuove tecnologie che sostituiscano la manodopera. Minimo comune denominatore di tali fattispecie è l’apprezzabile riduzione dei costi divisata dall’azienda. Nulla viene eccepito in ordine a tali ipotesi di licenziamento, le quali vengono pacificamente considerate legittime, ove venga ravvisata l’effettività delle ragioni addotte e la sussistenza del nesso di causalità fra queste e la risoluzione del rapporto. Se dunque viene ritenuto legittimo il licenziamento attuato in forza dell’esternalizzazione dell’attività ovvero
finalizzata ad una più economica gestione dell’impresa, il licenziamento deve precedere e non seguire il nuovo assetto finale dell’impresa. Di conseguenza, non è necessario che l’avvenimento giustificativo del recesso risulti sussistente già al momento dell’intimazione del licenziamento, dovendosi ritenere comunque legittimo e giustificato il licenziamento intimato in vista del futuro riassetto aziendale anche se tale riassetto sopravvenga nel corso o al termine del periodo di preavviso (Cass., 24 agosto 2005, n. 3848, in OGL, 2005, I, 335 ss.). 10 Ferraresi, op. cit.; M.T. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, in F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Cedam, 2005, 10 ss.
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dell’introduzione di macchinari che rendano automatizzate talune attività produttive, in entrambi i casi motivato dall’intento di incrementare i profitti, non si comprende come non possa del pari esser ritenuta meritevole, e dunque immune da censure, la scelta datoriale di sostituire una risorsa lavorativa con un’altra reputata meno costosa ovvero più efficiente. Anche in quest’ultimo caso la determinazione datoriale si fonderebbe sull’esigenza di riduzione dei costi ovvero di aumento della competitività, produttività ed efficienza. Eppure la giurisprudenza distingue ontologicamente le due fattispecie, reputando illegittima l’ipotesi di recesso motivato dall’obiettivo imprenditoriale di conseguire un risparmio in termini di riduzione del costo del personale11. Vi è dunque una contraddizione o se non altro una discrasia nel legittimare, da un lato, il licenziamento dettato dalla necessità di attuare una più economica gestione dell’impresa o addirittura dal mero intento di massimizzazione dell’utilità aziendale per il tramite di un incremento dei profitti, che in ipotesi può essere ottenuto anche attraverso una riduzione dei costi (anche del personale), e dall’altro lato censurare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo funzionale alla sostituzione del dipendente ritenuto troppo costoso o inefficiente rispetto agli standard produttivi aziendali. Sino a tal momento si era ritenuto che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo potesse esser integrato anche da un «riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni non meramente contingenti influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario». Addirittura la giurisprudenza di legittimità osservava come fosse irrilevante «la modestia del risparmio in rapporto al bilancio aziendale, in quanto, una volta accertata l’effettiva necessità della contrazione dei costi in un determinato settore di lavoro, ogni risparmio che sia in esso attuabile si rivela in diretta connessione con tale necessità e quindi da questa oggettivamente giustificata»12. Se con la pronuncia in commento è venuta meno, quale requisito essenziale ai fini della legittimità della tipologia di recesso de quo, la necessaria sussistenza di una situazione economica negativa a cui ancorare la validità del licenziamento, nulla in thesi esclude che la giurisprudenza rimediti anche il proprio convincimento in ordine all’impossibilità di perseguire un maggior profitto in termini di riduzione del costo del personale per il tramite della sostituzione di un dipendente con un’altra risorsa meno onerosa. Tuttavia, portando alle estreme conseguenze una tale postura ermeneutica ci si avvede del fatto che ne viene del tutto destrutturata la fattispecie, ampliando notevolmente i margini concettuali e di operatività del recesso, consentendo al datore di procedere alla risoluzione del rapporto per qualsivoglia ragione che venga addotta come “aziendale”. La lettura evolutiva sin qui proposta, infatti, non si pone come un atto di condivisione delle conclusioni a cui potenzialmente si giungerebbe, bensì come monito. Nulla peraltro esclude che la posizione assunta dalla Cassazione nella
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Secondo la Cassazione «In tal caso infatti – ha affermato la Corte – il recesso non si inserisce in una diversa organizzazione aziendale intesa al mantenimento o al potenziamento del livello di produttività o di competitività dell’azienda, essendo invece unico obiettivo dell’imprenditore quello di conseguire un risparmio attraverso la sostanziale elusione degli obblighi contrattuali assunti nei confronti del personale dipendente» (Cass., 17 marzo 2001, n. 3899, in OGL, 2011, I, 374 ss.). 12 In tal senso Cass., 24 febbraio 2012, n. 2874, in GC Mass., 2012, 220 ss.
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pronuncia in commento, ancorché riferita ai limiti concettuali ed operativi della causale del giustificato motivo oggettivo, possa riverberarsi anche sulla ricostruzione giurisprudenziale dell’obbligo di repêchage, il quale, seppur assolutamente distinto dalle ragioni poste a fondamento del recesso ed elemento estraneo agli estremi costitutivi della causale in parola, costituisce comunque un dato strettamente connesso ed al cui adempimento viene subordinata la legittimità stessa del licenziamento. Debbono dunque essere attentamente ponderate le effettive conseguenze interpretative ed applicative della pronuncia, giacché sorge il dubbio che diversamente operando nemmeno i limiti dell’effettività e della sussistenza del nesso di causalità possano fungere da deterrente ed elemento di per sé sufficiente ad escludere un abuso del potere di recesso imprenditoriale. Se dunque il passaggio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da extrema ratio a strumento imprenditoriale può presentare intrinseche meritevolezze, se non altro per la necessità di adattare il contesto normativo e giurisprudenziale al mutato quadro economico, sociale e produttivo, ciò che deve essere scongiurato è il travalicamento dei limiti del legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali, rectius il loro sviamento e l’utilizzo del recesso come strumento attraverso cui perseguire la massimizzazione dell’utilitas aziendale a totale discapito della tutela del posto di lavoro. Se così fosse, allora, non vi sarebbero ragioni per non accogliere le proposte di cui parte della dottrina è fautrice da anni13, volte all’introduzione anche nel nostro ordinamento giuridico del c.d. firing cost, come costo predeterminato che il datore deve necessariamente affrontare nel caso in cui voglia dismettere un proprio dipendente per giustificato motivo oggettivo. Amara conclusione, certamente espressione del fatto che il diritto del lavoro allo stato attuale, per come confezionato dal legislatore delle ultime riforme e modellato dalla giurisprudenza, sia sempre più fortemente intriso delle coordinate proprie della laws and economics. Ancora una volta, infatti, il diritto del lavoro risulta piegato alle presunte esigenze dell’economia e la disciplina del licenziamento viene valutata anch’essa nell’ottica della sua efficienza rispetto ad obiettivi economici aziendali, come se la forza lavoro potesse essere messa sul piano della bilancia con altri fattori produttivi in una complessiva analisi di costi e benefici, ove l’unico dictat sono i prezzi del mercato. Silvia Ortis
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Fra tutti Ichino, Una riforma profonda del diritto del lavoro e del mercato del lavoro, in www.pietroichino.it.
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Giurisprudenza Corte d’appello di Caltanissetta, sentenza 29 novembre 2016; Pres. Catalano – Est. Sabella – Bolle 96 S.r.l.. (avv. Infantino) c. M. F. R. (avv. Lo Giudice). Apprendistato – termine d’impugnazione – formazione a tempo determinato – tempo indeterminato – licenziamento lavoratrice-madre – nullità – reintegra.
È legittimo il licenziamento dell’apprendista in regime d’irrecedibilità per maternità, tempestivamente e legittimamente intimato alla scadenza del periodo formativo, poiché il rapporto formativo aveva comunque esaurito la sua efficacia.
Svolgimento del processo – Con ricorso ex art. 1 comma 47 della legge 92/2012 depositato il 29 maggio 2015 X adiva il giudice del lavoro del Tribunale di Caltanissetta deducendo: –– di essere stata assunta dalla Bolle 96 Srl con contratto di apprendistato professionalizzante full time, con qualifica di apprendista commessa, livello VI, del CCNL del Commercio con scadenza prevista per l’1.2.2014; –– che tale contratto era stato prorogato sino al 12.11.2014; –– che la Società le comunicava, in data 14.10.2014, la volontà di recedere dal rapporto di lavoro con decorrenza dal 12.11.2014; –– che in data 22.10.2014 ella formulava una richiesta di interdizione dal lavoro, perchè in stato di gravidanza, ai sensi dell’art. 17, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 151/2001 per il periodo compreso dal 22.10.2014 al 20.11.2014; –– che la Società prendeva atto della superiore situazione e sospendeva gli effetti del provvedimento di cessazione del rapporto di lavoro; –– che il 21.11.20141 la lavoratrice trasmetteva un nuovo provvedimento di interdizione dal lavoro che le era stato riconosciuto per il periodo dal 21.11.2014 all’1.1.2015, sempre ai sensi del citato art. 17, comma 2, lett, a) del d. lgs. n. 151/2001; –– che la Società confermava, con nota del 21.11.2014, la sospensione degli effetti del provvedimento di cessazione del rapporto di lavoro; –– che, tuttavia, in data 22.12.2014, la resistente revocava i provvedimenti di sospensione del recesso del 14.10.2014 e 21.11.2014 comunicava l’immediata cessazione del rapporto di lavoro; –– che ella impugnava tempestivamente, con lettera del 19.1.2016, l’atto di recesso per ultimo citato;
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che l’INPS aveva riconosciuto il congedo per maternità sino a1 2.3.2015. Ciò premesso, chiedeva, in via principale, che fosse dichiarato nullo il provvedimento di licenziamento impugnato, per violazione delle disposizioni di cui all’art. 54, comma l, del d. lgs, n. 151/2001, in quanto comminato dalla Società nei confronti della lavoratrice in stato di gravidanza e, conseguentemente, la condanna di quest’ultima a reintegrarla, ai sensi dell’art. 18, comma 2, della l. n. 300/1970, nel posto di lavoro e a corrisponderle un risarcimento del danno in misura non inferiore alle cinque mensilità dedotto l’aliunde perceputum; in via subordinata e previa declaratoria di invalidità del recesso, la condanna della Società alla reintegra nel posto di lavoro e al versamento di una indennità risarcitoria non inferiore a 12 mensilità ai sensi dell’art, 18, comma 4, della L. n. 300/1970 ovvero di una indennità pari a 24 mensilità; ai sensi dell’art. 18, comma 5, della I. n. 300/ 1970 o, ancora, pari a 12 mensilità ai sensi dell’art, 18, comma 6, della I. n, 300/1970 o, in ultima istanza, corrispondente a 6 mensilità ai scnsi dell’art. 8, della l. n. 604/1966. Si costituiva la società datrice di lavoro, chiedendo, in via preliminare la declaratoria di inammissibilità delle domande proposte da controparte per intervenuta cessazione del rapporto di lavoro intercorso a seguito del provvedimento di licenziamento del 14.10.2014 in quanto non impugnato nel termine decadenziale previsto dall’art. 6 della l. n. 604/1966. In via subordinata chiedeva l’accertarnento della natura di contratto di lavoro subordinato a termine intercorso tra le parti e la declaratoria di decadenza, ai sensi dell’art. 32 della l. n. 183/2010, dall’impugnativa del contratto a termine e di annullamento degli atti di sospensione del 22.10.2014 e del 20.11.2014 degli effetti del recesso dcl 14.10.2014. Nel merito insisteva per il rigetto delle domande tutte spiegate.
Giurisprudenza
Con ordinanza del 27.10.2015 il Tribunale di Caltanisetta, in accoglimento parziale del ricorso, dichiarava a nullita del licenziamento del 22.12.2014 intimato per violazione delle disposizioni di cui all’art. 54, comma 1, del d. lgs. n. 151/2001 e, ritenendo non possibile la reintegrazione della ricorrente nel posto del lavoro, facendo applicazione analogica del terzo comma di cui all’art. 18 Stat.. Lav,, condannava la Bolle 96 s.r.1. a pagare alla lavoratrice un’indennità pari a quindici mensilita dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre al risarcimento del danno conseguente il licenziamento nella misura delle retribuzioni parametrate al residuo periodo lavorativo di completamento dell’apprendistato a titolo di risarcimento danni ex art. 1223 c.c., oltre alla refusione delle spese di lite. Avverso la predetta ordinanza proponeva opposizione la società datrice di lavoro, sostenendo la decadenza dall’impugnativa del licenziamento; la natura a termine del contratto concluso tra le parti; l’erroneità dell’ordinanza relativa all’applicazione dell’art. 18, comma 2, L. 300/70 limitatamente alla determinazionc del risarcimento del danno. Si costituiva la lavoratrice, che ribadiva le difese svolte nella prima fase, concludendo per la conferma dell’ordinanza impugnata. Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Caltanissetta, con sentenza n. 271/2016 del 10.7.2016, in parziale accoglimento dell’opposizione, ribadiva la dichiarazione di nullità dcl recesso intimato da Bolle 96 s.r.l. a X in data 22.12.2014 e, per l’effetto, ordinava a Bolle 96 s.r.1. di reintegrarla nel posto di lavoro, con le medesime mansioni per il residuo periodo di apprendistato, condannando altresì la società datrice di lavoro al pagamento in favore dell’opposta di un’indennità risarcitoria commisurata a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, compensando le spese. Avverso detta sentenza proponeva reclamo ex art. 1, comma 58, 1. 92/2010 la Bolle 96 s.r.1., per i motivi che saranno appresso esaminati. X si costituiva in giudizio, resistendo al gravame, chiedendone il rigetto. All’udienza del 23.11.2016 la causa veniva discussa dalle parti. Indi, alla stessa udienza la causa è stata assunta in riserva ai sensi 2 dell’art. 1, comma 60 legge 92/2012. Motivi della decisione – Con il primo motivo di reclamo, la Bolle ‘64 s.d. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 416 e 420 cpc e dell’art. 1 l. n. 92/2012 nella parte in cui la sentenza impugnata ha statuito la reintegra della ricorrente nel posto di lavoro, pur non potendo più farlo, trattandosi di domanda rigettata dal Giudice
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della prima fase con ordinanza opposta, non riproposta dalla ricorrente nella memoria di costituzione e anzi addirittura abbandonata, avendo ella chiesto in sede di giudizio di opposizione la mera conferma del provvedimento opposto in ogni sua parte e, quindi, anche in quella in cui la domanda avente a oggetto la reintegra era stata rigettata. Con il secondo motivo, la reclamante deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della l. n. 300/1970 nella parte in cui la.sentenza impugnata ha ordinato la reintegrazione della reclamata per il periodo di 21 giorni successivi alla pronunzia – nonostante avesse accertato la validità della disdetta/recesso con preavviso del 14.10.2014 i cui effetti erano stati sospesi con le note 22.10.2014 c del 22.11.2014 e ripreso a decorrere a seguito dell’annullamento della lettera del 22.12.2014, successivamente allo spirare del termine di sospensione (1.1.2015) stabilito con la nota del 22.11.2014 – mentre, invece, avrebbe solo ed eventualmente potuto condannare la reclamante a corrispondere alla sig.ra X il risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dovuta per i 21 giorni lavorativi residui di preavviso al termine del quale il recesso del 14.10.2014, sospeso sino all’l.1.2015, aveva ricominciato a produrre i suoi effetti estintivi a seguito dell’annullamento della lettera di recesso del 22.12.2014, risarcimento, peraltro, non dovuto in quanto già compreso in quello minimo delle cinque mensilità previsto dall’art. 18 della 1. n. 300/ 1970. Con il terzo motivo la reclamante deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha qualificato la lettera del 22.12.2014 come licenziamento, trattandosi invece di mera comunicazione con la quale la Bolle ‘96 s.r.l. revocò la sospensionc degli effetti dell’originario atto di recesso del 14.10.2014 – disposta con le note del 24.10.2014 e del 21.11.2014 – e dichiarò cessato il rapporto di apprendistato in forza delle lettere del 14.10.2014, ora per allora, con la conseguenza che l’atto risolutivo del rapporto era da ritenere non la lettera del 22.12.2014 bensì quella del 14.10.2014 e che la sig.ra avrebbe dovuto impugnare la predetta nota del 14.10.2014 nella misura in cui la riteneva nulla, in quanto adottata in violazione del divieto di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 151/200 l. Da ciò conseguirebbe l’intervenuta decadenza dell’azione per omessa impugnazione dell’unico atto di recesso costituito dalla nota del 14.10.2014. Con il quarto motivo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata anche nella parte in cui ha dichiarato la nullità della nota del 22.12.2014, qualificata di licenziamento, per violazione dell’art. 54 comma 1 del d.lgs. n. 151/2001, stante che la reclamata si trovava in stato di gravidanza, non ritenendo applicabile al caso di specie l’eccezione di cui al comma 3, lett. c) della medesima disposizione pre-
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vista per i contratti a termine, violando così anche il disposto di cui all’art. 1362 c.c., nella misura in cui ha ritenuto che il contratto di lavoro di apprendistato concretamente instaurato tra le parti non fosse a tempo determinato, cosi come invece chiaramente pattuito dai contraenti. Con il quinto e ultimo motivo infine, la reclamante si duole del fatto che i1 giudice della sentenza impugnata non abbia preso in considerazione l’eccezione di invalidità degli atti del 24.10.2014 e del 22.11.2014 – con i quali era stata disposta la sospensione degli effetti del recesso del 14.10.2014 e che sarebbero viziati ex art. 1429 c.c. dall’errore di diritto in cui la società. datrice di lavoro sarebbe incorsa nel ritenere che il rapporto di lavoro instaurato tra le parti fosse a tempo indeterminato che quindi lo stato di gravidanza della lavoratrice sospendesse gli effetti dell’intimato preavviso del recesso – con la conseguenza che, trattandosi di errore palesemcnte riconoscibile dalla controparte e producendo il chiesto annullamento degli atti di sospensione in discorso effetti retroattivi, il rapporto dovrà ritenersi cessato dal 12.11.2014, giusta quanto previsto dalla lettera di recesso del 14.10.2014. Le superiori doglianze sono, ad avviso della Corte, fondate, solo parzialmente e solo con riguardo ai profili che saranno evidenziati. E, invero, la vicenda rassegnata dalle parti in lite, a dispetto della frammentazione dei motivi spesi a sostegno dell’odierno reclamo, si presta a una univoca ricostruzione, fattuale e giuridica, nei termini che seguono, facendosi all’uopo applicazione dei più recenti e condivisibili orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità nella materia dei contratti di lavoro riconducibili alla nozione di “tirocinio” • apprendistato e formazione e lavoro - e della applicabilità ad essi della disciplina generale dettata dall’ordinamento a tutela del lavoratore con riferimento al contratto a tempo indeterminato. Nella specie, come appare evidente alla stregua della pacifica ricostruzione dei fatti rassegnata dalle parti, il problema portato all’attenzione di questa Corte quello della natura giuridica da riconoscere al contratto di apprendistato stipulato tra le stesse in data 15.8.2010 e della applicabilità ad esso della disciplina generale dettata a protezione delle lavoratrici madri dall’art. 54 comma l del d.lgs. n. 151/2001, con conseguente obbligo in capo alla parte datoriale di sospendere gli effetti del recesso eventualmente intimato fino al termine del periodo di congedo per maternità. Sostiene, in buona sostanza, al riguardo, la reclamante che, connotandosi il contratto di apprendistato stipulato tra le parti quale contratto a termine – consentendolo la normativa all’epoca applicabile prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 167/2011 il cui art. 1 sancì, per 1a prima volta, il
principio che:”l’apprendistato e un contratto di lavoro a tempo indeterminato” allo stesso non poteva ritenersi applicabile la disciplina del divieto di licenziamento di cui all’art. 54 comma 1 del d.lgs. n. 151/2001, escludendolo espressamente il comma 3 dello stesso articolo, con la conseguenza che il rapporto instaurato tra le parti doveva ritenersi legittimamente concluso alla data del 12,11.2014 per effetto della disdetta altrettanto legittimamente data ai sensi di legge e nel rispetto dei termini di preavviso con la comunicazione del 14.10.2014, non dovendo in ogni caso farsi luogo alla sospensione degli effetti del recesso a seguito della comunicazione da parte della lavoratrice dei provvedimenti di interdizione per maternità – suspension invece erroneamente disposta dalla società datrice di lavoro -garantendo, del resto, l’art. 24, comma 1 del citato D.lgs. alla prestatrice il cui rapporto sia cessato ai sensi del predetto art. 54, comma 3, lett. c), di godere dell’indennità di maternità ivi prevista anche per il periodo successivo all’intervenuta estinzione del rapporto. La superiore ricostruzione non può essere condivisa, fondandosi essa su una erronea qualificazione giuridica del contratto di apprendistato che, in realtà, anche con specifico riferimento a quello dedotto in giudizio e sulla base della disciplina legale, anteriore a quella del 2011, allo stesso applicabile ratione temporis, non può ricondursi alla specie del contratto a tempo determinato per il quale opera l’eccezione prevista dall’art. 54 comma 3 del d.lgs. n. 151/2001 in tema di applicazione della disciplina sul divieto di licenziamento delle lavoratrici madri. Come infatti rilevato fin da Cass. Sez. I, Sentenza n. 9630 del 2000:”per il rapporto di apprendistato il quale originariamente era assoggettato al regime della libera recedibilità, posto che l’art. 10 della legge n. 604 del 1966 escludeva, implicitamente, gli apprendisti dal regime di cui alla succitata legge – occorre coordinare l’art. 19 della legge 1955 n. 25 (secondo il quale, qualora al termine del periodo di apprendistato non sia data disdetta a norma dell’art. 2118 cod. civ., l’apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità) con la pronuncia della Corte Costituzianale n. 169 del 22 navembre 1973, che ha dichiarata l’illegittimità dell’art. 10 citato nella parte in cui escludeva gli apprendisti dall’applicabilità della legge n. 604/ 1966, così assoggettando al regime del recesso causale anche il licenziamento dell’apprendista e, nondimeno, riconoscendo – contemporaneamente – che resta integra la facoltà det datore di lavoro di avvalersi del recesso di cui all’art. 19 della legge n. 25 del 1955 e, quindi, di dare disdetta a norma dell’art. 2118 cod. civ. al termine det periodo di apprendistato. Dal coordinamento, risulta, perciò, che il rapporto di apprendistato, pur rientrando nell’area del reces-
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Giurisprudenza
so causale, va annoverato tra le eccezionali ipotesi di libera recedibilità in ragione dell’anzidetta facoltà di recesso ad nutum, che permane immutata al momento della cessaziane del periodo di apprendistato, al momento cioè, in cui, in mancanza di disdetta il rapporto si trasforma in normale rapporta di lavora subordinato a tempo indeterminato. La successiva giurisprudenza di legittimità si è adeguata a tale ricostruzione della normativa, consolidandosi il principio secondo cui durante lo svolgimento del rapporto di apprendistato trova applicazione la normale disciplina limitativa dei licenziamenti individuali e, pertanto, il recesso del datore di lavoro può avvenire esclusivamente nei casi previsti in generale per il rapporto di lavoro subordinato e nei limiti stabiliti dalla legge n. 604 del 1966 e dall’art.18 legge n. 300 del 1970; invece, al termine del periodo di apprendistato, i1 datore di lavoro può sempre recedere ad nutum nel caso in cui non intenda proseguire i1rapporto non più speciale, ma ricondotto a normalità. Tuttavia, proprio la specialità della struttura causale che connota il contratto di apprendistato consente in ogni caso di escludere la sua riconducibilità allo schema del contratto a termine, “trattandosi di tipologie di rapporto di natura speciale, dotate di un proprio, peculiare, regime di recesso e delle sue conseguenze (cfr. Cass. Sez. I, Sentenza n. 20357 del 28/09/2010). Escluso che l’apprendistato possa considerarsi tout court, così come preteso dalla reclamante, un mero contratto a termine. sussistono invece convincenti argomenti per ritenere al contrario, che essa vada sussunto ad ogni fine di legge, proprio a causa delle sue peculiarità, sotto la disciplina generale del contratto di lavoro a tempo indeterminato, pur se connotato, come detto, relativamente alla prima fase del suo sviluppo, dalla libera recedibilità – o meglio della disdettabilità a norma dell’art. 2118 cod. civ. – con preavviso. Come infatti ritenuto da recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sez. I. n. 5051/2016) le cui argomentazioni questa Corte ritiene di dovere condividere in toto, il contratto di apprendistato – anche secondo la disciplina dettata dalla L. 19 gennaio 1955, n. 25 applicabile ratione temporis al rapporto dedotto in giudizio – dà origine ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, costituito dalla sequenza di due fasi distinte, di cui la prima è contraddistinta da causa mista, posto che al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge, con funzione specializzante, lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale, a cui sono connesse l’obbligazione del datore di lavoro di impartire idoneo insegnamento e dell’apprendista di fornire la cooperazione necessaria alla sua più utile attuazione; e la seconda – configurata come eventuale, dipendendo dal mancato esercizio, da parte del datore di lavoro, del diritto di recesso legalmente attribuitogli dall’art. 19 l. cit. – assimilabile in ogni aspetto ad un ordinario rap-
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porto di lavoro subordinato. In tal senso è la previsione normativa della disdetta ai sensi dell’art. 2118 c.c., e cioè con periodo di preavviso, istituto corrispondente all’esigenza, propria di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di evitare che la parte che subisce il recess si trovi di fronte improvvisamente alla rottura del contratto, ma abbia, in caso di licenziamento, la possibilità di procurarsi un’altra occupazione e di ricercare. nel caso di dimissioni, un idoneo sostituto nel mercato del lavoro. ln tal senso converge altresì e univocamente la seconda parte della disposizione, là dove stabilito, nel caso di mancato esercizio del diritto potestativo. che l’apprendista “è mantenuto in servizio con 1a qualifica conseguita mediante le prove di idoneità ed il period di apprendistato è considerate utile ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore. Tali previsioni, infatti, dimostrano come il termine finale della formazione professionale non identifichi un termine di scadenza del contratto, che, pertanto, non può ritenere a tempo determinato, e come, in assenza di disdetta, vi sia continuazione di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sia pure spogliato della complessità iniziale e ricondotto alla causa tipicamente afferente alla sua forma ordinaria. A tale stregua non può trovare ingresso la deduzione della reclamate secondo la quale il contratto di apprendistato stipulato con la sig.ra X il 15.8.2015 avesse comunque natura di contratto a termine per espresso volontà delle parti, come si evincerebbe dalla sua intestazione e dalla lettera, essendo come appena rilevato perfettamente conforme alla struttura di tale tipologia di negozio, ed anzi addirittura necessaria, la previsione di un termine di durata dell’apprendistato, spirato il quale la parte datoriale deve in ogni caso decidere se esercitare o meno il diritto potestativo riconosciutogli dalla legge di dare disdetta, nel rispetto del termine di preavviso, che è esattamente quanto pacificamente avvenuto nel caso di specie in cui la Bolle ‘96 s.r.1. con 1a lettera del 14.10.2014 ha comunicato non la cessazione del contratto per scadenza del termine originariamente previsto, ma la volontà di interrompere il rapporto alla prevista scadenza dell’apprendistato, non procedendo alla definitiva assunzione della lavoratrice con ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato: “non essendo nostra intenzione proseguire il rapporto di lavoro, le comunichiamo che lo stesso giusto prevviso contrattuale del 16.10.2014 cesserà. alla data del 12.11.2014” (v. lettera del 14.10.2014 in atti). Ne consegue, ad avviso della Corte, che il contratto di lavoro stipulato tra le parti deve ritenersi un comune contratto di apprendistato, in ogni caso non riconducibile alla specie del contratto a tempo determinate ma qualificabile, alla luce di quanto sopra detto, e della sua peculiar struttura causale quale contratto a tempo determinate che sfugge in quanto tale, all’ec-
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cezione prevista dall’art. 54 comma 3) del D.Lgs. n. 151/2001 in punto di applicazione della disciplina sul divieto di licenziamento delle lavoratrici madri dettata dal comma l) dello stesso articolo. Vengono perciò meno le questioni poste dalla difesa della società reclamante sulla rilevanza del termine apposto al contratto e sulla eccepita decadenza ai sensi dell’art. 32 della I. n. 183/2010, così come pure quelle relative alla dedotta annullabilità per errore di diritto degli atti del 24.10.2014 e del 22.11.2014 con i quali era stata disposta la sospensione degli effetti del recesso del 14.10.2014 sul presupposto della natura di contratto a tempo indeterminato del contratto di apprendistato dedotto in giudizio. Ne consegue, inoltre, necessariamente, che, prima del definitivo spirare del termine previsto per il completamento della formazione professionale del lavoratore, al rapporto di apprendistato si applicherà la disciplina legale prevista per i contratti a tempo indeterminato, ivi compresa quella dettata a tutela delle lavoratrici madri di cui al sopra citato D.Lgs. n.151/2001, con conseguente obbligo, in quest’ultimo caso, di sospendere 1a vigenza del rapporto in caso di lavoratrice posta in interdizione a causa della gravidanza, e cessazione del rapporto solo dopo la fine del periodo di sospensione, sempre che 1a parte datoriale eserciti il diritto potestativo di recesso riconosciutogli dalla legge, poichè, in caso contrario il rapporto non potrebbe ritenersi interrotto in virtù di un licenziamento dichiarato nullo e, pertanto, privo di effetti solutori, con conseguente diritto del lavoratore alle retribuzioni spettanti fino al verificarsi di una successiva, legittima, causa di risoluzione del rapporto e non fino alla prevista scadenza del periodo di apprendistato. Nel caso di specie, la società Bolle 96 ha esercitato tale diritto potestativo, manifestando, del tutto legittimamente, con la sopra più volte citata nota del 14.10.2014, la volontà di recedere dal rapporto lavorativo, al termine del periodo di apprendistato fissato per il 12.11.2014. Tuttavia, avendo prima che l’apprendistato cessasse, la lavoratrice comunicato l’interdizione dal lavoro per il suo stato di gravidanza, prima fino al 20.11.2014 e poi fino al 1.1.2015, giusti certificati trasmessi alla società, il datore di lavoro avrebbe dovuto, come del resto fatto in un primo momento, sospendere gli effetti del recesso del 14.10.2014, trovando certamente applicazione, nella specie, per le ragioni spiegate, la disciplina di cui all’art. 54 comma 1) del D.Lgs. n. 151/2001, fino alla cessazione dell’interdizione. Avendo poi, invece comunicato con la nota del 22.12.2014, la cessazione del rapporto lavorativo a seguito dell’erronea revoca dei provvedimenti di sospensione degli effetti de1 recesso del 14.10.2014, la Bolle ‘96 s.r.l. ha dunque di fatto indubbiamente intimato un licenziamento deteminando proprio al 22.12.2014 la cessazione del rapporto lavorativo, recesso che è stato tempestiva-
mente impugnato dalla X con conseguente infondatezza anche dell’eccezione di decadenza dall’impugnativa del licenziamento avanzata da parte reclamante, non essendovi alcuna ragione di impugnare nè il recess del l4.l0.2014, che era perfettamentc legittimo, non. necessitando alcuna particolare giustificazione se non quella relativa alla libera scelta imprenditoriale, costituzionalmente tutelata, di non avvalersi delle prestazioni del 1avoratore che aveva formato, nè il termine apposto al contratto di apprendistato, non essendo esso equiparabile, per le ragioni spiegate, a un comune termine di durata, assoggettato alla relativa disciplina. Se la nota del 22.12.2014 va, dunque, correttamente qualificata, alla stregua di quanto ritenuto anche dal giudice in seno alla sentenza oggi. oggetto di reclamo, come comunicazione di licenziamento e se al contratto di apprendistato deve ritenersi pienamente applicabile la disciplina. legale sul divieto di licenziamento, ne consegue che il suddetto recesso deve necessariamente ritenersi nullo ai sensi dall’art. 54, comma 5, D.Lgs. 151/2001, in quanto intimato in violazione del divieto di licenziamento previsto dal comma 1 della medesima norma. Quanto alle conseguenze che derivano da tale nullità, deve ritenersi corretta Ia decisione del giudice dell’opposizione che, riformando sul punto l’ordinanza opposta, ha ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 18, comma l) della legge n. 300/70, che, per la sua formulazione generale, si applica a tutti i datori di lavoro e che non lascia al decidente alcuna alternativa ermeneutica, non potendo derivare dalla declaratoria di nullità del recess se non la “la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”. Al riguardo, non può trovare accoglimento neanche l’ulteriore eccezione sollevata dalla reclamante, secondo la quale non sarebbe possibile, anche in questa sede, la pronuncia di una statuizionc di reintegra della X nel posto di lavoro, per effetto delle difese dalla stessa svolte nella precedente fase: di opposizione e in quanto limitate alla conferma dell’ordinanza opposta che, ammettendo solo una tutela risarcitoria a favore della ricorrente, aveva invece espressamente escluso la suddetta tutela reintegratoria. Ritiene, infatti, la Corte di dovere condividere le motivazioni spese sul punto dal giudice della sentenza reclamata nel ribadire che il giudizio di opposizione nel rito di cui alla legge 92/2012 è un ordinario giudizio a cognizione piena e costituisce una “prosecuzione del giudizio di primo grado” a fase sommaria (cosi Corte Cost, 78/2015), avente ad oggctto la verifica della legittimità o meno del licenziamento, costituendo poi le conseguenze che derivano da una eventuale declaratoria di illegittimità oggetto di valutazioni giurisdizionali che non possono che tenere conto delle previsioni normative in materia, non essendo neanche
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potere del giudice ricollegare a una fattispecie di licenziamento illegittimo conseguenze diverse da quelle legalmente previste ovvero escludere quelle tipizzate. Ne soccorrono, in senso contrario, le massime giurisprudenziali citate in seno all’atto di reclamo. La sentenza della Corte Costituzionale n. 78 del 13.5.2015, infatti, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3, 24 e 111 Cost., degli artt. 51, comma 1, n, 4, cod. proc. civ. e 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92, i quali, nel disciplinare il nuovo rito impugnatorio dei licenziamenti individuali, stabiliscono che l’opposizione avverso l’ordinanza che decide in via semplificata sul ricorso del lavoratorc debba essere depositata dinanzi al Tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, senza prevedere l’obbligo di astensione per il magistrato investito dell’opposizione ove abbia pronunciato l’ordinanza, ha semplicemente ricostruito la netta diversità che sussiste tra la disciplina processuale assunta a tertium comparationis – ossia quella del reclamo contro i provvedimenti cautelari di cui all’art. 669- terdecies cod, proc. civ. – e quella in esame, che, a differenza della prima, prevede una prima. necessaria, fase sommaria ed informale e una successiva, eventuale. fase a cognizione piena che non verte sullo stesso oggetto dell’ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso “semplificato”, e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili) nè è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purchè fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali. Ciò esclude, secondo la Corte Costitultionale, che la fase oppositoria possa configurasi come la riproduzione dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta, e, dunque, come un altro grado del processo rispetto al quale sarebbe da ritenersi sussistente l’obbligo di astensione. Tuttavia, diversamente da quanto arguito dalla reclamante, la Corte non ha affatto rllevato che l’oggetto del giudizio di opposizione non è identico a quelle della fase sommaria in quanto potrebbe essere modificato solo nei limiti delle domande originariamente spiegate – trattandosi di una conclusione imputabile alla personale interpretazione datane dalla stessa reclamante che non trova alcun risconto nell’impianto motivazionale della sentenza in commento – limitandosi per converso a fare riferimento al fatto che tale giudizio potrebbe ben avere un oggetto più esteso, e non certamente e al contrario meno ampio, di quello sommario che lo ha preceduto, sia sotto un profilo soggettivo che sotto quelle oggettivo, in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale.
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Analoghi principi sono ricavabili poi dalla sentenza della Corte di Cassazione n.3836/2016, parimenti citata dalla reclamante a supporto della sua eccezione, che – nel rilevare che non è possibile ipotizzare la formazione del giudicato su alcune statuizioni e non su altre della ordinanza, atteso che quest’ultima è destinata ad acquisire il carattere della definitività nella sola ipotesi in cui l’opposizione non venga promossa, e che, di conseguenza non può operare il principio del divieto di reformatio in peius, discendendone che, qualora all’esito della fase sommaria, la domanda di impugnazione del licenziamento venga accolta solo parzialmente la instaurazione del giudizio di opposizione ad opera di una delle parti consente all’altra di riproporre con la memoria difensiva la domanda o le difese non accolte, e ciò anche nella ipotesi in cui per la parte che si costituisce sia spirato il termine per proporre un autonomo atto di opposizione – ha inteso ribadire quanto già espresso dalla Corte Costituzionale sulla natura non impugnatoria dell’opposizione e sulla possibile diversa ampiezza del giudizio della fase sommaria rispetto a quello della successiva, eventuale, fase di cognizione piena, fermo restando che, in caso di opposizione, non formandosi giudicato su nessuna delle statuizioni dell’ordinanza opposta, la parte parzialmente soccombente non ha alcun onere di promuovere anch’essa opposizione nei termini di legge, potendo limitarsi a riproporre con la memoria difensiva la domanda o le difese non accolte. Nel caso di specie, come detto, oggetto del ricorso “Fomero” e della successiva opposizione era quello della denunciata nullità del licenziamento intimato dalla società reclamante, costituendo poi le relative conseguenze effetti legalmente previsti in relazione al tipo di illegittimità ritenuta dal giudice, domanda sulla quale la lavoratrice ha insistito anche in sede di opposizione, chiedendo la conferma dell’ordinanza all’uopo adottata dal primo giudice in sede sommaria, insistendo evidentemente anche sulla domanda originaria con la quale ella aveva chiesto che dalla pronuncia di nullità derivassero le conseguenze legalmente previste, non necessariamente coincidenti con quelle erroneamente individuate dallo stesso giudice non essendo prerogative della parte scegliere che tipo di conseguenza ricollegare al recess datoriale ritenuto adottato per qualsivoglia motivo, contra legem. Ciò posto, nel caso di specie, alla declaratoria di nullità del licenziamento non può però seguire, diversamente da quanto statuito dal giudice reclamato, la statuizione di reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro ai sensi del disposto di cui all’art.18 comma 1) novellato –a mente del quale “il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perchè (..) intimato (...), in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54; commi I, 6 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità,
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(...) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motive formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro” -non potendo essa di fatto essere realizzata nell’ambito di un rapporto che aveva comunque esaurito la sua efficacia a seguito del recesso tempestivamente e legittimamente intimato dalla parte datoriale, pure con osservanza del termine di preavviso, a conclusione del concordato periodo di tirocinio formativo della lavoratrice che, attese le sopra evidenziate peculirità del rapporto e della sua struttura causale, aveva un termine di conclusione programmato oltre il quale, per volontà del datore di lavoro, esso doveva avere comunque termine. Residua, quindi – in analogia a tutti i casi in cui, dopo l’intimazione del licenziamento nullo o illegittimo, il rapporto cui esso afferisce abbia avuto comunque termine – solo la tutela risarcitoria prevista dal cornma 2 del sopra citato art. 18 che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice della fase sommaria, va quantificata nella misura minima prevista dall’art. 18 pari a cinque mensilità della retribuzione globale del fatto, che assorbe quanto dovuto alla lavoratrice per le retribuzioni relative al periodo di 21 giorni di fatto non lavorate al causa del licenziamento ante tempus nullo. Per tutte le esposte ragioni, in parziale accoglimento del reclamo confermata la nullità del provvedimento di licenziamento del 21.1.2014 per violazione dell’art. 54 del d.lgs. 151/2001, la società reclamante, esclusa ogni possibilità di reintegra va condannata soltanto al paga-
mento di un’indennità risarcitoria pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dalla lavoratrice reclamata. Resta da esaminare la questione relativa alle spese di giudizio. Al riguardo va anzitutto rilevato che la Corte non può prendere posizione in ordine alle spese del giudizio di primo grado. Sono, infatti, da ritenere inammissibili le domande avanzate dalla lavoratrice reclamata di condannare controparte a1 pagamento delle spese di lite afferenti anche alla precedente fase di opposizione e di dichiarare dovute in favore del procuratore distrattario le spese liquidate nell’ordinanza Fornero ammontanti ad euro 4.000,00 oltre accessori, mai corrisposte dalla società e non specificamente compensate dal primo giudice con la pronuncia della fase di opposizione, trattandosi di statuizioni della sentenza reclamata – peraltro quella relativa alla compensazione delle spese evidentemente riferita anche alla fase precedente, come reso palese dalla dizione usata dal giudice: “il parziale difforme esito tra le due fasi giustifica la compensazione delle spese di lite” che avrebbero dovuto costituire oggetto di autonoma impugnazione da parte della reclamata, depositando all’uopo, nei termini di legge, reclamo incidentale. Con riferimento, invece, al presente grado del giudizio, stante il parziale accoglimento del reclamo, le spese liquidate come in dispositivo, vanno. poste per metà a carico della società reclamante e per la restante metà compensate tra le parti (omissis).
Lo strano caso dell’apprendistato: alla ricerca della durata Sommario :
1. Caso di scuola o realtà? Sintesi della vicenda. – 2. Il difficile rapporto tra irrecedibilità per maternità e recesso alla scadenza dell’apprendistato. – 3. Una strategia da considerare? – 4. Una proposta di soluzione al problema.
Sinossi. La cd. lettera di mancata conferma dell’apprendista è una fattispecie di licenziamento che deve sottostare al regime d’irrecedibilità della lavoratrice incinta, non essendo espressamente esclusa dall’art. 54 d.lgs. 151/2001. Tale situazione produce l’effetto di rendere inutile la regola della libera recedibilità dell’apprendistato, al termine del periodo formativo.
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Il termine d’impugnazione del licenziamento decorre dal momento della ricezione del recesso e non dalla sua produzione di effetti, in conformità alla regola dell’art. 6 l. 300/1970.
1. Caso di scuola o realtà? Sintesi della vicenda. La sentenza in commento conclude (temporaneamente) una vicenda dal “gusto strano”. Tra la società-ricorrente e l’apprendista-resistente intercorreva un rapporto di apprendistato professionalizzante, la cui scadenza naturale era fissata nel gennaio 2014 ma era stata prorogata a novembre dello stesso anno, avendo la lavoratrice comunicato di essere in stato interessante1. La giovane apprendista, all’approssimarsi della scadenza del periodo formativo del rapporto di apprendistato, riceveva comunicazione, dal datore di lavoro, dell’intenzione di non proseguire nel rapporto alla scadenza del periodo stesso. Poco dopo aver ricevuto la lettera di licenziamento l’apprendista formulava richiesta d’interdizione dal lavoro (per 30 giorni) perché sussistenti gravi complicanze della gravidanza o di preesistenti forme morbose ai sensi dell’art. 17, comma 2, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (cd. gravidanza a rischio). Ricevuta detta comunicazione, l’azienda provvedeva alla sospensione degli effetti del licenziamento per il periodo stabilito dal Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.). Scaduto il termine di astensione anticipata la lavoratrice otteneva un ulteriore periodo di astensione per i medesimi motivi; anche in questo caso l’azienda sospendeva gli effetti del licenziamento per il periodo di astensione indicato dal S.S.N. Prima della scadenza del secondo termine d’interdizione per cd. maternità a rischio l’azienda comunicava la revoca delle precedenti sospensioni, dunque l’effettività del recesso a far data dalla prima comunicazione. La lavoratrice, esaurito il termine di sospensione del rapporto, impugnava il licenziamento in data 19.1.2016, depositando, nei termini di legge, il ricorso. Nelle proprie difese la società faceva valere due eccezioni. In primo luogo contestava la sopravvenuta decadenza dall’impugnazione del licenziamento, qualificando come atto di recesso la prima comunicazione e non la seconda sospensione. In secondo luogo la società eccepiva la natura di contratto a tempo determinato del rapporto di apprendistato, dovendosi applicare, ratione temporis, la disciplina antecedente l’entrata in vigore del d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167.
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Informazione presente nel dispositivo dell’ordinanza del Trib. Caltanissetta, 27 ottobre 2015, prima fase del primo grado della sentenza in commento. La sentenza è disponibile all’indirizzo http://www.rivistalabor.it/apprendistato-maternita-tregiudici-tre-decisioni-diverse con commento di Besutti.
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2. Il difficile rapporto tra irrecedibilità per maternità e recesso alla scadenza dell’apprendistato.
Partendo da quest’ultima eccezione si può notare subito come la qualificazione dell’apprendistato come contratto a tempo indeterminato, già ammessa per lungo tempo dalla giurisprudenza di legittimità2, sia oggi espressamente prevista dalla legge3. La S.C. ha recentemente ribadito che: «il contratto di apprendistato, quale disciplinato dalla l. 19 gennaio 1955, n. 25 [dà] origine ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, costituito dalla sequenza di due fasi distinte, di cui la prima è contraddistinta da causa mista, posto che al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge, con funzione specializzante, lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale, a cui sono connesse l’obbligazione del datore di lavoro di impartire idoneo insegnamento e dell’apprendista di fornire la cooperazione necessaria alla sua più utile attuazione; e la seconda – configurata come eventuale, dipendendo dal mancato esercizio, da parte del datore di lavoro, del diritto di recesso [...] – assimilabile in ogni aspetto ad un ordinario rapporto di lavoro subordinato».4 A distanza di oltre sessant’anni, dunque, l’apprendistato – resistendo ai continui ritocchi legislativi5 – non ha mutato la sua identità di contratto a tempo indeterminato. Appare chiaro che il termine su cui la reclamante fonda la propria difesa non sia affatto il termine del contratto, bensì quello della formazione. Così stando le cose si ritiene condivisibile la soluzione del giudice del reclamo, nella parte in cui statuisce che: «non può trovare ingresso la deduzione della reclamante secondo la quale il contratto di apprendistato stipulato con la sig.ra R. il 15.8.2010 avesse comunque natura di contratto a termine per espressa volontà delle parti – come si evincerebbe dalla sua intestazione e dalla sua lettera – essendo [...] perfettamente conforme alla struttura di tale tipologia di negozio, e anzi addirittura necessaria, la previsione di un termine di durata dell’apprendistato, spirato il quale la parte datoriale deve in ogni caso decidere se esercitare o meno il diritto potestativo riconosciutogli dalla legge di dare disdetta». La chiara posizione della Corte, più volte rimarcata nel dispositivo, ha permesso di ap-
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In giurisprudenza da ultimo Cass., 19 settembre 2016, n. 18309, in D&G, 2016, 20 settembre; Cass., 28 settembre 2010, n. 20357, in DRI 2011, 1, 121 con nota di Riccio. In dottrina, pur risalenti ma chiarissime le argomentazioni di Suppiej, Apprendista, in Enc. Dir., 1958; più recente di F. Carinci, E tu lavorerai come apprendista, in Brollo (a cura di), Il mercato del lavoro, 2012, in Tratt. CP; D. Garofalo, Tirocinio, in Cagnasso-Vallebona (a cura di), Impresa e lavoro, 2012, in Comm. G; D. Garofalo, Formazione e lavoro tra diritto e contratto. L’occupabilità, Cacucci, 2004. Per la prima volta con l’art. 1 del d.lgs. n. 167/2011, oggi dall’art. 41 del d.lgs. n. 81/2015: «L’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani». Cass., 15 marzo 2016, n. 5051, in LG, 2016, 10, 911 con nota di D. Garofalo. Nel caso di specie, trattasi di apprendistato professionalizzante non artigiano, il cui periodo formativo l’art. 44, d.lgs. n. 81/2015 fissa in massimo 3 anni e che il C.C.N.L. Commercio (“vigente”) fissa in massimo 24 mesi. Evoluzione normativa: l. 19 gennaio 1955, n. 25; l. 28 febbraio 1987, n. 56; l. 24 giugno 1997, n. 196; d.lgs. 10 settembre 2003, 276; d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124; d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167; l. 12 novembre 2011, n. 183; l. 28 giugno 2012, 92.
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plicare l’art. 18, comma 1, l. 20 maggio 1970, n. 300, cd. reintegrazione forte6, tuttavia riconoscendo solo l’indennità risarcitoria (nel minimo di 5 mensilità); infatti: «nel caso di specie, alla declaratoria di nullità del licenziamento non può però seguire [...] la statuizione di reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro ai sensi del disposto di cui all’art. 18 comma 1) [...] non potendo essa di fatto essere realizzata nell’ambito di un rapporto che aveva comunque esaurito la sua efficacia a seguito del recesso tempestivamente e legittimamente intimato dalla parte datoriale». Il giudice ha sostanzialmente ritenuto che il licenziamento intimato fosse nullo, ma che l’effetto della disdetta si fosse comunque prodotto, essendo stati rispettati i termini di preavviso. La questione è allora la seguente: il licenziamento nullo, dunque inefficace, dell’apprendista in regime d’irrecedibilità, come può costituire un’efficace manifestazione della volontà di disdetta? E ancora, la disdetta dal rapporto di apprendistato può sempre essere impedita dallo stato di gestante della lavoratrice, per effetto dell’art. 54, d.lgs. n. 151/2001? La soluzione adottata dalla Corte d’Appello, a mio avviso, rappresenta una discutibile mediazione tra interessi opposti, a discapito del sistema; se il recesso è nullo, quindi improduttivo di effetti, il rapporto di apprendistato dovrà continuare come ordinario rapporto di lavoro, poiché la nullità inficia in radice il negozio giuridico. Per quanto visto, allora, aveva ben statuito per la reintegra il giudice dell’opposizione, tuttavia contraddicendosi con l’affermazione che la stessa operava per il solo periodo di preavviso residuo, dunque fino alla scadenza del periodo formativo, in ragione della (erroneamente) ritenuta ritenuta validità della disdetta. Ebbene, delle due l’una: o il recesso (che lo si voglia chiamare licenziamento o disdetta, sempre un negozio unilaterale recettizio resta) è affetto da nullità perché contra legem, e allora sarà improduttivo di effetti; o era valido sin dall’inizio e allora nemmeno cinque mensilità spettavano alla lavoratrice. Personalmente ritengo, salvo quanto si dirà a breve, che il recesso non doveva produrre alcun effetto; quindi la soluzione più conforme a diritto era quella di reintegrare la lavoratrice e dichiarare che la società non aveva correttamente esercitato la disdetta, che non aveva prodotto alcun effetto, e che il rapporto si era trasformato7. Merita qualche considerazione anche la soluzione del giudice della prima fase del primo grado, il quale aveva ritenuto che la disdetta fosse legittima e non discriminatoria (per ragioni legate alla maternità), in quanto la società aveva confermato la volontà di concludere il periodo formativo prorogando il termine dell’apprendistato. Ritengo che la soluzione non possa essere condivisa poiché il giudice sembra considerare la disdetta fuori dalla sua natura di recesso, quindi di licenziamento, con la conseguenza che anche questa dev’essere qualificata nulla poiché intimata nel periodo protetto, e a poco
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Sulla nozione v. Cester, I quattro regimi sanzionatori del licenziamento illegittimo fra tutela reale rivisitata e nuova tutela indennitaria, in Cester (a cura di), I licenziamenti: dopo la Legge n. 92 del 2012, CEDAM, 2013 Soluzione pacifica già solo ex lege; in dottrina cfr. Facelo, Papa, Art. 2 - Disciplina generale, in Tiraboschi (a cura di), Il T.U. dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Giuffrè, 2011, 200.
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rileva che si sia concessa la sospensione del rapporto, dato che l’irrecedibilità opera (oggettivamente) fino al primo anno di vita del bambino.
3. Una strategia da considerare? La soluzione proposta di ammettere la reintegra piena potrebbe essere completamente ribaltata considerando i fatti nella loro successione temporale: in data 14.10.2014 la società esercitava la disdetta (con preavviso 21 giorni); in data 22.10.2014 l’apprendista chiedeva, ed otteneva, l’interdizione dal lavoro per gravidanza a rischio fino al 20.11.2014; in data 21.11.2014, l’apprendista chiedeva, ed otteneva, un’ulteriore interdizione per il medesimo motivo. In entrambi i casi la società sospendeva gli effetti del licenziamento già disposto. La disdetta, come manifestazione di volontà, dev’essere individuata nel primo negozio, del 14.10.2014; infatti la società, con i successivi atti, conformandosi alle indicazioni del S.S.N., ha sospeso gli effetti del licenziamento già posto in essere. La sospensione del licenziamento non opera sulla manifestazione di volontà (dunque sul licenziamento) ma sulla sua efficacia (sospende il preavviso)8. A suggerire questa conclusione vi sono due argomenti; il primo di carattere logico: l’atto di sospensione presume l’esistenza di un precedente atto, sul quale opera, posticipandone gli effetti. Sicché solo il primo atto consiste in una manifestazione della volontà di recedere, laddove gli altri la presuppongono e la confermano. Il secondo elemento è normativo: stabilisce l’art. 6, comma 1, l. 15 luglio 1966, n. 604 che: «il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta [...]» (corsivo mio). Applicando il disposto alla lettera, si deve individuare il licenziamento nella prima lettera, con la quale, lo stesso, era comunicato alla lavoratrice. Una soluzione simile è poi coerente con l’impianto generale del sistema dei licenziamenti; infatti, il legislatore, con l’art. 1, comma 41, l. 28 giugno 2012, n. 92, ha chiarito che il licenziamento opera dalla data di comunicazione di avvio delle procedure di cui all’art. 7, l. n. 604/1966 e all’art. 7, l. n. 300/1970. Inoltre, con l’art. 1, comma 41, l. n. 92/2012, il legislatore ha fatto salvi gli effetti sospensivi di cui al d.lgs. n. 151/2001, così, apparentemente, ammettendo la possibilità di sospendere gli effetti del licenziamento per i periodi di sospensione previsti dal d.lgs. n. 151/2001. Si noti che il paradossale effetto prodotto dalla norma sarebbe quello di salvare i licenziamenti delle gestanti, poiché, ammettendo come data di licenziamento quella della comunicazione e sospendendone gli effetti per tutto il periodo d’irrecedibilità, si finisce col
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Sulla sospensione del licenziamento, cfr. Frediani, Decorrenza ed eventi sospensivi del licenziamento, in Lav. Giur., 2012, 10, 907; Di Paola (a cura di), Il licenziamento, Giuffrè 2016, 461; Calcaterra, Il preavviso di licenziamento, 2012 in WP D’Antona, It, 41.
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“congelare” il licenziamento per il periodo protetto per poi recuperare l’efficacia della comunicazione dello stesso come se la sospensione non ci fosse stata. Una simile lettura della norma sarebbe inaccettabile e contraria a quanto statuito dalla Corte costituzionale9 (pronunciatasi sull’antesignano dell’attuale art. 54 d.lgs. n. 151/2001): «la norma, invero, non privando tale licenziamento dei suoi effetti giuridici ma disponendo una mera sospensione temporanea di questi ultimi, non offrirebbe alla lavoratrice una protezione adeguata» (corsivo mio). Nel quadro complessivo del sistema, allora, considerando il disposto dell’art. 6, l. n. 604/1966 e la sentenza della C. Cost., n. 61/1991, il licenziamento deve ritenersi intimato in data 14.10.2014, dunque con la prima comunicazione, non essendo ammissibile una sospensione di un atto nullo, che «non offrirebbe alla lavoratrice una protezione adeguata» (C. Cost., n. 61/1991). Inoltre, a mio giudizio, la sospensione non potrebbe essere utile nemmeno valorizzando la previsione di cui all’art. 42, comma 5, lett. g) d.lgs. n. 81/2015; infatti, anche ritenendo la maternità una causale idonea a sospendere il rapporto, non si ritiene che la sospensione possa essere così prolungata da coprire l’intero periodo protetto, dovendo coincidere, coerentemente con la ratio della norma, con il tempo di non lavoro/formazione. Tuttavia, com’è noto, la nullità lavoristica non segue il regime ordinario, essendo sottoposta al gravame del termine decadenziale di esercizio dell’azione; per quanto detto finora, allora, la norma di tutela diventa l’anticamera dell’inganno per ottenere il superamento della stessa. L’impugnazione, nel caso di specie, avvenne solo il 19.1.2015, dunque ben 37 giorni oltre il termine decadenziale, che decorreva dal giorno 14.10.2014. Questo particolare è stato fatto valere dalla difesa dell’azienda, che tuttavia si è vista soccombente in quanto il giudice ha riqualificato come recesso l’atto di sospensione dell’efficacia dello stesso. A mio giudizio l’errore del giudicante è duplice: il primo è stato quello di non considerare la sospensione come atto collegato alla prima comunicazione, quindi affetta dai medesimi vizi; ma ben più grave è il secondo errore, poiché assumendo come licenziamento il provvedimento di seconda proroga (del 24.11.2014) si è sostanzialmente fatto slittare l’esercizio della disdetta in un termine non più utile a impedire la produzione dell’effetto della stabilizzazione. La scelta dell’azienda di concedere e poi revocare i provvedimenti sospensivi, a voler pensar male, sembrerebbe ben studiata: concedere la sospensione per poi revocarla proprio alla scadenza del termine d’impugnazione del licenziamento (10 giorni prima del termine sospensivo indicato dal S.S.N.). I giudici, in ogni fase e grado del giudizio, hanno tutti riconosciuto la nullità del licenziamento; tutti hanno pure affermato che veniva intimato alla data della seconda sospensione, tuttavia nessuno, dimostrando una certa incoerenza, ha stabilito che il rapporto era ormai pienamente trasformato, ideando soluzioni che aggrappano alla (più che fondarsi sulla) legge e, da ultimo nella sentenza in commento, hanno negato la reintegra pur riconoscendo integrata la violazione dell’art. 18 comma 1, l. n. 300/1970.
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C. cost., 8 febbraio 1991, n. 61, in RIDL, 1991, II, 264,724 con nota di Mattarolo. In tema cfr. Albi, Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in Cinelli, Ferraro, Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, 2014, 265; Frediani, op. cit.; D. Garofalo, L’estinzione del rapporto di apprendistato, in GI, 2014, 2,
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La soluzione più coerente con il dettato normativo era allora anche la meno digeribile: ammettere la decadenza dall’azione. Anche trovando il modo di superare questo immenso problema (del quale, però, nella sentenza non c’è alcuna argomentazione) la soluzione di non ammettere la reintegra (o, come nella sentenza reclamata, ammetterla per soli 21 giorni!) non è coerente, perché se la nullità si è prodotta ed era stata tempestivamente fatta valere in giudizio, allora doveva concludersi per la trasformazione del rapporto. La soluzione prospettata è coerente con il più recente orientamento di legittimità: «il rapporto di lavoro, una volta proseguito a seguito del mancato esercizio del diritto di recesso, resta assoggettato alle ordinarie cause di risoluzione: nella specie, esso non si è interrotto in virtù del licenziamento, dichiarato nullo perché intimato in stato di gravidanza (e, pertanto, rimasto privo di effetti solutori) e deve ritenersi continuato, non essendovi stata disdetta»10.
4. Una proposta di soluzione al problema. Giunti a questo punto si possono trarre le dovute conclusioni sul rapporto tra l’art. 42, comma 4, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 e l’art. 54, d.lgs. n. 151/2001. In breve, durante l’apprendistato il prestatore può essere licenziato solo nei casi previsti dall’art. 1, l. 15 giugno 1966, n. 604, mentre al termine del periodo formativo vige il regime di libera recedibilità; tuttavia, trattandosi di contratto a tempo indeterminato, all’apprendistato si applica il regime d’irrecedibilità di cui all’art. 54 d. lgs. n. 151/2001. Laddove, come nel caso di specie, l’apprendista sia una donna e si trovi in stato interessante o abbia partorito entro l’anno dalla scadenza dell’apprendistato, allora la libera recedibilità di cui all’art. 42, comma 4, d.lgs. n. 81/2015 verrebbe meno. Come, giustamente, riconosciuto dalla Corte si deve escludere che l’apprendistato (ex l. n. 25/1955) sia qualificabile come contratto a termine. Tale qualificazione avrebbe però ammesso una soluzione conforme ai principi costituzionali; infatti, la Corte costituzionale, chiamata più volte a pronunciarsi sull’art. 54, d.lgs. n. 151/2001, non ha mai messo in dubbio la legittimità delle eccezioni al regime della libera recedibilità. A bilanciare questo regime, tuttavia, interviene l’art. 24, d.lgs. n. 151/2001, stabilendo che «l’indennità di maternità è corrisposta anche nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro previsti dall’articolo 54[...]». In questo senso, allora, il rapporto di lavoro cessa, tuttavia l’ex datore di lavoro corrisponderà alla lavoratrice il trattamento economico di maternità, per poi compensare con l’INPS le somme erogate e i contributi dovuti. Ammettendo la legittimità del recesso, come fa la Corte, si finisce con l’escludere la lavoratrice dal suddetto trattamento economico, poiché non rientrerebbe nei casi di cui all’art. 22 e 24 d.lgs. n. 151/2001.
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Cass., 15 marzo 2016, n. 5051, cit.
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Convenendo con la critica già mossa in dottrina, viene da chiedersi: il contratto di apprendistato è davvero un contratto a tempo indeterminato o piuttosto è da qualificarsi come un tertium genus con qualche somiglianza al patto di prova?11 In effetti gli istituti presentano delle somiglianze: al termine di un rapporto di durata prestabilita12, entrambe le parti possono liberamente recedere e il recesso datoriale per mancato superamento della prova è condizione di non continuazione del rapporto di lavoro - come per l’apprendistato. La questione della compatibilità del regime di libera recedibilità con l’opposto regime di tutela della maternità, per il patto di prova, è già stata risolta dalla giurisprudenza costituzionale, stabilendo l’illegittimità dell’art. 2, comma 3, l. 30 dicembre 1971, n. 1204 (oggi art. 54 d.lgs. n. 151/2001) proprio perché non permetteva il licenziamento per mancato superamento della prova. Nel farlo la Corte ha stabilito un onere per il datore; infatti, se: «all’atto del recesso, gli è noto lo stato di gravidanza deve spiegare motivatamente le ragioni che giustificano il giudizio negativo circa l’esito dell’esperimento, in guisa da consentire alla controparte di individuare i temi della prova contraria e al giudice di svolgere un opportuno sindacato di merito sui reali motivi del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dalla condizione di donna incinta»13 (corsivo mio). A mio giudizio analoga declaratoria d’illegittimità dell’art. 54, d.lgs. n. 151/2001, è possibile anche per il caso di licenziamento dell’apprendista al termine del periodo formativo, allorché il datore di lavoro provi che, malgrado la formazione, la lavoratrice, per fatto non imputabile al datore, non sarà in grado di svolgere le mansioni per le quali è stata formata. Una simile soluzione non è, tuttavia, priva di conseguenze; infatti, ammettendo una simile conclusione, si farebbe gravare sulla lavoratrice l’onere della prova dell’eventuale carattere discriminatorio del licenziamento14 – laddove, ovviamente, il licenziamento sia tale. Per la delicatezza della questione, si crede, potrebbe essere utile introdurre una procedura analoga a quella dell’art. 7, l. 15 luglio 1966, n. 604, che consenta al datore di dimostrare l’assenza di ragioni discriminatorie a base del licenziamento. Ovviamente trattasi di soluzione che solo il legislatore può adottare e potrebbe essere vista come gravame eccessivo per l’azienda; tuttavia si ritiene che una simile procedura potrebbe essere una valida contropartita alla deroga al divieto dell’art. 54, eliminando dal principio l’alea del processo.
Stefano Iacobucci
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Pasqualetto, La contraddittoria qualificazione dell’apprendistato come contratto a tempo indeterminato, intervento al convegno «Interessi individuali e interessi collettivi nel pensiero di Giuseppe Suppiej» tenutosi a Padova il 21.10.2016 - scritto gentilmente condiviso dall’Autrice. 12 Si tenga presente che una grande differenza tra i due rapporti si ha nel periodo di libera recedibilità: nell’apprendistato è solo al termine del periodo formativo, mentre nel patto di prova ha durata pari al periodo di prova. 13 C. cost., 27 maggio 1996, n. 172, in LG, 1996, 848 con nota di Gottardi; in LG, 1997, 138 con nota di Spolverato; in DL 1996, II, 436 con nota di Rucco; in D&L 1996, 908 con nota di Romeo. 14 Cfr. Gottardi cit., con riferimento all’effetto della sentenza della C. Cost., n. 172/1996.
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Giurisprudenza Tribunale
di
Milano, sentenza 3 novembre 2016; Giud. Scarzella.
Licenziamento in prova – Contratto a tutele crescenti – Illegittimità – Carenza forma scritta del patto di prova – Insussistenza del fatto contestato.
La nullità del patto di prova per carenza della forma scritta non comporta la nullità del licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, ma la sua ingiustificatezza, ex artt. 1 e ss. della l. n. 604/1966, in quanto fondato su ragione insussistente. Dall’accertata ingiustificatezza del recesso intimato per insussistenza del fatto materiale contestato discende, ex. art. 3 co. 2 del d.lgs. n. 23/2015, l’illegittimità e, quindi, l’annullamento del licenziamento, con condanna del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore e a corrispondergli un’indennità risarcitoria pari alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura non superiore alle 12 mensilità.
Concisa
e contestuale esposizione delle ragioni di fat-
to e di diritto della decisione.
Il ricorso in esame va accolto. In via preliminare di merito è innanzitutto necessario soffermarsi sulla clausola di prova disciplinata dall’art. 2096 c.c.. in base a cui l’imprenditore e i1 prestatore di lavoro sono tenuti, rispettivamente, a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto di tale patto, potendo entrambi recedere dal contratto senza obbligo di preavviso o d’indennità, salva in ogni caso l’assunzione definitiva del secondo, nel caso tale periodo sia regolarmente portato a compimento, senza che nel frattempo uno dei due abbia receduto. Tale clausola contrattuale è prevista e prevedibile nell’interesse di entrambe le parti del rapporto essendo interesse del datore di lavoro accertare le attitudini professionali e la personalità del prestatore, prima di rendere definitiva l’assunzione, e interesse di quest’ultimo quello di verificare le concrete modalità esecutive del rapporto lavorativo propostogli, la sua convenienzae l’esattezza e la puntualità dell’adempimento del primo. Tale clausola viene correttamente interpretata quale condizione sospensiva potestativa (v. Cass. n.4669/1993), identificata con il risultato favorevole del relativo periodo di prova la cui verificazione rende stabile il rapporto lavorativo stesso. Per quanto concerne le restanti censure sollevate da parte ricorrente va rilevato che “il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, la quale può essere operata anche “per relationem” alle declaratorie del contratto collettivo che definiscano le mansioni comprese nella qualifica di assunzione e sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico”
(v. Cass.11722/2009) e che “il decorso di un periodo di prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale, mentre non è sospeso dalla mancata prestazione lavorativa inerente al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività, deve ritenersi escluso, invece, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro e, in particolare, il godimento delle ferie annuali, che, data la funzione delle stesse di consentire al lavoratore il recupero delle energie lavorative dopo un cospicuo periodo di attività, non si verifica di norma nel corso del periodo di prova. Tale principio trova applicazione solo in quanto non preveda diversamente la contrattazione collettiva, la quale può attribuire od escludere rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi che si verifichino durante il periodo medesimo (v. Cass. n. 4573/2012) e che “l’espressione “effettivo lavoro prestato” di cui all’art. 69 del c.c.n.l. del personale degli istituti di vigilanza privata del 6 dicembre 2006, ai fini del computo del periodo di prova, si interpreta nel senso di ricomprendere solo i giorni in cui il lavoratore ha effettivamente prestato la sua opera, con esclusione di tutti gli altri, compresi quelli di riposo, atteso il suo inequivoco tenore letterale” (v. Cass. n. 4347/2015). Sempre in via preliminare va infine rilevato, quanto all’eccepita discriminatorietà della condotta della resistente, che “l’accertamento relativo all’esistenza all’interno di una azienda di trattamento discriminatorio nei confronti di alcuni dei dipendenti per ragioni di sesso
Giurisprudenza
(discriminazione relativa, nella specie, alla progressione in carriera), è volto a verificare, alla stregua di quanto previsto dall’art. l della legge n. 125 del 1991, se siano stati adottati criteri idonei a svantaggiare in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso, riguardanti requisiti non essenziali per lo svolgimento dell’attività lavorativa” (v. Cass. n.28147/2005). E ancora “Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni” (v. Cass. 11. 17087/2011). Nel merito va innanzitutto accolta la censura di nullità dedotta dalla ricorrente per asserita carenza di forma scritta del patto di prova in oggetto, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2096 c.c, visto che parte resistente produceva, sub. num. 1, contratto di lavoro con apposizione scritta del patto di prova sottoscritto dalla lavoratrice e che quest’ultima disconosceva espressamente alla prima udienza l’autenticità della firma ivi apposta con conseguente inutilizzabilità di tale documenti in assenza di rituale istanza di verificazione da parte della resistente, ex art. 216 e ss cpc. L’indimostrata sussistenza di un valido patto di prova apposto per iscritto al contratto di lavoro in esame comporta l’ingiustificatezza del licenziamento impugnato, ex. artt. 1 e ss L. n. l 04/1966, in quanto fondato su una ragione inesistente e, cioè, sull’asserito mancato superamento di un patto di prova in realtà non validamente stipulato per iscritto dalle parti e, quindi, nullo e inefficace, ex art. 2096 c.c. Non è sul punto fondata l’eccezione sollevata dalla ricorrente in merito all’asserita nullità del licenziamento impugnato visto che la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro in oggetto non comporta, in assenza di conforme previsione normativa, la nullità del licenziamento fondato sul mancato superamento del periodo di prova ma la sua ingiustificatezza, ex artt. 1 e ss L. n. 604/1966, in quanto fondato appunto
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su una ragione insussistente (esistenza di un patto di prova non superato dalla lavoratrice) tenuto in ogni caso conto che, ai sensi dell’art. 18 1° comma stat. lav, il licenziamento è nullo se contrario a una ipotesi di nullità espressamente prevista dalla legge o se determinate da un motivo illecito determinante. Dall’accertata ingiustificatezza del recesso intimato per insussistenza del fatto materiale contestato discende, ex art. 3 comma 2 D.lgs. 23/2015, l’illegittimità e, quindi l’annullamento del licenziamento impugnato con condanna della resistente a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro ed a corrisponderle una indennità risarcitoria pari alle retribuzioni maturate (in misura pari all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto) dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura non superiore in ogni caso a 12 mensilità ed a versare al competente ente previdenziale i contribute assistenziali e previdenziali maturati nel medesimo periodo. Non appare invece provata, in maniera sufficientemente attendibile, la natura esclusivamente discriminatoria del recesso impugnato non avendo la ricorrente dedotto e provato, in maniera sufficientemente attendibile e specifica, come era suo onere, ex art. 2697 c.c, l’effettiva sussistenza di proprie ripetute censure nei confronti del comportamento del proprio datore di lavoro e la diretta ed esclusiva connessione causale fra tali condotte e il licenziamento in esame, tenuto conto che il cap.8 del ricorso è sul punto generico e valutativo e come tale inammissibile; che la ricorrente confermava in giudizio la sussistenza di litigi con il proprio compagno e, soprattutto, la sua volontà di essere trasferita nella sede in cui quest’ultimo non lavorava; che appare pertanto allo stato del tutto credibile, anche ai sensi dell’art. 2729 cc, che il datore di lavoro, anche a causa dei verosimili disagi creati ai propri clienti dai litigi intervenuti tra la ricorrente e il proprio compagno, decidesse, in maniera non arbitraria, di spostare la lavoratrice in altra sede e di non confermarle il superamento del periodo di prova; che il recesso in esame appare pertanto almeno in parte giustificato dal comportamento della lavoratrice e non esclusivamente dal dedotto e, allo stato indimostrato, motivo ritorsivo. (Omissis)
Giulia Marchi
Il licenziamento illegittimo nel periodo di prova in caso di nullità della clausola di prova. Sommario :
1. Introduzione. – 2. La causa, la natura e la disciplina del patto di prova. – 3. La qualificazione del vizio del licenziamento in prova in caso di nullità del patto di prova: nullità o illegittimità? – 4. Illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto materiale contestato. – 5. Alcuni accenni al licenziamento ritorsivo.
Sinossi: La nota a sentenza affronta il tema del licenziamento irrogato durante il periodo di prova, nel caso in cui il relativo patto sia nullo, e della possibile qualificazione del vizio di tale licenziamento in termini di nullità o di illegittimità. Con riferimento alla disciplina introdotta dal d.lgs. n. 23/2015, se si opta, come il Tribunale nel caso di specie, per la tesi dell’illegittimità, viene in rilievo l’art. 3, comma 2, ed il dibattito relativo all’interpretazione della locuzione “insussistenza del fatto materiale contestato”.
1. Introduzione. La sentenza in commento prende in considerazione alcuni aspetti della disciplina del patto di prova, come la causa, i requisiti di legittimità ed il recesso dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova, nell’ipotesi in cui il patto stesso risulti nullo; vengono in rilievo anche la disciplina in materia di licenziamenti illegittimi introdotta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, e la qualificazione del licenziamento ritorsivo. Nel caso di specie, la lavoratrice, assunta in data successiva al 7 marzo 2015, impugna il licenziamento irrogato per mancato superamento del periodo di prova: sostiene che il patto di prova sia nullo e afferma, in primo luogo, la natura ritorsiva del licenziamento. Il Tribunale di Milano riconosce la nullità del patto di prova per mancanza della forma scritta, dal momento che la lavoratrice aveva disconosciuto l’autenticità della firma sul patto prodotto in giudizio dal datore di lavoro. Esclude la natura ritorsiva del licenziamento, poiché il recesso non appare determinato esclusivamente dal motivo ritorsivo, ma «almeno in parte giustificato dal comportamento della lavoratrice» e da alcuni litigi verificatisi sul luogo di lavoro. Ritiene, inoltre, non corretta la ricostruzione proposta dalla ricorrente, secondo cui, data la nullità della clausola di prova, il licenziamento sarebbe in ogni caso nullo: la nullità del patto di prova non comporta la nullità del licenziamento, ma solamente la sua ingiustificatezza. Sulla base di questo assunto, il giudice applica l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015: infatti, in tal caso, i fatti posti a base del recesso non sono stati neppure espli-
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citati ed è, perciò, da ritenere direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato1.
2. La causa, la natura e la disciplina del patto di prova. Nella parte iniziale della sentenza, il giudice milanese ripercorre brevemente la disciplina del patto di prova. Si tratta di un elemento accidentale del contratto di lavoro, qualificabile, secondo la sentenza in commento, come condizione sospensiva potestativa, che coincide «con il risultato favorevole del relativo periodo di prova, la cui verificazione rende stabile il rapporto di lavoro»2. Elemento essenziale del patto di prova è il requisito della causa: consiste nell’interesse del datore di lavoro di «accertare le attitudini professionali e la personalità del prestatore, prima di rendere definitiva l’assunzione» e nell’interesse del prestatore «di verificare le concrete modalità di esecuzione del rapporto lavorativo propostogli, la sua convenienza e l’esattezza e la puntualità dell’adempimento del primo»3. Per questo motivo, datore di lavoro e lavoratore sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento oggetto del patto di prova. Sarebbe privo di causa, e di conseguenza nullo, il patto di prova stipulato con riferimento a mansioni già svolte dal lavoratore o per cui la sperimentazione sia già avvenuta4. Perciò, il patto deve individuare le mansioni che costituiscono oggetto della prova in modo specifico o anche per relationem, tramite un richiamo “sufficientemente specifico” alle declaratorie del contratto collettivo che definiscono le mansioni comprese nella qualifica di assunzione5. Altra condizione di validità del patto di prova è la forma scritta, richiesta dal comma 1 dell’art. 2096 c.c. ad substantiam6. Dopo aver considerato anche il tema del decorso del periodo di prova in caso di sospensione7,
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Nella sentenza qui annotata il giudice non spiega in modo preciso il ragionamento alla base della sua decisione. Una spiegazione più completa è data dalla sentenza del Tribunale di Torino del 16 settembre 2016, in http://www. rivistalabor.it/wp-content/uploads/2017/03/Tribunale-di-Torino-16-settembre-2016.pdf. Da segnalare l’opposto orientamento giurisprudenziale, secondo cui sarebbe, invece, una condizione risolutiva. Per una sintesi sul dibattito relativo alla natura del patto di prova, cfr. Grassi, Assunzione in prova, in Diritto del lavoro. La Costituzione, il Codice civile e le leggi speciali, vol. I, Amoroso, Di Cerbo, Maresca (a cura di), Giuffrè, 2014, 836 ss; Lambertucci, Maresca, Conclusione del contratto di lavoro, in Contratto di lavoro e organizzazione, Tomo I, Contratto e rapporto di lavoro, Martone (a cura di), in Trattato di diritto del lavoro, diretto da Persiani, F. Carinci, Cedam, 2012, 191 ss; Monaco, Patto di prova e schemi civilistici, in RIDL, 1999, II, 802 ss. Sentenza del Tribunale di Milano in commento. Cfr. Lambertucci, Maresca, op. cit., 191 ss. Conseguentemente, il recesso del datore di lavoro sarà illegittimo se il lavoratore è stato adibito a mansioni diverse da quelle previste. Cfr. Cass., 12 settembre 2016, n. 17921, in De Jure; Cass., 5 dicembre 2007, n. 25301, in De Jure; Cass., 17 luglio 2015, n. 15059, in De Jure. Cfr. Cass., 20 maggio 2009, n. 11722, in GC Mass, 2009, 5, 799; Cass., 7 marzo 2000, n. 2579, in NGL, 2000, 433; Cass., 25 febbraio 2015, n. 3852, in De Jure. Cfr. anche Lambertucci, Maresca, op. cit., 191 ss. Sulla nullità del patto di prova in caso di indicazione generica delle mansioni, cfr. Trib. Roma, 14 luglio 2005, in DRI, 2007, 1, 217 ss, con nota di Bernasconi. Sulla necessità di forma scritta ad substantiam, cfr. Cass., 3 agosto 2016, n. 16214, in De Jure. La sentenza in commento a tal proposito evidenzia che il decorso del periodo di prova «non è sospeso dalla mancata prestazione lavorativa inerente al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività», ma «deve ritenersi escluso, invece, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi
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il giudice affronta il problema del recesso durante tale periodo: ai sensi dell’art. 2096, comma 3, «ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza l’obbligo di preavviso o d’indennità», salvo che la prova sia stabilita per un tempo minimo necessario, caso in cui «la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine». Si tratta di un’ipotesi di recesso ad nutum: solo al termine del periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva8 e, ai sensi dell’art. 10 della l. 10 luglio 1966, n. 604, si applica quanto previsto dalla stessa l. n. 604/1966 in materia licenziamenti individuali nei confronti dei lavoratori assunti in prova. In questo modo si «sottrae quindi il rapporto all’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, con la conseguenza che il recesso del datore di lavoro durante il periodo di prova rientra così nella cosiddetta area della recedibilità acausale». Il periodo di libera recedibilità è limitato dallo stesso art. 10: decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto, il recesso è sottoposto al principio di giustificatezza sancito dall’art. 1 della stessa l. n. 604/19669. Sul punto è intervenuta la sentenza 22 dicembre 1980, n. 189, della Corte costituzionale, secondo cui durante il periodo di prova la discrezionalità del datore di lavoro non è assoluta, ma è ammesso un sindacato del recesso del datore di lavoro, anche se limitato. Infatti, dall’«affermazione dell’obbligo delle parti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova» discende un limite alla discrezionalità del datore di lavoro: «la legittimità del licenziamento da lui intimato durante il periodo di prova può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per la inadeguatezza della durata dell’esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato»10. Per questo motivo, con riferimento al licenziamento nel periodo di prova, la giurisprudenza e la dottrina parlano di «un regime intermedio che non è più quello codicistico della mera libera recedibilità», né «quello del recesso causale (per giusta causa o per giustificato motivo)»11, visto che al lavoratore è riconosciuta la possibilità di provare il positivo superamento dell’esperimento, che il licenziamento è sorretto da motivo illecito o che «non è sorretto dalla causa propria del patto di prova»12.
3. La qualificazione del vizio del licenziamento in prova in caso di nullità del patto di prova: nullità o illegittimità?
La questione centrale nel caso di specie riguarda la qualificazione del vizio del licenziamento intimato per esito negativo della prova, nel caso in cui la relativa clausola sia nulla.
non prevedibili al momento della stipulazione del fatto stesso, quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro e, in particolare, il godimento delle ferie annuali». Cfr. Cass., 25 settembre 2015, n. 19043, in De Jure. 8 Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2096 c.c., “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”. 9 Cfr. Cass., 17 gennaio 1998, n. 402, in GC, 1998, 6, 1653 ss. 10 C. cost. 22 dicembre 1980, n. 189, in RGL, 1981, II, 10 ss. 11 Cfr. Cass., 17 gennaio 1998, n. 402, cit. 12 Cfr. M. T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in M. T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giuffrè, 2015, 54 ss.
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Non pare contestabile l’affermazione secondo cui la nullità del patto di prova esclude che il licenziamento rientri nell’area della recedibilità ad nutum: infatti, si tratta di una nullità parziale, che non comporta la nullità dell’intero contratto di lavoro, ma determina «la conversione (in senso atecnico) in un rapporto ordinario», con conseguente possibilità del giudice di procedere alla verifica della sussistenza di una ragione giustificatrice del licenziamento13. Interessante sul punto la sentenza del Tribunale di Torino del 16 settembre 2016. Anche in questo caso si pone il problema della nullità del patto di prova, in quanto firmato in momento successivo all’inizio del rapporto di lavoro. Si è in presenza, quindi, di «un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo». Secondo il giudice torinese, il licenziamento è da ricondurre alla sfera soggettiva del lavoratore e, in particolare, alla fattispecie disciplinata dall’art. 3 comma 2 del d.lgs. n. 23/2015, secondo cui «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro», oltre che al pagamento di un’indennità risarcitoria, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, nel limite massimo di 12 mensilità. In modo chiaro, e decisamente più completo di quanto fatto nella sentenza in commento, la sentenza del Tribunale di Torino spiega il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione: nonostante l’art. 3, comma 2, preveda la tutela reale “esclusivamente” nell’ipotesi individuata, ritiene necessaria «un’interpretazione estensiva della norma (ma non certo analogica, non consentita dall’avverbio “esclusivamente”), coerente con le finalità perseguite dal legislatore e imposta in chiave costituzionalmente orientata». Una simile interpretazione consente di ricondurre il licenziamento «ad una fattispecie di licenziamento per motivi soggettivi di cui è ontologica l’insussistenza, da ritenere direttamente dimostrata in giudizio per la semplice considerazione che i fatti materiali su cui si è basato il recesso non sono neppure stati esplicitati»14. Sulla base di un simile ragionamento, in modo apparentemente ragionevole, il tribunale milanese rigetta la ricostruzione proposta dalla lavoratrice, secondo cui il licenziamento sarebbe nullo, e ritiene, invece, che si tratti di un licenziamento ingiustificato, in quanto fondato su una ragione del tutto insussistente. Tuttavia, nel silenzio prima dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori ed ora del d.lgs. n. 23/2015, in dottrina e in giurisprudenza sono state proposte diverse possibili qualificazioni del vizio del licenziamento irrogato durante il periodo di prova, nel caso di invalidità del patto. Una parte della dottrina, in linea con la posizione espressa nella relazione illustrativa del governo15, riconduce il licenziamento invalido adottato durante il periodo di prova, «quando
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Cfr. Tribunale di Torino del 16 settembre 2016, cit.; Cass., 5 marzo 2013, n. 5404, in De Jure; Cass., 12 settembre 2016, n. 17921, cit. 14 Tribunale di Torino del 16 settembre 2016, cit. 15 Cfr. Relazione illustrativa del d.lgs. 23/2015, in http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE-
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il relativo periodo sia già scaduto o il relativo patto risulti invalido», al licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo. Di conseguenza, ritiene applicabile solo la tutela indennitaria16. La sentenza commentata, come la sentenza del Tribunale di Torino del 16 settembre 2016 citata in precedenza, esclude invece l’assimilabilità del vizio che affligge il licenziamento in prova, nel caso di nullità del relativo patto, al licenziamento intimato in mancanza di un giustificato motivo oggettivo, dal momento che il licenziamento irrogato durante la prova «nella sostanza può essere ricondotto alla sfera soggettiva del lavoratore»17. Altra qualificazione possibile è quella proposta dalla lavoratrice: nel caso in cui il patto sia dichiarato nullo anche il licenziamento è da ritenere nullo, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/201518. Si è espressa a favore di tale interpretazione quella parte di dottrina, nonché quell’orientamento giurisprudenziale, secondo cui causa atipica e causa illecita sono assimilabili e, conseguentemente, il licenziamento per causa atipica è equiparabile al licenziamento per motivo illecito. A supporto di questa tesi, si richiama l’importanza del nesso tra il recesso e la causa tipica del patto di prova e della valutazione dell’«idoneità del motivo estraneo all’esperimento lavorativo ad inficiare il recesso» 19: affinché si possa ritenere il licenziamento ad nutum, il recesso del datore di lavoro «deve essere collegato all’esito dell’esperimento». Quindi, il motivo di recesso estraneo al superamento della prova sarebbe da ritenere illecito: infatti, l’esercizio del potere di recesso «deve essere coerente con la causa del contratto», sicché il licenziamento è da considerare nullo nel caso in cui il lavoratore possa dimostrare «il positivo superamento dell’esperimento, nonché l’imputabilità del recesso ad un motivo estraneo e perciò illecito»20.
24ORE/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/Norme%20e%20Tributi/2015/03/relazione-illustrativa-tutele-crescenti. pdf., che afferma: «neppure si è ritenuto di recepire la proposta della Commissione XI del Senato affinché si chiarisca che la tutela generale indennitaria debba esplicitamente essere riferita anche ai particolari casi del licenziamento in periodo di prova o in caso di patto di prova invalido o per licenziamento intimato oltre il termine della prova, così come per il licenziamento intimato per raggiunti limiti di età e tale requisito risulti insussistente, in quanto fattispecie tutte rientranti nel licenziamento per motivo oggettivo illegittimo, per il quale vale la tutela generale di tipo indennitario». Cfr. anche Relazione svolta dal presidente della Commissione Lavoro del Senato Maurizio Sacconi nella seduta del 15 gennaio 2015 sullo schema di decreto sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, presentato dal Governo alle Camere, per il parere consultivo delle Commissioni competenti, il 13 gennaio (AG 134), in http://www.pietroichino. it/?p=34181: «È, inoltre, auspicabile prevedere esplicitamente che venga trattato come difetto di giustificato motivo oggettivo l’ipotesi di licenziamento per esito negativo della prova, nel caso in cui il periodo di prova risulti già scaduto, o il relativo patto invalido per qualsiasi motivo». 16 Sul punto, cfr. Imberti, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi oggettivi non economici, in M. T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, cit., 149 ss. 17 Tribunale di Torino del 16 settembre 2016, cit. 18 Cfr. M. T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, cit., 54 ss. Per quanto riguarda la giurisprudenza, a favore di tale interpretazione, Cass., 17 gennaio 1998, n. 402, in GC, 1998, I, 1653 ss, con nota di Poso. 19 Cfr. Cass., 17 gennaio 1998, n. 402, cit., che accoglie il ricorso della lavoratrice, secondo cui in caso di licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova è da ritenere «illecita ogni motivazione che non faccia riferimento alla prova, intesa dal legislatore quale causa del rapporto di lavoro». Nel caso di specie, la lavoratrice in prova era stata licenziata per ragioni economiche: pur non trattandosi di un motivo illecito, è un motivo estraneo all’esperimento e, di conseguenza, il licenziamento viene dichiarato nullo. 20 Cfr. Cass., 21 aprile 1993, n. 4669, in GI, 1944, 1, 762 ss, secondo cui poiché il recesso del datore di lavoro deve essere collegato all’esito dell’esperimento, il lavoratore può dedurre la nullità del licenziamento provando «il positivo superamento dell’esperimento e l’imputabilità del recesso ad un motivo estraneo e quindi illecito»; Cass., 9 novembre 1996, n. 9797, in GC Mass, 1996, 1492: in tal caso, la Cassazione ha affermato che l’esercizio del potere di recesso,
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Secondo l’orientamento opposto, cui aderisce anche la sentenza del tribunale milanese, invece, si deve distinguere le due ipotesi: mentre il motivo illecito comporta la nullità del licenziamento, la mancanza di causa tipica comporta la semplice illegittimità e quindi, nel caso di specie, l’applicazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/201521. Infatti, pur nei limiti individuati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 189/198022, il recesso datoriale durante il periodo di prova è discrezionale e non deve essere motivato: salvo la prova dell’esistenza di un motivo illecito che abbia determinato il licenziamento o dell’inadeguatezza delle modalità di svolgimento della prova e salvo il caso in cui il lavoratore possa provare il positivo superamento della prova, l’eventuale motivazione del recesso non connessa con la prova stessa è priva di qualsiasi rilevanza23. Tuttavia, la stessa sentenza della Corte costituzionale ha sostenuto che «la mancata prova da parte del lavoratore licenziato di un motivo illecito del recesso del datore di lavoro non esaurisce il possibile sindacato giudiziale». In base a tale affermazione, si dovrebbe tenere distinto il motivo estraneo alla prova dal motivo illecito ex art. 1345 c.c. e, di conseguenza, esclusa la nullità del licenziamento, ammettere un sindacato sulla giustificatezza del motivo estraneo alla prova24.
consentito anche nel corso del periodo di prova deve essere coerente con la causa del contratto, sicché il licenziamento è legittimo ove il lavoratore non dimostri il positivo superamento dell’esperimento, nonché l’imputabilità del recesso ad un motivo estraneo e perciò illecito. 21 Cass., 25 marzo 1996 n. 2631, in FI, 1996, I, 1633: «non può sussistere alcun obbligo di motivazione ove il recesso, come nella specie, sia del tutto discrezionale. In particolare, l’obbligo di motivazione ha ragion d’essere là dove la legge preveda motivi tipici di recesso (come è per i rapporti assistiti da stabilità obbligatoria o reale), in funzione dell’accertamento della effettività del motivo, non anche quando il recesso è discrezionale, per un’evidente incompatibilità logica tra discrezionalità del provvedimento e obbligo di indicarne i motivi»; «il lavoratore, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., ha l’onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in prova si è svolto in tempi o con modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto». 22 C. cost. 22 dicembre 1980, n.189, cit. In tale sentenza, la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2096 c.c., comma 3, e dell’art. 10 della l. 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui consentono il recesso immotivato del datore di lavoro dal rapporto di lavoro in prova, in riferimento agli artt. 3 Cost., 4 e 35 Cost., a condizione che sia riconosciuta la sindacabilità del recesso del datore di lavoro e la sua annullabilità, quando il lavoratore «ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito». 23 Cfr. Poso, Verso il recesso causale nel rapporto di lavoro in prova?, in GC, 6, 1653 ss, nota a Cass., 17 gennaio 1998. Cfr. Cass., 18 gennaio 2017, n. 1180, in De Jure: secondo quanto affermato dalla Cassazione in tale sentenza, non è sufficiente la prova dell’esito positivo dell’esperimento per ritenere nullo il licenziamento, ma, dal momento che la valutazione del datore di lavoro in relazione alla prova è discrezionale, il lavoratore dovrà provare anche che «il recesso è stato determinato da un motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova». 24 Cfr. Poso, op. cit. Cfr. anche Cass., 3 agosto 2016, n. 16214, in De Jure. In questo caso la Corte ritiene che la nullità del patto di prova renda il licenziamento irrogato per mancato superamento della prova «viziato sotto il profilo dell’idoneità della causale addotta a giustificazione del recesso» e, conseguentemente, applica art. l’18, comma 4, che prevede la reintegrazione per «ipotesi può evidenti di discostamento del recesso dalle relative fattispecie legittimanti».
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4. Illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto materiale contestato.
Nel caso di licenziamento rientrante nel campo di applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, come riformato dalla l. n. 92/2012, la giurisprudenza prevalente ritiene che il licenziamento irrogato per mancato superamento del periodo di prova con accertata nullità del patto sia illegittimo per insussistenza del fatto contestato. Lo riconduce quindi alla fattispecie di cui al 4° comma dell’art. 18. In continuità con tale orientamento, nel caso di rapporti di lavoro cui sia applicabile la disciplina del contratto a tutele crescenti, il Tribunale di Milano applica l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 e la tutela reintegratoria, in quanto risulta provata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Una volta accolta la tesi dell’illegittimità, si pone dunque il problema della sufficienza o meno della causa del licenziamento25 e, per individuare la tutela applicabile nel caso di licenziamento illegittimo, di cosa si debba intendere per fatto materiale la cui insussistenza sia direttamente dimostrata in giudizio. La questione, già ampiamente dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza in relazione alla formulazione dell’art. 18 introdotta dalla riforma Fornero, è relativa alla nozione di fatto, cioè se si debba prendere in considerazione o meno la sua componente soggettiva. Parte della dottrina e della giurisprudenza, ritenendo che non si possa considerare il fatto nella sua accezione esclusivamente materiale, sganciato «da un nucleo insopprimibile di giuridicità, intesa nel senso della necessaria illiceità del comportamento addebitato al lavoratore»26, lo ha interpretato come fatto giuridico. Secondo questa interpretazione, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione ogni volta che il fatto, anche se sussistente, sia privo del carattere di illiceità e di rilevanza disciplinare. Secondo un opposto orientamento, invece, il fatto sarebbe da intendere nella sua accezione materiale27.
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Cfr. M. T. Carinci, Il licenziamento discriminatorio o «per motivo illecito determinante» alla luce dei principi civilistici: la causa del licenziamento quale atto unilaterale fra vivi a contenuto patrimoniale, in RGL, 2012, 4, 653 ss. 26 Tribunale di Taranto, 21 aprile 2017, in Wikilabour.it, http://www.wikilabour.it/GetFile.aspx?File=%2fAAA_Segnalazioni %2f2017%2fMerito%2f20170421_Trib-Taranto.pdf 27 Sul significato di “insussistenza del fatto contestato”, cfr. Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in DRI 2015, 1, 229, con nota di Ferrante. In quest’occasione la Suprema Corte ha evidenziato come il nuovo art. 18 abbia tenuto «distinta dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato». Cfr. Cass., 13 ottobre 2015, n. 20540, in RIDL 2016, 1, II, 102, con nota di Mazzotta; Cass., 20 settembre 2016, n. 18418, in De Jure; Cass., 16 maggio 2016, n. 10019, in De Jure. Secondo quanto affermato in quest’ultima sentenza, la locuzione “fatto contestato” «lega la materialità del fatto alla sua rilevanza disciplinare» e comporta la «assoluta sovrapponibilità, sotto il profilo disciplinare, dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi del lavoratore ovvero non sia imputabile al lavoratore stesso». Cfr. anche una recente sentenza del Tribunale di Taranto, 21 aprile 2017, cit.: «In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18, comma 4»: infatti, «non può essere del tutto esclusa la qualificazione giuridica del fatto, dal momento che se un fatto non costituisce inadempimento, non è configurabile nemmeno un licenziamento disciplinare».
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La nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 23/2015, ispirata a quest’ultimo orientamento, fa espressamente riferimento al fatto materiale, motivo per cui alcuni studiosi ritengono che debba essere esclusa ogni valutazione relativa all’elemento soggettivo28. Gran parte della dottrina, tuttavia, auspica un’interpretazione giurisprudenziale che tenga conto della rilevanza giuridica del fatto: sarebbe irragionevole ritenere che un licenziamento irrogato sulla base di un fatto materiale sussistente, ma non illecito, possa porre fine al rapporto di lavoro29. La norma fa riferimento al fatto materiale “contestato”: perciò, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, lo si deve interpretare come fatto che costituisce un inadempimento del lavoratore, in base alla previsione contenuta nell’art. 2106 c.c.30. Secondo alcuni commentatori, infatti, un licenziamento irrogato sulla base di un fatto materiale del tutto insussistente sarebbe pretestuoso e quindi illecito, non essendo rinvenibile la causa tipica prevista dal legislatore31. La tutela reintegratoria viene riconosciuta anche nel caso di totale assenza della contestazione: si tratta, infatti, di un essenziale elemento di garanzia del procedimento disciplinare. Dopo aver escluso che il licenziamento rientri nell’area della libera recedibilità, la contestazione specifica degli addebiti disciplinari costituisce «pre-condizione necessaria perché possa discorrersi di fatto materiale sussistente». La sua assenza «esclude in radice la sussistenza di qualsiasi fatto materiale pur astrattamente idoneo a fondare un licenziamento per giusta causa, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria»32. Pare quindi condivisibile la decisione del Tribunale di Milano, in linea con l’orientamento
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A favore, cfr. Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra costituzione e diritto europeo, in RIDL, 2016, I, 111 ss., il quale, tuttavia, evidenzia alcuni problemi di compatibilità e coerenza con la Costituzione: altrimenti, qualsiasi comportamento esistente, anche se privo di rilievo disciplinare, potrebbe escludere la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato. 29 Cfr. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, in ADL, 2015, 2, 310 ss, secondo cui «l’insussistenza del fatto materiale deve essere intesa non solo nel senso di “non esistenza” del comportamento contestato ma anche in quello di “assoluta irrilevanza” disciplinare dello stesso»; Tursi, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi soggettivi, in M. T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, cit., 85 ss. Tale tesi è espressa anche da Cass., 20 settembre 2016, n. 18418, in De Jure. 30 Infatti, è stato affermato da più autori che un fatto è rilevante per il diritto solo se qualificato giuridicamente e, quindi, il fatto materiale contestato deve consistere in un inadempimento. Cfr. Romei, La nuova disciplina del licenziamento: qualche spunto di riflessione, in DLRI, 2015, 4, 568 ss; Perulli, La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. Profili critici, in RIDL, 2015, I, 413 ss; Voza, Licenziamenti illegittimi e reintegrazione: le nuove mappe del Jobs Act, in DLRI, 2015, 4, 589 ss. 31 Cfr. Tursi, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi soggettivi, cit., 85 ss; Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, I, 437 ss. L’Autore ricorda come nella formulazione dell’art. 18, post riforma Fornero, la reintegrazione sia prevista solo in tre ipotesi: nel caso del licenziamento disciplinare per insussistenza del fatto contestato, se il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni di legge, dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili e, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui sia manifesta l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. Nelle tre ipotesi riscontra un’assoluta pretestuosità del licenziamento. 32 Cfr. Tribunale di Taranto, 21 aprile 2017, cit. Cfr. anche Cass., 21 gennaio 2015, n.1026, in De Jure; Cass., 14 dicembre 2016, n. 25745, in De Jure; Tribunale di Roma, 20 gennaio 2015, in De Jure. Cfr. Romei, op. cit., 568 ss., secondo cui se la motivazione manca o è talmente generica da non consentire di individuare il fatto contestato, si applicherà la tutela reintegratoria. Cfr. anche Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, in ADL, 2015, 2, 310 ss. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, cit., 310 ss. Sarà invece applicabile la tutela indennitaria prevista dal comma 6 dell’art. 18 solo nel caso in cui la contestazione non sia sufficientemente specifica o in caso di violazione della procedura. Cfr. anche F. Marinelli, Il licenziamento individuale affetto da vizi formali o procedurali, in M. T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, cit, 169; Bolego, Il licenziamento immotivato alla luce del d.lgs. n. 23 del 2015, in DLRI, 2015, 2, 319.
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ormai prevalente in Cassazione. Tuttavia, come emerso dalla precedente ricostruzione, esiste un orientamento dottrinale, supportato da alcune pronunce giurisprudenziali, secondo cui il licenziamento in casi simili sarebbe da ritenere nullo, non essendo ravvisabile alcuna causa tipica: rientrerebbe così nella c.d. tutela reintegratoria forte, prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015.
5. Alcuni accenni al licenziamento ritorsivo. Infine, merita quanto meno un accenno la questione della natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento33. Infatti, seppure in modo piuttosto rapido, la sentenza affronta la questione della natura «esclusivamente discriminatoria del licenziamento». Il tribunale, nel caso di specie, ritiene non provata la natura discriminatoria del recesso, dal momento che la ricorrente non ha provato in modo sufficientemente specifico le ripetute censure da parte del datore di lavoro e «la diretta ed esclusiva connessione causale fra tali condotte e il licenziamento»: ritiene credibile che il datore di lavoro abbia deciso di licenziare la lavoratrice a causa del suo comportamento, in particolare in ragione dei litigi tra questa e il suo compagno. Questo è sufficiente ad escludere che il licenziamento sia stato determinato da un motivo esclusivamente ritorsivo. Il tribunale, riprendendo Cass., 8 agosto 2011, n. 17087, afferma che «il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta – assibilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 – costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova, anche con presunzioni»34. Sul punto è intervenuta la sentenza 5 aprile 2016, n. 6575, della Corte di Cassazione. In quest’occasione, con riferimento ad un caso di discriminazione per ragioni di genere, ha affermato che la nullità derivante dal divieto di discriminazione «discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed Europeo, senza passare attraverso la mediazione dell’art.1345 c.c.» e che la «discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente», «a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro»35. Da simili affermazioni parrebbe legittimo dedurre che «il divieto di discriminazione non è applicazione del principio di nullità per motivo illecito, ma costituisce figura a sé»36. La Corte accoglie una nozione oggettiva di discriminazione, già diffusa nell’ambito dell’Unione Europea, con
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La problematicità di questo passaggio della sentenza è evidenziata brevemente dal commento a tale sentenza di Notaro, Illegittimità del licenziamento in prova nel contratto a tutele crescenti, in http://www.rivistalabor.it/illegittimita-dellicenziamento-prova-nel-contratto-tutele-crescenti/. 34 Cass., 8 agosto, 2011, n. 17087, in GC Mass, 2011, 7-8, 1158. 35 Cass., 5 aprile 2016 n. 6575, in RIDL, 2016, II, 714 ss., con note di M.T. Carinci, Gottardi e Tarquini. 36 M. T. Carinci, Il licenziamento discriminatorio alla luce della disciplina nazionale: nozioni e distinzioni, in RIDL, 2016, II, 720 ss.
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la conseguenza che «la condotta discriminatoria è idonea di per sé sola a determinare la nullità del licenziamento»37. Tuttavia, nel caso di specie si trattava di un’ipotesi di licenziamento discriminatorio per ragioni fondate sul sesso, con riferimento al quale la legge esclude che possano sussistere causa di giustificazione. Si dubita, invece, che tale ragionamento possa essere applicato alle altre ipotesi di discriminazione38 e, infatti, la sentenza in commento, in linea con la giurisprudenza maggioritaria39, continua a sovrapporre il licenziamento discriminatorio e il licenziamento ritorsivo. Giulia Marchi
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Gottardi, L’attesa decisione sulla nozione oggettiva di discriminazione, in un caso di annunciata procreazione medicalmente assistita, in RIDL, 2016, II, 729 ss. Un’impostazione simile avrebbe rilevanti conseguenze anche sul piano dell’onere probatorio: il lavoratore non sarebbe tenuto a provare che l’intento discriminatorio del datore di lavoro è stata la ragione determinante ed esclusiva del recesso. Cfr. Tarquini, La Corte di Cassazione e il principio di non discriminazione al tempo del diritto del lavoro derogabile, in RIDL, 2016, II, 737ss. 38 M. T. Carinci, Il licenziamento discriminatorio alla luce della disciplina nazionale: nozioni e distinzioni, cit. Infatti, con riferimento alle altre ipotesi di discriminazione, la legge prevede cause di giustificazione, mentre nell’ambito delle discriminazioni per ragioni di sesso la legge ammette cause di giustificazione solo con riferimento alle discriminazioni indirette e, in relazione alle discriminazioni dirette, l’art. 27, comma 5, del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, prevede «la causa di giustificazione dell’essenzialità del requisito» solo in fase di assunzione. 39 Ad esempio, Cass., 21 dicembre 2010, n., 25858, in De Jure; Cass., 26 maggio 2015, n. 10834, in De Jure.
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