Labor 1/2020

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Indici

Saggi Oronzo Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali.............................................................................................................................................p. 5 Madia D’Onghia, Il Reddito di Cittadinanza un anno dopo: eppur si muove ma con troppe funzioni e a doppia velocità.................................................................................................................... » 27

Giurisprudenza commentata Camilla Gernone, Illegittimo il recesso unilaterale del datore di lavoro da un contratto collettivo prima della sua scadenza........................................................................................................................ » 51 Tommaso Maserati, La Corte di Cassazione decide sull’applicazione dell’art. 8 d.l. n. 138/2011 in una procedura di riduzione del personale............................................................................................. » 63 Marta Giaconi, Il trattamento retributivo nel CCNL Vigilanza privata e servizi fiduciari lede l’art. 36 Cost. Un’interessante pronuncia del Tribunale di Torino................................................................. » 75 Barbara De Mozzi, Jobs Act: la disciplina sanzionatoria in tema di violazione dei criteri di scelta al vaglio del giudice europeo e della Consulta........................................................................................ » 91 Marco Tufo, Alienità, dipendenza e personalità: secondo lo Juzgado de Madrid i riders di Deliveroo sono subordinati.................................................................................................................. » 127


Indice analitico delle sentenze Contratto collettivo – Accordo di mobilità – Specifica intesa ex art. 8 d.l. 138/2011 – Qualificazione – Ammissibilità (Cass., 22 luglio 2019, n. 19660, con nota di Maserati) – CCNL Vigilanza privata – Sezione servizi fiduciari – Minimi tabellari – Violazione art. 36 Cost. – Sussistenza (Trib. Torino, 9 agosto 2019, n. 1128, con nota di Giaconi) – Recesso unilaterale ante tempus del singolo datore – Illegittimità (Cass., 20 agosto 2029, n. 21537, con nota di Gernone) Lavoro (rapporto) – Piattaforma digitale – Ciclofattorini – Qualificazione del rapporto – Lavoro subordinato – Alienità – Dipendenza – Personalità della prestazione (Juzgado de lo social n. 19 di Madrid, 22 luglio 2019, n. 188, con nota di Tufo) Licenziamenti – Tutele crescenti – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Violazione – Questione pregiudiziale – CDFUE – Carta sociale europea – Dir. 98/59/CE – Dir. 99/70/CE (Trib. Milano, 5 agosto 2019, con nota di De Mozzi)

Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2019 Luglio Cass., n. 19660 Juzgado de lo social n. 19 de Madrid, n. 188 Agosto Trib. Milano Trib. Torino n. 1128 Cass., n. 21537

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Notizie sugli autori

Oronzo Mazzotta – professore ordinario nell’Università di Pisa Camilla Gernone – dottoranda di ricerca nell’Università degli studi di Bari Marco Tufo – dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Siena Barbara De Mozzi – professoressa associata nell’Università degli studi di Padova Tommaso Maserati – dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Milano Madia D’Onghia – professoressa ordinaria nell’Università di Foggia Marta Giaconi – ricercatrice nell’Università degli studi di Milano Bicocca


Saggi



Oronzo Mazzotta

L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali Sommario : 1. A mo’ di premessa. – 2. Diritto del lavoro e modelli negoziali. – 3. La flessibilità dei criteri giurisprudenziali. – 4. I modelli rivisitati con una digressione. – 4.1. La subordinazione. – 4.2. La parasubordinazione. – 4.3. Il paradigma dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 (vecchio testo). – 5. La Cassazione ed i ciclofattorini. – 6. Le novità delle recenti riforme.

Sinossi. Il saggio, prendendo spunto dalla sentenza 24 gennaio 2020 n. 1663 della Corte di Cassazione, che si è pronunciata per la prima volta sul rapporto di lavoro dei ciclofattorini, rivisita i modelli contrattuali in cui è convenuta una prestazione di lavoro, anche alla luce delle riforme legislative degli anni 2017-2019. Abstract. The essay, inspired by the judgment of 24 January 2020 n. 1663 of the Court of Cassation, which ruled for the first time on the employment relationship of riders, revisits the contractual models in which a job performance is agreed, also in light of the legislative reforms of the years 2017-2019. Parole chiave: Lavoro (rapporto) – Subordinazione e parasubordinazione – Il rapporto dei ciclofattorini – Natura giuridica e trattamento

1. A mo’ di premessa. Siamo ancora qui ossessivamente, nevroticamente inchiodati ad interrogarci sul tipo contrattuale del lavoro subordinato e sui suoi confini. Siamo ancora qui a tentare di collocare nuove realtà entro schemi che riottosamente le rifiutano. Siamo ancora qui a decifrare testi normativi esoterici, che ci parlano per allusioni, per i quali più che un giurista servirebbe un cabalista.


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Il legislatore nel giro di quattro anni ci ha parlato e ci ha parlato per ben quattro volte: a) con l’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015; b) con una nuova definizione di “collaborazione coordinata”, inserita nella norma-chiave dell’art. 409, n. 3 c.p.c. dalla l. n. 81 del 2017; c) con la modifica dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 ad opera del d.l. n. 101 del 2019, convertito nella l. n. 128 del 2019; d) con le regole introdotte per il lavoro tramite piattaforme digitali (d.l. n. 101 del 2019, convertito nella l. n. 128 del 2019, che ha inserito il capo V-bis all’interno del d.lgs. n. 81 del 2015), che si pronunciano indirettamente anche sulla nozione di lavoro autonomo. Alla luce di queste premesse è quasi ovvio che la letteratura giuridica si polarizzi ancora una volta intorno al tema dei modelli contrattuali e con una ampiezza senza precedenti. Sullo sfondo delle nostre discussioni sta la rivoluzione informatica (quarta, quinta?), il capitale “documediale” che – come ha scritto Maurizio Ferraris – benché «richieda pochissimo lavoro ... in realtà mette al lavoro il mondo intero, e senza retribuirlo»1. Ed è altrettanto ovvio che la questione del lavoro organizzato tramite piattaforme finisca sulle scrivanie dei giudici (non solo nostrani), con la conseguenza che quei processi costituiscono l’occasione per saggiare la tenuta di nuove e vecchie categorie giuridiche. Sono dunque, da una parte, l’esperienza sociale (o gli esperimenti social-produttivi) e, dall’altra, la pressione che viene dagli interventi legislativi su subordinazione e dintorni, che costringono a nuove prese di posizione ed a nuovi confronti. L’inquadramento giuridico della prestazione di lavoro dei ciclofattorini ha tenuto banco nella discussione degli ultimi anni e qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di un dibattito sproporzionato rispetto all’entità economica del fenomeno2. In realtà – a ben guardare – si tratta di un rilievo solo in parte condivisibile. Basti pensare che la scelta fra autonomia e subordinazione non è affatto indolore per i potenziali destinatari e che l’adesione ricostruttiva all’una o all’altra opzione non può che condizionare le scelte produttive dei titolari dell’iniziativa economica del settore, orientando le forme ed i modi di governo del lavoro. Premesso che le caratteristiche modali di adempimento della prestazione possono variare molto da caso a caso, possiamo isolare alcuni caratteri, comuni a molte fattispecie, a partire dal leading case costituito dalla vicenda torinese3. Lasciamo da parte la situazione in cui il thema decidendum è quello della individuazione dell’effettivo datore di lavoro. Il lavoro può infatti essere organizzato secondo uno schema quadrilaterale in cui rilevano le posizioni (a) della piattaforma, (b) dell’impresa

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Sulle tante varianti del fenomeno economico-sociale che genericamente si definisce “digitalizzazione” v.: Salento, Digitalizzazione delle imprese e trasformazione delle competenze. Quadro analitico e riscontri empirici, in Labor, 2019, 131 ss. V. fra i tanti contributi: Barbieri, Della subordinazione dei ciclofattorini, in LLI, 2019, 1 ss.; Donini, Il lavoro attraverso le piattaforme digitali, BUP, 2019; Perulli, I lavoratori delle piattaforme e le collaborazioni etero-organizzate dal committente: una nuova frontiera regolativa per la Gig Economy?, in Labor, 2019, 320 ss.; Treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavori della Gig economy, in LD, 2017; Tullini, Le collaborazioni etero-organizzate dei riders: quali tutele applicabili? in LDE, 2019, n. 1; Ferrante, Subordinazione, dipendenza, abitualità, personalità: riflessioni e proposte per la tutela dei “nuovi” lavori, in Labor, 2019, 23 ss. V.: Trib. Torino, 7 maggio 2018, in Labor, 2018, 603, con nota di Gramano; App. Torino, 4 febbraio 2019, in Labor, 2019, 313 con nota di Perulli (che è la sentenza su cui si pronuncia la Cassazione: v. infra nel testo); v. altresì, su una vicenda analoga: Trib. Milano, 10 settembre 2018, in Labor, 2019, 107, con nota di Forlivesi.

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che collabora con questa, (c) dei lavoratori, (d) dei clienti. In tali situazioni l’indagine deve appuntarsi sulla verifica dei nessi di collegamento fra gli attori della vicenda, anche allo scopo di constatare l’esistenza di illegittimi rapporti interpositori e la soluzione giuridica può transitare attraverso gli strumenti che l’ordinamento predispone per reprimere tali forme di illegittimo impiego del lavoro4. La vicenda torinese è invece inquadrabile alla stregua di un rapporto trilaterale (gestore della piattaforma/ lavoratori/clienti) in cui la società che gestisce la piattaforma costituisce il centro d’imputazione dei rapporti di lavoro che ad essa fanno capo. La piattaforma è in sostanza solo uno strumento utile per l’amministrazione del servizio (e dei rapporti di lavoro). Formalmente i lavoratori sottoscrivono un contratto di collaborazione coordinata e continuativa i cui tratti caratteristici principali sono i seguenti: a) libertà di candidarsi per una corsa; b) utilizzo di un proprio mezzo (ma impiego in comodato gratuito di casco, giubbotto, bauletto per le consegne); c) esclusione di ogni vincolo orario, fatto salvo il coordinamento generale con l’attività della committente; d) stretti vincoli temporali per l’effettuazione della consegna (pena l’applicazione di una sanzione economica). Più degli impegni assunti sul piano negoziale dalle parti però vale, al cospetto delle nuove tecnologie, il retroscena invisibile, che ha un nome preciso: algoritmo. È quest’ultimo che costruisce lo spazio organizzativo e plasma (anche) i comportamenti lavorativi. L’algoritmo esercita un controllo pervasivo sull’attività di lavoro, penalizzando quelli fra i prestatori che non si attagliano al modello ideale di produttore (che presuppone la sottoposizione a turni massacranti di lavoro), stila la classifica dei più meritevoli, traccia le prestazioni dei singoli e le confronta. Dunque la piattaforma (tramite l’algoritmo) controlla la prestazione e sanziona i comportamenti non conformi a determinati standard5. I fautori della collocazione di tali rapporti entro l’ampio contenitore dell’autonomia valorizzano il dato che ha costituito, negli anni novanta, il cavallo di battaglia delle tesi anti-subordinazione relative al lavoro dei pony-express (fattorini metropolitani): la libertà di scelta che resta a ciascun lavoratore di accettare o rifiutare il singolo incarico. Se manca la disponibilità negli intervalli non lavorati fra due diverse chiamate per ciò stesso – si assume – manca il vincolo della dipendenza giuridica6. Tale valutazione considera del tutto irrilevante la situazione di etero-direzione ed eteroorganizzazione in cui si svolge l’attività una volta accettato l’incarico (e tutto l’apparato valutativo che si svolge dietro le quinte). È sufficiente, allo scopo di escludere la subordi-

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In argomento rinvio alla pertinente ricostruzione di Loffredo, Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale, in Labor, 2019, 253 ss. Non a caso le cronache giornalistiche riferiscono di un’indagine della Procura della repubblica di Milano per il reato di caporalato. V., sul punto: C. giust., 20 dicembre 2017, causa C-434/15, Uber, par. 39, ove si legge che la piattaforma ha un’influenza dominante sulle condizioni dei prestatori, esercitando «un determinato controllo sulla qualità dei veicoli e dei loro conducenti nonché sul comportamento di quest’ultimi, che può portare, se del caso, alla loro esclusione». In argomento v. i giusti rilievi di Bolego, Intelligenza artificiale e regolazione delle relazioni di lavoro: prime riflessioni, in Labor, 2019, 61 ss. Notissime le sentenze della Cassazione dell’epoca: su tutte Cass., 10 luglio 1991, n. 7608, in RIDL, 1992, II, 103, con nota di Nogler; le sentenze del Trib. Torino, 7 maggio 2018 e del Trib. Milano, 10 settembre 2018, citt. si muovono nella medesima logica.

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nazione, la (presunta) libertà del lavoratore di inserirsi nel mercato, anche se le condizioni in cui si svolge l’attività sono totalmente etero-imposte. In sostanza ed in sintesi, secondo tale prospettazione, la verifica della esistenza dei requisiti della subordinazione si ferma sulla soglia dell’adempimento del singolo servizio, senza scendere a verificare i modi di atteggiarsi del rapporto all’interno dei singoli servizi. Tracciate queste minime coordinate fattuali dobbiamo ancora una volta ripercorrere i modelli contrattuali di base al cui interno è conferita l’attività lavorativa.

2. Diritto del lavoro e modelli negoziali. La discussione sulla collocazione del lavoro fra autonomia e subordinazione non nasce oggi, ma viene da lontano ed ha visto, alle origini, contrapposti due partiti: quello che voleva radicare la distinzione sul terreno dei rapporti sociali, prendendo le mosse dall’idea che il diritto del lavoro è nato (avrebbe dovuto nascere) per rimuovere le diseguaglianze e si è sempre diretto (avrebbe dovuto dirigersi) a proteggere gli ultimi e quello che invece più asetticamente faceva leva sulle categorie civil/romanistiche che erano alla base della distinzione fra locatio operis e locatio operarum. Il primo filone di pensiero avrebbe portato la nostra branca del sapere giuridico ad evolversi verso una sorta di droit ouvrier7, mentre il secondo lo traghettava appunto verso una configurazione come diritto del “lavoro”, in un’accezione più ampia ed onnicomprensiva. Dunque: dalla protezione di un soggetto caratteristicamente collocato all’identificazione di un contratto sulla base di elementi oggettivi. Quest’ultima accezione è risultata quella apparentemente recepita dal legislatore nella norma-chiave dell’art. 2094 c.c., almeno nella vulgata comune che fa consistere l’elemento discretivo fra prestazioni di lavoro autonome e subordinate nel requisito della etero-direzione, intesa come potere datoriale di dirigere la prestazione verso un risultato atteso; in ciò si tradurrebbe, appunto, il potere propriamente direttivo. Il descritto processo storico-evolutivo non ha impedito che, come un fiume carsico, l’idea della influenza qualificatoria del dato della collocazione del lavoratore sul piano dei rapporti sociali continuasse a circolare sotterraneamente – e non sempre consapevolmente – nella riflessione di dottori e giudici8.

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Quanto alla prima opzione non dimentichiamo che la prima legislazione sociale a cavallo fra otto e novecento indicava come propri destinatari, volta a volta, il lavoro “manuale” (la disciplina del lavoro nelle miniere: 1893-1907), gli “operai” (l. n. 295/1893 sui collegi probivirali), “padroni” e “operai” (l. n. 105/1908, sull’abolizione del lavoro notturno dei fornai), il lavoratore degli ”opifici industriali” (l. n. 242/1902 sulla protezione delle donne e dei fanciulli). Del resto non si può ragionevolmente contestare che quello che definiamo come “diritto del lavoro” costituisce un agglomerato normativo che storicamente ha come riferimento sociale un soggetto che si trova in uno stato di inferiorità economica, caratterizzata dalla alienità del lavoro e del suo risultato, direttamente derivante dalla mancanza di disponibilità dei mezzi per produrre. Non è solo la storia che ci consegna questa immagine, ma, in modo assai più significativo, la Carta costituzionale, che in più luoghi (artt. 1, 3, comma 2, 4, 36, 37, 38, 41) evoca la figura del lavoratore dipendente e ne fa oggetto di una tutela privilegiata.

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Il punto è che l’idea che identifica la subordinazione con l’etero-direzione è nata intrinsecamente vaga e tale da costruire un setaccio dalle maglie troppo larghe, per poterne fare un criterio veramente selettivo. E di questo vizio di origine è autorevolissimo testimone-protagonista Lodovico Barassi. Il manifesto del suo pensiero e dell’idea di subordinazione come esercizio del potere direttivo è in un passaggio esemplare della sua opera principale9. Quando il creditore del lavoro è a contatto col lavoro, lo dirige, lo sorveglia, lo indirizza a quei risultati cui egli, mercé le prestazioni del debitore, intenda arrivare, vi ha locazione di opere. In tal caso il lavoratore è un istrumento, e un istrumento in un certo senso passivo, nel senso che presta le proprie attitudini fisiche e intellettive perché l’altra parte le abbia a plasmare e dirigere e indirizzare come egli intende. Questo avviene così per l’operaio come per il direttore di una banca. L’uno e l’altro non hanno di mira un risultato determinato, ma una semplice prestazione di energie a quei fini cui la guida, il controllo e la sorveglianza del capo-fabbrica o del consiglio di amministrazione della Banca intende condurle. Esiste dunque un contatto immediato, diretto tra il creditore di lavoro e i mezzi di lavoro offerti dall’altra parte … Però questo contatto non ha sempre la medesima intensità; ma può andare da un maximum, come è per l’operaio o per lo scrivano che lavorano sotto l’incessante guida del capo di fabbrica o d’ufficio, sino ad un minimum, come è per il direttore di Banca, che ha anche un’iniziativa propria.

Si tratta di un’idea, che definirei sincretistica, ancora molto presente nel dibattito contemporaneo. Ne è testimonianza la tralaticia affermazione giurisprudenziale secondo cui «qualsiasi attività umana può in astratto essere oggetto di un lavoro autonomo come di un lavoro subordinato»10. Sennonché la giurisprudenza si è resa conto ben presto della sostanziale inutilizzabilità di quel criterio, che – se corrisponde al modello social-tipico del lavoratore (l’operaio della grande industria per intenderci) – non è di alcuna utilità per sceverare le situazioni in cui uno o più elementi del modello social-tipico sono assenti. È per questa ragione che i nostri giudici (ma non solo i nostri) hanno elaborato ulteriori criteri, definiti succedanei, ma che lo sono solo all’apparenza, per ampliare il repertorio da cui attingere nei casi-limite. Ed ecco apparire gli indici empirici di riconoscimento (o “spie”, secondo il lessico di Giuseppe Pera) in cui si polverizza la subordinazione: l’inserimento nell’impresa del datore di lavoro, la continuità della prestazione, la sottoposizione ai poteri di controllo e direzione del datore, il carattere personale della prestazione, la cessione di energie lavorative (quale oggetto del contratto), l’estraneazione dal risultato produttivo (assenza di rischio). Non è qui il caso di interrogarsi sulla correttezza del procedimento logico ed in particolare sulla giustapposizione di fattispecie ed effetti, perché è sufficiente, per fugare il dubbio di una sostanziale creatività nella individuazione dei caratteri della subordinazione, assumere che, per mantenersi fedele all’evoluzione della realtà, la giurisprudenza abbia dovuto contaminare il più restrittivo punto di riferimento assunto dall’ordinamento nell’art.

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V. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, SEI, 1901, 29. V. ad es., fra le tante: Cass., 17 agosto 2004, n. 16038.

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2094 c.c. con la funzione complessiva sottesa all’intervento protettivo dello stato a favore di talune classi sociali. Certo tutto questo è vero, ma è vero altrettanto che quegli indici non sono germinati dal nulla (come Minerva dalla mente di Giove), ma, come vado sostenendo da molto tempo, sono stati fatti propri dall’ordinamento ed inseriti nel sistema normativo. Ciò acquisito può essere ozioso chiedersi se sia la giurisprudenza che insegue il legislatore o se sia quest’ultimo che va a rimorchio di quella. Più produttivo è verificare se ed in che misura tutti o alcuni di quegli indici sono rinvenibili nel diritto positivo. Una rapida ricognizione consente di rispondere positivamente alla domanda. Vi è anzitutto la stessa definizione di para-subordinazione, che individua una serie di elementi comuni alla subordinazione, quali la continuità della prestazione ed il suo carattere personale. Non a caso proprio il riconoscimento dell’esistenza di tali tratti comuni che rende tali soggetti, agli occhi del legislatore, meritevoli di particolare protezione. E dunque il legislatore condivide l’idea secondo cui proprio i dati della «continuità» e della «personalità» della prestazione, beninteso insieme alla valorizzazione di altri elementi, appaiono idonei – nella normalità della fenomenologia sociale – a richiamare in causa l’esistenza della subordinazione. Analoghe indicazioni provengono dalla definizione di lavoratore subordinato sportivo, prevista dall’art. 2 della l. n. 91 del 1981, che rimette in campo, ancora una volta i tratti della continuità (non occasionalità), della sottoposizione ai poteri di coordinamento da parte della società datrice e di un’apprezzabile durata, dati tutti espressivi della dipendenza. Altrettanto utile ai nostri fini è la nozione di etero-direzione che è al centro della subordinazione “derogatoria” nel lavoro a domicilio («osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nell’esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione di prodotti oggetto dell’attività dell’imprenditore committente»). Essa ci dice che c’è subordinazione anche se limitata ai soli profili dell’esecuzione tecnica del manufatto; quindi: o è una forma di lavoro autonomo, caratterizzata da una più stretta inerenza al ciclo produttivo, tale da meritare l’estensione delle tutele o è una forma di affievolimento o attenuazione della subordinazione; in sostanza la disposizione ci dice che è possibile scindere il potere direttivo in quanto potere di comando e direzione dal potere direttivo in quanto potestà di dare indicazioni tecniche. Del resto la suggestione del gioco di rimandi fra giurisprudenza e legislatore è alimentata anche da quest’ultimo, nel momento in cui – nella versione originaria dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 – ci suggerisce che un lavoratore che non si avvale di aiuti ed è inserito nella struttura organizzativa datoriale, anche quanto a tempo e luogo della prestazione, è inequivocabilmente subordinato.

3. La flessibilità dei criteri giurisprudenziali. Un altro dato da tenere in considerazione in questa prima ricognizione introduttiva è che la ricerca e l’elaborazione di quella lunga serie di elementi sintomatici è servita alla

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giurisprudenza per adattare la nozione di subordinazione alle varie specie di fatto su cui si trovava ad operare. In sostanza i nostri giudici hanno dimostrato una straordinaria flessibilità nell’impiego dei vari criteri elaborati (e/o desunti dall’ordinamento), dilatandoli o, volta a volta, restringendoli. È proprio questa flessibilità che ha consentito un costante adeguamento del diritto e della sua interpretazione alla realtà sociale. Dunque una giurisprudenza (non utopica né distopica, ma) topica che è quasi sempre legata alla specificità del caso e che pesca nel vasto repertorio degli elementi sintomatici a seconda del risultato cui vuole attingere (argomentazione orientata alle conseguenze). Qualche esempio di questa tendenza può essere più chiaro di ogni discorso astratto. Muoviamo dal dato della continuità, intesa come attitudine del rapporto a reiterare l’impegno lavorativo entro un arco di tempo definito. Si rinvengono pronunce che assumono che la discontinuità dell’offerta lavorativa non è di per sé indice di autonomia, in presenza dell’etero organizzazione e della disponibilità anche solo astratta negli intervalli non lavorati (nel caso riferita a mansioni di donna delle pulizie)11. Una visione flessibile della continuità agevola anche la soluzione di quelle specie in cui è lo stesso potere direttivo a non essere esercitato in modo costante ed univoco. In tali circostanze, per ricondurre il rapporto al paradigma della subordinazione, sono stati fatti valere criteri succedanei, quali la riferibilità della continuità al rapporto nel suo insieme (compatibile con intervalli non lavorati), le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro e, per converso, l’inesistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore (fattispecie relativa ad un addetto ad una ricevitoria scommesse)12. Per quanto riguarda gli addetti ai cc.dd. call center il criterio distintivo è di nuovo il tempo: continuità ed osservanza di un orario in un contesto di etero-organizzazione e predisposizione dei mezzi di lavoro13. E veniamo al cuore della questione: il potere direttivo. Quest’ultimo pacificamente tracima in mero potere di organizzazione in tutte quelle situazioni in cui il lavoratore è portatore di un proprio bagaglio di conoscenze ignoto al datore che quindi non può dare direttive stringenti sulla prestazione. In questi casi la subordinazione si riduce nell’organizzare la prestazione coordinandola con quella di altri (è il caso del medico dipendente da una casa di cura)14. Il che significa che il potere direttivo non implica l’emanazione costante di direttive specifiche e puntuali, ma anche solo direttive generali e programmatiche e l’inserimento nell’organizzazione aziendale15. Quanto infine al luogo di lavoro, le prestazioni di lavoro al di fuori dei locali aziendali (pensiamo al viaggiatore-piazzista) rientrano nella subordinazione in presenza dell’esercizio di penetranti poteri di direzione e controllo da parte del datore di lavoro (alla luce di

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Cass., ord., 3 ottobre 2017, n. 23056. Cass., 11 ottobre 2017, n. 23846. 13 Cass., 8 gennaio 2015, n. 66. 14 Cass., 21 ottobre 2014, n. 22289. 15 Cass., 16 novembre 2018, n. 29640; Cass., 14 giugno 2018, n. 15631; Cass., ord., 3 ottobre 2017, n. 23056. 12

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elementi quali l’individuazione dei clienti cui consegnare la merce, la definizione dell’itinerario da seguire, l’automezzo fornito dal datore di lavoro, etc.)16.

4. I modelli rivisitati con una digressione 4.1. La subordinazione. Facendo tesoro delle scarne indicazioni precedenti possiamo procedere a rivisitare i modelli contrattuali, a partire, come è ovvio, dalla subordinazione. Come abbiamo visto il quadro complessivo non è privo di contraddizioni e soprattutto ci offre un’immagine in cui i requisiti essenziali che appartengono ad un patrimonio culturale acquisito vengono piegati flessibilmente alle necessità del momento. Vi sono però delle costanti nella riflessione. E la prima è che la subordinazione si caratterizza sempre (fatte salve le note eccezioni del lavoro a domicilio e del portierato, ampiamente giustificate dalla natura intrinseca della prestazione per le specifiche modalità di esecuzione) per il carattere esclusivamente personale della prestazione. Il lavoratore subordinato non può in alcun modo avvalersi di sostituti. La seconda, collegata alla prima, è che il lavoratore subordinato non ha mezzi di produzione propri, ma utilizza mezzi di produzione altrui. In sostanza il lavoratore subordinato non ha una propria auto-organizzazione, in ciò riducendosi la mancanza di mezzi materiali ed umani per dar corso alla propria prestazione. Per altro verso pare definitivamente tramontata l’idea che l’indicazione secondo cui il prestatore di lavoro opera “alle dipendenze e sotto la direzione” dell’imprenditore costituisca un’endiadi sinteticamente allusiva alla subordinazione tecnico-funzionale e all’esercizio del potere direttivo. In realtà il richiamo del concetto di “dipendenza” costituisce solo il riferimento ad una situazione che normalmente si accompagna al potere di direzione17. In questa logica può avere la funzione di distinguere le indicazioni e direttive che l’appaltante o il cliente del lavoratore autonomo fornisce per conformare l’opera da eseguire alle proprie necessità. E dunque lì dove la “dipendenza” si accompagna alla “direzione” deve presumersi il ricorrere della subordinazione. Il problema è che se vogliamo trarre dall’art. 2094 c.c., nella parte in cui allude alla “dipendenza”, delle indicazioni utili per discernere subordinazione da autonomia dobbiamo assumere per certo che nel lavoro subordinato c’è sempre una diseguale distribuzione dei poteri: vi è un soggetto che indirizza e dirige la prestazione ed un soggetto che indefetti-

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Cass., 12 luglio 2017, n. 17160. Così Mengoni, La questione della subordinazione in due trattazioni recenti, in RIDL, 1986, 17, il cui pensiero è giustamente richiamato da Barbieri, Della subordinazione dei ciclofattorini, cit., 15.

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bilmente è sottoposto a tali poteri di indirizzo e coordinamento, senza spazi di interlocuzione. Per quanto si vogliano differenziare i poteri datoriali (di organizzazione, di conformazione, di direzione) è la unilateralità che ne costituisce il fulcro della caratterizzazione fondamentale. In questo si risolve la “dipendenza” evocata dall’art. 2094 c.c. Ed è a questo che allude l’idea risalente della doppia alienità18. Essa ha in sé un’idea di unilateralità insieme ad un’idea di estraniazione (id est: alienazione) del lavoratore rispetto al risultato ultimo dell’organizzazione produttiva, il risultato in senso pregnante di manciniana memoria19. Altra e diversa questione è quella della fonte del rapporto di lavoro: su questo tema teoricamente intrigante tornerò fra poco. Al momento è essenziale – anche, ma non solo, per provare a decifrare quanto di nuovo ci propone la realtà produttiva – affrontare correttamente il tema dei rapporti fra eterodirezione ed etero-organizzazione. Anche su questo aspetto cruciale della vicenda la nebbia si sta diradando. Credo che sia ormai indiscutibile che il potere di comando implichi quello di organizzazione, nel senso che l’uno è la conseguenza dell’altro. In sostanza l’esercizio del potere direttivo è funzionale al controllo sull’organizzazione produttiva. Ciò significa che il potere di organizzazione è più ampio ed onnicomprensivo rispetto a quello di mera direzione della prestazione: c’è quand’anche manchi o sia ridotto ai minimi termini il potere di direzione. Il che è dimostrato proprio dal fatto che, in talune situazioni, a seconda della specifica natura della prestazione dedotta il coté organizzativo può assorbire o prevalere su quello direttivo. A questo proposito l’errore di Barassi, che ha voluto risolvere il problema della collocazione di prestazioni di lavoro di alto profilo (come quella del dirigente) entro la subordinazione, è stato quello di utilizzare il contenitore del potere direttivo (nel quale B. fa consistere il proprium della subordinazione) dilatandolo a dismisura, fino a far convivere sotto lo stesso tetto prestazioni lavorative distanti fra loro anni-luce. Molto più semplice è invece assumere che il collante fra le due diverse posizioni (quella del manovale e quella del direttore generale) sia non un potere direttivo così flessibile e cedevole da perdere ogni propensione ricognitiva, bensì il potere di organizzazione che precede quello di direzione. Il che vale quanto dire che l’etero-organizzazione è il fulcro minimo intorno al quale si coagula l’idea di lavoro subordinato. Le conferme normative della correttezza di tale assunto non mancano. La prima è la scelta del legislatore del ’42 – conforme ad una prassi sociale che già lavorava in quella direzione20 – di collocare anche il dirigente (in particolare quello “tecnico”) fra i lavoratori subordinati, «lasciando perfettamente intendere che in tal caso il solo potere direttivo

18

Cfr. Barbieri, op. cit., 12-13, che giustamente richiama la notissima sentenza n. 30 del 1996 della Corte costituzionale (estensore Mengoni), che delinea, in modo si direbbe doppiamente autorevole, l’idea della “doppia alienità”. 19 V.: Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Giuffrè, 1956. 20 V. recentemente: Galardi, Il dirigente d’azienda. Figure e disciplina, Giappichelli, 2018, 5 ss.; e già: Sandulli, Prestazione di lavoro subordinato e attività di rappresentanza, Giuffrè, 1974.

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esercitabile non poteva che essere quello attinente all’inserimento della prestazione resa, nell’ambito della più ampia organizzazione dell’impresa, governata dall’impulso gerarchico dell’imprenditore (art. 2086 c.c.)»21. Del resto al potere organizzativo – id est: all’etero-organizzazione – sono da ricondurre gli indici di origine giurisprudenziale che alludono al controllo del tempo e del luogo di lavoro. In tale ambito il controllo sul tempo allude non tanto (o non solo) all’osservanza da parte del prestatore di un orario di lavoro, quanto alla privazione di libertà che comporta l’inserimento in un’organizzazione etero-diretta. Abbiamo ricordato, a tal proposito, la giurisprudenza sui medici di case di cura private rispetto ai quali il discrimine fra autonomia ed organizzazione non può passare certo attraverso un potere datoriale di dare indicazioni “tecniche” al medico, ma, per l’appunto, per il tramite dell’inserimento all’interno di un contesto organizzativo governato da altri. E la medesima tecnica ricognitiva ed euristica vale, paradossalmente (ma non tanto) per i lavori posti agli estremi opposti della scala: anche per la donna delle pulizie il profilo etero-organizzativo è preminente nella caratterizzazione della posizione datoriale, nel caso data la pochezza di apporto qualitativo del lavoratore. Ma non è tutto. Che il controllo sull’organizzazione costituisca l’elemento fondante per caratterizzare la subordinazione è dimostrato dalla vicenda storica del divieto di interposizione. Chi fra i primi ha cercato di elaborare una strategia giuridica di repressione del fenomeno ha, come è ben noto, valorizzato la clausola generale della frode alla legge, cercando di dimostrare che l’abbattimento del ‘velo’ costituito dal soggetto fraudolentemente interposto sarebbe stato sufficiente a ricondurre i rapporti di lavoro dei lavoratori assunti e formalmente utilizzati da quest’ultimo in capo al committente22. La scelta operata dal legislatore con la storica legge del ’60 è stata invece quella di puntare sulla simulazione più che sulla frode. L’interposizione altro non sarebbe che un contratto d’appalto simulato, dietro il quale si celerebbe la realtà di uno o di una serie di rapporti di lavoro subordinato. In sostanza il legislatore, riconducendo il rapporto di lavoro in capo all’effettivo utilizzatore delle prestazioni (e non, asetticamente, in capo al committente), ha voluto farci comprendere che fra i due protagonisti della relazione giuridica (i dipendenti dell’interposto ed il committente) sussistesse già nella realtà un rapporto di lavoro con i tratti della subordinazione. Interposizione e subordinazione sono dunque perfettamente sovrapponibili, come ci dimostrano concordemente sia la storia che il diritto vivente giurisprudenziale23.

21

Così giustamente Ferrante, in Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, in Colloqui Giuridici sul Lavoro, a cura di Vallebona, 2015, 37; nello stesso senso v. anche Cester, ivi, 29. 22 È la nota posizione di Cessari, L’interposizione fraudolenta nel diritto del lavoro, Giuffrè, 1959. 23 È l’idea che percorre la mia monografia (Mazzotta, Rapporti interpositori e contratto di lavoro, Giuffrè, 1979), cui ha aderito gran parte della dottrina successiva; v, fra gli altri: Zanelli, Decentramento produttivo, in GI, 1988, IV, 402 ss.; Scarpelli, Interposizione e appalto nel settore dei servizi informatici, in Nuova tecnologie e rapporti fra imprese, a cura di Mazzotta, Giuffrè, 1990, 67 ss.; De Simone, Titolarità dei rapporti di lavoro e regole di trasparenza. Interposizione, imprese di gruppo, lavoro interinale, Angeli, 1995, 64 ss.; Chieco, Poteri dell’imprenditore e decentramento produttivo, Giappichelli, 1996, 335; Bonardi, L’utilizzazione indiretta del lavoratore. Divieto di interposizione e lavoro interinale, Angeli, 2001; Bellocchi, Interposizione e subordinazione, in ADL, 2001, 163 ss.; e più di recente: Loffredo, Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale, in Labor, 2019, 265.

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L’impiego dei lavoratori per il tramite di un soggetto interposto altro non è che una variante moderna del lavoro per squadre che in alcuni settori (cantieristica navale, edilizia, etc.) non ha modificato le proprie caratteristiche. La problematica giuridica conseguente nel diritto moderno è stata affrontata, con strumenti e tecniche simili alle metodologie attuali, ancora una volta da Lodovico Barassi (e chi sennò?) nell’ampia trattazione del cottimo collettivo autonomo24. E la discussione barassiana ruotava intorno all’alternativa autonomia-subordinazione dell’intero gruppo organizzato alle dipendenze del capo-cottimista, che, a sua volta, operava sotto la direzione dell’imprenditore committente. Non a caso il divieto di interposizione, codificato dalla legge del ’60, altro non è che una versione più ampia ed onnicomprensiva del divieto di cottimo collettivo autonomo, fotografato dall’art. 2127 c.c. Ora tutti sanno che il divieto di interposizione esiste tuttora, ad onta dell’abrogazione della legge 1369/1960, e si presenta – così come per il passato – sotto le spoglie di un appalto simulato (o di una somministrazione simulata o, ancora, di un comando simulato). E, analogamente, al passato, in caso di simulazione di contratto d’appalto, l’art. 29, comma 3-bis del d.lgs. 276/2003 dà ai lavoratori dipendenti dal finto appaltatore il diritto ad agire nei confronti dell’effettivo utilizzatore, con un lessico mutuato alla lettera da quello dell’art. 1, u. c. della legge del 1369/60. Ma non è ancora tutto. L’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, allo scopo di estendere lo spazio di liceità dei contratti di appalto in cui l’impiego della manodopera fa ampiamente aggio sull’uso di mezzi strumentali (pensiamo all’appalto dei servizi di pulizia), ci segnala che, in tali situazioni, l’organizzazione dei mezzi dell’impresa appaltatrice può anche risultare «dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto». La funzione di tale disposizione è chiarissima. Essa – per allargare al massimo le maglie degli appalti leciti – ci spiega che l’appaltatore può anche solo limitarsi, nella veste di datore dei propri dipendenti, anche solo ad organizzare la loro prestazione. Il che significa ulteriormente che il minimum della subordinazione sta proprio nel potere di organizzare la prestazione altrui, in una condizione di squilibrio di poteri fra le parti, e pur in assenza di ulteriori mezzi strumentali (o in presenza dell’impiego di scarsissimi mezzi strumentali). * E qui credo che sia importante una digressione sulla fonte di questo rapporto squilibrato. Ancora di recente Pietro Ichino25, nel rieditare la disputa fra contrattualisti ed a-contrattualisti, ha ritenuto di collocarmi in quest’ultima categoria. La posizione ora ribadita è

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Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, 2a edizione, SEI, 1915, I vol., 749 ss., su cui v.: Mazzotta, Rapporti interpositori, etc., cit., 33 ss. 25 V. Ichino, Un libro sui maggiori giuristi italiani del lavoro del Novecento, in LDE, n. 3/2019, in cui recensisce il volume di Umberto Romagnoli, Giuristi del lavoro del Novecento italiano – Profili, Ediesse, 2018.

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stata più ampiamente sviluppata dal medesimo autore nella relazione svolta al Convegno Aidlass di Trento del 1999, dedicato proprio ai nuovi confini dell’impresa ed in cui un ruolo centrale ha la discussione sui rapporti interpositori26. L’idea è che nella prospettiva della c.d. “doppia alienazione”, che nella sua più compiuta realizzazione è da far risalire alla monografia di Umberto Romagnoli sul contratto di società27, «la costruzione della subordinazione» costituirebbe l’«effetto di un dato di fatto». E tale prospettiva interpretativa si contrapporrebbe «alla tesi secondo cui la qualificazione del rapporto va operata sulla base della struttura della prestazione effettivamente voluta dalle parti del contratto» [i corsivi sono miei]28. Non intendo qui confutare analiticamente l’una o l’altra tesi, ma solo cogliere l’occasione per chiarire il mio pensiero ed auspicarne la giusta collocazione nella disputa fra contrattualismo ed a-contrattualismo. Molto (di male) si potrà dire sulla mia fatica monografica della fine degli anni settanta del secolo scorso, ma non certo che non abbia dedicato attenzione al tema della fonte del rapporto di lavoro in caso di interposizione: la relativa trattazione copre ben due capitoli, per oltre duecento pagine29. Nella precedente citazione del pensiero di Ichino vi è al solito l’equivoca contrapposizione, nella dinamica del contratto, fra volontà e rappresentazione/dichiarazione. Quando Ichino parla di assetto di interessi “voluto” dalle parti non credo intenda che la volontà rilevante debba essere quella consacrata in un documento negoziale. È quasi inutile rilevare, in contrario, che nel rapporto di lavoro il “voluto” è quello riflesso dalla effettiva articolazione del rapporto così come si presenta nella realtà effettuale (a prescindere dalla sua rappresentazione cartacea)30. E dunque l’interprete deve indagare sull’articolazione concreta del rapporto e ricavare da questa «la prestazione effettivamente voluta dalle parti nel contratto», per usare il lessico ichiniano. Ciò posto, ricordo, come già fatto in precedenza, che storia e diritto vivente giurisprudenziale concorrono a fornire un avallo sistematico all’idea della perfetta sovrapponibilità delle tematiche della subordinazione e dell’interposizione, con il corollario della intercambiabilità dei criteri utilizzati per fotografare l’una e l’altra. Alla luce di queste premesse lo sforzo che a suo tempo ho compiuto era diretto a dimostrare che la riconduzione del rapporto di lavoro in capo all’“effettivo utilizzatore” prefigurata dal quinto comma dell’art. 1 della legge del ’60, non operasse quale sanzione che ricollegava un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto ad esso estraneo, ma fotografasse la realtà di un rapporto di lavoro che già nei fatti aveva le caratteristiche del lavoro subordinato fra pseudo-committente e lavoratori assunti dall’interposto (ed operanti formalmente alle dipendenze di quest’ultimo).

26

V. Ichino, Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, in DLRI, 1999, 203 ss., qui 233 ss. V. Romagnoli, La prestazione di lavoro nel contratto di società, Giuffrè, 1967. 28 Ichino, Un libro sui maggiori giuristi, cit., 5. 29 Precisamente i capitoli III e IV, da pagina 167 a pagina 367. 30 V. se vuoi Mazzotta, Autonomia individuale e sistema del diritto del lavoro, in DLRI, 1991, 489 ss. 27

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La riprova di questa affermazione la ritraevo dall’analisi della giurisprudenza formatasi sul fenomeno, giurisprudenza che per sceverare l’interposizione illecita dall’appalto lecito metteva a frutto le medesime categorie concettuali impiegate per riconoscere la sussistenza della subordinazione. I termini della questione non sono cambiati. Infatti, esemplificando e anche banalizzando, ancora oggi i giudici per stabilire se si trovano di fronte ad un appalto lecito o ad una forma di interposizione vietata, oltre ad indagare sulla struttura imprenditoriale dell’appaltatore (proprietà/disponibilità di mezzi di produzione, rischio d’impresa, etc.), verificano se il committente, nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore, esercita tutti i poteri tipici del datore di lavoro (direttivo, organizzativo, disciplinare, controllo su tempo e luogo, etc.). Risulta chiaro allora come e perché la disciplina giuridica del divieto di interposizione può fornirci utili contributi per la soluzione dei problemi della subordinazione. Ciò posto l’ulteriore quesito da porsi è legato alla natura del rapporto che si costituiva per effetto dell’art. 1, 5° comma della legge del ’60 ed oggi in conseguenza degli artt. 38 del d.lgs. 81/2015 (somministrazione irregolare), nonché 29, comma 3-bis (appalto illecito) e 30 comma 4-bis (distacco illecito) del d.lgs. 276/2003. Si tratta di un rapporto imposto ex lege? Si tratta di un rapporto che trova la sua fonte nel fatto dell’occupazione? Si tratta di un rapporto che, nonostante tutto, affonda in un contratto? Nel corso degli anni sessanta e settanta la dottrina giuslavoristica ha speso fior di energie per argomentare – talvolta in modo molto dotto – ciascuna delle opzioni appena ricordate, che rappresentano solo delle semplificazioni di prospettive assai complesse e ramificate. Il mio contributo al dibattito se posso ricordarlo – e lo faccio solo per la (piccola) storia delle mie personalissime e controvertibili idee – è consistito nel dimostrare che, ad onta delle apparenze, il rapporto di lavoro che si crea all’esito di una interposizione vietata ha origine inequivocabilmente contrattuale. Quindi non è affatto vero che abbia inteso valorizzare un comportamento “socialmente” valutabile come contratto di lavoro, secondo gli stilemi dei sostenitori dei cc.dd. “rapporti contrattuali di fatto”31. Anzi è vero esattamente il contrario. Tutto il mio sforzo ricostruttivo è teso invece a dimostrare l’esistenza di una struttura programmatica, idonea a reggere il peso di una relazione contrattuale, criticando, ed anche aspramente, l’idea che il rapporto di lavoro potesse nascere dal mero “fatto” dell’occupazione. Il che significa negare ogni rilevanza alla teorica dei rapporti contrattuali di fatto, in adesione alla autorevole prospettiva secondo cui quasi sempre, nelle situazioni ricondotte a tale categoria generale, si deve «ammettere che lo schema di quest’atto realiz-

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Scrive Pietro Ichino (Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, cit., 234, nota 65) che, alla nota 107 di pagina 337 del mio Rapporti interpositori, cit., avrei dichiarato di ispirarmi al Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato di G. Stella Richter. Vero è invece che il saggio di Stella Richter viene richiamato per sottoporlo a critica. Si legge infatti nel testo che rinvia alla nota: «a non dissimili obiezioni si opporrebbe la prospettiva che volesse giudicare la relazione instauratasi fra committente e lavoratori alla stregua di un comportamento “socialmente” valutabile quale contratto di lavoro» e la nota richiama appunto l’opera di Stella Richter.

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za la struttura propria del contratto, sia pure per il tramite di una tecnica procedimentale diversa dalle consuete»32. Il punto è che, per verificare se la fonte del rapporto di lavoro in caso di interposizione vietata sia un fatto o un contratto non si può e non si deve interpellare il diritto del lavoro, ma il diritto privato per chiedersi quale sia la nozione di contratto che l’ordinamento accoglie in un determinato momento storico. È questa la difficile disciplina cui, in quegli anni giovanili, mi sono sottoposto. L’esito dell’indagine è consistito nell’acquisire che la struttura minima di una relazione contrattuale è rinvenibile laddove sia enucleabile una fase programmatica ed una fase esecutiva e nell’applicare tale presupposto teorico alla fattispecie interpositoria33. Ora potrà essere – e sicuramente lo sarà – che il mio contributo da privatista dilettante non abbia colto il senso del vivacissimo dibattito che ha attraversato la cultura civilistica negli anni sessanta e settanta34, provvedendo a svecchiare categorie che si ritenevano al di fuori della storia. Ma se così è mi piacerebbe che la discussione sulla contrattualità o a-contrattualità della fonte si svolgesse su questo piano, che è il piano che le è proprio, e non su aprioristiche etichette, tanto approssimative quanto poco probanti. Attendo quindi a piè fermo il confronto, pronto a ribaltare il mio punto di vista, in presenza di argomenti davvero persuasivi.

4.2. La para-subordinazione. Il rapporto di lavoro para-subordinato si caratterizza per un elemento sicuramente comune alla subordinazione che è la continuità, cioè la reiterazione delle prestazioni entro un determinato spazio temporale, mentre gli altri dati rilevanti per l’individuazione della fattispecie si allontanano dalla definizione di lavoro subordinato. Ciò è da dire anzitutto per il carattere prevalentemente personale della prestazione. Esso, nel risaltare per contrasto con l’esclusiva personalità caratteristica della dipendenza giuridica, costituisce una variante semantica della autonomia organizzativa. In sostanza al lavoratore autonomo para-subordinato deve far capo una struttura organizzativa, sia pure embrionale, così che questi realizza la prestazione attesa dal creditore non da solo, ma avvalendosi o di collaboratori o di mezzi strumentali di cui abbia la proprietà o la disponibilità. Ma è soprattutto l’elemento della coordinazione che costituisce la scriminante di maggior rilievo nella definizione di cui all’art. 409 c.p.c.

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Lipari, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia, in RTDPC, 1968, 434, nota (50). È la ricostruzione che nella sua più compiuta elaborazione deve farsi risalire a Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Giuffrè, 1969. 34 Per merito soprattutto della Scuola romana, che operava sotto l’ala di Rosario Nicolò e Francesco Santoro Passarelli, nel cui ambito ricordo, fra gli altri, Adolfo Di Majo Giaquinto, Stefano Rodotà, Antonino Cataudella, Giuseppe Benedetti, e, fra i giuslavoristi, per tutti, Matteo Dell’Olio. Un contributo importante fra i giuslavoristi viene anche da Giuseppe Pera (Assunzioni obbligatorie e contratto di lavoro, Giuffrè, 1970, ristampa, con appendice, 271 ss.) che salva la fonte contrattuale del rapporto financo rispetto al problema, all’epoca molto discusso, delle cc.dd. assunzioni obbligatorie. 33

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Sappiamo quale sia stata l’evoluzione legislativa: si è passati da una definizione originaria che affidava il discrimine all’asciutto dato della coordinazione ad una previsione, contenuta nella novella del 2017 che pone al centro – e correttamente – il carattere consensuale delle modalità di adempimento della prestazione. In effetti il mero richiamo alla coordinazione poteva apparire, di per sé, sfocato e lasciare margini di incertezza, se ed in quanto i criteri ed i modi della coordinazione fossero fissati unilateralmente dal committente. La novella del 2017 ha quindi ampliato lo spettro segnato dalla disposizione originaria ed ha meglio marcato la regolamentazione di confini rispetto alla subordinazione. Come abbiamo visto la subordinazione si caratterizza per l’unilateralità (per parte datoriale) dei poteri di orientamento della prestazione altrui. Per converso l’espressione “coordinazione” allude fondamentalmente alla necessità che riprenda campo la libertà negoziale nel definire le reciproche posizioni delle parti. Deve essere in sostanza l’autonomia privata a dettare le regole del coordinamento dell’attività di lavoro con la struttura organizzativa dell’impresa35. Il che implica ulteriormente che non possa esservi controllo unilaterale né sul tempo né sul luogo né che la prestazione possa essere etero-diretta. È in sostanza il programma negoziale definito di comune accordo che detta le regole (ovviamente purché tali regole siano compatibili con l’autonomia del prestatore) ed è con tale programma negoziale che va confrontato il modo di articolarsi concreto dell’attività, per verificare sviamenti o vere e proprie elusioni.

4.3. Il paradigma dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 (vecchio testo). Ed è a questo punto che si inserisce la parentesi della versione originaria dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015, che ha aperto uno scenario inedito, sul quale si è scatenato un dibattito senza precedenti36. Secondo tale disposizione – è ben noto – ai rapporti di lavoro concretantisi in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione fossero organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro avrebbe dovuto applicarsi «la disciplina del rapporto di lavoro subordinato». All’apparenza la norma evocava una sorta di nuovo sottotipo della para-subordinazione, caratterizzato da modalità di controllo dell’attività particolarmente invasive (eteroorganizzazione, controllo su tempo e luogo). In realtà essa celava – è questo il mio avviso37 – una realtà ben diversa e cioè un surrettizio contributo del legislatore alla definizione del concetto di subordinazione. Se ben si riflette la disposizione non metteva affatto in campo un nuovo tipo o sottotipo contrattuale, cui applicare una disciplina ad esso estranea (quella del lavoro subordinato),

35

Questo dato è correttamente rilevato anche da Cass., n. 1663/2020, su cui infra. V.lo di recente riepilogato da D’Ascola, La collaborazione organizzata cinque anni dopo, in corso di pubblicazione in LD, 2020, n. 1. 37 V. se vuoi: Mazzotta, Lo strano caso delle collaborazioni organizzate dal committente, in Labor, 2016, 7 ss.; per una valutazione non dissimile v. anche: G. Santoro Passarelli, in Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, cit.,127. 36

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ma evocava puramente e semplicemente gli elementi essenziali per connotare la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. Il legislatore non ha quindi creato un nuovo modello contrattuale e il motivo è presto detto. Per poter avallare la creazione di un nuovo sottotipo riconducibile alla para-subordinazione, occorrerebbe fornire la dimostrazione che tale sottotipo ha dei tratti propri che lo distinguono sia dal tipo “maggiore” (la para-subordinazione) sia soprattutto dal prototipo della subordinazione. Ma così non è. Ciò è da dire anzitutto per il dato del carattere «esclusivamente» personale della prestazione, che, affiancato a quello della «continuità», allontana definitivamente lo schema dal modello di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c., in cui la personalità della prestazione è evocata in termini di «prevalenza» e non di «esclusività». Se tutto si riducesse però a tali riferimenti sarebbe ragionevole dedurne che il legislatore avrebbe inteso proteggere, con l’estensione della disciplina del diritto del lavoro, quelle, fra le prestazioni di lavoro parasubordinato, il cui fulcro è la dedizione personale del lavoratore, in un conteso di continuità di impiego, escludendo da tale beneficio i lavoratori para-subordinati organizzati con una, sia pure embrionale, struttura micro-imprenditoriale. Sarebbe come dire che sarebbero restate assoggettate alla disciplina del lavoro autonomo le collaborazioni non esclusivamente personali, continuative e coordinate (senza però controllo su tempi e luogo di lavoro). Ma così non è. Accanto ai rilevanti dati della esclusiva personalità della prestazione e della continuità si collocano ulteriori requisiti che fanno parte dell’armamentario classico della definizione di subordinazione: a) il controllo sui tempi di lavoro (id est: l’osservanza di un orario di lavoro), b) la disponibilità datoriale del luogo ove si svolge la prestazione, c) l’etero-organizzazione. Ed allora è ragionevolmente sostenibile che un lavoratore che dedichi la propria opera esclusiva e continuativa a favore di un committente che ne organizza la prestazione, imponendogli di prestare l’attività presso la sede dell’impresa e con l’osservanza di un orario di lavoro, non sia un lavoratore subordinato? E si badi: è del tutto irrilevante che tali elementi siano stati programmati in un documento o risaltino alla stregua del profilo esecutivo della prestazione dedotta o, come ci dice ora la Cassazione, nella sentenza di cui diremo fra poco e che ha messo un punto fermo sulla questione dei riders (almeno alla stregua del diritto vigente all’epoca dei fatti), che attengano al momento genetico o a quello funzionale del rapporto. Ciò che conta è l’assetto di interessi che risulta dai modi di esecuzione della prestazione, che, nel rapporto di lavoro, fanno ampiamente aggio sulla mera programmazione dell’attività, consacrata in un documento scritto. Come è ben noto ed abbiamo ricordato in precedenza nel rapporto di lavoro è quasi sempre l’esecuzione che getta luce sul profilo programmatico, fino ad identificarsi con esso in determinate situazioni38.

38

V. per tutti il classico riferimento all’opera di Salvatore Romano, L’atto esecutivo nel diritto privato. Appunti, Giuffrè, 1958, 9, secondo cui «il privato “agisce” molto più che non “regoli”».

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La conclusione è dunque che la norma in questione, lungi dall’introdurre un nuovo tipo o sottotipo contrattuale, ha per così dire giuridificato gli indici utilizzati dalla giurisprudenza per connotare la subordinazione.

5. La Cassazione ed i ciclo-fattorini. Ed è a questo punto della discussione che si inserisce il diritto vivente giurisprudenziale rappresentato dalla sentenza n. 1663/2020 della Corte di Cassazione39, che si è pronunciata sulla sentenza della Corte d’appello di Torino sul c.d. caso Foodora. Diciamo subito che si tratta di un contributo importante, ancorché provvisorio. La Cassazione in primo luogo avalla la lettura della fattispecie proposta dalla corte torinese inquadrandola all’interno dello schema di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, nella versione originaria applicabile ratione temporis ed escludendone (se pure con qualche passaggio poco chiaro) la riconduzione al paradigma dell’art. 2094 c.c. Fornisce quindi un autorevole contributo alla lettura della disposizione, un contributo fortemente impregnato di pragmatismo, come si addice ad un organo di giustizia. La Corte sintetizza il dibattito sull’art. 2 richiamando le quattro opzioni interpretative principali: a) quella che vi ravvede una versione “ammodernata ed evoluta” della subordinazione; b) quella che la inquadra come una figura intermedia fra subordinazione e parasubordinazione (lavoro etero-organizzato); c) quella che la colloca entro «una nozione ampia di para-subordinazione»; d) quella, infine, che, ignorando i problemi definitori, fa capo ad un «approccio [esclusivamente] rimediale». Entrando più specificamente nel merito confuta anzitutto la tesi radicale della difesa datoriale, secondo cui la disposizione evocherebbe una norma “apparente”, inutilizzabile a fini pratici. Per la Corte essa va piuttosto contestualizzata all’interno della manovra complessiva del legislatore, che, avendo aumentato le flessibilità per l’impresa, è stato costretto ad inserire una disposizione che evitasse gli abusi della para-subordinazione (liberata dal progetto). Così «il legislatore» pensa e dice la Corte «d’un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d’altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell’art. 2094 c.c., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi».

39

V. in http://www.rivistalabor.it/finalmente-la-cassazione-sui-ciclofattorini-confermata-la-collaborazione-ex-art-2-senza-applicazioneselettiva-delle-tutele/.

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A differenza della corte torinese però esclude che, in presenza dei requisiti individuati dalla legge, il giudice possa selezionarne gli effetti applicando solo una parte dell’universo giuslavoristico (nella specie erano state ritenute estensibili solo norme su igiene e sicurezza, retribuzione, orario, ferie e previdenza, ma non la tutela contro i licenziamenti). Infatti per la Cassazione non ha senso interrogarsi se siano autonome o subordinate, conta che «per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina». Nel successivo passaggio è ancora più esplicita: «quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato». Il che costituisce il massimo del pragmatismo: la Corte sospende il giudizio sulla riconducibilità ad un modello degli elementi evocati dalla norma, isolandoli ed entificandoli come tali, quali presupposti per l’applicazione del diritto del lavoro. Temo però che sul piano giuridico non si possa eludere il problema dell’inquadramento di una disposizione entro un modello e che non sia sufficiente a sorreggere tale conclusione l’apparente giustificazione secondo cui si tratterebbe di una norma di disciplina e non di fattispecie. Credo sia venuto il momento di fare i conti con la diffusa idea secondo cui l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 evochi una norma “di disciplina” e non “di fattispecie”. Si licet l’alternativa a me pare apparente ed artificiosa. Una norma privatistica delinea, per definizione, una fattispecie, cui ricollega determinati effetti in termini di disciplina applicabile. Nel nostro caso semmai quello che deve dirsi è che la disposizione, come abbiamo visto, non costruisce né un nuovo modello o tipo contrattuale né un sottotipo ma evoca una serie di elementi, caratteristici del lavoro subordinato, alla stregua di una tradizione interpretativa più che risalente. Sotto questo profilo ha ragione la Cassazione quando ricorda che «non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione … siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia», essendo sufficiente l’espressa applicazione del diritto del lavoro, pur «in una terra di mezzo dai confini labili». Tale rilievo, pur fondato, trascura però l’importante rilevanza sistematica della disposizione di cui all’art. 2 (vecchio testo), che ne costituisce il profilo di maggiore interesse e che ne proietta la valenza anche sul nuovo testo, come modificato nel 2019. Con l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 nella precedente versione, applicabile ratione temporis al caso risolto dalla Cassazione, il legislatore, come abbiamo detto, forniva un avallo sistematico alla correttezza del procedimento giudiziale di interpretazione dell’art. 2094 c.c. e faceva emergere sul piano della ricognizione della fattispecie della subordinazione i criteri individuati dalla giurisprudenza, criteri che dunque assurgevano ad elementi di ricostruzione dei modi di essere del lavoro subordinato, in quanto tali validati dal legislatore. E dunque l’art. 2 era una norma che non delineava un nuovo tipo (o sottotipo) contrattuale, riconducibile all’area della para-subordinazione, ma restava piuttosto una norma

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L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali

che, nell’individuare gli elementi rilevanti (se pure irrelati, secondo la Cassazione), costruiva una fattispecie, cui collegava determinati effetti (l’applicazione, senza esclusioni, della disciplina del diritto del lavoro). Dopo di che sarà questione di gusto costruttivo assumere – come vuole la Cassazione – che si tratti di elementi scomposti riferiti ad un ibrido che sta «in una terra di mezzo dai confini labili» ovvero che si tratti né più né meno che dell’emersione a livello normativo degli elementi caratteristici della subordinazione. Del resto tutti gli esempi forniti della Corte per confermare l’idea che si tratti di una norma di sola “disciplina”, avallano più che smentire quanto vado sostenendo. Ciò è da dire per l’estensione di alcuni istituti lavoristici ai soci di cooperativa o alle lavoratrici autonome, tutte situazioni nelle quali porzioni della disciplina del diritto del lavoro si applicano a tipi contrattuali definiti (appunto il rapporto del socio di cooperativa ed il lavoro autonomo), estranei all’area coperta dall’art. 2094 c.c. È questa la tecnica da tempo etichettata come “tendenza espansiva del diritto del lavoro”, che significa, per l’appunto, che porzioni della disciplina del diritto del lavoro si applicano a rapporti-altri. La consapevolezza che così stiano le cose è leggibile in filigrana nella stessa sentenza della Cassazione. La Corte infatti ritiene di non potere escludere che, a fronte di una domanda del lavoratore che rivendichi la riconducibilità del rapporto al prototipo di cui all’art. 2094 c.c., il giudice non possa che riconoscerla in concreto alla stregua delle «modalità effettive di svolgimento del rapporto». Essa lascia così intendere che la mancata presa di posizione sul punto è da far risalire più all’omessa impugnazione da parte dei lavoratori della decisione in punto di qualificazione d’appello ex art. 2094, che ad argomenti strutturali. Ma allora – se così è – vi è da chiedersi quale posizione avrebbe assunto la Corte nel caso in cui i lavoratori avessero coltivato l’opzione a favore della subordinazione. Sulla base di quali argomenti avrebbe potuto negare che rapporti di lavoro caratterizzati da continuità, personalità, etero-organizzazione e controllo su tempo e luogo della prestazione fossero da annoverare entro lo schema della subordinazione? E soprattutto cosa dirà domani la giurisprudenza, alla luce del nuovo testo dell’art. 2, di fronte a rapporti di lavoro caratterizzati da personalità, continuità ed etero-controllo di tempo e luogo di lavoro? Potrà ancora eluderne la collocazione entro lo schema di cui all’art. 2094?

6. Le novità delle recenti riforme. Una risposta ai precedenti interrogativi (più retorici che reali) è rinvenibile nelle riforme sui tipi contrattuali che si sono succedute dal 2017 ad oggi. Come è noto l’art. 2 del d.lgs. n. 81/205 è stato rimodellato per effetto della legge n. 128 del 2019. Dalla precedente versione spariscono anzitutto gli elementi rilevantissimi che più avvicinavano la fattispecie al lavoro subordinato e cioè l’etero-controllo su tempi e luogo di lavoro, diluito in etero-controllo senza ulteriori specificazioni. Inoltre le prestazioni di lavoro entrano nel cono d’ombra della nuova previsione solo se “prevalentemente personali e continuative”. In queste condizioni si applica la disciplina del diritto del lavoro.

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La disposizione conferma anzitutto l’idea di fondo della distinzione fra subordinazione e para-subordinazione con riferimento ai poteri reciproci delle parti sul governo della prestazione di lavoro. Lo abbiamo già detto: la subordinazione è unilateralità (per parte datoriale) dei poteri di orientamento della prestazione altrui. Viceversa, secondo la novella del 2017, il proprium della para-subordinazione sta nella “coordinazione”, che significa che è l’autonomia negoziale (bilaterale) che deve definire le reciproche posizioni delle parti, dettando le regole del coordinamento del lavoro con l’impresa. La conseguenza è che non può esservi controllo unilaterale né sul tempo né sul luogo né è ammissibile che la prestazione possa essere etero-diretta. Di tali caratteristiche generali è perfettamente consapevole la Cassazione che correttamente sposa l’idea della contrapposizione fra unilateralità e bilateralità della coordinazione e conferma che è la bilateralità del programma organizzativo il vero fulcro della para-subordinazione. Se tutto si fermasse a tali caratteri potremmo però dire che l’allargamento dell’area “sostanziale” (anche se non formale) della subordinazione non sarebbe particolarmente dirompente, limitandosi la riforma a ricomprendere in tale area le prestazioni di lavoro organizzate dal committente, anche a prescindere da un controllo su tempo e luogo della prestazione. Ciò che vi è di davvero dirompente è la previsione secondo cui l’apporto del lavoratore può essere, oltre che, come è ovvio, continuativo, anche solo prevalentemente personale. Il che significa che può, in astratto, fruire di tutte le tutele approntate dal diritto del lavoro anche un prestatore di lavoro che si avvalga di sostituti o che apporti anche una parte dei mezzi di produzione. Il che non è poco, mi pare. Non vi è dubbio che il legislatore avesse in mente la posizione dei ciclo-fattorini, non a caso evocati nel periodo finale del primo comma, che estende le relative previsioni alla situazione in cui «le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali». E si sa che negli standard operativi di tali lavoratori (secondo quanto risulta anche dalla fattispecie decisa dalla Cassazione) questi ultimi sono onerati di fornire il mezzo di locomozione, utilizzando in comodato gratuito i relativi accessori. Sennonché è evidente che la ragione occasionale che ha mosso il legislatore ad intervenire non è sufficiente a circoscrivere la rilevanza della previsione. È più che ovvio che essa travalichi i confini del lavoro dei riders per attingere a principio generale, con la conseguenza che diventa compatibile con un’area vasta ed allargata di subordinazione anche un’attività in cui il prestatore operi con l’ausilio di altri e disponga anche di mezzi di produzione, verrebbe da dire secondo gli stilemi social-tipici dell’antico lavoro a domicilio. Sul piano strutturale poi è difficile negare che la nuova previsione (a differenza della precedente) costituisca questa sì un nuovo sottotipo della para-subordinazione, più vicino alla subordinazione rispetto al modello generale descritto dall’art. 409 n. 3 c.p.c. A questo punto ed alla luce della riforma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81/205 resta solo da chiedersi se possa esservi ancora spazio per qualificare i ciclo-fattorini come lavoratori autonomi.

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L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali

Una qualche risposta al quesito il legislatore cerca di fornirla con il Capo V-bis introdotto all’interno del decreto legislativo del 2015, che è esplicitamente riferito alla «tutela del lavoro tramite piattaforme digitali». Qui l’intento è quello di garantire ai lavoratori la cui prestazione sia organizzata tramite piattaforma una tutela minima e selettiva nel caso in cui la loro prestazione sia qualificabile giuridicamente come autonoma. Non conta tanto in questa sede interrogarsi sul pacchetto di guarentigie che viene assicurato ai lavoratori, quanto sulla coerenza della previsione rispetto all’impianto sistematico complessivo. Sappiamo bene anzitutto che il paradigma dell’autonomia si caratterizza per un lavoro «prevalentemente personale senza vincolo di subordinazione» (art. 2222 c.c.). Sennonché, alquanto contraddittoriamente, oggi l’art. 47-bis della l. n. 128/2019 definisce le piattaforme digitali come «i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione». Il legislatore quindi non si avvede che la condizione richiesta per caratterizzare la parasubordinazione protetta (art. 2) e l’autonomia (art. 47-bis) è la medesima: l’etero-determinazione delle modalità di esecuzione della prestazione per il tramite della piattaforma, in presenza di una prestazione «prevalentemente personale» (come vuole anche l’art. 2222 c.c.) e, per la sola fattispecie di cui all’art. 2, «continuativa». Ne dobbiamo dedurre che il discrimine ai fini dell’applicazione dell’intero diritto del lavoro (art. 2) o di una tutela selettiva (Capo V-bis) passa solo attraverso il dato della «continuità». Con la conseguenza che il Capo V-bis si applica solo ai fattorini “occasionali”.

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Madia D’Onghia

Il Reddito di Cittadinanza un anno dopo: eppur si muove ma con troppe funzioni e a doppia velocità Sommario : 1 Premessa. – 2. Le caratteristiche strutturali del Reddito di Cittadinanza. – 3. La generosità della misura e gli effettivi beneficiari. – 3.1. Il severo requisito della residenza qualificata e l’esclusione degli emarginati. – 4. Il lento e tortuoso avvio della c.d. anima lavoristica del Reddito di Cittadinanza. Le debolezze strutturali della governance. – 4.1. La stringente condizionalità e la discutibile impostazione meritocratica. – 5. Alcune valutazioni finali per un approccio costruttivo.

Sinossi. Il saggio offre una riflessione sulla validità del Reddito di Cittadinanza, a un anno dalla sua entrata in vigore e alla luce dei primi dati applicativi. Pur senza mettere in discussione la scelta legislativa di introdurre uno schema adeguato di reddito minimo, l’A. segnala alcune criticità e incongruenze dell’istituto, che ne compromettono la ratio originaria, in termini di inclusione sociale e di reale inserimento nel lavoro. La riflessione si concentra, in particolare, sulla platea dei destinatari del sussidio e su alcuni requisiti di accesso troppo restrittivi, oltre che sui limiti della c.d. doppia anima lavoristica della misura, rinvenienti soprattutto dalle debolezze strutturali della governance e da una impostazione troppo punitiva. Abstract. The essay offers an insight on the value of the citizenship income, one year after its entry into force and in the light of the first application data. Even without questioning the legislative choice to introduce an adequate minimum income scheme, the A. offers critical points and inconsistencies of the provisions, which compromise the original ratio, in terms of social inclusion and real inclusion in the job. The paper focuses, in particular, on the scope of its recipients and on too restrictive access requirements, as well as on the limits of the so-called dual spirit of the measure, mainly due to the structural weaknesses of governance and a too punitive approach. Parole chiave: Reddito di Cittadinanza – Contrasto alla povertà – Inclusione sociale – Politiche attive del lavoro – Condizionalità – Debolezze istituzionali


Madia D’Onghia

1. Premessa. Sin dall’approvazione del decreto legge n. 4 del 28 gennaio 2019 (poi convertito nella l. 28 marzo 2019, n. 26), il Reddito di Cittadinanza (RdC) è stato al centro del dibattito politico e delle riflessioni degli studiosi. Tanto si è già scritto sulla sua genesi1, sulla differenza con la precedente misura del Reddito di Inclusione (ReI)2 e, più in generale con altre forme di reddito minimo, anche a livello sovranazionale3, sulle varianti terminologiche4, sul suo fondamento costituzionale5; ampiamente si è commentato il dato normativo, evidenziandone limiti e potenzialità6, con disamine articolate, alcune più benevole7 e altre più severe8.

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Cfr. Ravelli, Il reddito minimo. Tra universalismo e selettività delle tutele, Giappichelli, 2018; Altimari, Tra assistenza e solidarietà: la liberazione dal bisogno nel recente dibattito politico parlamentare, in Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza, Giappichelli, 2018, 101. Si veda anche, in una prospettiva storica, Orsi, Alle origini del reddito di cittadinanza. Teorie economiche e «welfare state» dal XVI secolo a oggi, Nerbini editore, 2018. Si rinvia, ex pluris, ad Alaimo, Il reddito di inclusione attiva: note critiche sull’attuazione della legge n. 33/2017, in RDSS, 2017, 419 e a Gadaleta, La via italiana al reddito minimo: il tortuoso sentiero del reddito di inclusione del d.lgs. n. 147/2017, in Ferraresi (a cura di), op. cit., 25. Cfr. Cassar, Reddito minimo e diritto del lavoro, simulazioni a confronto. Il caso italiano: la natura dell’intervento tra ambivalenza delle funzioni e ambiguità applicative, in MGL, 2019, 4, 781; Seghezzi, Il reddito di cittadinanza: fondamenti, criticità e prospettive in chiave comparata, in Professionalità Studi, in ADAPT, n. 5/2019, 14; Bronzini, Il reddito minimo garantito nelle esperienze europee, in Curzio (a cura di), Diritto del lavoro contemporaneo. Questioni e tendenze, Cacucci, 2019, 193; Di Maio, Basic income e reddito minimo garantito: appunti per una comparazione europea, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 107; Nato, Il ruolo dell’Unione europea nel contrasto alla povertà: quale futuro per il reddito minimo garantito nell’ordinamento giuridico multilivello europeo?, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 87 e Busilacchi, Welfare e diritto al reddito. Le politiche di reddito minimo nell’Europa a 27, Franco Angeli, 2013. Cfr. Toso, Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?, il Mulino, 2016; Manzella, Spattini, Appunti per un glossario ITA-ENG/17: “reddito di cittadinanza” e “guaranteed minicom income”, in Boll. Adapt, n. 2/2019. V. Gambino, “Costituzione, reddito minimo garantito, pilastro europeo dei diritti sociali”: osservazioni introduttive, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 37; Cavallaro, Profili costituzionali e comunitari del Reddito di cittadinanza, in Curzio (a cura di), op. cit., 227; Polacchini, Principi costituzionali e reddito minimo di cittadinanza, in www.federalismi.it, n. 5/2019; Salvino, Reddito minimo tra principio lavorista ed uguaglianza sostanziale: alla ricerca di una ‘giustificazione’ costituzionale, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 167; Sigillò Massara, Dall’assistenza al Reddito di cittadinanza (e ritorno), Giappichelli, 2019, spec. 67-78. Per una ricostruzione del dibattito dottrinale, anche prima del RdC, si veda Ferraresi, Reddito da lavoro, reddito di inclusione o reddito di cittadinanza? Il contrasto alla povertà nella prospettiva del diritto del lavoro, in Ferraresi (a cura di), op. cit., 1 e Tripodina, Povertà e dignità nella Costituzione italiana: il reddito di cittadinanza come strumento costituzionalmente necessario, in RGL, 2016, I, 2, 732. La bibliografia è molto ampia. Fra i tanti, si vedano Casillo, Il reddito di cittadinanza nel d.l. 28 gennaio 2019, n. 4: precedenti, luci e ombre, in RDSS, 2019, 3, 557; Sigillò Massara, Dall’assistenza al Reddito di cittadinanza (e ritorno), Giappichelli, 2019; Leone, Il d.l. n. 4/2019 fra ambizioni universali e privilegi per pochi, in RGL, 2019, 4, I, 703; Forlivesi, Il c.d. “Reddito di cittadinanza”: luci ed ombre della via italiana al reddito minimo garantito, in Professionalità Studi, ADAPT, 2019, 5, 54; Hohnerlein, Uno sguardo dalla luna sul reddito di cittadinanza (d.l. n. 4/2019), in RDSS, 2019, 609; Spattini, L’introduzione del Reddito di cittadinanza nell’ordinamento italiano, in Professionalità Studi, ADAPT, n. 5/2019, 30; Cazzola, Il reddito di cittadinanza, in LG, 2019, 5, 449; Gentile, Analisi soltanto giuridica del reddito di cittadinanza, in FI, 2019, V, 3, 289; Dagnino, Il reddito di cittadinanza tra universalismo e condizionalità. Spigolature lavoristiche sul decreto-legge n. 4/2019 convertito in legge n. 26/2019, in DRI, 2019, 3, 967; Marocco, Spattini, (a cura di), Diritto al lavoro, contrasto alla povertà, politica attiva e di inclusione sociale: le tante (troppe?) funzioni del reddito di cittadinanza all’italiana. Primo commento al decreto-legge n. 4/2019, in ADAPT e-Book, n. 79/2019; Mazzitelli, Il Reddito di Cittadinanza, tra luci e ombre, strumento di rinnovato Welfare e di eguaglianza sostanziale. I “Livelli essenziali delle prestazioni” quale parametro ulteriore correlato, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 119. Cfr., fra gli altri, Bronzini, Il reddito di cittadinanza: una tappa per un nuovo welfare e l’autodeterminazione delle persone, in volerelaluna.it, 2 febbraio 2019 e Giubboni, Primi appunti sulla disciplina del reddito di cittadinanza, in WP D’Antona, It., n. 401/2019; si veda anche Sandulli, Nuovi modelli di protezione sociale fra istanze risalenti e pretese recenti: profili di criticità e problemi di finanziamento, in MGL, 2019, 3, 619. Molto severi nei giudizi Pisani, Dignità del lavoro e reddito di cittadinanza, in MGL, 2019, 1, 117 e Vallebona, Reddito di cittadinanza

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Il Reddito di Cittadinanza un anno dopo: eppur si muove ma con troppe funzioni e a doppia velocità

A un anno dalla sua approvazione, l’attenzione sul RdC continua a essere alta anche perché cominciano ad esserci alcuni dati significativi sulla concreta attuazione della misura e questo consente di effettuare valutazioni non più prospettiche ma per così dire a consuntivo, sia pure parziale, non senza tener conto che l’iter di attuazione dell’intera riforma è ancora in fieri. Come noto, il RdC è stato costruito come una misura a due anime: quella assistenziale, volta al contrasto della povertà e quella lavoristica, diretta all’inserimento (o al reinserimento) dei beneficiari nel mercato del lavoro, secondo il modello del workfare o di politica attiva del lavoro. L’insieme dei dati forniti dall’Anpal e dall’Inps (su cui infra § 3 e 4) dimostrano che, pur non avendo certamente ‘abolito la povertà’, il RdC se, per un verso, ha inciso positivamente sulle condizioni di quella parte della popolazione maggiormente afflitta da difficoltà economiche, sul fronte dell’occupazione si è rivelato poco (se non del tutto in) efficace a causa di molteplici elementi di debolezza del sistema. Le due anime del RdC non hanno quindi dato gli effetti sperati: l’erogazione del beneficio ha sì rispettato i tempi (prime card erogate ad aprile 2019) ma la c.d. “fase due” resta in salita con una percentuale irrisoria di persone che hanno rinunciato al sussidio perché hanno trovato un lavoro. Le affermazioni del Presidente dell’Anpal, Dott. Parisi, secondo cui «il reddito di cittadinanza sta funzionando su tutto il territorio, compreso il Mezzogiorno, dimostrandosi uno strumento non solo finalizzato a ridurre la povertà ma anche favorire l’occupazione, per persone particolarmente in difficoltà»9, sembrano frutto di ottimismo per dovere d’ufficio. I dati a disposizione inducono a maggiore prudenza e, soprattutto, a separare il giudizio rispetto all’efficacia della l. n. 26/2019 nel perseguire i due obiettivi dichiarati (contrastare la povertà e sostenere l’inserimento al lavoro). È proprio su questo che si intende riflettere nel presente contributo, partendo da una precisazione preliminare. Le criticità riportate di seguito non vogliono contestare la scelta a monte di introdurre uno schema adeguato di reddito minimo di contrasto alla povertà, che si ritiene assolutamente necessario nel quadro delle politiche di welfare italiane, ma porre in discussione alcuni aspetti strutturali di tale misura che potrebbero essere migliorati, per ragioni di efficienza, di effettività e anche di equità. A tal fine appare utile partire da una sintetica ricostruzione delle caratteristiche strutturali del RdC per poi esaminare i risultati concreti raggiunti e le principali criticità – individuandone le cause e suggerendo anche possibili correttivi – con particolare riferimento alla platea dei beneficiari, all’anima lavoristica della misura e al suo stringente meccanismo di condizionalità.

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tra doppio fine e attuazione becera, in MGL, 2019, 1, 187. In senso critico anche Guerra, Un Reddito di Cittadinanza con molti punti critici, in www.eticaeconomia.it, 31 gennaio 2019. Cfr. comunicato del 23 dicembre 2029 su https://www.anpalservizi.it.

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Madia D’Onghia

2. Le caratteristiche strutturali del Reddito di Cittadinanza. La legge attribuisce al RdC numerosi obiettivi e molto ambiziosi, definendolo «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro»10. Per forma e contenuto è piuttosto vicino al ReI e non ha nulla a che vedere con il reddito di cittadinanza cui si riferisce la riflessione teorica11, rientrando a pieno titolo nello schema tipico del reddito minimo garantito con funzioni di inclusione/reintegrazione lavorativa e sociale dei destinatari, secondo lo schema dell’universalismo selettivo12. Si configura, cioè, come un intervento di carattere selettivo subordinato alla sussistenza di condizioni di indigenza (c.d. prova dei mezzi) e alla disponibilità del beneficiario a partecipare a un complesso di attività volte al suo reinserimento sociale e lavorativo, ma senza porre ulteriori condizioni (di tipo assicurativo) sulle caratteristiche dei nuclei beneficiari. All’integrazione della misura concorrono una componente passiva, di natura assistenziale, consistente nell’erogazione di una somma di denaro, e una componente attiva, ovvero ricostruttiva delle chances dell’individuo di inserirsi nel contesto sociale e lavorativo. Quali sono i requisiti per accedere alla misura? Vi sono anzitutto vincoli di natura anagrafica13: il richiedente deve avere la cittadinanza italiana o europea, o essere familiare di un cittadino italiano o europeo in possesso di un permesso di soggiorno, oppure essere in possesso del permesso di soggiorno Ue per i soggiornanti di lungo periodo, e contestualmente deve aver accumulato almeno 10 anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Sono poi previsti non meno stringenti requisiti reddituali e patrimoniali riferiti al nucleo familiare del potenziale beneficiario14, le cui soglie sono variabili a seconda del numero dei componenti del nucleo stesso e della relativa prole, fino a un determinato massimale; detto massimale, tuttavia, è suscettibile di incremento per ogni componente del nucleo che sia in condizione di disabilità o di non autosufficienza. La soglia del requisito reddituale e patrimoniale è in ogni caso ulteriormente incrementabile nei casi in cui il nucleo familiare risieda in abitazione in locazione. Altro fattore condizionante riguarda il godimento di beni durevoli e l’assenza di condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta, per specifici delitti15.

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Art. 1, comma 1, l. n. 26/2019. Per una ricostruzione dell’ampio dibattito sulle diverse misure, anche nelle varie formule semantiche, si rinvia, ex pluris, a Bozzao, Reddito di base e cittadinanza attiva nei nuovi scenari del welfare, in RGL, 2014, I, 325; Saraceno, Tante proposte per il reddito minimo: ecco le differenze, in www.lavoce.info, 2013; Granaglia, Contaminazione proficue fra reddito minimo e reddito di cittadinanza, in www.eticaeconomia.it, 2016 e Tullini, Opinioni a confronto sul reddito di cittadinanza, in RDSS, 2018, 4, 687 (e, ivi, ai diversi contributi). 12 In proposito si rinvia a Ravelli, op. cit. 13 Cfr. art. 2, comma 1, lett. a), l. n. 26/2019. 14 Cfr. art. 2, comma 1, lett. b), l. n. 26/2019. 15 Sono quelli indicati all’art. 7, della stessa l. n. 26/2019. 11

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Il Reddito di Cittadinanza un anno dopo: eppur si muove ma con troppe funzioni e a doppia velocità

Il beneficio economico del RdC si compone di due elementi16: una prima parte a integrazione del reddito familiare, fino alla soglia di 6.000 euro annui moltiplicata per il corrispondente coefficiente di equivalenza e una seconda parte, che incrementa il beneficio di un importo pari all’ammontare del canone annuo previsto nel contratto di locazione fino a un massimo di 3.360 euro annui (ovvero 280 euro mensili) per quei nuclei familiari che sono residenti in abitazione in locazione. In alternativa a questa seconda componente del RdC è previsto un incremento del beneficio fino a un massimo di 1.800 euro annui a rimborso della rata del mutuo per l’acquisto o la costruzione dell’abitazione principale. L’ammontare massimo del RdC per una famiglia di un solo componente è quindi di 9.360 euro annui (780 euro mensili) se si risiede in affitto e non si possiede alcun reddito. L’importo del beneficio non può essere inferiore a 480 euro all’anno (40 euro al mese) né superiore a 15.960 euro annui (1.330 euro al mese per una famiglia in affitto con un reddito nullo e 2 o più figli maggiori o 4 o più figli minori). Nel caso siano presenti disabili gravi o non autosufficienti l’importo del RdC è aumentato a 16.560 (1.380 euro mensili). Per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni, il RdC assume la denominazione di Pensione di cittadinanza (PdC), quale misura di contrasto della povertà per le persone anziane17. I requisiti del beneficio economico, l’accesso e le regole di definizione rimangono tendenzialmente gli stessi18, ma naturalmente la PdC non è gravata dagli oneri di attivazione. Oltre ad acquistare beni e servizi di base, il RdC (che viene materialmente erogato tramite una carta di pagamento elettronica) permette di fare prelievi di contante entro limiti mensili predefiniti e di effettuare un bonifico mensile in favore del locatore indicato nel contratto di affitto. È esente dal pagamento dell’Irpef ed è compatibile con altre prestazioni, quali la Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi)19 e l’indennità per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata (Dis-Coll)20. Il beneficio economico non riguarda solo il cittadino ma anche l’impresa; sono infatti previste diverse tipologie di incentivi per le imprese che assumono i beneficiari del RdC e per i beneficiari del RdC che avviano attività imprenditoriali21. In particolare, per favorire l’occupabilità, come ulteriore strumento di politica attiva del lavoro è previsto che quando un’impresa assume con un contratto a tempo indeterminato un destinatario di RdC e aumenta la propria forza lavoro, i restanti mesi di RdC vengano trasferiti al datore di lavoro, sotto forma di esenzione dal pagamento dei contributi sociali. Un importo forfettario aggiuntivo pari a 6 mensilità di RdC viene invece pagato ai beneficiari che avviano un’attività autonoma. Infine, per ridurre la trappola della povertà – ovvero il disincentivo ad accettare un’attività lavorativa il cui salario darebbe luogo a una riduzione della stessa entità del

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V. art. 3 l. n. 26/2019. Art. 1, comma 2, l. n. 26/2019. 18 Vi è solo uno sbilanciamento ulteriore della parte reddituale del beneficio, che sale insieme alla corrispondente soglia di accesso da 6.000 a 7.560 euro annui, a discapito di quella legata al canone di locazione, che invece scende da 3.360 a 1.800 euro annui. 19 Art. 1 d.lgs. n. 22/2015. 20 Art. 15 d.lgs. n. 22/2015. 21 Cfr. art. 8 l. n. 26/2019. 17

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RdC, generando dunque un’aliquota marginale effettiva del 100% sull’incremento del reddito da lavoro – è previsto che il 20% del nuovo reddito da lavoro non venga considerato nel calcolo delle soglie d’accesso al beneficio qualora un beneficiario di RdC ottenga un contratto da lavoro dipendente. Quanto alla durata, il sussidio è riconosciuto per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi, rinnovabile, previa sospensione dell’erogazione dello stesso per un periodo di un mese prima di ciascun rinnovo. La scadenza temporale non è prevista nel caso della PdC. Il quadro regolativo si completa, infine, con un articolato meccanismo di condizionalità, connesso a una fitta disciplina sanzionatoria22, stabilendo che, entro 30 giorni dal riconoscimento del diritto al RdC, tutti i componenti maggiorenni (non esonerati23) all’interno dei nuclei beneficiari debbano dare l’immediata disponibilità al lavoro e siano convocati, dopo essere stati individuati e resi noti attraverso un’apposita piattaforma digitale alimentata con i dati dell’Inps, dal Centro per l’impiego (CpI), per sottoscrivere un Patto per il lavoro24, i cui contenuti sono del tutto analoghi, tranne che per alcune integrazioni, al «patto di servizio personalizzato», introdotto dal d.lgs. n. 150/201525. I sottoscrittori del Patto per il lavoro sono tenuti ad accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue, dove la congruità è definita con riferimento alla precedente normativa contenuta nel d.lgs. n. 150/2015 con riguardo alla durata e tipologia del rapporto di lavoro, ma con diverse specifiche per quanto riguarda numero di offerte, distanza ed entità della retribuzione26. In alternativa alla sottoscrizione del Patto per il lavoro, se non vi sono beneficiari convocabili dal CpI (salvo i maggiorenni con età fino a 29 anni) e il bisogno della famiglia ricevente è più complesso, sono i servizi dei Comuni per il contrasto della povertà a convocare l’intero nucleo beneficiario e a valutarne i bisogni e le potenzialità, per poi definire il percorso di attivazione sociale e lavorativa più adeguato, stipulando un Patto per l’inclusione sociale27 che preveda un’eventuale presa in carico degli interessati, coinvolgendo anche gli altri enti territorialmente competenti.

3. La generosità della misura e gli effettivi beneficiari. La descrizione delle principali caratteristiche del RdC mette in evidenza come il suo punto di forza consista nell’entità degli importi erogabili. Il precedente ReI, pur ispirato alle migliori pratiche esistenti da tempo in Europa, aveva infatti un difetto fondamentale: era sotto finanziato e per la medesima tipologia familiare, arrivava a soli 2.250 euro annui (188

22

Cfr. art. 7 l. n. 26/2019. Cfr. art. 4, commi 1 e 3, l. n. 26/2019. 24 Cfr. art. 4, comma 7, l. n. 26/2019 25 Cfr. art. 20 d.lgs. n. 150/2015. 26 Cfr. art. 4, comma 9, l. n. 26/2019. 27 Cfr. art. 4, comma 12, d.lgs. n. 26/2019. 23

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euro mensili). A meno di un consistente incremento della sua dotazione, non era quindi possibile che potesse alleviare sensibilmente la povertà assoluta, in aumento nell’arco di un decennio, da valori prossimi al 3% nel 2006 a livelli quasi tripli nel 2018 (8,4%)28. Va salutata, quindi, con favore la maggiore generosità del RdC. Ma per valutarne la reale portata e il suo impatto sulla povertà occorre confrontarsi con i dai forniti dai periodici monitoraggi dell’Inps29, molto particolareggiati per quanto riguarda i nuclei familiari coinvolti, le caratteristiche dei beneficiari del sussidio e gli importi ad essi erogati. Al 7 gennaio 2020, le domande di RdC e PdC pervenute sono 1.641.969, di cui 1.097.684 sono state accolte, 87.649 in lavorazione e 456.636 respinte o cancellate. La maggioranza delle domande sono state presentate nelle regioni del Sud Italia e delle Isole, pari al 60,3% delle istanze complessive a fronte del 24,5% delle regioni del Nord; la fetta minore di domande accolte, pari al 15,2%, riguarda le regioni del Centro Italia. Dei nuclei le cui domande sono state accolte, 56.222 sono decaduti dal diritto; di quelli restanti, 915.600 riguardano percettori del RdC, con circa 2,4 milioni di persone coinvolte e 125.862 sono nuclei percettori di PdC, con circa 143 mila persone coinvolte. Nel confronto tra le regioni, la Campania risulta essere prima con il 19% delle prestazioni erogate, seguita dalla Sicilia (17%), la Puglia e il Lazio (9%). Nel fanalino di coda si trova la Valle d’Aosta (con 2.167 persone coinvolte), il Trentino Alto Adige (8.166) e il Molise (13.419). Per quanto riguarda le province, invece, gli ultimi dati mostrano che Napoli è la città con più beneficiari (123.596), seguita da Roma (64.920 domande) e dalle due province siciliane Palermo e Catania, rispettivamente con 54.946 e 43.232 domande. In ultima posizione troviamo Bolzano (421 domande), Belluno (896 domande) e Sondrio (1.072 domande). L’importo medio mensile erogato dall’Inps è pari a 493 euro, con un importo superiore del 7% rispetto a quello nazionale nelle regioni del Sud e delle Isole e inferiore dell’8% e del 14% rispettivamente nelle regioni del Centro e del Nord. L’importo medio mensile varia anche in funzione della prestazione percepita: mediamente vengono erogati 532 euro per il RdC e 222 euro per la PdC. Il 67% dei nuclei percepisce un importo mensile inferiore a 600 euro e l’1% un importo mensile superiore a 1.200 euro. La fotografia che ci viene fornita è indubbiamente quella di un Paese che, pur non avendo certamente “abolito la povertà”, ha inciso positivamente con il RdC sulle condizioni di quella parte della popolazione maggiormente afflitta da difficoltà economiche, con

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I dati sono davvero impressionanti: si stima che la povertà colpisca, in termini assoluti, oltre 1,8 milioni di famiglie (con un’incidenza pari al 7,0%), per un totale di 5 milioni di individui (incidenza pari all’8,4%), ed in termini relativi più di 3 milioni di famiglie (11,8%), per un totale di quasi 9 milioni di individui (15%). I dati, stabili per l’anno 2018, consolidano un trend di crescita pressoché costante ed assai diversificato in ragione dell’area geografica di riferimento, della composizione del nucleo familiare, dell’età e della nazionalità (dati ISTAT, La povertà in Italia, 18 giugno 2019). 29 Cfr. Osservatorio sul Reddito e Pensione di Cittadinanza sul sito www.inps.it. Per una puntale analisi delle prime evidenze sulla diffusione del RdC tra le famiglie italiane, si veda Baldini, Gallo, Il Reddito di cittadinanza: cosa dicono finora i dati, in RPS, 2019, 3, 141 e Baldini, Gallo, Lusignoli, Toso, Le politiche dell’assistenza: Il Reddito di Cittadinanza, in Arachi, Baldini (a cura di), La finanza pubblica italiana. Rapporto 2019, Il Mulino, 2019, 81.

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un trasferimento netto di risorse30. E a suggellare questo dato il Presidente dell’Inps Tridico ha posto l’accento su due profili: da un lato, la diminuzione di 1,2 punti del parametro con cui si valuta il livello di disuguaglianza (il c.d. coefficiente di Gini) e, dall’altro lato, il calo del tasso di povertà dal 38% al 30%31. Ma se con il RdC siamo di fronte al più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri mai effettuato in Italia, non mancano punti di debolezza e incoerenze di progettazione. Un aspetto controverso della riforma consiste nell’aver mantenuto «intoccabili» i 780 euro mensili, quale importo massimo del RdC per il single, che rischia di aiutare meno chi ha più bisogno, in considerazione della tipologia di scala di equivalenza scelta per il calcolo del RdC e per il requisito di accesso relativo al reddito equivalente familiare. Un nucleo, ad esempio, di cinque componenti (di cui due adulti e tre minori), residente in affitto, tipicamente una tipologia familiare tra le più povere in assoluto, percepirà un beneficio monetario che potrà arrivare al massimo a 1.280 euro mensili (un importo molto minore di quello che riceverebbe se si applicasse la scala di equivalenza Isee). La scala applicata rende, quindi, meno probabile per una famiglia numerosa soddisfare il requisito di un reddito equivalente non superiore a 6.000 euro annui e, nel caso in cui soddisfi tale requisito, accrescendo il valore del reddito equivalente, tende comunque a ridurre l’importo che viene erogato come RdC. Questa criticità è stata più di recente segnalata anche dagli esperti del Fondo monetario internazionale32, secondo i quali i benefici del RdC calano troppo rapidamente rispetto alla dimensione delle famiglie, penalizzando quelle più povere e numerose33. Occorrerebbe, quindi, riequilibrare gli importi massimi del sussidio per le varie tipologie familiari, con la riduzione di quello del single che vive in appartamento proprietà e il contemporaneo innalzamento di quelli previsti per le famiglie numerose. Sarebbe auspicabile anche differenziare gli importi del sussidio in base ai parametri (numerosità ed età dei membri della famiglia, area geografica e densità abitativa del comune di residenza) con cui l’Istat stima da un ventennio la povertà assoluta. In questo modo si terrebbe conto del diverso costo della vita nelle macro-aree geografiche e non si scoraggerebbe la mobilità Nord-Sud34.

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Il dato positivo è confermato anche dagli studi effettuati in via previsionale: Gallo, Sacchi, Beneficiari e spesa del Reddito di Cittadinanza: Una stima della misura finale, Inapp Policy Brief, n. 11/2019. 31 Cfr. intervista al Presidente Tridico del 9 gennaio 2020 al quotidiano La Stampa. 32 Cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/fmi-pensioni-anticipate-si-ma-assegno-piu-leggero-AC2MyDFB del 29 gennaio 2020. 33 Cfr. le valutazioni di Gallo, Raitano, Reddito di cittadinanza: caratteristiche, beneficiari e prime valutazioni, in XXI Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2019, CNEL, 27 novembre 2019, 279. 34 In tal senso Baldini, Gallo, Lusignoli, Toso, op. cit., 81.

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3.1.

Il severo requisito della residenza qualificata e l’esclusione degli emarginati.

Restando nel campo dei destinatari, il requisito che più ha fatto discutere è senza dubbio l’imposizione di una durata minima della residenza nel territorio italiano (dieci anni di cui gli ultimi due consecutivi), quale presupposto per avere diritto al sussidio. Si tratta di un requisito decisamente restrittivo che taglia fuori le persone che vivono in strada e che non hanno la residenza anagrafica o gli extracomunitari che molto spesso hanno periodi di residenza intermittenti o l’hanno persa da diverso tempo. È una scelta che rivela una sorta di indifferenza per l’esclusione e la segregazione della fascia più marginale del mercato del lavoro – i “più poveri di tutti”, che non hanno diritto ad alcun sostegno del reddito – «che assomiglia più all’espiazione di una colpa che ad un requisito soggettivo»35. E anche qui i dati sono eloquenti. Le famiglie che ricevono il RdC, sempre in base ai dati Inps, sono quasi tutte italiane (935.000 su poco più di un milione); mentre le famiglie con cittadini europei sono circa 37.000 (pari al 3%) e quelle di extracomunitari con permesso di soggiorno appena 58.000 (pari al 6%). Ebbene, la richiesta di una residenza c.d. qualificata, oltre a costituire una barriera difficilmente sormontabile per chi si trova in condizioni di povertà assoluta, sembra porsi in rapporto di tensione con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale, che ha giudicato intrinsecamente irragionevole la richiesta di un termine così lungo, sia pure con riferimento a un altro tipo di prestazione ma la cui ratio è del tutto identica a quella sottesa al RdC perché attiene ai bisogni essenziali. La Corte ha escluso una stretta correlazione tra situazione di povertà e permanenza sul territorio: è un requisito «palesemente irragionevole e sproporzionato, trattandosi di una provvidenza che ... viene riservata a casi di vera e propria indigenza», sicché «non si può ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra soddisfacimento dei bisogni abitativi primari ... della persona che versi in condizione di povertà e sia insediata nel territorio nazionale e la lunga protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale»36. In questi termini, la conclusione della Corte si attaglia perfettamente anche al caso del RdC, posto che in tale prestazione non sembra sussistere alcuna correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale37.

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Così Fontana, Reddito minimo, disuguaglianze sociali e nuovo diritto del lavoro. Fra passato, presente e futuro, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 77. 36 C. cost., 20 luglio 2018, n. 166, con la quale la Corte è intervenuta a censurare una legge regionale della Liguria che prevedeva un periodo di residenza di 10 anni nel territorio della regione per il migrante intenzionato ad accedere all’assegnazione di un alloggio popolare, per irragionevolezza e mancanza di proporzionalità ex art. 3 Cost. In proposito, va richiamato anche l’orientamento della Corte di Giustizia, secondo cui il principio di non discriminazione (art. 21 Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE) risulta violato non solo in presenza di palesi discriminazioni basate sulla cittadinanza, ma anche in presenza di qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Per un commento v. Gorlani, La Corte non cede a suggestioni “sovraniste” delle Regioni e conferma la vocazione universalistica dei servizi, in Gcost, 2018, 1207 e Guariso, Le sentenze della Corte costituzionale 106, 107, 166 del 2018: diritto alla mobilità e illegittimità dei requisiti di lungoresidenza per l’accesso all’alloggio e alle prestazioni sociali, in dirittoimmigrazionecittadinanza.it, n. 3/2018. 37 In tal senso anche Adamo, Reddito di cittadinanza: profili di irragionevolezza della disciplina, fra discriminazioni, sanzioni e limitazioni, in CittadinanzaEur, 2019, 1, 143.

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Peraltro, costituendo il RdC una misura essenziale per il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale (e dunque un diritto fondamentale afferente al nucleo minimo di tutela della dignità della persona), la sproporzione della condizione di residenza decennale si palesa anche alla luce del diritto europeo, nella misura in cui questo fissa in cinque anni il periodo in cui il cittadino dell’Unione acquista la qualità di soggiornante permanente38 (art. 16), con conseguente piena parità di trattamento nell’accesso al sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante39. Naturalmente, se trattasi di nuclei familiari composti di soli stranieri, la cui incidenza di povertà assoluta è ben più alta di quella dei nuclei di soli italiani, è ancora più difficile che sussista il predetto requisito, tanto da potersi configurare una ipotesi di discriminazione indiretta. Il motivo della disparità di trattamento è semplice: lo stringente requisito sugli anni di residenza in Italia ai fini dell’accesso al RdC penalizza i soggetti di più recente immigrazione, anche se poveri40 e, dunque, tale criterio, apparentemente neutro, di fatto svantaggia in modo proporzionalmente maggiore gli appartenenti ad una determinata categoria41. Ma v’è di più. Ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea è anche richiesto il possesso del permesso di lungo soggiorno oltre a un aggravio procedurale, ovvero di produrre, ai fini del conseguimento del RdC, una certificazione, rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, sui requisiti di reddito e patrimoniali e sulla composizione del nucleo familiare. La certificazione deve essere presentata in una versione tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana (che ne attesta la conformità all’originale)42. Quanto alla richiesta del permesso di lungo soggiorno, esso non sembra affatto conforme ai principi della Costituzione, come il Giudice delle leggi osserva da tempo (salvo qualche recente e discutibile ripensamento43). Se la Costituzione, «impone di preservare

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Cfr. art. 16 dir. 2004/38/CE. Così anche Giubboni, op. cit., 22. Peraltro, la condizione di residenza di cinque anni per l’accesso al reddito minimo della Provincia di Bolzano è già stata dichiarata discriminatoria e in violazione dell’art. 21 della Carta di Nizza dalla Corte di giustizia nella sentenza Kamberaj (C. giust., 24 aprile 2012, causa C-571/10, Kamberaj); si veda anche la sentenza della Corte Edu, 13 dicembre 2016, Bélané Nagy c. Hongrie. 40 Così pure Fontana, op. cit., 51. In senso più possibilista, Bonomi, Osservazioni sparse sul Reddito di cittadinanza: sarebbe costituzionalmente legittimo estenderlo ai soli cittadini italiani?, in dirittifondamentali.it, n. 2/2018. 41 Sul punto, ex pluris, v. Ruggeri, I diritti sociali al tempo delle migrazioni, in Osservatorio AIC, 9 luglio 2018, 13; e Palermo, Welfare immigrazione. Disuguaglianza, discriminazione e libera circolazione. “Declinazioni” locali alla luce del diritto europeo e della giurisprudenza delle Corti, in Dirittiregionali, n. 1/2018, 259; per un ulteriore approfondimento sia consentito rinviare anche a D’Onghia Tutele previdenziali e assistenziali dei lavoratori migranti, in Aa.Vv., Previdenza e assistenza. Lavoro, diretto da Curzio, Di Paola, Romei, Giuffrè, 2017, 611; con specifico riferimento al RdC si veda, da ultimo, la puntuale analisi di Morgese, Discriminazioni dirette e indirette a carico dei cittadini non-italiani nell’accesso al reddito e alla pensione di cittadinanza, in Studi sull’integrazione europea, 2019, n. 3, 655. 42 Art. 1 bis l. n. 26/2019. Su punto diffusamente Adamo, op. cit., spec. 154-156; v. anche Tufo, Il Reddito di cittadinanza dopo la conversione del D.L. n. 4/2019: ancora ombre sul principio di uguaglianza, in Diritto&Lavoro flash, 2019, 3, 13-15. Sono esclusi dall’obbligo suddetto di certificazione i soggetti aventi lo status di rifugiato politico; i casi in cui le convenzioni internazionali dispongano diversamente e i soggetti nei cui Paesi di appartenenza sia impossibile acquisire le certificazioni (la definizione dell’elenco di tali Paesi è arrivata con il decreto interministeriale del 21 ottobre 2019; cfr. anche messaggio Inps n. 4516 del 3 dicembre 2019). 43 Il riferimento è alla C. cost., 15 marzo 2019, n. 50, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, legge n. 388/2000, nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari, 39

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l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale, riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona»44, è indubbio che il RdC attenga alla sfera della “inviolabilità”. E se un qualche requisito di appartenenza o radicamento territoriale deve essere ragionevolmente immaginato – come ricorda ancora la stessa Corte costituzionale – per evitare fenomeni di “turismo sociale”, sarà sufficiente fissare un’adeguata e proporzionata condizione di residenza legale in Italia, senza però che questa possa spingersi oltre i cinque anni e, certamente, senza poter esigere, contestualmente, per i cittadini di Paesi terzi, il diverso e ben più esigente requisito del possesso del permesso di soggiorno per lungo-soggiornanti. Analogamente dubbi di legittimità costituzionale possono ravvisarsi anche con riferimento all’aggravio della procedura che solleva il dubbio di un intento discriminatorio “residuale”, quasi vessatorio (a dimostrazione, come opportunamente segnalato, anche di un disorientamento morale in questa fase storica così problematica45), in quanto predisposto come se si volesse introdurre una difficoltà in più per gli stranieri non comunitari (non a caso, da taluni, è stata definita “(anti)immigrati”). Una simile distinzione procedurale fissa una mera condizione di favore per il cittadino italiano e comunitario del tutto ingiustificata ai sensi dell’art. 2, comma 5, del TU in materia di immigrazione. Ai sensi di tale dispositivo, è prescritto che «[a]llo straniero è riconosciuto parità di trattamento con il cittadino […] nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi nei limiti e nei modi previsti dalla legge». Non hanno senso limitazioni soggettive così selettive e severe, previste per una misura che, al contrario, dovrebbe avere una funzione inclusiva e redistributiva del reddito, senza alcuna “pesatura”. Il RdC è diretto a rimediare a gravi situazioni di “necessità e urgenza” e non può l’accesso a tale misura sociale essere differenziato in ragione della «necessità di uno specifico titolo di soggiorno o di particolari tipologie di residenza volte ad escludere proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni di bisogno e di disagio che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si propone di superare perseguendo una finalità eminentemente sociale»46. Va dunque rimodulato il criterio della residenza, allentandolo progressivamente, a vantaggio così dei senza dimora e degli immigrati poveri di ultima generazione, sulla falsariga,

alla titolarità del permesso (già carta) di soggiorno UE per i soggiornanti di lungo periodo. Va detto che la Corte, nella parte motiva della pronunzia, ha ritenuto conforme a Costituzione anche il requisito decennale di residenza legale, stabile e continuativa, aggiunto – per tutti (ovvero indifferentemente per cittadini italiani, dell’Unione o di Paesi terzi) –, sempre ai fini dell’accesso al godimento dell’assegno sociale, dall’art. 20, comma 10, l. n. 133/2008. Per un commento si veda Spinelli, La sentenza n. 50/2019: cronaca di un inaspettato arresto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di prestazioni sociali degli stranieri, in RGL, 2019, 4, II, 667 e Bascherini, Obbligo o parità? Ancora in tema di prestazioni assistenziali a favore degli stranieri extracomunitari, ma per l’assegno sociale ci vuole il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, in GCost, 2019, 2, 762. In senso critico si veda anche Fontana, op. cit., spec. 78. 44 Così C. cost., 19 luglio 2013, n. 222. 45 Fontana, op. cit., 80. 46 C. cost., 9 febbraio 2011, n. 40 e C. cost.,18 gennaio 2013, n. 4.

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ad esempio, di quanto è stato già disposto a livello regionale. Il riferimento è al Reddito di Dignità, introdotto con la legge regionale della Puglia47 che, proprio a seguito degli stringenti requisiti introdotti dal legislatore nazionale del 2019, ha ampliato la sua platea di beneficiari, a vantaggio tanto dei nuclei familiari di cittadini stranieri regolarmente presenti sul territorio regionale, che non hanno avuto la residenza continuativa negli ultimi due anni e la residenza cumulativa per almeno dieci anni in Italia, quanto delle persone senza dimora, o con dimora fittizia assegnata dalle amministrazioni comunali di riferimento48.

4. Il lento e tortuoso avvio della c.d. anima lavoristica

del Reddito di Cittadinanza. Le debolezze strutturali della governance. Se si passa al secondo versante della legge, quello che riguarda le politiche attive del lavoro e l’occupazione dei beneficiari del RdC, purtroppo si deve constatare che l’attuazione della legge è ancora in grave stato di arretratezza e che i risultati appaiono inconsistenti se non quasi nulli, nonostante la propagandata «curvatura lavoristica»49. Anche qui è utile partire dai (pochi) dati disponibili sull’inserimento lavorativo dei fruitori del sussidio. Secondo quanto riportato dall’Anpal50, al 10 dicembre 2019, sono stati attivati 422.947 beneficiari, convocati dai CpI, per poter partecipare alla prima fase preparatoria del più ampio percorso finalizzato alla ricerca del lavoro e a ricevere un’offerta congrua nei prossimi mesi. Si tratta di oltre la metà (il 53%) di un totale di 791.351 avviabili al lavoro, cioè quella parte dei beneficiari che risultano tenuti a sottoscrivere un Patto per il lavoro. Sarebbero poi 28.763 quelli che hanno trovato lavoro (il 67,2% con un contratto a tempo determinato, il 18% a tempo indeterminato, il 3,8% in apprendistato); il 67,9% ha un’età inferiore ai 45 anni; il 58,6% sono uomini e il 41,4% sono donne. Si tratta di numeri ancora troppo esigui rispetto all’intera platea dei destinatari. E questo si spiega anche perché le convocazioni sono partite in estremo ritardo (solo dal mese di settembre 2019), in quanto i CpI non erano ancora pronti a accogliere la mo-

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Legge regionale n. 3 del 14 marzo 2016, «Reddito di dignità regionale e politiche per l’inclusione sociale attiva» come novellato dalla Deliberazione della Giunta regionale 9 aprile 2019, n. 703 che ha individuato, in senso estensivo, i target specifici di beneficiari della misura Reddito di Dignità per l’annualità 2019 e seguenti. In proposito cfr. Laforgia, I dispositivi regionali di contrasto alla povertà dalla periferia al centro ... e ritorno, in VTDL, 2019, 489; Matarese, Le misure regionali di reddito minimo, in Ferraresi (a cura di), op. cit., 51 e Monteduro, Povertà e reddito di dignità pugliese. Una riflessione alla luce del principio di sussidiarietà, in Le Regioni, 2017, 1134. 48 La Circolare Istat 29/1992 ha stabilito che ogni Ufficio Anagrafe deve registrare la persona senza tetto o senza dimora nel registro della popolazione residente, istituendo – in caso di assenza di domicilio o residenza – una via fittizia che non esiste dal punto di vista territoriale/toponomastico ma ha equivalente valore giuridico e nelle quale la persona elegge il proprio recapito. Un recente chiarimento del Ministero del lavoro del 19 febbraio 2020 (nota 1319) sembrerebbe fornire utili indicazioni per estendere il RdC ai senza fissa dimora. 49 L’espressione è di Valente, La curvatura lavoristica del reddito di cittadinanza, in Menabò di Etica ed Economica, n. 98, 16 febbraio 2019. 50 Cfr. comunicato del 23 dicembre 2029 su www.anpalservizi.it, cit.

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le di lavoro improvvisa, per non parlare del ritardo con cui sono stati approvati i diversi provvedimenti attuativi dei vari servizi che le diverse istituzioni pubbliche, ex lege 26/2019, sono state chiamate a sviluppare51. La piattaforma informatica su cui devono basarsi sia la gestione dell’attività dei CpI che quella dei servizi sociali non è ancora del tutto operativa; i nuovi operatori collocati presso i CpI (c.d. navigator) con la finalità di coadiuvare l’espletamento delle procedure del RdC e di agevolare il matching sono chiamati a svolgere mansioni del tutto estranee alla loro precedente esperienza di lavoro (quando presente) e a volte distanti anche dai contenuti effettivi dei corsi di studi frequentati e, dunque, necessitano essi stessi di una consistente formazione ex novo. Era davvero difficile attendersi risultati diversi. In realtà, i deludenti risultati non possono imputarsi solo ai ritardi nei tempi di attivazione dei diversi servizi, ma anche alle persistenti difficoltà strutturali e organizzative sottese all’implementazione della cd. anima lavoristica del RdC. Non può ignorarsi, infatti, come dalla qualificazione del RdC quale «misura di politica attiva», discenda l’estensione di tutto l’armamentario tipico delle prestazioni sociali condizionate, che vede il coinvolgimento di una intera governance (CpI e operatori privati accreditati) oltre a una complessa strumentazione (Patto per il lavoro, assegno di ricollocazione, incentivi all’assunzione), notoriamente deficitario e disomogeneo nel territorio. In altri termini, nella vocazione lavoristica, il funzionamento del RdC è esposto alle croniche criticità dei servizi per l’impiego, alla complessità di una rete con troppi attori e con diverse barriere burocratiche che, nei fatti, rischiano di svilire se non pregiudicare la finalità occupazionale dello strumento52. Basti riepilogare la procedura prevista per la c.d. presa in carico per avere una immediata dimostrazione della complessità dell’iter e della molteplicità dei soggetti coinvolti53. Innanzitutto, è la legge a individuare l’ufficio competente alla prima convocazione dei beneficiari del RdC da inserire nel percorso personalizzato sulla base di un pronostico di occupabilità, sulla base cioè di alcune condizioni soggettive che dovrebbero certificare ex ante la distanza dal mercato del lavoro54. Se il soggetto è occupabile, l’ufficio competente è il CpI regionale; in caso contrario è il servizio comunale per il contrasto alla povertà. Dopo la prima convocazione, se il CpI ravvisi particolari criticità nel nucleo familiare, tali

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Solo con il d.m. 2 settembre 2019, n. 108 è stato istituito il sistema informativo sul RdC, come previsto dall’art. 6, comma 1, legge n. 26/2019; solo il 21 ottobre 2019 è stato emanato l il decreto interministeriale per individuare l’elenco dei Paesi nei quali non è possibile acquisire la certificazione sulle dichiarazioni Isee ai fini del rilascio del RdC per gli stranieri; e sempre solo il 15 novembre 2019 (con la circolare n. 3) l’Anpal ha fornito ai CpI istruzioni operative in relazione alla stipula del patto per il lavoro da parte dei beneficiari di RdC e dei relativi obblighi; e addirittura soltanto l’8 gennaio 2020 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il d.m. del 22 ottobre 2019 sui Progetti Utili alla Collettività e il 10 gennaio 2020 l’Anpal ha dato l’avvio alle procedure per l’erogazione dell’Assegno di ricollocazione per i percettori di RdC, facendo seguito alla propria Delibera del 13 dicembre 2019 che ne ha definito modalità operative ed ammontare. 52 In tal senso v. anche Mandrone, Marocco, Reddito di cittadinanza e servizi per il lavoro, in E&P, 2019, 63 e Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal jobs act al diritto di cittadinanza, Wolter Kluwer-Cedam, 2019. 53 Per una efficace rappresentazione grafica della procedura si rinvia alla Fig. 6 riportata da Mandrone, Marocco, Reddito di cittadinanza e servizi per il lavoro, in E&P, 2019, 77. 54 Sono considerati meno distanti i disoccupati non di lunga durata (cioè da non più di due anni); i beneficiari di NASpI o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria (oppure quanti hanno terminato da non più di un anno di beneficiarne); coloro che hanno sottoscritto negli ultimi due anni un Patto di servizio ancora valido; coloro che non hanno sottoscritto un progetto personalizzato nell’ambito della procedura di erogazione del Reddito di Inclusione e tutti i soggetti di età pari o inferiore a 29 anni.

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da rendere difficoltoso l’avvio di un percorso di inserimento al lavoro, può inviare il beneficiario al servizio comunale. Analogamente, se lo stesso Comune, in esito alla valutazione preliminare, verifichi che i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti siano prevalentemente connessi alla situazione lavorativa, rimetterà la presa in carico al CpI. Già con riferimento a questa fase, la sua pratica attuazione richiede una particolare integrazione tra i sistemi (non sempre riscontrabile nella realtà), pena la degenerazione a un deleterio rimpallo di responsabilità tra soggetti istituzionali. Non meno complessa è la fase successiva relativa alla stipula del patto di servizio. Se si deve sottoscrivere il Patto per l’inclusione sociale entra in campo l’istituto della c.d. équipe multidisciplinare (già previsto per il ReI); l’operatore sociale, a seconda dei bisogni del nucleo familiare più rilevanti emersi dal primo contatto, costruisce l’équipe attingendo dai sistemi dei «servizi per l’impiego, la formazione, le politiche abitative, la tutela della salute e l’istruzione». I diversi sistemi, a livello territoriale, sono così chiamati a mobilitarsi con un approccio “multidisciplinare” per rispondere al meglio a un bisogno del cittadino che è tipicamente multidimensionale55. Qualora, invece, il bisogno sia lavorativo, il beneficiario del RdC è tenuto alla stipula del Patto del lavoro, gestito dai CpI ma che può essere affidato anche a operatori privati. I beneficiari del RdC, infatti, possono scegliere l’operatore cui rivolgersi, in una sorta di parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e private nella gestione della condizionalità. E questo vale sia per la stipula del Patto per il lavoro sia per l’attribuzione dell’assegno di ricollocazione56, la cui erogazione è ora obbligatoria e automatica per i beneficiari del RdC, al fine di ottenere un servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro per un periodo di sei mesi rinnovabili. L’attivazione e la gestione dei Patti, nonché il monitoraggio e il controllo del programma di RdC avvengono, poi, mediante due apposite piattaforme digitali dedicate, una presso l’Anpal e una presso il Ministero del Lavoro. Ai soggetti sin qui menzionati (gli operatori dei CpI, dei servizi per il lavoro accreditati e dei servizi sociali dei Comuni) si aggiungano i navigator, le Regioni, l’Anpal, l’Anpal Servizi s.p.a., il Ministero del lavoro, la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate, il Garante per la protezione dei dati, tutti soggetti chiamati, in varia misura, a trovare un adeguato livello di coordinamento e collaborazione affinché il RdC possa essere implementato in modo efficiente ed efficace, operazione a dir poco improba. Tutto questo per dire che non è sbagliata l’idea del RdC, ma è (forse) sbagliata la governance57. Peraltro la natura ibrida della misura (contrasto alla povertà e politica attiva al lavoro) pone un problema di baricentro della misura stessa, spostato sui servizi per l’impiego molto più che sui servizi sociali. E, dunque, tutto si gioca essenzialmente proprio sulla capaci-

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V. D’Emilione, Mandrone, Il Patto per l’inclusione: la funzione sociale del reddito di cittadinanza, in Marocco, Spattini (a cura di), op. cit., 53. 56 Si tratta della misura di politica attiva, introdotta dall’art. 23, d.lgs. n. 150/2015 per i percettori di NASpI, per i beneficiari dei ReI e per i lavoratori collocati in Cassa Integrazione e che l’art. 9 della l. n. 26/2019 ha temporaneamente destinato (fino alla fine del 2021) verso i beneficiari del RdC. Sul tema, fra i tanti, si rinvia a Olivieri, L’assegno di ricollocazione: una nuova condivisione di diritti e doveri, in ADL, 2016, I, 272 e Lassandari, La tutela immaginaria nel mercato del lavoro: i servizi per l’impiego e le politiche attive, in LD, 2016, 2, 237. 57 Così anche Valente, I diritti dei disoccupati, cit., 250.

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tà dei CpI, a cui si aggiungono tutti gli altri apparati amministrativi coinvolti nell’obiettivo di reinserimento sociale dei beneficiari58. È noto come l’efficienza delle politiche sociali sia strettamente legata all’efficacia degli apparati amministrativi preposti a gestirle; essa dipende sempre dalle «capacità istituzionali»59 del Paese. Le disparità territoriali, che sono ben emerse dai dati sui fruitori del RdC, sono la conseguenza, per buona parte, proprio dei forti deficit di capacità istituzionali, specie nelle Regioni del Sud, caratterizzate, fra l’altro, da una scarsa domanda di lavoro e un eccesso dell’offerta. Ecco allora che il rafforzamento di queste capacità60 – a livello centrale, a livello decentrato, nei rapporti fra i due livelli – diventa il punto cruciale, verosimilmente il prerequisito più importante per passare “dalle parole ai fatti”. La sensazione è che questa difficoltà, a passare dalla fase di definizione degli interventi a quella della loro attuazione, pur largamente nota, non sia mai stata presa in adeguata considerazione dai decisori politici. L’integrazione funzionale tra diversi soggetti pubblici, a più livelli, e privati, eterogenei per natura giuridica, prerogative e collocazione territoriale è il risultato più difficile da ottenere specie ove si consideri che, essendo le competenze costituzionalmente ripartite tra Stato e Regioni, non è immaginabile una gestione per via gerarchica dal livello nazionale a quello territoriale. Ciò significa che l’intera macchina operativa dei servizi deve essere negoziata e condivisa tra tutti gli attori delle politiche attive, attraverso un efficace sistema informativo che tenga assieme i dati in possesso delle diverse amministrazioni, periferiche o centrali. Ma la raccolta dei dati è proprio uno dei passaggi più complessi, perché presuppone le capacità tecniche, organizzative e professionali per raccogliere, organizzare e condividere le informazioni, secondo protocolli comuni. I CpI diffusi sul territorio nazionale, come noto, presentano fragilità – delle cui origini e cause non è possibile dare conto in questa sede61 – che rendono estremamente complessa l’operazione di messa in rete dei flussi informativi secondo standard omogenei. Nonostante i significativi progressi fatti nella condivisione dei dati e dei livelli dei servizi, permangono ancora gravi disfunzioni e carenze che ostacolano l’esercizio, da parte dei CpI, di un efficace presidio operativo per garantire universalmente il diritto al lavoro62.

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In tal senso v. Sandulli, op. cit., 625. Madama, La politica socioassistenziale, in Ferrera (a cura di), Le politiche sociali, Il Mulino, 2016, 294. 60 Un potenziamento è stato previsto sia con l’assunzione di 3.000 navigator sia col finanziamento ad hoc di circa 700 milioni per potenziare l’organico dei CpI. Cfr. Bozzao, Politiche attive per l’occupazione e Centri per l’impiego, in Curzio (a cura di), op. cit., 171. Invero c’è chi dubita che interventi di questo tipo possano risolvere in via definitiva le risalenti criticità dei nostri CpI: Valente, Contrasto alla povertà e promozione del lavoro tra buoni propositi e vecchi vizi, in DRI, 2018, 4, 1081. Sui limiti finanziari e strutturali dei CpI e le notevolissime carenze di personale, si veda anche il Dossier curato da Adapt, Funzionamento servizi pubblici per l’impiego – Indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego in Italia e all’estero, 2018, consultabili in http:// www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2018/07/dossier1.pdf). 61 Si rinvia a Valente, I diritti dei disoccupati, op. cit., oltre alla lucida analisi di Chiozza, D’Onofrio, Torchia, I Centri per l’impiego. Tra prospettive di sviluppo e fabbisogni dell’utenza, in XX Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2017-2018, CNEL, 4 febbraio 2019, 109. 62 In tal senso v. Del Conte, Tutela della occupazione e politiche attive del lavoro, in XXI Rapporto mercato del lavoro e contrattazione 59

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Come ampiamente dimostrato dagli studiosi dell’attuazione delle politiche pubbliche63, gli interventi possono naturalmente essere più o meno ponderati ed elaborati, sorretti da una profonda conoscenza dei fenomeni su cui si intende agire o invece relativamente improvvisati. Ma in ogni caso incontrano sempre criticità nel passaggio alla fase creativa. L’attuazione è parte fondamentale del ciclo di policy, perché consente di acquisire una conoscenza sulla realtà sociale, sugli attori, sulle risorse disponibili ed effettivamente utilizzabili, sulla complessità del problema con cui la policy si confronta e, non da ultimo, di valutare la bontà di un programma di intervento64. Se non vengono colmate le gravi carenze strutturali, le azioni, pur positive, rischiano di cadere nel vuoto, di rimanere mere dichiarazioni di intenti, con gravi e inutili sprechi: le scelte organizzative condizionano sempre ampiamente il contenuto dei diritti sociali65.

4.1. La stringente condizionalità e la discutibile impostazione meritocratica.

Qualche considerazione critica merita anche la particolare enfasi data allo stretto connubio tra RdC e meccanismi di attivazione dei suoi richiedenti, la cd. condizionalità, oramai la parola chiave quando si tratta di erogare prestazioni sociali66. La rigorosa previsione di mutual obligation risponde non solo (e non tanto) alla condivisibile logica di partecipazione attiva e di responsabilizzazione dei processi di inclusione sociale67, che negli ultimi decenni si è sempre più affermata68, quanto (soprattutto) all’obiettivo di evitare derive opportunistiche e assistenzialistiche, la c.d. trappola della povertà, secondo cui risulterebbe più conveniente rimanere in condizione di assistenza che lavorare. E proprio tale ratio fa da sfondo all’accentuazione della

collettiva 2019, CNEL, 27 novembre 2019, 211 che riconduce le criticità a «personale insufficiente, spesso con competenze inadeguate e assorbito prevalentemente da compiti amministrativo/burocratici; tendenza a focalizzare le attività sull’offerta di lavoro, prestando scarsa attenzione alla domanda, effetto anche di una limitata conoscenza dei mercati del lavoro e delle loro evoluzioni; frammentazione delle competenze, che determina interventi non informati a una chiara visione strategica, nonché disconnessione fra i livelli di programmazione e quelli di operatività; scarso coordinamento, in assenza di una regia unitaria, e frequenti sovrapposizioni nel rapporto con gli altri attori del mercato del lavoro, a partire dagli operatori privati; sistemi informativi e di monitoraggio ancora incompleti». 63 Si veda, per tutti, Vino, L’attuazione delle politiche pubbliche. Dalla decisione politica all’efficacia sociale, Carocci, 2018 e ivi ulteriori riferimenti bibliografici. 64 Sull’importanza dei processi di monitoraggio e valutazione cfr. Ciucci, Valutazione delle politiche e dei servizi sociali. Partecipazione, metodo, qualità, Franco Angeli, 2008. 65 Cfr. Delsignore, Diritti sociali e discrezionalità tecnica: un binomio imperfetto?, in Aa.Vv. (a cura di), Spazio della tecnica e spazio del potere nella tutela dei diritti sociali, Aracne, 2014, 443 ss. e Saruis, Catena, Le politiche socio-assistenziali in Italia, tra discrezionalità istituzionale e discrezionalità operativa, in RTSA, 2012, 2, 145. 66 Cfr., ex pluris, a Ferrara, Il principio di condizionalità e l’attivazione del lavoratore tra tutela dei diritti sociali e controllo della legalità, in LD, 2015, 639. 67 Viene qui in mente il principio di «laboriosità» di quella parte della dottrina che, da tempo, pone al centro delle tutele le potenzialità dei singoli, in una più inclusiva logica di responsabilizzazione partecipativa degli stessi, capaci di estendere l’assetto protettivo a tutti coloro che, sussistendone le condizioni di abilità, si mostrino effettivamente disponibili ad accedere nel sistema produttivo; così Bozzao, Dal “lavoro” alla “laboriosità”. Nuovi ambiti della protezione sociale e discontinuità occupazionale, in RDSS, 535 e, da ultimo, Id, Poveri lavoratori, nuovi bisogni e modelli universalistici di welfare: quali tutele?, in LD, 2018, 4, 659. 68 Sul punto, più ampiamente, sia consentito rinviare a D’Onghia, Dall’assistenza sociale a un nuovo modello di politiche sociali. Mutamenti e sfide del sistema italiano, in VTDL, 2019, 3, 349.

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logica punitiva (“bastone-carota”) fortemente presente nell’intero impianto normativo. Basti ricordare che a presidio della vastità e invasività dei requisiti, degli obblighi e dei controlli istituiti con la legge, ci si affida a un sistema di sanzioni articolato in conseguenze di natura amministrativa, civilistica, disciplinare e finanche penale (scadendo, così, in quello che la letteratura ha imparato a chiamare «populismo penale»69) con le quali si punisce sia la mancanza delle condizioni di accesso e di mantenimento del beneficio economico, anche sotto il profilo della misura percepita, sia la mancata adesione agli strumenti di partecipazione attiva dettati dalla legge per il funzionamento del sistema di accesso al lavoro o di inclusione sociale. La condizionalità che accompagna il RdC appare, dunque, più severa rispetto a quella imposta ai titolari di trattamenti di disoccupazione (e anche a quella prima prevista per i beneficiari del ReI)70, oltre al fatto che, nel caso del RdC, l’inadempimento da parte di uno dei componenti del nucleo familiare riverbera i propri effetti su tutti gli altri, sanzionati con la riduzione o la decadenza dal beneficio economico71. Non c’è dubbio, dunque, che la condizionalità, specie ove si consideri il criterio della congruità dell’offerta, fondato essenzialmente sul suo valore economico e più ancora sulla sua dimensione geografica, senza una significativa considerazione delle competenze già maturate72, risulti sbilanciata su un versante più sanzionatorio che effettivamente promozionale73, con buona pace dell’idea (costituzionale) del lavoro quale principale strumento di emancipazione individuale e sociale dell’uomo74. E, in questa logica, si conviene con chi ha sottolineato il rischio di una trasformazione della misura quasi in un «palliativo della precarietà del lavoro»75 o addirittura di uno stimolo alla ricerca di «impedimenti oggettivi» per chi voglia sottrarsi «alle migrazioni su territorio nazionale imposte dalla nuova rigida condizionalità lavorativa»76. Rimane, poi, il rischio, sempre incombente in un modello in cui diventa centrale il principio della partecipazione attiva al sistema economico e sociale, che i soggetti deboli tradizionali (disabili, anziani, etc.) diventino oggetto di forme di tutela residuale.

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Il populismo penale vuole «esprimere l’idea di un diritto penale finalizzato al (o comunque condizionato dal) perseguimento di obiettivi politici a carattere populistico», arrivando a una pericolosa «strumentalizzazione politica del diritto penale, e delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva»; così Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, 97. 70 Cfr. Marocco, La condizionalità nel reddito di cittadinanza: continuità e discontinuità, in Marocco, Spattini, op. cit., 63. Si veda anche Sgroi, La condizionalità e le politiche attive del lavoro dalla NASpI al Reddito di cittadinanza, in Labor, 2019, 4, 369. 71 Così Pascucci, Reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro, in eticaeconomia.it, n. 106/2019. 72 Sulla definizione della congruità, anche con un approccio critico v. Recchia, Il reddito di cittadinanza nel prisma delle relazioni industriali, in DRI, 2020, 1, in corso di stampa. Si veda anche Garbuio, L’offerta congrua di lavoro nel prisma del principio di condizionalità: tra parametri oggettivi e necessarie implicazioni soggettive, in RDSS, 2019, 3, 575 e Marocco, La condizionalità nel reddito di cittadinanza, cit. 73 In tal senso anche Giubboni, op. cit., 19; sulla torsione del sistema verso la componente vincolistica/punitiva si veda anche Alaimo, Il reddito di cittadinanza fra diritto all’assistenza e doveri di attivazione. Per un modello ideal-tipico di strategia di inclusione, in VTDL, 2019, 3, 457 e, più in generale, sulla deriva sanzionatoria della condizionalità, Taschini, I diritti sociali al tempo della condizionalità, Giappichelli, 2019. 74 In tal senso si rinvia all’attenta analisi di Laforgia, Diritti fondamentali dei lavoratori e tecniche di tutela. Discorso sulla dignità sociale, ESI, 2018, spec. 33. 75 Fontana, op. cit., 69. 76 Modica Scala, Il reddito di cittadinanza tra workfare e metamorfosi del lavoro, in WP D’Antona, It., n. 402/2019, 10.

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Vi è il rischio, cioè, di modelli di assistenza ghettizzanti o stigmatizzanti per i soggetti che non possono partecipare per ragioni oggettive alla competizione, perdendo di vista la gravità dei problemi sociali sottesi al mondo della povertà (di cui la stessa legge sul RdC sottolinea la multidimensionalità) e allo stesso mondo del lavoro. Appaiono, pertanto, del tutto condivisibili le osservazioni di chi sostiene che l’esclusiva messa a fuoco del capitale umano e dell’occupabilità rischia di promuovere una «visione monodimensionale della cittadinanza sociale»77. Soprattutto questo approccio ha poco da dire per quanto riguarda i diritti e i bisogni di chi non è occupabile neppure in prospettiva: per età, stato di salute o altro. Bisogni che rischiano di essere lasciati alla discrezionalità della compassione. Il che avvallerebbe anche quella regressiva interpretazione di solidarietà che è stata definita «una interpretazione contrattuale»78, alla cui stregua gli individui sono mobilitati secondo una logica di contropartita al fine di meritare le risorse di cui possono essere destinatari79, per cui sul povero “immeritevole” si finisce per scaricare un sovraccarico di responsabilità80. Il rischio reale sembra essere quello che, al di là della costante narrazione81, non si è dinanzi a un nuovo welfare, ma a un workfare, dove il diritto sociale si trasforma in premio riconosciuto a chi firma un contratto nel quale si sottoscrivono obblighi eccessivamente stringenti, procedure di controllo e di verifica ex ante, in itinere ed ex post. Con un certa amarezza, spiace, così, constatare come, in un progetto di riforma sociale di tale importanza, che segna, senza dubbio, un epocale avanzamento nelle politiche per l’assistenza del nostro Paese, si siano “radicate”, più o meno esplicitamente, tendenze che guardano alla condizione del disagio con diffidenza, alla devianza in modo punitivo, allo straniero come a un estraneo, all’attivazione dei soggetti come «ad una sorta di ‘mobilitazione totale’»82 che non si muove nel solco costituzionale del diritto-dovere al lavoro, ma che tracima nell’obbligo al lavoro83, creando forti disagi sociali e altra emarginazione.

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Saraceno, Il welfare. Modelli e dilemmi della cittadinanza sociale, Il Mulino, 2013, 122-123. Si vedano anche Merler, Piga, Vargiu, L’interezza delle politiche sociali per la cittadinanza attiva: quale partecipazione?, in Colozzi (a cura di), Dal vecchio al nuovo welfare. Percorsi di una morfogenesi, Franco Angeli, 2012, 71. 78 Castel, De la protection sociale comme droit, in Castel, Duvoux (a cura di), L’avenir de la solidarité, PUF, 2013, 5. 79 Molto critica rispetto a questa impostazione meritocratica anche Granaglia, Alla ricerca di equità nel sostegno al reddito. Due limiti strutturali del reddito di cittadinanza nonostante un grande merito, in RPS, 2019, 3, 177, per la quale va rigettata il «modello di do ut des» e la condizionalità che caratterizza il RdC andrebbe attenuata e utilizzata solo per «contrastare il fenomeno che assilla tutte le assicurazioni, l’azzardo morale, e di superare le eventuali barriere informative e formative che ostacolano l’accesso a un lavoro decente». 80 Giubboni, op. cit., 20. Su tale processo di deriva, definita di «eclissi della solidarietà redistributiva», cfr. Giubboni, Pioggia, Lo stato del benessere: dalla redistribuzione al riconoscimento, in RDSS, 2015, 2, 297. 81 Per tutti Somma, Contro il reddito di cittadinanza, in Id. (a cura di), Lavoro alla spina, welfare à la carte. Lavoro e Stato sociale della gig economy, Meltemi Editore, 2019, 1. 82 Fontana, op. cit., 82. 83 Basti citare le norme sulla congruità (art. 4, commi 8 e 9, l. n. 26/2019) laddove si concentrano sul combinato disposto del requisito della durata del beneficio e quello della distanza dal luogo di residenza. Il primo anno è congrua un’offerta entro 100 km di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, ovvero entro 250 km di distanza se si tratta di seconda offerta, ovvero, ovunque collocata nel territorio italiano, se si tratta di terza offerta e in caso di rinnovo del RdC. E proprio nel caso del rinnovo l’offerta deve essere accettata, a pena di decadenza dal beneficio (ovunque sia collocata nel territorio e anche se si tratta di prima offerta!).

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5. Alcune valutazioni finali per un approccio costruttivo. In sede conclusiva è possibile effettuare delle valutazioni di sintesi che rispondano agli interrogativi posti in premessa, in una logica anche propositiva. Innanzitutto occorre osservare che se la scelta del legislatore, del tutto condivisibile, è stata quella di intendere il RdC come un diritto e non lo si vuole svuotare di significato, riducendo la misura a una mera finalità assistenziale, la tecnica legislativa utilizzata e la strumentazione predisposta risultano del tutto inadeguate o, perlomeno, non tengono ben in considerazione i limiti strutturali della governance coinvolta. Come noto, il ruolo del legislatore non può mai esaurirsi nell’esperimento dell’iter normativo esclusivamente sotto il profilo formale ma è necessario, affinché le norme giuridiche raggiungano un certo grado di effettività che le stesse siano configurabili sotto il profilo della loro perseguibilità, nel senso di essere espressione di scelte razionali e quindi concretamente praticabili. La validità delle norme giuridiche va quindi indagata non solo sul piano formale ma anche su quello reale: «tutto il diritto deve avere valore effettivo, cioè possedere la possibilità di realizzarsi nei fenomeni»84. Ebbene, le analisi sin qui svolte inducono a una valutazione critica in relazione alla effettiva coerenza tra le scelte di policy (indirizzate alla parte più debole della popolazione) e le decisioni assunte per la loro effettiva implementazione. Se si guarda, infatti, alla funzione del RdC, a quale scopo e per il soddisfacimento di quali bisogni viene garantito, a beneficio di quali soggetti e attraverso quali modalità, non sembra esserci piena coerenza e logicità nella previsione normativa e negli strumenti predisposti per il suo soddisfacimento, specie per l’oggettiva impasse di tenere insieme – in un solo strumento – la lotta alla povertà e all’inclusione sociale. Anzi, è proprio l’attuale ambivalenza della misura a condizionarne la reale effettività. Parlare di RdC senza considerare attentamente le sue concrete possibilità di attuazione, significa condannarlo a un nuovo oblio e non è certo questa la tesi che si vuole sostenere. Il RdC resta una misura da difendere perché, non aderendo a quella potente ideologia lavorista che guarda a tale misura quasi con disprezzo, essa ha il merito «di desacralizzare il dogma industrialista del lavoro produttivo e la retorica borghese che lo accompagna attraverso quell’immaginario emancipatore di un lavoro che nobilita l’uomo, cinicamente utilizzato anche nei campi di sterminio del regime nazista»85. Rompere il nesso fra reddito e lavoro, riconoscendo un reddito a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro lavoro, significa spezzare, o quantomeno, allentare il legame di potere che consente al capitale di disporre del nostro tempo. Del resto oggi il lavoro per tutti non c’è e, in ogni caso, è talmente schiacciato dalle forze della tecnologia e

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In tal senso Piovani, Effettività (principio di), in Enc. dir., XIV, 1965, 420. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato. Per una nuova ontologia del lavoro nel discorso giuslavoristico, ADAPT University Press, 2019, 145.

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della globalizzazione da non poter dar luogo a livelli di vita dignitosi e a una adeguata mobilità sociale. Le valutazioni critiche riportate nelle pagine precedenti, quindi, non intendono affatto liquidare la misura, semmai vogliono imporre una riflessione costruttiva che prenda atto di aver caricato il reddito di troppe funzioni, non del tutto congruenti tra loro: un sussidio di ultima istanza, un obbligo al lavoro, un obbligo alla mobilità su tutto il territorio nazionale, un incentivo alle imprese che assumono, e così via. Troppi gli obiettivi che il legislatore ha attribuito al RdC per essere raggiunti efficacemente da un unico strumento e il rischio è di fallire su tutti i fronti. Ecco, allora, che, a un anno dalla sua approvazione, fra chi difende la misura nella sua versione originaria e chi la vorrebbe addirittura cancellare, si suggerisce di intervenire con rapidi correttivi, per non continuare a trascurare come il gigantismo della riforma esponga il RdC a una perdurante navigazione incerta (e, questo, nonostante la nave si sia equipaggiata di circa 3.000 valenti navigator!). Occorre, dunque, fare presto per allineare le due velocità e dare effettività al RdC o, meglio ancora, per ridisegnare la misura attribuendogli l’obiettivo cardine per cui essa è nata, ovvero il contrasto alla povertà86. In tal modo si potrebbe contribuire a migliorare l’efficacia redistributiva del RdC senza che si rimanga, al contempo, delusi per un eventuale debole efficacia rispetto ad altri obiettivi che andrebbero prioritariamente perseguiti soprattutto con strumenti diversi dal RdC. Del resto il tema della povertà richiede un approccio ben più ampio: la povertà non può essere intesa (esclusivamente) come assenza di reddito ma anche come assenza di lavoro di qualità e dignitoso, come povertà educativa e formativa, tecnologica (solo per citare alcune fondamentali variabili)87. Ciò richiede non tanto (e non solo) sussidi economici quanto una reale e lungimirante politica del lavoro, economica e salariale, con forti e solidi investimenti sulla formazione, ma qui il discorso ci porterebbe ben più lontano rispetto al campo di indagine. Mi sia consentita solo un’ultima considerazione sempre in termini propositivi. Contestualmente all’operazione di restyling del quadro regolativo del RdC è quanto mai necessario (e urgente) un complessivo riordino di tutte le misure tanto di carattere previdenziale quanto di carattere assistenziale. È più che mai essenziale raccordare il nuovo sussidio con le prestazioni tradizionali (da quelle familiari agli ammortizzatori sociali sino alle integrazioni al minimo o altre minori)88 che necessitano di incisivi

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C’è chi, al contrario, propone addirittura di funzionalizzare il RdC alla lotta alla disoccupazione, con una proposta di legge ad hoc; così Alleva, Reddito di cittadinanza e crescita occupazionale, in RGL, 2019, I, 111. 87 In tal senso cfr. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, 2015. Si veda anche Seghezzi, Reddito, lavoro e persona. Prospettive e criticità ai tempi del reddito di base, in Professionalità Studi, ADAPT, n. 5/2019, 6, 14 e la lucida analisi di Treu, Il lavoro povero: radici strutturali e rimedi, in Istituto per la Ricerca Sociale (a cura di), op. cit., 24. 88 In proposito Giubboni, op. cit., 19-10, segnala criticamente che l’importo del RdC, e ancor più quello della PdC, possono essere superiori a quello del trattamento minimo della pensione, senza che il titolare di quest’ultimo sia legittimato ad accedere di per sé all’integrazione reddituale garantita dai primi, dando luogo a una «sperequazione che, in termini di “adeguatezza relativa” (sub specie di giustizia distributiva), sembra contraddire la logica che presiede al rapporto tra il 1° ed il 2° comma dell’art. 38 Cost., capovolgendola in modo inammissibile».

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Il Reddito di Cittadinanza un anno dopo: eppur si muove ma con troppe funzioni e a doppia velocità

interventi di razionalizzazione89. Le più tradizionali misure assistenziali andrebbero riqualificate o assorbite nelle nuove, in modo da ricomporre l’offerta nelle diverse aree di bisogno90, anche per le evidenti ricadute positive in termini di maggiori disponibilità finanziarie. La spesa per assistenza continua a essere la cenerentola del nostro sistema di welfare e un modo per trovare nuove risorse resta quello del “riequilibrio” fra i grandi comparti di spesa, e soprattutto del trasferimento di risorse fra previdenza (in particolare previdenza pensionistica) e assistenza91, salvo un «cambio di paradigma», ripensando l’intero sistema di sicurezza sociale92. Come noto, le prestazioni assistenziali (sia esse monetarie o in natura) sono condizionate, come tutti i diritti sociali, alla disponibilità di risorse sempre più scarse, che presuppongono comunque sempre delle scelte. La “variabile” finanziaria, infatti, non può essere ridotta al concetto di disponibilità/indisponibilità delle risorse come eterodeterminato, definitivo e indiscutibile: sono le decisioni di bilancio (rectius le scelte di governo) a determinare le opportunità di godimento dei diritti93. Ebbene, sorprende che non si sia finora aperta alcuna riflessione e revisione critica sulla risalente struttura e distribuzione dei benefici della spesa assistenziale. In questa logica, la previsione di una misura, come la PdC, probabilmente pagante in termini di consenso, ripropone la logica settoriale e categoriale delle tradizionali misure assistenziali, in piena contraddizione con il carattere universale del RdC. Di comune le due misure hanno solo il termine “cittadinanza”, per tutto il resto, a cominciare proprio dalla loro ratio, sono in piena contraddizione, oltre che in oggettiva competizione sulle risorse economiche messe a disposizione94. Piuttosto che riservare una componente specifica del RdC agli anziani poveri, introducendo un ennesimo tassello in un sistema ormai caotico, forse sarebbe stato preferibile incamminarsi verso un graduale ma coerente riordino delle misure vigenti (pensione/assegno sociale, integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, ecc.)95.

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In proposito si veda Balandi, L’eterna ghirlanda opaca: evoluzione e contraddizione del sistema italiano di sicurezza sociale, in LD, 2015, 322 ss. Sulla necessità di una integrale riscrittura di tutto il sistema di assistenza sociale conviene anche Pessi, La tutela previdenziale ed assistenziale nella Costituzione. Sostenibilità economica e sostenibilità sociale, in RDSS, 2019, 1, 50. Cfr. anche Ranci Ortigosa, Ridefinire e integrare misure, connettere politiche, in Istituto per la Ricerca Sociale (a cura di), op. cit., 1. 90 Si veda l’interessante proposta elaborata dall’Associazione per la ricerca sociale (Ars), ora in Ranci Ortigosa, Mesini (a cura di), Costruiamo il Welfare dei Diritti. Ridefinire le politiche sociali su criteri di equità e di efficacia, in PPS, 2016, 2. 91 In tal senso anche le osservazioni dell’ex presidente dell’Inps, Boeri, che nell’evidenziare l’insufficienza delle risorse per finanziarie il Rei, in occasione della presentazione del XVII Rapporto annuale Inps (2018) aggiunge che queste risorse «potrebbero essere reperite ponendo ordine nella giungla di prestazioni di natura assistenziale destinate ai pensionati, a partire dalle maggiorazioni sociali all’integrazioni al minimo» (20-21), consultabile in https://www.inps.it/docallegatiNP/Mig/Dati_analisi_bilanci/Rapporti_annuali/ relazione_presidente_XVII.pdfdai. 92 Molto stimolante in tal senso l’acuta ricostruzione di Garofalo, Il minimo previdenziale ed assistenziale: bisogno presunto versus bisogno accertato, in LG, 2019, 11, 977. 93 Si veda Luciani, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale, in Per i sessant’anni della Corte Costituzionale, Atti convegno scientifico 19-20 maggio 2016, Giuffrè, 2017, 130. 94 Così anche Ranci Ortigosa, Dal Reddito di inclusione al Reddito di cittadinanza, in Cnel (a cura di), XX Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2017-2018, CNEL, 4 febbraio 2019, 247. 95 Cfr. anche Baldini, Mazzaferro, Toso, La pensione di cittadinanza. Un’occasione persa?, in RPS, 2019, 3, 63. Sulla necessità di un complessivo riordino delle prestazioni sociali, si veda, da ultimo, Prosperetti, Ripensiamo lo Stato sociale, Wolter Kluwer-Cedam, 2019.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di Cassazione, sentenza 20 agosto 2019, n. 21537; Pres. Nobile – Est. Arienzo – P.M. Sanlorenzo (concl. conf.) – Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture Filctem CGIL Provinciale Torino (Avv. Angiolini, Poli, Ingegneri, Bomboi) c. Plastic Components and Modules Automotive S.p.a. (Avv. De Luca Tamajo, Bonamico, Dirutigliano, Ropolo). Cassa con rinvio App. Torino, sent. 164/2014. Contratto collettivo – Recesso unilaterale ante tempus del singolo datore – Illegittimità.

È illegittimo il recesso unilaterale ante tempus dal CCNL di categoria operato dal singolo datore di lavoro e non dall’associazione cui appartiene, essendo questi individualmente tenuto ad applicare il contratto in precedenza stipulato sino alla sua naturale scadenza.

(Omissis) Fatti di Causa 1. La Corte d’appello di Torino riformava solo parzialmente – quanto all’ordine di affissione nelle bacheche aziendali del decreto del Tribunale del 22.1.2012 – la decisione del Tribunale della stessa città, confermandola nella parte in cui aveva respinto l’opposizione della Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture FILCTEM – CGIL Provinciale di Torino e la riconvenzionale della società datrice di lavoro avverso il suddetto decreto che aveva dichiarato il carattere antisindacale unicamente della condotta della s.p.a. Plastic Components and Modules Automotive PCMA consistita nel non avere informato ed interpellato il sindacato FILCTEM in merito alle trattative sfociate nell’accordo 13.12.2011, comportante l’estensione a tutti i dipendenti del contratto collettivo specifico di lavoro del 29.12.2011 nella sua stesura definitiva, concluso con FIM CISL, UILM, FISMIC, UGL ed Associazione Quadri e Capi FIAT. 2. La Corte, negandone la dedotta antisindacalità, ribadiva, invece, la legittimità della stipula di un nuovo contratto collettivo con OO.SS. in tutto o in parte diverse (anche per settore-metalmeccanico) da quelle che avevano stipulato il precedente, richiamando pronuncia della S. C., che aveva sul punto affermato l’inesistenza nell’ordinamento di un obbligo a carico del datore di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le 00. SS., rientrando nell’autonomia negoziale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con 00.SS. anche diverse da quelle che avevano trattato e sottoscritto il precedente. (omissis) 4. Il giudice del gravame, pur non convenendo sull’operatività del principio di effettività richiamato dal giudice dell’opposizione e sull’applicabilità della L. n. 148 del 2011, art. 8 sulla quale il Tribunale aveva basato l’originario decreto, rilevava che, a partire del 1.1.2012, la PCMA, per effetto del recesso dal sistema confindustriale esercitato dal gruppo FIAT ex art. 24

c.c., comma 2, non aderiva più a detto sistema e non era tenuta più a rispettare le intese sindacali sottoscritte dall’associazione del settore (Federgomma), essendo in tal modo da quella data libera di applicare a tutti i propri dipendenti solo e soltanto il CCSL richiamato nell’accordo aziendale del 13.12.2011, applicativo del CCSL di primo livello sottoscritto il 29.10.2010. 5. La Corte rigettava l’appello incidentale della PCMA volto alla riforma della decisione in punto di ritenuta antisindacalità della condotta che aveva escluso il diritto FILCTEM – CGIL ad essere informata ed interpellata su quanto l’azienda era intenta a sviluppare, in ragione della sussistenza di un dovere di informativa funzionale all’esame congiunto delle problematiche aziendali e lavorative; riteneva che, ai fini della rimozione degli effetti della condotta ritenuta antisindacale perché discriminatoria e lesiva della credibilità e dell’immagine dell’O.S., dovesse essere ordinata la richiesta affissione del decreto nelle bacheche aziendali degli stabilimenti di (omissis). 6. Di tale decisione ha domandato la cassazione la FILCTEM, affidando l’impugnazione ad unico motivo, cui ha resistito la società PCMA, con controricorso. (Omissis) Ragioni Della Decisione 1. Vengono denunziate violazione dei principi in materia di efficacia della parte normativa del contratto collettivo di diritto comune e violazione dell’art. 1372 c.c., assumendosi come erronea l’affermazione del giudice del gravame secondo cui l’efficacia vincolante di tale contratto deriverebbe esclusivamente dalla sussistenza e permanenza del vincolo associativo. 2. Si sostiene che, pure essendo pacifico che né le singole aziende, né i lavoratori aderenti alle OO.SS. possano considerarsi parti, in senso proprio, del contratto collettivo, la loro posizione, in quanto destinatari della parte normativa dello stesso, non si differenzi in alcun modo, quanto ad efficacia e vincolatività del contratto, da quella propria delle parti formali e che il contratto collettivo esplichi la propria efficacia vin-


Giurisprudenza

colante, nei termini di cui all’art. 2077 c.c., nei confronti di tutti gli iscritti alle contrapposte organizzazioni sindacali stipulanti nella sua interezza, e cioè con riferimento a tutte le clausole della parte normativa. Corollario di ciò è che, ove al contratto collettivo sia stata apposta, come nel caso di specie, una clausola di durata, la stessa, in virtù di quanto disposto dall’art. 1372 c.c., vincola tutti i destinatari del contratto stesso sino alla scadenza del termine pattuito e nessuno di essi può sciogliersi da tale vincolo unilateralmente prima della scadenza, neppure dissociandosi dall’organizzazione sindacale di appartenenza. 3. La s.p.a. PCMA, preliminarmente, rileva che la doglianza della FILCTEM CGIL circa l’omessa applicazione del CCNL Gomma Plastica ai lavoratori ad essa iscritti presso l’Unità Produttiva di San Benigno Canavese si riferiva al contratto collettivo 18 marzo 2010, avente naturale scadenza al 31.12.2012 e che, avendo di fatto le parti collettive sottoscritto il rinnovo del CCNL Gomma Plastica in data 8.1.2014 ed essendo uscita PCMA dal sistema confindustriale fin dal 31.12.2011, tale ultimo CCNL Gomma Plastica non sia in alcun modo ad essa riferibile, con la conseguenza che, dovendo l’interesse ad agire sussistere anche nel momento della decisione, il ricorso debba considerarsi inammissibile. 4. In dispregio dei principi di specificità ed autosufficienza, non si indica dove, quando ed in quali precisi termini, sia stata sollevata una tale eccezione nella fase di gravame, pure essendo il CCNL del 2010 già scaduto: ciò era tanto più necessario in quanto di tale questione non si fa cenno nella sentenza impugnata, che ha omesso ogni riferimento ai rilevati profili di inammissibilità. Peraltro, anche ove si ritenga di superare tale ragione di inammissibilità in virtù di quanto ammesso dalla ricorrente nella propria memoria in ordine all’avvenuta proposizione di tale eccezione in secondo grado, è sufficiente richiamare il principio da ultimo affermato da questa Corte secondo cui “se è vero che l’assenza dell’interesse ad agire è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in quanto tale interesse costituisce un requisito per la trattazione del merito della domanda, il rilievo officioso incontra un limite proprio nella circostanza che sul punto non si sia formato un giudicato esplicito o implicito” (cfr. Cass. 18.4.2019 n. 10816), ciò che deve ritenersi verificato nella specie. 5. Il ricorso è fondato. 6. Secondo consolidato insegnamento di questa Corte, al quale si intende dare continuità, “nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso, ai sensi

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dell’art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica, salva l’ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori” (cfr. Cass. 19.4.2011 n. 8994 e, già prima, Cass. 7.3.2002 n. 3296, e Cass. 15863/2002 richiamate da Cass. 7.11.2013 n. 25062). È stato precisato che “Ne segue che non è legittima la disdetta unilaterale da parte del datore di lavoro del contratto applicato seppure accompagnata da un congruo termine di preavviso. Solo al momento della scadenza contrattuale sarà possibile recedere dal contratto ed applicarne uno diverso a condizione che ne ricorrano i presupposti di cui all’art. 2069 c.c.” (Cfr., in tali termini, Cass. n. 25062/2013 cit.). 5. Altro approdo giurisprudenziale, consolidato in sede di legittimità, è quello secondo cui va riconosciuta al datore di lavoro la legittima facoltà di recesso da un contratto collettivo postcorporativo stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza, atteso che il contratto stesso non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti vanificandosi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socioeconomica in continua evoluzione; tale principio è valido sempre che il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e non siano lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio (Cass. 25 febbraio 1997, n. 1694; Cass. 18 ottobre 2002, n. 14827; Cass. 20 settembre 2005, n. 18508; Cass. 20 dicembre 2006, n. 27198; Cass. 20 agosto 2009, n. 18548; Cass. 28 ottobre 2013, n. 24268). 6. Coerente con l’affermazione di tale ultimo principio è la pronuncia di questa Corte, richiamata dalla controricorrente, Cass. 10.6.2013 n. 14511, secondo cui non costituisce condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, il comportamento del datore di lavoro il quale abbia sottoscritto un nuovo contratto collettivo, sostituendo il trattamento in precedenza applicato, frutto di accordo con alcune organizzazioni sindacali, con il trattamento concordato con altri sindacati, ed imponendo tale nuovo trattamento agli iscritti al sindacato non stipulante nonostante l’esplicito diniego espresso; è stato in tale pronuncia ribadito che non sussiste, nel nostro ordinamento, un obbligo a carico del datore di lavoro di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali, rientrando nell’autonomia negoziale da riconoscere alla parte datoriale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente (cfr., negli stessi termini, anche la successiva Cass. 28.10. 2013 n. 24268 che richiama il rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione


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del contratto, oltre che l’intangibilità dei diritti già entrati definitivamente nel patrimonio dei lavoratori). 7. Tuttavia, nella specie ciò di cui si discute è l’applicazione del contratto collettivo sino alla sua naturale scadenza, in mancanza di una disdetta dello stesso da parte di soggetti a ciò legittimati (cfr., oltre a Cass. 25062/2013 sopra cit., Cass. 31.10.2013 n. 24575 negli stessi termini, nonché Cass. 8994/2011; 3296/2002, 15863/20 02; Cass. 18508/2005, quest’ultima riferita ad ipotesi in cui la facoltà di recesso di cui all’art. 1373 c.c. non era stata convenzionalmente pattuita, né risultava esercitabile in presenza della predeterminazione del termine finale, preclusiva di disdetta unilaterale degli accordi integrativi). 8. In conclusione, deve ritenersi, quanto al thema disputandum dell’anticipata disdetta e della vincolatività del termine di scadenza del contratto sostituito, e quindi al suo valore ostativo o meno alla stipulazione di nuovo contratto, che nessun principio o norma dell’ordinamento induce a ritenere consentita l’applicazione di nuovo CCNL prima della prevista scadenza di quello in corso di applicazione, che le parti si sono impegnate a rispettare. 9. Non dirimente è poi l’argomento, esulante da quello ritenuto dalla Corte d’appello idoneo a fondare il decisum, che richiama l’applicabilità dell’art. 8 I. 141/2011. Quest’ultimo si riferisce alla diversa questione dei differenti livelli di contrattazione, con previsione di capacità derogatoria – soggetta a particolari limiti (finalizzazione con riguardo a specificità di materie regolate) – da parte di contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale idonei a realizzare “specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati”. 10. La controversia si risolve, invero, nella specie, per quanto detto, sul piano della ritenuta illegittimi-

tà della disdetta unilaterale del contratto applicato da parte del datore prima della sua scadenza, in coerenza con la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, tutta nel senso dell’esclusione della possibilità del recesso dal contratto ante tempus, e dell’impossibilità di applicazione di nuovo diverso CCNL, e pertanto non si pone la necessità di valutare la tipologia del contratto che la società vorrebbe applicato e la sua riconducibilità a quelli cd. “di prossimità”, che, a dire della controricorrente, consentirebbe una soluzione della vicenda giudiziaria in termini conformi a quelli cui sono pervenuti i giudici dei gradi di merito. 11. La sentenza va, pertanto, cassata e la causa va rinviata alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà a nuovo esame alla stregua dei principi indicati, nonché alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. (Omissis)

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Giurisprudenza

Illegittimo il recesso unilaterale del datore di lavoro da un contratto collettivo prima della sua scadenza Sommario :

1. Dalla vertenza FIAT alla presa di posizione della Corte. – 2. I fatti di causa e la decisione della Corte. – 3. Sulle motivazioni della Corte.

Sinossi. Dopo una breve ricostruzione della vicenda FIAT, da cui la pronuncia in esame prende le fila, e dei fatti di causa, l’A. ripercorre le varie posizioni in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità sul tema dell’efficacia temporale del contratto collettivo di diritto comune; in seguito analizza la questione della disdetta unilaterale ante tempus dal CCNL da parte del singolo datore di lavoro e non dalla sua associazione di appartenenza, ritenuta illegittima dalla Corte, ponendo in evidenza come questa decisione lasci aperta una serie di questioni che potrebbero trovare risoluzione in sede di contenzioso individuale, come quella relativa al c.d. «cambio di casacca» del datore di lavoro o, meglio, alle conseguenze del suo abbandono dell’associazione di categoria sul rapporto individuale. Abstract. This paper retraces the various statements among doctrine and jurisprudence of the Supreme Court on the subject of temporal effectiveness of the collective agreement, after a brief focus on the FIAT case, which this actual judgement arises from, and on the facts of the case. Then the paper analyses the issue of unilateral withdrawal from a National Collective Agreement before its genuine expiry carried out by the employer and not by their association of membership, which the Court held to be unlawful, and points out that this decision leaves certain issues open, which could be addressed in individual litigation, such as that of the employer leaving their association, or, better, its consequences on the individual employment relationship.

1. Dalla vertenza FIAT alla presa di posizione della Corte. La sentenza della sezione lavoro della Cassazione del 20 agosto 2019, n. 21537, costituisce uno dei più recenti approdi giurisprudenziali scaturenti dalla complessa vicenda che, a partire dal 2010, ha visto protagonisti, inizialmente, gli stabilimenti FIAT di Pomigliano e Mirafiori e, poi, l’intero gruppo FIAT. La situazione di crisi produttiva protrattasi per lungo tempo in tali stabilimenti aveva portato alla stipula di una serie di accordi aziendali (in tema di turni, mansioni, malattia, tregua sindacale, ecc.), con l’introduzione di deroghe

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peggiorative al contratto nazionale di categoria fino a quel momento applicato1. Questi accordi, come noto, non venivano sottoscritti dalla FIOM-CGIL, la quale, essendosi rifiutata di firmare anche il Contratto Nazionale di categoria dei Metalmeccanici del 2009, aveva successivamente proposto numerosi ricorsi giudiziari e sostenuto che ai propri iscritti potesse applicarsi il più favorevole CCNL unitario del 2008. Dopo l’esito (per poco) favorevole del referendum cui venivano sottoposti i contratti negli stabilimenti di Pomigliano e di Mirafiori, tale vicenda raggiunge il suo epilogo: la fuoriuscita dell’Azienda dal sistema confindustriale, con la creazione di un autonomo sistema di contrattazione collettiva (e di relazioni sindacali), nel quale trovano spazio un contratto specifico di primo livello e accordi di livello inferiore applicabili nei singoli stabilimenti2. Si tratta di una vicenda che, pur inserendosi in un contesto complessivo caratterizzato da un più marcato “policentrismo” del sistema di relazioni industriali3 e dalla estensione delle competenze regolative degli accordi più “prossimi” al fenomeno da regolare4, presenta tuttavia caratteristiche peculiari, che hanno reso il ‘caso’ FIAT un vero e proprio laboratorio per giurisprudenza e dottrina, sia sul piano del sistema di rappresentanza in azienda, sia su quello della contrattazione collettiva. Per quanto attiene al primo versante, come noto, le aziende del gruppo FIAT rifiutavano le nomine di dirigenti di RSA effettuate dalla FIOM-CGIL, che contava un folto numero di iscritti in quelle realtà. La FIOM, stando ad un’interpretazione letterale dell’art. 19, comma 1, lett. b), st. lav., non avrebbe infatti avuto diritto a proprie RSA poiché non firmataria dei contratti collettivi applicati nelle medesime aziende, in particolare del contratto specifico di primo livello sottoscritto da FIAT con FIM-CISL, UILM-UIL, UGL Metalmeccanici, FISMIC e Associazione Quadri e Capi FIAT il 13.12.2011. Nello stesso contratto si prevedeva espressamente che RSA «possono essere costituite ai sensi dell’art. 19 […] dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori firmatarie del presente contratto collettivo». Quella

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Per una disamina dettagliata degli elementi peggiorativi contenuti negli Accordi di Pomigliano e Mirafiori, v. ex aliis Chieco, Accordi FIAT, clausola di pace sindacale e limiti al diritto di sciopero, in WP D’Antona It., 2011, 117, il quale si sofferma in particolare sull’analisi del contenuto delle c.d. clausole di responsabilità e clausole integrative. Invece, per un’analisi complessiva degli accordi in questione, v., anche per ulteriori rinvii, Aa.Vv., in F. Carinci (a cura di), Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, Ipsoa, 2011. Tra gli innumerevoli contributi sulla vicenda FIAT nel suo complesso e sui suoi sviluppi, v. per tutti, anche per ulteriori rinvii, Leccese, Il diritto sindacale al tempo della crisi. Intervento eteronomo e profili di legittimità costituzionale, in DLRI, 136, 2012, 4 ss.; e Papa, Verso l’autarchia contrattuale? l’efficacia erga omnes del contratto collettivo specifico (e separato) al tempo della « prossimità », nota a Trib. Torino, 23 gennaio 2012, in RIDL, 3, 2012, 712 ss. Così Ales, Dal “caso FIAT” al “caso Italia”. Il diritto del lavoro “di prossimità”, le sue scaturigini e i suoi limiti costituzionali, in WP D’Antona It., 2011, 134, 8. Espressione emblematica del fenomeno, sul piano legislativo, è rappresentata dall’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito in l. 14 settembre 2011, n. 148), il quale, prendendo spunto dalle fonti dell’autonomia collettiva precedenti (l’A.Q. del 22 gennaio 2009, l’A.I. Confindustria del 15 aprile 2009, e l’Accordo FIAT del 29 settembre 2010, l’A.I. del 28 giugno 2011), ma andando ben oltre le stesse, normativizza la possibilità per la contrattazione aziendale di operare in deroga, anche peggiorativa, alle disposizioni del CCNL di categoria (oltre che della legge), con riferimento ad un nutrito numero di materie. Per un approfondimento sulla contrattazione di prossimità anche in relazione alla vicenda FIAT, v., ex aliis, Magnani, La contrattazione collettiva di prossimità. Un confronto a più voci sull’articolo 8 della manovra 2011 L’articolo 8 della legge n. 148/2011: la complessità di una norma sovrabbondante, in DRI, 1, 2012, 1. Per ulteriori richiami a dottrina e giurisprudenza, v., tra i più recenti, Fusco, I rapporti tra contratti collettivi di diverso livello. Problemi aperti, nota a App. Firenze, 20 novembre 2017, in RIDL, 4, 2018, 989 ss.; Tomassetti, Commento all’art. 8, D.L. 13 agosto 2011, n. 138, in Del Punta, Scarpelli (a cura di), Codice commentato del lavoro, Wolters Kluwer, 2019, 2581 ss.

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che sembra una vera e propria conventio ad excludendum della FIOM dal sistema di rappresentanza aziendale, viene ancor di più acuita dalla sottoscrizione, da parte delle medesime organizzazioni sindacali, dell’accordo di regolamentazione per la elezione e il funzionamento delle RSA nel gruppo FIAT, sottoscritto il 1° febbraio 2012, il quale riserva ad esse la nomina delle RSA e crea così un vero e proprio «sistema di rappresenta aziendale unitario, elettivo ed esclusivo, ma riservato e chiuso, poiché non accessibile da parte di qualsiasi soggetto collettivo che non abbia sottoscritto il contratto applicato»5. Questa parte della vicenda conflittuale tra FIAT e FIOM viene superata grazie alla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 231 del 2013, mediante una pronuncia additiva sull’art. 19, sgancia la possibilità di costituzione delle RSA dal dato fattuale della sottoscrizione del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, e introduce l’indice della partecipazione alla sua negoziazione da parte delle rappresentanze presenti in azienda6. Per quanto attiene, poi, al sistema di contrattazione collettiva, la vicenda FIAT rappresenta una vera e propria «svolta dall’industrial collective agreement, a doppio livello, al company agreement, monolivello, sub specie di contratto non più di II°, ma di I° livello, come tale autonomo ed autosufficiente»7; un svolta realizzata, però, non solo mercé la fuoriuscita delle aziende del gruppo dal sistema confindustriale, ma anche attraverso il recesso dai contratti collettivi sino ad allora applicati. In questo quadro, dunque, si colloca anche la vicenda oggetto di trattazione nella sentenza qui in commento.

2. I fatti di causa e la decisione della Corte. La decisione in esame prende le fila da un’azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 st. lav. proposto dalla FILCTEM – CGIL Provinciale di Torino contro la s.p.a. Plastic Components and Modules Automotive, la quale, il 13 dicembre 2011, aveva stipulato con FIM – CISL, UILM, FISMIC, UGL ed Associazione Capi e Quadri FIAT un accordo consistente nell’estensione a tutti i dipendenti dell’azienda del contratto collettivo specifico di lavoro del 29 dicembre 2011 nella sua stesura definitiva. La Corte d’appello di Torino aveva confermato la decisione del Tribunale della stessa città nel punto in cui aveva accolto solo parzialmente la richiesta della FILCTEM di dichiarare l’antisindacalità della condotta della PCMA, limitatamente alla mancata informazione circa le trattative poi sfociate nell’accordo. Il collegio torinese, pertanto, affermava la legittimità della stipula di un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali in tutto o

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Cfr. Leccese, Non solo diritti sindacali: il problema di costituzionalità dell’articolo 19, legge n. 300/1970, e l’estromissione del sindacato “scomodo” dai tavoli negoziali previsti dalla legge, in DRI, 3, 2012, 822. Non è questa la sede per approfondire le questioni poste dalla pronuncia. Per un’analisi della tecnica argomentativa utilizzata dalla Consulta e per i necessari rinvii alla dottrina, si rinvia a Bavaro, La razionalità pratica dell’art. 19 St. Lav. e la democrazia industriale, in WP D’Antona It., 2013, 184. F. Carinci, La cronaca si fa storia: da Pomigliano a Mirafiori, in WP D’Antona It., 2011, 113, 22.

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in parte diverse da quelle che avevano stipulato il precedente, richiamando una pronuncia della Suprema Corte la quale faceva rientrare tale comportamento nella piena autonomia negoziale delle parti, non esistendo a carico del datore di lavoro un obbligo di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni. La libertà in tal senso dell’azienda era considerata dai giudici l’effetto diretto del recesso dal sistema confindustriale esercitato dal gruppo FIAT, di cui la PCMA faceva parte: in questo modo, non essendo più tenuta a rispettare le intese sindacali sottoscritte dall’associazione del settore (Federgomma), essa sarebbe stata libera di applicare a partire da quella data, a tutti i propri dipendenti, unicamente il contratto collettivo di secondo livello richiamato nell’accordo aziendale del 13 dicembre 2011, applicativo del CCSL di primo livello sottoscritto il 29 ottobre 2010 (con stesura definitiva del 29 dicembre 2011), e non più il CCNL del settore gomma-plastica, sino ad allora applicato in azienda, la cui scadenza era fissata per il 31 dicembre 2012. Orbene, la Corte di Cassazione accoglie l’unico motivo di ricorso presentato dalla FILCTEM, la quale lamenta la «violazione dei principi in materia di efficacia della parte normativa del contratto collettivo di diritto comune e violazione dell’art. 1372 c.c.», criticando l’impostazione del giudice a quo, per il quale unicamente il permanere del vincolo associativo (che nel caso di specie era venuto meno) avrebbe determinato l’efficacia vincolante del contratto collettivo. La difesa dell’organizzazione sindacale, partendo dall’assunto della vincolatività del contratto collettivo ex art. 2077 c.c., arriva alla conseguenza che, ove al contratto sia stata apposta una clausola di durata, come avviene nel caso di specie, la stessa, in virtù dell’art. 1372 c.c., vincola tutti i destinatari del contratto sino alla sua naturale scadenza e nessuno può sciogliersi da tale vincolo unilaterale, neppure dissociandosi dall’organizzazione sindacale di appartenenza. Pertanto il collegio, pur richiamando l’orientamento giurisprudenziale che riconosce la piena libertà del datore di lavoro di stipulare un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il contratto precedentemente applicato in azienda, esclude la possibilità che i destinatari di un contratto collettivo si sottraggano ante tempus alla sua applicazione, in quanto «nessun principio o norma dell’ordinamento induce a ritenere consentita l’applicazione di un nuovo CCNL prima della prevista scadenza di quello in corso di applicazione, che le parti si sono impegnate a rispettare».

3. Sulle motivazioni della Corte. Nella motivazione, la Corte richiama proprie precedenti pronunzie relative a diverse questioni controverse in materia di contratto collettivo (alcune delle quali, come del resto chiarito nella sentenza, non direttamente rilevanti rispetto ai fatti di causa): dal recesso unilaterale ante tempus dal contratto collettivo precedentemente sottoscritto, all’ultrattività del contratto collettivo scaduto. In prima battuta, i giudici ripropongono la netta distinzione tra il recesso ante tempus del datore di lavoro da un contratto collettivo che egli non ha sottoscritto (CCNL o contratti territoriali, in definitiva), non ammesso, e la disdetta di un contratto collettivo postcorporativo effettuato da una delle parti stipulanti, ossia le associazioni sindacali e datoriali (o

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il singolo datore, per i contratti aziendali), ritenuto legittimo da una giurisprudenza ormai consolidata, allorché si tratti di un contratto collettivo senza fissazione di termine di scadenza. Ne risulta dunque anzitutto confermata, con specifico riferimento alla questione che assume rilievo nella vicenda processuale in esame, la posizione secondo cui il datore di lavoro non può recedere unilateralmente dal CCNL. Al riguardo, la Corte segnala la presenza di una consolidata giurisprudenza per la quale risulterebbe illegittima una simile disdetta unilaterale, seppur accompagnata da un congruo termine di preavviso: ed infatti, «nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta»8. In questo modo viene accolta una nozione di contratto collettivo «non come somma ma come sintesi degli interessi dei rappresentati e quindi come frutto del potere di contrattazione che all’organizzazione sindacale deriva direttamente dall’art. 39 Cost. e non dal mandato individuale degli aderenti»9. Al singolo datore di lavoro, quindi, non è permesso di recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso, ex art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica10. Nella pronuncia, inoltre, si evidenzia come, in più occasioni, la Cassazione si sia espressa nel senso della non vincolatività sine die di un contratto collettivo stipulato senza la fissazione di un termine di efficacia, «poiché in tal caso finirebbero per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su di una realtà socioeconomica in continua evoluzione»11.

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Ex aliis, v. Cass., 19 aprile 2011, n. 8994, in GC Mass, 2011, 4, 632; Cass., 7 marzo 2002, n. 3296, in GC Mass, 2002, 404. Così Pacchiana Parravicini, Ultrattività, risoluzione, disdetta del contratto collettivo nella prassi e nella giurisprudenza, in ADL, 2, 2012, 402. 10 Cfr. ex multis, Cass., 19 aprile 2011, n. 8994, cit. In questa sede, la Corte esclude l’esperibilità di tale rimedio in quanto «eventuali difficoltà finanziarie delle imprese sono affrontate dall’ordinamento con i rimedi tipici della politica del lavoro e di sostegno alle imprese in crisi e di sostegno all’occupazione (cassa integrazione, mobilità, prepensionamenti) ovvero con altri incentivi e sostegno al reddito che presuppongono anche in questi casi un accordo contrattuale (contratti di solidarietà)». Tuttavia, si fa notare in dottrina che non può essere esclusa del tutto la facoltà di recesso anche da un contratto di durata predeterminata, essendo riconosciuto da una parte della giurisprudenza che la facoltà di recesso dal contratto risulti doverosa ex art. 1375 c.c. quando siano intervenute modificazioni sostanziali della situazione di fatto che aveva accompagnato l’assunzione del vincolo obbligatorio. In secondo luogo, un’ipotesi di recesso ante tempus dal contratto collettivo è espressamente prevista dal nostro ordinamento, all’art. 2112, comma 3, c.c., il quale prevede per il cessionario d’azienda la possibilità di sostituire al contratto vigente alla data del trasferimento un contratto di pari livello. In questo senso si esprime Pacchiana Parravicini, op. cit., 401. 11 Cfr. Cass., 20 agosto 2009, n. 18548, in GC Mass, 2009, 9, 1263; ma anche Cass., 28 settembre 2010, n. 20355, in D&G online; Cass., 18 settembre 2007, n. 19351, in D&L, 2007, 4, 1021, con nota di Beretta; Cass., 18 dicembre 2006, n. 27031, in RIDL, 2007, 3, II, 616, con nota di Ciucciovino. Peraltro, in alcune di tali pronunce si precisa che, anche in caso di legittimo recesso, vanno fatti salvi i diritti quesiti entrati nella sfera del lavoratore in via definitiva grazie al pregresso trattamento più favorevole. A partire dal momento in cui divengono intangibili, i diritti sono sottratti alla sfera di azione delle parti sociali e possono essere disposti solo da chi ne ha acquistato la titolarità (ovviamente se si tratta di diritti disponibili e fermi i limiti dell’art. 2113 c.c.). Qualsiasi intervento dell’autonomia collettiva avrebbe carattere non semplicemente modificativo, ma dispositivo, e richiederebbe, pertanto, il consenso del titolare tramite specifico mandato o successiva ratifica, essendo in caso contrario inefficace, o secondo altra opinione, nullo. Per un approfondimento giurisprudenziale sul tema, si veda Sartori, Aspettative e diritti quesiti nella successione di contratti collettivi: un cammino giurisprudenziale ancora zoppicante, nota a Cassazione civile, 20 agosto 2009, n. 18548, in RIDL, 4, 2010, 934 ss. 9

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Questi passaggi della motivazione, nei quali sembrano utilizzati in modo fungibile i concetti di disdetta e recesso, consentono di richiamare quel filone dottrinale che, proprio al fine di avvalorare tale orientamento giurisprudenziale, partendo da un’analisi sulla differenza non solo semantica, ma anche di carattere sostanziale, tra disdetta intesa quale negozio impeditivo della rinnovazione tacita di un contratto collettivo a tempo determinato, e il recesso dal contratto collettivo di durata indeterminata, permette di fare chiarezza sul tema. Il problema dell’«irragionevolezza» del riconoscimento di un potere unilaterale di disdetta si porrebbe solo per la figura del recesso dal contratto (collettivo) a durata indeterminata. Invece, la disdetta impeditiva della tacita rinnovazione di un contratto a scadenza prefissata non sarebbe censurabile sotto il profilo della «irragionevole» unilateralità, essendo, al contrario, prevista dalle stesse parti stipulanti, le quali avrebbero benissimo potuto escluderla, prevedendo la cessazione automatica degli effetti contrattuali alla scadenza prestabilita12. L’istituto civilistico della disdetta, pertanto, opera in riferimento ai soli contratti nei quali è espressamente previsto un termine di durata e non determina lo scioglimento del rapporto ma, più semplicemente, produce l’effetto di impedire che il contratto medesimo, una volta scaduto, possa tacitamente rinnovarsi. Il recesso, invece, determina la risoluzione del rapporto giuridico generato dal contratto (collettivo): risoluzione che può essere immediata ovvero seguire dopo un intervallo temporale, denominato preavviso, purché precedente al termine del contratto13. Pertanto, se nel contratto a termine ciò che ne determina l’estinzione prima della scadenza è il mutuo consenso delle parti, l’estinzione per volontà unilaterale potrà avvenire soltanto nel contratto a tempo indeterminato oppure quando le parti abbiano volontariamente applicato il contratto oltre il termine, o ancora quando vi abbiano apposto una clausola di ultrattività14. D’altronde, si può notare come la giurisprudenza maggioritaria abbia da sempre rifiutato tout court l’applicabilità dell’art. 2074 c.c. al contratto di diritto comune, in quanto tale «principio di ultrattività della vincolatività del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall’art. 39 Cost.»15. Difatti, traslando la questione sul piano strettamente civilistico, il divieto di vincoli perpetui costituirebbe un principio generale dell’ordinamento, volto ad evitare una forma di rinuncia alla propria libertà contrattuale16. Minoritario, e ampiamente superato, appare peraltro l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che restringeva gli effetti dell’ultrattività alle clausole retributive contenute nei contratti, inerendo questa ad un bene di rango costituzionale quale la retribuzione,

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In questo senso Tursi, La pretesa «ultrattività» del contratto collettivo di lavoro e l’incerto statuto teorico dell’autonomia collettiva, in RIDL, 2, 2006, 201. 13 Così Forlivesi, Sul recesso dal contratto collettivo tra diritto civile e ordinamento intersindacale, in RIDL, 2, 2014, 423, nota a Cass., 31 ottobre 2013, n. 24575. 14 Così Bavaro, Sull’efficacia temporale del contratto collettivo nell’ordinamento giuridico sindacale, in RIDL, 1, 2014, 50. 15 Così Cass., 7 ottobre 2010 n. 20784., in GC Mass, 2010, 10, 1297; in senso simile Cass., 30 maggio 2005, n. 11325, in DL, 2006, 3, II, 192. Per un recupero dell’art. 2074 c.c., v. Bavaro, cit., 58 ss. 16 In questo senso Galgano, Degli effetti del contratto, in Comm SB, Art. 1372-1405, 1993, 62 ss. e anche Franzoni, Degli effetti del contratto, in Comm Sch, Art. 1374-1381, 1999, 323 ss.

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presidiato dall’art. 36 Cost.17, vista sempre in senso critico dalla stragrande maggioranza della dottrina18. Un ulteriore aspetto sul quale, come accennato, si sofferma la sentenza in esame attiene alla non censurabilità della condotta del datore di lavoro il quale stipuli un nuovo contratto collettivo con soggetti diversi da quelli che avevano sottoscritto il precedente contratto. La Corte, infatti, ammette anche che, finché fossero rispettati i principi di correttezza e buona fede e rimanessero intatti i diritti quesiti dei lavoratori, il datore di lavoro che avesse sottoscritto un nuovo contratto collettivo che prevede un nuovo trattamento, frutto dell’accordo stipulato solo con alcune organizzazioni sindacali, non metterebbe in atto un comportamento censurabile ex art. 28 st. lav.; ciò in quanto «non sussiste, nel nostro ordinamento, un obbligo a carico del datore di lavoro di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali, rientrando nell’autonomia negoziale da riconoscere alla parte datoriale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente»19. Tuttavia, chiarisce il Collegio, nel caso di specie, non è in discussione la libertà del datore di lavoro di negoziare e sottoscrivere accordi sindacali, bensì – come s’è visto supra l’applicazione del contratto collettivo sino alla sua naturale scadenza in mancanza di una disdetta da parte dei soggetti a ciò legittimati. Infine, la pronuncia, fornisce un proprio contributo in merito alla portata dell’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito in l. 14 settembre 2011, n. 148); al Collegio, in particolare, appare non dirimente il richiamo, operato da parte resistente, alla c.d. «contrattazione di prossimità» disciplinata da tale previsione, poiché quest’ultima attiene ad una questione diversa da quella oggetto di esame (la legittimità o meno dell’applicazione di un diverso contratto da parte del datore di lavoro prima che il contratto applicato venga a scadenza) e cioè alla possibilità che un contratto di livello aziendale o territoriale deroghi, nel rispetto di specifiche condizioni e limiti, alla legge e al CCNL ancora in vigore e applicato in azienda (v. art. 8, comma 2-bis). Questo, pur rapido, passaggio della motivazione appare invero in linea con le tesi prevalenti secondo cui il concetto di ‘deroga’ (per giunta coniugato con una limitazione oggettiva delle materie su cui la deroga al CCNL può esercitarsi) esclude certamente che un contratto aziendale possa disporre o giustificare – ai sensi della norma in questione – una mera e secca disapplicazione di un CCNL vigente ed applicato in azienda20.

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V. ex aliis Cass., 22 aprile 1995, n. 4563, in D&L, 1995, 1012; Cass., 14 aprile 2003, n. 5908, in GC Mass, 2003, 4. In senso critico: Romei, Efficacia temporale del contratto collettivo e principio di sufficienza della retribuzione, in RIDL, 1996, II, 487 ss.; Del Conte, Durata ed efficacia del contratto collettivo: la ricorrente tentazione dell’ultrattività, in MGL, 2003, n. 10, 718 ss.; Tursi, cit, 2, 2006, 205. 19 Così la pronuncia in esame, nel richiamare Cass., 10 giugno 2013, n. 14511, in D&G, 2013 e Cass., 28 ottobre 2013, n. 24268, in GC Mass, 2013. 20 Si consideri che, in una prima fase dell’applicazione dell’art. 8, d.l. n. 138/2011, in giurisprudenza non è mancata l’affermazione secondo cui alla previsione sarebbero riconducibili anche accordi che, come quello che ha dato origine alla vicenda in esame (supra, par. 1), determinano in realtà la sostituzione di un contratto vigente con un altro contratto: v. Trib. Torino, decreto del 22-23 gennaio 2012, giudice Denaro (in RIDL, 2012, II, p. 706 ss., con nota di Papa, che si era pronunciato su uno dei tanti ricorsi presentati dalla FIOM ai sensi dell’art. 28, contro aziende del gruppo FIAT che avevano operato in modo analogo alla Plastic Components and Modules Automotive s.p.a. Ma in senso diverso, v. già Trib. Torino, decreto del 5 giugno 2012, giudice Salvatori (in http://archivio.fiom. 18

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In conclusione, si può osservare come la pronuncia, trattando di un ricorso ex art. 28 st. lav., non affronti tutte le questioni che potrebbero trovare invece spazio sul piano del contenzioso individuale, alle quali si può qui fare brevemente cenno. In particolare, nel procedimento non hanno avuto accesso tutte le possibili questioni relative al c.d. «cambio di casacca» del datore di lavoro o, meglio, alle conseguenze del suo abbandono dell’associazione di categoria sul rapporto individuale. La posizione espressa dalla Corte, infatti, permette sì di arginare il comportamento del datore di lavoro che fuoriesca dall’associazione di categoria, ma con un limite ben preciso, rappresentato dalla naturale scadenza del contratto collettivo nazionale. Dopo di essa, sul piano dell’antisindacalità della condotta, al datore sarebbe infatti permesso sia di aderire ad altro soggetto collettivo, applicandone la relativa contrattazione, sia di applicare un CCNL diverso da quello precedente, senza neppure aderire ad alcuna associazione datoriale, sia, infine, sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con associazioni anche diverse da quelle che hanno sottoscritto il precedente, in forza del principio di autonomia negoziale. Al contrario, la pronuncia nulla dice, né avrebbe potuto farlo, alla luce dei fatti di causa, circa la disciplina del rapporto di lavoratori già in forza, dissenzienti o comunque non aderenti a nessuna delle associazioni sindacali stipulanti il contratto aziendale, i quali potrebbero avere interesse a rivendicare l’applicazione della precedente disciplina, anche dopo la sua scadenza, in virtù dell’accordo, tacito o espresso, concluso sul piano individuale al momento della costituzione del rapporto o nel suo svolgimento. In particolare, del tutto inconferente, su questo piano, è il richiamo a Cass., 10 giugno 2013, n. 14511, effettuato anche dal collegio torinese in sede d’appello, al fine di escludere l’antisindacalità della condotta del datore di lavoro che sottoscriva un nuovo contratto collettivo solo con alcune organizzazioni sindacali, sostituendo il trattamento in precedenza applicato. In definitiva, la pronuncia, se non può essere direttamente invocata per garantire la tutela delle menzionate posizioni soggettive individuali, neppure può essere strumentalmente richiamata al fine di affermare, al contrario, la legittimità delle prassi per cui ai lavoratori dissenzienti, dopo la scadenza del contratto applicato, venga imposto, anche in caso di diniego espresso, un trattamento da loro non formalmente accettato. Camilla Gernone

cgil.it); cfr. anche Trib. Larino, 23 aprile 2012 (in http://www.ediesseonline.it). Tra le pronunce più recenti nelle quali si affrontano le questioni relative al campo di applicazione dell’art. 8, v. App. Firenze, 20 novembre 2017, in RIDL, 2018, II, 979 ss., con nota di Fusco, op. cit., 989 ss. (ove ulteriori rinvii alla dottrina).

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Giurisprudenza C orte di Cassazione , sentenza 22 luglio 2019, n. 19660 – Pres. Di Cerbo – Est. Garri – P.M. Fresa (concl. conf.) – S.F. (Avv.to R. Savarese) c. U. S.p.A. (Avv.ti M. Lotti, A. Lo Sinno, F. Daverio e S. Florio). Conferma App. Roma, sent. n. 2235/2017. Contratto collettivo – Accordo di mobilità – Specifica intesa ex art. 8 d.l. 138/2011 – Qualificazione – Ammissibilità.

L’art. 8 d.l. 138/2011 conv. in l. n. 148/2011 legittima, all’interno di una procedura di licenziamento collettivo, la conclusione di specifiche intese finalizzate alla gestione della crisi occupazionale che escludano interamente l’indennità sostitutiva di mancato preavviso di cui all’art. 2118, co. 2, c.c. Svolgimento del processo. 1. La Corte di appello di Roma, decidendo in sede di rinvio a seguito di cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma n. 3557 del 2015 , in applicazione del principio di diritto fissato con la sentenza n. 20063 del 2016, ha ritenuto infondato il reclamo proposto dal F. avverso la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore in esito ad una procedura di licenziamento collettivo confermandola, del pari, nella parte in cui aveva respinto la domanda di condanna della Banca datrice al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, espressamente esclusa dagli Accordi collettivi del settembre 2012. 2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso S.F. che articola sette motivi ai quali resiste con controricorso U. s.p.a.. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. Motivi della decisione. – Omissis. 12. L’ultimo motivo di ricorso, che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod.civ. in relazione alla dichiarazione aziendale n. 1 contenuta in calce al quinto punto delle premesse dell’accordo sindacale 22 novembre 2012 e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 cod.civ. e dell’art. 8 commi 1, 2 e 2-bis d.l. n. 138 del 2011 conv. in I. n. 148 del 2011, è infondato – Omissis. 12.4. Neppure sussiste la denunciata violazione dell’art. 8 comma 2 bis del d.l. n. 138 del 2011 conv. in I. n. 148 del 2011. Con tale disposizione è previsto che le parti collettive, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, con le intese di cui al comma 1 della stessa norma – finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività – possano operare anche

in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro e, pertanto, anche sulle “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio”. 12.5. Nel caso di specie le parti collettive, nell’accordo sottoscritto in data 15 settembre 2012, con il quale hanno disciplinato le modalità di accesso all’esodo volontario cui era noto sarebbe poi seguita la procedura di licenziamento collettivo, hanno stabilito che l’azienda non avrebbe riconosciuto “alcun trattamento sostitutivo a titolo di mancata effettuazione del preavviso”. 12.6. Tale accordo, adottato ai sensi dell’art. 8 comma 2-bis citato, è stato richiamato nelle premesse del successivo accordo del 22 novembre 2012, sottoscritto da U. e dalle aziende del gruppo da una parte e dalle organizzazioni sindacali nazionali dall’altra, raggiunto nel contesto della procedura iniziata ai sensi dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991, in esito al quale la società ha comunicato a S. F. il licenziamento. Nel richiamarlo le parti hanno fatto proprio il contenuto dello stesso in tutte le sue proposizioni ed anche nella previsione dell’esclusione dell’indennità sostitutiva del preavviso. 12.7. Sussistevano pertanto le condizioni, previste dalla citata norma, per derogare ed incidere sulle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. La deroga, infatti, era stata introdotta proprio per far fronte a una ben nota situazione di crisi aziendale ed occupazionale. L’accordo derogatorio, trasfuso nell’accordo raggiunto nell’ambito della procedura di mobilità, non si pone in contrasto con principi dettati nella Carta Costituzionale né viola vincoli derivanti da normative comunitarie e da convenzioni internazionali sul lavoro. Ben vero che la Carta Sociale Europea (riconosciuta dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018 quale parametro interposto per la valutazione della costituzionalità di una norma nazionale), all’art. 4, prevede che “per garantire l’effettivo esercizio del


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diritto ad un’equa retribuzione” le parti si impegnano a “riconoscere il diritto do tutti i lavoratori ad un ragionevole periodo di preavviso nel caso di cessazione del lavoro” e, tuttavia, altro è il riconoscimento di un ragionevole periodo di preavviso rispetto al riconoscimento di una indennità sostitutiva convenzionalemente [sic] fissata in sede collettiva. La deroga viene prevista, in sede collettiva ancora una volta, nel contesto di un bilanciamento di opposti interessi e con la finalità di ridurre l’impatto della situazione di esubero. 12.8. Pur tralasciando di considerare se l’istuto [sic] del preavviso abbia o meno efficacia obbligatoria (in tal senso appare orientata la giurisprudenza più recente di questa Corte cfr. Cass. 06/06/2017 n. 13988, 17/01/2017 n. 985, 30/09/2013 n. 22322, 04/11/2010 n. 22443, 21/05/2007 n. 11740) va rilevato che l’esercizio della facoltà di recedere con effetto immediato determina l’insorgere dell’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso, obbligazione pecuniaria che ben può costituire oggetto di accordo e di rinuncia (cfr. Cass. 18/06/2015 n. 12636 e 28/09/2010 n. 20358) ed è pertanto suscettibile di essere oggetto di accordo tra le parti sociali chiamate, nel contesto di una crisi aziendale, a mediare per assicurare la prosecuzione dell’attività di impresa e la conservazione dei livelli di occupazione. 12.9. Del resto l’art. 4 della legge n. 223 del 1991 detta una disciplina analitica, con rigide cadenze procedimentali, di confronto e di mediazione delle parti sociali, della procedura nel corso della quale, anche nell’interesse dei lavoratori coinvolti, sono verificate

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le possibilità di utilizzazione diversa del personale in esubero, o di una sua parte, nell’ambito della stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro. 12.10. Ciò posto nel caso in esame le parti con l’Accordo del 22 novembre 2012 hanno recepito l’intesa già raggiunta con l’Accordo del 15 settembre 2012 che aveva previsto che per coloro i quali, pur avendone i requisiti non avessero aderito all’esodo incentivato, ove destinatari, nella successiva procedura di mobilità, di un provvedimento di licenziamento non avrebbero avuto diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso come prevista dalla contrattazione collettiva. 12.11. Si tratta, in definitiva, di una procedura che, pur recependo una clausola con la quale si è esclusa l’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso, è stata, tuttavia, caratterizzata da una chiara indicazione dei requisiti per l’individuazione dei potenziali destinatari, il che ha consentito loro di valutare ed apprezzare i rischi delle scelte individualmente adottate. In sostanza l’ Accordo con il quale è recepita la clausola si mantiene in quella prospettiva di maggior tutela dei lavoratori al fine di assicurare un minor costo sociale dell’operazione e di salvaguardare la prosecuzione dell’attività d’impresa e la relativa occupazione secondo le finalità cui è diretta la stessa legge n. 223 del 1991 (cfr. al riguardo CEISS. 03/11/2016 n. 22789). 13. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso deve essere rigettato. Omissis..


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La Corte di Cassazione decide sull’applicazione dell’art. 8 d.l. n. 138/2011 in una procedura di riduzione del personale Sommario : 1. Premessa. – 2. Il «nodo gordiano» del sindacato giudiziale nell’art. 8

d.l. n. 138/2011. – 3. La «specifica intesa» conclusa in un procedimento di riduzione del personale: nuovi limiti al sindacato giudiziale? – 4. La deroga all’indennità di mancato preavviso e i suoi limiti costituzionali. – 5. Considerazioni conclusive.

Sinossi. Il contributo, ripercorso il dibattito sviluppatosi in tema di sindacato giudiziale sulle «specifiche intese» ex art. 8 d.l. n. 138/2011, si concentra sul rapporto tra la contrattazione di prossimità e la procedura di riduzione di personale, sotto il profilo dei limiti al controllo esercitabile dal giudice e della legittimità di una deroga all’art. 2118, comma 2, c.c. alla luce dell’art. 4 della Carta sociale europea. Abstract. After an overview of the debate developed over the forms of judicial review of the «specific agreements» ex art. 8 d.l. n. 138/2011, the paper focuses on the relationship between the “proximity bargaining” and the redundancy process, both in terms of limits to the control exercisable by the judge and of the lawfulness of a derogation to art. 2118, paragraph 2, of the Italian Civil Code, in the light of art. 4 of the European social charter.

1. Premessa. Nel caso in commento, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla validità di una clausola, conclusa tra un noto istituto bancario e le oo. ss. del settore, che escludeva il trattamento economico sostitutivo in caso di mancato preavviso di licenziamento. Questa previsione era integrata all’interno di un accordo sindacale stipulato dalle parti al fine di affrontare una situazione di crisi aziendale attraversata dalla società; nello specifico, tale accordo era volto, oltre che a regolamentare la possibilità di esodo volontario ai fini della riduzione di personale, alla individuazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare ex art. 5, l. 23 luglio 1991, n. 223. Collocata quindi all’interno di una procedura di licenziamento collettivo, la «dichiarazione aziendale a verbale» che deroga alla previsione dell’indennità sostitutiva di preavviso ex art. 2118, comma 2, c.c. viene dichiarata legittima dalla Corte di Cassazione, che parimenti riconosce l’infondatezza o l’inammissibilità degli ulteriori motivi proposti da un lavoratore ricorrente in tema di (il) legittimità del licenziamento.

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Giurisprudenza

A tal fine nella sentenza viene richiamato l’art. 8 d.l. 13 agosto 2011, n. 138 conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148, come norma legittimante intese in deroga alla legge. Sebbene infatti la c.d. dichiarazione aziendale in deroga, contenuta negli accordi sindacali, non richiamasse tale disposizione, la Corte ha ritenuto nondimeno possibile la qualificazione di questa entro l’alveo della contrattazione di prossimità ex art. 8 l. n. 223/1991, riconoscendone a seguire la finalizzazione alla gestione della crisi aziendale. La pronuncia in commento si inserisce dunque all’interno del lungo dibattito, sviluppatosi quasi totalmente in dottrina, data la scarsa presenza di interventi giurisprudenziali, a riguardo della «contrattazione di prossimità» ex art. 8 d.l. n. 138/2011. In particolare, la decisione si segnala in quanto prima presa di posizione del giudice di legittimità sulla mai pacificata questione del grado di controllo esercitabile dal giudice ex art. 8, comma 1. A ciò va poi accostata un’ulteriore specificità, costituita dalla conclusione di tale intesa in deroga all’interno di una procedura di licenziamento collettivo, che ha comportato per la Corte il compito di confrontarsi con la giurisprudenza sul sindacato giudiziale in tema di riduzione di personale ex l. n. 223/1991.

2. Il «nodo gordiano» del sindacato giudiziale nell’art. 8 d.l. n. 138/2011.

Lo snodo centrale della sentenza è dunque costituito dalla dichiarazione di legittimità dell’intesa in virtù della sua conformità all’art. 8 d.l. n. 138/2011. Tale norma prevede, infatti, che le «associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale» o le «loro rappresentanze sindacali operanti in azienda» possano stipulare, a livello aziendale o territoriale, specifiche intese caratterizzate da efficacia erga omnes e potenzialmente in deroga alla legge e/o al CCNL. Il carattere eccezionale della previsione, riconosciuto anche dalla Corte costituzionale1, ha richiesto dunque all’interprete uno sforzo nell’individuare i limiti a cui questo potere di deroga è vincolato. A tal fine, particolare attenzione è stata dedicata dalla dottrina alla natura delle finalità individuate dal comma 1, da rinvenirsi nel caso di specie nella «gestione delle crisi aziendali ed occupazionali», e a forme e limiti del sindacato giudiziale sul loro rispetto. L’orientamento maggioritario ha così riconosciuto agli scopi di cui al comma 1 natura di interessi generali a cui l’autonomia privata (collettiva) deve essere finalizzata affinché possa esplicare la particolare efficacia e il potere di deroga disposti dall’art. 82. Costituendo il

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C. cost., 4 ottobre 2011, n. 221, in RIDL, 2012, 4, II, 903, con nota di Covi. F. Carinci, Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in WP D’Antona, It., n. 133, 2011, 38; Garilli, Finalizzazione e oggetto degli accordi di prossimità, in RGL, I, 2012, 486. Contra, sostenendo l’impossibilità di un qualsiasi controllo che non si risolva in un mero ossequio formale, data l’ampiezza e la generalità del comma 1, Barbieri, Il rapporto tra l’art. 8 e l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in RGL, 2012, 469; Del Punta, Cronache di una transizione confusa (su art. 8, l. n. 148/2011, e dintorni), in LD, 2012, 31; Vallebona, L’efficacia derogatoria dei contratti aziendali o territoriali: si sgretola l’idolo dell’uniformità oppressiva?, in Boll. ADAPT, 3 ottobre 2011, n. 32; Treu, L’accordo 28 giugno 2011 e oltre, in DRI, 2011, 613.

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rispetto delle finalità una condizione di validità della specifica intesa ex art. 8, ne consegue una valorizzazione del ruolo del sindacato giudiziale sull’osservanza di tali limiti caso per caso. Di questi scopi dovrà infatti essere accertata non soltanto la sussistenza nel caso concreto, ma anche il rapporto di causalità che li connette alla specifica intesa conclusa dalle parti. È stato poi proposto, da alcuni autori, un vaglio allargato fino ad includere anche una valutazione sulla ragionevolezza della deroga3; va però segnalato come tale controllo ulteriore, pur basato su fondate esigenze di proporzionalità, possa rischiare di invadere quell’area di libertà imprenditoriale garantita dall’art. 41 Cost.4 L’impostazione ora delineata pare poi essere accolta anche dalla giurisprudenza di merito. In una recente sentenza, infatti, la Corte di Appello di Firenze ha sancito come la validità di una specifica intesa ex art. 8 sia condizionata all’esplicitazione della norma legittimante, delle finalità perseguite e del nesso eziologico che le riconnette alla deroga stipulata5. La Corte di Cassazione ha dovuto però confrontarsi, nel caso di specie, con una «specifica intesa» accessoria ad un accordo stipulato dalle parti nel corso di una procedura di riduzione del personale ex artt. 4, 5 e 24 l. n. 223/1991. Questa contestualità non è irrilevante: l’art. 24 l. n. 223/1991, infatti, prevede, perché sia configurabile la fattispecie del licenziamento collettivo, la presenza di una «riduzione o trasformazione di attività o di lavoro» o una cessione di attività, oltre che l’integrazione dei requisiti occupazionali e numerico-temporali. Nonostante questi presupposti parrebbero richiamare le causali del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, però, la giurisprudenza maggioritaria nega la possibilità di sindacarne in giudizio l’effettività. Infatti, come affermato da un orientamento ormai consolidato, «[i]n materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale la legge n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato «ex post» nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto «ex ante» alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda»6.

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Così Perulli e Speziale, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la «rivoluzione d’agosto del diritto del lavoro», in WP D’Antona, It., n. 132, 2011, 32 ss. Richiama la necessità di un controllo di proporzionalità anche Garilli, op. cit., 485. Con riferimento proprio alla finalità della gestione di crisi aziendale o occupazionale richiamata nel caso di specie, vd. Bavaro, Azienda, contratto e sindacato, Cacucci, 2012, 150-151. App. Firenze, 20 novembre 2017, in RIDL, 4, 2018, 989 con nota di Fusco. Va comunque segnalato come la Corte abbia richiesto l’indicazione di tali elementi nello stesso accordo, introducendo un requisito formale che non pare però risultare chiaramente dal testo dell’art. 8 d.l. n. 138/2011. Autorevole dottrina ha pur sostenuto l’esigenza che dalla specifica intesa risulti lo scopo ex art. 8, comma 1, a cui è volta; aggiungendo però che questo può anche essere semplicemente deducibile. Cfr. Leccese, Il diritto sindacale al tempo della crisi. Intervento eteronomo e profili di legittimità costituzionale, in DLRI, n. 136, 2012, 4, 479; F. Carinci, op. cit., 38. L’orientamento non è ad ogni modo univoco: pur non pronunciandosi con specifico riguardo all’art. 8, comma 2-bis, d.l. n. 138/2011, il Tribunale di Torino non aveva ritenuto vincolanti le finalità poste dal comma 1 al fine dell’esplicazione dell’efficacia erga omnes della contrattazione di prossimità. Vd. Tribunale di Torino, 23 gennaio 2012, in RIDL, 2012, II, 712, con nota di Papa. Da ultimo, ma con opinione assolutamente prevalente, Cass., 26 novembre 2018, n. 30550, in GCM, 2018; Cass., 14 giugno 2007, n.13876, in RIDL, 2008, 1, II, 185 con nota di Caffio; Cass., 03 luglio 2015, n.13794, in D&G, 2015, con nota di Leverone; Cass., 3 marzo 2009, n. 5089, GCM, 2009, 3, 372. La giurisprudenza pare quindi aver aderito a quelle tesi che hanno letto, nell’introduzione della l. n. 223/1991, il segno di un passaggio da un controllo sostanziale effettuato ex post dal giudice ad uno ex ante affidato alla

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Giurisprudenza

La specifica intesa ex art. 8 d.l. n. 138/2011, conclusa all’interno di una procedura di riduzione del personale, pone dunque una questione di fondo con riguardo alla disciplina applicabile. Ci si chiede, in particolare, se tale intesa costituisca parte integrante della procedura ex artt. 4, 5 e 24 l. n. 223/1991, e in quanto tale debba sopportarne lo stesso sindacato giudiziale limitato soltanto agli aspetti procedurali, essendo demandata ogni altra valutazione all’autonomia collettiva; o se, invece, l’accordo in deroga mantenga una propria specificità, tale da comportare la prevalenza di un controllo sostanziale ex art. 8, comma 1, d.l. n. 138/2011, pur nella difficoltà persistente di delinearne forme e limiti.

3. La «specifica intesa» conclusa in un procedimento di

riduzione del personale: nuovi limiti al sindacato giudiziale? La Corte di Cassazione pare sposare, nella sentenza in commento, la prima delle due ipotesi. Un primo importante elemento della decisione si può già rinvenire nel riconoscimento della «dichiarazione aziendale» quale intesa in deroga ex art. 8 pur in assenza di riferimenti alla disposizione nell’accordo. Tale presa di posizione, infatti, pare segnare l’implicita esclusione di requisiti formali di validità dell’intesa, pure riconosciuti dalla giurisprudenza di merito fiorentina già citata7. Il nucleo centrale della decisione sembra però da rinvenirsi in tema di controllo sostanziale. La Corte, infatti, afferma la validità della specifica intesa in virtù della deducibilità dall’accordo di una delle finalità previste dall’art. 8, comma 1, d.l. n. 138/2011, in specie della «gestione delle crisi aziendali ed occupazionali», senza sancire la necessità di un accertamento della sua effettività, demandato non al giudice di merito, bensì all’autonomia collettiva. Presupposto di questa limitazione del controllo giudiziale pare quindi essere l’inclusione della «dichiarazione aziendale» all’interno della procedura di riduzione del personale. I

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contrattazione collettiva, in senso preclusivo rispetto ad un accertamento giudiziale dei presupposti (a riguardo cfr. D’Antona, «Riduzione di personale» e licenziamenti: la rivoluzione copernicana della l. 223/91, in FI, 1993, I, 2027-2035; Liebman, La mobilità del lavoro nella legge 223/1991: tendenze della prassi applicativa, in RIDL, 1999, I, 137). A questa ricostruzione si erano opposte già interpretazioni alternative del dettato della riforma, che sostenevano la sindacabilità nel merito degli stessi ad opera del giudicesindacato che comunque trovava un limite nel merito della scelta imprenditoriale (in questo senso cfr. Del Punta, La legge n. 223/1991 e i licenziamenti collettivi: un primo bilancio teorico, in QDLRI, 1997, 19, 9; Scarpelli, I licenziamenti collettivi. La nozione e il controllo del giudice, in QDLRI, 1997, 19, 27; Carabelli, I licenziamenti per riduzione di personale, in DLRI, 1994, 2, 213; Natullo, Tutele sostanziali e tutele processuali nel licenziamento collettivo: tra diritto vivente ed evoluzione normativa, in RIDL, 2015, I, 536). Tuttavia, tale interpretazione pare, pur non senza dissensi occasionali, non accolta dalla giurisprudenza maggioritaria di merito e di legittimità. App. Firenze, 20 novembre 2017, cit. La decisione della Corte conferma dunque la validità, quantomeno dal punto di vista formale, di quella prassi adottata in larga parte di intese ex art. 8, in cui non viene esplicitato il riferimento alla fonte della legittimazione della deroga (vd. Imberti, A proposito dell’art. 8 della legge n. 148/2011: le deroghe si fanno ma non si dicono, in GDLRI, 2013, 255; Perulli, La contrattazione collettiva «di prossimità»: teoria, comparazione e prassi, in RIDL, 2013, I, 919). La sentenza in commento dunque, seguendo la più risalente giurisprudenza in tema, apre ad una efficacia «sanante» dell’art. 8, nel senso per cui pur vedendo questa norma un limitato grado di effettività all’interno dell’ordinamento sindacale esplica la sua portata attraverso la legittimazione ex post in sede giurisdizionale. Cfr. Tursi, L’articolo 8 della legge n. 148/2011 nel prisma dei rapporti tra legge e autonomia collettiva, in DRI, 2013, 958.

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limiti sviluppati dalla giurisprudenza in tema di controllo dei presupposti dell’accordo ex art. 4 e 5 l. n. 223/1991 si estendono così anche alla specifica intesa, essendo considerata parte integrante dello stesso. Nondimeno, se la «responsabilizzazione» dell’autonomia collettiva si può comprendere alla luce degli importanti strumenti informativi e consultivi previsti dall’art. 4 l. n. 223/1991, la sovrapposizione che in questo caso si verifica pare porre sullo stesso piano due accordi caratterizzati da natura giuridica profondamente diversa. La dottrina maggioritaria, sulla scorta di un’importante sentenza della Corte costituzionale, ha infatti riconosciuto nell’accordo stipulato ex artt. 4 e 5 l. n. 223/1991 un contratto c.d. gestionale, ovverosia una pattuizione che non dispone dei diritti dei singoli lavoratori, ma «procedimentalizza» l’esercizio di un potere imprenditoriale8. La procedura di informazione e consultazione, disciplinata dalla l. n. 223/1991, ricoprirebbe dunque la funzione di contemperamento del potere del datore di lavoro attraverso la considerazione degli «interessi antagonistici sui quali va ad incidere»9. Diversamente, la specifica intesa stipulata ex art. 8 d.l. n. 138/2011 è un contratto di natura normativa, essendo immediatamente regolativo dei rapporti di lavoro. Quindi, pur condividendo con la l. n. 223/1991 l’obiettivo di permettere la gestione di situazioni di crisi occupazionale, riceve una specifica disciplina dal d.l. n. 138/2011 proprio in virtù della possibilità di incidere sui diritti dei lavoratori, anche in deroga a legge e CCNL. E, come visto, tale specifica disciplina condiziona la validità dell’intesa al rispetto degli interessi generali individuati all’art. 8, comma 1, d.l. n. 138/2011, vincolando in tal modo entrambe le parti. Non sembra quindi condivisibile l’impostazione adottata nella sentenza annotata, in cui le previsioni in materia di licenziamento collettivo paiono estendersi anche ad un accordo che partecipa però ad una differente natura e che proprio per questo vincola anche le organizzazioni sindacali al rispetto di interessi generali. Questo non esclude che la conclusione dell’intesa possa inserirsi all’interno dello svolgimento di una procedura ex art. 4 l. n. 223/1991. Piuttosto, comporta la necessità di distinguere in sede di sindacato giudiziale i presupposti di legittimità dei due diversi accordi, dato anche il carattere di eccezionalità e dunque la necessità di una stretta interpretazione del dettato dell’art. 810. D’altra parte, quand’anche non si riconoscesse la diversa natura delle due pattuizioni11, non sarebbe comunque scontata la prevalenza della disciplina in materia di sindacato giudiziale della l. n. 223/1991. È infatti pacificamente riconosciuto come l’accordo stipulato al termine della procedura ex artt. 4 e 5 l. n. 223/1991, oltre alla determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, possa derogare al solo art. 2103, comma 2, c.c.12 (art. 4, comma 11, l. n. 223/1991). Non parrebbe quindi possibile inquadrare una specifica intesa

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C. cost., 30 giugno 1994, n. 268, in RIDL, 1995, II, 237, con nota di Manganiello. Conformemente, ex pluris, Spagnuolo Vigorita, I licenziamenti collettivi per riduzione del personale nella recente legge n. 223/1991: la fattispecie, in DRI, 1992, 2, 201; Persiani, I licenziamenti collettivi per riduzione del personale nella legge n. 223/1991: le procedure, in DRI, 1992, 2, 211. 9 Liso, La mobilità dei lavoratori in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982, 113. 10 Per una forte distinzione tra i due atti, nel caso di specie funzionale ad esaminarne l’efficacia, vd. App. Firenze, 20 novembre 2017, cit. 11 Così Fusco, op. cit., 989. 12 Tant’è che il giudice ha dovuto operare un richiamo all’art. 8 pur in assenza di un riferimento allo stesso da parte della dichiarazione aziendale, non potendo legittimare la deroga all’art. 2118, comma 2, c.c. sulla base della l. n. 223/1991.

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Giurisprudenza

all’interno degli accordi regolati dalla l. n. 223/1991, dal che ne conseguirebbe la sottoposizione alla disciplina prevista dall’art. 8 d.l. n. 138/2011 nella sua interezza13. Nel caso di specie la «dichiarazione aziendale», quindi, avrebbe forse dovuto sopportare un accertamento ad opera del giudice di merito14 con riferimento all’esistenza del presupposto della «gestione della crisi aziendale o occupazionale» ex art. 8, comma 1, d.l. n. 138/2011 e del nesso eziologico rispetto alla deroga dell’indennità sostitutiva di mancato preavviso ex art. 2118, comma 2, c.c. Preme però sottolineare come, una volta anche accertato il rispetto del limite posto dal comma 1, il nesso tra questo e qualsiasi deroga che riduca i costi della produzione comprimendo i diritti dei lavoratori sarebbe in re ipsa. Di conseguenza la possibilità di un controllo giurisdizionale sarebbe nuovamente compressa, questa volta di fatto, non potendo d’altra parte il giudice esplicare un controllo più penetrante nel merito15. Parrebbe così che, anche riaffermato uno spazio di sindacato giudiziale oltre le strette maglie tessute dalla giurisprudenza intorno all’art. 4 l. n. 223/1991, si possano rivitalizzare quelle interpretazioni che hanno segnalato la difficoltà di rinvenire nell’art. 8, comma 1, d.l. n. 138/2011 limiti effettivi alla possibilità di deroga16.

4. La deroga all’indennità di mancato preavviso e i suoi limiti costituzionali.

Si può infine proporre a margine una nota in tema di rispetto dei limiti esterni nel caso dell’esclusione dell’indennità sostitutiva di mancato preavviso. Prevista dall’art. 2118, comma 2, c.c. in capo al receduto nel caso in cui il recesso sia effettuato senza il preavviso di cui al comma 1 dello stesso articolo, impone il pagamento di un importo – computato secondo i criteri dell’art. 2121 c.c. – pari alla retribuzione che sarebbe altrimenti spettata nel periodo del preavviso. Se, sotto un primo profilo, l’inclusione della disciplina del preavviso e dell’indennità sostitutiva dello stesso entro le materie oggetto delle specifiche intese ex art. 8, comma 2, – ed in particolare nelle «conseguenze del recesso», come affermato

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Diversa conclusione può essere raggiunta in tema di deroga all’art. 2103 c.c. ex art. 4, comma 11, l. n. 223/1991, per cui si potrebbe configurare la prevalenza sull’art. 8 che pure prevede tra le materie di competenza della contrattazione di prossimità «mansioni del lavoratore» e «classificazione e inquadramento del personale». Trovando la deroga alla medesima materia legittimazione in due diverse fonti, ove entrambe le discipline fossero astrattamente applicabili parrebbe doversi fare riferimento, tra le due, all’art. 4, comma 1, l. n. 223/1991 che si caratterizzerebbe in tal caso per specialità rispetto all’art. 8, essendo la deroga ulteriormente condizionata alla stipula entro una procedura ex art. 4 l. n. 223/1991 e al «riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti». A riguardo si può comunque segnalare come, in virtù della novella dell’art. 2103 c.c. ad opera dell’art. 3 d.lgs. n. 81/2015, si potrebbe mettere in dubbio la stessa persistenza della deroga prevista all’art. 4, comma 11, l. n. 223/1991, che rimanda alla previgente versione dell’art. 2103, comma 2, c.c., essendo ora sancita legislativamente la possibilità di patti contrari che l’art. 4, comma 11, mirava appunto a legittimare. 14 La cui (in)sussistenza, in virtù della sovrapposizione con la disciplina della l. n. 223/1991, non viene rilevata nel caso di specie. 15 Valutare la proporzionalità della deroga infatti porterebbe inevitabilmente il giudice a fare «economia del lavoro», in contrasto con i limiti posti dall’art. 41 Cost. Cfr. Bavaro, op. cit., 150-151. 16 Con importanti conseguenze in tema di costituzionalità ex art. 3 Cost, vd. Perulli, Speziale, op. cit., 28. Con specifico riferimento alle deroghe finalizzate all’incremento dell’occupazione e/o alla gestione di crisi aziendali ed occupazionali, Bavaro afferma come lo spazio di sindacato, già ristretto, tenda a scomparire. Cfr. Bavaro, op. cit., 150-151.

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nella sentenza in epigrafe – non solleva particolari incertezze17, diversa problematica sorge dalla esclusione della rilevanza della stessa ai fini dell’art. 4 della Carta sociale europea, nella prospettiva dei limiti esterni. Come si ricorderà, infatti, l’art. 8, comma 2-bis, vincola la contrattazione di prossimità in deroga al rispetto «della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro». La violazione di tali limiti, forse pleonasticamente richiamati dal legislatore al comma 2-bis18, comporta la nullità negoziale ex artt. 1339 e 1419 c.c. della specifica intesa19. La sentenza in commento individua dunque nell’art. 4 della Carta sociale europea un parametro interposto di costituzionalità20, in quanto impegna le parti, al fine di garantire «l’effettivo esercizio del diritto ad un’equa retribuzione», «a riconoscere il diritto di tutti i lavoratori ad un ragionevole periodo di preavviso nel caso di cessazione del lavoro». Il preavviso ricopre infatti, generalmente, la «funzione economica di attenuare le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del rapporto di lavoro»21, assicurando quindi al lavoratore la continuità del reddito. Se questa è la ratio della norma, la Corte, dopo aver richiamato l’art. 4, pare negare che l’indennità condivida il medesimo fondamento del preavviso o quantomeno miri a garantirlo. Afferma invece, attraverso un’interpretazione strettamente letterale, che l’art. 4 della Carta sociale europea non si porrebbe in senso ostativo alla validità della specifica intesa in deroga all’art. 2118, comma 2, c.c., in quanto questa sarebbe volto ad assicurare soltanto il diritto al preavviso e la sua ragionevole quantificazione. Si ritiene però che l’interpretazione letterale proposta dell’art. 4 rischi di oscurare la rilevanza ricoperta dall’indennità sostitutiva all’interno del sistema dell’art. 2118 c.c. Pur con discordanze, si può affermare infatti come l’orientamento maggioritario in giurisprudenza configuri i due istituti di cui all’art. 2118, comma 1 e 2, c.c. come obbligazioni alternative, sulla base del riconoscimento dell’efficacia obbligatoria del preavviso22; cosicché, una volta derogata la previsione dell’art. 2118, comma 2, c.c., rimarrebbe esigibile soltanto l’obbligazione semplice di preavviso. La violazione dell’art. 2118, comma 1, c.c. d’altro canto, per giurisprudenza costante, non può comportare un risarcimento ultroneo rispetto a quanto previsto come indennità sostitutiva, che si caratterizza quindi come esaustiva ed

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Ex pluris Perulli e Speziale, op. cit., 45; Calcaterra, Il preavviso di licenziamento, in WP D’Antona, It., n. 162, 2012, 33. Contra però Cester, Trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, in F. Carinci (a cura di), Contrattazione in deroga. Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e art. 8 del D.L. n. 138/2011, Ipsoa, 2012, 408. Questi infatti considera il caso del preavviso problematico, in quanto da considerarsi, anche riconoscendone (come pare fare la Corte) efficacia obbligatoria, presupposto e non conseguenza del recesso, come pure vorrebbe l’art. 8, comma 2. Favorevole all’inclusione ma dubbioso circa gli effettivi margini concessi alla contrattazione di prossimità Russo, Intervento, in F. Carinci (a cura di), op. cit., 502. 18 Ferraro, Profili costituzionali della disponibilità del sistema di tutele del diritto del lavoro subordinato, in RGL, 2012, I, 471. 19 Bavaro, op. cit., 168. 20 La Carta Sociale Europea infatti è stata riconosciuta come parametro interposto nel giudizio di legittimità da una recente pronuncia della Corte costituzionale, richiamata nella stessa sentenza in commento. Cfr. C. cost., 26 settembre 2018, n. 194, in RIDL, 2018, 4, 1059, con nota di M.T. Carinci. 21 Diamanti, sub art. 2118, in De Luca Tamajo, Mazzotta (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, 2018, 674. 22 Calcaterra, op. cit., 34. Per un inquadramento più generale di preavviso ed indennità sostitutiva dello stesso, con riferimento anche alla efficacia obbligatoria o reale dello stesso, si rimanda a Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Giuffré, 1962, 287.

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assorbente rispetto a ulteriori pretese di risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento all’obbligo di preavviso23. L’esclusione dell’indennità di mancato preavviso quindi, congiunta alla preclusione rispetto a domande di risarcimento del danno, comporterebbero la facoltà del recedente di non adempiere all’obbligo di preavviso senza che il receduto possa opporre in alcuna forma la sua pretesa. Tale condizione potrebbe però sollevare questioni di legittimità della clausola proprio alla luce del parametro interposto dell’art. 4 della Carta sociale europea, potendo difficilmente dirsi garantito un diritto potenzialmente non effettivo nel grado in cui alla violazione dello stesso non possa conseguire una richiesta di risarcimento24.

5. Considerazioni conclusive. Il disposto dell’art. 8 d.l. n. 138/2011, data anche la perdurante scarsità di giurisprudenza, rappresenta ancora un ostacolo significativo per l’interprete, in particolar modo nelle sue ramificazioni sul piano sistematico. La Corte di Cassazione risolve quindi l’intricato intreccio tra limiti interni ed esterni previsti dalla norma rimandando, in virtù dell’inclusione della deroga in un accordo stipulato a seguito di una procedura di informazione e consultazione dei sindacati, all’autonomia collettiva, individuata come soggetto più idoneo ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse al mantenimento dell’occupazione e il diritto all’indennità di preavviso. Pur comprendendo i motivi di fatto posti alla base dell’opzione ermeneutica selezionata, basata sull’innesto della deroga ex art. 8 nel sistema di sindacato giudiziale sviluppatosi con riferimento alla fattispecie della «riduzione di personale», è sembrato nondimeno opportuno domandarsi se tale «delega» della funzione di controllo in capo all’autonomia collettiva sia conforme al sistema. Si sono così delineati i profili ritenuti più critici a riguardo, considerato comunque come pure l’accertamento dell’effettività della crisi aziendale ed occupazionale non sembrerebbe un forte presidio della eccezionalità dello strumento di deroga previsto dall’art. 8 d.l. n. 138/2011. Parrebbe comunque che l’inserimento della specifica intesa entro una procedura di licenziamento collettivo abbia portato il giudice a valutare la conformità della deroga al dettato dell’art. 4 della Carta sociale europea anche sulla base del fatto che il diritto previsto in capo ai lavoratori potrebbe subire delle compressioni a fronte della tutela di altri interessi di pari livello. Le conseguenze di tale impostazione però sembrerebbero portare a considerare l’art. 8 come un espediente a disposizione delle parti ai

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Cass., sez. un., 29 settembre 1994, n. 7914, in GC, n. 12, 1995, 3099, con nota di Cimino. Il risarcimento pare essere escluso dalla giurisprudenza indipendentemente dall’adesione alla teoria dell’efficacia reale od obbligatoria. Criticamente rispetto all’esclusione della risarcibilità del danno ulteriore, ove provato, Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, 34. 24 Si segnala comunque a margine come l’art. 4 imponga di garantire un «ragionevole periodo di preavviso»; con pure l’incertezza insita nella previsione di una clausola generale di ragionevolezza, questo porterebbe a ritenere quindi non escludibile il preavviso e la relativa indennità dall’ambito delle deroghe ex art. 8 d.l. n. 138/2011, fintantoché questo parametro viene assicurato.

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fini della compressione dei diritti dei lavoratori in fase di riduzione del personale; e se questo può essere, a buona ragione, considerato uno degli obiettivi della norma, dall’altra parte la deroga anche del «nucleo fondamentale» di uno dei diritti bilanciati parrebbe non solo non costituire un vero e proprio bilanciamento, ma anche intaccare quel limite esterno ex art. 8, comma 2-bis, che costituisce uno dei pochi vincoli configurabili a garanzia dell’eccezionalità della norma, a fronte dei persistenti dubbi già segnalati sull’effettività dei vincoli di scopo. Tommaso Maserati

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Giurisprudenza Tribunale Di T orino, sentenza 9 agosto 2019, n. 1128; Paliaga – V.S. (avv.ti De Guglielmi, Guelfo e Sibona) c. S. (avv.ti Fortunat, De la Forest de Divonne e Ranieri). Contratto collettivo – CCNL Vigilanza privata – Sezione servizi fiduciari – Minimi tabellari – Violazione art. 36 Cost. – Sussistenza.

La circostanza che un Ccnl sia stato sottoscritto da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale non implica di per sé che i minimi tabellari in esso individuati siano rispettosi dei principi di proporzionalità e sufficienza sanciti all’art. 36 Cost. L’art. 23 della sezione servizi fiduciari del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, seppur sottoscritto da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative nel settore, lede l’art. 36 Cost. e non apporta, nel complesso, un trattamento migliorativo a beneficio dei lavoratori. – Omissis. Il ricorrente è stato dipendente della convenuta dal 1 febbraio 2015 al 30 settembre 2016 con inquadramento nel livello D della sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza come addetto alla reception presso A. di Torino, dove aveva già svolto identiche mansioni dal 1 giugno 2014 al 31 gennaio 2015 come dipendente della precedente appaltatrice – Omissis, inquadrato nel II livello C.C.N.L. multiservizi. Denunciando la sensibile decurtazione della retribuzione subìta in occasione dell’assunzione da parte della convenuta, pur a parità di mansioni e di orario di lavoro (40 ore settimanali), che ha portato la retribuzione da € 1.237,89 mensili per 14 mensilità (a gennaio 2015) ad € 930 mensili per 13 mensilità (a febbraio 2015), il ricorrente ha chiesto in via principale l’accertamento del suo diritto all’applicazione della cd. clausola di armonizzazione di cui all’art. 27 della sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza, secondo la quale “In sede di prima applicazione del presente contratto, i trattamenti economici saranno armonizzati sulla base del criterio dell’invarianza del trattamento della medesima paga oraria ordinaria in essere” e la conseguente condanna della convenuta al pagamento di differenze retributive per € 11.022,56 lordi. In via subordinata, il ricorrente ha evidenziato la sensibile differenza tra la retribuzione annua di € 12.090 lordi che risultava nel 2015 dall’applicazione dell’art. 23 della sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza rispetto a quella che spettava nello stesso periodo a chi svolgesse analoghe mansioni in applicazione dei vari C.C.N.L. tradizionalmente impiegati nel settore dei servizi di portierato, controllo degli accessi e guardiania. In ricorso è stato infatti affermato che detta retribuzione è inferiore del 30,24% rispetto a quella di € 17.330,46 riconosciuta dal C.C.N.L. Multiservizi ai dipendenti di II livello, del 27,16% rispet-

to alla retribuzione di € 16.599,05 lordi attribuita dal C.C.N.L. proprietari di fabbricati al personale addetto a mansioni di vigilanza e controllo degli accessi in stabili a prevalente utilizzo commerciale inquadrato nel livello D1 e del 36,24% rispetto alla retribuzione di € 18.959,64 lordi che il C.C.N.L. terziario, distribuzione e servizi riconosceva al VI livello, a cui fanno riferimento guardiani, custodi e portieri. Sostenendo che una retribuzione così inferiore rispetto a quella prevista da tutti i C.C.N.L. similari ed usualmente applicati nello specifico settore fino al 2013 (anno in cui è entrata in vigore la sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza) ed il cui valore netto ( € 687,38 al mese ) è ampiamente inferiore al tasso-soglia di povertà assoluta ( che secondo l’ISTAT, nel 2015, per un cittadino senza familiari conviventi in una grande area metropolitana del Nord Italia, era di € 984,64) non può reputarsi proporzionata, né sufficiente a far fronte alle ordinarie necessità di vita e dunque ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, il ricorrente ha denunciato la violazione del precetto di cui all’art. 36 della Costituzione ed ha chiesto che, previa declaratoria di invalidità dell’art. 23 della sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza, la sua retribuzione venisse adeguata a quella prevista dal meno vantaggioso degli altri C.C.N.L. applicabili ovvero alla retribuzione prevista dal C.C.N.L. proprietari di fabbricati per il livello D1, con condanna della società convenuta al pagamento delle differenze conseguenti, da accertarsi mediante CTU contabile. La domanda principale non appare fondata e va pertanto respinta. L’articolo 27 della sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza – intitolato “Armonizzazione dei trattamenti” – stabilisce che “In sede di prima applicazione del presente contratto, i trattamenti economici saranno armonizzati sulla base del criterio dell’invarianza del trattamento della medesima paga


Giurisprudenza

oraria ordinaria in essere”, prevedendo che “le eventuali differenze retributive globalmente considerate, favorevoli ai lavoratori verranno calcolate e tradotte in un elemento economico che ricomprenda anche i valori in denaro delle differenze tra istituti di carattere normativo” e che detto elemento “costituito in un assegno ad personam mensile, per un numero di 12 mensilità da erogarsi per l’intera durata del contratto verrà assorbito dai futuri aumenti contrattuali in misura corrispondente al 25% degli stessi in occasione di ciascun rinnovo contrattuale”. Il titolo ed il tenore letterale della norma non consentono seri dubbi sulla sua destinazione ad evitare il passaggio di un’impresa alla sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza determinasse un abbassamento della retribuzione per coloro che ne fossero già dipendenti e che, fino a quel momento, avessero percepito una retribuzione superiore in forza del contratto collettivo applicato in precedenza. Il riferimento alla “prima applicazione del presente contratto” senza ulteriori precisazioni, in particolare, evoca la volontà di dettare una regolamentazione destinata ad operare una sola volta, e cioè nel momento in cui un’impresa abbandonasse il C.C.N.L. applicato fino a quel momento per adottare la nuova sezione del C.C.N.L. vigilanza. L’espressione “medesima paga oraria ordinaria in essere”, d’altronde, ha senso soltanto con riferimento a rapporti di lavoro in corso. Le parole avrebbero dovuto essere ben diverse, ove le parti collettive avessero inteso riconoscere il beneficio in questione ad ogni occasione di ingresso nell’area di applicazione della sezione Servizi Fiduciari del CCNL Vigilanza – cioè anche successiva al momento di adozione generalizzata della stessa da parte del datore di lavoro – di un lavoratore che, fino a quel momento, avesse svolto le medesime mansioni percependo la più alta retribuzione prevista da altro contratto collettivo. Sarebbe stato infatti indispensabile utilizzare un’espressione aggiuntiva di collegamento della “prima applicazione” del contratto al singolo lavoratore che si trovasse in tale situazione e/o alle vicende di subentro negli appalti in cui essa si verifica. La domanda subordinata appare invece fondata e va pertanto accolta – Omissis. Prima di occuparsi della verifica di compatibilità della retribuzione percepita dal ricorrente direttamente con il precetto costituzionale stesso, è necessario affrontare la questione – sollevata d’ufficio da questa giudice all’udienza del 6 marzo 2018 – del rispetto da parte della convenuta dell’art. 7 comma 4 d.l. 248/2007, laddove stabilisce che “in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai

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contratti collettivi stipulati dalle trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi a livello nazionale nella categoria”. Si tratta di una questione logicamente preliminare rispetto a quella posta dal ricorrente a fondamento della sua domanda subordinata, in quanto l’art. 7 è norma che ha inteso dare specifica attuazione nel particolare settore lavorativo delle cooperative, a cui appartiene la società convenuta, proprio all’art. 36 Cost. invocato dal ricorrente. La norma in questione persegue infatti l’obiettivo, condiviso con le parti sociali nell’ambito del Protocollo d’intesa sottoscritto il 10 ottobre 2007, di tutelare i dipendenti di queste ultime rispetto all’applicazione “di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali di non accertata rappresentatività, che prevedano trattamenti retributivi potenzialmente in contrasto con la nozione di retribuzione sufficiente, di cui all’art. 36 Cost., secondo l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza in collegamento con l’art. 2099 cod. civ.” (così Corte Costituzionale n. 51/2015) e lo fa dettando una regola destinata a garantire comunque ai lavoratori del settore un trattamento retributivo che, per essere stato scelto da organizzazioni sindacali ritenute capaci di tutelare gli interessi dei lavoratori, può presumersi adeguato ai sensi dell’art. 36 Cost. Nel caso di specie, l’art. 7 deve ritenersi rispettato A prescindere da ogni questione in merito alla possibilità di ricondurre o meno alla medesima categoria i vari contratti a cui ha fatto riferimento il ricorrente (questione rilevante per decidere in merito all’applicabilità stessa della norma nel caso di specie o, quanto meno, per individuare i contratti collettivi da coinvolgere nella comparazione), appare determinante al riguardo l’oggettiva considerazione che i vari C.C.N.L. in questione, comunque, sono stati tutti sottoscritti da CGIL e CISL, che sono organizzazioni sindacali certamente qualificabili come “comparativamente più rappresentative a livello nazionale”. Tale aspetto appare idoneo e sufficiente a rendere sostanzialmente equiparabili ai sensi dell’art. 7 tutti i C.C.N.L. di cui si discute nel presente giudizio e a far dunque ritenere che la scelta della società convenuta di applicare il trattamento economico previsto dalla sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza ha rispettato tale specifica previsione normativa – Omissis. In tale contesto si deve ritenere che il legislatore abbia dunque lasciato alle cooperative datrici di lavoro la possibilità di scegliere tra più contratti appartenenti alla stessa categoria che siano sottoscritti da organizzazioni sindacali qualificabili come comparativamente più rappresentative a livello nazionale e che non vi è alcuno spazio per il giudice per effettuare una comparazione tra tali contratti collettivi, né tanto meno per individuare il criterio distintivo tra gli stessi nel numero delle organizzazioni sindacali stipulanti che possano essere definite comparativamente più rappresentative


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a livello nazionale e/o nel rapporto numerico tra le stesse e le altre organizzazioni sindacali che li hanno sottoscritti – Omissis. Il fatto che, nel caso di specie, non possa configurarsi una violazione dell’art. 7 – in quanto la convenuta ha applicato il trattamento economico previsto da un C.C.N.L. sottoscritti da organizzazioni sindacali qualificabili comparativamente più rappresentative a livello nazionale – non esime dunque dall’affrontare la verifica di compatibilità della retribuzione così corrisposta al ricorrente con il principio di proporzionalità e sufficienza posto dalla citata norma costituzionale – Omissis. Non è certo sufficiente ad escludere la legittimità del controllo giudiziale sul rispetto di tale limite il fatto pacifico che, per dare un contenuto concreto al principio costituzionale in questione, laddove si tratta determinare la giusta retribuzione in relazione ad un singolo rapporto di lavoro a cui le previsioni collettive non siano direttamente applicabili, la giurisprudenza faccia riferimento proprio alla contrattazione collettiva. Tale consolidato orientamento giurisprudenziale si fonda su di una presunzione di conformità delle previsioni collettive ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza che ha le proprie radici nella presunzione di adeguatezza delle scelte delle organizzazioni sindacali agli interessi dei lavoratori e, come quest’ultima, è giustificata dalla rappresentatività e dalla conoscenza del mondo del lavoro pacificamente riconosciute a tali organizzazioni. La proporzionalità e la sufficienza a cui fa riferimento la norma costituzionale, tuttavia, sono concetti autonomi e ben distinti dalla volontà delle parti sociali che si esprime nella contrattazione collettiva. La verifica del loro rispetto, pertanto, non può esaurirsi nell’accertamento del contenuto di tale volontà ed anzi, in ragione dell’indubbia preminenza della Costituzione nella gerarchia delle fonti, è doverosa anche in relazione a quest’ultima, così come per la volontà del legislatore ordinario. Tali considerazioni inducono ad affermare che non può affatto escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di ogni crisma di rappresentatività ( e pertanto rispettosa dell’art. 7 comma 4 d.l. 248/2007, ove applicabile) possa risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro di cui deve costituire il corrispettivo e/o di sufficienza ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa – Omissis. Sulla scorta di tali dati – calcolando la retribuzione lorda annua secondo il C.C.N.L. Multiservizi in € 16.569, quella prevista dal C.C.N.L. proprietari di fabbricati in € 15.836,73 e quella di cui al C.C.N.L. terziario in € 18.959,64 – si deve concludere che la retribuzione erogata al ricorrente – € 12.090 lordi annui, pari al 13 mensilità di € 930 lordi mensili – è stata pari al

72,97% della prima (ovvero inferiore del 27,03%), al 76,34% della seconda (dunque inferiore del 23,66%) ed al 63,77% della terza (inferiore ad essa del 36,23%). La consistenza dello scostamento tra la retribuzione erogata al ricorrente e quella che egli avrebbe percepito per lo svolgimento delle stesse mansioni con lo stesso orario di lavoro in forza degli altri contratti collettivi applicabili appare senza dubbio idonea a far cadere la presunzione di conformità all’art. 36 di cui la prima gode in ragione del fatto di essere corrispondente a quella prevista dall’articolo 23 della sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza, la quale è stata a sua volta concordata da organizzazioni sindacali che possono certamente qualificarsi come maggiormente rappresentative – Omissis. La presunzione di sufficienza della retribuzione concordata dalle parti collettive nella sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza, a sua volta, si scontra con la constatazione del rapporto di valore esistente tra la medesima – che, in quanto relativa all’orario ordinario a tempo pieno, costituisce l’unico reddito da lavoro su cui il lavoratore può far conto per sopperire alle sue esigenze di vita – ed il tasso soglia di povertà assoluta stimato dall’Istat per il medesimo periodo. Il ricorrente ha documentato senza incontrare alcuna contestazione da parte della convenuta che, nel 2015, il valore monetario del paniere di beni e servizi essenziali – quello al di sotto del quale si configura la povertà assoluta per un cittadino senza familiari conviventi di età compresa tra 18 e 59 anni che vivesse in un’area metropolitana del Nord, quale è il ricorrente – era stato individuato in € 984,64. Ben lungi dal poter e voler affermare che questo importo è idoneo ad “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, a parere di questa giudice si può comunque dubitare seriamente della sufficienza di una retribuzione che sia sensibilmente inferiore ad esso – Omissis. A parere di questa giudice, le verifiche e considerazioni che precedono non esauriscono il procedimento di verifica della compatibilità con l’articolo 36 Cost. della retribuzione erogata al ricorrente, essendo comunque opportuno indagare l’esistenza di elementi che, in concreto, possano ancora recuperare un giudizio finale di conformità. La volontà espressa dal sindacato nelle clausole retributive del contratto collettivo, infatti, si colloca all’interno di valutazioni e decisioni ben di più ampie che, in parte, confluiscono in previsioni collettive di concorrente applicazione e, in parte, rimangono esterne e preliminari – ma non per questo meno importanti – afferendo più in generale al contesto socio economico ed alle esigenze di tutela del lavoratore sotto profili diversi da quello strettamente retributivo, ma altrettanto meritevoli ( come ad esempio l’occupazione ).Una compiuta valutazione circa la conformità all’articolo 36 Cost. della retribuzione prevista da un determi-

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nato contratto collettivo, in teoria, dovrebbe rendere in considerazione entrambi tali aspetti, ricercando ed analizzando le ragioni della scelta compiuta dalle parti collettive munite di adeguata rappresentatività e verificando l’esistenza di altri aspetti del trattamento economico e normativo da esse previsto che possano eventualmente compensare l’inadeguatezza della retribuzione tabellare – Omissis. È emerso in modo concorde da tutti gli informatori che la sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza è nata dall’esigenza condivisa dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro di predisporre una disciplina specifica di settore per le attività riconducibili alla vigilanza non armata – i servizi cd. di portierato per cui non è necessario il servizio armato delle guardie giurate – in relazione alle quali fino a quel momento venivano utilizzati vari altri contratti collettivi di ben più ampio raggio – Omissis. Ebbene, nonostante le incertezze e contraddizioni presenti in tali dichiarazioni, appare evidente che l’accordo sulla retribuzione di cui all’art. 23 trova la sua fondamentale spiegazione nella volontà delle parti stipulanti di predisporre un nuovo C.C.N.L. destinato a trovare ampia applicazione nel settore. L’interesse sotteso alla volontà delle organizzazioni datoriali è ovvio, essendo costituito dal beneficio immediato e generale di un costo del lavoro decisamente più basso di quello medio derivante dall’applicazione dei contratti collettivi tradizionalmente utilizzati fino ad allora e, come tale, più adeguato ai corrispettivi offerti dai committenti. La ricostruzione dell’interesse delle organizzazioni sindacali dei lavoratori è meno agevole – Omissis. Non è altrettanto chiaro, tuttavia, quali siano i profili sui quali la sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza potesse effettivamente realizzare un miglioramento al trattamento economico e normativo dei lavoratori. (omissis) Non vi è alcuno spazio, dunque, per qualificare la retribuzione prevista dall’articolo 23 come in qualche modo migliorativa rispetto a quella prevista dagli altri contratti collettivi in uso – Omissis. Il raffronto tra le previsioni in materia di scatti, ferie, cambio appalto e maggiorazioni per il lavoro diverso da quello ordinario contenute nella sezione Servizi Fiduciari del C.C.N.L. Vigilanza (per il vero neanche sempre coincidenti con quanto affermato dai informatori sindacali) e degli altri contratti collettivi in questione, infine, non consente di condividere la considerazione delle prime come significativamente innovative in senso migliorativo per i lavoratori rispetto alle altre – Omissis. Si tratta tuttavia di aspetti che, sia per la loro portata oggettiva nell’ambito della più ampia regolamentazione del rapporto di lavoro, sia per il fatto di risultare migliorativi soltanto con riferimento ad alcuni dei contratti collettivi utilizzati nel settore (ed in particolare a quelli meno frequenti), non appaiono di certo suffi-

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cienti a compensare la severa riduzione della retribuzione realizzata rispetto a tutti tali contratti – Omissis. Al di là di tutte queste considerazioni che conducono a ridimensionare pesantemente i vantaggi derivanti dalla nuova sezione del C.C.N.L. vigilanza, in ogni caso, vi sono altre assorbenti ragioni che rendono detti vantaggi comunque inidonei a giustificare l’erogazione al ricorrente di una retribuzione che, per le ragioni sopra esposte, appare decisamente inadeguata rispetto al principio di proporzionalità e di sufficienza sancito dall’articolo 36 Cost. Non si può escludere, in linea teorica, che anche le parti collettive – così come il legislatore – possano imporre dei sacrifici ai singoli lavoratori per il raggiungimento di obiettivi sociali di tutela della categoria intesa nel suo complesso (in particolare nell’ambito della lotta alla disoccupazione). Non è certo possibile, tuttavia, giustificare un sacrificio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione concreto e pesante come quello imposto al ricorrente con il generico tentativo di tutelare un numero imprecisato di altri lavoratori rispetto agli effetti negativi della contingente applicazione nei loro confronti da parte dei rispettivi datori di lavoro di contratti inadeguati, rispetto alla quale – come si è sottolineato – esiste prima di tutto lo strumento della tutela giudiziale a livello individuale – Omissis. Per tutte le ragioni finora esposte – impregiudicata ogni valutazione diretta sulla validità dell’art. 23, il cui accertamento incidentale non è rilevante ai fini della decisione in mancanza di applicazione dell’intero C.C.N.L. – deve quindi affermarsi l’inadeguatezza della retribuzione corrisposta al ricorrente nel corso del rapporto di lavoro intercorso con la società convenuta dal 1 febbraio 2015 al 30 settembre 2016 rispetto al parametro costituzionale posto dall’articolo 36 della Costituzione. P.Q.M. Visto l’art. 429 c.p.c., definitivamente pronunciando, respinta ogni altra domanda, • condanna parte convenuta – Omissis in persona del suo legale rappresentante a pagare a – Omissis la somma lorda di € 8.105,20, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sui singoli importi annualmente rivalutati dalla loro maturazione al saldo; • condanna parte convenuta a rimborsare a parte ricorrente le spese di causa liquidate in € 5.000, oltre rimborso forfettario 15%, IVA e CPA; • fissa il termine di 60 giorni per il deposito della sentenza. Omissis


Marta Giaconi

Il trattamento retributivo nel CCNL Vigilanza privata e servizi fiduciari lede l’art. 36 Cost. Un’interessante pronuncia del Tribunale di Torino Sommario :

1. Il caso affrontato dal Tribunale di Torino. – 2. L’art. 36 Cost. nella lettura giurisprudenziale consolidata. – 3. Un fenomeno più recente: quando a non rispettare l’art. 36 Cost. è il CCNL. – 4. La sentenza del Tribunale di Torino. Tratti di novità.

Sinossi. Il contributo, dopo aver brevemente ricostruito l’orientamento giurisprudenziale in materia di art. 36 Cost. e minimi tabellari previsti dal Ccnl, individua i tratti di maggiore interesse in una recente pronuncia del Tribunale di Torino. Abstract. The essay, after a brief description of the most important judicial decisions about art. 36 Const. and minimum wages provided by national collective agreements, focuses on the main content of a recent judicial ruling by the Turin Court.

1. Il caso affrontato dal Tribunale di Torino. La vicenda in commento si colloca nel delicato ambito degli appalti dei servizi di vigilanza, sempre più spesso oggetto di contenzioso lavoristico oltre che di dibattito sindacale1. Nel caso che ci occupa un lavoratore, già impiegato nell’ambito del medesimo appalto da una società datrice che applicava il Ccnl Multiservizi2, lamenta di aver subito una sensibile decurtazione della retribuzione a seguito del passaggio alle dipendenze del nuovo appaltatore, pur conservando orario (40 ore settimanali) e mansioni. La riduzione era imputabile all’applicazione, da parte del datore subentrato, del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi fiduciari3, recante – in particolare nella sezione servizi fiduciari del Ccnl – un trattamento economico inferiore a quello precedente di oltre il 30%. Il ricorrente rivendi-

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Cfr le reazioni di Uiltucs alla sentenza in esame sul sito uiltucs.it. Detto sindacato non è tra i firmatari del Ccnl in esame, con riferimento alla sezione Servizi Fiduciari, cui l’art. 23 censurato si riferisce. Sulla base del quale percepiva € 1.237,89 mensili per 14 mensilità. Si rammenta, infatti, che tale Ccnl è caratterizzato da una ripartizione in due sezioni. La prima dedicata alla Vigilanza privata, l’altra ai servizi Fiduciari.

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cava, quindi, la corresponsione di differenze retributive in primis in forza della clausola di armonizzazione prevista dall’art. 27 del medesimo Ccnl, in via subordinata in ragione dell’asserita violazione da parte del Ccnl, dell’art. 36 Cost., ammontando la retribuzione mensile ad € 930 per 13 mensilità. La domanda principale del ricorrente viene rigettata sulla base di un’interpretazione letterale dell’art. 27 del Ccnl. La norma, effettivamente, prevede, sì, la conservazione del trattamento economico applicato in precedenza al lavoratore, ove migliorativo, ma, osserva il giudice, solo in caso di prima applicazione del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari da parte dell’impresa. Tale espressione alluderebbe, ad avviso del giudice, alla volontà delle parti di regolamentare per l’appunto una sola volta la predetta armonizzazione a beneficio dei dipendenti già in forze, nel momento in cui un’impresa dovesse abbandonare il precedente contratto collettivo per applicare, in ragione del cambio appalto, il Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari per la prima volta e non “ad ogni occasione di ingresso nell’area di applicazione del Ccnl Vigilanza Privata”. Va detto che tale interpretazione, nata da un limite espositivo della clausola (il riferimento alla “prima applicazione” del Ccnl) ma difficilmente conciliabile con la ratio stessa delle clausole di armonizzazione nell’ambito degli appalti, non incide in misura rilevante sull’esito complessivo della controversia. Il giudice torinese, infatti, accoglie la domanda subordinata del ricorrente, statuendo che il carattere rappresentativo delle associazioni firmatarie del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari (sul fronte sindacale Cgil e Cisl) non possa determinare automaticamente la compatibilità del trattamento retributivo ivi previsto con l’art. 36 Cost. Tesi, quest’ultima, su cui la società convenuta aveva costruito la propria difesa. Ad avviso del giudice, infatti “la consistenza dello scostamento tra la retribuzione erogata al ricorrente e quella che egli avrebbe percepito per lo svolgimento delle stesse mansioni con lo stesso orario di lavoro in forza degli altri contratti collettivi applicabili appare senza dubbio idonea a far cadere la presunzione di conformità all’art. 36 di cui la prima gode in ragione del fatto di essere corrispondente a quella prevista dall’articolo 23 della sezione Servizi Fiduciari del Ccnl Vigilanza, la quale è stata a sua volta concordata da organizzazioni sindacali che possono certamente qualificarsi come maggiormente rappresentative”.

2. L’art. 36 Cost. nella lettura giurisprudenziale consolidata. Prima di entrare nel merito del percorso argomentativo seguito dal giudice di Torino al fine di richiamarne i profili di interesse, si ritiene utile dare brevemente conto del quadro giurisprudenziale in cui si colloca la pronuncia. a. Assumendo quale presupposto l’immediata precettività dell’art. 36 Cost., la giurisprudenza maggioritaria da oltre cinquant’anni individua nel minimo retributivo sancito dal Ccnl applicabile in forza dell’art. 2070 c.c., ossia in ragione dell’attività produttiva ef-

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fettivamente svolta dal datore di lavoro4, il parametro di compatibilità della retribuzione definita in sede individuale con il principio costituzionale di proporzionalità e sufficienza5. Tale interpretazione, comunque non sfuggita alle critiche della dottrina6, può dirsi oggi consolidata7. Il vaglio di compatibilità ha tradizionalmente riguardato il trattamento individuale accordato dal datore ed ha condotto, nel rispetto del principio di conservazione di cui all’art. 1419, comma 2, c.c., alla sostituzione della clausola ritenuta nulla per violazione del precetto costituzionale con il trattamento retributivo individuato dal giudice. Il meccanismo attraverso il quale ciò è avvenuto è sancito all’articolo 2099, comma 2, c.c., anche se, come osservato da Giuseppe Pera, si tratta di uno strumento richiamato “solo subordinatamente” quasi a giustificare un intervento giudiziale così incisivo8, espressione, citando Gino Giugni, di una “scelta politica di deliberata supplenza del giudiziario all’inerzia del legislatore”9. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, cioè, l’art. 2099, comma 2, c.c. legittima la determinazione discrezionale della retribuzione da parte del giudice che, a tale fine, non può prescindere dai minimi retributivi previsti dal contratto nazionale di categoria, indipendentemente dall’associazione di datore e lavoratore alle parti sociali stipulanti10.

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L’art. 2070, comma 1, c.c. è stato considerato non applicabile ai contratti collettivi di diritto comune ma utilizzabile quale strumento di individuazione del Ccnl parametro ex art. 36 Cost.; cfr. Cass., 18 dicembre 2014, n. 26742; Cass., 13 luglio 2009, n. 16340; Cass., 5 maggio 2004, n. 8565 a partire da Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 2665. Più precisamente «il ricorso al criterio della categoria economica di appartenenza del datore di lavoro, fissato dall’art. 2070, è consentito al solo fine di individuare il parametro della retribuzione adeguata ex art. 36 Cost., quando non risulti applicato alcun contratto collettivo, e sia dedotta l’inadeguatezza della retribuzione contrattuale ex art. 36 Cost. citato rispetto alla effettiva attività lavorativa esercitata» (Cass., 29 dicembre 2006, n. 27610 nonché i precedenti dalla stessa citati). 5 Sul rapporto tra i due principi sanciti all’art. 36 Cost. si rinvia alla ricca dottrina citata infra n. 5 che, come ricorda Ichino, unitamente alla giurisprudenza ha dato al principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità della prestazione lavorativa «un’applicazione meno incisiva e univoca» rispetto alla parte relativa alla “sufficienza” della retribuzione; cfr. Ichino, La nozione di giusta retribuzione nell’articolo 36 della costituzione, in RIDL, 2010, I, 719. 6 Cfr. Pera, La giusta retribuzione dell’art. 36 della Costituzione, in DL, 1953, I, 99 secondo il quale l’art. 36 Cost., così come gli artt. 41, 43 e 44 Cost., contiene un principio informatore che, nel caso della retribuzione, è costituito dalla necessità che il salario sia sufficiente a soddisfare «le esigenze della personalità umana». 7 In dottrina si vedano ex multis Bellomo, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Giappichelli, 2002; Bellomo, Art. 36, in Amoroso-Di Cerbo-Maresca, Diritto del lavoro, I, Giuffré, 2017; D’antona, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, 1986, in D’antona, Opere, III, Giuffré, 2000; Ichino, La nozione di giusta retribuzione nell’articolo 36 della Costituzione, RIDL 2010, I, 719; Nogler-Brun, Art. 36 Cost., in De Luca Tamajo-Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, 2018; Pascucci, La giusta retribuzione nei contratti di lavoro, oggi, relazione Aidlass 2018; Pera, La giusta retribuzione dell’art. 36 della Costituzione, in DL, 1953, I, 99; Zoppoli L., La retribuzione, in Curzio-Di Paola-Romei, Diritti e doveri nel rapporto di lavoro, Giuffré, 2018,327 e ss. 8 Pera, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, MGL 1961, 416. 9 Giugni, Prefazione a De Cristofaro, La giusta retribuzione, Il Mulino, 1971; 10 Il giudice rimane comunque libero di utilizzare parametri diversi quali l’equità (Cass., 28 agosto 2004, n. 17250), il tipo e la natura dell’attività svolta, le condizioni di mercato (Cass., 5 luglio 2002, n. 9759) purché ricorra a dati ufficiali o generalmente riconosciuti e non alla propria scienza privata «con l’effetto di riduzioni tranchantes e non motivate, che potrebbero risolversi, per la loro entità, in una violazione dell’art. 36 Costit.; né a diffuse percezioni che in alcune regioni, prevalentemente del Sud, alle quali devono aggiungersi anche alcune enclaves del Nord, il potere di acquisto della moneta è maggiore della media nazionale, sulla quale sono parametrati i contratti collettivi nazionali di lavoro di diritto comune» (Cass., 26 luglio 2001, n. 10260). Sulla ricostruzione dei fattori esterni in grado di incidere, secondo la giurisprudenza, sull’adeguamento dei minimi al caso concreto cfr. Pascucci, cit. Quanto all’onere della prova, il lavoratore che lamenta la violazione dell’art. 36 Cost. deve provare solo l’entità della retribuzione e non anche l’insufficienza della stessa poiché sarà il giudice a valutarne la compatibilità con l’art. 36 Cost. (Cass., 4 giugno 2002, n. 8097; Cass., 10 aprile 2000, n. 4523).

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b. Inevitabile conseguenza dell’esercizio del sindacato di compatibilità costituzionale del trattamento retributivo è la necessità di tracciare i margini del cosiddetto minimo costituzionale prevedendo, il contratto collettivo, trattamenti economici ulteriori rispetto al c.d. tabellare. Ebbene, la giurisprudenza ha attratto entro i confini della tutela costituzionale imposta dall’art. 36 Cost. la retribuzione di base, l’indennità di contingenza e la 13ª mensilità escludendo quindi compensi aggiuntivi, indennità accessorie, scatti di anzianità e altre mensilità aggiuntive11. Si tratta di una lettura che da ultimo richiede un ulteriore coordinamento con quanto pattuito nel c.d. Patto per la fabbrica del 2018, con cui le parti sociali hanno per la prima volta regolato il Trattamento economico complessivo e il Trattamento economico minimo. Inserendosi nell’ambito dell’ampio dibattito sul salario minimo legale12, oggetto di un recente disegno di legge ancora al vaglio parlamentare13, la Triplice e Confindustria hanno ribadito con nettezza ruolo e funzioni della contrattazione nazionale (ergo delle parti sociali) in materia retributiva. In particolare, sia sufficiente in questa sede ricordare che le parti hanno rimesso alla contrattazione nazionale la definizione del TEC, inteso come comprensivo, oltre al TEM, di tutte le ulteriori voci economiche che il CCNL qualifica come «comuni a tutti i lavoratori del settore»14, comprensivi quindi di eventuali forme di welfare. Il TEC è quindi il risultato di «una miscela di elementi definiti in sede nazionale, uguali per tutti, e di elementi quantificati in sede aziendale, diversi da

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Cass., 9 giugno 2017, n. 14457; Cass., 23 dicembre 2016, n. 26925; Cass., 4 settembre 2012, n. 14830. La giurisprudenza ha, invece, escluso dai confini dell’art. 36 Cost. il compenso per lavoro straordinario inferiore a quello erogato per l’orario ordinario (Cass., 24 marzo 2004, n. 5934), il compenso (un premio di produzione) collegato alle mere modalità di esecuzione della prestazione (Cass., 9 agosto 2003, n. 12054) sulla base del presupposto che «principio che la garanzia apprestata dall’art. 36 Cost., a tutela della qualità del lavoro prestato dal lavoratore subordinato, non copre tutto il trattamento economico del dipendente, ma si riferisce alla retribuzione che, nell’ordinario sinallagma contrattuale, è destinata a compensare la prestazione lavorativa eseguita nella normalità delle situazioni»; parimenti si è ribadito che al giudice non sia consentito valutare la sufficienza e le proporzionalità del trattamento economico parametrandolo alla retribuzione percepita da altri lavoratori della stessa impresa, seppure per le stesse mansioni, non conoscendo il nostro ordinamento un principio di parità di trattamento retributivo. (Cass., 10 aprile 2006, n. 8310). 12 Questa parte del Patto per la fabbrica, dal contenuto maggiormente innovativo, nasce dalla volontà degli attori sociali di assumere formale posizione nell’ambito del dibattito sul c.d. salario minimo legale, benché, si è osservato, anche un intervento legislativo in materia dovrebbe comunque valorizzare il più possibile «il ruolo dell’autonomia collettiva “qualificata” dalla maggiore rappresentatività comparata, qui ponendosi ovviamente il grave problema della sua misurazione e della definizione degli ambiti di riferimento», così Pascucci, cit. In realtà vi è chi ha sostenuto che l’accordo abbia subito proprio la «pressione delle proposte bipartisan di introduzione di un salario minimo che le parti sociali, soprattutto i sindacati, non vedono di buon occhio» ragion per cui, di fatto, il contenuto dell’accordo non fa che ridursi a “minimo comune denominatore” sul quale le parti avrebbero potuto concordare. In questi termini si esprime Garnero, Patto per la fabbrica. Al minimo sindacale, lavoce.it, 2 marzo 2018. Sulla delicata materia del salario minimo e della sua fonte di previsione si vedano gli scritti di Bavaro, Il salario minimo legale fra Jobs Act e dottrina dell’austerità, QRS, n. 4, 61 ss., 2015; Id., Reddito di cittadinanza, salario minimo legale e diritto sindacale, RDSS, 169 ss., 2014; Id, Il salario minimo legale e le relazioni industriali. www.ildiariodellavoro.it., 22 ottobre 2014. 13 Il disegno di legge numero S. 658, ancora in corso di esame presso l’XI Commissione permanente in Senato, all’art. 2 sancisce «Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 1 il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore in cui opera l’impresa, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale ai sensi dell’articolo 4, comma 5, della legge 30 dicembre 1986, n. 936, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, all’attività svolta dai lavoratori in maniera prevalente. Il trattamento economico minimo orario comprensivo della tredicesima mensilità previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro non può comunque essere inferiore a 9 euro lordi». 14 Aggiunge, poi, all’art. 5, lett. F, dell’accordo: «Il contratto collettivo nazionale di categoria avrà cura di evidenziare in modo chiaro la durata e la causa di tali trattamenti economici e il livello di contrattazione a cui vengono affidati dovendosi, comunque, disciplinare, per i medesimi trattamenti, gli eventuali effetti economici in sommatoria fra il primo e il secondo livello di contrattazione collettiva».

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azienda ad azienda»15. Quanto al c.d. TEM, invece, le parti concordano che lo stesso sia composto dai “minimi tabellari” la cui variazione, avvenuta secondo le regole condivise, per norma o prassi, nei singoli CCNL, sarà determinata dagli scostamenti registrati nel tempo dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi membri della Comunità europea, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, come calcolato dall’Istat, ossia il c.d. IPCA16. A seconda dei processi di trasformazione od innovazione organizzativa il Ccnl è comunque abilitato ad apportare modifiche ai TEM. La distinzione tra TEM e TEC, dotata di “rigore geometrico”, parrebbe voler «segnare il limite tra la retribuzione/“obbligazione sociale” e la eccedente quota di “retribuzione-corrispettivo”»17. Se da un lato il TEM corrisponderebbe al “minimo costituzionale”, individuato in giurisprudenza, il TEC comprenderebbe il TEM nonché altri emolumenti qualificati dal Ccnl come «comuni a tutti i lavoratori del settore», ivi comprese per l’appunto le forme di welfare18. A quest’ultimo riguardo è stato osservato come tale previsione consenta così di chiarire due dubbi di rilievo: non solo stabilisce che le eventuali forme di welfare vadano escluse dalla retribuzione costituzionalmente garantita, ma aggiunge che il Ccnl potrà renderle obbligatorie per il datore di lavoro19. c. Non esistendo, allo stato, un obbligo assoluto di adeguamento al contratto collettivo ma essendo tale opzione un’espressione della valutazione dei giudici (di merito)20 questi ultimi hanno da sempre rivendicato la libertà di discostarsi dal c.d. minimo tabellare, sia incrementandolo sia riducendolo, a seconda delle specificità del caso vagliato; resta ferma, peraltro, la necessità di motivare dette opzioni fondandole su elementi “quali la quantità e

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Dell’aringa, Relazioni industriali alla prova del dopo-elezioni, lavoce.info, 13 marzo 18. Secondo Ichino, Quel patto poco utile per la fabbrica, lavoce.info, 10 aprile 2018, «il Patto sancisce formalmente la fine dell’opposizione della Cgil al sistema di indicizzazione basato sull’IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato, al netto dei prezzi dell’energia importata), concordato da Cisl, Uil e Confindustria da quasi un decennio», ossia con l’accordo separato del 2009. In cambio di tale concessione, però, «la Cgil ottiene un sostanziale rafforzamento della funzione del contratto collettivo nazionale: mentre l’accordo interconfederale del 2011 riconosceva alla contrattazione aziendale il potere di derogare rispetto al Ccnl praticamente su tutto, salvi i minimi salariali, ora invece si torna ad affidare al Ccnl stesso la funzione di delimitare questa possibilità di deroga, anche in modo più restrittivo. Per questo aspetto, il Patto per la fabbrica segna un arretramento rispetto all’evoluzione legislativa: l’articolo 51 del decreto legislativo n. 81/2015 ora parifica il potere dispositivo della contrattazione aziendale o territoriale rispetto a quella di livello nazionale». 17 Tursi, Retribuzione, previdenza, welfare: nuove variazioni sul tema, relazione AIDLASS, Palermo, 17-19 maggio 2018. 18 Secondo Tursi, cit. «Il richiamo al “welfare contrattuale” o “integrativo”, peraltro, va inteso ampiamente come sinonimo di “previdenza contrattuale”: com’è testualmente reso manifesto dal riferimento alla “previdenza complementare”, all’”assistenza sanitaria integrativa”, alla “tutela dell’autosufficienza”, e alle “prestazioni di welfare sociale e per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”; e più in generale, dal fatto che l’accordo si apre generosamente alla prospettiva sistematica di una previdenza complementare che assurge a “elemento qualificante del nostro sistema di protezione sociale”». 19 cfr Martone, Retribuzione e struttura della contrattazione collettiva, relazione AIDLASS, Palermo, 17-19 maggio 2018, secondo il quale: «sotto altro profilo, questa distinzione potrebbe assumere rilievo de iure condendo, qualora ad esempio il legislatore dovesse decidere di ancorare la corresponsione di qualsiasi beneficio pubblico al rispetto del Tem disciplinato dal contratto collettivo nazionale di categoria stipulato da sindacati comparativamente più rappresentativi. In questo modo si assicurerebbe comunque un sostegno alla contrattazione collettiva nazionale comparativamente più rappresentativa, reprimendo il dumping salariale, senza dover necessariamente arrivare all’emanazione di una legge sindacale e senza cedere alla tentazione di una legge sul salario minimo. Che è poi l’obiettivo perseguito sottotraccia dalle parti sociali». 20 Si tratta di un orientamento più che consolidato, risalente agli anni ’50, e seguito ancora oggi dalla giurisprudenza seppure con la precisazione che esso è espressione di una facoltà e non un obbligo del giudice di merito che può, infatti, avvalersi anche di criteri differenti. Per una ricca ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali si veda Giasanti, Sub art. 36 Cost., in Codice commentato del lavoro, Ipsoa, 2019. 16

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qualità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell’azienda”21od “alle reali condizioni del mercato del lavoro”22: tutte considerazioni che, adeguatamente motivate, esprimono un apprezzamento del giudice di merito insindacabile in Cassazione23.

3. Un fenomeno più recente: quando a non rispettare l’art.

36 Cost. è il CCNL.

Si è già avuto modo di accennare al fatto che la giurisprudenza in materia di art. 36 Cost. e minimi tabellari abbia tradizionalmente riguardato la compatibilità del compenso quantificato nel contratto individuale con il precetto costituzionale, ergo con il Ccnl applicabile in forza dell’art. 2070 c.c.24. Diversa ipotesi, assai più recente, attiene invece al più delicato giudizio sul rispetto dei principi di proporzionalità e sufficienza da parte dello stesso Ccnl. In tal caso, cioè, la retribuzione individuale è conforme al minimo tabellare previsto dal Ccnl ma è quest’ultimo ad essere valutato dal giudice in ragione di una lamentata violazione del 36 Cost. Tale fattispecie pone il giudice nella non agevole condizione di sindacare l’operato delle parti sociali e la loro capacità di adeguatamente perseguire gli interessi dei lavoratori sull’importante fronte retributivo (esponendosi così ad inevitabili critiche sul ruolo “sostitutivo”)25 nonché – più specificamente – decidere quale sia la sorte della norma collettiva censurata. È noto che le sentenze in passato pronunciatesi a margine di una norma contrattuale collettiva hanno coinvolto principalmente il mondo cooperativo, in particolare il contratto

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Cass., 28 agosto 2004, n. 17250; Cass., 26 luglio 2001, n. 10260. È anche possibile che il datore di lavoro dimostri la inadeguatezza, in eccesso, delle retribuzioni contrattualmente previste in considerazione di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass., 18 marzo 2004, n. 5519 con cui la Corte richiama i propri precedenti secondo i quali «nell’accertamento della giusta retribuzione, il giudice, nell’ambito di particolari limiti», può anche «discostarsi (in riduzione) dai minimi salariali stabiliti dal contratto collettivo (che, non direttamente applicabile, egli ritenga di applicare come parametro), ove ritenga che questi non siano adeguati alle condizioni soggettive ed oggettive dedotte in controversia (Cass., 26 luglio 2001, n. 10260). E tuttavia, colui che tanto invochi, ha l’onere di indicare gli elementi di questa inadeguatezza». A questo riguardo e più precisamente sulla necessità che il salario minimo venga adeguato in ragione delle condizioni del mercato territoriale si vedano le riflessioni critiche di Ichino, La nozione di giusta retribuzione nell’articolo 36 della Costituzione, Relazione di Pietro Ichino al Convegno promosso dall’Accademia dei Lincei Roma, 22-23 aprile 2010. 22 Cass., 22 agosto 1997, n. 7885; Cass., 23 novembre 1992, n. 12490; Cass., 15 maggio 1990, n. 4147. 23 Recentemente Cass., 1 febbraio 2019, n. 3137 che ha per l’appunto ribadito che ove il giudice «ritenga inadeguata la retribuzione corrisposta dall’azienda in base al contratto da essa applicato, può procedere al suo adeguamento facendo riferimento a quella del contratto di categoria non direttamente applicabile, con la precisazione che nella domanda di pagamento di differenze retributive sulla base di un contratto collettivo che si riveli inapplicabile deve ritenersi implicita la richiesta di adeguamento ex art. 36 Cost. e che l’adeguamento comporta un apprezzamento riservato al giudice di merito». 24 «Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell’art. 1419, c. 2, c.c., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36, con valutazione discrezionale» (Cass., 1 febbraio 2006, n. 2245), in virtù della previsione di cui all’art. 2099, c. 2, che comporta “l’obbligo del giudice di determinarla secondo equità e tale determinazione non può prescindere dai minimi retributivi previsti dai c.c.n.l. di categoria” (Cass., 22 giugno 2004, n. 11624). 25 Cfr. sul punto le osservazioni di Imberti, Art. 36 costituzione: in assenza di interventi legislativi, chi è l’autorità salariale?, in lavorodirittieuropa.it, 2019.

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collettivo Unci26. Proprio il Tribunale di Torino, nel 201027, statuì che il CCNL Unci non potesse ritenersi rispettoso dell’art. 36 Cost. In tale occasione il Tribunale affermò che i soci lavoratori delle cooperative rientrano in pieno nell’applicazione dell’art. 36 cost. e che, vista la pluralità dei contratti collettivi in vigore, il «giudice non può acriticamente accettare ogni indicazione contenuta in tali contratti come rispettosa dei canoni dell’art. 36 Cost.» ma deve procedere ad un raffronto tra gli stessi per valutare se vi sia una lesione dell’intangibile diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata al lavoro svolto come è espressamente previsto dal citato art. 36 cost. nonché dall’art. 3 l. n. 142/2001, e dall’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007, conv. dalla l. n. 31/2008. Ai sensi di tale ultima norma, menzionata anche nella sentenza in rassegna, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. La disposizione è stata come noto oggetto di una rilevante pronuncia della Consulta a seguito del lamentato contrasto con l’art. 39 Cost. La Corte ha, peraltro, ritenuto che la norma censurata «lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, [...] efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost.». Ad avviso della Consulta, nel settore cooperativo, il rinvio al contratto collettivo – strumento in grado di recepire l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative – ha come obiettivo primario proprio il contrasto a forme di competizione salariale al ribasso. Tale opzione normativa si mostra del resto in linea con l’indirizzo giurisprudenziale sopra ricordato che, da tempo, «ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative»28. Nella selezione del contratto collettivo, che potremmo dire connotato da “serietà” di contraenti e dei contenuti, è stata determinante per gli operatori del settore, ed altrettanto criticata, l’attività amministrativa del Ministero del lavoro che, tra gli altri atti, con la lettera

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Imberti, L’ennesimo casus belli nella disciplina del socio lavoratore di cooperativa: il trattamento economico conforme all’art. 36 costituzione e la pluralità di contratti collettivi nello stesso settore, in ADL, 2011, 695. 27 Trib. Torino, 14 ottobre 2010, in Ridl, 2011, 409 con nota di Moro. 28 C. cost., 26 marzo 2015, n. 51. Sui limiti del percorso argomentativo adottato dalla Consulta si veda Orlandini, Legge, contrattazione collettiva e giusta retribuzione dopo le sentenze 51/2015 e 178/2015 della Corte costituzionale, in LD, 2018, 7, secondo il quale sarebbe opportuno offrire della sentenza, ed in particolare del richiamo alla giurisprudenza sull’art. 36 Cost., una lettura più articolata, non semplificatrice poiché «nel richiamare la giurisprudenza di legittimità la Corte omette però di considerare come in essa l’utilizzo del Ccnl quale parametro esterno sia variamente declinato e non pienamente sovrapponibile al modo con cui è stato configurato dal legislatore del 2007». Ci sarebbe insomma uno scarto sostanziale tra quanto prescrive la normativa sui soci lavoratori oggetto del sindacato di costituzionalità e quanto afferma la Cassazione nella sua giurisprudenza sui minimi retributivi.

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circolare del 201229, ha affermato che l’unico contratto collettivo nazionale da prendere come riferimento ai fini dell’individuazione della base imponibile contributiva30 nel settore cooperativo è il contratto collettivo nazionale sottoscritto da CGIL, CISL e UIL, Legacoop, Confcooperative. In relazione alla vicenda del contratto collettivo Unci la valutazione ex art. 36 Cost. è, quindi, inscindibilmente connessa alla rappresentatività delle parti sociali stipulanti. Nel caso che ci occupa, invece, il giudice è stato chiamato a valutare una norma contrattuale collettiva contenuta in un Ccnl firmato da sindacati pacificamente rappresentativi (Cgil e Cisl), nello specifico settore della vigilanza non armata (il portierato). A questo riguardo l’unico precedente giurisprudenziale, a quanto costa, è una sentenza del Tribunale di Milano del 2016, confermata dalla Corte d’appello milanese, dichiarativa della “illegittimità” dell’art. 23 della sezione servizi Fiduciari del Ccnl Vigilanza privata e Servizi fiduciari in materia di trattamento retributivo, perché lesivo dell’art.36 Cost31. Nella vicenda valutata dai giudici milanesi, anch’essa collocata nell’ambito di un avvicendamento tra appaltatori, il lavoratore, pur espletando negli anni le medesime mansioni, si era visto corrispondere retribuzioni progressivamente deteriori in ragione dei differenti Ccnl applicati dai datori volta per volta subentrati, sino ad arrivare ad un dimezzamento del compenso. Accertata la conservazione delle medesime mansioni nel corso dei frequenti cambi appalto, e dopo una rapida disamina dei minimi tabellari previsti dai Ccnl applicati del settore, il Tribunale di Milano aveva sinteticamente statuito che un lavoratore che presti servizio a tempo pieno “non possa dirsi tutelato da una retribuzione che preveda una paga oraria di €4,40954”che “manifestamente non è sufficiente a fargli condurre un’esistenza dignitosa e a far fronte alle ordinarie necessità della vita” senza motivare ulteriormente la propria pronuncia di illegittimità e conseguente condanna.

4. La sentenza del Tribunale di Torino. Tratti di novità. La sentenza in commento si distingue dai precedenti milanesi sopracitati per un percorso argomentativo articolato, fondato su una approfondita comparazione tra i contratti collettivi applicati nel settore della vigilanza non armata e su una ricca escussione testimoniale dei funzionari delle associazioni sindacali e imprenditoriali, alla ricerca, a dire dello stesso giudice, delle “ragioni esterne” che hanno indotto alla sottoscrizione e, quindi, di strumenti di interpretazione contrattuale. Il Giudice torinese avvia la propria analisi da una questione rilevata d’ufficio (in quanto “logicamente preliminare”) ossia dall’accertamento dei requisiti richiesti dall’art. 7 del d.l.

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Cfr Lettera circolare Ministero del Lavoro prot. 37/10310/MA003.A004 in data 1° giugno 2012 recante lettera circolare «sugli Osservatori sulla cooperazione prot. 37/0004610/MA003.A001 del 6 marzo 2012 criteri di individuazione dei CCNL comparativamente più rappresentativi nella categoria. Precisazioni» impugnata da Unci con ricorso respinto da TAR 7 agosto 2014, n. 8865. 30 Ai sensi dell’articolo 1 della L. n. 389 del 1989 come interpretato in via autentica ex art. 2, comma 25 della L. n. 549 del 1995. 31 Trib. Milano, 30 giugno 2016, n. 1977 cit., App. Milano, 28 dicembre 2017, n. 1885 inedita.

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Marta Giaconi

n. 248/2007 ai sensi del quale, nel settore cooperativo, il trattamento economico utilizzabile come parametro è quello previsto dal contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Una volta integrato questo requisito astrattamente idoneo a selezionare i contratti collettivi “che forniscono più garanzie di ottenere una retribuzione proporzionata”32, il datore sarebbe quindi libero di selezionare il Ccnl privilegiato, nel pieno rispetto dell’art. 39 Cost. e senz’alcun margine di intervento per il giudice. Nel caso di specie, tuttavia, tale assunto ha finito con l’essere temperato, laddove il giudice ha invece proceduto ad un’ampia valutazione giudiziale del contenuto contrattuale e, a tratti, dell’operato delle parti sociali. L’attività di verifica del requisito di rappresentatività nel caso di specie è stata agevolata dalla matrice confederale dei contraenti del Ccnl censurato. Ciononostante, il superamento di tale primo step valutativo (che in sentenza viene definito “assorbito”) non è sufficiente. Ad avviso del giudice torinese, infatti, la rappresentatività dei sindacati non determina l’“adeguatezza” delle loro scelte agli interessi dei lavoratori. Il trattamento retributivo del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari applicato al ricorrente (€ 930 mensili per 13 mensilità e 40 ore settimanali) è stato comparato con quello previsto dai Ccnl più diffusi nel settore della vigilanza non armata, ossia il Ccnl “Portierato” (€ 1276,85 per 13 mensilità e 40 ore settimanali), il Ccnl Multiservizi (€ 1237,89 per 14 mensilità e 40 ore settimanali), il Ccnl Terziario (€ 1354,26 per 14 mensilità e 40 ore settimanali) e, paradossalmente, proprio il Ccnl Unci (€ 1133,59 per 13 mensilità e 40 ore settimanali). Il confronto, di carattere matematico, non lascia esito a dubbi laddove viene accertato che il minimo tabellare previsto nel Ccnl Vigilanza privata e Servizi Fiduciari è inferiore a tutti gli altri. È principalmente da tale circostanza, ossia dalla previsione di una retribuzione inferiore ad altri contratti, che il Giudice deduce la violazione dell’art. 36 Cost., così scardinando non solo la richiamata presunzione di conformità costituzionale del Ccnl in ragione della rappresentatività dei contraenti, ma anche la conseguente presunzione di conformità costituzionale della clausola contrattuale individuale che sia rispettosa dei minimi contrattuali censurati. Ciò che forse ha rafforzato il convincimento del Giudice è anche il richiamo, da parte del ricorrente, di un parametro in grado di gettare un’ulteriore ombra sul rispetto del principio di sufficienza retributiva. Il trattamento economico del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari non è solo il più contenuto del settore ma è anche inferiore alla soglia di povertà assoluta individuata dall’Istat ratione temporis e loci (€ 984,64 nel 2015). Né gli argomenti richiamati dai testimoni escussi, a difesa della retribuzione pattuita, sono stati in grado di incidere sul convincimento del giudice. Secondo i funzionari sindacali interpellati il Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari avrebbe il pregio, in un’ottica collettiva, di offrire una disciplina omogenea ad un settore (quello della vigilanza non armata) che ne era privo, mentre da una prospettiva individuale, seppur apparentemente deteriore, conterrebbe significativi miglioramenti ove considerato nel suo complesso.

32

Trib. Torino, 14 ottobre 2010, cit.

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Giurisprudenza

Nessuna delle argomentazioni sintetizzate viene recepita in sentenza. Quanto alla volontà di normare in modo omogeneo la categoria della vigilanza non armata, il giudice sottolinea come quest’ultima beneficiasse già di altri contratti collettivi, perdipiù recanti un trattamento migliore; quanto al secondo profilo, ossia al carattere complessivamente migliorativo del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, il giudice lo ritiene non pertinente. Nel caso di specie, infatti, le condizioni normative del contratto individuale oltre ad alcune delle voci retributive33 trovavano la loro fonte nel regolamento sociale del datore e non nel Ccnl, non essendo quindi possibile procedere ad alcuna ponderazione. Accantonata la presunzione di compatibilità del 36 Cost., rigettate le “ragioni esterne della sottoscrizione” così come descritte dai testimoni, in quanto incerte e contradditorie (cfr. pag. 16), il Giudice, pur ammettendo che astrattamente sia ammissibile un sacrificio individuale a beneficio della collettività dei lavoratori, in questo caso considera il vantaggio collettivo non apprezzabile e non idoneo a legittimare, in termini di proporzionalità, la severa riduzione del trattamento economico. La sentenza si conclude con la condanna alla corresponsione delle differenze retributive esistenti tra il compenso applicato dal datore e quello previsto dal Ccnl portierato, selezionato dal Giudice quale parametro utile. Nulla viene detto, invece, quanto alla validità dell’art. 23 della sezione servizi fiduciari del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari. Si tratta di una scelta cui si è allineato anche un altro giudice della sezione lavoro torinese, nell’ambito di una controversia di poco successiva a quella in commento e che, infatti, ha visto una gestione condivisa della fase istruttoria34. Sotto questo specifico aspetto le decisioni divergono dal precedente milanese che ha anteposto alla condanna la dichiarazione di generica “illegittimità” dell’art. 23 della sezione servizi fiduciari del Ccnl Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari. In proposito ci si limita ad osservare che, parallelamente a quanto da più di cinquant’anni affermato in relazione alle clausole individuali, si potrebbe sostenere la nullità della clausola collettiva in forza dell’art. 1419, comma 2, c.c.35. A tale conclusione sembra condurre anche la Suprema Corte ove, in passato, si è trovata ad affermare che “ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, collettivo o individuale, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione espresso nell’art. 1419 c.c., comma 2, il Giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36 cit., con valutazione discrezionale. Quando però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il Giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza, e comunque con adeguata motivazione, giacchè difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”36.

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Ossia la retribuzione del lavoro diverso da quello ordinario. Trib. Torino, 18 novembre 2019, n. 1128, est. Salvatori. 35 Sulla nullità della clausola del CCNL per violazione dell’art. 36 Cost. si è pronunciato il Trib. Milano, 30 giugno 2016 cit. e in sede di gravame App. Milano, 28 dicembre 2017, n. 1885 cit.; Trib. Torino, 14 ottobre 2010, RIDL 2011, 409; App. Torino, 1 luglio 2014, inedita; Cass., 6 luglio 1988, n. 4458. 36 Cass., 1 febbraio 2006, n. 2245. 34

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Marta Giaconi

La scelta dei Giudici di Torino di non pronunciarsi ma di limitarsi a dare sostanziale disapplicazione alla norma collettiva seppure non incidendo, in termini di effettività, sull’esito concreto di condanna al pagamento delle differenze retributive, lascia comunque irrisolto il nodo della qualificazione della norma censurata e di cui il ricorrente chiedeva fosse dichiarata l’invalidità. La reazioni alla sentenza qui brevemente commentata non potranno essere tiepide. Accanto a quanti accoglieranno con favore la funzione sociale espletata dal giudice innanzi ad un trattamento retributivo non solo inferiore alla soglia di povertà assoluta ma pari quasi alla metà del salario minimo legale che vorrebbe essere introdotto per legge37 vi saranno senz’altro molte critiche. È infatti innegabile che nel caso in esame l’apprezzamento del giudice nell’ambito della valutazione di compatibilità ex art. 36 Cost. abbia raggiunto notevole ampiezza, andando ben oltre l’applicazione di quello che è l’unico criterio selettivo cristallizzato dalla legge: la rappresentatività delle associazioni firmatarie38. Marta Giaconi

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Ci si riferisce al già citato ddl sul salario minimo legale. Si veda non solo l’art. 7 d.l. n. 248/2007 ma anche l’art. 30 d.lgs. n. 50/2016.

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Giurisprudenza Truibunale di M ilano , 5 agosto 2019; Pazienza – Iniziali Pi. El (avv. De Marchis, C. Correnti, D. Graziani, G. Pividori) c. F. C. s.p.a. (avv. C. Morpurgo, A. Menicatti). Licenziamenti – Tutele crescenti – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Violazione – Questione pregiudiziale – CDFUE – Carta sociale europea – Dir. 98/59/CE – Dir. 99/70/CE.

Posto che l’approvazione del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 ha generato, a decorrere dal 7 marzo 2015, un duplice concorrente sistema di tutela dei licenziamenti collettivi, dando ingresso, per i rapporti trasformati o costituiti dopo tale data, ad una sistema sanzionatorio sostanzialmente deteriore, va disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea sui seguenti quesiti 1) “Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 della direttiva 99/70/CE sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normative dell’art. 1, secondo comma e dell’art. 10 del D.lgs 23/15 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015”; 2) “Se le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’art. 10 del d.lgs 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, la reintegrazione nel posto di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione”.

I fatti di causa In data 19 gennaio 2017, la Consulmarketing s.p.a. ha avviato una procedura di licenziamento collettivo ex art. 4 della Legge 23 luglio 1991 n. 223 che ha interessato 350 lavoratori. A conclusione della procedura la ricorrente è stata licenziata unitamente ai colleghi di lavoro. Sia nella fase sommaria che nella fase di opposizione, i licenziamenti intimati dalla Consulmarketing s.p.a., nella medesima procedura e riguardanti posizioni lavorative analoghe a quelle della ricorrente, con la sola differenza rappresentata dalla data di assunzione,

sono stati dichiarati illegittimi e i lavoratori sono stati reintegrati nel posto di lavoro ottenendo il risarcimento del danno. La Corte di Appello di Milano adita dalla Consulmarketing s.p.a. con la sentenza 20 novembre 2018 n. 1864 ha confermato l’orientamento della sezione lavoro del Tribunale di Milano ribadendo l’obbligo per la Consulmarketing di reintegrare i colleghi della Pintes nel posto di lavoro precedentemente ricoperto. Con ricorso ex art. 1, 48 co. legge 92/12 caratterizzato dal n. R.G. 2188/2018 anche E. P. ha adito il Tribunale di Milano, unitamente ad altri colleghi di lavoro


Giurisprudenza

coinvolti nella medesima procedura di licenziamento collettivo, al fine impugnare il licenziamento intimatole dalla Consulmarketing s.p.a. in particolare censurando il criterio di scelta che non ha considerato lavoratori adibiti a mansioni omogenee e compatibili. In tale giudizio il Tribunale di Milano ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro di tutti i ricorrenti che avevano impugnato il licenziamento con la sola eccezione della P., nei confronti della quale, è stata ritenuta inapplicabile la tutela dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in ragione della data di stabilizzazione del rapporto, avvenuta dopo il 7 marzo 2015: in particolare il Giudice della fase sommaria ha dichiarato la inammissibilità del ricorso per erroneità del rito, in quanto la ricorrente avrebbe dovuto formulare le proprie domande con un ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c. e non con un ricorso secondo i dettami del c.d. Rito Fornero. La P. ha promosso un giudizio di opposizione nel quale ribadisce la violazione dei criteri di scelta operata dalla ex datrice di lavoro ed il diritto alla reintegrazione, evidenziando il possibile conflitto con i principi e le norme del diritto comunitario ed i profili di criticità costituzionale del difforme trattamento che caratterizza la medesima azione di impugnativa di un licenziamento intimato nell’ambito della stessa procedura derivante esclusivamente dalla data di assunzione. La società Consulmarketing s.p.a. si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto delle domande della ricorrente. Alla prima udienza di comparizione il Giudicante, ritenuta l’opportunità di discutere preliminarmente le questioni pregiudiziali sollevate nel ricorso, differiva l’udienza concedendo un termine per note. Nelle more del giudizio, la società Consulmarketing s.p.a. veniva dichiarata fallita dal Tribunale di Milano proseguendo l’attività imprenditoriale in una prospettiva di cessione del ramo di azienda che in effetti si è realizzata nel corso del giudizio. Una volta riassunto il giudizio nei confronti della Consulmarketing in Fallimento, il Giudicante ha rinnovato il termine per note fissando l’udienza per la discussione. In data antecedente al 11.07.2019 si sono costituiti in giudizio con un intervento volontario a sostegno delle tesi di parte ricorrente le organizzazioni sindacali Filcams Cgil e Cgil. La rilevanza delle questioni sottoposte alla attenzione del Giudicante La presente controversia afferisce ad un licenziamento collettivo rispetto al quale trovano pacifica applicazione gli art. 1, secondo comma e 10 del D.lgs 4 marzo 2015 n. 23. Alla ricorrente, infatti, originariamente assunta con un contratto di lavoro a termine in data antecedente al 7 marzo, ossia in data 14 gennaio 2013, è stata disposta una trasformazione del contratto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato in data successiva, con conseguente applicazione della disciplina del cd. contratto di lavoro a tutele crescenti

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La data di costituzione del rapporto determinerebbe l’applicazione del regime previsto dall’art. 18 Stat. Lav., in quanto antecedente al 7 marzo 2015: tuttavia la circostanza che il rapporto di lavoro sia stato trasformato a tempo indeterminato in data 31.03.2015, ossia in una data successiva al 7 marzo 2015 impone l’applicazione della nuova normativa in forza della previsione del secondo comma dell’art. 1 che estende ai rapporti di lavoro trasformati il campo di applicazione della nuova disciplina. Il riferimento temporale introdotto dal d.lgs. 23/15 rileva direttamente ai fini della decisione della controversia, in quanto la data di costituzione del rapporto e la conversione del rapporto determinano la scelta del regime normativo applicabile (omissis). Gli strumenti di tutela previsti dal Legislatore italiano nell’ambito dei licenziamenti collettivi oggetto della direttiva 98/59/CE rilevanti nella fattispecie in esame. L’evoluzione normativa sui modelli sanzionatori in caso di licenziamenti collettivi ha determinato, allo stato attuale, la coesistenza di tre regimi profondamente diversi tra loro, che in astratto possono trovare contestuale applicazione in una medesima procedura di licenziamento collettivo.. Per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti fino al 7 marzo 2015 trova, infatti, applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che assicura ai lavoratori, in caso di violazione dei criteri di scelta, la tutela reale rappresentata dalla reintegrazione nel posto di lavoro (omissis). Nella ipotesi, invece, di violazione delle procedure, l’art. 5 della legge 223/1991 già citato richiama il terzo periodo del settimo comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori , il quale a sua volta rinvia al quinto comma dell’art. 18 riconoscendo al lavoratore una sanzione parametrata sulla retribuzione globale di fatto variabile da 12 a 24 mensilità. Per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti a decorrere dal 7 marzo 2015 e comunque per i rapporti di lavoro a termine convertiti a far tempo da tale data, come nel caso che ci occupa, trova, viceversa, applicazione l’art. 10 della legge 4 marzo 2015 n. 23 (omissis). Orbene, con sentenza n. 194 del 26.9.2018, depositata il successivo 8.11.2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, D. Lgs. 23/2015 , sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” (omissis). La disciplina del 2015 a sua volta ha subito, per effetto del Decreto legge del 12.07.2018 n. 87, convertito con modificazioni nella Legge n. 96 del 9.08.2018, una ulteriore modifica del sistema sanzionatorio che prevede per i rapporti di lavoro cessati


Barbara De Mozzi

a decorrere dalla sua entrata in vigore (13 luglio 2018) una sanzione variabile tra un limite minimo di sei ed un limite massimo di trentasei mensilità (omissis). A ciò deve aggiungersi che il parametro di riferimento nel primo modello è rappresentato dalla retribuzione globale di fatto, mentre, negli altri due modelli, è costituito dalla retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto che, ai sensi dell’art. 2120 c.c., può essere anche fortemente ridimensionata, in quanto l’individuazione delle voci computabili ai fini di tale istituto è rimessa alla contrattazione collettiva. La tutela indennitaria, inoltre, è ancorata alla retribuzione da ultimo percepita dal lavoratore, assicurando in tal modo una tutela soggetta a forti limitazioni a causa delle lungaggini che caratterizzano notoriamente il sistema giudiziario italiano: i lunghi tempi di definizione sono posti totalmente a carico del lavoratore che neppure può fruire della tutela più rapida prevista per gli altri identici licenziamenti assoggettati al rito di cui all’art. 1, co. 48 della legge 92/12. La procedura di licenziamento collettivo che ha interessato la Consulmarketing s.p.a. consente a tutti i lavoratori del Fallimento Consulmarketing s.p.a. di richiedere ed ottenere ( anzi hanno già ottenuto) l’istituto della reintegrazione, con la sola eccezione della ricorrente che nell’attuale assetto normativo può rivendicare un indennizzo ricompreso tra 4 e 24 mensilità (la cui individuazione è rimessa alla discrezionalità del Giudicante, il quale deve tener conto in modo prioritario del parametro della anzianità di servizio, nonché degli ulteriori parametri rappresentati delle dimensioni dell’azienda, del numero dei dipendenti del comportamento delle parti così come previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018), in quanto il licenziamento comminato ed impugnato è antecedente alla entrata in vigore del decreto legge n. 87/18, senza alcuna possibilità di ottenere una ricostituzione della posizione previdenziale (omissis). I principi di effettività, adeguatezza e deterrenza della sanzione per violazioni di diritti fondamentali di matrice comunitaria: l’art. 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 24 della Carta sociale europea e la direttiva 98/59/CE Nell’esaminare il diritto dell’Unione in materia di licenziamenti, va ricordato che l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea recita così: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. L’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea impone, quindi, di prevedere nei confronti dei licenziamenti una tutela, assunta a valore di diritto fondamentale, che deve essere conforme al diritto dell’Unione sulla base di un rinvio alle legislazioni nazionali. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione costituisce fonte di diritto dell’Unione in conformità al richiamo contenuto nell’art. 6 del Trattato dell’Unione

che le attribuisce lo stesso valore giuridico del Trattato. L’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali riconosce al lavoratore un diritto pieno, immediatamente rivendicabile con efficacia orizzontale nei rapporti giuridici nei quali trova applicazione, non limitandosi ad affermare un principio operante solo sul piano esegetico “ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”, ai sensi dell’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali. Il diritto alla tutela dell’art. 30 opera a tutela di tutte le tipologie di licenziamento, stante la competenza dell’Unione ad intervenire con propri atti normativi su tale materia per effetto dello specifico rinvio contenuto nell’art. 153.1.d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) nell’ambito delle azioni in tema di politica sociale. La specifica disciplina dei licenziamenti collettivi rientra certamente nell’alveo dispositivo del diritto dell’Unione, la quale, sul punto, ha da tempo esercitato la propria potestà normativa con l’approvazione della direttiva 98/59/CE attuata in Italia con la Legge 23 luglio 1991 n. 223. La materia dei licenziamenti collettivi, ivi compresa, quindi, anche la valutazione dell’adeguatezza della tutela, rientra, pertanto, per effetto dell’adozione dello specifico atto normativo, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori., così come modificato dall’art. 1, co. 46 della legge 92/12 e l’art. 10 del D.lgs 4 marzo 2015 n. 23 costituiscono le due specifiche discipline che sanciscono il livello di tutela assicurato ai lavoratori dalla normativa attuativa del diritto dell’Unione (omissis). L’art. 10 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 introduce una nuova e concorrente disciplina di tutela avverso i licenziamenti collettivi, intervenendo su una materia attratta nelle competenze dell’Unione, che può trovare concreta applicazione solo ove sia compatibile con i diritti assicurati ai singoli dal Trattato e risponda allo stesso tempo ai parametri di legittimità e compatibilità dei principi fondamentali dell’Unione (cfr. art. 52, 5° co. della CdfUE). Ricondotti i licenziamenti collettivi nell’ambito della tutela assicurata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, si osserva che tale diritto deve essere assicurato “conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. La tutela avverso i licenziamenti aventi una rilevanza nell’ambito del diritto comunitario si attua, pertanto, attraverso un duplice rinvio a sistemi normativi (omissis). Assume, quindi, rilevanza anche per il legislatore nazionale che intenda disciplinare le conseguenze di un licenziamento collettivo il contenuto della tutela stabilita in tale sistema, caratterizzata da effettività, adeguatezza e dissuasività, nonché il rispetto del principio di uguaglianza e di non discriminazione, elementi entrambi sanciti dagli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione che, in quanto principi fondamentali, non possono essere disattesi in sede di esercizio della potestà normativa da parte del Legislatore nazionale

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Giurisprudenza

Ai fini della individuazione del contenuto minimo del “diritto alla tutela” nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione assumono una valenza essenziale le dichiarazioni condivise dai paesi membri, le cd. “Spiegazioni” (2007/C 303/02), allegate alla Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione in occasione della stipula (omissis). L’art. 52, settimo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione impone, infatti, ai giudici dell’Unione e degli Stati di tenere “nel debito conto” le Spiegazioni elaborate al fine di fornire orientamenti per l’interpretazione della Carta. Le Spiegazioni costituiscono conseguentemente il parametro di riferimento per interpretare le norme di matrice comunitaria e per applicarle al livello nazionale. “La Spiegazione” allegata all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione chiarisce che “Questo articolo si ispira all’articolo 24 della Carta Sociale riveduta”. Il contenuto della tutela del diritto fondamentale sancito dall’Unione deve quindi ispirarsi e non porsi in chiave antinomica rispetto al parametro del “congruo indennizzo”, o di “altra misura adeguata”, sancito dall’art. 24 della Carta Sociale Europea (omissis). Il richiamo alla Carta Sociale Europea, contenuto sia nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione che nelle Spiegazioni allegate all’art. 30, non può non essere riferito anche al percorso ermeneutico che viene elaborato dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali, in conformità alle regole di interpretazione dei trattati. Ai sensi dell’art. 31, 2° co. lettera b) della Sezione III della Convenzione di Vienna che detta le regole di interpretazione dei Trattati, le decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, organismo previsto dalla Carta Sociale revisionata preposto al monitoraggio dell’adempimento degli Stati agli impegni della Carta, sia pur non aventi una caratterizzazione giudiziale, concorrono a determinare il contenuto del vincolo condiviso dalle parti contraenti: è evidente che tali decisioni non possono essere riduttivamente considerate quale mera opinio iuris espressione di un organo consultivo. Conforme all’art. 31 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sull’interpretazione dei Trattati, l’obbligo imposto dal Trattato di “tenere in debito conto” il contenuto della Carta Sociale impone, pertanto, all’interprete di considerare i principi ricavabili dalla Carta Sociale nel suo contenuto dinamico, al fine di integrare, previa valutazione di compatibilità, il contenuto del diritto fondamentale nell’ordinamento dell’Unione (omissis). Tali principi radicati nell’art. 24 della Carta Sociale Europea hanno trovato conferma nella decisione del 31.01.2017 (Reclamo n. 106/2014, Finnish Society of Social Rights c. Finlande), con la quale il Comitato Europeo dei Diritti Sociali ha rilevato la totale incompatibilità del “congruo indennizzo” previsto della Carta Sociale con i sistemi indennitari caratterizzati da un plafond. Secondo il significato dell’art. 24 della Carta Sociale Europea frutto della attività in-

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terpretativa del Comitato Europeo dei Diritti Sociali la sanzione a presidio del danno che deriva da un licenziamento collettivo illegittimo deve, pertanto, ripristinare il rapporto (“adeguata riparazione”), ovvero assicurare una tutela risarcitoria adeguata al danno subito dal lavoratore nel periodo, ripristinando in toto le conseguenze economiche ricomprese dalla data di intimazione del licenziamento a quello di accertamento (“congruo indennizzo”), nonché garantendo un effettivo ristoro della perdita subita, anche successivamente alla decisione che ha verificato l’illegittimità. Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, muovendo dall’esigenza di operare il corretto bilanciamento tra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e l’interesse organizzativo - finanziario del datore di lavoro, ha ritenuto che costituisca “adeguata compensazione” quella che include: a) il rimborso delle perdite economiche subite tra il licenziamento e la decisione del ricorso (“reimbursement of financial losses incurred between the date of dismissal and the decision of the appeal body”); b) la possibilità di reintegrazione (“reinstatement”); c) una compensazione economica di livello sufficientemente elevato da assicurare la reintegra del danno e dissuadere il datore di lavoro dal reiterare illecito (“compensation at a level high enough to dissuade the employer and make good the damage suffered by the employee”). In sostanza, secondo il Comitato i rimedi di carattere indennitario-risarcitorio possono essere considerati adeguato rimedio compensativo soltanto quando siano tali da reintegrare il lavoratore illegittimamente danneggiato in una situazione non meno favorevole di quella in cui in cui egli si sarebbe trovato se l’illecito non fosse stato commesso (“the possibility of awarding the remedy recognises the importance of placing the employee back into an employment situation no less favourable than he/she previously enjoyed”) (omissis). A tale proposito occorre citare, in ragione della specularità rispetto alla disciplina sanzionatoria dell’art. 8 della l. n. 604 del 1966, le Conclusioni tratte nel 2012 nei confronti della Bulgaria, ove il Comitato ha ritenuto inadeguato il limite compensatorio massimo di sei mesi di retribuzione previsto dalla legge nazionale bulgara (Conclusioni 2012 Bulgaria). Quanto al particolare profilo dell’inesistenza nel diritto finlandese del rimedio reintegratorio, il Comitato ha chiarito che una corretta lettura dell’art. 24 della Carta, nell’inciso ove esso fa riferimento ad “altra adeguata riparazione”, impone che il concetto di “other appropriate relief “ debba necessariamente abbracciare la tutela reintegratoria, la quale è il rimedio per eccellenza in grado di porre il lavoratore nello status quo ante (omissis). Dall’esame dei provvedimenti citati si evince chiaramente che il concetto di “forbice edittale” si pone in tendenziale contrasto con i criteri di tutela minima previsti dall’art. 24 della Carta, atteso che esso, imponendo un criterio di liquidazione intrinsecamente


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forfetizzato, determina un’inevitabile divaricazione tra danno effettivo e liquidazione concreta. Occorre, peraltro, ricordare che tale approccio interpretativo risulta sostanzialmente coerente con le previsioni dell’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982, non ratificata dall’Italia, il quale concepisce l’annullamento del licenziamento con reintegrazione nel posto di lavoro quale rimedio principale di tutela del lavoratore, mentre i rimedi di “adeguato indennizzo o ogni altra appropriata forma di riparazione” sono legittimati ad operare in via solamente subordinata, quando l’organo giurisdizionale investito della controversia, sulla base della legge nazionale applicabile, non disponga del potere di annullamento/reintegrazione. Alla luce di tale coordinate ermeneutiche si può ben affermare che le previsioni del diritto comunitario e del diritto internazionale del lavoro sono saldamente basate sul principio che vede nella reintegrazione la regola e nella tutela risarcitoria per equivalente la eccezione (omissis). I principi richiamati, a loro volta, rispondono ai parametri stabiliti sia dall’art. 19 del TUE che dall’art. 47 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione che riconoscono il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva a protezione dei diritti fondamentali (omissis). La scelta di un rimedio risarcitorio impone, per consolidato orientamento della Corte di Giustizia, un risarcimento tendenzialmente pieno del danno della vittima, nell’ambito del quale, la previsione di un massimale e di misure inidonee a riparare il decorso del tempo risultano tutele inadeguate allo scopo (cfr. Corte di Giustizia sentenza Marshall II C271/91 e sentenza 4 dicembre 2003 Evans C-63/1). Il principio della parità di trattamento (art. 20 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione) Il diritto dell’Unione non può, inoltre, ritenersi compatibile con un sistema di tutela dei licenziamenti che, in presenza di situazioni non differenziate, determini una difformità di trattamento, dato che un duplice modello sanzionatorio confliggerebbe con il principio di parità di trattamento. L’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione statuisce che “tutte le persone sono uguali davanti alla legge” intendendosi per “legge” il complesso di norme che caratterizzano il sistema normativo dell’Unione (omissis). La diversa data di assunzione non può avere alcuna rilevanza ai fini di giustificare una tutela difforme ma concorrente, in quanto il fattore tempo non giustifica una sostanziale diversità di tutela per licenziamenti caratterizzati da una procedura collettiva che si applica allo stesso tempo ai lavoratori coinvolti dal processo selettivo omogeneo (omissis). Un doppio sistema di tutela che prevede sanzioni profondamente diverse per fattispecie identiche valutate nello stesso momento non garantisce una tutela rispondente al principio di uguaglianza, né un sistema

adeguato ed effettivo, non dissuadendo il datore di lavoro dall’applicare il rapporto meno tutelato (omissis). Il principio di non discriminazione (art. 21 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione) Una differenziazione normativa del regime di tutela basata sul solo fattore “tempo”, rappresentato dalla data di assunzione in realtà costituisce un elemento oggettivamente discriminatorio indiretto. Un fattore che deve essere considerato ai fini di assicurare un omogeneo trattamento è rappresentato, relativamente alla fattispecie rimessa al vaglio di questo Giudicante, dall’esigenza di ritenere che l’anzianità lavorativa di un lavoratore assunto con contratto di lavoro a termine non venga trattata in forma diversa rispetto ad un lavoratore assunto a tempo indeterminato. Tale principio è espressamente sancito chiaramente dall’art. 4 della direttiva 99/70/CE per la quale i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato. Appare incompatibile con il richiamato principio di non discriminazione un doppio regime di tutela che garantisca per i rapporti di lavoro a tempo determinato trasformati una tutela diversa e più debole rispetto a quella stabilita per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nel caso in cui detti rapporti avessero una pari anzianità e decorrenza: in tal modo, infatti, non si riconoscerebbe alcuna rilevanza all’anzianità lavorativa pregressa. Ai sensi della giurisprudenza dell’Unione il principio di non discriminazione per i lavoratori assunti a termine esclude, “in generale ed in termini non equivoci”, qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, “sicché la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno” (Corte di Giustizia 8 settembre 2011, C-177/10; Corte di Giustizia 15 aprile 2008, C- 268/06; Corte di Giustizia 13 settembre 2007, C-307/05) (omissis). Prima questione: compatibilità dell’art. 4 della direttiva 90/70/CE e degli art. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione con le previsioni dell’art. 1, secondo comma e dell’art. 10 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23. Considerato che la controversia sottoposta all’esame del Giudicante è caratterizzata da una diversa tutela riconosciuta alla ricorrente per effetto della data di trasformazione del rapporto a termine, essendo pacifico che, ove venisse considerata la data di stipula del contratto di lavoro, troverebbe applicazione l’istituto della reintegrazione, si impone in primo luogo un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE al fine di interpretare il contenuto delle norme dell’Unione citate per verificare se la tutela apprestata con il D.lgs 23/15 consenta di ritenere il modello sanzio-

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natorio compatibile. L’art. 1, 2° co. del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23 esclude l’anzianità ininterrotta dei rapporti di lavoro a termine ( si tratta di un dato rilevante nel presente giudizio) ai fini della tutela forte prevista per i licenziamenti collettivi affermando che, ai fini del sistema sanzionatorio, non rileva l’antecedente data di costituzione del rapporto di lavoro e quindi l’anzianità pregressa, bensì la data di conversione del rapporto. Vi è la coesistenza nel medesimo momento di discipline radicalmente diverse e riferite a fattispecie identiche che si verificano nello stesso segmento temporale. I rapporti di lavoro a tempo determinato, quindi, pur stipulati contestualmente ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato ai fini della tutela prevista per i licenziamenti collettivi, vengono penalizzati in quanto l’art. 1, 2° co del d.lgs 23/15 esclude espressamente il periodo precedente (omissis). Tale disposizione pone indubbiamente una questione interpretativa con riferimento alla direttiva 99/70/CE. Il principio di non discriminazione impone, infatti, di equiparare a fini normativi il periodo di lavoro svolto durante un rapporto di lavoro a termine con quello svolto nel medesimo periodo da un lavoratore assunto a tempo indeterminato. La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva precisa che “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”. Nell’art. 1, 2° co. del d.lgs 23/15 il lavoratore assunto a termine viene penalizzato con riferimento alle “condizione di impiego”, in quanto uno stesso periodo di lavoro riconducibile ad un unitario rapporto negoziale (id est quello antecedente l’entrata in vigore del d.lgs 23/15) viene diversamente trattato a seconda se riconducibile ad un contratto a tempo indeterminato o ad uno a tempo determinato (omissis). Questo Giudice non ignora il contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 8.11.2018 che ha affrontato la questione di costituzionalità prospettata dal Tribunale di Roma in relazione all’art. 3, 1° co. del d.gs 4 marzo 2015 n. 23 al fine di escludere una disparità di trattamento in ragione del fluire del tempo. Tuttavia va sottolineato il dato che la sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto l’irrilevanza del fluire del tempo ai fini della compatibilità con la Carta Costituzionale nell’ambito di un procedimento giudiziale relativo ad una ipotesi di licenziamento individuale sicuramente non rappresenta un elemento ostativo alla verifica dello stesso profilo rispetto al diritto dell’Unione (paragrafo n. 23 della sentenza CGUE, 20 dicembre 2017, causa C-322/16, Global Starned Ltd) anche perché nel caso che ci occupa viene analizzata una fattispecie di licenziamento collettivo. In una procedura comparati-

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va unitaria di posizioni omogenee, invece, appare irragionevole ritenere che medesimi diritti coinvolti nel simultaneo processo selettivo finalizzato ad assicurare una valutazione imparziale siano assoggettati a sistemi di tutela sostanzialmente difformi: la concorrenza di due sistemi, di cui uno meno forte, è ex se idonea ad indirizzare il potere di scelta del datore di lavoro nei confronti del rapporto meno tutelato con la conseguente rilevanza assegnata ad un fattore esogeno ai parametri selettivi generali ed astratti imposti dal Legislatore (omissis). In sostanza, la disparità di trattamento in ragione del fluire del tempo, che non rappresenta in sé e per sé un valido criterio di differenziazione dei trattamenti, deve essere ragionevole (omissis). Innanzitutto occorre ricordare che la differenziazione realizzata dalla norma non attiene alla stessa fattispecie riguardata in momenti diversi del tempo, ma alla medesima fattispecie che nello stesso momento del tempo viene trattata diversamente in ragione della data di assunzione e/o della data di conversione del contratto a termine, ossia sulla base di un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni profilo sostanziale (omissis). Ancor più problematica appare la questione relativa al rispetto del canone di ragionevolezza con riferimento alla ragione giustificatrice della norma, vale a dire lo “scopo occupazionale”. Occorre porsi il problema se il “fluire del tempo” possa costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, spettando alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme in relazione alla giustificazione teleologica della norma, vale a dire lo “scopo” perseguito dal legislatore di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge delega n. 183/2014) (omissis). Secondo il legislatore l’introduzione di tutele più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta ad incentivare le assunzioni a tempo indeterminato. Rispettare il principio di ragionevolezza significa anche verificare l’adeguatezza strumentale della norma scelta rispetto al fine da realizzare (omissis). Nel caso in esame, che riguarda in fondo la razionalità di una norma che si pone come obiettivo la crescita dell’occupazione attraverso un mutamento in peius delle tutele, entrambi questi elementi di giudizio (pertinenza e congruenza) non sussistono. Se infatti si può ammettere sul piano meramente logico che la finalità occupazionale giustifichi un deterioramento delle tutele per i lavoratori in cerca di impiego, non si può invece ammettere a priori, sul piano causale, che quelle misure, incidenti in maniera rilevante su diritti collegati a valori fondamentali della Costituzione, possano realizzare il fine sperato. Le norme, per rispettare il canone


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della ragionevolezza, devono essere valutate nella loro effettività. Inoltre, nell’ambito del principio di proporzionalità, occorre verificare se la misura legislativa, tra i vari possibili strumenti utilizzabili per raggiungere l’obiettivo di crescita occupazionale, sia quella meno restrittiva dei diritti posti a confronto, o che stabilisca oneri proporzionati rispetto al perseguimento dei suoi obiettivi (omissis). Orbene nel vagliare le disposizioni in questione alla luce di questi canoni, appare evidente l’irragionevolezza di un disposto che non trova alcuna giustificazione razionale sul piano empirico, dal momento che nessuna correlazione positiva tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è mai stata avvalorata nella letteratura economica. In verità la positiva correlazione tra riduzione della “job employment protection” ed incremento dell’occupazione è stata negata nel World Economic Outlook 2016, nel quale il FMI sottolinea che “le riforme che rendono più agevole il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno mediamente effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche” (v. sez. Time for a supply side boost pagg. 115-116). Altrettanto è stato evidenziato dal Documento di valutazione n. 7 dell’Ufficio Valutazione Impatto del Senato: “Da ultimo, l’OCSE nell’Employment Outlook del 2016 corregge solo parzialmente le evidenze accolte dalle principali organizzazioni internazionali, asserendo che la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro suggerisce che esse hanno un impatto nullo o marginalmente positivo sui livelli di occupazione nel lungo periodo”. Nello stesso senso depone l’esperienza applicativa italiana del contratto a tutele crescenti. Ad oltre tre anni dall’entrata in vigore della legge, il risultato sperato, ossia l’aumento delle occupazioni stabili si è rivelato del tutto deficitario. Infatti, esauriti gli effetti degli sgravi contributivi connessi alle assunzioni a tempo indeterminato (v. l. n. 190/2014), si è assistito alla utilizzazione in misura preponderante dei contratti a termine nonostante il loro maggiore costo contributivo. Pertanto il giudizio di ragionevolezza non può che sortire un risultato negativo sia sotto profilo della congruenza e adeguatezza causale , sia sotto quello della proporzionalità, non realizzando la norma alcun equo contemperamento tra diritto al lavoro e interesse dell’impresa, o tra la tutela del posto di lavoro e l’interesse all’occupazione quale “fine di interesse generale” che giustifica la riduzione delle tutele. Si rende quindi necessario, anche con riferimento al diritto fondamentale alla tutela riconosciuto dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, effettuare una remissione interpretativa allo scopo di richiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea se, ai sensi dell’art. 4 della direttiva 99/70/CE, contenente il principio di non discriminazione nelle condizioni di

lavoro, la data di trasformazione del rapporto di lavoro a termine costituisca una “ragione oggettiva” per differenziare il tipo di tutela accordata. Appare infatti, opportuno richiedere alla Corte di Giustizia se, conformemente alle norme richiamate, il periodo di lavoro antecedente la conversione a tempo indeterminato e, quindi, una parte dell’anzianità maturata nell’ambito di uno stesso rapporto di lavoro a tempo determinato trasformato, possa essere esclusa dalla legislazione di uno Stato membro al fine di impedire l’applicazione di una tutela più forte del rapporto, idonea a garantire la reintegrazione nel posto di lavoro e la ricostituzione contributiva, previste, viceversa, per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti nello stesso periodo di lavoro antecedente la trasformazione. Seconda questione: compatibilità con l’art. 30 e 20 della Carta fondamentale del diritto dell’Unione e con le disposizioni della direttiva 98/79/CE della previsione dell’art. 10 del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23 che introduce un distinto e concorrente modello di tutela per licenziamenti riguardanti analoghi rapporti di lavoro intimati nell’ambito di una stessa procedura. L’art. 10 del d.lgs. 4 marzo 2015 introduce, a decorrere dal 7 marzo 2015, una tutela per i licenziamenti collettivi che si affianca a quella prevista dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300. Le due tutele si applicano nei confronti di licenziamenti caratterizzati da identici presupposti fattuali e giuridici, intimati nell’ambito dello stesso consesso lavorativo all’esito di una unica procedura che si realizza in forma sincronica e indistinta per tutti i lavoratori. Le medesime violazioni della stessa procedura di licenziamento che ha interessato la ricorrente, infatti, hanno determinato l’applicazione di una tutela reintegratoria per i colleghi di lavoro della ricorrente, mentre consentono all’istante di ottenere esclusivamente una tutela indennitaria nei limiti di 4 e 24 mensilità: infatti nel caso di specie non è applicabile ratione temporis la novella introdotta dal D.l. 87/18 che prevede una tutela indennitaria con un limite minimo di sei ed un limite massimo di trentasei mensilità. Il principio di parità di trattamento sancito dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, in uno con il ricordato principio di effettività della tutela avverso i licenziamenti, prima ancora della direttiva 98/58/CE che impone di “rafforzare” la tutele dei lavoratori coinvolti in procedure di licenziamento, non consentono al legislatore nazionale di introdurre modelli di tutela contrastanti con i principi ispiratori dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (omissis). L’introduzione di un doppio sistema che prevede contestuali modelli sanzionatori, di cui uno reintegratorio e l’altro meramente indennitario, crea il rischio di portare la scelta nei confronti del lavoratore giuridicamente più debole generando una disparità normativa non tollerabile dal diritto dell’Unione che in occasione dell’applicazione della direttiva

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98/59/CE consente ai sensi dell’art. 5 di introdurre “disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori”. Si rende evidentemente necessario sottoporre alla Corte di Giustizia la questione interpretativa che investe i principi e i diritti fondamentali dell’Unione, onde verificare se il diritto di uguaglianza (art. 20 CdfU) e il diritto ad una tutela avverso i licenziamenti ingiustificati (art. 30 CdfUE) ispirata alla Carta Sociale Europea consenta di introdurre, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo regolato dalla direttiva 98/59/CE finalizzata ad un rafforzamento dei livelli di tutela (cfr secondo considerando), nell’ordinamento nazionale un doppio sistema di tutela che preveda nell’ambito della stessa procedura, in caso di violazione dei criteri di scelta, una contestuale applicazione di regimi diversi che assicurino la reintegra nel posto di lavoro per alcuni lavoratori, mentre, per altri, un mero indennizzo avente un plafond, la cui base di calcolo è peraltro differente a seconda del contratto applicato (dovendosi intendere la retribuzione utile ai fini del TFR individuata di volta in volta dalla specifica contrattazione di categoria) e comunque inidoneo a ristorare il pregiudizio completo derivante dalla perdita di lavoro. Peraltro, va osservato che se, a seguito della sentenza più volte citata della Corte Costituzionale n. 194 del 2018, appare scontata una quantificazione della indennità risarcitoria più corposa rispetto all’assetto normativo precedente, in quanto il giudice non è più ancorato al solo criterio della anzianità di servizio nella quantificazione, tale dato non appare affatto in concreto incline ad assicurare uno strumento di tutela adeguato e dissuasivo (omissis). I principi richiamati che caratterizzano il diritto dell’Unione al quale l’ordinamento italiano deve conformarsi rendono evidente la non conformità con le norme dell’Unione dell’assetto normativo scaturito a seguito dell’approvazione del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 che ha generato, a decorrere dal 7 marzo 2015, un duplice concorrente sistema di tutela dei licenziamenti collettivi, dando ingresso, per i rapporti trasformati o costituiti dopo tale data, ad una sistema sanzionatorio sostanzialmente deteriore. La compatibilità di tale assetto normativo con gli obblighi derivanti dall’adesione all’Unione Europea che impongono, ai sensi dell’art. 117, 2° co. Cost., limitazioni di sovranità legislativa, richiede necessariamente una interpretazione del contenuto e dei limiti imposti dalle norme comunitarie che rappresentano il limite non disponibile. L’eventuale contrasto del diritto interno con il diritto dell’Unione determina la disapplicazione della disciplina non suscettibile di una interpretazione conforme, ovvero di sottoporre una questione di legittimità costituzionale ove il contrasto non sia sanabile. La fattispecie rimessa al vaglio del Giudicante presenta un aspetto di doppia pregiudizialità, in quanto si pongono in via preliminare due

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questioni interpretative di norme appartenenti all’ordinamento dell’Unione Europea che assumono anche diretta rilevanza al fine di una eventuale questione di legittimità costituzionale (omissis). Nella decisione del 20 dicembre 2017, nella causa C 322/16, la Corte di Giustizia ricorda che l’art. 267 TFUE sul rinvio pregiudiziale e il principio del primato del diritto dell’Unione attribuiscono un ampio potere ai giudici di investire, in ogni momento che ritengano opportuno (quindi anche dopo la decisione sulla legittimità costituzionale di una norma), la Corte di Giustizia delle questioni relative alla interpretazione del diritto UE e di non applicare le norme interne con esso confliggenti. Da ricordare è, infine, la decisione del 24 ottobre 2018, nella causa C-234/17 perché, oltre a contenere affermazioni analoghe a quelle appena riportate (omissis). In sostanza si ritiene che sussistano tutte le condizioni normative per disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Milano, pertanto, visto l’art. 19, paragrafo 3, lettera b, del Trattato sull’Unione europea, l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e l’art. 295 c.p.c., chiede alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi sulle seguenti questioni di cui in parte motiva ed in particolare: 1) “Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 della direttiva 99/70/CE sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normative dell’art. 1, secondo comma e dell’art. 10 del D.lgs 23/15 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015”; 2) “Se le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’art. 10 del d.lgs 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, la reintegrazione nel posto di lavoro e che


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introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione”. P.Q.M. sospende il presente giudizio.

Manda alla cancelleria di trasmettere, mediante plico raccomandato, copia della presente ordinanza, unitamente alla copia degli atti sia del fascicolo della fase sommaria che del fascicolo della fase della opposizione ( ricorsi, memorie di costituzione, documenti allegati, note autorizzate e verbali di udienza), al seguente indirizzo: “Greffe de la Cour de Justice de l’Union européenne, Rue du Fort Niedergrünewald L-2925 Luxembourg”.

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Jobs Act: la disciplina sanzionatoria in tema di violazione dei criteri di scelta al vaglio del giudice europeo e della Consulta Sommario : 1. L’ordinanza del Tribunale di Milano: il caso di specie. – 2. La duplice ordinanza della Corte d’Appello di Napoli: il caso di specie. – 3. La c.d. “doppia pregiudiziale”. – 4. Le questioni pregiudiziali sollevate innanzi alla Corte di Giustizia. – 5. L’art. 10 d.lgs. n. 23/2015: la questione del perdurante rilievo centrale del criterio dell’anzianità. – 6. La questione se l’art. 10 d.lgs n. 23/2015 sia o no stato emanato “in attuazione del diritto dell’Unione”. – 7. L’art. 30 della Carta: “principio” o “diritto”?. – 8. La pretesa funzione “depuratrice di norme” dell’art. 30 della Carta. – 9. L’art. 24 della Carta sociale europea e il valore delle pronunce del Comitato europeo per i diritti sociali. – 10. Le ulteriori argomentazioni delle due Corti: in particolare il richiamo agli artt. 20 e 21 della Carta. – 11. La pretesa violazione degli artt. 20, 21 della Carta e dell’art. 4 dir. 1999/70. – 12. L’ordinanza partenopea di rimessione alla Corte costituzionale: l’irragionevolezza dell’operare contemporaneo e non scaglionato nel tempo di due diverse discipline, differenziate in base al solo momento genetico del rapporto. –13. L’ulteriore questione sottoposta alla Consulta: la compatibilità o no con la cornice eurounitaria della tutela differenziata per vecchi e nuovi assunti, questi ultimi destinatari di un regime sanzionatorio inefficace rispetto al danno subito. –14. Circa il preteso eccesso di delega.

Sinossi. Si analizza il contenuto dell’ordinanza con il quale il Tribunale di Milano ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con la cornice eurounitaria della disciplina di cui all’art. 10 d.lgs. n. 23/2015, in tema di violazione dei criteri di scelta in caso di licenziamento collettivo (anche in combinato disposto con l’art. 1, co. 2 d.gs. n. 23/2015) e si mettono a confronto tali argomentazioni con quelle delle recenti ordinanze con le quali la Corte d’appello di Napoli , con riferimento alla medesima normativa, ha sollevato, rispettivamente, questione pregiudiziale, innanzi alla Corte di Giustizia e questione incidentale di legittimità costituzionale, innanzi alla Consulta. Si ritiene che sia meritevole di accoglimento la questione (sollevata innanzi alla Consulta) relativa alla irragionevolezza dell’operare contemporaneo e non scaglionato nel tempo di due diverse discipline, differenziate in base al solo momento genetico del rapporto, con riferimento a vecchi e nuovi assunti coinvolti in una medesima procedura di riduzione del personale. Abstract. A recent judgment by Employment Court of Milan requested to the EU Court of Justice a preliminary ruling about the compatibility with the EU discipline of the content of article 10 of Legislative Decree no. 23/2015, regarding the violation of the selection criteria in collective dismissal (also in conjunction with article 1, par. 2, of Legislative Decree No. 23/2015). The arguments of this judgment is deeply analyzed, also in comparison with those set by the Court of Appeal of Naples which also requests to the EU Court of Justice a preliminary ruling about the same legislation, and also refers an incidental question of constitutional compatibility before Italian Constitutional

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Court. In the Author’s opinion, the question issued before the Constitutional Court is likely to be upheld, as the contemporary efficacy of two different disciplines is not reasonable, differentiating the treatment for the workers only on the genetic moment of their employment relationship.

1. L’ordinanza del Tribunale di Milano: il caso di specie. Con la lunga e articolata ordinanza in epigrafe il Tribunale di Milano solleva innanzi alla Corte di Giustizia una duplice questione pregiudiziale, relativa alla compatibilità con la cornice eurounitaria della disciplina sanzionatoria introdotta dal Jobs act (d.lgs. n. 23/2015), in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta. Nel caso di specie, la procedura di licenziamento aveva interessato trecentocinquanta lavoratori. Stante l’accertata violazione dei criteri di scelta, il Tribunale adito con il c.d. rito Fornero aveva disposto la reintegrazione nel posto di lavoro di tutti i lavoratori, ad eccezione della sola ricorrente. Quest’ultima, infatti, era stata assunta prima del sette marzo 2015 con contratto a tempo determinato e il suo rapporto era stato trasformato in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dopo tale “spartiacque” temporale (in data 31 marzo 2015). In forza dell’art. 1, co. 2 del d.lgs. n. 23/2015 al rapporto della ricorrente trovava dunque applicazione la disciplina di cui al c.d. Jobs Act ed in particolare, trattandosi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, la disciplina sanzionatoria di cui all’art. 10 d.lgs. n. 23/2015, nella “versione” precedente la modifica introdotta dal c.d. decreto dignità. Dunque, un’indennità compresa tra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto; pur dovendosi tenere conto, nella determinazione della stessa, della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, nel frattempo intervenuta, con riferimento all’art. 3 d.lgs. n. 23/2015 (cui l’art. 10 del medesimo decreto si richiama)1.

2. La duplice ordinanza della Corte d’appello di Napoli: il caso di specie.

Nel contempo la Corte d’appello di Napoli è chiamata a pronunciarsi su una procedura di licenziamento collettivo che vede coinvolti, da un lato, lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 e, dall’altro, una lavoratrice assunta dopo tale data, in forza di una “clausola

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In ordine agli effetti della pronuncia n. 194/2018 (relativa all’art. 3) sull’art. 10 (che ad esso si richiama), v. anche le considerazioni di Bollani, Le tutele avverso il licenziamento ingiustificato e la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale: dopo le scosse, l’assestamento? in DRI, 2019, I, 214 ss.

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sociale” prevista da un contratto collettivo (la lavoratrice era stata impiegata in un diverso appalto, prima del 7 marzo 2015)2. La lavoratrice lamentava la violazione dei criteri di scelta. La Corte d’appello adita solleva, dunque, molteplici questioni pregiudiziali innanzi alla Corte di Giustizia, al fine di sentire accertare la compatibilità o no della disciplina sanzionatoria di cui all’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 con la cornice eurounitaria. Al contempo, tuttavia, la Corte d’appello pronuncia anche ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, dubitando della compatibilità della disciplina sanzionatoria de qua con gli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 76, 111, 117 comma 1 Cost.

3. La c.d. “doppia pregiudiziale”. Le tre ordinanze in commento sollevano una serie di questioni tra loro intrecciate, segnalando profili di potenziale contrasto della disciplina nazionale introdotta dal d.lgs. n. 23/2015, in materia di regime sanzionatorio per la violazione dei criteri di scelta, tanto con la CDFUE quanto con la Costituzione. A fronte di tale “doppia pregiudiziale”, il Tribunale di Milano sceglie di percorrere la via del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia; la Corte d’appello di Napoli sceglie, invece, la strada, apprezzabile ma inedita, di effettuare rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e di sollevare, al contempo, questione incidentale innanzi alla Consulta. Come noto, la Corte costituzionale nella (discussa) sentenza n. 269/2017 aveva affermato, obiter, la propria competenza prioritaria in materia di diritti fondamentali, rispetto alla Corte di Giustizia3. E la Corte di Cassazione si era, immediatamente, divisa sul significato da assegnare a tale obiter4. Sono poi le successive pronunce della Consulta5 a chiarirne e precisarne il significato, ricomponendo in parte la frattura: «i diritti fondamentali tutelati dalla Carta di Nizza… sono… soggetti ad un bilanciamento al cui controllo, nel nostro ordinamento provvede in via esclusiva la Corte costituzionale»: a differenza di quello interno, l’ordinamento europeo è infatti fondato sul principio della competenza «e nessun “diritto fondamentale da esso sancito può essere “tiranno” nei confronti di tutti gli altri

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Rimane in ombra, per la verità, nelle ordinanze in commento, la questione di quale sia in concreto la “anzianità” della lavoratrice a cui commisurare l’indennità di cui all’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 (pur in applicazione dei principi di cui alla sentenza della C. cost. n. 194/2018). Se da un lato, a detta della Corte d’appello, nel caso di specie non doveva darsi luogo a riconoscimento di anzianità pregressa in forza dell’art. 6 c.c.n.l. Fise – Igiene del 21 marzo 2012, è pur vero, infatti, che di detta anzianità si sarebbe dovuto tenere conto in forza dell’art. 7 d.lgs. n. 23/2015, applicabile, secondo una recente pronuncia di merito, anche nel caso di licenziamento collettivo (Trib. Torino, 4 maggio 2017, n. 513, est. Mollo, in MGL, 2017, 794 con nota di Vallebona, Licenziamento collettivo e tutele crescenti). V. per tutti Cavallaro, Le Carte e le Corti. Note minime su alcune recenti pronunce della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale in materia di efficacia della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in LavoroDirittiEuropa, 2019, 2. Cfr. Cass., 3831/2018; Cass., 13678/2018; Cass. 4223/2018. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, in Osservatorio costituzionale, 6, 2019, 166 ss. Cfr. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018. C. cost., 21 febbraio 2019, n. 20; C. cost., 20 febbraio 2019, n. 63; C. cost., 10 maggio 2019, 112; C. cost., 10 maggio 2019, n. 117.

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interessi tutelati dalla nostra Costituzione»6, anzi, ben può essere che un “diritto fondamentale” di fonte europea debba recedere, nel bilanciamento (operato con la Consulta) con altri diritti e interessi fondamentali. È dunque opportuno (anche se non necessario) che il giudice comune – a fronte di una “doppia pregiudiziale” – investa prioritariamente la Consulta, ferma la possibilità dello stesso di sottoporre alla Corte di Lussemburgo ogni questione pregiudiziale necessaria, in relazione alla medesima disciplina oggetto di questione di legittimità costituzionale, anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale7. Una volta che il giudice comune abbia sottoposto la questione di costituzionalità alla Consulta, ben potrà essere quest’ultima a sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, perché la valuti dal punto di vista comunitario, essendo preferibile – tramite la sollecitazione, da parte dei giudici di Lussemburgo, di un’interpretazione della disciplina europea «armonizzata con la tradizione costituzionale italiana» – «disattivare il conflitto in via preventiva, e dunque, ridurre il ricorso, sempre traumatico, all’arma dei controlimiti»8. In caso contrario (ove cioè la lettura della Corte di Giustizia non consenta tale armonizzazione), la Corte costituzionale, all’esito del rinvio pregiudiziale, potrebbe comunque, per effetto del bilanciamento sopra richiamato (tra principi costituzionali) considerare “recessivo” il principio di cui alla Carta9. Se però il giudice comune scegliesse di sollevare, prioritariamente, la questione pregiudiziale, all’esito (constatato, cioè, il conflitto con un principio della Carta di Nizza) non potrebbe egli stesso disapplicare direttamente la normativa nazionale, ove la stessa fosse contemporaneamente in potenziale conflitto con la Costituzione, (oltre che con la CDFUE)10. In definitiva, le sentenze successive alla n. 269/2017 hanno precisato che nei casi, come quello di specie, di potenziale conflitto di una normativa interna tanto con la Costituzione, quanto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il giudice comune ha la facoltà, ma non l’obbligo di adire prioritariamente la Consulta, rispetto alla Corte di Giustizia; ciononostante, traspare «qualche ineliminabile tensione nella nuova linea giurisprudenziale con il principio della diretta applicazione della CDFUE e delle norme del diritto UE che partecipino della stessa natura della Carta»11.

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Cavallaro, Le Carte e le Corti, cit., 7. Scaccia, Alla ricerca, cit., 167. C. cost. n. 20/2019, cit. 8 Cfr. l’ordinanza della Corte costituzionale di rimessione alla Corte di Giustizia nel caso Taricco, n. 24 del 2017, ove, secondo la dottrina, «nella forma processuale di un rinvio pregiudiziale si cela la sostanza di un preannuciato “controlimite”». Scaccia, Alla ricerca, cit. 168. 9 Ove la Corte costituzionale ritenesse la norma costituzionalmente legittima, senza sollevare questione pregiudiziale, il giudice comune, all’esito potrebbe bensì sollevare egli stesso questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, mentre – secondo la dottrina – dovrebbe preferibilmente astenersi, da una disapplicazione diretta della norma stessa. Così Scaccia, Alla ricerca, cit., 168. 10 Così Scaccia, Alla ricerca, cit., 168. 11 Scaccia, Alla ricerca, cit., 173. 7

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4. Le questioni pregiudiziali sollevate innanzi alla Corte di Giustizia.

Articolate sono le questioni pregiudiziali sollevate innanzi alla Corte di Giustizia dal Tribunale di Milano e dalla Corte d’appello di Napoli. La prima delle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Milano è “condizionata” dalla specificità del caso (rapporto di lavoro a tempo determinato precedente il 7 marzo 2015, “trasformato” in rapporto a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015). Il Tribunale chiede, in primo luogo, alla Corte di Giustizia se «i principi di parità di trattamento e di non discriminazione» di cui alla clausola 4 della direttiva 99/70/CE sul contratto a termine ostino alle previsioni dell’art. 1, co. 2 e dell’art. 10 d.lgs. n. 23/2015, che introducono un regime differenziato di tutela, l’uno di tipo reintegratorio (art. 18 Stat. lav., come modificato dalla c.d. l. Fornero), l’altro invece di tipo meramente indennitario, contenuto entro un limite minimo e massimo di minore effettività e capacità dissuasiva, rispettivamente per i rapporti di lavoro costituiti prima del 7 marzo 2015 e per i «rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015». Con la seconda questione (di portata generale) il Tribunale chiede invece alla Corte se gli articoli 20 e 30 della Carta dei diritti Fondamentali e le disposizioni della direttiva 98/59/CE sui licenziamenti collettivi ostino ad una disposizione, come l’art. 10 d.lgs. n. 23/15 che, per i soli lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 7 marzo 2015 (o per i lavoratori con contratto a termine trasformato) esclude (a differenza che per i lavoratori già in forze in base a un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato precedente a tale data, coinvolti nella medesima procedura) la reintegrazione in caso di violazione dei criteri di scelta, e prevede un sistema di tutele di tipo meramente indennitario, «inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente12». Il Tribunale suggerisce che la disciplina nazionale de qua – ed in particolare, l’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 – ricada nella sfera di applicazione della direttiva sui licenziamenti collettivi e possa conseguentemente essere esaminato alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta di Nizza, tra cui, in particolare, l’art. 3013. Tale ultima disposizione, secondo il Tribunale «riconosce al lavoratore un diritto pieno immediatamente rivendicabile con efficacia orizzontale nei rapporti giuridici nei quali trova applicazione»14.

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«Applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione». Trib. Milano, 5 agosto 2019, in epigrafe. 13 Ed anzi, secondo il Tribunale, il diritto alla tutela di cui all’art. 30 opererebbe «a tutela di tutte le tipologie di licenziamento, stante la competenza dell’Unione ad intervenire con propri atti normativi su tale materia», ex art. 153, par. 1 lett. d) TFUE. Ma tale posizione appare smentita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. V. per tutti Mezzacapo, Il licenziamento individuale, in Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Giappichelli, 2018, 342. 14 Trib. Milano, 5 agosto 2019, in epigrafe.

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L’art. 30 – a detta del Tribunale – deve essere interpretato alla luce dell’art. 24 della Carta sociale europea ed in particolare (in forza dell’art. 31 co. 2 lett. b) della sez. II della Convenzione di Vienna) – alla luce dell’interpretazione che, di tale ultima disposizione, ha dato il Comitato Europeo dei diritti sociali. Ciò, in ragione del fatto che le “Spiegazioni” (che, ai sensi dell’art. 6, par. 1 TUE della Carta devono essere tenute “in debito conto”), chiariscono che l’art. 30 in oggetto “si ispira”, appunto, all’art. 24 della Carta sociale europea. Tale ultima disposizione afferma che le Parti contraenti si impegnano a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo, nonché il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o ad altra adeguata riparazione15. Nella decisione del 31 gennaio 2017 (Finnish Society of Social rights vs Finlande) il Comitato europeo dei diritti sociali ha rilevato la incompatibilità dei sistemi indennitari connotati da un plafond con l’art. 24 della Carta sociale europea, la quale dunque, secondo tale lettura, imporrebbe – avverso il licenziamento ingiustificato – una tutela reintegratoria o un rimedio compensatorio «di entità tale da garantire al lavoratore un ristoro tendenzialmente integrale del danno patrimoniale sofferto, e quindi tale da assorbire l’equivalente economico del posto di lavoro illegittimamente perduto»16. Il principio di «parità di trattamento sancito dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione»17 non consentirebbe al legislatore nazionale di differenziare le tutele sanzionatorie, in caso di violazione dei criteri di scelta rispettivamente per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti e per “vecchi assunti”, coinvolti in una medesima procedura di licenziamento collettivo. La Corte d’appello di Napoli muove invece da una dettagliata ricostruzione della disciplina sanzionatoria nazionale, relativa alla violazione dei criteri di scelta dei lavoratori coinvolti in un licenziamento collettivo, a seconda della data di assunzione del lavoratore (fino al 7 marzo 2015, o successivamente a tale data). L’una, di tipo reintegratorio, l’altra (nella fattispecie al vaglio della Corte, precedente le modifiche introdotte dal c.d. decreto dignità) di tipo indennitario, soggetta ad un plafond massimo e potenzialmente limitata nel minimo a quattro mensilità, dovendo essere liquidata, pur dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, tenendo conto prevalentemente del criterio dell’anzianità lavorativa; parametrata alla retribuzione utile per il calcolo del t.f.r. e, dunque, determinata dal contratto collettivo (con potenziale esclusione dalla base di calcolo di elementi anche significativi); e non in grado di assicurare un adeguato ripristino della posizione previdenziale.

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Art. 24: «Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione. A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere un diritto di ricorso contro questa misura davanti ad un organo imparziale». 16 Così Trib. Milano, 5 agosto 2019, in epigrafe. 17 Così Trib. Milano, 5 agosto 2019, in epigrafe.

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La Corte partenopea chiede, dunque, alla Corte di Giustizia se l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre il riconoscimento, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi, intimati in violazione di normative attuative della direttiva 98/59/CE, di una tutela connotata da effettività, efficacia, adeguatezza e deterrenza (tali essendo i connotati delle sanzioni previste per la violazione del diritto dell’Unione)18. In sostanza, detti parametri di effettività adeguatezza e deterrenza costituirebbero i limiti esterni di coerenza che la legislazione nazionale attuativa del diritto eurounitario sarebbe tenuta a rispettare. E la previsione di una tutela indennitaria contenuta nell’ambito di un plafond, rispetto ad un danno derivante dalla lesione di un diritto fondamentale dell’Unione, suscettibile invece di aggravarsi nel tempo, non sarebbe rispettosa di tali parametri. I parametri per valutare l’adeguatezza del sistema sanzionatorio dovrebbero, piuttosto, essere ricavati dalla “fonte” ispiratrice dell’art. 30 della CDFUE, e cioè dall’art. 24 della Carta sociale europea, nell’interpretazione che, di essa, ha dato il Comitato europeo dei diritti sociali; occorrerebbe, dunque, (e ciò è oggetto del terzo quesito alla Corte di Giustizia) che il sistema sanzionatorio nazionale (per essere coerente con la Carta) garantisse una «tutela satisfattiva piena o, quantomeno, tendenzialmente tale, delle conseguenze economiche derivate dalla perdita del contratto di lavoro». In ogni caso (quarta questione) si chiede, ancora, se una normativa nazionale attuativa della direttiva 98/59/CE che prevede un indennizzo «determinato in via prioritaria sul parametro dell’anzianità lavorativa differenziando, quindi, sulla base della data di assunzione, la sanzione in modo da generare una diversità di livelli di tutela basati sull’anzianità lavorativa e non sulle conseguenze effettive subite» sia coerente con gli artt. 20 CDFUE (uguaglianza), 21 CDFUE (non discriminazione) in particolare in base all’età19, 34 CDFUE (diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali), 47 CDFUE (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale).

5. L’art. 10 d.lgs. n. 23/2015: la questione del perdurante

rilievo centrale del criterio dell’anzianità.

Giova preliminarmente osservare che, sia il Tribunale di Milano, sia soprattutto, la Corte d’appello di Napoli accreditano – presso il giudice europeo – una lettura della disciplina sanzionatoria dell’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 come, ancor oggi (al netto del c.d. decreto dignità), fortemente sbilanciata sul criterio dell’anzianità e connotata dal pagamento di un indennizzo fortemente penalizzante e inadeguato rispetto alla perdita della fonte di sostentamento. La sanzione, si dice, «limitata ad un mero indennizzo, può infatti essere

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Cfr. App. Napoli, 18 settembre 2019, par. 51. Cfr. par. 81: «la stessa prassi applicativa che privilegia l’anzianità lavorativa nella determinazione della sanzione, in attuazione dei parametri normativi sanzionatori che attribuiscono prevalenza a detto fattore (e, quindi, indirettamente all’età del lavoratore), appare difficilmente conciliabile con i principi richiamati».

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circoscritta a sole quattro mensilità, in quanto non è parametrata alle conseguenze economiche che discendono dal licenziamento, dovendo essere liquidata considerando prevalentemente l’anzianità lavorativa»20. Si può fin d’ora immaginare che tale prospettazione delle Corti remittenti sarà oggetto di contrapposte valutazioni e sarà sottoposta ad accurato vaglio dalla Corte di Giustizia, secondo le forme e i modi propri del giudice di Lussemburgo (non ultimo esplicite richieste di chiarimenti alle parti sul punto). Le prime pronunce giurisprudenziali – che potrebbero rivelarsi utili alla parte datoriale, per confutare la tesi meneghina e partenopea di un’indennità che, pur uscita dalla penna della Consulta, si lamenta non essere, ancora, in linea con la cornice eurounitaria – sembrano, forse, smentire in parte tale ricostruzione “minimalista” del portato della sentenza n. 194/2018, consentendo l’attuale disciplina normativa al giudice di liquidare somme sostanzialmente più elevate – rispetto a quelle che sarebbero spettate al lavoratore in base al mero criterio legislativo dell’“anzianità crescente”21 – ed orientate alla garanzia della più volte evocata funzione risarcitoria e dissuasiva dell’indennità.

6. La questione se l’art. 10 d.lgs n. 23/2015 sia o no stato emanato “in attuazione del diritto dell’Unione”.

La seconda delle questioni sollevate nell’ordinanza meneghina può essere considerata in una con le questioni pregiudiziali sollevate innanzi alla Corte di Giustizia dalla Corte d’appello di Napoli. In merito, si pone, in primo luogo, la questione di quale sia il contenuto “essenziale” dell’art. 30 CDFUE22, ed in particolare quale portata esso possa esplicare con riferimento alla disciplina dei licenziamenti collettivi; ciò, pur muovendo dalla consapevolezza che «i licenziamenti collettivi non sono mai stati coinvolti nell’elaborazione dell’art. 30, venendo la relativa disciplina pretermessa in modo silente nei lavori preparatori della Carta»23. Nello sforzo di rintracciare il “contenuto essenziale” dell’art. 30 CDFUE24, rispetto alle variegate regolamentazioni nazionali in materia di licenziamento25, parte degli interpreti ha

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Ordinanza 18 settembre 2019. V. la rassegna delle prime sentenze di merito, applicative di C. cost. n. 194/2018, curata da Sordi, reperibile in https://drive.google. com/a/uniroma1.it/file/d/1fS_2kmq0_YHjG1X8Xu42a_Yn-gczDYQZv/view?usp=drivesdk. 22 Cfr. art. 52, co. 1 CDFUE. 23 «E quando qualcuno ebbe a rimarcare che la tutela in caso di licenziamento fosse stata lasciata fuori, l’obiezione non risulta aver suscitato reazioni». Pedrazzoli, Art. 30, Tutela dei lavoratori in caso di licenziamento ingiustificato, in Mastroianni, Pollicino, Allegrezza, Pappalardo, Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 2017, Giuffrè, 575, il quale richiama la sedicesima seduta del Konvent, 11-12 settembre 2000. 24 Cfr. art. 52, par. 1 della Carta, secondo cui «eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà». 25 E pur nella sostanziale divergenza di opinioni in merito. Nel senso restrittivo, dell’art. 30 CDFUE come limite al solo licenziamento “arbitrario” v. Tremolada, Il licenziamento libero, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da Persiani, Carinci, vol. V., L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, a cura di Gragnoli. Cfr. Calcaterra, Diritto al lavoro e diritto alla tutela contro il licenziamento 21

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chiarito che conviene assumere «che l’“ingiustificato” di cui parla l’art. 30 non sia una species, ma un contrassegno riassuntivo per individuare “in negativo” l’atto di licenziamento e riprovarlo perché inficiato da qualche deficienza»; come ad esempio (tra l’altro) il mancato rispetto dei presupposti formali e di procedimento, o i criteri di scelta ecc.26. Quale che sia la specifica portata dell’art. 30 della Carta in rapporto ai licenziamenti collettivi, ad ogni modo, occorre ricordare che, secondo la più recente (per certi aspetti ancora magmatica) elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, perché si possa produrre l’effetto di disapplicazione di una normativa nazionale per contrasto con una disposizione della Carta occorre sussistano due requisiti: che la disposizione della Carta invocata preveda un diritto di contenuto sufficientemente preciso da poter essere invocato dai singoli in quanto tale27; e che la disciplina nazionale difforme sia emanata “nell’attuazione del diritto dell’Unione”28. Entrambe le Corti danno “per scontato” che la disciplina sanzionatoria in oggetto (art. 10 d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui introduce una tutela indennitaria a favore del lavoratore licenziato in caso di violazione dei criteri di scelta) sia emanata “nell’attuazione” del diritto dell’Unione, ed in specie della direttiva 98/59/CE e che sia, di conseguenza, sindacabile alla stregua dell’art. 30 della CDFUE29. Più volte la Corte di Giustizia è stata sollecitata, per il passato, a pronunciarsi su questioni pregiudiziali formulate anche con riguardo all’art. 30 della CDFUE, ma ha sempre sostanzialmente escluso la propria competenza, in ragione del fatto che non si trattava di situazioni rientranti nell’ambito di applicazione di una norma del diritto dell’Unione (diversa dalla Carta stessa). In effetti, si trattava per lo più di controversie relative a licenziamenti individuali; materia nella quale, come noto, l’Unione europea non ha mai esercitato le proprie competenze normative (art. 153 comma 1, lett. d TFUE) tramite l’emanazione di una direttiva specifica30 (fatti salvi gli interventi settoriali di tutela avverso licenziamenti per lo più collegati a motivi discriminatori)31; o si trattava di fattispecie per altri versi estranee al campo di applicazione della direttiva sui licenziamenti collettivi32.

ingiustificato. Carta di Nizza e Costituzione italiana a confronto, in WP D’Antona, Int n. 58/2008, 28 ss. Contra, Bruun, Protection against unjustified dismissal (Article 30), in Bercusson (ed.), European Labour Law and the EU Charter of Fundamental Rights, BadenBaden, 2006, 337 ss. 26 Pedrazzoli, Art. 30, cit., 592. Sull’applicazione dell’art. 30 in rapporto ai licenziamenti collettivi v. Saracini, Reintegra monetizzata e tutela indennitaria nel licenziamento ingiustificato, Giappichelli, 2018, 20 ss.; Cosio, La tutela dei licenziamenti nel diritto primario dell’Unione, in Cosio, Curcuruto, Foglia (a cura di), Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell’Unione Europea, Giuffré, 2016, 29 ss. 27 Su questo ulteriore requisito, v. infra. 28 Art. 51 della Carta. 29 Cfr. su tali questioni Razzolini, Effettività e diritto del lavoro nel dialogo fra ordinamento dell’Unione e ordinamento interno, in LD, 2017, 447. Ballestrero, La Corte costituzionale censura il d.lgs. n. 23/2015: ma crescono davvero le tutele? in LD, 2019, 243 ss. 30 V. sul punto Pedrazzoli, Art. 30, cit., 588. Cfr. C. giust., 1 dicembre 2016, causa C-395/15, Daouidi, par. 64; C. giust., 16 gennaio 2008, causa C-361/07, Polier; C. giust., 5 febbraio 2015, causa C-117/14, Poclava. Cfr. sul punto De Michele, L’ordinanza del Tribunale di Milano sull’incompatibilità del Jobs Act con la normativa Ue dei licenziamenti collettivi, in LG, 2019, 1026 ss. 31 Cfr. Mezzacapo, Il licenziamento individuale, cit., 332 ss. che richiama il reg. Ue n. 492/2011; la direttiva 2000/78/Ce; la direttiva 2006/54/CE; la direttiva 2010/18/UE (oggi sostituita dalla direttiva 2019/1158/UE). 32 Cfr. C. giust., 10 dicembre 2009, causa C-323/08, che ha escluso che il caso di specie, relativo alla cessazione di rapporti di lavoro in

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Per quanto riguarda i casi di specie, merita ricordare che la direttiva 98/59/CE introduce degli obblighi esclusivamente di tipo procedimentale a carico del datore di lavoro, nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori33; in particolare, ai sensi dell’art. 2, par. 3, lett. b) della direttiva, i “criteri di scelta” devono essere “comunicati per iscritto ai rappresentanti dei lavoratori”, qualora (come nel caso italiano) la legislazione nazionale assegni al datore stesso la scelta dei lavoratori da licenziare. Da ciò discende che le sanzioni disposte per la mancata comunicazione scritta dei criteri stessi “ai rappresentanti dei lavoratori” debbano essere effettive, proporzionate e dissuasive e che la loro previsione, da parte del legislatore nazionale, configuri “attuazione del diritto dell’Unione” ai sensi dell’art. 51 della CDFUE34. Questione diversa, e non altrettanto scontata, è, invece, se anche eventuali misure nazionali, previste a favore dei singoli lavoratori, per la violazione (sostanziale) di detti criteri di scelta (come nel caso della norma censurata), siano emanate “in attuazione del diritto dell’Unione” ai sensi dell’art. 51 della CDFUE35. Come si è notato, la Corte di Giustizia nel caso Åkerberg Fransson36 (relativo al principio del ne bis in idem) ha, inizialmente, abbracciato un’interpretazione estensiva dell’art. 51 della Carta, per muovere poi verso una posizione più restrittiva37, non potendosi, in definitiva, dire ancora del tutto assestata la problematica38. Ad ogni modo, la Corte di Giustizia ha ritenuto «inapplicabili i diritti fondamentali dell’Unione ad una normativa nazionale, per il fatto che le disposizioni dell’Unione nella materia in questione non imponevano alcun obbligo agli Stati membri in relazione alla situazione oggetto del procedimento principale»39; ed ha chiarito che, per stabilire se una misura nazionale sia o no stata ema-

seguito alla morte del datore, rientrasse nel campo di applicazione di cui alla direttiva 98/59/CE. In generale, sulla direttiva cfr. Balletti, in Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Giappichelli, 2018; Roccella, Treu, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Cedam, 2019, 391 ss. 34 Si veda (in un campo del tutto diverso, relativo alla direttiva 2011/16/UE), C. giust., 16 maggio 2017, causa C-682/15, Berlioz, che ha ritenuto applicabile la Carta, malgrado la disciplina nazionale non fosse stata «esplicitamente adottata per attuare la direttiva e anche se lo Stato commina sanzioni che la direttiva non obbligava specificamente a prevedere». Così Cartabia, Convergenze e divergenze, nell’interpretazione delle clausole finali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in RivistaAIC, n. 2/2008, 11. Con riferimento alla direttiva 98/59/CE, v. le conclusioni dell’avvocato Kokott, nella causa C-422/2014, secondo cui «le garanzie di cui trattasi costituiscono, in definitiva, espressione del diritto fondamentale di tutela in caso di licenziamento ingiustificato (v. art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea)». 35 Art. 51, par. 1: «Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Cfr. Ziller, Art. 51, in Mastroianni, Pollicino, Allegrezza, Pappalardo, Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Giuffrè, 2017, 1042. 36 C. giust., 26 febbraio 2013, causa C-617/10, par. 19 ss. 37 C. giust., 6 marzo 2014, causa C-206/13, Siragusa, par. 20-22, C. giust., 27 marzo 2014, causa C-265/13, Torralbo, par. 28 ss. 38 Così Cartabia, Convergenze e divergenze, cit. Cfr. Rossi, La relazione fra Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea e direttive nelle controversie orizzontali, in www.federalismi.it, 2 maggio 2019, la quale ricorda peraltro che, secondo la sentenza Milkova (C406/15) «qualora gli Stati membri non siano obbligati da una direttiva a mantenere o adottare una determinata misura, ma godano di una certa discrezionalità a riguardo, le norme nazionali da essi adottate rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione». 39 C. giust., 10 luglio 2014, causa C-198/13, Hernàndez, par. 35, in Spinelli, Schiuma, Rassegna di giurisprudenza comunitaria. Tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro e principio di uguaglianza. Compatibilità della normativa interna con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in LG, 2014, 10, 909. Cfr. C. giust., causa C-144/95, par. 11, 12. Ancora, recentemente, in un caso finlandese relativo alla disciplina di quella parte delle ferie annuali eccedente le quattro settimane minime, di cui all’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, la Corte ha chiarito che «quando le disposizioni del diritto dell’Unione nel settore interessato non disciplinano un aspetto e non impongono agli Stati membri alcun obbligo specifico in relazione una determinata situazione, la 33

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nata in attuazione del diritto dell’Unione, occorre verificare se essa abbia o no lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, se essa «persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo», nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini la materia o possa incidere su di essa40. Ora, sembra di poter sostenere che, poiché la direttiva 98/59/CE si limita a procedimentalizzare il potere imprenditoriale di determinazione dei livelli occupazionali41, imponendo obblighi di informazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, la disciplina nazionale in oggetto (art. 10, d.lgs. n. 23/2015, indennità risarcitoria azionabile dal singolo lavoratore, in caso di violazione dei criteri di scelta) non possa essere considerata “emanata nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Il legislatore nazionale è, cioè, bensì tenuto, “per dare attuazione alla direttiva”, ad introdurre sanzioni effettive, proporzionate, dissuasive a carico del datore di lavoro che ometta di comunicare ai rappresentanti dei lavoratori i criteri di scelta (come ad esempio la possibilità del sindacato di ricorrere ex art. 28 Stat. lav.), ma non già (in attuazione del diritto dell’Unione) a prevedere una specifica tutela a favore del lavoratore ingiustamente licenziato, in violazione dei criteri di scelta42. Né si potrebbe sostenere che la mancata previsione, da parte del legislatore nazionale, di un’adeguata riparazione a favore del lavoratore licenziato in violazione dei criteri di scelta rischi di privare la direttiva del suo “effetto utile”. È ben vero che svariate volte la Corte di Giustizia 43 ha fatto riferimento al c.d. “effetto utile” della direttiva 98/59/CE, sia pure, per la verità, da ultimo, in una prospettiva per così dire capovolta44. E tuttavia, il diritto all’informazione e alla consultazione di cui alla direttiva 98/59/CE «è concepito a favore dei lavoratori intesi come collettività e presenta quindi

normativa nazionale che uno Stato membro adotta in merito a tale aspetto si colloca al di fuori dell’ambito di applicazione della Carta e la situazione di cui trattasi non può essere valutata alla luce delle disposizioni di quest’ultima». Cfr. C. giust., 19 novembre 2019, causa C-609/17, causa C-610/17, TSN ry, par. 53; C. giust., 19 aprile 2018, causa C-152/17, Consorzio italian management, par. 34. 40 C. giust., 10 luglio 2014, causa C-198/13, par. 37. Cfr. Morrone, Caruso, Art. 20, in Mastroianni, Pollicino, Allegrezza, Pappalardo, Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali, cit., 407, secondo cui «sembra essere smentita (o comunque ridimensionata) la linea interpretativa adottata in Mangold e Kucukdeveci che, tramite una sorta di dottrina della “interferenza”, presupponeva una concezione dei principi e diritti fondamentali magis ut valeant, direttamente precettivi nei confronti degli Stati membri tutte le volte in cui il diritto nazionale fosse entrato nella sfera di influenza delle norme primarie sovranazionali». 41 Potere peraltro riconducibile all’egida dell’art. 41 Cost. Cfr. (in altro ambito) Campanella, Licenziamenti collettivi in Grecia al vaglio della Corte di Giustizia: quale modello sociale europeo? Il commento, in LG, 2017, 783. 42 Contra ritiene che la materia dei criteri di scelta dei lavoratori rientri nell’ambito di applicazione della Carta, in ragione della «comunitarizzazione dell’art. 24 della Carta sociale europea, effettuata dall’art. 30 della Carta», Cosio, La tutela dei licenziamenti, cit., 43. Sul punto, l’ordinanza 18 settembre 2019 di rimessione alla Corte costituzionale afferma (non condivisibilmente) che, per il tramite delle sanzioni in materia di violazione dei criteri di scelta viene garantita «la procedimentalizzazione della scelta» stessa. 43 V. Campanella, Licenziamenti collettivi, cit. 44 C. giust., 21 dicembre 2016, causa C-201/15, AGET – Iraklis relativa alla legislazione greca, tacciata di condizionare il licenziamento collettivo al rilascio di un’autorizzazione amministrativa eccessivamente invasiva. La Corte ha ritenuto censurabile alla luce dell’art. 16 della Carta la disciplina greca, (solo) ove (circostanza che spetta al giudice nazionale accertare) la stessa pregiudichi la «libertà del datore di lavoro, una volta esaurite le procedure legali, di poter procedere ai licenziamenti programmati», osservando, peraltro, al contempo, come la libertà economica di impresa di cui all’art. 16 della Carta vada bilanciata con il principio di cui all’art. 30 della stessa. Critiche alla sentenza in Campanella, Licenziamenti collettivi, cit., la quale osserva come la Corte finisca per far coincidere il predetto “effetto utile” della direttiva con la libertà del datore di lavoro, una volta esaurite le procedure legali, di poter procedere ai licenziamenti programmati e come ciò sia “una forzatura” rispetto alla ratio della dir. 98/59.

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natura collettiva»45. Conseguentemente, la Corte ha, ad esempio, chiarito che il legislatore nazionale ben può introdurre limiti alla possibilità dei lavoratori (che agiscano individualmente) di far controllare l’avvenuto rispetto degli obblighi di informazione e consultazione e che tali limiti non compromettono l’effetto utile della direttiva46. Tali argomenti sembrano, dunque, deporre nel senso che la disciplina di cui all’art. 10 d.lgs. n. 23/2015, relativa alla violazione dei criteri di scelta, non sia emanata “nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Ferma, naturalmente, la necessità che le misure previste nel nostro ordinamento per sanzionare la violazione degli obblighi di informazione e consultazione nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori collettivamente intesi siano effettive, proporzionate e dissuasive.

7. L’art. 30 della Carta: “principio” o “diritto”? Ad ogni modo, anche a prescindere da tale profilo, dirimente – per escludere che possa darsi disapplicazione della norma nazionale confliggente con l’art. 30 – è la questione di quale sia il portato dell’art. 30 CDFUE47, ed in particolare la questione se la disposizione in commento integri un “principio” ovvero un “diritto”48, secondo la distinzione tracciata dalla Corte di Giustizia nella sentenza Association de médiation sociale49 (relativa all’art. 27 della Carta, concernente i diritti di informazione e consultazione), sulla scorta dell’art. 51, par. 1, e dell’art. 52, par. 5 della Carta50. Solo nel secondo caso (se cioè l’art. 30 esprimesse un c.d. “diritto”) sarebbe infatti possibile ipotizzare la disapplicazione della disposizione

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C. giust., 16 luglio 2009, causa C-12/08, Mono Car., par. 42. Sulla natura collettiva dei diritti di informazione e consultazione di cui alla direttiva, v. Sitzia, I licenziamenti collettivi, in Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Cedam, 2013, 323 ss. 46 C. giust., 16 luglio 2009, causa C-12/08, Mono Car. In generale, sul punto v. anche Celentano, La tutela indennitaria e reintegratoria: compatibilità costituzionale e comunitaria, in RIDL, 2015, 377 ss. secondo cui, se da un lato è sicuramente possibile che una disciplina nazionale possa essere ritenuta non sufficientemente dissuasiva, con conseguente attivazione di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato membro, «difficilmente un simile contesto potrebbe determinare una questione di compatibilità comunitaria costituzionalmente rilevante, dal punto di vista della sufficienza dell’effettività della trasposizione normativa dei principi». 47 Ai sensi del quale «ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali» (“unjustified dismissal” nella versione inglese, “licenciement injustifié” nella versione francese). 48 Più propriamente, occorre distinguere tra «disposizioni della Carta che sanciscono un principio “di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale … e quelle che, per produrre pienamente i propri effetti, devono essere precisate “mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale». Ales, La dimensione “costituzionale” del Modello Sociale Europeo tra luci e ombre (con particolare riferimento ai diritti collettivi e al licenziamento), in WP D’Antona, int. 129/2016, 4. Nel novero delle prime figurano, secondo la Corte di Giustizia, ad esempio gli artt. 20, 21, 47, 31 della Cfr. le cause IR (C-68/17), Hein (C-385/17), Cresco investigation (C-193/17), Bauer (C-569/16), Max Planck (C-684/16). Cfr. sul punto Rossi, La relazione, cit. Cavallaro, Le Carte e le Corti, cit. 49 C. giust., 15 gennaio 2014, causa C-176/12. 50 Art. 52, par. 5: «Le disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti».

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nazionale (se emanata in attuazione del diritto dell’Unione51), per contrasto con l’art. 30 della Carta stesso. Come noto, la Carta non ascrive esplicitamente i diritti fondamentali a ciascuno dei due gruppi, limitandosi, nelle “Spiegazioni”, a proporre esempi di “diritti”, di “principi”, o di articoli che contengono elementi sia di un diritto che di un principio52. La Corte di Giustizia e le stesse corti nazionali rifuggono, per lo più, da una esplicita qualificazione o comunque dall’uso di una terminologia univoca53, talora riferendosi, rispettivamente, ai c.d. diritti come “principi sufficienti per conferire ai singoli un diritto soggettivo”, talora riferendosi ai c.d. principi come “diritti incompleti”54. Ora, nel senso che la disposizione di cui all’art. 30 non sia sufficientemente precisa da attribuire un “diritto invocabile in quanto tale dai singoli”55 – quantomeno nel senso del diritto del lavoratore, in caso di violazione dei criteri di scelta, ad ottenere una tutela di tipo reintegratorio56 ovvero una “riparazione piena” del danno subito57 – sembra deporre, se non altro, il tenore testuale della norma, dalla quale si desume che, per produrre pienamente i suoi effetti, la stessa deve essere precisata mediante disposizioni del diritto dell’Unione, o del diritto nazionale58, mancando nell’art. 30 i dettagli e le precisazioni che renderebbero azionabile avanti alle Corti un’eventuale pretesa»59. In definitiva, sul punto le posizioni del Tribunale di Milano – per quanto salutate con favore da parte degli interpreti60 – risultano poco convincenti, né il combinato richiamo

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Cosa di cui, come si è detto, si dubita. In tal senso, le Conclusioni dell’avv. Generale, nella controversia 18 luglio 2013, C-176/12, par. 43. Cfr. le “Spiegazioni”, in cui «(a) titolo illustrativo si citano come esempi di principi riconosciuti nella Carta gli articoli 25, 26 e 37. In alcuni casi è possibile che un articolo della Carta contenga elementi sia di un diritto sia di un principio, ad es. gli articoli 23, 33 e 34». 53 Cfr. C. giust., causa C-282/10. 54 Cfr. la stessa ordinanza partenopea, par. 53. 55 In tal senso anche Cosio, La tutela dei licenziamenti, cit., 44. Cfr. sul punto Cester, Il Jobs act sotto la scure della Corte costituzionale: tutto da rifare?, in LG, 2019, 2, 153, secondo cui apparirebbe «una forzatura trarre indicazioni specifiche da una norma, come il suddetto art. 30, che si limita a prevedere “il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato”, aggiungendo che ciò deve avvenire “conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali” (con conseguente ampio margine per la discrezionalità degli Stati membri, se non vero e proprio rinvio ad essa)». 56 Cfr. De Luca, Contratto di lavoro a tutele crescenti e sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi, in LG, 2015, 545, secondo cui: «la garanzia della carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (di cui all’art. 30, par. 1, trattatizzato ai sensi dell’art. 6, par. 1, T.U.E.) copre il diritto dei lavoratori alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato. Non si estende, però, alla tutela reale, che resta, quindi, affidata – alla discrezionalità del nostro legislatore ordinario – anche nel vigore della Carta». Cfr. Maio, Struttura ed articolazione della contrattazione collettiva, Cedam, 2013, 514. Sulla necessità che l’apparato sanzionatorio avverso il licenziamento non adeguatamente giustificato sia adeguatamente dissuasivo, ancorché non necessariamente di tipo ripristinatorio, cfr. Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Cedam, 2017, 138, ed in particolare la bibliografia citata in nota 126. 57 V. peraltro sul punto le osservazioni di Ales, La dimensione “costituzionale”, cit., 15. 58 Così, con riferimento all’art. 27 della Carta, che, del pari, fa rinvio (sia pure con formula non identica, rispetto a quella di cui all’art. 30) al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, la Corte di Giustizia nella sentenza 15 gennaio 2014, C-176/12. Cfr. Rossi, La relazione, cit. In linea generale, Ales, La dimensione “costituzionale”, cit., 4 ricorda come la Corte operi una summa divisio «tra disposizioni della Carta che sanciscono un principio “di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale” … e quelle che, per produrre pienamente i loro effetti, devono essere precisate “mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale”». 59 Pedrazzoli, Art. 30, cit., 580. Mezzacapo, Il licenziamento individuale, cit., 342; Cosio, La sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e il diritto europeo. Prime riflessioni, in www.europeanrights.eu. Sul punto si veda peraltro la posizione di Ales, La dimensione “costituzionale”, cit. 60 De Michele, L’ordinanza del Tribunale di Milano, cit., 11, 1022 ss. 52

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che il Tribunale fa all’art. 20 della Carta (principio di uguaglianza) può sopperire al difetto di specificità dell’art. 30, come si dirà.

8. La pretesa funzione “depuratrice di norme” dell’art. 30 della Carta.

Più rigorosa (ma, nonostante ciò, non convincente) pare, invece, l’impostazione della Corte d’appello di Napoli che, pur muovendo dalla dichiarata consapevolezza della mancanza di effetto diretto dell’art. 30 della CDFUE (disposizione “non self-executing”)61, da un lato fa leva sulla disposizione stessa per denunciare dinnanzi alla Corte costituzionale la violazione, in particolare, dell’art. 117 Cost. (su cui infra), dall’altro – valorizzando l’art. 30 come parametro di legittimità e leva interpretativa62 – giunge fino ad ipotizzare, per tale via, che l’art. 30 della Carta possa assumere finanche una funzione “depuratrice di norme”63. Malgrado l’art. 30, alla luce dell’art. 52, par. 5 della Carta non consenta «di invocare direttamente nel giudizio l’applicazione di una predefinita sanzione, ripristinatoria o risarcitoria, di matrice eurounitaria, in funzione “costruttiva”»64, la Corte Partenopea chiede, cioè, alla Corte di Giustizia se i richiamati parametri di adeguatezza, proporzionalità, efficacia, dissuasività costituiscano un limite esterno «rilevante e utilizzabile nel giudizio ai fini delle “azioni riconosciute al giudice nazionale” per l’adeguamento al diritto dell’UE della normativa o della prassi nazionale attuativa della direttiva 98/59/CE»65 e cioè – fuori di metafora – se sia, ciononostante, consentita al giudice comune la diretta disapplicazione della normativa nazionale difforme. Si tratta della controversa posizione, espressa a suo tempo dall’avvocato generale Cruz Villalòn nel caso Association de médiation sociale: secondo la tesi dell’avvocato generale sarebbe possibile giungere alla disapplicazione della normativa nazionale, in una controversia fra privati, ove il “principio” di cui alla Carta (lì, l’art. 27, qui, secondo la Corte partenopea, l’art. 30), con il quale la normativa nazionale confligga sia “concretizzato in maniera

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Ordinanza ex art. 267 TFUE, del 18 settembre 2019, par. 49. Su cui v. da ultimo Cass., 4 giugno 2018, n. 14212. 63 La Corte si richiama alle conclusioni dell’avvocato generale, 18 luglio 2013, nel caso Association de médiation sociale, C-176/12. Secondo la Corte d’appello di Napoli (par. 53), il diritto alla tutela avverso il licenziamento ha una portata precettiva, in quanto stabilisce un limite al potere normativo e, nei confronti dei giudici, «introduce un parametro di valutazione della coerenza della previsione nazionale rispetto ai vincoli che discendono dalla natura fondamentale del diritto nella sua dimensione sovranazionale. 64 Così l’ordinanza partenopea, par. 59. 65 Così l’ordinanza partenopea, nel formulare la prima delle questioni pregiudiziali. 62

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essenziale ed immediata” da una direttiva66. Ma neppure tale strada appare convincente67 ed è in effetti stata disattesa dalla Corte di Giustizia68: in sostanza «è solo la disposizione di diritto primario e non la direttiva che ne espressione concreta ad avere effetto diretto orizzontale, così che quest’ultima “non può conferire a tale disposizione le caratteristiche necessarie per essere invocata direttamente nel contesto di una controversia fra privati»69. Ad ogni modo, non pare proprio che l’argomentazione proposta dall’avvocato Villalòn possa essere utilizzata con riferimento all’art. 30 in rapporto alla direttiva 98/59/CE, per “estrarne” la necessaria tutela reintegratoria o pienamente riparatoria del danno subito dal lavoratore illegittimamente licenziato in violazione dei criteri di scelta. La direttiva, come si è detto, introduce degli obblighi esclusivamente di tipo procedimentale a carico del datore di lavoro nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori, collettivamente intesi, e certo non si può dire che essa “concretizzi in maniera essenziale ed immediata” (nel senso rigoroso, prospettato dall’avvocato generale) il principio di tutela dei (singoli) lavoratori contro un licenziamento ingiustificato70 di cui all’art. 30 della Carta di Nizza. Non pare si possa, cioè, sostenere che una normativa secondaria (direttiva 98/59/CE) di contenuto esclusivamente procedimentale possa “concretizzare” il principio di cui all’art. 30, consentendo di enucleare dallo stesso quella regola di “necessaria integrale riparazione” del danno subito dal singolo lavoratore illegittimamente licenziato, invocata in causa71. Né, infine, siffatta funzione di “concretizzazione” (secondo l’argomentazione “Cruz Villalòn”) – può essere “estratta” dall’art. 24 della Carta sociale europea, che non è fonte derivata del diritto eurounitario.

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Conclusioni dell’avvocato generale, 18 luglio 2013, nel caso Association de médiation sociale, C-176/12, parr. 73-80. Nel caso di specie, in sostanza, si dovrebbe sostenere che le garanzie procedimentali di cui alla direttiva 98/59/CE non solo costituiscano espressione del diritto fondamentale di ogni lavoratore di tutela contro il licenziamento ingiustificato (così Cosio, La nozione di “licenziamento” nella direttiva sui licenziamenti collettivi, il commento, in LG, 2016, 247) ma anche che esse “concretizzino” in modo immediato e diretto tale principio, e che ciò renda possibile la disapplicazione della disciplina nazionale difforme. 67 Cfr. sul punto Cosio, La nozione, cit., secondo il quale «l’invocazione dell’art. 30 in combinato disposto con la direttiva sui licenziamenti collettivi non cambia la natura della norma primaria (che resta un principio) ma ne concretizza solo il contenuto, descrivendone gli scopi all’interno della direttiva di riferimento)». 68 C. giust., causa C-176/12, Association de médiation sociale, cit. 69 Rossi, La relazione, cit. 70 Secondo l’avvocato generale, «le disposizioni di una direttiva che, per ipotesi, possono concretizzare in modo essenziale ed immediato il contenuto di un “principio” non sono numerose», imponendosi sul punto un’interpretazione fortemente restrittiva. 71 Semmai, alle “spalle” della direttiva 59/98/CE sembra esservi il “principio” (a sua volta non sufficiente a conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale) di cui all’art. 27 CDFUE (diritto all’informazione e consultazione), che trova la propria (parziale) rispondenza (non nell’art. 24, bensì) nell’art. 29 della Carta sociale europea.

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9. L’art. 24 della Carta sociale europea e il valore delle

pronunce del Comitato europeo per i diritti sociali.

A tale proposito, suscita perplessità la pretesa di assegnare valore vincolante (in relazione all’art. 30 della Carta) alle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali relative all’art. 24 della Carta sociale europea72. Ora, come noto, la Corte costituzionale italiana73 – pur criticata da parte della dottrina74 – ha recentemente negato che le pronunce di quest’ultimo Comitato (deputato ad assolvere alle procedure di reclamo collettivo previste dalla Carta sociale europea) abbiano carattere “vincolante”. In sostanza la Corte costituzionale osserva come manchino, nella Carta sociale europea e nei relativi protocolli addizionali disposizioni equivalenti a quelle contenute nell’art. 32, par. 1 e nell’art. 46 della CEDU, le quali, rispettivamente, proclamano la competenza della Corte EDU sulle questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’impegno delle parti contraenti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. Non può dunque assegnarsi alle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, in rapporto alla Carta sociale europea, quella particolare valenza “interpretativa” già riconosciuta dalla nostra giurisprudenza costituzionale alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento alla CEDU75. Né pare corretto prospettare «una sorta di accentramento sostanziale del giudizio di legittimità di tutta la produzione normativa, nazionale ed europea, avanti la Corte di Giustizia, ben al di là delle competenze devolute all’Unione»76. Del resto, come è stato notato, «se davvero il risarcimento senza massimale in caso di licenziamento ingiustificato o irregolare costituisse oggetto di un diritto fondamentale della persona, sarebbe inevitabile la sua estensione anche alle imprese di piccole dimensioni e ai rapporti di lavoro domestico e dirigenziale», e l’accoglimento di questa tesi da parte del-

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Sul valore non vincolante degli orientamenti del Comitato, da ultimo Ichino, Un altro giudice contro la nuova disciplina dei licenziamenti, in www.pietroichino.it. 73 C. cost., n. 194/2018. 74 Cfr. sul punto le considerazioni critiche di Speziale, Il problema della legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti; v. anche Forlati, Corte costituzionale e controllo internazionale: quale ruolo per la “giurisprudenza” del Comitato europeo per i diritti sociali nel giudizio di costituzionalità delle leggi, Amoroso, Sull’obbligo della Corte costituzionale italiana di “prendere in considerazione” le decisioni del comitato europeo dei diritti sociali; Borlini, Il valore delle pronunce del comitato europeo dei diritti sociali ai fini dell’interpretazione della Carta sociale europea nel diritto internazionale, tutti in Forum dei Quaderni costituzionali, Atti del seminario in previsione dell’udienza pubblica della Corte costituzionale del 25 settembre 2018 sulla questione di costituzionalità sul d.lgs. n. 23/2015 (Ferrara 26 giugno 2018), 2018, 67, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2018/07/ atti-convegno-jobs-act.pdf. 75 Sul punto v. però la posizione di Perrone, Il ruolo dell’art. 24 della Carta Sociale Europea nella sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, in Labor, 2019, 2: «essendo il prodotto deliberativo del Comitato Europeo dei Diritti Sociali una fonte di soft law pienamente valorizzata dalla giurisprudenza della Corte EDU, appare coerente con il sistema integrato multi level riconoscerne l’attitudine conformativa sulla discrezionalità decisionale del giudice nazionale». 76 Ferrante, Licenziamento collettivo e lavoro a termine “stabilizzato”: il Jobs Act viene rinviato davanti alla Corte di Giustizia europea, in DRI, 2019, 4.

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la Corte europea «comporterebbe la messa in mora… anche di quasi tutti gli ordinamenti degli altri 27 Paesi appartenenti all’Unione», contraddicendo l’idea stessa che il catalogo dei diritti di cui alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea rispecchi, in particolare, «i diritti risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario»77.

10. Le ulteriori argomentazioni delle due Corti: in

particolare il richiamo agli artt. 20 e 21 della Carta. Né, come si diceva, tali obiezioni possono essere superate tramite il richiamo, in una con l’art. 30, anche del (solo) art. 20 della Carta78, perché a sua volta l’articolo in questione difetta di una normativa di ingresso (tale non è, come si è cercato di argomentare, la direttiva 98/59/CE) che consenta di affermare che il principio di uguaglianza sia stato violato “nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Anche la Corte partenopea, come si è detto (quarta questione) richiama l’art. 20 (principio di uguaglianza) della Carta, ma lo fa in una con l’art. 21 (non discriminazione), oltre che con l’art. 34 (diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali) e con l’art. 47 (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale). Ciò, sulla scorta di quegli argomenti della dottrina che, in senso critico nei confronti dell’impianto complessivo del d.lgs. n. 23/2015, aveva espressamente invocato l’efficacia diretta del principio di uguaglianza, di cui all’art. 20 della Carta di Nizza, destinato «ad operare al di là dei divieti discriminatori, ma limitatamente a violazioni che ridondino in ingiustificate differenze di trattamento di situazioni identiche delle persone coinvolte», come ad esempio il caso di «due (gruppi di) dipendenti, assunti prima e dopo il Jobs Act, licenziati per motivo economico comune, con applicazione di tutele diverse»79. Secondo la corte partenopea, sarebbe, in particolare, contrario al principio di uguaglianza (art. 20) l’aver introdotto una normativa “applicativa della direttiva 98/59/CE” che differenzia la sanzione sulla base della data di assunzione, in modo da generare «una diversità di livelli di tutela basati sull’anzianità lavorativa e non sulle conseguenze effettive subite a seguito della ingiusta perdita della fonte di sostentamento». Tanto più, aggiunge la Corte (ma forse qui l’argomentazione perde un po’ di linearità), che lo stesso ancoraggio prioritario, nella determinazione della sanzione, all’anzianità del lavoratore – «e quindi indirettamente all’età del lavoratore appare difficilmente conciliabile con i principi richiamati». Sullo sfondo riecheggiano (mutatis mutandis) le argomentazioni di cui alla causa Milkova80.

77

Cfr. Consiglio europeo di Colonia, 3-4 giugno 1999. Cfr. Pedrazzoli, Art. 30, cit., 573. Sul quale vedi Morrone, Caruso, Art. 20, cit. 79 F. Buffa, La nuova disciplina del licenziamento e le fonti internazionali, in ADL, 2015, 566. 80 C. giust., 9 marzo 2017, causa C- 406/15. Cfr. Pasqualetto, I limiti al licenziamento per ragioni oggettive dei disabili in funzione di 78

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Ma, nel caso che ci interessa, tale operazione, di sottoporre la disciplina sanzionatoria in materia di violazione dei criteri di scelta introdotta dall’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 al diretto vaglio di ragionevolezza, ex art. 20 della Carta (con conseguente disapplicazione della norma nazionale confliggente) non pare praticabile, perché – come si è già osservato – l’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 non è emanato “nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Né l’ordinanza partenopea – pur menzionando, di sfuggita, il fattore “età” (in ipotesi indirettamente collegato all’anzianità) - chiama in gioco la direttiva 78/2000, quale possibile “norma di ingresso”, capace di proiettare la disciplina sanzionatoria de qua nel cono d’ombra del diritto dell’Unione. Sul punto si può forse aggiungere che, se di per sé una maggiore anzianità di servizio dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 coinvolti in una medesima procedura di licenziamento collettivo), rispetto ai lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 non è certo indicativa di una loro più elevata età anagrafica, resta, ben vero, lo “spiraglio” della prova statistica della discriminazione (in base all’età)81. A scongiurare siffatta discriminazione (ove la stessa emergesse dai dati statistici) non ci si potrebbe limitare a considerare come detta differenza di trattamento sia «oggettivamente e ragionevolmente» giustificata da obiettivi di politica del lavoro, quale, in particolare la necessità di favorire l’inserimento professionale dei giovani (art. 6, direttiva 2000/78/CE; art. 1, comma 7, l. n. 183/2014); ma occorrerebbe verificare anche se la stessa costituisca o no mezzo «appropriato e necessario» (art. 6, direttiva 2000/78/CE). La recente posizione, restrittiva, della Corte di Giustizia in tema di discriminazioni per età82 pare, tuttavia, rendere alquanto remota la possibilità che un simile argomento possa fare breccia nella giurisprudenza e chiudere, dunque, lo spiraglio.

un’effettiva parità di trattamento nel lavoro, in ADL, 2017, 1100. La controversia (relativa ad un caso bulgaro) verteva, in quel caso, sulla legittimità o meno di un regime differenziato di tutele, lì, tra lavoratori disabili del settore pubblico e del settore privato. La direttiva 78/2000 contempla un elenco tassativo di fattori di discriminazione ed, in sé, non reprime le discriminazioni tra settore privato e pubblico. La Corte di Giustizia, tuttavia, nel caso bulgaro, si spinge a valutare se la previsione di una tutela differenziata a favore di certe categorie di soggetti (lì, lavoratori disabili del settore privato) e non di altri (lì, lavoratori disabili del settore pubblico) sia o no giustificata alla luce di ragionevoli differenze di fatto tra le due categorie di soggetti. In tal modo la Corte di Giustizia “attrae”, per così dire, alla propria cognizione la valutazione della legittimità o no, non già di “discriminazioni” fondate sulla disabilità, ma di irragionevoli differenziazioni nella tutela dei disabili, rispetto ad altre categorie di disabili. In senso opposto, le conclusioni dell’avvocato generale del 27 ottobre 2016. Secondo l’avvocato generale, la direttiva 2000/78 non è invocabile nel caso in esame, poiché la differenziazione controversa si fonda su un criterio diverso da quelli elencati nel suo art. 1; e per tale ragione le disposizioni della direttiva non possono essere interpretate alla luce delle disposizioni della Carta. 81 In sostanza se – dati statistici alla mano (e cioè all’esito di una necessaria preventiva verifica sui dati relativi all’utilizzo del nuovo contratto a tutele crescenti) – emergesse in linea generale che un numero molto maggiore di giovani (ad esempio con meno di venticinque anni di età) risultasse occupato con contratto a tutele crescenti, rispetto ai lavoratori di altre fasce di età, potrebbe ipotizzarsi sussistente nella vigente disciplina una discriminazione in base all’età. Ciò, richiamandosi a quella giurisprudenza comunitaria che, prima che la direttiva 97/81/CE sancisse espressamente il divieto di discriminazione dei lavoratori con contratto a tempo parziale rispetto ai lavoratori con contratto a tempo pieno, giungeva a sanzionare le differenziazioni di trattamento tra gli uni e gli altri per il tramite del divieto di discriminazione in base al sesso, in base alla considerazione che la manodopera impiegata con contratto a tempo parziale era prevalentemente femminile. Cfr. C. giust., 31 marzo 1981, causa C-96/80, J.P. Jenkins c. Kingsgate (Clothing Productions) Ltd. 82 C. giust., 19 luglio 2017, causa C-143/16, Abercrombie & Fitch.

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11. La pretesa violazione degli artt. 20, 21 della Carta e dell’art. 4 dir. 1999/70.

Quanto alla prima delle questioni sollevate dal Tribunale di Milano, sopra richiamata83, colpisce, in primo luogo, che nel formulare il quesito alla Corte di Giustizia, il giudice ometta di richiamare esplicitamente le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali, menzionate invece nella parte motiva, limitandosi a lamentare la violazione dei «principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 della direttiva 99/70/CE», il quale per quanto riguarda le “condizioni di impiego” impone di non trattare in modo meno favorevole i lavoratori a tempo determinato, rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato “comparabili”, a meno che non sussistano ragioni oggettive. È ben vero che l’art. 4 della direttiva è disposizione “self executing”; ma, non essendo il rapporto in questione, tra la lavoratrice ed il datore di lavoro (privato), di tipo “verticale” (bensì intercorrente tra privati), l’accertata violazione dell’art. 4 della direttiva non potrebbe, di per sé, condurre alla disapplicazione della disposizione nazionale confliggente. Ed è proprio per tali ragioni che, in effetti, nel corpus dell’ordinanza, il giudice meneghino si richiama esplicitamente anche agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali (che opererebbero, allora, tramite la “porta di ingresso” dell’art. 4, consentendo la disapplicazione della normativa nazionale difforme). In sostanza, secondo il giudice remittente, il divieto di trattare in modo meno favorevole i lavoratori a tempo determinato rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili per quanto riguarda le “condizioni di impiego” si estenderebbe anche alla disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento collettivo illegittimo. In particolare, l’“anzianità” maturata nel rapporto a tempo determinato dovrebbe necessariamente essere computata nel caso (di cui all’art. 1, co. 2) in cui, dopo il 7 marzo 2015, il contratto sia stato trasformato in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Non sussisterebbero, infatti, ragioni oggettive per la differenza di trattamento attualmente prevista dall’ordinamento tra tale situazione e quella di un lavoratore assunto, fin dall’inizio (prima del 7 marzo 2015), con contratto a tempo indeterminato. E ciò, in particolare, perché, a detta del giudicante, l’aumento della “flessibilità in uscita” per i lavoratori neo-assunti o per gli “stabilizzati” (art. 1, co. 2) introdotto con il Jobs Act – alla prova dei fatti (che viene ricavata, in particolare, da stime e documenti di valutazione dell’impatto della novella, prodotti dall’Ufficio studi del Senato e dall’OCSE) – avrebbe “mancato” l’obiettivo di favorire la crescita occupazionale; consentendo così all’interprete – con valutazione “ex post” – di dubitare della razionalità dell’intervento del legislatore. Giova in via preliminare osservare che l’ordinanza in commento supera “a pié pari” ogni incertezza in ordine all’effettiva portata dell’art. 1, co. 2 d.lgs. n. 23/2015, dando sostanzialmente per scontato (come in effetti la maggior parte della dottrina) che la norma

83

Condizionata dalla specificità del caso, e cioè dall’essere la lavoratrice stata assunta con rapporto di lavoro a tempo determinato precedente il 7 marzo 2015, poi “trasformato” in rapporto a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015.

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si riferisca (quantomeno) ai lavoratori il cui rapporto sia stato trasformato in rapporto a tempo indeterminato “su base volontaria”84, come la lavoratrice nel caso di specie. Ad ogni modo, una prima questione da valutare attiene a ciò: se la disciplina sanzionatoria prevista in caso di violazione dei criteri di scelta, nel licenziamento collettivo, possa o no essere considerata una “condizione di impiego”, ai sensi dell’art. 4 dir. 99/70/CE. A tale quesito sembrerebbe, di primo acchito, di dover dare risposta negativa, posto che «la differenza di trattamento in questione riguarda la cessazione del rapporto di lavoro: cioè un aspetto del trattamento del lavoratore a termine sul quale vi è necessariamente, per definizione, una differenza rispetto al lavoratore a tempo indeterminato»85. Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra, tuttavia, trasparire una posizione più articolata sul punto. L’espressione «condizioni di impiego» si riferisce, infatti, secondo la Corte, ai diritti e agli obblighi che definiscono un dato rapporto di lavoro, dovendosi includere «tanto le condizioni nelle quali una persona esercita un impiego quanto quelle relative alla cessazione di tale rapporto di lavoro»86. Così, ad esempio, nella recente controversia Sindicato Nacional de CCOO de Galicia87 relativa all’indennizzo corrisposto ai prestatori, a fronte della risoluzione di contratti a termine “predottorali”, la Corte di Giustizia ha concluso nel senso che l’indennizzo corrisposto per la risoluzione dei contratti di lavoro deve essere considerato una “condizione di impiego” ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 della direttiva 99/70/CE88. La Corte ha, tuttavia, al contempo ritenuto senz’altro sussistente una ragione oggettiva a fondamento della disparità di trattamento in questione: nel contratto a tempo determinato le parti conoscono, fin dall’inizio del rapporto, la data o l’evento che ne determina la durata, laddove il licenziamento ante tempus, nel caso di contratto a tempo indeterminato, ha natura imprevista, e tale da frustrare le legittime aspettative di stabilità del prestatore, di talché si giustifica il pagamento di un indennizzo nell’un caso, e non nell’altro89. E ad analoghe conclusioni la Corte è giunta, con riferimento al diritto spagnolo, in una controversia in cui alcuni lavoratori a termine avevano lamentato il diverso trattamento subito, rispetto a lavoratori a tempo indeterminato impiegati nel medesimo appalto, i quali, ultimi (a differenza dei primi) avevano ricevuto una consistente indennità di cessazione del rapporto. In sostanza (e fatti salvi gli accertamenti di competenza del giudice nazionale) l’indennità di cessazione del rapporto, di cui alla controversia principale rientra, bensì,

84

Sul punto v. Cass. 16 gennaio 2020, n. 823. Su tali questioni v. da ultimo Tomiola, La “conversione” a tempo indeterminato dei contratti a termine ai fini dell’applicazione del d.lgs. n. 23/2015, tra atto, evento ed effetto, nota a Trib. Parma, 18 febbraio 2019, in Labor 2019; in precedenza, Tremolada, Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), ADAPT University Press, 2015. 85 Ichino, Un altro giudice, cit. 86 C. giust., 20 dicembre 2017, Vega González, causa C-158/16, par. 34; conclusioni dell’avv. generale Szpunar 17 ottobre 2019, nella controversia C-177/18. 87 C. giust., 19 marzo 2019, causa C-293/18. 88 Nel medesimo senso C. giust., 21 novembre 2018, Diego Porras, causa C-619/17, par. 59; C. giust., 12 giugno 2019, causa C-367/18, par. 33. 89 C. giust., 19 marzo 2019, causa C-293/18.

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tra le c.d. “condizioni di impiego”, di cui all’art. 4 della direttiva 99/70/CE, ma sussistono “ragioni oggettive” per diversificare i trattamenti tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato. Di conseguenza, in quelle decisioni, la Corte non si addentra neppure nella questione (anche lì sollevata dal giudice a quo, per sopperire alla mancanza di effetto diretto “verticale” della clausola 4, essendo il datore di lavoro privato) se la disposizione di diritto nazionale in commento potesse o no essere disapplicata, in quanto contraria ai principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti agli artt. 20 e 21 della Carta90. Vero è che però, nel caso di specie, la disparità di trattamento con riferimento alle “condizioni di cessazione del rapporto” non intercorre propriamente tra un lavoratore a termine e un lavoratore a tempo indeterminato comparabile, bensì tra due lavoratori, entrambi a tempo indeterminato, entrambi coinvolti in un licenziamento collettivo, il primo dei quali (stabilizzato dopo il 7 marzo 2015) lamenta il mancato computo della pregressa “anzianità” (maturata come lavoratore a termine). La “differenza di trattamento” della cui ragionevolezza l’interprete deve interrogarsi, non attiene, cioè alle (deteriori) condizioni di impiego godute – durante il pregresso periodo di precariato – da un lavoratore a termine poi stabilizzato; bensì alle (deteriori) condizioni di impiego godute – dopo la stabilizzazione – da un lavoratore a tempo indeterminato, già precario. Non pare, allora (in radice), che tale differenza di trattamento possa essere sindacata alla luce dell’art. 4 della direttiva 1999/70/CE, poiché quest’ultima norma vieta le disparità di trattamento unicamente tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato comparabili, e non già le differenze tra lavoratori entrambi a tempo indeterminato. Solo se si ritenesse il contrario – se cioè si ritenesse che l’art. 4 consenta di sindacare la disparità di trattamento tra i due lavoratori a tempo indeterminato (lavoratore con contratto a tutele crescenti che abbia ottenuto, dopo il 7 marzo, la “conversione” del contratto a termine precedentemente stipulato e lavoratore a tempo indeterminato comparabile) – occorrerebbe, allora, valutare se sussistano o no ragioni oggettive di siffatta disparità. Ora, il mancato computo dell’anzianità maturata durante il periodo in cui il rapporto si è svolto (inizialmente) a tempo determinato91 affonda (dichiaratamente) le sue radici nell’obiettivo di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione»92 (stimolando i datori di lavoro alla “trasformazione del rapporto”); e la Corte di Giustizia ha, a più riprese chiarito (sia pure nell’ambito di diversi contesti normativi) che gli Stati membri godono di un ampio margine discrezionale, non solo «nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell’occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo»93. Misure che, come da altri rilevato, non possono agevolmente essere messe in discussione, nella loro ragionevolezza ex ante da una – opinabile valutazione, ex post dei concreti risultati conse-

90

C. giust., 11 aprile 2019, causa C-29/18, causa C-30/18, causa C-44/18. Su tali questioni v. anche i casi Motter e Rossato, C. giust., 20 settembre 2018, causa C-466/17 e C. giust., 8 maggio 2019, causa C-494/17. 92 Art. 1, co. 7 l. n. 183/2014. 93 C. giust., 19 luglio 2017, causa C-143/16, Abercrombie. 91

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guiti94; valutazione che (e ciò dà conto, quantomeno, della controvertibilità dei dati addotti dal Tribunale), secondo i principali fautori della riforma, sarebbe, anzi contraddetta dalle più recenti analisi empiriche95.

12. L’ordinanza partenopea di rimessione alla

Corte costituzionale: l’irragionevolezza dell’operare contemporaneo e non scaglionato nel tempo di due diverse discipline, differenziate in base al solo momento genetico del rapporto. Altrettanto articolate sono le questioni sollevate dalla Corte partenopea innanzi alla Corte costituzionale, le quali, invece, paiono in parte meritevoli di tutela. La Corte si interroga, in primo luogo, sulla ragionevolezza96 o no della scelta del d.lgs. n. 23/2015 di fondare una sì rilevante differenza di tutela – acuita dalla difformità del rito97 – su di un dato del tutto estrinseco (ma capace di introdurre «un’ulteriore e grave divaricazione del mercato del lavoro»)98, quale quello della data di assunzione. È ben vero che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, non contrasta «di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche»99. E tuttavia – si era osservato – tali considerazioni non paiono pertinenti, poiché, nell’impianto del Jobs Act, «la situazione dei lavoratori soggetti a diverse tutele è in tutto identica ed il fluire del tempo non riguarda la situazione posta a base del recesso (ma solo il momento genetico del rapporto, irrilevante ai fini della valutazione del fatto)»100. Sicché l’irrazionalità sta, sostanzialmente, nell’operare contemporaneo e non scaglionato nel tempo, di due diverse discipline. È noto che la Corte costituzionale si è pronunciata specificamente sul punto in relazione all’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, chiarendo come la modulazione temporale dell’applicazione del decreto legislativo n. 23/2015 trovi fondamento nello scopo di «favorire l’instaurazione

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Cfr. Burragato, Licenziamenti collettivi e tutele crescenti: il Tribunale di Milano rinvia alla Corte di Giustizia, in RIDL, 3, 2019, 533; Ichino, Un altro giudice, cit. 95 V. Boeri, Garibaldi, Graded Security and Labor Market Mobility Clean Evidence from the Italian Jobs Act, in www.inps.it. 96 Cfr. anche Trib. Roma, 26 luglio 2017. 97 Essendo pacifico che a questi ultimi non trova applicazione il c.d. rito Fornero che invece – secondo la prevalente giurisprudenza – deve trovare applicazione anche ai licenziamenti collettivi dei lavoratori già in forza a tale data. 98 Ferraro, I licenziamenti collettivi nel Jobs Act, in RIDL, 2015, 187 ss. 187 ss. Dubbi di costituzionalità sono sollevati anche da Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in W.P. D’Antona, 246/2015, 15-19 ss.; contra, Caruso, Il contratto a tutele crescenti tra politica e diritto: variazioni sul tema, in W.P. D’Antona, 2015, 265, 13 ss.; Ichino, La riforma del lavoro in Italia. Una nuova cultura delle relazioni industriali, in RIDL, 2015, 210 ss. 99 Cfr. da ultimo C. cost., 13 novembre 2014, n. 254. 100 Buffa, Compatibilità del contratto a tutele crescenti con il diritto europeo, in Questione Giustizia, 2015, 3, 43.

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di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo»101, essendo dunque rispettato, secondo la Corte, il canone di ragionevolezza. Si tratta di argomentazioni per lo più criticate dagli interpreti102, che tuttavia non impediscono alla Corte di Napoli di sollevare nuovamente la questione, questa volta con riferimento all’art. 10 d.lgs. n. 23/2015, stanti le specificità che tale divaricazione di tutele presenta con riferimento ai licenziamenti collettivi. Qui, infatti, “vecchi” e “nuovi” assunti sono “messi in comparazione” nell’ambito di una medesima procedura103 ed il diverso grado di tutela garantito a vecchi e nuovi assunti rischia di pregiudicare una “valutazione imparziale” da parte del datore di lavoro, «orientandone la scelta sulle posizioni meno tutelate» ed introducendo così, quale fattore di alterazione (rispetto ai parametri selettivi generali ed astratti imposti dal legislatore) quello della “maggior debolezza del rapporto contrattuale”104. In merito, parte degli autori ritiene che, almeno nella prima fase di applicazione del Jobs Act, il datore di lavoro avrebbe maggiore convenienza al licenziamento dei lavoratori “anziani”, sia in ragione degli incentivi normativi ed economici a mantenere in servizio per un triennio i “nuovi assunti”105, sia per l’obiettivo di «depurare l’azienda di vincoli normativi e di riflesso anche sindacali»106. Altri, tutto al contrario, ritengono che il più blando regime sanzionatorio, la possibilità di revoca e di “conciliazione standard” indurranno i datori di lavoro, fin da subito, a preferire il licenziamento dei “neo assunti”. Si tratta, in ogni caso, in particolare, con riferimento alla disciplina sanzionatoria della violazione dei criteri di scelta – che, con riferimento ai vecchi assunti dà luogo ad una tutela reintegratoria – di differenze di regime significative, le quali sembrano rendere impraticabile una ragionevole comparazione tra i lavoratori, falsando i criteri di scelta107. Sicché, sotto tale profilo, la questione di legittimità appare meritevole di seria considerazione da parte della Consulta: la Corte – stanti le già richiamate specificità della questione, rispetto a quella già rigettata con sentenza n. 194/2018 – potrebbe accoglierla, senza per ciò smentire i propri precedenti.

101

C. cost., 8 novembre 2018, n. 194. V., per tutti, Cester, Il Jobs Act sotto la scure, cit., 153. 103 Osserva Ferraro, I licenziamenti collettivi nel Jobs Act, cit., 187 ss. che «l’aspetto più delicato attiene alla contestualità delle discriminazioni, e cioè al persistere nel tempo di una diversità di trattamento a parità di condizioni lavorative». Cfr. Gragnoli, Il licenziamento individuale per riduzione di personale e le novità normative, in DRI, 2015, 1062. 104 Così l’ordinanza 18 settembre 2019. 105 Cfr. art. 1, co. 118, l. n. 190/2014. 106 Ferraro, op. cit., 187 ss. 107 Gragnoli, Il licenziamento individuale per riduzione di personale e le novità normative, cit., 1062. Nel medesimo senso Mainardi, L’ordinamento italiano e le “tutele crescenti” contro i licenziamenti illegittimi, in ADL, 2017, 4-5, 845. 102

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13. L’ulteriore questione sottoposta alla Consulta: la

compatibilità o no con la cornice eurounitaria della tutela differenziata per vecchi e nuovi assunti, questi ultimi destinatari di un regime sanzionatorio inefficace rispetto al danno subito.

La Corte partenopea riprende, poi, le proprie argomentazioni, di cui all’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia, sottoponendo alla Consulta la questione se la violazione della cornice eurounitaria, conseguente alla introduzione di una tutela differenziata per vecchi e nuovi assunti (questi ultimi destinatari di un regime sanzionatorio inefficace rispetto al danno subito e privo di deterrenza) si traduca o no in una violazione costituzionalmente rilevante, in particolare per violazione degli artt. 3, 10, 35, co. 2 e 117, co. 1 Cost. Ciò, in linea con chi suggeriva, appunto, di utilizzare «la previsione della Carta (l’art. 30), in combinato disposto con il principio di effettività della sanzione, come parametro interposto di costituzionalità per la valutazione di conformità dell’art. 10 del decreto n. 23 del 2015 all’art. 117, co. 1 della Cost.»108. Tale argomento parrebbe, tuttavia, scontrarsi ancora una volta con la circostanza che, secondo la tesi che pare preferibile, la disciplina sanzionatoria in materia di violazione dei criteri di scelta non è emanata “in attuazione del diritto dell’Unione”. Come si è sopra ricordato, infatti, ai sensi dell’art. 52, par. 5 della CDFUE «le disposizioni della Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti». In sostanza, la Consulta può, bensì, utilizzare le disposizioni della Carta come “parametro interposto” per il controllo di conformità a Costituzione (art. 117 Cost.) della legislazione nazionale, ma ciò, solo quanto quest’ultima è emanata “in attuazione del diritto dell’Unione109. Uguali considerazioni valgono per quanto riguarda il preteso utilizzo, come parametro interposto, degli artt. 20, 21, 47 della Carta (rispetto, in particolare all’art. 117 Cost.). Il

108 109

Cosio, La tutela dei licenziamenti, cit., 45. L’ultimo inciso dell’art. 52, co. 5, consente infatti il controllo di legalità, (alla stregua della Carta) (solo) di “detti atti”, i quali sono, appunto, quelli di cui al periodo precedente del medesimo comma (“atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione”). Cfr. C. cost. n. 194/2018: «perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011)» (sentenza n. 63 del 2016 … sentenza n. 111 del 2017 e ordinanza n. 138 del 2011)», non essendo sufficiente che la disciplina nazionale in questione ricada in un settore nel quale l’Unione europea è competente, ove la stessa non abbia, in concreto, esercitato tale competenza.

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sindacato non è ammesso, perché l’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 non è emanato “in attuazione del diritto dell’Unione”. Residua la questione del preteso contrasto dell’art. 10 d.lgs n. 23/2015, in combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto, con l’art. 24 della Carta sociale europea e – dunque – con l’art. 117 Cost. Per la verità, la Corte partenopea chiama in causa anche l’art. 10 Cost., ai sensi del quale «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Ma tale riferimento non pare convincente, poiché l’art. 10 Cost. in questione concerne unicamente le norme internazionali generali (consuetudini e principi generali di diritto), e non già il diritto internazionale pattizio110. Ora, malgrado gli sforzi della Corte partenopea per censurare la pretesa perdurante centralità del solo criterio dell’anzianità di servizio nella determinazione della sanzione ex art. 10 d.lgs. n. 23/2015 e la perdurante inadeguatezza della tutela, non si può non ricordare come l’attuale metodo di calcolo dell’indennità sia stato sostanzialmente “determinato” proprio dalla Consulta, nella precedente sentenza n. 194/2018. E come le prime applicazioni giurisprudenziali sembrino evidenziare come, in effetti, la prassi applicativa sia, invece, nel senso di un concreto utilizzo, da parte dei giudici, del potere di graduare la sanzione, al fine di restituirle quella funzione di riparazione e di dissuasione, prima negata dal rigido sistema di “tutele crescenti”. Non pare dunque che, sotto tale profilo, la Corte possa facilmente “smentire sé stessa” e affermare la perdurante contrarietà all’art. 24 della Carta dell’art. 10 d.lgs. n. 23/2015.

14. Circa il preteso eccesso di delega. L’ordinanza partenopea solleva infine la questione se la disciplina del licenziamento collettivo rientrasse, o no, nella delega ricevuta dal legislatore delegato; e lo fa sostanzialmente riprendendo gli argomenti fatti valere, in merito, dalla dottrina. Il sospetto di eccesso di delega poggia, in primo luogo, su argomenti tratti dai lavori parlamentari relativi alla legge di delegazione e dal parere della Commissione lavoro di Camera e Senato111.

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Rossi, Gli obblighi internazionali e comunitari nella riforma del Titolo V della Costituzione, in http://www.forumcostituzionale.it/ wordpress/wp-content/uploads/pre_2006/155.pdf cfr. C. cost., 24 ottobre 2007, n. 348. 111 Cfr. Ferraro, op cit., 187 ss. Cfr. il parere della Camera, 17 febbraio 2015, sull’atto di Governo 134, in https://www.lavoroediritti.com/ wp-content/files/Parere_Camera_Tutele_Crescenti.pdf. Detto parere, «tenuto conto che come emerge anche dall’esame parlamentare svolto in occasione dell’approvazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, l’esclusione, per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti, dell’applicazione di sanzioni di tipo conservativo, con la previsione di indennizzi economici certi e crescenti con l’anzianità di servizio, …deve intendersi riferita alle sole fattispecie relative a licenziamenti individuali, non essendo in discussione la disciplina dei licenziamenti collettivi di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni» era stato favorevole, a condizione, tra l’altro, della sostituzione dell’art. 10, comma 1 con il seguente: «In caso di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, ai lavoratori di cui all’articolo 1 si applicano le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 3, della medesima legge». Quanto al parere del Senato, dell’11 febbraio 2015, si legge: «Con riferimento ai licenziamenti collettivi, il Governo valuti l’opportunità di rivedere il regime sanzionatorio dell’articolo 10, prevedendo

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Barbara De Mozzi

In merito, si osserva che, da un lato, dal parere del Senato non emerge una vera e propria preclusione a che il legislatore delegato disciplini la materia dei licenziamenti collettivi; e che, in ogni caso, secondo la giurisprudenza, «la volontà emergente dai lavori preparatori non può sovrapporsi a quella obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico»112. Ancora, la Corte – a fondamento del preteso eccesso di delega – richiama l’argomento secondo cui la nozione di “licenziamento economico” (di cui all’art. 1, co. 7, lett. c). della legge n. 183/2014)113 non era stata mai utilizzata dal legislatore per designare il licenziamento collettivo. La locuzione, si è detto, designerebbe dunque solo i licenziamenti di cui all’art. 3 l. n. 604/1966 ed in particolare solo quelli connotati da “ragioni d’impresa” e non quelli per giustificato motivo oggettivo “personale”114; ed in tal senso deporrebbe anche una recente sentenza di Cassazione, che utilizzerebbe la locuzione “licenziamento economico” proprio in contrapposizione a quello collettivo115. Ora, come si è già avuto modo di osservare116, da un lato, la locuzione “licenziamento economico” non era stata utilizzata, a quanto consta, dal legislatore prima d’ora neppure per designare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; dall’altro, troppo debole pare l’argomento testuale ricavato dalla sentenza della Cassazione n. 28426/2013, la quale si limita a contrapporre licenziamento per giustificato motivo oggettivo “per ragioni d’impresa” (in tal senso, chiamato “economico”) e licenziamento collettivo – da un lato – ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo “cd. personale” – dall’altro – onde escludere che, in tali ultimi casi (g.m.o. “personale”), trovi applicazione l’art. 10 l. n. 68/1999, relativo al rispetto delle quote di riserva per i disabili. Tanto è vero che in una successiva pronuncia dello stesso tenore (che si richiama a Cass. 28426/2013) la Cassazione – nel mettere, invece, in contrapposizione le suddette fattispecie con quella del licenziamento “per superamento del periodo di comporto” – torna a riferirsi al licenziamento “per giustificato motivo oggettivo” e al licenziamento collettivo omettendo di utilizzare, (solo) per il primo, la locuzione di licenziamento “c.d. economico”117. A fondamento della compatibilità dell’art. 10 con la legge delega si è poi notato, da un lato, che il licenziamento collettivo è pur sempre un licenziamento fondato su ragioni non inerenti la persona del lavoratore e dunque su ragioni “economiche” e che la ratio della

la reintegrazione in caso di violazione dei criteri previsti dai contratti collettivi». Cass. 27 febbraio 1995, n. 2230. 113 In tale senso, v. Santoni, Il campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti nel d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in Ferraro (a cura di), I licenziamenti nel contratto «a tutele crescenti», Cedam, 2015, 113. 114 Cfr. Barbieri, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi economici e il licenziamento collettivo, in Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 110, secondo cui la dizione “licenziamenti economici” sarebbe volta a «delimitare il campo in cui – all’interno del giustificato motivo oggettivo – si operi il passaggio a tutela puramente indennitaria». 115 Cfr. Barbieri, op. cit., con riferimento a Cass., 19 dicembre 2013, n. 28246. 116 Cfr. de Mozzi, Questioni introduttive in tema di licenziamento collettivo nel c.d. Jobs Act, in Le tutele del lavoro nelle trasformazioni dell’impresa, Liber amicorum Carlo Cester, Cacucci, 2019. 117 Cass., 24 ottobre 2016, n. 21377, a riprova che, nella precedente Cass., n. 28426/2013, la locuzione “licenziamento economico” era utilizzata solo per rimarcare la “sotto-distinzione” nell’ambito dei licenziamenti di cui all’art. 3 l. n. 604/1966 tra licenziamento per “ragioni d’impresa” (c.d. economico) e licenziamento per giustificato motivo oggettivo “personale”, ma non già in contrapposizione ai licenziamenti “collettivi”. 112

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Giurisprudenza

delega induce a ricomprendere «tutti i licenziamenti lato sensu basati su ragioni legate all’esercizio della libertà economica»118; dall’altro, che la l. n. 183/2014 delega il Governo a limitare il diritto alla reintegrazione «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Dalla circostanza che la legge delega, tra le ipotesi di reintegrazione da conservare, non comprenda «ipotesi necessariamente legate alla violazione di norme in materia di licenziamenti collettivi» - si evince dunque che, necessariamente, la legge stessa «consente di riformulare le sanzioni in materia di licenziamenti per riduzione del personale»119. In senso critico, contro quest’argomentazione, è stato osservato che residuano, nel d.lgs. n. 23/2015, talune fattispecie in cui viene disposta la reintegrazione anche per ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo (art. 2, co. 4), attinente alla persona del lavoratore120, cosicché sarebbe sbagliato ritenere che il legislatore delegante abbia inteso l’espressione “licenziamento economico” come riferita (tanto) all’intera area del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (quanto a quella dei licenziamenti collettivi) e non già ai soli licenziamenti “per motivi d’impresa”. Ma, si potrebbe replicare, nella sistematica del decreto delegato, tali ipotesi121 di reintegrazione residuano in quanto attratte all’area dei licenziamenti discriminatori. Traendo le fila del discorso fin qui fatto, traspare dalla vicenda in oggetto come quelle che solo impropriamente possono essere additate come “Costituzioni gemelle”122 offrano una «concorrenza di tutele, talora asimmetriche e disallineate». E come «la diretta applicabilità di una “Costituzione dei diritti europea”» non (sia) agevolmente armonizzabile con la non-diretta applicabilità della “Costituzione dei diritti nazionale” affidata al sindacato accentrato della Corte»123. Barbara

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Cester, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Carinci, Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, in ADAPT Labour studies, e-book series, n. 46, 2015, 102; Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in W.P., D’Antona, 246/2015, 15. 119 Topo, Le sanzioni, in Carinci, Cester (a cura di), cit., 198. 120 Barbieri, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi economici e il licenziamento collettivo, cit.. Sul punto, cfr. anche Zoli, I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dalla legge n. 604/1966 al d.lgs. n. 23 del 2015, in Ferraro (a cura di), I licenziamenti nel contratto «a tutele crescenti», in QADL, Cedam, 2015, 89. 121 Si tratta delle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68. 122 Così, riferendosi alla CDFUE e alla Carta costituzionale, Scaccia, Alla ricerca, cit.,174. 123 Scaccia, Alla ricerca, cit., 174.

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Giurisprudenza Juzgado de lo social n. 19 de M adrid, 22 luglio 2019, n. 188; Tesorería General de la Seguridad Social, Confederación Sindacal de Comisiones Obreras, Confederación Sindacal de CCOO, Federación de Servicios, Movilidad y Consumo de la Unión General de Trabajadres c. ROOFOODS SPAIN S.L. Lavoro (rapporto) – Piattaforma digitale – Ciclofattorini – Qualificazione del rapporto – Lavoro subordinato – Alienità – Dipendenza – Personalità della prestazione.

In presenza dei requisiti della dipendenza e dell’alienità, i riders che effettuano una prestazione lavorativa tramite piattaforma digitale sono lavoratori subordinati, atteso che la personalità della prestazione non può essere esclusa da una clausola di subcontrattazione, prevalendo il reale atteggiarsi del rapporto sul nomen iuris dato al contratto.

«Omissis. CUARTO. El artículo 1.1 del Estatuto de los Trabajadores señala que “Esta ley será de aplicación a los trabajadores que voluntariamente presten sus servicios retribuidos por cuenta ajena y dentro del ámbito de organización y dirección de otra persona, física o jurídica, denominada empleador o empresario”. Por otro lado, el artículo 1.1 de la Ley 20/2007, reguladora del Estatuto del Trabajo Autónomo señala, en lo que ahora interesa, que “La presente Ley será de aplicación a las personas físicas que realicen de forma habitual, personal, directa, por cuenta propia y fuera del ámbito de dirección y organización de otra persona, una actividad económica o profesional a título lucrativo, den o no ocupación a trabajadores por cuenta ajena”. Ambos preceptos (el segundo a contrario) permiten enumerar las condiciones propias de la laboralidad, consistentes en la existencia de una prestación personal y voluntaria de servicios, su carácter retribuido, la ajenidad y la dependencia del empresario. De entrada, cabe afirmar que, como es bien sabido, la existencia o no de la laboralidad no depende sin más del nombre que las partes hayan dado a su contrato, ya que lo esencial es el contenido real de las obligaciones que las partes asumen en el mismo. Así resulta, por todas, de la sentencia del Tribunal Supremo de 8 de febrero de 2018, en la que se explicaba que: La realidad fáctica debe prevalecer sobre el nomen iuris que errónea o interesadamente puedan darle las partes a la relación que regulan, porque «los contratos tienen la naturaleza que se deriva de su real contenido obligacional, independientemente de la calificación jurídica que les den las partes; de modo que a la hora de calificar la naturaleza laboral o no de una relación debe prevalecer sobre la atribuida por las partes, la que se derive de la concurrencia de los requisitos que determinan la laboralidad y de las

prestaciones realmente llevadas a cabo ( SSTS de 20 de marzo de 2007, rcud 747/2006 (RJ 2007, 4626); de 7 de noviembre de 2007, rcud 2224/2006 (RJ 2008, 299); de 12 de diciembre de 2007, rcud 2673/2006 y de 22 de julio de 2008, rcud 3334/2007 (RJ 2008, 7056) entre otras). La distinción entre el arrendamiento de servicios o, en general, el trabajo autónomo y el contrato de trabajo dependen especialmente de la concurrencia o no de ajenidad y dependencia. Se trata de conceptos con un alto nivel de abstracción, que pueden darse, sobre todo el último, en mayor o en menor medida, así como de formas distintas, más o menos intensas. Ello hace que la determinación de su concurrencia se preste, como el Tribunal Supremo ha señalado, al más puro casuismo. Se trata, en suma, de determinar si en el caso de los repartidores afectos por este proceso se dan o no tales condiciones determinantes de la existencia de un contrato de trabajo. La prestación en sí de servicios y su carácter voluntario no ofrece dudas: no se debate que los repartidores afectados por el proceso han prestado de forma voluntaria servicios para la empresa demandada en el periodo indicado en el acta de liquidación. También puede considerarse probado que lo han hecho personalmente. En el primero de los modelos de contrato aportados expresamente se prohibía la delegación en terceros, de forma que el repartidor se comprometía a prestar sus servicios personalmente, salvo autorización de la empresa por escrito, que no consta que se haya producido realmente. El segundo de los contratos aportados sí permite, formalmente, la subcontratación, pese a lo cual en realidad no difiere sustancialmente del contrato anterior, ya que si bien la cláusula 9ª permitía la subcontratación con terceros, la 1ª se cuidaba de señalar que para ello era precisa una previa autorización de la empresa por escrito, que no consta que se haya producido. En todo caso, de lo actuado se desprende que, el menos


Giurisprudenza

en el periodo al que se refiere el acta de liquidación, los repartidores prestaron sus servicios de forma personal y sin constancia de una efectiva subcontratación o delegación en terceros de su trabajo. Se han dado de hecho, por tanto, condiciones compatibles con la laboralidad sin que la teórica posibilidad de una subcontratación, siempre que la empresa tuviese a bien admitirla, baste para llevar a una conclusión distinta, ya que cabe traer a colación lo que el Tribunal Supremo argumentó en su sentencia de 26 de febrero de 1986, que indicó que: “En este punto lo que reconoce la empresa al mensajero es una posibilidad de sustitución que no ha tenido virtualidad en la ejecución del contrato, pues el trabajo lo han realizado siempre los demandantes de modo directo y personal, por lo que tal posibilidad, la de realizar el servicio por medio de otras personas, más parece una cláusula destinada a desfigurar la verdadera naturaleza laboral del contrato, que un pacto trascendente a la realidad del servicio, sin duda por no obedecer, por razones obvias, al interés de los trabajadores, ni al de la empresa que demanda también una cierta regularidad en la ejecución del servicio”. Esas consideraciones son plenamente trasladables a este caso, dado que no consta que en el periodo al que se refiere el acta de liquidación se haya producido realmente la subcontratación de los afectados por el procedimiento, lo que conduce a entender que prestaron sus servicios de forma personal, en condiciones compatibles con la laboralidad. Ello es, por otro lado, perfectamente coherente con las características de la actividad de la empresa que resulta de la prueba, que incluye como veremos actividades de formación de los repartidores sobre la forma en la que Deliveroo desea que se hagan las cosas, algo que no parece demasiado compatible con la existencia de una posibilidad real de subcontratación sin conocimiento u autorización de la empresa, al menos en el periodo que ahora nos ocupa. La declaración del repartidor Badiu Sabocorneliu no lleva a una conclusión diferente, ya que el mismo hizo alusión a una supuesta contratación de tres trabajadores desde 2018, en un periodo posterior al que nos ocupa ahora y con una modificación del contrato mediante. Tampoco llevan a una conclusión distinta los documentos que obran a los folios 8092 y siguientes, que parecen referirse a esas contrataciones, no solo porque no se aportan firmados sino porque son posteriores al periodo que interesa en este proceso. Finalmente, también concurre la exigencia de retribución, dado que, naturalmente, los repartidores han sido retribuidos por la prestación de sus servicios. En relación a este punto, se ha producido una cierta modificación entre el periodo de vigencia del primer modelo de contrato y el correspondiente al segundo, ya que se ha pasado de retribuir una cantidad por hora trabajada, con un añadido por entrega realizada, a una retribución por entrega realizada, aunque con

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un mínimo garantizado por unidad de tiempo. Todos esos sistemas de retribución, tanto por unidad de obra como por unidad de tiempo, son plenamente compatibles con la laboralidad, de acuerdo con lo señalado en el artículo 26.3 del Estatuto de los Trabajadores. QUINTO. Los datos que constan en el procedimiento permiten apreciar también la concurrencia de ajenidad, que como es bien sabido es una característica que se puede analizar desde distintos puntos de vista: ajenidad en los medios, en los frutos, en el mercado o en los riesgos. En cuanto a los medios materiales, ciertamente puede entenderse acreditado que los repartidores eran propietarios de varios de ellos, especialmente de sus vehículos con los que realizaban sus labores de reparto. Sin embargo, ello no basta para descartar la ajenidad, al estimar que los medios y activos de mayor importancia para el desarrollo de la actividad no son esos, sino que son la aplicación Deliveroo, controlada y proporcionada por la empresa para su uso por los repartidores, y la correspondiente marca, que naturalmente no es controlada por los repartidores sino por la empresa. Por otro lado, no son los repartidores parte en los negocios jurídicos existentes con los restaurantes y con los destinatarios de la comida que se transportaba, sino que lo es la sociedad demandada, de forma que, en realidad, los repartidores se limitan a la realización de un servicio de transporte, que descansa de manera fundamental en su actividad personal, sin intervención alguna en tales relaciones contractuales y sin que les alcancen los riesgos derivados de ellas. Muestra de ello es que resulta del acta de liquidación que en caso de carecerse de los medios necesarios para el desarrollo de la actividad (salvo teléfono y conexión a internet) la empresa los proporcionaba con retención de una fianza o bien facilitaba el acceso a los mismos en condiciones ventajosas, lo que evidencia que la aportación fundamental de los repartidores era su trabajo personal. A la misma conclusión lleva el pago por parte de la empresa, durante el periodo de vigencia del primer contrato, de los gastos estimados de combustible. En relación a la titularidad por parte de los repartidores de los vehículos, puede invocarse en favor de la tesis expuesta lo razonado por el Tribunal Supremo en su sentencia de 26 de junio de 1986, en la que se explicaba en relación a una actividad de reparto de periódicos y otras publicaciones con un vehículo propio que: De suyo, la puesta a disposición del vehículo, con ser un dato de interés, no puede convertirse sin más en determinante de la inexistencia de una relación laboral, de suerte que convierta en todo caso en autónomo al trabajador que lo aporte, pues conocidos son los supuestos en que determinadas categorías profesionales se sirven para el desarrollo de su actividad de vehículos propios, corriendo a cargo de la empresa los gastos o el «kilometraje»; sino que será o no autónomo el trabaja-


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dor que realice su actividad con o sin vehículo propio, atendidas las circunstancias que caractericen la prestación objeto de la relación obligatoria y según se den o no en el caso concreto las notas definitorias del contrato de trabajo, tal como se determinan en el artículo 1 del Estatuto de los Trabajadores. El caso de los repartidores de autos presenta importantes similitudes con el analizado por el Tribunal Supremo en su sentencia de 26 de febrero de 1986, que trataba de una empresa que prestaba a sus clientes un servicio de recepción de paquetes, para su transporte y entrega a los destinatarios, de acuerdo con las tarifas que tenía establecidas y que respondía de su pérdida, extravío, deterioro, hurto o robo cuando su valor no excedía de 20.000 pesetas. Para ello, decía la indicada sentencia del Tribunal Supremo, “la empresa se vale de los llamados mensajeros, entre ellos los demandantes, que efectúan el servicio en vehículos de su propiedad, en este caso motocicletas, de las que abonan los gastos de mantenimiento, combustible y amortización, percibiendo un tanto por viaje, sin relación con el precio del transporte que es fijado por la empresa y clientes sin intervención de los mensajeros que sólo son responsables del deterioro o de la pérdida, cuando proceda de su negligencia; los mismos son portadores en su vestimenta y vehículo de anuncios de la empresa”. De acuerdo con la sentencia, esos mensajeros “tienen que llamar por teléfono diariamente a la empresa antes de las diez horas, para recibir la orden de los viajes a realizar, siendo penalizados en caso de hacerlo con retraso; cuando por avería de la motocicleta o por la inclemencia del tiempo no pueden realizar el servicio mediante ella, los gastos de desplazamiento en taxi son abonados por la empresa”. En esa sentencia del Tribunal Supremo se afirmaba la concurrencia de ajenidad, indicando que: La ajeneidad es también patente, el trabajador no asume los riesgos ni los beneficios del contrato de transporte existente entre la empresa y el cliente, no interviene en la fijación del precio del mismo, ni su retribución depende de su resultado; se limita fundamentalmente a aportar su actividad y a percibir la retribución que por ella le corresponde, que devenga por el hecho de realizarla. El que responda, no de los riesgos del transporte, sino de los perjuicios causados por su negligencia, no es más que una consecuencia del incumplimiento del deber que impone el artículo 5.a) del Estatuto de los Trabajadores; deriva de las normas generales del derecho de obligaciones, art. 1101 del Código Civil. (…) 1. En realidad dicho contrato de transporte, reiterando lo ya dicho, sólo existe entre la empresa y el cliente mas no entre la demandada y el mensajero, mero ejecutor material del transporte mediante, fundamentalmente, su trabajo personal, aunque para ello se valga de un medio material propio.

2. No cabe desconocer la existencia de un importante número de sentencias de esta Sala reconociendo que hay contrato de transporte cuando quien presta el servicio utiliza medios propios – entre otras pueden citarse las Sentencias de 18 de febrero de 1969 ( RJ 1969\631), 22 de octubre de 1983 ( RJ 1983\5136), 20 de septiembre de 1984 ( RJ 1984\4437), 29 de octubre de 1985 ( RJ 1985\5236), y 27 de enero de 1986 ( RJ 1986\282) –, aunque no exista la unanimidad que afirma el recurrente – ver sentencia de 7 de Mayo de 1985 ( RJ 1985\2669) –, mas tal doctrina tiene como fundamento la apreciación que en ella se hace, como elemento fundamental del contrato, de la aportación no personal de quien presta el servicio, que trata mediante el mismo de obtener un rendimiento a una importante inversión económica, generalmente un camión de transporte o reparto, cuando en el supuesto debatido – bien distinto – el medio utilizado, por su inferior coste inicial y de mantenimiento y difusión de uso, no es más que un elemento auxiliar, secundario, de la actividad personal, sin que en modo alguno tenga por fin el contrato su explotación económica, actividad personal que no es algo que en la empresa demandada tenga naturaleza subsidiaria en relación a otra principal, sino que constituye su fundamental objeto social, de tal modo que esos factores, carácter secundario de la aportación no personal del trabajador, y constituir el trabajo de éste, la actividad principal, la razón de ser de la empresa, impiden aplicar aquella doctrina a la realidad social, de reciente aparición en un uso generalizado, que por primera vez se examina por esta Sala. Por otra parte no es infrecuente en la actualidad que se prevea en un contrato de trabajo, cuando el trabajador ha de realizar desplazamientos con habitualidad, la utilización por el mismo de un vehículo propio, mediante la adecuada compensación. Esa doctrina es trasladable al caso de autos, en el que los repartidores son completamente ajenos a las relaciones existentes entre la empresa, los restaurantes y los clientes finales, al extremo de que desconocían incluso el lugar del destino final antes de ir al restaurante a recoger el pedido. Ninguno de esos sujetos contrató con los repartidores, que eran frente a ellos perfectamente intercambiables (si uno rechaza el pedido, simplemente pasa al siguiente hasta que uno lo acepte), sin que el repartidor pueda sufrir los riesgos derivados de tales relaciones, ya que simplemente es remunerado por su trabajo, como podría serlo cualquier otro trabajador por cuenta ajena. Omissis. SEXTO. En cuanto a la dependencia, debe entenderse (por todas, sentencia del Tribunal Supremo de 18 de julio de 2018) como la situación del trabajador sujeto, aun en forma flexible y no rígida, ni intensa a la esfera organicista y rectora de la empresa. En relación a esta exigencia debe tenerse en cuenta que el artículo 3.1 del Código Civil manda interpretar las normas

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“según el sentido propio de sus palabras, en relación con el contexto, los antecedentes históricos y legislativos, y la realidad social del tiempo en que han de ser aplicadas, atendiendo fundamentalmente al espíritu y finalidad de aquéllas”. Esa referencia a la realidad social actual obliga a concebir la exigencia de dependencia en términos acordes a los medios tecnológicos de los que se dispone en la actualidad, que permiten la sujeción a dependencia del trabajador en condiciones más flexibles pero igualmente efectivas. Pues bien, de los datos que constan resulta que los repartidores prestaban sus servicios de una forma completamente organizada y regida por la empresa demandada, incluso en sus más pequeños detalles. De entrada, se ha acreditado la existencia de instrucciones a los repartidores que más allá de la encomienda en sí del servicio establecen con toda precisión las condiciones en las que el mismo debe prestarse, condiciones que la empresa comprobaba y evaluaba. Consta probado que en el momento de su contratación a los repartidores se les presentaba un video explicativo en el que no solo se les propone que se presenten como parte de la empresa (“Soy Juan de Deliveroo”, se dice, entre otras cosas) sino que se señala cómo ha de realizarse el proceso de recogida y entrega de los pedidos, indicando qué pasos se han de dar, muy relacionados con el uso de la aplicación. Se indica también qué hacer en caso de posibles incidencias (“si hay algún problema con el pedido, pide disculpas al cliente y ofréceles llamar al servicio de atención al cliente”) así como una completa explicación de cómo se ha de actuar. Como antes se dijo, también se puede estimar probado que la empresa ha entregado a los repartidores folletos informativos (que a mi entender no serían muy explicables en una relación pretendidamente autónoma), cuyo contenido cabe entender que se ajusta al menos a las diversas guías aportadas, según la declaración de la Inspectora de Trabajo coincidentes en lo sustancial con las condiciones de trabajo que pudieron comprobarse a la vista de la documental y las manifestaciones de las partes que se hicieron. Tales guías no solo detallan múltiples aspectos acerca de cómo se ha de realizar el trabajo, sino que se establecen incluso reglas de comportamiento con expresas prohibiciones (“como se os ha dicho en diversas ocasiones sois la cara de la empresa (…) no se puede beber alcohol, no se puede consumir sustancias estupefacientes, no se puede insultar, estar “tirado” en el suelo (…) No se puede entrar con el casco puesto en la cabeza ni al restaurante ni a las casas de los clientes”) además de restricciones en materia de rechazo de pedidos (“La opción de rechazar pedido es solamente en casos extremos (…) A quien rechace de forma continuada pedidos no se le garantizarán los dos pedidos hora que nuestro sistema ofrece. Además, si sois recurrentes de esta opción, Deliveroo prescindirá de vuestros servicios”).

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Lo que todo ello evidencia es que la empresa no se ha limitado a contratar un servicio de transporte de comida en el que lo esencial sea la entrega en sí sin entrar en el detalle de cómo se ha de realizar, sino que ha establecido con toda precisión la forma en la que se ha de prestar ese servicio, homogeneizándola para todos los repartidores, a quienes se anima a presentarse como parte de Deliveroo y a quienes, como antes vimos, se les entregaron medios de trabajo con esa marca. Ello es perfectamente comprensible atendiendo a que cabe apreciar conforme a toda lógica que lo que se ofrece a los restaurantes y a los clientes no es una mera labor de intermediación entre ellos, sino un servicio asociado a la marca Deliveroo y a su aplicación informática, que es lo que en realidad cabe entender que conocen y contratan esas personas, servicio que parece oponerse a la posibilidad de que los repartidores realicen el reparto en la forma que tengan por conveniente. Su margen real de autonomía se limita así a aspectos que estimo que no son determinantes en orden a la calificación de la relación como laboral, como es la elección del medio de transporte (como se ha dicho, de importancia muy relativa en este caso), la concreta ruta (aunque parece evidente que elegirán la más corta) y la posibilidad de rechazar el pedido. Sin embargo, estimo que no se ha de exagerar la importancia de esa posibilidad de rechazo. En primer término, esa posibilidad no era intrascendente para el repartidor sino que podía tener consecuencias negativas para él, ya que se tenía en cuenta por la empresa a la hora de elaborar unas métricas del servicio que podían implicar la no asignación de los turnos apetecidos y, por tanto, quedarse sin trabajar. El caso, por tanto, presenta similitudes con el analizado en la sentencia del Tribunal Supremo de 16 de noviembre de 2017, relativo a la prestación de servicios de traducción e interpretación en el que, de acuerdo con lo indicado por esa sentencia la empresa “a través de una aplicación informática, localiza a los traductores e intérpretes más cercanos geográficamente al órgano que precisa de sus servicios, comprueba su currículum y se pone en contacto telefónico con él, informándole que organismo necesita un intérprete y a qué hora. El traductor decide si acude o no a desarrollar los servicios. En caso negativo, Ofilingua SL contacta con otro colaborador. En caso afirmativo, el intérprete, que acude por sus propios medios, se dirige al personal o funcionario correspondiente de las dependencias que lo ha reclamado, comunicando su presencia, poniéndose a disposición del Juez o funcionario competente para verificar su intervención profesional, que concluye una vez se le comunica así por la Policía o el Juzgado en que haya actuado como traductor o intérprete, si es una intervención oral o entrega la correspondiente traducción directamente a quien lo ha necesitado, si es de naturaleza escrita”. En la indicada resolución el Tribunal Supremo señala que “Aunque parece que el


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intérprete goza de gran libertad a la hora de acudir o no a prestar sus servicios, es lo cierto que, dada la relación establecida entre las partes, si no acude, corre el riesgo de que no se le vuelva a llamar”. Por otro lado, por medio de la declaración de la Inspectora de Trabajo se ha probado también que esas métricas se tenían en cuenta también para la realización de un control de calidad, que se revisaba y que según manifestaciones del Director de Operaciones a la Inspectora si no era adecuado “se daba algún toque” al repartidor. Finalmente, estimo que lo esencial es que una vez aceptado el pedido, el mismo había de atenderse de acuerdo con la detalladas instrucciones determinadas por la empresa, sin margen apreciable de autonomía del trabajador. En caso de existir un verdadero régimen de autonomía sería esperable encontrar ciertas diferencias más o menos sustanciales entre unos repartidores y otros, no exactamente en cuanto a la cantidad de horas de trabajo sino en cuanto a la forma de desarrollarlo. En cambio, no es eso lo que en este caso se aprecia, ya que la prestación de servicios de los repartidores se ha desarrollado de una forma homogénea y evidentemente establecida por la empresa demandada, al punto de que esa organización común logra hacer, en cierto modo, intercambiables a los trabajadores, de forma que si uno rechaza el pedido, simplemente pasará al siguiente, que habrá de atenderlo siempre en la forma establecida con detalle por la empresa y estrechamente controlada por la misma, al punto de llegar a contactar con quien estuviese mucho tiempo sin moverse, algo acreditado por manifestaciones de un responsable de la empresa debidamente reflejadas en el acta de liquidación, de la que se desprende también que la empresa contaba con una compleja organización de todas esas actividades, que atendía también las incidencias que se pudiesen producir. En consecuencia, lo que se desprende de lo actuado es que los repartidores esencialmente han ejecutado un trabajo personal en unas condiciones organizadas y dirigidas por la empresa, que es la única que controla la marca Deliveroo, su aplicación informática y toda la información que se desprende de ella. De hecho, a contrario, es patente la falta de una organización empresarial en un sentido mínimamente estricto de los repartidores aisladamente considerados, al punto de que era preciso explicarles la tarea a realizar, proporcionarles el acceso a los medios de trabajo de ser ello preciso e, incluso, formales, dado que se desprende del folio 195 que al menos hasta finales de 2016 un repartidor acompañaba a uno un día para aprender la mecánica del servicio, algo que no es compatible con una situación de genuina autonomía. De hecho, se ha llegado al extremo de que la empresa gestione las propinas de los repartidores, determinando la forma en la que se podían abonar e incluyéndolas en las facturas, que eran elaboradas por la propia empresa.

No lleva a una conclusión contraria que los repartidores pudieran prestar servicios para otras personas, y que varios de ellos lo hayan hecho así de forma efectiva, ya que ello no es necesariamente contrario a la laboralidad. Puede invocarse en apoyo de esa tesis lo señalado por el Tribunal Supremo en su sentencia de 26 de febrero de 1986, que explicaba que: “La no asistencia de los actores al trabajo en todos los días laborables es un mero efecto de la configuración que la empresa pretende dar al contrato para eludir la calificación de laboral, y no constituye un dato esencial para determinar su verdadera naturaleza, pues ese comportamiento empresarial, impide conocer las causas de la inasistencia, que en un contrato de trabajo debidamente regularizado se puede producir por motivos tan justificados como permisos, licencias, vacaciones, enfermedad o, incluso períodos intermedios de inactividad laboral en contratos discontínuos o a tiempo parcial. Por otra parte la posibilidad de compatibilizar el trabajo en otras empresas es algo que, debidamente autorizado, no desnaturaliza el contrato, según cabe deducir de los artículos 5.d) y 21.1 del Estatuto de los Trabajadores”. A la vista de todo ello, cabe concluir que en la prestación de servicios de los repartidores afectados por el proceso, durante el periodo al que se refiere el acta de liquidación, prevalecieron las condiciones propias de la laboralidad, lo que conduce a la estimación de la demanda. Finalmente, no lleva a una conclusión distinta el hecho de que una parte de los repartidores, minoritaria en todo caso, sean opuestos a la existencia de un contrato de trabajo, ya que el posicionamiento en el proceso de los mismos no puede perjudicar al resto de las partes, entre las que se halla la Tesorería General de la Seguridad Social, debiendo además considerarse las restricciones impuestas a la actuación en el proceso de los trabajadores afectados por el mismo por el artículo 150.2.a, b y c de la Ley Reguladora de la Jurisdicción Social. Como antes se dijo, lo esencial no son las manifestaciones de las partes sobre la naturaleza del contrato sino el contenido real de las obligaciones asumidas, que en este caso apuntan a la laboralidad. Omissis».

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Alienità, dipendenza e personalità: secondo lo Juzgado de Madrid i riders di Deliveroo sono subordinati1 Sommario :

1. La sentencia del Juzgado de Madrid. – 2. La qualificazione del rapporto di lavoro in Spagna. – 3. Il TRADE. – 4. La giurisprudenza spagnola sui riders e i contenuti della decisione. – 5. Alcuni spunti comparati.

Sinossi. La presente nota ripercorre l’iter argomentativo dello Juzgado de Madrid con riferimento al caso Deliveroo. Descritti gli orientamenti giurisprudenziali sulla qualificazione del rapporto di lavoro in Spagna, viene trattato il tema del lavoro autonomo economicamente dipendente. Si offre, poi, una ricostruzione dell’attuale dibattito spagnolo sulla qualificazione giuridica dei riders, che vede contrapporsi la tesi della subordinazione a quella del lavoro autonomo economicamente dipendente. La nota si conclude con alcuni spunti di comparazione tra Spagna e Italia riguardo ai ciclofattorini. Abstract. The article offers some remarks on the decision of the Juzgado of Madrid with reference to the Deliveroo case. Described the jurisprudential trends on the legal qualification of the employment relationship in Spain, the issue of economically dependent self-employment is discussed. A reconstruction of the current Spanish debate on the legal qualification of riders is then given, where the thesis of subordination is opposed to that of economically dependent self-employment. Finally, the article treats the issue of the legal qualification of riders in a comparative perspective between Spain and Italy.

1. La sentencia del Juzgado de Madrid. Con la sentenza in commento lo Juzgado de lo Social de Madrid torna ad affrontare la tematica della qualificazione del rapporto dei riders nell’ordinamento spagnolo2.

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La presente nota non ha potuto tener conto della recente sentenza Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663, il cui testo è reperibile in https:// www.lavorodirittieuropa.it/sentenze/sentenze-lavori-atipici/414-corte-di-cassazione-sentenza-1663-del-24-1-2020, essendo la stessa intervenuta nelle more della stesura di questo scritto. V. Juzgado de lo Social de Madrid n. 33, 11 febbraio 2019, n. 53 in https://www.laboral-social.com/sites/laboral-social.com/files/ NSJ059448_0.pdf; Juzgado de lo Social de Madrid n. 39. Refuerzo, 3 settembre 2018, n. 284, in https://jurisprudencia.vlex.es/ vid/740259545.

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La Tesorería General de la Seguridad Social, con l’adesione di alcuni riders, nonché dei sindacati CCOO e UGT, adiva lo Juzgado affinché venisse dichiarata la natura subordinata dei contratti di prestazione di servizi intercorsi, dall’ottobre 2015 al giugno 2017, tra i lavoratori predetti e ROOFOODS SPAIN S.L., società che si occupava, mediante l’uso della piattaforma Deliveroo, sia della pubblicizzazione e della vendita dei prodotti dei ristoranti con i quali intratteneva rapporti commerciali, sia della raccolta degli ordini fatti dai clienti ai ristoranti stessi e della consegna dei prodotti al domicilio dei consumatori. La società convenuta, di converso, chiedeva il rigetto della domanda avversaria, essendo, a suo dire, i ciclofattorini ricorrenti meri prestatori di servizi. Dalle prove allegate risultavano le modalità di esecuzione della prestazione. Una volta che il ristorante aveva preso in carico l’ordine, effettuato mediante Deliveroo, e lo aveva notificato all’app, questa selezionava, tramite un algoritmo, il ciclofattorino maggiormente idoneo a tale consegna, in relazione, ad esempio, alla prossimità del luogo di consegna rispetto alla posizione del rider o alla sua “reputazione” su Deliveroo. A questo punto, arrivava una notifica al ciclofattorino, la quale chiedeva se questi volesse accettare l’ordine. In caso positivo, egli, seguendo le indicazioni di Deliveroo, si dirigeva al ristorante, inseriva il prodotto nella propria borsa termica, e lo andava a consegnare al cliente. A consegna avvenuta ROOFOODS riceveva il pagamento effettuato dal cliente tramite la app e corrispondeva quanto dovuto sia al ristorante, dedotta la commissione pattuita, sia ai fattorini, che, ogni quindici giorni, fatturavano alla società convenuta. ROOFOODS, peraltro, era ben strutturata, impiegando nella propria organizzazione aziendale 65 dipendenti tra vari dipartimenti in Madrid. Nello specifico, poi, i riders venivano reclutati tramite la pagina web di ROOFOODS. Dopo aver compilato un questionario, erano convocati dalla società per una sessione informativa, in occasione della quale veniva loro consegnato un opuscolo informativo e veniva proiettato un video, entrambi esplicativi delle attività lavorative richieste. I lavoratori, inoltre, venivano edotti riguardo alle opzioni fiscali e di sicurezza sociale disponibili, inclusa la raccomandazione di avvalersi di un servizio di consulenza online. Era la società a fornire ai riders le attrezzature di lavoro, tra le quali lo zaino per effettuare le consegne, identificate dal logo aziendale. Almeno fino alla fine dell’anno 2016 i nuovi ciclofattorini dovevano passare una giornata con riders che già collaboravano con l’azienda, al fine di imparare come dovesse essere svolto il servizio di consegna. Atteso che per effettuare la prestazione era necessario essere in possesso di uno smartphone con collegamento internet, di una bicicletta o di un ciclomotore, di una batteria esterna e di uno zaino o di una cassa, con relativo supporto, per trasportare le vivande, laddove i fattorini non avessero avuto tali mezzi, era la società a fornirli dietro cauzione (eccetto il cellulare con connessione internet). Ogni comunicazione avveniva tramite la app. Per mezzo di essa, i fattorini comunicavano la propria presenza nel luogo e all’orario concordato con la società per iniziare la prestazione, ricevevano le informazioni sugli ordini, relative ai luoghi di raccolta e consegna, comunicavano all’azienda se fossero disponibili a lavorare oppure se quella fosse la loro ultima consegna, nonché in che fase fosse la stessa (se accettata, raccolta o consegnata). A partire dall’ora concordata per l’inizio della prestazione, i riders venivano monitorati tramite GPS e venivano monitorati anche i tempi delle consegne. Peraltro, era la società convenuta ad assegnare i turni di consegna, organizzandoli per mezzo del software esterno Staffomatic. Nello specifico, ogni venerdì veniva

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pubblicato un calendario in bianco accessibile a tutti i ciclofattorini per l’assegnazione dei turni nei successivi dieci giorni, con il quale ROOFOODS fissava le fasce orarie e le zone di prestazione del servizio. Tramite la predetta applicazione, i fattorini potevano indicare fasce orarie e aree che preferivano e la società, verificata la coerenza di tali preferenze con i dati storici degli ordini e altri dati (ad esempio, l’incidenza delle campagne di marketing; il meteo previsto, etc.), assegnava orario e aree definitivi. Se poi un numero di riders superiore al necessario si fosse reso disponibile per gli stessi orari e aree, si considerava il ranking reputazionale. Quest’ultimo, elaborato su molteplici criteri, laddove fosse stato troppo basso e non fosse stato migliorato dal fattorino, avrebbe potuto anche determinare la fine alla collaborazione. Ebbene, il Giudice madrileno riconosceva la natura subordinata dei rapporti dedotti in giudizio, ritenendo in particolare sussistenti gli elementi della dipendenza e alienità della prestazione.

2. La qualificazione del rapporto di lavoro in Spagna. Vertendo la presente decisione sulla natura subordinata dei rapporti di lavoro dei ciclofattorini in Spagna, è necessario vedere brevemente quali siano i criteri utilizzati, specialmente dalla giurisprudenza, per qualificare il rapporto di lavoro nell’ordinamento iberico. Il punto di partenza è costituito dall’art. 1, comma 1, Estatuto de los Trabajadores (d’ora in poi ET), il quale prevede che le disposizioni dello Statuto trovano applicazione ai lavoratori che prestano i loro servizi verso retribuzione per conto di altri e nell’ambito dell’organizzazione e sotto la direzione di una persona fisica o giuridica, ossia del datore di lavoro3. In presenza dei requisiti dell’organizzazione, della direzione e della retribuzione, l’art. 8, comma 1, ET, poi, prevede una presunzione iuris tantum di subordinazione. Il lavoro subordinato, tra l’altro, trova una definizione in negativo nell’art. 1, comma 1, Estatuto del Trabajo Autónomo (d’ora in poi ETA), le cui norme si applicano alle persone fisiche che prestano un’attività economica o professionale, con scopo di lucro, in forma abituale, personale, diretta, per proprio conto, senza essere diretti od organizzati da altri, e impiegando oppure no lavoratori alle proprie dipendenze4. Intorno a tali disposizioni si è sviluppata una copiosa giurisprudenza creativa del Tribunal Supremo, la quale, valorizzando il reale atteggiarsi del rapporto nel caso concreto e non il nomen iuris del

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Art. 1, comma 1, ET: «Esta ley será de aplicación a los trabajadores que voluntariamente presten sus servicios retribuidos por cuenta ajena y dentro del ámbito de organización y dirección de otra persona, física o jurídica, denominada empleador o empresario». Come nota Pacella, Alienità del risultato, alienità dell’organizzazione: ancora una sentenza spagnola qualifica come subordinati i fattorini di Deliveroo, in LLI, 2018, n. 1, 66, tale disposizione riprende l’art. 2094 c.c. ma anche la nota C.cost., 12 febbraio 1996, n. 30, in http:// www.giurcost.org/decisioni/1996/0030s-96.htm. Art. 1, comma 1, ETA: «La presente Ley será de aplicación a las personas físicas que realicen de forma habitual, personal, directa, por cuenta propia y fuera del ámbito de dirección y organización de otra persona, una actividad económica o profesional a título lucrativo, den o no ocupación a trabajadores por cuenta ajena».

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contratto5, ha concentrato i propri sforzi, in particolare, intorno ai concetti di “alienità” (ajenidad) e “dipendenza” (dependencia)6. Si tratta di elementi dotati di un elevato grado di astrazione, che possono manifestarsi in diverse forme a seconda delle attività e dei modi di produzione e che sono comunque strettamente correlati l’uno con l’altro7. Da un lato, la dipendenza presuppone l’integrazione dei lavoratori nel ciclo produttivo del datore e la loro soggezione ai poteri datoriali (organizzativo, direttivo, di sorveglianza e controllo e disciplinare)8. Dall’altro lato, nell’alienazione ‹‹la proprietà dei mezzi di produzione è in capo al datore di lavoro (cui sono attribuiti i frutti del lavoro), il mercato non è accessibile al lavoratore e, infine, sul lavoratore non incombe il rischio di impresa››9. Al fine di concretizzare tali concetti, allora, i Giudici spagnoli hanno identificato vari “indici”. Con riferimento alla dipendenza, essa è stata ritenuta sussistente: laddove la prestazione sia effettuata nei locali del datore di lavoro o in luoghi da lui individuati; nel caso in cui sia lui a definire l’orario di lavoro, quando la prestazione venga svolta personalmente da parte del lavoratore (compatibile con un regime eccezionale di supplenze e sostituzioni); quando vi sia l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione del datore, che ne programmi l’attività e, di converso, laddove sia assente un’organizzazione in capo al lavoratore10. Quanto all’alienità, essa ricorre quando: il lavoratore mette a disposizione del datore i prodotti realizzati o i servizi prestati (ajenidad en los resultados o frutos)11; è il datore a prendere le decisioni sul mercato e con il pubblico, ad esempio fissando i prezzi e selezionando la clientela o chi assumere; la retribuzione abbia carattere fisso o periodico e il criterio per calcolarla sia proporzionale all’attività prestata e privo del rischio e del lucro che caratterizzano l’attività datoriale o l’esercizio delle libere professioni12; i mezzi e le attrezzature utilizzate per l’esecuzione della prestazione non siano di proprietà del prestatore di lavoro (ajenidad en los medios)13. Ai fini della presente trattazione è poi opportuno segnalare come la giurisprudenza spagnola, similmente a quella italiana14, abbia avuto modo negli anni Ottanta di applicare

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V. ad esempio, ex pluribus, Tribunal Supremo - Sala Cuarta, de lo Social, 8 febbraio 2018, n. 127, in https://supremo.vlex.es/ vid/704676209; Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 25 marzo 2013, in https://supremo.vlex.es/vid/-440159070; Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 29 novembre 2010, in https://supremo.vlex.es/vid/-267174086. 6 Cfr. Colàs-Neila, Prestación de servicios a través de plataformas digitales en la doctrina judicial española ¿Trabajadores por cuenta ajena o autónomos?, in LLI, 2019, n. 1, 25; Blasco Jover, Il lavoratore autonomo dipendente in Spagna, in RIDL, 2014, n. 1, 11. In sostanza, per la giurisprudenza del Tribunal Supremo, tre sono i requisiti fondamentali della subordinazione: la retribuzione, l’alienità e la dipendenza (cfr. Tribunal Supremo - Sala Cuarta, de lo Social, 19 luglio 2002, in https://supremo.vlex.es/vid/fotografo-editoraperiodico-cede-fotos-15085802?_ga=2.160045629.1491443850.1575017773-540442249.1575017773. Sull’alienità e dipendenza nell’ordinamento spagnolo v. amplius Ojeda Avilés, Ajenidad, dependencia o control: la causa del contrato, in Derecho PUCP: Revista de la Facultad de Derecho, 2007, n. 60, 13 ss. 7 Così Tribunal Supremo - Sala Cuarta, de lo Social, 29 novembre 2010, cit. Nello stesso senso, Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 8 febbraio 2018, cit.; Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 25 marzo 2013, cit. 8 Cfr. Blasco Jover, Il lavoratore autonomo, cit., 12. 9 Ibidem. 10 Cfr. Pérez Rey, ¿Son los «riders» trabajadores? Comentario a los primeros escarceos judiciales en torno a las identidades débiles de la economía «uberizada», in actum, 4. 11 Cfr. Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 19 luglio 2002, cit. 12 Cfr. Pérez Rey, ¿Son los «riders» trabajadores?, cit., 4. 13 Ma sul punto v. infra. 14 Si fa riferimento alla nota giurisprudenza sui pony express, per la quale v. ad esempio Pret. Milano, 7 ottobre 1988, in DeJure; Pret.

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gli indici della subordinazione alla fattispecie dei fattorini. In particolare, la sentenza del Tribunal Supremo del 26 febbraio 1986 (c.d. “sentencia de los mensajeros”15), richiamata anche dalla decisione in commento, costituisce il leading case in materia. In tale circostanza, il Giudice iberico ha infatti puntualizzato come il fatto che il compenso non venga misurato in base al tempo ma all’unità di produzione non incide sulla subordinazione, né vi incide il fatto che parte della retribuzione non sia corrisposta quale controprestazione per il lavoro svolto ma per la manutenzione del veicolo, trattandosi di una spesa sostenuta dal lavoratore per il datore, ex art. 26, comma 2, ET16. Ma è rispetto ai requisiti dell’alienità, dipendenza e personalità della prestazione che tale giurisprudenza ha fornito elementi ancor più importanti per il caso che ci occupa. Secondo la Corte, infatti, l’alienità non è tale solamente rispetto ai risultati ma anche rispetto al mercato e ai rischi (ajenidad en los riesgos y en el mercado), essendo il lavoratore estraneo ai rischi e ai benefici del contratto di trasporto che lega il datore e il cliente, né egli fissando in alcun modo il prezzo del trasporto stesso. E ancora, il fatto che i mezzi di trasporto utilizzati siano di proprietà dei lavoratori non esclude la subordinazione. Infatti, come sottolineano i Giudici spagnoli, nei casi in cui la giurisprudenza ha ritenuto sussistente un contratto di trasporto quando il mezzo era di proprietà del conducente non si discuteva della personalità della prestazione come elemento fondamentale del contratto ma, piuttosto, dello scopo perseguito da chi effettuasse la prestazione, e cioè del voler trarre profitto da un importante investimento, costituito dall’acquisto di un automezzo. Diversamente, nel caso dei fattorini, i mezzi utilizzati (cicli o motocicli), a causa del loro costo esiguo, non possono che essere considerati un elemento ausiliario e secondario rispetto all’attività personale del lavoratore, che è prevalente e che costituisce l’oggetto fondamentale dell’attività datoriale, cosicché non è identificabile uno scopo di lucro nell’utilizzo di tali mezzi da parte del lavoratore17. Rilevanti sono anche le deduzioni del Tribunal Supremo del 1986 riguardo alla dipendenza. Da un lato, infatti, essa si manifestava nel fatto che il nome e i loghi dell’azienda erano presenti sulle divise e sui veicoli dei fattorini. Dall’altro lato, in materia di orario di lavoro, si osservava come non fosse in contrasto con la natura subordinata del rapporto la mancanza di orari precisi e rigorosi, essendo ciò un mero effetto della configurazione del

Milano, 6 aprile 1987, ivi. Cfr. López Balaguer, Trabajo en plataformas digitales en España: primeras sentencias y primeras discrepancias, in LLI, 2018, n. 2, 21. 16 Ai sensi del quale non costituiscono retribuzione le somme rimborsate al lavoratore in ragione delle spese sostenute per il datore nell’esecuzione della prestazione. 17 Cfr. Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 26 febbraio 1986, in https://supremo.vlex.es/vid/-76889901. V. anche Tribunal Supremo - Sala Cuarta, de lo Social, 31 marzo 1997, il quale ha ritenuto sussistente la subordinazione nel caso del fotografo che utilizzava, nello svolgimento della propria prestazione, la propria macchina fotografica e il proprio veicolo per gli spostamenti. Come nota ColàsNeila, Prestación de servicios, cit., 23, il legislatore spagnolo ha reagito a tale orientamento escludendo dalla subordinazione, ai sensi dell’art. 1, comma 3, lett. g) ET, l’attività di chi presta un servizio di trasporto verso corrispettivo, conformemente alle autorizzazioni amministrative di cui sia titolare, mediante veicoli commerciali di servizio pubblico di sua proprietà o dei quali abbia diretta disposizione, anche quando tali servizi vengano prestati continuativamente per uno stesso fornitore o committente. Tale disposizione, la cui costituzionalità è discussa, sebbene la Corte costituzionale spagnola l’abbia fatta salva, sembra codificare l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale laddove i mezzi di proprietà del lavoratore costituiscano un investimento rilevante sotto il profilo economico, risulta impossibile escludere l’assenza di rischio (v. Luque Parra, La (re)definición del concepto de «trabajador» en el ámbito de las nuevas tecnologías a la luz del derecho de propiedad industrial y de propiedad intelectual, in Luque Parra (a cura di), Relaciones Laborales y Nuevas Tecnologías, La Ley, 2005, 95, e giurisprudenza ivi richiamata). 15

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contratto, come voluto dal datore, al fine di eludere la qualificazione nel senso della subordinazione. Del resto, non era possibile conoscere le cause di assenza dei fattorini, che in un contratto di lavoro regolare avrebbero potuto essere ricondotte a motivi giustificati, come permessi, ferie, malattia, etc., inclusi i periodi intermedi di inattività che si hanno naturalmente in contratti discontinui o a tempo parziale18. Quanto infine alla personalità della prestazione, tale orientamento giurisprudenziale non escludeva la subordinazione per la presenza nel contratto di una clausola che consentiva l’esecuzione della prestazione per mezzo di altre persone e ciò per il semplice motivo che tale clausola non aveva mai operato nella realtà, avendo i prestatori lavorato sempre personalmente e sembrando, piuttosto, anch’essa diretta a eludere le norme sulla subordinazione19. Neppure la possibilità, debitamente autorizzata dal datore, di prestare la propria attività anche a favore di altre imprese era idonea ad escludere la subordinazione, non essendo ciò contrario al divieto di concorrenza di cui agli artt. 5, lett. d) e 21, comma 1, ET20.

3. Il TRADE. Come si è visto sopra, il lavoro autonomo trova la sua definizione nell’art. 1, comma 1, ETA, cosicché, in teoria, la ricorrenza o meno dei requisiti di subordinazione o autonomia dovrebbero determinare l’applicazione di tutta la disciplina del diritto del lavoro o di nessuna sua norma e, casomai, delle disposizioni del Código civil, con riferimento ai suoi singoli contratti quale, ad esempio, la locazione di servizi21. Va osservato come l’art. 1, comma 2, ETA elenchi alcune attività che vengono espressamente ricomprese nell’ambito di applicazione dell’ETA stesso, tra cui ai fini della presente trattazione rileva il lavoro autonomo economicamente dipendente (trabajo autónomo económicamente dependiente – TRADE)22, regolato al Capitolo III del Titolo II ETA. Il TRADE23 è una fattispecie specifica di lavoro autonomo, collocata al confine con il lavoro subordinato e meritevole di una particolare attenzione, attesa la posizione di debolezza di tali autonomi rispetto a un unico committente, a favore del quale svolgono la propria attività in modo coordinato e dal qua-

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Cfr. Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 26 febbraio 1986, cit. V. anche Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 25 gennaio 2000, il quale esclude che la possibilità per il lavoratore di farsi sostituire sporadicamente da altri (nella specie, dai propri familiari) sia incompatibile con la natura personale della prestazione subordinata, dovendo prevalere, nelle attività di pulizia nei condomini, la continuità del servizio sulla personalità della prestazione. 20 Cfr. Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 26 febbraio 1986, cit. 21 Cfr. Blasco Jover, Il lavoratore autonomo, cit., 12-13. Del resto, come nota Belsito, Il lavoro autonomo nell’ordinamento spagnolo: la figura del TR.A.D.E., in Diritto dei Lavori, 2010, n. 1, 81, la prima delle disposizioni finali dell’ET prevede che al lavoro autonomo non si applica il diritto del lavoro, eccetto in quei casi in cui per legge venga disposto diversamente. 22 Come nota Belsito, Il lavoro autonomo, cit., 81, si tratta della prima disciplina sul lavoro autonomo economicamente dipendente in Europa. 23 Per un commento approfondito di tale figura, nell’ambito del dibattito italiano in materia di lavoro autonomo economicamente dipendente, v. Razzolini, Lavoro economicamente dipendente e requisiti quantitativi nei progetti di legge nazionali e nell’ordinamento spagnolo, in DLRI, 2011, n. 4, 631 ss. 19

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le dipendono quasi totalmente24. L’art. 11, comma 1, ETA, infatti, definisce i TRADE come quei lavoratori che svolgono un’attività economica o professionale a scopo di lucro e in forma abituale, personale e diretta, e prevalentemente a favore di un unico committente, dal quale dipendono economicamente, percependo da questi almeno il 75 per cento dei propri guadagni. Nello specifico, poi, ai sensi dell’art. 11 ETA, il TRADE non può avere lavoratori alle proprie dipendenze, né appaltare o subappaltare parte dell’attività lavorativa a terzi, sia con riferimento all’attività svolta a favore del cliente dal quale dipende prevalentemente, quanto rispetto a quella effettuata a favore di altri clienti25. Neppure ricorre il TRADE laddove l’attività svolta non sia differente da quella degli altri lavoratori impiegati dal cliente26, né sono TRADE i titolari di locali commerciali e industriali, di officine e locali aperti al pubblico, nonché i professionisti che esercitano la professione insieme ad altri in forma societaria o in qualunque altra forma giuridica27. Al contrario, il TRADE deve disporre di una infrastruttura produttiva e di materiali propri, rilevanti economicamente, necessari all’esercizio dell’attività, la quale deve essere eseguita con criteri organizzativi propri ma senza pregiudizio delle indicazioni impartite dal committente e in cambio del cui risultato il collaboratore riceve una controprestazione economica, assumendosene il rischio28. I requisiti del TRADE, quindi, sono, oltre alla dipendenza economica, l’abitualità della prestazione, la sua personalità e infungibilità, nonché l’autorganizzazione del lavoratore. Nello specifico, l’attività, per essere abituale, più che essere svolta quotidianamente, deve essere eseguita continuativamente nel tempo a favore del cliente dal quale si dipende economicamente, senza però sostanziarsi nell’esecuzione di incarichi sporadici e occasionali non collegati a una necessità continua dell’azienda, poiché, in tal caso, non vi sarebbero differenze con il lavoro autonomo tout court. In pratica, è necessario che vi sia una relazione prolungata con il cliente, atteso che è solo così che si può instaurare una dipendenza economica29. Altro aspetto importante, tra quelli visti, è la rilevanza economica della struttura organizzativa e dei materiali usati dal lavoratore, elemento questo coerente con la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo, relativamente al rischio economico, sopra tratteggiata. Indubbiamente, tacendo la legge sui criteri per valutare tale rilevanza economica, saranno le Corti a definirla caso per caso. Più problematico risulta comprendere cosa significhi che il TRADE debba eseguire la prestazione con criteri organizzativi propri ma nel rispetto delle istruzioni del committente. Apparentemente, tale disposizione sembrerebbe delineare la relazione tra le parti come mero coordinamento, senza un coinvolgimento maggiore del lavoratore nel ciclo produttivo del datore. In sostanza, il datore avrebbe il potere di specificare l’oggetto della prestazione in termini di quantità, qualità o caratteristiche del risultato, senza però che tale potere possa sconfinare

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Cfr. Blasco Jover, Il lavoratore autonomo, cit., 17; Belsito, Il lavoro autonomo, cit., 81. Art. 11, comma 2, lett. a), ETA. 26 E ciò al fine di ‹‹impedire che, sotto le mentite spoglie di un Trade, si celi la figura di un falso lavoratore autonomo›› (Blasco Jover, Il lavoratore autonomo, cit., 26). 27 Art. 11, comma 3, ETA. 28 Art. 11, comma 2, lett. b)-e), ETA. 29 Il requisito della “continuità”, come osserva Razzolini, Lavoro economicamente dipendente, cit., 636, è deducibile anche dal fatto che il TRADE ha diritto a una interruzione dell’attività per almeno 18 giorni all’anno. 25

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Marco Tufo

in direttive assimilabili a quelle del lavoro subordinato. Nello specifico, le indicazioni de quibus potrebbero consistere nella definizione degli obiettivi del progetto, dei suoi tratti distintivi e dei particolari necessari al loro corretto inserimento all’interno della struttura produttiva dell’azienda committente. Anche tale aspetto, tuttavia, sarà vagliato dal Giudice nel caso concreto, al fine di comprendere se si tratti di TRADE o di falso lavoro autonomo e, quindi, di lavoro subordinato30. Quanto alla disciplina, essendo il TRADE un lavoratore autonomo, troveranno innanzitutto applicazione nei suoi confronti le regole di cui all’ETA, oltre alle disposizioni specifiche del Capitolo III del Titolo II. Queste ultime sono precisamente: la stipulazione del contratto per iscritto, che dovrà espressamente indicare la qualificazione di TRADE; la presunzione di durata indeterminata del contratto, se non pattuito diversamente31; il diritto a una interruzione dell’attività per almeno 18 giorni all’anno; la fissazione di riposi e durata della giornata lavorativa nel contratto individuale o nei cc.dd. accordi di interesse professionale32. A ciò si aggiungono specifiche regole sul recesso, il quale potrà avvenire: per accordo tra le parti; per cause validamente stipulate nel contratto; a causa di morte, pensionamento o invalidità del lavoratore, se l’invalidità sia incompatibile con l’attività; per rinuncia del lavoratore con il preavviso pattuito, o in mancanza di pattuizione al riguardo, con il normale preavviso, secondo gli usi e i costumi; per volontà del lavoratore fondata su inadempimento contrattuale del cliente; per volontà del cliente per causa giustificata, con preavviso; per decisione della TRADE vittima di violenza sessuale. In caso di recesso giustificato da inadempimento contrattuale di una delle parti è poi previsto a favore del recedente il diritto al risarcimento danni. Se è il cliente a recedere, ma ingiustificatamente, il lavoratore avrà diritto al risarcimento danni mentre se l’ingiustificato recesso è esercitato dal lavoratore, il cliente potrà essere risarcito quando l’estinzione produca un pregiudizio grave o paralizzi la sua attività33. Vi può essere anche l’interruzione dell’attività: per accordo tra le parti; per la necessità di adempiere a doveri familiari urgenti, sopravvenuti, imprevedibili; in caso di rischio grave e imminente per la vita o salute del lavoratore; in caso di incapacità temporale, maternità o paternità; per decisione della TRADE che abbia subito violenza sessuale; per forza maggiore; per altre cause decise nel contratto o accordo di interesse professionale34. Sui TRADE ha competenza il Giudice del lavoro ed è obbligatorio il preventivo tentativo di conciliazione o mediazione davanti all’organo amministrativo competente35.

30

Cfr. Blasco Jover, Il lavoratore autonomo, cit., 25-28. Art. 12 ETA. 32 Art. 14 ETA. 33 Art. 15 ETA. 34 Art. 16 ETA. 35 Artt. 17-18 ETA. 31

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Giurisprudenza

4. La giurisprudenza spagnola sui riders e i contenuti della decisione.

Ad oggi, due sono gli orientamenti giurisprudenziali relativi alla qualificazione del lavoratore su piattaforma digitale in Spagna36. Un primo orientamento, espresso invero da una decisione isolata dello Juzgado de lo Social de Madrid, seppur confermata in grado di appello37, aveva ritenuto i fattorini della piattaforma Glovo essere TRADE, confermando la qualificazione data dalla piattaforma stessa38. In particolare, lo Juzgado non rilevava alcuna divergenza tra il nomen iuris dato dalle parti al contratto e la realtà fattuale del rapporto (realidad material de la relación) – ritenendo anzi quest’ultima assolutamente in contrasto con gli elementi della subordinazione –, e ciò in quanto il rider ricorrente non era soggetto a un vero e proprio orario di lavoro, potendo autonomamente decidere la fascia oraria in cui desiderasse lavorare, gli ordini delle consegne che volesse accettare, la strada da seguire per effettuare le consegne e quando iniziare o finire di lavorare. Né l’impresa imponeva al ciclofattorino un genere o un numero di consegne preciso da fare mentre l’ordine veniva realizzato seguendo le istruzioni dei clienti con cui il rider entrava in diretto contatto una volta accettato l’ordine stesso. Neppure potevano rinvenirsi, in tale caso, i poteri disciplinare e di controllo. Il primo non era identificabile con il sistema di ranking reputazionale, atteso che l’assegnazione di un punteggio maggiore o minore serviva a premiare la quantità e qualità del lavoro del ciclofattorino e ad assegnare a chi avesse assunto un maggior punteggio gli ordini per i quali esprimeva una preferenza, mentre l’unica sanzione, in tale contesto, era costituita dalla penalizzazione di 0,3 punti laddove il rider non fosse stato operativo nella fascia oraria a lui riservata, fermo restando che, in caso di assenze giustificate, tale sanzione non veniva applicata. L’impianto GPS, poi, non serviva a controllare i fattorini ma solamente per conteggiare la distanza percorsa, che sarebbe stata valutata per il calcolo del corrispettivo. Secondo lo Juzgado era il solo lavoratore ad assumersi il rischio economico di fronte al cliente e non vi era alcun suo inserimento o soggezione alla struttura organizzativa dell’impresa, la quale decideva solamente le tariffe, il luogo delle prestazioni e il mezzo mediante il quale veicolare le offerte (e cioè la piattaforma). Peraltro, i mezzi erano di proprietà del rider e il suo compenso era parametrato alla quantità di consegne effettuate. Confermava infine la natura di TRADE la possibilità, prevista nel contratto, di interrompere la prestazione per 18 mesi all’anno e l’inesistenza di un patto di esclusività, tale da impedire al lavoratore di prestare la propria attività a favore di altre imprese.

36

Per un’ampia riflessione su tale giurisprudenza v. Colàs-Neila, Prestación de servicios, cit. e López Balaguer, Trabajo en plataformas digitales, cit., nonché Pérez Rey, ¿Son los «riders» trabajadores?, cit. 37 Cfr. TSJ Madrid Sala de lo Social n. 4, 19 settembre 2019, n. 715, in https://graduadosocialmadrid.org/index.php/novedades/95novedades/327-tsj-madrid-sala-de-lo-social-sec-4-s-19-09-2019-n-715-2019-rec-195-2019, su cui v. Todolí-Signes, El TSJ de Madrid confirma Sentencia declarando a un rider verdadero AUTÓNOMO, in https://adriantodoli.com/2019/10/07/el-tsj-de-madrid-confirmasentencia-declarando-a-un-rider-verdadero-autonomo/. 38 Cfr. Juzgado de lo Social de Madrid n. 39. Refuerzo, 3 settembre 2018, n. 284.

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Marco Tufo

Un secondo orientamento, di gran lunga prevalente e nell’ambito del quale si inserisce anche la sentenza in commento, ha concluso per la qualificazione dei riders, di Take it easy, di Glovo, e di Deliveroo, come subordinati, essendo presenti nelle fattispecie concrete passate al vaglio delle Corti iberiche tutti gli elementi del rapporto di lavoro39. Nel caso di specie, dunque, lo Juzgado de Madrid, pur seguendo lo stesso metodo dell’orientamento contrario, ossia verificare la conformità della realtà formale a quella fattuale, giunge alla conclusione opposta. Nello specifico, facendo applicazione della doctrina unificada del Tribunal Supremo e della giurisprudenza sui fattorini degli anni Ottanta, il Giudice osserva innanzitutto come ricorra l’ajenidad en los medios ma anche en los riesgos y en el mercado. Seppure, infatti, i ciclofattorini fossero proprietari dei veicoli, i mezzi più importanti per eseguire la prestazione, ossia la app e il marchio Deliveroo, che compariva anche sul loro zaino, erano messi a disposizione dall’impresa, la quale era l’unica ad essere parte dei negozi giuridici esistenti con i ristoranti e i clienti. E infatti, per questi ultimi i fattorini erano perfettamente intercambiabili, né si assumevano alcuna responsabilità di fronte al cliente, come dimostrato anche dal fatto che, laddove non fossero stati in possesso di veicoli, sarebbe stata la società a fornirli e considerato che la stessa indennizzava i lavoratori per le spese dei mezzi. I riders, dunque, apportavano semplicemente il proprio lavoro e per esso venivano retribuiti, peraltro a tempo e non a cottimo. Anche la dipendenza viene ravvisata dallo Juzgado de Madrid, atteso che i ciclofattorini prestavano il servizio in maniera totalmente organizzata e diretta dall’impresa, anche nei minimi dettagli. In particolare, il video che ROOFOODS faceva visionare ai fattorini al momento dell’assunzione presentava i riders come facenti parte dell’impresa, spiegando però anche come dovessero avvenire le consegne e dovesse essere usata la app. Inoltre, gli opuscoli informativi consegnati ai lavoratori fissavano dettagliatamente molteplici aspetti dell’esecuzione della prestazione e regole di condotta da seguire con divieti espressi e il fatto che i neoassunti dovessero trascorrere una giornata con un rider per comprendere come eseguire la prestazione non costituiva un aspetto compatibile con l’autonomia. In sostanza, tutte le prestazioni erano omologate e i riders apparivano all’esterno come lavoratori di Deliveroo, in virtù dell’utilizzo del relativo marchio, cosicché la loro autonomia si riduceva alla scelta del mezzo di trasporto, della strada da percorrere e alla possibilità di rifiutare l’ordine. Peraltro, tale rifiuto poteva avere conseguenze negative per il rider, venendo tenuto in considerazione per l’elaborazione del ranking reputazionale allo scopo di assegnare i turni e, dunque, ricadendo i suoi effetti sulla possibilità di lavorare40. L’in-

39

Cfr. Juzgado de lo Social de Madrid n. 1, 4 aprile 2019, n. 134, in http://www.ugt.es/sites/default/files/sentenciaestimatoriaglovovictor. pdf; Juzgado de lo Social de Gijón, 20 febbraio 2019, n. 61; Juzgado de lo Social de Madrid n. 33, 11 febbraio 2019, n. 53, in https:// www.laboral-social.com/sites/laboral-social.com/files/NSJ059448_0.pdf, su cui v. Todolì-Signes, Análisis a la Primera Sentencia que declara la laboralidad de Rider de Glovo (y declara nulo el despido), 13 febbraio 2019, in https://adriantodoli.com/2019/02/13/ analisis-a-la-primera-sentencia-que-declara-la-laboralidad-de-rider-de-glovo-y-declara-nulo-el-despido/; Juzgado de lo Social de Valencia n. 6, 1 giugno 2018, n. 244, in https://www.isdc.ch/media/1590/13-juzgado-valencia-1-junio.pdf, su cui v. Pacella, Alienità del risultato, cit.; Juzgado de lo Social de Barcelona n. 11, 29 maggio 2018, n. 213, in http://www.poderjudicial.es/search/AN/openDo cument/6234f04de18663b6/20180628. 40 Lo Juzgado, in particolare, richiama la sentenza Tribunal Supremo – Sala Cuarta, de lo Social, 16 novembre 2017, in https://supremo. vlex.es/vid/699785177, mediante la quale erano stati ritenuti subordinati i traduttori a cui venivano assegnati telefonicamente servizi

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Giurisprudenza

serimento nell’organizzazione aziendale risultava anche dalla circostanza secondo la quale laddove un fattorino avesse rinunciato a un ordine, la app lo avrebbe affidato al successivo lavoratore disponibile, così esistendo una organizzazione completa di tutte le attività. Né era incompatibile con la subordinazione la clausola di esclusività, non essendo la stessa in contrasto, come visto, con gli artt. 5 e 21 ET ma trattandosi, piuttosto, di un mero effetto della configurazione che l’impresa aveva voluto dare al contratto. Infine, la clausola di subcontrattazione, su autorizzazione dell’impresa, non era idonea a escludere la subordinazione, atteso che essa mai era stata azionata di fatto ed essendo la stessa incompatibile con la formazione che veniva fatta ai lavoratori, la quale, invece, presumeva la personalità della prestazione.

5. Alcuni spunti comparati. Guardando alla sentenza in commento e alla direzione, verso la qualificazione dei riders nel senso della subordinazione, che sta prendendo la giurisprudenza spagnola, un raffronto con quello che sta accadendo nel nostro Paese appare necessario. Il processo di qualificazione del rapporto in Spagna e Italia, come sopra visto, è assai simile e simili sono gli indici della subordinazione utilizzati a tal fine dalle Corti nazionali. In particolare, in entrambi gli ordinamenti assumono rilievo i requisiti dell’alienità e della dipendenza. Tuttavia, al di là di tali somiglianze, l’esito delle controversie sui riders in Italia è stato diverso da quanto avvenuto in Spagna. È infatti noto che i Giudici italiani, dopo un primo momento nel quale hanno qualificato i ciclofattorini come autonomi41, negando la subordinazione, hanno successivamente optato per inquadrarli nelle collaborazioni eterorganizzate ex art. 2 D.lgs. n. 81/201542, senza però estendere loro tutta la disciplina del lavoro subordinato ma solamente le regole in materia di retribuzione, orario di lavoro, ferie, salute e sicurezza e previdenza, ad esclusione della normativa sui licenziamenti, concependo tale fattispecie come tertium genus tra autonomia e subordinazione43. Tale impostazione è stata poi recepita dal legislatore nel D.L. n. 101/2019, conv. in l. n. 128/2019, il quale, nell’introdurre una specifica normativa a protezione dei ciclofattorini, estende a questi ultimi la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente44.

di traduzione da organismi pubblici. In tale fattispecie, i traduttori potevano accettare o rifiutare i lavori offerti e, in caso di rifiuto, il committente chiedeva la disponibilità del traduttore successivo geograficamente più vicino, identificato tramite una app. In realtà, però, i traduttori non erano del tutto liberi di rifiutare le commesse, atteso che, in tal modo, avrebbero rischiato di non venir più contattati e, dunque, di perdere il lavoro. 41 V. Trib. Torino, 7 maggio 2018, in DeJure; Trib. Milano, 10 settembre 2018, ivi. 42 V. App. Torino, 4 febbraio 2019, in DeJure. 43 Come afferma App. Torino, 4 febbraio 2019, cit. «Secondo il Collegio la norma in questione individua un terzo genere, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 cc e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n. 3 c.p.c, evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando». 44 Su tali novità normative si veda Loffredo, Tufo, Lavoro e impresa digitale tra norme nazionali ed economia transnazionale, in WP D’Antona, It, n. 405/2019.

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Marco Tufo

Diversamente, i pochi contratti collettivi allo stato esistenti si collocano nel solco della subordinazione45. La qualificazione dei riders come lavoratori eterorganizzati, alla luce della giurisprudenza spagnola, appare allora assai discutibile. Sembra, infatti, che in tale Paese sia stato oramai superato, almeno nei Tribunali (come stanno dimostrando anche gli esiti degli appelli finora proposti avverso le sentenze sopra richiamate)46, il tentativo di ricondurre il lavoro su piattaforma digitale a fattispecie intermedie, quale è il TRADE, adattando gli indici della subordinazione a tali nuove forme di lavoro47. Si tratta di una tesi che, in realtà, anche parte della dottrina italiana ha proposto, potendo gli indici tradizionali della subordinazione ben conformarsi ai progressi della tecnologia informatica48. Del resto, è la stessa giurisprudenza tradizionale della Corte di Cassazione a ricordarci che per qualificare come subordinato un rapporto di lavoro deve essere effettuata una valutazione complessiva e globale degli indici della subordinazione, avvicinandosi per approssimazione alla fattispecie astratta, al fine di valorizzare, seguendo il metodo tipologico, l’atteggiarsi del rapporto nella realtà fattuale49. La divergenza di vedute tra i Giudici italiani e spagnoli, ad ogni modo, dimostra l’incertezza nella quale ancora si muove l’interpretazione giudiziale di fronte al lavoro su piattaforma. Non si può infatti ignorare che, pur dovendosi tenere conto delle particolarità del caso concreto, i giudizi sui riders, sebbene si siano conclusi con esiti diversi, hanno finora avuto ad oggetto casi analoghi nelle modalità di esecuzione della prestazione, operando le piattaforme in ugual modo in ogni territorio in cui trovino uno spazio di mercato50. In ragione di ciò, sembra quindi sempre più urgente la predisposizione di una normativa sovranazionale che detti agli ordinamenti interni i principi guida per la qualificazione dei lavoratori su piattaforma51. Marco Tufo

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Il riferimento è essenzialmente all’accordo quadro sperimentale per la Provincia di Firenze stipulato l’8 maggio 2019 tra la società Laconsegna srls e le federazioni del settore dei trasporti aderenti a Cgil, Uil e Cisl (FILT, UILTRASPORTI e FIT). 46 In proposito v. anche Baylos Grau, El Tribunal Superior de Justicia de Madrid considera trabajadores a los “riders” de Glovo, in https:// baylos.blogspot.com/2019/11/el-tribunal-superior-de-justicia-de.html, il quale segnala come il Tribunal Superior de Madrid, in grado di appello, abbia rovesciato il giudizio di primo grado che aveva qualificato i riders come TRADE. 47 Cfr. Pérez Rey, ¿Son los «riders» trabajadores?, cit., 6. 48 Cfr. Loffredo, Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale?, in Labor, 2019, n. 3, 253 ss.; Tufo, Il lavoro nella sharing economy tra qualificazione del rapporto, dimensione transnazionale e relazioni industriali, in Alessi, Barbera, Guaglianone (a cura di), Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale, Cacucci, 2019, 479-497. V. anche Pacella, Il lavoro tramite piattaforma digitale nella giurisprudenza dei Paesi di civil law, in LLI, 2019, n. 1, 32, secondo la quale la tesi della “doppia alienità” potrebbe applicarsi ai fattorini anche in Italia. 49 Cfr. ex pluribus Cass., 1 marzo 2018, n. 4884, in DeJure. 50 Cfr. Pacella, Il lavoro tramite piattaforma digitale, cit., 33. 51 Non può essere considerata tale la Direttiva n. 1152/2019, atteso che essa, per stessa ammissione del proprio considerando n. 8, si applica ai lavoratori su piattaforma digitale solo a condizione che essi soddisfino i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia per qualificare un lavoratore come subordinato. E allora, ricadendo i lavoratori su piattaforma, al momento, fuori dalla subordinazione, quelle tutele non sembrano poter trovare applicazione nei loro confronti, salvo non intervenga una qualificazione giudiziale degli stessi in tal senso. Su tali aspetti v. Loffredo, Tufo, Lavoro e impresa digitale, cit. 29.

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